SUL ‘DÉMONE’ DI SOCRATE E LA ‘PROAIRESI’ DI EPITTETO
Nothing in Socrates has been more perplexing to posterity than his daimonion.
– Gregory Vlastos
Davvero?
Io ho l’abitudine di parlare in modo molto chiaro e faccio della verità il mio faro. Come mai diventa così arduo capire cosa intendo dire quando parlo del mio démone? Dove sta la difficoltà? Sta in me? Sta in voi che ascoltate? Oppure sta in tutti e due?
Senza avere la pretesa di proporre una rassegna esaustiva delle fonti, accontentiamoci in prima istanza di esaminare quattordici testi nei quali autori diversi parlano -o io stesso sono da loro fatto parlare- espressamente di questo ‘démone’ che mi costò la vita.
Si tratta di testi che, nel caso di Platone, di Senofonte, di Diogene Laerzio e di Plutarco, un mio amico ha tradotto dal greco; e, nel caso di Apuleio, di una traduzione dal latino (dal mio amico leggermente modificata e abbreviata) reperibile on-line.
1. -PLATONE-
‘APOLOGIA DI SOCRATE’ 24B
L’accusa dice più o meno questo: ‘Socrate è colpevole di corrompere i giovani non legittimando gli dei che la città legittima, bensì altri ed inauditi démoni’.
2. -PLATONE-
‘APOLOGIA DI SOCRATE’ 31C-D
Potrebbe sembrare assurdo [….] che io non abbia il coraggio di salire alla tribuna e di indirizzarvi pubblicamente dei consigli mentre siete in assemblea. La causa di questo mio comportamento è quella di cui voi mi avete sentito sovente parlare, ossia il fatto che mi succede qualcosa di meravigliosamente divino e che è esattamente ciò che Meleto, scherzandoci sopra, ha scritto nell’accusa. Si tratta di una sorta di voce che io ho cominciato a sentire quand’ero ragazzo e che quando nasce in me sempre mi trattiene, e mai e poi mai mi spinge, a fare qualunque cosa io stia per fare. Questo è il divieto che mi impedisce di impegnarmi negli affari politici.
3. -PLATONE-
‘APOLOGIA DI SOCRATE’ 40A-C
A me, signori giudici, -e chiamandovi giudici vi darei il nome che meritate- è successo qualcosa di stupefacente. Infatti la mia solita voce profetica o démone, in passato era sempre molto frequente e mi si opponeva anche su faccende di pochissimo conto, nel caso io stessi per effettuare un’azione non retta. Adesso, come ben vedete anche voi, mi è accaduto qualcosa che potrebbe essere creduto e legittimato come il sommo dei mali. Ebbene, quel segno divino non mi si è opposto quando uscivo di casa stamattina, non quando salivo qui in tribunale e neppure mi si è opposto in alcun punto del mio discorso, mentre lo pronunciavo. Eppure, nel caso di altri discorsi, sovente esso mi impedì di continuare a parlare nel bel mezzo di essi; mentre nel corso di questa vicenda processuale non mi si è opposto in nessun momento, né in ciò che ho fatto né in ciò che ho detto. Qual è, secondo me, la causa di ciò? Ve lo dico subito: la causa è che quanto m’è avvenuto è certamente un bene. E pertanto non pensano rettamente quanti di noi credono che morire sia un male. Questa è la gran prova che io ne ho avuto: l’usato mio segno mi si sarebbe certamente opposto, se io fossi stato sul punto di effettuare qualcosa di ignobile.
4. -PLATONE-
‘APOLOGIA DI SOCRATE’ 41D
Né le vicende che ora mi riguardano così da vicino sono avvenute per pura casualità. Mi è anzi chiaro che esse sono avvenute poiché per me è ormai meglio morire ed allontanarmi così da ogni fastidio. Questo è il motivo per cui il segno divino in nessun momento me ne ha distolto, ed è per questo che io non provo risentimento verso coloro che hanno votato per la mia condanna a morte e verso i miei accusatori.
5. -PLATONE-
‘FEDRO’ 242B-242D
SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, mio caro, mi s’è manifestato il démone, quel segno ch’è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per fare. E m’è parso d’udir da esso una certa voce, la quale non mi lascia andar via prima d’essermi purificato da un’aberrazione che ho commesso contro la divinità. Dunque io sono un indovino, per la verità non molto abile; ma per quanto concerne me soltanto, come coloro che sanno a malapena scrivere, abile a sufficienza: e perciò comprendo chiaramente qual è l’aberrazione che ho commesso. Com’è davvero profetica l’anima nostra, caro compagno! Infatti qualcosa m’ha perturbato anche prima mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo m’ha preso il timore, come dice Ibico:
‘commettendo un misfatto contro gli dei, d’averne in cambio fama tra gli uomini’.
Ma ora mi son reso conto dell’aberrazione che ho commesso.
FEDRO: Ma che stai dicendo?
SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che hai portato tu, e terribile è quello che m’hai costretto a fare!
FEDRO: E perché?
SOCRATE: È sciocco e per un certo aspetto pure empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di un discorso del genere?
6. -SENOFONTE-
‘APOLOGIA DI SOCRATE’ § 4
Ma Ermogene riprese dicendogli: “Non vedi quante volte i tribunali Ateniesi, fuorviati dai discorsi, hanno mandato a morte degli innocenti; e quante volte hanno invece assolto dei colpevoli, o perché mossi a compassione dai loro discorsi oppure perché hanno parlato in atteggiamento implorante e con toni supplichevoli?”. “Sì, per Zeus” disse Socrate, “ed io pure ho già messo mano per ben due volte a considerare la faccenda della mia difesa, ma il mio démone vi si oppone”.
7. -SENOFONTE-
‘APOLOGIA DI SOCRATE’ § 24
Quanto a me, invece, perché dovrei avere adesso di me stesso un giudizio peggiore di quello che avevo prima della condanna, visto che non sono stato provato colpevole di alcuna delle azioni per le quali mi intentarono il processo? Nessuno, infatti, ha potuto dimostrare che io, invece di sacrificare a Zeus, ad Era e agli altri dei loro compagni, abbia fatto sacrifici in onore di certi nuovi démoni, né che io abbia giurato o menzionato degli dei diversi. E quanto ai giovani, com’è possibile che io li corrompa, se li indirizzo invece ad abitudini di fortezza e di frugalità?
8. -SENOFONTE-
‘MEMORABILI’ I,1
‘Socrate è colpevole di non legittimare gli dei che la città legittima poiché introduce nuovi ed inauditi démoni. Egli è inoltre colpevole di corruzione dei giovani’.
9. -SENOFONTE-
‘MEMORABILI’ I, I, 2-4
Tutti erano al corrente dell’affermazione di Socrate, secondo la quale un démone gli segnalava il da farsi. Ed è soprattutto su questa base che, io credo, egli sia stato accusato di introdurre nuovi ed inauditi démoni. In realtà egli nulla introduceva di più nuovo ed inaudito di quanto introducessero gli altri, [….] eccetto che mentre la maggior parte degli uomini dicono di essere trattenuti dal fare qualcosa e di esservi spinti dal volo degli uccelli o da incontri casuali, Socrate parlava apertamente del segno che conosceva, affermando che era il suo démone a segnalargli il da farsi; consigliando anche a molti suoi compagni di fare oppure non fare ciò che segnalava loro il démone.
