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DIOGENE LAERZIO ‘VITE DEI FILOSOFI’ Libro VI

ANTISTENE (c. 446 – 366 a. C.)

[VI,1] Antistene, figlio di Antistene, era Ateniese. Si diceva però che non fosse di puro sangue Attico; laonde, a chi gli rinfacciava ciò, si narra che egli rispondesse: “Anche la madre degli dei è Frigia”. Sembrava infatti che egli fosse di madre Tracia. Questo è il motivo per cui dopo la battaglia di Tanagra, nella quale egli si era distinto, Socrate ebbe l’occasione di affermare che da due Ateniesi purosangue non sarebbe potuto nascere un uomo così valoroso. Ed a quegli Ateniesi che si davano delle arie per essere autoctoni dell’Attica, Antistene diceva in tono sprezzante che essi non erano più purosangue delle di lei chiocciole e cavallette.
Da principio Antistene fu uditore del retore Gorgia. È da lui che egli trasfonde lo stile retorico nei suoi dialoghi, soprattutto in quello ‘Sulla verità’ e nei ‘Dialoghi protrettici’. [VI,2] Ermippo afferma che in occasione delle solenni feste Istmiche, egli aveva preso la decisione sia di denigrare che di lodare gli Ateniesi, i Tebani e gli Spartani; ma che poi evitò di farlo quando vide che era arrivata moltissima gente da quelle città.
Successivamente entrò in contatto con Socrate, e fu tanto grande il guadagno che ne trasse, da esortare i suoi discepoli a diventare con lui condiscepoli di Socrate. Poiché abitava al Pireo, percorreva ogni giorno quaranta stadi per andare su ad ascoltare Socrate; e prendendone la forza d’animo ed emulandone il dominio sulle passioni, mostrò per primo la via del Cinismo. Egli stabilì poi che la fatica è un bene, mettendo insieme le figure del grande Eracle e di Ciro, traendo il primo esempio dai Greci e il secondo dai Barbari. 
[VI,3] Antistene fu il primo a definire così il discorso: “Il discorso rende manifesto cos’era o è qualcosa”. Soleva ripetere continuamente: “Possa io cadere preda della pazzia piuttosto che dell’ebbrezza per il godimento fisico”. Ed anche: “È d’uopo accostarsi sessualmente a donne tali che ce ne saranno grate”. Ad un adolescente del Ponto che stava per frequentare la sua scuola e che cercava di sapere da lui di quali cose avesse bisogno a questo scopo, Antistene rispose: “Nuovamente un libretto, nuovamente uno stilo e nuovamente una tavoletta per scrivere”, intendendo con ciò indicare una ‘nuova mente’. A chi gli chiedeva che sorta di donna sposare, Antistene disse: “Se è avvenente pagherai il fio d’averla in comune con altri; se è laida pagherai il fio”. Una volta, dopo aver sentito dire che Platone sparlava di lui, affermò: “È da re agire bene e sentir parlare male di sé”. 
[VI,4] Una volta, mentre veniva iniziato ai misteri Orfici, al sacerdote che affermava che gli iniziati a questi misteri partecipano di molti beni nell’Ade, disse: “Perché dunque tu non schiatti?”. Poiché una volta gli veniva rinfacciato di non essere figlio di due persone libere, rispose: “Neppure sono figlio di due lottatori, eppure io sono un lottatore”. Interrogato sul perché avesse pochi discepoli, disse: “Il fatto è che io li caccio via con una bacchetta magica d’argento”. Richiesto del perché fosse rigoroso nel censurare gli allievi, rispose: “Anche i medici lo fanno con i pazienti”. Una volta, vedendo un adultero che scappava a gambe levate, disse: “O sciagurato! Che gran pericolo potresti sfuggire al prezzo di un obolo!”. Secondo quanto afferma Ecatone nei suoi ‘Detti sentenziosi’, Antistene diceva che è meglio imbattersi nei corvi che negli adulatori, giacché i primi mangiano i cadaveri ma i secondi mangiano i vivi. 
[VI,5] Richiesto su quale fosse tra gli uomini la fine più beata, rispose: “Morire godendo di buona fortuna”. Una volta un conoscente prorompeva con lui in lamenti per avere perduto i propri Appunti, e Antistene gli disse: “Bisognava trascriverli nell’animo e non sulle carte”. Diceva che come il ferro è divorato dalla ruggine, così gli invidiosi sono divorati dal loro stesso carattere. Soleva anche dire che quanti vogliono essere immortali devono vivere in modo pio e giusto; e che gli Stati allora vanno in rovina quando non sono più in grado di distinguere gli insipienti dagli industriosi. Una volta, poiché veniva lodato da persone malvagie, disse: “Sono in ansia perché temo d’avere fatto male qualcosa”. 
[VI,6] Affermava che la comunanza di vita di fratelli che vanno d’accordo è più potente di qualunque muro. Diceva poi che bisogna approntare per se stessi un viatico tale da poter nuotare con esso anche se si fa naufragio. Una volta, poiché gli veniva rinfacciato di farsela con gente malvagia, disse: “Anche i medici stanno con gli ammalati, ma non per questo hanno la febbre”. Diceva che è assurdo selezionare il loglio dal grano e gli inabili alla guerra, e invece in fatto di cittadinanza non cercare di tener lontani i malvagi. Quando gli fu chiesto quale vantaggio gli era venuto dalla filosofia, rispose: “Quello di poter conversare con me stesso”. Poiché durante un simposio un tale gli disse: “Canta”, Antistene gli rispose: “E tu suonami il flauto”. A Diogene che gli chiedeva una tunica, Antistene ordinò di avvolgersi intorno due volte il mantello. [VI,7] Quando gli fu chiesto quale insegnamento fosse il più necessario, rispose: “Togliersi di torno il rifiuto di imparare”. E a coloro che sentivano parlar male di sé, prescriveva di farsi forza più che se uno fosse colpito da delle sassate.
Antistene scherniva Platone perché si dava un sacco di arie. Perciò in occasione di una processione, quando vide un cavallo tutto impennate e nitriti, che Platone non smetteva un attimo di lodare, gli disse: “Mi sembra che tu pure potresti essere un cavallo che incede bizzoso e fa lo splendido”. Una volta andò a casa di lui quand’era ammalato, e vedendo un bacile nel quale Platone aveva vomitato, disse: “Qua dentro vedo la tua bile, però la tua vanità non vedo”. [VI,8] Antistene soleva consigliare gli Ateniesi di votare che gli asini sono cavalli. Poiché quelli ritenevano ciò irragionevole, egli replicava: “Eppure presso di voi dei comandanti supremi spuntano fuori senza possedere alcuna competenza militare, giacché basta la vostra alzata di mano”. Ad una persona che gli diceva: “Molti ti lodano”, Antistene rispose: “Cos’ho fatto, dunque, di male?”. Quando egli rivoltò e mise in vista la parte lacera della sua mantellina, Socrate vedendolo gli disse: “Vedo attraverso la tua mantellina che ci tieni ad essere considerato un filosofo”. Come afferma Fania nel suo libro ‘Sui Socratici’ , quando uno gli chiese cosa dovesse fare per essere un uomo virtuoso, Antistene rispose: “Se imparassi da coloro che sanno che i vizi che tu hai sono da fuggirsi”. Ad uno che lodava l’effeminatezza, disse: “Possano essere effeminati i figli dei miei nemici”. 
[VI,9] Ad un adolescente che assumeva pose statuarie, Antistene chiese: “Se il bronzo prendesse voce, di cosa credi che andrebbe fiero?”. E poiché quello rispose: “Della sua bellezza”, Antistene gli disse: “Dunque non ti vergogni di gioire delle stesse cose di cui gioisce una cosa inanimata?”. Quando un giovanotto del Ponto gli fece solenne professione di tener conto del suo debito con lui se fosse arrivata la nave del pesce salato, Antistene prese lui e un sacco vuoto e con essi se ne venne da una venditrice di farina. Qui giunto, riempì il sacco e fece per andarsene. Poiché la venditrice reclamava l’importo dovuto, Antistene le disse: “Te lo darà questo giovanotto, non appena arriva la sua nave con il pesce salato”.
Sembra anche che Antistene sia stato la causa dell’esilio di Anito e della morte di Meleto. [VI,10] Essendosi infatti imbattuto in certi giovanotti del Ponto che erano giunti ad Atene spintivi dalla celebrità di Socrate, egli li condusse da Anito affermando con enfasi che costui era ben più sapiente di Socrate. Ragion per cui i circostanti si sdegnarono fortemente, tanto da scacciarlo dalla città. Se poi gli capitava di vedere una donna agghindata con sfarzo, andava a casa sua e intimava al marito di tirar fuori il cavallo e le armi. Dopo di che, se quello li aveva, gli diceva di lasciarla pur fare la sfarzosa giacché aveva i mezzi per difendersi; altrimenti di toglierle quegli ornamenti.
Queste erano le tesi che avevano il suo beneplacito. Egli dimostrava che la virtù può essere insegnata; che nobili non sono altri che i virtuosi; [VI,11] che per la felicità basta la virtù, poiché essa non abbisogna d’altro che della forza d’animo di Socrate; che la virtù è una questione di opere e non ha bisogno di molti discorsi né di molte cognizioni; che il sapiente è autosufficiente, giacché tutti i beni degli altri sono suoi; che il discredito è un bene pari alla fatica; che il sapiente non si regolerà secondo le vigenti leggi dello Stato ma secondo la legge della virtù; che il sapiente avrà relazioni sessuali per avere dei figli, congiungendosi con le donne della migliore natura; e che avrà anche relazioni omosessuali, giacché soltanto il sapiente sa chi è d’uopo amare.
[VI,12] Diocle gli ascrive anche queste tesi: che per il sapiente nulla è strano o senza via d’uscita; che l’uomo dabbene è degno d’amore; che i virtuosi sono amici; che bisogna farsi alleati gli uomini ardimentosi e insieme giusti; che la virtù è un’arma della quale non possiamo essere privati da altri; che è meglio combattere con pochi virtuosi contro tutti i viziosi, che non con molti viziosi contro pochi virtuosi; che è opportuno fare molta attenzione ai nemici personali, giacché essi sono i primi ad accorgersi delle nostre aberrazioni; che bisogna tenere l’uomo giusto in maggior considerazione del nostro congenere; che identica è la virtù dell’uomo e della donna; che belle sono le opere virtuose e brutte quelle viziose; e legittima come a te estranee tutte quelle malvage; [VI,13] che la saggezza è un muro sicurissimo, giacché non può né cadere a pezzi né essere presa a tradimento; e che tali muri vanno strutturati entro i nostri inespugnabili ragionamenti.
Antistene teneva le sue conversazioni nel ginnasio del Cinosarge, poco al di là dalle porte di Atene; laonde alcuni ritengono che la sua scuola sia stata denominata ‘Cinica’ dal nome di questo ginnasio. Egli stesso era soprannominato ‘Francocane’. Secondo quanto afferma Diocle, Antistene fu il primo a indossare due mantelline e ad utilizzare soltanto questo indumento. Prese anche con sé un bastone e una bisaccia. Neante dice che fu anche il primo a indossare due mantelli. Invece Sosicrate nel terzo libro delle ‘Successioni dei filosofi’ afferma che il primo fu Diodoro di Aspendo, il quale si fece anche crescere la barba ed utilizzò bisaccia e bastone.
[VI,14] Tra tutti i seguaci di Socrate, Teopompo loda il solo Antistene ed afferma che era abilissimo, attraverso un’armoniosa e ben regolata conversazione, a trarre dalla sua parte chiunque. Questo è manifesto dalle sue compilazioni, come pure dal ‘Simposio’ di Senofonte. Sembra anche che possa essere fatta risalire a lui l’origine del più virile Stoicismo; laonde l’epigrammatista Ateneo circa gli Stoici si esprime così: 

‘O esperti conoscitori dei discorsi stoici, o voi che avete riposto
 le più che ottime dottrine nelle sacre pagine dove s’afferma 
che la virtù è l’unico bene dell’animo, giacché essa soltanto 
preserva la vita degli uomini e le città. Invece è solo una 
delle figlie di Memoria, quella che porta a compimento il voluttuoso 
piacere della carne, che è l’ambìto scopo della vita per altri uomini’.

[VI,15] Antistene aprì la strada al dominio sulle passioni di Diogene, alla padronanza di sé di Cratete e alla fortezza di Zenone, ponendo le fondamenta dei loro modelli di ‘Repubblica’. Senofonte afferma che Antistene era di conversazione piacevolissima e padronissimo di sé quanto al resto. 
Le sue compilazioni sono contenute in dieci tomi. 
Il primo contiene: ‘Sull’elocuzione o sugli stili espressivi’, ‘Aiace o Discorso di Aiace’, ‘Odisseo o Su Odisseo’, ‘Difesa di Oreste o Sugli scrittori di discorsi forensi’, ‘Isografia o Lisia e Isocrate’, ‘Contro il ‘Senza testimoni’ di Isocrate’.
[VI,16] Il secondo contiene: ‘Sulla natura degli animali’, ‘Sulla generazione di figli o Sul matrimonio (discorso amoroso)’, ‘Sui sofisti (trattato fisiognomico)’, ‘Sulla giustizia e sulla virilità (discorso protrettico primo, secondo e terzo)’, ‘Su Teognide (discorso protrettico quarto e quinto)’.
Il terzo contiene: ‘Sul bene’, ‘Sulla virilità’, ‘Sulla legge o Sulla repubblica’, ‘Sulla legge o Sul bello e sul giusto’, ‘Sulla libertà e la schiavitù’, ‘Sulla lealtà’, ‘Sul delegato o Sull’ubbidire’, ‘Sulla vittoria (trattato economico)’.
Il quarto contiene: ‘Ciro’, ‘Eracle maggiore o Sulla potenza’.
Il quinto contiene: ‘Ciro o Sul regno’, ‘Aspasia’.
Il sesto contiene: ‘Verità’, ‘Sul dialogare (trattato dialettico)’, ‘Satone o Sul contraddire (tre libri)’, ‘Sulla lingua parlata’.
[VI,17] Il settimo contiene: ‘Sull’educazione o Sui nomi (cinque libri)’, ‘Sull’uso dei nomi (trattato eristico)’, ‘Sulla domanda e la risposta’, ‘Sull’opinione e la scienza (quattro libri)’, ‘Sul morire’, ‘Sulla vita e la morte’, ‘Sugli uomini nell’Ade’, ‘Sulla natura (due libri)’, ‘Una questione sulla natura (due libri)’, ‘Opinioni o L’eristico’, ‘problemi circa l’apprendimento’.
L’ottavo contiene: ‘Sulla musica’, ‘Sugli interpreti’, ‘Su Omero’, ‘Sull’ingiustizia e l’empietà’, ‘Su Calcante’, ‘Sull’esploratore’, ‘Sul piacere fisico’.
Il nono contiene: ‘Sull’Odissea’, ‘Sulla bacchetta magica’, ‘Atena o Su Telemaco’, ‘Su Elena e Penelope’, ‘Su Proteo’, ‘Il Ciclope o Su Odisseo’, [VI,18] ‘Sull’uso del vino o Sull’ubriachezza o Sul Ciclope’, ‘Su Circe’, ‘Su Anfiarao’, ‘Su Odisseo, Penelope e il Cane’.
Il decimo contiene: ‘Eracle o Mida’, ‘Eracle o Sulla saggezza o potenza’, ‘Ciro o L’amato’, ‘Ciro o Gli esploratori’, ‘Menesseno o Sul comandare’, ‘Alcibiade’, ‘Archelao o Sul regno’.
Queste sono le opere che egli compilò.
Timone lo rimprovera per la pletora dei suoi scritti e lo chiama ‘ciarlone che produce di tutto’. Antistene morì per una infermità proprio quando Diogene entrò da lui chiedendogli: “Hai forse bisogno di un amico?”. Una volta Diogene era entrato da lui recando con sé una piccola spada, e mentre Antistene si lamentava dicendo: “Chi potrebbe sciogliermi da questi dolori?”, gli mostrò la piccola spada gli disse: “Questa”. Al che Antistene replicò: “Dai dolori, dicevo, non dalla vita”. [VI,19] Antistene sembrava infatti più molle del dovuto nel sopportare la malattia a causa del suo amore per la vita. Ci sono dei nostri versi dedicati a lui, di questo tenore:

‘In vita eri un cane, o Antistene, nato per mordere il cuore
con le parole, non con i denti. Tu però moristi di consunzione,
e dirà forse qualcuno: “Cos’è questo mai? In ogni caso
bisogna avere una qualche guida per scendere all’Ade”. 

Ci furono altri tre Antistene. Uno fu un seguace di Eraclito, un altro un nativo di Efeso, il terzo uno storico di Rodi.
Poiché abbiamo discusso dei discepoli di Aristippo e di Fedone, ora passeremo in rassegna quelli di Antistene, tanto Cinici che Stoici. E l’ordine sia questo.

DIOGENE (404 – 323 a. C.)

[VI,20] Diogene era figlio di Icesia, un banchiere di Sinope. Diocle afferma che egli andò in esilio perché suo padre, che possedeva la Banca Popolare, contraffece la moneta. Invece Eubulide nel suo libro ‘Su Diogene’ dice che fu lo stesso Diogene ad effettuare questa operazione e che andò poi ramingo con il padre. Nondimeno è lo stesso Diogene che, parlando di sé nel dialogo ‘Pordalo’, dice d’essere stato lui a contraffare la moneta. Taluni riferiscono che egli, divenuto Governatore della Banca, fosse indotto a fare ciò da esperti artigiani, e che sia venuto a Delfi, oppure si sia recato ad un tempio di Apollo in patria, per cercare di sapere se fare ciò cui si intendeva persuaderlo. Il dio convenne sul cambiamento della moneta dello Stato, ma Diogene non capì e fece invece adulterare le monete di piccolo taglio. Fu condannato all’esilio, secondo alcuni, quando fu scoperto; secondo altri, egli si allontanò volontariamente dal suo paese per paura. [VI,21] Taluni sostengono che ottenne da suo padre la moneta che falsificò, che il padre morì in prigione e che egli fuggendo giunse a Delfi, dove chiese al dio non se contraffare la moneta bensì cosa dovesse fare per ottenere un grandissimo credito, e che così ottenne tale responso dall’oracolo. Stando ad Atene, Diogene s’accostò ad Antistene. E poiché questi lo respingeva, non ammettendo alcuno come allievo, Diogene la spuntò di forza grazie all’assiduità della sua frequentazione. Una volta Antistene levò contro di lui il suo bastone, ma Diogene gli offrì la testa dicendo: “Batti pure; non troverai un legno così duro col quale tenermi in disparte, fino a che non ti apparirà il caso di dirmi qualcosa”. Per l’appresso divenne suo uditore e, in quanto esule, intraprese una vita semplice e modesta. [VI,22] Secondo quanto afferma Teofrasto nel suo ‘Megarico’, Diogene scovò la via d’uscita dalle difficili circostanze nelle quali si trovava, osservando un topo che correva qua e là senza ricercare un giaciglio, senza avere timore del buio, senza bramare quelli che sembrano godimenti. Secondo alcuni egli per primo utilizzò la doppia mantellina, vista la necessità di usarlo anche per dormire. Portava una bisaccia entro la quale teneva le cibarie, ed usava qualunque luogo per qualunque scopo: per fare colazione, per dormire, per discutere. Talora, mostrando il portico di Zeus e l’edificio del Pompeion ripeteva che gli Ateniesi gli avevano provvisto i luoghi dove dimorare. [VI,23] Da principio si appoggiava al bastone quando si sentiva debole, ma in seguito lo portava sempre con sé; non nel centro della città ma quand’era per strada, insieme con la bisaccia, come riferiscono Olimpiodoro, che fu Governatore degli Ateniesi, il retore Polieucto e Lisania, figlio di Escrione. Quando incaricò un tale di provvedergli una casetta, poiché la faccenda andava per le lunghe, egli prese casa nella botte che si trovava nel Metroon, come chiarisce lui stesso nelle sue lettere. D’estate poi si rotolava nella sabbia calda e d’inverno abbracciava le statue innevate, trovando ogni occasione per esercitarsi alle intemperie. [VI,24] Era capace di trattare gli altri con grande alterigia. Soleva chiamare ‘fiele’ la scuola di Euclide, la conversazione di Platone una ‘perdita di tempo’, le gare in occasione delle Dionisiache ‘grandi meraviglie per gli stupidi’ e i demagoghi ‘ministri della folla’. Quando gli capitava di vedere dei piloti all’opera, o dei medici o dei filosofi, soleva dire di ritenere l’uomo il più dotato di comprendonio tra tutti gli animali. Quando però vedeva interpreti di sogni, indovini e tutti coloro che a gente simile prestano attenzione, oppure individui pieni di boria per la loro fama o ricchezza di denaro, diceva di ritenere che non ci fosse animale più folle dell’uomo. E ripeteva di continuo che per la conduzione della nostra vita bisogna essere attrezzati o della ragione o di un laccio. [VI,25] Una volta, in occasione di un pranzo sontuoso, osservando che Platone toccava soltanto olive, Diogene gli disse: “Perché tu, il sapiente che ha navigato fino alla Sicilia per godere di queste tavolate, ora non ne approfitti?”. E Platone gli rispose: “Per gli dei, Diogene, anche là io vissi per la maggior parte di olive e cibi simili”. E Diogene: “Perché dunque bisognerebbe navigare fino a Siracusa? O allora l’Attica non produceva olive?”. Favorino, nella sua ‘Storia varia’, afferma però che fu Aristippo a parlare così. Un’altra volta Diogene, mentre mangiava fichi secchi, incontrò Platone e gli disse: “Se vuoi, puoi averne in parte”. E siccome Platone prendeva e mangiava, prendeva e mangiava, Diogene gli disse: “T’avevo detto ‘averne in parte’, non di divorarli tutti”. [VI,26] Una volta Platone aveva invitato presso di sé degli amici giunti da parte di Dionisio, e Diogene camminando sui tappeti di casa sua disse: “Calpesto la futilità di Platone”. Al che Platone replicò: “Diogene, quanta vanità lasci trasparire pur facendo sembiante d’esserne privo!”. Alcuni però affermano che Diogene disse: “Calpesto la vanità di Platone”; e che Platone rispose: “Lo fai, o Diogene, con un’altra vanità”. Sozione afferma però nel quarto libro della sua opera che fu il Cinico a rivolgere a Platone questa battuta. Una volta Diogene gli chiese del vino e, visto che c’era, anche dei fichi secchi; e Platone gli mandò un’anfora intera piena di vino. Al che Diogene disse: “Se qualcuno ti chiederà quanto fa due più due, tu risponderai che fa venti? Sicché tu né dai ciò che ti si chiede, né rispondi a ciò che ti si domanda”. Questo era il suo modo di schernirlo come persona che non finiva mai di parlare. [VI,27] Quando gli fu chiesto dove vedesse in Grecia uomini dabbene, Diogene rispose: “Uomini da nessuna parte, ma ragazzi dabbene a Sparta”. Una volta che nessuno gli si avvicinava mentre stava parlando di cose serie, si mise a cinguettare. E poiché in tanti gli si radunarono intorno, Diogene inveì loro contro, perché a sentir quisquilie si premuravano di venire, mentre invece per le cose serie se la prendevano comoda. Soleva dire che gli uomini gareggiano nello scavare sabbia e tirarsi dei calci, e che invece nessuno gareggia nel diventare uomo dabbene. Si stupiva assai che i grammatici indaghino minutamente i mali di Odisseo e che invece ignorino i loro propri; che i musicisti accordino le corde della lira e che lascino invece discordanti i loro stati d’animo; [VI,28] che i matematici volgano lo sguardo al sole e alla luna e non badino invece alle faccende che hanno tra i piedi; che i retori dicano di industriarsi per le cose giuste senza attuarne assolutamente nessuna, tant’è che denigrano gli avari mentre amano il denaro alla follia. Condannava anche quanti lodano i giusti come persone al di sopra del denaro, e però guardano con gelosia gli straricchi. Lo muoveva a sdegno veder fare sacrifici agli dei per invocare salute e poi, nel corso stesso del sacrificio, gavazzare a detrimento della salute. Ammirava poi il fatto che i servi, pur vedendo i padroni mangiare a quattro palmenti, non sottraessero con destrezza alcuna vivanda. [VI,29] Lodava coloro il cui futuro è sposarsi e che non si sposano; coloro il cui futuro è navigare verso casa e che non ci navigano; coloro il cui futuro è occuparsi di faccende politiche e che invece non se ne occupano; coloro il cui futuro è fare figli ed allevarli e che invece non lo fanno; coloro il cui futuro è prepararsi a convivere con dei principi e che invece non vanno alla loro corte. Soleva anche dire che bisogna dare la mano agli amici con le dita tese e non piegate. Nella sua opera ‘La vendita di Diogene’, Menippo racconta che quando fu catturato e messo in vendita, gli fu chiesto cosa sapesse fare, e che egli rispose: “Comandare uomini”; ed anche che disse al banditore: “Banditore, grida e chiedi a questa gente se c’è qualcuno che vuole comprarsi un padrone”. E poiché gli fu impedito di sedersi, disse: “Non fa differenza, giacché pure i pesci si smerciano in qualunque posizione giacciano”. [VI,30] Diceva di meravigliarsi del fatto che quando si tratta di comperare una pentola o un piatto, noi ne saggiamo il tintinnio; e che per un uomo ci basta invece la sola vista. Al suo compratore Xeniade, Diogene diceva che doveva ubbidirgli anche se era un suo schiavo, giacché noi ubbidiremmo ad un medico o ad un pilota di nave anche se fosse uno schiavo. Nel suo libro intitolato ‘La vendita di Diogene’, Eubulo racconta che, oltre le altre discipline, Diogene insegnava ai figli di Xeniade a cavalcare, a tirare con l’arco, a colpire con la fionda ed a lanciare il giavellotto. In seguito, quando frequentarono la palestra, non consentiva all’istruttore di ginnastica di allenarli come dei veri e propri atleti, ma quel tanto che bastava a procurar loro il colorito roseo e una buona complessione. [VI,31] I ragazzi si abituavano invece a tenere a mente molti versi di poeti, brani di prosatori e di opere dello stesso Diogene; ed egli li esercitava a percorrere tutte le vie più rapide per ottenere una memoria di ferro. In casa insegnava loro a servirsi da sé, a consumare cibi frugali ed bere soltanto acqua. Rapati a zero e privi di ogni ornamento, li educava ad andare in giro senza tunica, scalzi, silenziosi, badando a se stessi quand’erano per via. Li conduceva anche a caccia. I ragazzi, a loro volta, si prendevano cura di lui, e facevano per lui delle richieste ai genitori. Sempre Eubulo riferisce che Diogene invecchiò presso Xeniade, e che quando morì fu sepolto dai suoi figli. In proposito, quando Xeniade cercò di sapere da lui come volesse essere sepolto, egli rispose: “A faccia in giù”. [VI,32] E poiché Xeniade gli chiese: “Perché?”, Diogene disse: “Perché in poco tempo il culo diventa la faccia”. Diceva questo perché ormai i Macedoni dominavano, ossia da oscura nazione erano diventati una potenza egemone. Una volta un tale lo introdusse in una casa sontuosa e gli vietava però di sputare. Al che Diogene, dopo essersi schiarito la gola, gli sputò in faccia dicendo di non avere trovato un luogo più sudicio dove sputare. Altri affermano invece che a fare ciò fu Aristippo. Come afferma Ecatone nel primo libro dei ‘Detti sentenziosi’, una volta chiamò a gran voce “Ehi, uomini!”, e quando la gente gli si riunì intorno la colpì col bastone dicendo: “Io chiamavo a me degli uomini, non della feccia!”. Si afferma anche che Alessandro Magno abbia detto che se non fosse diventato Alessandro avrebbe voluto essere Diogene. [VI,33] Egli diceva che ‘mutilati’ non sono i sordi e i ciechi, ma coloro che non hanno una bisaccia. Secondo il racconto di Metrocle nei suoi ‘Detti sentenziosi’ una volta, entrando soltanto mezzo rasato in un convito di giovani, fu preso a botte. Dopodiché egli annotò i nomi di coloro che l’avevano preso a botte su di un albo e andò in giro con questa tavoletta appesa al collo fino a che, stigmatizzati e censurati, non li ebbe circondati di dileggio. Soleva affermare di essere un cane di quelli che la gente loda, ma con il quale nessuno dei lodatori ha però l’ardire di uscire a caccia. Ad uno che diceva: “Ai giochi Pitici io sono vincitore tra gli uomini”, Diogene disse: “Io vinco uomini, tu schiavi”. [VI,34] A coloro che gli dicevano: “Sei ormai vecchio, lascia stare!”, rispondeva: “Che dici? Se io stessi gareggiando nella corsa lunga allo stadio, quasi all’arrivo dovrei lasciar perdere e non piuttosto intensificare lo sforzo?”. Invitato una volta a pranzo, disse che non ci si sarebbe presentato, giacché neppure il giorno innanzi gli era stato detto grazie per essersi presentato. Soleva calpestava la neve a piedi nudi e fare le altre cose di cui s’è detto sopra. Cercò anche di mangiare carne cruda, ma non riuscì a digerirla. Una volta s’imbatté in Demostene, l’oratore, che faceva colazione in una taverna; e poiché quello si ritraeva da lui, Diogene disse: “<Quanto più ti ritrai>, tanto più a lungo resterai nella taverna”. Una volta, poiché degli stranieri volevano vedere Demostene, Diogene distese il dito medio e disse: “Ecco a voi il demagogo degli Ateniesi!”. [VI,35] Quando buttò via un pane e un tale si vergognò di raccoglierlo, per dargli una lezione Diogene legò una corda attorno al collo di un vaso e lo strascinò per il Ceramico. Soleva dire che bisogna imitare i maestri del coro. Infatti anch’essi intonano la melodia un po’ sopra tono, di modo che i restanti coreuti possano toccare il tono conveniente. Soleva poi dire che la maggioranza degli uomini diventa pazza per un dito. Se infatti uno cammina col dito medio proteso, sembrerà a qualcuno che sia pazzo; se invece protende l’indice non sembrerà più pazzo. Diceva che cose di gran valore si smerciano per nulla e viceversa: ad esempio, una statua si smercia per tremila dracme, mentre un chenice di farina per due monete di rame. [VI,36] A Xeniade che l’aveva comprato, Diogene disse: “Orsù, bada di fare ciò che ti ordino”. E quando Xeniade gli citò il verso:

‘rimontano i fiumi alle sorgenti’

Diogene gli disse: “Se tu avessi comprato un medico e fossi ammalato, non gli ubbidiresti ma gli diresti che ‘rimontano i fiumi alle sorgenti’?”. Un tale voleva fare vita filosofica presso di lui e Diogene, datogli da portare un pesce saperda, gli comandò di seguirlo. Quello però ritenne ciò indecoroso, buttò via il pesce e se ne andò. Dopo un certo tempo Diogene lo incontrò e ridendo gli disse: “Un pesce saperda ha dissolto la nostra amicizia”. Diocle però in proposito scrive così. Quando un tale gli disse: “Diogene, dacci degli ordini”, egli lo menò con sé e gli diede da trasportare un pezzo di formaggio da mezzo obolo. E poiché quello rifiutò, Diogene gli disse: “Un pezzo di formaggio da mezzo obolo ha dissolto l’amicizia tra me e te”. [VI,37] Quando una volta osservò un ragazzo che beveva dal cavo della mano, prese la ciotola dalla bisaccia e la scagliò via dicendo: “Un ragazzo mi ha vinto in parsimonia”. Buttò via anche la catinella osservando un ragazzo il quale, poiché aveva rotto la scodella, metteva la sua porzione di lenticchie nel cavo di un pezzo di pane. Ragionava anche così: “Tutto è degli dei; i sapienti sono amici degli dei; i beni degli amici sono comuni; dunque tutto è dei sapienti”. Una volta osservò una donna prostrata supplichevolmente davanti agli dei in posizione assai indecente. Volendo spogliarla della superstizione, secondo quanto narra Zoilo di Perge, Diogene le si avvicinò e le disse: “Perché non usi la cautela, o donna, se un dio ti sta alle spalle – giacché tutti i luoghi sono pieni della sua presenza – di evitare di mostrarti in una posizione indecente?”. [VI,38] Dedicò ad Asclepio un fustigatore che correva a bacchettare coloro che si prostravano col viso fino a terra. Soleva dire che le maledizioni tragiche si erano incontrate tutte in lui. Infatti era

‘senza città, senza casa, privato della patria,
povero, errante, uno che vive alla giornata’

Soleva ripetere di contrapporre alla fortuna il coraggio, alla legge la natura, alla passione la ragione. Una volta che prendeva il sole nel Craneo, Alessandro Magno standogli davanti gli disse: “Chiedimi quel che vuoi”. Al che Diogene rispose: “Non farmi ombra”. Un tale stava leggendo ad alta voce da lungo tempo. Quando verso la fine del rotolo fece capolino la parte non scritta, Diogene disse: “Coraggio, uomini, vedo terra”. A colui che gli dimostrava mediante un sillogismo di avere le corna, toccandogli la fronte Diogene disse: “Io almeno non le vedo”. [VI,39] Similmente, a chi diceva che il movimento non esiste, levatosi in piedi si mise a camminare. E a chi parlava di fenomeni celesti disse: “Da quanti giorni sei qui venuto giù dal cielo?”. Poiché un eunuco depravato aveva fatto scrivere sulla porta di casa: “Non entri alcun male”, disse: “E allora il padrone di casa da dove entra?”. Quando si ungeva i piedi con olio profumato, soleva dire che dal capo il profumo si spande nell’aria, mentre dai piedi sale verso il naso. Poiché gli Ateniesi lo sollecitavano a farsi iniziare ai Misteri, affermando che quando sono nell’Ade agli iniziati toccano posti privilegiati, Diogene rispondeva: “È ridicolo che Agesilao ed Epaminonda se la passino nel brago, mentre gente da quattro soldi che però è stata iniziata ai Misteri dimora nelle Isole dei Beati”. [VI,40] Circa i topi che si arrampicavano sulla sua tavola, diceva: “Ma guarda un po’, anche Diogene nutre dei parassiti”. Poiché Platone lo chiamava ‘cane’, “Sì”, diceva, “infatti io ritorno continuamente da coloro che mi hanno venduto”. Uscendo dai bagni pubblici, a chi cercava di sapere da lui se erano molti gli uomini che facevano il bagno, rispondeva di no. A chi invece gli chiedeva se c’era molta folla, diceva di sì. Platone aveva appena dato dell’uomo questa definizione: “L’uomo è un animale bipede e implume”, ed era stato applaudito. Allora Diogene spennò un gallo e lo portò nella sala dicendo: “Questo è l’uomo di Platone”. Onde alla definizione fu aggiunto: “e dalle unghie larghe”. A chi cercava di sapere da lui a che ora si deve fare colazione, rispose: “Se sei ricco quando vuoi, se sei povero quando puoi”. [VI,41] Vedendo che a Megara le pecore avevano il vello protetto da pelli mentre i figli dei Megaresi andavano nudi, disse: “È più vantaggioso essere il montone di un Megarese piuttosto che il figlio”. Ad un tale che lo aveva prima spintonato con una trave e poi gli aveva detto: “Sta’ attento!”, ribatté: “Stai di nuovo per colpirmi?”. Soleva dire che i demagoghi sono i ministri della folla e che le loro corone sono degli esantemi di fama. Una volta che se ne stava fermo sotto una forte pioggia, poiché i circostanti ne avevano compassione, Platone, che era presente, disse: “Se volete averne compassione, andatevene”, alludendo alla vanità di Diogene. Quando un tale gli assestò un pugno, disse: “Che razza di dimenticanza è stata la mia nel passeggiare senza un elmetto in testa!”. [VI,42] Ma anche Meidia l’aveva preso a pugni e poi gli aveva detto: “Ci sono tremila dracme a tuo credito in banca!”. Al che Diogene, il giorno dopo, si mise dei guanti da pugile e lo fracassò di pugni, dicendogli: “Ci sono tremila dracme a tuo credito in banca!”. Poiché il farmacista Lisia gli domandava se credeva nell’esistenza degli dei, Diogene gli rispose: “E come posso non creder loro, dal momento che concepisco proprio te come persona invisa agli dei?”. Altri però affermano che a dire questo sia stato Teodoro. Quando vide un tale che si sottoponeva ad aspersioni purificatorie, soggiunse: “O infelice, non sai che con le aspersioni purificatorie, come non potresti sbarazzarti degli errori di grammatica che fai, così neppure puoi sbarazzarti delle azioni aberranti che fai nella vita?”. Circa gli auspici, incolpava gli uomini affermando che essi chiedono quelli che a loro sembrano beni e non quelli che davvero lo sono. [VI,43] Soleva dire di coloro che si lasciano sconvolgere dai sogni, che essi non si impensieriscono delle azioni che effettuano da svegli e però s’impicciano di quelle che fantasticano dormendo. Quando ad Olimpia l’araldo annunciò: “Dioxippo è vincitore tra gli uomini”, Diogene disse: “Costui vince schiavi, io invece uomini”. Era comunque caro agli Ateniesi, giacché quando un adolescente ruppe la sua botte, al costui essi diedero le botte ed a Diogene procurano un’altra botte. Dionisio lo stoico racconta che dopo la battaglia di Cheronea Diogene fu preso prigioniero e condotto davanti a Filippo. Quando gli fu chiesto chi fosse, egli rispose: “Io sono l’esploratore della tua insaziabilità”. Questa risposta gli procurò ammirazione e così fu rilasciato. [VI,44] Una volta, in Atene, Diogene fu presente all’arrivo di una lettera di Alessandro Magno ad Antipatro, recapitata attraverso un certo Atlio, e il suo commento fu: 

