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OMAGGIO AI CINICI

Diogene di Sinope

Se prescindiamo da qualunque considerazione dotta e di merito, possiamo affermare senza tema di smentita che nel linguaggio italiano corrente l’aggettivo ‘Stoico’ viene comunemente usato in un modo che riflette un sostanziale rispetto e forse addirittura una certa ammirazione per questa antica Scuola Filosofica. L’accezione più comune, per non dire unica, nella quale esso viene usato è infatti quella di ‘resistente al dolore e alla sofferenza’, di ‘impavido di fronte alle avversità’. Questo è tutto ciò che è rimasto oggi dello Stoicismo, ossia di una straordinaria ricchezza di pensiero che con questo sito, unico nel suo genere, io mi sforzo come un archeologo di riportare alla luce, di ripulire, di rendere presentabile e finalmente di mettere a disposizione di tutti. 

Ben diversa è la sorte toccata all’aggettivo ‘Cinico’. Nel linguaggio italiano corrente sarebbe difficile trovare un’altra parola che sia usata per manifestare altrettanto disprezzo, esecrazione, quando non addirittura conclamato abominio di qualcuno o di qualcosa. Dire di qualcuno che è un ‘Cinico’ equivale oggi a negargli quasi la qualità di uomo, trasformandolo in un essere abietto e sordido indegno di vivere nel consorzio umano. Che poi il ‘Cinismo’ sia stata una Scuola Filosofica che ha preceduto e generato lo Stoicismo non lo sa, o non se lo ricorda, quasi nessuno. Ebbene, siccome io non mi ritengo né un Cristiano, né un Marxista, né un Nichilista, né un seguace delle decine e decine di ‘ismi’ filosofici antichi e recenti che vanno di moda; e invece mi onoro di essere qualcuno che ragiona e vive con la mentalità greca di uno Stoico e di un Cinico antico, sarà opportuno che io offra un quadro di cosa si debba davvero intendere per ‘Cinismo’. E lo farò parafrasando molto brevemente le ultime pagine del VI Libro delle ‘Vite dei filosofi’, pagine nelle quali Diogene Laerzio ne sintetizza i tratti fondamentali.

Innanzitutto bisogna ricordare che il Cinismo ha la dignità di una Scuola Filosofica e non è soltanto, come affermano alcuni, un istituto di vita. Il Cinismo mostra scarso o nessun interesse per la Logica e la Fisica, e concentra tutta la sua attenzione sull’Etica. I Cinici, quindi, ricusano di dare importanza alle nozioni enciclopediche, e sono dell’avviso che coloro i quali sono diventati virtuosi non hanno alcun bisogno di apprendere la ‘Letteratura’ o le ‘Scienze’, per non essere eventualmente distratti da attrattive estranee alla filosofia. Essi tolgono di mezzo anche la geometria, la musica e tutte le nozioni di questo genere. A chi gli mostrava una meridiana, Diogene diceva: “Questo aggeggio è utile per non arrivare tardi a pranzo”. E ad uno che sfoggiava le proprie doti musicali, disse: “Le città sono ben governate dall’intelligenza degli uomini, e anche le case lo sono; non dai suoni vibrati né dai trilli”. I Cinici concordano nel ritenere che per l’uomo il sommo bene è la vita in armonia con la virtù. Questa dottrina è esattamente simile a quella degli Stoici poiché, come ho già accennato, vi è una stretta relazione tra queste due scuole filosofiche. Questa è anche la ragione per cui è stato detto che il Cinismo è una ‘scorciatoia’ per la virtù. Del resto, proprio in questo modo condusse la sua vita Zenone di Cizio. I Cinici ritengono che si debba vivere frugalmente, utilizzando cibi non cotti e già naturalmente pronti per il consumo; vestirsi il più semplicemente e sobriamente possibile; spregiare la ricchezza, la gloria mondana e la nobiltà di natali. Taluni Cinici sono pertanto integralmente vegetariani, bevono soltanto acqua fresca e utilizzano come dimora i ripari che capitano ed anche le botti: come faceva Diogene, il quale giudicava che l’aver bisogno di nulla è proprio degli dei e che proprio degli uomini simili a dei è l’avere bisogno di poco. I Cinici ritengono anche che la virtù può essere insegnata e che la virtù, una volta acquisita, non può essere persa; che il sapiente è degno d’amore, è al riparo dalle aberrazioni, è amico del suo simile e che egli nulla delega alla fortuna. Anche i Cinici, poi, chiamano ‘indifferente’ tutto ciò che sta frammezzo alla virtù e al vizio. 

Il mio presente omaggio ai Cinici si compone dunque di due testi:

1) Il primo è la mia traduzione dal greco in italiano del Libro VI delle ‘Vite dei filosofi’ di Diogene Laerzio, libro interamente dedicato ai Cinici.
In esso Diogene Laerzio ci informa sulla vita e le opere dei seguenti filosofi:
– Antistene (c. 446 – 366 a. C.)
– Diogene di Sinope (404 – 323 a. C.)
– Monimo (IV secolo a. C.)
– Onesicrito (floruit 330 a. C.)
– Cratete (floruit 326 a. C.)
– Metrocle (c. 300 a. C.)
– Ipparchia (c. 300 a. C.)
– Menippo 
– Menedemo

2) Il secondo è la mia traduzione del Capitolo XXII del Libro III delle ‘Diatribe’ di Epitteto. Si tratta del capitolo che Epitteto dedica specificamente al suo ‘Omaggio ai Cinici’ e che testimonia della strettissima interdipendenza tra Cinismo e Stoicismo.
In questo circostanza mi sono permesso di proporre una mia traduzione che non rispetta al 100 % la fedeltà al discorso parlato che mi sono imposto nel caso della traduzione delle ‘Diatribe’. So comunque che in questo modo farò felice buona parte dei mei venticinque lettori, senza peraltro sentirmi traditore della sostanza del dettato di Epitteto.

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Scritti originali

ARISTOTELE ED EPITTETO DINANZI ALLA ‘PROAIRESI’

La parola ‘Proairesi’, (tradotta ancor oggi in modo del tutto improprio e fuorviante in Italiano con ‘scelta morale di fondo’, e in inglese con ‘moral purpose’ o ‘freedom of will’ e altre sciocchezze del genere) ha una storia degna di nota. Introdotta nel linguaggio filosofico da Aristotele, dopo secoli di oblio fu infatti ripresa in modo geniale e creativo da Epitteto, il quale ne fece uno dei cardini del suo Stoicismo. Il testo che offro in lettura, mentre presenta la mia traduzione di tutti i passi delle opere di Aristotele nei quali risultano utilizzati il termine ‘Proairesi’ ed i vocaboli ad esso direttamente correlati, permette il confronto diretto con numerosi passi similari, sempre in mia traduzione, dell’opera di Epitteto, e quindi mette in grado il lettore di intendere in modo non ambiguo differenze e similarità.

Tutto ciò che Aristotele chiama ‘’Proairesi’ e la ‘’Proairesi’ di Epitteto sono la stessa cosa?

Proairesi

Sono a tutt’oggi soltanto due i filosofi che hanno dato un rilievo decisamente centrale al concetto di ‘Proairesi’ nella loro filosofia. I due filosofi sono: Aristotele (385-322 a.C.) e, circa quattro secoli dopo di lui, Epitteto (50-120 d.C.). 

11.1) Aristotele e la Proairesi

Breve cenno alla storia del termine greco ‘Proàiresis’

L’uso del sostantivo greco ‘proàiresis’ e dei suoi derivati è poco attestato nella prosa greca prima della metà del IV° secolo a. C.; ed anche nella seconda metà di tale secolo compare piuttosto raramente nei testi dei principali autori i cui scritti sono pervenuti fino a noi.
Il termine non compare né negli scritti di Lisia (450-380 a.C.) né in quelli di Andocide (440-390 a.C.), ed è usato soltanto quattro volte da Isocrate (436-338 a.C.). Senofonte (430-354 a.C.) non lo utilizza mai; Platone (429-348 a.C.) lo impiega una volta soltanto, mentre esso non compare in nessun testo di Iseo (415-344 a.C.). 
Il suo uso si fa leggermente più frequente nella seconda metà del IV° secolo a. C. Infatti, Licurgo (396-325 a.C.) lo usa due volte; Iperide (390-322 a.C.) ed Eschine (390-315 a.C.) entrambi tre volte; Demostene (385-322 a.C.) alcune decine di volte, ma di nuovo non compare in alcun testo di Dinarco (361-291 a.C.).

Il significato di ‘Proàiresis’ nel linguaggio corrente del IV° secolo a. C.

In tutti gli autori citati, l’area semantica coperta dal temine ‘proàiresis’ e dai suoi derivati è essenzialmente l’area esprimente l’ ‘interesse personale’, l’ ‘intenzionalità’, il ‘deliberato proposito’, la ‘premeditazione’ delle azioni di un soggetto. 

L’uso del termine ‘Proàiresis’ da parte di Aristotele e la sua analisi di esso

Vi è universale consenso nell’attribuire ad Aristotele (385-322 a. C.), il quale è esattamente contemporaneo di Demostene, la paternità dell’introduzione del termine ‘proàiresis’ nel linguaggio filosofico. 
Anche se si affacciano più o meno frequentemente in quasi tutte le opere del filosofo di Stagira, il sostantivo ‘proàiresis’ ed i diretti derivati assumono un rilievo cruciale nelle sue tre principali opere etiche: essi, infatti, compaiono almeno 105 volte nell’ ‘Etica Nicomachea’; 94 volte nell’ ‘Etica Eudemia’ e 50 volte nei ‘Magna Moralia’. 
Chi aprisse l’ ‘Etica Nicomachea’ e ne iniziasse la lettura dalla prima parola del primo paragrafo del primo libro, si accorgerebbe subito della ‘proàiresis’ giacché essa è l’undicesima parola, ed il quarto sostantivo, che gli viene incontro.
È in questo trattato che Aristotele, nell’ambito della discussione degli atti volontari (ta ekoùsia) e involontari (ta akoùsia), della virtù (areté), della non padronanza di sé (akràteia) e dell’impudenza (akolasìa), ha tentato di analizzare e di precisare la sua definizione di ‘proàiresis’.
Il risultato di tale analisi, che si presenta senza sostanziali varianti anche nelle altre due opere etiche citate, appare come una molteplicità di determinazioni polivalenti e in parte contraddittorie che hanno sempre lasciato, e continuano a lasciare, parecchia incertezza sul preciso significato da attribuire al termine ‘proàiresis’
Questo è molto probabilmente anche uno, se non il principale, dei motivi che hanno contribuito alla scarsa comprensibilità del concetto aristotelico di ‘proàiresis’ e alla sua emarginazione dal dibattito filosofico, oltre che alla sua sostanziale intraducibilità e quindi alla mirabolante moltiplicazione di vocaboli e di perifrasi proposte in diverse lingue da diversi traduttori per rendere il temine ‘proàiresis’.
Aristotele, infatti, definisce la ‘proàiresis’ come: 
il ‘volontario preceduto da una deliberazione’ (prebebouleuménon), oppure 
‘desiderio deliberato (òrexis bouleutiké) di cose in nostro potere’ (tòn ef’emìn), oppure 
‘mente desiderativa’ (noùs orektikòs) oppure 
‘desiderio intellettualizzato’ (òrexis dianoetiké), o ancora 
‘scelta (àiresis) di qualcosa a preferenza di un’altra’. 
Ma parrebbe potersi intendere la ‘proàiresis’ aristotelica anche come ‘processo che porta al raggiungimento di un fine’ oppure come 
‘il piano iniziale del processo che porta al raggiungimento di un fine’.
Qualunque cosa Aristotele intenda con il termine ‘’Proàiresis’, egli è comunque consistentemente coerente nel ribadire che:

  1. la ‘’Proàiresis’ non è appannaggio degli altri animali, dei bambini in tenera età e dell’uomo in certi stati come l’ira o l’ubriachezza
  2. la ‘’Proàiresis’ non ha mai come oggetto ‘il fine’ ma soltanto ‘i mezzi’ in nostro potere per raggiungere un certo fine
  3. la ‘’Proàiresis’ non ha mai come oggetto delle impossibilità (adùnata) né eventi del passato
  4. l’uomo può agire tanto in accordo con la propria proairesi (katà ‘Proàiresin) quanto in contrasto con la propria proairesi (parà ‘Proàiresin).

La traduzione dei testi

Quella che segue è la mia traduzione di tutti i passi nei quali Aristotele usa il sostantivo ‘’Proàiresis’ e i suoi diretti derivati nell’ ‘Etica Nicomachea’, nell’ ‘Etica Eudemia’ e nei ‘Magna Moralia’. 
Se non sbaglio, capita a me di essere il primo traduttore al mondo che non cerca sinonimi o circonlocuzioni per tradurre il termine ‘’Proàiresis’  ed i suoi collegati. Dunque per la prima volta nella traduzione di Aristotele i seguenti vocaboli greci sono resi in italiano come segue:
-il sostantivo ‘proàiresis’ con ‘proairesi’
-l’aggettivo ‘proairetikòs’ con ‘proairetico’
-l’aggettivo ‘aproàiretos’ con ‘aproairetico’
-il verbo ‘proairèisthai’ con ‘proairesizzare’
-l’avverbio ‘aproairétos’ con ‘aproaireticamente’
-il sostantivo ‘antiproàiresis’ con ‘antiproairesi’
La lettura permetterà indubbiamente a ciascuno di farsi la sua opinione sul significato che Aristotele intendeva dare al termine ‘’Proàiresis’.

11.1.1) ETICA A NICOMACO

NE-LIBRO I°

NE1.1[1094a,1-3] Ogni arte, ogni metodologia razionale e similmente ogni azione e proairesi sembrano avere di mira un qualche bene. Perciò è stato correttamente dichiarato che ‘tutto ha di mira il bene’. 

NE1.4[1095a,14-17] Riprendendo il discorso, poiché ogni conoscenza e proairesi è desiderio di un qualche bene, diciamo cosa sia ciò che la politica ha di mira e quale sia il sommo dei beni fattibili.

NE1.7[1097a,19-23] Questo bene in medicina è la salute, in strategia la vittoria, in edilizia la casa, in altri campi altro ancora; e comunque in ogni azione e proairesi il fine, giacché è in vista di esso che tutti operano il resto.

NE1.13[1102a,12-14] Se poi questa analisi è propria della politica, è chiaro che la ricerca potrebbe avvenire in accordo con la proairesi iniziale.

NE-LIBRO II°

NE2.4[1105a,33] Ma occorre anche che chi compie azioni virtuose le compia con una certa disposizione: in primo luogo sapendo cosa fa, poi proairesizzando e proairesizzando le azioni per se stesse, in terzo luogo operando con una disposizione salda e inamovibile.  

NE2.5[1106a,2-4] Inoltre noi ci adiriamo e abbiamo paura aproaireticamente, mentre le virtù sono certe proairesi o non mancano di proairesi.

NE2.6[1106b,36-1107a,1] La virtù è dunque una disposizione proairetica, consistente in una medietà in rapporto a noi, definita dalla ragione e come la definirebbe il saggio.

NE-LIBRO III°

NE3.1[1110b,31-33] Giacché l’ignoranza nella proairesi non è causa dell’involontarietà ma della depravazione.

NE3.2[1111b,4-1112a,18] Una volta definito il ‘volontario’ e l’ ‘involontario’, proseguiamo discorrendo di proairesi, giacché essa sembra essere ciò che di più attinente vi sia alla virtù e quella che determina i caratteri più delle azioni. 
La proairesi appare certo un che di volontario ma non si identifica con esso, poiché il ‘volontario’ copre un ambito più vasto. Il ‘volontario’, ma non la proairesi, infatti, ci accomuna anche ai fanciulli e agli altri animali e noi chiamiamo gli atti repentini ‘volontari’ ma non secondo proairesi. Chi afferma che la proairesi è ‘smania’ o ‘istintività’ o ‘voglia’ o ‘opinione’ non sembra parlare correttamente, giacché la proairesi non ci è comune con gli animali privi di ragione mentre invece ci accomunano ad essi smania e istintività. Anche chi è non padrone di sé opera per smania ma non per proairesi, mentre chi invece è padrone di sé a sua volta opera per proairesi e non per smania. Smania è l’opposto di proairesi, ma non smania di smania. La smania, poi, concerne qualcosa di piacevole o di spiacevole, la proairesi né lo spiacevole né il piacevole. 
Ancor meno la proairesi è istintività, e gli atti istintivi sembrano essere atti nient’affatto secondo proairesi
La proairesi non è neppure una voglia, anche se appare essere qualcosa di assai vicino ad essa. La proairesi, infatti, non concerne le impossibilità, e se qualcuno dicesse di proairesizzare cose impossibili farebbe la figura dello sciocco. La voglia, invece, può essere voglia di cose impossibili: per esempio dell’immortalità. La voglia, inoltre, è anche voglia di cose in nessun modo agite dal soggetto, come la vittoria di un certo attore o di un certo atleta. Nessuno, invece, proairesizza simili cose, bensì quanto crede possa dipendere unicamente da lui. La voglia, poi, è piuttosto voglia di un fine, mentre la proairesi concerne i mezzi per raggiungere un fine: ad esempio, vogliamo essere in buona salute e proairesizziamo i mezzi per esserlo; e diciamo anche di voler essere felici mentre non è acconcio dire che lo proairesizziamo: insomma, la proairesi appare concernere cose che sono in nostro potere.
La proairesi non sarebbe neppure opinione, giacché l’opinione sembra riguardare qualunque cosa: ciò che è eterno ed impossibile non meno di ciò che è in nostro potere. L’opinione, poi, si discrimina secondo il falso e il vero, non secondo il male e il bene, mentre la proairesi si discrimina piuttosto secondo questi ultimi. Dunque, forse nessuno identifica proairesi ed opinione in generale. [1112a] Ma neppure la identifica con un’opinione in particolare, giacché noi siamo le persone che siamo con il proairesizzare cose buone o cattive, non con l’averne un’opinione. Infatti proairesizziamo di prendere o di fuggire qualcuna di esse, mentre invece opiniamo che cosa esse siano o a chi siano utili o in che modo; ma non opiniamo affatto circa il prenderle o il fuggirle. La proairesi, poi, è lodata per essere proairesi di ciò che si deve, piuttosto che l’opinione per essere opinione in un certo modo. E noi proairesizziamo quelli soprattutto che sappiamo essere beni, mentre abbiamo opinioni anche su cose che non sappiamo affatto. 
Inoltre, non paiono essere gli stessi coloro che proairesizzano in modo eccellente e coloro che hanno le più eccellenti opinioni, poiché alcuni opinano meglio e poi per viziosità scelgono ciò che non si deve scegliere. Se poi l’opinione venga prima o dopo la proairesi non fa alcuna differenza, giacché non stiamo considerando questo ma se proairesi e opinione siano la stessa cosa. Cos’è dunque e che genere di cosa è allora la proairesi, visto che non è nessuna delle cose dette? Si mostra invero essere qualcosa di volontario, ma quanto è volontario non è tutto proairetico. Sarà forse il volontario quando è preceduto da una deliberazione? La proairesi, infatti, è compagna di ragione e intelletto, e il nome stesso pare significare qualcosa che è scelto a preferenza di altre cose.

NE3.3[1113a,3-14] Il deliberato e il proairetico sono la stessa cosa, eccetto che il proairetico è già stato precedentemente definito, essendo proairetico ciò che è stato predeterminato dalla deliberazione. E ciascuno di noi cessa di cercare come opererà quando abbia ricondotto la causa basilare dell’azione a sé e alla parte dominante di sé, poiché è questa la parte che proairesizza. Questo è manifesto anche nelle primitive Costituzioni rappresentate da Omero nei suoi poemi. In esse i re annunciavano al popolo ciò che avevano proairesizzato. Poiché dunque il proairetico è qualcosa in nostro potere, desiderato in seguito a una deliberazione, la proairesi sarebbe un desiderio deliberato di cose in nostro potere, giacché dopo avere giudicato e deliberato desideriamo in accordo con la deliberazione. Si consideri così delineata schematicamente la proairesi, quali siano i suoi oggetti e che riguarda mezzi relativi ai fini.

NE3.5[1113b,3-5] Voluto pertanto il fine, deliberando e proairesizzando i mezzi per raggiungerlo, le azioni a questo riguardo sarebbero azioni secondo proairesi e volontarie.

NE3.8[1117a,4-6] La forma più naturale di coraggio, poi, sembra essere quella per istintività; e quando le si aggiungano proairesi e consapevolezza del fine essa diventa virilità.

NE3.8[1117a,21-23] Si potrebbero proairesizzare i pericoli manifesti grazie al calcolo e al ragionamento, ma quelli improvvisi si affrontano secondo la disposizione del momento.

NE-LIBRO IV°

NE4.7[1127b,15] Il cialtrone non è tale in potenza ma in proairesi.

NE-LIBRO V°

NE5.5[1134a,2] La giustizia è quella disposizione in relazione alla quale si chiama giusto colui che pratica il giusto secondo proairesi.

NE5.6[1134a,21] Giacché un uomo potrebbe anche avere rapporti intimi con una donna sapendo con chi sta, ma senza avere come causa basilare di ciò lasua proairesi bensì per passione.

NE5.8[1135b,8-11] Degli atti volontari, poi, alcuni li compiamo per proairesi, altri senza averli proairesizzatiproairetici essendo quelli che sono stati predeliberati, aproairetici quelli non predeliberati.

NE5.8[1135b,25] Qualora invece l’ingiuria origini dalla proairesi, allora l’individuo è ingiusto e depravato.

NE5.8.[1136a,1] Se il danno originasse dalla proairesi, allora si commette ingiustizia.

NE5.8.[1136a,4] E similmente il giusto è tale qualora operi il giusto avendolo proairesizzato.

NE5.11[1138a,22] Inoltre, l’azione ingiusta è volontaria, origina dalla proairesi, ed è anteriore ad ogni provocazione.

NE-LIBRO VI°

NE6.2[1139a,21-27] Quello che nell’intelletto sono negazione e affermazione, nell’ambito del desiderio sono perseguimento e fuga. E così, dal momento che la virtù etica è una disposizione proairetica e la proairesi è desiderio deliberato, se la proairesi deve essere virtuosa bisogna appunto che il ragionamento sia vero e il desiderio sia retto, ossia che la ragione affermi e il desiderio persegua le medesime cose.

