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Scritti originali

DIALOGO III

La Diairesi in atto

Οὐ μὲν οὖν τῇ ἀληθείᾳ, φάναι, ὦ φιλούμενε Ἀγάθων, δύνασαι ἀντιλέγειν, ἐπεὶ Σωκράτει γε οὐδὲν χαλεπόν.

“Mio amato Agatone -replicò allora Socrate- è alla verità che tu non puoi opporre argomenti, giacché a quelli di Socrate non è affatto difficile opporne”

Platone ‘Simposio’ 201D

Il dialogo dimostra che la vita umana cosciente è un continuo flusso di azioni dettate dall’Antidiairesi dietro ordine della Diairesi oppure della Controdiairesi.

Il progetto era quello di godersi un delizioso bagno in un mare cristallino e tranquillo. Ma arrivati a Kedros, Raniero, Irene e Muriel si erano subito scontrati con una situazione che non avevano previsto e che non era gradevole come avevano immaginato. Infatti c’era chi giocava sulla spiaggia con i racchettoni, producendo un rumore costante e fastidioso che sembrava studiato apposta per coprire il piacevole suono del frangersi delle onde sulla battigia. C’era chi, facendo jogging, spruzzava coloro che erano sdraiati presso la riva. C’era chi lanciava al cane una palla che finiva sempre tra i piedi di qualcuno. C’era chi, scuotendo il proprio asciugamano, produceva nuvole di sabbia. C’era chi sbraitava ad altissima voce chiamando qualcuno dall’altra parte della spiaggia. Infine c’era chi, approfittando del bagno dei proprietari, rubava quello che trovava nelle loro borse incustodite.
-Ecco una situazione, disse Raniero, che sembra fatta apposta per farci mettere in atto la diairesi. Quando abbiamo deciso di venire qui a fare il bagno ci siamo anche detti: “Voglio fare il bagno, ma anche serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose e tale non la serberò se fremerò di sdegno davanti a quanto altre persone ritengono essere utile per loro e che non è in mio esclusivo potere modificare”. Ve lo ricordate?
-Certo, disse Irene. Serbare la propria proairesi in accordo con la natura delle cose significa ricordare che non possiamo avere il controllo assoluto su ciò che non è in nostro esclusivo potere. E allora, adesso abbiamo davanti a noi due strade. La prima è quella di irritarci e di intervenire contro coloro che noi giudichiamo disturbatori. Ma è chiaro che, qui e ora, questo sarebbe inutile e forse anche controproducente. D’altra parte, se a loro piace così… La seconda è quella di usare la diairesi, non metterci in aperto conflitto con loro e scegliere quindi un altro atteggiamento. Ma quale?
-Anche a me non sembra il caso di protestare, aggiunse Raniero. Abbiamo trovato qui una bella occasione per esercitare la nostra tolleranza. Non è proprio quello che ci auguravamo, ma abbiamo in noi risorse sufficienti per fare fronte a questo e a ben altro. Loro si divertono così e così va bene per loro, ma non per noi. Trovo questa una magnifica dimostrazione di ciò che andavamo dicendo qualche giorno fa: una cosa è il nostro progetto di fare il bagno su una spiaggia tranquilla e un’altra cosa è che la spiaggia sia davvero tranquilla, giacché non è in nostro esclusivo potere renderla tale! Io so però che c’è un’altra spiaggia ancora più straordinaria di questa. È più lontana e molto meno frequentata: si chiama Livadi. Avete voglia di arrivare fin là?
-Sì, assentì Irene; però ci vuole parecchio tempo per raggiungerla a piedi e il cammino non è dei più agevoli.

Mentre si discuteva sul che fare, ecco affacciarsi da dietro il promontorio che sovrasta Kedros la grande barca blu di Nicola, già carica di un certo numero di persone e diretta proprio a Livadi. Con sorpresa Raniero, Irene e Muriel vedono la barca dirigersi verso di loro e notano che, ad una estremità della spiaggia, vi è un piccolo molo che serve per l’attracco. Subito l’idea appare luminosa ed essi si affrettano a raggiungere alcune persone che già aspettano sul molo. “Ecco la soluzione: andiamo anche noi a Livadi”. Saliti sulla barca, Muriel ha notato la presenza di un anziano signore vestito con una specie di leggera tunica chiara. Una fluente barba bianca ne incorniciava il viso sereno e dorato dal sole. Sedutasi accanto a lui, Muriel lo ha sentito distintamente chiedere ad uno dei giovani che lo accompagnavano di scrivere quello che gli avrebbe lentamente dettato. Le sue parole erano queste: “Soprattutto per questo aspetto ci si deve allenare. Subito avanzando all’alba, chi vedrai, chi sentirai, indaga, rispondi come ad una domanda. Cosa vedesti? Un magnifico giovanotto od una magnifica ragazza? Applica il canone. E’ aproairetico o proairetico? Aproairetico: rimuovi fuori. Cosa vedesti? Piangere per la fine di un figliolo? Applica il canone. La morte è aproairetica: rimuovi di mezzo. Ti venne incontro un console? Applica il canone: quale cosa è il consolato? Aproairetica o proairetica? Aproairetica: rimuovi anche questo, non è valido; buttalo via, non ti riguarda. Se facessimo questo ed a questo ci esercitassimo ogni giorno, dall’alba fino a notte, qualcosa accadrebbe, per gli dei! Ora invece, subito siamo presi a bocca aperta da ogni rappresentazione e soltanto a scuola, se proprio è così, ci risvegliamo un poco. E poi usciti, se vedremo qualcuno piangere diciamo: “Andò in malora!”. Se vedremo un console: “Beato lui!”. Se un confinato: “Disgraziato!”. Se uno povero di denaro: “Meschino, non ha donde mangiare!”. Questi malvagi giudizi bisogna stroncare, su questo concentrarsi. Giacché cos’è singhiozzare e mugugnare? Un giudizio. Cos’è la cattiva fortuna? Un giudizio. Cos’è conflitto, cos’è divergenza, cos’è biasimo, cos’è accusa, cos’è empietà, cos’è chiacchiere? Questi sono tutti giudizi e null’altro, e giudizi sull’aproairetico come bene e male. Uno alloghi questi sul proairetico ed io mi obbligo con lui che rimarrà stabile, comunque starà quel che lo circonda.” Scesi dalla barca, Muriel ha notato che il vecchio si appoggiava ad un bastone e che zoppicava visibilmente.

Livadi è una grande spiaggia di sabbia bianchissima, assai poco frequentata, con un mare dai colori splendidi e un’acqua trasparente e calma. Al di là della spiaggia si intravedono alcune tende e, all’ombra di una grande tamerice, su dei teli colorati sta seduto in cerchio un gruppo di giovani che, nudi, parlano tranquillamente tra di loro. Intorno vi sono persone che fanno il bagno o prendono il sole o passeggiano lungo la riva del mare. Alcuni indossano il costume, ma la maggioranza della persone si è liberata di ogni abbigliamento.
Dopo avere fatto il bagno, Raniero e Irene si sono avvicinati al gruppo. In quel momento è sopraggiunta Muriel che, rivolgendosi ai suoi due amici, ha detto: 
-Scusate, vi avevo perso di vista perché mi ero fermata a scrivere le cose terribili che ho sentito dire da un anziano signore mentre eravamo in barca. Se poi vorrete, più tardi ve le posso leggere-
I giovani li hanno accolti con naturalezza e hanno offerto loro dell’acqua. Un ragazzo di nome Iorgos raccontava che quella mattina, dopo aver smontato la loro tenda, due cari amici sono partiti per tornare a casa loro. Questa separazione lo ha molto toccato, lo fa sentire infelice, e si nota bene il suo bisogno di condividere con gli altri i suoi sentimenti.
-Sentimenti? Cosa intendi dire, chiese Tom, quando usi questa parola?
-Per me, gli rispondeva Maria, i sentimenti sono l’espressione delle emozioni che provo nei confronti degli altri. Tu hai detto ai due amici che partivano che volevi loro bene. Per me il sentimento è essenzialmente il sentimento d’amore. Ce ne sono anche molti altri, ma di questo stiamo ora parlando, ed è questo che tu ora provi-
-Sono d’accordo con te, diceva Tom. Ma devo anche ripetere, come dicevo poco fa a Iorgos, che il condividere questo sentimento con altri non mi toglie il dolore e l’infelicità che provo per questa separazione
-Se tu, intervenne Raniero, ti lasci invadere dalla nostalgia e ti affliggi per la separazione, sembri dare un giudizio puramente negativo della situazione e dunque un giudizio che ti procura infelicità. A che ti serve?
-Non è qui il punto, ribatté Iorgos. Io semplicemente mi do il diritto di provare ciò che provo e di comunicarvelo. Se anche voi provate la stessa cosa, ciò mi rende più sopportabile l’infelicità della separazione. Io penso cioè che il poter condividere con altri i propri sentimenti sia utile e importante
-Guarda che se ci pensi bene, disse Raniero, anche i sentimenti sono dei giudizi
-In che senso? chiese Iorgos-
-Quelli che tu chiami sentimenti, spiegò Raniero, sono giudizi perché possono sempre essere tradotti così: “Stare con queste persone mi piace”. Se il giudizio fosse diverso e fosse del tipo “Stare con queste persone non mi piace”, ecco che tu lo chiameresti un sentimento di avversione e non proveresti infelicità per la separazione
-Mi sembra, insorse Tom, una gran banalità! Mi stai dicendo semplicemente che se la situazione fosse diversa il mio sentimento sarebbe diverso. E allora?…
-Va benissimo quello che tu dici, rispose con calma Raniero. È un’ovvietà, ma l’importante è che tu ammetta che i sentimenti sono dei giudizi, che “tu” sei i tuoi giudizi e che essi sono in tuo esclusivo potere.Soltanto tu puoi cambiarli. Nessun altro può farlo al posto tuo, né tu puoi chiedere a qualcun altro di farlo per te: tu sei libero nei tuoi giudizi
-Quindi, continuò Iorgos, dovrei modificare il mio giudizio sulla situazione e dire che non me ne importa niente che i miei amici siano partiti? In questo modo potrei evitare di starci male, vuoi dire questo?
-Dei nostri giudizi la natura ha fatto padroni noi e soltanto noi, rispose Raniero. Quando si parla di sentimenti come se fossero entità indipendenti dai nostri giudizi, si corre il rischio di credere che i sentimenti siano padroni di noi e non noi dei nostri sentimenti. Se davvero i sentimenti fossero padroni di noi e tu fossi una persona conseguente, questa separazione dovrebbe trascinarti a decisioni estreme. Questo dovresti fare: suicidarti per l’infelicità che ti dà la separazione, come fece Didone quando Enea la abbandonò. Se questi vostri amici non fossero soltanto partiti ma fossero già adesso morti in un incidente e tu non potessi vederli mai più, cosa faresti? Per essere coerente, visto che loro sono davvero un bene per te, che la sottrazione di quel bene è per te un male che ti rende infelice e che tu non puoi vivere se non hai quel bene che la loro partenza ti ha tolto, dovresti appunto suicidarti
-Quello che tu dici mi pare esagerato, replicò Iorgos. Nella vita di una persona non ci sono soltanto gli amici ma molte altre cose. Dunque perché suicidarmi? Io sono semplicemente triste
-Vedi, gli rispose Raniero, che tu fai -senza rendertene conto- queste operazioni: in primo luogo frammenti il bene in tanti beni diversi quante sono le persone o gli oggetti esterni che giudichi importanti per te. In secondo luogo giudichi di avere su di essi un potere per cui il loro possesso ti procura felicità e la loro perdita infelicità. In terzo luogo decidi tacitamente che non ve ne sia però mai uno decisivo e che quindi, per scegliere di suicidarti, dovrebbero esserti tolte tutte insieme queste persone e tutti questi oggetti esterni. Ma queste persone e questi oggetti -se ci ragioni bene-non ti appartengono, perché sono persone e oggetti fuori di te, sono cioè -come abbiamo già detto- entità aproairetiche sulle quali tu non hai alcun potere esclusivo. Tu ti comporti, insomma, come chi crede che si possa morire annegati soltanto in mare aperto e profondo mentre dimostri che per annegare te bastano due dita d’acqua
-Si, intervenne Maria, sarà così; ma questo non toglie che io provi infelicità nella separazione
-Questo accade, continuò Raniero, perché tu equipari la separazione a una perdita e dai ad essa un valore soltanto negativo. Invece i tuoi amici sono per te, in quanto esterni a te, né bene né male e dunque la separazione da loro non è la separazione da un bene ma da qualcosa che è né bene né male
-Vuoi dire, disse Maria, che tutto ciò che è esterno non vale nulla e conta solo ciò che sono io? Mi sembra una posizione molto egocentrica e mi convince assai poco
-Sono allibito, rispose Raniero. Se tu togli a tutto ciò che è esterno la qualità di essere bene o male, vuol forse dire che con ciò tu togli importanza a ciò che è esterno? Se una cosa è né bene né male vuol forse dire che non continua a rimanere fredda o calda, colore o incolore, pesante o leggera, dolce o salata e, nel caso di una persona, avvenente o ripugnante, alta o bassa, maschio o femmina, triste o gaia, felice o infelice e tutte le altre infinite possibili determinazioni che la specificano e caratterizzano?
-Quando tu dici, riprese Irene, che una persona è né bene né male a me sembra che tu dica che non vale niente, ed è questo che mi turba. Il fatto è che nella nostra cultura le parole ‘bene’ e ‘male’ sono strettamente connesse al valore ed è ciò che crea l’equivoco e la difficoltà di comprensione di ciò che tu dici
-Tutto ciò che è esterno a noi (persone, cose, situazioni, ecc.) è né bene né male, rispose Raniero. Bene e male stanno soltanto nell’uso che ne facciamo, e questo uso è in nostro esclusivo potere. Per esempio. I pezzi degli scacchi non sono né bene né male: sono i pezzi degli scacchi. Il buon giocatore saprà però usarli nel modo corretto e vincerà la partita; il cattivo giocatore la perderà. In questo non c’è un giudizio di valore sugli scacchi in quanto tali ma soltanto sul loro uso. La nave è né bene né male e tu dici che non esiste o che non vale nulla? Il buon pilota la sa portare in porto anche con un mare agitato, il cattivo pilota la farà affondare 
-Ho capito, disse Tom. Tutto ciò che è esterno è né bene né male mentre bene e male stanno soltanto nell’uso che noi facciamo di ciò che è esterno a noi
-Sì, è così; annuì Raniero. Tu conservi intatta la facoltà di giudicare piacevole, desiderabile e utile la presenza dei tuoi amici partiti, giacché questo è un giudizio che dipende esclusivamente da te. Ma la separazione, al contrario, non dipende esclusivamente da te. Su di essa tu hai il tuo giudizio: ma perché questo è sempre negativo e causa di infelicità per te? Ciò che ti fa soffrire è, in realtà, la paura di soffrire-
-Forse tu hai davvero ragione, mormorò con profonda concentrazione Iorgos. Ma cosa possiamo fare di diverso?
-Puoi fare un’altra scelta, sospirò Raniero, e considerare la separazione da un altro punto di vista. Sei libero di formulare altri giudizi. Per esempio che la separazione renderà più gradevole il ritrovarsi; oppure che la separazione è necessaria e che produrrà qualcosa di nuovo; e così via. Allora la diairesi in atto, modificando i tuoi giudizi cambierà anche i tuoi sentimenti. Se togli valore di bene e di male a ciò che è aproairetico perché ne trai la conseguenza che non potrai più mostrare sentimenti? Accetta di provare questo “languore”, non resistergli, non temere la separazione, non avere paura di provare qualcosa che immagini ti possa schiacciare mentre puoi sperimentare di essergli superiore
-Io per esempio, disse Penelopi, quando provo un dolore lo censuro; penso ad altro e mi metto a fare un sacco di cose perché non mi va di stare male. Non faccio come dici tu, non accetto il dolore e vado altrove
-Io invece, spiegò Muriel, quando provo dolore non ho più voglia di fare nulla. Nulla più mi pare interessante e tutto mi sembra negativo. Entro insomma in una bella depressione in cui nulla ha più valore per me e comincio a pensare che io stessa non ho alcun valore, altrimenti non ci sarebbe stata separazione. Questo mi capita soprattutto se la separazione è la fine di una storia sentimentale!
-Quando dici, riprese Raniero, che sei colpevole della separazione e che non vali per questo, tu implicitamente giudichi che la separazione è qualcosa -anche se in negativo- in tuo esclusivo potere e che sei stata soltanto tu a causarla: dunque sei anche origine della tua stessa afflizione. Vedi che se tu giudicassi che la separazione non è dipesa esclusivamente da te, già eviteresti di entrare in quel circolo vizioso che hai descritto e che ti costringe a vivere oltre che la separazione anche la depressione
-Io invece, intervenne Sofia, trovo che sia importante stare nella situazione anche se di nostalgia o di infelicità e accettarla, come diceva Raniero, in modo da integrarla. Se la rifiuti o la demonizzi diventa sempre più grande; se la accetti e non te ne fai dominare puoi essere felice anche nel crepuscolo!
-Ma scusa, protestò Iorgos, non puoi dirmi che puoi essere felice e infelice nello stesso tempo…
-Hai fatto bene a dire questo, intervenne Raniero, perché se si usano termini contraddittori non si capisce più niente. Quindi non chiameremo mai infelicità tutta la gamma di teneri, delicati, nostalgici sentimenti di chi ha appreso ad usare correttamente la sua proairesi e a non impiegare alcun giudizio senza averlo prima ben analizzato. Come essere dunque affettuosi? Da uomini liberi, da uomini fortunati. Giacché la nostra ragione non sceglierà mai che noi siamo servi nell’animo, né di svigorirci né di farci penzolare da questo o da quest’altro. Noi possiamo dunque essere affettuosi così, con l’intenzione di serbare questo. Se invece a causa dell’affettuosità, qualunque cosa sia quello che chiamiamo affettuosità, stiamo per essere servi e meschini, non ci è vantaggioso essere affettuosi
-No, scusa, disse Irene; stai forse dicendo che per non rischiare di essere dipendenti o meschini o servi sia meglio non essere affettuosi per niente?
-Io sto dicendo, rispose Raniero, che la tua presenza mi è cara, anche necessaria; ma se tu parti io, pur provando il senso della mancanza, la nostalgia o il languore che segue a una separazione, saprò vivere la tua assenza da uomo libero, da uomo che non si fa travolgere da sentimenti legati ad eventi che non sono in suo potere
-Mi sembra, disse Muriel, che tu in questo modo subisci passivamente le scelte altrui
-Io posso anche cercare di condizionare le scelte di Irene in modo da facilitare od ostacolare una scelta che non mi piace, ma certamente non è in mio potere far sì che lei scelga ciò che io preferisco. Dunque io non tolgo significato al sentimento di tristezza, languore o nostalgia che segue ad una separazione. Possiamo definire questi sentimenti come sentimenti improvvisi e di breve durata. Ma io non perdo di vista il fatto che questi sentimenti non mi possono travolgere essendo essi stessi eventi aproairetici, ossia eventi che non sono in mio esclusivo potere. A questo punto quel che posso e devo fare è mettere in atto la diairesi, analizzarli alla luce del fatto che essi non sono in mio esclusivo potere ed aprire la porta ai sentimenti stabili, di lunga durata, che ora sappiamo essere in realtà giudizi. Questo è ciò che dipende esclusivamente da me. Sono quindi io che scelgo di stare molto male o un po’ male o addirittura abbastanza bene!
-Io che mi sono separato da mia moglie l’anno scorso, intervenne Dimitri, non riesco proprio ad accettare questa separazione. Vado cercando continuamente tracce sotto forma di lettere, di fotografie, di persone che mi ricordino mia moglie, in modo da sentirmi come ero prima
-Il giudizio che tu hai su tua moglie, disse Penelopi, è che ella era sicuramente per te un bene, essendo separato dal quale tu vivi infelicemente. Cerchi così di ricostituire quella situazione che era buona per te, ma ormai non è più possibile: che cosa intendi fare?-
-Io rinuncio, sospirò Dimitri, a vivere nuove cose e voglio stare solo nel ricordo di ciò che era un bene per me
-Nessuno al mondo, annuì Raniero, potrà convincerti del contrario e io ritengo che sia un peccato perdere un amico come te, che sceglie di vivere solo. È un peccato perdere la tua compagnia, la possibilità di confrontarci e di discutere insieme. Ma se tu lo decidi, noi non possiamo farci niente anche se ci dispiace. Tu, caro Dimitri, mandi in malora un uomo, cioè te stesso, che non ha commesso alcuna ingiustizia
-Io invece, intervenne Irene, ho fatto l’esperienza della diairesi in atto, di quello che tu hai chiamato il cambiamento del giudizio sulla separazione. Per me la separazione non è soltanto negativa e fonte di dispiacere anche se, ovviamente,questo sentimento non mi è sconosciuto.La vivo anche come un momento che mi consente di vedere con più lucidità ciò che ho vissuto e di provare sentimenti di gratitudine per ciò che ho avuto, essendo consapevole che ogni cosa ha un suo inizio e una sua fine. Mi è venuto in mente, e lo penso, che è proprio il contrario di quello che aveva scelto di fare Medea la quale, a causa della sua separazione dolorosa da Giasone, aveva scelto di svalutare e mortificare tutto ciò che c’era stato tra di loro prima-
-Allora mi pare di capire, disse Maria, che tu Raniero non neghi l’esistenza dei sentimenti e la legittimità di provarli. Semplicemente dici che sono riconducibili a giudizi dei quali noi siamo padroni e che bisogna vedere l’uso che se ne fa
-E’ proprio così ed è ovvio, concluse Raniero, che ne farai un uso oppure un altro a seconda del giudizio che ti guida al riguardo. La parola stessa diairesi significa separazione: separazione da che cosa? Separazione dei giudizi di bene o male da qualunque cosa esterna a chi giudica e attribuzione della qualità di essere bene o male soltanto alla nostra proairesi individuale quando essa operi rettamente e, cioè, quando sappia distinguere tra ciò che è in nostro potere e ciò che non lo è, oppure non rettamente quando essa pretenda di avere potere là dove non ce l’ha. A proposito di ciò di cui abbiamo discusso non nego quindi la tristezza della separazione, ma non dimentico che la separazione non dipende esclusivamente da me e nego che il giudizio sulla separazione debba essere sempre causa di infelicità. D’altra parte noi non possiamo fare a meno di interagire con le persone o le cose esterne a noi. Ebbene non dobbiamo avere timore di questi rapporti e non dobbiamo aspettarci da essi alcun male bensì un bene, qualora noi sappiamo, grazie alla capacità di usare la diairesi, tenere fermo il loro valore. Così nessun calciatore disputa sul peso o sulla dimensione del pallone ma l’abilità di ciascuno si dimostra nella capacità di usare un oggetto che è uguale per tutti. Non dipende da noi com’è il pallone ma dipende da noi superare gli ostacoli, compresa la paura di vincere, e decidere di segnare un goal!                                                   

Era ormai pomeriggio inoltrato ed improvvisamente un borbottio lontano ma inconfondibile annunciò l’imminente arrivo della grande barca blu di Nicola. 
-Chi vuole tornare a Kedros in barca insieme con noi? chiesero Maria e Dimitri. La barca è già in vista e occorre prepararci in fretta
-Il mare è calmo e io torno senz’altro con voi in barca molto volentieri, disse Muriel
-Io ho un grande desiderio di riguardare dalla barca la magnifica costa rocciosa che abbiamo ammirato venendo qui stamattina. Anch’io vengo con voi. E tu Raniero, cosa fai? chiese Irene
-A me piace di più l’idea di camminare. Desidero guardare il mare dall’alto e deliziarmi ancora del profumo dei cespugli di timo e di elicriso che punteggiano l’aspro sentiero che porta fin qui. Ci vediamo più tardi alla taverna di Nikitas per una birra?

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Scritti originali

DIALOGO II

Medea: Diairesi, Antidiairesi e il Giudice Misterioso

Οὐ μὲν οὖν τῇ ἀληθείᾳ, φάναι, ὦ φιλούμενε Ἀγάθων, δύνασαι ἀντιλέγειν, ἐπεὶ Σωκράτει γε οὐδὲν χαλεπόν.

“Mio amato Agatone -replicò allora Socrate- è alla verità che tu non puoi opporre argomenti, giacché a quelli di Socrate non è affatto difficile opporne”

Platone ‘Simposio’ 201D

Le ben note e tragiche vicende di Medea sono raccontate e analizzate passo passo per illuminare fino in fondo il modo in cui funzionano le Proairesi di tutti gli uomini. Il dialogo dimostra che nella proairesi si fronteggiano due supergiudizi e trova posto uno sterminato insieme di giudizi ordinari. Il primo supergiudizio si chiama ‘Diairesi’. Il secondo, che non ha per ora un nome proprio ma del quale si ipotizza la necessaria esistenza, è temporaneamente denominato ‘Giudice misterioso’. Soltanto alla fine del percorso maieutico, nel quinto dialogo, si riconoscerà che il nome proprio di questo giudice misterioso è ‘Controdiairesi’. Lo sterminato insieme di giudizi ordinari viene infine raccolto sotto il nome generale di ‘Antidiairesi’.

Qualche giorno dopo Raniero, Irene e Muriel si erano nuovamente dati appuntamento nell’anfiteatro affacciato sul mare.

-Ricordi, disse Raniero, ‘La scena del vento’ di cui abbiamo discusso qualche giorno fa? Oggi possiamo aggiungerle qualcosa. Guarda come il mare, adesso, è agitato e come il vento solleva onde sempre più spumeggianti. Proprio qui sotto di noi, vedi come la vela di quella piccola barca è scossa dal meltemi?
-Sì, rispose Irene. Osservando i movimenti delle persone che sono sulla barca si può notare molta agitazione. Non vorrei che stesse per succedere qualcosa di grave. Cosa si staranno dicendo?-
-Sento anch’io arrivare voci concitate, ma non si capisce che cosa stiano dicendo
-Tutto questo mi fa venire in mente la storia di Medea, continuò Irene. Anche l’animo di Medea doveva essere scosso violentemente, come la vela di quella barca in questo mare agitato. Me la racconti?