‘un meschino, discendente di un meschino, attraverso un meschino, ad un meschino’

Quando Perdicca minacciò di ucciderlo se non fosse venuto a vivere con lui, Diogene disse: “Nulla di straordinario, infatti anche uno scarafaggio o una tarantola lo farebbero”; giacché si aspettava piuttosto che la minaccia di Perdicca fosse “di vivere felicemente pur non vivendo in mia compagnia”. Soleva spesso gridare che gli dei hanno dato agli uomini una vita facile da fare, ma che questa verità è stata celata; visto che essi ricercano le focacce col miele e gli oli odorosi e cose similari. Ragion per cui a chi si faceva calzare da un domestico, disse: “Non sei ancora beato finché costui non ti soffia anche il naso; e ciò accadrà quando avrai perso l’uso delle mani”. [VI,45] Osservando una volta i magistrati custodi degli oggetti sacri mentre portavano via uno dei tesorieri che aveva sottratto una coppa, commentò: “I grandi ladri ne portano via uno piccolo”. Osservando una volta un adolescente che tirava pietre contro una croce, disse: “Bene ragazzo, centrerai il tuo scopo”. A degli adolescenti che gli stavano intorno e dicevano: “Vediamo di non farci mordere”, disse: “Ragazzi, un cane non mangia bietole”. Ad un tale che si pavoneggiava con indosso una pelle di leone, disse: “Smettila di svergognare il paramento della virtù”. A chi chiamava beato Callistene ed affermava che presso Alessandro poteva godere d’ogni splendore, Diogene disse: “Dunque di sicuro è infelice, lui che fa colazione e pranzo quando così pare ad Alessandro”. [VI,46] Quando aveva bisogno di denaro, soleva dire che lo richiedeva agli amici in restituzione, non che lo chiedeva. Una volta, mentre si masturbava nella piazza del mercato, affermò: “Magari fosse possibile non avere più fame semplicemente sfregandosi il ventre!”. Quando vide un adolescente che stava andando a pranzo con dei satrapi, lo staccò da loro e lo condusse dai familiari, intimando loro di fargli la guardia. A un adolescente agghindato con sfarzo che gli rivolse una domanda, disse che non gli avrebbe risposto se non si fosse prima tirato su le vesti per mostrargli se era femmina o maschio. Ad un adolescente che giocava al cottabo nei bagni pubblici, disse: “Quanto meglio giochi, tanto peggio è per te”. Nel corso di un pranzo, taluni gli gettarono delle ossa, come si fa coi cani. Al che Diogene, quando se ne andò, orinò loro sopra, come fa un cane. [VI,47] I retori e tutti coloro che cercano fama nell’eloquenza li soprannominava ‘tre volte uomini’, intendendo dire ‘tre volte meschini’. Diceva poi che la persona ricca di denaro ma incolta è una pecora dal vello d’oro. Osservando sulla casa di un depravato ubriacone la scritta ‘Si vende’, disse: “Lo sapevo che dopo tutte quelle ubriacature avresti facilmente vomitato il possessore”. All’adolescente che se la prendeva per la moltitudine di coloro che lo importunavano, disse: “Anche tu, però, smettila di portare in giro i segni di chi ha impuri desideri”. A proposito di un bagno pubblico sudicio, disse: “E coloro che hanno fatto il bagno qui, dove vanno poi a lavarsi?”. Diogene era il solo a lodare citaredo grande e grosso che era invece da tutti biasimato. Quando gli fu chiesto il perché, egli rispose: “Perché pur essendo così grande e grosso fa il citaredo e non il brigante”. [VI,48] Una volta Diogene ossequiò così un certo citaredo che veniva sempre lasciato solo dagli ascoltatori: “Salve, galletto!”. Al che quello gli chiese: “Perché galletto?”, e lui gli rispose: “Perché quando suoni e canti tu, fai alzare e andar via tutti quanti”. Mentre un adolescente stava declamando in pubblico, Diogene, con la piega anteriore della tunica piena di lupini, gli si piazzò dirimpetto e cominciò a mangiarne avidamente. Poiché la folla, a quel punto, cominciò a tenere gli occhi su lui, Diogene disse di stupirsi e di non capire come mai essi guardassero lui trascurando l’oratore. Ad un tale estremamente superstizioso che gli disse: “Con un colpo solo ti spaccherò la testa”, Diogene rispose: “E io ti farò tremare con uno starnuto da sinistra”. A Egesia che lo pregava di prestargli qualcuno dei suoi scritti, Diogene disse: “Tu sei matto, Egesia; perché scegli per te non i fichi secchi dipinti ma quelli veri, e però metti da parte la pratica della virtù nella vita vera e ti affanni soltanto a scriverne”. [VI,49] Ad un tale che gli imputava ad onta l’esilio, Diogene disse: “O infelice, ma è grazie all’esilio che ho potuto pervenire alla vita da filosofo!”. Quando un tale a sua volta gli disse: “Sono i cittadini di Sinope che ti hanno condannato all’esilio”, Diogene gli rispose: “Ma sono io che ho condannato loro a rimanere a Sinope”. Una volta, vedendo un vincitore ad Olimpia che pascolava le pecore, disse: “Ottimo amico mio, sei passato in fretta dai giochi Olimpici a quelli Nemei”. Quando fu interrogato sul perché gli atleti sono persone insensibili, rispose: “Perché sono stati rimpinzati di carni suine e bovine”. Una volta chiedeva l’elemosina ad una statua, e interrogato sul perché lo facesse rispose: “Mi esercito a fallire il mio scopo”. Per chiedere l’elemosina ad un tale – infatti fece ciò essendovi dapprima costretto dalla mancanza di mezzi di sussistenza – disse: “Se hai già dato ad un altro, dà anche a me. Se no, comincia da me”. [VI,50] Richiesto da un tiranno di quale fosse il miglior bronzo per una statua, rispose: “Quello col quale furono fatte le statue di Armodio e di Aristogitone”. Quando gli fu chiesto in che modo Dionisio trattasse gli amici, disse: “Come sacchi, giacché appende quelli pieni e butta via quelli vuoti”. Poiché un novello sposo aveva fatto scrivere sulla porta di casa:

‘Qui dimora Eracle vittorioso, figlio di Zeus.
Non entri alcun male’

vi aggiunse: “Dopo la guerra, l’alleanza”. Diceva anche che l’avidità di denaro è la metropoli di tutti i vizi. Osservando in una taverna un dissoluto che mangiava olive disse: “Se tu facessi colazione così, non pranzeresti così”. [VI,51] Affermava che gli uomini virtuosi sono immagini degli dei e che la passione amorosa è occupazione di disoccupati. Richiesto di cosa sia meschino nella vita, rispose: “Un vecchio privo di mezzi di sussistenza”. Quando gli fu chiesto di quali belve sia peggiore il morso, rispose: “Di quelle selvatiche, il morso del sicofante; di quelle addomesticate, il morso dell’adulatore”. Una volta, vedendo due centauri pessimamente dipinti, disse: “Quale di questi due è Chirone?”. Affermava che il discorso fatto per ingraziarsi qualcuno è una corda da impiccagione spalmata di miele. Soleva dire che il ventre è la Cariddi della vita. Una volta, sentendo dire che il flautista Didimo era stato colto in flagrante adulterio, commentò: “Già per il suo nome merita di essere impiccato”. Richiesto del perché la moneta d’oro è di un giallo pallido, disse: “Perché ha molti insidiatori”. Vedendo una donna in lettiga, disse: “La gabbia non s’accorda con la bestia”. [VI,52] Una volta, vedendo uno schiavo fuggitivo seduto sull’orlo di un pozzo, gli disse: “Giovanottello, bada di non caderci dentro”. Vedendo un ladro di mantelli in un bagno pubblico, gli disse: “Sei qui per una piccola unzione o per un altro mantello?”. Una volta, vedendo delle donne impiccate ad un olivo, disse: “Magari tutti gli alberi facessero simili frutti!”. Quando vide un rubavestiti, disse:

‘Che ci fai tu qui, o prode?
Sei forse qui per spogliare qualche cadavere?’

Richiesto se avesse una servetta o un servetto, rispose: “No”. E poiché un tale gli chiese: “Se dunque tu morissi, chi ti farà il funerale?”, Diogene rispose: “Chi ha bisogno della mia casa”. [VI,53] Vedendo un adolescente di bell’aspetto che s’era coricato e dormiva senza vestiti, lo scosse e gli disse: “Svegliati”

‘che qualcuno nel tergo una lancia non t’infigga mentre dormi’;

e ad un tale che spendeva moltissimo per i cibi

‘di breve vita mi sarai, figliolo, per quanto cibo compri’

Quando Platone disquisiva delle idee e nominava la ‘tavolità’ e la ‘ciatità’, Diogene gli disse: “Platone, io vedo il tavolo e il ciato, ma non la tavolità e la ciatità. Al che Platone replicò: “Lo dici a ragione, giacché hai gli occhi per discernere il tavolo e il ciato, ma non hai la mente con la quale si vedono tavolità e ciatità”. [VI,54] Quando un tale chiese a Platone: “Chi ti sembra essere Diogene?”, Platone rispose: “Un Socrate impazzito”. Richiesto di quale sia l’età opportuna per sposarsi, Diogene rispose: “Se si è giovani non ancora, se si è vecchi mai più”. Richiesto di quale vantaggio potesse trarre da un pugno, rispose: “Un elmetto”. Quando vedeva un adolescente tutto imbellettato, soleva dire: “Se lo fai per gli uomini sei un malpensante; se lo fai per le donne sei un malfattore”. Una volta, vedendo un adolescente arrossire disse: “Coraggio, siffatto è il colore della virtù”. Una volta, dopo avere ascoltato parlare due legulei li condannò entrambi, decretando che uno aveva rubato e che l’altro nulla aveva perduto. Richiesto di quale vino bevesse con piacere, rispose: “Quello altrui”. A chi gli diceva: “Molti ti deridono”, soleva rispondere: “Io invece non mi derido”. [VI,55] A chi affermava che il vivere è un male, Diogene rispondeva dicendo: “Male non è il vivere, ma il vivere male”. A coloro che gli consigliavano di andare in cerca del suo schiavo che era fuggito, soleva dire: “È ridicolo pensare che Mane possa vivere senza Diogene, e che invece Diogene non potrà vivere senza Mane”. Mentre faceva colazione con delle olive gli fu servita anche una focaccia, che Diogene respinse dicendo:

‘Straniero, va fuori dai piedi di chi è signore assoluto’

e in un’altra occasione:

‘Frustò l’oliva’.

Richiesto di qual razza di cane fosse, soleva rispondere: “Quando ho fame sono un Maltese e quando sono ben foraggiato un Molosso. Queste sono razze che i più lodano e con le quali non ardiscono però andare a caccia, per tema della fatica da reggere; così come voi non potete convivere con me per tema delle sofferenze da patire”. [VI,56] Quando gli fu chiesto se i sapienti mangiano delle focacce, rispose: “Sì, senz’altro, come tutti gli uomini”. Richiesto del perché gli uomini danno l’elemosina a chi vive mendicando e non a chi fa vita filosofica, soleva rispondere: “Perché stimano in cuor loro di poter diventare zoppi e ciechi, ma giammai di fare vita filosofica”. Una volta chiedeva l’elemosina ad un individuo avido di denaro, e poiché costui la menava per le lunghe gli disse: “Uomo, ti chiedo l’elemosina per il sostentamento, non per il sotterramento”. Quando gli veniva rinfacciato d’avere contraffatto la moneta, Diogene rispondeva: “Ci fu un tempo nel quale io fui tale e quale sei tu adesso. Ma quale io sono adesso, tu non lo sarai mai”. E ad un altro che gli rinfacciava la stessa cosa, disse: “Allora sulla gente ci pisciavo, ma adesso no”. [VI,57] Arrivato a Mindo e osservando che le porte erano grandi ma la città era piccola, disse: “Uomini di Mindo chiudete le porte, ché la vostra città non abbia ad uscirsene”. Osservando una volta un ladro di porpora colto in flagrante, disse:

‘lo colse la morte purpurea e la potente Moira’.

Quando Cratero lo sollecitò a venire ospite da lui, Diogene disse: “Voglio leccare sale ad Atene piuttosto che fruire della sontuosa mensa di Cratero”. Quando avvicinò il retore Anassimene, che era di pingue corporatura, disse: “Dà anche a noi poveracci un po’ del tuo ventre; così tu ne sarai alleggerito ed a noi sarà di giovamento”. Mentre Anassimene teneva un discorso, Diogene gli porse un pesce salato e ciò distolse l’attenzione degli ascoltatori. Poiché Anassimene per questo s’adirò molto, Diogene commentò: “Un pesce secco da un obolo è stato capace di dissolvere la facondia di Anassimene”. [VI,58] Rimproverato una volta perché mangiava nella piazza del mercato, Diogene disse: “Anche nella piazza del mercato ebbi fame”. Taluni affermano che è riferito a lui anche il seguente aneddoto. Una volta Platone, osservandolo mentre lavava della verdura gli si avvicinò e gli disse tranquillamente: “Se tu servissi alla corte di Dionisio non laveresti la verdura”. Al che Diogene rispose con la stessa tranquillità: “Pure tu laveresti la verdura, se non servissi alla corte di Dionisio”. A chi gli diceva: “Gli uomini in maggioranza ti deridono”, Diogene rispose: “Forse anche gli asini deridono gli uomini; ma come quelli non si danno pensiero degli asini, così io pure non mi do pensiero di loro”. Osservando una volta un adolescente che faceva vita filosofica, disse: “Bravo! Perché fai volgere gli amanti del corpo alla bellezza dell’animo”. [VI,59] Poiché un tale era pieno di stupore e di ammirazione per i doni votivi in Samotracia, Diogene disse: “Sarebbero molti di più se anche coloro che non si salvarono avessero potuto dedicare i loro”. Alcuni però affermano che a dire ciò sia stato Diagora di Milo. Ad un adolescente di bell’aspetto che se ne andava ad un convito, disse: “Tornerai peggiore”. Quello tornò e il giorno dopo gli disse: “Sono tornato e non sono diventato peggiore”. Al che Diogene soggiunse: “Chirone non sei tornato, ma Euritione sì”. Una volta chiedeva l’elemosina ad un tipo scorbutico, il quale gli disse: “Se mi persuaderai a farlo”. Al che Diogene ribatté: “Se io potessi persuaderti, ti avrei già persuaso da un pezzo ad impiccarti”. Una volta tornava da Sparta ad Atene, ed a chi gli chiese: “Da dove vieni e dove vai?”, rispose: “Dai locali degli uomini a quelli delle donne”. [VI,60] Mentre tornava da Olimpia, ad uno che gli chiedeva se colà vi fosse molta folla rispose: “Folla sì, molta; uomini, pochi”. A proposito dei dissoluti, diceva che essi sono simili a quei fichi che nascono e crescono sul bordo dei burroni: fichi i cui frutti nessun uomo gusta, ma che i corvi e gli avvoltoi mangiano. Ad una statuetta in oro di Afrodite, dedicata da Frine in Delfi, si racconta che Diogene abbia apposto questa dedica: “Dono della sregolatezza dei Greci”. Ad Alessandro che una volta gli stava dinnanzi e gli disse: “Io sono Alessandro il grande re”, rispose: “E io sono Diogene, il cane”. Richiesto quindi di dire cosa facesse per essere chiamato cane, spiegò: “Scodinzolo davanti a chi mi dà qualcosa, abbaio a chi nulla mi dà, mordo i malvagi”. [VI,61] Stava raccogliendo frutti da un fico, quando il custode del terreno gli disse: “Stamattina un uomo è stato impiccato a quel fico”; ed egli rispose: “Io lo purificherò”. Vedendo che un vincitore di Olimpia teneva gli occhi fissi su un’etera, disse: “Ecco come un ariete di Arimane è tirato per il collo da una ragazzotta qualunque”. Soleva infatti dire che le etere di bell’aspetto sono simili ad una pozione letale di idromele. Quando faceva colazione nella piazza del mercato, coloro che gli stavano intorno ripetevano in continuazione “Cane!”. Al che lui diceva: “Cani siete voi che mi state intorno mentre faccio colazione. Quando due effeminati mollaccioni cercavano di nascondersi alla sua vista, Diogene diceva loro: “Non cautelatevi, un cane non mangia bietole”. Richiesto di dove fosse un ragazzo che si era dato alla prostituzione, rispose: “È di Tegea”. [VI,62] Osservando che un lottatore privo di talento per la lotta s’era dato a praticare la medicina, Diogene commentò: “Cos’è questa storia? Lo fai per poter adesso atterrare coloro che una volta ti vincevano?”. Vedendo che il figlio di un’etera tirava pietre alla folla, gli disse: “Sta attento a non colpire tuo padre”. Quando un giovanetto gli mostrò un pugnale ricevuto in dono dall’amante, Diogene gli disse: “Bello è il pugnale, ma brutto è il manico”. Quando un tale gli chiese in restituzione una mantellina, gli disse: “Se me ne hai fatto dono, è mia; se me l’hai prestata, la sto usando io”. Quando un ragazzo suppositizio gli disse che aveva dell’oro nel mantello, Diogene gli rispose: “Sì, è per questo che io me lo metto sotto quando mi corico”. [VI,63] Richiesto di quale vantaggio gli fosse venuto dalla filosofia, rispose: “Se non altro l’essere preparato a qualunque caso di fortuna”. Richiesto di dove fosse, rispose: “Sono cittadino del mondo”. Poiché dei tali offrivano sacrifici agli dei per avere un figlio, Diogene disse: “E per essere sicuri di che specie di figlio verrà fuori, non fate sacrifici?”. Quando una volta gli fu chiesto di versare una quota di sottoscrizione, disse al collettore dei contributi:

‘Chiedi la quota agli altri, ma tieni le mani lontane da Ettore’.

Diceva che le etere sono le regine dei re, giacché questi effettuano qualunque cosa paia ad esse. Quando gli Ateniesi votarono che Alessandro Magno era Dioniso, Diogene disse: “E me, fatemi Serapide”. A chi gli rinfacciava di entrare in luoghi sudici, soleva rispondere: “Anche il sole illumina gli escrementi e non per questo si contamina”. [VI,64] Mentre pranzava in un tempio, prese dei pani sozzi che nel frattempo erano stati imbanditi e li scagliò lontano, dicendo che nulla di sozzo deve fare ingresso in un tempio. A chi lo apostrofava dicendogli: “Tu nulla sai e fai il filosofo”, soleva rispondere: “Pur se io simulo sapienza, anche questo è fare filosofia”. A chi gli raccomandava il figlio dicendolo molto dotato e di eccellenti costumi, Diogene disse: “Ma allora che bisogno ha di me?”. Soleva dire che quanti parlano della virtù e non la praticano, non differiscono dalla cetra. Anche questa, infatti, nulla sente e di nulla si rende conto. Entrava a teatro quando gli altri ne uscivano. Richiesto del perché lo facesse, rispose: “Questo è il mestiere di tutta la mia vita”. [VI,65] Vedendo una volta un giovanotto muoversi con movenze femminili, gli disse: “Non ti vergogni di deliberare per te cose peggiori di quelle che ha deliberato per te la natura? La natura, infatti, ti ha fatto uomo mentre tu, invece, ti fai violenza e ti costringi ad essere donna”. Vedendo uno stolto che accordava un salterio, gli disse: “Non ti vergogni di applicarti ad accordare i suoni di uno strumento di legno e di non accordare l’animo tuo alla vita?”. A chi diceva: “Sono inidoneo alla vita filosofica”, rispose: “Perché dunque vivi, se non t’importa di vivere bene?”. A chi spregiava il proprio padre, soleva dire: “Non ti vergogni di spregiare colui grazie al quale tu vai così fiero di te?”. Vedendo un giovanotto di bell’aspetto che parlava in modo indecente, gli disse: “Non ti vergogni di sguainare un pugnale di piombo da un fodero d’avorio?”. [VI,66] Poiché gli veniva rinfacciato di bere in una bettola, disse: “Anche dal barbiere mi taglio i capelli”. Quando gli fu rinfacciato d’avere accettato una mantellina da Antipatro, disse:

‘Non sono da rigettarsi gli splendidi doni degli dei’

Ad un tale che lo aveva prima urtato malamente con una trave e poi gli aveva detto: “Sta’ attento!”, prima diede una bastonata e poi disse: “Sta’ attento!”. A chi supplicava con insistenza un’etera, disse: “O disgraziato, perché vuoi ottenere qualcosa che è meglio non ottenere?” Ad uno che si profumava i capelli, disse: “Bada che il buon odore della tua testa non procuri un cattivo odore alla tua vita”. Soleva dire che i domestici sono servi dei loro padroni, come gli insipienti sono servi delle loro smanie. [VI,67] Richiesto del perché i prigionieri di guerra fossero stati chiamati ‘appiedati’, rispose: “Perché avevano i piedi degli uomini, ma l’animo tal quale l’hai tu che mi fai ora questa domanda”. Una volta chiedeva l’elemosina di una mina ad un dissoluto, e poiché quello gli domandava perché dagli altri mendicava un obolo e da lui invece una mina, Diogene rispose: “Perché dagli altri ho speranza di ottenere di nuovo qualcosa, mentre se otterrò ancora qualcosa da te è posto sulle ginocchia degli dei”. Quando gli veniva rinfacciato di mendicare mentre invece Platone non mendicava, rispondeva: “Anche lui mendica, ma

‘avvicinando il capo, sì che gli altri non vengano a saperlo’.

Vedendo un arciere incapace, Diogene si mise a sedere vicino al bersaglio dicendo: “<Lo faccio> per non essere colpito”. Soleva dire che dal piacere fisico gli amanti riescono a trarre sventure. [VI,68] Richiesto se la morte sia un male, rispose: “E come può essere un male ciò della cui presenza non ci accorgiamo?”. Ad Alessandro che gli sta davanti e gli diceva: “Non hai paura di me?”, chiese: “Chi sei tu? Un bene o un male?”. Alessandro gli rispose: “Un bene”. E Diogene: “Chi, dunque, ha paura del bene?”. Soleva dire che l’educazione per i giovani, è temperanza; per gli anziani, consolazione, per i poveri, ricchezza; per i ricchi, compostezza. All’adultero Didimone che medicava l’occhio di una ragazza, disse: “Mentre curi l’occhio della ragazza, guarda bene di non rovinare la pupilla!”. A chi gli diceva che degli amici stavano tramando insidie contro di lui, rispose: “Cosa bisogna fare, se si devono trattare amici e nemici allo stesso modo?”. [VI,69] Richiesto di quale sia la cosa più bella tra gli uomini, rispose: “La libertà di parola”. Entrando in una scuola e vedendovi molte statue delle Muse ma pochi discepoli, disse: “Per gli dei, maestro, hai molti discepoli!”. Soleva fare ogni cosa sotto gli occhi di tutti, anche ciò che riguarda Demetra e Afrodite. Usava prospettare dei ragionamenti di questo genere: “Se non è fuori luogo fare colazione, non è fuori luogo farla nella piazza del mercato; ma fare colazione non è fuori luogo, dunque neppure è fuori luogo farla nella piazza del mercato”. Quando si masturbava sotto gli occhi di tutti, diceva di frequente: “Magari fosse possibile far cessare la fame semplicemente sfregandosi il ventre!”. Di lui si riferiscono anche altri aneddoti, che però sarebbe lungo elencare giacché sono molti. [VI,70] Diogene soleva dire che l’esercizio pratico della vita filosofica è di due tipi: dell’animo e del corpo. Questo esercizio pratico è quello grazie a cui le rappresentazioni che nascono nel corso di un costante allenamento ci procurano facilità e speditezza alla realizzazione delle opere della virtù. Infatti l’un tipo di esercizio, sia in relazione all’animo sia in relazione al corpo, è imperfetto senza l’altro, poiché vigoria dell’animo e robustezza del corpo nascono congiuntamente. Egli citava inoltre le prove del fatto che attraverso l’allenamento si perviene all’eccellenza della virtù. Nelle arti manuali come pure in altre arti, è dato infatti vedere che gli artisti si sono procacciati la loro destrezza manuale grazie ad una pratica costante; e che anche i flautisti e gli atleti eccellono entrambi grazie al loro quotidiano e costante impegno; sicché se costoro trasferissero l’esercizio anche all’animo, si affaticherebbero certo non senza giovamento e non senza risultati. [VI,71] Soleva anche dire che nella vita assolutamente nessun successo è ottenibile senza strenuo esercizio, e che questo è capace di vincere qualunque ostacolo. È dunque necessario che quanti scelgono le fatiche che sono in armonia con la natura, invece di quelle improficue, vivano felicemente; mentre coloro che scelgono, contro natura, la dissennatezza siano infelici. Lo stesso abito acquisito di spregiare il piacere fisico è piacevolissimo; e come quanti sono abituati ad una vita piacevole si dispiacciono se vanno incontro al suo contrario, così coloro che sono esercitati al loro contrario spregiano con gran piacere proprio i piaceri fisici. Di questo genere erano i discorsi che faceva e che dimostrava mettendoli in pratica: contraffacendo effettivamente la moneta, non concedendo alla legalità l’autorità che invece concedeva alla natura, e affermando di condurre la stessa sorta di vita che era stata di Eracle, il quale nulla anteponeva alla libertà. [VI,72] Egli diceva che tutto è dei sapienti e prospettava i ragionamenti che abbiamo più sopra citato. Tutto è degli dei; gli dei sono amici dei sapienti; ma i beni degli amici sono comuni, dunque tutto è dei sapienti. Circa la legge e l’impossibilità di un governo della città senza di essa, Diogene affermava che non c’è alcun pro della convenzione urbana in assenza di una città e che la città è una convenzione urbana. Ma in assenza di una città non c’è alcun pro della legge; dunque la legge è una convenzione urbana. Si prendeva gioco della nobiltà di stirpe, della fama e di tutte quante le cose di questo genere, affermando che si trattava di ornamenti esteriori del vizio, e che l’unica retta costituzione è quella che regge il cosmo. Soleva anche dire che le donne devono essere comuni, poiché non legittimava alcuna forma di matrimonio ma la convivenza consensuale di uomo e donna; e perciò diceva che pure i figli devono essere comuni. [VI,73] Non riteneva fuori luogo portar via qualcosa da un tempio o gustare le carni di un qualunque animale; e neppure riteneva sacrilego cibarsi di carne umana, com’era manifesto dai costumi di popoli stranieri, poiché diceva che per la retta ragione tutto è contenuto in tutto e pervade tutto. Infatti della carne è contenuta nel pane, del pane è contenuto nella verdura, e anche i restanti corpi sono contenuti in tutti gli altri poiché vi penetrano attraverso degli invisibili pori e qui le loro particelle si vaporizzano. Ciò egli lo rende manifesto nel ‘Tieste’, se le tragedie sono davvero sue e non di Filisco di Egina, che era un suo conoscente, o di Pasifonte di Licia, composte dopo la sua morte come afferma Favorino nella sua ‘Storia varia’. Delle musica, della geometria, dell’astrologia e di argomenti simili diceva di non interessarsi, perché improficui e non necessari. [VI,74] Fu dunque estremamente sagace e pronto nel rispondere alle domande che gli venivano poste, come è manifesto dagli esempi che abbiamo riferito. Sopportò la sua vendita come schiavo con straordinaria nobiltà d’animo. Infatti, mentre navigava verso Egina fu catturato dai pirati comandati da Scirpalo, condotto a Creta e qui posto in vendita. Quando l’araldo gli domandò cosa sapesse fare, rispose: “Comandare uomini”. Fu allora che indicando un certo uomo di Corinto che portava un abito fregiato di porpora, il già citato Xeniade, disse: “Vendimi a costui, perché quest’uomo ha bisogno di un padrone”. Xeniade lo comprò, e condottolo a Corinto lo istituì tutore dei suo figli e gli mise in mano l’amministrazione di tutta la casa. Diogene, a sua volta, dispose di essa ad ogni riguardo in modo tale che Xeniade andava in giro dicendo: “Un buon demone è entrato in casa mia!”. [VI,75] Nell’opera intitolata ‘Pedagogico’, Cleomene riferisce che i suoi conoscenti volevano pagare il riscatto, ma che Diogene li chiamò sempliciotti: giacché i leoni non sono schiavi di chi li nutre, bensì è chi li nutre ad essere schiavo dei leoni. Infatti l’aver paura è da schiavi, e sono gli uomini ad avere paura delle belve. La capacità di persuasione di un simile uomo era straordinaria, tanto che facilmente portava dalla sua parte qualunque persona su qualunque argomento. Si racconta che un certo Onesicrito di Egina, il quale aveva due figli, ne mandò uno, di nome Androstene, ad Atene. Questo, ascoltati i discorsi di Diogene, tosto decise di fermarsi in città. Allora il padre inviò il figlio più anziano, il già citato Filisco, alla ricerca del primo; ma in modo simile anche Filisco fu trattenuto in città. [VI,76] Per terzo giunse ad Atene Onesicrito in persona, e nondimeno anch’egli rimase con i figli e con loro intraprese la vita filosofica. Tale era il fascino magico congiunto ai discorsi di Diogene. Furono suoi uditori anche Focione, soprannominato il Probo, Stilpone di Megara e molti altri uomini politici. Si dice che avesse circa novant’anni quando morì. Della sua morte si riferiscono diverse versioni. Secondo alcuni, dopo avere mangiato un polpo crudo Diogene fu preso dal colera e così morì. Secondo altri, egli morì per aver trattenuto il respiro. Tra i sostenitori di questa versione vi è Cercida di Megalopoli (o di Creta), il quale in versi coliambici dice così:

‘Non è più, chi era innanzi cittadino di Sinope,
celebre per il bastone che portava, per il doppio mantello e il vivere all’aria aperta.
[VI,77] S’imbarcò premendo il labbro contro i denti e mordendo il respiro.
 Era Diogene, un vero figlio di Zeus, un cane celeste.

Altri affermano che mentre stava dividendo un polpo tra vari cani fu morso da uno di essi al tendine del piede, e così perse la vita. Però i suoi conoscenti, secondo quanto afferma Antistene nelle sue ‘Successioni dei filosofi’, congetturarono che egli fosse morto per avere trattenuto il respiro. Capitò infatti che egli si stesse trattenendo nel Craneo, la palestra nei sobborghi di Corinto. Come d’abitudine erano venuti a trovarlo i suoi conoscenti, i quali lo rinvennero tutto avvolto e nascosto nel mantello ed immaginarono che stesse dormendo. Ma poiché Diogene era un tipo né dormiglione né sonnolento, dispiegata la mantellina lo rinvennero senza respiro, e concepirono che egli avesse fatto ciò volendo di proposito uscir di vita. [VI,78] A questo punto, come si racconta, nacque tra i suoi conoscenti una lite furibonda su chi dovesse seppellirlo, e si venne persino alle mani. Quando giunsero i padri ed altri personaggi eminenti, fu da questi stabilito che Diogene fosse sepolto presso la porta della città che conduce verso l’Istmo. Sulla sua tomba eressero una colonna, in cima alla quale posero un cane scolpito in marmo di Paro. Successivamente anche i concittadini l’onorarono con immagini in bronzo sulle quali scrissero così:

‘Anche il bronzo invecchia col tempo, ma la tua gloria,
o Diogene, non la demolirà l’eternità. Perché tu solo
 insegnasti ai mortali la lezione di un’esistenza bastante a se stessa
e mostrasti il percorso della più semplice vita’.

[VI,79] Ci sono anche dei nostri versi in metro proceleusmatico:

‘Orsù Diogene, dì quale destino ti colse e ti portò nell’Ade.
Mi ci portò il dente rabbioso di un cane’.

Taluni però affermano che morendo egli diede istruzione di gettarlo via insepolto, così che qualunque belva potesse averne per sé una parte, oppure di spingere il suo cadavere giù in un fosso e di ammonticchiarvi sopra un po’ di polvere. Altri invece di buttarlo nell’Ilisso, così da poter diventare di qualche utilità ai suoi fratelli. Demetrio, nei suoi ‘Omonimi’ afferma che Diogene morì a Corinto lo stesso giorno in cui Alessandro Magno morì a Babilonia. Era vecchio al tempo della CXIII Olimpiade. [VI,80] Di lui si riportano i seguenti libri. Dialoghi: ‘Cefalione’, ‘Ictias’, ‘Cornacchia’, ‘Pordalo’, ‘Il popolo di Atene’, ‘La repubblica’, ‘Arte etica’, ‘Sulla ricchezza’, ‘Erotico’, ‘Teodoro’, ‘Ipsias’, ‘Aristarco’, ‘Sulla morte’, ‘Lettere’. Sette tragedie: ‘Elena’, ‘Tieste’, ‘Eracle’, ‘Achille’, ‘Medea’, ‘Crisippo’, ‘Edipo’. Sosicrate nel primo libro delle ‘Successioni’, e Satiro nel quarto libro delle ‘Vite’ affermano che nessuna di tali opere è di Diogene. Satiro afferma anche che le tragedie sono di Filisco di Egina, un conoscente di Diogene. Sozione nel settimo libro afferma che soltanto queste sono opere di Diogene: ‘Sulla virtù’, ‘Sul bene’, ‘Erotico’, ‘il Poveraccio’, ‘Tolmeo’, ‘Pordalo’, ‘Casandro’, ‘Cefalione’, ‘Filisco’, ‘Aristarco’, ‘Sisifo’, ‘Ganimede’, ‘Detti sentenziosi’, ‘Lettere’. [VI,81] Ci sono stati cinque Diogene. Il primo, di Apollonia, filosofo della natura. Questo è l’inizio del suo trattato: “Quando si comincia un qualunque ragionamento, a me sembra indispensabile fornirsi di un principio incontrovertibile”. Il secondo, di Sicione, il quale scrisse una ‘Storia del Peloponneso’. Terzo è il nostro, di Sinope. Quarto col nome Diogene fu lo Stoico, originario di Seleucia ma chiamato ‘di Babilonia’ per vicinato. Il quinto, di Tarso, il quale ha scritto su questioni, che egli tenta di risolvere, concernenti la poesia. A sua volta Atenodoro, nell’ottavo libro delle sue ‘Passeggiate’ afferma che il nostro Diogene aveva sempre la pelle splendente perché usava ungersela.

MONIMO (IV secolo a. C.)

[VI,82] Monimo di Siracusa fu discepolo di Diogene ed era, secondo quanto afferma Sosicrate, al servizio di un banchiere di Corinto. Xeniade, il compratore di Diogene, faceva frequenti visite a questo banchiere e nel corso di esse si dilungava a narrare la virtù di quell’uomo nei fatti e nelle parole. Finì così per istillare in Monimo una passione amorosa per Diogene. Nel giro di poco tempo, Monimo simulò di essere impazzito e si mise a buttar per aria le monete di piccolo taglio e tutto il denaro che si trovava sul banco, sicché il suo padrone lo mise alla porta. In questo modo Monimo entrò direttamente nella cerchia di Diogene. Sovente seguiva dappresso anche il cinico Cratete e soleva intrattenersi con persone simili; sicché il suo padrone, vedendolo comportarsi così, tanto più si convinse che era impazzito. [VI,83] Divenne una personalità di grande spicco, tanto che lo ricorda anche il comico Menandro, il quale in una delle sue commedie ‘Il palafreniere’ dice così:

‘-O Filone, Monimo era un uomo sapiente ma un po’ meno famoso.
-Monimo chi? Quello che portava la bisaccia?
-Tre bisacce portava! Quell’uomo nulla tuttavia pronunciò di affine,
per Zeus, al ‘Riconosci te stesso’ né a queste altisonanti massime;
ma qualcosa ben al di sopra di esse, proprio lui che era un sudicio mendicante,
giacché affermava che ogni umana concezione è vana’.

Monimo fu un pensatore di profonda gravità, e tale da tenere in spregio le semplici opinioni ed incitare unicamente alla verità. Scrisse degli scherzi poetici nei quali è mescolata una nascosta serietà, due libri ‘Sugli impulsi’ e un ‘Protrettico’.

ONESICRITO (floruit 330 a. C.)