NE6.2[1139a,32-34] Causa basilare dell’azione morale è dunque la proairesi, che è ciò da cui origina il movimento ma non ciò per cui esso avviene. Causa della proairesi, poi, sono desiderio e ragionamento diretto a un fine. Perciò la proairesi non è mai disgiunta da mente, intelletto e disposizione etica.

NE6.2[1139b,5-8] Perciò la proairesi è mente desiderativa o desiderio intellettualizzato e questa causa basilare è l’uomo. Non può essere proairetico alcun evento del passato: nessuno proairesizza, per esempio, di avere devastato Troia.

NE6.12[1144a,19-21] Pertanto esiste un modo per fare ciascuna cosa così da essere virtuoso: dico agendo per proairesi ossia avendo per scopo delle azioni rette le azioni stesse. E dunque è la virtù a far sì che la proairesi sia retta.

NE6.13[1145a,4-6] La proairesi non sarà retta senza saggezza e senza virtù. Giacché la saggezza ci fa porre il fine e la virtù ci fa operare le azioni atte a raggiungerlo.

NE-LIBRO VII°

NE7.4[1148a,4-11] Di coloro che sono non padroni di sé nelle fruizioni corporali in relazione alle quali definiamo l’individuo temperante e quello intemperante, colui che non proairesizzando bensì in contrasto con la propria proairesi e il proprio intelletto insegue gli eccessi nelle cose piacevoli e fugge quelli delle cose spiacevoli come fame, sete, caldo, freddo e tutto quanto ha a che fare con tatto e gusto: ebbene costui si chiama non padrone di sé senza ulteriori qualificazioni.

NE7.4[1148a,17-19] Gli individui padroni di sé e quelli non padroni di sé sono tali in relazione agli stessi oggetti ma non nello stesso modo, giacché i primi proairesizzanomentre i secondi non proairesizzano.

NE7.6[1149b,35] Le bestie, infatti, non hanno proairesi né contezza alcuna di sè e stanno fuori della natura umana, come i pazzi.

NE7.7[1150a,18-21] Colui che insegue gli eccessi nelle cose piacevoli o i necessari piaceri in eccesso e lo fa per proairesi, per gli eccessi in quanto tali e non per riuscire ad altro: ebbene costui è intemperante.

NE7.7[1150a,23-27] Similmente intemperante è colui che fugge le sofferenze corporali non perché sopraffatto ma per proairesi. Di coloro, poi, che non proairesizzano, gli uni si lasciano guidare dal piacere, gli altri dal fuggire la sofferenza che deriva dalla smania.

NE7.8[1150b,29-31] L’intemperante, come abbiamo detto, non è incline al pentimento poiché persiste per proairesi. Invece, chiunque sia non padrone di sé è incline al pentimento.

NE7.8[1151a,7-8] È dunque manifesto che la non padronanza di sé non è un vizio. Ma forse lo è in un certo senso, giacché la non padronanza di sé è tale in contrasto allaproairesi, mentre il vizio è secondo proairesi.

NE7.9[1151a,29-35] Pertanto, come ci chiedevamo problematicamente prima, è padrone di sé colui che persiste in un ragionamento qualsivoglia e una qualsivogliaproairesi oppure colui che persiste nella retta proairesi? Ed è non padrone di sé colui che non persiste in una qualsivoglia proairesi e in un ragionamento qualsivoglia oppure colui che persiste in un falso ragionamento e in una proairesi scorretta? Oppure uno persiste in una opinione qualunque accidentalmente, ma in essenza nel ragionamento vero e nella retta proairesi mentre l’altro non vi persiste?

NE7.10[1152a,10-14] Nulla impedisce che il valente parlatore sia non padrone di sé (……..), poiché l’uomo saggio e l’abile parlatore sono vicini quanto a parole ma differiscono quanto a proairesi.

NE7.10[1152a,17-18] Chi non è padrone di sé….non è malvagio. Infatti, la sua proairesiè acquiescente: sicché è malvagio a metà.

NE-LIBRO VIII°

NE8.5[1157b,30-32] L’affezionamento, infatti, è rivolto non meno agli esseri inanimati, mentre coloro che ricambiano l’amicizia lo fanno con proairesi e la proairesi ha a che fare con una disposizione.

NE8.13[1163a,22-24] Nelle amicizie fondate sulla virtù non ci sono incolpazioni e la proairesi di chi compie il beneficio assomiglia ad un’unità di misura, giacché dominante per la virtù e il carattere è la proairesi.

NE-LIBRO IX°

NE9.1[1164b,1-3] Tale è l’amicizia che il contraccambio va fatto in accordo con la proairesi, giacché questa è propria dell’amico e della virtù.

NE-LIBRO X°

NE10.8[1178a,35] Vi è disaccordo se più dominante per la virtù sia la proairesi o siano le azioni, poiché essa potrebbe essere in entrambe.

NE10.9[1178b,35] Se, dunque, di queste virtù come pure dell’amicizia e del piacere abbiamo detto schematicamente a sufficienza, dobbiamo ritenere raggiunto il fine che si era proposto la nostra proairesi.

11.1.2) ETICA A EUDEMO

EE-LIBRO I°

EE1.2[1214b,7] Una volta stabilito riguardo a ciò, che chiunque può vivere secondo la propria proairesi pone qualcosa a scopo del vivere bene: l’onore, la fama, la ricchezza o l’educazione (…) è necessario (…) definire in cosa consista (…) il vivere bene. 

EE1.4[1215b,1] (…) vediamo che sono anche tre i tipi di vita che quanti ne hanno per caso facoltà proairesizzano tutti di vivere: la vita politica, quella filosofica, quella di piacere.

EE1.5[1216a,26] Ma la maggior parte di quanti sono impegnati in politica impropriamente sono così designati, giacché non sono veri politici. Il politico, infatti, è colui che proairesizza le azioni nobili per loro stesse, mentre i più abbracciano questo modo di vita per la roba e per interesse.

EE-LIBRO II°

EE2.5[1222a,31] Sicché anche le disposizioni proairetiche all’esercizio atletico saranno più favorevoli alla salute in accordo con ambedue le differenti scelte.

EE2.6[1223a,17-19] Tutti invero ammettiamo che ciascun individuo sia la causa di tutto ciò che è volontario e in accordo con la sua propria proairesi, mentre invece di quanto è involontario egli non sia la causa. Ed è manifesto che tutto ciò che è proairesizzatoè anche volontario.

EE2.7[1223a,21-23] Dobbiamo anche prendere in esame cosa siano il volontario e l’involontario e cosa sia la proairesi, poiché virtù e vizio sono definiti per mezzo di essi.

EE2.7[1223a,23-25] Volontario e involontario sembrerebbero essere riconducibili a una di queste tre conformità o difformità: col desiderio, con la proairesi o con l’intelletto.

EE2.8[1223b,39] Che il volontario non sia neppure ciò che è secondo proairesi è manifesto da questo che segue.

EE2.8[1224a,3] Molte cose che noi vogliamo le facciamo repentinamente, mentre nessuno proairesizza nulla repentinamente.

EE2.8[1224a,6] Siccome abbiamo stabilito che il volontario è necessariamente una di queste tre cose: conforme a desiderio o a proairesi o ad intelletto, e siccome non è conforme alle prime due, rimane che consista nell’operare in un certo modo dell’intelletto.

EE2.8[1225a,13] Egli infatti semplicemente non proairesizza quello stesso che fa ma ciò per cui lo fa.

EE2.9[1225a,39] Concludendo, poiché il volontario non è definito né dal desiderio né dalla proairesi, rimane che sia da definirsi conforme all’intelletto.

EE2.10[1225b,18-1226a,33] Dopo ciò parliamo di proairesi, ragionando delle difficoltà che sorgono circa di essa. Infatti si potrebbe dubitare su quale genere di cosa laproairesi sia per natura, in quale classe di cose vada posta e se il volontario e il proairetico siano o non siano la stessa cosa. Alcuni soprattutto affermano, e così potrebbe parere ad uno che faccia questa ricerca, che la proairesi sia una di queste due cose: o opinione o desiderio, poiché ambedue queste cose paiono comprenderla. Eppure è evidente che la proairesi non è desiderio. Infatti, allora sarebbe o voglia o smania o istintività, giacché nessuno desidera senza avere prima sperimentato queste sensazioni. Ma istintività e smania esistono anche nelle belve, non però la proairesi. Inoltre anche coloro che sperimentano entrambe queste sensazioni, pure proairesizzano spesso senza istintività e senza smania; e quando sono soggetti alle passioni non proairesizzano ma si fanno forza. Inoltre smania e istintività sono sempre accompagnate da affanno, mentre invece noi proairesizziamo spesso senza affanno. Ma invero neppure sono la stessa cosa voglia e proairesi. Alcuni di noi vogliono infatti certe cose anche sapendo che sono impossibili; per esempio, regnare su tutti gli uomini ed essere immortali. Invece nessuno proairesizza qualcosa quando sa che è impossibile, e neppure proairesizza qualcosa di possibile, qualora creda che il farlo o non farlo non dipende da lui. Sicché è manifesto che necessariamente il proairetico è una di quelle cose che sono in nostro potere. Similmente è manifesto che proairesi non è opinione né ciò che uno semplicemente crede, poiché abbiamo visto che il proairetico è una di quelle cose che sono in nostro potere, mentre noi opiniamo anche molte cose che non sono in nostro potere, per esempio sulla diagonale incommensurabile [del quadrato di lato unitario]. Inoltre la proairesi non è vera o falsa. La proairesi non è neppure l’opinione di cose fattibili e in nostro potere, per cui ci capita di credere di dover fare o non fare qualcosa: questo è comune all’opinione e alla voglia. Nessuno, poi, proairesizza un fine bensì i mezzi per raggiungere un fine. Dico, per esempio, che nessuno proairesizza di stare in buona salute, ma di passeggiare o di restare seduto per stare in buona salute; né di essere felice, ma di fare affari o di rischiare per poter essere felice; e insomma colui che proairesizza sempre manifesta ‘cosa’ e ‘per che cosa’ lo fa. Il ‘per che cosa’ è ciò in vista di cui un’altra cosa è proairesizzata, mentre il ‘cosa’ è qualunque cosa è proairesizzata in vista di un’altra. L’uomo vuole, poi, soprattutto il fine ed opina che tali siano il dover essere in buona salute e lo star bene. Sicché è manifesto da ciò, che opinione e voglia sono altro da proairesi. Voglia e opinione sono specialmente del fine, mentre la proairesi non riguarda il fine. È pertanto manifesto che la proairesi non è né voglia, né opinione né semplicemente concezione. In che cosa differisce, allora da queste? E in quale relazione è con il volontario? La risposta a queste domande chiarirà anche cos’è la proairesi. Ora, delle cose che possono essere o non essere ve ne sono di tali che ammettono di essere deliberate da parte nostra, mentre altre non lo ammettono. Vi sono, infatti, cose che possono essere o non essere ma la cui genesi non è in nostro potere e avviene, nel caso di alcune, per opera di natura; nel caso di altre per opera di altre cause. Circa queste cose nessuno porrebbe mano, sapendolo, a deliberare. Alcune cose, invece, ammettono non soltanto di esistere oppure no, ma anche di essere deliberate dagli uomini; e sono le cose che è in nostro potere fare o non fare. Perciò noi non deliberiamo sulle faccende indiane né sulla quadratura del cerchio, giacché le faccende indiane sono cose non in nostro potere, mentre le cose proairetiche e fattibili sono in nostro potere, e la quadratura del cerchio non è fattibile, ragion per cui è anche manifesto che la proairesi non è semplicemente opinione.

EE2.10[1226b,2-9] Siccome la proairesi non è né opinione né voglia separatamente e neppure è entrambe le cose, (nessuno, infatti, proairesizza repentinamente ma a tutti repentinamente pare di dover fare qualcosa e tutti repentinamente vogliono) sembra che debba effettivamente sorgere da entrambe, giacché entrambe esistono in colui cheproairesizza. Bisogna allora analizzare come  questo avvenga, e il nome stesso chiarisce il come. La proairesi, infatti, è una scelta; non una semplice scelta ma la scelta di qualcosa a preferenza di un’altra. E questo non è possibile senza analisi e senza deliberazione. Perciò la proairesi è originata da un’opinione deliberativa.

EE2.10[1226b,14-23] Se in effetti nessuno proairesizza senza essersi preparato e senza avere deliberato o peggio o meglio; e inoltre delibera, tra le cose che possono essere o non essere, quei mezzi per un certo fine che sono in nostro potere, è manifesto che la proairesi è un desiderio deliberato di cose in potere del soggetto. Noi deliberiamo tutto ciò che proairesizziamo e però non proairesizziamo tutto ciò che deliberiamo. Chiamo, poi, deliberato quel desiderio di cui principio e causa è la deliberazione, e quando si desidera grazie all’avere deliberato. Perciò la proairesi non esiste negli altri animali né in ogni età dell’uomo né in ogni sua condizione.

EE2.10[1226b,33-37] È necessario che tutto quanto è proairetico sia volontario mentre non tutto il volontario è proairetico, e che tutto ciò che avviene secondo proairesi sia volontario mentre ciò che è volontario non è tutto secondo proairesi.

EE2.10[1227a,2-5] Che la proairesi non sia semplicemente voglia né opinione, è manifesto; ma è sia opinione che desiderio quando essi siano la conclusione di una deliberazione.

EE2.10[1227a,37-1227b,12] È pertanto necessario che sia l’inganno sia la proairesimuovano dalla medietà verso i contrari; e contrari sono il più e il meno rispetto alla medietà. Causa ne sono il piacere e il dolore. Le cose stanno infatti in modo che il piacevole appare all’animo buono e ancora migliore quanto più piacevole; e il doloroso cattivo e ancora peggiore quanto più doloroso. Così è manifesto anche da ciò che virtù e vizio hanno a che fare con piaceri e dolori, poiché capita che questi siano in relazione con cose proairetiche e la proairesi lo sia con bene, male e i pareri al riguardo, essendo per natura piacere e dolore cose del genere. Siccome la virtù morale è essa stessa una certa medietà tutta coinvolta con piaceri e dolori, e il vizio consiste in un eccesso o una carenza circa le medesime cose che concernono la virtù; è necessario che la virtù sia la disposizione morale proairetica di medietà in relazione a noi nelle cose piacevoli e dolorose, secondo che si dice essere di una certa qualità morale l’individuo che si rallegra o quello che si affligge, giacché non si dice che abbia una certa qualità morale semplicemente colui che ama il dolce o colui che ama l’amaro.

EE2.11[1227b,13-15] Una volta definite queste questioni, discutiamo se la virtù metta la proairesi al riparo dalle aberrazioni e renda retto il fine così che si proairesizzi ciò che bisogna proairesizzare oppure, come sembra ad alcuni, renda retta la ragione.

EE2.11[1227b,37-1228a,5] Il fine è ciò per cui si opera qualcosa e ogni proairesi, infatti, è proairesi di qualcosa e per qualcosa. Il ‘qualcosa per cui’ ossia il fine è la medietà, causa della proairesizzazione del quale è la virtù mentre la proairesi non è proairesi di questo fine ma dei mezzi per raggiungere questo fine. Dunque il centrare questi mezzi, ossia quanto si deve fare in vista del fine è affare di un’altra facoltà, mentre la causa della rettitudine del fine della proairesi è la virtù. Perciò è dalla proairesi che noi giudichiamo chi un individuo sia, cioè guardando non che cosa fa ma per che cosa lo fa. E similmente anche il vizio, per i motivi opposti, opera sulla proairesi.

EE2.11[1228a,12-19] E poi, benché l’attività sia presa in esame più della virtù, noi lodiamo e denigriamo tutti guardando alle loro proairesi più che alle loro opere, dal momento che le persone fanno cose ignobili anche per costrizione, cose che nessuno proairesizza. Inoltre, non essendo facile vedere di quale sorta sia la proairesi, siamo per questo costretti a giudicare dalle opere di quale sorta un uomo sia, e dunque la sua attività è più considerata, ma più lodabile è la sua proairesi.

EE-LIBRO III°

EE3.1[1228a,23-25] È stato detto in termini generali che vi è nelle virtù una medietà e che esse sono disposizioni proairetiche. È stato anche detto che i loro opposti sono i vizi e quali questi siano.

EE3.1[1230a,27] Ma poiché ogni virtù è proairetica (…)

EE3.6[1233a,31-33] Esiste anche l’uomo munifico, munifico non in una qualunque azione guidata dalla proairesi ma in fatto di spesa.

EE3.1[1233a,37-40] Uomo davvero munifico è colui che, in fatto di grandi spese, è proairetico della appropriata grandezza di esse, e desideroso a loro riguardo di una siffatta medietà.

EE3.7[1234a,24-26] Tutte queste medietà sono lodevoli ma non sono virtù, né i loro contrari sono vizi se non coinvolgono la proairesi.

EE-LIBRO VII°

EE7.2[1236b,3-4] Da ciò è chiaro che il primo tipo di amicizia, quella dei virtuosi, è mutua reciprocità di amicizia e di proairesi (antiproairesi).

EE7.2[1236b,5-7] Questo tipo di amicizia esiste soltanto tra gli uomini, giacché soltanto l’uomo ha coscienza della proairesi. Le altre amicizie, invece, esistono anche tra le belve.

EE7.2[1237a,30-35] E se amare attivamente con piacere è reciprocazione proairetica (antiproairesi) della mutua conoscenza, è manifesto che, nel complesso, il primo tipo di amicizia è reciprocazione proairetica (antiproairesi) di cose buone e piacevoli in quanto buone e piacevoli; e l’amicizia stessa è una disposizione dalla quale sorge siffatta proairesi.

EE7.7[1241a,19-23] Giacché è possibile pensare e desiderare cose contrarie, come nel caso di chi non è padrone di sé, nel quale questa discordia occorre. E se l’amico concorda con l’amico quanto a proairesi, può però non concordare con lui quanto a desiderio. La concordia è tra i virtuosi; mentre gli insipienti, quando proairesizzano e desiderano le stesse cose, si danneggiano l’un l’altro.

EE7.7[1241a,26-28] Vi è poi un altro tipo di amicizia per la quale anche gli insipienti concordano, qualora abbiano proairesi e desiderio delle medesime cose.

EE7.7[1241a,32-34] Vi è concordia qualora circa il comandare e l’essere comandati si abbia la medesima proairesi.

EE7.10[1243a,33] L’amicizia politica, dunque, bada ai patti e agli affari, mentre l’amicizia etica guarda alla proairesi.

EE7.10[1243b,3] Sicché è chiaro che bisogna discriminare tra questi casi, poiché se essi sono amici eticamente bisogna guardare alla proairesi.

EE7.10[1243b,10] Ed è manifesto che l’amicizia etica è amicizia secondo proairesi.

EE-LIBRO VIII°

EE8.3[1249a,3-5] Gli Spartani (…) sono uomini valenti (…) ma non virtuosi, giacché non fanno e non proairesizzano belle azioni per se stesse ma per procurarsi altri beni.

11.1.3) MAGNA MORALIA

MM-LIBRO I°

MM1.1[1181a,23-24] Siccome proairesizziamo di parlare di Etica, in primo luogo dovremo analizzare di quale branca della filosofia faccia parte lo studio del carattere.

MM1.11[1187b,15-19] Causa basilare dell’azione tanto virtuosa che viziosa è la proairesi, la voglia di agire, tutta la nostra parte razionale. Quindi è manifesto che anche queste cause prime mutano e che i nostri cambi di azione sono volontari. Sicché anche la causa basilare proairesi muta volontariamente.

MM1.11[1187b,29-30] Chi proairesizza di essere il più virtuoso uomo al mondo tale non sarà, pur se sarà migliore, ove non ci fosse anche la natura a soccorrerlo in ciò.

MM1.17[1189a,1-1189b,9] Rimane ancora da esaminare la proairesi, se essa sia desiderio oppure no. Ora, il desiderio si ingenera anche negli altri animali e tuttavia essi non hanno proairesi, giacché proairesi va con ragione e la ragione non appartiene a nessun altro animale. Pertanto la proairesi non potrebbe essere desiderio. Potrebbe essere voglia? O neppure questo? La voglia è anche voglia di cose impossibili. Per esempio: noi vogliamo essere immortali ma non lo proairesizziamo. Inoltre, la proairesi non è proairesi del fine ma dei mezzi per un fine. Ad esempio, nessuno proairesizza di stare in buona salute, mentre invece noi proairesizziamo il mezzo: camminare o correre, per stare in buona salute. I fini, invece, li vogliamo. Infatti vogliamo stare in buona salute. Sicché è manifesto anche così che proairesi e voglia non sono la stessa cosa. La proairesi è quello che dice anche il suo stesso nome. Ad esempio, noi proairesizziamo qualcosa al posto di qualcos’altro, come il meglio invece del peggio. Qualora, dunque, noi permutiamo il peggio con il meglio in fatto di scelta, ecco che qui parrebbe avere attinenza il proairesizzare. Poiché la proairesi non è nulla di tutto ciò, è essa forse l’attività dell’intelletto? O non è neppure questo? Noi infatti pensiamo e opiniamo molte cose con l’intelletto. Ma tutto ciò che pensiamo, lo proairesizziamo anche? O no? Spesso, infatti, pensiamo agli affari Indiani; ma certo non li proairesizziamo e dunque la proairesi non è neppure intelletto. Siccome dunque la proairesi non è nessuna di queste cose singolarmente presa e questi sono i fenomeni che avvengono nell’animo, necessariamente la proairesi deve essere la composizione in coppia di alcuni di essi. Poiché, allora, la proairesi è, come abbiamo detto in precedenza, proairesi dei mezzi per raggiungere un fine e non del fine, dei mezzi a noi possibili e delle alternative circa la scelta di questo o di quest’altro; è manifesto che si dovrebbe prima riflettere su di esse e deliberare in merito. Successivamente, quando ci paia di avere riflettuto al meglio, vi è un impulso ad agire in conseguenza e, facendo questo, ci sembra di agire secondo proairesi. Se quindi la proairesi è un desiderio deliberato conseguente ad una attività dell’intelletto, il ‘volontario’ non è la stessa cosa del proairetico. Infatti, noi facciamo molte cose volontarie prima di riflettere e di deliberare. Per esempio, ci sediamo, ci alziamo e compiamo molti altri simili atti volontari senza averci riflettuto; mentre tutto ciò che è proairetico dovrebbe essere conseguente ad una attività dell’intelletto. Dunque il ‘volontario’ non è tutto proairetico, mentre tutto il proairetico è ‘volontario’, giacché se proairesizziamo di fare qualcosa dopo averlo deliberato, agiamo volontariamente. Vi sono anche alcuni legislatori che paiono definire diversamente il ‘volontario’ e il ‘per proairesi’, disponendo pene minori per i delitti volontari che per quelli ‘per proairesi’’. La proairesi concerne azioni pratiche, quelle che è in nostro potere fare o non fare, fare così o non così, e che hanno un ‘perché’.