10. -SENOFONTE-
‘MEMORABILI’ IV, VIII, 1-5
Socrate soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo ciò che dovesse e non dovesse fare. Ora, se qualcuno crede, a causa della sua condanna a morte, che Socrate sia colpevole di essersi ingannato a proposito di tale démone; ebbene costui rifletta in primo luogo sul fatto che egli era allora già tanto avanti negli anni che, se pur non subito, sarebbe di certo morto non molto tempo dopo. In secondo luogo, rifletta sul fatto che in questo modo Socrate si lasciò alle spalle la parte più penosa e molesta della vita, quella nel cui corso in tutti diminuisce la capacità intellettiva; e invece di questo declino, continuando a sfoggiare tutto il vigore dell’animo suo, egli si guadagnò la gloria parlando al processo con il massimo di verità, di libertà e di giustizia di tutti gli uomini; e sopportando la condanna a morte con il massimo di mitezza e di virilità; giacché è ammesso che nessuno mai degli uomini di cui v’è memoria abbia sopportato la morte in modo più nobile. Dopo il verdetto, gli toccarono comunque di necessità altri trenta giorni di vita, poiché quello era il mese delle Delie, feste nel corso le quali la legge non permetteva l’esecuzione di alcuna condanna a morte fino a che la sacra ambasceria non fosse tornata da Delo. Durante questo tempo tutti i suoi amici intimi ebbero modo di vedere che Socrate continuava a vivere le giornate in modo per nulla differente dal suo solito; seppure già in precedenza Socrate era tra tutti gli uomini oggetto di speciale meraviglia per il suo modo di vivere sempre di buon umore e con semplicità. Come si potrebbe morire più nobilmente di così? Quale morte potrebbe essere più nobile di quella di morire il più nobilmente possibile? Quale morte potrebbe essere più felice di quella più nobile possibile? E quale morte potrebbe essere più cara agli dei della morte più felice possibile?
Riferirò ora quello che di Socrate sentii dire da Ermogene figlio di Ipponico. Raccontava dunque Ermogene di avere udito Socrate, quando ormai Meleto aveva scritto e presentato l’accusa, impegnarsi in ogni sorta di discussioni invece di parlare del processo, e di avergli detto che sarebbe stato il caso che egli considerare cosa dire in sua difesa. A questa domanda Socrate dapprima rispose: “Non ti sembra che la mia vita intera sia stata una preparazione alla mia difesa?”. E quando Ermogene gli chiese: “In che senso?”, Socrate gli spiegò di non essere mai addivenuto a far altro che esaminare a fondo ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, effettuando le cose giuste ed astenendosi dalle ingiustizie, attività che egli legittimava come in assoluto la miglior preparazione possibile per la propria difesa. Allora Ermogene riprese dicendogli: “Non vedi, o Socrate, che i giudici Ateniesi, fuorviati dai discorsi, hanno mandato a morte molti innocenti, e hanno invece assolto molti colpevoli?” “Sì, per Zeus, o Ermogene” gli rispose Socrate, “ma quando io ho messo mano a considerare la faccenda della mia difesa davanti ai giudici, il mio démone vi si è opposto”.
11. -DIOGENE LAERZIO-
‘VITE DEI FILOSOFI’ LIBRO II, § 32
<Socrate> soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo quel che gli sarebbe accaduto; che l’essere da esso ben comandati, anche se per poco tempo, non è piccola cosa; e di nulla sapere se non sapere che c’è questo démone.
12. -PLUTARCO-
‘DE GENIO SOCRATIS’ 580B-589E
[580B] Teocrito prese allora la parola e disse: “E dunque, caro Galaxidoro? Meleto ha persuaso anche te che Socrate non teneva in alcun conto gli dei e i culti loro dovuti? Proprio di questo, infatti, egli lo accusò davanti agli Ateniesi”. [580C] “Assolutamente no!” rispose Galaxidoro “Socrate non disdegnò affatto gli dei e i culti loro dovuti. Egli piuttosto prese dalle mani di Pitagora e dei suoi seguaci una filosofia che era diventata piena zeppa di fantasticherie, di favole e di superstizione; e da quelle di Empedocle una filosofia completamente in preda ai furori Dionisiaci, e la abituò a trarre ispirazione dalle faccende quotidiane e reali e ad andare in cerca della verità con un sobrio modo di ragionare”. “Va bene”, disse Teocrito, “e il démone di Socrate, caro mio, come lo chiamiamo? Una falsità? Nessuna delle cose che si dicono di Pitagora in riferimento alla mantica mi è infatti sembrata così grandiosa e divina; giacché qual è l’Atena che Omero ha costruito per Odisseo e gli ha posto accanto in tutti i suoi travagli, esattamente tale sembra la vista di cui il démone dotò Socrate fin da ragazzo, una vista che gli fa da guida nel cammino, la quale unica [580D]
‘marciando innanzi a lui, gli fa luce’
in faccende dubbie ed alla cui soluzione l’umana saggezza non arriva col ragionamento, e circa le quali il démone parlò spesso all’unisono con lui, dando un carattere divinamente ispirato alle sue proairesi. [….] Una volta -ero anch’io presente- capitò che Socrate salisse [….] verso il Simbolo e la casa di Andocide discorrendo scherzosamente con Eutifrone, quando tutt’a un tratto si fermò, tacque e rimase per abbastanza tempo pensieroso e chiuso in se stesso. [580E] Poi cambiò direzione di marcia e prese la strada dei Cassai, richiamando indietro i compagni che ormai erano più avanti e ripetendo di essere appena stato visitato dal suo démone. La maggior parte della compagnia cambiò strada con lui; ed io con loro, tenendomi vicino ad Eutifrone. Alcuni giovanotti, invece, con l’intenzione di mettere alla prova e di screditare il démone di Socrate, proseguirono la loro strada in linea retta portando con loro il flautista Carillo, il quale era giunto con me ad Atene per rendere visita a Cebete. Orbene, mentre costoro camminano lungo la via degli Statuari, presso i Tribunali ecco che si fa loro incontro un branco di maiali tutti coperti di brago, [580F] un branco così fitto che gli animali si spintonavano l’un l’altro; e non essendovi modo di scansarli, essi, sbattendo contro i giovanotti, ne mandarono alcuni a gambe all’aria e altri li insudiciarono dalla testa ai piedi. Anche Carillo tornò a casa con le gambe e il mantello pieni di fango, sicché io e lui sempre ci ricordiamo del démone di Socrate con una risata ma allo stesso tempo con stupore, considerando che la divinità non lo abbandonava né lo trascurava in qualunque luogo egli si trovasse”. “Credi tu dunque, o