[VI,84] Secondo alcuni Onesicrito era nato ad Egina, ma Demetrio di Magnesia afferma che fosse nativo di Astipalea. Fu uno degli allievi di maggior spicco di Diogene. Sembra avere avuto una carriera assai simile a quella di Senofonte. Come infatti Senofonte partecipò alla campagna militare di Ciro, così Onesicrito partecipò a quella di Alessandro Magno. Come quello scrisse la ‘Ciropedia’, così il nostro scrisse come fu allevato Alessandro. Quello fece un encomio di Ciro, e il nostro di Alessandro. Anche quanto allo stile di scrittura essi sono simili; salvo che, in quanto imitatore, Onesicrito è inferiore al modello. Allievi di Diogene furono anche Menandro, soprannominato ‘Querceto’ e ammiratore di Omero; Egesia di Sinope, di soprannome ‘Collare’; e Filisco di Egina, come abbiamo già detto in precedenza.

CRATETE (floruit 326 a. C.)

[VI,85] Cratete, figlio di Asconda, era nativo di Tebe. Fu anch’egli uno dei discepoli di grande spicco del Cane. Ippoboto afferma però che egli non fu discepolo di Diogene, bensì di Brisone l’Acheo. A Cratete si attribuiscono degli ‘Scherzi poetici’ come i seguenti:

‘In mezzo alla livida, fosca vanità, c’è una città, Bisaccia,
bella e pingue, sudicia certo, con niente dentro:
verso di essa non naviga uno stupido parassita,
non naviga un ghiottone, né uno che gode delle chiappe di una puttana.
 Quando però porta in sé timo, e aglio e fichi e pani,
questi non si fanno la guerra gli uni contro gli altri,
e per i quattrini o per la gloria non imbracciano le armi’.

[VI,86] A lui è attribuito anche un libro dei conti giornalieri, molto divulgato e nel quale si legge:

‘Metti da parte per un cuoco, dieci mine; per un medico, una dracma;
per un adulatore, cinque talenti; per un consigliere, del fumo;
per una puttana, un talento; per un filosofo, tre oboli’.

Cratete era anche chiamato ‘Apriporte’ perché entrava in qualunque casa e vi portava del senno. È suo anche questo componimento:

‘Ho quel che imparai e pensai
e quel che di solenne appresi dalle Muse;
tante esultanze furono invece frutto di vanità’. 

Egli dice anche che dalla filosofia questo gli venne:

‘Un chenice di lupini e l’immischiarmi di nulla’.

Come suoi si citano pure questi versi:

‘La passione amorosa la fa cessare la fame, se no la fa cessare il tempo;
se poi non potrai essere servito dall’una o dall’altro, usa una corda!’ 

[VI,87] Cratete era nel fior degli anni al tempo della CXIII Olimpiade. Nelle sue ‘Successioni dei filosofi’ Antistene afferma che Cratete si aprì alla filosofia cinica vedendo Telefo, in una tragedia, passarsela ben miseramente con un cestino in mano. Monetizzò allora il suo patrimonio – apparteneva infatti ad una delle famiglie più in vista – e mise così insieme circa duecento talenti, che ripartì poi tra i cittadini. Dice pure che egli abbracciò la vita cinica così decisamente che anche il comico Filemone lo ricorda quando fa dire ad un personaggio:

‘D’estate portava un mantello felpato,
per essere come Cratete, e d’inverno un cencio’.

Diocle afferma che Diogene lo persuase ad abbandonare i suoi campi al pascolo delle pecore ed a buttare in mare il denaro che avesse. [VI,88] Dice anche che Alessandro Magno dimorò in casa di Cratete, come Filippo dimorò in quella di Ipparchia. Spesso gli capitò gli inseguire col bastone dei parenti che venivano a trovarlo per trattenerlo dai suoi propositi, nel mantenere i quali egli fu eroico. Demetrio di Magnesia racconta invece che egli diede il denaro in deposito ad un certo banchiere, con l’intesa di consegnarlo ai suoi figli se essi fossero diventati persone ordinarie, e di ripartirlo invece tra il popolo se essi fossero diventati filosofi, giacché facendo vita filosofica non ne avrebbero avuto bisogno. Eratostene afferma che da Ipparchia – della quale parleremo – Cratete ebbe un figlio, cui fu dato il nome di Pasicle. Quando Pasicle uscì dallo stato di efebo, Cratete lo condusse nella stanza di una giovane servetta dicendogli che questo era l’opportuno rapporto sessuale secondo il patrio costume; [VI,89] e spiegandogli che i rapporti sessuali tra adulteri sono relazioni tragiche, poiché hanno come ricompensa esili ed omicidi; mentre quelli di coloro che vanno con le etere sono relazioni comiche, poiché dissolutezza e ubriachezza rendono pazzi. Cratete ebbe anche un fratello di nome Pasicle, che fu discepolo di Euclide. Nel secondo libro dei suoi ‘Memorabili’ Favorino riferisce su Cratete una storiella carina. Racconta infatti che mentre rivolgeva un certo invito al ginnasiarca gli toccò le anche. E poiché quello si adirò assai, Cratete gli disse: ‘E perché? Le anche non sono forse tue, come le ginocchia?’. Soleva dire che è impossibile trovare un uomo assolutamente privo di difetti giacché, come nella melagrana, c’è sempre un chicco marcio. Una volta, poiché aveva fatto irritare il citaredo Nicodromo, questi lo percosse in viso. Cratete allora s’applicò in fronte un cartellino con sopra scritto: ‘Opera di Nicodromo’. [VI,90] Soleva ingiuriare le puttane a bella posta, per allenarsi così ad essere coperto di parole blasfeme. Rimbrottò Demetrio Falereo che gli aveva mandato dei pani e del vino, dicendo: “Magari le sorgenti ci dessero anche dei pani!”. È perciò manifesto che egli beveva soltanto acqua. Quando, ad Atene, fu rimproverato dagli ispettori di polizia perché portava addosso una veste trasparente di mussolina, disse loro: “Vi mostrerò anche Teofrasto cinto con una veste trasparente di mussolina”. E poiché quelli non gli credevano, li condusse in una bottega di barbiere e mostrò loro Teofrasto che s’era fatto radere barba e capelli. A Tebe, quando fu frustato dal ginnasiarca – secondo altri però questo avvenne a Corinto e ad opera di Euticrate – e trascinato per un piede, come se non si desse alcun pensiero di ciò, recitò il verso:

‘Afferratolo per un piede lo trascinò attraverso la soglia sacra’.

[VI,91] Diocle riferisce invece che a trascinarlo per il piede fu Menedemo di Eretria. Poiché infatti costui era di bell’aspetto e si diceva che avesse rapporti intimi con Asclepiade di Fliunte, una volta Cratete gli si attaccò alle cosce e disse: “Dentro, Asclepiade”. Menedemo allora s’infuriò e mentre lo trascinava per il piede Cratete recitò il verso riferito. Nei suoi ‘Detti sentenziosi’, Zenone di Cizio afferma che una volta Cratete, con tutta noncuranza, appiccò un vello di pecora alla mantellina. Era brutto d’aspetto, e quando faceva gli esercizi ginnici veniva deriso. Allora egli levava in alto le braccia e soleva dire: “Coraggio, Cratete, lo fai a beneficio dei tuoi occhi e del resto del tuo corpo. [VI,92] Costoro che ti deridono, li vedrai ormai rattrappiti da qualche malattia; e li sentirai chiamare te beato, mentre biasimeranno se stessi per la loro inerzia”. Affermava poi che bisogna filosofare fino ad arrivare al punto in cui i generali ci sembreranno dei semplici asinai. Diceva anche che quanti sono circondati da adulatori sono isolati come i vitelli in mezzo ai lupi, giacché né quelli né questi hanno intorno chi può soccorrerli ma soltanto chi li insidia. Quando si rese conto che stava per morire, cantò a se stesso questo ritornello:

‘Stai proprio avanzando, gobbo mio caro,
te ne vai verso le dimore dell’Ade curvo per la vecchiaia’,

gli anni l’avevano infatti reso curvo. [VI,93] Ad Alessandro Magno che gli chiedeva se volesse che la sua città fosse ricostruita, rispose: “Perché farlo? Tanto, un altro Alessandro la ridurrà di nuovo in macerie”. Diceva di avere come patria il discredito e la povertà, inespugnabili dalla fortuna; e come concittadino Diogene, immune alle trame dell’indivia. Anche Menandro si ricorda di lui e nei ‘Gemelli’ dice così:

‘Camminerai insieme a me indossando una mantellina,
come faceva un tempo la moglie del cinico Cratete’.

Come Cratete stesso afferma, egli diede una figlia in matrimonio di prova per trenta giorni. E veniamo ora ai suoi discepoli.

METROCLE (c. 300 a. C.)

[VI,94] Metrocle era nativo di Maronea, ed era fratello di Ipparchia. Fu dapprima uditore del peripatetico Teofrasto. Era così malandato in salute che una volta, nel corso di un esercizio scolastico di declamazione, scoreggiò. Si scoraggiò allora a tal punto da chiudersi in casa e da decidere di lasciarsi morire d’inedia. Quando Cratete apprese il fatto, in seguito ad un invito andò da lui dopo avere mangiato a bella posta dei lupini. Cercò quindi di persuaderlo con il ragionamento che non aveva commesso nulla di vizioso, giacché sarebbe stato invece mostruoso che egli non avesse dato il suo naturale sfogo all’aria del ventre. Alla fine del discorso anche Cratete scoreggiò, e così riuscì a risollevarlo, consolandolo con la perfetta somiglianza delle due opere. Da quel momento Metrocle fu uditore di Cratete e diventò un filosofo di rilievo. [VI,95] Come afferma Ecatone nel primo libro dei suoi ‘Detti sentenziosi’, Metrocle dette alle fiamme i propri scritti commentando:

‘Queste sono fantasticherie di sogni di morti’.

Altri dicono che egli bruciò gli appunti presi alle lezioni di Teofrasto, commentando:

‘Efesto, vieni qua; Teti ora ha bisogno di te’.

Metrocle soleva dire che delle cose, alcune si possono comprare col denaro: per esempio, una casa. Altre, come l’educazione, per essere acquisite hanno bisogno di tempo e di impegno solerte. La ricchezza di denaro è dannosa, se non la si sa utilizzare in modo degno. Morì vecchio, annegandosi. Suoi discepoli furono Teombroto e Cleomene. Di Teombroto fu discepolo Demetrio di Alessandria. Di Cleomene furono discepoli Timarco di Alessandria ed Echecle di Efeso. Nondimeno Echecle fu uditore anche di Teombroto, del quale fu allievo Menedemo, di cui parleremo. Anche Menippo di Sinope acquistò notorietà tra i suoi discepoli. 

IPPARCHIA (c. 300 a. C.)

[VI,96] Fu catturata dalle dottrine dei Cinici anche la sorella di Metrocle, Ipparchia. Entrambi erano nativi di Maronea. Ipparchia era perdutamente innamorata di Cratete, del suo modo di ragionare e di vivere; per cui non si dava alcun pensiero di coloro che chiedevano la sua mano e non badava né alle loro ricchezze, né alla nobiltà dei natali o alla loro bellezza: per lei Cratete era tutto. E invero minacciò i suoi genitori di suicidarsi qualora non fosse data in sposa a lui. Quindi Cratete, invitato dai genitori di lei a dissuadere la ragazza, fece di tutto a questo fine; ma non riuscendo a persuaderla di cambiare avviso, levatosi finalmente in piedi e toltosi senz’altro il vestito davanti ai suoi occhi, le disse: “Questo è lo sposo e questo è il suo patrimonio: davanti a questa evidenza prendi una decisione, giacché non potrà fare meco vita comune se non chi avesse le mie stesse occupazioni”. [VI,97] La ragazza fece la sua scelta e adottò il medesimo abito di vita, per cui andava in giro col marito, aveva con lui rapporti sessuali in pubblico e con lui partecipava ai pranzi. Quando una volta partecipò ad un convito offerto da Lisimaco, confutò Teodoro, soprannominato l’Ateo, formulando un sofisma di questo genere. ‘Ciò che non si direbbe ingiusto quando fosse fatto da Teodoro, non si direbbe ingiusto anche quando fosse fatto da Ipparchia. Ora, se quando Teodoro percuote se stesso non commette ingiustizia, neppure Ipparchia commette ingiustizia quando percuote Teodoro’. Alle parole di Ipparchia Teodoro non rispose, e però la denudò tirandole via il mantello. Ipparchia non ne rimase sbalordita né sconvolta, come avrebbe invece fatto una qualunque donna. [VI,98] E poiché Teodoro le recitava il verso:

‘È questa colei che lasciò le spole presso i telai?’,

Ipparchia gli rispose: “Sì, Teodoro, questa sono io. Ti pare forse che io abbia deciso male su di me, quando il tempo che stavo per consumare sui telai l’ho invece utilizzato per la mia educazione?”. Di questa donna filosofo si riferiscono questo e innumerevoli altri aneddoti. 
Si cita come opera di Cratete un suo libro di ‘Lettere’, nel quale ella si mostra eccellente filosofo e il cui stile è simile a quello di Platone. Scrisse anche tragedie di elevata impronta filosofica come, per esempio, in questo passaggio:

‘Patria non m’è una torre, non m’è un tetto,
ma d’ogni continente una città, una dimora,
preparata ad accoglierci e lasciarci vivere’.

Ipparchia morì in tarda età e fu sepolta in Beozia.

MENIPPO

[VI,99] Era un Cinico anche Menippo: Fenicio d’origine, schiavo; come afferma Acaico nella sua ‘Etica’. Diocle riferisce che il suo padrone era un cittadino del Ponto e che si chiamava Batone. Menippo chiedeva l’elemosina perché era più d’ogni altra cosa accecato dall’avidità di denaro, e riuscì pure a diventare cittadino Tebano. Egli non ci offre comunque nulla di serio. I suoi libri traboccano di molte ridicolaggini, pari a quelle di quel Meleagro che nacque dopo di lui. Ermippo riferisce che Menippo era diventato, ed era chiamato, ‘usuraio a giornata’, giacché prestava denaro a interesse contro garanzia della nave e contro ipoteca, tanto che ammassò un’enorme quantità di denaro. [VI,100] Alla fine fu però vittima di un complotto e fu defraudato di tutto. Per lo scoramento mise allora fine alla sua vita impiccandosi. Anche noi abbiamo composto su di lui dei versi scherzosi:

‘Fenicio di nascita, ma Cane di Creta,
usuraio a giornata – così era soprannominato –
forse tu conosci Menippo.
A Tebe costui, siccome una volta fu derubato
e perse tutto e non capiva la natura di un Cane,
s’impiccò’.

Taluni affermano che i suoi libri in verità non sono suoi, ma di Dionisio e di Zopiro, entrambi di Colofone, i quali li scrissero tanto per scherzare e poi li diedero a Menippo in quanto capace di meglio disporne la diffusione. [VI,101] Sono stati in sei a chiamarsi Menippo. Il primo è colui che scrisse un’opera ‘Sui Lidi’ e compose un’epitome dell’opera di Xanto. Il secondo è questo nostro. Il terzo è un sofista di Stratonicea, originario della Caria. Il quarto è uno scultore di statue. Il quinto e il sesto sono due pittori, entrambi ricordati da Apollodoro. I libri del Cinico Menippo sono tredici: ‘L’evocazione dei morti’, ‘Testamenti’, ‘Lettere fittizie a firma degli dei’, ‘Contro i fisici, i matematici e i grammatici’, ‘Nascita di Epicuro’, ‘Le onoranze che quelli della sua scuola rendevano ad Epicuro il venti di ogni mese’, e altri.

MENEDEMO

[VI,102] Menedemo fu discepolo di Colote di Lampsaco. Secondo quanto afferma Ippoboto, Menedemo si spinse a tal punto di ciarlataneria da andarsene in giro travestito da Erinni, affermando di essere venuto dall’Ade per prendere nota delle azioni colpevoli che venivano commesse, al fine di riferirle ai demoni di laggiù una volta che fosse colà ridisceso. Il suo abbigliamento era questo: una tunica di colore grigio scuro lunga fino ai piedi, stretta da una cintura color rosso porpora. In testa il cappello tipico dell’Arcadia, sul quale erano ricamati i dodici segni zodiacali; ai piedi i coturni che usano gli attori tragici; un gran barbone e in mano una verga di frassino. 
[VI,103] Queste sono le vite di ciascuno dei Cinici. Ora abbozzeremo altresì le tesi che hanno il comune beneplacito di tutti loro, giacché secondo noi anche il Cinismo è una  scuola filosofica e non soltanto, come affermano alcuni, un istituto di vita. Ha il loro beneplacito, come anche quello di Aristone di Chio, la rimozione dall’ambito filosofico della Logica e della Fisica, e l’attenzione alla sola Etica. E l’affermazione che alcuni ascrivono a Socrate, Diocle la ascrive invece a Diogene, poiché è dell’avviso che fosse quest’ultimo a dire che bisogna ricercare:

‘quel che di cattivo e di buono c’è nella magione’.

I Cinici, poi, ricusano di dare importanza alle nozioni enciclopediche. Antistene era dell’avviso che coloro i quali sono diventati virtuosi non hanno alcun bisogno di apprendere la letteratura, per non essere eventualmente distratti da attrattive estranee alla filosofia. [VI,104] Essi tolgono di mezzo anche la geometria, la musica e tutte le nozioni di questo genere. A chi gli mostrava una meridiana, Diogene diceva: “Questo aggeggio è utile per non arrivare in ritardo a pranzo”. E ad uno che sfoggiava le proprie doti musicali, disse:

‘Le città sono ben governate dall’intelligenza degli uomini,
e anche le case lo sono; non dai suoni vibrati né dai trilli’. 

Ha il loro beneplacito la dottrina, come afferma Antistene nel suo ‘Eracle’, secondo la quale il sommo bene è la vita in armonia con la virtù. Questa dottrina è esattamente simile a quella degli Stoici, poiché vi è una certa comunanza tra queste due scuole filosofiche. Questa è anche la ragione per cui è stato detto che il Cinismo è una ‘scorciatoia’ per la virtù. Del resto, proprio in questo modo condusse la sua vita Zenone di Cizio. Ha il loro beneplacito anche la dottrina secondo la quale si deve vivere frugalmente, utilizzando cibi non cotti e già naturalmente pronti per il consumo; vestirsi unicamente con delle mantelline; spregiare la ricchezza, la gloria mondana e la nobiltà di natali. Taluni Cinici sono pertanto integralmente vegetariani, bevono soltanto acqua fresca e utilizzano come dimora i ripari che capitano ed anche le botti: come faceva Diogene, il quale era dell’avviso che l’aver bisogno di nulla è proprio degli dei e che proprio degli uomini simili a dei è l’avere bisogno di poco. [VI,105] Ha anche il loro beneplacito la dottrina per cui, secondo quanto afferma Antistene nel suo ‘Eracle’, la virtù può essere insegnata e che la virtù, una volta acquisita, non può essere persa; che il sapiente è degno d’amore, è al riparo dalle aberrazioni, è amico del suo simile e che egli nulla delega alla fortuna. I Cinici, similmente ad Aristone di Chio, chiamano ‘indifferente’ tutto ciò che sta frammezzo alla virtù e al vizio. Questi sono i Cinici. Bisogna ora passare agli Stoici, primo dei quali fu Zenone di Cizio, che era stato discepolo di Cratete.

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DIOGENE LAERZIO

VITE DEI FILOSOFI, Libro VII

Brevi cenni su Diogene Laerzio e sul Libro VII delle ‘Vite dei filosofi’

Della vita di Diogene Laerzio non si sa nulla, ed egli ci appare come un autore fuori dalla spazio e fuori dal tempo. Sennonché è possibile dedurre con certezza dai suoi scritti che egli visse nella prima metà del III secolo d. C., probabilmente tra il 200 e il 250. Diogene Laerzio è contemporaneo di Plotino e siamo in era cristiana, ma né di Cristianesimo né di Neoplatonismo v’è traccia nella sua opera ‘Vite dei filosofi’. Non appartenne a nessuna scuola filosofica e non si può dire che egli sia stato uno storico della filosofia. L’importanza postuma da lui acquistata è del tutto sproporzionata ai suoi meriti ed è legata al fatto che la sfortunata perdita di moltissime fonti primarie lo ha accidentalmente lasciato come principale, quando non unica, risorsa disponibile per la nostra conoscenza dell’antica filosofia greca.

Il Libro VII delle ‘Vite dei filosofi’ di Diogene Laerzio è il libro dedicato agli Stoici. 
L’indice dei capitoli del libro è il seguente, e le pagine indicate sono quelle della mia traduzione:

Capitolo 1 – Zenone   (333 – 261 a.C.)          pag.     1-27
Capitolo 2 – Aristone  (c. 320 – 250 a.C.)      pag.     28
Capitolo 3 – Erillo      (floruit c. 260 a.C.)     pag.     29
Capitolo 4 – Dionisio  (c. 330 – 250 a.C.)      pag.     30
Capitolo 5 – Cleante    (331 – 232 a.C.)         pag.     31-32
Capitolo 6 – Sfero       (floruit c. 220 a.C.)   pag.     33
Capitolo 7 – Crisippo  (c. 282 – 206 a.C.)      pag.     34-39

– Il testo greco del Libro VII delle ‘Vite dei filosofi’ di Diogene Laerzio

Il testo greco del Libro VII delle ‘Vite dei filosofi’ di Diogene Laerzio che io ho tradotto è quello pubblicato nel secondo volume dalla ‘Loeb Classical Library’, 1979 con il titolo ‘Diogenes Laertius’ e curato da R. Hicks.

Stoà di Atene: qui nacque lo stoicismo.

DIOGENE LAERZIO – LIBRO VII

ZENONE (333 – 261 a. C.)Zenone, figlio di Mnasea (o di Demea) veniva da Cizio, cittadina greca dell’isola di Cipro che aveva avuto coloni Fenici. 
Come afferma Timoteo di Atene nel suo libro ‘Sulle vite’, aveva il collo storto. Apollonio di Tiro afferma che era allampanato, piuttosto alto, di colorito bruno – per cui qualcuno lo chiamava ‘clematide egizia’, come dice Crisippo nel primo libro dei ‘Proverbi’ – gonfio di gambe, fiacco, debole; e perciò, nei suoi ‘Ricordi conviviali’, Persèo afferma che egli schivava la maggior parte dei pranzi cui era invitato. Dicono, invece, che si rallegrasse di mangiare fichi freschi e di prendere il sole. 
[VII,2] Come è stato già detto fu discepolo di Cratete. Dicono anche che abbia poi ascoltato le lezioni di Stilpone e, secondo Timocrate nel suo ‘Dione’, quelle di Senocrate per dieci anni, nonché quelle di Polemone. Ecatone, come pure Apollonio di Tiro nel primo libro ‘Su Zenone’, afferma che quando egli consultò l’oracolo sul cosa fare per vivere nel miglior modo possibile, il dio gli rispose: “Che stesse a contatto con i cadaveri”. Ond’egli capì bene di dover leggere le opere degli antichi. Il suo incontro con Cratete avvenne in questo modo. Mentre trasportava per commercio della porpora dalla Fenicia, fece naufragio nei pressi del Pireo. Aveva ormai trent’anni, e salendo ad Atene si sedette nella bottega di un libraio. Mentre quello leggeva il secondo libro dei ‘Memorabili’ di Senofonte, Zenone, godendo della lettura, cercò di sapere da lui dove potessero vivere uomini del genere. [VII,3] Passava di lì, davvero tempestivamente, Cratete; e il libraio, mostrandoglielo, gli disse: “Tieni dietro a quest’uomo”. Da quel momento Zenone fu discepolo di Cratete: un discepolo tutto teso alla vita filosofica, ma altrimenti vergognoso della sfacciataggine Cinica. Laonde Cratete, deciso a curarlo anche di ciò, gli dà una pentola di lenticchie da portare attraverso il Ceramico; e poiché vede che per la vergogna lui cerca di tenerla coperta, batte la pentola col suo bastone e la manda in pezzi. Mentre Zenone fugge via e le lenticchie gli colano lungo le gambe, Cratete gli fa: “Perché fuggi via, o bel Fenicio? Nulla di terribile hai sperimentato!”. 
[VII,4] Per un po’ egli fu dunque discepolo di Cratete e, poiché in quel tempo scrisse ‘La repubblica’, alcuni solevano per gioco dire che egli l’avesse scritta ‘sulla coda del Cane’. Oltre a ‘La repubblica’ Zenone scrisse anche le seguenti opere: 
‘Sulla vita secondo natura’, ‘Sull’impulso o sulla natura dell’uomo’, ‘Sulle passioni’, ‘Su ciò ch’è doveroso’, ‘Sulla legge’, ‘Sull’educazione greca’, ‘Sulla visione’, ‘Sul cosmo’, ‘Sui segni’, ‘Questioni pitagoriche’, ‘Universali’, ‘Sulle locuzioni’, ‘Problemi omerici, in cinque libri’, ‘Sull’ascolto della poesia’. Suoi sono anche i seguenti libri: 
‘Arte retorica’, ‘Soluzioni’, ‘Confutazioni’ (in due libri), ‘Memorabili di Cratete’, ‘Etica’. 
Questi sono i suoi libri. Da ultimo, se ne andò via da Cratete; e si fece discepolo dei predetti filosofi per vent’anni, sicché si racconta che dicesse: “Ho fatto una buona navigazione quando ho fatto naufragio”. Alcuni sostengono che egli abbia detto questo al tempo della sua frequentazione di Cratete. [VII,5] Altri sostengono invece che egli dimorasse ad Atene quando udì del naufragio e che dicesse: “La fortuna fa proprio bene a spingerci di forza alla vita filosofica”. Taluni poi sostengono che egli si volgesse alla vita filosofica dopo avere disposto, in Atene, del carico della nave. 
Deciso a far sì che il luogo non fosse contornato di gente, teneva i suoi discorsi andando su e giù sotto il ‘Portico Dipinto’ (Stoa), chiamato anche ‘Portico’ di Pisianatte, e ‘Dipinto’ per la presenza delle pitture di Polignoto. È sotto questo portico che al tempo dei Trenta Tiranni era stata decisa l’eliminazione di mille e quattrocento cittadini. Orbene la gente s’avvicinava per ascoltarlo e per questo essi furono chiamati ‘Stoici’. Ebbero similmente questo nome anche i suoi seguaci, dapprima chiamati ‘Zenoniani’ secondo quanto afferma Epicuro nelle sue ‘Lettere’. Secondo quanto afferma Eratostene nell’ottavo libro ‘Sulla commedia antica’, ancor prima erano stati chiamati Stoici i poeti che colà passavano il loro tempo, e che avevano già di molto accresciuto la fama del luogo. 
[VII,6] Gli Ateniesi tenevano in grande onore Zenone, tanto da commettergli le chiavi delle mura della città ed onorarlo con una corona d’oro e un’immagine in bronzo. Si dice che questo facessero anche i suoi concittadini, dal momento che ritennero un degno ornamento la sua immagine. Pure i Ciziesi di Sidone lo pretesero come uno di loro. Antigono Gonata approvava il modo di vivere di Zenone e quando gli capitava di giungere ad Atene molte volte ascoltava le sue lezioni, invitandolo poi a recarsi presso di lui. Zenone schivò questi inviti e però inviò da lui Persèo, uno dei suoi conoscenti, figlio di Demetrio, nato a Cizio e in pieno fiore durante la CXXX Olimpiade (260-256 a.C.), quando Zenone era ormai vecchio. Secondo quanto dice Apollonio di Tiro nei suoi libri ‘Su Zenone’, la lettera di Antigono era di questo tenore: 
[VII,7] “Il re Antigono al filosofo Zenone, salve. 
Io ritengo di essere ben innanzi a te quanto a gloria di vita legata alla fortuna, ma di esserti assai dietro quanto ad educazione al ragionamento e alla perfetta felicità che tu hai conquistato. Perciò ho determinato di farti parola di venire presso di me, persuaso che tu non dirai di no alla mia richiesta. Tu cerca dunque in ogni modo di congiungerti a me, tenendo ben presente che sarai maestro ed educatore non di me soltanto ma dei Macedoni tutti insieme. Sarà così evidente che chi educa e guida alle imprese virtuose il sovrano della Macedonia, prepara anche i suoi subordinati ad essere uomini forti e valorosi. Infatti, quale è il loro duce, tali è verosimile che diventino anche gran parte dei suoi subordinati”. 
E Zenone in risposta a questa lettera scrisse così:
[VII,8] “Zenone al re Antigono, salve. 
Approvo il tuo amore per l’apprendimento in quanto tu mostri di aspirare alla vera educazione, quella che tende al miglioramento dei costumi, e non a quella dozzinale e che tende al loro pervertimento. Chi mostra di desiderare la filosofia e di avversare il tanto sbandierato piacere fisico che rende effeminati gli animi di molti giovani, mostra chiaramente di inclinare alla nobiltà d’animo non soltanto per natura ma anche per proairesi. Una nobile natura, con l’aggiunta di un moderato esercizio pratico e inoltre di un insegnante che non si risparmia, arriva facilmente alla perfetta assunzione della virtù. [VII,9] Io sono però trattenuto da un corpo debole per la vecchiaia: infatti ho ottanta anni e perciò non posso congiungermi a te. Tuttavia ti invio alcuni miei compagni di studio, i quali non sono da meno di me per le doti dell’animo e mi sono ben innanzi per le doti del corpo. Stando con loro non resterai certo indietro in nessuna delle doti che elevano alla perfetta felicità”. 
Inviò dunque Persèo e Filonide di Tebe, entrambi i quali Epicuro, nella ‘Lettera al fratello Aristobulo’, rammenta come sodali di Antigono. Mi è sembrato opportuno scrivere qui di seguito il decreto votato a suo riguardo dagli Ateniesi. [VII,10] Ecco il testo. 
‘Nel corso dell’Arcontato di Arrenide, quinta Pritania della tribù Acamantide, undicesimo giorno del mese Mematterione, ventitreesimo della Pritania, assemblea generale. Il Presidente Ippone, figlio di Cratistotele, del demo di Sipete, insieme con i copresidenti, mette ai voti. Trasone, figlio di Trasone, del demo di Anacea riferisce: 
“Siccome Zenone di Cizio, figlio di Mnasea, nel corso di molti anni e con continuità ha praticato la vita filosofica in questa città; sotto ogni riguardo è stato uomo dabbene; ha invitato alla virtù e alla temperanza quei giovani che procedevano da lui per una raccomandazione, e li ha incitati alle mete più nobili; ha esposto la propria vita come esempio per tutti, mantenendosi conseguente ai discorsi che faceva; [VII,11] con buona fortuna il popolo ha ritenuto opportuno di tributare pubblica lode a Zenone di Cizio, figlio di Mnasea; di incoronarlo con una corona d’oro, secondo la legge, per la sua virtù e la sua temperanza; di edificare per lui, a spese pubbliche, una tomba nel Ceramico”. Il popolo elegga per alzata di mano i cinque Ateniesi che avranno sollecitudine della fattura della corona e dell’edificazione della tomba. Il segretario del popolo faccia incidere il decreto votato su due stele ed abbia la potestà di collocarne una nell’Accademia e l’altra nel Liceo. Il funzionario del governo spartisca la spesa sostenuta per le stele affinché tutti sappiano che il popolo di Atene onora i buoni sia vivi che morti. [VII,12] Per l’edificazione della tomba e la fattura della corona sono stati eletti per alzata di mano: Trasone del demo di Anacea, Filocle del Pireo, Fedro di Anaflisto, Menone di Acarne, Micito di Sipaletto e Dione di Peania’. 
Questi sono i termini del decreto. 
Antigono di Caristo afferma che egli non negò mai di essere di Cizio. E quando fu uno dei conferitori di fondi per il restauro di un bagno pubblico, poiché sulla stele risultava iscritto come ‘Zenone filosofo’, sollecitò di addizionarvi ‘di Cizio’. Una volta fece un coperchio cavo alla fiaschetta che per consuetudine portava in giro, affinché il suo insegnante Cratete avesse pronta una soluzione per le sue necessità. [VII,13] Dicono pure che egli venisse in Grecia con più di mille talenti e che li prestasse a interesse contro garanzia della nave o del suo carico. Soleva mangiare piccoli pani, miele e bere un po’ di vinello aromatico. Raramente aveva rapporti con giovanetti, e una o forse due volte li ebbe con una giovanetta, tanto per non sembrare misogino. Coabitava con Persèo, e una volta che questi gli introdusse in casa una giovane suonatrice di flauto, tirò un sospiro e la menò da Persèo. Dicono che fosse facilmente compiacente, sicché il re Antigono sopraggiungeva da lui a far baldoria e insieme a lui andava a far baldoria dal citaredo Aristocle, seppure poi Zenone se la svignava. [VII,14] Si dice che Zenone avversasse la calca, sicché soleva sedere all’estremità del sedile, guadagnandosi così di dimezzare il disturbo. Non passeggiava mai in compagnia di più di due o tre persone. Talvolta si faceva pagare dai circostanti una moneta di bronzo sicché quelli, per non dargliela, toglievano il disturbo, come afferma Cleante nel suo libro ‘Sulla moneta di bronzo’. Quando poi i circostanti erano molti di più, Zenone mostrava all’estremità della Stoa il recinto ligneo dell’altare e diceva: “Un tempo questo altare giaceva nel mezzo della Stoa, ma poiché era d’intralcio fu posto in disparte. E così se voi vi toglierete di mezzo ci darete meno disturbo”. 
Quando Zenone udì Democare, figlio di Lachete, ossequiarlo mostrandosi dell’avviso che poteva dire o scrivere ad Antigono qualunque cosa di cui avesse bisogno, ed affermare che Antigono gli avrebbe procurato tutto ciò, non volle più passare del tempo in sua compagnia. [VII,15] Si racconta anche che, dopo la morte di Zenone, Antigono dicesse: “Quale teatro ho perduto!”. Laonde tramite Trasone, suo ambasciatore presso gli Ateniesi, chiese per lui la sepoltura nel Ceramico. E quando gli fu domandato perché ammirava Zenone, Antigono rispose: “Benché io gli avessi fatto molti e grandi doni, egli non ne invanì mai né mai fu visto farsi servile”. 
Era un ricercatore ed un esatto ragionatore su tutto, laonde Timone nei suoi ‘Silli’ dice così: 

‘E vidi una vecchiarda golosa fenicia, d’una vanità ombrosa, 
di tutto vogliosa; le colava il paniere <dei denti> perché piccolo, 
e aveva una mente da meno d’una parola insensata’.

[VII,16] Poneva poi grande solerzia nel misurarsi col dialettico Filone e condivideva con lui gli studi filosofici; onde Filone era ammirato da Zenone, più giovane di lui, non meno che dal suo insegnate Diodoro. Come anche Timone afferma, gli stavano d’attorno individui nudi e sozzi: 

‘Nel mentre aggregava un nugolo di gentaglia miserabile, di tutti quanti 
i più poveracci, e di quelli in città i mortali con la testa più leggera’.