MM1.17[1189b,13] Nelle azioni pratiche, nelle quali è coinvolta la proairesi, non è così.

MM1.17[1189b,16-18] A seconda delle contingenze, noi proairesizziamo le azioni pratiche che ci appaiano migliori e per ciò agiamo.

MM1.19[1190b,2-6] Quando gli altri uomini ne vedono uno virtuoso lo giudicano dalle sue azioni, essendo impossibile venire in chiaro sul come sia atteggiata la proairesialtrui. Se, infatti, fosse possibile sapere com’è atteggiata la mente altrui verso il bello morale, allora  chi è virtuoso apparirebbe tale anche senza bisogno di guardare alle sue azioni.

MM1.34[1196b,27-34] Ora, le parti deliberativa e proairetica dell’animo umano hanno a che fare con le cose percepibili e mutevoli, insomma con tutto ciò che è soggetto a generarsi e a perire. Giacché noi deliberiamo su cose che, una volta da noi proairesizzate, è in nostro potere fare o non fare, ossia cose che ammettono da parte nostra voglia e proairesi di farle o di non farle. Si tratta di cose percepibili e suscettibili di mutamento; sicché la parte proairetica dell’animo umano ha a che fare con l’ordine delle cose percepibili.

MM1.34[1197a,14-16] Sicché la prudenza sarebbe una disposizione proairetica e pratica su cose che è in nostro potere fare e non fare, cose che hanno per scopo quanto ci è utile.

MM1.34[1197b,23-25] Giacché proprio dell’uomo prudente e della prudenza è l’avere di mira l’ottimo e di farlo sempre oggetto della propria proairesi e della propria pratica.

MM1.34[1198a,2] Vi sono invero anche eccellenze sia per carattere che per proairesi.

MM1.34[1198a,5-6] La virtù naturale, quando le si aggiungano ragione e proairesi, diventa virtù perfetta.

MM1.34[1198a,8-13] Né, a loro volta, ragione e proairesi si perfezionano in virtù se manca l’impulso naturale. Perciò Socrate non parlava rettamente quando diceva che la virtù è ragione e che di nessun pro è fare azioni virili e giuste quando non si sa cosa si fa e non si proairesizza secondo ragione.

MM1.34[1198a,16-18] Se qualcuno facesse azioni giuste senza alcuna proairesi di esse né conoscenza di ciò che è moralmente bello, ma per impulso irrazionale (…); azioni simili non hanno titolo a lode alcuna.

MM-LIBRO II°

MM2.12[1212a,18-22] Giacché, in primo luogo, la concordia non è tale a pensieri ma nella pratica; e non in quella pratica per cui due persone la pensano concordemente, ma quella in cui, pensando la stessa cosa, hanno proairesi concordi sul risultato cui pensano.

11.2) Epitteto e la Proairesi

A differenza dell’uso aristotelico, l’uso che Epitteto fa del sostantivo ‘’Proàiresis’ e dei suoi collegati non lascia invece adito ad alcun dubbio. Egli definisce la ‘’Proàiresis’  in modo chiarissimo, restituendole così piena legittimità di termine filosofico. 
Senza alcuna pretesa ad una esaustività che qui sarebbe fuori luogo e forse noiosa, il quadro può brevemente essere riassunto in questo modo.
‘Proairesis’ è il nome che Epitteto dà alla facoltà razionale il cui possesso differenzia l’uomo da tutte le altre creature viventi. Egli precisa che essa è una facoltà: 

  1. autoteoretica
  2. inasservibile e insubordinabile 
  3. capace di usare le rappresentazioni e di comprenderne l’uso 
  4. parte egemone (egemonikòn) dell’animo umano, ossia parte alla quale tutte le altre facoltà umane sono subordinate ed alla quale fa capo la catena di comando che ci fa operare in un certo modo oppure in un altro.

La Proairesi umana è pienamente all’opera quando l’uomo usa: 

  1. desiderio e avversione 
  2. impulso e repulsione 
  3. assenso e dissenso 

ed è strutturalmente operante attraverso due ‘giudizi di giudizi’ o ‘supergiudizi’ che si possono chiamare ‘Diairesi’ e ‘Controdiairesi’. 
La ‘Diairesi’ è il supergiudizio capace, di fronte a giudizi ordinari riferentisi a qualunque situazione, di distinguere ciò che è in nostro esclusivo potere (le cose proairetiche) e ciò che non lo è (le cose aproairetiche).
La ‘Controdiairesi’ è il supergiudizio che, di fronte a giudizi ordinari riferentisi a qualunque situazione, decreta invece proairetico ciò che è aproairetico, dunque essere in nostro esclusivo potere ciò che non è in nostro esclusivo potere; oppure essere aproairetico ciò che invece è proairetico, dunque non essere in nostro esclusivo potere ciò che invece è in nostro esclusivo potere.
Ne consegue che la proairesi umana può atteggiarsi in due modi diversi: diaireticamente oppure controdiaireticamente. E siccome l’uomo è la sua proairesi ecco che, a differenza di Aristotele, per Epitteto comunque l’uomo agisca egli non può mai  agire in contrasto con la propria proairesi (parà proàiresin).

Giacché nulla può sostituire la lettura dei testi, quelli che seguono sono brani scelti tratti da vari libri delle Diatribe, nei quali Epitteto delinea magistralmente il suo concetto di Proairesi secondo le linee sopra esposte e ci invita a farne un cardine della nostra interpretazione del mondo e del nostro operare. 

“Dì i segreti”. Non li dico: giacché  questo è in mio esclusivo potere. “Ma ti incatenerò”. O uomo, che dici? Me? Incatenerai la mia gamba, ma la proairesi  neppure Zeus può  vincerla. “Ti butterò in prigione”. Butterai in prigione il mio corpicino. “Ti decapiterò”. E quando mai ti dissi che solo il mio collo non è mozzabile? Questo dovrebbero studiare coloro che fanno filosofia, questo scrivere ogni giorno, in questo allenarsi.

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 1 , § 23-25


Soltanto, analizza a quanto vendi la tua proairesi. Se non altro, o uomo, non venderla a poco. Il grande e singolare conviene senz’altro ad altri, a Socrate ed agli uomini siffatti.

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 2, § 33

Vengo quindi da questo interprete e sacrificatore e dico: “Esaminami le viscere, cosa mi significano”. Lui le prende, le sbroglia, poi spiega: “Uomo, tu hai una proairesi per natura non soggetta ad impedimenti  e non soggetta a costrizioni. Qui, nelle viscere, questo è stato scritto. Te lo mostrerò innanzitutto nell’ambito dell’assenso. Può forse qualcuno impedirti di annuire al vero? Neppur uno. Può forse qualcuno costringerti ad accettare il  falso? Neppur uno. Vedi che  in questo ambito il proairetico l’hai non soggetto ad impedimenti, non soggetto a costrizioni, disimpacciato?  Orsù, è diverso nell’ambito del desiderio e dell’impulso? Chi può vincere un impulso se non un altro impulso? Chi un desiderio ed un’avversione se non un altro desiderio ed un’altra avversione?” “Se,” qualcuno dice, “uno mi appresserà la paura della morte, mi costringe”. “Non è quanto viene appressato a costringerti, ma è che reputi meglio fare una di queste cose che morire. Di nuovo dunque il tuo giudizio ti costrinse; ossia proairesi costrinse proairesi. Se infatti la parte peculiare che Zeus ci diede spiccandosela, egli avesse strutturato soggetta ad impedimenti o costrizioni  sue o di qualcun altro, non sarebbe più materia immortale né sarebbe sollecita di noi nel modo dovuto. Questo trovo” dice, “nelle vittime sacrificali. Questo ti significano. Se lo disporrai sei libero. Se lo disporrai non biasimerai nessuno, non incolperai nessuno, tutto sarà secondo l’intelligenza insieme tua e quella di Zeus”. Per questo dono divinatorio vengo da questo sacrificatore e filosofo, non ammirando lui per la spiegazione ma quello che spiega.

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 17, § 20-29

-“Ma il tiranno incatenerà”- Cosa? La gamba. -“Ma staccherà”- Cosa? Il collo. Cosa non incatenerà e non staccherà? La proairesi. Per questo gli antichi prescrivevano il “Riconosci te stesso”.

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 18, § 17

Cos’è dunque educarsi a diairesizzare? Imparare ad adattare i naturali pre-concetti alle particolari sostanze in modo consono alla natura delle cose e, orbene, a discriminare che, delle cose, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. Sono in nostro esclusivo potere la proairesi e tutte le opere della proairesi; non sono in nostro esclusivo potere il corpo, le parti del corpo, patrimoni, genitori, fratelli, figlioli, patria, insomma i soci. Dove porremo dunque il bene? A quale sostanza lo adatteremo? A quella in nostro esclusivo potere? -E poi  non sono beni salute del corpo, integrità fisica, vita e neppure figlioli, genitori, patria?- E chi ti tollererà? Alloghiamolo dunque di nuovo qua. E’ fattibile che sia felice chi subisce danno e fallisce il bene? -Non è fattibile.- E che serbi verso i soci la condotta che si deve? E com’è fattibile? Giacché io sono nato per il mio utile. Se mi è utile avere un fondo, mi è utile anche sottrarre quello di chi mi è dintorno; se mi è utile avere una toga, mi è utile anche rubarla alle terme. Di qua guerre, conflitti civili, tirannie, insidie. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 22, § 9-14

Se questo è vero e noi non battiamo la fiacca né recitiamo quando diciamo che il bene ed il male dell’uomo stanno nella proairesi mentre tutto il resto è nulla per noi; perché siamo ancora sconcertati, perché abbiamo ancora paura? Su quanto ci industriamo nessuno ha potestà; di ciò su cui gli altri hanno potestà, di questo non ci impensieriamo. Che fastidi abbiamo ancora? 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 25, § 1-2

Sostanza del bene è un certo modo della proairesi;  del male, un certo modo della proairesi. Cosa sono dunque gli oggetti esterni? Materiali per la proairesi, sui quali rivolgendosi essa centrerà il proprio peculiare bene o male. Come centrerà il bene? Se non si infatuerà dei materiali. Giacché i giudizi sui materiali, se sono retti fanno la proairesi buona; se scorretti e pervertiti, cattiva. Questa legge la materia immortale ha posto e dice: “Se disponi qualche bene, prendilo da te stesso”. Tu dici “No,  da un altro”. No, ma da te stesso. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 29 , § 1-4

Questo dunque cerca di sapere da te: “A scuola cosa dicevi essere esilio, prigione, catene, morte, discredito?” “Io, indifferenti”. “Ed ora cosa le dici essere? Furono forse cambiate?” “No”. “Fosti cambiato tu?” “No”. “Dì dunque cos’è indifferente”. “L’aproairetico”. “Dì anche il seguito”. “L’aproairetico nulla è per me”. “Dì anche quali cose reputavate beni”. “La proairesi e l’uso delle rappresentazioni quale si deve”. “E quale il fine?” “Seguirti”. “Dici questo anche ora?” “Dico anche ora lo stesso”. Orbene, vattene dentro con fiducia, ricordatene, e vedrai cos’è un giovane che ha studiato ciò che si deve fra gente che non ha studiato.

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 30 , § 2-5

Così pertanto, anche nella vita l’opera cardinale è quella: discrimina le faccende, scindile e dì: “L’al di fuori non è in mio esclusivo potere; la proairesi è in mio esclusivo potere. Dove cercherò il bene ed il male? Dentro, in quanto è mio”. In quanto è allotrio non nominare mai né bene né male, né giovamento né danno né nient’altro di siffatto.

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 5, § 4-5

Analizza chi sei. Innanzitutto un essere umano, cioè una creatura che nulla ha di più dominante della proairesi ed il resto subordinato a questa, mentre essa è inasservibile ed insubordinabile. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 10, § 1

E dunque? Non danneggerò chi mi danneggia? Innanzitutto vedi cos’è danno e ricordati di quanto sentisti dire dai filosofi. Infatti se il bene è nella proairesi ed il male allo stesso modo nella proairesi, scruta se quel che dici non è qualcosa del genere: “E dunque? Siccome quello danneggiò se stesso commettendo un’ingiustizia contro di me, io non danneggerò me stesso commettendo un’ingiustizia contro di lui?” Perché dunque non ci rappresentiamo qualcosa di siffatto ed invece laddove vi sarà qualche menomazione corporale o patrimoniale, là danno; e laddove la menomazione riguarderà la proairesi, nessun danno? A chi è ingannato o commette ingiustizia non viene mal di testa o mal d’occhi o la sciatica né perde il fondo. E noi null’altro vogliamo che questo. Se poi  avremo la proairesi rispettosa di sé e degli altri e leale oppure sfacciata e sleale, su questo non siamo neppur vicini a litigare eccetto che a scuola soltanto e finché sono discorsetti. Perciò appunto facciamo profitto finché sono discorsetti ed al di fuori di essi neppure il menomo.  

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 10, § 24-30

Dov’è il bene? -Nella proairesi.- Dov’è il male? -Nella proairesi.- Dove l’udetero? -Nell’aproairetico.- E dunque? Qualcuno di noi si ricorda di questi discorsi fuori della scuola? Qualcuno studia per rispondere lui su di sé in questo modo alle faccende come alle domande: “E’ proprio giorno?” “Sì”; “E che? E’ notte?” “No”; “E che? Le stelle sono in numero pari?” “Non sono in grado di dirlo”. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 16, § 1-2

Giacché dove saranno l'”io” ed “il mio”, là è necessario che propenda la creatura. Se nella carne, che là sia il  dominante; se nella proairesi, che sia nella proairesi; se negli oggetti esterni, in questi. Se  quindi io sono là dov’è la proairesi, solamente così sarò amico e figlio e padre quale si deve. Giacché mi sarà utile serbare l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, capace di tollerare l’intemperanza altrui, di astenersi dalla propria, capace di cooperare e custodire le relazioni umane. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 19, § 19-20

Tu indaga non quel che indagano gli altri, se hanno gli stessi genitori, se sono stati allevati assieme e dallo stesso pedagogo; ma solo quello: dove pongono il loro utile, se esternamente o nella proairesi. Se esternamente, non dirli amici; non più che leali o ben saldi o fiduciosi in se stessi o liberi; anzi neppure uomini, se vi poni mente. Giacché non è un giudizio da uomo quello che fa mordere l’un l’altro, ingiuriarsi, pigliare luoghi isolati o piazze come belve le montagne e dimostrare in tribunale modi da rapinatori. Né quello che rende non padroni di sé, adulteri, corruttori; né di quant’altre contumelie gli esseri umani si coprono vicendevolmente a causa di questo solo ed unico giudizio: il porre se stessi e quanto è loro nell’aproairetico. Se invece sentirai dire che questi, gli uomini, davvero credono il bene solo là dov’è proairesi, dov’è il retto uso delle rappresentazioni; non impicciarti più se sono figlio e padre o fratelli o sono andati a scuola insieme e sono compagni. Riconosciuto soltanto questo, dichiara con fiducia che sono amici, come anche che sono leali, che sono giusti. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 22, § 26-29

Qual è la facoltà che apre e chiude gli occhi e li distoglie da ciò da cui vanno distolti e ad altro li appressa? La visiva? No, ma la proairetica. Quale serra ed apre le orecchie? Grazie a quale si diventa indiscreti e ficcanaso o, di nuovo, immoti ad un discorso? Alla uditiva? Non ad altra che la facoltà  proairetica. E poi quand’essa vede di trovarsi con altre facoltà tutte cieche e sorde, incapaci di notare altro eccetto quelle opere per le quali sono state posizionate a farle da ministre e servitrici, mentre essa sola scorge con acutezza e vede dall’alto non solo le altre facoltà e quanto merita ciascuna, ma anche se stessa; ebbene, è la proairesi per dichiararci che qualcos’altro è più possente di lei? L’occhio aperto, che altro fa se non vedere? Ma se si deve guardare la moglie di qualcuno e come, chi lo dice? La facoltà proairetica. Se bisogna fidarsi delle parole dette o diffidare e, fidandosi, essere stuzzicati o no, chi lo dice? Non è la facoltà proairetica? E questa facoltà espressiva e di abbellire locuzioni -se proprio è una facoltà peculiare- che altro fa, qualora il discorso si imbatta su qualcosa, che imbellettare i nomignoli e comporli come i parrucchieri la chioma? Se sia meglio dire o tacere, parlare così o cosà, se questo sia confacente o non confacente, il tempo di ciascuna cosa ed il bisogno, chi altro lo dice se non la facoltà proairetica? Vuoi dunque che essa pervenga a votarsi contro?

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 23, § 9-15 

“E dunque,” dice, “se così sta la faccenda, può quanto fa da ministro essere migliore di ciò cui fa da ministro: il cavallo migliore del cavaliere, il cane del cacciatore, lo strumento del citarista, i servitori del re?” Cos’è che usa? La proairesi. Cos’è sollecito di tutto? La proairesi. Cosa  leva interamente di mezzo l’uomo, una volta per fame, un’altra per impiccagione, un’altra giù da un precipizio? La proairesi. E poi qualcosa è più potente di questo negli uomini? Com’è possibile che l’impedito lo sia di quanto non è soggetto ad impedimenti? Cos’è per natura capace di intralciare la facoltà visiva? La proairesi e l’aproairetico. Lo stesso vale per la facoltà uditiva, ed è allo stesso modo per la facoltà espressiva. Ma cos’è per natura capace di intralciare la proairesi? Nulla di aproairetico bensì essa, quando sia pervertita, se stessa. Per questo la proairesidiventa solo vizio o sola virtù.

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 23, § 16-19

 
Perché non sei un pezzo di carne né peli ma proairesi: se avrai questa bella allora sarai bello. Finora non ho l’audacia di dirti che sei brutto, giacché reputo che tutto vuoi sentir dire fuorché questo. Ma vedi cosa dice Socrate al più magnifico e più giovanilmente fiorente di tutti, ad Alcibiade: “Prova dunque ad essere bello”. Che gli dice? “Plasmati la chioma e depilati le gambe?” Non sia mai! Ma: “Adorna la tua proairesi, estirpa i giudizi insipienti”. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 1, § 40-42

E scrutiamo i tuoi giudizi.Non è manifesto che tu poni nel nulla la tua  proairesi e che scruti fuori  all’aproairetico, a cosa dirà il tale e chi sembrerai essere, seun erudito, se uno che ha letto Crisippo od Antipatro? Se hai letto anche Archedemo, hai proprio tutto! 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 2, § 13

Per questo il bene pregiudica ogni legame di parentela. Nulla vi è tra me e mio padre, ma tra me ed il bene. “Sei così duro?” Sono così per natura. Questa moneta mi ha dato la materia immortale. Per questo, se il bene è altro dal bello e dal giusto, spariscono padre, fratello, patria e tutte le faccende. Che io disdegni il mio bene perché tu l’abbia, per dare spazio a te? In cambio di cosa? “Sono tuo padre!” Ma non il bene. “Sono tuo fratello”. Ma non il bene. Se però lo porremo in una retta proairesi, lo stesso serbare le relazioni diventa un bene e chi recede da certi oggetti esterni , costui centra il bene. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 3, § 5-8

A me accada di essere pigliato mentre di null’altro sono sollecito che della mia proairesi, con lo scopo di saper dominare la passione, di non essere soggetto ad impedimenti, non essere soggetto a costrizioni, di essere libero. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 5, § 7

Giacché si devono avere a portata di mano questi due principi generali: che al di fuori della proairesi nulla vi è né di bene né di male; e che non si devono precedere le faccende ma aderirvi. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 10, § 18

Forse uno può darti la notizia che concepisti male o desiderasti male? -Nient’affatto!- Ma che uno morì. Cos’è dunque per te? Che uno parla male di te. Cos’è dunque per te? Che il padre ha pronto questo e quest’altro. Contro chi? Forse contro la proairesi? E donde può? Bensì contro il  corpo, contro le coserelle. Sei salvo; non è contro di te. Ma l’arbitro dichiara che hai commesso una empietà. E nel caso di Socrate i giudici non lo dichiararono? E’ forse opera tua che egli lo dichiari? -No.- Perché dunque t’importa ancora? 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 18, § 2-4

Prima differenza tra una persona comune ed un filosofo. L’uno dice: “Ahimè! Colpa del pupattolo, colpa del fratello; ahimè! colpa di mio padre”. L’altro, se mai sarà costretto a dire “Ahimè!” riflette e dice: “colpa mia”. Giacché nulla di aproairetico può impedire o danneggiare la proairesi se non essa se stessa.

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 19, § 1-2 Dove invece sono proairesi ed uso delle rappresentazioni, là vedrai quanti occhi ha; tanto da farti dire che Argo, al suo confronto, era cieco. Dove trovi in lui un assenso precipitoso, dove un impulso avventato, dove un desiderio fallito, dove un’avversione che incappa in quanto avversa, dove un progetto imperfetto, dove lagnanza, dove servilismo o invidia?  E’ qua la sua grande attenzione e sforzo; per il resto russa

supino: pace completa. Un rapinatore di proairesi non c’è, non c’è tiranno di proairesi. E del corpo? Sì. E di coserelle? Sì, ed anche di cariche ed onorificenze. Che gli importa di questo? Qualora dunque uno voglia incutergli paura per mezzo loro, il Cinico gli dice: “Va’, cerca dei bimbi; è a loro che le maschere fanno paura; io invece so che sono di terracotta,  dal di dentro non c’è nulla”.

