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Isocrate – A Demonico

Questa Orazione fu probabilmente composta da Isocrate tra il 374 e il 372 a.C. Dal testo si ricostruisce che il giovane Demonico viveva in uno Stato retto a monarchia, che suo padre Ipponico era probabilmente originario di Cipro, godeva di una certa notorietà, era di esemplare carattere, era amico di Isocrate ed era morto di recente. L’Orazione ha la forma di un trattatello di Etica pratica e contiene precetti sulla condotta appropriata nelle relazioni dell’uomo con gli Dei, con gli altri uomini (specialmente parenti ed amici) e con se stesso, al fine di un armonioso sviluppo del proprio carattere. L’Orazione appare mancare di unitarietà tanto nella forma quanto nello spirito, riducendosi ad una sequela di massime per lo più sconnesse e mescolate con materiale tratto da varie fonti. Di questa Orazione è anche stata messa in dubbio l’autenticità quale opera di Isocrate.

Traduzione
di
Franco Scalenghe

Traduzione
di
Giacomo Leopardi

Per molti aspetti, o Demonico, troveremo grande disparità tra le intelligenze dei galantuomini e gli intelletti degli uomini da nulla: ma è soprattutto nelle relazioni intime che essi si differenziano in sommo grado. Infatti gli uomini da nulla onorano gli amici soltanto quando sono presenti, mentre i galantuomini hanno cari gli amici anche quando siano lontani o assenti; e mentre un breve lasso di tempo basta a dissolvere le relazioni intime tra gli uomini da nulla, neppure l’eternità intera riuscirebbe a cancellare le amicizie tra i galantuomini. Pertanto, ritenendo io confacente che quanti desiderano la fama e ambiscono ad educarsi si diano ad imitare i galantuomini e non gli uomini da nulla, ti ho inviato in dono questo discorso; a testimonianza del mio affetto per voi e quale segno delle mia intima relazione con Ipponico: giacché si confà che i figli ereditino, come le sostanze, così pure le amicizie del proprio padre. Vedo, inoltre, che la fortuna ci soccorre e che la presente occasione è propizia, giacché tu hai un ardente desiderio di educazione ed io mi dedico ad educare gli altri; che tu sei pienamente maturo per la filosofia e che io lavoro al perfezionamento di quanti la praticano.  Ora, quanti compilano per i loro amici dei discorsi protrettici, pur non dedicando il tempo alla parte più essenziale della filosofia, mettono certamente mano ad un’opera degna. E però quanti introducono i giovanetti non alle tecniche grazie alle quali esercitare con valentia l’arte oratoria; bensì fanno in modo che essi, quanto ai modi di agire, reputino di essere nati per vivere da galantuomini, giovano a quanti li ascoltano assai di più, in quanto i primi li esortano a fare discorsi mentre i secondi perfezionano il loro modo di vivere. Perciò noi, senza inventarci esortazioni ma mettendo per iscritto ammonimenti, intendiamo consigliarti quali cose è d’uopo che i giovanetti desiderino, da quali opere essi si astengano, con quale sorta di uomini conversino ed in quale modo amministrino la propria esistenza. Giacché soltanto quanti hanno fatto questo percorso di vita sono potuti giungere davvero alla virtù, della quale nessun possesso è più solenne e più saldo. L’avvenenza? Il tempo la consuma o una malattia la fa appassire. La ricchezza di denaro? È servitrice del vizio piuttosto che della nobiltà d’animo, giacché spalanca le porte alla pigrizia ed invita i giovani ai piaceri del corpo. Il vigore fisico? Se congiunto a saggezza, è di giovamento; ma senza di essa, più che altro danneggia chi lo possiede, giacché adorna i corpi di quanti lo tengono in esercizio, ma ne ottenebra la sollecitudine per l’animo. Il patrimonio rappresentato dalla virtù, in coloro nei quali essa sia concresciuta autenticamente con la capacità di pensiero, è la sola cosa che ci accompagna fino alla vecchiaia; che vale ben più della ricchezza di denaro; che è più proficua della nobiltà di stirpe; che rende possibili cose impossibili agli altri; che regge coraggiosamente eventi spaventevoli per le moltitudini; che valuta l’ignavia degna di biasimo e la fatica, invece, di lode.     Ciò è facilmente decifrabile dall’esame delle fatiche di Eracle e delle imprese di Teseo, giacché la virtù del carattere impresse alle opere loro uno stampo di tale celebrità che neppure l’eternità intera potrà infondere oblio su ciò che essi effettuarono. Inoltre, rimemorandoti le opere proairetiche di tuo padre, avrai in famiglia un bell’esempio delle cose che ti vengo dicendo. Egli, infatti, non trattò la virtù con negligenza né passò la vita in pigrizia, ma allenò il corpo alle fatiche e resse animosamente i pericoli. Neppure ebbe smodatamente cara la ricchezza di denaro, bensì fruì dei beni del momento come si confà ad un mortale e fu sollecito di quanto possedeva come si confà ad un immortale. Né usava egli governare la sua vita con miserevole servilismo; essendo anzi amante del bello, munifico e alla mano con gli amici. Faceva inoltre più conto dei galantuomini che aveva intorno che di quanti gli erano congiunti per parentela, giacché riteneva che socialmente valessero molto di più la natura della legge, il carattere della  parentela e la proairesi della necessità. Se volessimo enumerare tutte le sue gesta, l’intero tempo a nostra disposizione verrebbe meno. Le illustreremo con precisione in altre occasioni, mentre ora abbiamo composto e rendiamo pubblico un abbozzo della natura di Ipponico, mirando al quale come ad un paradigma bisogna che tu viva, ritenendo per te una legge il suo modo di condursi e facendoti imitatore ed emulo della virtù di tuo padre; giacché, se i pittori raffigurano le bellezze degli esseri viventi, è vergognoso che i figli non imitino i genitori quando costoro sono dei galantuomini. E sta pur certo che a nessun atleta conviene così tanto esercitarsi per combattere gli avversari come conviene a te considerare quale sia il miglior modo per diventare, quanto a condotta di vita, un degno competitore di tuo padre. Ma è impossibile che sia disposta in questo modo l’intelligenza di chi non è equipaggiato di molti e buoni ammaestramenti, giacché per natura i corpi si rafforzano grazie a fatiche fisiche ben equilibrate e l’animo con ragionamenti da galantuomini. Perciò io proverò a sottoporti succintamente le condotte di vita grazie alle quali io penserei che tu possa fare il massimo profitto nella virtù ed ottenere il plauso di tutti gli altri uomini. In primo luogo mostrati pio e devoto nelle faccende che attengono agli dei, non soltanto con l’offrire sacrifici ma col mantenere fede ai giuramenti. Infatti l’offrire sacrifici è segno di abbondanza di denaro, mentre il rispetto dei giuramenti è garanzia certa di nobiltà ed eccellenza di carattere. Rendi onore al potere divino sempre, e soprattutto in occasioni pubbliche: giacché così facendo apparirai sacrificare agli dei e contemporaneamente attenerti alle leggi. Nei confronti dei genitori procura di comportarti come ti augureresti che si comportassero i tuoi figli con te. Quanto al corpo, fa gli esercizi ginnici che giovano alla sua salute, non quelli che ne accentuano il vigore. Ed otterrai questo risultato interrompendo gli esercizi faticosi quando hai ancora molte energie di riserva. Non mostrare apprezzamento per risate precipitose e non approvare un discorso sfrontato, giacché la prima è cosa dissennata e la seconda è roba da pazzi. Ciò che è vergognoso fare, ritienilo neppur bello da dire. Abituati ad essere non accigliato bensì riflessivo, giacché nel primo caso sembrerai scostante e nel secondo invece saggio. Credi fermamente che a te convengano soprattutto decoro, verecondia, giustizia e temperanza, giacché il carattere dei giovanetti appare essere tenuto a freno soprattutto da queste virtù tutte insieme. Se hai fatto una cosa vergognosa, non sperare mai che essa rimanga nascosta, giacché se pur essa restasse nascosta agli altri, ne avrai conoscenza tu. Abbi timore degli dei, onora i genitori, rispetta gli amici, ubbidisci alle leggi. Va’ a caccia dei piaceri che comportano buona fama, giacché il diletto che s’accompagna al bello è cosa ottima, ma senza di esso è la peggior cosa che ci sia. Guardati dalle calunnie, anche qualora siano false: giacché i più ignorano la verità e han lo sguardo volto all’opinione. Mostra di fare ogni cosa come se nessuna di esse rimanesse nascosta: giacché se pur sul momento tu potessi nasconderla, in seguito essa sarà di certo risaputa.       Avresti il plauso di molti soprattutto qualora tu apparissi non effettuare cose che rimprovereresti agli altri di fare.   Se sei desideroso di apprendere, apprenderai molte cose. Quelle che sai con certezza, custodiscile con l’esercizio; mentre quelle che non hai appreso fa’ di aggiungerle alle tue conoscenze, giacché l’ascoltare un ragionamento proficuo e non apprenderlo è simile al non accettare un bel dono offertoti da degli amici. Spendi il tempo libero che avrai in vita nell’ascoltare con attenzione i discorsi ben ragionati, giacché in questo modo ti accadrà di apprendere con facilità ciò che altri hanno inventato con grande difficoltà. Tieni per certo che molti ammaestramenti valgono ben più di molto denaro; giacché quest’ultimo lo si perde in fretta, mentre quelli restano con te per sempre: di tutti i possessi, infatti, solo la sapienza è immortale. Non ti rincresca, dunque, di fare un lungo cammino per raggiungere quanti professano di insegnare qualcosa di proficuo; giacché è vergognoso che i mercanti trapassino mari tanto vasti al fine di incrementare le loro esistenti sostanze e che invece i giovanetti non reggano neppure la fatica di un viaggio per terra al fine di rendere migliore il loro intelletto.    Diventa un uomo cortese nei modi e affabile nei discorsi, appartenendosi alla cortesia dei modi il rivolgere la parola a coloro che si incontrano e all’affabilità il colloquiare familiarmente con loro. Tratta piacevolmente con tutti, ma intrattieniti con i migliori; giacché così facendo non risulterai odioso ai primi e diventerai amico dei secondi. Non fare frequenti colloqui con le medesime persone e non intrattenerti a lungo sui medesimi argomenti, giacché di tutto c’è sazietà. Allenati a sopportare fatiche scelte da te volontariamente, così da poter poi reggere quelle che non sei stato tu a scegliere. Su tutte le passioni dalle quali è vergognoso che l’animo sia padroneggiato: dunque sulla cupidigia di guadagno, sull’ira, sui piaceri fisici, sull’afflizione, esercitati ad avere piena padronanza. E l’avrai se legittimerai come guadagno le azioni da cui otterrai buona fama e non quelle dalle quali ricaverai denaro in abbondanza. Quanto all’ira, se avrai verso coloro che aberrano un atteggiamento simile a quello che apprezzeresti che gli altri avessero nei tuoi confronti quando fossi tu a commettere qualcosa di aberrante. Nel caso poi delle azioni dilettevoli, se concepirai come vergognoso comandare ai domestici ed essere invece servo dei piaceri fisici; e nel caso dei dispiaceri, se getterai uno sguardo alle sfortune altrui e ti ricorderai di essere un uomo.  Serba le confidenze che ricevi con maggior cura dei depositi di denaro, giacché bisogna che gli uomini dabbene si mostrino dotati di un carattere più affidabile e leale di un giuramento. E credi che tanta è la sfiducia che conviene avere per i malvagi quanta è la fiducia che s’ha da avere per i probi. Circa i segreti, non parlarne ad alcuno: ma solo se sarà similmente utile a te che ne parli ed a coloro che li ascoltano che i fatti rimangano taciuti. Accetta che ti sia imposto di giurare soltanto in due occasioni: o per sciogliere te stesso da un’accusa infamante, o per salvare degli amici in grandi pericoli. In ogni caso, per faccende di denaro non giurare mai su alcun dio, neppure se tu intendessi giurare il vero; giacché alcuni penserebbero che stai giurando il falso, mentre altri che lo fai per amore del denaro.  Non farti amico di persona alcuna prima d’avere accuratamente indagato come in precedenza costui abbia trattato gli amici; giacché ti devi aspettare che egli si comporterà così come si è comportato con quelli. Diventa amico di qualcuno poco per volta, ma quando tu lo sia diventato prova a rimanerlo; giacché è similmente vergognoso non avere neppure un amico e cambiare molte compagnie. Non mettere alla prova gli amici con tuo danno, e però non voler avere dei compagni che tu non abbia messo alla prova. Questo riuscirai a fare, se simulerai il bisogno di qualcosa pur non avendone bisogno. Mettili quindi a parte di notizie che possono essere divulgate, come se fossero dei segreti. In caso di insuccesso, non ne subirai alcun danno; e in caso di successo stabilirai meglio il loro carattere. Valuta gli amici dalle loro reazioni sia davanti alle sfortune della vita che dalla comunanza con te nei pericoli; giacché noi saggiamo ciò che è d’oro col fuoco e vagliamo gli amici nelle sfortune. Sicché tu tratterai nel miglior modo possibile gli amici se non aspetterai che essi abbiano bisogno di te, bensì se spontaneamente sarai loro d’aiuto nei momenti opportuni. Legittima quindi come cose similmente vergognose sia il lasciarsi vincere dai nemici nel fare il male, sia il lasciarsi sconfiggere dagli amici nel fare il bene. Accogli quali compagni non soltanto coloro che si rammaricano delle tue disgrazie, ma anche coloro che non ti invidiano per i tuoi successi; giacché molti stanno in pena per gli amici quando sono sfortunati e però li invidiano quando se la passano bene. Ricorda gli amici assenti a quelli presenti, affinché non paia che tu ti darai ben poco pensiero dei presenti quando saranno assenti.  In fatto di abbigliamento, prendi la decisione d’essere uomo di buon gusto e non un bellimbusto. Dell’uomo di buon gusto è caratteristica l’eleganza, del bellimbusto la stravaganza. Circa i beni che possiede, non aver cara la smisuratezza del patrimonio, bensì la sua equilibrata fruizione. Disprezza coloro che s’industriano per arricchirsi e sono incapaci di usare i beni che hanno; giacché costoro patiscono una sorte simile a quella di chi acquisisse un ottimo cavallo e però fosse un pessimo cavaliere. Prova a suddividere la ricchezza in beni d’uso e beni di proprietà. I beni d’uso sono adatti per quanti sanno fruirne, le proprietà per quanti possono acquisirle. Apprezza le sostanze che possiedi per due motivi: il primo è per poter pagare una grande multa; il secondo è per aiutare un amico galantuomo che si trovi in difficoltà. Per ogni altro rispetto abbile care non oltremisura ma con equilibrio. Sii affezionato a quel che hai, ma ricerca il meglio. Non rinfacciare ad alcuno una sua sventura, giacché comune è la fortuna e imprevedibile è il futuro. 

