La traduzione dell’opera di Marco Aurelio è stata da me condotta sulla base del testo greco pubblicato in edizione critica da Joachim Dalfen con il titolo: MARCI AURELII ANTONINI Ad se ipsum Libri XII, Teubner, Leipzig, 1979. Ho tuttavia tenuto conto anche di numerose altre edizioni del testo di Marco Aurelio preparate da diversi autori e, in davvero pochi casi, di esse mi sono servito laddove una congettura testuale mi sembrava più convincente di quella proposta da Dalfen.
Com’è noto, già nell’antichità l’opera di Marco Aurelio non aveva un titolo. La cosa non deve sorprendere, perché allora era pratica comune che un testo non avesse un titolo finché qualcuno, che in genere non era l’autore, si incaricava di darglielo nel momento in cui rendeva l’opera di pubblico dominio. Il testo è stato citato fin dall’antichità semplicemente come ‘ta èis heautòn ethikà’, ‘tòu idìou bìou agoghè’, e poi, a partire dal 1559 d.C., ha avuto come titolo ‘De seipso seu vita sua’, ‘Meditations concerning himself’, ‘Pugillaria’, ‘Pensieri’, ‘A se stesso’ , ‘Ricordi’ e numerosi altri. Siccome io giudico, insieme ad Epitteto, che la sola ed unica cosa della quale l’uomo può avere una conoscenza non libresca è la sua propria proairesi e siccome lo scritto di Marco Aurelio è palesemente una continua variazione su quest’unico tema della natura, dell’essenza e dello stato della sua proairesi, mi è parso del tutto naturale intitolarlo: ‘La proairesi a se stessa’.
Essendo infine io, per questo motivo, alieno alle bibliografie ed altri simili apparati, ho posto ogni cura nel risparmiarli a chi mi legge, ed ho badato esclusivamente alle questioni di sostanza, fidandomi per la compiuta comprensione del testo delle brevi introduzioni che ho apposto ad ogni frammento. Chi, nonostante tutto, avesse invece insopprimibili smanie per l’oscurità e il masochismo camuffati da ‘competenza’, non ha certamente bisogno delle mie indicazioni per trovare tra le fatiche di tanti emeriti professori abbondante modo per soddisfarle.
Vale per l’opera di Marco Aurelio quello che vale per le mie altre traduzioni presenti in questo sito.
La loro caratteristica principale, ed anche unica -credo- rispetto alle altre traduzioni delle stesse opere, è quella di essere state condotte rigorosamente sulla base del corrispondente Index Verborum. Nel caso dell’opera di Marco Aurelio, l’Index Verborum è quello compreso nell’edizione critica di tale opera preparata da Joachim Dalfen con il titolo: MARCI AURELII ANTONINI, Ad se ipsum Libri XII, Teubner, Leipzig, 1979.
Cosa significa tradurre in lingua italiana un testo in greco antico sulla base dell’Index Verborum? Significa innanzitutto partire dalla presunzione, o se volete dalla scommessa, che la lingua italiana abbia una struttura ed una dovizia di vocaboli sufficienti a restituire con accettabile approssimazione le forme e i panneggi dell’abito confezionato nell’antichità. Possiamo paragonarla, insomma, ad un’impresa di alta moda. Io mi sono ovviamente servito dell’aiuto di un gran numero di traduzioni in italiano, in inglese e in francese per superare le numerose incertezze e i frequenti scogli che il testo di Marco Aurelio presenta, e posso dunque parlare al riguardo con conoscenza di causa delle modeste o modestissime sartine -absit iniuria verbis- nelle quali mi sono imbattuto. Non desiderando fare nomi, mi spiegherò con un esempio preso da un testo che invece assolutamente tutti conoscono, dotato di un’autorità senza paragoni e che rappresenta dunque un caso ancora più grave. L’esempio è tratto dal testo ‘La Sacra Bibbia’, Traduzione dai testi originali, Edizioni Paoline, 1964 ed è questo:
**Do per buona la citazione di Luca 19, 41, che fa il paio con quella di Giovanni 11, 35.
In entrambi i casi la traduzione italiana del testo del Vangelo usa il verbo ‘piangere’. Gesù dunque pianse due volte sole in vita sua: una su Lazzaro che poi avrebbe risuscitato e, più tardi, alla vista di Gerusalemme.