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 22, § 103-106

L’opera di un altro contro la natura delle cose non diventi un male per te. Giacché tu non sei nato per farti serva la proairesi né per avere sfortuna in compagnia ma per avervi fortuna. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 24, § 1 Se disporrai di avere questo, lo avrai ovunque e vivrai fiducioso. In cosa? Nella

sola cosa in cui è fattibile avere fiducia, in quanto è leale, non soggetto ad impedimenti, intoglibile, cioè nella tua proairesi

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 26, § 24


Insomma ricordati che qualunque cosa onorerai al di fuori della tua propria proairesi, mandi in malora la proairesi. E fuori non c’è soltanto una carica ma anche l’assenza di una carica, non soltanto l’impegno ma anche l’agio.

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 4, Capitolo 4, § 23

-A che cosa devo dunque fare attenzione?- Innanzitutto a quei principi universali; quelli tenere a portata di mano; non dormire e non alzarsi, non bere e non mangiare, non conferire con persone sprovvisto di quelli: che nessuno è signore di una proairesi altrui e che soltanto in questa stanno il bene ed il male. Dunque nessuno è signore né di procacciarmi il bene né di precingermi del male, ma io solo ho potestà su di me a questo riguardo. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 4, Capitolo 12, § 7-8

Se dunque vedrai qualcuno che si industria per l’aproairetico e che ad esso ha subordinato la propria proairesi, sappi che questo individuo ha miriadi di persone che lo costringono, che lo impediscono. Non c’è bisogno per lui di pece o di ruota di tortura per riferire quel che sa, ma lo scrollerà, caso mai, il cennuccio di una ragazzina, il segno d’amicizia di un funzionario di Cesare, la smania per una carica, per una eredità ed altre trentamila cose simili a queste. 

Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 4, Capitolo 13, § 21-22

La malattia è un intralcio del corpo, non della proairesi, se la proairesi non lo disporrà. Una azzoppatura è un intralcio di gamba, non di proairesi. E questo soggiungi per ciascun accadimento, giacché troverai che esso intralcia qualcos’altro ma non te.

Epitteto: “L’albero della diairesi” Il Manuale, 9

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Scritti originali

DE SERVO DEO ET DE LIBERO HOMINE

“Non credo che qualcuno abbia mai guardato nel cosmo con un sospetto altrettanto profondo”

Epitteto non parla mai della sopravvivenza della proairesi e parla sempre della morte dell’uomo con grande tranquillità in questi termini:
[‘Diatribe’ III,13,14-15] “E qualora <la Materia Immortale> non procuri più il necessario, essa dà il segno della ritirata, apre la porta e ti dice ‘Vieni!’. Dove? A nulla di tremendo, ma là onde nascesti; a quanto è amico e congenere, agli elementi. Quanto v’è in te di fuoco torna in fuoco; quanto di terra, in terra; quanto di pneuma in pneuma e quanto d’acqua, in acqua. Alcun Ade non v’è, non v’è Acheronte né Cocito né Piriflegetonte”.

Io sono sempre stupefatto dalla noncuranza con la quale gli uomini ammettono che i sassi, i pioppi e i gatti nulla lasciano di sé quando muoiono; e però vogliono per sé stessi una eccezione ed arrivano addirittura ad inventarsi la resurrezione dei ‘loro’ corpi.

Facciamo allora il punto.

Zeus è il nome che Epitteto e gli Stoici danno all’insieme di tutta la Materia Immortale di cui consta il cosmo, ossia alla ‘divinità’. Il cosmo, a sua volta, è soggetto a continui mutamenti ed incessanti trasformazioni ma è non soggetto a nascita o morte, giacché è composto di Materia Immortale la quale segue leggi ben precise nei suoi passaggi di stato. Materialità è dunque sinonimo di Zeus, cioè di divinità. 

Ora, riconoscere che tutto ciò ch’è materiale è ‘divino’, significa anche riconoscere che tutto ciò ch’è ‘aproairetico’, ossia tutto ciò che è non in esclusivo potere dell’uomo, è divino: dunque divini sono i sassi e le piante, il fango e gli animali, gli astri, gli escrementi e così via. Anche l’uomo, quanto al suo corpo, è divino. Infatti, immortale è la materia della quale questo suo corpo è formato, e divina è la capacità di questo corpo di esprimere da se stesso la facoltà chiamata ‘proairesi’. Insomma, l’uomo è circondato dal divino ed è esso stesso divino. Quali sono allora le caratteristiche che differenziano ciò ch’è ‘proairetico’ ossia ‘in esclusivo potere della nostra proairesi’ ossia ‘umano’, da ciò ch’è ‘aproairetico’ ossia ‘non in esclusivo potere della nostra proairesi’ ossia ‘divino’? 

Ciò ch’è in nostro esclusivo potere, ossia ‘proairetico ed umano’, è per natura mortale, complesso, infinito, libero, non soggetto a impedimenti e non soggetto a costrizioni; mentre ciò ch’è non in nostro esclusivo potere, ossia ‘aproairetico e divino’ è per natura immortale, finito, schiavo, soggetto ad impedimenti e a costrizioni ad opera di agenti aproairetici che siano di volta in volta di esso più potenti. 

Questa simmetria è però sorprendentemente ma naturalmente violata da una caratteristica peculiare della proairesi umana. Mentre infatti nell’ambito del ‘divino’ l’inferiore subisce sempre e senza eccezione la forza del superiore, nell’ambito dello ‘umano’ la infinita libertà e potenza della proairesi le permette di negare la sua stessa libertà e potenza, col risultato di farla ritenere inferiore a ciò di cui è invece per natura superiore. 

Nella terminologia di Epitteto -e finora di nessun altro filosofo- l’operazione proairetica con la quale lo ‘umano’ si dichiara e riconosce diverso e superiore al ‘divino’ si chiama ‘diairesi’; mentre l’operazione con la quale lo ‘umano’ si dichiara e riconosce inferiore al ‘divino’ si chiama ‘controdiairesi’. 

Chiarite queste fondamentali premesse cosa ne è, per l’uomo, di Dio e degli Dei? 

A differenza di Zeus, che è Materia Immortale e dunque un’entità aproairetica e divina che si identifica con il cosmo, gli Dei sono libere creazioni della proairesi umana e sono pertanto entità esclusivamente proairetiche. Proprio per il fatto di essere entità proairetiche essi possono essere creature della diairesi oppure della controdiairesi dell’uomo. E siccome diairesi e controdiairesi sono a noi connaturate ed esisteranno finché esisterà il genere umano, unica è l’origine tanto degli Dei del politeismo che del Dio del monoteismo: la proairesi umana che usa in modo scorretto le rappresentazioni e vede il proprio bene e il proprio male fuori di sé, in ciò ch’è aproairetico e divino. Si chiamino Apollo, o Osiride, o Rama, o si tratti del Dio personale e trascendente dei monoteismi rivelati, dunque il Dio di Mosè, di Gesù Cristo e di Maometto, la sostanza non cambia. Esso è un’entità proairetica che non fu e non sarà mai Materia Immortale ma che sempre è, giacché è fatto in ogni tempo esistere dall’atteggiamento controdiairetico della proairesi degli uomini. È ben per questo che un Dio simile non ha bisogno di esistere per essere creduto. 

A fronte di un ricchissimo Pantheon di dei buoni e cattivi, diversi da cultura a cultura e da paese a paese, quando sia invece usata rettamente la proairesi dell’uomo è capace di concepire di sé e della Materia Immortale delle rappresentazioni felicitanti, virtuose, liberatorie ed aderenti alla natura delle cose, che sono appunto quelle alle quali Epitteto ci sollecita continuamente ad aderire. 

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Traduzioni

Marco Aurelio

La traduzione dell’opera di Marco Aurelio è stata da me condotta sulla base del testo greco pubblicato in edizione critica da Joachim Dalfen con il titolo: MARCI AURELII ANTONINI Ad se ipsum Libri XII, Teubner, Leipzig, 1979. Ho tuttavia tenuto conto anche di numerose altre edizioni del testo di Marco Aurelio preparate da diversi autori e, in davvero pochi casi, di esse mi sono servito laddove una congettura testuale mi sembrava più convincente di quella proposta da Dalfen. 

Com’è noto, già nell’antichità l’opera di Marco Aurelio non aveva un titolo. La cosa non deve sorprendere, perché allora era pratica comune che un testo non avesse un titolo finché qualcuno, che in genere non era l’autore, si incaricava di darglielo nel momento in cui rendeva l’opera di pubblico dominio. Il testo è stato citato fin dall’antichità semplicemente come ‘ta èis heautòn ethikà’‘tòu idìou bìou agoghè’, e poi, a partire dal 1559 d.C., ha avuto come titolo ‘De seipso seu vita sua’‘Meditations concerning himself’‘Pugillaria’‘Pensieri’‘A se stesso’ , ‘Ricordi’ e numerosi altri. Siccome io giudico, insieme ad Epitteto, che la sola ed unica cosa della quale l’uomo può avere una conoscenza non libresca è la sua propria proairesi e siccome lo scritto di Marco Aurelio è palesemente una continua variazione su quest’unico tema della natura, dell’essenza e dello stato della sua proairesi, mi è parso del tutto naturale intitolarlo: ‘La proairesi a se stessa’.

Essendo infine io, per questo motivo, alieno alle bibliografie ed altri simili apparati, ho posto ogni cura nel risparmiarli a chi mi legge, ed ho badato esclusivamente alle questioni di sostanza, fidandomi per la compiuta comprensione del testo delle brevi introduzioni che ho apposto ad ogni frammento. Chi, nonostante tutto, avesse invece insopprimibili smanie per l’oscurità e il masochismo camuffati da ‘competenza’, non ha certamente bisogno delle mie indicazioni per trovare tra le fatiche di tanti emeriti professori abbondante modo per soddisfarle.

Vale per l’opera di Marco Aurelio quello che vale per le mie altre traduzioni presenti in questo sito.

La loro caratteristica principale, ed anche unica -credo- rispetto alle altre traduzioni delle stesse opere, è quella di essere state condotte rigorosamente sulla base del corrispondente Index Verborum. Nel caso dell’opera di Marco Aurelio, l’Index Verborum è quello compreso nell’edizione critica di tale opera preparata da Joachim Dalfen con il titolo: MARCI AURELII ANTONINI, Ad se ipsum Libri XII, Teubner, Leipzig, 1979.

Cosa significa tradurre in lingua italiana un testo in greco antico sulla base dell’Index Verborum? Significa innanzitutto partire dalla presunzione, o se volete dalla scommessa, che la lingua italiana abbia una struttura ed una dovizia di vocaboli sufficienti a restituire con accettabile approssimazione le forme e i panneggi dell’abito confezionato nell’antichità. Possiamo paragonarla, insomma, ad un’impresa di alta moda. Io mi sono ovviamente servito dell’aiuto di un gran numero di traduzioni in italiano, in inglese e in francese per superare le numerose incertezze e i frequenti scogli che il testo di Marco Aurelio presenta, e posso dunque parlare al riguardo con conoscenza di causa delle modeste o modestissime sartine -absit iniuria verbis- nelle quali mi sono imbattuto. Non desiderando fare nomi, mi spiegherò con un esempio preso da un testo che invece assolutamente tutti conoscono, dotato di un’autorità senza paragoni e che rappresenta dunque un caso ancora più grave. L’esempio è tratto dal testo ‘La Sacra Bibbia’, Traduzione dai testi originali, Edizioni Paoline, 1964 ed è questo:
**Do per buona la citazione di Luca 19, 41, che fa il paio con quella di Giovanni 11, 35.
In entrambi i casi la traduzione italiana del testo del Vangelo usa il verbo ‘piangere’. Gesù dunque pianse due volte sole in vita sua: una su Lazzaro che poi avrebbe risuscitato e, più tardi, alla vista di Gerusalemme. 
Ma le cose stanno veramente così? 
Tralascio di parlare della traduzione latina di S. Gerolamo. Cosa è scritto nel testo greco?
In Giovanni 11, 35 il testo greco è questo:  “Edàkrusen o Iesùs”. Il verbo “dakrùo” vuol dire propriamente “versare lacrime” e “dàkru” è infatti il sostantivo greco che indica la “lacrima”. Dunque siamo ampiamente autorizzati a tradurre “Gesù pianse” (versando lacrime).
In Luca 19, 41 il testo greco è il seguente: “Kai òs énghisen, idòn tèn pòlin éklausen ep’autèn”, che si può tradurre: “E quando si avvicinò, guardando la città (Gerusalemme) éklausen su di essa”. 
Tutti capiscono che il verbo “klàio” non è il verbo “dakrùo”, meno i traduttori in italiano dei Vangeli, che traducono per sentito dire, per pigrizia, con disprezzo dei lettori i quali, tanto, non si accorgeranno di nulla. 
Il verbo “klàio”  è usato in greco per indicare qualunque espressione sonora di dolore o di afflizione che può, ma può anche non, essere accompagnata dalle lacrime. Io lo tradurrei con un verbo come “singhiozzare”, “rompere in alti lamenti”. Si può piangere in silenzio ma non si può “klàiein” in silenzio. Si può “klàiein” senza versare lacrime ma non si può  fare altrettanto se si piange.
Ne concludo che in Giovanni il testo greco si propone di sottolineare il silenzioso scorrere delle lacrime sul volto di Gesù e tutta l’intimità della sua pena in un ambiente familiare e raccolto.
In Luca, invece, il testo intende porre in evidenza tutta la sonorità e la spettacolarità di un lamento che è fatto davanti a un grande pubblico e per un grande pubblico. Esso sarà infatti immediatamente seguito dalla cacciata dei mercanti dal Tempio.**
Traducendo Marco Aurelio, ho ripetuto per ben 3204 volte l’operazione appena citata con i verbi ‘dakrùein’ e ‘klàiein’, cercando inoltre di dare ad ogni vocabolo che non sia un ‘hapax legomenon’, uno od il minor numero possibile di significati compatibili con i vari contesti. Mi auguro di essermi spiegato. 

L’opera di Marco Aurelio è composta da un totale di circa 30.260 parole. Escludendo dal computo congiunzioni, particelle, preposizioni e pronomi, essa risulta formata da 3367 vocaboli diversi, dei quali il 4,8% (esattamente 163) sono nomi propri. Dei 3204 vocaboli che non sono nomi propri 1768, ossia il 55,2%, sono ‘hapax legomena’, cioè vocaboli usati una sola volta. 

Il numero di ‘hapax legomena’ è notevole, se paragonato al corrispondente valore riscontrabile nell’opera omnia di Epitteto. Questa si compone, infatti, di un totale di circa 84.900 parole e risulta formata, escludendo i nomi propri, da 4292 vocaboli diversi, dei quali soltanto 1485, ossia il 34,6%, sono ‘hapax legomena’.

Pur con tutte le cautele del caso, una differenza così significativa -1768 vocaboli unici su 30.260 parole in Marco Aurelio, contro 1485 vocaboli unici su 84.900 parole in Epitteto- potrebbe effettivamente avvalorare la conclusione che il testo dell’opera di Epitteto sia la fedele registrazione di un parlato dal vivo, mentre l’opera di Marco Aurelio sia un testo prima abbozzato, poi corretto e infine letterariamente rifinito. Le mie traduzioni, comunque, tengono conto di queste loro diverse caratteristiche.

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Traduzioni

Il Manuale di Epitteto

Mi auguro di fare cosa gradita e utile ai frequentatori di questo sito rendendo disponibile alla lettura la più celebre delle traduzioni italiane del ‘Manuale’ di Epitteto, ossia quella che Giacomo Leopardi redasse materialmente a Bologna circa due settimane di lavoro, tra il 22 Novembre e il 6 (o forse il 9, vi è incertezza tra le due date) Dicembre 1825.
La traduzione è preceduta da un ‘Preambolo del volgarizzatore’, che risulta essenziale per comprendere l’interpretazione leopardiana di Epitteto e, più in generale, il suo punto di vista sullo Stoicismo. 

Mi è sempre riuscito difficile darmi ragione del successo di pubblico che ha arriso a questa traduzione e del consenso del quale pare ancor oggi circondata ad opera degli ‘addetti ai lavori’. Ciò per due motivi molto semplici. 
Il primo è che Leopardi mostra di conoscere di Epitteto soltanto il Manuale e di non avere mai letto e riflettuto sui quattro libri delle ‘Diatribe’.
Il secondo è la debolezza e superficialità di pensiero di cui Leopardi dà qui prova, pur dietro lo schermo retorico del ‘so di dire qualcosa che è contrario alla estimazione universale’, e che lo chiude in un cristiano fraintendimento dello Stoicismo, da lui equiparato ad una filosofia di rassegnazione e di rinuncia.
Se Leopardi merita un posto nella Storia, cosa che io credo fermamente, non è certo per la sua traduzione di Epitteto.

Il Manuale di Epitteto
tradotto da Giacomo Leopardi

Preambolo del volgarizzatore Non poche sentenze verissime, diverse considerazioni sottili, molti precetti e ricordi sommamente utili, oltre una grata semplicità e dimestichezza del dire, fanno assai prezioso e caro questo libricciuolo. Io per verità sono di opinione che la pratica filosofica che qui s’insegna, sia, se non sola tra le altre, almeno più delle altre profittevole nell’uso della vita umana, più accomodata all’uomo, e specialmente agli animi di natura o d’abito non eroici, né molto forti, ma temperati e forniti di mediocre fortezza, o vero eziandio deboli, e però agli uomini moderni ancora più che agli antichi.
So bene che a questo mio giudizio è contraria la estimazione universale, reputandosi comunemente che l’esercizio della filosofia stoica non si confaccia, e non sia pure eziandio possibile, se non solamente agli spiriti virili e gagliardi oltre misura. Laddove in sostanza a me pare che il principio e la ragione di tale filosofia, e particolarmente di quella di Epitteto, non istieno già, come si dice, nella considerazione della forza, ma sì bene della debolezza dell’uomo; e similmente che l’uso e la utilità di detta filosofia si appartengano più propriamente a questa che a quella qualità umana.
Perocché non altro è quella tranquillità dell’animo voluta da Epitteto sopra ogni cosa, e quello stato libero da passione, e quel non darsi pensiero delle cose esterne, se non ciò che noi chiamiamo freddezza d’animo, e noncuranza, o vogliasi indifferenza. Ora la utilità di questa disposizione, e della pratica di essa nell’uso del vivere, nasce solo da questo, che l’uomo non può nella sua vita per modo alcuno né conseguir la beatitudine né schivare una continua infelicità. Che se a lui fosse possibile di pervenire a questi fini, certo non sarebbe utile, né anco ragionevole, di astenersi dal procacciarli. Ora non potendogli ottenere, è proprio degli spiriti grandi e forti l’ostinarsi nientedimeno in desiderarli e cercarli ansiosamente, il contrastare, almeno dentro se medesimi, alla necessità, e far guerra feroce e mortale al destino, come i sette a Tebe di Eschilo, e come gli altri magnanimi degli antichi tempi.
Proprio degli spiriti deboli di natura, o debilitati dall’uso dei mali e dalla cognizione della imbecillità naturale e irreparabile dei viventi, si è il cedere e conformarsi alla fortuna e al fato, il ridursi a desiderare solamente poco, e questo poco ancora rimessamente; anzi, per così dire, il perdere quasi del tutto l’abito e la facoltà, siccome di sperare, così di desiderare. E dove che quello stato di nimicizia e di guerra con un potere incomparabilmente maggior dell’umano e non mai vincibile, dall’un lato non può avere alcun frutto, e dall’altro lato è pieno di perturbazione, di travaglio, d’angoscia e di miseria gravissima e continua; per lo contrario questo altro stato di pace, e quasi di soggezione dell’animo, e di servitù tranquilla, quantunque niente abbia di generoso, è pur conforme a ragione, conveniente alla natura mortale, e libero da una grandissima parte delle molestie, degli affanni e dei dolori di che la vita nostra suole essere tribolata.
Imperocché veramente a ottenere quella miglior condizione di vita e quella sola felicità che si può ritrovare al mondo, non hanno gli uomini finalmente altra via se non questa una, di rinunciare, per così dir, la felicità, ed astenersi quanto è possibile dalla fuga del suo contrario. Ora la noncuranza delle cose di fuori, ingiunta da Epitteto e dagli altri Stoici, viene a dir questo appunto, cioè non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice. Il quale insegnamento, che è come dire di dovere amar se medesimo con quanto si possa manco di ardore e di tenerezza, si è in verità la cima e la somma, sì della filosofia di Epitteto, e si ancora di tutta la sapienza umana, in quanto ella appartiene al ben essere dello spirito di ciascuno in particolare. Ed io, che dopo molti travagli dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di così fatta pratica e tuttavia riporto una utilità incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltà di porlo medesimamente ad esecuzione.  

