SENOFONTE
APOLOGIA DI SOCRATE
[1] Mi sembra che valga la pena di ricordare Socrate e il modo in cui egli, dopo essere stato citato in giudizio, deliberò circa la propria difesa e la propria morte. Anche altri hanno scritto su questa vicenda e tutti hanno notato la intrepida fierezza del suo eloquio, dal che si evince che davvero Socrate si espresse a quel modo. Essi tuttavia non hanno chiarito abbastanza che egli riteneva ormai preferibile per sé la morte alla vita, e perciò quella intrepida fierezza appare come un vezzo un po’ sciocco. [2] Invece Ermogene figlio di Ipponico, che era un suo compagno, ci ha messo al corrente di notizie tali da far apparire l’intrepida fierezza dell’eloquio di Socrate del tutto confacente ad una sua ben meditata risoluzione. Infatti egli, vedendolo impegnarsi in ogni sorta di discussioni invece di parlare del suo processo, gli domandò: [3] “Socrate, non sarebbe il caso che tu considerassi anche cosa dire a tua difesa?”. A questa domanda Socrate dapprima rispose: “Non ti sembra che la mia vita intera sia stata una preparazione alla mia difesa?”. Poiché Ermogene gli chiese: “In che senso?”, Socrate gli spiegò: “Nel senso che io non sono mai addivenuto al compimento di un’azione ingiusta, e nel senso che io legittimo questa preparazione come la migliore in assoluto delle difese”. [4] Ma Ermogene riprese dicendogli: “Non vedi quante volte i tribunali Ateniesi, fuorviati dai discorsi, hanno mandato a morte degli innocenti; e quante volte hanno invece assolto dei colpevoli, o perché mossi a compassione dai loro discorsi oppure perché hanno parlato in atteggiamento implorante e con toni supplichevoli?”. “Sì, per Zeus” disse Socrate, “ed io pure ho già messo mano per ben due volte a considerare la faccenda della mia difesa, ma il mio démone vi si oppone”. [5] Ermogene osservò: “Quel che dici è sorprendente!”, e Socrate gli rispose nuovamente: “Ti sorprendi se anche il dio reputa che la miglior sorte per me sia ormai quella di morire? Non sai che almeno fino ad ora io non avrei concesso a nessun altro uomo il vanto d’avere vissuto meglio di me? Infatti, almeno fino ad ora io sapevo, ed è la certezza più piacevole di tutte, d’avere vissuto tutta la vita in modo a mio vedere sacrosanto e giusto; e mentre mi compiacevo fortemente di me stesso, trovavo che anche chi mi frequentava riconosceva questa verità a mio riguardo. [6] Adesso invece, se vado ancora avanti con gli anni, so che necessariamente ne risulteranno per me gli acciacchi della vecchiaia: una vista peggiore, un udito menomato, l’imparare con difficoltà, il dimenticare più facilmente le cose che ho imparato. Se pertanto m’accorgerò d’essere diventato peggiore e mi biasimerò io stesso, come potrò più”, diceva Socrate, “trascorrere con piacere la vita? [7] Forse”, aggiungeva poi, “a causa della sua buona disposizione verso di me, il dio mi procurerà l’occasione non soltanto di sciogliermi dalla vita all’età giusta, ma anche di sciogliermene per la via più facile. Infatti, se io ora sarò condannato è manifesto che mi sarà possibile fare la morte che è stata giudicata come più facile da coloro che si prendono cura di queste faccende, quella che causa meno impicci agli amici, e quella che infonde il maggior rimpianto del morto. Qualora infatti chi muore non lasci nelle menti dei presenti alcun ricordo vergognoso o spiacevole, e invece se ne vada avendo un corpo ancora sano ed un animo capace di pensieri amichevoli: come può costui non essere per forza oggetto di rimpianto? [8] Rettamente dunque”, continuava Socrate, “gli dei si opponevano allora a che io prendessi in esame il discorso sulla mia difesa: ossia proprio quando reputavano giustamente che lo scopo della ricerca fosse quello di trovare ad ogni costo le argomentazioni utili alla mia assoluzione. Se infatti io avessi effettuato questa ricerca, è manifesto che invece di cessare ormai di vivere, avrei approntato per me una fine tra le sofferenze dalla malattia oppure della vecchiaia, nella quale confluiscono tutte le cose moleste e più deserte d’allegrezza. [9] Per Zeus”, continuava poi Socrate, “io questi fastidi, o Ermogene, non me li andrò certo a cercare; e se sarò di peso ai giudici mostrando loro quante siano le cose buone e preziose che reputo d’aver ottenuto sia dagli dei che dagli uomini, e l’opinione che ho di me stesso: ebbene io sceglierò di morire piuttosto che di vivere in modo indegno di un uomo libero, il quale per di più piatisce una pessima vita invece della morte”. [10] Questo era il suo punto di vista, affermava Ermogene, dopo che i suoi avversari lo avevano accusato di non legittimare gli dei che la città legittima, di introdurre altre e nuove divinità e di corrompere i giovani.