Ma le cose stanno veramente così?
Tralascio di parlare della traduzione latina di S. Gerolamo. Cosa è scritto nel testo greco?
In Giovanni 11, 35 il testo greco è questo: “Edàkrusen o Iesùs”. Il verbo “dakrùo” vuol dire propriamente “versare lacrime” e “dàkru” è infatti il sostantivo greco che indica la “lacrima”. Dunque siamo ampiamente autorizzati a tradurre “Gesù pianse” (versando lacrime).
In Luca 19, 41 il testo greco è il seguente: “Kai òs énghisen, idòn tèn pòlin éklausen ep’autèn”, che si può tradurre: “E quando si avvicinò, guardando la città (Gerusalemme) éklausen su di essa”.
Tutti capiscono che il verbo “klàio” non è il verbo “dakrùo”, meno i traduttori in italiano dei Vangeli, che traducono per sentito dire, per pigrizia, con disprezzo dei lettori i quali, tanto, non si accorgeranno di nulla.
Il verbo “klàio” è usato in greco per indicare qualunque espressione sonora di dolore o di afflizione che può, ma può anche non, essere accompagnata dalle lacrime. Io lo tradurrei con un verbo come “singhiozzare”, “rompere in alti lamenti”. Si può piangere in silenzio ma non si può “klàiein” in silenzio. Si può “klàiein” senza versare lacrime ma non si può fare altrettanto se si piange.
Ne concludo che in Giovanni il testo greco si propone di sottolineare il silenzioso scorrere delle lacrime sul volto di Gesù e tutta l’intimità della sua pena in un ambiente familiare e raccolto.
In Luca, invece, il testo intende porre in evidenza tutta la sonorità e la spettacolarità di un lamento che è fatto davanti a un grande pubblico e per un grande pubblico. Esso sarà infatti immediatamente seguito dalla cacciata dei mercanti dal Tempio.**
Traducendo Marco Aurelio, ho ripetuto per ben 3204 volte l’operazione appena citata con i verbi ‘dakrùein’ e ‘klàiein’, cercando inoltre di dare ad ogni vocabolo che non sia un ‘hapax legomenon’, uno od il minor numero possibile di significati compatibili con i vari contesti. Mi auguro di essermi spiegato.
L’opera di Marco Aurelio è composta da un totale di circa 30.260 parole. Escludendo dal computo congiunzioni, particelle, preposizioni e pronomi, essa risulta formata da 3367 vocaboli diversi, dei quali il 4,8% (esattamente 163) sono nomi propri. Dei 3204 vocaboli che non sono nomi propri 1768, ossia il 55,2%, sono ‘hapax legomena’, cioè vocaboli usati una sola volta.
Il numero di ‘hapax legomena’ è notevole, se paragonato al corrispondente valore riscontrabile nell’opera omnia di Epitteto. Questa si compone, infatti, di un totale di circa 84.900 parole e risulta formata, escludendo i nomi propri, da 4292 vocaboli diversi, dei quali soltanto 1485, ossia il 34,6%, sono ‘hapax legomena’.
Pur con tutte le cautele del caso, una differenza così significativa -1768 vocaboli unici su 30.260 parole in Marco Aurelio, contro 1485 vocaboli unici su 84.900 parole in Epitteto- potrebbe effettivamente avvalorare la conclusione che il testo dell’opera di Epitteto sia la fedele registrazione di un parlato dal vivo, mentre l’opera di Marco Aurelio sia un testo prima abbozzato, poi corretto e infine letterariamente rifinito. Le mie traduzioni, comunque, tengono conto di queste loro diverse caratteristiche.