1. [ 1 ] Le cose sono di due maniere; alcune in potere nostro, altre no. Sono in potere nostro la opinione, il movimento dell’animo, l’appetizione, l’aversione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in potere nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri propri atti. [ 2 ] Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui. [ 3] Ricordati adunque che se tu reputerai per libere quelle cose che sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono altrui, t’interverrà di trovare quando un ostacolo quando un altro, essere afflitto, turbato, dolerti degli uomini e degli Dei. Per lo contrario se tu non istimerai proprio tuo se non quello che è tuo veramente, e se terrai che sia d’altri quello che è veramente d’altri, nessuno mai ti potrà sforzare, nessuno impedire, tu non ti dorrai di niuno, non incolperai chicchessia, non avrai nessuno inimico, niuno ti nocerà, essendo che in effetto tu non riceverai nocumento veruno. [ 4 ] Ora se tu sei desideroso di pervenire a questo sì felice stato, sappi che a ciò si richiede sforzo e concitazione d’animo non mediocre, e che di certe delle cose di fuori tu dèi lasciare il pensiero al tutto, di certe riservarlo per un altro tempo, e attendere alla cura di te medesimo sopra ogni cosa. Che se tu vorrai ad un’ora procacciare i predetti beni ed anco dignità e ricchezze, forse che tu non otterrai né pur queste, per lo studio che tu porrai dietro a quelli, ma di quelli senza alcun dubbio tu sarai privo, i quali sono pur così fatti, che solo per virtù di essi si può goder beatitudine e libertà. [ 5 ]Per tanto a ciascuna apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi ad ogni altra cosa avvezzati a dire: questa è un’apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi togli ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti che tu sai, e prima e massimamente con vedere se ella appartiene alle cose che sono in nostra facoltà o vero a quelle che non sono. Ed appartenendo a quelle che non sono, abbi apparecchiata in tuo cuore questa sentenza: ciò a me non rileva nulla. 2. [ 1 ] Sovvengati che l’intento dell’appetizione si è il conseguire ciò che ella appetisce, e l’intento dell’aversione il non incorrere in ciò che ella fugge. E colui che non ottiene quel che appetisce, è senza fortuna; colui che incorre in quel che egli schifa, ha cattiva fortuna. Ora se l’animo tuo non schiferà se non solamente, delle cose che sono in nostro potere, quelle tali che saranno contro natura, non ti avverrà d’incorrere in cosa alcuna alla quale tu abbi contrarietà. Ma se egli sarà volto a schifare i morbi, la povertà, la morte, tu avrai cattiva fortuna. [ 2 ]Astienti dunque dall’aversione rispetto a qual si sia cosa di quelle che non sono in nostro potere, e in quella vece fa di usarla rispetto alle cose che, nel numero di quelle che sono in tua facoltà, si troveranno essere contro natura. Dall’appetizione tu ti asterrai per ora in tutto. Perciocché se tu appetirai qualcuna di quelle cose che non dipendono da noi, tu non potrai fare di non essere sfortunato; e delle cose che sono in potestà dell’uomo, non ti si appartiene per ancora alcuna di quelle che sarebbono degne da desiderare. Per tanto tu non consentirai a te medesimo se non se i primi movimenti e le prime inclinazioni dell’animo ad appetire o schifare, con questo però che elle sieno lievi, condizionali e senza veruno impeto. 3. Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcuno uso, incominciando dalle più picciole. Se tu ami una pentola, dire a te stesso: io amo una pentola; perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l’animo alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o quel fanciullino, tu non abbi perciò a turbarti. 4. Qualora tu pigli a far che che sia, recati a mente la qualità di quella cotale operazione. Se tu vai, ponghiamo caso, al bagno a lavarti, recati al pensiero le cose che accaggiono nel bagno; la gente che ti spruzza, che ti sospinge, che ti rampogna, che ti ruba. E per metterti a quell’atto più sicuramente, tu dirai fra te stesso: io voglio ora lavarmi, e oltre di ciò mantenere la disposizione dell’animo mio in istato conforme a natura. E il simile per qualunque faccenda. Così se per avventura al lavarti ti sarà occorso alcuno impaccio, tu avrai pronto il modo di consolarti dicendo: io non voleva fare solamente questo, ma eziandio mantenere la disposizione dell’animo mio in grado conforme a natura. Ma io non la manterrò in cotale stato, se io mi cruccerò di questo che ora m’interviene. 5. Gli uomini sono agitati e turbati, non dalle cose, ma dalle opinioni che eglino hanno delle cose. Per modo di esempio, la morte non è punto amara; altrimenti ella sarebbe riuscita tale anche a Socrate; ma la opinione che si ha della morte, quello è l’amaro. Per tanto, quando noi siamo attraversati o turbati o afflitti, non dobbiamo però accagionare gli altri, ma sì veramente noi medesimi, cioè le nostre opinioni. Egli è da uomo non addottrinato nella filosofia l’addossare agli altri la colpa dei travagli suoi propri, da mezzo addottrinato l’addossarla a se stesso, da addottrinato il non darla né a se stesso né agli altri. 6. Guarda di non insuperbire di alcuna eccellenza o di alcun pregio altrui. Se un cavallo montando in superbia dicesse: io son bello, ciò sarebbe per avventura da comportare. Ma quando tu ti levi in superbia dicendo: io ho un bel cavallo, avverti che tu insuperbisci di un pregio che è del cavallo. Sai tu quello che è tuo? L’uso che tu fai delle apparenze delle cose. Sicché quando nell’usare di queste apparenze tu ti reggerai conforme a quello che la natura richiede, allora tu piglierai compiacenza di te medesimo a buona ragione: imperocché quello sarà un pregio tuo proprio. 7. Siccome in una navigazione, poiché il legno ha dato in terra a qualche porto, se tu esci dal legno per fare acqua, tu puoi bene ancora venir cogliendo per via qua una chiocciolina, là una radicetta, ma egli ti conviene però aver sempre il pensiero alla nave, e voltarti spesso, per intendere se il piloto ti chiama, e chiamandoti, lasciare tutte quelle cose, per non avere a esser cacciato dentro legato come si fa delle pecore; così nella vita, se in cambio di radicette o di chioccioline ti si porgerà una donnicciuola o un putto, niente vieta che tu non lo debba pigliare e godertelo. Ma se il piloto ti chiama, corri tosto alla nave senza voltarti, lasciata stare ogni cosa. E se tu sarai vecchio, non ti dilungherai dal legno gran tratto, per non avere a mancare quando il piloto ti chiami. 8. Tu non dèi cercare che le cose procedano a modo tuo, ma voler che elle vadano così come fanno, e bene starà. 9. La malattia si è un impaccio del corpo, ma non della disposizione dell’animo, solo che esso non voglia. L’esser zoppo si è impaccio della gamba, ma non della disposizione dell’animo. Il simile dirai per ogni accidente che ti sopravvenga. Imperciocché troverai che esso sarà di natura da fare impaccio a qualche altra cosa, ma non a te proprio. 10. A ciascuna cosa esteriore che ti occorra, rivolgiti sopra te stesso e cerca quale delle facoltà che tu hai, si possa adoperare verso di quella. Se tu avrai veduto un bel garzone o una bella donna, troverai che da poster usare verso di queste cose, tu hai la facoltà della continenza. Se ti occorrerà una fatica da sostenere, troverai la facoltà della tolleranza. Se una villania, la pazienza. E così accostumandoti, tu non ti lascerai trasportare dalle apparenze delle cose. 11. Non dir mai di cosa veruna: io l’ho perduta, ma bene: io l’ho restituita. Ti è morto per avventura un figliuolo? Tu l’hai renduto. Morta la tua donna? Tu l’hai renduta. Ti è stato tolto un podere? Or non è egli renduto anche questo? Ma colui che me ne ha spogliato è un ribaldo. Che fa egli a te che quegli che ti aveva dato il podere te lo abbia richiesto per via di tale o di tale altra persona? Fino a tanto poi che egli ti lascia tenere o il terreno o che che altro si sia, pigliane quel pensiero che tu prenderesti di una cosa che fosse d’altri, come fanno dell’albergo i viandanti. 12. [ 1 ] Se tu vuoi far progresso nella sapienza, lascia da parte questi cotali discorsi: se io non avrò cura della mia roba, non avrò di che vivere; se io non castigherò il mio schiavo, egli sarà pure un furfante. Meglio è morirsi di fame dopo una vita libera da travagli e timori, che vivere inquieto in grande abbondanza di ogni cosa. Meglio è che il tuo schiavo sia tristo che non tu infelice. [ 2 ] Tu incomincerai dunque dalle cose picciole. Ti si versa un poco di olio? Ti è rubato un poco di vino? Tu dirai: a tanto si vende la tranquillità dell’animo, la costanza: niente si può avere gratis. Quando chiami il tuo fante, pensa ch’egli può accadere che colui non t’oda, e che ancora udendoti, non faccia però nulla di quel che tu vuoi. Ora tu non voler tanto concedere al tuo fante, che egli abbia in sua mano di poterti turbare la quiete dell’animo. 13. Se tu vuoi far profitto, comporta pazientemente di esser tenuto pazzo e stolido per cagione delle cose di fuori. Anzi se egli ci avrà di quelli che ti stimino uomo da qualche cosa, diffidati di te medesimo. Perché tu dèi sapere che egli non si può in un medesimo tempo conservare l’animo tuo disposto e ordinato secondo natura, e provvedere alle cose esterne; ma colui che ha cura dell’una di queste parti, di necessità dèe trascurare l’altra. 14. Se tu vuoi che la moglie, i figliuoli e gli amici tuoi vivano sempre, tu sei pazzo. Perocché tu vuoi che dipenda da te quello che non è in tuo potere, e che quello che è d’altri sia tuo. Parimenti se tu vuoi che il tuo servo non commetta errore, tu sei sciocco. Perché questo è un volere che la malizia non sia malizia ma qualcos’altro. Ma se tu vuoi non desiderar cosa che poi non ti venga ottenuta, questo sì che lo puoi. Per tanto industriati di ottener questo che tu puoi. [ 2 ] Colui che ha in sua facoltà di dare o torre a una persona quel che essa vuole o non vuole, è padrone di quella cotal persona. Però chiunque ha la volontà di esser libero, faccia di non appetire né fuggir mai cosa alcuna di quelle che sono in potestà d’altri; o che altrimenti gli bisognerà in ogni modo essere schiavo. 15.Tieni a mente che tu dèi governare in tutta la vita come a un banchetto. Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane costumatamente. Passa oltre? non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar però in là collo appetito: aspetta che ella venga.. Il simile in ciò che appartiene ai figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignità; e tu sarai degno di sedere una volta a mensa cogli Dei. Che se tu non toccherai pur quello che ti sarà posto innanzi, e non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli dei a mensa, ma eziandio di regnare con esso loro. Per sì fatta guisa operando Diogene, Eraclito e gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente. 16. Quando tu vedi alcuno che pianga o per morte di alcun suo congiunto o per lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l’apparenza non ti trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso subitamente e dirai: questi è tribolato e afflitto, non dall’accaduto, poiché questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto che egli ha dell’accaduto. Ciò non ostante tu non fari difficoltà di secondare il suo dolore in parole, ed anco, se occorre, di sospirare insieme seco; ma guarda che tu non sospirassi però di cuore. 17. Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentar bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro. 18. Quando un corvo gracchiando porge cattivo augurio, non ti lasciar muovere da sì fatta apparenza, ma subito distingui teco medesimo e dì: questo animale non prenuncia niuna disavventura a me proprio, ma forse a questo mio corpicino, o forse alla mia robicciuola, alla riputazioncella, ai figliuoli, alla moglie. Quanto si è a me, questo, se io voglio, è augurio buono, anzi ottimo. Imperocché io ricaverò utile dal successo, qual ch’egli sia per essere, solo che io voglia. 19. [ 1 ] Tu puoi essere invitto, e ciò è se tu non ti metterai a nessun aringo dal quale tu non abbia in tua facoltà di riuscire colla vittoria. [ 2 ] Guarda che quando tu vedi uomini onorati o potenti o come che sia riputati e osservati, l’apparenza non ti faccia forza in maniera che tu gli creda avventurosi e felici. Perciocché se la essenza del bene sta nelle cose che sono in nostra facoltà, non deono aver luogo né invidia né gelosia. E tu per la tua parte non vorrai essere né capitano di esercito, né presidente del consiglio, né console, ma libero: e a questo ci ha una sola via, che è non curarsi delle cose che non sono in nostro potere. 20. Ricordati che colui che rampogna o percuote, non offende esso, ma la opinione che si ha che questi cotali offendano. Sicché quando tu ti senti montar la collera contro uno, pensa che la tua propria immaginazione è quella che ti sprona all’ira, e non altri. Per tanto sforzati d’impedire che l’apparenza non ti trasporti in sul primo; che se tu otterrai un poco di tempo e d’indugio, più agevolmente ti verrà fatto di vincerti e di contenerti. 21. Abbi tutto il giorno dinanzi agli occhi la morte, l’esilio e tutte quelle altre cose che appaiono le più spaventevoli e da fuggire, e la morte massimamente; e mai non ti cadrà nell’animo un pensier vile, né ti nasceranno desiderii troppo accesi. 22. Vuoi tu darti a filosofare? Apparecchiati insin da ora a dovere essere schernito e deriso da molti; aspettati che la gente dica: oh, egli ci si è tramutato in filosofo a un tratto, e: che vogliono dire quelle sopracciglia aggrottate? Ora tu non aggrottare le sopracciglia, ma non lasciar però di attenerti a quello che tu estimi il migliore, perseverando, come a dire, in una ordinanza nella quale tu sii stato collocato da Dio. E sappi che se tu durerai nel tenor di vita incominciato, quei medesimi che a principio si avranno preso giuoco di te, in progresso di tempo cangiati ti ammireranno; laddove se per li motteggi ti perderai d’animo, tu ne guadagnerai le beffe e le risa doppie. 23. Se mai per volere acquistare la buona estimazione di alcuno, ti sarà intervenuto di versarti, per dir così, fuori di te medesimo, sappi che tu avrai rotto l’abito, e sarai uscito dai termini del tuo istituto di vita. Però non cercare altro mai che di essere filosofo, e sii contento e soddisfatto di questo in ogni cosa. Che se oltre ad essere, tu volessi eziandio parere, fa che tu paia filosofo a te medesimo, e tanto ti basti. 24. [ 1 ] Non istare a darti pena e sconforto dicendo fra te medesimo: io menerò una vita ignobile, e : io non sarò nulla. Perocché se la ignobiltà è un male, non puoi tu patire alcun male per cagion d’altri, più di quello che incorrere in alcuna vergogna. Ora dimmi, il pervenire a un ufficio pubblico, o l’esser chiamato a un convito, forse che sta in tuo potere?  Or come dovrà egli essere ignobile o ignominioso che tu non abbi parte in questo convito o che non pervenghi a questo ufficio?E come dì che tu non sarai nulla, quando a te non si conviene essere qualche cosa se non solamente in quello che è in tua facoltà, dove tu puoi bene essere d’assaissimo? [ 2 ] Ma gli amici non avranno da me aiuto né benefizio alcuno. Di che benefizi e di che aiuti vuoi tu intendere? Non avranno da te oro e, quanto è a te, non saranno fatti cittadini romani. Ora chi ti ha detto che queste sono cose di quelle che dipendono dal nostro arbitrio, e non cose poste in potere altrui? Chi può dare a un altro ciò che non ha egli? [ 3 ] E tu fa di acquistare, dirà qualcuno, per poter dare a noi. Se io posso acquistare, salva in me la verecondia, la fede, e l’altezza d’animo, mostratemi come si faccia, e io non mancherò. Ma se voi volete che io perda i miei propri beni perché voi dobbiate ottenere cose che non sono beni, vedete che poca equità e che indiscrezione è la vostra. Oltre che, qual vi eleggereste voi prima, tra danari e un amico fedele e ben costumato? Che non mi aiutate voi dunque piuttosto a esser tale, in cambio di volere che io faccia cose per le quali mi convenga perdere queste virtù? [ 4 ] Ma la patria non avrà da me alcun servigio. Ancora, di che servigi vuoi tu intendere? Non avrà per opera tua né bagni né portici. Oh, che maraviglia? Né anco ha calzari dal fabbro, né arme dal calzolaio. Egli basta bene che ciascheduno adempia l’ufficio suo. Dimmi, se tu istituissi e informassi alla tua patria un altro cittadino modesto e leale, non le faresti tu alcun benefizio? Certo che sì. Or come le sarai dunque inutile tu medesimo, essendo tale? [ 5 ] Ma che luogo terrò io nella patria? Quello che tu potrai, salva la modestia e la fede. Che se per voler giovare alla patria, tu perderai la fede e il pudore, che profitto le farai tu, divenuto che sarai sleale e impudente? 25. [ 1 ] Ti è egli stato anteposto di onorare il tale o il tale a un banchetto, o pur nel saluto, o nell’esser cerco di consiglio? Se questi cotali onori sono beni, egli ti debbe esser caro che colui gli abbia avuti; se mali, non ti dee dispiacere che non sieno toccati a te. Poi considera che non facendo tu per amore delle cose esterne quel medesimo che gli altri fanno, tu non puoi nel conseguimento di quelle andare al paro cogli altri. [ 2 ] Come può, per modo di esempio, colui che non frequenta le soglie dei grandi, che non gli accompagna, che non gli loda, andar del pari a coloro che fanno tutte queste cose? Egli sarebbe ingiustizia e ingordigia che non pagando tu quel prezzo a che si comperano i favori e i benefizi dei potenti e dei ricchi, tu gli volessi avere gratis. [ 3 ] A quanto si vendono le lattughe oggi? Ponghiamo caso, a un obolo. Ora facciamo che uno, spendendo un obolo, abbia tolto delle lattughe, e tu, non ispendendo, non ne abbia tolto: tu non dèi però pensare di aver punto meno che si abbia colui. Perocché se egli avrà le lattughe, e tu avrai l’obolo che non avrai speso. Il simile nel caso nostro. Tu non sei stato invitato a cena dal tale. Ma né anche hai dato a lui quello a che egli vende la sua cena. Ora egli la vende a prezzo di lodi, di osservanza, di ossequi. Paga dunque il prezzo se la mercanzia fa per te. Ma se tu vuoi non pagare il prezzo e avere la merce, questa si è ingordigia e furfanteria. Forse che in cambio della cena tu non hai nulla? Sì che tu hai ben questo, che tu non hai lodato chi non volevi, che non sei stato ad aspettarlo in sull’uscio. 26. La intenzione della natura si conosce da quelle cose dove noi non abbiamo interesse. Se il fante del vicino avrà spezzato un bicchiero o cosa tale, subito ti correrà in sulla lingua: elle sono cose che accaggiono. Ora sappi che chi spezzasse il tuo bicchiero, tu la dèi pigliare in quella medesima guisa che tu piglierai che si spezzi quello del tuo vicino. Così delle cose di maggior momento. Muore a un altro il figliuolo o la moglie? Sono casi umani. Muore il figliuolo o la moglie propria? Tosto gli oimè, gli ahi ahi. Ma egli si converrebbe avere a memoria quello che c’interviene quando il medesimo caso ci è riferito da un altro.  27. Come non si mette un bersaglio acciocché l’uomo non lo colga, così non si genera e non si ritrova al mondo la natura del male. 28. Se uno desse il tuo corpo in potestà di qualunque che gli venisse alle mani, tu te ne sdegneresti: e dando tu la tua mente in potere di chicchessia, per modo che se egli ti dirà una mala parola, quella si turbi e confonda, non ti vergogni però punto? 29. [ 1 ] Innanzi di metterti a qualsivoglia operazione, divisane teco stesso le antecedenze e le conseguenze. Altrimenti tu intraprenderai con grande animo, non pensando punto alle cose che hanno a venire; ma in progresso nascendoti qualche difficoltà e qualche vitupero, tu ti vergognerai. [ 2 ] Desideri tu diventar vincitore olimpico? E io non meno di te, per Dio; ché ella è una qualità che fa onore. Ma considera prima le antecedenze e le conseguenze, e poi mettiti all’impresa. Egli ti conviene sottoporti a una disciplina e osservare una regola; mangiare sforzatamente; astenerti dalle confetture e cotali piacevolezze; esercitare il corpo per forza a certe ore assegnate, sì al caldo come al freddo; non usare bevande fresche né vino a tuo piacimento; in fine darti tutto in mano al maestro, né più né meno come a un medico. Di poi scendere nell’aringo; a un bisogno guastarti una mano, smuoverti un tallone; ingoiare di buoni tratti di polvere; a un bisogno anche toccare delle sferzate, e poi per ultimo essere vinto. [ 3 ] Considerato che avrai tutte queste cose, se tu persevererai nel concetto di prima, datti agli esercizi dei giuochi. Ma se tu non considererai cosa alcuna innanzi, tu ti aggirerai come i bamboli, che ora fanno i lottatori, e quando gli atleti, e quando gli schermitori, poi strombazzano, poi contraffanno le tragedie. Così ancora tu: oggi schermitore, domani atleta, e quando oratore, poi filosofo, e nulla mai veramente e con tutto l’animo, ma in guisa delle scimmie tu contraffai tutto quello che tu vedi, e muti voglia a ogni tratto. Perocché tu non imprendi mai cosa alcuna consideratamente, e spiatala prima bene da ogni banda, ma così a caso e per qualche fantasia leggera. [ 4 ] Egli ci ha di quelli che veduto per avventura un filosofo, o udito dire a questo o a quello: oh, Socrate dice pur bene, e: chi è che possa favellare come faceva Socrate? Si mettono per voler filosofare ancor essi. [ 5 ] O uomo, considera prima sottilmente questo fatto del filosofare, di che sorta egli sia, e quindi fa di conoscere la tua natura, a veder se tu sei buono da comportarlo. Vuoi tu pigliare la professione di fare alla lotta o vero ai cinque giuochi? Tu hai da por mente alle tue braccia, alle cosce, ai lombi, perché una complessione è acconcia a una cosa e una a un’altra. [ 6 ] Pensi tu di potere filosofando mangiare e bere e fare lo schifo e il dilicato come al presente? Egli ti bisogna vegliare, faticare, separarti dai tuoi, essere vilipeso da un fanticello, in tutto essere inferiore agli altri, negli onori, nei magistrati, nei giudizi, in ogni coserella. [ 7 ] Considera bene queste difficoltà e questi incomodi, e vedi se egli ti pare espediente di sostenerli per avere in compenso di quelli la libertà, lo stato dell’animo senza perturbazioni, senza passioni: e non voler fare come i fanciulli, oggi filosofo, poi gabelliere, appresso oratore, indi procuratore di Cesare. Queste qualità non si accordano insieme. Egli si vuole essere una persona sola, o valente o da poco; adoperarsi intorno alla parte principale di noi medesimi, o intorno alle cose di fuori; aver cura dell’intrinseco o dell’estrinseco; che è quanto dire, esser filosofo o pure uomo comune. 