Isocrate (436-338 a.C.)

Fa’ del bene ai buoni, giacché il favore di cui un galantuomo ci sia debitore è un gran bel tesoro. Se invece farai del bene ai malvagi, patirai la sorte che tocca a quanti danno del cibo ai cani altrui. Questi, infatti, abbaiano non meno a costoro che ai passanti, e i malvagi sono ingiusti tanto con chi loro giova quanto con chi reca loro danno. Odia gli adulatori come gli ingannatori; infatti entrambi, ottenuta la fiducia, sono ingiusti con chi ha dato loro fiducia. Se tu accoglierai come amici quanti ti favoriscono nel perseguimento di ciò ch’è volgarissimo, non avrai in vita tua amici invisi perché perseguono ciò ch’è nobilissimo. Sii conversevole con chi ti avvicina, e non fare il solenne. Anche gli schiavi faticherebbero a tollerare l’arroganza di quanti li guardano dall’alto in basso, mentre tutti sopportano con piacere persone di carattere conversevole. E sarai persona conversevole se non sarai litigioso, indisponente, uno che vuole sempre avere ragione con tutti, che s’avventa con violenza contro il prossimo in preda all’ira anche quando capita che sia ingiustamente adirato, bensì uno che lo lascia sfogare quando è nel pieno dell’ira e poi gli ribatte quando si sia calmato; uno che non tratta seriamente le cose da ridere e non gode di mettersi a ridere delle cose serie (giacché le azioni fuori tempo sono ovunque moleste); uno che se fa dei favori non li fa con mal garbo, come invece sperimentano i più, i quali li fanno e però rendono il servizio agli amici di malavoglia; uno che non fa le pulci su tutto, che è cosa pesante da sopportare; uno che non è censorio, che è cosa esasperante. Usa la massima cautela nei simposi, e se mai ti capiterà l’occasione di parteciparvi levati e vattene prima di essere ubriaco. Infatti la mente, qualora sia obnubilata dal vino, subisce la stessa sorte dei carri che proiettano a terra l’auriga; giacché allora i carri, privi di chi li dirige, avanzano nel più completo disordine, e pure l’animo traballa e cade in continuazione quando l’intelletto è stravolto.  Pensa da immortale con l’essere magnanimo; e da mortale col fruire in modo equilibrato dei beni che possiedi. Sta sicuro che l’educazione è un bene tanto maggiore della maleducazione quanto è certo che tutti effettuano altre malvagità guadagnandoci, ma che la maleducazione già di per se sola è una punizione per l’uomo. Spesso, infatti, i maleducati pagano nei fatti il fio di offese fatte a parole. Se vorrai farti degli amici, dì qualcosa di buono a loro riguardo a coloro che gliene saranno messaggeri; giacché fondamento dell’amicizia è una lode, come una denigrazione lo è dell’inimicizia.  Se ti consigli sul da farsi, fa’ degli avvenimenti passati un modello di quelli futuri; giacché la diagnosi più rapida su ciò ch’è oscuro si ottiene da ciò ch’è chiaro. Consigliati con lentezza sul da farsi, ma poi realizza rapidamente le decisioni prese; e tieni bene a mente che fattori decisivi per un successo sono: ad opera degli dei, la buona sorte; e nostra propria, il buon consiglio. Su faccende circa le quali avessi ritegno di parlare apertamente e volessi conferirne con alcuni tuoi amici, parlane loro come se si trattasse di cosa che riguarda qualcun altro. In questo modo ti renderai conto del loro pensiero e non sarà evidente il tuo. Qualora tu abbia intenzione di chiedere consiglio a qualcuno su tue faccende personali, considera per prima cosa come costui abbia governato le sue, giacché chi ha avuto cattivo intendimento nei fatti propri non darà mai buoni consigli su quelli altrui. Il massimo incentivo a consigliarsi è la considerazione delle sventure che discenderebbero dal non farlo, giacché noi abbiamo la massima cura della salute proprio quando rammentiamo le afflizioni che le ci infermità causano.  Imita i costumi dei re e persegui le loro imprese cui, giacché così parrai approvarli ed emularli. In questo modo ti accadrà di ottenere il plauso popolare, e di vedere rinsaldata la benevolenza dei re nei tuoi confronti. Ottempera alle leggi promulgate dai re, e tuttavia ritieni che legge suprema sia il loro modo di agire. Infatti, come chi fa politica in una democrazia deve prendersi cura del popolo, così a chi dimora in una monarchia conviene provare ammirazione per il re. Una volta assunto un posto di comando, non servirti per il governo di alcun uomo malvagio; giacché di tutti i falli che quello commetterà, la causa ne sarà fatta risalire a te. E ritirati dagli impieghi pubblici non più ricco ma più stimato, giacché la lode popolare è più importante di molto denaro. Non associarti e non farti avvocato di alcuna faccenda malvagia; giacché se aiuterai gli altri ad effettuarle, parrà che tu pure faccia le stesse cose.  Fa’ in modo di trovarti in una posizione di vantaggio rispetto agli altri e però tollera d’avere pari pari quel che hanno loro, affinché tu appaia desiderare la giustizia non per debolezza bensì per spirito di equità. Accogli pertanto con favore una povertà frutto di giustizia, piuttosto che una ricchezza frutto di ingiustizia. La giustizia, infatti, è tanto migliore del denaro quanto è inoppugnabile che il denaro giovi soltanto in vita, mentre la giustizia prepara una fama che dura anche dopo la morte, e che il denaro appartiene anche agli uomini da nulla, mentre con la giustizia è impossibile che i malvagi abbiano alcunché da spartire. Non emulare nessuno di coloro che traggono guadagno dall’ingiustizia, ed accogli piuttosto con favore coloro che soffrono perdite pecuniarie a motivo di giustizia; giacché i giusti sono avvantaggiati rispetto agli ingiusti se non altro per questo: il superarli in buone e nobili speranze. Abbi sollecitudine per tutto ciò che riguarda la tua vita ma soprattutto esercita la tua saggezza, giacché la cosa più grande contenuta in una piccolissima è una nobile mente in un corpo umano.  Quanto al corpo prova ad essere amante della fatica e quanto all’animo filosofo, affinché col primo tu possa realizzare quanto hai deliberato e col secondo tu sappia prevedere ciò che ti è utile fare. Qualunque cosa tu stia per dire, sopravvedila prima con intelligenza, giacché in molte persone la lingua corre ben più veloce dell’intelletto. Fa’ in modo che siano due i momenti opportuni per parlare: o su cose che chiaramente sai o su cose di cui è necessario parlare. Soltanto in queste due occasioni la parola vale più del silenzio, e nelle altre è meglio tacere che parlare. Abbi per legge che nessuna cosa umana è salda e sicura: così non sarai troppo lieto nella buona fortuna né troppo afflitto in quella cattiva. Rallegrati per le cose buone che ti accadono e affliggiti moderatamente per le cattive; ma in entrambi i casi non farlo vedere agli altri, giacché è assurdo tener nascoste in casa le proprie sostanze e poi andare in giro con stampato in fronte quel che si pensa.  Guardati con più cura da una denigrazione che da un pericolo, giacché bisogna che la morte sia una cosa spaventosa per gli uomini da nulla e che per i galantuomini lo sia invece il discredito in vita. Prova in ogni modo a vivere in sicurezza; e se ti avverrà di correre un pericolo, in caso di guerra cerca una salvezza cui si associ buona fama e non una nomea vergognosa. Il fato, infatti, ci ha condannati tutti a morte, e soltanto ai galantuomini ha riservato il privilegio di morire bene. Non meravigliarti se molte delle cose dette non si confanno all’età che hai ora. Ciò non mi è sfuggito, ma ho scelto deliberatamente di offrirti in un unico trattatello dei consigli che riguardano la tua vita presente e insieme di lasciarti delle prescrizioni valide per il futuro. Di queste ultime conoscerai facilmente l’utilità, mentre ti sarà ben arduo trovare chi ti dia consigli con animo benevolo. Io pertanto ho creduto di non dover pretermettere neppure uno di quelli che ho da darti, affinché tu non vada a cercare i restanti da qualcun altro ma possa trarli da questo mio scritto come da uno scrigno. 

Isocrate

Io sarei già molto grato agli dei se l’opinione che ho di te fosse non completamente errata; giacché troveremo che la maggior parte degli altri uomini, come si rallegra di consumare i cibi più piacevoli al gusto invece di quelli più salubri; così pure s’accosta di più, nel caso degli amici, a quelli disposti a delinquere con loro che non a quelli che li avvertono ed ammoniscono. Io però ritengo di avere conosciuto in te una persona che è il contrario di costoro, e ne prendo a garanzia la laboriosità che mostri per un’educazione ben diversa; giacché chi impone a se stesso di effettuare le azioni più nobili, degli altri uomini approva verosimilmente coloro che invitano alla virtù. E soprattutto ti infiammeresti di desiderio per le opere belle se capissi a fondo che da esse noi traiamo i piaceri veri e genuini. Se si è pigri e si hanno cari gli eccessi, tosto le afflizioni s’infiggono dentro i piaceri. Invece l’applicazione laboriosa alla virtù e il saggio governo della nostra vita, sempre ci danno le gioie sincere e più salde. E mentre nel primo caso, prima godiamo poi ci affliggiamo, nel secondo dopo le afflizioni abbiamo i piaceri. In tutte le opere che compiamo, noi non conserviamo tanto il ricordo del loro inizio quanto invece abbiamo chiara percezione della loro fine, giacché la maggior parte delle cose che riguardano la nostra vita noi non le effettuiamo per loro stesse, bensì ci affatichiamo in vista dei risultati che ne otterremo.  Pondera altresì che l’operare a casaccio è cosa che s’attaglia agli uomini da nulla, giacché su questo fondamento si basa fin dal principio la loro vita; mentre è impossibile che i saggi si disinteressino della virtù, poiché sono molti coloro che in questo caso li censurerebbero. Tutti gli uomini, infatti, non odiano i delinquenti tanto quanto coloro che affermano di essere persone per bene e invece non differiscono affatto da quelle volgari. Ed è verosimile che sia così, giacché se noi riproviamo coloro che mentono solo a parole, perché non chiameremo uomini da nulla quanti degradano se stessi con la vita intera? E giustamente si concepirebbe di costoro che non soltanto essi aberrano contro se stessi ma che tradiscono anche la fortuna. La fortuna, infatti, ha messo nelle loro mani denaro, fama, amici, ed invece essi si sono resi indegni della felicità a loro disposizione. Se, pur essendo io un mortale, bisogna che congetturi il pensiero degli dei, ritengo che essi manifestino soprattutto nel trattamento dei loro più stretti familiari quale disposizione hanno verso gli uomini da nulla e verso i galantuomini. Infatti, secondo quanto dicono i miti ed è creduto da tutti, avendo Zeus generato Ercole e Tantalo, per la sua virtù fece il primo immortale e punì invece il secondo con i più atroci supplizi per la sua malvagità. Utilizzando questi esempi, tu devi desiderare la nobiltà d’animo ed attenerti non soltanto ai precetti da noi esposti, ma apprendere le migliori opere dei poeti e leggere quelle degli altri sapienti, ove esse contengano qualcosa di proficuo. Infatti, come vediamo fare all’ape, la quale si posa su tutti i fiori e da ciascuno prende il meglio; così bisogna che quanti desiderano educarsi, di nulla siano inesperti ma raccolgano ciò ch’è proficuo dovunque si trovi. A stento, infatti, anche con tanta solerzia si riuscirebbe ad avere la preminenza sugli errori della natura.            