Teocrito”, disse Galaxidoro, “che il démone di Socrate fosse dotato di un qualche peculiare e straordinario potere, e che Socrate, essendone ormai certo per esperienza, non utilizzasse una qualche risorsa della comune mantica per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra in fatti dubbi ed inintelligibili per via di ragione?” [….] [581A] [….] Prese allora la parola Polimnide, [padre di Epaminonda e di Cafisia] e disse: “Io ho sentito dire da uno della scuola di Megara, il quale lo aveva sentito dire da Terpsione [un compagno di Socrate], che il démone di Socrate era uno starnuto, fosse esso il suo oppure quello di un altro. [581B] Infatti quando una persona che stava alla sua destra, sia dietro di lui sia davanti a lui, starnutiva, questo gli dava l’impulso ad effettuare l’azione; se invece la persona stava alla sua sinistra, egli si tratteneva dal fare l’azione. Circa poi i suoi propri starnuti, lo starnuto che avveniva mentre egli era sul punto di fare un’azione rafforzava in lui l’impulso a compierla, mentre lo starnuto che avveniva mentre egli stava già compiendo un’azione gliela faceva sospendere e la impediva. E tuttavia mi stupisce che se utilizzava uno starnuto, Socrate dicesse invece ai suoi compagni che ciò che gli intimava oppure gli vietava di fare qualcosa fosse un démone. [….] [581C] [581D] [….] Sento poi anche dire che egli predisse ad alcuni suoi amici la disastrosa rovina delle forze Ateniesi in Sicilia, [….] [581E] e che la ritirata di Socrate, Alcibiade e Lachete verso il monte Parnete dopo la sconfitta Ateniese a Delio fu fatta in obbedienza al démone di Socrate, [….] e credo che pure Simmia ne abbia sentito parlare”. “Ne ho sentito parlare parecchie volte e da molte persone”, disse Simmia, “perché queste vicende erano ad Atene sulla bocca di tutti e si parlò non poco del démone di Socrate”. [….] [581F] [582A] [582B] [….] “Vengo adesso a te, o Polimnide, <disse Galaxidoro> che ti stupisci perché Socrate, un uomo che grazie alla sua assenza di vanità e alla sua semplicità ha dato il massimo contributo alla umanizzazione della filosofia, [582C] ha chiamato quello che gli segnalava il da farsi non ‘starnuto’ o ‘presagio’ bensì, con un termine da tragedia, ‘démone’. Io mi stupirei piuttosto del contrario, ossia che un uomo come Socrate, il quale è una cima nel dialogare e nel padroneggiare l’uso delle parole, dicesse che a segnalargli il da farsi è lo ‘starnuto’ e non il ‘démone’. È come se uno dicesse di essere stato ferito da una freccia e non da un arciere con una freccia, oppure che il peso di qualcosa è stato misurato dalla bilancia e non da chi pesa con la bilancia. L’opera, insomma, non è dell’organo che la compie, bensì di chi utilizza l’organo per compiere quell’opera; ovvero un organo è il segno di cui si serve chi segnala”. [….] [588B] [….] Essi erano ormai andati assai innanzi in questa discussione non banale, [….] quando si posero il problema di quale fosse l’essenza e il potere del cosiddetto démone di Socrate. [588C] [….] Però <Simmia> in persona affermava che, interrogatolo una volta su questa faccenda, non ottenne da Socrate alcuna risposta, ragion per cui non gli propose più la domanda. Simmia diceva tuttavia che in sua presenza Socrate aveva spesso affermato di ritenere dei cialtroni quanti sostenevano di avere un contatto visivo con realtà divine, mentre mostrava grande attenzione ed interrogava con serietà quanti affermavano di sentire delle voci. “Laonde a noi avvenne di intendere”, continuava Simmia, “considerando in privato tra di noi la cosa, che il démone di Socrate [588D] forse era non una visione bensì la percezione di una certa voce oppure l’intellezione di un discorso che riusciva a raggiungerlo in qualche strano modo; così come avviene anche nel sonno, durante il quale non ci sono voci, e però se si ha l’impressione o il pensiero di assistere a dei discorsi, si crede di sentire della gente parlare. In alcuni uomini, e sono coloro i quali sentono meglio le voci mentre dormono, siffatta percezione di voci compare veramente nel sogno, a causa dello stato di quiete e di calma nel quale si trova il loro corpo. Da svegli, invece, l’animo di costoro porge scarso ascolto alle potenze superiori, poiché essi si trovano affogati nel trambusto delle passioni e portati qua e là da vari bisogni, sicché diventano incapaci di ascoltare e di indirizzare l’intelletto a tali manifestazioni. Invece Socrate, poiché aveva una mente pura e capace di dominare le passioni, [588E] essendo mescolato al corpo se non per via delle semplici necessità fisiologiche e quindi ben poco, era sensibilissimo e delicato così da rispondere celermente allo stimolo che lo raggiungeva. Questo stimolo lo si farebbe somigliare non ad un parlato ma al discorso di un démone che comunicava con lui senza voce attraverso la manifestazione di ciò che pensava. [….] [589D] [….] Così i messaggi dei démoni attraversano tutti gli uomini, ma trovano eco soltanto in quelli abituati a non turbarsi e con l’animo in bonaccia, dunque proprio coloro che noi chiamiamo uomini divini e demonici. In maggioranza gli uomini credono però che il démone ispiri divinamente le persone soltanto quando dormono, mentre ritengono stupefacente ed incredibile che esse siano similmente mosse quando sono sveglie ed immerse nei loro pensieri. [….] [589E] <Ciò accade perché> gli uomini non riescono a scorgerne la causa, che è rappresentata dall’interiore mancanza di sintonia e dallo stato di sconcerto nel quale si trovano <da svegli>; tutte cose dalle quali Socrate, il nostro compagno, era invece lontano, come profetizzò la risposta che l’oracolo diede a suo padre quando Socrate era ancora ragazzo. L’oracolo gli ingiunse infatti di lasciar effettuare al ragazzo qualunque cosa gli venisse in mente, di non forzare né deviare ma di lasciare piena libertà ai suoi impulsi, innalzando in favore del figlio auspici a Zeus protettore dell’Agorà e alle Muse ma senza impicciarsi d’altro a suo riguardo, [589E] giacché egli portava per certo in se stesso un duce per la vita migliore di miriadi di maestri e di pedagoghi. È questo, o Fidolao, il pensiero che noi abbiamo in mente a proposito del démone di Socrate, sia quand’egli era vivo sia ora che è morto, mentre non apprezziamo coloro che mettono di mezzo ‘presagi’ o ‘starnuti’ o qualunque altra cosa del genere”.