Socrate venne quindi dinanzi ai giudici e disse: [11] “Io, cittadini Ateniesi, per prima cosa mi stupisco di Meleto. Intendo dire: edotto da chi mai Meleto possa affermare che io non legittimo gli dei che la città legittima. Infatti tutti coloro che si sono trovati nei miei pressi e lui stesso, se così avesse voluto, hanno potuto vedermi mentre sacrificavo nel corso delle festività comuni e sui pubblici altari. [12] E com’è che io introdurrei nuove divinità, se affermo che mi si manifesta una voce divina la quale mi segnala ciò ch’è d’uopo fare? Coloro che danno oracoli interpretando le grida degli uccelli augurali e le voci ispirate e profetiche degli uomini, testimoniano proprio l’esistenza di queste voci. Qualcuno mette in dubbio che i tuoni siano delle voci, o che non siano un supremo segno augurale? E la sacerdotessa che siede in Delfi accanto al sacro tripode, non annuncia anch’essa i responsi del dio grazie ad una voce? [13] Che poi il dio conosca in anticipo il futuro e che ne preavvisi chi vuole: anche questo, io dico, è ciò che tutti affermano e legittimano come vero. Ma mentre gli altri denominano chi preannuncia il futuro con termini come: uccelli augurali, voci ispirate e profetiche, consiglieri fatidici o indovini; io chiamo questo ‘démone’, e denominandolo così credo di parlare con più verità e maggiore santità di coloro che attribuiscono facoltà divine agli uccelli. Del fatto che in proposito io non menta contro il dio, c’è anche questa prova: ogniqualvolta ho riferito i consigli del dio a molti dei miei amici, in nessun caso mai è apparso che io mi sbagliavo”. [14] Ermogene dice che udendo queste parole i giudici si misero a rumoreggiare: alcuni perché non davano credito alle dichiarazioni di Socrate, altri perché mossi dall’invidia al pensiero che egli ottenesse dagli dei favori maggiori di quelli che toccavano loro; e che quindi Socrate riprese il discorso dicendo: “Orsù ascoltate anche queste mie altre dichiarazioni, affinché quanti di voi lo vogliono possano ancor più negare credito all’onore che mi viene reso dagli dei. Ebbene, quando una volta Cherefonte interrogò l’oracolo di Delfi a mio riguardo, il responso di Apollo fu che non c’era nessun uomo più libero, più giusto e più temperante di me”. [15] Nell’udire queste affermazioni i giudici, come c’era da aspettarsi, si misero a rumoreggiare ancora più forte, ma Socrate riprese la parola e disse: “Eppure, cittadini Ateniesi, il dio che parla per oracoli ha detto su Licurgo, il legislatore degli Spartani, cose ben più grandi che su di me. Si racconta infatti che mentre Licurgo stava entrando nel tempio, il dio gli si rivolse dicendo: ‘Sto ancora riflettendo se chiamarti dio o uomo’. Io almeno, da Apollo non sono stato assimilato ad un dio, pur se egli ha giudicato di estollere me molto al di sopra degli uomini. Io vi invito comunque a non dare credito all’oracolo del dio così alla leggera, ma a considerarne bene le parole una per una. [16] Conoscete qualcuno che sia servo degli appetiti del corpo meno di me? Conoscete qualche uomo che sia più libero di me, che non accetto doni né stipendi da nessuno? Chi secondo verosimiglianza legittimereste più giusto di colui che si è finora così ben conciliato con ciò che ha ed è suo, da non avere alcun bisogno di ciò ch’è altrui? Come potrebbe non chiamarsi secondo verosimiglianza sapiente un uomo come me, che da quando cominciai a comprendere il linguaggio parlato non ho mai trascurato di ricercare e di imparare quanto più potevo qualunque cosa buona e nobile? [17] E che le mie fatiche non fossero vane, non vi sembra testimoniato anche dal fatto che molti cittadini che hanno di mira la virtù e così pure molti stranieri, scelgono deliberatamente di associarsi con me a preferenza di tutti gli altri? A quale causa attribuiremo poi il fatto che, mentre tutti sanno che io non ho assolutamente denaro col quale ricambiare dei doni, tuttavia sono molte le persone vogliose di farmi dei regali? Il fatto che mentre nessuno mi richiede dei benefici materiali, molti invece ammettono di avere con me un debito di gratitudine? [18] Il fatto che durante l’assedio di Atene, mentre gli altri cittadini si piangevano addosso, io invece non me la passavo affatto in maggiori ristrettezze di quando la città era al culmine del suo benessere? Il fatto che mentre gli altri si provvedono al mercato, e a caro prezzo, delle fonti del loro lieto vivere; io invece trovo il modo di trarre dal mio animo, e senza spesa alcuna, fonti di lieto vivere ben più piacevoli delle loro? Se pertanto nessuno fosse in grado di smentirmi e dimostrare che sto mentendo, come potrebbe non essere assolutamente giusta la lode degli dei e degli uomini nei miei confronti? [19] Nondimeno tu affermi, o Meleto, che dedicandomi a occupazioni di questo genere io corrompo i giovani? Ebbene, noi