Era cupo e amaro, coi lineamenti del viso contratti. Spendeva pochissimo e, col pretesto dell’economia, era di una spilorceria barbara. Qualora poi decidesse di fare la stroncatura di qualcuno, la faceva succintamente e senza dilungarsi, con distacco. [VII,17] Intendo, per esempio, ciò che egli disse una volta a proposito di un tale tutto imbellettato. Giacché costui si peritava ad oltrepassare un canaletto, egli disse: “Giustamente costui guarda con sospetto il fango, poiché non vi è modo di rispecchiarsi in esso”. Quando un certo Cinico, dopo avere detto che non aveva più olio nella sua fiaschetta, andò oltre e gliene chiese, Zenone gli rispose che non glielo avrebbe dato. Partendosene quello, Zenone gli intimò di analizzare chi dei due avesse minore rispetto di sé e degli altri. Mentre si trovava in uno stato di eccitazione sessuale per Cremonide, accanto al quale si era seduto assieme a Cleante, Zenone s’alzò in piedi. Ed a Cleante che ne rimase stupito disse: “Ascolto i buoni medici: il rimedio più possente per i nostri organi turgidi è quietarsi”. Durante un simposio, due convitati giacevano uno un po’ più in alto dell’altro; e quello accanto a Zenone infastidiva quello più in basso a colpi di piede. Allora Zenone gli diede una ginocchiata. Costui si rivoltò e Zenone gli disse: “Cosa credi che stia sperimentando quello che giace sotto di te?”. [VII,18] Di un tale che era amante di ragazzotti, Zenone diceva che né questi hanno buon senso né gli insegnanti che passano tutto il tempo in affari coi ragazzotti. Zenone era dell’avviso che i discorsi perfettamente rifiniti di coloro che parlano senza solecismi fossero simili alle monete Alessandrine d’argento: di magnifico aspetto e dai contorni netti come quelle monete, ma non per questo migliori di altri. Zenone assimilava invece le espressioni di genere opposto alle tetradracme Attiche tagliate alla buona e grossolanamente, e che però hanno spesso più peso delle espressioni calligrafate. Poiché il suo discepolo Aristone faceva molte volte discorsi sconci ed alcune volte pure in modo precipitoso e sfrontato, Zenone soleva dire: “È impossibile che tuo padre ti abbia generato se non quand’era ubriaco”. Laonde, essendo lui di poche parole, soprannominò Aristone ‘il garrulo’. 
[VII,19] Una volta che fu servito in tavola un grosso pesce, Zenone lo prese tal quale era e si mise a divorarlo. All’ingordo mangione che non lasciava mai nulla a coloro coi quali conviveva e che gli lanciava terribili sguardi, Zenone allora disse: “Cosa credi dunque che sperimentino i tuoi conviventi ogni giorno, se tu non sei capace di sopportare per una volta sola la mia ingordigia?”. Quando un adolescente gli prospettò interrogativamente un quesito troppo indiscreto per la sua età, Zenone lo fece appressare ad uno specchio e gli ingiunse di guardarvi dentro. Dopodiché gli domandò se gli sembrava che siffatti quesiti fossero acconci ad una vista siffatta. Un tale affermava di non gradire la maggior parte delle opere di Antistene. Allora Zenone gli fece menzione del trattatelo di Antistene su Sofocle e gli chiese se a suo parere esso contenesse anche qualcosa di buono. Poiché quel tale rispose di non saperlo, Zenone gli replicò: “Dunque, se qualcosa è stato detto male da Antistene tu non ti vergogni di selezionarlo e di rammentarlo, mentre se invece Antistene dice qualcosa di buono non progetti di rattenerlo?”. 
[VII,20] Poiché un tale asseriva che le argomentazioni logiche dei filosofi gli parevano stringate, Zenone gli rispose: “Tu dici il vero. E devono essere brevi, se possibile, anche le loro sillabe”. Quando un tale gli disse, a proposito di Polemone, che questi aveva proposto un argomento e poi invece aveva parlato d’altro, Zenone s’accigliò e gli chiese: “Ma quanto ti hanno soddisfatto le cose che ti sono state date?”. Zenone diceva che chi dialoga a tono deve, come fanno gli attori, tenere piena la voce e la sua forza senza però spalancare la bocca; il che invece fanno coloro che cianciano sostenendo molte cose che sono però impossibili. Come se fossero eccellenti opere artigianali, alle frasi ben tornite non bisogna lasciar spazio d’essere osservate con ammirazione. Al contrario, l’ascoltatore deve disporsi verso ciò che sente dire in modo da non avere neppure il tempo di prenderne nota. 
[VII,21] Se un giovanotto cianciava molto, soleva dirgli: “Le tue orecchie ti sono confluite nella lingua”. Al bel ragazzo il quale sosteneva che secondo lui il sapiente mai sarà un amante, Zenone diceva: “Infatti nulla mai sarà più meschino di voi, bei ragazzi”. Zenone soleva ripetere che la maggior parte dei filosofi è, quanto a molte cose, gente stolida; e, quanto a cose piccole e fortuite, gente incolta. E faceva menzione di quelle parole di Cafisia il quale, quando uno dei suoi discepoli s’applicò a suonare forte, lo bacchettò dicendogli che il bene non sta nel grande, ma che nel bene sta il grande. Se un giovanotto disquisiva con troppa sfrontatezza, Zenone gli diceva: “Giovincello, non oserei dirti quello che mi sta saltando in testa”. 
[VII,22] Deciso a non tollerare gli approcci di un giovanotto di Rodi, avvenente e facoltoso ma altrimenti una nullità, Zenone lo fece sedere in un primo tempo sui gradini pieni di polvere, così che si insudiciasse il mantellino, e poi nello spazio riservato ai poveracci, così che si strusciasse ai loro cenci. Finalmente il giovanotto se ne partì. Soleva asserire che la cosa di tutte meno confacente è la vanità, e soprattutto quella dei giovani. Non bisogna far diventare memorabili le voci e le parole. Bisogna invece che la mente si impegni circa la nostra disposizione della loro utilità, non come se si trattasse di un cibo già cotto e imbandito. Diceva che i giovani devono usare la massima compostezza nell’andatura, nei gesti e negli indumenti. Soleva di continuo proferire i versi di Euripide su Capaneo, la cui vita era tale che: 

‘Non si pavoneggiava affatto per la sua opulenza 
e non aveva disegni più grandiosi di quelli di un pover’uomo’.

[VII,23] Soleva dire che nulla è più estraneo all’apprensione delle scienze della presunzione, e che di nulla noi siamo così carenti come del tempo. Interrogato su cosa sia un amico, Zenone rispose: “Un altro io”. Si racconta che un servo veniva frustato per un furto. Il servo diceva: “Era mio destino rubare”. E Zenone a lui: “Anche essere scorticato”. Zenone chiamò ‘fiore’ l’avvenenza della voce; ma secondo altri chiamò ‘la voce’ fiore dell’avvenenza. Osservando che lo schiavetto di uno dei suoi conoscenti era coperto di lividi, gli disse: “Vedo le tracce del tuo rancore”. Ad un tale che si era frizionato con olio odoroso, Zenone chiese: “Chi è che puzza di donna?”. Quando Dionisio il Ritrattatore gli chiese perché correggesse tutti gli altri meno che lui soltanto, Zenone rispose: “Perché non ho fiducia in te”. Ad un adolescente chiacchierone, disse: “Per questo abbiamo due orecchie e una sola bocca: per ascoltare di più e parlare di meno”. 
[VII,24] Poiché durante un convito se ne giaceva reclinato in silenzio, gliene fu chiesta la causa. A chi gli faceva di ciò una colpa, Zenone disse allora di annunciare al re che era lì presente qualcuno che conosceva la scienza del tacere. Coloro che gli avevano posto la domanda erano ambasciatori giunti da parte di Tolomeo e che volevano apprendere cosa dovessero dire di lui al re. Quando gli fu domandato come si comportava davanti all’ingiuria, Zenone disse: “Proprio come quando un ambasciatore venisse inviato via senza risposta”. Apollonio di Tiro afferma che quando Cratete cercava di trascinarlo via da Stilpone tirandolo per il manto, Zenone disse: “O Cratete, la presa destra dei filosofi è quella che avviene attraverso le orecchie. Trascinami dunque per le orecchie, persuadendomi. Ma se mi usi violenza, il corpo sarà con te ma l’animo sarà con Stilpone”. 
[VII,25] Secondo quanto afferma Ippoboto, Zenone passò del tempo in compagnia di Diodoro e con lui si prodigò nello studio della dialettica. Aveva già fatto dei progressi quando entrò nel seguito di Polemone senza mostrare vanità alcuna; tanto che Polemone, secondo quanto raccontano, gli disse: “Non mi sfugge, o Zenone, che tu ti intrufoli qui dalle porte del giardino per rubarmi le dottrine e per riabbigliarle con vesti fenicie”. Al dialettico che gli mostrava come nel ragionamento del ‘Mietitore’ siano contenute sette forme elementari di dialettica, chiese quante dracme intendeva farsi pagare per compenso. E quando udì che egli ne voleva cento, gliene diede duecento; tanto era grande il suo amore per l’apprendimento. Dicono che Zenone sia stato il primo a introdurre nel linguaggio filosofico il nome di ‘doveroso’ e ad avere fatto un discorso a suo riguardo. Dicono anche che riscrivesse così i versi di Esiodo: 

‘Ottimo su tutti è colui che ubbidisce a chi bene parla 
e prode, a sua volta, è colui che da sé tutto capisce’.

[VII,26] Giacché chi è capace di ben ascoltare ciò che viene detto e di utilizzarlo, è migliore di colui che da se stesso di tutto si capacita. Infatti, propria di uno è soltanto l’intelligente comprensione mentre l’altro, ben ubbidendo, vi congiunge anche la pratica. 
Dicono poi che alla domanda sul perché, pur essendo austero, indulgesse nel bere, egli rispose: “Anche i lupini, pur essendo amari, s’addolciscono se bagnati”. Ecatone, nel secondo libro dei suoi ‘Detti sentenziosi’, afferma che in occasione di tali incontri di società egli attenuava la sua austerità. Zenone affermava che è meglio andare sul lubrico con i piedi che con la lingua. E anche che lo stare bene è per poco, ma è invero non poca cosa. [VII,Altri attribuiscono questo detto a Socrate]. 
Aveva una grandissima forza d’animo ed era frugalissimo. [VII,27] Mangiava cibi non cotti ed indossava un mantello piuttosto sottile, sicché di lui si diceva: 

‘Lui né l’inverno che agghiaccia, né un acquazzone senza fine, 
né la vampa del sole lo doma; non un’orripilante malattia, 
non una festa popolare. Egli invece, 
infaticabile, all’insegnamento notte e giorno sta teso’.

I poeti comici non si resero conto che con i loro scherni ne tessevano le lodi. È dove Filemone, nella sua commedia ‘I filosofi’, dice così: 

‘Un pane, per pietanza un fico secco, e berci sopra dell’acqua. 
Costui filosofa dunque una filosofia nuova: 
insegna ad avere fame eppure cattura discepoli’.

Secondo alcuni, però, questi versi sono di Poseidippo. 
Era ormai diventato una figura quasi proverbiale e pertanto, presolo a riferimento, si diceva di qualcuno che era 

‘più padrone di sé di Zenone il filosofo’.

Anche Poseidippo ne ‘I convertiti’ dice: 

‘Sicché nel giro di dieci giorni 
sembrava essere diventato più padrone di sé di Zenone il filosofo’.

[VII,28] E Zenone in realtà superava tutti per questo aspetto ed anche per solennità e, per Zeus, per beatitudine. Morì all’età di novantotto anni, dopo una vita trascorsa senza malattie e in salute. Nelle sue ‘Lezioni etiche’ Persèo afferma che egli morì all’età di settantadue anni e che era venuto ad Atene all’età di ventidue. Apollonio sostiene che fu Scolarca per cinquantotto anni. La sua morte avvenne così. Mentre andava via da scuola incespicò e si ruppe un dito. Batté allora la terra con la mano e pronunciò quel verso della ‘Niobe’: 

‘Vengo, perché mi chiami gridando?’

e, soffocato il grido, morì all’istante. 
[VII,29] Gli Ateniesi lo seppellirono nel Ceramico e lo onorarono secondo i decreti votati e già citati in precedenza, a testimonianza della sua virtù. Antipatro di Sidone compose per lui questo epitaffio: 

‘Qui giace il famoso Zenone, caro a Cizio, che un tempo all’Olimpo
 diede la scalata, senza sovrapporre il Pelio all’Ossa 
e senza compiere le fatiche di Eracle, ma che trovò 
nella sola virtù il sentiero per le stelle’.

[VII,30] Un altro lo compose lo Stoico Zenodoto, discepolo di Diogene di Babilonia: 

‘Messa da parte la vana e boriosa ricchezza di denaro, o Zenone, 
tu edificasti l’autosufficienza, tu solenne e dal canuto sopracciglio. 
Rinvenisti infatti una dottrina maschia; con sforzo e preveggenza 
fondasti una scuola, madre di intrepida libertà. Se la tua patria 
fu Fenicia, che iattura è questa? Non veniva di là anche il celebre Cadmo, 
dal quale l’Ellade ha in dono la pagina scritta?’

E riferendosi a tutti gli stoici in generale, l’epigrammatista Ateneo si esprime così: 

‘O esperti conoscitori dei discorsi stoici, o voi che avete riposto
 le più che ottime dottrine nelle sacre pagine dove s’afferma 
che la virtù è l’unico bene dell’animo, giacché essa soltanto 
preserva la vita degli uomini e le città. Invece è solo una 
delle figlie di Memoria, quella che porta a compimento il voluttuoso 
piacere della carne, che è l’ambìto scopo della vita per altri uomini’.

[VII,31] Come morì Zenone l’abbiamo detto anche noi nel ‘Pammetros’ con questi versi: 

‘Si racconta che Zenone di Cizio morì consunto dalla vecchiaia 
e che si sciolse dalla vita rimanendo digiuno. 
Altri dicono che una volta inciampò e che batté la terra 
con la mano dicendo: vengo da solo, perché mi chiami?’

Infatti taluni affermano che egli morì in questo modo. 
Circa la sua morte questo si narra. 
Nei suoi ‘Omonimi’, Demetrio di Magnesia afferma che il padre Mnasea, in quanto mercante, veniva spesso ad Atene e che portava a Zenone, ancora ragazzo, molti libri di filosofia Socratica; [VII,32] ragion per cui egli era già stato forgiato a queste dottrine quand’era ancora nella sua patria. Poi, quando venne ad Atene, ebbe l’incontro con Cratete. Sembra anche, afferma Demetrio, che sia stato lui a definire il ‘sommo bene’, mentre altri andavano errando qua e là tra varie dichiarazioni. Dicono che solesse giurare ‘sul cappero’, proprio come Socrate ‘sul cane’. Alcuni poi, tra i quali i discepoli di Cassio lo Scettico, accusano Zenone per molte sue affermazioni. In primo luogo perché, all’inizio della sua ‘Repubblica’, egli dichiara improficua l’educazione enciclopedica; in secondo luogo perché afferma che tutti coloro che non sono virtuosi sono nemici personali, nemici di guerra, servi, estranei gli uni agli altri; e che lo sono anche i genitori dei figli, i fratelli dei fratelli, i familiari dei familiari. 
[VII,33] E di nuovo, ne ‘La repubblica’ Zenone fa riscontrare che cittadini e amici e familiari e liberi sono soltanto gli uomini virtuosi; sicché per gli Stoici i genitori e i figli, quando non sono saggi, sono nemici. Alcuni rimproverano Zenone perché egli, similmente <a Platone>, nella ‘Repubblica’ mostra di giudicare che le donne debbano essere comuni; di giudicare, per duecento righe, che non si debbano edificare nelle città sacrari, tribunali e ginnasi; e di avere scritto così circa la moneta: “Bisogna pensare di battere moneta né a scopo di cambio né di viaggi all’estero”. Inoltre egli intima che uomini e donne usino il medesimo vestito e che nessun pezzo del corpo debba essere tenuto celato. [VII,34] Che la ‘Repubblica’ sia di Zenone lo afferma anche Crisippo nel suo libro ‘Sulla repubblica’. Zenone ha disquisito sulle faccende erotiche all’inizio della sua opera intitolata ‘Arte amatoria’; ma anche nelle sue ‘Diatribe’ scrive cose similari. Critiche del predetto tenore gli sono rivolte da Cassio ma anche dal retore Isidoro di Pergamo, il quale afferma che alcuni passi ritenuti impropri dagli Stoici furono espunti ad opera dello stoico Atenodoro, quando gli fu affidata la direzione della Biblioteca di Pergamo. Successivamente, queste passi furono reinseriti quando Atenodoro fu colto in flagrante e corse il rischio di essere processato. E questo è quanto a proposito dei suoi passi spuri. 
[VII,35] Ci sono stati otto Zenone. Il primo è Zenone di Elea, del quale diremo. Il secondo è quello di cui stiamo parlando. Il terzo è Zenone di Rodi, che scrisse una storia patria in un solo libro. Il quarto è uno storico che scrisse le vicende della spedizione di Pirro contro l’Italia e la Sicilia, ma anche un’epitome di storia politica dei Romani e dei Cartaginesi. Il quinto fu un discepolo di Crisippo, che scrisse pochi libri ma lasciò dietro di sé moltissimi discepoli. Il sesto un medico della scuola di Erofilo, forte pensatore ma debole scrittore. Il settimo fu un grammatico di cui, oltre ad altri scritti, si ricordano degli epigrammi. L’ottavo fu uno Zenone originario di Sidone, filosofo Epicureo, perspicuo nel pensiero e nella sua espressione. 
[VII,36] I discepoli di Zenone furono numerosi, e tra i più accreditati vi fu Persèo di Cizio, figlio di Demetrio. Secondo alcuni Persèo era un suo conoscente, secondo altri uno dei domestici mandatigli da Antigono in funzione di scrivano e che era precettore del figlio di Antigono, Alcioneo. Una volta Antigono, deciso a metterlo alla prova, fece in modo che gli fosse data la notizia fittizia che i suoi poderi gli erano stati sottratti dai nemici. E poiché Persèo s’accigliò, Antigono gli disse: “Lo vedi che la ricchezza non è un indifferente?”. 
Gli si attribuiscono questi libri: 
‘Sul regno’, ‘La costituzione di Sparta’, ‘Sul matrimonio’, ‘Sull’empietà’, ‘Tieste’, ‘Sugli amori’, ‘Discorsi protrettici’, ‘Diatribe’, ‘Detti sentenziosi (4 libri)’, ‘Detti memorabili’, ‘Contro ‘Le leggi’ di Platone (7 libri)’. 
[VII,37] Aristone di Chio, figlio di Milziade, quello che introdusse il concetto di ‘indifferente’. Erillo di Calcedonia, quello che affermò come sommo bene la ‘scienza’. Dionisio il Ritrattatore, quello che affermò come sommo bene il piacere fisico; giacché, a causa di una fortissima oftalmia si peritò a chiamare ancora ‘indifferente’ il dolore fisico. Dionisio era di Eraclea. Sfero del Bosforo. Cleante di Asso, figlio di Fania, il successore di Zenone alla guida della Scuola; quello che era assimilato alle tavolette per scrivere ricoperte di cera dura, sulle quali si scrive appena appena ma che serbano a dovere gli scritti. Dopo la morte di Zenone, Sfero del Bosforo fu discepolo di Cleante, e parleremo di lui nel capitolo su Cleante. [VII,38] Secondo Ippoboto erano discepoli di Zenone anche i seguenti: Filonide di Tebe, Callippo di Corinto, Posidonio di Alessandria, Atenodoro di Soli e Zenone di Sidone. Di tutte le dottrine stoiche in generale ho reputato opportuno parlare in questa ‘Vita di Zenone’, poiché egli fu il fondatore di questa scuola. Suoi sono dunque i molti libri citati in precedenza, nei quali ha parlato come nessuno degli Stoici. Le dottrine generali sono quelle che seguono, e siano esposte per sommi capi, come sono solito fare anche per altri filosofi. 
[VII,39] Gli Stoici affermano che la ragione insita nel cosmo è, secondo filosofia, tripartita. Una sua parte, infatti, è qualcosa di fisico, un’altra di etico e un’altra di logico. Così per primo la suddivisero Zenone di Cizio nel suo libro ‘Sulla ragione’; Crisippo nel primo libro ‘Sulla ragione’ e nel primo libro della ‘Fisica’; Apollodoro l’Efillo nel primo libro delle ‘Introduzioni ai principi’; Eudromo nel ‘Trattato elementare di Etica’; Diogene di Babilonia e Posidonio. 
Apollodoro chiama queste parti ‘ambiti’, Crisippo ed Eudromo le chiamano ‘specie’, altri le chiamano ‘generi’. [VII,40] Gli Stoici fanno rassomigliare la filosofia ad un animale, assimilando la logica alle ossa e ai tendini, l’etica alle parti più carnose e la fisica all’animo. Oppure la fanno rassomigliare ad un uovo: la logica è il guscio dell’uovo, l’etica è la parte intermedia e la fisica è la parte più interna. Oppure la fanno rassomigliare ad un campo ferace: la logica è lo steccato di recinzione, l’etica è il frutto e la fisica è la terra e gli alberi. Oppure la fanno rassomigliare ad una città ben fortificata e governata secondo ragione. Nessuna delle tre parti della filosofia è separata dalle altre, come pure affermano alcuni di loro. Esse sono invece intimamente mescolate e gli Stoici ne facevano la trasmissione mista. Altri invece posizionano per prima la logica, per seconda la fisica e per terza l’etica. Tra questi vi sono Zenone, nel suo libro ‘Sulla ragione’, Crisippo, Archedemo ed Eudromo. 
[VII,41] Diogene di Tolemaide, invece, comincia dall’Etica; Apollodoro posiziona l’Etica per seconda; mentre Panezio e Posidonio cominciano dalla Fisica, secondo quanto afferma Fania, discepolo di Posidonio, nel primo libro delle ‘Lezioni di Posidonio’. Cleante afferma che le parti della filosofia sono sei: dialettica, retorica, etica, politica, fisica, teologia. Altri però, come Zenone di Tarso, affermano che queste non sono parti della ragione insita nel cosmo ma della filosofia come tale. Taluni affermano che la parte logica della filosofia si suddivide in due scienze: la retorica e la dialettica. Alcuni aggiungono a queste due anche la scienza concernente specificamente le definizioni e quella concernente i canoni e i criteri, mentre taluni invece eliminano la scienza che concerne le definizioni. 
[VII,42] La scienza che concerne i canoni e i criteri essi la assumono quale mezzo per trovare la verità, giacché destinano ad essa l’analisi delle differenze tra le rappresentazioni. Anche quella che concerne specificamente le definizioni è similmente indirizzata al riconoscimento della verità, giacché è attraverso i concetti che si comprendono le cose come sono. La retorica è la scienza del parlare forbito su argomenti minuziosamente esposti. La dialettica è la scienza del dialogare rettamente quando il discorso consiste di domande e risposte. Essi definiscono pertanto la dialettica anche in questo modo: scienza delle affermazioni vere, di quelle false e di quelle né vere né false. 
Essi dicono poi che la retorica stessa è tripartita. Infatti, una sua parte è deliberativa, un’altra giudiziaria e un’altra encomiastica. 
[VII,43] Essa si suddivide in: invenzione dell’argomento, tono espressivo, disposizione dei concetti, recitazione. Il discorso retorico si suddivide a sua volta in: proemio, narrazione, replica agli avversari in giudizio, epilogo. 
La dialettica si suddivide in due ambiti di ricerca: quello dei significati e quello del linguaggio. Quello dei significati si divide in quello delle rappresentazioni e degli esprimibili a queste sottostanti, che sono proposizioni complete, predicati e simili, forme verbali attive e passive, generi e specie, e similmente parole, tropi, sillogismi, sofismi contro la lingua o le cose come sono. [VII,44] A questi sofismi appartengono i ragionamenti chiamati il mentitore, il veritiero, il negante, il sorite; e altri simili a questi chiamati il mancante, l’insolubile, il concludente, il velato, il cornuto, il nessuno, il mietitore. 
Ambito proprio della dialettica è anche quello già detto e che concerne il linguaggio come tale. In quest’ambito si mostra rientrare l’esame della lingua scritta e di quelle che sono le parti del discorso. Inoltre vi si discute del solecismo, del barbarismo, della dizione poetica, delle anfibolie, del linguaggio eufonico, della musicalità, delle definizioni e, secondo alcuni, delle suddivisioni e delle espressioni. 
[VII,45] Gli Stoici affermano che la conoscenza dei principi generali dei sillogismi è estremamente utile giacché ci rende palese il metodo dimostrativo, il quale molto contribuisce alla rettificazione dei giudizi, alla loro corretta disposizione e al loro ricordo, che quindi diventano salda comprensione. 
Il ragionamento è di per sé un insieme formato da assunti e da una conclusione logica. Il sillogismo è un ragionamento deduttivo formale articolato a partire da questi elementi. La dimostrazione è un ragionamento che mediante concetti più saldamente afferrati giunge a fare chiarezza su un concetto meno saldamente afferrato. 
La rappresentazione è un’impronta nell’animo. Il nome ‘impronta’ è una metafora appropriata, presa dall’impronta lasciata nella cera da un anello con sigillo. [VII,46] La rappresentazione può essere catalettica o acatalettica. La rappresentazione catalettica, che gli Stoici affermano essere criterio di verità delle cose come sono, è quella che nasce da un oggetto esistente e che è stata suggellata e ben ricalcata in conformità all’esistente stesso. La rappresentazione acatalettica è quella che nasce dal non esistente, oppure da un oggetto esistente ma non in conformità all’esistente stesso e pertanto essa è né nitida né modellata in rilievo. 
Essi affermano che la dialettica è necessaria, e che è essa stessa una virtù inclusiva di altre virtù specifiche. La non-precipitosità è scienza del quando si deve e del quando non si deve assentire. La non-avventatezza è una ragione potente contro ciò che appare verosimile, così da non cedergli. [VII,47] L’irrefragabilità è la potenza nel ragionamento, così da non esserne fuorviati verso il partito opposto. La non-mattìa è la postura dell’animo che riferisce le rappresentazioni alla retta ragione. E chiamano la scienza stessa o apprensione sicura oppure postura dell’animo la cui immutabilità, nell’accettazione delle rappresentazioni, è a prova di ragionamento. Senza la teoria dialettica il sapiente non sarà incrollabile nel ragionamento, giacché la dialettica vaglia il vero dal falso; e ciò ch’è persuasivo sarà ben distinto da ciò ch’è detto in modo ambiguo. Sprovvisti della dialettica, non è inoltre possibile formulare con metodo domande e risposte. 
[VII,48] La precipitazione nelle dichiarazioni si prolunga anche negli avvenimenti che accadono, sicché coloro le cui rappresentazioni non sono ben allenate si volgono alla scompostezza e all’avventatezza. Il sapiente, invece, non apparirà altrimenti che acuto, perspicace e assolutamente valente nei ragionamenti, giacché è proprio del sapiente il dialogare e il meditare rettamente; il saper mantenere il dialogo entro gli argomenti proposti e il rispondere alle domande che sono formulate: il che è proprio dell’uomo esperto di dialettica. 
Nell’ambito della logica questo è per sommi capi ciò che pensano gli Stoici. Per esporre anche nei particolari le dottrine logiche che essi fanno rientrare in un’opera introduttiva, cito parola per parola quelle di Diocle di Magnesia nel suo ‘Breve sommario dei filosofi’. Egli dice così: 
[VII,49] ‘La scelta di mettere in prima posizione il discorso sulla rappresentazione e sulla sensazione ha il beneplacito degli Stoici, perché il criterio grazie al quale si riconosce la verità delle cose come sono è generalmente una rappresentazione; e perché il discorso sull’assenso, sull’apprensione certa e sull’intellezione, che ha la precedenza sugli altri, non sussiste in mancanza di rappresentazione. In prima istanza viene infatti la rappresentazione; dopo di che l’intelletto, in quanto atto alla produzione di enunciati, enuncia in forma discorsiva ciò che sperimenta ad opera della rappresentazione’. 
[VII,50] Vi è differenza tra una rappresentazione e un fantasma. Un fantasma è infatti una parvenza bizzarra che occupa l’intelletto, del tipo di quelle che nascono nei sogni; mentre la rappresentazione è invece un’impronta nell’animo, cioè un cambiamento, come sostiene Crisippo nel secondo libro ‘Sull’animo’. Non si deve però accogliere l’idea che l’impronta sia come la traccia di un sigillo, giacché è inaccoglibile l’idea che vi siano molte tracce contemporaneamente nel medesimo luogo. S’intende per ‘rappresentazione’ quella che nasce da un oggetto esistente, che è stata ben ricalcata, ben modellata e sigillata in conformità all’esistente, e che non potrebbe nascere da un oggetto inesistente. 
[VII,51] Secondo gli Stoici, alcune delle rappresentazioni sono sensibili, altre no. Sensibili sono le rappresentazioni che prendono avvio da uno o più organi di senso; non sensibili quelle che si hanno attraverso l’intelletto, come quelle degli incorporei e quelle che prendono avvio da un ragionamento. Alcune delle rappresentazioni sensibili nascono da oggetti esistenti e sono accompagnate da cedimento ed assenso, ma vi sono anche delle rappresentazioni che sono miraggi e che nascono come se nascessero da oggetti esistenti. 
Inoltre, alcune rappresentazioni sono razionali, altre irrazionali. Razionali sono le rappresentazioni degli animali razionali; irrazionali quelle dei bruti. Le rappresentazioni razionali sono intellezioni, quelle irrazionali non hanno sortito un nome. E poi alcune rappresentazioni sono artistiche, altre non artistiche: dunque una figura è vista in un modo da un artista e in un altro modo da chi è imperito nell’arte. 
[VII,52] Gli Stoici chiamano ‘sensazione’ lo pneuma che partendo dall’egemonico pervade i sensi; l’apprensione che avviene attraverso di essi; e anche l’apparato degli organi di senso, del quale alcuni sono storpi. La sensazione è anche chiamata attività degli organi di senso. Secondo loro la nostra apprensione del bianco e del nero, del ruvido e del liscio avviene attraverso la sensazione; mentre è attraverso la ragione che noi abbiamo l’apprensione delle deduzioni di una dimostrazione, come quella che gli dei esistono e che sono provvidenti. Delle cose delle quali si ha cognizione, di alcune si ha cognizione per impatto, di alcune per somiglianza, di alcune per analogia, di alcune per trasposizione, di alcune per composizione, di alcune per contrasto. 
[VII,53] Gli oggetti sensibili vengono dunque in nostra cognizione per impatto; quelli che lo vengono a partire da qualcosa che è loro affine, come Socrate a partire dalla sua raffigurazione, vengono in nostra cognizione per rassomiglianza. Si può venire in cognizione di qualcosa per analogia in senso accrescitivo, come nel caso di Tizio o di un Ciclope; oppure in senso diminutivo, come nel caso di un Pigmeo. E anche il centro della terra è stato pensato per analogia con delle sfere più piccole. Per trasposizione: ad esempio, gli occhi sul petto. Per composizione è stato pensato l’ippocentauro. Per opposizione: la morte. Inoltre alcune cose, come gli esprimibili e lo spazio, vengono in nostra cognizione per transizione logica. Di ‘giusto’ e di ‘bene’ si ha cognizione naturalmente. Si hanno anche cognizioni per privazione: per esempio, quella di ‘monco’. Queste sono le dottrine stoiche sulla rappresentazione, sulla sensazione e sull’intellezione. 
[VII,54] Gli Stoici affermano che criterio della verità è la rappresentazione catalettica, cioè quella del realmente esistente, come dicono Crisippo nel secondo libro della ‘Fisica’, Antipatro e Apollodoro. Boeto ammette più criteri di verità: mente, sensazione, desiderio e scienza. Invece Crisippo, nel primo libro ‘Sulla ragione’ si differenzia da lui ed afferma che i criteri di verità sono la sensazione e la prolessi. La prolessi è un concetto naturale degli universali. Alcuni altri degli Stoici più antichi riservano invece la funzione di criterio di verità alla retta ragione, come afferma Posidonio nel suo libro ‘Sul criterio’. 
[VII,55] La maggioranza di essi è concorde nel ritenere opportuno che la discussione della teoria dialettica prenda avvio dal tema della voce. La voce è aria percossa o l’oggetto sensibile percepito propriamente dall’udito, come afferma Diogene di Babilonia nella sua opera ‘Sulla voce’. La voce di un animale è aria percossa per impulso; mentre quella dell’uomo è articolata e, come afferma Diogene, scaturisce dall’intelletto, il quale giunge a perfezione all’età di quattordici anni. Secondo gli Stoici la voce è corpo, come affermano Archedemo nel suo libro ‘Sulla voce’, Diogene, Antipatro e Crisippo nel secondo libro della ‘Fisica’. [VII,56] Infatti, tutto ciò che fa un’azione è corpo; e la voce fa un’azione quando s’avvicina da chi parla a chi ascolta. Per gli Stoici, come afferma Diogene, ‘parola’ è una voce espressa con lettere dell’alfabeto: per esempio, ‘giorno’; ‘discorso’ è una voce dotata di significato e che scaturisce dall’intelletto: per esempio, ‘è giorno’; ‘dialetto’ è una parola che è stata coniata da una delle etnie greche, oppure una parola di un certa zona, cioè varia secondo il dialetto: per esempio, in Attica <il mare> è ‘thàlatta’ <e non ‘thàlassa’>, mentre in Ionia <il giorno> è ‘iméri’ <e non ‘iméra’>. 
Elementi della parola sono le ventiquattro lettere dell’alfabeto. Quella dell’alfabeto si dice ‘lettera’ in triplice senso: in quanto elemento, in quanto carattere scritto dell’elemento, in quanto nome dello stesso: per esempio, ‘alfa’. [VII,57] Sette delle lettere sono vocali: alfa, epsilon, eta, iota, omicron, ipsilon, omega. Sei sono lettere mute: beta, gamma, delta, pi, cappa, tau. Vi è differenza tra ‘voce’ e ‘parola’, in quanto la ‘voce’ è semplice suono mentre ‘parola’ è soltanto ciò ch’è articolato in lettere. Vi è differenza anche tra ‘parola’ e ‘discorso’, in quanto il discorso è sempre dotato di significato. Mentre la parola è anche priva di significato, come la parola ‘blìtiri’ ; il discorso, invece, non è mai insignificante. Vi è differenza anche tra ‘dire’ e ‘proferire’, in quanto si proferiscono le voci, ma si dicono le cose come sono; almeno quelle, caso mai, che sono esprimibili. 
Come afferma Diogene nella sua opera ‘Sulla voce’ e come afferma anche Crisippo, le parti del discorso sono cinque: nome, appellativo, verbo, congiunzione, articolo. Nei suoi libri ‘Sull’elocuzione e sui detti’ Antipatro appone anche una parte ‘media’. 
[VII,58] Secondo Diogene, ‘appellativo’ è quella parte del discorso che significa una qualità comune: per esempio, ‘essere umano’, ‘cavallo’; ‘nome’ è la parte del discorso che manifesta una qualità propria: per esempio, ‘Diogene’, ‘Socrate’; ‘verbo’ è la parte del discorso che significa, secondo Diogene, un predicato non composto ad altro oppure, secondo alcuni, un elemento indeclinabile del discorso significante qualcosa che può essere coordinato ad uno o più soggetti: per esempio, ‘scrivo’, ‘dico’; ‘congiunzione’ è una parte indeclinabile del discorso che ne collega le parti; ‘articolo’ è un elemento declinabile del discorso che contraddistingue i generi dei nomi e i loro numeri: così, ‘o’‘i’‘to’‘oi’‘ai’‘ta’
59] Le eccellenze del discorso sono cinque: ellenismo, chiarezza, concisione, confacenza, strutturazione formale. L’ellenismo è il modo d’esprimersi esente da errori in una consuetudine di scrittura artisticamente sorvegliata e non avventata; la chiarezza è l’elocuzione che espone il pensiero in modo comprensibile; la concisione è l’elocuzione che include solo le parole strettamente necessarie alla presentazione del fatto; la confacenza è l’elocuzione attinente al fatto; la strutturazione formale è l’elocuzione che rifugge l’idiotismo. Il barbarismo è, tra i difetti, l’elocuzione contraria alle usanze degli scrittori greci di chiara fama. Il solecismo è il discorso coordinato in modo non consono. 
[VII,60] L’elocuzione poetica, come afferma Posidonio nella sua ‘Introduzione all’elocuzione’ è un’elocuzione in versi o ritmata, avente cioè una struttura che va al di là della forma discorsiva. Elocuzione ritmata è la seguente:

‘O terra immensa ed etere di Zeus’

L’elocuzione poetica dotata di significato in quanto ritrae delle faccende divine e umane è poesia. 
La definizione, come afferma Antipatro nel primo libro ‘Sulle definizioni’, è un discorso enunciato in modo esattamente corrispondente all’analisi oppure, come afferma Crisippo nel suo libro ‘Sulle definizioni’ è la restituzione in forma discorsiva della cosa stessa. La delineazione è un discorso che introduce sommariamente alla faccenda in oggetto, oppure un discorso che porta in sé ed esprime in modo semplificato la facoltà propria della definizione. Il ‘genere’ è la sintesi di più concettualizzazioni inscindibili una dall’altra: per esempio, ‘animale’. Infatti questo ‘genere’ abbraccia tutte le specie particolari di animali. 
[VII,61] La ‘concettualizzazione’ è una produzione fantasmatica dell’intelletto, la quale è né un ‘qualcosa’ né una ‘qualità’, ma è come se fosse un ‘qualcosa’ e una ‘qualità’, al modo per cui nasce l’impressione di un cavallo anche se il cavallo non c’è. 
La ‘specie’ è ciò ch’è incluso nel genere, come l’essere umano è incluso nel genere animale. Genere in senso generalissimo è ciò che, essendo genere, non ha però genere sopra di sé: come ‘l’essere’. Specie in senso specificissimo è ciò che, essendo specie, non ha però specie sotto di sé: come, per esempio, ‘Socrate’. 
‘Diairesi’ è il taglio di un genere nelle specie contigue: per esempio, ‘degli animali alcuni sono razionali, altri bruti’. ‘Antidiairesi’ è il taglio di un genere in una specie attraverso il suo opposto, come se ne fosse una negazione: per esempio, ‘degli esseri alcuni sono buoni, altri non buoni’. ‘Subdiairesi’ è la diairesi di una diairesi: per esempio, ‘degli esseri alcuni sono buoni, altri non buoni; degli esseri non buoni alcuni sono cattivi, altri sono indifferenti’. 
[VII,62] ‘Partizione’ è l’assegnamento di un genere in ambiti diversi, come dice Crini: per esempio, ‘Dei beni alcuni sono beni dell’animo, altri sono beni del corpo’. 
L’ ‘ambiguità’ si ha quando una parola può significare in modo esprimibile, principale e in armonia con l’usanza, due o più cose come sono; sicché noi possiamo aspettarci contemporaneamente più significati della stessa parola: per esempio, ‘auletrìs <péptoke>’. Infatti, la stessa parola ‘auletrìs’ può significare ‘il cortile per tre volte <è caduto>’ oppure ‘la flautista <è caduta>’. 
La dialettica, come afferma Posidonio, è scienza del vero, del falso e di ciò ch’è né l’uno né l’altro. Essa è anche, come afferma Crisippo, scienza dei significanti e dei significati. Questo è quel dicono gli Stoici circa la teoria del linguaggio. 
[VII,63] Nell’ambito delle cose come tali e dei significati sono posizionate la dottrina degli esprimibili, delle proposizioni complete e dei sillogismi, oltre a quella degli esprimibili ellittici, dei predicati e delle forme verbali attive e passive. 
Gli Stoici affermano che ‘esprimibile’ è ciò che si sostanzia secondo una rappresentazione logica. Essi dicono poi che alcuni esprimibili sono completi, mentre altri sono ellittici. Ellittici sono quegli esprimibili la cui enunciazione è incompleta: per esempio, ‘Scrive’. E infatti noi cerchiamo di sapere: ‘Chi?’. Completi sono invece gli esprimibili la cui enunciazione è compiuta: per esempio, ‘Socrate scrive’. I predicati sono posizionati tra gli esprimibili ellittici. Tra quelli completi, invece, sono posti le proposizioni, i sillogismi, le domande e i quesiti. 
[VII,64] Il predicato è ciò che si ‘predica’ di qualcosa; oppure, come affermano i seguaci di Apollodoro, una faccenda coordinata ad una o più cose; oppure ancora un esprimibile ellittico coordinato al caso retto per la genesi di una proposizione. Dei predicati, alcuni sono intransitivi: per esempio, ‘navigare fra gli scogli’. Alcuni dei predicati sono attivi, altri sono passivi, altri ancora sono né attivi né passivi. Predicati attivi sono quelli coordinati ad uno dei casi obliqui per la genesi di una proposizione: per esempio, ‘ascolta’, ‘vede’, ‘dialoga’. Predicati passivi sono quelli coordinati e con la desinenza passiva: per esempio, ‘sono ascoltato’, ‘sono visto’. Né attivi né passivi sono i predicati formati in nessuno di questi due modi: per esempio, ‘pensa’, ‘passeggia’. Riflessivi sono, tra i passivi, quei predicati che hanno forma passiva ma esprimono un’operazione attiva: per esempio, ‘si taglia i capelli’. [VII,65] Chi si taglia i capelli, infatti, coinvolge se stesso in un’azione. I casi obliqui sono il genitivo, il dativo e l’accusativo. 
La proposizione è ciò ch’è vero o falso, oppure una faccenda completa e asseribile di per se stessa, come afferma Crisippo nelle ‘Definizioni dialettiche’: ‘La proposizione è ciò ch’è asseribile o negabile di per se stesso: per esempio, ‘È giorno’ o ‘Dione passeggia’. La proposizione (‘axìoma’) ha preso questo nome perché può essere accettata (‘axioùsthai’) oppure rigettata. Infatti, chi dice ‘È giorno’, appare accettare che sia giorno. Se pertanto è giorno, la proposizione proposta è vera; se invece non è giorno, è falsa. [VII,66] Vi è differenza tra proposizione, domanda, interrogazione, imperativo, giuramento, imprecazione, ipotesi, appellativo e simil-proposizione. Una proposizione è ciò che noi dichiariamo parlando e che è vero o falso. La domanda è un enunciato in sé completo come una proposizione, ma che richiede una risposta: per esempio, ‘È giorno?’. La domanda è né vera né falsa; sicché mentre ‘È giorno’ è una proposizione, lo ‘È giorno?’ è una domanda. Il quesito è un enunciato al quale non è possibile rispondere in modo simbolico, come nel caso della domanda, con un ‘Sì’; ma bisogna dire qualcosa del tipo ‘Abita in questo luogo’. 
[VII,67] Imperativo è un enunciato dicendo il quale noi ingiungiamo qualcosa: per esempio,

‘E tu incedi alle correnti dell’Inaco’

Il giuramento [VII,….] <Appellativo> è un enunciato dicendo il quale uno darebbe un appellativo: per esempio,

‘Gloriosissimo Atride, Agamennone signore di uomini’

Simil-proposizione è qualcosa simile, per enunciazione, ad una proposizione; ma che per il pleonasmo o la pateticità di una sua parte cade al di fuori del genere delle proposizioni: per esempio,

‘Bello davvero il Partenone!’