-Fa sempre bene tornare a ragionare su storie così drammaticamente vere. Dunque: quando Medea, dopo anni di reciproco amore, si vide abbandonata da Giasone -il quale voleva divorziare da lei per sposare Glauce, la figlia di Creonte, re di Corinto- concepì il modo atroce che conosci per vendicarsi
-Sì, lo ricordo bene: uccise i suoi figlioli
-Secondo te, perché lo fece?
-Per punire Giasone. Non poteva accettare di essere rifiutata dopo anni di felice convivenza
-Ammettiamolo, continuò Raniero. Medea era davvero una donna dotata di grande temperamento! Non le mancava certo la ‘rappresentazione’ di cosa si deve intendere quando si dice che qualcosa gira storto e non si ottiene quel che si vuole! Medea cercava un modo per vendicarsi di Giasone, il quale le pareva non soltanto ingiusto con lei ma anche insultante e oltraggioso
-Lasciamo stare, per ora, la vendetta, disse Irene. Come avrebbe potuto Medea non soffrire per la scelta di Giasone? Chi è che non soffre quando si sente rifiutato?
-Dipende, replicò Raniero. Soffre chi è rifiutato e continua a desiderare l’amore di chi lo rifiuta. Non soffre chi è rifiutato e giudica quel rifiuto una liberazione. Tieni conto che Giasone, sposando Glauce, sarebbe poi diventato re, cosa a cui teneva molto e che, vivendo con Medea, non gli sarebbe stata possibile
-Ma, secondo te, Giasone voleva anche allontanare Medea da Corinto, in modo da non vederla mai più?
-Sicuramente no. Giasone, al contrario, aveva proposto a Medea di rimanere a Corinto e di diventare la sua amante, l’amante del re! Questa era una decisione che Glauce aveva approvato
-E’ questo che Medea non può accettare e che le sembra un insopportabile oltraggio, sbottò Irene
-Ma dal soffrirne al dare la morte ai suoi stessi figli, suggerì Raniero, credo anche tu veda un passo che non è automatico, che non discende dal fatto di provare dolore e che richiede qualcos’altro per essere compiuto
-Allora, che cosa porta Medea a fare questa scelta?
-L’animo di Medea, come abbiamo detto, è dotato di grande nerbo ossia, e mi puoi certamente ormai capire, di una potente proairesi. 
-Sì, Medea deve assolutamente fare qualcosa, non può tacere e stare a guardare-
-Nella proairesi di Medea, riprese Raniero, turbinano dunque le più varie possibilità, e possiamo chiamare queste possibilità ‘progetti’. Così Medea pensa: ‘Giasone è un traditore e merita una punizione: lo avveleno’. Oppure: ‘Non sopporto di valere meno di Glauce e la uccido’. Oppure: ‘Mi uccido per non dover assistere a ciò che mi procura così tanto dolore’. E infine: ‘Uccido quelli che io gli ho dato, i suoi figli’
-Ma erano anche figli suoi…
-Giusto! Nella proairesi di Medea è anche presente il giudizio: ‘Se uccido i suoi figli punirò anche me stessa’. Ma ella, come le fa dire Euripide, subito si risponde: ‘Non m’importa! Capisco che mali sto per fare ma il rancore è più forte delle mie risoluzioni’
-Qual è il criterio che permetterà a Medea di scegliere tra questi progetti?
-Seguimi, la invitò Raniero. Entriamo nella proairesi di Medea e prendiamo in considerazione uno per uno questi progetti. La domanda fondamentale che ci dobbiamo porre è questa: ciò che voglio fare è qualcosa in mio esclusivo potere oppure no? Vediamo. ‘Avveleno Giasone’ è in mio esclusivo potere?
-Penso proprio di sì, propose Irene. A meno che le condizioni materiali me lo impediscano. Ma in ogni caso l’azione è mia e posso cercare di metterla in atto anche se non dipende da me il successo della medesima
-Ecco, hai colto il punto, replicò Raniero. Una cosa è decidere di camminare e un’altra è camminare. La prima è un progetto in mio esclusivo potere, la seconda non è invece in mio esclusivo potere ma è soggetta ad ogni sorta di possibili accidenti. Una cosa è avere dei giudizi e concepire un progetto, un’altra cosa è portarlo a compimento. Infatti la sua realizzazione è sempre soggetta a possibili accidenti. Ritorniamo ad esaminare il progetto ‘Avveleno Giasone’ e dammi una nuova risposta. Sappi che entrare nella stanza di Giasone è ormai impossibile, che tutti i suoi cibi sono pregustati da uno schiavo e che egli è circondato da guardie del corpo che vegliano sulla sua incolumità
-Ne devo concludere e ti devo rispondere così: ‘Avvelenare Giasone non è in esclusivo potere di Medea mentre in esclusivo potere di Medea è il concepirne il progetto’
-Cosa diremo del progetto ‘Uccido Glauce’?
-Che uccidere Glauce non è in esclusivo potere di Medea anche se il progettarlo è in suo esclusivo potere
-’Mi uccido’ è la terza alternativa che Medea concepisce. Ma la esclude subito, perché uccidersi le sembra una grande vittoria di Giasone e di Glauce, i quali non soltanto non avrebbero bisogno di commettere un omicidio per sbarazzarsi di lei, ma le infliggerebbero anche l’umiliazione di celebrarne il ricordo come madre virtuosa e sposa esemplare
-E inoltre, aggiunse Irene, in questo caso Medea non otterrebbe ciò che vuole, che è riavere il suo posto al fianco di Giasone. Ma a Medea non viene in mente che, uccidendosi, almeno si sottrarrebbe al dolore che prova?
-Anche nel caso del progetto ‘Mi uccido’ dobbiamo considerare se si tratti di qualcosa che è in esclusivo potere di Medea. Vedrai che se analizziamo questo progetto, che sembra il più vicino a dipendere esclusivamente da lei, troveremo che non è così
-Ma come, disse con sorpresa Irene, il suicidio è l’unica cosa per la quale non ho bisogno di altri e che dipende esclusivamente da me…
-Giasone ha già pensato anche a questo. Egli non ha messo in opera soltanto il suo sistema di protezione ma ha già dato ordini segreti e tassativi affinché sia prevenuto qualunque gesto che potrebbe portare ad effetto il suicidio di Medea. Medea non lo sa, ma è circondata da persone che si tengono nell’ombra e che vigilano sulla sua incolumità. Credibile o no che sia la possibilità di prevenire un suicidio, questo va detto per dimostrarti ancora una volta che anche la realizzazione del suicidio non è in tuo esclusivo potere, mentre è in tuo esclusivo potere soltanto la decisione di porre fine alla tua vita. Sono invece d’accordo con te nel ritenere che la morte avrebbe liberato Medea dal dolore, dall’offesa e dalla rabbia che provava
-Anche l’uccidere i propri figli, protestò allora Irene, non è in esclusivo potere di Medea, ma è ciò che avviene. Qual è la differenza di questo progetto rispetto ai precedenti?
-Non c’è la minima differenza, rispose serio Raniero. Anche per questo progetto valgono le conclusioni cui siamo giunti nel caso degli altri. Concepire l’uccisione dei propri figli è in esclusivo potere di Medea ma il realizzarlo non è in esclusivo potere di Medea
-Ma gli altri progetti di Medea non si realizzano mentre questo si realizza. Perché accade questo?
-Accade semplicemente perché le circostanze non lo impediscono. Medea è madre e i bambini vengono allevati e curati dalle donne, siano esse nutrici o madri. Medea ha dato a Giasone due figli e questi sono ancora, notte e giorno, con lei. Giasone non ha mai neppure lontanamente pensato a toglierli dalla tutela della madre perché questa è la sua cultura. Giasone è un greco. Medea non è una greca e, seppure figlia di re, è una barbara del Ponto che arriva a concepire un progetto di una atrocità tale quale nessuna donna greca avrebbe potuto concepire
-Dunque, chiese Irene, i progetti ‘Avveleno Giasone’, ‘Uccido Glauce’, ‘Mi uccido’, ‘Uccido i miei figli’ sono perfettamente equivalenti riguardo alla loro concezione e alla loro possibilità di realizzazione?
-Diciamo più esattamente, continuò Raniero. Sono perfettamente equivalenti quanto alla loro concezione poiché, come progetti, sono in esclusivo potere di Medea. Sono perfettamente equivalenti in quanto la loro realizzazione pratica è sempre soggetta ad ogni sorta di accidenti. Non sono più equivalenti quando consideri che è impossibile sapere a priori quali e quanti saranno per ciascuno gli impedimenti che ne ostacoleranno o le facilitazioni che ne favoriranno la realizzazione
-Intendi dire che la differenza tra di loro risale a quel ‘…soggetta ad ogni sorta di accidenti’?
-E’ proprio così. E questa è la ragione per cui soltanto il tentativo di realizzarli ci dice quali dei nostri progetti diventeranno realtà e quali no
-Però possiamo giudicare la realizzazione di alcuni più probabile di quella di altri, non ti pare Raniero?
-Certamente è così. Però il punto fermo rimane questo: nessun progetto per cui ci sia bisogno del nostro corpo o di una qualunque persona o oggetto esterno ha certezza di realizzazione. E questo è quanto per ora ci basta sapere ai fini della presente discussione su Medea
-Da quello che tu dici, Raniero, sembra che ci si debba rassegnare a ciò che accade restando impassibili e senza fare nulla. Non sarebbe questa una condanna alla passività? A volte muovere qualche pedina, pur sapendo che la situazione è quella data, potrebbe cambiare qualcosa e renderebbe meno pesante l’accettare i fatti che non ci piacciono
-Non fraintendere. Ti ripeto che non possiamo muovere nessuna pedina con la garanzia del successo, ma ti ripeto anche che soltanto calciando con forza e con abilità il pallone verso la porta avversaria possiamo renderci conto se abbiamo segnato un gol, se il tiro è andato su un palo o fuori dai pali o se il portiere ha parato
-Dunque il tuo non è un invito alla passività ma a qualcos’altro. Non capisco però a che cosa, disse pensierosa Irene
-Il mio invito è un invito alla ‘Diairesi’
-Diairesi, e cos’è? È una parola che non ho mai sentito, protestò Irene
-Devi avere un attimo di pazienza e vedrai che tutto diventerà subito più chiaro, rispose Raniero. Torniamo a Medea. Siccome sappiamo che ciascun progetto si presentava a Medea con la medesima autorevolezza, dobbiamo supporre che nella sua Proairesi fosse presente qualcosa capace di scegliere quale dei progetti mettere in opera
-Sono d’accordo. Non può essere che così, ma non so dare un nome a questo qualcosa-
-Facciamo un paragone con quanto succede in Tribunale e immaginiamo che i vari progetti siano altrettanti imputati e questo qualcosa il loro giudice-
-Sì, annuì Irene. Il paragone è chiaro e mi piace-
-Sentiti gli imputati, i testimoni, le arringhe dell’accusa e della difesa ed eventualmente visti i pertinenti articoli del Codice, il giudice condanna o assolve. Ecco, il giudice che sceglie tra i progetti di Medea si chiama ‘Antidiairesi’
-Antidiairesi? Tu ti diverti a confondermi le idee, insorse Irene. Poco fa parlavi di Diairesi, adesso vieni fuori con quest’altra parola e io non ci capisco più nulla!
-I due giudici, Diairesi e Antidiairesi, sono fratelli, come fossero Apollo e Artemide oppure, se vuoi, i Dioscuri Castore e Polluce-
-Perché si chiama Antidiairesi il giudice che sceglie, tra i progetti di Medea, quale attuare?
-Anche se non è ancora una definizione che mi soddisfa del tutto, accontentiamoci di definire l’Antidiairesi come il giudice che opera su quanto non è in nostro esclusivo potere ed è complementare alla Diairesi che invece opera su quanto è in nostro esclusivo potere. Ti ricordi che siamo partiti da questa domanda fondamentale: ciò che Medea intende fare è qualcosa in suo esclusivo potere oppure no? Siamo giunti alla conclusione che concepire un progetto è in esclusivo potere di Medea ma che il realizzarlo non è in esclusivo potere di Medea. Il giudice che sceglie quale dei progetti di Medea attuare si chiama Antidiairesi, ripeto, perché è un giudice deputato ad operare su quanto in nostro esclusivo potere non è
-Vuoi dire che è un giudice cattivo?
-Nient’affatto. È un giudice ottimo, necessario e importantissimo il quale, però, svolge un ruolo molto diverso da quello che svolge il suo fratello Diairesi
-E qual è il compito svolto dal giudice che tu chiami Diairesi?
-Come dicevo, Diairesi è il giudice deputato a giudicare se la realizzazione di un progetto è in nostro esclusivo potere oppure no e, se è in nostro esclusivo potere, a scegliere quale realizzare-
-Tu continui a stupirmi, disse Irene, e quasi mi manca il fiato. Ma come? Esistono anche progetti la cui realizzazione dipende esclusivamente da noi?
-Certamente, rispose calmissimo Raniero. So che non te ne rendi conto e non ne hai mai sentito parlare, ma mancano soltanto due passi in più per capire di cosa si tratta. Ti posso anticipare, perché ti sia in seguito più chiaro, che questi progetti la cui realizzazione dipende esclusivamente da noi, riguardano la possibilità o capacità che noi abbiamo di mutare il nostro giudizio su una situazione data, come poi vedremo
-E quindi…?
-Continuiamo il paragone del Tribunale ed ammettiamo che in questo Tribunale esistano soltanto due giudici. Il giudice Diairesi è il primo a ricevere e ad esaminare le carte del Processo ossia, in questo caso, i progetti che turbinavano nella mente di Medea. Egli ha svolto accuratamente il suo lavoro ed ha trovato che la realizzazione di nessuno di tali progetti era in esclusivo potere di Medea. Siccome il giudice Diairesi è deputato a giudicare se la realizzazione di un progetto è in nostro esclusivo potere oppure no, cosa doveva fare?-
-Doveva fermarsi lì e passare le carte a qualcun altro
-Abbiamo ammesso, per ora, che ci siano soltanto due giudici nella nostra Proairesi. Dunque.., e qui Raniero si fermò
-Dunque…, riprese Irene in un soffio, dunque… ha passato le carte al fratello, all’Antidiairesi
-Proprio così. È questo l’iter dei processi che avvengono nella nostra Proairesi. Se il giudice Diairesi non trova il progetto di sua competenza, passa il caso al fratello Antidiairesi e sarà quest’ultimo a prendere ulteriori decisioni
-Ho capito. È chiaro che i progetti di Medea sono di competenza del giudice Antidiairesi. Medea è confusa, turbata, e non si rende conto che la realizzazione di uno qualunque dei progetti che le turbinano in mente non è in suo esclusivo potere. Mi sembra però che questo sia l’unico modo che lei sente e sceglie, non per cambiare una situazione che non è in suo potere cambiare ma per esprimere, anche se in modo atroce, tutto ciò che la ferisce
-Io però vedo, a questo punto, una difficoltà. Sappiamo che la Diairesi è il giudizio che sa distinguere quanto è in mio esclusivo potere e quanto non lo è. Sappiamo anche che l’Antidiairesi è il giudizio, complementare alla Diairesi, il quale opera su quanto in mio esclusivo potere non è. Sappiamo che Medea non usa la Diairesi. Ma, allora, a cosa è complementare l’Antidiairesi che Medea invece certamente usa?
-Esiste forse un giudice misterioso che ancora non abbiamo conosciuto, ipotizzò Irene
-Non mi è chiaro ancora, ma sulle carte che sono passate per le mani della Diairesi doveva esserci scritto qualcosa che evidentemente non è stato scritto dalla Diairesi ma da qualcun altro, giacché se fosse stato scritto dalla Diairesi vorrebbe dire che Medea la usa. D’altra parte l’Antidiairesi ha soltanto il compito di operare su quanto è scritto su quelle carte. Si tratta di una complicazione alla quale io non so dare per ora una risposta. Una cosa comunque sappiamo con certezza: Medea vede fuori di sé l’origine della propria afflizione. Non può essere che così giacché Medea, incapace di usare la Diairesi, cioè di rendersi conto di ciò che è in suo esclusivo potere e di ciò che non lo è, è incapace di valutare qual è il suo contributo all’afflizione che prova. Se il comportamento di Giasone fosse di per sé la causa dell’afflizione di Medea allora chiunque, di fronte a un simile comportamento, dovrebbe provare la stessa afflizione
-Allo stesso modo, interruppe Irene, che se la morte fosse di per sé un evento terribile e da fuggire, ecco che nessuno dovrebbe suicidarsi?-
-Esattamente. A causare l’afflizione di Medea non è dunque il rifiuto di Giasone ma il giudizio, che è solo di Medea, che il rifiuto di Giasone sia un insulto, un’ingiustizia che la umilia. Le amiche di Medea non provano assolutamente, a causa del comportamento di Giasone, l’afflizione che prova Medea
-Mi sembra ovvio, interruppe Irene, che le amiche di Medea non provino la stessa afflizione. Ma magari ne provano una simile per l’amicizia che hanno con Medea
-Questo può essere, ma è un’altra afflizione e si tratta di un altro discorso. Il punto cruciale cui siamo giunti è questo: c’è qualcosa la cui realizzazione, nella situazione data, è in esclusivo potere di Medea e che l’uso appropriato della Diairesi le permetterebbe di scoprire? Oppure, per tornare al paragone del Tribunale: esiste almeno un progetto la cui realizzazione dipende esclusivamente da Medea e che quindi il giudice Diairesi potrebbe scrivere su quelle carte e che, a questo punto, non avrebbe neanche più bisogno di passare al fratello?-
 -Lasciami riflettere un attimo, sospirò Irene. Da quello che mi hai detto finora penso che una risposta sensata sarebbe questa: Medea può cambiare il giudizio che dà sulla situazione in cui si trova
-È esattamente così. Eccoci al vero cuore del problema. C’è qualcosa che dipende esclusivamente da Medea, ed è il giudizio che ella ha di Giasone e del suo comportamento. Giasone, col suo rifiuto, le appare come un volgare traditore degno della peggiore vendetta. Questo giudizio è in esclusivo potere di Medea ed ella lo può cambiare. Se Medea guardasse a Giasone come ad un infelice carrierista indegno dei suoi sentimenti, ebbene cambierebbe totalmente i suoi progetti. Medea desidera ad ogni costo che Giasone coabiti con lei. Dille: guarda Corinto; è una città dal clima insalubre, sudicia, poco attraente, scomoda. Tu invece desideri luce, aria, sole. Se ricorderai ciò che a te piace, vedrai Corinto con occhi nuovi e considererai una fortuna la possibilità di abbandonare tanto Corinto quanto Giasone. Giasone ti può impedire di suicidarti, di uccidere Glauce, i figli o lui stesso, ma può Giasone impedirti di considerarlo un infelice carrierista e quindi di considerare per te desiderabile l’abbandonarlo? Non puoi accusare Giasone di impedirtelo. Sei tu e soltanto tu che lo vedi con occhi che te lo mostrano come un volgare traditore degno della peggiore vendetta
-Capisco quello che tu dici e so che mi sarà molto utile, confidò Irene. Ma Medea non cambia il suo giudizio perché non pensa che Giasone sia un infelice carrierista. Lei sa bene quanto è importante diventare re di Corinto
-Certo, Medea continua ad apprezzare Giasone e sa che è un uomo di grande valore. Ma la situazione è mutata, non siamo più ai tempi felici della conquista del Vello d’Oro. Arriviamo fino in fondo. Quello che Medea non può accettare è, in realtà, che un uomo del valore di Giasone non abbia più, come un tempo, i giudizi di Medea. Siamo davanti al conflitto di due Proairesi. Medea è giunta a ritenere vitale il progetto di dominare la Proairesi di Giasone e di farla tornare in sintonia con la propria, mentre ritiene nullo e insensato il progetto di dominare, ossia di usare rettamente, la propria Proairesi. Medea non sa usare la Diairesi e non ha intorno nessuno che glielo insegni. Ti sembra esatto chiamare ‘progetto’ soltanto il tentativo di dominare l’altrui Proairesi e chiamare ‘passività’ il progetto di usare rettamente la tua stessa Proairesi? Nel primo caso non hai certezza di successo e sei spesso, come Medea sperimenta, destinata alla sconfitta. Nel secondo caso, invece, la Diairesi ti suggerirà i tempi e i modi per vivere bene ed essere felice
-Il giudizio di Medea, sospirò Irene, non è negativo su Giasone ma è diventato negativo sul proprio valore e sul valore della relazione che si era stabilita tra di loro
-Ecco uno dei tratti caratteristici di una Proairesi che non usa la Diairesi. Ad un certo punto è costretta a sfigurare il passato, a svalutarlo, a vedere menzogna e inganno anche là dove c’erano sincerità e lealtà. Se non usi la Diairesi, la tua Proairesi non potrà mai apprezzarsi per quello che vale e crederà se stessa inferiore a tutto e a tutti
-Volevo porti un’ulteriore domanda, continuò Irene. Che cosa ti fa dire che sia Medea a volere che Giasone abbia le sue idee e che cosa ti fa escludere che possa anche essere viceversa?
-E’ proprio così: Giasone impone a Medea la forza della propria Proairesi e si dimostra superiore a lei nel conflitto. Giasone non ha timore di perdere Medea, è disposto a rinunciare a lei. Al contrario, Medea teme di perdere Giasone e le è insopportabile l’idea di vivere lontano da lui senza essersi prima vendicata del suo affronto. In questo scontro di Proairesi è inevitabilmente vincitore chi è disposto a cedere il campo all’altro, nel senso che Giasone è disposto a rinunciare pacificamente a Medea mentre Medea non lo è. Il disagio di Medea sta nel fatto che ella è entrata in contraddizione con se stessa, giacché vuole Giasone ma nello stesso tempo non vuole Giasone com’è, ossia sposo di Glauce e re di Corinto. Giasone invece non è in contraddizione con se stesso perché vuole Medea così com’è, donna e madre dei suoi figli. Giasone e Medea sono in reale opposizione: Giasone ha un progetto che Medea rifiuta; Medea ha un progetto che Giasone rifiuta
-Prima parlavi di contraddizione, adesso parli di opposizione. Puoi essere più chiaro?
-Le contraddizioni sono esclusivamente interne alla testa delle persone, sono individuali, e sono insopportabili. Credere che qualcosa sia ‘bianco’ e che contemporaneamente sia ‘non bianco’ è impossibile e si dovrà scegliere ‘bianco’ o ‘non bianco’. Le contraddizioni devono essere risolte rapidamente, pena l’impossibilità di comunicare e anche di agire: non puoi dire o fare contemporaneamente una cosa ed il suo opposto! I conflitti sono invece opposizioni reali di progetti diversi e sono sopportabili. Ad esempio Medea prende atto, e non potrebbe fare diversamente, che Giasone ha giudizi e progetti diversi dai suoi anche se continua a giudicare che essi non le piacciono
-In questo caso, come si potrebbe uscire dal conflitto?
-E’ necessario e inevitabile uscire dalle contraddizioni. Il conflitto, invece, anche se può essere sopportabile è razionalmente insolubile. Il conflitto può permanere tale indefinitamente, oppure terminare perché uno dei due abbandona la propria posizione o perché cambia qualcosa nei dati di fatto. È una questione di forze contrapposte, e il più forte prevarrà sempre sul più debole; come si può facilmente vedere a posteriori dato che, a priori, non è mai possibile sapere con certezza chi prevarrà
-Torniamo un poco indietro, ad una cosa che hai detto e che, sul momento, non avevo preso in considerazione. Hai raccontato che Giasone aveva proposto a Medea di essere la sua amante, una volta sposata Glauce. Potremmo chiamare questa una proposta di compromesso per risolvere il conflitto, ma Medea la rifiuta. Anzi questa proposta la offende. Perché? Il rifiuto di Medea quale giudizio sottende?
-Può una persona reputare che qualcosa gli è utile e non sceglierla? Non può. Quando Medea dice: ‘Capisco che mali sto per fare ma il rancore è più forte delle mie risoluzioni’ lo dice proprio per questo, perché ritiene più utile gratificare il suo rancore e vendicarsi del marito che salvare i figlioli. Lo stesso vale nel caso di Glauce. Poteva Medea reputare utile per sé dividere con Glauce il letto di Giasone? Il suo comportamento ci dice di no. I giudizi sottesi a questo comportamento possono essere tantissimi, diversi e facilmente immaginabili. Per esempio che Giasone preferisce il regno al suo amore. Oppure che Giasone, non bastandogli il suo amore, cerca un’altra donna che lo ami. Oppure che Giasone è un egoista e che di fronte all’apprezzamento della sua persona da parte di un’altra donna non si pone né il problema di scegliere né la preoccupazione che questo faccia del male a Medea. Oppure che Giasone vuole semplicemente ‘prendere tutto’. Infine Medea, gelosa di Glauce, la teme come più giovane, più bella, più interessante di lei ed ha paura di essere abbandonata per sempre da Giasone. Tutti questi giudizi di Medea riflettono la sua incapacità di usare la diairesi e di riconoscere qual è il suo contributo alla disperata afflizione che prova mentre pone interamente nelle mani di Giasone la chiave della propria felicità e infelicità. Quali giudizi fossero allora veramente presenti nella Proairesi di Medea è ignoto a tutti fuorché agli dei
-Vedo che la barca a vela non è più qui sotto di noi, disse a questo punto Irene
-Il mare si è calmato ed essa ha sicuramente raggiunto senza pericoli il porticciolo dell’isola, la rassicurò Raniero
-Mi sembra che, per oggi, abbiamo parlato abbastanza, concluse Irene. Scusate, non è venuta anche a voi una gran voglia di fare un bagno? Io non vedo l’ora di farlo. Che ne dite di andare tutti a Kedros?

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Scritti originali

DIALOGO I

La Proairesi

Οὐ μὲν οὖν τῇ ἀληθείᾳ, φάναι, ὦ φιλούμενε Ἀγάθων, δύνασαι ἀντιλέγειν, ἐπεὶ Σωκράτει γε οὐδὲν χαλεπόν.

“Mio amato Agatone -replicò allora Socrate- è alla verità che tu non puoi opporre argomenti, giacché a quelli di Socrate non è affatto difficile opporne” 

Platone ‘Simposio’ 201D

La proairesi è un concetto chiave nella filosofia di Epitteto. Il dialogo dimostra che la Proairesi è la ragione umana in quanto facoltà capace di assumere un atteggiamento secondo ‘Diairesi’ oppure in contrasto con la ‘Diairesi’.

Qualche settimana fa Muriel è tornata dalle sue vacanze in Grecia. Mi raccontava di essere stata in un’isola delle Cicladi e di avervi incontrato due suoi carissimi amici, Raniero e Irene. Raniero e Irene hanno l’abitudine di incontrarsi in un piccolo anfiteatro che Raniero ha costruito nel terreno che circonda la loro casa. Di lì la visione del mare e delle isole limitrofe è straordinaria, ed esso è diventato per loro il posto ideale per qualunque confronto di idee. Invitata da Raniero a passare un pomeriggio con loro, Muriel si era dunque recata nel piccolo anfiteatro. La conversazione aveva toccato vari argomenti ed era poi caduta sull’arte del vivere. Incuriosito dagli accenni che Muriel ne faceva, l’ho pregata di raccontarmi il più esattamente possibile come si fosse svolta quella conversazione. Muriel ha accettato volentieri il mio invito e, con uno sforzo di memoria, ha riferito che Raniero, come se si trattasse della sceneggiatura di un film, ha cominciato a descrivere tre scene sulle quali voleva portare l’attenzione di Irene.

La prima scena, diceva Raniero, è quella che si potrebbe chiamare ‘La scena del vento’ ed è ambientata in un’isola dell’Egeo come questa nella quale ci troviamo. Un uomo, rivolto verso il mare, osserva con apprensione il vento che soffia forte e, dovendo partire con una piccola nave, si domanda: “Che vento soffia?” Una voce fuori campo risponde: “Borea”. La notizia non rende l’uomo tranquillo ed egli ribatte: “Quando soffierà lo Zefiro? Quando soffierà?”, Quindi è preoccupato, si agita, pensa in ambasce al suo viaggio, desiderando per esso le condizioni di vento migliori. Incapace di star fermo, si dirige verso una spiaggia e qui incontra un uomo dall’aspetto assai intrigante, di età indefinita, piacevole alla vista, che gli dice: “Perché ti affanni per qualcosa su cui non hai alcun potere di decisione? Come spira il vento non lo puoi scegliere tu ma soltanto Eolo, il padrone dei venti. Questa è la natura del vento. Se ti ribellerai a ciò otterrai soltanto irritazione, ansia e perfino disperazione, ma non otterrai di cambiare il vento. Puoi decidere di partire oppure no, ma non puoi decidere altro. Dunque ricorda che bisogna strutturare ottimamente quanto è in nostro esclusivo potere, e usare il resto secondo che è per natura delle cose”.

Irene, a questo punto, ha chiesto a Raniero se il suo racconto facesse riferimento a qualche testo. Raniero ha fatto cenno di sì toccandosi il capo con l’indice della mano destra ed ha affermato che il testo al quale faceva riferimento erano le “Diatribe” di Epitteto. Mentre il suo lavoro lo portava a vivere nei posti più svariati del mondo, Raniero aveva curato per anni la traduzione dal greco antico delle opere di questo filosofo. Ha anche aggiunto che era suo intento quello di accompagnare Irene nella lettura di quest’opera così importante, anzi fondamentale, per la sua vita. Ma appunto accompagnarla, non semplicemente fornirle un lavoro già fatto.

La seconda scena che Raniero ha proposto aveva anch’essa un riferimento ad Epitteto e Irene, se avesse voluto, avrebbe potuto trovarne lo spunto nel I° Capitolo del I° Libro delle ‘Diatribe’. Questa seconda scena si potrebbe chiamare ‘La scena dei condannati a morte’. Siamo nel cortile di una grande caserma, durante una delle guerre mondiali che l’umanità ha vissuto nel secolo scorso. Che si tratti della prima o della seconda, la sostanza non cambia. Il plotone di esecuzione è pronto. I pali, ai quali verranno legati i condannati, sono già sistemati e i condannati attraversano il cortile tra due ali di soldati schierati. È una specie di corteo. C’è il prete che legge le sue litanie. È suo dovere farlo e sembra che lo faccia più per abitudine che per altro, giacché non si nota sul suo volto alcuna partecipazione emotiva. Il primo condannato, con voce disperata, geme ripetutamente: “Ma perché devo morire? Non voglio morire! Non voglio morire! Non rivedrò più mia madre! Non rivedrò più nessuno! Non voglio morire!” Accanto a lui, il secondo condannato tace. Come ad esprimere i suoi pensieri, fuori campo si sente una voce piena di calma che dice: “Bisogna che io muoia. Questo è inevitabile ed io non ho più scelta. Forse bisogna pure che io gema? È forse inevitabile che io mi lamenti? Forse qualcuno impedisce che io rida, che sia di buon umore, che sia sereno? Nessuno! Dunque conviene che io scelga questo atteggiamento”.

Irene era molto colpita dal racconto ed era rimasta senza parole, quando Raniero le propose una terza scena sulla quale avrebbero poi ragionato.

La terza scena potrebbe essere chiamata ‘La scena della tortura’ ed ha il suo spunto nel paragrafo 23 del I° Capitolo del I° Libro delle ‘Diatribe’ di Epitteto. Un uomo viene duramente interrogato allo scopo di strappargli dei segreti che si suppone egli conosca. Siamo in una camera di tortura, ma non ha molta importanza sapere dove, né chi sono i torturatori. Il dialogo si svolge tra il prigioniero e il suo torturatore. Già alla prima domanda che gli viene posta l’uomo risponde: “Non ho nulla da dire”. Ed è così che ha inizio la tortura. “Non hai nulla da dire? Allora ti metterò in catene!”. Ma l’uomo non sussulta e ribatte: “Che dici? Incatenare me? Tu incatenerai la mia gamba, non me”. “Ti butterò in prigione e allora vedremo se continui a non aver nulla da dire!” E il prigioniero obietta: “In prigione? Butterai in prigione il mio corpo, non certo me”. Il torturatore, che ha la sensazione di essere preso in giro ed è sempre più inferocito, urla: “Ti taglio la testa!” Al che l’uomo risponde: “Ti ho forse mai detto che il mio collo non sia mozzabile? Tu puoi decapitarmi, ma guarda che la mia proairesi né tu né Zeus potete togliermela. Io non svelerò alcun segreto giacché questa decisione è in mio esclusivo potere”.

A questo punto Irene sgranò gli occhi e chiese: “Proairesi, ma che cosa significa?” Raniero la guardò con tenerezza e sorridendo le disse: “Dobbiamo davvero prendere in mano il I° Libro delle Diatribe di Epitteto e leggere una citazione. Poi cercherò di fare degli esempi in modo che possa essere chiaro questo concetto che non è di immediata comprensione. Non parliamo poi della sua applicazione alla vita di tutti i giorni perché, alla fin fine, di questo si tratta. Noi usiamo continuamente la proairesi ed essa opera anche nelle situazioni più banali, non soltanto in situazioni drammatiche come quelle che ti ho illustrato nelle tre scene.

La citazione era questa: “Delle altre arti e facoltà, nessuna troverete conoscitiva dei principi generali di se stessa e quindi neppure atta a valutarsi positivamente o negativamente. La grammatica fino a che punto possiede conoscitività di principi generali? Fino a vagliare le lettere. La musica? Fino a vagliare la melodia. Conosce dunque una di esse i principi generali di se stessa? Nient’affatto. Ma quando, se scriverai qualcosa per il compagno, c’è bisogno dei segni che vanno scritti, questi li dirà la grammatica; se però si deve scrivere o no per il compagno, la grammatica non lo dirà. Anche sulle melodie, allo stesso modo la musica: essa non dirà se ora si deve cantare e suonare la cetra oppure né cantare né suonare la cetra” (Epitteto: Diatribe, Libro I°, Cap. I°, paragrafi 1-3)
-Vuoi dire, chiese allora Irene, che la proairesi è la capacità di decidere?
-Non è esattamente così ma quasi, le rispose Raniero sfogliando il suo libro. Vedrai che tutto diverrà più chiaro quando accenneremo alle rappresentazioni. Per ora pensa che la proairesi è una facoltà logica, capace di valutare se stessa e avente la comprensione del proprio uso, cosa che nessun’altra arte o facoltà può fare. La grammatica e la musica possono valutare scritture e melodie ma non dirci quando è il momento di scrivere né quando è il momento di cantare e suonare. Se non è la musica, cos’è che sceglie quando cantare e suonare?
-Non lo so, azzardò Irene. Forse io?
-Chiameremo questa cosa capace di scegliere: ‘proairesi’
-Non capisco ancora, confessò Irene. Ma vorrei subito sapere se parli di qualcosa che hanno tutti gli uomini oppure solo alcuni
-Sì, rispose Raniero. Tutti gli esseri umani hanno la proairesi, ma pochi se ne rendono conto e ancora meno la sanno usare
-Perché accade questo?
-Guarda, continuò Raniero. La tua mente è piena di immagini o, per dire meglio, delle rappresentazioni più svariate. Tu conosci la musica. Sai parlare correttamente l’italiano e il tedesco e quindi ne conosci le grammatiche. Ma c’è qualcosa che collega le tue conoscenze e le usa al momento opportuno. Ecco questa è la proairesi, che per ora definiremo in modo sufficientemente esatto come la facoltà atta ad usare le rappresentazioni
-Ma allora, obiettò Irene, se tutti siamo dotati di proairesi e siamo tutti capaci di usare le rappresentazioni, come mai siamo così diversi, facciamo cose svariate e tra loro spesso opposte?
-C’è uso ed uso della proairesi, precisò Raniero. C’è un uso corretto ed un uso scorretto
-E come faccio a sapere qual è l’uso corretto?
-Quando tu nasci e fino ad un certo tempo della tua adolescenza tu non sai di avere questa facoltà. La proairesi è una facoltà che tu naturalmente acquisisci man mano che acquisisci la capacità di renderti conto che esistono cose che dipendono esclusivamente da te e cose che non dipendono esclusivamente da te. Le cose che dipendono esclusivamente da te sono queste:

  1.    la capacità di ‘impellere’ cioè di spingerti per istinto verso qualcosa o qualcuno e la capacità di ‘repellere’ ossia di allontanarti per istinto da qualcosa o qualcuno
  2.    la capacità di ‘desiderare’ cioè di spingerti razionalmente verso qualcosa o qualcuno e la capacità di ‘avversare’ ossia di allontanarti razionalmente da qualcosa o qualcuno
  3.    la capacità di ‘assentire’ cioè di dire di sì a qualcosa o qualcuno e la capacità di ‘dissentire’ ossia di dire di no a qualcosa o qualcuno