In molte cose, o Demonico, si vede essere non piccola varietà dai pensieri degli uomini buoni e d’assai a quelli delle persone triste e da poco, ma molto più si discorda l’una dall’altra gente nell’uso dell’amicizia. Perocché questi si sforzano di fare onore agli amici allora solamente che gli hanno dinanzi, quelli anco da lontano gli amano; e le familiarità dei tristi in piccolo tempo si sciolgono, ma le amicizie dei buoni nessuno spazio di tempo è bastevole a scancellarle. Adunque stimando essere conveniente che gli uomini desiderosi di fama e dediti alle lettere piglino a imitare non mica i tristi ma i buoni, mandoti donando questo discorso in segno così dell’amicizia che è tra noi due, come della dimestichezza ch’io ebbi già con Ipponico. Perocché bene è ragionevole che i figliuoli succedano nelle amicizie dei padri siccome nelle sostanze. Veggo ancora che la fortuna e il tempo ci favoriscono e ci sono a proposito, atteso che tu sei vago d’imparare, io procaccio d’insegnare altrui, e tu di presente attendi a filosofare, io sto indirizzando gli altri in questa medesima opera.

Quelli per tanto che scrivono ai loro amici certi tali discorsi per muovergli allo studio della eloquenza, fanno cosa buona, ma essi però non si adoperano intorno alla parte principale della letteratura. Coloro che ai giovanetti porgono di quegli avvertimenti e consigli che riguardano non a fargli esercitare nella eloquenza, ma sì a fargli venire in grado che essi, in quanto ai costumi, sieno riputati buoni e bennati, riescono di tanto maggiore utilità che non fanno gli altri sopraddetti, quanto che questi gli spronano allo studio del dire, quelli danno ordine e modo ai loro costumi. Onde io per tal cagione appigliandomi a questo secondo genere di scrittura, intendo proporti a quali cose debbano i giovanetti volgere il desiderio, quali azioni schifare, con quali uomini usare, come governare la loro vita. Ed abbi per fermo che solo per questa via la quale io m’ingegnerò di mostrarti, sono potuti gli uomini veramente giungere alla virtù, bene assai più pregevole e più durabile che qualunque altro. La bellezza o per età si consuma o si guasta per malattia. La ricchezza serve più alla tristizia ed alla dappocaggine che alla bontà ed al valore, come quella che dà luogo ed agio al vivere ozioso e che invita i giovani alle voluttà del corpo. La forza congiunta colla saviezza suole essere di profitto, ma divisa da quella è usata piuttosto di nuocere a chi la possiede; e come ella adorna il corpo di chi la esercita, così reca impedimento alla coltura dell’animo. Sola di tutti i beni la virtù vera e pura invecchia insieme con quelli nei quali nata, crebbe altresì con loro; questa val più che la ricchezza, fa più frutto che la nobiltà; per questa si rendono possibili quelle cose che sono impossibili altrimenti, quelle che sono spaventose alla moltitudine, essa intrepida le sostiene; reputa la oziosità vergogna, l’affaticarsi lode.

Ciò si comprende agevolmente dalle imprese d’Ercole e di Teseo, la virtù dei quali fece le opere loro tanto gloriose, che la memoria di quelle anco dalla eternità intiera non potrà essere spenta. Ma oltre di questo, se tu ricorderai col pensiero i costumi e i portamenti di tuo padre, avrai per tal modo un bello e domestico esempio di quello a che io mi propongo di confortarti. Perocché tuo padre non ebbe in piccolo conto l’essere virtuoso, non visse una vita pigra e codarda, anzi esercitava il corpo colle fatiche, coll’animo sosteneva fortemente i pericoli. Non amava le ricchezze fuori di modo, ma usando come mortale i beni che aveva, a un medesimo tempo teneva tanta cura delle cose sue, come se fosse stato immortale. Non fu nel tenore della sua vita abbietto e spregevole, anzi amatore dell’onesto e del decoroso, anzi magnifico, ed agli amici cortese e largo. Faceva più conto di quelli che lo amavano e si adoperavano per lui, che di chi gli era congiunto di parentela, perocché stimava che in quanto all’amicizia, valesse più la natura che la legge, i costumi che il sangue, la elezione volontaria che la necessità. Il tempo mi verrebbe meno se io volessi annoverare tutti i suoi fatti. In altre occasioni ci proveremo di esporli accuratamente. Ora ho voluto farti, come a dire, un abbozzo della sua natura, nel quale mirando, come in uno esempio, ti conviene regolare e formare la propria vita, proponendoti i costumi d’Ipponico quasi per legge, e facendoti imitatore della virtù paterna. Imperocché gran vergogna sarebbe che, dove i pittori si studiano di ritrarre le persone belle, i figliuoli non imitassero i genitori buoni. E sta sicuro che egli non si conviene tanto a nessuno atleta di esercitarsi per combattere cogli avversari, quanto a te di porre ogni studio per avere a essere buon concorrente d’Ipponico nei costumi e negl’instituti della vita. Ma di una sì fatta cosa è impossibile venire a capo, chi non abbia l’animo pieno di molti e begli ammaestramenti; essendo che, siccome colle temperate fatiche i corpi, così gli animi per natura si migliorano coi buoni ragionamenti dei letterati. Per le quali cose io mi sforzerò di mostrarti succintamente con quali instituti io creda che tu possa fare nella virtù il progresso maggiore, ed essere più riputato e lodato da tutti gli uomini.

Primieramente osserva ogni debito di pietà verso gli Dei, non solo con sacrificare, ma con mantenere i giuramenti, la qual cosa è indizio di costumi onesti e buoni, laddove il sacrificare è segno di ricchezza. Onoragli in qualunque tempo, ma specialmente insieme colla città, donde a un’ora medesima tu ti mostrerai pietoso verso di quelli ed ossequioso alle leggi. Circa i genitori pòrtati in quel modo appunto, come tu vorresti che i tuoi figliuoli si portassero verso di te. Degli esercizi del corpo fa di usare quelli che giovano alla sanità, non quelli che conducono alla robustezza, e questo ti verrà fatto se piglierai per costume di rimanerti dalla fatica innanzi che tu non la possa più sostenere. Guardati dal ridere smoderato e dalla baldanza nel parlare, perché quello è proprio degli sciocchi e questa dei pazzi. Pensa che quelle cose che sono vergogna a farle non sono anche oneste a dirle. Avvezzati a dimostrarti di una cera non mica accigliata, ma sì pensierosa e grave, perché da quella si acquista nome di superbo, da questa di assennato. Fa ragione che ti si convenga sopra tutto di essere composto, verecondo, giusto, temperante; perocché la costumatezza dei giovani pare che consista principalmente in queste cose. Non isperar mai, commessa un’azione brutta, che ella abbia a restare occulta. Imperocché quando ella rimanesse nascosta a tutti gli altri, sarebbe pur manifesta a te medesimo. Temi Iddio. Onora chi ti generò. Abbi verecondia degli amici. Ubbidisci alle leggi. Attendi a procacciare di quei diletti che sono congiunti all’onore e alla lode, perocché il piacere accompagnato coll’onesto è cosa ottima, altrimenti è la peggior cosa del mondo. Fa di tenerti libero da qualsivoglia imputazione, eziandio falsa; perché il più della gente non sanno la verità delle cose e guardano alla opinione. Governati in maniera come se ogni tuo fatto fosse per essere conosciuto da tutti gli uomini. Perocché se anco avrai facoltà di nasconderlo di presente, verrà tempo che egli si risaprà.

Volendo avere una buona riputazione, ingegnati massimamente di non far cosa che tu fossi per biasimare in altri che la facessero.

Molte cose saprai se tu sarai vago di sapere. Conservati coll’esercizio le cognizioni acquistate, e fa ogni diligenza d’imparare quello che tu non sai, considerando che non men brutta cosa è a non apprendere un buono ammaestramento che tu abbi udito, che a non accettare un dono che ti sia pòrto da un amico. Quel tempo che avrai libero dai negozi, spendilo nello ascoltare i letterati, e per tal modo t’interverrà di apprendere agevolmente quello che dagli altri fu trovato con difficoltà. E hai da tenere per certo che di così fatte cose sono molte che l’averle imparate val più di molte ricchezze, atteso che queste mancano in poco d’ora, ma quello si è un bene che resta sempre. Perciocché, di tutti gli averi, solo la sapienza non è sottoposta a potersi perdere. Non ti rincresca di pigliare un lungo cammino per andare a trovar quelli che fanno professione d’insegnar qualche cosa utile, perché certo egli è una vergogna a pensare che i mercatanti per accrescere le loro sostanze valichino tanti mari, e i giovani non sostengano di fare un poco strada per terra, a fine di migliorare le loro menti.

Dimóstrati nei modi gentile e compagnevole, al che si appartiene il salutare, l’interrogare e simili, di proprio moto; nelle parole attabile, al che si aspetta l’essere nei colloqui facile e famigliare. Usa cortesemente con chicchessia, ma dimesticamente solo coi migliori. Così gli uni non ti vorranno male e gli altri ti diventeranno amici. Non volerti intrattenere né molto spesso colle medesime persone, né molto lungamente sopra le stesse materie, perché tutto sazia a lungo andare. Di tratto in tratto pigliati qualche fatica volontariamente per assuefarti, sicché tu possa reggere a quelle che ti converrà pigliare per necessità. Sfòrzati di signoreggiare tutte quelle passioni dalle quali si disdice all’uomo di essere signoreggiato; ciò sono la cupidigia della roba, l’ira, la sensualità, la tristezza. Ed egli ti avverrà di signoreggiarle se tu reputerai per guadagno quelle cose per le quali tu sarai, non più ricco, ma più pregiato; se per li mancamenti degli altri tu non ti adirerai più di quello che tu vorresti che gli altri si adirassero teco ove tu fallassi; se giudicherai star male e disconvenirsi all’uomo comandare ai famigli e servire alle libidini; se in ogni tuo sinistro ti rivolgerai per la mente le calamità degli altri e la condizione della tua natura.

Metti più diligenza in serbare i depositi, per dir così, di parole, che quelli di danari; perciocché ogni uomo da bene dee dare a vedere che più fede si meritino i suoi costumi che i suoi giuramenti. Fa conto che egli bisogna così diffidarsi dei tristi come fidarsi dei buoni. Non comunicare i segreti a chicchessia, salvo se il tacerli non fosse utile a quelli a cui tu gli rivelassi, non meno che a te proprio. Non pigliare a far giuramento se non se per l’una delle due cause, o di liberarti da una imputazione ignominiosa, o di salvare un amico da qualche pericolo. Ma per causa di danari o di roba non voler mai giurare a nessuno iddio, se bene tu fossi per farlo con verità; perché la gente penserebbe che tu spergiurassi o che tu ti movessi per avarizia.

Non ti obbligar per amico a nessuno che tu non abbia indagato il modo come egli sarà proceduto verso gli amici accostatiglisi prima, perché non hai da aspettare che egli ti riesca diverso da quello che avrà fatto a loro. A prendere le amicizie si vuole andare a rilento, ma prese, sforzarsi di conservarle, perch’egli è disdicevole parimente a non avere nessuno amico e a mutargli spesso. Non si vuol fare esperienza degli amici con proprio danno, né starsene senz’avergli provati. Per questo tu dei fingere alcun bisogno che tu non abbi, e comunicare agli amici alcuna cosa la quale si possa divulgare, e raccomandarla che se l’abbiano in segreto. Così, quando essi ti manchino, tu non ne riceverai nocumento, e quando non ti manchino, tu gli conoscerai meglio. Giudicagli massimamente secondo che ti riescono nelle sventure e nei pericoli che ti occorrono, essendo che egli si conosce l’oro nel fuoco e gli amici nelle avversità. Per la tua parte, tu procederai verso loro nel miglior modo, se non aspetterai che essi ti richieggano, ma spontaneamente, quando lor farà di mestieri, gli aiuterai. E pensa che a lasciarsi vincere dagli amici nei benefizi è cosa non manco vituperevole che a lasciarsi superare nelle offese dagl’inimici. Abbi in molto pregio non solamente quelli de’ tuoi familiari che si attristano del tuo male, ma eziandio quelli che non si attristano del tuo bene, imperocché sono molti che pigliano dispiacere delle avversità dell’amico, e nelle prosperità gli hanno invidia. Degli amici assenti fanne menzione coi presenti alcuna volta, acciocché questi pensino che, eziandio lontani, tu non mancherai d’avergli a memoria.

Nel vestire segui la eleganza e la magnificenza, ma non le attillature e le squisitezze. Non amar che la roba ti soprabbondi ma sì bene di usarla moderatamente. Fatti beffe di quelli che vanno dietro alle ricchezze e non sono buoni a servirsi di quel che hanno, perché questi tali sono come chi avesse un cavallo bellissimo e non sapesse cavalcare. In somma ingegnati di sapere e goder le ricchezze ed usarle bene. E fa molto conto della tua roba per due rispetti: l’uno, per poter pagare, occorrendo, una multa grossa; l’altro, per poterne sovvenire a un amico d’assai che fosse in qualche miseria. Per ogni altro rispetto non volerla stimare più che mezzanamente. Abbiti per lieto e pago della tua condizione: tuttavia cerca di vantaggiarti. Non rimproverare a persona del mondo una sua mala ventura; perché la fortuna è comune e l’avvenire incerto.