30. I doveri e gli offici si misurano generalmente dalle relazioni. Il tale ti è padre? Appartientisi aver cura di lui; cedergli in ogni cosa; se ti rampogna, se ti batte, portatelo pazientemente. Ma egli è un cattivo padre. Forse che la natura ti obbliga al padre buono? Non già, ma semplicemente al padre. Il fratello ti fa egli torto? Tu non mancar però seco dell’officio tuo di fratello, e non guardare quello che si faccia egli, ma quello che abbi a far tu per procedere secondo natura. Perocché già un altro non ti può far nocumento se tu non vuoi; ben sarai tu offeso se tu stimerai che altri ti offenda. Or dunque nel predetto modo, se tu ti accostumerai di por mente alle relazioni, troverai gli offici e i doveri che ti si appartengono rispetto al vicino, al cittadino, al capitano e a qualsivoglia altro. 31. [ 1 ] La pietà verso gli Dei consiste massimamente in aver sane e rette opinioni intorno a quelli; cioè in credere che egli ci ha veramente iddii, e che questi iddii governano ogni cosa bene e con giustizia; e in assegnare a te medesimo questo ufficio e questa parte, di dovere ubbidire agl’iddii, e cedere in ogni cosa agli avvenimenti e acconciarviti di buon grado, come quelli che sono condotti dal miglior consiglio e dalla migliore volontà del mondo. Imperocché avendo queste opinioni, tu non vorrai per cosa alcuna dolerti degli Dei, né imputarli che non ti abbiano cura. [ 2 ] Or tutto questo non può altrimenti essere che se tu ti distaccherai dalle cose esterne, riponendo il bene e il male in quelle cose solamente che sono in tua potestà. Imperciocché se tu reputerai pure che alcune delle cose estrinseche sieno beni o mali, tu non potrai fare, quando tu non venghi a capo di ottener quello che avevi desiderato, o che tu incorra in quello che tu fuggivi, di non querelarti degli autori di questo effetto e di non pigliarli in odio; [ 3 ] essendo che tutti gli animali per natura fuggono e odiano quelle cose che paiono loro nocive e le cagioni di esse, siccome per lo contrario le cose riputate utili e le cagioni di quelle seguono e pregiano. Laonde egli è impossibile che uno il quale si creda ricevere nocumento, ami quella tal cosa la quale egli si penserà che gli noccia, così come è impossibile che uno ami il nocumento medesimo. [ 4 ] Di qui è che il figliuolo trascorre alle male parole contro il padre, quando costui non gli fa parte di quelli che la gente estima essere beni; e Polinice ed Eteocle per questo vennero tra loro in discordia, perocché essi reputarono essere un bene il principato. Perciò l’agricoltore, perciò il navigatore e il mercatante bestemmiano gli dei, e quelli che hanno perduto i figliuoli e le mogli bestemmiano gli dei; essendo che la pietà segue sempre l’utile. Di modo che ciascheduno che procaccia di desiderare e fuggire solamente quello che è da essere desiderato e fuggito, procaccia al tempo medesimo di esser pio. [ 5 ] Quanto si è alle libazioni, ai sacrifici, all’offerire delle primizie, queste cose si debbono fare da ciascuno, e ciò secondo le osservanze della propria terra, con purità e mondizia, e non trascuratamente né in fretta, né con soverchia strettezza né sopra quello che comportano le facoltà. 32. [ 1 ] Quando tu andrai per consultare qualche indovino, ricordati che tu non sai per verità il come sia per succedere il fatto, e vai per chiederne all’indovino, ma ben sai da altro canto la qualità del successo, se tu sei filosofo; perocché se esso è del numero di quelle cose che non dipendono dal nostro arbitrio, perciò solamente è manifesto che il medesimo non sarà né bene né male. [ 2 ] Fa dunque, andando all’indovino, di non recar teco né desiderio né aversione, e non ti accostare a quello tremando, anzi risoluto che qual sia per essere il successo, è cosa, verso di te, indifferente e che non ti fa nulla, poiché in tutti i modi tu avrai facoltà di volgerlo in tuo profitto, e ciò non ti potrà essere vietato da chicchessia. Però con animo franco e sicuro va, come dire, a consigliarti cogli Dei: e fatto questo, avuto qualche consiglio, ricordati che consigliatori sono stati i tuoi, e chi sono coloro ai quali tu manche rai di prestare orecchio se tu ti dipartirai dall’avviso che ti è stato porto. [ 3 ] Egli si vuol poi, conforme ordinava Socrate, cercare il consiglio degl’indovini in quelle occorrenze nelle quali il bene o male deliberare si riferisce totalmente alla riuscita, e dove né per ragione né per alcuna arte si hanno espedienti da conoscere il partito che si debba prendere. Di modo che se egli ti si darà occasione di doverti porre a qualche pericolo per la patria o per uno amico, tu non andrai per chiedere all’indovino se tu debba sottentrare a questo pericolo; perciocché quando pure ti fosse detto dall’indovino i segni delle vittime essere di mala qualità, manifesto è che per questa cosa ti sarebbe significata o la morte o il troncamento o vero lo storpiamento di qualche parte del corpo, o forse l’esilio; ma ragione ti mostra che ancora con tutto questo  egli si vorrebbe assistere all’amico e mettersi al pericolo per la patria; e per tanto tu obbedirai ad un maggiore indovino, io voglio dire ad Apollo Pizio, il quale scacciò dal tempio colui che era mancato di soccorso all’amico in quella che egli era messo a morte. 33. [ 1 ] Stabilisci a te stesso, come a dire, un carattere e una figura la quale tu abbi a mantenere da quindi innanzi sì praticando teco stesso e sì comunicando colle persone. [ 2 ] Tacciasi il più del tempo, o dicasi quel tanto che la necessità richiede, con brevità. Solo qualche rara volta, confortandovici il tempo e il luogo, discendasi a favellare distesamente; ma non di cotali materie trite e ordinarie, non di gladiatori o di corse di cavalli, non di atleti, non di cibi né di bevande, né di sì fatti altri particolari di che si ode a favellar tutto il dì, e sopra ogni cosa, non di persona alcun lodando o vituperando o facendo comparazioni. [ 3 ] Fa, se tu puoi, di raddrizzare e ridurre al convenevole i ragionamenti dei compagni. Se tu ti ritroverai solo tra persone aliene dalla filosofia, tienti senza far motto. [ 4 ] Poche risa, e non grandi, e non di molte materie. [ 5 ] Non prender mai giuramento, se tu potrai; se no, il più di rado che tu possa. [ 6 ] Schifa di trovarti a conviti di persone comunali e rimote dalla filosofia: e se ciò per alcuna occasione talvolta non si potrà schifare, ricorditi di star desto e attento più del consueto, che tu non trascorressi nei modi e costumi della comun gente. Imperocché sappi che di necessità, se il compagno sarà lordo,  e che tu gli praticherai dattorno, tu ti lorderai, ponghiamo che ora sii netto. [ 7 ] Le cose appartenenti al corpo, come dire il mangiare, il bere, il vestito, il tetto, la servitù, adoprinsi non più oltre che in quanto elle servono al puro uso. Tutto quel che è ad ostentazione o delizia, taglisi via. [ 8 ] Innanzi alle nozze egli si vuole astenersi dai diletti carnali quanto si può, e usandogli pure alcuna volta, non si discostare in ciò dalle leggi. Ma tu non vorrai perciò riprendere e noiar con parole coloro che gli sogliono usare, e non istarai ad ogni poco a mettere in campo che tu non usi di così fatte voluttà. [ 9 ] Chi ti riportasse che il tale o il tal altro dicesse mal di te, non pigliare a scusarti e difenderti, ma rispondi che egli si vede bene che questi non ha contezza degli altri difetti che io ho, perocché, sapendogli, ei non avrebbe tocco solamente questi. [ 10 ] A teatri non accade usar molto. Ma quando ti sarà nata occasione di trovarti in cotali luoghi, non dimostrar sollecitudine o pensiero di qualsivoglia altro che di te stesso, cioè non voler che avvenga se non quel medesimo che avverrà, né che vinca altri che quegli a cui toccherà la vittoria; perocché in tal modo non t’interverrà che il tuo desiderio abbia impedimento. Dal gridare, dal soverchio ridere sopra alcuna qual si sia persona o cosa, dal molto dimenarti e contorcerti, convienti astenere al tutto. E uscito che tu sarai di là, non andar troppo ragionando cogli altri dell’accaduto, se già non fosse di cose che potessero conferire a farti migliore. Perocché tu faresti segno che lo spettacolo ti fosse oltre modo piaciuto. [ 11 ] Non andare alla udienza di certi dicitori, anzi schifa di trovarviti  in ogni modo. Che se per ventura vi ti troverai, fa di serbare una contenenza grave e soda, e non però spiacevole né superba. [ 12 ] Accadendoti di dover venire a qualche ragionamento o pratica con chicchessia, e specialmente con alcuno di quelli che sono reputati soprastare agli altri, proponti dinanzi agli occhi quello che avrebbe fatto in tale occorrenza o Socrate o Zenone; e tu non sei per mancare del modo di portarti convenientemente in ogni caso. [ 13 ] Andando a trovare alcuno dei potenti, mettiti nell’animo che tu non sei per trovarlo a casa, ch’egli si sarà serrato dentro, che non ti sarà voluto aprir l’uscio, che colui non ti darà mente. E se con tutto questo, per non mancar dell’ufficio tuo, ti conviene andare, portati in pace in ogni cosa che t’intervenga, e non dir mai fra te stesso: egli non portava il pregio; che è un parlar da uomo ordinario e dato tutto quanto alle cose esterne. [ 14 ] Guarda bene nei cerchi e nelle compagnie, che tu non istessi a far troppe parole intorno ad azioni fatte o a pericoli sostenuti da te medesimo. Perciocché non siccome egli piace a ciascuno di raccontare i propri pericoli, così riesce dilettevole alle persone l’udir le avventure di chi favella. [ 15 ] Non istare anco a studiarti di muovere il riso; perché ciò facendo, si porta pericolo di trascorrere ai modi e alla usanza dei più; oltre che di leggeri avverrebbe che i circostanti rimetterebbono più o manco della loro riverenza verso di te.[ 16 ] Egli è medesimamente pericoloso lo entrare in ragionamenti di cose oscene: e per tanto ove ciò intervenga, se egli ci avrà luogo, tu sgriderai quel tale che sarà entrato in così fatta materia; se no, col porti a stare in silenzio e collo arrossire e fare il viso brusco, tu darai ad intendere che quel cotal favellare ti spiaccia. 34. Se tu avrai concetta l’immaginazione di alcuna voluttà, guarda che cotale impressione non ti trasporti, ma fa, per modo di dire, che la cosa aspetti, e impetra da te medesimo un poco d’indugio. Poi mettiti davanti agli occhi l’uno e l’altro tempo; quando tu ti godrai questa voluttà, e quando goduta che tu l’abbi, tu te ne pentirai e rampognerai teco medesimo; e a rincontro metti il piacere che sei per provare se tu te ne sarai astenuto, e le lodi che ne riceverai da te stesso. E se egli ti parrà tempo opportuno da venire a quel cotal fatto, poni cura di non lasciarti vincere da quella piacevolezza e da quelle lusinghe e da quel dolce della cosa, e metti a rincontro quanto ei ti saprà meglio se tu sarai consapevole a te medesimo di aver vinto tu questa così fatta vittoria. 35. Quando tu farai cosa che tu abbi considerato e giudicato di dover fare, non volerti nascondere che gli altri non ti veggano a farla, se bene il più delle persone fossero per interpretare il fatto sinistramente. Perciocché o tu fai male, ed egli si vuole anzi fuggire il fatto medesimo; o fai bene, e che timore hai tu di quelli che ti riprenderanno a torto? 36. Siccome il dire: o egli è dì o vero è notte, quanto al senso disgiuntivo, afferma e ha gran forza, ma pigliato congiuntamente, tutto al contrario; per simile il prendersi la maggior porzione della vivanda, quanto al proprio corpo, sta bene ed è molto acconcio, ma quanto a quella comunione che vuolsi osservare nei conviti, sconviene e non è a proposito. Per tanto quando tu sarai a mangiare con qualche altro, ricordati di non guardar solo a quella convenienza che avranno le vivande colla utilità e col piacere del tuo corpo, ma eziandio a quella che debbe osservarsi rispetto al convitatore. 37. Se tu prenderai a fare una persona da più che non comportano le tue forze, primieramente tu riuscirai con poco onore in questa figura, poi tu avrai lasciato indietro quella che avresti potuto sostenere compiutamente. 38. Siccome, andando per le vie, tu hai l’occhio a non calpestare un chiodo e a non ti storcere un piede, così abbi cura di non far pregiudizio alla parte principale di te medesimo. E se altrettanto osserveremo in ciascun atto, noi faremo ogni cosa più sicuramente. 39. Misura dello avere si è a ciascheduno il proprio corpo, siccome della scarpa il piede. Per tanto se tu ti conterrai dentro ai termini di quel che è richiesto alla tua persona, tu serberai la misura, ma se tu gli passerai, di necessità da quell’ora innanzi andrai senza fine precipitando come per un dirupato. Non altrimenti che nella scarpa se tu passi più avanti di quello che si appartiene all’uso del piede, la scarpa ti diventa prima dorata, appresso di porpora, poi ricamata, gioiellata. Perocché di là dalla misura non ci ha limite alcuno. 40. le donne insino dalla età di quattordici anni incominciano ad esser chiamate dagli uomini con titolo di signore. Sicchè vedendo che esse niun altro pregio hanno, ma solo sono pregiate rispetto all’usar cogli uomini carnalmente, dannosi ad acconciarsi e ornarsi, e a riporre ogni loro speranza in cotale studio. Per tanto vuolsi por cura di far che elle si avveggano di non essere avute in pregio se non se in quanto si dimostrino costumate, vereconde e caste. 41. L’essere lungamente occupato dintorno ai servigi del corpo, come a dire agli esercizi della persona, al mangiare, al bere, alle necessità naturali, alle carnalità, è segno di piccola indole. Queste cose si deono fare come per transito, e tutto lo studio di dee porre intorno alla mente. 42. Qualora alcuno o con parole o con fatti ti offende, sovvengati che egli opera o vero parla in quel cotal modo, stimando che di così fare o vero parlare gli appartenga e stia bene. Ora è di necessità che egli si governi, non conforme a quello che pare a te, ma secondo che pare a lui. Sicché se a lui pare il falso, esso si ha il danno e non altri, cioè a dire, il danno è di colui che s’inganna.  Pigliamo una verità di quelle che chiaman connesse: se uno la si crederà falsa, non la verità, ma questo tale, ingannandosi, porterà il danno. Per sì fatta guisa discorrendo, tu comporterai mansuetamente colui che ti oltraggerà; perocché ogni volta tu hai da dire: così gli è paruto che convenisse. 43. Ogni cosa ha, per maniera di dire, due manichi: a pigliarla dall’uno, ella si sopporta, dall’altro no. Se il fratello ti farà ingiuria, non pigliar la cosa per modo che tu dica: egli mi fa ingiuria, perché questo è quel manico dal quale se tu la prendi, ella non si porta; ma pigliala da quest’altra banda, e dì: mio fratello, nutrito e cresciuto meco insieme; e tu la piglierai da quel lato dal quale ella si può portare. 44. Queste cotali argomentazioni non reggono: io sono più ricco di te, dunque io sono da più di te; io sono più letterato di te, dunque io sono da più. Queste altre reggerebbero bene: io sono più ricco di te, dunque la mia roba è da più che la tua; io più letterato di te, dunque la mia dicitura val più che la tua. Ma tu non sei né roba né dicitura. 45. Uno si laverà in fretta. Non dire: ei si lava male, ma: egli si lava in fretta. Un altro berrà molto vino. Non dire: egli bee male, ma sì: egli bee molto vino. Perciocché come puoi tu sapere se quelli fanno male, innanzi che tu abbi considerata e stabilita la opinione che tu piglierai? Per tal modo non t’interverrà di ricevere una impressione, e giudicare secondo un’altra. 46. [ 1 ] Non darti mai titolo di filosofo, e tra gente comunale non volere, se non fosse alcune poche volte, entrare in ragionamenti di dottrina speculativa, ma in quella vece opera secondo cotal dottrina. A cagion di esempio, in un convito non istare a discorrere come si debba mangiare, ma sì bene mangia come si dee. Né ti esca di mente che in sì fatto modo anche Socrate rimosse da sé ogni ostentazione. Venivano a lui quando uno e quando un altro, chiedendo che ei li dovesse introdurre ora a questo ora a quel maestro di filosofia, ed esso menavagli dove volevano. Tanto ben sopportava di essere non curato e lasciato indietro. [ 2 ] Adunque, ponghiamo eziandio che tra uomini comunali il favellare cadesse per avventura sopra qualche articolo di materia speculativa, tu ti conterrai per lo più in silenzio. Perciocché altrimenti tu correresti gran rischio di gittar fuori quello che tu non avessi anco smaltito. E quando alcuno ti dirà che tu non sai nulla, e tu per udir questo non ti sentirai pungere, allora sappi che tu cominci a far frutto. Vedi tu che le pecore non portano al pastore erba per dare a vedere la quantità ch’elle hanno mangiato, ma smaltita la pastura dentro, danno di fuori la lana e il latte? E tu similmente non isciorinare in sugli occhi dei non filosofi le dottrine speculative, ma da quelle ben digerite dentro, forma estrinsecamente e dimostra a coloro le operazioni. 47. Quando tu sarai perfetto quanto all’uso e al reggimento del corpo, non voler però pavoneggiarti e far mostra di questa cosa; e se tu berrai acqua, tu non dirai ad ogni occasione: io non beo che acqua. E se alcuna volta ti vorrai esercitare alla sofferenza per amor di te stesso e non delle cose estrinseche, tu non andrai ad abbracciare le statue, ma talora che tu arderai dalla sete, piglia una boccata d’acqua fresca e sputala, e di ciò non far motto. 48. [ 1 ] Stato e contrassegno dell’uomo comune si è, né beneficio né danno aspettarsi mai da se stesso, ma sì dalle cose di fuori. Stato e contrassegno del filosofo, ogni qualsivoglia utilità o nocumento sperare o temere da se medesimo. [ 2 ] Segni che uno fa pro nella filosofia sono non parlar male di alcuno; non lodar chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellar cosa alcuna di sé come di persona di qualche peso o che s’intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputar la colpa a se stesso; lodato, ridere interiormente del lodatore; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima ch’ella sia bene assodata; [ 3 ] aver posto giù ogni appetito; ridotta l’aversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dar luogo a prime inclinazioni e primi moti dell’animo se non riposati e placidi; se sarà tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all’erta con se medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore. 49. Quando alcuno si vanterà o si terrà d’assai per sapere intendere o poter dichiarare i libri di Crisippo, dì teco stesso: se Crisippo non avesse scritto oscuro, costui non avrebbe di che gloriarsi. Ma che è poi veramente quel che io desidero? Intender la natura e seguirla. Cerco dunque chi sia quello che me la interpreti. E sentendo essere Crisippo, vo a lui. Ma non intendo il suo scrivere. Cerco dunque uno che me lo esponga. E fin qui non ci ha materia veruna di gloriarsi. Trovato lo sposistore di Crisippo, resta che io metta in pratica gli ammaestramenti ch’io ricevo. E in ciò solo consiste quel che fa onore. Ma se io invaghirò della facoltà medesima della interpretazione, che altro mi verrà fatto se non che io diverrò un grammatico anzi che un filosofo? Salvo che invece di Omero, chioserò Crisippo. Piuttosto dunque, se uno mi dirà: leggimi Crisippo, egli mi conviene arrossire, quando io non possa mostrare i fatti concordi e somiglievoli alle parole. 50. Ciascun proponimento che tu farai vuolsi osservare e mantenere come fosse una legge e un punto di religione. Che che poi si dica di te il mondo, non vi por mente, poiché questa parte non è in tuo potere. 51. [ 1 ] In che tempo dunque ti riserbi tu ad aspirare ai maggiori beni dell’uomo, e ad osservare in che che sia la regola che distingue le cose nostre e le esterne? Tu hai pur avuto i documenti che erano da meditare e quasi da conversar con essi; tu gli hai meditati e usato con esso loro: che maestro aspetti tu anco, sotto la cui disciplina tu intenda di voler dare effetto alla riforma di te stesso? Tu non sei più mica un fanciullo, ma uomo fatto. Se tu ti starai così neghittoso e a bada senza pensare, accumulando ogni giorno indugi con indugi, moltiplicando in propositi, destinando ora un termine e fra poco un altro, in capo al quale incominciare ad attendere a te medesimo; tu non te ne avvedrai che senza aver fatto un progresso al mondo, sarai pur vissuto e morto uomo del volgo. [ 2 ] Incomincia dunque insino da ora a studiar di vivere da uomo perfetto e che cresce in virtù; e tutto quello che ti parrà essere il migliore, siati in luogo di legge inviolabile. E come prima ti si farà incontro alcuna cosa dura e spiacevole o pur dilettosa e dolce, alcuna che porti seco la estimazione o la lode o vero il dispregio o il biasimo delle genti, fa ragione ch’egli sarà venuto il tempo dello aringo, e quella essere l’ora della solennità olimpica,  e non ci aver luogo indugio; e che secondo che tu sarai per durare o vero per cedere in una battaglia, tu perderai o vero conserverai lo avanzamento tuo nel bene. [ 3 ] Socrate in così fatta guisa diventò perfetto, a niente altro avendo riguardo in ciascheduna cosa che gl’incontrava, se non solamente alla ragione. Che se ben tu non sei per ancora un Socrate, tu dèi però vivere come uno il quale desideri di esser tale. 52. [ 1 ] Il primo e più necessario luogo nella filosofia si è quello delle proposizioni morali pratiche, come sarebbe, per modo di esempio, questa; che egli non si dee mentire. Il secondo è quello delle dimostrazioni; come, per esempio, provare con argomenti che non si dee mentire. Il terzo serve a confermazione e distinzione delle stesse cose, e trattatisi, ponghiamo, donde è che questa tale è dimostrazione, e che cosa è dimostrazione, che cosa sono conseguenza e ripugnanza, verità e falsità. [ 2 ] Di modo che il terzo luogo è necessario a rispetto del secondo, il secondo a rispetto del primo; ma il più necessario di tutti, e dove si dee restare, si è il primo. Ora noi facciamo il contrario; che noi soprastiamo nel terzo luogo, e in quello poniamo tutto lo studio e la industria; e del primo non abbiamo un pensiero al mondo. Sicché avviene che egli si mente ogni dì, ma il come provar che egli non si dee mentire, questo si ha in sulle dita. 53. [ 1 ] Abbiansi ad ogni occasione apparecchiate queste parole: menami o Giove, e con Giove tu o Destino, in quella qual si sia parte a che mi avete destinato; e io vi seguirò di buon cuore. Che se io non volessi, io mi renderei un tristo e un da poco, e niente meno a ogni modo vi seguirei.
[ 2 ] Ancora: chiunque sa bene accomodarsi alla necessità, tiene appresso noi grado di saggio, ed esso ha il conoscimento delle cose divine.
[ 3 ] Ancora in terzo luogo: o Critone, se così piace agli dei, così sia. [ 4 ] Anito e Melito mi possono bene uccidere, ma non già offendere.            