Ti bastano queste cose che hanno la caratteristica di essere esclusivamente tue, in tuo esclusivo potere?
-No, protestò Irene, no! Non mi bastano! Non mi interessa, non mi consola e non mi aiuta avere queste capacità se non posso avere ciò di cui ho bisogno al momento. Dico: una casa confortevole, un lavoro decoroso, una quantità sufficiente di denaro, la soddisfazione che deriva da ciò che faccio, l’amore! Capisci che cosa voglio dire? Quello che mi interessa sapere è come faccio a raggiungere queste cose che possono rendermi felice
-Dunque, replicò con gravità Raniero, tu valuti le cose che hai detto molto di più della tua proairesi, cioè della tua stessa facoltà di valutarle
-Sì, perché tu mi parli di un’astrazione, ossia della facoltà di valutarle, mentre io ti parlo di cose concrete. E bada bene che io non ti parlo solo di me, giacché tutti facciamo così
-Tu consideri un’astrazione la facoltà che ti fa dire quello che stai dicendo adesso? La proairesi è un’astrazione? Interessante! Quanto al resto: sì, lo so. Siete davvero in tanti. E credete, per questo, di avere ragione? Tu puoi credermi o non credermi ma esiste una natura delle cose che non cambia, che è valida per tutti: me, te e gli altri compresi. Con questa soltanto si fanno i conti e se tu non la conosci io non te la rivelerò, perché ci devi arrivare tu stessa piano piano
-Forse mi servirebbero degli esempi, riprese Irene. Non capisco perché ora sei così severo e perché dovrei già sapere qualcosa alla quale mi sto avvicinando proprio ora. Non dovrebbe stupirti che io non sappia, ma se non hai più voglia di parlare con me possiamo interrompere qui… Mi è venuta una curiosità, però. Dimmi: chi decide qual è la natura delle cose quando ci sono opinioni diverse? Per esempio, se io e te avessimo una percezione diversa di una certa realtà, come si decide qual è la natura delle cose? E poi, se io non me ne rendo conto e tu non vuoi rivelarmi come essere consapevole della natura delle cose, come farò?
-Vieni con me, la invitò Raniero, e riguardiamo le tre scene. Nella prima scena, quell’individuo di cosa si lamenta? Si lamenta forse del vento? La sua proairesi ha scelto di partire ma la partenza è contrastata dal vento di Borea. Chiediti cosa accadrebbe se la proairesi di quell’individuo scegliesse di non partire più. Avrebbe ancora lo stesso giudizio sul forte vento? Causa del suo comportamento è dunque il vento, come egli afferma, o non piuttosto il progetto di partire in quelle circostanze? Non ti pare che egli si autocondanni così all’ansia e poi, forse, alla disperazione; e che nessuna delle due risolverà il suo problema?
-Chi è la persona che gli viene incontro sulla spiaggia?-
-Quella persona potrebbe benissimo essere la personificazione della sua proairesi che opera in modo retto e gli suggerisce il giusto comportamento da tenere
-E’ normale che si provi ansia e forse anche disperazione quando le cose che si sono programmate non si realizzano. In questo non c’è nulla di male: capita a tutti!
-Anche se ne dubito molto, io posso immaginare che -di per sé- non siano un male né l’ansia né la disperazione; ma aggiungo che è sicuramente un bene il saper dominare l’ansia e la disperazione
-Certo, ammise Irene, ma a forza di dominarmi diventerò una persona insensibile, una che non prova più nulla!
-Dunque tu tendi a identificare la preziosa capacità di essere felice con la impossibilità di essere felice. Tu, così facendo, pensi di poter essere viva e sensibile soltanto a patto di essere disperata o in perenne ansia! La vita dell’uomo è come un viaggio che può finire in tre città diverse. Quelli che finiscono nella prima città pensano che tutti gli oggetti esterni, ad esempio il lavoro e il denaro in quanto tali, siano di per sé i beni o i mali dell’uomo. Quelli che finiscono nella seconda città pensano che tutto quanto riguarda il corpo, ad esempio l’integrità fisica e la salute in quanto tali, siano di per sé i beni o i mali dell’uomo. Converrai con me che possiamo chiamare tutte queste cose ‘aproairetiche’, giacché si tratta di cose che non sono in nostro esclusivo potere. Chi finisce il suo viaggio nella terza città pensa invece che i retti giudizi sugli oggetti esterni e sul nostro corpo siano i beni dell’animo e quindi le fonti del suo piacere, così come i corrispondenti giudizi non-retti siano i mali dell’animo e le fonti del suo dispiacere. Converrai con me che in questa terza città beni e mali dell’animo sono dunque ‘proairetici’
-Ma tu, Raniero, in quale città hai vissuto?
-Io ho vissuto tutta la mia vita un po’ nella prima e un po’ nella seconda città. Poi una sera, tornato a casa ed entrato nella mia stanza, sono stato colto da un feroce mal di testa. E adesso eccomi qua. Ma dimmi, Irene, che cosa vedi nella seconda scena?
-Una tragedia, rispose Irene, che è la condanna a morte
-Guarda meglio, le suggerì Raniero, e vedrai che oltre la condanna a morte, che è un fatto, le due persone vivono quella situazione in modi opposti. Il primo si autocondanna all’infelicità. Il secondo, invece, fa una scelta diversa liberandosi dell’infelicità. Le circostanze nelle quali si trovano i due condannati a morte sono esattamente identiche. Cos’è che fa la differenza tra di loro?
-A fare la differenza tra di loro è il fatto che, di fronte alle medesime circostanze, il primo usa la sua proairesi in un certo modo mentre il secondo usa la sua proairesi in un modo del tutto differente
-Hai detto benissimo, sorrise Raniero. Il primo rende a chi lo uccide non solo ciò che è di chi lo uccide, ossia il suo corpo; ma gli riconosce anche il potere di renderlo felice o infelice. Felice, se per un caso qualunque l’esecuzione non dovesse più essere eseguita. Infelice, perché egli è disperato, si lamenta e non vuole morire! Il secondo, come il primo, rende a chi lo uccide ciò che è di chi lo uccide, ossia il suo corpo, ma resta padrone della sua proairesi. Tiene cioè per sé, con meravigliosa dignità, ciò che chi lo uccide non potrebbe mai togliergli senza il suo consenso, ossia l’atteggiamento alto, nobile, libero, da tenere in questa situazione!
-Scusa, disse Irene, ma perché dici che il mio corpo è di chi lo uccide? Chi uccide il mio corpo uccide anche la mia proairesi. E lo dico per affermare che corpo e proairesi sono tra loro strettamente uniti, anche se non sono la stessa cosa
-Tieni presente, le rispose Raniero, quanto poco è di per sé libero il corpo. Non puoi infatti negare che il corpo sia schiavo della febbre, del cancro, della dissenteria, di un tiranno, del fuoco, del ferro e insomma di qualunque cosa è più forte di lui. Per il resto è vero che per uccidere la proairesi non si deve necessariamente uccidere il corpo, perché la proairesi può uccidere se stessa quando rinuncia alla sua libertà e si rende infelice
-Intendi dire che liberarsi dall’infelicità significa accettare ciò che ti capita?
-Quando giochi a carte non puoi rifiutarti di accettare le carte che ti capitano. L’abilità sta nel saper fare il miglior uso possibile delle carte che ti sono capitate. Retto è dunque quell’uso della proairesi che ti permette di essere felice nelle circostanze di vita che non sei stato tu a scegliere. Ma su questo avremo modo di tornare. Dimmi, invece: che cosa vedi nella terza scena?
-Vedo, rispose Irene, un uomo coraggioso e coerente con le proprie idee. Certo, avrebbe anche potuto fare un compromesso e salvarsi la vita, che è la cosa più importante…
-Quali sono secondo te, domandò Raniero, i segreti che il torturatore vuole conoscere?-
-Mah…penso che voglia avere informazioni su certi agitatori politici; oppure il nome dei capi di qualche organizzazione clandestina
-Può darsi che sia così. Però, se ci pensi bene, quello che il torturatore vuole conoscere non è tanto il nome dei cospiratori quanto il segreto che permette a quest’uomo di comportarsi in quel modo e di rimanere sereno. La proairesi del torturatore si mette così in una posizione di grave debolezza in quanto fa dipendere la propria, diciamo così, felicità o infelicità dalle risposte del torturato. Felicità, se il torturato rivela quello che sa. Infelicità nel caso contrario. Come un toro cieco, il torturatore è costretto a sevizie sempre più brutali ed a minacce sempre più gravi. Infatti è esattamente il dominio della propria proairesi il segreto del torturato. Ed è un comportamento alla luce del sole; di quel sole che il torturatore si ostina a negare di vedere. Se invece la proairesi dell’uomo si arrendesse ai tormenti corporali essa si condannerebbe, avendo perso il dominio di sé, alla sua stessa morte pur restando l’uomo fisicamente in vita
Era il tramonto. Il sole si tuffava nell’Egeo e la luce indorava ogni cosa. Tutti guardavamo a occidente.
-Scusate, disse Raniero dopo un lungo silenzio, non è venuta fame anche a voi?-
-Proprio così, replicò Irene. Ora sospendiamo la nostra conversazione e andiamo tutti e tre a cenare da Irini.

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DEMONE E PROAIRESI

Ercole

SUL ‘DÉMONE’ DI SOCRATE E LA ‘PROAIRESI’ DI EPITTETO

Nothing in Socrates has been more perplexing to posterity than his daimonion.
Gregory Vlastos

Davvero?

Io ho l’abitudine di parlare in modo molto chiaro e faccio della verità il mio faro. Come mai diventa così arduo capire cosa intendo dire quando parlo del mio démone? Dove sta la difficoltà? Sta in me? Sta in voi che ascoltate? Oppure sta in tutti e due?

Senza avere la pretesa di proporre una rassegna esaustiva delle fonti, accontentiamoci in prima istanza di esaminare quattordici testi nei quali autori diversi parlano -o io stesso sono da loro fatto parlare- espressamente di questo ‘démone’ che mi costò la vita. 
Si tratta di testi che, nel caso di Platone, di Senofonte, di Diogene Laerzio e di Plutarco, un mio amico ha tradotto dal greco; e, nel caso di Apuleio, di una traduzione dal latino (dal mio amico leggermente modificata e abbreviata) reperibile on-line.

1. -PLATONE-
‘APOLOGIA DI SOCRATE’ 24B
L’accusa dice più o meno questo: ‘Socrate è colpevole di corrompere i giovani non legittimando gli dei che la città legittima, bensì altri ed inauditi démoni’. 

2. -PLATONE-
‘APOLOGIA DI SOCRATE’ 31C-D
Potrebbe sembrare assurdo [….] che io non abbia il coraggio di salire alla tribuna e di indirizzarvi pubblicamente dei consigli mentre siete in assemblea. La causa di questo mio comportamento è quella di cui voi mi avete sentito sovente parlare, ossia il fatto che mi succede qualcosa di meravigliosamente divino e che è esattamente ciò che Meleto, scherzandoci sopra, ha scritto nell’accusa. Si tratta di una sorta di voce che io ho cominciato a sentire quand’ero ragazzo e che quando nasce in me sempre mi trattiene, e mai e poi mai mi spinge, a fare qualunque cosa io stia per fare. Questo è il divieto che mi impedisce di impegnarmi negli affari politici.

3. -PLATONE-
‘APOLOGIA DI SOCRATE’ 40A-C
A me, signori giudici, -e chiamandovi giudici vi darei il nome che meritate- è successo qualcosa di stupefacente. Infatti la mia solita voce profetica o démone, in passato era sempre molto frequente e mi si opponeva anche su faccende di pochissimo conto, nel caso io stessi per effettuare un’azione non retta. Adesso, come ben vedete anche voi, mi è accaduto qualcosa che potrebbe essere creduto e legittimato come il sommo dei mali. Ebbene, quel segno divino non mi si è opposto quando uscivo di casa stamattina, non quando salivo qui in tribunale e neppure mi si è opposto in alcun punto del mio discorso, mentre lo pronunciavo. Eppure, nel caso di altri discorsi, sovente esso mi impedì di continuare a parlare nel bel mezzo di essi; mentre nel corso di questa vicenda processuale non mi si è opposto in nessun momento, né in ciò che ho fatto né in ciò che ho detto. Qual è, secondo me, la causa di ciò? Ve lo dico subito: la causa è che quanto m’è avvenuto è certamente un bene. E pertanto non pensano rettamente quanti di noi credono che morire sia un male. Questa è la gran prova che io ne ho avuto: l’usato mio segno mi si sarebbe certamente opposto, se io fossi stato sul punto di effettuare qualcosa di ignobile.

4. -PLATONE-
‘APOLOGIA DI SOCRATE’ 41D
Né le vicende che ora mi riguardano così da vicino sono avvenute per pura casualità. Mi è anzi chiaro che esse sono avvenute poiché per me è ormai meglio morire ed allontanarmi così da ogni fastidio. Questo è il motivo per cui il segno divino in nessun momento me ne ha distolto, ed è per questo che io non provo risentimento verso coloro che hanno votato per la mia condanna a morte e verso i miei accusatori.

5. -PLATONE-
‘FEDRO’ 242B-242D
SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, mio caro, mi s’è manifestato il démone, quel segno ch’è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per fare. E m’è parso d’udir da esso una certa voce, la quale non mi lascia andar via prima d’essermi purificato da un’aberrazione che ho commesso contro la divinità. Dunque io sono un indovino, per la verità non molto abile; ma per quanto concerne me soltanto, come coloro che sanno a malapena scrivere, abile a sufficienza: e perciò comprendo chiaramente qual è l’aberrazione che ho commesso. Com’è davvero profetica l’anima nostra, caro compagno! Infatti qualcosa m’ha perturbato anche prima mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo m’ha preso il timore, come dice Ibico:

‘commettendo un misfatto contro gli dei, d’averne in cambio fama tra gli uomini’.

Ma ora mi son reso conto dell’aberrazione che ho commesso. 
FEDRO: Ma che stai dicendo?
SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che hai portato tu, e terribile è quello che m’hai costretto a fare!
FEDRO: E perché?
SOCRATE: È sciocco e per un certo aspetto pure empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di un discorso del genere?

6. -SENOFONTE-
‘APOLOGIA DI SOCRATE’ § 4
Ma Ermogene riprese dicendogli: “Non vedi quante volte i tribunali Ateniesi, fuorviati dai discorsi, hanno mandato a morte degli innocenti; e quante volte hanno invece assolto dei colpevoli, o perché mossi a compassione dai loro discorsi oppure perché hanno parlato in atteggiamento implorante e con toni supplichevoli?”. “Sì, per Zeus” disse Socrate, “ed io pure ho già messo mano per ben due volte a considerare la faccenda della mia difesa, ma il mio démone vi si oppone”.

7. -SENOFONTE-
‘APOLOGIA DI SOCRATE’ § 24
Quanto a me, invece, perché dovrei avere adesso di me stesso un giudizio peggiore di quello che avevo prima della condanna, visto che non sono stato provato colpevole di alcuna delle azioni per le quali mi intentarono il processo? Nessuno, infatti, ha potuto dimostrare che io, invece di sacrificare a Zeus, ad Era e agli altri dei loro compagni, abbia fatto sacrifici in onore di certi nuovi démoni, né che io abbia giurato o menzionato degli dei diversi. E quanto ai giovani, com’è possibile che io li corrompa, se li indirizzo invece ad abitudini di fortezza e di frugalità?

8. -SENOFONTE-
‘MEMORABILI’ I,1
‘Socrate è colpevole di non legittimare gli dei che la città legittima poiché introduce nuovi ed inauditi démoni. Egli è inoltre colpevole di corruzione dei giovani’.
                                                                                                                                
9. -SENOFONTE-
‘MEMORABILI’ I, I, 2-4
Tutti erano al corrente dell’affermazione di Socrate, secondo la quale un démone gli segnalava il da farsi. Ed è soprattutto su questa base che, io credo, egli sia stato accusato di introdurre nuovi ed inauditi démoni. In realtà egli nulla introduceva di più nuovo ed inaudito di quanto introducessero gli altri, [….] eccetto che mentre la maggior parte degli uomini dicono di essere trattenuti dal fare qualcosa e di esservi spinti dal volo degli uccelli o da incontri casuali, Socrate parlava apertamente del segno che conosceva, affermando che era il suo démone a segnalargli il da farsi; consigliando anche a molti suoi compagni di fare oppure non fare ciò che segnalava loro il démone. 

10. -SENOFONTE-
‘MEMORABILI’ IV, VIII, 1-5
Socrate soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo ciò che dovesse e non dovesse fare. Ora, se qualcuno crede, a causa della sua condanna a morte, che Socrate sia colpevole di essersi ingannato a proposito di tale démone; ebbene costui rifletta in primo luogo sul fatto che egli era allora già tanto avanti negli anni che, se pur non subito, sarebbe di certo morto non molto tempo dopo. In secondo luogo, rifletta sul fatto che in questo modo Socrate si lasciò alle spalle la parte più penosa e molesta della vita, quella nel cui corso in tutti diminuisce la capacità intellettiva; e invece di questo declino, continuando a sfoggiare tutto il vigore dell’animo suo, egli si guadagnò la gloria parlando al processo con il massimo di verità, di libertà e di giustizia di tutti gli uomini; e sopportando la condanna a morte con il massimo di mitezza e di virilità; giacché è ammesso che nessuno mai degli uomini di cui v’è memoria abbia sopportato la morte in modo più nobile. Dopo il verdetto, gli toccarono comunque di necessità altri trenta giorni di vita, poiché quello era il mese delle Delie, feste nel corso le quali la legge non permetteva l’esecuzione di alcuna condanna a morte fino a che la sacra ambasceria non fosse tornata da Delo. Durante questo tempo tutti i suoi amici intimi ebbero modo di vedere che Socrate continuava a vivere le giornate in modo per nulla differente dal suo solito; seppure già in precedenza Socrate era tra tutti gli uomini oggetto di speciale meraviglia per il suo modo di vivere sempre di buon umore e con semplicità. Come si potrebbe morire più nobilmente di così? Quale morte potrebbe essere più nobile di quella di morire il più nobilmente possibile? Quale morte potrebbe essere più felice di quella più nobile possibile? E quale morte potrebbe essere più cara agli dei della morte più felice possibile? 
Riferirò ora quello che di Socrate sentii dire da Ermogene figlio di Ipponico. Raccontava dunque Ermogene di avere udito Socrate, quando ormai Meleto aveva scritto e presentato l’accusa, impegnarsi in ogni sorta di discussioni invece di parlare del processo, e di avergli detto che sarebbe stato il caso che egli considerare cosa dire in sua difesa. A questa domanda Socrate dapprima rispose: “Non ti sembra che la mia vita intera sia stata una preparazione alla mia difesa?”. E quando Ermogene gli chiese: “In che senso?”, Socrate gli spiegò di non essere mai addivenuto a far altro che esaminare a fondo ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, effettuando le cose giuste ed astenendosi dalle ingiustizie, attività che egli legittimava come in assoluto la miglior preparazione possibile per la propria difesa. Allora Ermogene riprese dicendogli: “Non vedi, o Socrate, che i giudici Ateniesi, fuorviati dai discorsi, hanno mandato a morte molti innocenti, e hanno invece assolto molti colpevoli?” “Sì, per Zeus, o Ermogene” gli rispose Socrate, “ma quando io ho messo mano a considerare la faccenda della mia difesa davanti ai giudici, il mio démone vi si è opposto”.

11. -DIOGENE LAERZIO-
‘VITE DEI FILOSOFI’ LIBRO II, § 32
<Socrate> soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo quel che gli sarebbe accaduto; che l’essere da esso ben comandati, anche se per poco tempo, non è piccola cosa; e di nulla sapere se non sapere che c’è questo démone. 

12. -PLUTARCO-
‘DE GENIO SOCRATIS’ 580B-589E
[580B] Teocrito prese allora la parola e disse: “E dunque, caro Galaxidoro? Meleto ha persuaso anche te che Socrate non teneva in alcun conto gli dei e i culti loro dovuti? Proprio di questo, infatti, egli lo accusò davanti agli Ateniesi”. [580C] “Assolutamente no!” rispose Galaxidoro “Socrate non disdegnò affatto gli dei e i culti loro dovuti. Egli piuttosto prese dalle mani di Pitagora e dei suoi seguaci una filosofia che era diventata piena zeppa di fantasticherie, di favole e di superstizione; e da quelle di Empedocle una filosofia completamente in preda ai furori Dionisiaci, e la abituò a trarre ispirazione dalle faccende quotidiane e reali e ad andare in cerca della verità con un sobrio modo di ragionare”. “Va bene”, disse Teocrito, “e il démone di Socrate, caro mio, come lo chiamiamo? Una falsità? Nessuna delle cose che si dicono di Pitagora in riferimento alla mantica mi è infatti sembrata così grandiosa e divina; giacché qual è l’Atena che Omero ha costruito per Odisseo e gli ha posto accanto in tutti i suoi travagli, esattamente tale sembra la vista di cui il démone dotò Socrate fin da ragazzo, una vista che gli fa da guida nel cammino, la quale unica [580D]

‘marciando innanzi a lui, gli fa luce’

in faccende dubbie ed alla cui soluzione l’umana saggezza non arriva col ragionamento, e circa le quali il démone parlò spesso all’unisono con lui, dando un carattere divinamente ispirato alle sue proairesi. [….] Una volta -ero anch’io presente- capitò che Socrate salisse [….] verso il Simbolo e la casa di Andocide discorrendo scherzosamente con Eutifrone, quando tutt’a un tratto si fermò, tacque e rimase per abbastanza tempo pensieroso e chiuso in se stesso. [580E] Poi cambiò direzione di marcia e prese la strada dei Cassai, richiamando indietro i compagni che ormai erano più avanti e ripetendo di essere appena stato visitato dal suo démone. La maggior parte della compagnia cambiò strada con lui; ed io con loro, tenendomi vicino ad Eutifrone. Alcuni giovanotti, invece, con l’intenzione di mettere alla prova e di screditare il démone di Socrate, proseguirono la loro strada in linea retta portando con loro il flautista Carillo, il quale era giunto con me ad Atene per rendere visita a Cebete. Orbene, mentre costoro camminano lungo la via degli Statuari, presso i Tribunali ecco che si fa loro incontro un branco di maiali tutti coperti di brago, [580F] un branco così fitto che gli animali si spintonavano l’un l’altro; e non essendovi modo di scansarli, essi, sbattendo contro i giovanotti, ne mandarono alcuni a gambe all’aria e altri li insudiciarono dalla testa ai piedi. Anche Carillo tornò a casa con le gambe e il mantello pieni di fango, sicché io e lui sempre ci ricordiamo del démone di Socrate con una risata ma allo stesso tempo con stupore, considerando che la divinità non lo abbandonava né lo trascurava in qualunque luogo egli si trovasse”. “Credi tu dunque, o Teocrito”, disse Galaxidoro, “che il démone di Socrate fosse dotato di un qualche peculiare e straordinario potere, e che Socrate, essendone ormai certo per esperienza, non utilizzasse una qualche risorsa della comune mantica per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra in fatti dubbi ed inintelligibili per via di ragione?” [….] [581A] [….] Prese allora la parola Polimnide, [padre di Epaminonda e di Cafisia] e disse: “Io ho sentito dire da uno della scuola di Megara, il quale lo aveva sentito dire da Terpsione [un compagno di Socrate], che il démone di Socrate era uno starnuto, fosse esso il suo oppure quello di un altro. [581B] Infatti quando una persona che stava alla sua destra, sia dietro di lui sia davanti a lui, starnutiva, questo gli dava l’impulso ad effettuare l’azione; se invece la persona stava alla sua sinistra, egli si tratteneva dal fare l’azione. Circa poi i suoi propri starnuti, lo starnuto che avveniva mentre egli era sul punto di fare un’azione rafforzava in lui l’impulso a compierla, mentre lo starnuto che avveniva mentre egli stava già compiendo un’azione gliela faceva sospendere e la impediva. E tuttavia mi stupisce che se utilizzava uno starnuto, Socrate dicesse invece ai suoi compagni che ciò che gli intimava oppure gli vietava di fare qualcosa fosse un démone. [….] [581C] [581D] [….] Sento poi anche dire che egli predisse ad alcuni suoi amici la disastrosa rovina delle forze Ateniesi in Sicilia, [….] [581E] e che la ritirata di Socrate, Alcibiade e Lachete verso il monte Parnete dopo la sconfitta Ateniese a Delio fu fatta in obbedienza al démone di Socrate, [….] e credo che pure Simmia ne abbia sentito parlare”. “Ne ho sentito parlare parecchie volte e da molte persone”, disse Simmia, “perché queste vicende erano ad Atene sulla bocca di tutti e si parlò non poco del démone di Socrate”. [….] [581F] [582A] [582B] [….] “Vengo adesso a te, o Polimnide, <disse Galaxidoro> che ti stupisci perché Socrate, un uomo che grazie alla sua assenza di vanità e alla sua semplicità ha dato il massimo contributo alla umanizzazione della filosofia, [582C] ha chiamato quello che gli segnalava il da farsi non ‘starnuto’ o ‘presagio’ bensì, con un termine da tragedia, ‘démone’. Io mi stupirei piuttosto del contrario, ossia che un uomo come Socrate, il quale è una cima nel dialogare e nel padroneggiare l’uso delle parole, dicesse che a segnalargli il da farsi è lo ‘starnuto’ e non il ‘démone’. È come se uno dicesse di essere stato ferito da una freccia e non da un arciere con una freccia, oppure che il peso di qualcosa è stato misurato dalla bilancia e non da chi pesa con la bilancia. L’opera, insomma, non è dell’organo che la compie, bensì di chi utilizza l’organo per compiere quell’opera; ovvero un organo è il segno di cui si serve chi segnala”. [….] [588B] [….] Essi erano ormai andati assai innanzi in questa discussione non banale, [….] quando si posero il problema di quale fosse l’essenza e il potere del cosiddetto démone di Socrate. [588C] [….] Però <Simmia> in persona affermava che, interrogatolo una volta su questa faccenda, non ottenne da Socrate alcuna risposta, ragion per cui non gli propose più la domanda. Simmia diceva tuttavia che in sua presenza Socrate aveva spesso affermato di ritenere dei cialtroni quanti sostenevano di avere un contatto visivo con realtà divine, mentre mostrava grande attenzione ed interrogava con serietà quanti affermavano di sentire delle voci. “Laonde a noi avvenne di intendere”, continuava Simmia, “considerando in privato tra di noi la cosa, che il démone di Socrate [588D] forse era non una visione bensì la percezione di una certa voce oppure l’intellezione di un discorso che riusciva a raggiungerlo in qualche strano modo; così come avviene anche nel sonno, durante il quale non ci sono voci, e però se si ha l’impressione o il pensiero di assistere a dei discorsi, si crede di sentire della gente parlare. In alcuni uomini, e sono coloro i quali sentono meglio le voci mentre dormono, siffatta percezione di voci compare veramente nel sogno, a causa dello stato di quiete e di calma nel quale si trova il loro corpo. Da svegli, invece, l’animo di costoro porge scarso ascolto alle potenze superiori, poiché essi si trovano affogati nel trambusto delle passioni e portati qua e là da vari bisogni, sicché diventano incapaci di ascoltare e di indirizzare l’intelletto a tali manifestazioni. Invece Socrate, poiché aveva una mente pura e capace di dominare le passioni, [588E] essendo mescolato al corpo se non per via delle semplici necessità fisiologiche e quindi ben poco, era sensibilissimo e delicato così da rispondere celermente allo stimolo che lo raggiungeva. Questo stimolo lo si farebbe somigliare non ad un parlato ma al discorso di un démone che comunicava con lui senza voce attraverso la manifestazione di ciò che pensava. [….] [589D] [….] Così i messaggi dei démoni attraversano tutti gli uomini, ma trovano eco soltanto in quelli abituati a non turbarsi e con l’animo in bonaccia, dunque proprio coloro che noi chiamiamo uomini divini e demonici. In maggioranza gli uomini credono però che il démone ispiri divinamente le persone soltanto quando dormono, mentre ritengono stupefacente ed incredibile che esse siano similmente mosse quando sono sveglie ed immerse nei loro pensieri. [….] [589E] <Ciò accade perché> gli uomini non riescono a scorgerne la causa, che è rappresentata dall’interiore mancanza di sintonia e dallo stato di sconcerto nel quale si trovano <da svegli>; tutte cose dalle quali Socrate, il nostro compagno, era invece lontano, come profetizzò la risposta che l’oracolo diede a suo padre quando Socrate era ancora ragazzo. L’oracolo gli ingiunse infatti di lasciar effettuare al ragazzo qualunque cosa gli venisse in mente, di non forzare né deviare ma di lasciare piena libertà ai suoi impulsi, innalzando in favore del figlio auspici a Zeus protettore dell’Agorà e alle Muse ma senza impicciarsi d’altro a suo riguardo, [589E] giacché egli portava per certo in se stesso un duce per la vita migliore di miriadi di maestri e di pedagoghi. È questo, o Fidolao, il pensiero che noi abbiamo in mente a proposito del démone di Socrate, sia quand’egli era vivo sia ora che è morto, mentre non apprezziamo coloro che mettono di mezzo ‘presagi’ o ‘starnuti’ o qualunque altra cosa del genere”. 

13. -APULEIO-
‘DE DEO SOCRATIS’ § 16-24
Di questa più alta schiera di démoni ne sono assegnati ai singoli individui alcuni che, invisibili a chiunque altro sono sempre presenti in qualità di giudici non soltanto delle loro azioni ma anche dei loro pensieri. E quando si deve ripercorrere una vita che si sta per concludere, questo démone ci prende subito in consegna e, quasi fossimo suoi prigionieri, ci trascina in tribunale e qui ci assiste mentre peroriamo la nostra causa. E se nel farlo dichiariamo il falso, esso ci redarguisce; se affermiamo il vero, garantisce per noi, mentre in base anche alla sua testimonianza viene poi emessa la sentenza. Al cospetto di un tale custode l’uomo non può avere alcun segreto; poiché il démone tutto ispeziona e tutto comprende, albergando nei recessi più intimi della nostra mente. Questo démone è custode speciale, sorvegliante personale, protettore domestico, amministratore esclusivo, conoscitore dell’intimo, osservatore instancabile, giudice irremovibile, testimone inseparabile, censore dei viziosi e sostenitore dei virtuosi. E quando sia considerato con rispetto, riconosciuto con puntualità e venerato con solennità, così come con lealtà e integrità morale lo ha venerato Socrate, allora sarà lungimirante nelle nostre incertezze, premonitore fra i nostri dubbi, rassicurante di fronte a quanto ci minaccia e soccorritore nei nostri stenti. C’è dunque da meravigliarsi che Socrate abbia riconosciuto e venerato questo segno divino? 
Perché il démone si mostrava pronto ad osteggiare certi propositi di Socrate? Perché Socrate, com’è naturale per un uomo di sublime perfezione non aveva mai bisogno di chi lo incoraggiasse ma piuttosto di chi lo tenesse a freno; così che, preavvisato, evitasse di intraprendere azioni che con maggior sicurezza avrebbe potuto intraprendere più tardi o per altra via. In circostanze simili egli affermava di udire una certa qual voce di origine divina, di modo che non si pensasse che egli aveva seguito l’avviso di starnuti o del volo di uccelli o di voci casuali, e pensato con le orecchie invece che con la testa. 
Socrate sosteneva che a giungergli non era una semplice voce, ma una ‘certa’ voce. Da tale piccola aggiunta si capisce subito che egli non intendeva indicare una voce consueta né di origine umana. Se così fosse, infatti, l’aggettivo ‘certa’ sarebbe stato inutile, ed anzi avrebbe detto ‘una voce’ o ‘la voce di qualcuno’. Io sono peraltro convinto che egli avvertisse i segnali del suo démone non soltanto con l’udito ma anche con la vista, poiché molte volte riferiva non trattarsi di una voce ma di un segnale divino, che potrebbe essere anche stato un’apparizione diretta del démone, che soltanto Socrate era in grado di distinguere, come l’Achille di Omero con Atena. 
Ritengo che la maggior parte di voi esiti a credere a queste mie parole e che si meravigli non poco nell’udire di un’apparizione diretta del démone. Ma a parte i Pitagorici, i quali si meraviglierebbero invece del contrario, una fonte piuttosto attendibile al riguardo è rappresentata da Aristotele. Infatti, se come lui afferma, a qualunque individuo può toccare il privilegio di ammirare un’immagine divina, perché ciò non potrebbe essere accaduto a Socrate? Nulla è più somigliante e più gradito alla divinità di un uomo dall’animo perfettamente virtuoso. 
Perché anche noi non ci facciamo animo e, sull’esempio di Socrate, non ci adoperiamo attraverso lo studio della filosofia a stabilire un rapporto paritario con gli dei? Se si vuole avere una vista più acuta, si deve aver cura degli occhi; se si vuol correre veloci, bisogna prendersi cura dei piedi; se si vuol praticare efficacemente il pugilato, si devono rafforzare le braccia. A questi fatti, benché tutti li capiscano senza difficoltà, non mi stanco mai di ripensare fra me e me, chiedendomi appunto perché gli uomini non cerchino di perfezionare anche il loro animo. Quest’arte di saper vivere è parimenti necessaria a tutti senza eccezione alcuna, a differenza dell’arte di dipingere o di suonare la cetra. Queste ultime sono capacità che qualsiasi uomo virtuoso potrebbe tranquillamente ignorare senza per questo provocare alcun guasto, corruzione o ignominia al proprio animo. Io non so suonare il flauto come Ismenia né dipingere come Apelle, ma non mi vergogno di non essere un grande flautista né un grande pittore. Tuttavia prova a dire: “Non sono capace di vivere bene come visse Socrate, e non mi vergogno di non avere tale capacità”. Non ammetterai mai una cosa simile. Ma soprattutto è strano che proprio quelle capacità che più delle altre si vuol mostrare di possedere, nondimeno si trascura di acquisirle, denigrandone l’apprendimento come se si trattasse di ignoranza. Nelle altre arti si investono con munificenza molte ricchezze, ma nulla su se stessi, intendo dire nel culto del proprio démone, che altro non è che il sacro rituale della filosofia. Si osservi il modo in cui le persone ricche di denaro profondono i loro patrimoni: ville edificate per rivaleggiare con città, case arredate alla stregua di templi, servitù composte da maree di schiavi, suppellettili sfarzose. Tutto abbondante, tutto opulento ad eccezione del padrone. Lui soltanto è misero, indigente e povero, perché arde in lui la sete della vera beatitudine, ossia di una vita guidata dalla saggezza. E nemmeno sa che anche i ricchi devono essere passati sotto esame, proprio come si fa quando si acquistano i cavalli. 
Ebbene, anche nell’esaminare gli esseri umani non si devono valutare qualità estranee ed accidentali, ma l’uomo in sé, come se fosse il mio buon Socrate. E definisco estranei e accidentali tutti quei prodotti che derivano dai genitori o che sono stati elargiti dalla sorte. Negli elogi a Socrate, io non metto di mezzo nessuno di tali accidenti: niente illustri natali, niente ricchezze invidiabili. Tanti sono i beni in tal senso estranei. Se dici di uno: “È ricco di denaro”, stai lodando i suoi genitori o la sua buona sorte: ma io non mi fido della fortuna. Se dici: “È sano”: prima o poi sarà incalzato dai malanni. Se dici: “È agile”: da vecchio sarà pressoché immobile. Se dici: “È avvenente”: aspetta un poco e non lo sarà più. Se dici: “Ma per quanto è concesso a un uomo, è sapiente e pratica la virtù”: ecco che ogni tanto fai un complimento a questo benedetto uomo! Perché questa è la dote che non si eredita dal padre, non dipende dal caso, non dura un solo anno per elezione, non è effimera a seconda delle condizioni fisiche né mutevole col crescere dell’età. Di tutti questi privilegi godeva il mio amico Socrate e pertanto non gli interessava godere dei rimanenti. Nell’Odissea, Omero non ci spiega nulla che non si accordi con ciò; poiché volle che virtù -da lui poeticamente chiamata Atena- fosse sempre al fianco di Odisseo. Ebbene, con questa compagna accanto Odisseo penetrò nell’antro del Ciclope e ne uscì vivo; vide i buoi del Sole, ma se astenne; discese agli Inferi e ne risalì; costeggiò Scilla senza farsene rapire; fu accerchiato da Cariddi, ma si liberò dall’accerchiamento; bevve la pozione di Circe, ma non ne fu trasformato in un maiale; raggiunse i Lotofagi, ma non rimase in mezzo a loro; udì il canto delle Sirene, ma non si avvicinò ad esse.