Fa beneficio ai buoni. Perocché se un uomo da bene ci ha obbligo di un servigio, egli è come avere un bel capitale riposto. A giovare ai malvagi, t’interverrà come a quelli che danno mangiare ai cani altrui, perché questi abbaiano non meno a chi porge loro che agli altri, e i malvagi fanno parimente ingiuria a chi gli benefica e a chi gli offende. Non altrimenti abbi in odio chi ti adula che chi t’inganna, perché gli uni e gli altri, se tu li credi, ti nocciono. Se tu accarezzerai quegli amici che ti gratificheranno in cose cattive e brutte, tu non ne avrai di quelli che per fin di bene si mettano a pericolo di venirti in odio. Nel conversare dimostrati umano e trattabile, che è cosa che piace a tutti; non duro, non disdegnoso, che non lo possono patire appena gli schiavi. A volere esser trattabile e conversevole, ti bisogna fuggire la ritrosia, non istare troppo in sui punti, non appiccar lite per ogni cosa; quando altri si adira, eziandio se a torto, non te gli avventar fieramente addosso colle parole, ma cedergli in su quel suo caldo, poi riposato quell’impeto, allora riprenderlo; non trattar gravemente le cose da ridere, né pigliare in giuoco le gravi, imperocché tutto quello che è fuor di luogo rincresce sempre; e quando tu fai piacere agli altri, non farlo spiacevolmente, a uso di molti, che ben fanno servigio agli amici, ma con mal garbo e come di mala voglia; e non esser vago di querelare altrui, che è cosa molesta, né di riprendere, che suole irritare gli animi. Dalle compagnie del bere guardati più che puoi. Ma occorrendoti di trovarti a qualcuna, levati su prima di esserne alterato, perocché la mente che sia stravolta dal vino è simile a un carro, il quale, perduto il cocchiere, non avendo chi lo indirizzi, è tirato qua e là scompigliatamente. E così quella, per avere l’intelletto guasto, incorre in mille disordini.

Tu dèi sentire e operare più che umanamente, con essere generoso e magnanimo; ma tu hai da procedere come uomo, con fare un misurato uso delle tue facoltà. Considera che la scienza e la erudizione tanto è più da anteporre all’essere degl’idioti, quanto che tutte le altre cose cattive si usano con profitto proprio, ma la ignoranza sola è di pregiudizio a coloro che l’hanno in se. Ai quali spesse volte accade che avendo offeso altrui con parole, essi ne portano pena di fatto. Volendo entrare in amicizia con qualcuno, tocca una cosa o un’altra in lode di quello a tali che gliel rapportino. Perocché la lode è seme di amicizia, siccome di nimistà il biasimo.

Nel deliberare proponti dinanzi agli occhi, quasi come esempi, le cose passate, e pigliane argomento delle future. Imperciocché la via più spedita a conoscere le cose occulte, si è di farne giudizio dalle palesi. Delibera adagio ed eseguisci spacciatamente. E ricordati che i due beni maggiori che possa aver l’uomo al mondo, sono, da Dio la buona fortuna, e da se medesimo il buon consiglio. In caso che tu volessi conferire di alcuna tua faccenda con uno amico, e ti vergognassi a favellargliene apertamente, favella mostrando che egli sia fatto d’altri, e per questo modo ti verrà conosciuto il parere dell’amico senza scoprirti. Quando tu sei per chieder consiglio ad alcuno sopra i casi tuoi, guarda innanzi tutto come egli si è governato nei casi propri; perché quelli che nei fatti loro provveggono male, non troveranno mai buon partito nei fatti d’altri. A procedere poi consigliatamente in ogni negozio t’indurrà sopra ogni altra cosa il pensiero dei mali che nascono dalla inconsiderazione, nel modo che egli si ha più cura della sanità quando altri si ricorda dei patimenti che porta seco la mala abitudine corporale.

Imita i costumi dei principi, e va dietro a quelle medesime cose a cui vanno essi; perch’egli parrà che tu gli approvi e che tu li reputi per esempi da seguitare; onde t’interverrà che la moltitudine ti avrà maggiore opinione, e la grazia di quelli ti verrà conservata meglio. Anco le leggi state poste dai principi ti si convengono osservare, ma tu dei far conto che la legge più forte di qualunque altra, sieno i costumi di essi principi; atteso che siccome a quelli che vivono laddove il reggimento è del popolo, bisogna gratificare alla moltitudine, così quelli che dimorano laddove è monarchia, deggiono coltivare il re. Assunto a qualche magistrato, non volerti servire di gente trista a nessuno ufficio, imperocché le persone daranno la colpa a te del male che faranno quelli. Procaccia di uscire delle amministrazioni pubbliche non più ricco di prima, ma più lodato, perciocché la lode dell’universale val iù che non poche ricchezze. Non intervenire a misfatti e non pigliarne a patrocinare, perché altri penserà che tu faccia di cotali azioni quali saranno quelle agli operatori delle quali tu t’impaccerai di dare aiuto.

Fa di condurti in grado tale, che tu possa avvantaggiarti dagli altri se tu volessi, ma contentati della condizione uguale alla loro. Acciocché tu mostri di seguitare il giusto, non per impotenza, ma per moderazione d’animo. Abbi più cara una povertà congiunta colla giustizia, che una ricchezza ingiusta. Perocché le ricchezze non giovano all’uomo se non solamente in vita, dove che la giustizia ci fa gloriosi anche dopo morte; e di quelle partecipano ancora i malvagi, ma di questa non possono mai essere a parte. Non avere invidia a nessuno il quale tu vegga far guadagno per via d’ingiustizia, ma piuttosto ama ed onora quelli che scapitano per amore della rettitudine. Imperocché i giusti, quando nessun altro vantaggio abbiano dagl’iniqui, certamente gli vincono nelle buone speranze. Abbi cura di tutto ciò che ti si appartiene, ma sopra tutto di addestrare ed esercitare il senno tuo proprio. Cosa grandissima, contenuta in una picciolissima, si è in un corpo umano una mente buona.

Ama e proccura l’uso delle fatiche nel corpo, la sapienza nell’animo, acciocché tu possa coll’uno recare ad effetto le risoluzioni prese, coll’altro conoscere i partiti migliori. Nessun detto mai ti esca di bocca, che tu non lo abbi considerato prima nel tuo pensiero; contro all’usanza di molti, nei quali la lingua precorre all’intendimento. Se niuna cosa umana reputerai stabile e ferma, tu non sarai troppo lieto nella fortuna prospera né soverchiamente tristo nella contraria. Non si vuol favellare se non solamente in due casi: o quando la necessità lo richiede, o quando altri ha piena contezza di ciò che egli è per dire; poiché solo in questi due casi meglio è parlare che tacersi; dove al contrario in tutti gli altri, meglio è il silenzio che la favella. Rallégrati delle prosperità e dolgati degl’infortuni moderatamente, ma non lasciare scorgere agli altri né quella tua letizia né questo dolore; perché certo ella è cosa stoltissima tener le robe riposte e celate in casa, e andar coll’animo scoperto e visibile a tutti.

Guàrdati più dalla mala fama che dai pericoli, essendo che egli si convenga ai tristi e agli sciocchi temere la fine della vita, agli uomini buoni e savi temere di essere sottoposti all’infamia vivendo. Ingegnati sì bene di vivere in sicurtà. Ma in caso che egli ti avvenga di correre alcun pericolo, cerca nella guerra quello scampo che è congiunto alla buona, non quello che alla cattiva fama. Perciocché tutti parimente ci condannò il fato a morire, ma solo ai valorosi e buoni assegnò la natura un fine onorato. E non ti maravigliare se molte delle cose dette di sopra non sono acconce alla età nella quale ti ritrovi ora; perciocché ancora io lo sapeva bene, ma ti ho voluto in una scrittura medesima porgere di quei consigli che si confacessero alla tua vita presente, e lasciarti di quelli che si appartenessero alla futura. Dei quali, come sarà tempo, tu conoscerai facilmente la opportunità, ma non così di leggeri troverai chi si faccia con animo benevolo a consigliarti. Perciò m’è paruto non lasciar cosa alcuna indietro di quelle che mi sovvenissero da proporti a osservare, a fine che tu non avessi a procacciar da altri quelle che mancassero qui, ma nella occorrenza tu le potessi cavare da questo ragionamento, come da un ripostiglio.

Io sarei tenuto agli Dei come di un beneficio grande se la opinione che ho di te non riuscisse vana. Noi veggiamo la più parte degli altri, siccome tra i cibi anteporre i più dilettevoli ai più salubri, così degli amici accostarsi a quelli che si fanno loro compagni nelle opere biasimevoli, piuttosto che a quelli che gli avvertono ed ammoniscono. Ma riguardando alla diligenza e prontezza che tu dimostri negli altri tuoi studi ed esercizi, io mi persuado che tu sia d’opinione e d’animo contrario a costoro: imperciocché uno che da se stesso s’induce a seguitare le cose buone, è da credere che abbia in grado coloro che lo esortano alla virtù. Ed all’amore delle cose onorate questa considerazione sopra ogni altra t’infiammerà, che da quelle noi riceviamo i diletti più puri e più veraci del mondo. Perciocché nell’uso della infingardaggine e della lussuria, tosto i dolori e le molestie s’appigliano e si mescolano alle dolcezze, ma dall’esercizio della virtù e dalla modestia della vita, sempre si raccolgono piaceri schietti e durabili. E dove da quelle altre cose prima riceviamo il piacere e poscia il contrario, da queste all’incontro dopo i travagli si riportano le dolcezze. Ora in ciascheduna cosa noi sentiamo il fine assai più che non abbiamo a memoria il cominciamento, e la maggior parte delle azioni si fanno, non per se, ma per rispetto di quello che ne dee nascere.

Considera altresì che agli sciocchi e da poco è lecito operare a caso, per aversi eletta insino da principio questa cotal maniera di vita; ma quelli che vogliono parere assennati e valenti non possono mancare di attendere alla virtù, o bisogna loro incorrere nella riprensione di molti. Perocché non tanto sono odiati quelli che procedono male, quanto coloro che fanno professione di costumi lodevoli, e negli effetti non si diversificano punto dalle persone volgari. E in verità se quelli che dicono bugia pur di parole sono riprovati da ciascuno, molto ragionevolmente saranno reputati tristi coloro che mentiscono, per dir così, con tutta la vita. E si potrebbe dire che questi tali non solamente peccano contra se stessi ma sono eziando traditori nella fortuna, la quale gli fornì di ricchezze, di riputazione e di amici, ed eglino si sono renduti indegni della felicità ricevuta. Che se ad uomo mortale non si disdice far qualche congettura dell’animo degli Dei, pare a me che anche questi abbiano dato ad intendere in che disposizione sieno verso i malvagi uomini e verso i buoni, e ciò massimamente in certi a se congiuntissimi di sangue. Imperciocché avendo Giove, secondo che narrano le favole ed è creduto da tutti, generato Ercole e Tantalo, l’uno per la sua virtù fece immortale, l’altro per la tristizia punì con supplicii gravissimi. Ai quali esempi guardando, si vuol fare ogni sforzo di giungere alla costumatezza e alla virtù, e non solo osservare le cose dette da noi, ma imparare oltre di ciò le migliori che abbiano scritte i poeti, e se gli altri sofisti hanno detto alcuna cosa utile, pigliare la fatica di leggerle. Imperciocché nel modo che noi veggiamo fare alla pecchia, la quale si posa in su tutti i fiori e da ciascuno prende quello che le fa profitto, medesimamente coloro che vogliono essere bene instituiti ed ammaestrati, debbono assaggiare, per dir così, di ogni cosa e da tutte le parti raccorre insegnamenti utili; essendo che, eziandio con questa fatica, appena si possono vincere i difetti della natura.

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Isocrate – Areopagitico

Nel 355 a.C. terminò con la sconfitta di Atene la deplorevole guerra che essa combatteva ormai da circa due anni contro Chio, Cos, Rodi e Bisanzio, ossia contro alcuni dei suoi stessi più potenti alleati, dei quali fu quindi costretta a riconoscere l’indipendenza. Nonostante la sconfitta, con la pace si diffuse ad Atene un generale senso di sollievo e di falsa sicurezza. Questo è il momento che parve opportuno ad Isocrate per indirizzare agli Ateniesi un’Orazione sulla salvezza dello Stato. Se è vero, afferma in essa Isocrate, che la forza di uno Stato non consiste nelle mura che lo circondano e nelle armi di cui dispone, bensì nella qualità dei suoi cittadini; allora Atene è ben lontana dall’essere sicura com’era duecentotrenta anni prima, ai tempi d’oro della democrazia di Solone e di Clistene, quando la suprema autorità dello Stato era rappresentata dal Consiglio dell’Areopago. Ed è l’autorità di questa istituzione che va ristabilita, se Atene intende allontanarsi dai mali di cui soffre ed essere nuovamente la salvezza non soltanto di se stessa ma di tutti i Greci. 