Il Manuale di Epitteto
tradotto da Franco Scalenghe

Ε μν τ σμά σού τις πέτρεπε τ παντήσαντι, γανάκτεις ν: τι δ σ τν γνώμην τν σεαυτο πιτρέπεις τ τυχόντι, να, ἐὰν λοιδορήσηταί σοι, ταραχθ κείνη κα συγχυθ, οκ ασχύν τούτου νεκα;

“Se qualcuno delegasse il tuo corpo a chi ti viene incontro, ne fremeresti. E che tu deleghi la tua intelligenza a chi capita affinché, se sarai ingiuriato, essa ne sia sconcertata e confusa: per questo non ti vergogni?” (Manuale, 28)

E1. 

Esistono cose per natura libere e cose per natura schiave. La Diairesi è il Supergiudizio che sa distinguere quanto è libero da quanto è schiavo. La Controdiairesi è il Supergiudizio che decreta schiavo quanto invece è libero, oppure decreta libero quanto invece è schiavo per natura delle cose.

[E1,1] Delle cose che sono, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere sono concezione, impulso, desiderio, avversione e, in una parola, quanto è opera nostra. Non sono in nostro esclusivo potere il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche e, in una parola, quanto non è opera nostra. [E1,2] Le cose in nostro esclusivo potere sono per natura libere, non soggette ad impedimenti, non soggette ad impacci; mentre le cose non in nostro esclusivo potere sono deboli, serve, soggette ad impedimenti, allotrie. [E1,3] Ricorda dunque che se crederai libero quanto per natura delle cose è servo, e peculiare quanto è allotrio, sarai intralciato, piangerai, sarai sconcertato, biasimerai dei ed uomini. Se invece crederai tuo solo quanto è tuo ed allotrio, com’è, l’allotrio; nessuno mai ti costringerà, nessuno ti impedirà; non biasimerai nessuno, non incolperai nessuno, non effettuerai neppure una sola cosa tuo malgrado, non avrai nemici personali, nessuno ti danneggerà giacché non sperimenterai nulla di dannoso. [E1,4] Prendendo dunque di mira cose così rilevanti, ricorda che bisogna accostarsi ad esse non equilibratamente mossi ma che si deve tralasciarne alcune definitivamente ed altre, per il presente, posporle. Se vorrai tanto queste cose quanto occupare cariche ed essere ricco di denaro, per il fatto di prendere di mira anche le precedenti non centrerai, caso mai, neppure queste; ma fallirai affatto quelle attraverso cui soltanto promanano libertà e felicità. [E1,5] Subito dunque, ad ogni rappresentazione rude studia di soggiungere che “Sei una rappresentazione e non affatto quanto appari”. Poi indagala e valutala con questi canoni che hai, ed innanzitutto e soprattutto con questo: se è di cose in nostro esclusivo potere o di cose non in nostro esclusivo potere. E se sarà di qualcuna delle cose non in nostro esclusivo potere, ti sia a portata di mano che “Nulla è per me”.

E2.

Sfortune e cattive fortune.

[E2,1] Ricorda che professione del desiderio è centrare ciò che desidera, professione dell’avversione non incappare in ciò che avversa. Chi fallisce nel desiderio è sfortunato, mentre chi nell’avversione incappa in quanto avversa ha cattiva fortuna. Se dunque, di quanto è in tuo esclusivo potere, avverserai solo il contrario alla natura delle cose, non incapperai in nulla di ciò che avversi. Ma se avverserai la malattia o la morte o la povertà di denaro, avrai cattiva fortuna. [E2,2] Rimuovi dunque l’avversione da tutto quanto non è in nostro esclusivo potere ed allogala su quanto, di ciò che è in nostro esclusivo potere, è contrario alla natura delle cose. Il desiderio, per il presente, aboliscilo definitivamente. Giacché se desidererai qualcosa di non in nostro esclusivo potere, è necessario che tu sia sfortunato, mentre nulla di quanto è in nostro esclusivo potere e sarebbe bello desiderare ti è ancora presente. Usa soltanto l’impellere ed il repellere, e tuttavia leggermente, con eccezioni e pacatamente.

E3.

La natura delle cose.

[E3,1] Per ciascuna delle cose che ti cattivano l’animo o procurano un’utilità o per le quali hai affetto, ricorda di soggiungere, iniziando dalle più spicciole, quale ne è la natura. Se avrai affetto per una pentola, soggiungi “Ho affetto per una pentola” giacché, se essa si romperà, non sarai sconcertato. Se bacerai il tuo bimbo o tua moglie, soggiungi che baci una persona; giacché morendo essa, non ne sarai sconcertato.

E4.

Proairesi: la facoltà logica degli esseri umani, la loro intelligenza, in quanto può scegliere di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente.

[E4,1] Qualora stia per accostarti ad un’opera, richiamati alla memoria qual è la natura dell’opera. Se te ne andrai per fare un bagno caldo, mettiti davanti gli avvenimenti alle terme: quelli che spruzzano, quelli che strattonano, quelli che ingiuriano, quelli che rubano. E così ti accosterai all’opera più sicuramente se subito soggiungerai: “Dispongo di fare un bagno caldo, ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose”. E fa’ allo stesso modo per ciascuna opera. Giacché così, se qualcosa diverrà un intralcio a fare un bagno caldo, avrai a portata di mano che: “Io non disponevo solo questo, ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose; e non la serberò se fremerò davanti agli avvenimenti”.

E5.

Noi siamo proairesi, ossia i nostri giudizi.

[E5,1] Sconcertano gli esseri umani non le faccende, ma i giudizi sulle faccende. Per esempio, la morte nulla è di terribile, dacché questo sarebbe parso anche a Socrate; ma il giudizio sulla morte, che sia terribile, quello è il terribile. Qualora dunque siamo intralciati o sconcertati od afflitti, non accagioniamo mai altro che noi stessi, cioè i nostri giudizi. Incolpare altri per ciò per cui lui finisce male è opera del non educato a diairesizzare. Incolpare se stessi è opera di chi ha iniziato a diairesizzare. Non incolpare né un altro né se stesso, di chi è stato educato a diairesizzare. 

E6.

Eccellenza della natura umana è null’altro che l’uso retto, ossia secondo la natura delle cose, delle rappresentazioni.

[E6,1] Non esaltarti per nessun pregio altrui. Se un cavallo dicesse esaltato: “Sono bello”, sarebbe comportabile; ma qualora tu dica esaltato: “Ho un bel cavallo”, sappi che ti esalti per la bontà di un cavallo. Cos’è dunque tuo? L’uso delle rappresentazioni. Sicché esaltati allorquando tu agisca secondo la natura delle cose nell’uso delle rappresentazioni; giacché allora ti esalterai per una qualche tua bontà.

E7.

Tutto quanto è aproairetico prima o poi deve essere restituito.

[E7,1] Appunto come, durante un viaggio per mare, quando il bastimento è all’ancora, se uscissi per rifornirti d’acqua, strada facendo raccoglierai ora una chiocciolina ora una cipollina; ma bisogna che l’intelletto sia teso al bastimento e che ti impensierisca costantemente se mai il pilota chiamerà; e se chiamerà, che tralasci tutte quelle cose per non essere sbattuto a bordo incatenato come le pecore; così pure nella vita, se invece di una cipollina e di una chiocciolina ti saranno dati una mogliettina ed un bimbo, nulla impedirà; ma se il pilota chiamerà, corri al bastimento tralasciando tutte quelle cose e senza voltarti. E se sarai vecchio, neppure allontanati troppo dal bastimento, per non eclissarti quando chiama.

E8.

Errore, vizio, infelicità.

[E8,1] Non cercare che gli avvenimenti accadano come vuoi, ma disponi gli avvenimenti come accadono e sarai sereno. 

E9.

Soltanto la proairesi è per natura libera da qualsiasi impedimento esteriore.

[E9,1] La malattia è un intralcio del corpo, non della proairesi, se la proairesi non lo disporrà. Un’azzoppatura è un intralcio di gamba, non di proairesi. E questo soggiungi per ciascun accadimento, giacché troverai che esso intralcia qualcos’altro ma non te.

E10.

Una proairesi che sa conservarsi libera in ogni situazione.

[E10,1] Per ciascuno degli eventi che ci incolgono, ricorda di voltarti a te stesso e di cercare quale facoltà hai per il suo uso. Se vedrai un magnifico giovanotto od una magnifica ragazza, troverai che la facoltà per queste cose è la padronanza di sé. Se ti si fornirà un dolore, troverai la fortezza. Se un’ingiuria, troverai la pazienza. Ed abituato così, le rappresentazioni non ti rapiranno con sé.

E11.

Tutto quanto è aproairetico prima o poi deve essere restituito 2.

[E11,1] Non dire mai di nulla “Lo persi”, ma “Lo restituii”. Il tuo bimbo morì? Fu restituito. Morì tua moglie? Fu restituita. “Il podere mi fu sottratto”. Dunque anche questo fu restituito. “Ma chi lo sottrasse è cattivo”. Che t’importa attraverso chi, colui che dà richiese? E finché ti sarà dato, siine sollecito come di cosa allotria; come i passanti dell’albergo.

E12.

Uomini, prezzi e profitto.

[E12,1] Se disponi di fare profitto, tralascia i rendiconti siffatti: “Se trascurerò i miei affari, non avrò sostentamento”; “Se non castigherò il ragazzo, sarà un malvagio”. Giacché è meglio morire di fame dopo essere diventato capace di dominare l’afflizione e la paura, piuttosto che vivere nell’abbondanza essendo preda dello sconcerto. E’ meglio che il ragazzo sia cattivo piuttosto che tu infelice. Inizia perciò dalle cose spicciole. [E12,2] E’ versato un po’ d’olio; è rubato un po’ di vino. Soggiungi: “A tanto si vende il dominio sulle passioni, a tanto il dominio sullo sconcerto”. Nulla promana gratis. Qualora chiami il ragazzo, pondera che può non darti retta, e darti retta ma non fare nulla di ciò che vuoi: ma non gli va così bene che sia in suo esclusivo potere il non essere tu preda dello sconcerto!

E13.

Questo o quello per me pari sono?

[E13,1] Se disponi di fare profitto, reggi di sembrare dissennato e sciocco riguardo agli oggetti esterni, e non decidere di sembrare uno che ha scienza di qualcosa. E se ad alcuni sembrerai essere qualcuno, diffida di te stesso. Sappi infatti che non è facile custodire la propria proairesi operante secondo la natura delle cose e gli oggetti esterni, ma se sei sollecito dell’una è del tutto necessario trascurare gli altri.

E14.

Può forse farci liberi qualcosa che è in potere d’altri?

[E14,1] Se vorrai che i tuoi figlioli e tua moglie ed i tuoi amici vivano ognora, sei sciocco; giacché vuoi che quanto non è in tuo esclusivo potere sia in tuo esclusivo potere e che l’allotrio sia tuo. Così, se vorrai che il ragazzo non aberri, sei stupido; giacché vuoi che il vizio non sia vizio ma qualcos’altro. Se però disporrai di non fallire desiderando, questo lo puoi. [E14,2] Esercita dunque questo che puoi. Signore di ciascuno è chi ha la potestà di procacciare o sottrarre delle cose che quello vuole o non vuole. Chiunque decide di essere libero non deve dunque volere né fuggire alcunché di quanto è in potere d’altri. Se no, è necessario che sia servo.

E15.

Il convito.

[E15,1] Ricorda che devi condurti come in un convito. Una portata è arrivata di fronte a te: sporgi la mano e condividi con compostezza. Perviene oltre: non rattenerla. Non è ancora giunta: non proiettare più in là il desiderio, ma attendi finché non sarà di fronte a te. Così verso figlioli, così verso moglie, così verso cariche, così verso la ricchezza di denaro: ed una volta sarai degno convitato degli dei. Se poi, pur essendoti sistemate accanto le portate, non ne prenderai ma le disdegnerai, allora non solo sarai un convitato degli dei ma comanderai pure con loro. Giacché così facendo Diogene, Eraclito ed i loro simili meritatamente erano ed erano detti divini.

E16.

L’afflizione altrui.

[E16,1] Qualora tu veda qualcuno che singhiozza in lutto, o perché si mette in viaggio un figliolo o perché ha perso le sue cose, fa attenzione non ti rapisca con sé la rappresentazione che egli si trova in cattive acque ad opera degli oggetti esterni. Ma subito ti sia a portata di mano che “Opprime costui non l’accidente (giacché non opprime un altro) ma il suo giudizio al riguardo”. Finché tuttavia si tratta di parole non peritarti, caso mai, ad essere compiacente con lui e condolerti. Fa tuttavia attenzione a non sospirare anche dal di dentro.

E17.

Sei un attore.

[E17,1] Ricorda che sei attore di un dramma quale lo disporrà il regista. Se breve, di uno breve; se lungo, di uno lungo. Se il regista disporrà che tu reciti la parte un poveraccio, lo fa affinché tu reciti anche questo da purosangue; ed ugualmente se disporrà per te la parte di uno zoppo, di un magistrato, di un privato cittadino. Giacché tuo è recitare bene il personaggio dato; selezionarlo per te è di un altro.

E18.

Il mio bene è nelle mie mani.

[E18,1] Qualora un corvo abbia gracchiato in modo non benaugurante, la rappresentazione non ti rapisca con sé ma subito fra te e te discrimina e dì: “Niente di ciò significa qualcosa per me, ma lo significa per il mio corpicino o per le mie coserelle o per la mia reputazione o per i miei figlioli o per mia moglie. Per me tutto significa buon augurio, se io lo disporrò; giacché qualunque di queste cosa succederà è in mio esclusivo potere trarne giovamento”.

E19.

Invincibili nella gara della libertà.

[E19,1] Puoi essere invincibile se non scenderai in nessuna gara in cui non è in tuo esclusivo potere vincere. [E19,2] Vedendo qualcuno anteposto a te, od un magnate o chi altrimenti ha applausi, vedi di non beatificarlo, rapito con sé dalla rappresentazione. Giacché se la sostanza del bene sarà in quanto è in nostro esclusivo potere, non hanno territorio né invidia né gelosia; e tu non vorrai essere stratega né pritano né console ma libero. Una sola è la strada che porta a questo: lo spregio di quanto non è in nostro esclusivo potere.

E20.

L’oltraggio.

[E20,1] Ricorda che non chi ti ingiuria o percuote ti oltraggia, ma è il tuo giudizio circa questi atti come oltraggiosi. Qualora, dunque, uno ti stuzzichi, sappi che la tua concezione ti ha stuzzicato. Innanzitutto prova dunque a non essere rapito con sé dalla rappresentazione, giacché una volta che otterrai tempo ed indugio, più facilmente sarai padrone di te stesso.

E21.

La morte.

[E21,1] Morte, esilio e tutto quanto appare terribile ti siano davanti agli occhi ogni giorno. Più di tutto la morte. E non rimuginerai mai qualcosa da servo nell’animo né smanierai troppo per qualcosa.

E22.

La derisione e l’ammirazione degli esseri umani.

[E22,1] Se smani per la filosofia, preparati immantinente ad essere deriso, ad essere sbeffeggiato da molti i quali diranno: “Improvvisamente ci è ritornato filosofo!” e “Questo cipiglio donde ci viene?” Tu non avere il cipiglio e attieniti a quanto ti appare ottimo come chi è stato posizionato a questo rango da Zeus. Ricorda che se manterrai i medesimi giudizi, quanti prima ti deridono costoro, successivamente, ti ammireranno; ma se sarai da loro sconfitto, aggiungerai alla prima una seconda derisione.

E23.

Sembrare ed essere.

[E23,1] Se mai ti accadrà di rigirarti fuori per la decisione di essere gradito a qualcuno, sappi che mandasti in malora il tuo istituto di vita. Accontentati dunque in ogni circostanza di essere filosofo. Se poi decidi anche di sembrarlo, apparilo a te stesso e sarà sufficiente.

E24.

Sacrificarsi per “la Causa” a costo di perdere i nostri veri beni?

[E24,1] Queste perplessità non ti opprimano: “Io vivrò senza onorificenze e non sarò nessuno da nessuna parte”. Giacché se il difetto di onorificenze è un male, tu però non puoi essere nel male a causa di un altro, non più che nella vergogna. E’ forse opera tua centrare una carica od essere invitato ad un banchetto? Nient’affatto! Com’é dunque questo ancora un difetto di onorificenze? Come non sarai nessuno da nessuna parte, tu che devi essere qualcuno nelle sole cose in tuo esclusivo potere, nelle quali hai la potestà di essere di grandissimo valore? [E24,2] Ma i tuoi amici rimarranno senza aiuto? Perché dici “senza aiuto”? Non avranno da te quattrinelli e neppure li farai cittadini romani. E chi ti disse che queste sono tra le cose in nostro esclusivo potere e non opere allotrie? Chi può dare ad un altro ciò che lui non ha? “Dunque acquisiscile,” dice, “affinché noi le abbiamo”. [E24,3] Se posso acquisirle serbando me stesso rispettoso di me e degli altri, leale, disinteressato, mostra la strada e le acquisirò. Ma se sollecitate che io perda i miei beni affinché voi vi procacciate dei non beni, vedete come siete iniqui e scriteriati. E cosa più decidete di avere? Del denaro od un amico leale e rispettoso di sé e degli altri? Soccorretemi dunque piuttosto a questo, e non sollecitatemi ad effettuare atti per cui butterò via proprio lealtà e rispetto di me e degli altri. [E24,4] “Ma la patria, per quanto è in mio potere,” dice, “sarà senza aiuto”. Di nuovo, di che tipo è questo aiuto? Non avrà grazie a te né portici né terme. E questo cos’è? Giacché neppure ha calzari grazie al fabbro né armi grazie al calzolaio. E’ sufficiente invece se ciascuno assolverà la propria opera. Se tu le strutturassi un altro cittadino leale e rispettoso di sé e degli altri, non gioveresti per nulla alla patria? “Sì”. Pertanto neppure tu saresti futile per lei. “Quale rango,” dice, “avrò dunque nella città?” Quello che potrai, custodendo insieme l’uomo leale e rispettoso di sé e degli altri. [E24,5] Ma se, deciso a giovare alla città butterai via questo, di che pro le diventeresti risultando irrispettoso e sleale?

E25.

Portaborse e leccaculi.

[E25,1] Qualcuno ti fu anteposto in un banchetto o nell’attribuzione di un appellativo o nell’essere invitato per un consiglio? Se questi sono beni, devi rallegrarti che egli li abbia centrati. Se invece sono mali, non adontarti perché non li centrasti tu. Ricorda che non puoi, non facendo le stesse cose per centrare quanto non è in nostro esclusivo potere, meritarti il pari. [E25,2] Come possono infatti avere il pari chi non bazzica le porte di qualcuno e chi le bazzica? Chi non entra nel seguito di qualcuno e chi vi entra? Chi non loda e chi loda? Sarai dunque ingiusto ed insaziato se, mentre non cedi ciò in cambio di cui quelle si smerciano, deciderai di prenderle gratis. [E25,3] A quanto si smerciano le teste di lattuga? Caso mai, un obolo. Se, dunque, ceduto l’obolo uno prenderà la lattuga e tu, non cedendo l’obolo non la prenderai, non credere di avere meno di chi la prende. Giacché come quello ha la testa di lattuga, così tu hai l’obolo che non desti. [E25,4] Allo stesso modo anche qui. Non fosti invitato al banchetto di qualcuno? Infatti non desti a chi chiama l’importo al quale vende il pranzo. E lo vende a prezzo di lodi, di assistenza lo vende. Dà dunque l’importo al quale si vende, se per te è vantaggioso. Ma se vuoi non cedere quello e pure prendere questo, sei insaziato e scempio. [E25,5] Nulla hai dunque in cambio del pranzo? Hai il non lodare costui, che non volevi; il non tollerare i suoi uscieri.

E26.

L’afflizione altrui 2.

[E26,1] E’ possibile decifrare il piano della natura da ciò per cui non differiamo gli uni dagli altri. Per esempio, qualora il bambino di un altro rompa la tazza, a portata di mano è subito il dire: “Sono cose che accadono!” Sappi dunque che, qualora fosse rotta una tua tazza, tu devi essere tale qual eri quando fu rotta quella di un altro. Così alloga questo anche a cose più grandi. E’ morto il figliolo di un altro, o la moglie. Non c’è nessuno che non direbbe: “E’ umano!” Ma qualora ne muoia uno dei propri, subito: “Ohimè! Sciagurato me!”. Sarebbe invece d’uopo ricordare cosa sperimentiamo quando lo sentiamo dire a proposito di altri.

E27.

Bene e male non esistono al di fuori della proairesi.

[E27,1] Come non si pone uno scopo per fallirlo, così neppure esiste natura di male nell’ordine del mondo.

E28.

Lo stupro dell’intelligenza.

[E28,1] Se qualcuno delegasse il tuo corpo a chi ti viene incontro, ne fremeresti. E che tu deleghi la tua intelligenza a chi capita affinché, se sarai ingiuriato, essa ne sia sconcertata e confusa: per questo non ti vergogni?

E29.

Lasciar perdere la filosofia.