13. -APULEIO-
‘DE DEO SOCRATIS’ § 16-24
Di questa più alta schiera di démoni ne sono assegnati ai singoli individui alcuni che, invisibili a chiunque altro sono sempre presenti in qualità di giudici non soltanto delle loro azioni ma anche dei loro pensieri. E quando si deve ripercorrere una vita che si sta per concludere, questo démone ci prende subito in consegna e, quasi fossimo suoi prigionieri, ci trascina in tribunale e qui ci assiste mentre peroriamo la nostra causa. E se nel farlo dichiariamo il falso, esso ci redarguisce; se affermiamo il vero, garantisce per noi, mentre in base anche alla sua testimonianza viene poi emessa la sentenza. Al cospetto di un tale custode l’uomo non può avere alcun segreto; poiché il démone tutto ispeziona e tutto comprende, albergando nei recessi più intimi della nostra mente. Questo démone è custode speciale, sorvegliante personale, protettore domestico, amministratore esclusivo, conoscitore dell’intimo, osservatore instancabile, giudice irremovibile, testimone inseparabile, censore dei viziosi e sostenitore dei virtuosi. E quando sia considerato con rispetto, riconosciuto con puntualità e venerato con solennità, così come con lealtà e integrità morale lo ha venerato Socrate, allora sarà lungimirante nelle nostre incertezze, premonitore fra i nostri dubbi, rassicurante di fronte a quanto ci minaccia e soccorritore nei nostri stenti. C’è dunque da meravigliarsi che Socrate abbia riconosciuto e venerato questo segno divino?
Perché il démone si mostrava pronto ad osteggiare certi propositi di Socrate? Perché Socrate, com’è naturale per un uomo di sublime perfezione non aveva mai bisogno di chi lo incoraggiasse ma piuttosto di chi lo tenesse a freno; così che, preavvisato, evitasse di intraprendere azioni che con maggior sicurezza avrebbe potuto intraprendere più tardi o per altra via. In circostanze simili egli affermava di udire una certa qual voce di origine divina, di modo che non si pensasse che egli aveva seguito l’avviso di starnuti o del volo di uccelli o di voci casuali, e pensato con le orecchie invece che con la testa.
Socrate sosteneva che a giungergli non era una semplice voce, ma una ‘certa’ voce. Da tale piccola aggiunta si capisce subito che egli non intendeva indicare una voce consueta né di origine umana. Se così fosse, infatti, l’aggettivo ‘certa’ sarebbe stato inutile, ed anzi avrebbe detto ‘una voce’ o ‘la voce di qualcuno’. Io sono peraltro convinto che egli avvertisse i segnali del suo démone non soltanto con l’udito ma anche con la vista, poiché molte volte riferiva non trattarsi di una voce ma di un segnale divino, che potrebbe essere anche stato un’apparizione diretta del démone, che soltanto Socrate era in grado di distinguere, come l’Achille di Omero con Atena.
Ritengo che la maggior parte di voi esiti a credere a queste mie parole e che si meravigli non poco nell’udire di un’apparizione diretta del démone. Ma a parte i Pitagorici, i quali si meraviglierebbero invece del contrario, una fonte piuttosto attendibile al riguardo è rappresentata da Aristotele. Infatti, se come lui afferma, a qualunque individuo può toccare il privilegio di ammirare un’immagine divina, perché ciò non potrebbe essere accaduto a Socrate? Nulla è più somigliante e più gradito alla divinità di un uomo dall’animo perfettamente virtuoso.
Perché anche noi non ci facciamo animo e, sull’esempio di Socrate, non ci adoperiamo attraverso lo studio della filosofia a stabilire un rapporto paritario con gli dei? Se si vuole avere una vista più acuta, si deve aver cura degli occhi; se si vuol correre veloci, bisogna prendersi cura dei piedi; se si vuol praticare efficacemente il pugilato, si devono rafforzare le braccia. A questi fatti, benché tutti li capiscano senza difficoltà, non mi stanco mai di ripensare fra me e me, chiedendomi appunto perché gli uomini non cerchino di perfezionare anche il loro animo. Quest’arte di saper vivere è parimenti necessaria a tutti senza eccezione alcuna, a differenza dell’arte di dipingere o di suonare la cetra. Queste ultime sono capacità che qualsiasi uomo virtuoso potrebbe tranquillamente ignorare senza per questo provocare alcun guasto, corruzione o ignominia al proprio animo. Io non so suonare il flauto come Ismenia né dipingere come Apelle, ma non mi vergogno di non essere un grande flautista né un grande pittore. Tuttavia prova a dire: “Non sono capace di vivere bene come visse Socrate, e non mi vergogno di non avere tale capacità”. Non ammetterai mai una cosa simile. Ma soprattutto è strano che proprio quelle capacità che più delle altre si vuol mostrare di possedere, nondimeno si trascura di acquisirle, denigrandone l’apprendimento come se si trattasse di ignoranza. Nelle altre arti si investono con munificenza molte ricchezze, ma nulla su se stessi, intendo dire nel culto del proprio démone, che altro non è che il sacro rituale della filosofia. Si osservi il modo in cui le persone ricche di denaro profondono i loro patrimoni: ville edificate per rivaleggiare con città, case arredate alla stregua di templi, servitù composte da maree di schiavi, suppellettili sfarzose. Tutto abbondante, tutto opulento ad eccezione del padrone. Lui soltanto è misero, indigente e povero, perché arde in lui la sete della vera beatitudine, ossia di una vita guidata dalla saggezza. E nemmeno sa che anche i ricchi devono essere passati sotto esame, proprio come si fa quando si acquistano i cavalli.
Ebbene, anche nell’esaminare gli esseri umani non si devono valutare qualità estranee ed accidentali, ma l’uomo in sé, come se fosse il mio buon Socrate. E definisco estranei e accidentali tutti quei prodotti che derivano dai genitori o che sono stati elargiti dalla sorte. Negli elogi a Socrate, io non metto di mezzo nessuno di tali accidenti: niente illustri natali, niente ricchezze invidiabili. Tanti sono i beni in tal senso estranei. Se dici di uno: “È ricco di denaro”, stai lodando i suoi genitori o la sua buona sorte: ma io non mi fido della fortuna. Se dici: “È sano”: prima o poi sarà incalzato dai malanni. Se dici: “È agile”: da vecchio sarà pressoché immobile. Se dici: “È avvenente”: aspetta un poco e non lo sarà più. Se dici: “Ma per quanto è concesso a un uomo, è sapiente e pratica la virtù”: ecco che ogni tanto fai un complimento a questo benedetto uomo! Perché questa è la dote che non si eredita dal padre, non dipende dal caso, non dura un solo anno per elezione, non è effimera a seconda delle condizioni fisiche né mutevole col crescere dell’età. Di tutti questi privilegi godeva il mio amico Socrate e pertanto non gli interessava godere dei rimanenti. Nell’Odissea, Omero non ci spiega nulla che non si accordi con ciò; poiché volle che virtù -da lui poeticamente chiamata Atena- fosse sempre al fianco di Odisseo. Ebbene, con questa compagna accanto Odisseo penetrò nell’antro del Ciclope e ne uscì vivo; vide i buoi del Sole, ma se astenne; discese agli Inferi e ne risalì; costeggiò Scilla senza farsene rapire; fu accerchiato da Cariddi, ma si liberò dall’accerchiamento; bevve la pozione di Circe, ma non ne fu trasformato in un maiale; raggiunse i Lotofagi, ma non rimase in mezzo a loro; udì il canto delle Sirene, ma non si avvicinò ad esse.