Traduzione
di
Franco Scalenghe

Traduzione
di
Giacomo Leopardi

Credo che molti di voi si domandino meravigliati in base a quale convinzione io abbia chiesto di intervenire in assemblea per parlarvi della salvezza dello Stato: come se lo Stato stesse correndo dei pericoli o il suo attuale governo fosse malsicuro; quando invece esso possiede più di duecento triremi, il suo territorio è in pace, comanda sul mare, e poi ha molti alleati pronti a venirgli in aiuto in caso di bisogno e molti di più che pagano i contributi dovuti e fanno quanto viene loro ordinato. Questi essendo i fatti, verosimilmente uno direbbe a noi di stare tranquilli, visto che siamo ben lontani dai pericoli; e direbbe invece ai nostri nemici che devono essere loro ad avere timore e a prendere delle decisioni circa la propria salvezza. Io so dunque che voi, usando questo ragionamento, sghignazzate del mio intervento qui e sperate di poter dominare tutta la Grecia con la potenza militare di cui disponete. Ma sono proprio queste valutazioni la causa del mio timore, giacché vedo che gli Stati i quali credono di godere ottima fortuna sono quelli che prendono le decisioni politiche peggiori, e quelli che si sentono più sicuri si trovano esposti al maggior numero di pericoli. Causa di ciò è che nessun bene e nessun male sopravviene agli uomini da sé solo, ma alla ricchezza e al potere assoluto sono state congiunte e conseguono la stolidezza e con essa l’impudenza; mentre alla mancanza di mezzi e alla bassa condizione, la temperanza e una grande misuratezza; sicché è arduo vagliare quale delle due parti si accetterebbe di lasciare in eredità ai propri figli. Noi infatti vedremmo che dalla condizione che sembra essere la peggiore, le imprese civili e militari progrediscono il più delle volte al meglio; mentre da quella che appare la migliore, esse solitamente precipitano verso il peggio. Di ciò posso portare moltissimi esempi tratti da vicende private, giacché queste vanno incontro a frequentissimi rovesci di fortuna; e nondimeno ben più grandi e più chiaramente noti a chi mi ascolta sono gli esempi che si possono trarre dalle vicissitudini accadute a noi e ai Lacedemoni. Infatti noi Ateniesi, dopo che la nostra città era stata ridotta in rovine dai barbari, poiché eravamo timorosi di sbagliare e dedicavamo ogni attenzione agli affari di governo, giungemmo a primeggiare tra i Greci. Successivamente, poiché credemmo di possedere una schiacciante superiorità militare, per poco non fummo ridotti in schiavitù. A loro volta i Lacedemoni, mossisi anticamente da cittaduzze insignificanti e miserabili, poiché scelsero un regime di vita guidato dalla temperanza e dalla disciplina militare, ottennero il controllo del Peloponneso. Dopodiché, messisi in capo progetti più grandi del dovuto e raggiunta la completa supremazia militare sia per terra che per mare, si trovarono esposti agli stessi pericoli conosciuti da noi. 

Pertanto chiunque ha piena fiducia nel presente stato di cose, pur conoscendo i tantissimi rovesci di fortuna avvenuti e che forze militari enormi sono state sbriciolate così rapidamente, è persona assai dissennata; specialmente perché il nostro Stato si trova oggi in una condizione di molto maggiore debolezza rispetto a quei tempi, e perché l’odio verso di noi degli altri Greci e l’inimicizia da parte del gran Re, che allora ci portarono ad una rovinosa sconfitta, si sono nuovamente riaccesi. A questo punto io sono incerto su quale concepire delle due: o non vi importa nulla delle questioni politiche; oppure ve ne preoccupate, ma siete giunti ad un punto tale di insensibilità che vi sfugge del tutto il grado di sconquasso al quale è ridotto lo Stato. A me, infatti, voi sembrate uomini disposti in quest’ultimo modo, visto che siete coloro i quali hanno perduto il controllo di tutte le città della Tracia, coloro che hanno speso vanamente più di mille talenti per arruolare truppe mercenarie, coloro che hanno provocato discredito e calunnie contro di noi tra i Greci e ci hanno fatto diventare nemici dei barbari; e, se ciò non bastasse, coloro che ci hanno costretto a salvare gli amici dei Tebani e fatto perdere i nostri propri alleati. E per queste belle imprese noi abbiamo già due volte offerto sacrifici agli dei come per delle buone notizie, e ci raduniamo adesso in assemblea per discuterne con un distacco e una tranquillità superiore a quella di chi stia eseguendo tutto ciò che deve. 

Ed è naturale che noi subiamo le conseguenze di quel che facciamo, giacché è impossibile che le cose vadano per il verso giusto a quanti non hanno ben deliberato sulla forma di governo dello Stato nel suo complesso. Infatti, se pure essi ottenessero buoni successi in certe imprese civili e militari, o per fortuna o grazie alla virtù di un uomo solo, passato un po’ di tempo si troverebbero di nuovo nelle stesse incertezze e difficoltà: come si potrebbe riconoscere dai fatti accaduti a noi stessi. Quando tutta la Grecia era caduta in nostro potere, dopo la vittoriosa battaglia navale di Conone e la campagna delle forze di terra comandate da Timoteo, noi non fummo capaci, neppure per breve tempo, di tenerci stretti quei fortunati successi, ma li sfregiammo e li dissolvemmo, poiché non abbiamo né ricerchiamo seriamente quella forma di Stato che sarebbe capace di gestire rettamente gli affari di governo. Eppure noi tutti sappiamo che i buoni successi sono duraturi ed arridono non a quanti si sono circondati delle mura più belle e più grandiose, né a quanti si sono raccolti con il maggior numero di uomini nel medesimo luogo, ma a coloro che meglio e più saggiamente governano il proprio Stato. L’animo di una città, infatti, altro non è che la sua forma Statuale, la quale ha tanto potere quanto ne ha la mente in un corpo. È infatti la mente che delibera su tutto, che ci fa preservare i beni e rifuggire le sventure. Ed è necessario che alla forma dello Stato si conformino le leggi, coloro che parlano in pubblico e i privati cittadini; e che così faccia ciascuno, quale appunto sarà lo Stato che avrà. Noi però non ci preoccupiamo affatto se la forma dello Stato è pervertita e guasta, e non prendiamo in considerazione il modo in cui la si potrebbe rettificare. Stando invece seduti davanti alle botteghe, lanciamo accuse contro la Costituzione vigente e diciamo che, quali cittadini, in democrazia non abbiamo mai vissuto peggio; ma nei fatti e nei pensieri abbiamo questa più cara di quella che ci lasciarono i nostri avi. È proprio sulla forma dello Stato che io intendo discutere e che mi sono iscritto per intervenire in assemblea. 

Se vorremo infatti tenerci lontani dai pericoli futuri ed allontanarci dai mali presenti, io trovo che l’unica via possibile sia questa: ristabilire quella democrazia di cui Solone, il personaggio più favorevole al popolo che sia esistito, dettò le leggi e che Clistene, lo scacciatore dei tiranni e l’uomo che ridiede il potere al popolo, restaurò dalle fondamenta. Sarebbe impossibile trovare una forma di Stato più di questa favorevole al popolo ed utile alla città; e di ciò è prova grandissima il constatare che quanti utilizzarono la democrazia, dopo avere effettuato molte e magnifiche imprese ed avere ottenuto il plauso di tutti gli uomini, presero il comando dei Greci con il deliberato consenso degli stessi; mentre coloro che desiderarono la forma di Stato che noi abbiamo adesso, odiati da tutti e dopo avere subito molte e terribili traversie, per poco non caddero nelle sventure più estreme. Come si può lodare questa forma di Stato e mostrare apprezzamento per quella che è stata in passato causa di mali così grandi, e che adesso ci porta verso il peggio anno dopo anno? Come si può non avere timore che avvenendo un siffatto continuo peggioramento, non si finisca da ultimo per sbattere contro vicende ancor più dure di quelle di allora? Ma affinché voi possiate fare una scelta e prendere una determinazione tra una forma di Stato e l’altra, non dopo avere ascoltato un’esposizione sommaria ma con conoscenza esatta del problema, è compito vostro quello di fare molta attenzione alle mie parole, mentre io proverò a discorrere per voi il più concisamente possibile circa entrambe le forme di Stato. 

Coloro che a quel tempo governarono la città, istituirono dunque una forma di Stato non nominalmente designato imparzialissimo e moderatissimo ma che nelle sue imprese civili e militari non appariva affatto tale a coloro cui capitava di farne parte, né una forma di Stato che educava i cittadini in modo tale che ritenessero l’impudenza essere la democrazia, l’illegalità la libertà, il linguaggio sfrontato la parità di diritti, e la potestà di fare tutto ciò la felicità; ma una forma di Stato che odiando e castigando siffatti comportamenti, rese tutti i cittadini migliori e più saggi. Ora, ciò che contribuì grandissimamente alla loro buona amministrazione dello Stato fu questo: dei due tipi di eguaglianza ritenuti esistenti -quello che assegna a tutti nella stessa misura, e quello che assegna a ciascuno ciò che gli spetta- essi non ignoravano quale fosse il tipo più proficuo, e quindi rifiutarono come ingiusta quell’eguaglianza che ritiene gli uomini probi e quelli malvagi degni del medesimo trattamento; prescelsero invece il tipo di eguaglianza che onora e castiga ciascuno secondo il merito, e di questo servendosi amministrarono lo Stato; senza quindi affidare gli impieghi Statali per estrazione a sorte tra tutti i cittadini, ma selezionando per ciascun ufficio i cittadini migliori e i più idonei, giacché speravano che anche gli altri avrebbero acquisito il carattere di quelli preposti agli affari di governo. Inoltre essi ritenevano che questa condizione fosse più favorevole al popolo di quella che derivava dall’estrazione a sorte, giacché in quest’ultima l’arbitro è la fortuna, e spesso le cariche vanno a coloro che desiderano assai uno Stato oligarchico; mentre con la selezione preventiva dei più capaci, il popolo è padrone di scegliere coloro che hanno più cara la presente forma di Stato. 

Del gradimento di cui questo ordinamento godeva presso la maggioranza e che non ci fossero contese per gli impieghi Statali, era causa l’essere i cittadini avvezzi a lavorare ed a risparmiare; a non disinteressarsi della roba propria per tendere invece insidie a quella altrui; a non provvedere alle proprie finanze con i fondi pubblici, anzi, se ci fosse stato bisogno, a sovvenire alle necessità comuni con i fondi propri di ciascuno; a non conoscere le entrate derivanti dagli impieghi Statali meglio e più esattamente di quelle rivenienti loro dal proprio autonomo lavoro. Essi si astenevano poi con tale puntiglio dall’uso dei fondi dello Stato, che a quel tempo trovare gente vogliosa di ricoprire posti di comando era più arduo di quanto sia ora trovare qualcuno che non ne faccia richiesta. Si riteneva, infatti, che il prendersi cura degli affari pubblici fosse non un commercio bensì un servizio reso alla comunità, e coloro che entravano in servizio non cercavano di scoprire fin dal primo giorno se quanti avevano avuto quell’incarico in precedenza avessero lasciato a portata di mano una qualche fonte di guadagno, ma piuttosto se avevano trascurato qualche affare di governo che richiedeva di essere sbrigato urgentemente. Per dirla in breve, quei nostri avi si erano resi conto che il popolo, quale sovrano dotato di potere assoluto, deve attribuire le cariche di comando, stabilire le pene per i delinquenti, procedere alle opportune determinazioni nei casi controversi; mentre quanti ne hanno tempo ed agio e possiedono adeguati mezzi di sussistenza debbono prendersi cura dei pubblici affari quali servitori del popolo, essere lodati se sono stati giusti e mostrare apprezzamento per questo onore che viene loro fatto; mentre se hanno governato male non devono ottenere alcun perdono, ma anzi incappare nelle massime punizioni. Come si potrebbe trovare una democrazia più salda e più giusta di questa, la quale incarica delle imprese civili e militari i cittadini più capaci e di questi medesimi fa sovrano assoluto il popolo? 

Siffatto era dunque per loro l’ordinamento costituzionale dello Stato, e da ciò si evince facilmente che giorno dopo giorno essi sbrigavano le normali faccende quotidiane rettamente e nel pieno rispetto della legge, giacché è necessario che coloro i quali hanno posto solide fondamenta alla condotta degli affari di governo nel loro insieme, anche nei particolari si comportino poi allo stesso modo. In primo luogo parliamo allora del culto degli Dei, giacché è giusto cominciare di qui. In proposito, quei nostri avi onoravano gli Dei e ne celebravano i riti in modo né irregolare né disordinato; qualora così paresse loro, non mandavano al sacrificio trecento buoi né capitava che tralasciassero di fare i sacrifici istituiti dai loro padri; non celebravano con enorme sfarzo le festività importate da paesi stranieri ed alle quali fosse associato un banchetto, mentre intanto, invece, nei più sacri dei templi offrivano sacrifici a prezzi pattuiti. A loro interessava serbare intatta una cosa soltanto: ossia non disciogliersi in nulla dai patrii costumi, né introdurre riti diversi da quelli legittimati dalla tradizione, giacché ritenevano che la pietà non consiste nello sperperare risorse ma nel nulla alterare dei riti loro tramandati dagli avi. Così operando, gli Dei dispensavano loro le stagioni non irregolarmente né a capriccio, bensì al momento opportuno tanto per lavorare la terra quanto per raccoglierne i frutti. 