‘Quant’è simile ai figli di Priamo il bifolco!’

[VII,68] C’è anche una forma di espressione dubitativa che è diversa da una proposizione, e pronunciando la quale uno mostrerebbe di essere nell’incertezza: 

‘Vita e afflizione sono dunque cose congeneri?’

La domanda, i quesiti e tutto ciò ch’è ad essi similare sono né veri né falsi; le proposizioni, invece, sono o vere o false. 
Delle proposizioni, alcune sono semplici mentre altre sono non semplici, come affermano i seguaci di Crisippo, di Archedemo, di Atenodoro, di Antipatro e di Crini. Semplici sono quelle che consistono di una proposizione univoca: per esempio, ‘È giorno’. Non semplici sono gli enunciati che consistono di una proposizione equivoca o di più proposizioni. [VII,69] Di un’unica proposizione equivoca: per esempio, ‘Se è giorno’. Di più proposizioni: per esempio, ‘Se è giorno, c’è luce’. 
Tra le proposizioni semplici ci sono la proposizione negativa, la negante, la privativa, la predicativa, la determinativa e l’indefinita. Tra le proposizioni non semplici vi sono la proposizione ipotetica, quella temporale, il periodo coordinato, la proposizione disgiuntiva, quella causale e quella che dà indicazioni più o meno. Proposizione negativa è, per esempio, ‘Non è giorno’. Una specie di negativa è la proposizione ipernegativa. L’ipernegativa è la negazione di una negazione: per esempio, ‘Non è non giorno’. Ciò dispone che: ‘È giorno’. 
[VII,70] Negante è la proposizione che consiste di un termine negante e di un predicato: per esempio, ‘Nessuno passeggia’. Privativa è quella che consiste di un termine privativo e di una proposizione secondo il possibile: per esempio, ‘Costui è inumano’. Predicativa è quella che consiste di un soggetto in caso retto e di un predicato: per esempio, ‘Dione passeggia’. Determinativa è quella che consiste di un dimostrativo in caso retto e di un predicato: per esempio, ‘Costui passeggia’. Indefinita è quella che consiste di uno o più termini indefiniti e di un predicato: per esempio, ‘Qualcuno passeggia’, ‘Quello si muove’. 
[VII,71] Delle proposizioni non semplici, come affermano Crisippo nelle ‘Definizioni dialettiche’ e Diogene nella sua opera ‘L’arte della dialettica’, la proposizione ipotetica è quella che sussiste per la presenza della congiunzione ipotetica ‘se’. Questa congiunzione preannuncia che al primo enunciato ne segue un secondo: per esempio, ‘se è giorno, c’è luce’. In un enunciato che consta di una proposizione iniziale e di una finale, la proposizione causale-temporale, come afferma Crini nella sua ‘Arte dialettica’, è quella introdotta dalla congiunzione ‘poiché’: per esempio, ‘Poiché è giorno, c’è luce’. La congiunzione preannuncia che alla prima proposizione segue la seconda e che la prima regge la seconda. [VII,72] La proposizione copulativamente coordinata è quella coordinata da congiunzioni copulative: per esempio, ‘Ed è giorno e c’è luce’. La proposizione disgiuntiva è quella disgiunta dalla congiunzione disgiuntiva ‘o’: per esempio, ‘O è giorno o è notte’. Questa congiunzione preannuncia che una delle due proposizioni è falsa. La proposizione causale-formale è quella composta mediante la congiunzione ‘perché’: per esempio, ‘Perché è giorno, c’è luce’. Infatti, è quasi come se la prima proposizione fosse causa della seconda. La proposizione chiarificativa di maggioranza è quella composta dalla congiunzione chiarificativa di maggioranza ‘più’ e dal ‘che’ posizionato in mezzo alle proposizioni: per esempio, ‘È più giorno che notte’. [VII,73] La proposizione chiarificativa di minoranza è la proposizione opposta alla precedente: per esempio, ‘È meno notte che giorno’. Inoltre, alcune proposizioni si contrappongono una all’altra come sono contrapposte verità e falsità, essendo una la negazione dell’altra: per esempio, ‘È giorno’ e ‘Non è giorno’. Pertanto, è vero quel periodo ipotetico in cui la proposizione che è il contrapposto dell’apodosi contraddice la protasi. Prendiamo come esempio il periodo ipotetico ‘Se è giorno, c’è luce’. Questo periodo ipotetico è vero giacché la proposizione ‘Non c’è luce’, la quale è il contrapposto dell’apodosi, contraddice la protasi ‘È giorno’. È falso quel periodo ipotetico in cui la proposizione che è il contrapposto dell’apodosi non contraddice la protasi: per esempio, ‘Se è giorno, Dione passeggia’. Infatti la proposizione ‘Dione non passeggia’ non contraddice la proposizione ‘È giorno’. 
[VII,74] Enunciato causale-temporale vero è quello che comincia con una proposizione vera e conclude in modo conseguente: per esempio, ‘Poiché è giorno, c’è il sole sulla terra’. Enunciato causale-temporale falso è invece quello che comincia con una proposizione falsa oppure che conclude in modo inconseguente: per esempio, ‘Poiché è notte, Dione passeggia’ qualora ciò sia detto mentre è pieno giorno. Enunciato causale-formale vero è quello che comincia con una premessa vera e conclude in modo conseguente, essendo chiaro che la premessa non consegue a sua volta dalla conclusione: per esempio, ‘Perché è giorno, c’è luce’. Infatti, alla proposizione ‘È giorno’, consegue l’altra ‘C’è luce’; ma alla proposizione ‘C’è luce’ non consegue l’altra ‘È giorno’. Enunciato causale-formale falso è quello che o comincia con una premessa falsa, oppure ha una conclusione inconseguente, oppure ha la premessa inconseguente alla conclusione: per esempio, ‘Perché è notte, Dione passeggia’. [VII,75] Plausibile è quella proposizione che ci conduce ad un assenso: per esempio, ‘Se una ha partorito qualcosa, ne è la madre’. Tuttavia ciò è falso, giacché la gallina non è la madre di un uovo. 
Inoltre alcune proposizioni sono possibili e altre impossibili; alcune sono necessarie e altre non necessarie. Possibile è la proposizione che accoglie in sé la possibilità di essere vera poiché le condizioni esterne non si oppongono a che sia vera: per esempio, ‘Diocle è vivo’. Impossibile è la proposizione che non accoglie in sé la possibilità di essere vera: per esempio, ‘La terra spicca dei voli’. Necessaria è la proposizione che è vera e che non accoglie in sé la possibilità di essere falsa, oppure quella che accoglie in sé questa possibilità ma è tale che le condizioni esteriori si oppongono a che essa sia falsa: per esempio, ‘La virtù giova’. Non necessaria è la proposizione che è capace di essere o vera o falsa poiché le condizioni esteriori non oppongono alcuna contrarietà: per esempio, ‘Dione passeggia’. [VII,76] Ragionevole è la proposizione che possiede le maggiori risorse per essere vera: per esempio, ‘Domani sarò vivo’. 
Tra le proposizioni vi sono anche altre differenze, equivocità e reversibilità da vere a false, circa le quali parliamo ora estesamente. 
Il ‘ragionamento’, come affermano i seguaci di Crini, consiste di un assunto o premessa maggiore, di un assunto aggiuntivo o premessa minore e di una conclusione logica: per esempio, questo, ‘Se è giorno, c’è luce; ma è giorno; dunque c’è luce’. L’assunto o premessa maggiore è: ‘Se è giorno, c’è luce’. L’assunto aggiuntivo o premessa minore è: ‘Ma è giorno’. La conclusione logica è: ‘Dunque c’è luce’. La ‘figura tropica’ è quella che si direbbe un ragionamento schematico: per esempio, questo, ‘Se si dà il primo, si dà il secondo; ma si dà il primo, dunque si dà il secondo’. 
[VII,77] Il ‘ragionamento tropico’ è la sintesi di ragionamento e di figura tropica: per esempio, ‘Se Platone vive, Platone respira; ma si dà il primo, dunque si dà il secondo’. Il ragionamento tropico fu introdotto nelle trattazioni di ragionamenti molto lunghi per non dover più enunciare la premessa minore e la conclusione in tutta la loro lunghezza, ma per poter inferire concisamente: ‘Si dà il primo, dunque si dà il secondo’. 
Dei ragionamenti alcuni sono inconcludenti, altri concludenti. Inconcludenti sono quelli in cui il contrapposto della conclusione logica non contraddice la combinazione degli assunti; per esempio, i ragionamenti di questo genere: ‘Se è giorno, c’è luce; ma è giorno; dunque Dione passeggia’. 
[VII,78] Dei ragionamenti concludenti alcuni si chiamano, per omonimia col genere, ‘concludenti’; altri ‘sillogistici’. I ragionamenti sillogistici sono o quelli anapodittici o quelli riconducibili agli anapodittici secondo una o alcune tematizzazioni; per esempio, i ragionamenti di questo genere: ‘Se Dione passeggia, <Dione si muove; ma Dione passeggia>; dunque Dione si muove’. Ragionamenti concludenti sono specificamente quelli che deducono in modo non sillogistico; per esempio, i ragionamenti di questo genere: ‘ ‘È giorno ed è notte’ è una proposizione falsa; ma è giorno; dunque non è notte’. ‘Asillogistici’ sono i ragionamenti plausibilmente giustapponibili a quelli sillogistici ma che non deducono in modo valido; per esempio: ‘Se Dione è un cavallo, Dione è un animale; <ma Dione non è un cavallo>; dunque Dione non è un animale’. 
[VII,79] Dei ragionamenti, inoltre, alcuni sono veri mentre altri sono falsi. Veri sono i ragionamenti che deducono attraverso proposizioni vere; per esempio: ‘Se la virtù giova, il vizio danneggia; <ma la virtù giova; dunque il vizio danneggia>. Falsi sono i ragionamenti aventi qualche assunto falso o che sono inconcludenti; per esempio: ‘Se è giorno, c’è luce; ma è giorno; dunque Dione è vivo’. Vi sono poi ragionamenti possibili e impossibili, necessari e non necessari. Vi sono anche alcuni ragionamenti anapodittici, ossia che non hanno bisogno di dimostrazione, in numero diverso a seconda dei diversi filosofi, ad esempio cinque secondo Crisippo, attraverso i quali si può intrecciare qualunque ragionamenti, e che sono utilizzati nell’articolazione sia dei ragionamenti concludenti, sia dei ragionamenti sillogistici, sia dei ragionamenti tropici. [VII,80] Il primo ragionamento anapodittico è quello in cui l’intera argomentazione è composta da un periodo ipotetico, una premessa minore che si rifà alla protasi del periodo ipotetico e alla cui apodosi la conclusione logica rimanda; per esempio: ‘Se il primo, il secondo; ma si dà il primo; dunque si dà il secondo’. Il secondo ragionamento anapodittico è quello composto da un periodo ipotetico, una premessa minore che è la proposizione contrapposta all’apodosi, ed avente come conchiusione la proposizione che è il contrapposto della protasi; per esempio: ‘Se è giorno, c’è luce; ma è buio; dunque non è giorno’. Infatti l’assunto aggiuntivo è il contrapposto dell’apodosi e la conclusione logica è rappresentata dal contrapposto della protasi. Il terzo ragionamento anapodittico è quello composto da proposizioni negativamente copulate, una delle proposizioni della combinazione, e il contrapposto della proposizione rimanente per conclusione logica; per esempio: ‘Non si dà che è morto Platone e vive Platone; ma Platone è morto; dunque Platone non vive’. [VII,81] Il quarto ragionamento anapodittico è quello composto da un enunciato disgiuntivo come premessa maggiore, da una delle proposizioni dell’enunciato disgiuntivo come premessa minore e dal contrapposto dell’altra come conchiusione; per esempio: ‘O il primo o il secondo; ma si dà il primo; dunque non il secondo’. Il quinto ragionamento anapodittico è quello in cui l’intera argomentazione è composta da un enunciato disgiuntivo come premessa maggiore, dal contrapposto di una delle proposizioni disgiuntive come premessa minore e dell’altra proposizione come conclusione logica; per esempio: ‘O è giorno o è notte; ma non è notte; dunque è giorno’. Secondo gli Stoici, ad una proposizione vera s’accompagna il vero, come alla proposizione ‘È giorno’ s’accompagna la proposizione ‘C’è luce’; e ad una proposizione falsa s’accompagna il falso, come quando alla proposizione falsa ‘È notte’ s’accompagna falsamente ‘È buio’’. Ma ad una proposizione falsa può accompagnarsi il vero, come alla proposizione ‘la terra vola’ s’accompagna ‘la terra esiste’. Tuttavia ad una proposizione vera non consegue il falso. Infatti, alla proposizione ‘la terra esiste’ non consegue ‘la terra vola’. 
[VII,82] Vi sono poi i ragionamenti aporetici: il Velato, il Celato, il Sorite, il Cornuto e il Nessuno. Per esempio, il Velato è un ragionamento di questo genere: ‘Due sono non pochi, anche tre sono non pochi, e se questi sono non pochi anche quattro non lo sono e così via fino a dieci; ma due sono pochi; dunque anche dieci’. Il nessuno è un ragionamento cogente che consta di una premessa maggiore composta da una proposizione indefinita e da una definita, che ha una premessa minore ed una conclusione. Per esempio: ‘Se qualcuno è qui, costui non è a Rodi; ma qui qualcuno c’è; dunque qualcuno non è a Rodi’. 
[VII,83] Tali sono gli Stoici in fatto di questioni logiche, soprattutto per tenere ben fermo il punto che soltanto il sapiente è dialettico. Secondo loro tutte le faccende reali vanno viste attraverso la teoria logica, sia quante concernono la fisica sia quante, a loro volta, concernono l’etica. È infatti compito del logico sapere che cosa bisogna dire circa la correttezza dei nomi, e senza la logica egli non avrebbe modo di spiegare come le leggi abbiano messo ordine nelle opere umane. Sono due i campi di indagine abitualmente sottoposti alla virtù logica: uno riguarda cos’è ciascun essere, l’altro che nome ha. Così sta la logica secondo gli Stoici. 
[VII,84] Gli Stoici dividono la parte Etica della filosofia in diversi ambiti di ricerca: quello dell’impulso, quello dei beni e dei mali, delle passioni, della virtù, del sommo bene, del primo valore, delle azioni, delle esortazioni e dissuasioni doverose. Così la suddividono i seguaci di Crisippo, di Archedemo, di Zenone di Tarso, di Apollodoro, di Diogene, di Antipatro e di Posidonio. Zenone di Cizio e Cleante, in quanto filosofi più antichi, discernettero circa queste faccende in modo più semplice. Costoro però divisero dal resto sia la Logica che la Fisica. 
[VII,85] Gli Stoici affermano che il primo impulso che la creatura ha è quello di serbarsi in vita, poiché la natura l’ha imparentata ad esso fin dal principio. Ciò è in accordo con quanto sostiene Crisippo nel primo libro ‘Sui sommi beni’ quando dice che la prima cosa appropriata ad ogni creatura è la sua propria sussistenza e la consapevolezza di essa. Sarebbe infatti inverosimile che la natura rendesse la creatura estranea a se stessa, e che la natura che l’ha generata la tenesse come estranea e non come familiare. Resta quindi solo da dire che la natura organizza la creatura affinché essa s’appropri di se stessa. In questo modo, infatti, essa respinge da sé ciò che la danneggia ed ammette per sé ciò che le è appropriato. 
Essi, poi, dichiarano falso ciò che alcuni sostengono, ossia che il primo impulso degli animali sia diretto verso il piacere della carne. [VII,86] Essi affermano, invece, che il piacere della carne è una risultante, se lo è, qualora la natura, dopo avere ricercato le cose acconce alla sussistenza, assapori se stessa come tale; nel qual modo gli animali sono esilarati ed i vegetali fioriscono. Essi affermano poi che la natura che governa sui vegetali non è affatto diversa da quella che governa sugli animali, quando amministra i vegetali prescindendo da impulso e sensazione e quando anche in noi alcuni fenomeni avvengono in modo vegetativo. Ma poiché agli animali è sopravvenuto in più l’impulso, adoperando il quale essi procedono verso gli scopi loro appropriati, ciò ch’è secondo natura per gli animali coincide col governarsi secondo l’impulso. E dal momento che, per un più perfetto reggimento, è stata data alle creature logiche la ragione, vivere rettamente secondo ragione diventa per queste ciò ch’è secondo la natura delle cose. La ragione, infatti, sopravviene in esse quale artista dell’impulso. 
[VII,87] E perciò Zenone per primo, nel suo libro ‘Sulla natura dell’uomo’ disse che il sommo bene è vivere in modo ammissibile con la natura, il che significa vivere secondo virtù; giacché è la nostra natura a condurci alla virtù. In modo simile parlano Cleante nel suo libro ‘Sul piacere fisico’, Posidonio ed Ecatone nei suoi libri ‘Sui sommi beni’. A sua volta, come afferma Crisippo nel primo libro ‘Sui sommi beni’, il vivere secondo virtù è pari al vivere secondo perizia di ciò che avviene per natura, giacché le nostre nature sono parti della natura del cosmo. [VII,88] Perciò ‘sommo bene’ diventa il vivere in modo conseguente alla natura delle cose, cioè in accordo con la nostra propria natura e quella dell’intero cosmo; nulla attivando di ciò che la legge comune suole vietare: legge la quale è retta ragione che tutto pervade e che è identica a Zeus, guida e capo del governo delle cose. Proprio in questo consiste la virtù e la serenità di vita dell’uomo felice, qualora egli tutto effettui in armonia col demone interiore che è in ciascuno di noi e con il piano di chi governa il cosmo. Diogene afferma espressamente che il sommo bene è operare razionalmente nella selezione delle cose naturali. Per Archedemo il sommo bene è vivere realizzando tutte le cose doverose. 
[VII,89] Per natura delle cose alla quale bisogna vivere in modo conseguente, Crisippo intende sia quella comune alle cose tutte, sia quella peculiarmente umana. Cleante invece intende per natura cui conformarsi soltanto quella a tutte le cose comune, e non anche quella particolare dell’individuo. 
La virtù è una disposizione d’animo ammissibile con la ragione e scelta per se stessa, non a causa di qualche paura o speranza o cosa esteriore. Nella virtù, in quanto è animo fatto per l’ammissibilità dell’intera la vita con la ragione, consiste la felicità. La creatura logica si perverte a volte per la persuasività di faccende esteriori, a volte per la catechesi dei sodali; visto che la natura le dà risorse non pervertite. 
[VII,90] Virtù è la perfezione di una cosa qualunque in generale: per esempio, quella di una statua; ed essa può essere ateoretica, come la salute; oppure teorematica, come la saggezza. Ecatone, nel primo libro ‘Sulle virtù’, afferma che sono virtù scientifiche e teorematiche quelle che traggono la loro sussistenza da principi filosofici generali, come la saggezza e la giustizia. Ateoretiche sono invece le virtù, come la salute e la forza fisica, che si vedono coestendersi a quelle traenti sussistenza da principi filosofici generali. Infatti alla temperanza, che è una virtù teorematica, avviene che consegua e sia ad essa coestensiva la salute; così come alla costruzione di un arco di volta sopravviene la solidità. 
[VII,91] Le virtù ateoretiche hanno questo nome perché non richiedono un assenso e, come la salute e il coraggio, sopravvengono anche alle persone viziose. Posidonio, nel primo libro della sua ‘Etica’, afferma che testimonianza dell’esistenza della virtù è il fatto che Socrate, Diogene, Antistene e i loro discepoli abbiano fatto in essa dei progressi. D’altra parte anche il vizio esiste realmente, perché si contrappone alla virtù. Anche Crisippo, nel primo libro ‘Sul sommo bene’, Cleante, Posidonio nei ‘Protrettici’ ed Ecatone affermano che essa, dico la virtù, è insegnabile; e che sia insegnabile è manifesto dal fatto che degli insipienti diventano virtuosi. 
[VII,92] Panezio afferma che la virtù è duplice: teoretica e pratica. Altri dicono che è triplice: logica, naturale ed etica. I seguaci di Posidonio affermano che le virtù sono quattro; i seguaci di Cleante, di Crisippo e di Antipatro che sono ancora di più. Apollofane sostiene invece che la virtù è una sola: la saggezza. 
Delle virtù, alcune sono primarie; altre sono subordinate a queste. Le virtù primarie sono le seguenti: saggezza, virilità, giustizia, temperanza. Della specie di queste sono anche la magnanimità, la padronanza di sé, la fortezza, la perspicacia, il buon consiglio. La saggezza è scienza dei beni, dei mali e di ciò ch’è né bene né male. La temperanza è scienza delle cose che devono essere scelte, delle cose verso le quali si deve essere cauti e di ciò ch’è né una cosa né l’altra [VII,****][VII,93] La magnanimità è scienza o postura abituale dell’animo che fa elevare al di sopra degli avvenimenti che toccano in comune agli insipienti e ai virtuosi; la padronanza di sé è la disposizione d’animo a non oltrepassare ciò ch’è secondo retta ragione o la postura abituale di un animo invitto dai piaceri fisici; la fortezza è scienza, o postura abituale dell’animo, delle cose che devono essere mantenute, di quelle che devono non essere mantenute e di ciò ch’è né una cosa né l’altra; la perspicacia è la postura abituale dell’animo atta a trovare all’istante ciò ch’è doveroso; il buon consiglio è scienza del considerare cosa e come effettuare utilmente quanto effettueremo. 
Analogamente, anche dei vizi alcuni sono primari; altri sono subordinati a questi. Per esempio: la stoltezza, la viltà, l’ingiustizia, l’impudenza sono vizi primari. La non padronanza di sé, l’ottusità, la malevolenza sono fra i vizi subordinati. I vizi sono ignoranza di ciò di cui le virtù sono scienza. 
[VII,94] Il bene è, in generale, un qualche pro; e, in particolare, è lo stesso o non altro da giovamento. Onde la virtù stessa e il bene che di essa partecipa si possono chiamare in triplice modo: il bene ‘da cui avviene di trarre giovamento’; quello ‘secondo cui avviene’, come nel caso dell’azione secondo virtù; quello ‘per via di cui’, come nel caso del virtuoso che partecipa della virtù. 
Un’altra particolare definizione che gli Stoici danno del bene è: ‘la perfezione secondo natura dell’animale logico in quanto logico’. Affermano poi che la virtù è tale che di essa partecipano sia le azioni virtuose che gli uomini virtuosi, e che ne risultano gioia, letizia e cose similari. [VII,95] Allo stesso modo parlano dei mali. Mali sono la stoltezza, la viltà, l’ingiustizia e cose similari. Del male partecipano sia le azioni viziose sia gli individui insipienti e da esso risultano scoraggiamento, malanimo e cose simili. 
Inoltre, dei beni alcuni attengono all’animo, alcuni sono esterni, alcuni non attengono né all’animo né agli oggetti esterni. Beni attinenti all’animo sono le virtù e le azioni secondo virtù. Beni esterni sono l’avere una patria virtuosa, un amico virtuoso e la loro felicità. Bene né esterno né attinente all’animo è l’essere l’uomo per se stesso virtuoso e felice. [VII,96] All’opposto, anche dei mali, quelli che attengono all’animo sono i vizi e le azioni viziose. Mali esterni sono l’avere una patria stolta, un amico stolto e la loro infelicità. Male né esterno né attinente all’animo è l’essere l’individuo per se stesso insipiente ed infelice. 
Inoltre, dei beni alcuni sono finali, alcuni sono fattitivi, alcuni sono finali e fattitivi. Dunque l’amico ed i giovamenti che da lui provengono sono beni fattitivi. Coraggio, elevatezza d’animo, libertà, diletto, letizia, dominio sull’afflizione e ogni azione virtuosa sono beni finali. 
[VII,97] Le virtù sono beni fattitivi e finali giacché, in quanto hanno come risultato la felicità, sono beni fattitivi; in quanto ne sono completivi, così da esserne parte, sono beni finali. Similmente, anche dei mali alcuni sono finali, alcuni sono fattitivi, alcuni sono entrambe le cose. Il nemico personale e i danni che da lui derivano sono mali fattitivi. Sgomento, servilismo, servitù, insoddisfazione, scoraggiamento, corruccio e ogni azione viziosa sono mali finali. I vizi sono mali sia fattitivi che finali dacché, in quanto hanno come risultato l’infelicità, sono mali fattitivi e in quanto ne sono completivi, così da esserne parte, sono mali finali. 
[VII,98] Inoltre, dei beni attinenti all’animo alcuni sono posture abituali, alcuni sono disposizioni, alcuni né posture abituali né disposizioni. Disposizioni d’animo sono le virtù, posture abituali sono le occupazioni, né posture abituali né disposizioni dell’animo sono le attività. Genericamente intesi, dei beni sono beni misti la buona figliolanza e la buona vecchiaia; la scienza, invece, è un bene schietto. Le virtù sono <beni> sempre presenti; non sempre presenti sono invece, per esempio, la gioia o una passeggiata filosofica. 
Ogni bene è utile, è un dovere, è vantaggioso, proficuo, profittevole, bello, giovevole, sceglibile e giusto. [VII,99] Utile perché porta cose tali che, quando avvengono, noi ne traiamo giovamento. È un dovere perché fa stare uniti in ciò che bisogna. Vantaggioso perché compensa le spese per esso affrontate, così da superare in giovamento ciò che si scambia nella sua trattazione. Proficuo perché procura l’utilità del giovamento. Profittevole perché rende questa utilità lodevole. Bello perché è ben proporzionato al proprio uso. Giovevole perché è tale da giovare. Sceglibile perché è tale che la sua scelta è ragionevole. Giusto perché è in armonia con la legge e produttivo di socialità. 
[VII,100] Gli Stoici chiamano bello il perfetto bene perché ha tutti i numeri che la natura a questo fine ricerca o perché è perfettamente proporzionato. Quattro sono le specie del bello: ciò ch’è giusto, virile, composto, scientifico; giacché è sotto queste forme che si portano a compimento le azioni belle. Analogamente anche del brutto vi sono quattro specie: ciò ch’è ingiusto, vile, scomposto, stolto. Essi chiamano poi bello unicamente il bene che rende lodevoli coloro che l’hanno, oppure il bene degno di lode. In altro senso bello è la buona attitudine naturale per la propria opera; altrimenti, ancora, è ciò che ornamenta, come quando diciamo che solo il sapiente è buono e bello. 
[VII,101] Gli Stoici affermano che soltanto il bello è buono, secondo quanto dice Ecatone nel terzo libro ‘Sui beni’ e Crisippo nei libri ‘Sul bello’; e che questo è la virtù e quanto partecipa della virtù. Al che è pari l’affermazione che tutto ciò ch’è buono è bello e che ‘bene’ e ‘bello’ sono termini equivalenti, perché uno è pari all’altro. Infatti, dacché è bene è bello; ma è bello, dunque è bene. Gli Stoici reputano che tutti i beni siano pari, che ogni bene sia sceglibile in sommo grado e che esso non sia suscettibile né di attenuazione né di intensificazione. Delle cose che sono, gli Stoici dicono che alcune sono beni, alcune sono mali e alcune sono né beni né mali. 
[VII,102] Beni sono, dunque, le virtù: saggezza, giustizia, virilità, temperanza, eccetera. Mali sono gli opposti: stoltezza, ingiustizia, eccetera. Né bene né male sono tutte quelle cose che né giovano né danneggiano; per esempio, vita, salute, piacere fisico, avvenenza, potenza del corpo, ricchezza di denaro, celebrità, nobiltà di stirpe; e i loro opposti: morte, malattia, dolore fisico, laidezza, debolezza, povertà di denaro, discredito, umili origini e le cose a queste similari; secondo quanto affermano Ecatone nel settimo libro ‘Sul sommo bene’, Apollodoro ne ‘L’etica’, e Crisippo. Questi, infatti, sono non beni ma ‘indifferenti’ appartenenti alla specie delle cose ‘promosse’. 
[VII,103] Giacché come è proprio del caldo il riscaldare e non il raffreddare, così è proprio del bene il giovare e non il danneggiare. La ricchezza di denaro e la salute non giovano più di quanto danneggiano e pertanto né la ricchezza di denaro né la salute sono beni. Essi inoltre affermano che ciò di cui è possibile un uso buono o cattivo non è un bene. E siccome della ricchezza di denaro e della salute è possibile fare un uso buono o cattivo, ecco che né la ricchezza di denaro né la salute sono beni. Tuttavia Posidonio afferma che anche questi sono beni. Che il piacere della carne non sia un bene, lo affermano anche Ecatone nel libro ‘Sui beni’ e Crisippo nei libri ‘Sul piacere fisico’. Vi sono, infatti, anche piaceri della carne vergognosi, e nulla di vergognoso è un bene. [VII,104] Giovare è muoversi secondo virtù o trovarsi in postura virtuosa. Danneggiare è muoversi secondo vizio o trovarsi in postura viziosa. 
Le cose sono dette ‘indifferenti’ in un duplice senso. Nel primo, si chiamano indifferenti le cose che non cooperano né alla felicità né all’infelicità, com’è il caso della ricchezza di denaro, della reputazione, della salute, della potenza del corpo e simili. Infatti è fattibile essere felici anche senza queste cose, essendo la qualità dell’uso di esse ad arrecare felicità oppure infelicità. Diversamente, si chiamano ‘indifferenti’ le cose che sono motori né di impulso né di repulsione, com’è il caso per l’avere in testa un numero pari o dispari di capelli, oppure per il protendere o serrare il dito. Non è questo il senso in cui sono dette indifferenti le cose menzionate per prime giacché quelle sono motori di impulso e di repulsione, [VII,105] e ciò fa sì che alcune di esse siano selezionate positivamente ed altre scartate; mentre queste altre sono neutrali rispetto allo sceglierle o al fuggirle. 
Degli indifferenti, gli Stoici chiamano alcuni promossi e alcuni ricusati. Promossi sono gli indifferenti che hanno valore; ricusati sono quelli che hanno disvalore. Essi chiamano ‘valore’ ciò ch’è di conferimento, e questo è il requisito di ogni bene, alla vita ammissibile con la ragione. Chiamano inoltre ‘valore’ anche ciò che conferisce una qualche facoltà o utilità intermedia in vista della vita in armonia con la natura; come dire quelle che la ricchezza di denaro e la salute forniscono alla vita in armonia con la natura. Infine per essi è ‘valore’ il contraccambio stabilito da un perito valutatore, ossia il valore definito da un esperto di queste faccende, come quando si dice che del grano si scambia per dell’orzo più una mula. 
[VII,106] Promossi sono dunque gli ‘indifferenti’ che hanno un valore. Per esempio, nell’ambito dell’animo: doti naturali da purosangue, arte, profitto morale e simili. Nell’ambito del corpo: vita, salute, vigoria, benessere, integrità fisica, avvenenza. Nell’ambito degli oggetti esterni: ricchezza di denaro, reputazione, nobiltà di stirpe e simili. Sono invece ‘indifferenti’ ricusati, nell’ambito dell’animo: bastardaggine, imperizia e simili. Nell’ambito del corpo: morte, malattia, debolezza, malessere, storpiatura, laidezza e simili. Nell’ambito degli oggetti esterni: povertà di denaro, discredito, umili origini e similari. Né promossi né ricusati sono gli ‘indifferenti’ che non appartengono né agli uni né agli altri. 
[VII,107] Degli indifferenti promossi, alcuni sono promossi di per sé, alcuni a motivo d’altro e alcuni sia di per sé che a motivo d’altro. Promossi di per sé sono: doti naturali da purosangue, capacità di profitto morale e simili. Promossi a motivo d’altro: ricchezza di denaro, nobiltà di stirpe e simili. Promossi di per sé e a motivo d’altro: potenza del corpo, vigoria dei sensi, integrità fisica. E sono promossi di per sé perché sono indifferenti secondo natura, e promossi a motivo d’altro perché procacciano non poche utilità. Similmente stanno le cose, secondo il ragionamento opposto, per gli indifferenti ricusati. 
Inoltre essi affermano che ‘doveroso’ è ciò che quando sia effettuato ha una giustificazione ragionevole: per esempio, ciò che consegue all’essere in vita e che pertiene anche a vegetali e ad animali, giacché anche per questi sono contemplati atti doverosi. 
[VII,108] Il ‘doveroso’ è stato denominato così da Zenone per primo, questa denominazione essendo stata derivata dall’espressione ‘incombere ad alcuni’, ed è un’operazione appropriata alle strutture naturali. Delle operazioni che si effettuano obbedendo all’impulso, alcuni sono atti doverosi, altri sono contrari a ciò ch’è doveroso e altri ancora sono né doverosi né contrari al doveroso. 
Atti doverosi sono pertanto tutti quegli atti che la ragione sceglie di fare: come onorare i genitori, fratelli, patria, compiacere gli amici. Atti contrari al doveroso sono tutti quelli che la ragione non sceglie, come atti del tipo: trascurare i genitori, non preoccuparsi dei fratelli, non condisporre con gli amici, disdegnare la patria e similari. [VII,109] Atti né doverosi né contrari al doveroso sono tutti quegli atti che la ragione né sceglie né vieta di fare: per esempio, levare di mezzo un fuscello, tenere in mano uno stilo o uno strigile e atti simili a questi. 
Alcuni atti sono doverosi indipendentemente dalle circostanze, altri invece sono circostanziali. Indipendenti dalle circostanze sono questi: essere solleciti della propria salute, degli organi di senso e simili. Dipendenti dalle circostanze sono: lo storpiarsi e lo sperperare il proprio patrimonio. Analogo è il discorso per gli atti contrari al doveroso. Degli atti doverosi, inoltre, alcuni sono doverosi sempre, altri non sempre. Atti sempre doverosi sono il vivere secondo virtù; mentre non sempre doverosi sono il domandare, il rispondere, il passeggiare e simili. Lo stesso discorso vale per gli atti contrari al doveroso. [VII,110] Vi è qualcosa di doveroso anche tra gli atti intermedi, come l’ubbidienza dei bambini ai pedagoghi. 
Essi affermano che l’animo ha otto parti, giacché ne sono parti i cinque organi di senso, l’apparato della fonazione e quello dianoetico, che è poi l’intelletto stesso, e la parte relativa alla riproduzione sessuale. Dalle falsità sopravviene il pervertimento dell’intelletto, dal quale germinano molte passioni e cause di indisposizione. Secondo Zenone, la passione è un moto dell’animo irrazionale e contro natura o un impulso eccessivo. 
Secondo quanto affermano Ecatone nel secondo libro ‘Sulle passioni’ e Zenone nel libro ‘Sulle Passioni’, le passioni supreme sono di quattro generi: afflizione, paura, smania, ebbrezza. [VII,111] Gli Stoici reputano che le passioni siano determinazioni, secondo quanto afferma Crisippo nel libro ‘Sulle passioni’. L’amore per il denaro, infatti, è concezione che il denaro sia una cosa bella; e che lo siano l’ubriachezza e l’impudenza e similmente le altre passioni. 
L’afflizione è una contrizione irrazionale e le sue specie sono: la commiserazione, l’invidia, il livore, la gelosia, la tristezza, la molestia, il cruccio, la doglia, il subbuglio interiore. La commiserazione è afflizione per chi soffre un male immeritatamente. L’invidia è afflizione per i beni altrui. Il livore è afflizione perché un altro ha ciò che uno smania di avere. La gelosia è afflizione perché un altro si trova ad avere ciò che comunque uno pure ha. [VII,112] La tristezza è afflizione che appesantisce. La molestia è afflizione che angustia ed appresta tribolazioni. Il cruccio è afflizione che permane o s’intensifica, originata da certi dibattiti interiori. La doglia è afflizione dolorosa. Il subbuglio interiore è afflizione irrazionale che ci introna ed impedisce di notare le cose presenti. 
La paura è supposizione di un male, e alla paura si riconducono anche queste passioni: il tremore, la trepidazione, la vergogna, lo sbigottimento, il turbamento, l’ansia. Il tremore è paura che infonde timore. La vergogna è paura del discredito. La trepidazione è paura per un’attività futura. Lo sbigottimento è paura originata dalla rappresentazione di una faccenda insolita. [VII,113] Il turbamento è paura con affannamento della voce. L’ansia è paura per una faccenda dubbia. 
La smania è un desiderio irrazionale sotto la quale sono posizionate anche queste passioni: frustrazione, odio, litigiosità, ira, passione amorosa, sdegno e rancore. La frustrazione è una smania che ha fallito ed è come separata dal suo oggetto, eppure vi tende invano ed è ambasciata. L’odio è una smania progressiva e durevole che a qualcuno capiti un male. La litigiosità è smania di togliere di torno chi ci circonda. L’ira è smania di vendetta su chi ci pare aver commesso ingiustizia contro di noi in modo non convenevole. La passione amorosa è una smania che non coinvolge i virtuosi, giacché quello dei virtuosi è il progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza. [VII,114] Lo sdegno è un’ira inveterata e risentita che spia (l’occasione della vendetta), come palesano questi versi:

‘Se pure quel giorno dovrà digerire la bile,
ma anche dopo conserva il risentimento, fino a che lo soddisfi’.Il rancore è ira al suo inizio. 
L’ebbrezza è un’esaltazione irrazionale per qualcosa che pare sceglibile. Sotto di essa sono posizionati la malia, il godimento per i mali altrui, la delizia e l’effusione di sperma. La malia è ebbrezza che affattura attraverso le orecchie. Il godimento per i mali altrui è ebbrezza per le altrui disgrazie. La delizia è, come una svolta, un’esortazione dell’animo al rilassamento. L’effusione di sperma è dissoluzione di virtù. [VII,115] Come si parla di infermità del corpo, per esempio, della podagra e dell’artrite; così pure sono infermità dell’animo l’amore della celebrità, l’edonismo e similari. Infatti l’infermità è una morbosità accompagnata da debolezza, e la morbosità è presuntuosa ma fortissima certezza che qualcosa ci appare sceglibile. E come si parla di predisposizioni nel caso del corpo, per esempio, al catarro e alla diarrea; così pure nel caso dell’animo vi sono delle proclività, per esempio, all’invidia, alla commiserazione, alla rissosità e similari. 
[VII,116] Gli Stoici affermano esservi anche tre affetti positivi: la gioia, la cautela e la decisione razionale. Essi dicono che la gioia è l’opposto dell’ebbrezza, essendo un’esaltazione ragionevole; che la cautela è l’opposto della paura, poiché è un’avversione ragionevole e, infatti, il sapiente non avrà paura ma sarà cauto. Opposta alla smania è poi la decisione razionale, che è un desiderio ragionevole. Proprio come dalle passioni primarie discendono altre passioni, allo stesso modo anche dagli affetti positivi primari discendono altri affetti positivi. Dalla decisione razionale discendono la benevolenza, la benignità, l’ossequio e l’amorevolezza. Dalla cautela discendono il rispetto di sé e degli altri e la continenza rituale. Dalla gioia discendono il diletto, la letizia e il buonumore. 
[VII,117] Gli Stoici affermano che il sapiente è capace di dominare le passioni in quanto non è soggetto a cadervi. Ma c’è anche un’altra persona insensibile ossia l’insipiente, quando se ne parla come pari a qualcosa di duro e di impossibile da ammorbidire. Il sapiente è non vanitoso, giacché è parimenti indifferente a ciò che porta credito ed a ciò che porta discredito. Vi è anche un altro individuo non vanitoso ed è quello posizionato da avventato, cioè l’insipiente. Gli Stoici affermano anche che tutti i virtuosi sono uomini austeri, poiché non hanno contatti in vista di qualche ebbrezza né accettano da altri inviti in tal senso. Vi è anche un altro tipo di persone chiamato ‘austero’. Le si indica così per la loro similarità al ‘vino austero’, quello che si utilizza per la produzione di farmaci ma assolutamente non per un brindisi. 
[VII,118] I virtuosi sono uomini autentici e si guardano bene dal farsi riscontrare migliori di quel che sono attraverso quella preparazione che cela i nostri lati umili e ordinari e fa apparire quelli nobili e buoni. Essi sono anche persone non artefatte, giacché hanno tolto di torno ogni finzione nella voce e nell’aspetto. Essi affermano che i virtuosi si tengono lontani dagli affari pubblici, giacché avversano effettuare qualcosa che sia contrario a ciò ch’è doveroso. Il virtuoso berrà del vino ma non si ubriacherà, e inoltre non uscirà di testa. Delle rappresentazioni disusate potranno incoglierlo a causa di malinconia o di vaneggiamento, non in ragione delle sue scelte ma contro la sua natura. Il sapiente non sarà davvero preda dell’afflizione, a causa del fatto che l’afflizione è una contrizione irrazionale dell’animo, come afferma Apollodoro nella sua ‘Etica’. 
[VII,119] I virtuosi sono anche uomini divini, giacché è come se avessero un dio in loro stessi. Invece l’insipiente è ateo, e la parola ‘ateo’ ha due significati: il primo è quello che si dice di ‘contrarietà’ al divino; il secondo è quello di ‘sprezzatura’ del divino. Ma questo non sempre vale per l’insipiente. I virtuosi sono devoti al divino, poiché sono esperti dei rituali riguardanti gli dei, e la pietà è appunto scienza del culto degli dei. Essi sacrificano davvero agli dei in stato di continenza rituale, giacché scrollano il capo dinanzi alle aberrazioni che abbiano a che fare con gli dei. Così gli dei hanno ammirazione per loro, visto che sono santi e giusti nei confronti del divino. Soltanto i saggi, poi, sono sacerdoti, giacché hanno bene esaminato quanto riguarda sacrifici, erezione dei templi, purificazioni e gli altri riti attinenti agli dei. 
[VII,120] Essi reputano che i virtuosi venereranno genitori e fratelli al secondo posto, subito dopo gli dei. Ed affermano che l’affettuosità verso i figlioli è naturale per i virtuosi, mentre non lo è per gli insipienti. Ha il loro beneplacito il ritenere, stando alle affermazioni di Crisippo nel quarto libro delle ‘Questioni etiche’, di Perseo e di Zenone, che tutte le aberrazioni siano pari. Se infatti non esiste una verità maggiore di un’altra né una falsità maggiore di un’altra falsità, così neppure lo è un inganno di un altro inganno né un’aberrazione di un’altra aberrazione. Coloro che sono lontani cento stadi, o uno solo, da Canopo, altrettanto non sono a Canopo; e coloro che aberrano di più o di meno, fanno azioni parimenti scorrette. [VII,121] Eraclide di Tarso, discepolo di Antipatro di Tarso, e Atenodoro affermano che le aberrazioni non sono tutte pari. 
Come dice Crisippo nel primo libro ‘Sulle vite’, gli Stoici affermano che il sapiente parteciperà alla vita politica, se qualcosa non lo impedirà. E con ciò tratterrà dal vizio e inciterà alla virtù. Il saggio si sposerà, come afferma Zenone nella sua ‘Repubblica’ e farà dei figli. E ancora, che il sapiente non opinerà, cioè non assentirà ad alcuna falsità. L’uomo che s’industria di essere virtuoso cinizzerà, giacché il cinismo è una via spiccia verso la virtù, come afferma Apollodoro nella sua ‘Etica’, e in certe circostanze gusterà carne umana. Soltanto il sapiente è libero, mentre gli insipienti sono servi. Infatti la libertà è potestà di autodeterminazione pratica, mentre la servitù è privazione di essa. [VII,122] Vi è poi un’altra servitù, ossia quella che consiste nella subordinazione; ed una terza, consistente nell’essere patrimonio di qualcuno ed a lui subordinato. A questa si contrappone il dispotismo, che è anch’esso cosa da insipienti. I sapienti sono non soltanto uomini liberi ma anche re, essendo la regalità un comando esente da responsabilità; comando che sussisterebbe soltanto nei sapienti, secondo quanto afferma Crisippo nel libro ‘Sull’uso magistrale dei nomi da parte di Zenone’. Egli afferma infatti che il comandante deve avere conoscenza dei beni e dei mali mentre nessuno degli insipienti, invece, ha scienza di ciò. Similmente, soltanto i sapienti sono veri comandanti, uomini capaci di equità giudiziaria e maestri di eloquenza. Nessuno degli insipienti, invece, lo è. Inoltre i sapienti sono anche al riparo dalle aberrazioni in quanto non incappano in esse. [VII,123] Essi sono indenni, giacché non danneggiano altri né se stessi. I sapienti non sono proclivi alla commiserazione e non perdonano nessuno. Infatti non lasciano cadere le pene comminate dalla legge (dacché il cedere il passo, la pietà e la stessa clemenza sono debolezze di un animo che simula bontà dinanzi ai castighi), né credono che esse siano troppo dure. Inoltre il sapiente non si stupisce di quelle che sembrano bizzarrie straordinarie: per esempio, gli antri di Caronte, le basse maree, le fonti d’acque calde, le eruzioni di fuoco. Ma invero essi affermano che il virtuoso non vivrà in isolamento, giacché egli è un uomo per natura socievole ed operoso. Il sapiente approverà l’esercizio fisico per aumentare la resistenza del suo corpo. 
[VII,124] Come affermano Posidonio nel primo libro ‘Sulle attività doverose’ ed Ecatone nel terzo libro ‘Sui paradossi’, gli stoici dicono che che il sapiente auspicherà postulando per sé dei beni da parte degli dei. Essi dicono anche che l’amicizia esiste soltanto tra i virtuosi, a causa della loro somiglianza. Affermano poi che l’amicizia è comunanza di modi di vita, quando noi usiamo degli amici come di noi stessi; e perciò dichiarano che l’amico è il risultato di una scelta e che è un bene avere molte amicizie. Tra gli insipienti non esiste invece amicizia e nessuno degli insipienti ha un amico. Tutti gli stolti sono pazzi. Infatti sono individui non saggi, ed effettuano tutto secondo una pazzia che è pari alla stoltezza. [VII,125] Il sapiente fa bene ogni cosa, così come noi diciamo che Ismenia suona bene sul flauto qualunque aria per questo strumento. Tutto è dei sapienti, giacché la legge ha dato loro una potestà definitiva al riguardo. Si afferma anche che alcune cose sono degli insipienti, ma al modo in cui noi diciamo delle cose frutto di ingiustizia che esse sono, in un certo senso, di proprietà dello Stato e, in un altro, di coloro che le stanno utilizzando. 
Essi affermano che le virtù hanno implicazione reciproca e che chi ne ha una le ha tutte, giacché i loro principi generali sono comuni; come dicono Crisippo nel primo libro ‘Sulle virtù’, Apollodoro ne ‘La fisica secondo l’antica Stoa’ ed Ecatone nel terzo libro ‘Sulle virtù’. [VII,126] L’uomo al meglio di sé ha infatti una conoscenza teoretica e pratica delle cose da farsi concretamente. Le cose da farsi concretamente sono anche da scegliersi concretamente, sono dovere concreto di reggere gli eventi, di giuste assegnazioni, di mantenersi fedeli alla ragione. Sicché se uno fa le cose in modo opportunamente scelto, in modo da reggere gli eventi, nel rispetto di opportune assegnazioni e così da mantenersi fedele alla ragione, allora egli è saggio e insieme virile, giusto e temperante. Ciascuna virtù, inoltre, fa capo ad un proprio punto capitale. Per esempio, la virilità fa capo agli eventi che si devono reggere; la saggezza alle cose che devono essere fatte, non fatte e né fatte né non fatte. Similmente, anche le altre virtù hanno ambiti loro attinenti. Alla saggezza s’accompagnano il buon consiglio e l’intelligente comprensione; alla temperanza, la disciplina e la compostezza; alla giustizia, la parità di trattamento e la costumatezza; alla virilità, l’imperturbabilità e la tenacia. 
[VII,127] Ha il beneplacito degli Stoici l’affermazione che non vi sia alcun grado intermedio tra la virtù e il vizio; mentre i Peripatetici, invece, sostengono che tra virtù e vizio vi sono gradi di progresso. Essi, infatti, dicono che come un pezzo di legno deve essere diritto o ricurvo così un uomo è giusto o è ingiusto, e non più giusto né più ingiusto. E similmente accade per la altre virtù. Per Crisippo la virtù si può buttar via. Cleante, invece, sostiene che non si può buttar via. Secondo Crisippo la si può buttar via per ubriachezza e malinconia. Secondo Cleante essa non può esser buttata via a causa della saldezza delle apprensioni certe. La virtù è scelta per se stessa; e dunque noi ci vergogniamo del male che facciamo, come se sapessimo che soltanto il bello è bene. Secondo quanto dicono Zenone, Crisippo nel primo libro ‘Sulle virtù’ ed Ecatone nel secondo libro ‘Sui beni’, la virtù è autosufficiente per la felicità. [VII,128] Se infatti, si dice, la magnanimità è autosufficiente per farci elevare al di sopra di tutto, ed essa è soltanto una parte della virtù; anche la virtù sarà autosufficiente per la felicità, essendo capace di spregiare quelle che sembrano seccature. Tuttavia Panezio e Posidonio dicono che la virtù non è autosufficiente, e affermano che c’è bisogno anche di salute, di proventi e di vigore fisico. 
Ha il loro beneplacito anche l’uso della virtù in ogni circostanza, come affermano i seguaci di Cleante. Infatti essa non può essere persa; e l’uomo virtuoso usa, in ogni tempo, un animo che è perfetto. Ciò ch’è giusto è giusto per natura e non per convenzione, come va detto anche per la legge e per la retta ragione, secondo quanto afferma Crisippo nel libro ‘Sul bello’. 
[VII,129] Secondo gli Stoici, inoltre, il dissenso non è un allontanamento della filosofia, poiché anzi a questa ricerca razionale l’uomo dedicherà tutta la vita, come afferma Posidonio nei suoi ‘Protrettici’; e Crisippo afferma che a questo scopo anche le nozioni enciclopediche sono proficue. 
Inoltre ha il loro beneplacito il dire che noi non abbiamo alcun obbligo di giustizia verso gli altri animali, a causa della dissomiglianza tra noi e loro, secondo quanto affermano Crisippo nel primo libro ‘Sulla giustizia’ e Posidonio nel primo libro ‘Su ciò ch’è doveroso’. Il sapiente proverà trasporto amoroso per quei giovani i quali palesano nel loro aspetto un’attitudine da purosangue per la virtù, come affermano Zenone ne ‘La repubblica’, Crisippo nel primo libro ‘Sulle vite’ e Apollodoro ne ‘L’etica’. 
[VII,130] Il trasporto amoroso è il progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza; non un progetto di accoppiamento carnale ma di amicizia. E dunque Trasonide, benché abbia in sua potestà l’amata, se ne astiene perché ne è odiato. Gli Stoici dicono che il trasporto amoroso è desiderio di amicizia, come afferma anche Crisippo nel libro ‘Sull’amore’, e che è non biasimevole. Essi poi definiscono la bellezza fior di virtù. 
Tre sono i tipi di vita: la vita teoretica, la vita pratica e la vita razionale; ed essi affermano che quella da scegliersi è la terza, poiché la creatura logica è stata generata dalla natura idonea alla teoria e alla prassi. Essi affermano che il sapiente uscirà fuor di vita a ragion veduta, sia a vantaggio della patria che degli amici, e anche nel caso sia vittima di sofferenze lancinanti o di storpiature o di malattie incurabili. 
[VII,131] Ha il beneplacito degli Stoici il pensiero che presso i sapienti le donne debbano essere comuni, di modo che l’uomo saggio che capita possa avere relazioni con la donna saggia che capita, come affermano Zenone ne ‘La repubblica’ e Crisippo nel libro ‘Sulla repubblica’. Così saremo altrettanto affezionati ad ogni bambino a mo’ di padri, e ci toglieremo d’attorno la gelosia per l’adulterio. La miglior forma di costituzione politica è quella mista di democrazia, monarchia ed aristocrazia. 
Siffatte sono le affermazioni, e molte altre ancora con le appropriate dimostrazioni, che gli Stoici fanno nelle loro dottrine etiche; e siano esse state esposte da noi come per sommi capi ed in modo elementare. 
[VII,132] Gli stoici suddividono la Fisica in vari ambiti di ricerca: quello sui corpi, sui principi, sugli elementi, sugli dei, sui limiti, sullo spazio e sul vuoto. Così essi dividono la Fisica per specie, ma per genere la dividono in tre ambiti di ricerca: quello sul cosmo, quello sugli elementi e quello sulle cause. Quello della ricerca sul cosmo essi lo suddividono poi ulteriormente in due parti. Alle indagini riguardanti la prima parte partecipano anche i matematici, in quanto la loro ricerca verte sulle stelle fisse e sui pianeti: per esempio, se il sole è grande tanto quanto ci appare e se similmente lo è la luna; sui loro moti di rivoluzione e su indagini simili a queste. [VII,133] La seconda parte delle indagini sul cosmo è quella che spetta soltanto ai fisici. In essa si ricerca quale sia la sostanza del cosmo, [VII,se il sole e gli astri siano composti di materia e di forma], se il cosmo sia generato o ingenerato, se animato o inanimato, se perituro o imperituro, se esso sia governato dalla Prònoia e così via. Anche l’ambito della ricerca sulle cause è duplice. Agli esami riguardanti la prima parte partecipa anche la ricerca dei medici, in quanto essi ricercano sull’egemonico dell’animo, sui fenomeni che avvengono nell’animo, sulle ragioni seminali e su questioni simili a queste. Sulla seconda parte avanzano pretese d’indagine anche i matematici ed essa concerne come vediamo, quale sia la causa delle immagini riflesse, come possano sussistere le nubi, i tuoni, gli arcobaleni, gli aloni, le comete e i fenomeni similari. 
[VII,134] Gli Stoici ritengono che i fondamenti del cosmo nella sua interezza siano due: quello che fa l’azione e quello che la sperimenta. Quello che sperimenta l’azione è la sostanza senza qualità, il materiale. Quello che fa l’azione è la ragione insita nel materiale, ossia la divinità. Poiché questa ragione sempiterna è connaturata a qualunque materiale, è essa a fabbricare tutte e singole le cose esistenti. A porre questo principio sono: Zenone di Cizio nel suo libro ‘Sulla sostanza’, Cleante nel suo libro ‘Sugli atomi’, Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’, verso la fine, Archedemo nel suo libro ‘Sugli elementi’ e Posidonio nel secondo libro della sua ‘Fisica’. Essi affermano che i fondamenti e gli elementi sono cose diverse, giacché i fondamenti sono ingenerati e imperituri, e gli elementi invece periscono nella conflagrazione universale. I fondamenti sono corporei privi di forma, mentre gli elementi sono corporei dotati di forma. 
[VII,135] Come afferma Apollodoro nella ‘Fisica’, ‘corpo’ è ciò che ha tre dimensioni: lunghezza, larghezza e profondità. Questo si chiama anche corpo solido. La ‘superficie’ è il limite di un corpo, ossia ciò che ha lunghezza e larghezza ma non profondità. Nel quinto libro ‘Sulle meteore’ Posidonio mette la superficie nel novero delle realtà sia divisate che sostanziali. La linea è il limite di una superficie, ossia ciò che ha lunghezza senza larghezza o soltanto lunghezza. Il punto è il limite di una linea, ed è il segno più piccolo. 
Una cosa sola sono la divinità, la mente, il destino, Zeus, i quali sono denominati anche con molti altri nomi. [VII,136] Da principio la divinità, sola con se stessa, passando attraverso uno stato aereo tramutò tutta la sostanza in umore umido; e come la matrice generativa racchiude lo sperma così essa, che è la ragione seminale del cosmo, rimase racchiusa in quell’umido, rendendolo materia fatta apposta per la genesi tutte le cose seguenti. Di poi generò dapprima i quattro elementi: fuoco, acqua, aria e terra. Parlano di essi Zenone, nel suo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’ e Archedemo nel suo libro ‘Sugli elementi’. L’elemento è ciò da cui originariamente nascono i corpi esistenti ed in cui da ultimo essi sono risolti. [VII,137] I quattro elementi assieme sono la sostanza priva di qualità, il materiale. Il fuoco è l’elemento caldo, l’acqua quello umido, l’aria quello freddo e la terra quello secco. Tuttavia la stessa parte secca è presente anche nell’aria. L’elemento più in alto di tutti è il fuoco, che si chiama anche etere, ed entro di esso è generata la prima sfera, quella delle stelle fisse, e poi quella dei pianeti. Dopo questa si trova la sfera dell’aria, poi quella dell’acqua, mentre basamento di tutti gli elementi è la terra, che è il centro di tutti quanti. 
Gli Stoici lo chiamano cosmo in tre sensi. In un primo senso, cosmo è la divinità stessa come qualificazione qualitativa propria di tutta quanta la sostanza; divinità che è imperitura ed ingenerata, demiurgo del suo buon ordine, e che secondo qualificati e regolari cicli temporali consuma in se stessa tutta la sostanza e poi nuovamente da se stessa la genera. [VII,138] In un secondo senso chiamano cosmo il buon ordine stesso dei corpi celesti. Nel terzo senso chiamano cosmo la prima e la seconda cosa insieme. Si può chiamare cosmo la qualificazione qualitativa propria di tutta quanta la sostanza; oppure, come afferma Posidonio nei suoi ‘Elementi di Meteorologia’, cosmo è l’insieme formato dal cielo, dalla terra e dai corpi naturali in esso presenti; oppure è l’insieme di dei, di uomini e di tutte le cose nate per opera loro. Il cielo segna l’estrema circonferenza entro la quale tutta la divinità ha sede. 
Secondo quanto affermano Crisippo nei suoi libri ‘Sulla Prònoia’ e Posidonio nel terzo libro ‘Sugli dei’, il cosmo è governato da mente e Prònoia. La mente ne pervade ogni parte, come fa l’animo in noi; ma ne pervade di più alcune parti e meno altre. [VII,139] In alcune, infatti, essa si fa spazio come forza di coesione: come accade per le ossa e i nervi. In altre invece si fa spazio come vera e propria mente, come accade con l’egemonico. Così il cosmo intero, che è una creatura vivente, animata e razionale, ha come egemonico l’etere, come affermano Antipatro di Tiro nell’ottavo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo nel primo libro ‘Sulla Prònoia’ e Posidonio nel suo libro ‘Sugli dei’, quando affermano che l’egemonico del cosmo è il cielo, mentre secondo Cleante è il sole. Tuttavia Crisippo, nello stesso libro, si esprime anche in modo molto differente e dice che l’egemonico del cosmo è la parte più pura dell’etere, parte che essi chiamano divinità primaria, la quale si fa spazio in modo sensibilmente percepibile attraverso gli esseri presenti nell’aria, attraverso tutti quanti gli animali e i vegetali, e attraverso la terra stessa come forza di coesione. 
[VII,140] Il cosmo è uno solo, finito e di figura sferica; giacché siffatta figura è la più acconcia al movimento, secondo quanto affermano Posidonio nel quinto libro ‘Sulla Fisica’ e i seguaci di Antipatro nei libri ‘Sul cosmo’. Al di fuori e intorno ad esso si spande il vuoto infinito, il quale è incorporeo; incorporeo nel senso che sarebbe capace di essere occupato da dei corpi ma non ne è occupato. Nel cosmo, invece, non c’è alcun vuoto, ed esso è unitario; giacché questo è il necessario risultato della cospirazione e della sintonia tra corpi celesti e corpi terrestri. Del vuoto parlano Crisippo nella sua opera ‘Sul vuoto’ e nel primo libro di quella ‘Sulle Scienze fisiche’, Apollofane nella ‘Fisica’, Apollodoro e Posidonio nel secondo libro ‘Sulla Fisica’. Anche questi sono, similmente, degli incorporei. 
[VII,141] Inoltre, anche il tempo è un incorporeo, giacché esso è una dimensione del moto del cosmo. Del tempo, il trascorso e il futuro sono infiniti, mentre il presente è finito. In ragione di ciò che noi capiamo grazie alle sensazioni, ha il beneplacito degli Stoici l’idea che il cosmo, dal momento che è generato, sia anche perituro. Infatti, se le parti sono periture, è perituro anche l’intero. Ma le parti del cosmo sono periture, giacché si trasformano l’una nell’altra; dunque il cosmo è perituro. Inoltre, se qualcosa è passibile di una trasformazione in peggio, è perituro; ma il cosmo lo è, giacché può essiccarsi o diventare acquoso: dunque il cosmo è perituro. 
[VII,142] Il cosmo si genera quando la sostanza sia volta da fuoco in umidità passando attraverso uno stato aereo. Dopo di che la sua parte più densa si condensa e ne risulta la terra, mentre quella più finemente particellata diventa aria e quindi, rarefattasi ancora di più, rigenera del fuoco. In seguito, per mistura di questi elementi sono generati i vegetali, gli animali e gli altri generi di esseri. Della genesi e della rovina del cosmo parlano Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’, Posidonio nel primo libro ‘Sul cosmo’, Cleante e Antipatro nel decimo libro ‘Sul cosmo’. Panezio dichiara invece che il cosmo è imperituro. 
Che il cosmo sia una creatura vivente, razionale, animata e cognitiva, lo affermano anche Crisippo nel primo libro ‘Sulla Prònoia’, Apollodoro nella ‘Fisica’ e Posidonio. [VII,143] Creatura vivente nel senso che è una sostanza animata capace di sensazioni. La creatura vivente è migliore di quella non vivente, e nulla è migliore del cosmo. Dunque il cosmo è una creatura vivente. Ed esso è animato, com’è manifesto dall’animo nostro; il quale è una scintilla che di là viene. Boeto afferma invece che il cosmo non è una creatura vivente. Che il cosmo sia uno lo affermano Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo, Apollodoro nella ‘Fisica’ e Posidonio nel primo libro della ‘Fisica’. L’universo, come afferma Apollodoro, si chiama ‘cosmo’ e, in un altro modo, si chiama così l’insieme formato dal cosmo e dal vuoto a lui esterno. Pertanto il cosmo è finito, mentre il vuoto è infinito. 
[VII,144] Degli astri, quelli fissi ruotano insieme all’intero cielo, mentre i pianeti si muovono secondo moti loro propri. Il sole compie una marcia obliqua attraverso il cerchio zodiacale; e, similmente, anche quella della luna è elicoidale. Il sole è puro e limpido fuoco, come afferma Posidonio nel settimo libro ‘Sui fenomeni celesti’; più grande della terra, come afferma lo stesso nel sesto libro della ‘Fisica’; di forma sferica, come affermano lo stesso e i suoi discepoli, analogamente al cosmo. Il sole, dunque, è fuoco perché opera tutto ciò che opera il fuoco; è più grande della terra perché essa è tutta quanta illuminata da lui; ed esso illumina anche il cielo. Anche il fatto che la terra risulti avere un’ombra di forma conica significa che il sole è più grande di lei; e a causa della sua grandezza, il sole può essere scorto da ogni parte della terra. 
[VII,145] La luna, invece, è più terrosa, in quanto è più prossima alla terra. Questi corpi infocati e gli altri astri sono nutriti. Il sole, essendo una massa infuocata cognitiva, è nutrito dal grande mare. La luna, invece, capitandole di essere mischiata con dell’aria e di essere più prossima alla terra, è nutrita dalle acque potabili, come dice Posidonio nell’ottavo libro della ‘Fisica’. Gli altri astri sono nutriti dalla terra. Secondo loro, sia gli astri che la terra sono di forma sferica, e la terra è immobile. La luna, poi, non ha luce propria, ma la prende dal sole quando è da lui illuminata. 
Il sole s’eclissa quando la luna si frappone tra la nostra terra e il sole, come Zenone ha mostrato in diagramma nel suo libro ‘Sul cosmo’. [VII,146] Durante questa congiunzione di astri, la luna appare infatti sorgere alta nel cielo, celare il sole e poi di nuovo scostarsene. Si può riconoscere questo fenomeno grazie all’immagine riflessa in un bacile con dell’acqua. La luna s’eclissa quando cade nel cono d’ombra della terra. Laonde essa s’eclissa soltanto nel corso dei pleniluni, anche se si trova ogni mese diametralmente opposta al sole. Infatti, muovendosi verso il sole obliquamente, si discosta da esso per latitudine o più verso nord o più verso sud. Tuttavia, quando la latitudine della luna diventa conforme a quella del sole nello zodiaco ed essa si trova diametralmente opposta al sole, allora si ha l’eclisse. La sua latitudine diventa conforme a quella dello zodiaco quando essa si trova nella costellazione del Cancro, dello Scorpione, dell’Ariete e del Toro, come sostengono Posidonio e la sua scuola. 
[VII,147] Gli Stoici affermano che la divinità è un essere vivente immortale, razionale, perfetto o cognitivo nella sua felicità, che non accoglie in sé male alcuno, che si fa mente del cosmo e delle realtà del cosmo, e che tuttavia non è antropomorfo. Egli è il creatore del cosmo nella sua interezza ed è come il padre di tutti, sia in generale che per quella particolare parte di lui che pervade il tutto e che viene indicata con molti appellativi a seconda della facoltà che manifesta. Essi affermano infatti che si chiama Dià perché tutto avviene per causa sua; ma lo chiamano anche Zeus, in quanto è causativo del vivere ed ha fatto spazio alla vita; Atena per l’estensione del suo egemonico fino all’etere; Era per l’estensione del suo egemonico all’aria; Efesto per l’estensione del suo egemonico al fuoco artefice; Poseidone per l’estensione del suo egemonico all’elemento umido e Demetra per l’estensione del suo egemonico alla terra. In modo simile gli diedero anche altri appellativi tenendo conto di certe sue particolari proprietà. [VII,148] Zenone afferma che sostanza della divinità sono il cosmo nella sua interezza e il cielo, e in modo simile parlano anche Crisippo nel primo libro ‘Sugli dei’ e Posidonio nel primo libro ‘Sugli dei’. E Antipatro nel settimo libro ‘Sul cosmo’ afferma che la sostanza della divinità è simile ad aria. Nella sua opera ‘Sulla natura’, Boeto sostiene che la sostanza della divinità è la sfera delle stelle fisse. Gli Stoici a volte dichiarano che ‘natura’ è ciò che tiene coeso il cosmo, a volte intendono per ‘natura’ la facoltà vegetativa che fa nascere tutte le creature che sono sulla terra. Questa facoltà vegetativa è una forza capace di muoversi da sé in armonia con le ragioni seminali, di portare a compimento e tenere insieme le creature che in tempi definiti fa nascere e di farle dello stesso genere di quelle dalle quali furono separate. [VII,149] Essi dichiarano anche che essa ha come bersaglio l’utilità e il piacere, come è manifesto dall’attività creativa dell’uomo. Crisippo nei suoi libri ‘Sul destino’, Posidonio nel secondo libro ‘Sul destino’, Zenone e Boeto nel primo libro ‘Sul destino’ affermano che tutto avviene in armonia col destino. E il destino è la causa concatenante delle cose che sono, oppure la ragione in armonia con la quale il cosmo se la tragitta. Gli Stoici dicono che se c’è la Prònoia ogni forma di mantica è fondata; e dichiarano, sulla base di certi esiti, che essa è un’arte, come affermano Zenone, Crisippo nel secondo libro ‘Sulla mantica’, Atenodoro e Posidonio nel secondo libro della ‘Fisica’ e nel quinto libro ‘Sulla mantica’. Panezio afferma invece che la mantica è priva di fondamento. 
[VII,150] Come affermano anche Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’ e Zenone, gli Stoici dicono che la sostanza senza qualità è la materia prima di tutte le cose esistenti. Essa è il materiale dal quale nasce qualsiasi cosa di qualsiasi genere. Questa sostanza materiale si chiama così in duplice senso, ossia o nel senso di sostanza materiale di tutte le cose oppure nel senso di sostanza materiale di cose particolari. Nel primo senso, la sostanza materiale del cosmo nella sua interezza non aumenta né diminuisce; mentre la sostanza materiale di cose particolari, invece, può aumentare o diminuire. Per loro la sostanza è corpo ed è finita, secondo quanto affermano Antipatro nel secondo libro ‘Sulla sostanza’ e Apollodoro nella ‘Fisica’. La sostanza è anche passibile di mutamento, come lo stesso Apollodoro afferma nella ‘Fisica’. Se, infatti, fosse non coinvolta in mutamento alcuno, da essa non nascerebbero le cose che ne nascono. Da questo consegue che la divisione della sostanza è una divisione all’infinito. (Crisippo afferma che la divisione è infinita, non ‘all’infinito’, giacché non c’è un infinito al quale tenda la divisione, ma essa è incessante). 
[VII,151] Secondo le affermazioni di Crisippo nel terzo libro della ‘Fisica’, le mescolanze avvengono ‘totalmente’, e non per ‘contornamento’ o per ‘accostamento’. Infatti, un po’ di vino gettato in alto mare, dopo alquanto vi sarà interpenetrato e poi sparirà confondendosi con esso. 
Essi affermano che ci sono demoni che hanno consentaneità con gli uomini e che hanno riguardo per le faccende umane; e che gli eroi sono gli animi dei virtuosi sopravvissuti dopo la morte. 
Dei fenomeni che avvengono nell’aria, essi affermano che l’inverno è dovuto al fatto che l’aria sopra la terra diventa gelida a causa del movimento di recessione del sole. La primavera è la buona temperie dell’aria dovuta alla marcia del sole verso di noi. [VII,152] L’estate è l’aria al di sopra della terra fortemente riscaldata in seguito alla marcia del sole verso settentrione. L’autunno coincide col percorso di ritorno del sole da noi. I venti sono flussi d’aria, i quali prendono nomi diversi a seconda del luogo da cui spirano. Causativo della loro genesi è il sole, il quale fa evaporare le nuvole. L’arcobaleno è formato da raggi di luce che sono stati riflessi da nuvole umide; oppure, come afferma Posidonio nella sua ‘Meteorologia’, è il l’apparenza che prende una sezione del sole o della luna in una nube rorida, cava, visibile senza interruzione e che ci appare come in uno specchio sotto forma di un arco di cerchio. Le comete, gli astri barbati, le meteore sono fuochi consistenti d’aria spessa e densa portata in alto fino alla regione dell’etere. [VII,153] La stella cadente è l’avvampamento d’un fuoco concentrato e in rapido movimento nell’aria, palesanteci una rappresentazione di lunghezza. La pioggia è la trasformazione in acqua d’una nuvola, qualora l’umidità che dalla terra o dal mare è stata portata in alto non abbia subito concozione da parte del sole. Quando questa umidità diventa gelida, viene chiamata brina. La grandine è una nuvola congelata trasformata in gragnola dal vento. La neve è umidità che precipita da una nuvola congelata, come dice Posidonio nell’ottavo libro della ‘Fisica’. Il lampo è l’avvampamento di nubi che sfregano tra di loro o sono squarciate dal vento, come dice Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’. Il tuono è il rumore prodotto dal loro sfregamento e dal loro squarciamento. [VII,154] Il fulmine è l’avvampamento veemente prodotto da nubi che sfregano tra di loro e sono squarciate dal vento, e che cade con grande violenza sulla terra. Per alcuni è la chiusura a pugno d’aria ignea che si porta in basso con violenza. Il tifone è un fulmine di grandi dimensioni, violento e turbinoso; oppure vento fumoso d’una nuvola squarciata. Il baleno è una nuvola lacerata da fuoco misto a vento. I terremoti avvengono quando il vento irrompe con irruenza nelle cavità della terra o allorché esso vi si trovi imprigionato, come afferma Posidonio nel settimo libro <della ‘Fisica>. Alcuni terremoti sono ondulatori, altri producono spaccature del suolo, altri ancora spostamenti orizzontali del suolo e altri, infine, sussultori. 
[VII,155] Questa è la descrizione del buon ordine cosmico che ha il loro beneplacito. In mezzo c’è la terra, che ricopre il ruolo di centro del cosmo. Dopo di essa c’è la sfera dell’acqua, la quale ha lo stesso centro che ha la terra; sicché la terra è immersa nell’acqua. Dopo quella dell’acqua c’è la sfera dell’aria. Nel cielo vi sono cinque circoli, il primo dei quali è il circolo artico, sempre apparente; il secondo è quello tropicale estivo; il terzo è quello equinoziale; il quarto è quello tropicale invernale; il quinto è quello antartico, invisibile. Essi sono detti paralleli, in quanto non coaccennano l’uno verso l’altro e sono inoltre iscritti attorno ad un medesimo centro. Lo zodiaco è invece obliquo in quanto passa attraverso i paralleli. [VII,156] Le fasce terrestri sono cinque. La prima è la fascia boreale al di sopra del circolo artico, inabitata a causa del freddo. La seconda è quella temperata. La terza è quella chiamata torrida, inabitata a causa della calura. La quarta è quella temperata antipodica. La quinta è quella australe, inabitata a causa del freddo. Essi reputano che la natura sia un fuoco artefice che incede metodicamente alla generazione. Questo fuoco artefice è uno pneuma igneo e capace di opere d’arte, mentre l’animo è natura capace di sensazioni. L’animo è lo pneuma a noi connaturato: esso è corpo, persiste dopo la morte e però è perituro. Invece l’animo dell’intero cosmo, del quale gli animi degli animali sono parti, è imperituro. [VII,157] Zenone di Cizio, Antipatro nei libri ‘Sull’animo’ e Posidonio affermano che l’animo è pneuma caloroso. È grazie a questo che noi siamo creature spiranti ed è da questo che noi siamo mossi. Cleante sostiene che tutti gli animi continuano ad esistere fino alla conflagrazione universale; per Crisippo, invece, soltanto gli animi dei sapienti. 
Essi parlano di otto parti dell’animo: i cinque sensi, le ragioni seminali che sono in noi, l’apparato della fonazione e quello raziocinante. Noi vediamo quando la luce che sta frammezzo all’organo visivo e all’oggetto della visione si stende in forma conica, secondo quanto affermano Crisippo nel secondo libro della ‘Fisica’ e Apollodoro. Si forma così un cono d’aria che ha il suo vertice nell’organo visivo e la sua base nell’oggetto visto. Dunque l’aria così stesa annuncia l’oggetto osservato come mediante un bastoncello. 
[VII,158] Il sonno sopraggiunge quando sia fiaccato il tono sensoriale nell’ambito dell’egemonico. Essi lasciano poi intendere che le cause delle passioni siano i rivolgimenti che avvengono nell’ambito dello pneuma. 
Gli Stoici dicono che lo sperma è ciò che è capace di generare corpi quali quelli dal quale anch’esso fu secreto. Lo sperma dell’uomo, quello che l’uomo eiacula in forma fluida, viene mescolato insieme a partire dalle parti dell’animo e in armonia con il miscuglio delle ragioni seminali degli avi. [VII,159] Nel secondo libro della ‘Fisica’ Crisippo afferma che nella sostanza esso è pneuma, com’è manifesto nel caso dei semi che vengono gettati nella terra. Essi, infatti, quando siano troppo vecchi non germogliano più, in quanto la loro facoltà generativa è manifestamente svaporata. I seguaci di Sfero affermano che lo sperma discende dalla totalità dei componenti dei corpi, in quanto è generativo di tutte le parti del corpo. Invece dichiarano che il liquido seminale delle femmine è sterile giacché, come afferma Sfero, esso è atono, scarso ed acquoso. L’egemonico è la parte dominante dell’animo, quella nella quale nascono le rappresentazioni e gli impulsi, ed alla quale si fa risalire la ragione. L’egemonico ha sede nel cuore. 
[VII,160] Queste è dunque la dottrina fisica degli Stoici per quanto a noi è sembrato bastevole esporla, avendo di mira la corretta proporzione delle varie parti della compilazione. I punti sui quali vi furono differenze tra alcuni di loro sono quelli che seguono.