14. -EPITTETO-
‘DIATRIBE’ I,14,12
E nondimeno <Zeus>, come delegato pose accanto a ciascuno il proprio démone e glielo trasmise da custodire: un démone insonne e non ingannabile.
‘DIATRIBE’ I,14,14
….ricordate di non dire mai che siete soli. Giacché non lo siete. Zeus è al vostro interno e il vostro démone lo è. Che bisogno hanno questi di luce, per scorgere cosa fate?
‘DIATRIBE’ IV,1,109
Gli indolenti ed i vili <Zeus> li vedrà, non spiacevolmente, lasciati addietro dalla sagra; giacché, da astanti, non se la passavano come in una festa né assolvevano l’ufficio loro confacente ma si dolevano, biasimavano il loro démone, la fortuna, i sodali; incoscienti di quanto ottennero e delle facoltà stesse che hanno ricevuto per le contrarietà, della magnanimità, della generosità, della virilità, della stessa ora cercata libertà.
‘DIATRIBE’ I,22,16
Perché dunque facciamo templi, perché facciamo simulacri a Zeus come a cattivi démoni, come alla Febbre?
‘DIATRIBE’ III,13,15
Quanto v’era in te di fuoco se ne va in fuoco; quant’era terra, in terra; quanto di pneuma in pneuma e quanto d’acqua, in acqua. Alcun Ade non v’è, non v’è Acheronte né Cocito né Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dei e di démoni.
‘DIATRIBE’ III,1,19
Socrate persuadeva ad esser solleciti di se stessi tutti coloro che avvicinava? Neppure la millesima parte. Ma ugualmente, siccome fu assegnato a questo posizionamento dal démone, come dice lui, non si eclissò più.
‘DIATRIBE’ III,1,37
“Orsù, ubbidiamo dunque a Zeus, per non essere oggetti del suo disgusto”. No; ma se un corvo gracchiando ti significherà qualcosa, non è il corvo a significare ma Dio attraverso di lui. E se significherà qualcosa attraverso la voce di un uomo, tu farai finta che sia l’uomo a dirti questo, per ignorare la facoltà del démone che significa agli uni così ed agli altri cosà ma che, sulle questioni più grandi e dominanti, significa attraverso il messaggero più bello?
‘DIATRIBE’ III,22,53
Consigliati nel modo più solerte, riconosci te stesso, interroga il démone, non mettere mano a questo prescindendo dal divino. Giacché se lo consiglierà, sappi che dispone di farti diventare grande o prendere molte botte.
‘DIATRIBE’ IV,4,39
Una sola è la strada per la serenità (e questo giudizio ti sia a portata di mano all’alba, di giorno e di notte): la diserzione da ciò che è aproairetico, il non ritenere nostro peculiare nulla di esso, il trasmettere tutto al démone, alla ventura; il farne delegati quelli che anche Zeus ha fatto delegati.
Dove faccio un po’ di storia della filosofia e accenno alla ‘proairesi’ di Epitteto
Bisogna che io vi dica la verità. Non ho mai letto una sola pagina dei libri di Gregory Vlastos e quindi ignoro del tutto quale interpretazione egli dia del mio démone. Fatta questa confessione, mi farò coraggio e proverò a dire alla mia maniera poche e semplici cose.
La principale è questa: quanto avrei desiderato vivere cinquecento anni più tardi ed essere un giovane Stoico allievo di Epitteto, godere della sua amicizia, conoscere le opere di Crisippo e trovare le risposte che cercavo alle domande che mi ponevo! Ai miei tempi nessuno usava le parole ‘proairesi’, ‘natura delle cose’, ‘diairesi’, ‘controdiairesi’, ‘antidiairesi’, ‘comprensione dell’uso delle rappresentazioni’ e soprattutto entità ‘proairetiche’ ed ‘aproairetiche’. Col senno di poi, mi è chiaro che quello che io chiamavo ‘démone’, e che mi è costato la vita, conteneva in germe tutte queste realtà. Proprio io, che facevo dell’arte della maieutica il mio orgoglio principale, non sono riuscito a far partorire me stesso e a dare alla luce il mio vero pensiero. Dovete però pensare che avevo dinanzi a me uomini del calibro di Gorgia di Leontini, di Prodico di Ceo, di Ippia di Elide. Costoro si dichiaravano capaci di trasmettere un sapere che permette ai giovani di raggiungere quell’eccellenza che conviene a chi è uomo e cittadino, e si facevano pagare per questo. Io non possedevo questo sapere; tant’è vero che il facoltosissimo Callia, interrogato una volta in proposito proprio da me, affermò che avrebbe affidato l’educazione dei suoi due figli non a me, ma ad Eveno di Paro. Queste erano tutte persone dotate della strabiliante capacità di fare di qualunque teoria un ‘modello culturale’ alla moda, di saperlo proporre e dimostrare come vero. Ad Atene, dove io vivevo, non s’era mai vista una cosa del genere, e tutti rimanemmo affascinati dalla loro abilità di aprire nuovi ed inesplorati orizzonti.
Io comunque mi accorsi ben presto, e cercai di far notare anche ad altri, che i modelli culturali che quei Sofisti proponevano erano incompatibili uno con l’altro, e che trovavo né lecito né educativo fare l’elogio di qualcosa e del suo esatto contrario. Io e qualche mio amico come Antistene, più giovane di me di circa venticinque anni, cominciammo a nutrire seri dubbi sul valore di ciò che sentivamo lodare da quasi tutti gli altri. Spesso era con noi ed assisteva ai nostri discorsi anche un giovanotto di buona famiglia, un ragazzo ben piantato e dalle solide spalle, più giovane di me di una quarantina d’anni, il quale mi guardava davvero come un figlio può guardare un padre. A lui però, vista la differenza di età, io non feci mai gran caso. Lo chiamavano Platone.
Il punto cruciale delle nostre discussioni divenne naturalmente proprio questo: per confutare la validità dei modelli culturali che i Sofisti proponevano era indispensabile trovare in campo morale un riferimento assoluto e invariante, valido come guida per tutti gli uomini. Certo esso non poteva più essere rappresentato dalla Cultura sulla quale ci eravamo formati e che era incarnata da Omero, dai Miti e dai versi degli antichi Poeti. Ma esisteva questo riferimento? I Sofisti ovviamente ne negavano l’esistenza; e nessuno di noi, nonostante i ripetuti sforzi che facemmo, lo trovò.