Similare a quello verso gli Dei era il modo che essi avevano di governare i loro rapporti reciproci. Essi, infatti, andavano d’accordo non soltanto sulle questioni politiche, ma anche nella vita privata manifestavano gli uni per gli altri una previdenza tanto grande quanta è quella che s’addice ad uomini assennati ed a compatrioti. I cittadini più poveri, infatti, si astenevano a tal punto dal provare invidia per i più possidenti, che avevano a cuore le fortune delle grandi casate come fossero le loro proprie, ritenendo che il benessere di quelle significava la prosperità per loro. A loro volta, i possessori di molte sostanze non guardavano dall’alto in basso i più indigenti, e poiché concepivano essere per loro una vergogna il difetto di mezzi di sussistenza dei cittadini, venivano in soccorso ai loro bisogni e davano ad alcuni un terreno da coltivare per un affitto ragionevole, altri li inviavano all’estero per commerciare e ad altri ancora fornivano le risorse per attività diverse. Essi, poi, non avevano il timore di andare incontro ad uno di questi due inconvenienti: la perdita di tutto il denaro investito oppure, dopo molto brigare, il recupero soltanto parziale di quello anticipato; ché anzi essi nutrivano per il denaro dato in prestito la stessa sicura fiducia che avevano per quello che tenevano in casa. Essi vedevano infatti che i giudici incaricati di far rispettare i contratti non indulgevano a criteri soggettivi di equità, ma ubbidivano strettamente alle leggi; che essi, emettendo sentenze nelle cause altrui, non procacciavano a se stessi la potestà di operare poi ingiustamente, ma anzi che infierivano contro i debitori morosi più severamente di quanto richiesto dalle stesse persone offese; che essi ritenevano che quanti non onoravano i contratti sottoscritti recassero maggior danno ai cittadini poveri che a quelli facoltosi in quanto questi ultimi, se avessero cessato di prestare denaro si sarebbero privati di modesti introiti, mentre i poveri, se fossero venuti a mancare quanti li sovvenivano, sarebbero stati ridotti alla più estrema indigenza. A causa di questa convinzione, nessuno teneva celate le proprie sostanze né si peritava di prestare del denaro, e tutti vedevano chi chiedeva dei prestiti con maggior piacere di chi li restituiva. Ai cittadini facoltosi accadevano dunque entrambe le cose che gli uomini di mente sana vorrebbero: essi giovavano ai propri cittadini e contemporaneamente rendevano produttivo il proprio denaro. Il risultato capitale della loro ottima convivenza reciproca era quindi il seguente: la proprietà del patrimonio era sicura e garantita per coloro che ne avevano il legittimo possesso, mentre l’utilizzazione di queste risorse era comune ed aperta a tutti i cittadini che ne avessero bisogno. 

A questo riguardo, qualcuno potrebbe forse rimproverarmi perché lodo il corso delle cose come avvenivano a quei tempi, ma non mi esprimo sulle cause per cui i nostri avi regolavano così bene le relazioni tra di loro e altrettanto bene governavano lo Stato. Io credo di avere già detto qualcosa in proposito, e nondimeno proverò a discorrere ulteriormente e più chiaramente su di esse. Poiché gli Ateniesi di allora avevano la potestà di fare quel che volevano soltanto dopo essere stati esaminati ed ammessi tra gli uomini, non erano molte le persone che avevano cura di loro e li sorvegliavano negli anni della fanciullezza; sicché essi erano oggetto di attenzione e di controllo ben maggiore quand’erano nel pieno del loro vigore rispetto a quand’erano fanciulli. I nostri avi, infatti, ponevano un’enfasi così forte sulla temperanza del vivere che istituirono il Consiglio dell’Areopago affinché esso si prendesse cura del buoncostume dei cittadini. Dell’Areopago non potevano far parte che cittadini di nascita nobile e che avevano dimostrato grande eccellenza e sobrietà di vita; sicché, com’era verosimile accadesse, questo Consiglio si differenziò da tutte le altre assemblee della Grecia. Quale segnale dei costumi allora vigenti si potrebbe utilizzare anche ciò che avviene al presente. Ancora oggi, infatti, benché siano state dismesse tutte le regole circa la scelta e l’esame dei suoi membri, noi potremmo vedere che coloro i quali hanno in altre faccende dei modi di fare intollerabili, qualora salgano all’Areopago si peritano di indulgere alla loro natura e si attengono agli usi colà tradizionali piuttosto che dare sfogo alla propria viziosità. Tanto grande è la paura che i membri dell’Areopago ispiravano alle persone depravate, e così profondo è il ricordo che essi lasciarono in quel luogo della loro eccellenza di vita e della loro temperanza. 

I nostri avi, come dicevo, fecero dell’Areopago la suprema autorità in fatto di buona condotta dei cittadini. Questo Consiglio riteneva che siano ignoranti quanti credono che gli uomini sono migliori in quegli Stati nei quali le prescrizioni della legge sono espresse con la massima esattezza; giacché, in questo caso, nulla impedirebbe che i Greci avessero tutti leggi conformi, vista la facilità di prendere i testi di legge gli uni degli altri. Riteneva inoltre che lo sviluppo dell’eccellenza morale non sia elargito dalle leggi ben scritte, ma che promana dall’applicazione quotidiana della virtù, giacché la maggior parte degli uomini riesce conforme al costume morale al quale ciascuno di essi è stato educato. Di poi, che la pletora delle leggi e la loro minuziosità siano segnali che uno Stato è abitato da pessimi cittadini, giacché per fare argine ai crimini i suoi governanti sono costretti ad emanare molte leggi. Che quanti vivono da buoni cittadini non abbisognano di portici ripieni di leggi scritte, ma che hanno ‘il giusto’ scolpito nell’animo, giacché gli Stati sono ben governati non dalle votazioni ma dai costumi morali; e che gli uomini allevati male hanno l’audacia di trasgredire anche le leggi accuratamente scritte, mentre quanti sono stati bene educati vorranno attenersi anche a quelle buttate giù alla buona. Riflettendo su ciò, i membri dell’Areopago non presero per prima cosa in considerazione quali strumenti usare per castigare i cittadini che si comportavano male, ma di quali mezzi dotarsi per fare sì che essi non commettessero alcun crimine degno di pena; poiché ritenevano che questa fosse l’opera loro spettante, mentre il darsi da fare per ottenere la punizione del colpevole era affare dei nemici personali di quest’ultimo. 

Pertanto si preoccupavano di tutti i cittadini e soprattutto dei più giovani, giacché vedevano che gli individui di tale età sono preda di un turbine di passioni, traboccano di moltissime smanie e i loro animi hanno bisogno d’essere domati attraverso l’impegno in mestieri onorati e in fatiche gratificanti. Infatti, è soltanto a queste occupazioni che possono dedicarsi quanti sono stati nutriti alla libertà e sono abituati a pensare in grande. Non era però possibile indirizzare tutti alle medesime occupazioni, poiché l’esistenza di ciascuno trascorreva in condizioni di vita ben diverse. Essi allora disposero che ciascuno svolgesse un’attività acconcia alle sostanze di cui disponeva. Così indirizzarono all’agricoltura e al commercio quanti erano più scarsi di mezzi, sapendo che il difetto di mezzi di sussistenza nasce dall’inazione, e i crimini dal difetto di mezzi di sussistenza. Levando di mezzo la radice dei vizi, essi credevano così di tenere lontani i cittadini dagli altri crimini che nascono da quella radice. Essi impegnarono poi quanti possedevano sufficienti mezzi per vivere a praticare l’equitazione, la ginnastica, la caccia e la filosofia, vedendo che in queste attività alcuni riescono a distinguersi e ad eccellere, mentre altri si astengono così dalla maggior parte dei vizi. 

Una volta stabilite queste leggi, per il tempo restante essi non si abbandonarono al menefreghismo; anzi, dopo avere suddiviso la città in quartieri e il contado in demi, osservavano e giudicavano la vita di ciascun cittadino e portavano quelli scostumati davanti al Consiglio dell’Areopago, il quale ne richiamava verbalmente alla ragione alcuni, altri li minacciava, e altri ancora li castigava come conveniva. Essi, infatti, sapevano bene che sono solo due le modalità che incentivano gli uomini all’ingiustizia e altrettante quelle che li fanno cessare d’essere malvagi; giacché negli Stati in cui non è istituito il carcere per le azioni delittuose e non si fanno giusti processi, anche le nature di per sé buone tendono a guastarsi; mentre negli Stati in cui per gli ingiusti non è facile nascondersi né ottenere il perdono quando siano stati scoperti, qui le cattive abitudini tendono a svanire. Conoscendo queste modalità, essi tenevano i cittadini lontani dai crimini con entrambe, ossia tanto con punizioni esemplari che con una stretta vigilanza; e coloro che avevano commesso qualche crimine erano così lontani dal passare inosservati che essi si accorgevano in anticipo anche di coloro che avevano soltanto l’intenzione di compiere qualche malefatta. 

Pertanto i più giovani non passavano il tempo nelle bische o tra le suonatrici di flauto o con quel genere di compagnie con le quali adesso passano tutto il giorno, ma erano stabilmente impegnati nei mestieri ai quali erano stati assegnati, ammirando e cercando di emulare coloro che in essi primeggiavano. E rifuggivano talmente la piazza del Mercato che se qualche volta erano costretti ad attraversarla, mostravano di farlo con grande modestia e decenza. Replicare polemicamente alle persone più anziane o ingiuriarle, essi la reputavano una mancanza più terribile di quanto sia oggi ritenuto il mancare di rispetto ai propri genitori. Nessuno, neppure un domestico per bene, avrebbe poi avuto l’ardire di mangiare o bere in una bettola; giacché essi studiavano d’avere modi contegnosi, non di fare i buffoni; e le persone scurrili ed abili a motteggiare, che oggi chiamano spiritose, essi invece le ritenevano dei disgraziati. 

E nessuno creda che io sia maldisposto verso i giovani di quest’età, anzi sono consapevole che in grande maggioranza essi si rallegrano ben poco della situazione presente, in virtù della quale hanno la potestà di occupare il tempo in queste scostumatezze. Sicché, com’è verosimile, io non rimprovererei i giovani bensì, molto più giustamente, coloro che hanno governato lo Stato poco prima di noi. Sono stati costoro ad incentivare le giovani generazioni a questo menefreghismo e ad annullare il potere dell’Areopago; giacché quando a comandare era questo Consiglio, lo Stato non traboccava di processi, di querele, di imposte, di povertà e di guerre, ma i cittadini avevano tra di loro relazioni tranquille e convivevano in pace con tutti gli altri Stati. Gli Ateniesi, infatti, si mostravano leali con i Greci ed incutevano timore ai barbari, giacché erano stati i salvatori dei primi ed avevano punito così severamente i secondi, che questi avevano caro il semplice fatto di non subire da loro qualche altro male. Appunto perciò i nostri avi se la passavano in una sicurezza tale che le abitazioni e le masserizie situate nei campi erano più belle e di maggior valore di quelle situate entro le mura, e che molti cittadini non scendevano in città per le festività, ma preferivano rimanere tra i loro beni privati piuttosto che venire a godersi quelli pubblici. Anche in ciò che aveva a che fare con le processioni rituali, per prendere parte alle quali si veniva in città, essi procedevano senza stravaganze e senza fasto ma con buonsenso, giacché non valutavano il benessere cittadino dall’aspetto dei cortei, né dalle contese per superarsi l’un l’altro nella sontuosità dei cori o da altre siffatte cialtronerie, ma dal saper amministrare saggiamente la vita giorno dopo giorno e dal fatto che nessuno mancasse del necessario per vivere. Sono questi i segnali dai quali è opportuno giudicare se i cittadini vivono nel benessere e non come degli zotici. Poiché al giorno d’oggi quale persona benpensante non proverebbe dolore per come vanno le cose, qualora veda che molti cittadini Ateniesi davanti ai tribunali aspettano l’estrazione a sorte per sapere se avranno oppure non avranno il necessario per vivere, e però ritengono opportuno nutrire a proprie spese qualunque Greco voglia servire da rematore sulle navi da guerra di Atene; e qualora veda gente che partecipa ai cori vestita con manti dorati e però passa l’inverno in abiti di cui non voglio parlare; e qualora veda altri siffatte contraddizioni nel governo, le quali gettano un’enorme vergogna sullo Stato? Nessuna di queste cose accadeva quando a comandare era l’Areopago. Esso, infatti, allontanò i poveri dal difetto dei mezzi di sussistenza, dando loro dei lavori da fare e con il contributo dei cittadini possidenti; allontanò i più giovani dalle scostumatezze dando loro un mestiere e con la stretta vigilanza; allontanò i funzionari pubblici dallo spirito di soperchieria con punizioni esemplari e con la impossibilità per i colpevoli di passare inosservati; allontanò le persone più anziane dallo scoramento con onorificenze pubbliche e con l’assistenza dei più giovani. E invero come potrebbe nascere una forma di Stato più degna di questa, che si è presa cura così bene di tutte le faccende importanti? Abbiamo così discorso dello stato di allora della maggior parte delle cose, e da quanto ho riferito è facile capire che quelle di cui ho tralasciato di parlare stavano allo stesso modo. 