ARISTONE (c. 320 – 250 a. C.)

Aristone di Chio, il Calvo, soprannominato ‘Sirena’, affermava che il sommo bene è vivere mantenendosi indifferenti verso le cose che stanno frammezzo alla virtù e al vizio, senza lasciarsi andare all’ammissione di un qualunque divario tra di esse e serbando identica la nostra disposizione verso ciascuna di esse. Il sapiente è infatti simile al provetto attore il quale, tanto se impersona Tersite quanto se impersona Agamennone, recita la sua parte come si conviene. Aristone levava di mezzo tanto lo studio della Fisica che quello della Logica, dicendo che la Fisica è al di sopra delle nostre capacità di comprensione e che la Logica non ci riguarda, mentre è soltanto l’Etica che ha a che fare con noi. 
[VII,161] Diceva poi che i ragionamenti dialettici somigliano alle tele di ragno, le quali seppur sembrano palesare una certa capacità artistica, nulla hanno di proficuo. Egli non introduceva molteplici virtù, come fece invece Zenone; né una sola virtù chiamata con molti nomi, come i Megarici; ma una virtù intesa come modalità di relazione. Così filosofando e tenendo discorsi nel Cinosarge, fu in stato d’essere tenuto per un caposcuola. Milziade e Difilo erano pertanto designati come ‘Aristonei’. Era una persona convincente e fatta per le folle. Laonde Timone dice di lui:

‘e un tale, che trae la sua discendenza dal seduttivo Aristone’.

[VII,162] Diocle di Magnesia afferma che quando Zenone incappò in una lunga infermità, Aristone si confrontò con Polemone e quindi ritrattò. Aristone s’attenne soprattutto al principio Stoico che il sapiente non ha opinioni. Ma Persèo, per contrastare questo principio, fece sì che di due fratelli gemelli uno desse ad Aristone del denaro in deposito, e che in seguito fosse però l’altro gemello a ritirarlo. Egli oppugnò così quel principio e lasciò Aristone nell’incertezza dell’opinione. Aristone si stava dilungando a parlare contro Arcesilao quando, osservando un toro mostruoso per la presenza di un utero, disse: “Ohimè, è stato dato ad Arcesilao un epicherema contro l’evidenza”. 
[VII,163] All’Accademico il quale affermava di nulla afferrare con certezza, Aristone disse: “Dunque neppure vedi chi ti è dintorno e ti è seduto accanto?”. E poiché quello negava di vederlo, continuò: 

“Chi ti accecò, chi ti sottrasse i fulgidi raggi del sole?”.

Gli si attribuiscono questi libri: 
‘Protrettico’ (2 libri); ‘La dottrina di Zenone’; ‘Dialoghi’; ‘Lezioni’ (6 libri); ‘Diatribe sulla sapienza’ (7 libri); ‘Diatribe erotiche’; ‘Memorie sulla vanagloria’; ‘Memorie’ (25 libri); ‘Memorabili’ (3 libri); ‘Detti sentenziosi’ (11 libri); ‘Contro i retori’; ‘Contro le accuse di Alessino’; ‘Contro i dialettici’ (3 libri); ‘Contro Cleante’; ‘Lettere’ (4 libri). 
Panezio e Sosicrate affermano sue soltanto le ‘Lettere’ ed attribuiscono tutti gli altri libri ad Aristone il Peripatetico. 
[VII,164] Si racconta che, essendo calvo, fu vittima di un’insolazione e che per questo morì. Noi lo abbiamo celebrato con versi in metro coliambico nel modo seguente:

‘Perché mai da vecchio e calvo, o Aristone,
desti da arrostire al sole il cocuzzolo tuo?
Così, cercando più calore del dovuto, 
senza volerlo trovasti l’Ade, freddo realmente’.

Ci furono anche un secondo Aristone, nativo di Iuli, filosofo Peripatetico; un terzo, musicista Ateniese; un quarto, poeta tragico; un quinto, originario del demo di Ale, scrittore di opere retoriche; un sesto, nativo di Alessandria, filosofo Peripatetico.

ERILLO (floruit c. 260 a. C.)

[VII,165] Erillo di Calcedonia sostenne che ‘sommo bene’ è la scienza, il che significa vivere riferendo sempre ogni cosa al fine di vivere con scienza e non traviati dall’ignoranza. Affermava poi che la scienza è quella postura dell’animo che, nell’accettare le rappresentazioni, non è mutabile da un ragionamento. A volte usa va dire che non vi è un fine, ma che esso cambia a seconda delle circostanze e dello svolgersi dei fatti, così come il medesimo bronzo diventa una statua di Alessandro o di Socrate. Sosteneva anche che vi è differenza tra sommo bene e fini secondari. Anche i non sapienti hanno di mira questi ultimi, mentre soltanto il sapiente ha di mira il sommo bene. Inoltre, tutto ciò che sta frammezzo alla virtù e al vizio, è indifferente. I suoi sono libri di poche righe, ma sono pieni di forza ed includono controversie con Zenone. 
[VII,166] Si racconta che da ragazzo ebbe un buon numero di amanti, ma Zenone, deciso a tenerli lontano, costrinse Erillo a radersi il capo e così essi si tennero lontani da lui. 
Questi sono i suoi libri: 
‘Sull’esercizio pratico’, ‘Sulle passioni’, ‘Sulle concezioni’, ‘Il legislatore’, ‘L’ostetrico’, ‘L’oppositore’, ‘L’insegnante’, ‘Il revisore’, ‘Il controllore’, ‘Ermes’, ‘Medea’, ‘Tesi etiche’.

DIONISIO (c. 330 – 250 a. C.)

A causa dell’avversa circostanza di un’oftalmia, Dionisio il Ritrattatore sostenne che sommo bene è il piacere fisico. Infatti, poiché aveva un terribile male agli occhi egli si peritò a chiamare ‘indifferente’ il dolore fisico. 
Era figlio di Teofanto e nativo della città di Eraclea. Secondo quanto afferma Diocle, egli fu discepolo dapprima del concittadino Eraclide, in seguito di Alessino e di Menedemo e poi, da ultimo, di Zenone. [VII,167] Essendo amante delle lettere, da principio mise mano ad ogni sorta di composizioni poetiche, ma poi accolse Arato come modello e cercò di emularlo. Una volta prese le distanze da Zenone, fu attratto dai Cirenaici e quindi usava entrare nei lupanari e darsi alle altre forme di sensualità senza nascondersi. Dopo avere vissuto fino ad ottant’anni si lasciò morire d’inedia. 
I libri che di lui si ricordano sono i seguenti: 
‘Sul dominio delle passioni (2 libri)’, ‘Sull’esercizio pratico (2 libri)’, ‘Sul piacere fisico (4 libri)’, ‘Sulla ricchezza di denaro, la grazia e la punizione’, ‘Sull’uso degli uomini’, ‘Sulla buona fortuna’, ‘Sugli antichi re’, ‘Sulle cose lodate’, ‘Sulle abitudini dei barbari’. 
Questi sono gli Stoici dissidenti. Il successore di Zenone fu Cleante, del quale ora dobbiamo parlare.

CLEANTE (331 – 232 a. C.)

[VII,168] Cleante figlio di Fania, di Asso. Dapprima faceva il pugile, come afferma Antistene nelle sue ‘Successioni’. Dopo essere giunto ad Atene con in tasca quattro dracme, come sostengono alcuni, e dopo essersi confrontato con Zenone, iniziò a fare vita filosofica con grandissima nobiltà e rimase sempre dei medesimi principi. Andava per le bocche di tutti la sua laboriosità giacché, povero in canna com’era, ne aveva preso impulso per guadagnarsi un salario. Così di notte attingeva e versava acqua negli orti e di giorno s’allenava nei ragionamenti; laonde fu chiamato anche ‘Pozzante’. Dicono inoltre che fu condotto in tribunale affinché desse ragione, essendo talmente forte e vigoroso, dei suoi mezzi di sussistenza; e che egli ne uscì assolto dopo avere portato come testimoni il giardiniere presso il quale attingeva e versava l’acqua [VII,169] e la venditrice di farina presso la quale impastava le farine. Quando i giudici dell’Areopago approvarono la sua assoluzione, votarono che gli fossero date dieci mine; ma Zenone gli vietò di prenderle. Si dice anche che Antigono gli desse tremila dracme. Una volta che da capo degli efebi li conduceva ad un certo spettacolo, una folata di ventò lo denudò, e si vide che non portava la tunica; per la qual cosa ebbe dagli Ateniesi l’onore di un applauso, secondo quanto afferma Demetrio di Magnesia nei suoi ‘Omonimi’. Egli fu dunque ammirato anche per questo. Si racconta che una volta Antigono era suo uditore e che cercò di sapere da lui perché attingesse e versasse acqua. Al che Cleante rispose: “Attingo e verso soltanto acqua? E non zappo anche? E non irrigo e non faccio forse tutto ciò per amore della filosofia?”. Alla filosofia lo allenava Zenone, il quale gli intimò di versargli un obolo del suo salario a titolo di risarcimento. [VII,170] Messi poi insieme questi spiccioli, una volta Zenone li portò in mezzo ai suoi seguaci e disse: “Cleante potrebbe nutrire un altro Cleante, se lo decidesse. Invece coloro che hanno di che nutrirsi ricercano le provviste da altri, facendo così una vita filosofica davvero scadente”. Laonde Cleante usava anche essere chiamato secondo Eracle. Era un faticatore indefesso, con scarsissime doti filosofiche naturali e oltremodo lento. Perciò di lui Timone dice così:

‘Chi è costui che come un montone passa in rivista le schiere degli uomini,
smidollatore di parole, pietra di Asso, mortaio senza pestello?’

Tollerava di essere schernito dai condiscepoli ed accettava di sentirsi chiamare ‘asino’, dicendo di essere il solo capace di sorreggere il carico di Zenone. [VII,171] Una volta gli fu rinfacciata la sua timidezza, e Cleante disse: “È per questo che aberro poco”. Poiché giudicava il proprio modo di vivere preferibile a quello delle persone ricche di denaro, Cleante soleva dire che nel terreno in cui quelli giocano a palla lui lavora, zappando il terreno duro e infruttuoso. Spesso Cleante s’autocensurava. Aristone lo sentì farlo e gli disse: “Chi stai censurando?”. E lui gli rispose: “Un vecchio che ha la canizie ma non accortezza”. A chi affermava che Arcesilao non faceva mai parola dei doveri, Cleante diceva: “Smettila, e non denigrarlo. Se infatti abolisce il dovere a parole, però lo pratica nei fatti”. Arcesilao dice: “Io non mi lascio adulare”. Al che Cleante rispondeva: “Sì, ma la mia adulazione consiste nel dire che tu dici una cosa ma ne fai un’altra”. 
[VII,172] Quando un tale gli domandò quale ammaestramento doveva suggerire a suo figlio: “Quello di Elettra, rispose Cleante, 

‘taci, taci, lieve sia l’orma’ ”.

Quando uno Spartano dichiarò che la fatica è cosa buona, Cleante si sciolse di gioia e disse:

‘sei di buon sangue, ragazzo mio’.

Nei suoi ‘Detti sentenziosi’ Ecatone racconta che quando un formoso adolescente disse: “Se chi lo sbatte sulla pancia, colpisce la pancia; e chi lo sbatte sulle cosce, colpisce le cosce”; Cleante replicò: “Ragazzo, tu abbiti i tuoi ‘fracosce’, ma vocaboli analoghi non sempre significano azioni analoghe”. Mentre aveva un rapporto sessuale con un adolescente, una volta Cleante gli chiese se provasse qualche sensazione. Poiché quello diceva di sì, Cleante disse: “Perché dunque io non provo la sensazione che tu provi una sensazione?”. 
[VII,173] Quando il poeta Sositeo, in teatro, pronunciò in sua presenza il verso

‘<persone> che la stupidaggine di Cleante cacciano innanzi come buoi’

egli non mutò contegno. Gli ascoltatori, ammirati di questo suo atteggiamento, applaudirono Cleante ed espulsero Sositeo dal teatro. Quando poi Sositeo provò rimorso per le sue ingiurie, Cleante ne accettò le scuse, dicendo assurdo che Dioniso ed Eracle non s’adirassero quando erano oggetto delle chiacchiere dei poeti e che egli, invece, facesse il malcontento per un’occasionale maldicenza. Cleante soleva dire che i Peripatetici sperimentano qualcosa di simile a quel che accade alle lire, le quali emettono un gran suono ma non possono ascoltarlo. In accordo con Zenone, Cleante era dell’avviso che il carattere di una persona sia afferrabile dal suo aspetto. Si racconta perciò che alcuni giovanotti buontemponi gli portarono dinnanzi un cinedo dall’aspetto aspro e indurito dalla vita in campagna, e che lo sollecitarono a dichiararne il carattere. Nell’incertezza, egli ordinò all’individuo di andarsene e costui, mentre se ne andava, starnutì. Al che Cleante disse: “Ce l’ho! È un effeminato”. [VII,174] Ad un individuo solitario che parlava tra sé e sé, Cleante soleva dire: “Non parli ad un uomo insipiente”. A chi gli rinfacciava la sua vecchiaia, soleva dire: “Anch’io me ne voglio andare; ma quando mi considero da ogni parte e mi vedo in salute, in grado di scrivere e di leggere, allora rimango”. Dicono che Cleante scrivesse su cocci e su scapole di bue quello che ascoltava da Zenone, per difetto degli spiccioli necessari per comprare la carta. Poiché era un uomo siffatto, fu lui a prevalere nella successione alla guida della scuola benché pure molti altri discepoli di Zenone ne fossero degni. 
Lasciò libri splendidi, che sono i seguenti: 
‘Sul tempo’, ‘Sulla filosofia della natura di Zenone, 2 libri’, ‘Esegesi di Eraclito, 4 libri’, ‘Sulla sensazione’, ‘Sull’arte’, ‘Contro Democrito’, ‘Contro Aristarco’, ‘Contro Erillo’, ‘Sull’impulso, due libri’, [VII,175] ‘Archeologia’, ‘Sugli dei’, ‘Sui giganti’, ‘Sulle nozze’, ‘Sul poeta’, ‘Sul doveroso, tre libri’, ‘Sul buon consiglio’, ‘Sulla gratitudine’, ‘Protrettico’, ‘Sulle virtù’, ‘Sulla buona disposizione naturale’, ‘Su Gorgippo’, ‘Sull’invidiosità’, ‘Sulla passione amorosa’, ‘Sulla libertà’, ‘Arte erotica’, ‘Sull’onore’, ‘Sulla fama’, ‘Politico’, ‘Sul consiglio’, ‘Sulle leggi’, ‘Sull’amministrare la giustizia’, ‘Sul sistema educativo’, ‘Sulla logica, tre libri’, ‘Sul sommo bene’, ‘Sul bello’, ‘Sull’azione’, ‘Sulla scienza’, ‘Sul regno’, ‘Sull’amicizia’, ‘Sul convito’, ‘Sul fatto che identica è la virtù dell’uomo e della donna’, ‘Sul fatto che il sapiente usa sofismi’, ‘Sui detti sentenziosi’, ‘Diatribe, 2 libri’, ‘Sul piacere’, ‘Sulle proprietà’, ‘Sulle aporie’, ‘Sulla dialettica’, ‘Sui tropi’, ‘Sui predicati’. 
Questi sono i suoi libri. 
[VII,176] Cleante morì in questo modo. Gli si rigonfiarono le gengive, e poiché i medici gli proibivano il cibo, se ne astenne per due giorni. In qualche modo questa cura andò bene, sicché i medici gli consentirono di riprendere la dieta consueta. Lui però non s’attenne al loro parere e, dicendo d’avere ormai fatto la sua strada, s’astenne dal cibo anche nei giorni restanti fino a morire, secondo le affermazioni di alcuni, alla stessa età di Zenone, dopo aver vissuto ottant’anni ed avere ascoltato le lezioni di Zenone per diciannove anni. 
Anche noi lo abbiamo scherzosamente celebrato così:

‘Cleante io elogio, ma Ade ancor di più,
che vistolo così vecchio, non sopportò che non avesse
finalmente requie tra i morti, chi così tanta acqua
 aveva attinto nel corso di sua vita’.

SFERO (floruit c. 220 a. C.)

[VII,177] Anche Sfero di Boristene fu allievo, dopo Zenone, di Cleante; e quando ebbe fatto sufficiente progresso negli studi filosofici se ne andò ad Alessandria, alla corte di Tolomeo Filopatore. Sfero se ne andò dunque ad Alessandria, alla corte di Tolomeo Filopatore. Una volta il discorso cadde sulla questione se il sapiente avrà delle opinioni, e Sfero sosteneva che il sapiente non opinerà. Il re volle però contestarlo ed ordinò che fossero servite in tavola delle melagrane di cera. Poiché Sfero ne fu tratto in inganno, il re gridò ad alta voce che egli aveva dato l’assenso ad una falsa rappresentazione. Ma la risposta di Sfero colse nel segno, giacché egli affermò di avere dato il suo assenso non alla rappresentazione che esse fossero melagrane ma a quella della ragionevolezza che esse fossero melagrane. Vi è infatti differenza tra la rappresentazione catalettica e la rappresentazione della ragionevolezza di qualcosa. A Mnesistrato che lo accusava di affermare che Tolomeo non era re, [VII,Sfero replicò]: “Dato che Tolomeo è un individuo siffatto, è anche re”. 
[VII,178] Egli scrisse i seguenti libri: 
‘Sul cosmo (2 libri)’, ‘Sugli elementi’, ‘Sullo sperma’, ‘Sulla fortuna’, ‘Sui minimi’, ‘Contro gli atomi e le immagini astratte’, ‘Sugli organi di senso’, ‘Cinque lezioni su Eraclito’, ‘Diatribe’, ‘Sulla costituzione etica’, ‘Sul doveroso’, ‘Sull’impulso’, ‘Sulle passioni (2 libri)’, ‘Sul regno’, ‘Sulla Costituzione di Sparta’, ‘Su Licurgo e Socrate (tre libri)’, ‘Sulla legge’, ‘Sulla mantica’, ‘Dialoghi erotici’, ‘Sui filosofi Eretriaci’, ‘Sui simili’, ‘Sulle definizioni’, ‘Sulla postura dell’animo’, ‘Sulle obiezioni (tre libri)’, ‘Sulla ragione’, ‘Sulla ricchezza’, ‘Sulla fama’, ‘Sulla morte’, ‘Sull’arte dialettica (2 libri)’, ‘Sui predicati’, ‘Sui termini ambigui’, ‘Lettere’.

CRISIPPO (c. 282 – 206 a. C.)

[VII,179] Crisippo, figlio di Apollonio, era nato a Soli o a Tarso, come attesta Alessandro nelle ‘Successioni’, e fu discepolo di Cleante. In un primo tempo Crisippo praticava la corsa di fondo. In tempi successivi ascoltò le lezioni di Zenone o, come attestano Diocle e la maggior parte degli autori, quelle di Cleante. Abbandonò la sua scuola quando questi era ancora in vita e divenne un filosofo nient’affatto qualunque. L’uomo era un purosangue di grandissima acutezza in tutti i campi della filosofia, tanto che su un gran numero di punti si differenziò sia da Zenone che da Cleante, al quale soleva spesso dire che aveva bisogno soltanto dell’insegnamento dei principi dottrinali, giacché le loro dimostrazioni le avrebbe trovate da solo. Ogni volta che prendeva le distanze da lui soleva però pentirsi, sicché continuamente proferiva questi versi:

Io sono per natura, quanto al resto, un uomo beato;
tranne che in relazione a Cleante: in questa non mi riesce d’essere felice’

[VII,180] Divenne un dialettico così rinomato che i più reputavano che se presso gli dei ci fosse un posto per la dialettica, questo non sarebbe occupato da altra dialettica che quella di Crisippo. Poiché aveva a disposizione una pletora di argomentazioni di sostanza, non rifinì la loro espressione. Era un faticatore straordinario quant’altri mai, come è manifesto dalle sue compilazioni il cui numero supera le settecento cinque. Egli le moltiplicava mettendo più volte mano al medesimo principio dottrinale, scrivendo tutto quel che gli veniva in mente, correggendolo più volte e citando il maggior numero possibile di testimonianze; tant’è che una volta, quando in una delle sue compilazioni per poco non citò tutta intera la Medea di Euripide, un tale che aveva tra le mani il libro rispose a chi gli chiedeva che libro avesse: “La Medea di Crisippo”. 
[VII,181] E Apollodoro di Atene nella sua ‘Raccolta di principi dottrinali’, volendo far riscontrare come le opere di Epicuro, in quanto scritte con originalità e prive di citazioni, siano enormemente più copiose dei libri di Crisippo, afferma testualmente così: “Se infatti si eliminassero dai libri di Crisippo tutte quante le citazioni di altri autori, le sue pagine resterebbero vuote”. Questo dice Apollodoro. D’altra parte, come afferma Diocle, l’anziana governate di Crisippo sosteneva che egli scrivesse giornalmente cinquecento righe. Ed Ecatone afferma che egli era venuto alla filosofia dopo che il patrimonio paterno era stato confiscato a favore del tesoro reale. 
[VII,182] Era mingherlino di corpo, come è manifesto dalla statua che si trova nel Ceramico, la quale è quasi completamente nascosta da quella di un cavaliere lì vicino. Ragion per cui Carneade soleva chiamarlo ‘Cripsippo’. Quando un tale gli rinfacciò di non frequentare, insieme a molti altri, la scuola di Aristone, Crisippo gli rispose: “Se prestassi attenzione alla maggioranza non avrei fatto una vita filosofica”. Al dialettico che insorgeva contro Cleante e gli proponeva dei sofismi, Crisippo disse: “Smettila di distrarre chi è più anziano dalle faccende di sostanza, e proponili invece a noi giovani”. Ed ancora: un tale, quando gli poneva dei quesiti da solo a solo discorreva con lui con equilibrio; ma quando vedeva avvicinarsi loro della folla, cominciava a voler avere ragione a tutti i costi. Allora Crisippo soleva dirgli:

‘Ahimé, fratello; il tuo occhio t’è causa di sconcerto,
 di volo sei diventato rabbioso, mentre testé eri assennato’

[VII,183] Quand’era brillo se ne stava quieto e tranquillo, anche se gli traballavano le gambe. Sicché la serva diceva: “Di Crisippo si ubriacano soltanto le gambe”. Crisippo aveva una tale stima di se stesso che quando un tale gli chiese: “A chi raccomanderò mio figlio?”, rispose: “A me. Infatti, se io concepissi che c’è qualcuno migliore di me, io stesso studierei la filosofia presso di lui”. Onde si afferma che su di lui si diceva:

‘Lui soltanto è sapiente; gli altri sono ombre che s’agitano’

e anche:

‘Se Crisippo non ci fosse, non ci sarebbe la Stoa’

Infine, secondo quanto afferma Sozione nel suo ottavo libro, Crisippo si presentò ad Arcesilao e a Lacide, e seguì le loro lezioni di filosofia nell’Accademia. [VII,184] Questo è il motivo per cui egli argomentò dialetticamente pro e contro le comuni consuetudini, ed utilizzò sulle grandezze e sui numerali l’impostazione degli Accademici. Ermippo afferma che quando teneva scuola nell’Odeon fu invitato dai suoi discepoli a partecipare ad un sacrificio. Qui, dopo avere sorbito del vino puro dolce, fu preso dalle vertigini e, passati cinque giorni, se ne partì dal genere umano; dopo avere vissuto settantatré anni, nel corso della centoquarantatreesima Olimpiade (208-204 a.C.), secondo quanto afferma Apollodoro nelle sue ‘Cronache’. C’è un nostro scherzo in versi dedicato a lui:

‘Dopo avere avidamente tracannato del succo di Bacco
a Crisippo vennero le vertigini. Allora non ebbe più riguardo
 né della Stoa, né della patria, né dell’animo suo
e se ne venne nella dimora di Ade’

[VII,185] Taluni affermano invece che egli morì per un accesso di riso. Un asino s’era infatti mangiato i suoi fichi. Egli disse allora alla vecchia governante di dare da sorseggiare all’asino del vino puro e, mentre si sganasciava dalle risate, morì. 
Sembra che fosse d’animo disdegnoso: pur avendo, infatti, compilato un tal numero di opere, non ne ha dedicata neppure una a qualche re. S’accontentava d’una sola vecchietta come governante, secondo quanto afferma anche Demetrio nei suoi ‘Omonimi’. Quando Tolomeo scrisse a Cleante di venire di persona alla sua corte oppure di mandare qualcuno, Sfero partì mentre Crisippo, invece, non badò all’invito. Fece convocare presso di sé i figli della sorella, Aristocreonte e Filocrate, e ne forgiò il carattere. Per primo ebbe il coraggio di tenere scuola all’aria aperta nel Liceo, come riferisce il predetto Demetrio. 
[VII,186] Ci fu anche un altro Crisippo, un medico originario di Cnido, dalle cui cure Erasistrato afferma di avere tratto grandissimo giovamento. Un altro Crisippo, nipote del precedente, fu un medico di Tolomeo intorno al quale furono fatte girare delle calunnie e che fu punito a frustate. Un altro Crisippo fu un discepolo di Erasistrato. Un altro ancora, un tale che scrisse un’opera sull’Agricoltura. 
Il nostro filosofo soleva prospettare ragionamenti anche di questo genere. ‘Chi rivela i misteri ai non iniziati commette un’empietà; ma lo ierofante rivela i misteri ai non iniziati; dunque lo ierofante commette un’empietà’. Un altro è questo: ‘Ciò che non è nella città neppure è nella casa; ma in città non c’è un pozzo; dunque non c’è neppure nella casa’. Un altro: ‘C’è una testa, e quella tu non hai; c’è dunque una testa che tu non hai; dunque tu non hai una testa’. [VII,187] Un altro: ‘Se uno è a Megara non è ad Atene; un uomo è a Megara; dunque non c’è un uomo ad Atene’. E ancora: ‘Se tu dici qualcosa, questo passa attraverso la tua bocca; tu dici ‘carro’; dunque un carro passa attraverso la tua bocca’. E infine: ‘Se tu non hai buttato via qualcosa, ce l’hai; ma tu no hai buttato via le corna; dunque tu hai le corna’. Alcuni affermano però che quest’ultimo ragionamento è di Eubulide. 
Vi sono alcuni che inveiscono contro Crisippo per avere scritto molte cose vergognose e indicibili. Infatti, nella compilazione ‘Sugli antichi filosofi della natura’ egli riplasma per seicento righe le vicende che riguardano Era e Zeus, dicendo cose che nessuno, pur così sfortunato da avere la bocca sudicia, direbbe. [VII,188] I suoi detrattori affermano che questa storia vergognosissima che egli riplasma e che loda come naturale, si confà alle prostitute piuttosto che alle dee, che non è repertoriata dagli autori di opere sui dipinti, giacché non è riferita né da Polemone, né da Ipsicrate e neppure da Antigono, e che si tratta quindi di una storia inventata da Crisippo stesso. Ne ‘La repubblica’ Crisippo afferma lecito avere dei coiti con le madri, con le figlie e con i figli. Le stesse cose egli le afferma anche nel libro ‘Sulle cose che possono essere scelte non per se stesse’, subito all’inizio. Nel terzo libro ‘Sul giusto’, per un migliaio di righe Crisippo intima di divorare i morti. Nel secondo libro ‘Sulle vite’ Crisippo ragiona sul procurarsi di che vivere e parla del modo in cui il sapiente debba provvedervi. [VII,189] Eppure perché egli deve provvedervi? Se infatti è per vivere, il vivere è un indifferente. Se è per il piacere che se ne trae, anche il piacere è un indifferente. Se è per la virtù, la virtù è autosufficiente per la felicità. Risibili sono anche i modi per procurarsi di che vivere. Per esempio, grazie ai mezzi che provengono da un re: ma allora egli dovrà cedergli il passo. Grazie a quelli che provengono dall’amicizia: ma allora l’amicizia sarà comperabile per lucro. Grazie a quelli che provengono dalla sapienza: ma allora la sapienza è una cosa mercenaria. Queste sono le obiezioni che gli sono mosse. 
Poiché i libri di Crisippo sono altamente accreditati, ho reputato opportuno registrarne qui il catalogo per specie. I libri sono i seguenti:

I. Ambito Logico: sull’articolazione dei concetti logici. 

‘Tesi logiche’, ‘Le speculazioni del filosofo’, ‘Definizioni dialettiche, a Metrodoro (6 libri)’, ‘Sui termini usati in dialettica, a Zenone (1 libro)’, [VII,190] ‘Arte dialettica, ad Aristagora (1 libro)’, ‘Proposizioni ipotetiche plausibili, a Dioscuride (4 libri)’.

II. Ambito Logico: i fatti concreti. 

Prima serie di trattati:
‘Sulle proposizioni (1 libro)’, ‘Sulle proposizioni non semplici (1 libro)’, ‘Sul periodo copulativamente coordinato, ad Atenade (2 libri)’, ‘Sulle proposizioni negative, ad Aristagora (tre libri)’, ‘Sulle proposizioni determinative, ad Atenodoro (1 libro)’, ‘Sugli enunciati per privazione, a Tearo (1 libro)’, ‘Sulle proposizioni indefinite, a Dione (3 libri)’, ‘Sulla differenza tra proposizioni indefinite (4 libri)’, ‘Sugli enunciati temporali (2 libri)’, ‘Sulle proposizioni perfettive (2 libri)’.

Seconda serie di trattati:
‘Sul vero periodo disgiuntivo, a Gorgippide (1 libro)’, ‘Sul vero periodo ipotetico, a Gorgippide (4 libri)’, [VII,191] ‘La scelta, a Gorgippide (1 libro)’, ‘Contributo sulle proposizioni consecutive (1 libro)’, ‘Sul periodo a tre termini, di nuovo a Gorgippide (1 libro)’, ‘Sui possibili, a Clito (4 libri)’, ‘Contro il “Sui significati” di Filone (1 libro)’, ‘Su quali siano gli enunciati falsi (1 libro)’.

Terza serie di trattati:
‘Sugli imperativi (2 libri)’, ‘Sulla domanda (2 libri)’, ‘Sull’interrogazione (4 libri)’, ‘Compendio sulla domanda e sull’interrogazione (1 libro)’, ‘Compendio sulla risposta (1 libro)’, ‘Sulla ricerca (1 libro)’, ‘Sulla risposta (1 libro)’.

[VII,192] Quarta serie di trattati:
‘Sui predicati, a Metrodoro (dieci libri)’, ‘Sui predicati attivi e passivi, a Filarco (1 libro)’, ‘Sui congiuntivi (1 libro)’, ‘A Pasilo, sui predicati (4 libri)’.

Quinta serie di trattati:
‘Sui cinque casi (1 libro)’, ‘Sugli enunciati definiti secondo il caso in oggetto (1 libro)’, ‘Sul diverso significato dei casi, a Stesagora (2 libri)’, ‘Sugli appellativi (2 libri)’.