La mia ricerca sfociò nell’unica certezza di possedere entro di me un ‘démone’ che mi guidava alle scelte giuste, e nella sicurezza che tutta la mia presunta sapienza consistesse in questo unico sapere. Ma non trovai mai il modo di articolare né di inserire ciò in un contesto che non fosse la mia esperienza personale. Quando poi mi permisi di affermare che quanto valeva per me valeva anche per tutti gli Ateniesi, ebbene la mia fine risultò segnata. Dopo la mia morte, Antistene fece del mio démone la parola d’ordine della scuola Cinica, e si appellò ad esso per sostenere che la virtù può essere insegnata ed appresa da chiunque, e per invocare il ritorno alla vita frugale, all’utilizzazione di cibi non cotti e già naturalmente pronti per il consumo, al vestirsi il più semplicemente e sobriamente possibile, allo spregio della ricchezza, della gloria mondana e della nobiltà di natali. Non era gran che ma neppure era poco, comunque nulla che fosse capace di scuotere la solidità del relativismo dei Sofisti. Ma almeno andava nella direzione che anche a me era parsa corretta, ossia quella che cercava il riferimento assoluto e invariante dentro l’uomo. Chi andò invece in direzione completamente opposta e cercò quel riferimento fuori dall’uomo, fu il giovane Platone. Quel ragazzo è stato una mia sfortuna postuma, poiché mi ha fatto dire ogni sorta di cose che io non ho mai pensato e, per mettere d’accordo gli uomini, ha finito col renderli tutti schiavi al servizio di una creatura di sua invenzione, extraterrestre, eterna, immutabile, che ha chiamato ‘idea’. Si può chiamare successo il suo? Anche l’assassino ha successo quando riesce ad uccidere la vittima designata, ma io mi rifiuto di chiamare successo qualcosa che nulla ha a che fare con la verità e che ha aperto la strada ai professionisti della menzogna, ossia ai fondatori di Religioni che definiscono brutalmente ‘rivelate’ le loro dottrine.
Vorrei da ultimo tornare brevemente allo Stoicismo e ad Epitteto. Perché allo Stoicismo? Perché soltanto i maestri dell’Antica Stoa hanno saputo trovare la verità da me cercata invano: la verità non sul vivere, ma per vivere bene: cosa della quale vi hanno dato la chiave. Perché ad Epitteto? Perché Epitteto ha formalizzato in modo definitivo quella verità. E io sono qui a testimoniare che il mio démone è l’anticipazione di quella che Epitteto ha poi chiamato ‘proairesi’. Se tra di essi vi è differenza, mi pare che la principale sia questa: che il mio ‘dèmone’ ha una coloritura molto più, se non quasi esclusivamente, aproairetica che proairetica: tant’è vero che ha potuto essere interpretato alla stregua di uno ‘starnuto’. Comunque sia io gradirei molto essere ricordato non come il padre del ‘So di non sapere nulla’ bensì come l’avo del ‘Io sono proairesi’.
Dove parla il mio démone
Lasciamo che a mostrare i casi di obbedienza e di disobbedienza al démone, e dunque a parlare del mio ‘démone’, siano autori antichi e moderni, noti e meno noti, a me contemporanei e non contemporanei, presso i quali ammettiamo che io mi sia recato portando con me le loro opere migliori. Non si tratta che di pochi esempi, ai quali non associo alcun commento: scelta di cui chiunque, a questo punto, può pienamente comprendere il significato.
Ecco cosa ne riferisce Omero:
-OMERO-
‘ILIADE’
Disse così; al Pelide venne dolore, il suo cuore
nel petto peloso fu incerto tra due:
se, sfilando la daga acuta via dalla coscia,
facesse alzare gli altri, ammazzasse l’Atride,
o se calmasse l’ira e contenesse il cuore.
E mentre questo agitava nell’animo e in cuore
e sfilava dal fodero la grande spada, venne Atena
dal cielo; l’inviò la dea Era braccio bianco,
amando ugualmente di cuore ambedue e avendone cura;
gli stette dietro, per la chioma bionda prese il Pelide,
a lui solo visibile; degli altri nessuno la vide.
Restò senza fiato Achille, si volse, conobbe subito
Pallade Atena: terribilmente gli lampeggiarono gli occhi
e volgendosi a lei parlò parole fugaci:
“Perché sei venuta, figlia di Zeus Egìoco,
forse a veder la violenza d’Agamennone Atride?
Ma io ti dichiaro, e so che questo avrà compimento:
per i suoi atti arroganti perderà presto la vita!”
E gli parlò la dea Atena occhio azzurro:
“Io venni a calmare la tua ira, se tu mi obbedisci,
dal cielo: m’inviò la dea Era braccio bianco,
ch’entrambi ugualmente ama di cuore e cura.
Su, smetti il litigio, non tirar con la mano la spada:
ma ingiuria con parole, dicendo come sarà:
così ti dico infatti, e questo avrà compimento:
tre volte tanto splendidi doni a te s’offriranno un giorno
per questa violenza; trattieniti, dunque, e obbedisci”.
E disse ricambiandola Achille piede rapido:
“Bisogna una vostra parola, o dea, rispettarla,
anche chi molto è irato in cuore; così è meglio,
chi obbedisce agli dei, molto essi l’ascoltano”.
Così sull’elsa d’argento trattenne la mano pesante,
spinse indietro nel fodero la grande spada, non disobbedì
alla parola di Atena; ella verso l’Olimpo se n’era andata,
verso la casa di Zeus Egìoco, con gli altri numi.