Ora, taluni che mi hanno sentito discorrere di questi fatti, ne hanno tessuto lodi sperticate ed hanno definito beati quei nostri avi per avere governato lo Stato a questo modo; e però hanno creduto che voi non vi convincerete mai a servirvi di un governo simile, ma che per consuetudine sceglierete di soffrire tutti i mali legati ai governi presenti piuttosto che condurre una vita migliore entro una forma di Stato più perfetta. E mi dissero anche che correvo il pericolo, consigliandovi per il meglio, di apparire come un odioso nemico del popolo e di cercare di gettare lo Stato nelle braccia di un governo oligarchico. Ora, se io stessi ragionando di un governo sconosciuto e non democratico, ed a questo riguardo vi stessi incitando ad eleggere i membri di una Costituente o quelli di un comitato ristretto per la sua costituzione, che è la via attraverso la quale la forma democratica dello Stato fu disciolta in precedenza, verosimilmente mi meriterei questa accusa. Io però non ho affatto detto una cosa del genere, ma ho discusso di un governo non occulto ai più bensì di uno a tutti palese, uno che tutti voi conoscete, che fu quello dei nostri avi, un governo che divenne causa di moltissimi beni sia per noi Ateniesi che per gli altri Greci, e le cui leggi, inoltre, furono stabilite e che fu istituito da uomini di levatura tale che non esiste persona al mondo la quale non ammetta essere stati quelli i cittadini in assoluto più amici del popolo. Sicché a me accadrebbe la cosa più strabiliante di tutte se, raccomandando l’introduzione di una siffatta forma di Stato, fossi reputato smaniare per la installazione di un governo rivoluzionario. Quale poi sia il mio pensiero è facile riconoscerlo anche da questo: dall’esame dei moltissimi discorsi che ho pronunciato risulterà infatti chiaro che io rimprovero i governi oligarchici e le soperchierie, e invece lodo l’eguaglianza politica e i governi democratici; certo non tutti, ma quelli stabiliti come si deve, ossia non alla cieca bensì legalmente e razionalmente. Io so che i nostri avi si sono molto distinti dagli altri popoli per la loro Costituzione, e che a questo riguardo i Lacedemoni sono oggi splendidamente governati perché si trovano a vivere in uno Stato democratico. Infatti, nella scelta dei magistrati, nella vita di ogni giorno e nelle altre occupazioni noi potremmo constatare che presso di essi vigono eguaglianza politica e rappresentatività più che tra tutti gli altri popoli; pratiche contro le quali i governi oligarchici combattono mentre quelli democratici le utilizzano costantemente. Ora, se vorremo indagare bene la faccenda, troveremo che i governi democratici sono quelli che più e meglio dei governi oligarchici si rivelano utili ai più noti e più grandi tra gli Stati; ed anche la nostra attuale forma di Stato, quella che tutti criticano, se la paragoniamo non a quella dei nostri avi della quale ho parlato, ma a quella istituita dai Trenta, non c’è persona al mondo che non la legittimerebbe come una creazione divina. Perciò, anche se alcuni affermeranno che vado fuori dal seminato, io voglio adesso mostrare e discorrere di quanto differisca lo Stato di oggi da quello dei Trenta, affinché nessuno creda che io vado indagando con troppa precisione tutti gli errori della democrazia e invece, se essa ha realizzato qualcosa di buono e di importante, questo lo trascuro bellamente. Il discorso non sarà lungo né senza giovamento per chi mi ascolta. 

Perdute dunque che avemmo le nostre navi da guerra in Ellesponto e incappato lo Stato in quei disastri che ne conseguirono, quale dei cittadini oggi più anziani non sa che i cosiddetti ‘democratici’ erano pronti a sopportare qualunque sacrificio pur di non fare quanto ci era ingiunto dai vincitori, giacché ritenevano spaventoso che la città che aveva preso la testa di tutti i Greci fosse vista in ginocchio ai piedi di altri Greci; e che invece i fautori di un governo ‘oligarchico’ erano pronti ad abbattere anche le mura della città e a sopportare pure la schiavitù? Chi non sa che quando il popolo aveva il controllo degli affari di governo, noi avevamo delle nostre guarnigioni di stanza nelle acropoli delle altre città; e che invece, dopo la presa del governo da parte dei Trenta, furono i nemici a presidiare la nostra acropoli? Chi non sa che al tempo in cui i Lacedemoni erano padroni assoluti in casa nostra, i cittadini Ateniesi esiliati ritornarono ed ebbero l’audacia di combattere per la libertà e Conone vinse quella battaglia navale, vennero qui degli ambasciatori inviati dai Lacedemoni i quali offrirono ad Atene la signoria del mare? Quale dei miei coetanei non ricorda che il governo democratico adornò a tal punto la città con templi e con edifici pubblici, che ancora adesso i forestieri che giungono qui reputano Atene degna non soltanto di comandare su tutti i Greci ma anche su tutti gli altri popoli; mentre invece i Trenta lasciarono gli edifici pubblici in completo abbandono, spogliarono e saccheggiarono i templi e, affinché fossero demolite, vendettero le darsene del Pireo per tre talenti, quando per costruirle la città aveva speso non meno di mille talenti? E per certo nessuno potrebbe secondo giustizia lodare il governo dei Trenta per essere stato più moderato di quello democratico. Infatti i Trenta, quando presero per decreto il potere, fecero uccidere senza processo millecinquecento cittadini, e ne costrinsero più di altri cinquemila a rifugiarsi al Pireo. I democratici, invece, quando si impadronirono della città muovendo in armi contro i Trenta, levarono di mezzo soltanto i cittadini che avevano le maggiori responsabilità per le stragi avvenute, e governarono il resto così bene secondo la legge che coloro i quali avevano esiliato altri non ebbero meno di coloro che erano tornati dall’esilio. Ma la più nobile e più grande prova della bontà e ragionevolezza del popolo è la seguente. Per poter proseguire l’assedio di coloro che si erano rifugiati al Pireo, i cittadini rimasti in Atene avevano contratto con i Lacedemoni un prestito di cento talenti; e quando si poté riunire l’Assemblea generale del popolo per trattare della restituzione del denaro, molti sostennero che, secondo giustizia, a liquidare la somma ai Lacedemoni dovevano essere coloro che avevano contratto il prestito e non gli assediati: e però la decisione popolare fu che la restituzione fosse fatta in comune. Con questa intelligente deliberazione essi fecero nascere tra di noi una tale concordia e crescere a tal punto il prestigio dello Stato, che mentre ai tempi del governo oligarchico non passava quasi giorno senza che i Lacedemoni ci ingiungessero cosa fare, ai tempi del governo democratico essi venivano da noi per supplicarci e pregarci di non permettere che fossero cacciati fuori dalle loro case. Dunque, il punto capitale del programma politico degli uni e degli altri era questo: i fautori dell’oligarchia volevano comandare sui cittadini e ubbidire come schiavi ai nemici; i fautori della democrazia volevano comandare sugli altri Stati e avere la parità tra i cittadini. Ho discorso su questo argomento per due motivi. Il primo è che ho inteso dimostrare di desiderare né governi oligarchici né soperchierie, bensì una forma di Stato giusta e ben ordinata. Il secondo è che ho inteso dimostrare come le democrazie, pur se mal costituite, siano causa di un minor numero di disastri rispetto a quelli causati dalle oligarchie; e come le democrazie ben governate siano ancora superiori, in quanto più giuste, più imparziali e più accettabili per quanti vivono in esse. 

Probabilmente qualcuno potrebbe chiedersi meravigliato cosa voglio quando, al posto di una forma di Stato che ha effettuato tante e così belle cose, cerco di persuadervi ad istituirne un’altra; e per quale motivo, avendo appena fatto l’encomio della democrazia, a mio capriccio cambio opinione e rimprovero ed accuso il presente ordine costituito. Dei privati cittadini io biasimo quanti fanno bene poche cose e male invece molte, e li ritengo persone più sciocche e da poco del dovuto. Inoltre, quando si tratta di discendenti di uomini virtuosi, i quali siano un po’ più per bene di gente che li supera in malvagità e però molto peggiori dei loro padri, costoro io li ingiurio e, dandosene l’occasione, consiglierei loro di smettere di essere tali. Ho la stessa convinzione anche per quanto concerne la politica, giacché credo che noi dobbiamo né vantarci né aver caro d’essere stati più rispettosi delle leggi di quanto lo siano stati uomini posseduti da cattivi demoni ed in preda alla pazzia, bensì molto più fremere di rabbia e dolerci se fossimo peggiori dei nostri avi. Noi infatti dobbiamo contendere con la virtù di quelli e non con la malvagità dei Trenta, visto specialmente che si conviene a noi di essere i migliori di tutti gli uomini. Io faccio questo ragionamento non adesso per la prima volta, ma l’ho già fatto spesso e davanti a molte persone. Infatti, io so con certezza che in altri luoghi s’ingenerano specie di frutti, di alberi e di animali che sono peculiari di ciascuno di essi e che sono molto diverse le una dalle altre; e so altrettanto che la nostra terra è capace di produrre e di nutrire uomini che sono dei fuoriclasse non solo nelle arti, nelle imprese civili e militari e nei discorsi, ma che eccellono anche per virilità d’animo e per virtù. Ciò si può giustamente arguire dalle antiche lotte che li opposero alle Amazzoni, ai Traci e ai Peloponnesi tutti, e dai pericoli che essi affrontarono durante le guerre Persiane; nel corso delle quali, da soli e con i Peloponnesi, in battaglie per terra e per mare, vincendo i barbari furono giudicati degni del primo premio del valore. E nessuna di queste imprese essi avrebbero potuto effettuare se non fossero stati di una natura molto superiore a quella degli altri. Ma nessuno creda che questo solenne elogio convenga a noi cittadini di oggi, anzi è tutto il contrario. Parole del genere, infatti, valgono a lode di quanti hanno dato prova d’essere degni della virtù degli avi, e suonano invece a condanna di quanti disonorano la nobiltà della stirpe cui appartengono con la loro ignavia e la loro codardia. E se si dice che questo è quel che noi facciamo, si dirà la verità. Infatti, pur esistendo in noi una così nobile natura, noi non l’abbiamo custodita intatta, ma siamo scaduti nella stolidezza, nella confusione e nella smania per delle malvagità. Ma continuando a rimproverare e condannare il presente corso delle cose, temo di divagare troppo e di allontanarmi dal mio proposito. Su questo ho già discorso in precedenza, e parlerò di nuovo se non mi riuscirà di persuadervi ad abbandonare i gravi errori politici che state commettendo. Dirò ancora brevemente qualcosa sull’oggetto iniziale del mio discorso e poi lascerò il posto a coloro che vogliono darvi ulteriori consigli sull’argomento. 

Infatti, se noi continuiamo a governare lo Stato come facciamo ora, non c’è per noi altra possibilità che quella di continuare a deliberare, a fare le guerre, a vivere, e in sostanza a subire e ad effettuare pari pari tutto ciò che facciamo adesso e che abbiamo fatto in passato. Se invece cambieremo la forma dello Stato, è manifesto che per la stessa ragione il nostro governo sarà uguale a quello dei nostri avi; giacché necessariamente dalle stesse istituzioni politiche discendono sempre imprese civili e militari simili o similari. Bisogna quindi porre le une accanto alle altre le grandi imprese civili e militari nostre e dei nostri avi, e poi deliberare quali scegliere. Per prima cosa analizziamo quale atteggiamento gli altri Greci e i barbari presero verso quella forma di Stato e quale atteggiamento essi hanno oggi verso di noi, giacché non è minimo il contributo che questi atteggiamenti danno al nostro benessere, qualora si tratti di una disposizione favorevole nei nostri confronti. Gli altri Greci avevano dunque una tale fiducia nei nostri governanti di allora che la maggior parte di essi si mise volontariamente nelle mani del nostro Stato. Quanto ai barbari, essi si astenevano a tal punto dall’impicciarsi degli affari degli Stati Greci che non navigavano mai con le loro navi da guerra al qua della città di Faselide, con le truppe di terra non attraversavano mai il fiume Alis e quindi se ne stavano del tutto calmi e tranquilli. Adesso invece, il governo ha preso una piega tale che gli altri Greci ci odiano e i barbari ci disprezzano. Circa l’odio dei Greci avete ascoltato la relazione che ne hanno fatto i nostri comandanti militari in persona. La disposizione che il Gran re ha verso di noi, l’ha manifestata lui stesso nelle lettere che ci ha inviato. Inoltre, dalla disciplina regnante a quei tempi i cittadini erano così educati alla virtù che non si molestavano tra di loro, e che vincevano in battaglia tutti coloro che invadevano il loro territorio. Noi invece facciamo il contrario: non lasciamo passare giorno senza infliggerci l’un l’altro qualche male, e ormai ci siamo a tal punto disinteressati della guerra che abbiamo l’ardire di non partecipare neppure alle rassegne militari se non siamo prima pagati con denaro sonante. Poi viene la cosa più importante di tutte. Allora nessun cittadino mancava del necessario per vivere, e non gettava vergogna sullo Stato chiedendo l’elemosina a coloro che incontrava. Adesso invece sono più i cittadini indigenti di quelli possidenti e vale davvero la pena di perdonare gli indigenti se non si interessano delle questioni politiche e prendono in considerazione soltanto il modo di tirare avanti giorno per giorno. 