sappiamo con certezza quali siano le corruzioni cui vanno incontro i giovani. Dunque tu dimmi se conosci qualche giovane che per opera mia sia diventato da pio che era, sacrilego; da temperante, oltraggioso; da ben regolato nel tenore di vita, spendaccione; da bevitore moderato, un ubriacone; da laborioso faticatore, un mollaccione; o che si sia lasciato vincere da qualche altro malvagio piacere”. [20] “Ma per Zeus”, disse Meleto, “io so di giovani che tu hai persuaso ad ubbidire a te piuttosto che ai loro parenti”. “Lo ammetto”, si riferisce che Socrate abbia detto, “ma ad ubbidirmi a proposito di educazione: giacché essi sanno che questo è l’argomento al quale io dedico tutti il mio studio. Quanto alla salute del corpo, infatti, gli uomini ubbidiscono ai medici piuttosto che ai genitori; e nelle pubbliche assemblee gli Ateniesi seguono senza eccezione l’avviso di coloro che parlano con maggiore saggezza, piuttosto che quello dei loro congiunti. E voi a preferenza dei vostri padri o dei vostri fratelli oppure, per Zeus, di voi stessi, non prescegliete quali generali le persone che riterreste più competenti e più esperte in affari militari?”. “Sì, o Socrate”, disse Meleto, “è legittimo ritenere che convenga fare così”. [21] “Ma allora”, riprese Socrate, “mentre in altre attività le persone più preparate e competenti non soltanto ottengono riconoscimenti pari, ma a volte anche superiori ad altri; non ti sembra stupefacente che invece io, che sono giudicato da alcuni il massimo esperto di quello che è il supremo bene dell’uomo, cioè dell’educazione, sia da te sottoposto ad un processo con il quale è richiesta della pena di morte?”.
[22] È evidente che furono dette molte altre cose, sia da Socrate che dagli amici che presero la parola in sua difesa. Io però non mi sono industriato a riferire tutti i discorsi fatti al processo, bensì m’è piaciuto rendere manifesto che Socrate, per un verso ha fatto di tutto per mostrare di non essere reo di alcuna empietà verso gli dei né di alcuna ingiustizia verso gli uomini; e che, per un altro verso, non credeva di dover insistere ad implorare i giudici di non condannarlo a morte, giacché reputava ormai giunto per lui il giusto momento per morire. [23] Che così egli avesse divisato, divenne chiarissimo dopo la sua condanna a morte. In primo luogo, quando gli fu intimato di proporre per sé una pena, né la propose né permise ai suoi amici di proporla; affermando che il proporre una pena equivaleva già ad una ammissione di colpevolezza. Quando poi, successivamente, i suoi compagni organizzarono per lui la fuga dalla prigione, egli non volle darvi seguito; e sembrò addirittura che li schernisse, chiedendo loro se conoscevano qualche luogo lontano dell’Attica inaccessibile alla morte. [24] Quando poi il processo terminò, si racconta che Socrate disse: “Cittadini Ateniesi, coloro che hanno istruito i testimoni ad andare contro il giuramento e testimoniare il falso contro di me, come pure i testi che hanno ubbidito a costoro, sono necessariamente ben consci della loro grande empietà ed ingiustizia. Quanto a me, invece, perché dovrei avere adesso di me stesso un giudizio peggiore di quello che avevo prima della condanna, visto che non sono stato provato colpevole di alcuna delle azioni per le quali mi intentarono il processo? Nessuno, infatti, ha potuto dimostrare che io, invece di sacrificare a Zeus, ad Era e agli altri dei loro compagni, abbia fatto sacrifici in onore di certi nuovi démoni, né che io abbia giurato o menzionato degli dei diversi. E quanto ai giovani, com’è possibile che io li corrompa, se li indirizzo invece ad abitudini di fortezza e di frugalità? [25] Circa poi le azioni per le quali è davvero prevista la pena di morte: il furto sacrilego, il furto con scasso, la riduzione in schiavitù di un uomo libero, il tradimento dello Stato; neppure i miei accusatori affermano che io abbia commesso uno di questi reati. Sicché mi sembra davvero stupefacente che l’opera da me compiuta a voi sia parsa degna della pena di morte. [26] Né è il caso, per il fatto di morire ingiustamente, che io abbia ora su di me un giudizio peggiore di prima; giacché questa è una ignominia che ricade non su di me, ma su coloro che mi hanno condannato. Trovo comunque alquanta consolazione pensando alla sorte di Palamede, il quale morì per circostanze assai simili alle mie; e che ancora adesso ci procura temi molto più nobili per degli inni agli eroi di quanti ce ne procuri Odisseo, il quale lo fece uccidere ingiustamente. Io inoltre so per certo che tanto il tempo futuro quanto quello passato mi saranno testimoni di non avere io mai commesso ingiustizia contro alcuno, né di avere reso alcuno più malvagio, ma di avere anzi recato beneficio a quanto discutevano con me, insegnando loro tutto il bene che potevo senza chiedere alcun compenso”.