14. -EPITTETO-
‘DIATRIBE’ I,14,12
E nondimeno <Zeus>, come delegato pose accanto a ciascuno il proprio démone e glielo trasmise da custodire: un démone insonne e non ingannabile. 
‘DIATRIBE’ I,14,14
….ricordate di non dire mai che siete soli. Giacché non lo siete. Zeus è al vostro interno e il vostro démone lo è. Che bisogno hanno questi di luce, per scorgere cosa fate?
‘DIATRIBE’ IV,1,109
Gli indolenti ed i vili <Zeus> li vedrà, non spiacevolmente, lasciati addietro dalla sagra; giacché, da astanti, non se la passavano come in una festa né assolvevano l’ufficio loro confacente ma si dolevano, biasimavano il loro démone, la fortuna, i sodali; incoscienti di quanto ottennero e delle facoltà stesse che hanno ricevuto per le contrarietà, della magnanimità, della generosità, della virilità, della stessa ora cercata libertà.
‘DIATRIBE’ I,22,16
Perché dunque facciamo templi, perché facciamo simulacri a Zeus come a cattivi démoni, come alla Febbre? 
‘DIATRIBE’ III,13,15
Quanto v’era in te di fuoco se ne va in fuoco; quant’era terra, in terra; quanto di pneuma in pneuma e quanto d’acqua, in acqua. Alcun Ade non v’è, non v’è Acheronte né Cocito né Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dei e di démoni. 
‘DIATRIBE’ III,1,19
Socrate persuadeva ad esser solleciti di se stessi tutti coloro che avvicinava? Neppure la millesima parte. Ma ugualmente, siccome fu assegnato a questo posizionamento dal démone, come dice lui, non si eclissò più.
‘DIATRIBE’ III,1,37
“Orsù, ubbidiamo dunque a Zeus, per non essere oggetti del suo disgusto”. No; ma se un corvo gracchiando ti significherà qualcosa, non è il corvo a significare ma Dio attraverso di lui. E se significherà qualcosa attraverso la voce di un uomo, tu farai finta che sia l’uomo a dirti questo, per ignorare la facoltà del démone che significa agli uni così ed agli altri cosà ma che, sulle questioni più grandi e dominanti, significa attraverso il messaggero più bello?
‘DIATRIBE’ III,22,53
Consigliati nel modo più solerte, riconosci te stesso, interroga il démone, non mettere mano a questo prescindendo dal divino. Giacché se lo consiglierà, sappi che dispone di farti diventare grande o prendere molte botte.
‘DIATRIBE’ IV,4,39
Una sola è la strada per la serenità (e questo giudizio ti sia a portata di mano all’alba, di giorno e di notte): la diserzione da ciò che è aproairetico, il non ritenere nostro peculiare nulla di esso, il trasmettere tutto al démone, alla ventura; il farne delegati quelli che anche Zeus ha fatto delegati.

Dove faccio un po’ di storia della filosofia e accenno alla ‘proairesi’ di Epitteto

Bisogna che io vi dica la verità. Non ho mai letto una sola pagina dei libri di Gregory Vlastos e quindi ignoro del tutto quale interpretazione egli dia del mio démone. Fatta questa confessione, mi farò coraggio e proverò a dire alla mia maniera poche e semplici cose. 
La principale è questa: quanto avrei desiderato vivere cinquecento anni più tardi ed essere un giovane Stoico allievo di Epitteto, godere della sua amicizia, conoscere le opere di Crisippo e trovare le risposte che cercavo alle domande che mi ponevo! Ai miei tempi nessuno usava le parole ‘proairesi’‘natura delle cose’‘diairesi’‘controdiairesi’‘antidiairesi’, ‘comprensione dell’uso delle rappresentazioni’ e soprattutto entità ‘proairetiche’ ed ‘aproairetiche’. Col senno di poi, mi è chiaro che quello che io chiamavo ‘démone’, e che mi è costato la vita, conteneva in germe tutte queste realtà. Proprio io, che facevo dell’arte della maieutica il mio orgoglio principale, non sono riuscito a far partorire me stesso e a dare alla luce il mio vero pensiero. Dovete però pensare che avevo dinanzi a me uomini del calibro di Gorgia di Leontini, di Prodico di Ceo, di Ippia di Elide. Costoro si dichiaravano capaci di trasmettere un sapere che permette ai giovani di raggiungere quell’eccellenza che conviene a chi è uomo e cittadino, e si facevano pagare per questo. Io non possedevo questo sapere; tant’è vero che il facoltosissimo Callia, interrogato una volta in proposito proprio da me, affermò che avrebbe affidato l’educazione dei suoi due figli non a me, ma ad Eveno di Paro. Queste erano tutte persone dotate della strabiliante capacità di fare di qualunque teoria un ‘modello culturale’ alla moda, di saperlo proporre e dimostrare come vero. Ad Atene, dove io vivevo, non s’era mai vista una cosa del genere, e tutti rimanemmo affascinati dalla loro abilità di aprire nuovi ed inesplorati orizzonti. 
Io comunque mi accorsi ben presto, e cercai di far notare anche ad altri, che i modelli culturali che quei Sofisti proponevano erano incompatibili uno con l’altro, e che trovavo né lecito né educativo fare l’elogio di qualcosa e del suo esatto contrario. Io e qualche mio amico come Antistene, più giovane di me di circa venticinque anni, cominciammo a nutrire seri dubbi sul valore di ciò che sentivamo lodare da quasi tutti gli altri. Spesso era con noi ed assisteva ai nostri discorsi anche un giovanotto di buona famiglia, un ragazzo ben piantato e dalle solide spalle, più giovane di me di una quarantina d’anni, il quale mi guardava davvero come un figlio può guardare un padre. A lui però, vista la differenza di età, io non feci mai gran caso. Lo chiamavano Platone. 
Il punto cruciale delle nostre discussioni divenne naturalmente proprio questo: per confutare la validità dei modelli culturali che i Sofisti proponevano era indispensabile trovare in campo morale un riferimento assoluto e invariante, valido come guida per tutti gli uomini. Certo esso non poteva più essere rappresentato dalla Cultura sulla quale ci eravamo formati e che era incarnata da Omero, dai Miti e dai versi degli antichi Poeti. Ma esisteva questo riferimento? I Sofisti ovviamente ne negavano l’esistenza; e nessuno di noi, nonostante i ripetuti sforzi che facemmo, lo trovò. 
La mia ricerca sfociò nell’unica certezza di possedere entro di me un ‘démone’ che mi guidava alle scelte giuste, e nella sicurezza che tutta la mia presunta sapienza consistesse in questo unico sapere. Ma non trovai mai il modo di articolare né di inserire ciò in un contesto che non fosse la mia esperienza personale. Quando poi mi permisi di affermare che quanto valeva per me valeva anche per tutti gli Ateniesi, ebbene la mia fine risultò segnata. Dopo la mia morte, Antistene fece del mio démone la parola d’ordine della scuola Cinica, e si appellò ad esso per sostenere che la virtù può essere insegnata ed appresa da chiunque, e per invocare il ritorno alla vita frugale, all’utilizzazione di cibi non cotti e già naturalmente pronti per il consumo, al vestirsi il più semplicemente e sobriamente possibile, allo spregio della ricchezza, della gloria mondana e della nobiltà di natali. Non era gran che ma neppure era poco, comunque nulla che fosse capace di scuotere la solidità del relativismo dei Sofisti. Ma almeno andava nella direzione che anche a me era parsa corretta, ossia quella che cercava il riferimento assoluto e invariante dentro l’uomo. Chi andò invece in direzione completamente opposta e cercò quel riferimento fuori dall’uomo, fu il giovane Platone. Quel ragazzo è stato una mia sfortuna postuma, poiché mi ha fatto dire ogni sorta di cose che io non ho mai pensato e, per mettere d’accordo gli uomini, ha finito col renderli tutti schiavi al servizio di una creatura di sua invenzione, extraterrestre, eterna, immutabile, che ha chiamato ‘idea’. Si può chiamare successo il suo? Anche l’assassino ha successo quando riesce ad uccidere la vittima designata, ma io mi rifiuto di chiamare successo qualcosa che nulla ha a che fare con la verità e che ha aperto la strada ai professionisti della menzogna, ossia ai fondatori di Religioni che definiscono brutalmente ‘rivelate’ le loro dottrine. 
Vorrei da ultimo tornare brevemente allo Stoicismo e ad Epitteto. Perché allo Stoicismo? Perché soltanto i maestri dell’Antica Stoa hanno saputo trovare la verità da me cercata invano: la verità non sul vivere, ma per vivere bene: cosa della quale vi hanno dato la chiave. Perché ad Epitteto? Perché Epitteto ha formalizzato in modo definitivo quella verità. E io sono qui a testimoniare che il mio démone è l’anticipazione di quella che Epitteto ha poi chiamato ‘proairesi’. Se tra di essi vi è differenza, mi pare che la principale sia questa: che il mio ‘dèmone’ ha una coloritura molto più, se non quasi esclusivamente, aproairetica che proairetica: tant’è vero che ha potuto essere interpretato alla stregua di uno ‘starnuto’. Comunque sia io gradirei molto essere ricordato non come il padre del ‘So di non sapere nulla’ bensì come l’avo del ‘Io sono proairesi’.

Dove parla il mio démone

Lasciamo che a mostrare i casi di obbedienza e di disobbedienza al démone, e dunque a parlare del mio ‘démone’, siano autori antichi e moderni, noti e meno noti, a me contemporanei e non contemporanei, presso i quali ammettiamo che io mi sia recato portando con me le loro opere migliori. Non si tratta che di pochi esempi, ai quali non associo alcun commento: scelta di cui chiunque, a questo punto, può pienamente comprendere il significato. 

Ecco cosa ne riferisce Omero:
-OMERO-
‘ILIADE’

Disse così; al Pelide venne dolore, il suo cuore
nel petto peloso fu incerto tra due:
se, sfilando la daga acuta via dalla coscia,
facesse alzare gli altri, ammazzasse l’Atride,
o se calmasse l’ira e contenesse il cuore.
E mentre questo agitava nell’animo e in cuore
e sfilava dal fodero la grande spada, venne Atena
dal cielo; l’inviò la dea Era braccio bianco,
amando ugualmente di cuore ambedue e avendone cura;
gli stette dietro, per la chioma bionda prese il Pelide,
a lui solo visibile; degli altri nessuno la vide.
Restò senza fiato Achille, si volse, conobbe subito
Pallade Atena: terribilmente gli lampeggiarono gli occhi
e volgendosi a lei parlò parole fugaci:
“Perché sei venuta, figlia di Zeus Egìoco,
forse a veder la violenza d’Agamennone Atride?
Ma io ti dichiaro, e so che questo avrà compimento:
per i suoi atti arroganti perderà presto la vita!”
E gli parlò la dea Atena occhio azzurro:
“Io venni a calmare la tua ira, se tu mi obbedisci,
dal cielo: m’inviò la dea Era braccio bianco,
ch’entrambi ugualmente ama di cuore e cura.
Su, smetti il litigio, non tirar con la mano la spada:
ma ingiuria con parole, dicendo come sarà:
così ti dico infatti, e questo avrà compimento:
tre volte tanto splendidi doni a te s’offriranno un giorno
per questa violenza; trattieniti, dunque, e obbedisci”.
E disse ricambiandola Achille piede rapido:
“Bisogna una vostra parola, o dea, rispettarla,
anche chi molto è irato in cuore; così è meglio,
chi obbedisce agli dei, molto essi l’ascoltano”.
Così sull’elsa d’argento trattenne la mano pesante,
spinse indietro nel fodero la grande spada, non disobbedì
alla parola di Atena; ella verso l’Olimpo se n’era andata,
verso la casa di Zeus Egìoco, con gli altri numi.

Ecco cosa ne riferisce Erodoto:
-ERODOTO-
‘Storie’

Candaule, re della Lidia, era innamorato della sua sposa e, innamorato com’era, riteneva di possedere la donna di molto più bella di tutte. Poiché aveva questa opinione e fra le guardie del corpo Gige, figlio di Daskylos, era a lui particolarmente caro, Candaule gli confidava anche i più importanti dei suoi affari e gli parlò perfino della bellezza della moglie, lodandola oltre misura. Un giorno il re fece a Gige questo discorso: ”Gige, io penso che tu non mi presti fede quando ti parlo della bellezza della mia sposa. Fa dunque in modo di vederla nuda”. Al vederla nuda. Al che Gige replicò con voce concitata: “Signore, qual mai insano discorso fai tu, invitandomi a guardare la mia sovrana nuda? Con lo spogliarsi delle vesti la donna si spoglia anche del pudore. Da molto tempo gli uomini hanno trovato buoni precetti dai quali bisogna imparare, ed uno di essi è questo: che ognuno abbia cura delle cose sue. Io sono persuaso che la regina sia la più bella di tutte le donne e ti prego di non chiedermi cose che sono contro ogni legge”. Egli dunque così dicendo si schermiva, temendo gliene potesse venire qualche male. Ma Candaule rispose: “Rassicurati, Gige, e non temere né di me, che io ti faccia qualche proposta per metterti alla prova; né di mia moglie, che tu riceva da lei qualche danno; perché farò in modo che essa non sappia neppure di essere stata vista da te. Io ti collocherò nella camera in cui dormiamo, dietro la porta lasciata aperta. Dopo che io sarò entrato, subito anche la mia sposa verrà a coricarsi. Accanto all’ingresso c’è uno sgabello: su questo essa riporrà le vesti, spogliandosene ad una ad una, e con tutta calma tu potrai contemplarla. Poi, quando ella si dirigerà dallo sgabello al letto e tu verrai a trovarti alle sua spalle, fai attenzione allora di non essere visto mentre esci dalla porta”. Così Gige, dal momento che non poteva esimersi, era pronto ad ubbidire. Candaule, quando gli parve che fosse l’ora di coricarsi, lo condusse nella camera, e poi subito comparve anche la moglie e mentre essa, entrata, deponeva gli abiti, Gige la osservava. Quando poi si trovò alle spalle della donna che si dirigeva verso il letto, di soppiatto uscì fuori. La donna lo scorse mentre usciva ma, avendo compreso ciò che il marito aveva fatto, non gridò di vergogna e fece finta di non essersi accorta di nulla, avendo in mente di vendicarsi di Candaule. Presso i Lidi infatti, come in genere anche presso gli altri barbari, è causa di grande disonore, anche per un uomo, l’essere visto nudo. Per il momento dunque la regina se ne stette tranquilla, senza far mostra di nulla. Ma appena venne giorno, avvertiti quei servi che ella sapeva esserle più fedeli, mandò a chiamare Gige. Quello, credendo che non sapesse nulla dell’accaduto, accolse l’invito, giacché anche prima soleva fare visita alla sovrana quando ella lo chiamava. Appena Gige fu giunto, la donna gli disse: “Ora, Gige, di due strade che ti sono davanti ti lascio scegliere per quale tu voglia dirigerti. O, ucciso Candaule, ti prendi me e il regno di Lidia oppure conviene che tu stesso muoia, affinché per l’avvenire tu non abbia a vedere, obbedendo in tutto a Candaule, ciò che non devi vedere. Orsù dunque, bisogna che perisca o lui, che ha ordito questo tranello, o tu, che mi hai vista nuda e hai commesso un’azione non lecita”. Gige dapprima rimase sbalordito davanti a questo discorso, ma poi supplicò la regina di non costringerlo ad una simile scelta. Non riuscì però a persuaderla e si vide realmente nella necessità o di uccidere il suo signore o di perire egli stesso per mano altrui. Scelse di sopravvivere e le domandò: ”Poiché mi costringi a uccidere il mio signore contro la mia volontà, suvvia, ch’io sappia il modo in cui lo assaliremo”. La regina rispose: ”L’attacco avverrà nello stesso luogo in cui lui mostrò me nuda, e lo assaliremo mentre dorme”. Così tramarono l’insidia e, venuta la notte, Gige -poiché non veniva lasciato libero né aveva alcuna via di scampo, ma era necessario che o lui o Candaule perisse- seguì nella camera da letto la donna la quale, datogli un pugnale, lo nascose dietro la stessa porta. Più tardi, mentre Candaule dormiva, Gige uscì dal nascondiglio, lo uccise ed ebbe la donna e il regno”.

Ecco cosa ne riferisce l’Evangelista Matteo:
VANGELO DI MATTEO

Allora Gesù fu condotto dallo Spirito in isolamento, per essere messo alla prova dal diavolo. E dopo avere digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Ora, colui che mette alla prova gli si accostò e gli disse: “Se tu sei figlio di Dio, dì qualcosa affinché queste pietre diventino pani”. Ma egli rispose dicendo: “È stato scritto: l’uomo non vivrà di solo pane, ma grazie ad ogni parola che fuoriesce attraverso la bocca di Dio”. Allora il diavolo lo prende, lo porta nella città santa, dove lo pose su un pinnacolo del tempio, e gli dice: “Se sei figlio di Dio, buttati giù; giacché sta scritto che Egli darà istruzioni ai suoi angeli a tuo riguardo ed essi ti solleveranno sopra le loro mani, così che tu non sbatta il piede contro un sasso. Ma Gesù gli diceva: “È stato anche scritto: non metterai alla prova il Signore Dio tuo”. Il diavolo di nuovo lo prende, lo porta sopra un monte altissimo, gli mostra tutti i regni del cosmo e la loro gloria, e gli disse: “Io ti darò tutti questi regni se prostratoti mi ossequierai”. Allora Gesù gli dice: “Vattene, Satana, giacché è stato scritto: tu ossequierai il Signore tuo Dio e offrirai i tuoi servigi a lui soltanto”. Allora il diavolo lo lascia stare ed ecco gli angeli vennero a lui e lo servivano.

Ecco cosa ne riferisce William Shakespeare:
-SHAKESPEARE-
‘Amleto’ 

Essere, o non essere, questo è il dilemma:
se sia più nobile nella mente soffrire
i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna
o prendere le armi contro un mare di affanni
e, contrastandoli, porre loro fine? Morire, dormire…
nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine
al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali
di cui è erede la carne: è una conclusione
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo,
perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire
dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale
deve farci esitare. È questo lo scrupolo
che dà alla sventura una vita così lunga.
Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo,
il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo,
gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge,
l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo
che il merito paziente riceve dagli indegni,
quando egli stesso potrebbe darsi quietanza
con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli,
grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa,
se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte,
il paese inesplorato dalla cui frontiera
nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà
e ci fa sopportare i mali che abbiamo
piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti?
Così la coscienza ci rende tutti codardi,
e così il colore naturale della risolutezza
è reso malsano dalla pallida cera del pensiero,
e imprese di grande altezza e momento
per questa ragione deviano dal loro corso
e perdono il nome di azione.

Ecco cosa ne riferisce Giacomo Leopardi:
‘Il Pensiero Dominante’ vv. 1- 12 …. 53-68 

Dolcissimo, possente
dominator di mia profonda mente:
terribile, ma caro
dono del ciel; consorte
ai lugubri miei giorni,
pensier che innanzi a me sì spesso torni. 
Di tua natura arcana
chi non favella? Il suo poter fra noi
chi non sentì? Pur sempre
che in dir gli effetti suoi
le umane lingue il sentir proprio sprona,
par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona.
………. 
Sempre i codardi e l’alme
ingenerose, abiette
ebbi in disdegno. Or punge ogni atto indegno
subito i sensi miei; 
move l’alma ogni esempio
dell’umana viltà subito a sdegno.
Di questa età superba,
che di vote speranze si nutrica,
vaga di ciance, e di virtù nemica;
stolta, che l’util chiede,
e inutile la vita
quindi più sempre divenir non vede;
maggior mi sento. A scherno
ho gli umani giudizi; e il vario volgo
a’ bei pensieri infesto,
e degno tuo disprezzator, calpesto.

Ecco cosa ne riferisce Victor Hugo:
‘I Miserabili’

“Entrate” disse il vescovo.
La porta si aprì con violenza ed un gruppo strano apparve sulla soglia. Tre uomini ne tenevano un quarto per il bavero; tre erano gendarmi, il quarto era Jean Valjean. Un brigadiere, che pareva guidasse il gruppo, stava presso la porta; entrò e s’avanzò verso il vescovo facendo il saluto militare.
“Monsignore….” disse. 
A quella parola, Valjean, ch’era cupo e pareva abbattuto, rialzò il capo con aria stupita.
“Monsignore?” mormorò. “Non è dunque il curato?”
“Silenzio!” disse un gendarme. “È monsignor vescovo.”
Intanto Monsignor Bienvenu s’era avvicinato con tutta la vivacità concessagli dalla sua tarda età.
“Oh, eccovi!” esclamò, guardando Valjean. “Sono lieto di rivedervi. Ma come? Vi avevo regalato anche i candelieri che sono d’argento come il resto e dai quali potete ben ricavare duecento franchi; perché non li avete portati con voi, insieme alle vostre posate?”
Jean Valjean alzò gli occhi e fissò il venerabile vescovo con un’espressione che nessuna lingua umana potrebbe esprimere. 
“Allora, monsignore” disse il brigadiere “sarebbe vero quello che ci ha detto quest’uomo? L’abbiamo incontrato come uno che ha molta fretta e l’abbiamo fermato per vedere. Aveva questa argenteria….”
“E vi avrà detto” interruppe il vescovo sorridendo “che gliel’aveva regalata un vecchio prete dabbene presso il quale aveva passato la notte. Vedo come stanno le cose. e voi l’avete ricondotto qui? È un equivoco”.
“Se la cosa sta così” riprese il brigadiere “possiamo lasciarlo andare?”
“Ma certo” rispose il vescovo.
I gendarmi lasciarono libero Valjean, che indietreggiò.
“È proprio vero che mi lasciano andare?” chiese con voce quasi inarticolata, come se parlasse nel sonno.
“Sì, ti lasciamo in libertà: non hai sentito?” disse un gendarme.
“Amico mio” rispose il vescovo “prima d’andarvene, ecco i vostri candelieri: prendeteli”.
Andò verso il camino, prese i due candelieri d’argento e li portò a Valjean. [….] Jean Valjean tremava tutto e prese macchinalmente i due candelieri, con aria smarrita.
“Ed ora” disse il vescovo “andatevene in pace. A proposito: quando tornerete, amico mio, sarà inutile che passiate dal giardino. Potrete sempre entrare ed uscire dalla porta della strada, che è chiusa giorno e notte solo col saliscendi”.
Poi, volgendosi ai gendarmi, disse loro: “Signori gendarmi, potete andare”.
Jean Valjean pareva stesse per svenire. Il vescovo gli si avvicinò e gli disse a bassa voce: “Non dimenticate, non dimenticate mai che m’avete promesso di impiegare questo denaro per diventare un uomo onesto”.
Jean Valjean, che non si ricordava d’avere promesso, rimase stupefatto. Il vescovo aveva accentuato quelle parole in particolar modo, mentre le pronunciava, e riprese poi con una sorta di solennità: “Jean Valjean, fratello mio, voi non appartenete più al male ma al bene”.

Ecco cosa ne riferisce Fiodor Dostoievskji:
‘I demoni’ 

Era molto debole, ma non perdeva ancora la conoscenza. Sofia Matvejevna s’alzò, credendo che volesse addormentarsi. Ma lui la fermò: “Amica mia, ho mentito per tutta la vita. Anche quando dicevo la verità. Non ho mai parlato per la verità, ma solo per me, lo sapevo anche prima, ma lo vedo solo ora… Oh, dove sono quegli amici che io ho offeso con la mia amicizia per tutta la vita? E tutti, e tutti! Savez-vous, io forse mento anche ora; probabilmente mento anche ora. Il più è che anch’io credo a me stesso quando mento. La cosa più difficile nella vita è vivere senza mentire… e… e senza credere alla propria menzogna, sì, sì, è questo! Ma aspettate, tutto ciò, poi… Insieme, insieme!” aggiunse con entusiasmo.
“Stepan Trofimovic”, pregò timidamente Sofia Matvejevna, “non si dovrebbe mandare in provincia per il medico?”
Fu terribilmente colpito.
“Perché? Est-ce que je suis malade? Mais rien de sérieux.  E poi che bisogna abbiamo noi di gente estranea? Potrebbero ancora sapere e che cosa sarebbe allora? No, no nessuno d’estraneo, insieme, insieme!”
“Sapete,” disse, dopo qualche silenzio, “leggetemi ancora qualche cosa, così, a scelta, qualcosa, dove cade l’occhio.”
Sofia Matvejevna aprì il libro e cominciò a leggere.
“Dove s’aprirà, dove s’aprirà a caso,” ripeté Stepan Trofimovic.
“Ed all’angelo della chiesa di Laodicea scrivi…”
“Cos’è? Cos’è? Di dov’è?”
È dall’Apocalisse.”
O, je m’en souviens, oui, l’Apocalypse. Lisez, lisez, io mi son messo a indovinare dal libro il nostro avvenire; voglio sapere che cosa è venuto fuori; leggete cominciando dall’angelo, dall’angelo.”
“Ed all’angelo della chiesa di Laodicea scrivi: così dice l’Amen, testimone fedele e verace, principio della creazione di Dio. Conosco le tue opere; tu non sei freddo, né ardente: oh, se fossi freddo o ardente! Ma se tu sei tiepido e non ardente, né freddo, ti rigetterò dalla mia bocca.”

Ecco cosa ne riferisce Primo Levi:
‘Se questo è un uomo’ 

“Ma tutti udirono il grido del morente, esso penetrò le grosse antiche barriere di inerzia e di remissione, percosse il centro vivo dell’uomo in ciascuno di noi.
– Kameraden, ich bin der Letzte!- (Compagni, io sono l’ultimo!)
Vorrei poter raccontare che fra di noi, gregge abietto, una voce si fosse levata, un mormorio, un segno di assenso. Ma nulla è avvenuto. Siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo chino, e non ci siamo scoperta la testa che quando il tedesco ce l’ha ordinato. La botola si è aperta, il corpo ha guizzato atroce, la banda ha ripreso a suonare, e noi, nuovamente ordinati in colonna, abbiamo sfilato davanti agli ultimi fremiti del morente.
Ai piedi della forca, le SS ci guardano passare con occhi indifferenti; la loro opera è compiuta e ben compiuta. I russi possono ormai venire: non vi sono più uomini forti fra noi, l’ultimo pende ora sui nostri capi, e per gli altri, pochi capestri sono bastati. Possono venire i russi: non troveranno che noi domati, noi spenti, degni ormai della morte inerme che ci attende.
Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, Tedeschi! Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice.
Alberto ed io siamo rientrati in baracca, e non abbiamo potuto guardarci in viso. Quell’uomo doveva essere duro, doveva essere di un altro metallo dal nostro, se questa condizione, da cui noi siamo stati rotti, non ha potuto piegarlo.
Perché, anche noi siamo rotti, vinti: anche se abbiamo saputo adattarci, anche se abbiamo finalmente imparato a trovare il nostro cibo e a reggere alla fatica e al freddo, anche se ritorneremo. Abbiamo issato la menaschka sulla cuccetta, abbiamo fatto la ripartizione, abbiamo soddisfatto la rabbia quotidiana della fame, e ora ci opprime la vergogna”.

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Scritti originali

Omaggio a Socrate – Socrate ha mai detto: “So di non sapere nulla?”

In questa nota mi piacerebbe sfatare la diceria secondo la quale Socrate è l’autore della famosa frase “So di non sapere nulla”: frase talmente utile e adatta alla pigrizia mentale degli esseri umani da essere scritta sulle T-shirt che si vendono a migliaia nella Plaka di Atene. Ed insieme far notare come il ‘démone’ che Socrate per primo introduce nel discorso filosofico possa essere il diretto antenato della ‘proairesi’ di Epitteto.

La Scuola di Atene

PERCHÉ SOCRATE NON HA MAI DETTO “SO DI NON SAPERE NULLA” 

“So di non sapere nulla” 

Il primo dei testi greci sui quali si usa appoggiare questa affermazione di Socrate, vedremo se presunta o meno, è un testo di Platone, il quale nella sua ‘Apologia di Socrate’ § 23b fa dire a Socrate:

σπερ ν ε εποι τι οτος μν, νθρωποι, σοφώτατός στιν, στις σπερ Σωκράτης γνωκεν τι οδενς ξιός στι τ ληθεί πρς σοφίαν.”

Il testo può essere tradotto così:

“è come se (il dio) dicesse che di voi, o uomini, questo è il più sapiente ossia chi, come Socrate, riconosce di essere in verità del tutto incapace di giungere alla sapienza”.

Il contesto del discorso che Socrate sta facendo è quello delle inattese conseguenze che ha avuto la sua inchiesta presso i politici, i poeti e gli artigiani di Atene, tesa a comprendere il significato dell’oracolo di Delfi che lo definiva il più sapiente degli uomini.Questa inchiesta gli ha procurato inimicizie numerose e violente, alle quali va fatta risalire l’origine del processo di cui egli è vittima. Gli ha anche procurato il titolo di ‘sapiente’, mentre invece è probabile che l’unico vero sapiente sia il dio e che il compito affidatogli da Apollo fosse semplicemente stato quello di mostrare agli uomini che il loro sapere nulla vale a paragone del divino sapere che si identifica con la vera sapienza. 

Questo Platone fa dire a Socrate. Laddove con ogni verosimiglianza Platone, com’è sua abitudine, mette in bocca a Socrate quel che invece crede soltanto lui, dico Platone: il quale pensa evidentemente alla sapienza come ad un’entità astratta, immutabile ed irraggiungibile. Appunto, le ‘idee’.

Dunque Platone non fa dire a Socrate: “So di non sapere nulla”, cioè che Socrate nulla sa, che in verità è una contraddizione in termini, un retorico gioco di parole; bensì che il suo sapere nulla vale a paragone del divino sapere che si identifica con la vera sapienza, la quale è appannaggio unicamente del dio. Concetto che viene ripetuto nelle ultime parole dell’Apologia, parole che suonano così: “Ora voi andate a vivere ed io a morire. Chi di noi vada verso il destino migliore è ignoto a chiunque fuorché al dio”. 