[E29,1] Di ciascuna opera considera gli antecedenti ed i conseguenti e così vieni ad essa. Se no, dapprima vi sarai giunto con foga in quanto non hai ponderato nulla del seguito, ma successivamente, quando compariranno motivi di malcontento, te ne distornerai vergognosamente. [E29,2] Vuoi vincere le Olimpiadi? Anch’io, per gli dei, giacché è grazioso. Ma considera gli antecedenti ed i conseguenti e così accostati all’opera. Devi disciplinarti, cibarti a dieta, astenerti dai manicaretti, allenarti per necessità in ore fisse, nella calura, al freddo; non bere freddo, né vino come capita; insomma avere trasmesso te stesso al soprintendente come ad un medico; e poi in gara scavarti la sabbia, slogarti a volte una mano, storcerti una caviglia, ingoiare molta rena, possibilmente venire frustato e, dopo tutto ciò, essere vinto. [E29,3] Ciò esaminato, se ancora lo vorrai, vieni al cimento. Se no, ti sarai condotto come i bimbi i quali ora giocano ai lottatori, ora ai gladiatori, ora trombettano e poi canticchiano. Così tu pure ora atleta, ora gladiatore e poi oratore e poi filosofo ma con l’animo intero nulla. Come una scimmia tu imiti ogni spettacolo che vedrai e gradisci qualcosa di sempre diverso. Giacché non venisti a qualcosa dopo un’analisi né un percorso, ma a casaccio e secondo una gelida smania. [E29,4] Così alcuni, osservato un filosofo ed ascoltato qualcuno che parla come parla Eufrate (eppure, chi può parlare come lui?), vogliono anch’essi far filosofia. [E29,5] O uomo, esamina innanzitutto quella che è la faccenda e poi decifra anche la tua natura, se puoi sorreggerla. Decidi di essere un pentatleta od un lottatore? Vedi le tue braccia, le cosce, decifra i lombi. [E29,6] Giacché uno è nato per una cosa, un altro per un’altra. Reputi che facendo questo puoi mangiare allo stesso modo, bere allo stesso modo, similmente desiderare, similmente dispiacerti? Vegliare devi, faticare, partire dai familiari, essere spregiato da un pupattolo, essere deriso da chi ti viene incontro, avere la meno in ogni circostanza: in onorificenze, in cariche, nei processi, in ogni affaruccio. [E29,7] Esamina questi profili se disponi di permutare ciò con dominio sulle passioni, libertà, dominio sullo sconcerto. Se no, non appressarti per non essere, come i bimbi, ora filosofo, successivamente gabelliere e poi oratore e poi procuratore di Cesare. Questi ruoli non vanno d’accordo. Una sola persona tu devi essere, o buona o cattiva. Tu devi elaborare o il tuo egemonico o gli oggetti esterni; lavorare con arte sul di dentro o sul di fuori: questo è ricoprire il posizionamento di filosofo o di persona comune.

E30.

Le relazioni sociali.

[E30,1] Il doveroso si commisura generalmente alle relazioni sociali. E’ padre: è dettato di averne sollecitudine, dargli spazio in tutto, tollerare se ingiuria, se batte. “Ma è un cattivo padre”. Fosti forse imparentato dalla natura ad un buon padre? No, ma ad un padre. “Mio fratello commette ingiustizie”. Perciò serba il tuo posizionamento nei suoi confronti, e non considerare cosa fa lui ma cosa fai tu per avere la tua proairesi in accordo con la natura delle cose. Giacché un altro non danneggerà te, se tu non lo disporrai. E allora sarai stato danneggiato, qualora concepisca di essere danneggiato. Così dunque troverai quanto è doveroso da vicino, da cittadino, da stratega, se ti abituerai a conoscere i principi generali delle relazioni sociali.

E31.

Uomini e dei.

[E31,1] Circa la pietà per gli dei, sappi che dominante è avere di essi rette concezioni, come esistenti e governanti il tutto bene e giustamente; ed esserti assegnato l’ubbidire loro, cedere il passo ad ognuno di loro e seguirli di buon grado come realizzati dalla nostra più eccelsa intelligenza. Giacché così non biasimerai mai gli dei né li incolperai di essere trascurato. [E31,2] E questo non è tale da accadere altrimenti che rimuovendo il bene ed il male da quanto non è in nostro esclusivo potere e ponendoli soltanto in quanto è in nostro esclusivo potere. Ché se concepirai proprio qualcuna di quelle cose come bene o male è del tutto necessario, qualora fallisca ciò che vuoi ed incappi in ciò che non vuoi, che tu biasimi ed odi i causativi. [E31,3] Ogni creatura è infatti nata per fuggire e scansare quanto appare dannoso ed i suoi causativi e per andare in cerca e dare valore a quanto giova ed ai suoi causativi. Dunque è inconcepibile che chi crede di essere danneggiato si rallegri di colui dal quale reputa di essere danneggiato, come pure è impossibile rallegrarsi del danno stesso. [E31,4] Di qua viene anche che il padre è ingiuriato dal figlio qualora non lo faccia parte di quelli che il ragazzo reputa essere beni. E questo fece Eteocle e Polinice l’un l’altro nemici: credere un bene la tirannia. Per questo l’agricoltore ingiuria gli Dei, per questo il marinaio, per questo il mercante, per questo coloro che perdono le mogli ed i figlioli. Giacché dov’è l’utile, là è anche la pietà. Sicché chi è sollecito a desiderare e ad avversare come deve, nel medesimo tempo ha sollecitudine anche della pietà. [E31,5] Libare, sacrificare, offrire primizie secondo i patrii costumi in ciascun caso conviene; facendolo puramente, senza negligenza né trascuratezza e neppure con spilorceria né oltre le nostre facoltà.

E32.

La divinazione indifferente.

[E32,1] Qualora ti avvicini alla divinazione, ricorda che non sai cosa succederà ma che sei giunto per cercare di saperlo dall’indovino. Quel che è sei venuto sapendolo, se appunto sei filosofo. Giacché se è qualcosa di non in nostro esclusivo potere, è del tutto necessario che non sia né bene né male. [E32,2] Non portare dunque dall’indovino desiderio od avversione e non avvicinarti a lui tremando, ma avendo vagliato che tutto quanto succederà è indifferente e nulla per te; che quale che sarà, sarà possibile usarlo da virtuoso e che nessuno lo impedirà. Vieni dunque con fiducia agli dei come a consiglieri. Orbene qualora ti sia consigliato qualcosa, ricorda quali consiglieri assumesti e chi fraintenderai disubbidendoli. [E32,3] Vieni al divinare, come appunto sollecitava Socrate, in quei casi in cui ogni analisi ha riferimento all’esito e né dal ragionamento né da qualche altra arte si danno risorse per notare l’obiettivo della sorte. Sicché, qualora si debbano correre pericoli insieme ad un amico o con la propria patria, non divinare se li si debba correre. Giacché se l’indovino ti avviserà che le vittime sacrificali sono state infauste, è manifesto che significa morte o storpiatura di qualche parte del corpo od esilio. Ma la ragione sceglie, anche con ciò, di porsi accanto all’amico e di correre pericoli insieme con la patria. Fa’ perciò attenzione all’indovino più grande, ad Apollo Pizio, il quale fece espellere dal tempio chi non aiutò l’amico che veniva levato di mezzo.

E33.

Suggerisco.

[E33,1] Posizionati ormai un certo stile e modello, che custodirai sia quando sei solo, sia incontrando persone. [E33,2] E vi sia per lo più taciturnità o si parli il necessario e con poche parole. Raramente, e quando il momento adatto invita a dire, dì pure, ma non di quel che capita: non di combattimenti di gladiatori, non di corse dei cavalli, non di atleti, non di vivande o bevande, di trivialità e soprattutto non di persone, denigrando o lodando o paragonando. [E33,3] Se dunque ne sarai capace, con i tuoi discorsi trasporta anche quelli dei sodali al conveniente. Se poi fossi per caso preso da parte tra forestieri, taci. [E33,4] Il riso non sia molto né su molti argomenti né sia sguaiato. [E33,5] Un giuramento schivalo, se è possibile, appieno; se no, per quanto è contingente. [E33,6] Declina banchetti con gente di fuori e persone comuni. Se una volta ne sarà tempo, fa ben bene attenzione a non travalicare mai in volgarità. Sappi infatti che qualora il compagno sia sudicio, anche chi gli si struscia addosso necessariamente si insudicia, pur se fosse per caso pulito. [E33,7] Per quanto riguarda il corpo, assumi cose quali cibo, bevande, vestiario, casa, domestici, fino a soddisfare il mero bisogno; e circoscrivi tutto quanto è per reputazione od effeminatezza. [E33,8] Quanto ai piaceri sessuali prima dello sposalizio, bisogna fare del nostro meglio per essere puliti; e chi vi si accosta deve condividere quelli legali. Tuttavia non diventare grossolano né contestatorio con coloro che ne usano, e non citare sovente il fatto che tu non ne usi. [E33,9] Se qualcuno ti annuncerà che il tale sparla di te, non parlare in tua difesa contro quanto è detto, ma rispondi che “Il tale ignorava gli altri vizi che mi sono congiunti, dacché non direbbe solo di questi!” [E33,10] Andare a spettacoli non è per lo più necessario. Se una volta ne fosse tempo, non mostrare di parteggiare per altri che per te stesso, cioè disponi che accada soltanto quel che accade e che vinca solo chi vince: giacché così non sarai intralciato. Astieniti definitivamente dalle grida, dal ridacchiare di qualcuno o dal commuoverti troppo. Dopo esserti allontanato, non fare molti discorsi sull’avvenuto, se non per quanto porta alla tua rettificazione; giacché da un siffatto contegno si palesa che ammirasti lo spettacolo. [E33,11] Non andare a casaccio né facilmente a pubbliche letture. Se però ci vai, custodisciti solenne, stabile ed insieme non grossolano. [E33,12] Qualora tu stia per conferire con qualcuno, soprattutto delle reputate “Eccellenze”, mettiti davanti cosa avrebbero fatto in questo caso Socrate o Zenone, e non difetterai di usare convenientemente dell’accadimento. [E33,13] Qualora bazzichi qualche magnate, mettiti davanti che non lo troverai dentro, che sarai sbarrato fuori, che le porte ti saranno squassate contro, che non si preoccuperà di te. E se pur con ciò sarà doveroso venirci, venendo sopporta gli avvenimenti e non dire mai a te stesso: “Non meritava tanto!”; giacché questo è da persona comune e cui sono invisi gli eventi esterni. [E33,14] Nelle conversazioni tieniti lungi dal ricordare a lungo certe tue opere o, senza misura, dei pericoli corsi. Giacché come per te è piacevole ricordare i tuoi pericoli, non così è piacevole per gli altri ascoltare dei tuoi accidenti. [E33,15] Ci si tenga anche lungi dal muovere risate, giacché lubrico è il terreno che porta alla volgarità, ed insieme sufficiente ad attenuare il rispetto di chi ti è dintorno nei tuoi confronti. [E33,16] Malsicuro è anche avanzare verso il turpiloquio. Qualora dunque avvenga qualcosa di siffatto, se sarà tempestivo censura anche chi vi avanzò. Se no, proprio col tacere ed arrossire e l’accigliarti manifesta il tuo malcontento per il discorso.

E34.

La forza delle rappresentazioni.

[E34,1] Qualora la rappresentazione di qualche ebbrezza ti prenda, come appunto per le altre rappresentazioni, sta in guardia a non essere da essa rapito con sé. Che dunque la faccenda aspetti te, e tu prenditi qualche dilazione. Poi ricorda entrambi i tempi: il tempo in cui fruirai dell’ebbrezza ed il tempo in cui successivamente, dopo averne fruito, ti pentirai ed ingiurierai te stesso. Contrapponi a questo come ti rallegrerai astenendotene e come loderai te stesso. E se ti parrà tempo di accostarti all’opera, fa attenzione che non ti sconfiggano la sua gradevolezza e piacevolezza e seduzione. Ma contrapponi quanto meglio sia per te la cognizione di avere vinto questa vittoria.

E35.

Decisione.

[E35,1] Qualora tu, vagliato che una cosa è da fare, la faccia; non fuggire mai dall’essere visto effettuarla anche se i più saranno per concepire qualcosa di diverso al riguardo. Giacché se non fai rettamente, fuggi l’opera stessa. Se fai rettamente, perché hai paura di coloro che censureranno non rettamente?

E36.

Conflitto di interessi.

[E36,1] Come le asserzioni “E’ giorno” ed “E’ notte” hanno grande valore per una proposizione disgiuntiva ed invece disvalore per un periodo copulativamente coordinato, così selezionare per sé il pezzo più grande di qualcosa abbia pure valore per il corpo, ma per custodire come si deve la socievolezza in un banchetto ha disvalore. Qualora dunque mangi con un altro, ricorda di non vedere soltanto il valore per il tuo corpo delle portate che ti giacciono accanto, ma anche di custodire il rispetto verso l’imbanditore.

E37.

Sopra le righe.

[E37,1] Se interpreterai un personaggio oltre le tue facoltà, in questo fosti indecente ed omettesti di assolvere quello che potevi.

E38.

Il danno.

[E38,1] Appunto come nel camminare fai attenzione a non pestare un chiodo o non storcerti un piede, così fa’ attenzione a non danneggiare il tuo egemonico. E se staremo in guardia su questo in ciascuna opera, ci accosteremo all’opera più sicuramente.

E39.

La misura e oltre.

[E39,1] Misura del patrimonio è per ciascuno il corpo, come il piede lo è di un calzare. Se dunque a questo starai, custodirai la misura. Se invece la oltrepasserai, orbene è necessario essere portato come lungo un precipizio. Appunto come pure il calzare, se oltrepasserai il piede, diventa indorato e poi purpureo e poi trapunto. Di ciò che è una volta oltre misura non vi è infatti limite alcuno.

E40.

Signore il cui unico bene è la fica.

[E40,1] Subito dall’età di quattordici anni le femmine sono chiamate dai maschi “Signore”. Vedendo perciò che null’altro è loro congiunto se non il coricarsi coi maschi, esse iniziano ad imbellettarsi e ad avere in questo tutte le loro speranze. Merita dunque fare attenzione affinché esse si accorgano di essere onorate per null’altro che per l’apparire composte e rispettose.

E41.

Cacare e montare.

[E41,1] E’ segno di bastardaggine indugiare troppo in cose che riguardano il corpo, come allenarsi a lungo, a lungo mangiare, a lungo bere, a lungo cacare, montare. Queste cose vanno fatte come accessorie. Tutta la pensosità sia invece per l’intelligenza.

E42.

Chi è il danneggiato.

[E42,1] Qualora qualcuno ti tratti male o parli male di te, ricorda che lo fa o dice credendolo doveroso. Non è dunque possibile che egli segua quel che pare a te ma quel che pare a lui sicché, se il suo parere è cattivo, è danneggiato chi si è ingannato. Giacché se uno concepirà falso un vero periodo copulativamente coordinato, non è danneggiato il periodo copulativamente coordinato ma chi si ingannò. Prendendo dunque spunto da questo, sarai mite con chi ingiuria. Giacché ad ogni ingiuria esclama: “Lo reputò!”

E43.

I due manici della faccenda.

[E43,1] Ogni faccenda ha due manici: uno sopportabile ed un altro insopportabile. Se tuo fratello commetterà una ingiustizia, non prendere la faccenda di qui, che commette una ingiustizia (giacché questo è il suo manico insopportabile), ma piuttosto di là, che è tuo fratello, che ha fatto vita comune con te; e prenderai la faccenda dal manico sopportabile.

E44.

L’incombinabile.

[E44,1] Questi sono discorsi incombinabili: “Io sono più ricco di denaro di te, io sono dunque migliore di te”; “Io sono più facondo di te, io sono dunque migliore di te”. Discorsi combinabili sono piuttosto i seguenti: “Io sono più ricco di denaro di te, il mio patrimonio è dunque migliore del tuo”; “Io sono più facondo di te, la mia loquela è dunque migliore della tua”. Ma tu non sei davvero né patrimonio né loquela.

E45.

Realtà ed apparenza.

[E45,1] Uno fa il bagno caldo frettolosamente: non dire che lo fa male ma frettolosamente. Uno beve molto vino: non dire che beve male ma molto. Giacché prima di vagliare il giudizio, donde sai se fa male? Così non ti avverrà di pigliare rappresentazioni catalettiche di certe cose e di assentire ad altre.

E46.

Essere filosofi.

[E46,1] Non dirti in nessun luogo filosofo e, in genere, non cianciare tra le persone comuni di principi filosofici generali, ma fa’ quanto da quei principi discende. In un convito, per esempio, non dire come si deve mangiare ma mangia come si deve. Ricorda infatti che Socrate aveva così eliminato da ogni dove l’ostentazione che venivano da lui volendo essere da lui raccomandati ai filosofi; e lui ve li menava. Così tollerava di essere sottovalutato! [E46,2] E se in un ragionamento su qualche principio filosofico generale ci si imbatterà in persone comuni, in genere taci; giacché grande è il pericolo di vomitare subito ciò che non ancora digeristi. E qualora uno ti dica che nulla sai e tu non ne sia morso, allora sappi che inizi l’opera. Dacché anche le pecore non sfoggiano ai pastori quanto mangiarono portando loro il foraggio ma, digerita dentro la pastura, portano fuori lana e latte. Anche tu, quindi, non sfoggiare i principi filosofici generali alle persone comuni ma, digeritili, le opere.

E47.

L’ostentazione.

[E47,1] Qualora ti sia acconciato, quanto al corpo, a vivere con quattro soldi, non abbellirti di questo e, se berrai acqua, non cercare ogni movente per dire che bevi acqua. Se mai disporrai di esercitarti alla fatica, fallo per te e non per quelli di fuori. Non abbracciare statue, ma avendo energicamente sete tirati addosso dell’acqua fresca poi sputa, e non dirlo a nessuno.

E48.

Esseri umani ed uomini.

[E48,1] Stazione e stile da persona comune: mai suppone da se stesso giovamento o danno, ma dal di fuori. Stazione e stile da filosofo: suppone ogni giovamento e danno da se stesso. [E48,2] I segni di chi fa profitto: non denigra nessuno, non loda nessuno, non biasima nessuno, non incolpa nessuno, non dice nulla di sé come fosse qualcuno o sapesse qualcosa. Qualora sia intralciato in qualcosa od impedito, incolpa se stesso. Se uno lo loderà, deride tra sé e sé chi loda; e se sarà denigrato, non parla in sua difesa. Va in giro appunto come gli infermi, cauto a muovere, prima che prendano solidità, qualcuna delle parti in ricostituzione. [E48,3] Ha rimosso da sé ogni desiderio ed ha allogato l’avversione solo su ciò che, tra quanto è in nostro esclusivo potere, è contro la natura delle cose. Verso tutto usa l’impulso pacatamente. Se sembrerà sciocco od incolto, non se ne preoccupa. In una parola, sta in guardia verso se stesso come verso un insidioso nemico personale.

E49.

Solennità di essere filosofi oppure commentatori di filosofi.

[E49,1] Qualora uno faccia il solenne perché può capire e commentare i libri di Crisippo, fra te e te di’: “Se Crisippo non avesse scritto con poca chiarezza, costui non avrebbe nulla per cui fare il solenne”. Io cosa decido? Di decifrare la natura delle cose ed accompagnarmi a lei. Cerco dunque chi è il commentatore e, sentito dire che è Crisippo, vengo da lui. Ma non ne capisco gli scritti. Cerco dunque il commentatore di Crisippo. E fin qui non v’è ancora nulla di solenne. Qualora trovi il commentatore, avanza di usare le prescrizioni: questo solo è solenne. Se invece ammirerò il fatto in sé di commentare, che altro risulto se non un grammatico invece che un filosofo? Eccetto che invece di Omero so commentare, appunto, Crisippo. Qualora uno mi dica: “Rileggimi Crisippo”, io dunque piuttosto arrossirò, qualora non possa sfoggiare opere simili ed in armonia con i suoi discorsi.

E50.

E’ in palio la felicità.

[E50,1] A quanto è proposto mantieniti come a leggi, come fossi empio se lo violerai. E qualunque cosa uno dirà di te, non impensierirti; giacché questo non è più tuo.

E51.

Olimpia è adesso.

[E51,1] Ed a quale tempo ancora rimandi il meritarti l’ottimo ed il non violare in nulla la ragione che opera la diairesi? Hai assunto i principi filosofici generali con i quali dovevi metterti alle prese e ti sei messo alle prese. Quale insegnante dunque supponi ancora che possa giungere, per posporre a lui di fare la tua rettificazione? Non sei più un adolescente ma ormai un perfetto adulto. Se ora sarai trascurato e pigro e farai propositi dopo propositi e definirai uno dopo l’altro il giorno in cui farai attenzione a te stesso, ti sfuggirà che non fai profitto ma continuerai a vivere e morire da persona comune. [E51,2] Dunque sollecitati ormai a vivere da uomo perfetto e che fa profitto; e tutto quanto ti appare ottimo sia per te legge inviolabile. Se si appresserà qualcosa di doloroso o piacevole, che porta credito o discredito, ricorda che la gara è adesso, che le Olimpiadi sono ormai presenti, che non è più possibile rimandare e che in un solo giorno ed una sola faccenda il profitto va in malora o si salvaguarda. [E51,3] Socrate risultò così perché, di tutto quanto gli si appressava, non faceva attenzione ad altro che alla ragione. Tu, se pure non sei ancora Socrate, sei tenuto a vivere come chi decide di essere proprio Socrate.

E52.

Tre campi della filosofia.

[E52,1] Nella filosofia, il primo e più necessario àmbito è quello dell’uso dei principi generali: per esempio, non mentire. Il secondo è quello delle dimostrazioni: per esempio, donde è che non si deve mentire? Il terzo è quello che fa ben saldi ed articola questi stessi ambiti: per esempio, donde è che questo è una dimostrazione? Giacché cos’è dimostrazione, cos’è consequenzialità, cos’è contraddizione, cos’è vero, cos’è falso? [E52,2] Pertanto il terzo àmbito è necessario a causa del secondo ed il secondo a causa del primo. Il più necessario e dove ci si deve soffermare è il primo. Noi invece facciamo viceversa; giacché ci trastulliamo nel terzo àmbito ed a questo dedichiamo ogni nostra industria, mentre trascuriamo definitivamente il primo. Perciò appunto noi mentiamo, ma come si dimostra che non si deve mentire, questo l’abbiamo a portata di mano.