Ecco cosa ne riferisce Erodoto:
-ERODOTO-
‘Storie’
Candaule, re della Lidia, era innamorato della sua sposa e, innamorato com’era, riteneva di possedere la donna di molto più bella di tutte. Poiché aveva questa opinione e fra le guardie del corpo Gige, figlio di Daskylos, era a lui particolarmente caro, Candaule gli confidava anche i più importanti dei suoi affari e gli parlò perfino della bellezza della moglie, lodandola oltre misura. Un giorno il re fece a Gige questo discorso: ”Gige, io penso che tu non mi presti fede quando ti parlo della bellezza della mia sposa. Fa dunque in modo di vederla nuda”. Al vederla nuda. Al che Gige replicò con voce concitata: “Signore, qual mai insano discorso fai tu, invitandomi a guardare la mia sovrana nuda? Con lo spogliarsi delle vesti la donna si spoglia anche del pudore. Da molto tempo gli uomini hanno trovato buoni precetti dai quali bisogna imparare, ed uno di essi è questo: che ognuno abbia cura delle cose sue. Io sono persuaso che la regina sia la più bella di tutte le donne e ti prego di non chiedermi cose che sono contro ogni legge”. Egli dunque così dicendo si schermiva, temendo gliene potesse venire qualche male. Ma Candaule rispose: “Rassicurati, Gige, e non temere né di me, che io ti faccia qualche proposta per metterti alla prova; né di mia moglie, che tu riceva da lei qualche danno; perché farò in modo che essa non sappia neppure di essere stata vista da te. Io ti collocherò nella camera in cui dormiamo, dietro la porta lasciata aperta. Dopo che io sarò entrato, subito anche la mia sposa verrà a coricarsi. Accanto all’ingresso c’è uno sgabello: su questo essa riporrà le vesti, spogliandosene ad una ad una, e con tutta calma tu potrai contemplarla. Poi, quando ella si dirigerà dallo sgabello al letto e tu verrai a trovarti alle sua spalle, fai attenzione allora di non essere visto mentre esci dalla porta”. Così Gige, dal momento che non poteva esimersi, era pronto ad ubbidire. Candaule, quando gli parve che fosse l’ora di coricarsi, lo condusse nella camera, e poi subito comparve anche la moglie e mentre essa, entrata, deponeva gli abiti, Gige la osservava. Quando poi si trovò alle spalle della donna che si dirigeva verso il letto, di soppiatto uscì fuori. La donna lo scorse mentre usciva ma, avendo compreso ciò che il marito aveva fatto, non gridò di vergogna e fece finta di non essersi accorta di nulla, avendo in mente di vendicarsi di Candaule. Presso i Lidi infatti, come in genere anche presso gli altri barbari, è causa di grande disonore, anche per un uomo, l’essere visto nudo. Per il momento dunque la regina se ne stette tranquilla, senza far mostra di nulla. Ma appena venne giorno, avvertiti quei servi che ella sapeva esserle più fedeli, mandò a chiamare Gige. Quello, credendo che non sapesse nulla dell’accaduto, accolse l’invito, giacché anche prima soleva fare visita alla sovrana quando ella lo chiamava. Appena Gige fu giunto, la donna gli disse: “Ora, Gige, di due strade che ti sono davanti ti lascio scegliere per quale tu voglia dirigerti. O, ucciso Candaule, ti prendi me e il regno di Lidia oppure conviene che tu stesso muoia, affinché per l’avvenire tu non abbia a vedere, obbedendo in tutto a Candaule, ciò che non devi vedere. Orsù dunque, bisogna che perisca o lui, che ha ordito questo tranello, o tu, che mi hai vista nuda e hai commesso un’azione non lecita”. Gige dapprima rimase sbalordito davanti a questo discorso, ma poi supplicò la regina di non costringerlo ad una simile scelta. Non riuscì però a persuaderla e si vide realmente nella necessità o di uccidere il suo signore o di perire egli stesso per mano altrui. Scelse di sopravvivere e le domandò: ”Poiché mi costringi a uccidere il mio signore contro la mia volontà, suvvia, ch’io sappia il modo in cui lo assaliremo”. La regina rispose: ”L’attacco avverrà nello stesso luogo in cui lui mostrò me nuda, e lo assaliremo mentre dorme”. Così tramarono l’insidia e, venuta la notte, Gige -poiché non veniva lasciato libero né aveva alcuna via di scampo, ma era necessario che o lui o Candaule perisse- seguì nella camera da letto la donna la quale, datogli un pugnale, lo nascose dietro la stessa porta. Più tardi, mentre Candaule dormiva, Gige uscì dal nascondiglio, lo uccise ed ebbe la donna e il regno”.
Ecco cosa ne riferisce l’Evangelista Matteo:
VANGELO DI MATTEO
Allora Gesù fu condotto dallo Spirito in isolamento, per essere messo alla prova dal diavolo. E dopo avere digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Ora, colui che mette alla prova gli si accostò e gli disse: “Se tu sei figlio di Dio, dì qualcosa affinché queste pietre diventino pani”. Ma egli rispose dicendo: “È stato scritto: l’uomo non vivrà di solo pane, ma grazie ad ogni parola che fuoriesce attraverso la bocca di Dio”. Allora il diavolo lo prende, lo porta nella città santa, dove lo pose su un pinnacolo del tempio, e gli dice: “Se sei figlio di Dio, buttati giù; giacché sta scritto che Egli darà istruzioni ai suoi angeli a tuo riguardo ed essi ti solleveranno sopra le loro mani, così che tu non sbatta il piede contro un sasso. Ma Gesù gli diceva: “È stato anche scritto: non metterai alla prova il Signore Dio tuo”. Il diavolo di nuovo lo prende, lo porta sopra un monte altissimo, gli mostra tutti i regni del cosmo e la loro gloria, e gli disse: “Io ti darò tutti questi regni se prostratoti mi ossequierai”. Allora Gesù gli dice: “Vattene, Satana, giacché è stato scritto: tu ossequierai il Signore tuo Dio e offrirai i tuoi servigi a lui soltanto”. Allora il diavolo lo lascia stare ed ecco gli angeli vennero a lui e lo servivano.
Ecco cosa ne riferisce William Shakespeare:
-SHAKESPEARE-
‘Amleto’
Essere, o non essere, questo è il dilemma:
se sia più nobile nella mente soffrire
i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna
o prendere le armi contro un mare di affanni
e, contrastandoli, porre loro fine? Morire, dormire…
nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine
al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali
di cui è erede la carne: è una conclusione
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo,
perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire
dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale
deve farci esitare. È questo lo scrupolo
che dà alla sventura una vita così lunga.
Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo,
il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo,
gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge,
l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo
che il merito paziente riceve dagli indegni,
quando egli stesso potrebbe darsi quietanza
con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli,
grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa,
se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte,
il paese inesplorato dalla cui frontiera
nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà
e ci fa sopportare i mali che abbiamo
piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti?
Così la coscienza ci rende tutti codardi,
e così il colore naturale della risolutezza
è reso malsano dalla pallida cera del pensiero,
e imprese di grande altezza e momento
per questa ragione deviano dal loro corso
e perdono il nome di azione.
Ecco cosa ne riferisce Giacomo Leopardi:
‘Il Pensiero Dominante’ vv. 1- 12 …. 53-68
Dolcissimo, possente
dominator di mia profonda mente:
terribile, ma caro
dono del ciel; consorte
ai lugubri miei giorni,
pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Di tua natura arcana
chi non favella? Il suo poter fra noi
chi non sentì? Pur sempre
che in dir gli effetti suoi
le umane lingue il sentir proprio sprona,
par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona.
……….
Sempre i codardi e l’alme
ingenerose, abiette
ebbi in disdegno. Or punge ogni atto indegno
subito i sensi miei;
move l’alma ogni esempio
dell’umana viltà subito a sdegno.
Di questa età superba,
che di vote speranze si nutrica,
vaga di ciance, e di virtù nemica;
stolta, che l’util chiede,
e inutile la vita
quindi più sempre divenir non vede;
maggior mi sento. A scherno
ho gli umani giudizi; e il vario volgo
a’ bei pensieri infesto,
e degno tuo disprezzator, calpesto.
Ecco cosa ne riferisce Victor Hugo:
‘I Miserabili’
“Entrate” disse il vescovo.
La porta si aprì con violenza ed un gruppo strano apparve sulla soglia. Tre uomini ne tenevano un quarto per il bavero; tre erano gendarmi, il quarto era Jean Valjean. Un brigadiere, che pareva guidasse il gruppo, stava presso la porta; entrò e s’avanzò verso il vescovo facendo il saluto militare.
“Monsignore….” disse.
A quella parola, Valjean, ch’era cupo e pareva abbattuto, rialzò il capo con aria stupita.