Pertanto se si vuole salvare ad ogni costo il gioco di parole: ‘So di non sapere nulla’ e dargli un senso non contraddittorio, bisogna trasformarlo in questa forma: ‘So di non sapere quello che soltanto il dio può sapere’ oppure, come minimo, in quest’altra forma: ‘So di non sapere quello che i politici, i poeti e gli artigiani millantano di sapere ma in realtà non sanno’.

A questo punto è prudente ed opportuno astenersi da ulteriori analisi sul cosiddetto Platonismo.

Adesso però viene il bello.

C’è infatti almeno un secondo testo greco al quale è stata appoggiata l’espressione della quale ci stiamo occupando. Questo testo compare nel § 32 del II Libro delle ‘Vite dei filosofi’ di Diogene Laerzio, libro dedicato, tra altri pensatori, anche alla vita e alla filosofia di Socrate. Il testo è il seguente:

“(1) λεγε δ κα προσημανειν τ δαιμόνιον τ μέλλοντα ατ`(2) τό τε ε ρχεσθαι μικρν μν μ εναι, παρ μικρν δέ`(3) κα εδέναι μν μηδν πλν ατ τοτο εδέναι”

Per chiarezza e al fine di intenderlo meglio, è utile dividere questo breve testo in tre parti ed esaminarle separatamente una per una.

Il primo periodo: (1) “λεγε δ κα προσημανειν τ δαιμόνιον τ μέλλοντα ατ
non presenta difficoltà di interpretazione e tutti lo traducono più o meno così:
‘(1) (Socrate) soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo quel che gli sarebbe accaduto’

Il secondo periodo: (2) “τό τε ε ρχεσθαι μικρν μν μ εναι, παρ μικρν δέ” 
ha invece procurato nel corso dei secoli molti mal di pancia a molti studiosi. 
Nel 1594, la sua traduzione latina ad opera dell’Aldobrandino è stata la seguente: 
– (2) ‘et bene incipere non parvum illud quidem esse, sed parvo proximum’.
Nel corso dell’Ottocento, il celebre Cobet espunge il verbo ρχεσθαι’ e lo rende così:
– (2) ‘et rectum non esse quidem parvum, sed in parvo momento positum’
Nello stesso secolo, l’Apelt traduce così: 
– (2) ‘Das gute Gelingen sei zwar nichts Geringes, fange aber mit kleinem an’.
Nel novecento, anche R. D. Hicks espunge il verbo ρχεσθαι’ e propone questa versione:
– (2) ‘that to make a good start was no trifling advantage, but a trifle turned the scale’.
Sempre nel Novecento, M. Gigante traduce così:
– (2) ‘il saper obbedire non è poca cosa, ma si conquista a poco a poco’.

A me pare che questo secondo periodo vada considerato in stretta relazione di dipendenza dal primo, e mi riesce del tutto logico considerare che se Socrate ha appena parlato della presenza in lui di un démone che lo preavvisa del futuro, ebbene che sia questo ‘démone’ il riferimento dell’infinito presente medio-passivo ρχεσθαι’il quale, in questo contesto, può conservare del tutto propriamente il suo principale significato di ‘comandarsi/essere comandato’‘ε ρχεσθαι’ vuol dunque dire ‘essere ben comandato’ dal démone e la frase tradotta con tutta naturalezza in questo modo: 
-(2) ‘che l’essere da esso ben comandati, anche su piccole questioni, non è piccola cosa’.

Veniamo da ultimo al terzo periodo (3) “κα εδέναι μν μηδν πλν ατ τοτο εδέναι”
Chi ha in mente il Socrate che dice “So di non sapere nulla” è finalmente tranquillo e certo di capirne il significato senza ambiguità.
Infatti le due autorevolissime traduzioni che ho a disposizione in questo momento parlano chiaro.
R. D. Hicks espunge il secondo infinito perfetto ‘εδέναι’ e propone questa versione:
– (3) ‘and that he knew nothing except just the fact of his ignorance’.
A sua volta M. Gigante, che invece non espunge il secondo infinito ‘εδέναι’, traduce così:
– (3) ‘nulla sapeva eccetto che nulla sapeva’.

Siccome la grammatica e la sintassi greca qui lo permettono, a me pare molto più convincente continuare a mantenere anche in questo caso la strettissima relazione con il primo e con il secondo periodo, e quindi il riferimento al ‘démone’ dal quale, come Socrate, ci siamo lasciati guidare finora. La semplice e naturale traduzione di questo terzo periodo diventa allora:
– (3) ‘e di nulla sapere se non sapere che c’è questo démone’.

Ricapitoliamo adesso il tutto, confrontando le tre traduzioni complete di questo interessante frammento di Diogene Laerzio.
Secondo R. D. Hicks ‘(Socrates) used to say that his supernatural sign warned him beforehand of the future; that to make a good start was no trifling advantage, but a trifle turned the scale; and that he knew nothing except just the fact of his ignorance’.
Secondo M. Gigante ‘(Socrate) diceva che un demone gli prediceva il futuro; il saper obbedire non è poca cosa, ma si conquista a poco a poco; nulla sapeva eccetto che nulla sapeva’.
Secondo F. Scalenghe ‘(Socrate) soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo quel che gli sarebbe accaduto; che l’essere da esso ben comandati, anche su piccole questioni, non è piccola cosa; e di nulla sapere se non sapere che c’è questo démone’

Poiché il sapere di non sapere è comunque un sapere, e siccome Socrate non è uno sprovveduto orecchiante di filosofia, appoggiandomi all’esame appena fatto escludo che si possa attribuirgli la frase: “So di non sapere nulla”.

A me pare pertanto che quanto Socrate vuole intendere sia molto più profondo, e tanto più intrigante, se si tiene bene a mente che tale ‘démone’ è già espressamente citato nell’atto di accusa presentato e giurato da Meleto, e che è alla base del processo a Socrate.
Socrate vuole cioè comunicarci che il suo unico sapere consiste nel sapere di possedere entro di sé un ‘démone’ che lo guida alle scelte giuste.
Non è dunque in gioco ciò che gli mette in bocca Platone, ossia qualcosa che assomiglia molto alla ‘docta ignorantia’ al di là della quale l’uomo non può arrivare, giacché la ‘scientia’ è appannaggio esclusivo del dio. Questa, per esempio, è la sciagurata strada che porta alla ‘omniscientia’ del Dio giudeo-cristiano: e qui strattono le redini per fermarmi e non cominciare a ruggire.

Socrate insomma afferma e ribadisce di percepire dentro di sé una voce, che egli chiama ‘démone’, la quale mai lo incita a qualcosa, ma unicamente sorge in lui per trattenerlo dal fare qualcosa. Questo ‘démone’ è la sua novità e la sua ricchezza, è la guida alla quale egli sempre si affida e che non lo ha mai tradito. 
Tutto ciò non sembra la oscura, incerta, confusa anticipazione di qualcosa? Qualcosa di cui Socrate sa soltanto, addirittura a costo della vita, testimoniare la presenza, ma che non sa né articolare né inserire in un contesto che non sia la sua esperienza psicologica personale? Non sembra l’aurora di quella che sempre fu, è e sarà il cardine, il criterio, il riferimento assoluto e invariante invano cercato da Platone nelle ‘idee’? Per farla breve: il ‘démone’ di Socrate non sembra l’anticipazione di quella che Epitteto chiamerà ‘proairesi’ e che si può anche tranquillamente chiamare ‘natura delle cose’? 

Dunque a me pare di poter affermare che Socrate non è il padre del ‘So di non sapere nulla’ bensì il nonno o l’avo, se così si vuole, del ‘Io sono proairesi’.

Cosa ci sarà poi scritto in futuro sulle T-shirt che vende qualunque negozietto della Plaka di Atene è ignoto a tutti fuorché al dio.

Omaggio a Socrate: Apologia di Socrate (secondo il testo di Senofonte)

SENOFONTE

APOLOGIA DI SOCRATE

[1] Mi sembra che valga la pena di ricordare Socrate e il modo in cui egli, dopo essere stato citato in giudizio, deliberò circa la propria difesa e la propria morte. Anche altri hanno scritto su questa vicenda e tutti hanno notato la intrepida fierezza del suo eloquio, dal che si evince che davvero Socrate si espresse a quel modo. Essi tuttavia non hanno chiarito abbastanza che egli riteneva ormai preferibile per sé la morte alla vita, e perciò quella intrepida fierezza appare come un vezzo un po’ sciocco. [2] Invece Ermogene figlio di Ipponico, che era un suo compagno, ci ha messo al corrente di notizie tali da far apparire l’intrepida fierezza dell’eloquio di Socrate del tutto confacente ad una sua ben meditata risoluzione. Infatti egli, vedendolo impegnarsi in ogni sorta di discussioni invece di parlare del suo processo, gli domandò: [3] “Socrate, non sarebbe il caso che tu considerassi anche cosa dire a tua difesa?”. A questa domanda Socrate dapprima rispose: “Non ti sembra che la mia vita intera sia stata una preparazione alla mia difesa?”. Poiché Ermogene gli chiese: “In che senso?”, Socrate gli spiegò: “Nel senso che io non sono mai addivenuto al compimento di un’azione ingiusta, e nel senso che io legittimo questa preparazione come la migliore in assoluto delle difese”. [4] Ma Ermogene riprese dicendogli: “Non vedi quante volte i tribunali Ateniesi, fuorviati dai discorsi, hanno mandato a morte degli innocenti; e quante volte hanno invece assolto dei colpevoli, o perché mossi a compassione dai loro discorsi oppure perché hanno parlato in atteggiamento implorante e con toni supplichevoli?”. “Sì, per Zeus” disse Socrate, “ed io pure ho già messo mano per ben due volte a considerare la faccenda della mia difesa, ma il mio démone vi si oppone”. [5] Ermogene osservò: “Quel che dici è sorprendente!”, e Socrate gli rispose nuovamente: “Ti sorprendi se anche il dio reputa che la miglior sorte per me sia ormai quella di morire? Non sai che almeno fino ad ora io non avrei concesso a nessun altro uomo il vanto d’avere vissuto meglio di me? Infatti, almeno fino ad ora io sapevo, ed è la certezza più piacevole di tutte, d’avere vissuto tutta la vita in modo a mio vedere sacrosanto e giusto; e mentre mi compiacevo fortemente di me stesso, trovavo che anche chi mi frequentava riconosceva questa verità a mio riguardo. [6] Adesso invece, se vado ancora avanti con gli anni, so che necessariamente ne risulteranno per me gli acciacchi della vecchiaia: una vista peggiore, un udito menomato, l’imparare con difficoltà, il dimenticare più facilmente le cose che ho imparato. Se pertanto m’accorgerò d’essere diventato peggiore e mi biasimerò io stesso, come potrò più”, diceva Socrate, “trascorrere con piacere la vita? [7] Forse”, aggiungeva poi, “a causa della sua buona disposizione verso di me, il dio mi procurerà l’occasione non soltanto di sciogliermi dalla vita all’età giusta, ma anche di sciogliermene per la via più facile. Infatti, se io ora sarò condannato è manifesto che mi sarà possibile fare la morte che è stata giudicata come più facile da coloro che si prendono cura di queste faccende, quella che causa meno impicci agli amici, e quella che infonde il maggior rimpianto del morto. Qualora infatti chi muore non lasci nelle menti dei presenti alcun ricordo vergognoso o spiacevole, e invece se ne vada avendo un corpo ancora sano ed un animo capace di pensieri amichevoli: come può costui non essere per forza oggetto di rimpianto? [8] Rettamente dunque”, continuava Socrate, “gli dei si opponevano allora a che io prendessi in esame il discorso sulla mia difesa: ossia proprio quando reputavano giustamente che lo scopo della ricerca fosse quello di trovare ad ogni costo le argomentazioni utili alla mia assoluzione. Se infatti io avessi effettuato questa ricerca, è manifesto che invece di cessare ormai di vivere, avrei approntato per me una fine tra le sofferenze dalla malattia oppure della vecchiaia, nella quale confluiscono tutte le cose moleste e più deserte d’allegrezza. [9] Per Zeus”, continuava poi Socrate, “io questi fastidi, o Ermogene, non me li andrò certo a cercare; e se sarò di peso ai giudici mostrando loro quante siano le cose buone e preziose che reputo d’aver ottenuto sia dagli dei che dagli uomini, e l’opinione che ho di me stesso: ebbene io sceglierò di morire piuttosto che di vivere in modo indegno di un uomo libero, il quale per di più piatisce una pessima vita invece della morte”. [10] Questo era il suo punto di vista, affermava Ermogene, dopo che i suoi avversari lo avevano accusato di non legittimare gli dei che la città legittima, di introdurre altre e nuove divinità e di corrompere i giovani. 
Socrate venne quindi dinanzi ai giudici e disse: [11] “Io, cittadini Ateniesi, per prima cosa mi stupisco di Meleto. Intendo dire: edotto da chi mai Meleto possa affermare che io non legittimo gli dei che la città legittima. Infatti tutti coloro che si sono trovati nei miei pressi e lui stesso, se così avesse voluto, hanno potuto vedermi mentre sacrificavo nel corso delle festività comuni e sui pubblici altari. [12] E com’è che io introdurrei nuove divinità, se affermo che mi si manifesta una voce divina la quale mi segnala ciò ch’è d’uopo fare? Coloro che danno oracoli interpretando le grida degli uccelli augurali e le voci ispirate e profetiche degli uomini, testimoniano proprio l’esistenza di queste voci. Qualcuno mette in dubbio che i tuoni siano delle voci, o che non siano un supremo segno augurale? E la sacerdotessa che siede in Delfi accanto al sacro tripode, non annuncia anch’essa i responsi del dio grazie ad una voce? [13] Che poi il dio conosca in anticipo il futuro e che ne preavvisi chi vuole: anche questo, io dico, è ciò che tutti affermano e legittimano come vero. Ma mentre gli altri denominano chi preannuncia il futuro con termini come: uccelli augurali, voci ispirate e profetiche, consiglieri fatidici o indovini; io chiamo questo ‘démone’, e denominandolo così credo di parlare con più verità e maggiore santità di coloro che attribuiscono facoltà divine agli uccelli. Del fatto che in proposito io non menta contro il dio, c’è anche questa prova: ogniqualvolta ho riferito i consigli del dio a molti dei miei amici, in nessun caso mai è apparso che io mi sbagliavo”. [14] Ermogene dice che udendo queste parole i giudici si misero a rumoreggiare: alcuni perché non davano credito alle dichiarazioni di Socrate, altri perché mossi dall’invidia al pensiero che egli ottenesse dagli dei favori maggiori di quelli che toccavano loro; e che quindi Socrate riprese il discorso dicendo: “Orsù ascoltate anche queste mie altre dichiarazioni, affinché quanti di voi lo vogliono possano ancor più negare credito all’onore che mi viene reso dagli dei. Ebbene, quando una volta Cherefonte interrogò l’oracolo di Delfi a mio riguardo, il responso di Apollo fu che non c’era nessun uomo più libero, più giusto e più temperante di me”. [15] Nell’udire queste affermazioni i giudici, come c’era da aspettarsi, si misero a rumoreggiare ancora più forte, ma Socrate riprese la parola e disse: “Eppure, cittadini Ateniesi, il dio che parla per oracoli ha detto su Licurgo, il legislatore degli Spartani, cose ben più grandi che su di me. Si racconta infatti che mentre Licurgo stava entrando nel tempio, il dio gli si rivolse dicendo: ‘Sto ancora riflettendo se chiamarti dio o uomo’. Io almeno, da Apollo non sono stato assimilato ad un dio, pur se egli ha giudicato di estollere me molto al di sopra degli uomini. Io vi invito comunque a non dare credito all’oracolo del dio così alla leggera, ma a considerarne bene le parole una per una. [16] Conoscete qualcuno che sia servo degli appetiti del corpo meno di me? Conoscete qualche uomo che sia più libero di me, che non accetto doni né stipendi da nessuno? Chi secondo verosimiglianza legittimereste più giusto di colui che si è finora così ben conciliato con ciò che ha ed è suo, da non avere alcun bisogno di ciò ch’è altrui? Come potrebbe non chiamarsi secondo verosimiglianza sapiente un uomo come me, che da quando cominciai a comprendere il linguaggio parlato non ho mai trascurato di ricercare e di imparare quanto più potevo qualunque cosa buona e nobile? [17] E che le mie fatiche non fossero vane, non vi sembra testimoniato anche dal fatto che molti cittadini che hanno di mira la virtù e così pure molti stranieri, scelgono deliberatamente di associarsi con me a preferenza di tutti gli altri? A quale causa attribuiremo poi il fatto che, mentre tutti sanno che io non ho assolutamente denaro col quale ricambiare dei doni, tuttavia sono molte le persone vogliose di farmi dei regali? Il fatto che mentre nessuno mi richiede dei benefici materiali, molti invece ammettono di avere con me un debito di gratitudine? [18] Il fatto che durante l’assedio di Atene, mentre gli altri cittadini si piangevano addosso, io invece non me la passavo affatto in maggiori ristrettezze di quando la città era al culmine del suo benessere? Il fatto che mentre gli altri si provvedono al mercato, e a caro prezzo, delle fonti del loro lieto vivere; io invece trovo il modo di trarre dal mio animo, e senza spesa alcuna, fonti di lieto vivere ben più piacevoli delle loro? Se pertanto nessuno fosse in grado di smentirmi e dimostrare che sto mentendo, come potrebbe non essere assolutamente giusta la lode degli dei e degli uomini nei miei confronti? [19] Nondimeno tu affermi, o Meleto, che dedicandomi a occupazioni di questo genere io corrompo i giovani? Ebbene, noi sappiamo con certezza quali siano le corruzioni cui vanno incontro i giovani. Dunque tu dimmi se conosci qualche giovane che per opera mia sia diventato da pio che era, sacrilego; da temperante, oltraggioso; da ben regolato nel tenore di vita, spendaccione; da bevitore moderato, un ubriacone; da laborioso faticatore, un mollaccione; o che si sia lasciato vincere da qualche altro malvagio piacere”. [20] “Ma per Zeus”, disse Meleto, “io so di giovani che tu hai persuaso ad ubbidire a te piuttosto che ai loro parenti”. “Lo ammetto”, si riferisce che Socrate abbia detto, “ma ad ubbidirmi a proposito di educazione: giacché essi sanno che questo è l’argomento al quale io dedico tutti il mio studio. Quanto alla salute del corpo, infatti, gli uomini ubbidiscono ai medici piuttosto che ai genitori; e nelle pubbliche assemblee gli Ateniesi seguono senza eccezione l’avviso di coloro che parlano con maggiore saggezza, piuttosto che quello dei loro congiunti. E voi a preferenza dei vostri padri o dei vostri fratelli oppure, per Zeus, di voi stessi, non prescegliete quali generali le persone che riterreste più competenti e più esperte in affari militari?”. “Sì, o Socrate”, disse Meleto, “è legittimo ritenere che convenga fare così”. [21] “Ma allora”, riprese Socrate, “mentre in altre attività le persone più preparate e competenti non soltanto ottengono riconoscimenti pari, ma a volte anche superiori ad altri; non ti sembra stupefacente che invece io, che sono giudicato da alcuni il massimo esperto di quello che è il supremo bene dell’uomo, cioè dell’educazione, sia da te sottoposto ad un processo con il quale è richiesta della pena di morte?”. 
[22] È evidente che furono dette molte altre cose, sia da Socrate che dagli amici che presero la parola in sua difesa. Io però non mi sono industriato a riferire tutti i discorsi fatti al processo, bensì m’è piaciuto rendere manifesto che Socrate, per un verso ha fatto di tutto per mostrare di non essere reo di alcuna empietà verso gli dei né di alcuna ingiustizia verso gli uomini; e che, per un altro verso, non credeva di dover insistere ad implorare i giudici di non condannarlo a morte, giacché reputava ormai giunto per lui il giusto momento per morire. [23] Che così egli avesse divisato, divenne chiarissimo dopo la sua condanna a morte. In primo luogo, quando gli fu intimato di proporre per sé una pena, né la propose né permise ai suoi amici di proporla; affermando che il proporre una pena equivaleva già ad una ammissione di colpevolezza. Quando poi, successivamente, i suoi compagni organizzarono per lui la fuga dalla prigione, egli non volle darvi seguito; e sembrò addirittura che li schernisse, chiedendo loro se conoscevano qualche luogo lontano dell’Attica inaccessibile alla morte. [24] Quando poi il processo terminò, si racconta che Socrate disse: “Cittadini Ateniesi, coloro che hanno istruito i testimoni ad andare contro il giuramento e testimoniare il falso contro di me, come pure i testi che hanno ubbidito a costoro, sono necessariamente ben consci della loro grande empietà ed ingiustizia. Quanto a me, invece, perché dovrei avere adesso di me stesso un giudizio peggiore di quello che avevo prima della condanna, visto che non sono stato provato colpevole di alcuna delle azioni per le quali mi intentarono il processo? Nessuno, infatti, ha potuto dimostrare che io, invece di sacrificare a Zeus, ad Era e agli altri dei loro compagni, abbia fatto sacrifici in onore di certi nuovi démoni, né che io abbia giurato o menzionato degli dei diversi. E quanto ai giovani, com’è possibile che io li corrompa, se li indirizzo invece ad abitudini di fortezza e di frugalità? [25] Circa poi le azioni per le quali è davvero prevista la pena di morte: il furto sacrilego, il furto con scasso, la riduzione in schiavitù di un uomo libero, il tradimento dello Stato; neppure i miei accusatori affermano che io abbia commesso uno di questi reati. Sicché mi sembra davvero stupefacente che l’opera da me compiuta a voi sia parsa degna della pena di morte. [26] Né è il caso, per il fatto di morire ingiustamente, che io abbia ora su di me un giudizio peggiore di prima; giacché questa è una ignominia che ricade non su di me, ma su coloro che mi hanno condannato. Trovo comunque alquanta consolazione pensando alla sorte di Palamede, il quale morì per circostanze assai simili alle mie; e che ancora adesso ci procura temi molto più nobili per degli inni agli eroi di quanti ce ne procuri Odisseo, il quale lo fece uccidere ingiustamente. Io inoltre so per certo che tanto il tempo futuro quanto quello passato mi saranno testimoni di non avere io mai commesso ingiustizia contro alcuno, né di avere reso alcuno più malvagio, ma di avere anzi recato beneficio a quanto discutevano con me, insegnando loro tutto il bene che potevo senza chiedere alcun compenso”. 
[27] Dopo avere pronunciato queste parole Socrate s’allontanò, tenendo un contegno assolutamente coerente con quanto aveva detto: con sguardo raggiante, portamento solenne e passo deciso. Quando s’accorse che coloro i quali lo seguivano erano in lacrime, si racconta che egli disse: “Cos’è questa storia? Vi mettete a piangere proprio adesso? Non sapete ormai da gran tempo che dal momento stesso in cui nacqui fui condannato a morte dalla natura? E peraltro, se io muoio prima del tempo da essa stabilito per me, mentre ancora affluiscono su di me ogni sorta di cose belle e buone, allora è manifesto che sia io quanto chi mi vuole bene debba provare afflizione. Se però io mi sciolgo dalla vita in un’età nella quale per me non sono in vista altro che cose brutte e penose, io credo che voi tutti dobbiate stare di buon animo, pensando che mi tocca una fortuna”. [28] Tra i presenti si trovava un certo Apollodoro, il quale era un suo acceso fautore, ma quanto al resto un sempliciotto, e che gli disse: “Eppure ciò che mi esaspera di più e che non posso sopportare è di vederti morire ingiustamente”. Quel che si racconta è che allora Socrate gli accarezzò la testa e sorridendo gli rispose: “E tu, mio carissimo Apollodoro, vorresti vedermi morire giustamente piuttosto che ingiustamente?”. [29] Si racconta anche che quando vide Anito passargli accanto, Socrate disse: “Questo è un uomo che se ne va altero e pensa d’aver compiuto qualcosa di grande e di bello facendo uccidere me. E mi fa uccidere perché quando io lo vidi stimato dalla città quale uomo degno dei massimi onori, gli dissi che non era opportuno che egli educasse suo figlio a fare il cuoiaio. Che individuo depravato è costui”, continuò Socrate, “il quale sembra non sapere che di noi due il vincitore è colui che ha effettuato le imprese più utili e più nobili, quelle capaci di rifulgere per l’eternità! [30] Peraltro”, si racconta che egli abbia detto, “se è vero che Omero ha attribuito ad alcuni, nel momento in cui si sciolgono dalla vita, la capacità di predire il futuro; voglio anch’io fare una profezia. Io ebbi a che fare una volta brevemente con il figlio di Anito, e mi parve trattarsi di un giovane non privo di fermezza d’animo; sicché io predico che egli non perdurerà nella servile occupazione che suo padre ha preparato per lui. E però a causa del fatto di non avere accanto a sé una persona virtuosa che si prenda cura di lui, cadrà preda di una qualche viziosa smania e procederà bene bene innanzi nel il cammino della depravazione”. [31] Dicendo ciò Socrate non si sbagliava. Infatti il giovanotto, trovando piacere nel vino, prese l’abitudine di bere giorno e notte senza interruzione, e alla fine divenne un buono a nulla, inutile alla sua città, agli amici ed a se stesso. Anito a sua volta, a causa della malvagia educazione del figlio e a causa della propria condotta scriteriata, continua a godere di pessima fama anche da morto. [32] Quanto a Socrate, a causa dell’esaltazione che fece di se stesso davanti al tribunale, suscitò invidia e fece sì che i giudici si esprimessero a maggioranza per la sua condanna. Comunque a me sembra che a lui sia toccata una sorte cara agli dei. Infatti si lasciò alle spalle la parte più brutta e penosa della vita, ed ottenne per sé la più facile delle morti. [33] Fece sfoggio di tutta la vigoria del suo animo, poiché riconobbe che per lui morire era meglio che continuare a vivere; e come non era mai stato incline a rammollirsi davanti agli altri beni, così non si rammollì davanti alla morte, che anzi accettò e realizzò con il sorriso sulle labbra. [34] Quando io mi fermo a riflettere sulla sapienza e sulla nobiltà d’animo di quell’uomo, non posso né dimenticarlo né fare a meno di lodarne la memoria. E se qualcuno di coloro che hanno di mira la virtù ha mai avuto a che fare con qualcuno più a ciò giovevole di Socrate, ebbene io ritengo quest’individuo degno della suprema beatitudine di un dio.

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Traduzioni

Omaggio a Socrate – Apologia di Socrate  Riassunto secondo il testo del dialogo di Platone

APOLOGIA DI SOCRATE

Primo discorso: sulla colpevolezza  di Socrate (17a-35d) 

1) Esordio
Io, a differenza dei miei accusatori, dirò soltanto la verità; e lo farò esprimendomi nel modo che mi è solito (17a-18a)

2) Piano di sviluppo della mia difesa 
Io mi difenderò innanzitutto dalla marea dei miei antichi accusatori, Aristofane in testa, che fanno di me un ‘pensatore della natura’ interessato ai fenomeni celesti e sotterranei; nonché un ‘sofista’ capace di far prevalere il falso e l’ingiusto sul vero e sul giusto. Mi difenderò poi dalle accuse recenti di Anito e dei suoi compari (18a-19a)

3) Confutazione (19a-28)

3a) Confutazione degli antichi accusatori (19a-24b)

3aa) Chi io non sono (19a-20c)

3aaa) Io non sono un ‘pensatore della natura’, e per dimostrarlo mi basta fare appello alla testimonianza personale della stragrande maggioranza dei giudici presenti, che mi conoscono bene (19a-19d) 

3aab) Io non sono un ‘sofista’ come Gorgia di Leontini, Prodico di Ceo o Ippia di Elide. Costoro si dichiarano capaci di trasmettere un sapere che permette ai giovani di raggiungere quell’eccellenza che conviene a chi è uomo e cittadino, e si fanno pagare per questo. Ma io purtroppo non possiedo questo sapere; tant’è vero che il facoltosissimo Callia, interrogato una volta in proposito proprio da me, affermava di voler affidare l’educazione dei suoi due figli  non a me ma ad Eveno di Paro (19d-20c) 

3ab) Chi io sono, e qual è l’origine delle calunnie contro di me (20c-24b)

3aba) Io non parteggio per nessuna delle fazioni politiche della città; non sono un poeta; non esercito alcun mestiere artigianale. Di cosa mi occupo dunque? Donde  vengono le calunnie di cui sono vittima? (20c) 

3abaa) Oggetto del mio sapere sono i giudizi capaci di fare di un ‘essere umano’ un ‘uomo che vive bene’. Sono dunque qualcosa di nuovo. Io sono un ‘filosofo’. E’ possibile che il sapere di Gorgia, di Prodico e di Ippia sia di un rango superiore alla ‘filosofia’, ma  in ogni caso io non possiedo questo sapere. Chi afferma il contrario dice una menzogna e mi calunnia (20d-20e) 

3abab) Sulla esistenza e sulla natura di questo mio sapere, sulla ‘filosofia’, io chiamo come testimone Apollo, il dio di Delfi (20e) 

3abac) Infatti Cherefonte, mio amico d’infanzia, osò una volta interrogare l’oracolo di Delfi per domandare se esistesse qualcuno più sapiente di me. La Pizia rispose che nessuno era più sapiente di me. Poiché Cherefonte è ormai morto, io chiamo a testimone di questo fatto il fratello di lui, Cherecrate (21a)
 
3abb) La mia inchiesta sul significato del responso dell’oracolo è all’origine delle calunnie di cui sono vittima (21b-22e) 

3abba) Non ritenendomi sapiente dei comuni saperi e siccome, però, Apollo non poteva mentire, mi risolsi di interrogare coloro che sono solitamente considerati sapienti. Se, tra di loro, io avessi potuto trovare qualcuno più sapiente di me, ecco che l’oracolo sarebbe stato provato falso (21b-21c)   

3abbb) La prima categoria di persone che interrogai fu quella dei cosiddetti politici. Oggetto del loro sapere sono i giudizi che portano alla conquista ed al mantenimento del ‘potere politico’. Questi individui passano agli occhi di molta gente, e soprattutto ai loro stessi occhi, per sapienti. Ma così non è. Io sono più sapiente di loro in quanto, almeno, so di non  sapere come si possa conquistare e  mantenere il ‘potere politico’. Essi immaginano, invece, di saperlo anche se, a causa della imprevedibilità degli esiti delle lotte di fazione, essi in realtà non lo sanno. Il risultato di questa inchiesta fu, per me, quello di attirarmi l’inimicizia dei ‘politici’ e dei loro galoppini (21c-21e) 

3abbc) La seconda categoria di persone che interrogai fu quella dei poeti. Portando con me le loro opere migliori, mi recai dai poeti e li interrogai incessantemente sul cosa avevano voluto dire nelle loro composizioni. Scoprii così che essi erano incapaci di rispondere alle mie domande, e mi convinsi che le loro composizioni non scaturiscono da un sapere ma da una disposizione naturale e da una possessione divina simile a quella di coloro che fanno profezie o rendono oracoli. Io sono più sapiente di loro in quanto, almeno, so di non sapere come si  compongano opere tanto mirabili. I poeti immaginano, invece, di saperlo. Ma così non è. Oggetto del loro sapere sono infatti soltanto i giudizi che rendono possibile la composizione di tragedie, commedie, ditirambi, eccetera; e non quel talento indipendente dalla ragione per cui essi si considerano, a torto, tra gli uomini più sapienti (22a-22c)

3abbd) La terza categoria di persone che interrogai fu quella degli artigiani. Oggetto del sapere di ciascuno di loro sono i giudizi che assicurano l’efficacia di ciascuna arte particolare. Da questo punto di vista trovai che effettivamente essi erano più sapienti di me. Ma mi resi anche conto che essi pretendevano del tutto impropriamente di possedere, per il fatto di praticare ciascuno la propria arte particolare in modo mirabile, i giudizi capaci di fare di un ‘essere umano’ un ‘uomo che vive bene’. E’ preferibile avere la loro sapienza e la loro ignoranza oppure non avere né la loro sapienza né la loro ignoranza? Per me la seconda alternativa è da preferire alla prima. Uno scultore saprà scolpire stupendamente ma non per questo saprà vivere bene. Io non saprò scolpire ma non per questo non saprò vivere bene (22c-22e)

3abc) Le conseguenze dell’inchiesta (22e-24b) 

3abca) Questa inchiesta mi ha procurato inimicizie numerose e violente, alle quali va fatta risalire l’origine delle calunnie di cui sono vittima (22e-23a) 