[27] Dopo avere pronunciato queste parole Socrate s’allontanò, tenendo un contegno assolutamente coerente con quanto aveva detto: con sguardo raggiante, portamento solenne e passo deciso. Quando s’accorse che coloro i quali lo seguivano erano in lacrime, si racconta che egli disse: “Cos’è questa storia? Vi mettete a piangere proprio adesso? Non sapete ormai da gran tempo che dal momento stesso in cui nacqui fui condannato a morte dalla natura? E peraltro, se io muoio prima del tempo da essa stabilito per me, mentre ancora affluiscono su di me ogni sorta di cose belle e buone, allora è manifesto che sia io quanto chi mi vuole bene debba provare afflizione. Se però io mi sciolgo dalla vita in un’età nella quale per me non sono in vista altro che cose brutte e penose, io credo che voi tutti dobbiate stare di buon animo, pensando che mi tocca una fortuna”. [28] Tra i presenti si trovava un certo Apollodoro, il quale era un suo acceso fautore, ma quanto al resto un sempliciotto, e che gli disse: “Eppure ciò che mi esaspera di più e che non posso sopportare è di vederti morire ingiustamente”. Quel che si racconta è che allora Socrate gli accarezzò la testa e sorridendo gli rispose: “E tu, mio carissimo Apollodoro, vorresti vedermi morire giustamente piuttosto che ingiustamente?”. [29] Si racconta anche che quando vide Anito passargli accanto, Socrate disse: “Questo è un uomo che se ne va altero e pensa d’aver compiuto qualcosa di grande e di bello facendo uccidere me. E mi fa uccidere perché quando io lo vidi stimato dalla città quale uomo degno dei massimi onori, gli dissi che non era opportuno che egli educasse suo figlio a fare il cuoiaio. Che individuo depravato è costui”, continuò Socrate, “il quale sembra non sapere che di noi due il vincitore è colui che ha effettuato le imprese più utili e più nobili, quelle capaci di rifulgere per l’eternità! [30] Peraltro”, si racconta che egli abbia detto, “se è vero che Omero ha attribuito ad alcuni, nel momento in cui si sciolgono dalla vita, la capacità di predire il futuro; voglio anch’io fare una profezia. Io ebbi a che fare una volta brevemente con il figlio di Anito, e mi parve trattarsi di un giovane non privo di fermezza d’animo; sicché io predico che egli non perdurerà nella servile occupazione che suo padre ha preparato per lui. E però a causa del fatto di non avere accanto a sé una persona virtuosa che si prenda cura di lui, cadrà preda di una qualche viziosa smania e procederà bene bene innanzi nel il cammino della depravazione”. [31] Dicendo ciò Socrate non si sbagliava. Infatti il giovanotto, trovando piacere nel vino, prese l’abitudine di bere giorno e notte senza interruzione, e alla fine divenne un buono a nulla, inutile alla sua città, agli amici ed a se stesso. Anito a sua volta, a causa della malvagia educazione del figlio e a causa della propria condotta scriteriata, continua a godere di pessima fama anche da morto. [32] Quanto a Socrate, a causa dell’esaltazione che fece di se stesso davanti al tribunale, suscitò invidia e fece sì che i giudici si esprimessero a maggioranza per la sua condanna. Comunque a me sembra che a lui sia toccata una sorte cara agli dei. Infatti si lasciò alle spalle la parte più brutta e penosa della vita, ed ottenne per sé la più facile delle morti. [33] Fece sfoggio di tutta la vigoria del suo animo, poiché riconobbe che per lui morire era meglio che continuare a vivere; e come non era mai stato incline a rammollirsi davanti agli altri beni, così non si rammollì davanti alla morte, che anzi accettò e realizzò con il sorriso sulle labbra. [34] Quando io mi fermo a riflettere sulla sapienza e sulla nobiltà d’animo di quell’uomo, non posso né dimenticarlo né fare a meno di lodarne la memoria. E se qualcuno di coloro che hanno di mira la virtù ha mai avuto a che fare con qualcuno più a ciò giovevole di Socrate, ebbene io ritengo quest’individuo degno della suprema beatitudine di un dio.