“Monsignore?” mormorò. “Non è dunque il curato?”
“Silenzio!” disse un gendarme. “È monsignor vescovo.”
Intanto Monsignor Bienvenu s’era avvicinato con tutta la vivacità concessagli dalla sua tarda età.
“Oh, eccovi!” esclamò, guardando Valjean. “Sono lieto di rivedervi. Ma come? Vi avevo regalato anche i candelieri che sono d’argento come il resto e dai quali potete ben ricavare duecento franchi; perché non li avete portati con voi, insieme alle vostre posate?”
Jean Valjean alzò gli occhi e fissò il venerabile vescovo con un’espressione che nessuna lingua umana potrebbe esprimere.
“Allora, monsignore” disse il brigadiere “sarebbe vero quello che ci ha detto quest’uomo? L’abbiamo incontrato come uno che ha molta fretta e l’abbiamo fermato per vedere. Aveva questa argenteria….”
“E vi avrà detto” interruppe il vescovo sorridendo “che gliel’aveva regalata un vecchio prete dabbene presso il quale aveva passato la notte. Vedo come stanno le cose. e voi l’avete ricondotto qui? È un equivoco”.
“Se la cosa sta così” riprese il brigadiere “possiamo lasciarlo andare?”
“Ma certo” rispose il vescovo.
I gendarmi lasciarono libero Valjean, che indietreggiò.
“È proprio vero che mi lasciano andare?” chiese con voce quasi inarticolata, come se parlasse nel sonno.
“Sì, ti lasciamo in libertà: non hai sentito?” disse un gendarme.
“Amico mio” rispose il vescovo “prima d’andarvene, ecco i vostri candelieri: prendeteli”.
Andò verso il camino, prese i due candelieri d’argento e li portò a Valjean. [….] Jean Valjean tremava tutto e prese macchinalmente i due candelieri, con aria smarrita.
“Ed ora” disse il vescovo “andatevene in pace. A proposito: quando tornerete, amico mio, sarà inutile che passiate dal giardino. Potrete sempre entrare ed uscire dalla porta della strada, che è chiusa giorno e notte solo col saliscendi”.
Poi, volgendosi ai gendarmi, disse loro: “Signori gendarmi, potete andare”.
Jean Valjean pareva stesse per svenire. Il vescovo gli si avvicinò e gli disse a bassa voce: “Non dimenticate, non dimenticate mai che m’avete promesso di impiegare questo denaro per diventare un uomo onesto”.
Jean Valjean, che non si ricordava d’avere promesso, rimase stupefatto. Il vescovo aveva accentuato quelle parole in particolar modo, mentre le pronunciava, e riprese poi con una sorta di solennità: “Jean Valjean, fratello mio, voi non appartenete più al male ma al bene”.
Ecco cosa ne riferisce Fiodor Dostoievskji:
‘I demoni’
Era molto debole, ma non perdeva ancora la conoscenza. Sofia Matvejevna s’alzò, credendo che volesse addormentarsi. Ma lui la fermò: “Amica mia, ho mentito per tutta la vita. Anche quando dicevo la verità. Non ho mai parlato per la verità, ma solo per me, lo sapevo anche prima, ma lo vedo solo ora… Oh, dove sono quegli amici che io ho offeso con la mia amicizia per tutta la vita? E tutti, e tutti! Savez-vous, io forse mento anche ora; probabilmente mento anche ora. Il più è che anch’io credo a me stesso quando mento. La cosa più difficile nella vita è vivere senza mentire… e… e senza credere alla propria menzogna, sì, sì, è questo! Ma aspettate, tutto ciò, poi… Insieme, insieme!” aggiunse con entusiasmo.
“Stepan Trofimovic”, pregò timidamente Sofia Matvejevna, “non si dovrebbe mandare in provincia per il medico?”
Fu terribilmente colpito.
“Perché? Est-ce que je suis malade? Mais rien de sérieux. E poi che bisogna abbiamo noi di gente estranea? Potrebbero ancora sapere e che cosa sarebbe allora? No, no nessuno d’estraneo, insieme, insieme!”
“Sapete,” disse, dopo qualche silenzio, “leggetemi ancora qualche cosa, così, a scelta, qualcosa, dove cade l’occhio.”
Sofia Matvejevna aprì il libro e cominciò a leggere.
“Dove s’aprirà, dove s’aprirà a caso,” ripeté Stepan Trofimovic.
“Ed all’angelo della chiesa di Laodicea scrivi…”
“Cos’è? Cos’è? Di dov’è?”
È dall’Apocalisse.”
“O, je m’en souviens, oui, l’Apocalypse. Lisez, lisez, io mi son messo a indovinare dal libro il nostro avvenire; voglio sapere che cosa è venuto fuori; leggete cominciando dall’angelo, dall’angelo.”
“Ed all’angelo della chiesa di Laodicea scrivi: così dice l’Amen, testimone fedele e verace, principio della creazione di Dio. Conosco le tue opere; tu non sei freddo, né ardente: oh, se fossi freddo o ardente! Ma se tu sei tiepido e non ardente, né freddo, ti rigetterò dalla mia bocca.”
Ecco cosa ne riferisce Primo Levi:
‘Se questo è un uomo’
“Ma tutti udirono il grido del morente, esso penetrò le grosse antiche barriere di inerzia e di remissione, percosse il centro vivo dell’uomo in ciascuno di noi.
– Kameraden, ich bin der Letzte!- (Compagni, io sono l’ultimo!)
Vorrei poter raccontare che fra di noi, gregge abietto, una voce si fosse levata, un mormorio, un segno di assenso. Ma nulla è avvenuto. Siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo chino, e non ci siamo scoperta la testa che quando il tedesco ce l’ha ordinato. La botola si è aperta, il corpo ha guizzato atroce, la banda ha ripreso a suonare, e noi, nuovamente ordinati in colonna, abbiamo sfilato davanti agli ultimi fremiti del morente.
Ai piedi della forca, le SS ci guardano passare con occhi indifferenti; la loro opera è compiuta e ben compiuta. I russi possono ormai venire: non vi sono più uomini forti fra noi, l’ultimo pende ora sui nostri capi, e per gli altri, pochi capestri sono bastati. Possono venire i russi: non troveranno che noi domati, noi spenti, degni ormai della morte inerme che ci attende.
Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, Tedeschi! Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice.
Alberto ed io siamo rientrati in baracca, e non abbiamo potuto guardarci in viso. Quell’uomo doveva essere duro, doveva essere di un altro metallo dal nostro, se questa condizione, da cui noi siamo stati rotti, non ha potuto piegarlo.
Perché, anche noi siamo rotti, vinti: anche se abbiamo saputo adattarci, anche se abbiamo finalmente imparato a trovare il nostro cibo e a reggere alla fatica e al freddo, anche se ritorneremo. Abbiamo issato la menaschka sulla cuccetta, abbiamo fatto la ripartizione, abbiamo soddisfatto la rabbia quotidiana della fame, e ora ci opprime la vergogna”.