3abcb) Mi ha anche procurato il titolo di ‘sapiente’ nelle materie in cui, di volta in volta, metto alla prova i miei interlocutori. Ma è probabile che l’unico vero sapiente sia il dio e che il compito affidatomi da Apollo sia semplicemente quello di mostrare agli esseri umani che il loro sapere nulla vale a paragone del divino sapere sul ‘vivere bene’. Il servizio che io rendo al dio mi impedisce, inoltre, di occuparmi d’altro ed è anche causa della mia presente povertà di denaro (23a-23b)

3abcc) Molto deleteria è poi, per me, la comparsa spontanea di numerosi miei giovani imitatori. Costoro fungono, senza saperlo, da moltiplicatori della ostilità nei miei confronti (23c-23e) 

3abcd) E’ appoggiandosi su questa ostilità e queste calunnie che Meleto per conto dei poeti, Anito per conto degli artigiani e Licone per conto dei politici mi hanno denunciato. Questa è la verità. Ed è dicendo la verità che mi sono fatto tanti nemici. Sarà pertanto difficile, nel breve tempo del presente processo, che io riesca a distruggere, nella mente dei giudici, calunnie radicate profondamente e da tanto tempo (23e-24b)

3b) Confutazione dei nuovi accusatori e mio interrogatorio di Meleto (24b-28a)

3ba) Introduzione

3baa) L’accusa che il buon cittadino e patriota, a suo dire, Meleto ha presentato suona così: “Socrate è colpevole del delitto di corruzione della gioventù e del delitto di non legittimare gli dei che la città legittima, ma altre e nuove divinità” (24b-24c)

3bb) Sul delitto di corruzione della gioventù (24c-26a)

3bba) Meleto commette un primo errore circa la questione di sapere chi è capace di istruire un altro e di renderlo migliore. Egli risponde infatti alle mie domande dirette, affermando che tutti gli Ateniesi  sono capaci di istruire i giovani e di  renderli migliori eccetto me, che sono l’unico a corromperli. Accade la stessa cosa nel caso dell’allevamento dei cavalli? gli domando. O non accade piuttosto il contrario, cioè che uno solo o pochi sono capaci di istruire e rendere migliore qualcun altro mentre la maggior parte della gente lo rende peggiore? E’ così in tutti i casi: esseri umani, cavalli ed ogni altro vivente; qualunque cosa ne pensino Meleto ed Anito, io concludo. La risposta di Meleto testimonia il suo disinteresse per l’educazione dei giovani e la  leggerezza con la quale ha mosso la sua accusa (24c-25c)

3bbb) Meleto commette un secondo errore quando ritiene che io corrompa intenzionalmente la  gioventù. Ma, io affermo, chiunque corrompe un’altra persona corre poi il rischio, avendola trasformata in senso malvagio, di subire da quest’ultima un torto. Siccome nessuno cercherà mai, di  proposito, di subire un torto, ne consegue o che io non sono un corruttore dei giovani oppure che,  pur essendolo, non lo sono di mia piena intenzione. In quest’ultimo caso Meleto doveva avvertirmi personalmente e biasimarmi privatamente, non portarmi davanti ad un tribunale (25c-26a)

3bc) Sul delitto di legittimazione di nuovi dei e sul delitto di ateismo (26b-27e)

3bca) Secondo il capo di accusa, io corrompo i giovani insegnando loro a legittimare non gli dei che la città legittima ma altre e nuove divinità. Interrogato però da me, Meleto cambia l’accusa, affermando che io non legittimo assolutamente alcuna divinità e dunque che sono colpevole del delitto di ateismo. Io professo solennemente di non essere in alcun modo ateo e di credere per esempio, come tutti gli altri, che il sole e la luna siano dei. Che poi il sole sia una pietra e la luna una terra sono teorie discutibili quanto si vuole, ma note a tutti ed avanzate da Anassagora di Clazomene, non certo da me (26a-26e)

3bcb) Meleto tuttavia insiste nella sua accusa di radicale ateismo ed è pertanto costretto da me a contraddirsi. Come può, infatti, Meleto accusarmi di ateismo se Meleto stesso mi accusa di legittimare nuovi dei, siano essi demoni od altre entità a metà strada tra uomini e dei? Chi potrà mai credere che esistano muli ma non esistano cavalle ed asini, dal cui accoppiamento essi discendono? (26e-27e)

3c) Conclusione della mia difesa
Io ritengo a questo punto di avere dato la prova di non essere colpevole dei delitti di cui sono accusato da Meleto. Una mia eventuale condanna sarà dovuta non a queste accuse, che sono state provate infondate e false, ma alle calunnie sparse su di me da tanti Ateniesi ed alla loro gelosia (28a-28b)

4) Digressione (28b-34b)

4a) Prima obiezione: la condotta di vita scelta da te è dannosa, in quanto ti espone oggi al pericolo di una condanna a morte. Io rispondo che la mia condotta di vita è quella di un uomo virtuoso che si è messo al servizio di un dio (28b-31c) 

4aa) Bene è soltanto la virtù e ciò che partecipa della virtù: saggezza, giustizia, fortezza, temperanza (28b-30c)

4aaa) Alla obiezione che la mia condotta di vita è mortalmente dannosa, io rispondo affermando che la virtù, e non la vita, è il sommo dei beni; e che la viltà, e non la morte, è il sommo dei mali.  Infatti Achille non sarebbe il semi-dio Achille, se avesse paura più della morte che della viltà (28b-28d) 

4aab) Quando sappiamo giusta l’azione che compiamo, qualunque altra considerazione deve passare in secondo piano. All’assedio di Potidea, ad Amfipoli, nella battaglia presso il santuario di Apollo Delio a Lebadea, io non ha mai abbandonato, pur a rischio della vita, il posto di oplita che mi era stato assegnato dai vostri comandanti. Ora che Apollo mi ha assegnato il compito di vivere filosofando, ossia di sottomettere me stesso e gli altri ad un continuo esame della qualità e dello stato del nostro sapere, sarebbe ben strano che la paura della morte mi facesse abbandonare il mio posto. In questo caso, sì, sarebbe giusto tradurmi davanti ad un tribunale per accusarmi di non legittimare l’esistenza degli dei (28d-29a) 

4aac) Cos’è la paura della morte se non la pretesa di essere sapienti quando invece non lo si è? Per avere paura della morte bisogna infatti sapere cosa la morte è ed essere certi che è il sommo dei mali. Nessuno, invece, sa cosa sia la morte. Ed in questo io sono più sapiente di tanta gente. Io, infatti, so di non sapere se la morte sia un male oppure un bene. So invece con certezza che l’ingiustizia,   ossia disobbedire a chi è migliore di noi, sia esso un uomo oppure un dio, è un male. E dunque io non farò mai passare la paura di un male certo, ossia dell’ingiustizia, davanti a quella della morte, di cui non so se sia un male oppure un bene (29a-29b) 

4aad) Ai giudici  che oggi proponessero una assoluzione in cambio della rinuncia alla ‘filosofia’  io rispondo che obbedirei comunque al dio e non a loro, che non smetterei mai di spiegare ai miei concittadini ed agli stranieri che incontro, che la virtù non proviene dalla ricchezza di  denaro, dagli onori, dalla fama o dalle cariche pubbliche e che solo il virtuoso sa come apprezzare e godere della fama, degli onori, della ricchezza di denaro e delle cariche pubbliche (29b-30c)

4ab) Il virtuoso non può subire alcun male ad opera di chi virtuoso non è (30c-31c)

4aba) Gli Ateniesi non si rendono conto che, attraverso di me e la mia pratica della filosofia, il dio ha fatto alla città il regalo più grande. Uccidendomi, la città farebbe un male a se stessa, non a me. Anito e Meleto immaginano che per me la minaccia di una condanna a morte o all’esilio o alla privazione dei diritti di cittadinanza sia una prova terribile. Costoro non sanno, al contrario, che la sola cosa terribile in tutta questa vicenda è l’ingiustizia con la quale essi tentano di ottenere la morte di un uomo virtuoso e giusto, il quale è stato da Apollo attaccato ad Atene come un tafano ad un cavallo di razza che di tanto in tanto ha bisogno di essere risvegliato dalle punture dell’insetto. Questo è il compito che io svolgo, e questo compito è altamente giovevole ad Atene (30c-30e) 

4abb) Se, come un qualunque sofista, io mi facessi pagare per i miei consigli, la mia condotta avrebbe un senso banale e comprensibile a tutti. Ma i miei accusatori non hanno potuto produrre un solo testimone disposto ad attestare ciò. La verità del fatto che io sia un vero dono del dio ai miei  concittadini, per spronarli alla virtù ed alle ricchezze che da essa discendono è, a questo punto,  testimoniata dalla mia stessa onorata povertà di denaro (31a-31c) 

4b) Seconda obiezione: tu avresti dovuto prendere parte attiva alle lotte di fazione che dividono la città. 

4ba) Io rispondo che ne sono stato impedito da una voce interiore e divina e che, se avessi fatto questo, sarei già morto da molto tempo senza essere stato utile né a me stesso né alla città (31c-34b)

4baa) Io, che pure parlo in privato con chiunque, non ho mai avuto il coraggio di salire sulla tribuna della Pnice per parlare all’Assemblea del popolo. Questo comportamento mi è stato imposto da un segno divino, da una voce interiore che io sento fin dall’infanzia e che mi vieta di fare ciò che sto per fare, senza però spingermi mai a qualche azione specifica. Si è trattato di una opposizione particolarmente felice, giacché se avessi preso parte attiva alle lotte di fazione della città sarei già morto da molto tempo senza essere stato utile né a me stesso né alla città. (31c-31d) 

4bab) Infatti, chiunque cerchi di impedire qualcuna delle azioni ingiuste ed illegali che sono commesse in città per decisione dell’Assemblea del popolo o di qualche altro potere, trova prima o poi la morte ed è impossibile non commettere atti ingiusti ed illegali se si prende parte alle lotte di fazione e si vuole restare in vita. Due esempi che hanno riferimento diretto alla mia persona, in due contesti politici diversi, valgono a provarlo. Nel 406, in un contesto di potere democratico, io ero membro del Consiglio dei 500 e, dopo la battaglia delle Arginuse, fui il solo ad opporre il mio voto alla procedura illegale con la quale furono poi condannati a morte, in blocco, gli strateghi reduci da quell’impresa. Nel 404, in un contesto di potere oligarchico, fu ordinato a me e ad altre quattro persone di recarci a Salamina per catturare e portare ad Atene un certo Leonte, che doveva essere messo a morte. Ma io rifiutai di rendermi complice di questo crimine e, mentre gli altri quattro partirono per Salamina, io me ne andai a casa. Numerose persone possono attestare le mie affermazioni e ciò vale a dimostrare che io ho sempre preferito rischiare la vita piuttosto che commettere un atto ingiusto od empio. (31e-32e)

4bac)Ecco perché mi limito a discussioni private, dalle quali io non escludo nessuno (32e-33b)

4bad) Le persone che poi mi seguono, ed in particolare i giovani, lo fanno perché fa loro piacere vedere castigata, a volte, l’albagia di chi si crede sapiente senza esserlo. Ma pure ammettendo che io abbia corrotto i giovani che mi stanno intorno come mai non uno solo, non di loro, ma dei loro parenti più prossimi, che certamente avrebbero tutto l’interesse a denunciarmi, è salito su questa tribuna per dare man forte all’accusa di Meleto? Questi parenti presenti al processo io posso indicarli a Meleto a decine, e mi offro di lasciargli il posto così che egli possa produrli come testimoni dell’accusa (33b-34b)

5) Perorazione: io non supplicherò i giudici (34b-35d)

Giunti a questo punto del processo è costume comune, anche per casi meno gravi, che gli accusati supplichino, versino torrenti di lacrime e facciano salire sulla tribuna i loro bambini, parenti ed amici per impietosire i giudici e strappare così un voto di assoluzione. Io, che pure ho tre figli e parenti ed amici, non farò nulla del genere ed invito i giudici a non irritarsi per questo ed a non depositare un voto di condanna che sarebbe allora mosso soltanto dalla collera. Se, a torto o a ragione, vi è in me qualcosa che mi distingue dalla maggior parte degli altri, ebbene il supplicare i giudici non gioverebbe certamente a questa mia reputazione. Né gioverebbe a quella di Atene, la quale vede già troppi suoi rinomati cittadini perdere ogni dignità di fronte all’eventualità di una propria condanna. Costoro, in nulla distinguendosi dalle femminette, immaginano la morte un male spaventoso -come se una volta assolti, invece, diventassero immortali- e  preferiscono, alla morte, vivere nella vergogna. Questo è un comportamento ridicolo che, per la buona reputazione della città, i giudici dovrebbero fermamente sanzionare (34b-35b)
A parte la questione della reputazione, supplicare i giudici non è comunque atto conforme a giustizia. I giudici, infatti, non siedono in tribunale per fare della giustizia un favore ma per rendere giustizia conformemente alle leggi sulla base della esposizione dei fatti e di una libera persuasione (35b-35c) 
Se io supplicassi i giudici e li inducessi così a violare la santità del loro giuramento insegnerei, con questo, a credere che gli dei non esistono e darei davvero la prova provata di essere meritevole di condanna. Ma così non sarà, ed io professo di legittimare gli dei più fermamente dei miei accusatori (35c-35d)

Ha luogo la votazione. 
L’esito della votazione è il seguente: circa 280 giudici hanno votato per la condanna di Socrate, circa 220 per la sua assoluzione. 
Socrate risulta dunque condannato. 
I suoi accusatori hanno proposto per lui la pena di morte. 
Tocca ora a Socrate proporre una pena alternativa. 
I giudici voteranno poi una seconda volta per decidere quale delle due pene infliggere a Socrate.

Secondo discorso: sulla pena da infliggere a Socrate (35e-38b)

6) Esordio 

Sono stato riconosciuto colpevole, ma soltanto per un lieve scarto di voti. Sarebbe bastato lo spostamento di una trentina di voti ed il verdetto sarebbe stato, sorprendentemente per me, di assoluzione. Essendo tre i miei accusatori, io mi considero comunque assolto dalle accuse di Meleto al quale, avendo da solo raccolto meno del venti per cento dei voti totali, spetterebbe addirittura di pagare una ammenda di 1000 dracme (35e-36b)

7) Proposizione da parte mia di una pena alternativa alla morte e che tenga conto dei miei meriti (35e-37a)

La pena proposta per me da Meleto è la morte. Tocca ora a me proporre per me una pena alternativa. Qual è la pena giusta per un uomo che ha trascurato gli affari, l’amministrazione del proprio patrimonio, le cariche, le magistrature, le fazioni politiche della città per dedicarsi a spronare ciascun singolo cittadino ad una vita migliore, la più virtuosa possibile? (36b-36d)
Il trattamento che va riservato ad un simile uomo, ad un uomo povero di denaro, a un benefattore della città, a qualcuno che ha bisogno di tempo libero non per riportare vittorie alle Olimpiadi montando cavalli da corsa ma per dire la verità ai suoi concittadini, è quello di essere mantenuto a spese pubbliche nel Pritaneo. Questa è la giusta pena che io propongo per me (36d-37a) 

8) Proposizione da parte mia di una pena alternativa alla morte e che tenga conto delle regole giudiziarie (37a-38b)

Mi rammarico di non essere riuscito a convincere i giudici della mia innocenza e sono certo che, se il processo fosse durato non un giorno soltanto ma più giorni, sarei riuscito ad allontanare da me le gravi calunnie di cui sono stato vittima. Sapendo di essere innocente, io non posso comunque essere ingiusto con me stesso e proporre una pena che non merito. La mia non è dunque arroganza. Della morte, ignorando se essa sia un bene o un male, io non ho paura. Vogliono invece ad ogni costo i giudici che io scelga per me, come pena, qualcosa che so essere certamente per me un male? Sarà la schiavitù dell’ergastolo? Sarà una forte ammenda e la prigione fino a che io non l’abbia pagata? Ma questa pena equivarrebbe alla precedente, giacché non avrei comunque denaro sufficiente per pagarla. Sarà l’esilio? Questa è una pena che i giudici si aspettano che io proponga e che potrebbero accettare.  Ma se sono diventato insopportabile per i miei concittadini Ateniesi, come potrei sperare di non diventarlo per gli abitanti di città straniere, come potrei sperare di non essere scacciato anche di là? (37a-37e)
Non potrei andare in esilio e lì starmene zitto e tranquillo? A questa proposta io rispondo che così facendo disubbidirei al dio e che una vita senza la luce della ‘filosofia’, senza il continuo esame della qualità e dello stato del nostro sapere, non merita di essere vissuta. (37e-38a)
Io non reclamerò mai per me stesso un male. Se avessi del denaro, avrei dunque già proposto come pena una congrua ammenda che fossi in grado di pagare. La perdita di un po’ di denaro, infatti, non rappresenta alcun male. A meno che voi giudici non accettiate la proposta della modesta ammenda di soltanto una mina, somma di cui dichiaro di disporre. Ecco dunque la pena legale che io propongo per me. (38a-38b) 
A questo punto, alcuni amici presenti al processo mi sollecitano ad elevare l’ammontare della ammenda da una mina a trenta mine. Saranno essi i garanti del pagamento di tale somma. (38b-38c)

Ha luogo la seconda votazione. 
L’esito della votazione è il seguente: Socrate è condannato a morte.

Terzo discorso: ai giudici che hanno votato per la condanna a  morte di Socrate (38c-39d)

9) Esordio

Con il presente verdetto gli Ateniesi acquisiranno, presso tutti coloro che intendono denigrare Atene, la fama di avere ingiustamente condannato a morte un uomo sapiente. Io sono ormai molto anziano e non lontano dalla morte. Vi sarebbe bastato aspettare un po’ di tempo e lasciar fare alla natura, per sgravarvi di una responsabilità tanto obbrobriosa. (38c)

10) La pena alla quale sono stato condannato io e la pena alla quale sono stati condannati i miei accusatori (38d-39b)

10a) La causa della mia condanna a morte e la qualità della mia pena 

10aa) Ciò che ha portato alla mia condanna  è stata la mia incapacità a tenere i discorsi che conseguono al giudizio che bisogna dire e fare qualunque cosa pur di sfuggire alla morte. Dunque a perdermi  è stata la mia incapacità a mostrare ardire protervo e sfrontatezza nel piangere, nel gemere, nell’implorare al modo che i giudici sono abituati a veder fare dagli altri accusati. Ma tutto ciò non è degno di un uomo libero come me ed io non mi pento affatto del comportamento che ho tenuto. Io preferisco morire a prezzo della libertà piuttosto che vivere a costo della viltà. (38d-39a) 

10b) Da chi ed a quale pena sono stati condannati i miei accusatori 

10ba) Tanto in tribunale quanto in guerra, se si ha la sfrontatezza di fare qualunque cosa, si hanno molte probabilità di sfuggire alla morte. Ma a quale costo? E’ più difficile sfuggire alla viltà che alla morte. In effetti la viltà corre molto più veloce della morte. Io, ormai vecchio e lento, sono stato raggiunto dalla morte. I miei accusatori, giovani e agili, sono stati raggiunti dalla viltà, e dall’ingiustizia. E questa è la condanna alla quale essi sono stati condannati dalla verità. (39a-39b)

11) La mia profezia

Ormai vicino a morire, io mi trovo in quel momento della vita che è il più propizio alle profezie. I giudici che mi hanno condannato a morte credono di essersi così liberati dalla necessità di giustificare e di rendere conto del loro modo di vita. Ma questo è un cattivo calcolo, e la maniera che essi hanno scelto per sbarazzarsi del problema non è né particolarmente efficace né particolarmente onorevole. Il solo modo elegante e pratico per risolvere il problema non consiste nello sbarazzarsi di uomini come me ma nel prendere i provvedimenti che si impongono affinché ciascuno di voi faccia di se stesso il miglior uomo possibile. Dopo la mia scomparsa, vipredicoche non diminuirà ma aumenterà il numero di coloro che chiederanno agli Ateniesi di giustificare il loro modo di vita, e molti di costoro saranno giovani, e più aggressivi di quanto sarebbero stati se io fossi ancora in vita. (39c-39d)

Mentre si portano a termine le formalità processuali di rito ed in attesa di essere condotto nella prigione dove dovrà morire, Socrate si rivolge ai cittadini che hanno votato per la sua assoluzione.

Quarto discorso: ai giudici che hanno votato per l’assoluzione di Socrate (39e- 41c)

12) Esordio

Ai cittadini che hanno votato per la mia assoluzione, ed ai quali soltanto riservo il nome di ‘giudici’, io intendo spiegare, come ad amici, la mia interpretazione di quanto è accaduto (39e-40a)

13) Come io interpreto i fatti accaduti

Mi è accaduto, con la condanna a morte, ciò che viene comunemente ritenuto il sommo dei mali. Non è affatto questa la mia interpretazione dei fatti. Come si può conciliare la serenità di cui godo con il giudizio di patire un male? In effetti oggi mi è accaduto qualcosa di straordinario.Il segno divino, quella voce interiore che io sento fin dall’infanzia e che mi vieta di fare ciò che non devo fare e che non è bene, anche in questioni di poco conto, non mi ha mai avvertito della presenza di un pericolo e nonmi ha trattenutoné in mattinata quando stavo uscendo di casa né quando, in tribunale, stavo salendo sulla tribuna né in alcun momento dei miei discorsi di difesa. Non vi è che una spiegazione possibile di tutto ciò, ed è che quanto è accaduto  è verosimilmente un bene per me. (40a-40c)
      
14) Per me la morte non è di per sé un male e forse è un bene. Due possibili rappresentazioni della morte (40c-41c)

14a) La morte come sonno eterno

Nei confronti della morte, delle due cose l’una. O chi muore non ha mai più coscienza di nulla oppure la morte è, per l’animo, un cambiamento di domicilio. Se si crede la morte un tranquillo, eterno sonno, chi non considererebbe ciò un bene? Chi, sia egli un re o un semplice essere umano, non preferirebbe questo alle angosciose notti colme di incubi o ai disperati giorni pieni di paura che tutti i viventi conoscono? (40c-40e)

14b) La morte come cambiamento di domicilio dell’animo

Se, con la morte, il nostro animo si sposta in una regione nella quale trova gli animi di tutti coloro che ci hanno preceduto ebbene, io dico, anche in questo caso non varrebbe la pena di considerare ciò un bene? Essere giudicati da veri giudici giusti, godere della compagnia di semi-dei, di eroi e di uomini illustri, poter sottoporre costoro all’esame cui io sottoponevo i miei concittadini senza rischiare, per questo, la morte: non sarebbe, tutto ciò, il colmo della felicità? (40e-41c) 

15) Conclusione generale di Socrate

Nessun male potrà mai toccare l’uomo virtuoso né in vita né in morte, ed egli avrà sempre su di sé lo sguardo interessato degli dei. La sorte che oggi mi è toccata non è il frutto di un caso. Al contrario, è evidente che adesso per me è meglio morire ed essere così liberato da ogni preoccupazione. Ecco perché il segno divino non mi ha mai trattenuto ed ecco perché io non serbo rancore né per i miei accusatori né per i giudici che mi hanno condannato. Costoro intendevano però causarmi un male, che invece hanno causato a loro stessi, e per questo vanno biasimati. Ma essi possono ancora ricredersi e dare una futura prova di giustizia nei miei confronti. (41c-41e)

16) L’estrema richiesta di Socrate ai giudici che lo hanno condannato 

Quale? Se ad essi parrà che i miei figli, quando saranno grandi, si diano pensiero del denaro o di qualunque altra cosa più che della virtù; se ad essi parrà che credano di essere qualcosa mentre non sono nulla: di punirli, di tormentarli, di indirizzare ai miei figli il rimprovero che io indirizzavo proprio a loro: quello di non darsi pensiero di ciò di cui ci si deve dare pensiero e di credersi qualcuno mentre non si vale nulla. (41e-42a)

17) Epilogo

Ma ecco che io vengo condotto via, verso la prigione dove dovrò morire, mentre i giudici ed i cittadini sfollano il tribunale e vanno ciascuno verso la loro vita. Chi di noi va verso la sorte migliore? Nessuno conosce la risposta, eccetto chi è dio. (42a)

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OMAGGI A SOCRATE

La Scuola di Atene dipinta da Raffaello

Perché un ‘Omaggio a Socrate’ in un sito dedicato essenzialmente agli Stoici? La risposta è semplice: perché Socrate, che è universalmente ritenuto colui che ha per primo introdotto l’Etica nel discorso filosofico, attraverso i suoi discepoli Antistene e Platone è all’origine di due indirizzi filosofici destinati a durare nei secoli e giungere fino a noi. Il primo di questi indirizzi filosofici è rappresentato dalla scuola Cinica, le cui figure principali sono, in successione cronologica, quelle di Antistene, Diogene di Sinope e Cratete. Da questa stessa scuola Cinica, alla quale mi propongo di dedicare in un prossimo futuro un altro ‘Omaggio’, nascerà poi la scuola Stoica, giacché il suo fondatore, ossia Zenone di Cizio, fu per un certo tempo allievo proprio di Cratete. Il secondo indirizzo filosofico è rappresentato da Platone, che con la fondazione dell’Accademia scelse invece la via dell’Idealismo.

A più di duemila anni dalla sua scomparsa, l’Omaggio che dedico a Socrate si compone di sei miei testi.

1) Il primo è la mia traduzione dal greco in italiano del capitolo che Diogene Laerzio dedica a Socrate nel II Libro delle sue ‘Vite dei Filosofi’. Questo testo risale alla prima metà del III secolo dopo Cristo.

2) Il secondo testo è il mio riassunto-sintesi molto dettagliato della ‘Apologia di Socrate’ scritta da Platone. Socrate fu condannato a morte e morì nel 399 avanti Cristo. Quando Platone abbia scritto questa Apologia non è noto con certezza, ma si può ragionevolmente datare la sua redazione entro il decennio successivo alla morte di Socrate, ossia tra il 399 e il 389 a. C. Non propongo la traduzione di quest’opera bensì il riassunto-sintesi, in quanto ho pensato che questo testo possa essere utile soprattutto ai giovani studenti delle scuole superiori, i quali per la prima volta incontrano Socrate sulla loro via e non hanno tempo sufficiente da dedicare ad un testo altrimenti piuttosto lungo ed impegnativo.

3) Il terzo testo è la mia traduzione dal greco in italiano della ‘Apologia di Socrate’ scritta da Senofonte. Si tratta di un testo del quale è impossibile stabilire una data di redazione certa, ma che è verosimilmente coevo a quello di Platone. Ne offro la traduzione poiché si tratta di un’operetta di lunghezza contenuta, di facile leggibilità e capace di lumeggiare aspetti di Socrate che invece Platone preferisce ignorare o trascurare.

4) Il quarto testo è una mia breve nota nella quale mi piace sfatare la diceria secondo la quale Socrate è l’autore della famosa frase “So di non sapere nulla”: frase talmente utile e adatta alla pigrizia mentale degli esseri umani da essere scritta sulle T-shirt che si vendono a migliaia nella Plaka di Atene. E nel contempo faccio notare come il ‘démone’ che Socrate per primo introduce nel discorso filosofico possa essere il diretto progenitore della ‘proairesi’ di Epitteto. 

5) Nel quinto testo lascio la parola direttamente a Socrate, il quale discute in prima persona del suo démone, ne rintraccia la presenza in testi di autori di tutte le epoche e ne conferma la stretta parentela con la proairesi di Epitteto.

6) Nel sesto testo Socrate parla della sua cosiddetta ‘atopia’ e ce ne dà una spiegazione assai diversa da quelle correnti. Ma soprattutto ci mostra come il modello dell’animo elaborato dagli Stoici renda obsoleto quello di Platone, che è invece ancora oggi considerato e utilizzato quale modello standard.

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Omaggio a Socrate – Diogene Laerzio ‘Vite dei filosofi’ Libro II

DIOGENE LAERZIO LIBRO II

SOCRATE (469 – 399 a. C.)

[II,18] Socrate era figlio di Sofronisco, uno scalpellino, e di Fenarete, una mammana, come afferma Platone nel ‘Teeteto’. Era Ateniese, del demo Alopece. Pare che abbia collaborato con Euripide, ragion per cui Mnesimaco dice così:

‘Questo è ‘I Frigi’, il nuovo dramma di Euripide
<cucinato dentro un pentolone> sotto il quale anche Socrate 
mette di suo della legna secca’

e ancora:

‘Euripide incavicchiato da Socrate’.

E Callia nei suoi ‘Prigionieri in ceppi’ dice:

‘A. Perché hai un’aria così solenne e così orgogliosa?
B. Ne ho ben donde: Socrate è il mio autore’.

E Aristofane nelle ‘Nuvole’:

‘È questo qui che fa le tragedie per Euripide,
quelle storie piene di ciarle sapienti’.

[II,19] Secondo alcuni egli fu uditore di Anassagora; ma anche di Damone, come afferma Alessandro nelle sue ‘Successioni dei filosofi’. Dopo la condanna di Anassagora divenne discepolo del fisico Archelao del quale, secondo Aristosseno, diventò pure l’amasio. Duride riferisce che egli fece il manovale e che lavorava la pietra; e taluni affermano che sono opera sua le Grazie con i drappeggi che si trovano sull’Acropoli. Perciò Timone nei suoi ‘Silli’ dice:

‘Altra strada rispetto ai quali prese <Socrate>, lo scalpellino, il ciarlone di leggi,
l’ammaliatore dei Greci, l’inventore di sottili argomentazioni,
il motteggiatore derisore dei retori, l’ironizzatore Attico a metà’.

Come riferisce Idomeneo, Socrate era infatti un abilissimo oratore; [II,20] ma i Trenta, secondo quanto racconta Senofonte, gli vietarono di insegnare l’arte della parola. Aristofane gli fa fare in commedia la parte di colui che è capace di trasformare il torto in ragione. Secondo quanto afferma Favorino nella sua ‘Storia varia’, Socrate fu il primo, insieme al suo allievo Eschine, ad insegnare la retorica. Anche Idomeneo dice la stessa cosa nella sua opera ‘Sui Socratici’. Egli fu anche il primo a discutere sulla condotta della vita umana e morì, primo tra tutti i filosofi, in seguito a una condanna a morte. Aristosseno, figlio di Spintaro, afferma che egli si occupò di finanza, giacché soleva investire un certo capitale, ricavarne un interesse, spendere l’interesse e reinvestire il capitale. Demetrio di Bisanzio riferisce che Critone, innamoratosi della grazia del suo animo, lo tirò fuori dall’officina nella quale lavorava e lo fece educare. [II,21] Una volta riconosciuto che la speculazione naturalistica non ha per noi alcun valore, Socrate discuteva di questioni etiche sia nelle officine che nella piazza del mercato, ripetendo che a lui interessava ricercare:

‘quel che di cattivo e di buono c’è nella magione’.