III. Ambito logico: sulle locuzioni e il discorso risultante

Prima serie di trattati:
‘Sugli enunciati singolari e plurali (6 libri)’, ‘Sulle locuzioni, a Sosigene e ad Alessandro (5 libri)’, ‘Sull’anomalia nelle locuzioni, a Dione (4 libri)’, ‘Sui soriti applicati alle voci (3 libri)’, ‘Sui solecismi (1 libro)’, ‘Sui discorsi contenenti solecismi, a Dioniso (1 libro)’, ‘Linguaggi inconsueti (1 libro)’, ‘La locuzione, a Dioniso (1 libro)’.

Seconda serie di trattati:
‘Sugli elementi del discorso e delle frasi (5 libri)’, ‘Sulla sintassi delle frasi (4 libri)’, [VII,193] ‘Sulla sintassi e sugli elementi delle frasi, a Filippo (3 libri)’, ‘Sugli elementi del discorso, a Nicia (1 libro)’, ‘Sulla frase relativa (1 libro)’.

Terza serie di trattati:
‘Contro coloro che non praticano la diairesi (2 libri)’, ‘Sulle anfibolie, ad Apollas (4 libri)’, ‘Sulle anfibolie tropiche (1 libro)’, ‘Sull’anfibolia tropica ipotetica (2 libri)’, ‘Contro il “Sulle anfibolie” di Pantoide (2 libri)’, ‘Sull’introduzione alle anfibolie (5 libri)’, ‘Compendio delle anfibolie, a Epicrate (1 libro)’, ‘Raccolta per l’introduzione alle anfibolie (2 libri)’.

IV. Ambito logico: per i ragionamenti e i tropi

Prima serie di trattati:
‘Arte dei ragionamenti e dei tropi (5 libri)’, [VII,194] ‘Sui ragionamenti (3 libri)’, ‘Sulla impostazione dei tropi, a Stesagora (2 libri)’, ‘Paragone delle proposizioni tropiche (1 libro)’, ‘Sui ragionamenti reversibili e ipotetici (1 libro)’, ‘Ad Agatone o sui problemi in serie (1 libro)’, ‘Su quali premesse siano valide in un sillogismo in relazione ad una o più altre premesse (1 libro)’, ‘Sulle conclusioni logiche, ad Aristagora (1 libro)’, ‘Sulla formulazione di un medesimo ragionamento in più tropi (1 libro)’, ‘Contro le obiezioni al fatto che il medesimo ragionamento sia stato formulato sillogisticamente e non sillogisticamente (2 libri)’, ‘Contro le obiezioni alle risoluzioni dei sillogismi (3 libri)’, ‘Contro il “Sui tropi” di Filone, a Timostrato (1 libro)’, ‘Raccolte logiche contro le opere “Sui ragionamenti e sui tropi” di Timocrate e di Filomate, (1 libro)’.

[VII,195] Seconda serie di trattati:
‘Sui ragionamenti concludenti, a Zenone (1 libro)’, ‘Sui sillogismi primi e anapodittici, a Zenone (1 libro)’, ‘Sulla risoluzione dei sillogismi (1 libro)’, ‘Sui ragionamenti ridondanti, a Pasilo (2 libri)’, ‘Sui principi generali dei sillogismi (1 libro)’, ‘Sui sillogismi introduttivi, a Zenone (1 libro)’, ‘I tropi introduttivi, a Zenone (3 libri)’, ‘Sui sillogismi con figure false (5 libri)’, ‘Ragionamenti sillogistici risolti in anapodittici (1 libro)’, ‘Ricerche tropiche, a Zenone e Filomate [ma quest’opera è ritenuta spuria] (1 libro)’.

Terza serie di trattati:
‘Sui ragionamenti equivoci, a Atenade [ma quest’opera è ritenuta spuria] (1 libro)’, [VII,196] ‘Ragionamenti equivoci nel termine intermedio [ma quest’opera è ritenuta spuria] (3 libri)’, ‘Contro i ragionamenti disgiuntivi di Aminia (1 libro)’.

Quarta serie di trattati:
‘Sulle ipotesi, a Meleagro (3 libri)’, ‘Ragionamenti per ipotesi sulle leggi, di nuovo a Meleagro (1 libro)’, ‘Ragionamenti per ipotesi, a mo’ d’introduzione (2 libri)’, ‘Ragionamenti per ipotesi sui principi generali (2 libri)’, ‘Soluzione dei ragionamenti per ipotesi di Edilo (2 libri)’, ‘Soluzione dei ragionamenti per ipotesi di Alessandro [ma quest’opera è ritenuta spuria] (3 libri)’, ‘Sulle esposizioni, a Laodamante (1 libro)’.

Quinta serie di trattati:
‘Sulla introduzione al “Mentitore”, ad Aristocreonte (1 libro)’, ‘Ragionamenti falsi, a mo’ d’introduzione (1 libro)’, ‘Sul “Mentitore”, ad Aristocreonte (6 libri)’.

Sesta serie di trattati:
‘Contro coloro che legittimano l’idea che le proposizioni siano ad un tempo false e vere (1 libro)’, [VII,197] ‘Contro coloro che risolvono il ragionamento “Mentitore” per stralcio, ad Aristocreonte (2 libri)’, ‘Dimostrazioni che non si devono stralciare le proposizioni indefinite (1 libro)’, ‘Contro le obiezioni dei favorevoli allo stralcio delle proposizioni indefinite, a Pasilo (3 libri)’, ‘Soluzione secondo gli antichi, a Dioscuride (1 libro)’, ‘Sulla soluzione del “Mentitore”, ad Aristocreonte (3 libri)’, ‘Soluzione dei ragionamenti per ipotesi di Edilo, ad Aristocreonte ed Apollas (1 libro)’.

Settima serie di trattati:
‘Contro quanti sono dell’avviso che le premesse del “Mentitore” siano false (1 libro)’, ‘Sul ‘Diniegatore’, ad Aristocreonte (2 libri)’, ‘Ragionamenti diniegatori, per esercizio (1 libro)’, ‘Sul ragionamento “Approssimativo”, a Stesagora (2 libri)’, ‘Sui ragionamenti “Per farsi delle concezioni” e “Quiescenti”, a Onetore (2 libri)’, [VII,198] ‘Sul “Velato”, ad Aristobulo (2 libri)’, ‘Sul “Nascosto”, ad Atenade (1 libro)’.

Ottava serie di trattati:
‘Sul “Nessuno”, a Menecrate (8 libri)’, ‘Sui ragionamenti a premessa indefinita e definita, a Pasilo (2 libri)’, ‘Sul ragionamento “Nessuno”, a Epicrate (1 libro)’.

Nona serie di trattati:
‘Sui sofismi, a Eraclide e Pollide (2 libri)’, ‘Sulle questioni dialettiche insolubili, a Dioscuride (5 libri)’, ‘Contro il metodo di Arcesilao, a Sfero (1 libro)’.

Decima serie di trattati:
‘Contro la comune consuetudine, a Metrodoro (6 libri)’, ‘A favore della comune consuetudine, a Gorgippide (7 libri)’.

V. Ambito logico: libri che esulano dalle quattro predette differenti sezioni e che includono ricerche logiche sparse e non organiche con quelle catalogate. Si tratta di 39 libri di ricerche, su un totale di 311 libri di logica.

[VII,199] 1. Ambito etico: sulla articolazione dei concetti etici.

Prima serie di trattati:
‘Delineazioni del discorso etico, a Teoporo (1 libro)’, ‘Tesi etiche (1 libro)’, ‘Premesse plausibili ai principi dottrinali, a Filomate (3 libri)’, ‘Definizioni del concetto di virtuoso, a Metrodoro (2 libri)’, ‘Definizioni del concetto di vizioso, a Metrodoro (2 libri)’, ‘Definizioni del concetto di intermedio, a Metrodoro (2 libri)’, ‘Definizioni dei concetti secondo il genere, a Metrodoro (7 libri)’, ‘Definizioni dei concetti secondo le altre arti, a Metrodoro (2 libri)’.

Seconda serie di trattati:
‘Sui simili, ad Aristocle (3 libri)’, ‘Sulle definizioni, a Metrodoro (7 libri)’.

Terza serie di trattati: 
‘Su coloro che obiettano non rettamente al ‘Sulle definizioni’, a Laodamante (7 libri)’, [VII,200] ‘Argomenti plausibili a sostegno del ‘Sulle definizioni’, a Dioscuride (2 libri)’, ‘Sulle specie e sui generi, a Gorgippide (2 libri)’, ‘Sulle diairesi (1 libro)’, ‘Sui contrari, a Dionisio (1 libro)’, ‘Argomenti plausibili a sostegno del ‘Sulle diairesi’, del ‘Sulle specie e sui generi’ e del ‘Sui contrari’ (1 libro)’.

Quarta serie di trattati:
‘Sulle etimologie, a Diocle (7 libri)’, ‘Etimologie, a Diocle (4 libri)’.

Quinta serie di trattati:
‘Sui proverbi, a Zenodoto (2 libri)’, ‘Sui poemi, a Filomate (1 libro)’, ‘Sul come si debbano ascoltare i poemi (2 libri)’, ‘Contro i critici, a Diodoro (1 libro)’.

2. [VII,201] Ambito etico: sul discorso comune e sulle arti e virtù che da questo derivano.

Prima serie di trattati:
‘Contro le raffigurazioni pittoriche, a Timonatte (1 libro)’, ‘Sul modo in cui noi diciamo e pensiamo ciascuna cosa (1 libro)’, ‘Sui concetti, a Laodamante (2 libri)’, ‘Sulle concezioni, a Pitonatte (3 libri)’, ‘Dimostrazioni che il sapiente non opina (1 libro)’, ‘Sull’apprensione certa, la scienza e l’ignoranza (4 libri)’, ‘Sul ragionamento (2 libri)’, ‘Sull’uso del ragionamento, a Leptine’.

Seconda serie di trattati:
‘Sull’ammissione della dialettica da parte degli antichi, con le relative dimostrazioni; a Zenone (2 libri)’, [VII,202] ‘Sulla dialettica, ad Aristocreonte (4 libri)’, ‘Sulle obiezioni ai dialettici (3 libri)’, ‘Sulla retorica, a Dioscuride (4 libri)’.

Terza serie di trattati:
‘Sulla postura morale, a Cleone (3 libri)’, ‘Sull’arte e sull’imperizia nell’arte, ad Aristocreonte (4 libri)’, ‘Sulla differenza tra le virtù, a Diodoro (4 libri)’, ‘Sull’essere le virtù delle qualità (1 libro)’, ‘Sulle virtù, a Pollide (2 libri)’.

3. Ambito etico: sui beni e sui mali.

Prima serie di trattati:
‘Sul bello e sul piacere fisico, ad Aristocreonte (10 libri)’, ‘Dimostrazioni che il piacere fisico non è un fine (4 libri)’, ‘Dimostrazioni che il piacere fisico non è un bene, (4 libri)’, ‘Sugli argomenti a favore di ****

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Omaggio a Socrate – Diogene Laerzio ‘Vite dei filosofi’ Libro II

DIOGENE LAERZIO LIBRO II

SOCRATE (469 – 399 a. C.)

[II,18] Socrate era figlio di Sofronisco, uno scalpellino, e di Fenarete, una mammana, come afferma Platone nel ‘Teeteto’. Era Ateniese, del demo Alopece. Pare che abbia collaborato con Euripide, ragion per cui Mnesimaco dice così:

‘Questo è ‘I Frigi’, il nuovo dramma di Euripide
<cucinato dentro un pentolone> sotto il quale anche Socrate 
mette di suo della legna secca’

e ancora:

‘Euripide incavicchiato da Socrate’.

E Callia nei suoi ‘Prigionieri in ceppi’ dice:

‘A. Perché hai un’aria così solenne e così orgogliosa?
B. Ne ho ben donde: Socrate è il mio autore’.

E Aristofane nelle ‘Nuvole’:

‘È questo qui che fa le tragedie per Euripide,
quelle storie piene di ciarle sapienti’.

[II,19] Secondo alcuni egli fu uditore di Anassagora; ma anche di Damone, come afferma Alessandro nelle sue ‘Successioni dei filosofi’. Dopo la condanna di Anassagora divenne discepolo del fisico Archelao del quale, secondo Aristosseno, diventò pure l’amasio. Duride riferisce che egli fece il manovale e che lavorava la pietra; e taluni affermano che sono opera sua le Grazie con i drappeggi che si trovano sull’Acropoli. Perciò Timone nei suoi ‘Silli’ dice:

‘Altra strada rispetto ai quali prese <Socrate>, lo scalpellino, il ciarlone di leggi,
l’ammaliatore dei Greci, l’inventore di sottili argomentazioni,
il motteggiatore derisore dei retori, l’ironizzatore Attico a metà’.

Come riferisce Idomeneo, Socrate era infatti un abilissimo oratore; [II,20] ma i Trenta, secondo quanto racconta Senofonte, gli vietarono di insegnare l’arte della parola. Aristofane gli fa fare in commedia la parte di colui che è capace di trasformare il torto in ragione. Secondo quanto afferma Favorino nella sua ‘Storia varia’, Socrate fu il primo, insieme al suo allievo Eschine, ad insegnare la retorica. Anche Idomeneo dice la stessa cosa nella sua opera ‘Sui Socratici’. Egli fu anche il primo a discutere sulla condotta della vita umana e morì, primo tra tutti i filosofi, in seguito a una condanna a morte. Aristosseno, figlio di Spintaro, afferma che egli si occupò di finanza, giacché soleva investire un certo capitale, ricavarne un interesse, spendere l’interesse e reinvestire il capitale. Demetrio di Bisanzio riferisce che Critone, innamoratosi della grazia del suo animo, lo tirò fuori dall’officina nella quale lavorava e lo fece educare. [II,21] Una volta riconosciuto che la speculazione naturalistica non ha per noi alcun valore, Socrate discuteva di questioni etiche sia nelle officine che nella piazza del mercato, ripetendo che a lui interessava ricercare:

‘quel che di cattivo e di buono c’è nella magione’.

Nel corso delle sue ricerche discuteva spesso con grande veemenza, sicché gli interlocutori lo prendevano a pugni oppure gli strappavano i capelli; la maggior parte delle volte, però, lo deridevano con disprezzo. Ma egli sopportava pazientemente tutte queste offese. Ragion per cui anche quando fu preso a calci, poiché un tale era meravigliato della sua sopportazione Socrate gli disse: “Se mi avesse dato un calcio un asino, forse che gli farei intentare un processo?”. Queste sono le cose che racconta Demetrio. [II,22] Come accade ai più, non ebbe mai bisogno di andare all’estero fuorché quando ci fu bisogno di partecipare ad una spedizione militare. Per il resto del tempo se ne stava ad Atene e qui la sua maggiore ambizione era di poter fare dibattiti, non per far cambiare opinione agli interlocutori bensì nel tentativo di imparare da loro la verità. Si racconta che Euripide gli diede una copia dell’opera di Eraclito e gli chiese: “Cosa ti sembra?”. La risposta di Socrate fu: “Le cose che ho capito mi sembrano davvero eccellenti, e credo che lo siano anche quelle che non ho capito, eccetto che per arrivare al loro fondo c’è bisogno di un palombaro di Delo”. Usava darsi gran cura degli esercizi fisici ed era di corporatura forte e vigorosa. Prese parte alla spedizione militare contro Amfipoli, e nella battaglia di Delio raccolse e salvò la vita a Senofonte che era caduto da cavallo. [II,23] In quell’occasione, mentre tutti gli Ateniesi s’erano dati ad una fuga precipitosa, Socrate arretrava invece senza fretta, volgendosi continuamente qua e là e pronto a difendersi se mai qualcuno lo assalisse. Partecipò anche alla spedizione militare contro Potidea: città che fu raggiunta per via di mare in quanto, a causa della guerra in corso, era impossibile arrivarvi per via di terra. Si racconta che in quest’occasione Socrate tenne per una notte intera una certa posizione militare chiave. Si meritò così sul campo il primo premio del valore, che egli però cedette ad Alcibiade del quale, come afferma Aristippo nel quarto libro della sua opera ‘Sulla dissolutezza degli antichi’, egli era l’amante. Ione di Chio afferma che da giovane Socrate viaggiò fino a Samo in compagnia di Archelao, ed Aristotele che andò a Delfi. Nel primo libro dei suoi ‘Memorabili’ Favorino riferisce poi che egli raggiunse anche l’Istmo di Corinto. [II,24] Era un uomo di solide convinzioni e favorevole al partito popolare. Ciò è manifesto dal fatto che non cedette agli ordini dei membri del partito di Crizia, i quali gli intimarono di portare dinanzi a loro Leonte di Salamina, un uomo assai ricco, per mandarlo a morte; e che fu il solo a votare contro la condanna dei dieci generali. Altrettanto manifesto ciò è dal fatto che quando gli fu possibile evadere dalla prigione, egli non volle farlo; che censurò coloro che erompevano in alti lamenti per la sua sorte; e che fece quei famosi, bellissimi discorsi mentre era in catene. Era un uomo di carattere indipendente e che ispirava rispetto. Nel settimo libro dei suoi ‘Appunti’, Panfilo ricorda che una volta Alcibiade gli offrì un grande pezzo di terreno affinché potesse costruirvi sopra una casa, e che lui gli disse: “Se io avessi bisogno di calzari e tu mi offrissi del cuoio col quale farmeli io stesso, sarei ridicolo se lo accettassi”. [II,25] Spesso, guardando la moltitudine di merci che erano poste in vendita, diceva a se stesso: “Di quante cose non ho bisogno!”. Di continuo poi recitava ad alta voce questi versi giambici:

‘Le argenterie o le vesti di porpora
son buone per le tragedie, non per la vita’.

Trattò con profondo disprezzo Archelao di Macedonia, Scopa di Crannone ed Euriloco di Larissa, non accettando soldi da loro e non recandosi alle loro corti. Il suo tenore di vita era disciplinatissimo, tanto che quando ad Atene vi erano delle pestilenze, spesso lui era il solo a non ammalarsi. [II,26] Aristotele dice che egli sposò due donne. La prima fu Santippe, dalla quale ebbe il figlio Lamprocle. La seconda fu Mirto, figlia di Aristide detto ‘il Giusto’, che egli prese in sposa pur se priva di dote e dalla quale nacquero i figli Sofronisco e Menesseno. Altri affermano però che egli sposò per prima Mirto. Altri ancora, tra i quali sono Satiro e Ieronimo di Rodi, riferiscono che egli le ebbe contemporaneamente entrambi come mogli. Essi raccontano infatti che gli Ateniesi avevano deliberato di accrescere di numero la popolazione e che, a causa della scarsezza di individui maschi, avevano votato di concedere il diritto di sposare una donna cittadina e però di avere figli anche da un’altra: il che è ciò che anche Socrate fece. [II,27] Era capace di guardare dall’alto in basso coloro che lo schernivano; andava fiero della sua parsimonia e non riscosse mai alcuno stipendio. Poiché mangiava con sommo piacere, soleva dire di non avere affatto bisogno di cibi squisiti; e poiché beveva con sommo piacere, diceva di non aspettarsi altra bevanda che quella che era a disposizione; e poiché aveva bisogno di pochissime cose, di essere vicinissimo agli dei. Queste sue affermazioni si possono apprendere anche dai testi dei commediografi, i quali non si rendono conto di stare lodandolo proprio attraverso ciò che dicono di lui per schernirlo. Aristofane parla di lui in questi termini:

‘O uomo giustamente smanioso della grande sapienza,
come te la passerai felice tra gli Ateniesi ed i Greci!
Tu sei uno di memoria tenace, e pensatore, e la sopportazione è dentro
l’animo tuo, e non ti stanchi né stando fermo né camminando,
e non soffri troppo quando hai freddo, e non dai in smanie per la colazione,
e ti astieni dal vino, dalla voracità e dalle altre stupidaggini’.

[II,28] Amipsia, mettendolo in scena con indosso una mantellina, dice così:

‘O Socrate, di un pugno d’uomini il migliore, 
certo di gran lunga il più stravagante, anche tu 
sei giunto tra di noi. Forte lo sei davvero. Ma da dove 
potrebbe venire per te una mantella di cuoio?
B. Questa mancanza è diventata un’offesa per i cuoiai!
A. Costui, pur affamato non s’è mai piegato ad adulare!

Il suo sguardo superiore e la sua grandezza d’animo, la rende palese Aristofane quando dice:

‘Perché tu ti pavoneggi per le strade, e torci gli occhi,
e scalzo molti mali sopporti, e guardi a noi con aria grave’.

Eppure, a volte e nelle opportune occasioni Socrate sapeva adattarsi ed indossare splendide vesti: come quando, nel ‘Simposio’ di Platone, sta camminando verso la casa di Agatone. [II,29] Socrate era abile tanto nello spronare gli altri quanto nel trattenerli. Infatti, dopo avere discusso con lui su cosa sia la ‘scienza’, congedò Teeteto pieno di entusiasmo, come ci riferisce Platone. Invece, facendo con lui una serie di considerazioni su cosa sia il ‘sacro’, distolse dal suo proposito Eutifrone, il quale voleva intentare un processo contro suo padre per l’omicidio di un servo di casa. E con lo spronarlo alla virtù, fece di Liside una persona di grande moralità. Socrate era infatti abilissimo a trovare le proprie argomentazioni traendole dai fatti. Fece rinsavire anche suo figlio Lamprocle, il quale era oltremodo infuriato contro la madre Santippe; come racconta, se non erro, Senofonte. Distornò Glaucone, il fratello di Platone che voleva interessarsi di affari cittadini, da un simile progetto in quanto del tutto inesperto di politica, come dice Senofonte. Al contrario, invece, assistette Carmide in tale progetto in quanto possedeva le qualità adatte allo scopo. [II,30] Risollevò lo spirito di Ificrate, il generale, mostrandogli i galli da combattimento del barbiere Midia, che sbattendo le ali sfidavano quelli di Callia. E Carmide, il figlio di Glaucone, era del parere che Socrate procacciasse alla città il prestigio che procaccia il possesso di un fagiano o di un pavone. Soleva ripetere che è stupefacente la facilità con la quale ciascuno di noi saprebbe dire il numero delle pecore che ha, e invece non saprebbe dire né il nome né il numero degli amici che possiede: a tal punto li tiene in poco conto. Vedendo che Euclide s’industriava assai sui discorsi eristici, gli disse: “Euclide, potrai adoperarli con i sofisti, ma con gli uomini mai”; giacché credeva del tutto inutile, come afferma Platone nel suo ‘Eutidemo’, darsi da fare su ragionamenti frivoli e cavillosi. [II,31] Quando Carmide gli offrì dei servi affinché potesse dal loro lavoro ricavare delle entrate, Socrate declinò l’offerta; e secondo alcuni ebbe anche in disdegno la bellezza fisica di Alcibiade. Secondo quanto afferma Senofonte nel suo ‘Simposio’, lodava invece il tempo libero dedicato all’educazione come il più meraviglioso dei possessi. Ripeteva perciò che vi è un solo bene: la scienza; e un solo male: l’ignoranza; e che la ricchezza di denaro e la nobiltà di natali non incorporano in se stessi alcunché di buono e solenne bensì, tutt’al contrario, ogni male. Quando dunque un tale gli disse che Antistene aveva una madre originaria della Tracia, Socrate gli rispose: “E tu crederesti che da due Ateniesi possa nascere una persona di tale nobiltà d’animo?”. Ingiunse poi a Critone di pagare il riscatto di Fedone il quale, essendo un prigioniero di guerra era costretto a prostituirsi, e ne fece un filosofo. [II,32] Quand’era ormai vecchio imparò a suonare la lira, affermando che nulla c’è di assurdo nell’imparare le cose che uno non sa. Danzava inoltre regolarmente, ritenendo che simile ginnastica fosse vantaggiosa per la buona complessione fisica, come anche Senofonte afferma nel suo ‘Simposio’. Soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo quel che gli sarebbe accaduto; che l’essere da esso ben comandati, anche se per poco tempo, non è piccola cosa; e di nulla sapere se non sapere che c’è questo demone. Diceva anche che quanti comperano a caro prezzo frutti precoci, rinunciano con ciò a farli giungere a maturazione. Interrogato una volta su quale fosse la virtù di un giovane, rispose: “Nulla di troppo”. Era dell’avviso che si debba imparare la geometria fino al punto da essere capaci di misurare la terra che si acquisisce o si cede. [II,33] Quando nella sua ‘Auge’ Euripide afferma della virtù che:

‘la miglior cosa è lasciar queste cose andare come capita’,

Socrate si alzò e uscì dal teatro, dicendo che è ridicolo ritenere cosa degna l’andare in cerca di un servo fuggitivo che non si trova, e invece lasciar andare in malora a questo modo la virtù. Richiesto da un tale se sia il caso di sposarsi oppure no, rispose: “Qualunque delle due cose tu faccia, te ne pentirai”. Diceva anche di stupirsi assai del fatto che quanti scolpiscono statue di marmo, d’altro non si diano pensiero se non che la pietra sia il più possibile simile al modello umano; e che invece non si diano alcun pensiero di non apparire essi stessi simili a pezzi di marmo. Soleva sollecitare i giovani a guardarsi di continuo nello specchio, allo scopo, nel caso fossero belli, di diventarne degni; e nel caso fossero brutti, di nascondere la loro bruttezza sotto la buona educazione. [II,34] Una volta Socrate invitò a pranzo delle persone ricche, e poiché Santippe temeva di non essere all’altezza della situazione, lui le disse: “Fatti coraggio: se fossero persone a modo, si comporterebbero con compiacenza; se saranno degli sciocchi, di loro a noi non importerà nulla”. Soleva ripetere che mentre gli altri uomini vivono per mangiare, lui invece mangiava per vivere. Circa la folla indistinta, era dell’avviso che è come se uno, mentre rifiuta di accettare per buona una tetradracma, accettasse invece come buone simili monete se sono in mucchio. Quando Eschine gli disse: “Sono povero e non ho altro, ecco ti do me stesso”, Socrate gli rispose: “Non ti accorgi che mi stai offrendo la cosa più grande di tutte?”. Un tale esprimeva il suo disappunto perché quando i Trenta misero in piedi il loro governo non lo tennero in considerazione, e Socrate gli disse: “E non te ne penti?”. [II,35] A chi gli diceva: “Gli Ateniesi ti hanno condannato a morte”, egli rispose: “E la natura ha condannato a morte gli Ateniesi”. Altri tuttavia attribuiscono questo detto ad Anassagora. Quando sua moglie gli disse: “Tu muori ingiustamente”, Socrate le rispose: “E tu vorresti che io morissi colpevole?”. Quando in sogno gli sembrò che un tale gli dicesse:

‘Al terzo giorno verrai a Ftia fertile zolla’,

disse ad Eschine: “Fra tre giorni morirò”. Poco prima che bevesse la cicuta, Apollodoro gli offrì un mantello bello ed elegante affinché potesse morire con esso addosso. Ma Socrate gli disse: “E perché? Se il mio mantello era idoneo a rivestirmi da vivo, non lo sarà anche per morirci dentro?”. A chi gli annunciava: “Il tale parla male di te!”, egli rispose: “Già, non ha mai imparato a parlar bene”. [II,36] Poiché Antistene aveva rivoltato e messo in vista la parte lacera della sua mantellina, Socrate gli disse: “Attraverso la mantellina vedo la tua vanagloria”. A chi gli diceva: “Ma il tale non ti sta ingiuriando?”, Socrate rispose: “No, queste sue ingiurie nulla hanno a che fare con me”. Soleva poi affermare che bisogna offrirsi a bella posta alle facezie dei poeti comici, giacché se queste cogliessero qualcuno dei nostri difetti, ci correggeranno; se no, i loro lazzi non ci riguarderanno”. Quando Santippe prima lo coprì d’ingiurie e poi gli rovesciò addosso dell’acqua, Socrate disse: “Non dicevo io che quando Santippe tuona, poi fa anche piovere?”. Ad Alcibiade il quale diceva che Santippe è insopportabile quando si mette ad ingiuriare, Socrate rispose: “Ma io c’ho fatto l’abitudine. È come se sentissi di continuo lo stridore di una carrucola. [II,37] E tu” soggiunse quindi “non sopporti forse il chiasso delle oche starnazzanti?”. “Sì, ma quelle mi danno uova e pure dei paperi!”. “E pure a me Santippe genera dei figli!”. Nella piazza del mercato una volta Santippe gli strappò addirittura di dosso il mantello, e mentre i conoscenti che aveva intorno gli suggerivano di difendersi mettendole le mani addosso, Socrate disse: “Sì, per Zeus, di modo che mentre noi facciamo a pugni, ciascuno di voi possa poi mettersi a gridare ‘Forza Socrate!’ e ‘Dai Santippe!’ ”. Soleva ripetere di montare una moglie riottosa come i cavalieri cavalcano i cavalli focosi, e diceva: “Come i cavalieri, una volta domati questi, riescono poi facilmente a spuntarla con gli altri; così anch’io, abituato alla relazione con Santippe, saprò convivere con gli altri uomini”. Questi ed altri simili sono le parole ed i fatti che trovarono testimonianza da parte della Pizia, quando essa diede a Cherefonte il famoso responso:

‘Di tutti gli uomini Socrate è il più sapiente’.

[II,38] Da quel momento in poi, Socrate diventò oggetto di somma invidia; anche perché confutò come dissennati coloro che avevano un gran concetto di se stessi: ad esempio Anito, come si legge nel ‘Menone’ di Platone. Infatti costui, incapace di sopportare la sbeffeggiatura da parte di Socrate, dapprima gli sollevò contro i poeti della cerchia di Aristofane, e poi persuase Meleto a presentare contro di lui una denuncia per empietà e per corruzione dei giovani. Meleto presentò dunque la denuncia; l’arringa davanti al tribunale fu pronunciata da Polieucto, come afferma Favorino nella sua ‘Storia varia’. Il discorso fu redatto dal retore Policrate, secondo quanto riferisce Ermippo; oppure, secondo altri, da Anito. A tutti gli altri preparativi provvide il demagogo Licone. [II,39] Antistene nelle sue ‘Successioni dei filosofi’ e Platone nella sua ‘Apologia’ affermano che gli accusatori di Socrate furono tre: Anito, Licone e Meleto. Anito dava voce all’ira degli artigiani e dei politici, Licone a quella dei retori e Meleto a quella dei poeti: tutta gente che Socrate aveva fatto a pezzi. Nel primo libro dei suoi ‘Memorabili’, Favorino afferma che il discorso di Policrate contro Socrate è spurio, giacché in esso è citata la ricostruzione delle mura della città ad opera di Conone, cosa che avvenne soltanto sei anni dopo la morte di Socrate. Ed in effetti la faccenda sta proprio così. [II,40] La dichiarazione giurata dell’accusa che, come riferisce Favorino nel suo ‘Metroo’ è ancor oggi disponibile, era di questo tenore: ‘Meleto, figlio di Meleto, del demo Pito, presenta e giura le seguenti accuse contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece: Socrate è colpevole di non legittimare gli dei che la città legittima, poiché introduce altre e nuove divinità; ed è anche colpevole di corrompere i giovani. La pena richiesta è la morte’. Quando Lisia redasse per lui la difesa, il nostro filosofo dopo averla letta, disse: “Il tuo discorso, Lisia, è bello ma non è acconcio a me”. Si trattava, cioè, di un discorso di carattere molto più forense che filosofico. [II,41] E poiché Lisia ribatté: “Ma come? Se il discorso è bello come fa a non esserti acconcio?”; Socrate gli spiegò: “Così come non mi sarebbero acconci i bei mantelli e i bei calzari”. Nella sua opera ‘La Corona’ Giusto di Tiberiade racconta che nel corso del processo Platone salì alla tribuna ed ebbe appena il tempo di dire: “Cittadini Ateniesi, io sono qui il più giovane di coloro che salgono alla tribuna…” che i giudici gli gridarono: “Scendi giù! Scendi giù!”. Tolti i voti favorevoli all’assoluzione, Socrate fu condannato a maggioranza semplice, con duecento ottantuno voti. E quando i giudici valutarono a quale pena o a quale multa egli dovesse essere condannato, Socrate si offrì di pagare una multa di venticinque dracme. Eubulide afferma però che egli convenne di pagarne cento. [II,42] Poiché i giudici si misero a rumoreggiare, a questo punto Socrate disse: “Ebbene, allora in considerazione dei servizi da me resi alla città, io dico che la giusta pena per me è quella di essere mantenuto nel Pritaneo a spese pubbliche”. Ma i giudici lo condannarono a morte, aggiungendo ai precedenti altri ottanta voti. Messo in prigione, non molti giorni dopo bevve la cicuta, dopo avere tenuto i nobilissimi discorsi che Platone riferisce nel suo ‘Fedone’. Secondo alcuni Socrate compose allora un peana, il cui inizio è:

‘Delio Apollo salve, e tu Artemide, inclita prole’.

Dionisodoro afferma però che il peana non è suo. Compose anche una favola al modo di Esopo, invero non tanto ben riuscita, il cui inizio è:

‘Una volta Esopo disse agli abitanti di Corinto
di non far giudicare la virtù dalla sapienza dei giudici popolari’.

[II,43] Dunque egli così si dipartì dal consorzio degli uomini. E gli Ateniesi ben presto se ne pentirono, tanto da chiudere palestre e ginnasi, da esiliare gli altri accusatori e da condannare a morte Meleto. Onorarono poi Socrate con una statua di bronzo lavorata da Lisippo, che posero nel Pompeio. Quando Anito fece ritorno ad Eraclea, sua patria, il giorno stesso i suoi abitanti lo bandirono. Gli Ateniesi hanno avuto di che pentirsi non soltanto nel caso di Socrate ma anche di moltissimi altri. Infatti, secondo quanto riferisce Eraclide, multarono Omero di cinquanta dracme per manifesta pazzia; dicevano che Tirteo delirava; ed onorarono con una statua di bronzo Astidamante a preferenza dei poeti della cerchia di Eschilo. [II,44] Nel suo ‘Palamede’, Euripide vitupera gli Ateniesi dicendo:

‘Voi uccideste, uccideste l’onnisapiente che nessuna
sofferenza mai causò, l’usignolo delle Muse’

E così è. Filocoro afferma però che Euripide morì prima di Socrate. Secondo quanto riferisce Apollodoro nella sua ‘Cronologia’, Socrate nacque sotto l’arcontato di Apsefione nel quarto anno della LXXVII Olimpiade, il sesto giorno del mese Targelione, quando gli Ateniesi purificano la città e gli abitanti di Delo dicono che sia nata Artemide. Morì nel primo anno della XCV Olimpiade, all’età di settanta anni. Questo riferisce anche Demetrio Falereo. Taluni però affermano che egli morì all’età di sessanta anni. [II,45] Sia Socrate che Euripide furono entrambi uditori di Anassagora; ed Euripide nacque nel primo anno della LXXV Olimpiade, sotto l’arcontato di Calliade. È mia opinione che laddove, stando alle parole di Senofonte, Socrate fa alcune considerazioni sulla Prònoia, egli stia discutendo anche di Fisica, seppure lo stesso Senofonte affermi però che Socrate parlasse soltanto di Etica. Anche Platone quando nella sua ‘Apologia’ menziona Anassagora ed alcuni altri filosofi della natura, parla in realtà a nome proprio di argomenti che Socrate nega di conoscere e che tuttavia egli gli attribuisce. Aristotele riferisce poi che un certo Mago venuto ad Atene dalla Siria predisse a Socrate, tra altre cose, che la sua morte sarebbe stata una morte violenta. [II,46] Ci sono anche dei nostri versi scritti per lui, che suonano così:

‘Bevi, o Socrate, ora che sei nella casa di Zeus: perché davvero 
eri sapiente e tale ti disse il dio: e il dio è sapienza.
Tu dagli Ateniesi ricevesti semplicemente la cicuta,
ma furono essi a tracannarla attraverso la tua bocca’.

Secondo quanto afferma Aristotele nel terzo libro della sua ‘Poetica’, erano suoi acerrimi critici un certo Antiloco di Lemno e l’indovino Antifonte, come Cilone ed Onata lo erano di Pitagora; Siagro lo era di Omero vivente e Senofane di Colofone lo era di Omero morto; Cercope di Esiodo vivente e il predetto Senofane di Esiodo morto; Anfimene di Coo lo era di Pindaro; Ferecide di Talete; Salaro di Priene lo era di Biante; Antimenida e Alceo lo erano di Pittaco; Sosibio di Anassagora e Timocreonte di Simonide. [II,47] Dei suoi successori i più in vista furono Platone, Senofonte e Antistene; e dei dieci riportati quali suoi seguaci, i più distinti furono quattro: Eschine, Fedone, Euclide e Aristippo. Bisogna che io parli per primo di Senofonte, poi di Antistene tra i Cinici, poi dei Socratici e ancora dopo di Platone, poiché Platone dà inizio alle dieci scuole filosofiche e istituisce la prima Accademia. Questo è l’ordine di successione che io seguirò. Ci fu anche un altro Socrate, uno storico che scrisse una periegési di Argo. Un altro fu un Peripatetico, originario della Bitinia. Un altro fu un poeta epigrammatico. Infine un Socrate di Coo scrisse una epiclési degli dei.