Nel corso delle sue ricerche discuteva spesso con grande veemenza, sicché gli interlocutori lo prendevano a pugni oppure gli strappavano i capelli; la maggior parte delle volte, però, lo deridevano con disprezzo. Ma egli sopportava pazientemente tutte queste offese. Ragion per cui anche quando fu preso a calci, poiché un tale era meravigliato della sua sopportazione Socrate gli disse: “Se mi avesse dato un calcio un asino, forse che gli farei intentare un processo?”. Queste sono le cose che racconta Demetrio. [II,22] Come accade ai più, non ebbe mai bisogno di andare all’estero fuorché quando ci fu bisogno di partecipare ad una spedizione militare. Per il resto del tempo se ne stava ad Atene e qui la sua maggiore ambizione era di poter fare dibattiti, non per far cambiare opinione agli interlocutori bensì nel tentativo di imparare da loro la verità. Si racconta che Euripide gli diede una copia dell’opera di Eraclito e gli chiese: “Cosa ti sembra?”. La risposta di Socrate fu: “Le cose che ho capito mi sembrano davvero eccellenti, e credo che lo siano anche quelle che non ho capito, eccetto che per arrivare al loro fondo c’è bisogno di un palombaro di Delo”. Usava darsi gran cura degli esercizi fisici ed era di corporatura forte e vigorosa. Prese parte alla spedizione militare contro Amfipoli, e nella battaglia di Delio raccolse e salvò la vita a Senofonte che era caduto da cavallo. [II,23] In quell’occasione, mentre tutti gli Ateniesi s’erano dati ad una fuga precipitosa, Socrate arretrava invece senza fretta, volgendosi continuamente qua e là e pronto a difendersi se mai qualcuno lo assalisse. Partecipò anche alla spedizione militare contro Potidea: città che fu raggiunta per via di mare in quanto, a causa della guerra in corso, era impossibile arrivarvi per via di terra. Si racconta che in quest’occasione Socrate tenne per una notte intera una certa posizione militare chiave. Si meritò così sul campo il primo premio del valore, che egli però cedette ad Alcibiade del quale, come afferma Aristippo nel quarto libro della sua opera ‘Sulla dissolutezza degli antichi’, egli era l’amante. Ione di Chio afferma che da giovane Socrate viaggiò fino a Samo in compagnia di Archelao, ed Aristotele che andò a Delfi. Nel primo libro dei suoi ‘Memorabili’ Favorino riferisce poi che egli raggiunse anche l’Istmo di Corinto. [II,24] Era un uomo di solide convinzioni e favorevole al partito popolare. Ciò è manifesto dal fatto che non cedette agli ordini dei membri del partito di Crizia, i quali gli intimarono di portare dinanzi a loro Leonte di Salamina, un uomo assai ricco, per mandarlo a morte; e che fu il solo a votare contro la condanna dei dieci generali. Altrettanto manifesto ciò è dal fatto che quando gli fu possibile evadere dalla prigione, egli non volle farlo; che censurò coloro che erompevano in alti lamenti per la sua sorte; e che fece quei famosi, bellissimi discorsi mentre era in catene. Era un uomo di carattere indipendente e che ispirava rispetto. Nel settimo libro dei suoi ‘Appunti’, Panfilo ricorda che una volta Alcibiade gli offrì un grande pezzo di terreno affinché potesse costruirvi sopra una casa, e che lui gli disse: “Se io avessi bisogno di calzari e tu mi offrissi del cuoio col quale farmeli io stesso, sarei ridicolo se lo accettassi”. [II,25] Spesso, guardando la moltitudine di merci che erano poste in vendita, diceva a se stesso: “Di quante cose non ho bisogno!”. Di continuo poi recitava ad alta voce questi versi giambici:

‘Le argenterie o le vesti di porpora
son buone per le tragedie, non per la vita’.

Trattò con profondo disprezzo Archelao di Macedonia, Scopa di Crannone ed Euriloco di Larissa, non accettando soldi da loro e non recandosi alle loro corti. Il suo tenore di vita era disciplinatissimo, tanto che quando ad Atene vi erano delle pestilenze, spesso lui era il solo a non ammalarsi. [II,26] Aristotele dice che egli sposò due donne. La prima fu Santippe, dalla quale ebbe il figlio Lamprocle. La seconda fu Mirto, figlia di Aristide detto ‘il Giusto’, che egli prese in sposa pur se priva di dote e dalla quale nacquero i figli Sofronisco e Menesseno. Altri affermano però che egli sposò per prima Mirto. Altri ancora, tra i quali sono Satiro e Ieronimo di Rodi, riferiscono che egli le ebbe contemporaneamente entrambi come mogli. Essi raccontano infatti che gli Ateniesi avevano deliberato di accrescere di numero la popolazione e che, a causa della scarsezza di individui maschi, avevano votato di concedere il diritto di sposare una donna cittadina e però di avere figli anche da un’altra: il che è ciò che anche Socrate fece. [II,27] Era capace di guardare dall’alto in basso coloro che lo schernivano; andava fiero della sua parsimonia e non riscosse mai alcuno stipendio. Poiché mangiava con sommo piacere, soleva dire di non avere affatto bisogno di cibi squisiti; e poiché beveva con sommo piacere, diceva di non aspettarsi altra bevanda che quella che era a disposizione; e poiché aveva bisogno di pochissime cose, di essere vicinissimo agli dei. Queste sue affermazioni si possono apprendere anche dai testi dei commediografi, i quali non si rendono conto di stare lodandolo proprio attraverso ciò che dicono di lui per schernirlo. Aristofane parla di lui in questi termini:

‘O uomo giustamente smanioso della grande sapienza,
come te la passerai felice tra gli Ateniesi ed i Greci!
Tu sei uno di memoria tenace, e pensatore, e la sopportazione è dentro
l’animo tuo, e non ti stanchi né stando fermo né camminando,
e non soffri troppo quando hai freddo, e non dai in smanie per la colazione,
e ti astieni dal vino, dalla voracità e dalle altre stupidaggini’.

[II,28] Amipsia, mettendolo in scena con indosso una mantellina, dice così:

‘O Socrate, di un pugno d’uomini il migliore, 
certo di gran lunga il più stravagante, anche tu 
sei giunto tra di noi. Forte lo sei davvero. Ma da dove 
potrebbe venire per te una mantella di cuoio?
B. Questa mancanza è diventata un’offesa per i cuoiai!
A. Costui, pur affamato non s’è mai piegato ad adulare!

Il suo sguardo superiore e la sua grandezza d’animo, la rende palese Aristofane quando dice:

‘Perché tu ti pavoneggi per le strade, e torci gli occhi,
e scalzo molti mali sopporti, e guardi a noi con aria grave’.

Eppure, a volte e nelle opportune occasioni Socrate sapeva adattarsi ed indossare splendide vesti: come quando, nel ‘Simposio’ di Platone, sta camminando verso la casa di Agatone. [II,29] Socrate era abile tanto nello spronare gli altri quanto nel trattenerli. Infatti, dopo avere discusso con lui su cosa sia la ‘scienza’, congedò Teeteto pieno di entusiasmo, come ci riferisce Platone. Invece, facendo con lui una serie di considerazioni su cosa sia il ‘sacro’, distolse dal suo proposito Eutifrone, il quale voleva intentare un processo contro suo padre per l’omicidio di un servo di casa. E con lo spronarlo alla virtù, fece di Liside una persona di grande moralità. Socrate era infatti abilissimo a trovare le proprie argomentazioni traendole dai fatti. Fece rinsavire anche suo figlio Lamprocle, il quale era oltremodo infuriato contro la madre Santippe; come racconta, se non erro, Senofonte. Distornò Glaucone, il fratello di Platone che voleva interessarsi di affari cittadini, da un simile progetto in quanto del tutto inesperto di politica, come dice Senofonte. Al contrario, invece, assistette Carmide in tale progetto in quanto possedeva le qualità adatte allo scopo. [II,30] Risollevò lo spirito di Ificrate, il generale, mostrandogli i galli da combattimento del barbiere Midia, che sbattendo le ali sfidavano quelli di Callia. E Carmide, il figlio di Glaucone, era del parere che Socrate procacciasse alla città il prestigio che procaccia il possesso di un fagiano o di un pavone. Soleva ripetere che è stupefacente la facilità con la quale ciascuno di noi saprebbe dire il numero delle pecore che ha, e invece non saprebbe dire né il nome né il numero degli amici che possiede: a tal punto li tiene in poco conto. Vedendo che Euclide s’industriava assai sui discorsi eristici, gli disse: “Euclide, potrai adoperarli con i sofisti, ma con gli uomini mai”; giacché credeva del tutto inutile, come afferma Platone nel suo ‘Eutidemo’, darsi da fare su ragionamenti frivoli e cavillosi. [II,31] Quando Carmide gli offrì dei servi affinché potesse dal loro lavoro ricavare delle entrate, Socrate declinò l’offerta; e secondo alcuni ebbe anche in disdegno la bellezza fisica di Alcibiade. Secondo quanto afferma Senofonte nel suo ‘Simposio’, lodava invece il tempo libero dedicato all’educazione come il più meraviglioso dei possessi. Ripeteva perciò che vi è un solo bene: la scienza; e un solo male: l’ignoranza; e che la ricchezza di denaro e la nobiltà di natali non incorporano in se stessi alcunché di buono e solenne bensì, tutt’al contrario, ogni male. Quando dunque un tale gli disse che Antistene aveva una madre originaria della Tracia, Socrate gli rispose: “E tu crederesti che da due Ateniesi possa nascere una persona di tale nobiltà d’animo?”. Ingiunse poi a Critone di pagare il riscatto di Fedone il quale, essendo un prigioniero di guerra era costretto a prostituirsi, e ne fece un filosofo. [II,32] Quand’era ormai vecchio imparò a suonare la lira, affermando che nulla c’è di assurdo nell’imparare le cose che uno non sa. Danzava inoltre regolarmente, ritenendo che simile ginnastica fosse vantaggiosa per la buona complessione fisica, come anche Senofonte afferma nel suo ‘Simposio’. Soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo quel che gli sarebbe accaduto; che l’essere da esso ben comandati, anche se per poco tempo, non è piccola cosa; e di nulla sapere se non sapere che c’è questo demone. Diceva anche che quanti comperano a caro prezzo frutti precoci, rinunciano con ciò a farli giungere a maturazione. Interrogato una volta su quale fosse la virtù di un giovane, rispose: “Nulla di troppo”. Era dell’avviso che si debba imparare la geometria fino al punto da essere capaci di misurare la terra che si acquisisce o si cede. [II,33] Quando nella sua ‘Auge’ Euripide afferma della virtù che:

‘la miglior cosa è lasciar queste cose andare come capita’,

Socrate si alzò e uscì dal teatro, dicendo che è ridicolo ritenere cosa degna l’andare in cerca di un servo fuggitivo che non si trova, e invece lasciar andare in malora a questo modo la virtù. Richiesto da un tale se sia il caso di sposarsi oppure no, rispose: “Qualunque delle due cose tu faccia, te ne pentirai”. Diceva anche di stupirsi assai del fatto che quanti scolpiscono statue di marmo, d’altro non si diano pensiero se non che la pietra sia il più possibile simile al modello umano; e che invece non si diano alcun pensiero di non apparire essi stessi simili a pezzi di marmo. Soleva sollecitare i giovani a guardarsi di continuo nello specchio, allo scopo, nel caso fossero belli, di diventarne degni; e nel caso fossero brutti, di nascondere la loro bruttezza sotto la buona educazione. [II,34] Una volta Socrate invitò a pranzo delle persone ricche, e poiché Santippe temeva di non essere all’altezza della situazione, lui le disse: “Fatti coraggio: se fossero persone a modo, si comporterebbero con compiacenza; se saranno degli sciocchi, di loro a noi non importerà nulla”. Soleva ripetere che mentre gli altri uomini vivono per mangiare, lui invece mangiava per vivere. Circa la folla indistinta, era dell’avviso che è come se uno, mentre rifiuta di accettare per buona una tetradracma, accettasse invece come buone simili monete se sono in mucchio. Quando Eschine gli disse: “Sono povero e non ho altro, ecco ti do me stesso”, Socrate gli rispose: “Non ti accorgi che mi stai offrendo la cosa più grande di tutte?”. Un tale esprimeva il suo disappunto perché quando i Trenta misero in piedi il loro governo non lo tennero in considerazione, e Socrate gli disse: “E non te ne penti?”. [II,35] A chi gli diceva: “Gli Ateniesi ti hanno condannato a morte”, egli rispose: “E la natura ha condannato a morte gli Ateniesi”. Altri tuttavia attribuiscono questo detto ad Anassagora. Quando sua moglie gli disse: “Tu muori ingiustamente”, Socrate le rispose: “E tu vorresti che io morissi colpevole?”. Quando in sogno gli sembrò che un tale gli dicesse:

‘Al terzo giorno verrai a Ftia fertile zolla’,

disse ad Eschine: “Fra tre giorni morirò”. Poco prima che bevesse la cicuta, Apollodoro gli offrì un mantello bello ed elegante affinché potesse morire con esso addosso. Ma Socrate gli disse: “E perché? Se il mio mantello era idoneo a rivestirmi da vivo, non lo sarà anche per morirci dentro?”. A chi gli annunciava: “Il tale parla male di te!”, egli rispose: “Già, non ha mai imparato a parlar bene”. [II,36] Poiché Antistene aveva rivoltato e messo in vista la parte lacera della sua mantellina, Socrate gli disse: “Attraverso la mantellina vedo la tua vanagloria”. A chi gli diceva: “Ma il tale non ti sta ingiuriando?”, Socrate rispose: “No, queste sue ingiurie nulla hanno a che fare con me”. Soleva poi affermare che bisogna offrirsi a bella posta alle facezie dei poeti comici, giacché se queste cogliessero qualcuno dei nostri difetti, ci correggeranno; se no, i loro lazzi non ci riguarderanno”. Quando Santippe prima lo coprì d’ingiurie e poi gli rovesciò addosso dell’acqua, Socrate disse: “Non dicevo io che quando Santippe tuona, poi fa anche piovere?”. Ad Alcibiade il quale diceva che Santippe è insopportabile quando si mette ad ingiuriare, Socrate rispose: “Ma io c’ho fatto l’abitudine. È come se sentissi di continuo lo stridore di una carrucola. [II,37] E tu” soggiunse quindi “non sopporti forse il chiasso delle oche starnazzanti?”. “Sì, ma quelle mi danno uova e pure dei paperi!”. “E pure a me Santippe genera dei figli!”. Nella piazza del mercato una volta Santippe gli strappò addirittura di dosso il mantello, e mentre i conoscenti che aveva intorno gli suggerivano di difendersi mettendole le mani addosso, Socrate disse: “Sì, per Zeus, di modo che mentre noi facciamo a pugni, ciascuno di voi possa poi mettersi a gridare ‘Forza Socrate!’ e ‘Dai Santippe!’ ”. Soleva ripetere di montare una moglie riottosa come i cavalieri cavalcano i cavalli focosi, e diceva: “Come i cavalieri, una volta domati questi, riescono poi facilmente a spuntarla con gli altri; così anch’io, abituato alla relazione con Santippe, saprò convivere con gli altri uomini”. Questi ed altri simili sono le parole ed i fatti che trovarono testimonianza da parte della Pizia, quando essa diede a Cherefonte il famoso responso:

‘Di tutti gli uomini Socrate è il più sapiente’.

[II,38] Da quel momento in poi, Socrate diventò oggetto di somma invidia; anche perché confutò come dissennati coloro che avevano un gran concetto di se stessi: ad esempio Anito, come si legge nel ‘Menone’ di Platone. Infatti costui, incapace di sopportare la sbeffeggiatura da parte di Socrate, dapprima gli sollevò contro i poeti della cerchia di Aristofane, e poi persuase Meleto a presentare contro di lui una denuncia per empietà e per corruzione dei giovani. Meleto presentò dunque la denuncia; l’arringa davanti al tribunale fu pronunciata da Polieucto, come afferma Favorino nella sua ‘Storia varia’. Il discorso fu redatto dal retore Policrate, secondo quanto riferisce Ermippo; oppure, secondo altri, da Anito. A tutti gli altri preparativi provvide il demagogo Licone. [II,39] Antistene nelle sue ‘Successioni dei filosofi’ e Platone nella sua ‘Apologia’ affermano che gli accusatori di Socrate furono tre: Anito, Licone e Meleto. Anito dava voce all’ira degli artigiani e dei politici, Licone a quella dei retori e Meleto a quella dei poeti: tutta gente che Socrate aveva fatto a pezzi. Nel primo libro dei suoi ‘Memorabili’, Favorino afferma che il discorso di Policrate contro Socrate è spurio, giacché in esso è citata la ricostruzione delle mura della città ad opera di Conone, cosa che avvenne soltanto sei anni dopo la morte di Socrate. Ed in effetti la faccenda sta proprio così. [II,40] La dichiarazione giurata dell’accusa che, come riferisce Favorino nel suo ‘Metroo’ è ancor oggi disponibile, era di questo tenore: ‘Meleto, figlio di Meleto, del demo Pito, presenta e giura le seguenti accuse contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece: Socrate è colpevole di non legittimare gli dei che la città legittima, poiché introduce altre e nuove divinità; ed è anche colpevole di corrompere i giovani. La pena richiesta è la morte’. Quando Lisia redasse per lui la difesa, il nostro filosofo dopo averla letta, disse: “Il tuo discorso, Lisia, è bello ma non è acconcio a me”. Si trattava, cioè, di un discorso di carattere molto più forense che filosofico. [II,41] E poiché Lisia ribatté: “Ma come? Se il discorso è bello come fa a non esserti acconcio?”; Socrate gli spiegò: “Così come non mi sarebbero acconci i bei mantelli e i bei calzari”. Nella sua opera ‘La Corona’ Giusto di Tiberiade racconta che nel corso del processo Platone salì alla tribuna ed ebbe appena il tempo di dire: “Cittadini Ateniesi, io sono qui il più giovane di coloro che salgono alla tribuna…” che i giudici gli gridarono: “Scendi giù! Scendi giù!”. Tolti i voti favorevoli all’assoluzione, Socrate fu condannato a maggioranza semplice, con duecento ottantuno voti. E quando i giudici valutarono a quale pena o a quale multa egli dovesse essere condannato, Socrate si offrì di pagare una multa di venticinque dracme. Eubulide afferma però che egli convenne di pagarne cento. [II,42] Poiché i giudici si misero a rumoreggiare, a questo punto Socrate disse: “Ebbene, allora in considerazione dei servizi da me resi alla città, io dico che la giusta pena per me è quella di essere mantenuto nel Pritaneo a spese pubbliche”. Ma i giudici lo condannarono a morte, aggiungendo ai precedenti altri ottanta voti. Messo in prigione, non molti giorni dopo bevve la cicuta, dopo avere tenuto i nobilissimi discorsi che Platone riferisce nel suo ‘Fedone’. Secondo alcuni Socrate compose allora un peana, il cui inizio è:

‘Delio Apollo salve, e tu Artemide, inclita prole’.

Dionisodoro afferma però che il peana non è suo. Compose anche una favola al modo di Esopo, invero non tanto ben riuscita, il cui inizio è:

‘Una volta Esopo disse agli abitanti di Corinto
di non far giudicare la virtù dalla sapienza dei giudici popolari’.

[II,43] Dunque egli così si dipartì dal consorzio degli uomini. E gli Ateniesi ben presto se ne pentirono, tanto da chiudere palestre e ginnasi, da esiliare gli altri accusatori e da condannare a morte Meleto. Onorarono poi Socrate con una statua di bronzo lavorata da Lisippo, che posero nel Pompeio. Quando Anito fece ritorno ad Eraclea, sua patria, il giorno stesso i suoi abitanti lo bandirono. Gli Ateniesi hanno avuto di che pentirsi non soltanto nel caso di Socrate ma anche di moltissimi altri. Infatti, secondo quanto riferisce Eraclide, multarono Omero di cinquanta dracme per manifesta pazzia; dicevano che Tirteo delirava; ed onorarono con una statua di bronzo Astidamante a preferenza dei poeti della cerchia di Eschilo. [II,44] Nel suo ‘Palamede’, Euripide vitupera gli Ateniesi dicendo:

‘Voi uccideste, uccideste l’onnisapiente che nessuna
sofferenza mai causò, l’usignolo delle Muse’

E così è. Filocoro afferma però che Euripide morì prima di Socrate. Secondo quanto riferisce Apollodoro nella sua ‘Cronologia’, Socrate nacque sotto l’arcontato di Apsefione nel quarto anno della LXXVII Olimpiade, il sesto giorno del mese Targelione, quando gli Ateniesi purificano la città e gli abitanti di Delo dicono che sia nata Artemide. Morì nel primo anno della XCV Olimpiade, all’età di settanta anni. Questo riferisce anche Demetrio Falereo. Taluni però affermano che egli morì all’età di sessanta anni. [II,45] Sia Socrate che Euripide furono entrambi uditori di Anassagora; ed Euripide nacque nel primo anno della LXXV Olimpiade, sotto l’arcontato di Calliade. È mia opinione che laddove, stando alle parole di Senofonte, Socrate fa alcune considerazioni sulla Prònoia, egli stia discutendo anche di Fisica, seppure lo stesso Senofonte affermi però che Socrate parlasse soltanto di Etica. Anche Platone quando nella sua ‘Apologia’ menziona Anassagora ed alcuni altri filosofi della natura, parla in realtà a nome proprio di argomenti che Socrate nega di conoscere e che tuttavia egli gli attribuisce. Aristotele riferisce poi che un certo Mago venuto ad Atene dalla Siria predisse a Socrate, tra altre cose, che la sua morte sarebbe stata una morte violenta. [II,46] Ci sono anche dei nostri versi scritti per lui, che suonano così:

‘Bevi, o Socrate, ora che sei nella casa di Zeus: perché davvero 
eri sapiente e tale ti disse il dio: e il dio è sapienza.
Tu dagli Ateniesi ricevesti semplicemente la cicuta,
ma furono essi a tracannarla attraverso la tua bocca’.

Secondo quanto afferma Aristotele nel terzo libro della sua ‘Poetica’, erano suoi acerrimi critici un certo Antiloco di Lemno e l’indovino Antifonte, come Cilone ed Onata lo erano di Pitagora; Siagro lo era di Omero vivente e Senofane di Colofone lo era di Omero morto; Cercope di Esiodo vivente e il predetto Senofane di Esiodo morto; Anfimene di Coo lo era di Pindaro; Ferecide di Talete; Salaro di Priene lo era di Biante; Antimenida e Alceo lo erano di Pittaco; Sosibio di Anassagora e Timocreonte di Simonide. [II,47] Dei suoi successori i più in vista furono Platone, Senofonte e Antistene; e dei dieci riportati quali suoi seguaci, i più distinti furono quattro: Eschine, Fedone, Euclide e Aristippo. Bisogna che io parli per primo di Senofonte, poi di Antistene tra i Cinici, poi dei Socratici e ancora dopo di Platone, poiché Platone dà inizio alle dieci scuole filosofiche e istituisce la prima Accademia. Questo è l’ordine di successione che io seguirò. Ci fu anche un altro Socrate, uno storico che scrisse una periegési di Argo. Un altro fu un Peripatetico, originario della Bitinia. Un altro fu un poeta epigrammatico. Infine un Socrate di Coo scrisse una epiclési degli dei.

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Traduzioni

IL DIPINTO SU TAVOLA DI CEBETE

Incisione della Tabula Cebetis intagliata da David Kandel attorno al 1560-1563

Una breve introduzione

La datazione dell’opera

Scritto in greco da un autore che ci rimane sconosciuto, è ormai certo che questo drammatico “dialogo raccontato” risale al I secolo dopo Cristo. Il suo impianto è stoico-cinico, ed il Cebete di cui si parla nel titolo nulla ha a che fare con il personaggio che compare nel “Fedone” di Platone.

Il significato dell’opera

Mi tocca anzitutto doverosamente avvertire chi legge, che questo dialogo è altamente pericoloso in quanto si tratta, per il lettore, di vita o di morte. Chi si imbatte in esso, infatti, è chiamato a fare la stessa esperienza che fece Edipo sulla via di Tebe, quando si imbatté nella Sfinge.
Questo dialogo, e la spiegazione che esso contiene, sono altamente pericolose perché chi presta la dovuta attenzione e capisce quanto vi si dice è già, o è destinato ad essere, un uomo saggio e felice. Chi, invece, non presta la dovuta attenzione e non capisce quanto vi si dice è già, o è destinato inevitabilmente a rimanere, un individuo stolto ed infelice, una persona amareggiata ed incolta che vive male. 
La ragione di ciò sta nel fatto che la spiegazione contenuta in questo dialogo assomiglia all’enigma che la Sfinge, sulla via di Tebe, proponeva alle persone. Se uno capiva l’enigma e dava la risposta corretta, aveva salva la vita. Ma se uno non lo capiva e dava la risposta scorretta, periva divorato dalla Sfinge.

Edipo e la Sfinge

Le cose stanno allo stesso modo anche nel caso di questa spiegazione. Giacché la Stoltezza è, per il lettore, una Sfinge. Il dipinto su tavola del quale il dialogo tratta, allude enigmaticamente a quanto è bene, a quanto è male ed a quanto è né bene né male nella vita. E chi non capisce queste cose è destinato a perire per opera della Stoltezza; non in una sola volta, come chi moriva divorato dalla Sfinge, ma rovinato poco per volta nel corso dell’intera esistenza, come i condannati ad una punizione perenne. Se il lettore, invece, riconosce e capisce queste cose è la Stoltezza, all’opposto, a perire; mentre lui si salva e diventa beato e felice per tutta la vita. Chi legge presti dunque molta attenzione e non fraintenda nulla.

D’altra parte è arduo capire “Il dipinto su tavola di Cebete” se non si ha familiarità con la mia traduzione dell’opera di Epitteto. I concetti di ‘proairesi’ e di ‘diairesi’, di ‘cultura’ (cioè di ‘educazione alla diairesi’) e di ‘pseudocultura’ (cioè di ‘educazione a tutte le altre conoscenze’), di ‘essere umano’ e di ‘uomo’, di ‘felicità’ e di ‘infelicità’, di ‘virtù’ e di ‘vizio’, di ‘bene’, di ‘male’ e di ‘udetero’ trovano qui un’efficacia pittorica di straordinaria attualità, nella spiegazione che un anziano signore dà ad un gruppo di forestieri del significato di un dipinto su tavola visibile in un antico tempio di Crono.

La traduzione

Trattandosi di un’opera di dimensioni contenute, per la traduzione non ho avuto bisogno di lavorare su di un vero e proprio Index Verborum. 
A differenza de “L’albero della Diairesi”di Epitteto, che è la fedele registrazione di un parlato dal vivo, questo “Il dipinto su tavola di Cebete” è un testo letterario. Fatta dunque salva la scrupolosità nel tradurre tutte le parole chiave e filosoficamente rilevanti, so di essermi permesso quelle libertà di stile che mi parevano concesse dalla natura del testo.

Il testo

La traduzione che qui presento è stata da me condotta sul testo greco pubblicato da D. Pesce: “La tavola di Cebete” Paideia Editrice, Brescia 1982, nella collana “Antichità classica e cristiana”. Questo testo riproduce essenzialmente l’edizione critica di K. Praechter (Teubner, Lipsia 1893). Io me ne sono discostato in un luogo solo.

La mia traduzione della Tavola di Cebete è disponibile anche in versione cartacea cliccando sull’immagine qui sotto.

IL   DIPINTO   SU   TAVOLA DI   CEBETE

nuovamente tradotto

da

Franco Scalenghe

[1.1] Passeggiavamo per caso nel recinto sacro a Crono, considerando molti e diversi doni votivi. Dinanzi al tempio era dedicato anche un dipinto su tavola, con una strana pittura raffigurante storie assai particolari che non riuscivamo a congetturare quali mai fossero. [1.2] Il dipinto non ci sembrava raffigurare né una città né un accampamento, ma un recinto contenente al proprio interno altri due recinti, uno più grande ed uno più piccolo. Nel primo recinto vi era un portale, e presso di esso appariva sostare molta folla. [1.3] All’interno del recinto si vedeva uno stuolo di donne. Sul portone era fermo un vecchio, il quale faceva dei cenni come ingiungendo qualcosa alla folla che entrava. [2.1] Eravamo incerti sul significato della storia e ci interrogavamo l’un l’altro da un po’ di tempo quando un anziano signore, che stava accanto a noi, disse:

-Forestieri, non provate nulla di straordinario se siete incerti sull’interpretazione da dare a questa pittura. Pochi, anche tra la gente del posto, sanno quale sia il significato della storia. [2.2] Il dono votivo non è, infatti, di un cittadino di qui ma di un forestiero, un uomo intelligente e di straordinaria sapienza, emulo in teoria ed in pratica della vita Pitagorica e Parmenidea, il quale venne qui molto tempo fa e dedicò sia questo recinto sacro sia la pittura a Crono-

[2.3] -Ma quest’uomo- dissi io -tu l’hai conosciuto di persona?-

-E l’ho anche ammirato- disse lui -per molto tempo quando ero più giovane. Giacché era solito discorrere di molti e seri argomenti; ed allora io lo ascoltai più volte raccontare il significato di questa storia-

[3.1] -Ebbene per Zeus- dissi io -se non ti capita d’avere qualche altro impegno pressante, esponilo anche a noi. Siamo, infatti, assai smaniosi di ascoltare di che storia si tratta-

-Forestieri- rispose -non lo ricuserò. Ma innanzi tutto dovete ascoltare questo, che la spiegazione contiene in sé qualcosa di pericoloso-

-Quale pericolo?- chiesi io

-Che se presterete attenzione- continuò lui -e capirete quanto vi si dice, sarete uomini saggi e felici; altrimenti diventerete stolti ed infelici, amareggiati ed incolti esseri umani e vivrete male. [3.2] La spiegazione assomiglia, infatti, all’enigma che la Sfinge proponeva alle persone. Se uno lo capiva, si salvava; ma se non lo capiva, periva per opera della Sfinge. Le cose stanno allo stesso modo anche nel caso di questa spiegazione. Giacché la Stoltezza è per le persone una Sfinge. [3.3] Il dipinto su tavola allude enigmaticamente a quanto è bene, a quanto è male ed a quanto non è né bene né male nella vita. E se uno non capisce queste cose, perisce per opera della Stoltezza; non in una sola volta, come chi moriva divorato dalla Sfinge, ma rovinato poco per volta nel corso dell’intera esistenza, come i condannati ad una punizione perenne. [3.4] Se uno invece riconosce queste cose è la Stoltezza, all’opposto, a perire; mentre lui si salva e diventa beato e felice per tutta la vita. Prestate dunque attenzione e non fraintendete-

[4.1] -Per Eracle, se le cose stanno così, che grande smania ci hai messo addosso!-

-E stanno proprio così- disse lui

-Esponici quindi al più presto il significato della storia e, siccome siffatta è la ricompensa, noi ti presteremo un’attenzione non superficiale-

[4.2] Raccolta dunque una bacchetta, l’anziano signore la protese verso la pittura e disse:

-Vedete questo recinto?-

-Lo vediamo-

-Dovete innanzi tutto sapere che questo luogo si chiama Vita. E la gran folla che sosta presso il portale è la folla di coloro che stanno per fare ingresso nella Vita. [4.3] Il vecchio fermo in alto con un foglio di papiro in una mano e che con l’altra indica qualcosa, si chiama Genio. Egli ingiunge a coloro che fanno ingresso cosa debbono fare quando siano entrati in Vita, ed indica loro quale strada debbono percorrere se intendono salvarsi nella Vita-

[5.1] -Quale strada intima di percorrere e come?- chiesi io

-Vedi presso il portale- rispose lui -un seggio, posto nel luogo in cui la folla fa il suo ingresso e sul quale siede una femmina dipinta in modo da apparire suadente e che ha in mano una coppa?-

[5.2] -La vedo- dissi io -E chi è?-

-Si chiama Inganno- rispose -ed induce in errore tutti gli esseri umani-

-E cosa effettua costei?-

-A coloro che fanno ingresso nella Vita dà a bere la sua propria facoltà-

[5.3] -Cos’è questa bevanda?-

-Errore- disse -ed Ignoranza-

-E poi cosa accade?-

-Dopo avere bevuto questa bevanda procedono verso la Vita-

-Ma tutti bevono l’errore oppure no?-

[6.1] -Tutti lo bevono- rispose -alcuni di più, altri di meno. E vedi ancora, all’interno del portale, uno stuolo di altre femmine che hanno aspetti d’ogni genere?-

-Le vedo-

[6.2] -Si chiamano Opinioni, Smanie, Piaceri. Quando la folla fa il suo ingresso esse balzano su, si avvinghiano a ciascuno e lo menano via-

-E dove li menano?-

-Alcune menano gli esseri umani alla salvezza- rispose -altre invece li menano alla perdizione per opera dell’Inganno-

-Caro amico, che sgradevole pozione è quella di cui parli!-

[6.3] -Tutte però- aggiunse -professano di condurre all’ottimo e ad una vita felice e vantaggiosa. E costoro, a causa dell’ignoranza e dell’errore che hanno bevuto dalla coppa dell’Inganno, non trovano quale sia la vera strada nella Vita ma vanno errando a casaccio, come puoi vedere osservando coloro che hanno fatto il loro ingresso prima, i quali vanno in giro dove capita-

[7.1] -Li vedo- dissi -E chi è quella donna che appare essere come cieca e pazza, e che se ne sta ritta sopra una pietra rotonda?-

-Si chiama Fortuna- rispose -E non è soltanto cieca e pazza ma anche sorda-

[7.2] -Quale funzione ha?-

-Si aggira dappertutto- rispose -e ghermisce gli averi di alcuni per darli ad altri. Poi a questi stessi subito di nuovo sottrae ciò che ha dato e lo dà al altri, a casaccio ed in modo instabile. Perciò anche quel segno svela bene la sua natura-

[7.3] -Quale segno?- chiesi io

-Il fatto che sta ritta sopra una pietra rotonda-

-E questo cosa significa?-

-Significa che il suo dare non è né sicuro né saldo. Qualora uno si fidi di lei ne nascono grandi e dure delusioni-

[8.1] -Ma cosa vuole questa gran folla che le sta intorno, e come si chiamano costoro?-

-Si chiamano Sconsiderati. Ciascuno di essi chiede per sé le cose che la Fortuna getta-

-Come mai non hanno tutti un aspetto simile, ma alcuni appaiono rallegrarsi mentre altri hanno le mani protese e sono scoraggiati?-

[8.2] -Quelli che appaiono rallegrarsi e ridere- rispose -sono coloro che hanno ricevuto qualcosa da lei, e questi la chiamano buona Fortuna. Quelli che appaiono singhiozzare sono invece coloro ai quali la Fortuna ha sottratto ciò che aveva prima dato, e questi al contrario chiamano lei cattiva Fortuna-

[8.3] -Quali sono le cose che la Fortuna dà e per le quali coloro che le ricevono si rallegrano, mentre coloro che le perdono singhiozzano?-

-Sono quelle- rispose -che alla massa degli esseri umani sembrano essere beni-

-Quali sono questi beni?-

[8.4] -La ricchezza di denaro, evidentemente; e la fama, la stirpe nobile, la figliolanza, il potere tirannico, il potere regale e quant’altre cose somigliano a queste-

-Ma come? Questi non sono beni?-

-Di questo- disse -potremo discutere in seguito. Ora stiamo al significato della storia-

-Va bene-

[9.1] -Come oltrepassi con lo sguardo questo portale, vedi più in alto un altro recinto e ferme, fuori del recinto, delle femmine acconciate come sono solite acconciarsi le prostitute?-

-Certamente-

-Esse si chiamano una Non padronanza di sé, l’altra Dissolutezza, l’altra Insaziabilità, l’altra ancora Adulazione-

[9.2] -Perché sono ferme lì?-

-Perché spiano- disse -coloro che hanno ricevuto qualcosa dalla Fortuna-

-E poi cosa accade?-

-Esse balzano su queste persone e vi si avvinghiano, le adulano, le urgono a rimanere presso di loro dicendo che avranno una vita piacevole, indolore e priva di patimenti. [9.3] E se uno si lascia persuadere da queste femmine ad entrare da Lascivia, il trastullo sembra piacevole fino a che solletica l’individuo, poi non più. Giacché qualora ritorni in sé, costui si accorge che non era lui a mangiare da Lascivia ma che era Lascivia a mangiare vivo e ad oltraggiare lui. [9.4] Perciò, quando abbia speso tutto quanto aveva ricevuto dalla Fortuna, è costretto a fare da servo a queste femmine, a soggiacere ad esse in tutto, a comportarsi indecentemente, a fare per causa loro ogni sorta di azione dannosa come frodare, derubare templi, spergiurare, tradire, depredare e quant’altre azioni somigliano a queste. Quando poi a costoro venga meno ogni risorsa, queste femmine li consegnano alla Punizione-

[10.1] -Quale figura è la Punizione?-

-Vedi- disse -un po’ dietro e sopra di loro come una piccola porticina ed un luogo angusto ed oscuro?-

-Certamente-

-E non ti sembra che ci siano anche delle femmine laide, sozze e rivestite di cenci?-

[10.2] -Certamente-

-Queste dunque- rispose -si chiamano: quella che ha la frusta, Punizione; quella che ha il capo chino tra le ginocchia, Afflizione; quella che si strappa i capelli, Doglia-

[10.3] -Chi è quest’altro che sta accanto ad esse, quest’uomo deforme, magro e nudo; e chi è l’altra che è insieme con lui ed è, come lui, laida e magra?-

-Lui si chiama Rammarico- rispose -lei Prostrazione; e sono fratello e sorella. [10.4] A questi dunque egli è consegnato e con questi convive in continua punizione. Di qua, poi, è gettato in un’altra dimora, quella dell’Infelicità, e qui trascorre il resto della vita in totale infelicità, a meno che il Ripensamento non s’imbatta in lui venendogli incontro dalla sua propria proairesi-

[11.1] -E poi cosa accade se gli viene incontro il Ripensamento?-

-Lo cava fuori dei mali e gli raccomanda un’altra Opinione, quella che conduce alla vera Educazione ed insieme a quella che si chiama Pseudoeducazione-

[11.2] -E poi cosa accade?-

-Se egli accetta l’Opinione in quanto lo conduce alla vera Educazione- rispose -purificato da essa si salva e diventa beato e felice nella vita. Se no, viene di nuovo indotto in errore dalla stessa Opinione in quanto lo conduce alla Pseudoeducazione-

[12.1] -Per Eracle! Che altro gran pericolo è questo. E qual è- chiesi io -la figura della Pseudoeducazione?-

-Vedi quell’altro recinto?-

[12.2] -Certamente- dissi io

-E vedi fuori del recinto, presso l’ingresso, ferma una femmina che appare molto pulita e ben ordinata?-

-Certamente-

[12.3] -Le masse di gente avventata- disse -chiamano costei Educazione, ma essa non è la vera Educazione bensì la Pseudoeducazione. Comunque quando coloro che si salvano decidono di venire alla vera Educazione, innanzi tutto si presentano qui-

-C’è un’altra strada che conduce alla vera Educazione?-

-C’è- rispose

[13.1] -Chi sono gli uomini che vanno su e giù all’interno del recinto?-

-Sono- disse -gli ingannati amanti della Pseudoeducazione, i quali credono di conversare con la vera Educazione-

-E come si chiamano?-

[13.2] -Si chiamano- rispose -poeti, oratori, dialettici, musicisti, matematici, geometri, astronomi, edonisti, peripatetici, critici e quant’altri esseri umani somigliano a questi-

[14.1] -E chi sono quelle donne che appaiono correre intorno a costoro, simili nell’aspetto alle prime cioè a quelle tra le quali dicevi esservi la Non padronanza di sé?-

-Sono proprio quelle femmine- rispose

[14.2] -Dunque esse fanno ingresso anche qui?-

-Si, per Zeus! anche qui; ma raramente e non come nel primo recinto-

-Ed anche le Opinioni fanno ingresso qui?- chiesi io

[14.3] -Sì, giacché anche in costoro permane l’effetto della pozione che hanno bevuto dalla coppa dell’Inganno-

-L’Ignoranza permane anche in costoro?-

-Sì, per Zeus! ed insieme all’Ignoranza permane anche la Stoltezza. E non c’è pericolo che si separino da costoro né l’opinione né ogni restante vizio fino a che essi, disperando ormai della Pseudoeducazione, non imbocchino la vera strada e bevano le facoltà che li purificano. [14.4] Quando poi siano purificati ed abbiano espulso tutti i loro mali, le opinioni, l’ignoranza ed ogni restante vizio, allora in questo modo saranno salvi. Ma rimanendo qui presso la Pseudoeducazione essi non ne saranno mai liberati, né alcun male li abbandonerà per opera di questo genere di conoscenze-

[15.1] -Qual è la strada che porta alla vera Educazione?- chiesi io

-Vedi lassù- disse -quel luogo dove non dimora nessuno e che appare deserto?-

-Lo vedo-

[15.2] -Vedi anche una piccola porta e, davanti alla porta, una strada non molto affollata sulla quale assai pochi procedono, come su una strada che appare impervia, scabrosa e pietrosa?-

-Certamente- dissi io

[15.3] -Si vedono anche un elevato colle ed una salita assai angusta con profondi burroni da una parte e dall’altra-

-Li vedo-

-Questa è la strada- disse -che conduce alla vera Educazione-

[15.4] -A guardarla, è una strada davvero difficile-

-E vedi lassù sul colle una gran rupe, elevata e scoscesa tutt’intorno?-

-La vedo- dissi io

[16.1] -Vedi anche due donne, dal corpo florido e vigoroso, ferme sulla rupe e che hanno le mani protese con slancio?-

-Le vedo- dissi io -e come si chiamano?-

[16.2] -Una si chiama Padronanza di sé- rispose -l’altra Fortezza, e sono sorelle-

-Perché hanno le mani protese con tanto slancio?-

[16.3] -Invitano- disse -quelli che si presentano in quel luogo ad avere coraggio ed a non avvilirsi, dicendo loro che debbono ancora farsi forza brevemente e che poi giungeranno ad una magnifica strada-

[16.4] -Ma quando le persone si presentano alla rupe, come fanno a salire? Non vedo, infatti, nessuna strada portare alle due donne-

-Sono le due donne a scendere lungo il burrone ed a trarli lassù presso di sé. Li esortano quindi a riposarsi. [16.5] Dopo un poco, danno loro forza e coraggio professando che li introdurranno alla vera Educazione e mostrando loro come la strada sia magnifica, piana, agevole e pulita d’ogni male, come vedi-

-E’ palese, per Zeus!-

[17.1] -Vedi anche- disse -davanti a quel bosco un luogo che appare magnifico, simile ad un prato sfolgorante di luce?-

-Certamente-

[17.2] -E scorgi in mezzo al prato un altro recinto ed un altro portale?-

-E’ così. Ma come si chiama questo luogo?-

[17.3] -Abitazione degli uomini felici- rispose -Qui soggiornano tutte le Virtù e la Felicità-

-Sì- dissi io -com’è magnifico il luogo di cui parli!-

[18.1] -E vedi- continuò lui -che presso il portale vi è una donna con un bel volto calmo, di media e già matura età, indossante una veste semplice e disadorna? Essa non sta ritta sopra una pietra rotonda ma su una quadrata, solidamente piantata in terra, [18.2] ed insieme a lei sono altre due donne che sembrano essere sue figlie-

-E’ palesemente così-

-Di queste tre donne, dunque, quella nel mezzo è la vera Educazione, l’Educazione alla diairesi, le altre due sono la Verità e la Fiducia in se stessi-

[18.3] -Perché la vera Educazione sta ritta sopra una pietra quadrata?-

-E’ segno- rispose -che sicura e salda è la strada per coloro che arrivano da lei e che sicuro è il suo dare per coloro che lo ricevono-

[18.4] -E quali sono le cose che l’Educazione dà?-

-Coraggio e Dominio sulla paura- disse lui

-E cosa sono queste?-

-Sono la scienza- rispose -che permette di non sperimentare nulla di terribile nella vita-

[19.1] -Per Eracle- dissi io -che magnifici doni! Ma perché sta così fuori del recinto?-

-Per curare- rispose -coloro che si presentano e per dare loro a bere la facoltà purificatrice. Poi quando siano purificati li conduce dalle Virtù-

[19.2] -Non capisco come questo accade- dissi io

-In questo modo lo capirai- rispose -Se uno fosse per caso gravemente malato ed andasse da un medico, questi gli farebbe dapprima espellere le cause della malattia grazie a farmaci purificatori e così lo porterebbe poi al recupero della salute. [19.3] Ma se il malato non ubbidisse alle sue prescrizioni, sarebbe respinto a ragione dal medico e sarebbe distrutto dalla malattia-

-Questo lo capisco- dissi io

[19.4] -Allo stesso modo- continuò -qualora uno si presenti all’Educazione alla diairesi essa lo cura e gli dà a bere la sua propria facoltà, affinché innanzi tutto sia purificato ed espella tutti quanti i mali con cui era venuto qui-

-Quali mali?-

[19.5] -L’ignoranza e l’errore che aveva bevuto dalla coppa dell’Inganno, e poi la cialtroneria, la smaniosità, la non padronanza di sé, il rancore, l’avidità di denaro e tutti i restanti mali di cui si era riempito nel primo recinto-

[20.1] -E quando sia purificato, l’Educazione dove lo invia?-

-Lo invia dentro il recinto- rispose -presso la Scienza e le altre Virtù-

-Quali sono queste figure?-

[20.2] -Vedi- disse -al di là del portale un coro di donne, e come appaiono avvenenti ed ordinate con indosso una veste semplice e sobria? Vedi anche come sono naturali e per nulla imbellettate come le altre?-

[20.3] -Le vedo- risposi -E come si chiamano?-

-La prima si chiama Scienza, disse. Le altre sono sue sorelle e si chiamano Virilità, Giustizia, Probità, Temperanza, Disciplina, Libertà, Padronanza di sé, Mitezza-

[20.4] -O carissimo- dissi io -in che grande speranza siamo!-

-A patto che capiate- disse -e procuriate di fare un abito di quanto state ascoltando-

-Presteremo la massima attenzione a questo- dissi io

-Pertanto- continuò -sarete salvi-

[21.1] -Qualora le Virtù l’abbiano preso con loro, dove lo conducono?-

-Dalla loro madre- rispose

-E chi è?-

-La Felicità- disse

-Qual è la figura della Felicità?-

[21.2] -Vedi la strada che porta a quel luogo elevato, rappresentante l’acropoli di tutti i recinti?-

-La vedo-

[21.3] -Non vedi nel vestibolo un’avvenente donna di mezza età che siede sopra un alto trono, acconciata con libertà e senza ricercatezza, ed incoronata di una splendida corona di fiori?-

-E’ palesemente così-

-Questa è la Felicità- disse

[22.1] -E quando uno si presenti qui, cosa fa?-

-La Felicità lo incorona- disse -con la sua propria facoltà e così fanno le altre Virtù, come con i vincitori delle gare più importanti-

-Che genere di gare ha vinto?- chiesi io

[22.2] -Le più importanti- rispose -poiché ha domato tutte le peggiori belve, quelle che prima lo mangiavano vivo, lo castigavano, facevano di lui un servo. Tutte queste ha vinto e scacciato lontano da sé ed è diventato padrone di se stesso, sicché ora quelle sono asservite a lui come prima era lui asservito ad esse-

[23.1] -Quali sono le belve di cui parli? Bramo vivamente sentirlo da te-

-Innanzi tutto- rispose -l’Ignoranza e l’Errore. O queste non ti sembrano belve?-

-E belve davvero malvagie- risposi io

[23.2] -Poi l’Afflizione, il Rammarico, l’Avidità di denaro, la Non padronanza di sé ed ogni restante Vizio. Egli domina tutto ciò e non ne è dominato, come accadeva prima-

[23.3] -Che belle imprese- dissi io -e che bellissima vittoria! Ma dimmi ancora: quale facoltà ha la corona con la quale affermavi che la Felicità lo incorona?-

[23.4] -La facoltà felicitante, giovanotto. Giacché chi è incoronato con questa facoltà diventa felice e beato e non ripone le proprie speranze di felicità in altri ma in se stesso-

[24.1] -Di che bella vittoria parli! E quando sia stato incoronato, cosa fa e dove va?-

[24.2] -Le Virtù lo prendono con loro e lo conducono nel luogo dal quale era prima venuto. Gli mostrano come passino male il tempo e vivano meschinamente gli esseri umani che là soggiornano, quale naufragio sia la loro vita, come vadano errando e siano condotti quasi in balia di nemici, chi dalla Non padronanza di sé, chi dalla Cialtroneria, chi dalla Avidità di denaro, altri dalla Vanagloria e chi da altri Mali. [24.3] Mali terribili, cui essi sono avvinti e dai quali non sono capaci di affrancarsi, così da salvarsi ed arrivare qua. Essi restano invece nello sconcerto per tutta la vita; e questo sperimentano perché, avendo dimenticato l’ingiunzione del Genio, sono incapaci di trovare la strada che conduce qui-

[25.1] -Mi sembri parlare rettamente. Ma ho ancora questa incertezza: perché le Virtù gli mostrano il luogo dal quale era precedentemente giunto?-

[25.2] -Perché non sapeva precisamente- disse -perché non aveva scienza di nessuna delle cose di là ed era in dubbio. A causa dell’ignoranza e dell’errore che aveva bevuto, egli infatti legittimava come beni quelli che beni non sono e come mali quelli che mali non sono; [25.3] e per questo viveva male, come vivono male gli altri esseri umani che là soggiornano. Ora invece che quest’uomo ha acquisito la scienza delle cose utili, lui stesso vive bene e considera come finiscono male quegli esseri umani-

[26.1] -E quando abbia tutto considerato, cosa fa e dove va ancora?-

-Dove decide lui- rispose -Giacché dappertutto egli è sicuro come chi sta nell’antro Coricio, e dovunque arrivi vivrà benissimo ed in completa sicurezza. Tutti, infatti, lo accoglieranno lietamente, come fanno i sofferenti con il medico-

[26.2] -Non ha più paura di patire qualche danno da parte di quelle donne che dicevi essere belve?-

-Non sarà più disturbato né dalla Doglia, né dalla Afflizione, né dalla Non padronanza di sé, né dalla Avidità di denaro, né dalla Povertà di diairesi né da alcun altro Male. [26.3] L’uomo, infatti, le signoreggia tutte ed è al di sopra di tutto ciò che precedentemente lo affliggeva, come coloro che sono immuni al morso delle vipere. Proprio le vipere, che avvelenano tutti gli altri fino a farli morire, non affliggono coloro che ne sono immuni, poiché questi possiedono gli anticorpi contro il loro veleno. Allo stesso modo anche quest’uomo, poiché possiede gli anticorpi contro i Mali, non ne è più afflitto-

[27.1] -Mi sembri parlare bene. Ma dimmi ancora questo: chi sono coloro che appaiono presentarsi di là dal colle? Alcuni di essi sono incoronati e fanno cenni come d’allegrezza mentre altri, non incoronati, fanno cenni di afflizione e sconcerto, hanno gambe e teste contuse [27.2] e sono trattenuti da alcune donne-

-Gli incoronati sono coloro che si sono salvati pervenendo all’Educazione alla diairesi e sono allegri per averla conseguita. [27.3] Di quelli senza corona alcuni, avendo l’Educazione alla diairesi disperato di loro, tornano indietro mal disposti come gente meschina mentre altri, avvilitisi e non saliti alla Fortezza, tornano indietro a loro volta e vanno errando per strade impervie-

[27.4] -E chi sono le donne che li seguono?-

-Sono Afflizioni- rispose -sono Doglie, Prostrazioni, Infamie, Ignoranze-

[28.1] -Stai affermando che tutti i mali li seguono?-

-Tutti i mali, per Zeus, li seguono! continuò. E qualora questi esseri umani, nel primo recinto, si presentino a Lascivia ed alla Non padronanza di sé, [28.2] non accusano se stessi ma si affrettano a parlar male dell’Educazione alla diairesi e degli uomini che a lei vanno, affermando che sono dei disgraziati, dei meschini e degli infelici i quali, abbandonata la vita che si conduce in compagnia della Lascivia e della Non padronanza di sé, vivono male e non fruiscono dei beni che esse dispensano-

[28.3] -E quali cose costoro chiamano beni?-

-La dissolutezza e la non padronanza di sé, per dirla sommariamente. Giacché ritengono fruizione dei sommi beni il montare a modo del bestiame-

[29.1] -Le altre donne che si presentano di là, ilari e ridenti, come si chiamano?-

[29.2] -Si chiamano Opinioni- rispose -Esse, dopo aver condotto all’Educazione alla diairesi quanti entreranno dalle Virtù, stanno tornando indietro per condurne altri e stanno annunziando che gli uomini da esse prima menati lassù sono ormai diventati felici-

[29.3] -Ma le Opinioni- chiesi io -non fanno ingresso presso le Virtù?-

-No- rispose -Esse, giacché non è lecito ad una Opinione fare ingresso presso la Scienza, consegnano le persone all’Educazione alla diairesi. [29.4] Poi, quando l’Educazione alla diairesi  abbia preso queste con sé, le Opinioni tornano indietro per condurre altre persone, come navi mercantili che, scaricato il carico, tornano indietro e rifanno il carico di altre merci-

[30.1] -Mi sembra che tu abbia spiegato queste cose davvero bene- dissi io -Ma non ci hai ancora chiarito che cosa il Genio ingiunge di fare a coloro che fanno ingresso nella Vita-

[30.2] -Di avere coraggio- rispose -Abbiatelo quindi anche voi, giacché io spiegherò tutto e non tralascerò nulla-

-Dici bene- risposi io

[30.3] Protesa dunque di nuovo la mano verso il dipinto

 -Vedete- disse -quella femmina che appare essere cieca, che sta ritta sopra una pietra rotonda e che poco fa vi dissi chiamarsi Fortuna?-

-La vediamo-

[31.1] -Il Genio intima- continuò -di non fidarsi di lei, di non legittimare come salda e sicura qualunque cosa si riceva da lei e di non ritenerla come nostra propria; [31.2 ] giacché nulla impedisce che queste cose ci siano di nuovo sottratte e date ad un altro. La Fortuna è spesso solita far questo, ed a cagione di ciò il Genio intima di essere equilibrati nei confronti del suo dare, senza cioè rallegrarsi qualora dia e senza scoraggiarsi qualora sottragga, senza denigrarla e senza lodarla. [31.3] Essa infatti nulla fa con raziocinio ma tutto a casaccio e come capita, come prima vi dissi. Per questo il Genio intima di non meravigliarsi, qualunque siano le operazioni che essa effettua e di non diventare simili ai cattivi banchieri. [31.4] QQQ   uando i cattivi banchieri ricevono del denaro dalla gente, si rallegrano e lo legittimano come loro proprio. Quando poi ne siano richiesti, fremono e credono di avere patito un terribile torto, senza ricordare che avevano ricevuto i depositi a patto che non vi fosse alcun impedimento a ritrasferire il deposito. [31.5] Il Genio intima dunque di comportarsi allo stesso modo nei confronti di quanto la Fortuna dà e di ricordare che essa ha natura siffatta da sottrarre quel che ha dato, poi di ridarlo immediatamente moltiplicato, poi di seguito di sottrarre quel che ha dato e non solo questo, ma pure quel che si aveva prima. [31.6] Quello che dunque la Fortuna dà, il Genio intima di prenderlo e di spicciarsi ad uscire dal primo recinto, mirando al dare saldo e sicuro-

[32.1] -Qual è il dare saldo e sicuro?- chiesi io

-Quello che riceveranno dall’Educazione alla diairesi, se si salveranno giungendo lassù da lei-

-Qual è questo dare?-

[32.2] -La scienza vera delle cose utili- rispose -Questo è il dare sicuro, saldo e senza rimorsi. [32.3] Il Genio intima dunque di spicciarsi a fuggire verso l’Educazione alla diairesi e qualora quelli che fanno ingresso nella Vita si avvicinino a quelle femmine che anche prima dicevo chiamarsi Non padronanza di sé e Lascivia, egli intima di spicciarsi ad allontanarsene ed a non fidarsi per nulla di loro, fino a che non siano arrivati alla Pseudoeducazione. [32.4] Intima quindi di trastullarsi qui qualche tempo e di prendere dalla Pseudoeducazione, come viatico, qualunque cosa decidano di prendere; ma poi di spicciarsi ad andarsene di qui alla volta della vera Educazione. [32.5] Questo è quanto ingiunge il Genio. E chi fa qualcosa di contrario a queste ingiunzioni o le fraintende, perisce malamente da vizioso. [33.1] Forestieri, siffatta è dunque la storia dipinta sulla tavola. Se intendete sapere ancora qualcosa su ciascuna delle figure dipinte, io non ricuserò di rispondervi-

[33.2] -Stai parlando bene- dissi io -Ma il Genio, a chi fa ingresso nella Vita, cosa intima di prendere dalla Pseudoeducazione?-

-Le cose che sembrano proficue-

-E quali sono?-

[33.3] -Le lettere- rispose -e, tra le altre conoscenze, quelle che anche Platone afferma aver quasi facoltà di briglie per i giovani, affinché non siano distratti ad altro-

[33.4] -Ma è necessario che chi intende giungere alla vera Educazione riceva queste conoscenze, oppure no?-

-Non vi è alcuna necessità- rispose -quantunque esse siano proficue per venirvi più celermente. Tuttavia queste conoscenze nulla conferiscono per diventare migliori-

[33.5] -Stai affermando che queste conoscenze non sono proficue per far diventare gli uomini migliori?-

-Sto dicendo che è possibile agli esseri umani diventare migliori, cioè uomini, anche senza queste conoscenze; quantunque esse pure non manchino di una certa proficuità. [33.6] Come infatti a volte noi contribuiamo a quanto viene detto in una discussione grazie all’opera di un interprete, anche se non sarebbe improficuo che noi pure sapessimo parlare quella lingua, giacché questo ci permetterebbe di capire con maggiore precisione; così nulla impedisce agli esseri umani di diventare migliori anche senza queste conoscenze-

[34.1] -Dunque quelli che possiedono queste conoscenze, quanto al diventare migliori non sono superiori agli altri uomini?-

[34.2] -Come possono essere superiori, dal momento che dimostrano di essersi ingannati sui beni e sui mali come gli altri esseri umani e sono ancora trattenuti nel secondo recinto da ogni sorta di vizio? [34.3] Giacché nulla impedisce di sapere le lettere e di possedere tutte le conoscenze della Pseudoeducazione ed ugualmente di essere un ubriacone, un individuo non padrone di sé, avido di denaro, ingiusto, traditore e, alla fine, uno stolto-

[34.4] -Senza fallo è possibile vedere molti uomini siffatti-

-Quanto al diventare migliori, cioè uomini, grazie a queste conoscenze, in che modo sono dunque costoro superiori agli altri esseri umani?-

[35.1] -Il tuo ragionamento dimostra che essi non sono in alcun modo superiori. Ma qual è la causa- chiesi io -del fatto che soggiornano nel secondo recinto come coloro che si accostano alla vera Educazione?-

[35.2] -E questo a che giova loro- rispose -quando è possibile vedere gente che, provenendo dal primo recinto, dalla Non padronanza di sé e da ogni altro Vizio, si presenta direttamente al terzo recinto, alla vera Educazione, quella alla diairesi, lasciandosi indietro i possessori di queste conoscenze della Pseudoeducazione? Sicché come si può ancora dire che essi siano superiori, quando invece sono più torpidi e tardi ad imparare?-

[35.3] -Com’è possibile questo?- chiesi io

-A parte il resto, anche coloro che soggiornano nel secondo recinto, come quelli che soggiornano nel primo, non sanno ciò che pretendono di sapere. E finché hanno l’opinione di sapere è necessario che siano torpidi ad impellere verso la vera Educazione. [35.4] E poi non vedi l’altro fatto, cioè che le Opinioni, provenendo dal primo recinto, fanno ugualmente ingresso presso di loro? Sicché questi non sono migliori di quelli, a meno che anche a questi non si accompagni il Ravvedimento e si convincano di avere non Educazione alla diairesi ma Pseudoeducazione, e che ad opera sua sono ingannati. [35.5] Disposti tuttavia come sono, non si salverebbero mai. Forestieri- disse -voi fate quindi così ed attenetevi a quanto detto fino a prenderne un abito. Queste medesime cose bisogna sopravvederle spesso e non smettere di ritenere le altre accessorie. Altrimenti ciò che avete ora ascoltato non vi sarà di alcun pro-

[36.1] -Lo faremo. Ma spiegaci questo: come mai non sono beni quelli che gli uomini ricevono dalla Fortuna; cose ad esempio come il vivere, l’essere in salute, essere ricchi, essere applauditi, avere figliolanza, vincere, e quant’altre cose somigliano a queste? [36.2] E come mai, a loro volta, non sono mali le cose opposte? Quel che hai detto ci pare infatti assai paradossale ed incredibile-

-Orsù dunque- disse -prova a rispondere secondo il tuo parere alle domande che ti rivolgerò-

[36.3] -Lo farò- dissi io

-Se uno vive male, il vivere è per lui un bene?-

-Non mi sembra- risposi io -ma un male-

-Com’è dunque un bene il vivere- continuò -se per costui è invece un male?-

[36.4] -Perché il vivere a me sembra un male per coloro che vivono male, ed invece un bene per coloro che vivono bene-

-Dunque stai dicendo che il vivere è sia un male che un bene?-

-Sì, io dico così-

[37.1] -Non dire cose inverosimili. E’ impossibile che la stessa faccenda sia un male ed un bene. Giacché allora la stessa faccenda sarebbe costantemente sia giovevole che dannosa, sia da scegliersi che da fuggirsi-

[37.2] -Sì, è inverosimile. Ma come fa a non succedere un male a colui che vive male? E se dunque gli succede un male, proprio il vivere è male-

-Ma il vivere ed il vivere male non sono la stessa cosa. Oppure hai un parere diverso?-

-Senza fallo, neppure a me sembrano essere la stessa cosa-

[37.3] -Ad essere un male è quindi il vivere male, ma il semplice vivere non è un male, giacché se fosse un male, a coloro che vivono bene succederebbe un male perché comunque succede loro di vivere, il che appunto tu dici essere un male-

-Mi sembra che tu stia dicendo il vero-

[38.1] -Poiché quindi avviene che vivano entrambi, sia coloro che vivono bene sia coloro che vivono male, il vivere non potrebbe che essere né un bene né un male. Come non è il tagliare ed il cauterizzare, nel caso degli infermi, ad essere causa di malattia o salute ma il modo in cui si taglia; così pure nel caso della vita, non è il vivere di per sé ad essere un male, ma il vivere male-

[38.2] -E’ così-

-Se quindi le cose stanno così, considera se tu decideresti di vivere male oppure di morire bene e virilmente-

-Io, di morire bene-

[38.3] -E dunque neppure il morire è un male, se spesso il morire è preferibile al vivere-

-E’ così-

[38.4] -Lo stesso discorso vale anche circa l’essere in salute o l’essere malati. Giacché spesso non è utile essere in salute ma il contrario, qualora la circostanza sia tale da renderlo preferibile-

-Stai dicendo il vero-

[39.1] -Orsù, anche riguardo alla ricchezza di denaro, analizziamo se è davvero possibile considerare –come spesso è possibile vedere- che ad una persona succeda di essere ricco di denaro ma di vivere male e meschinamente-

-Per Zeus, di uomini simili se ne possono vedere molti!-

[39.2] -Dunque la ricchezza di denaro non aiuta costoro a vivere bene?-

-Non pare aiutarli, giacché costoro sono insipienti-

[39.3] -Dunque non è la ricchezza di denaro a fare gli uomini virtuosi, ma l’Educazione alla diairesi-

-E’ verosimile-

-In conseguenza di questo discorso, neppure la ricchezza di denaro è un bene, se appunto non aiuta quelli che l’hanno ad essere migliori-

-Così pare-

[39.4] -Quindi ad alcuni neppure è utile essere ricchi di denaro, qualora non sappiano usare la ricchezza di denaro-

-Mi sembra vero-

-Dunque, come si giudicherebbe essere un bene ciò che spesso non è utile avere?-

[39.5] -In nessun modo-

-Se dunque uno sa usare bene ed espertamente della ricchezza di denaro, vivrà bene; se no, vivrà male-

-Mi sembra che tu stia dicendo una cosa verissima-

[40.1] -Insomma è possibile apprezzare queste cose come beni o deprezzarle come mali, e proprio questo è ciò che sconcerta e danneggia gli esseri umani. Qualora, infatti, le apprezzino e credano possibile essere felici soltanto grazie ad esse, essi soggiacciono ad effettuare per causa loro qualunque azione e non schivano anche quelle che appaiono le più empie e vergognose. [40.2] E questo sperimentano a causa dell’ignoranza di cosa sia il bene. Essi ignorano che un bene non nasce da mali. [40.3] Invece è possibile vedere molte persone acquisire ricchezza di denaro con azioni cattive e vergognose, dico ad esempio con il tradimento, con la depredazione, l’omicidio, la delazione, la frode e molte altre azioni depravate-

-E’ così-

[41.1] -Se quindi nessun bene nasce da un male, com’è verosimile, e la ricchezza di denaro nasce da cattive azioni, è necessario che la ricchezza di denaro non sia un bene-

-Avviene così, in conseguenza di questo discorso-

[41.2] -Ora, poiché non è possibile acquisire la saggezza né l’operare con giustizia attraverso le cattive azioni, allo stesso modo che non è possibile acquisire l’operare contro la giustizia né la stoltezza attraverso le azioni virtuose, queste due cose non possono succedere contemporaneamente alla stessa persona. [41.3] Invece nulla impedisce che la ricchezza di denaro, la fama, la vittoria e le restanti cose che somigliano a queste, succedano ad una persona assieme a grandi vizi. Sicché queste cose non potrebbero essere né beni né mali, ma soltanto la saggezza è bene, mentre la stoltezza è male-

[41.4] -Mi sembra che tu abbia parlato a sufficienza- dissi io.