Io ho chiesto di intervenire in assemblea ed ho pronunciato questo discorso poiché ritengo che se noi imiteremo i nostri avi, ebbene allontaneremo noi stessi dai mali di cui ho parlato e diventeremo i salvatori non soltanto del nostro Stato ma anche di tutti i Greci. Dopo avere ragionato su tutto ciò, votate ciò che a voi sembrerà più utile per Atene. 

Io stimo che molti di voi si meraviglino e non intendano che pensiero sia stato il mio di proporvi a deliberare della salute pubblica, non altrimenti che se la città fosse in pericolo o che il suo stato barcollasse, e quasi che ella non avesse per lo contrario più che dugento galee, pace nel suo territorio, la signoria del mare, non pochi confederati i quali, al bisogno, ci soccorrerebbero prontamente, e molti più che pagano la loro parte delle contribuzioni e fanno ogni nostro comando. Per le quali cose parrebbe in verità che a voi si convenisse stare coll’animo sicuro, come lontani da ogni pericolo, e che ai vostri nemici piuttosto si appartenesse di temere e di consultare della salute propria. Ed io so bene che voi, discorrendo tra voi medesimi in questa forma, vi ridete della mia proposta, e sperate di dovere colle vostre forze e facoltà presenti, ridurre e tenere alla vostra divozione tutta la Grecia. Ora da queste considerazioni medesime io prendo materia di temere. Perciocché io veggo quelle città che si pensano essere in migliore stato, peggio consigliarsi, e quelle che più si confidano e più baldanza hanno, essere sottoposte a maggior numero di pericoli. La cagione è che nessun bene e nessun male interviene agli uomini da se solo, ma colla ricchezza e colla potenza è congiunta, e tien loro dietro, la follia, e con questa insieme i petulanza; colla povertà e colla bassezza dello stato vengono la costumatezza e la moderazione. Tanto che malagevolmente si può conoscere quale delle due fortune debba l’uomo più volentieri lasciare ai figliuoli. Imperocché noi veggiamo da quella delle due che è tenuta per la migliore, le cose mutarsi il più delle volte in meglio, e per l’opposto da quella che mostra di essere la migliore, voltarsi in peggio. Esempi di ciò si possono raccorre in grandissimo numero dalle cose private, dove le mutazioni sogliono essere frequentissime, ma più manifesti e più grandi si possono prendere da quello che si vede essere avvenuto a noi medesimi e ai Lacedemoni. Imperocché noi dall’un canto, distruttaci dai Barbari la città, per aver temuto e posto cura, conseguimmo nella Grecia il primo luogo. Dall’altro canto, poiché ci credemmo essere tanto forti da non potere essere superati, ci recammo a tale che per poco non fossimo ridotti in ischiavitù. Similmente i Lacedemoni per antico, nati di terricciuole piccole e umili, vivendo modestamente e a uso d’uomini di guerra, ottennero il Peloponneso. Poi levàti in troppa superbia e baldanza, e fatti signori della terra e del mare, vennero in quegli stessi pericoli che eravamo venuti noi. Coloro per tanto i quali, comeché sappiano sì fatte grandissime mutazioni essere accadute, e grandissime potenze essere venute meno in sì piccolo spazio, pure si fidano del presente; per certo sono stolti: massime che la nostra città si trova oggi in molto minore stato che ella non si trovava nel predetto tempo; e che la mala volontà dei Greci verso di noi e la inimicizia del re di Persia, le quali allora ci vinsero, ora sono tornate in piede. Veramente io non so quale io mi debba credere delle due, o che a voi non caglia delle cose comuni né molto né poco, o vero che quantunque elle vi sieno a cuore, voi siate ciechi e insensati di modo che non veggiate in quanto disordine sieno ora i fatti del comune. Imperocché voi siete pur quelli che avendo perdute tutte le città che tenevate nella Tracia, speso invano in gente d’arme forestiera più di mille talenti, i Greci pieni verso voi di mal animo, il Barbaro inimico; oltre di ciò necessitati a salvare gli amici dei Tebani, e perduti i vostri confederati propri; per queste sì fatte cose avete sacrificato due volte solennemente, come è l’uso per le buone novelle, e ne venite e ne state a consiglio con quella medesima trascuraggine che voi potreste fare quando tutte le cose vostre procedessero prosperamente. Ma egli è ben ragione che tutto questo ci avvenga. Imperocché mai niuna cosa può procedere per acconcio modo là dove gli uomini hanno male deliberato di tutta la forma della repubblica. E quando pure questi tali riescano a buon fine di qualche negozio o per caso o per virtù di alcuna persona, passato poco tempo, ricaggiono nelle difficoltà di prima, siccome si può vedere da quello che è avvenuto a noi medesimi. I quali, essendo, dopo la vittoria navale di Conone e di nuovo dopo le imprese condotte da Timoteo, recata alla nostra soggezione tutta la Grecia, non potemmo pure per un picciolo spazio di tempo conservare queste felicità, ma in poco d’ora le dissipammo e perdemmo. Perocché noi non abbiamo, né anche cerchiamo di avere, uno stato di repubblica atto a bene maneggiare le cose. E per certo niuno è che non sappia come le cose prospere sogliono più che agli altri sopravvenire e durare non mica a quelli che hanno le mura più belle e più grandi, o che hanno la città più copiosa di popolo, ma sì a quelli che meglio e più regolatamente l’amministrano. Imperciocché l’anima delle città non è altro che lo stato, o vogliamo dire gli ordini della repubblica, i quali hanno tanto valore in quelle, quanto nei corpi la prudenza. Essendo che il deliberare di ciascuna cosa, e il conservare i beni e lo schifare i mali, non altro si appartenga che al reggimento; col quale anco è forza che si conformino le leggi, i dicitori e i privati, e che tali sieno le condizioni e tali gli andamenti di ciascheduno, quale è la forma della loro repubblica. La qual forma essendo ora qui appresso di noi pervertita e guasta, noi pure non ce ne diamo un pensiero al mondo, e non cerchiamo modo di rassettarla; anzi, se bene nelle corti e nei luoghi della ragione, vituperiamo lo stato presente delle cose e diciamo che mai, sotto il reggimento del popolo, non avemmo peggior condizione di vita civile, in fatti nondimeno e in pensieri abbiamo più in grado questa forma guasta, che non quella che ci lasciarono i nostri antichi. Della quale intendo di dover dire in questo ragionamento, siccome per iscritto ve la ho proposta a deliberarne. Imperocché io trovo che a volere ovviare ai pericoli futuri e riscuoterci dei mali presenti, non ci ha se non una via, cioè se noi vorremo riporre in piede quello stato di popolo il quale fu prima ordinato e constituito da Solone, uomo popolano quanto qualsivoglia altro, poi ristabilito da quel Clistene discacciatore dei tiranni e restitutore del popolo, e per se stesso è tale che noi non potremmo trovare uno stato né più popolare né che più conferisse al bene della città. Della qual cosa abbiamo un argomento grandissimo, che quelli che usarono il detto stato, condotte a fine molte ed egregie opere, e ottenuta fama e lode da tutti gli uomini, furono dai Greci volontariamente esaltati alla maggioria; e quelli per lo contrario a cui piacque lo stato presente, venuti in odio all’universale, e spesso afflitti da miserie gravissime, di poco mancò che non caddero nelle ultime disavventure. E per verità come si può egli lodare, anzi comportare, un reggimento che per addietro è stato cagione di tante calamità, e ora d’anno in anno va peggiorando di continuo? e come non si ha egli a temere che con questo tanto peggioramento, per ultimo non ci avvenga di trovarci a più duri partiti che non furono quelli d’allora? Ma perché voi possiate giudicare e scegliere tra l’uno stato e l’altro con distinta e particolare contezza, e non per cose dette sommariamente, io per la mia parte m’ingegnerò di esporvi, con quella brevità che io saprò maggiore, quanto appartiene al diritto conoscimento di ambedue gli stati, e voi converrà che dal canto vostro ponghiate attenzione a quello che io sono per dire.  Coloro per tanto che a quei tempi amministrarono la repubblica, ordinarono uno stato, non mica tale che con portare un nome popolarissimo e dolce, in fatto e alla prova riuscisse molto diverso; né anche ammaestravano i cittadini in maniera che eglino si riputassero la licenza essere stato di popolo; il dispregio delle leggi, libertà; la sfrenatezza del dire, egualità civile: e la facoltà di fare tutte queste cose, felicità; ma per lo contrario il detto stato, odiando e gastigando chi le facesse, rendeva i cittadini migliori e più costumati. E una cosa conferì grandissimamente alla loro prosperità, che prendendosi la egualità civile in due modi, l’uno per quella che dispensa con una misura a tutti, l’altro per quella da cui ciascheduno riceve secondo il merito, essi non ignorarono quale delle due veramente fosse più per giovare, ma riprovarono la prima come non giusta, perciò che ella tratta i buoni e i malvagi in un modo, e l’altra elessero, quale secondo il merito premia e punisce, e questa usarono al governo della città, non distribuendo i magistrati per sorte a qualunque si fosse indifferentemente di tutta la cittadinanza, ma preponendo a ciascuno ufficio i migliori e più atti. Perocché stimavano che ancora gli altri sarebbono stati tali, quali fossero quelli che reggessero le cose pubbliche. Anche pareva loro che questa così fatta dispensazione dei magistrati fosse più popolare di quella che si fa per sorte; considerando che in questa giudica il caso, e può spesse volte avvenire che i magistrati tocchino agli amatori della signoria di pochi, ma nella elezione de’ più acconci, egli è in facoltà del popolo di scegliere quelli che maggiormente amano lo stato presente. Che tali fossero i giudizi della moltitudine, e che niuno volesse contendere per l’acquisto dei magistrati, nasceva dall’essere i cittadini assuefatti alla fatica ed alla parsimonia, non trascurare la roba propria e in un medesimo tempo uccellare all’altrui, non sostenere colle facoltà del comune le case loro, anzi delle facoltà proprie, sempre che bisognasse, sovvenire al comune; e non conoscere meglio i proventi degli uffizi civili, che quelli che ciascheduno ritraeva dalle cose sue. Ed erano per sì fatto modo astinenti da quello del pubblico, che più malagevole era a trovare a quei tempi chi volesse ricevere i magistrati, che non è oggi a trovare chi non li voglia. Imperocché stimavano che la cura delle cose pubbliche non fosse, come a dire, un traffico, ma un servigio che la persona presta alla comunità; e non istavano insino dal primo giorno a cercare se mai per avventura quelli che erano stati per innanzi nell’ufficio, avessero pretermesso qualche guadagnuzzo da poter fare, ma sì bene se eglino avessero trascurato qualche negozio il quale si convenisse espedire sollecitamente. E a dire in breve, gli uomini di quel tempo erano di opinione che al popolo si appartenesse di eleggere i magistrati, punire i delinquenti, definire i piati e le controversie, come signore e principe; e quelli che avessero ozio e possessioni da vivere, dovessero attendere al maneggio delle cose pubbliche con quella cura medesima che se elle fossero loro proprie e familiari; e portatisi dirittamente, avessero a essere lodati e tenersi contenti di questo premio; avendo male amministrato l’ufficio, dovessero, senza commiserazione o grazia veruna, severissimamente essere puniti. Ora quale altro stato di popolo si potrebbe trovare che fosse o più giusto o più saldo di uno il quale preponga alle amministrazioni pubbliche i più sufficienti, e di questi medesimi costituisca signore il popolo? L’ordine per tanto di quello stato era così come io vi ho detto. Dalle quali cose potete comprendere di leggeri che gli uomini di quei tempi, eziandio in ciò che apparteneva al vivere di ciascun giorno, si portavano bene e ordinatamente; imperocché ragion vuole che a quelli che hanno gittato i fondamenti buoni circa alla forma del tutto, anco le parti riescano allo stesso modo. E per cominciare (come io credo che sia ragionevole) da quello che ha riguardo agli Dei, non erano i cittadini di allora né dissomiglianti da se medesimi né disordinati nel culto divino o nella celebrazione delle cose sacre, né secondo la voglia e la fantasia, tal volta, ponghiamo caso, menavano a sacrificare trecento buoi, tal altra pretermettevano insino ai sacrifici propri e consueti della città, o vero in alcuna festa nuova e forestiera ove si banchettasse, usavano magnificenza grande, e poi per contrario in alcun tempo de’ più santi sacrificavano del ritratto delle allogagioni; anzi avevano solamente l’occhio, così a non preterire in alcuna parte la consuetudine antica della città, come a non aggiungervi cosa alcuna; giudicando che la pietà non si dovesse misurare dalla grandezza delle spese, ma dal niente innovare nelle costumanze trasmesse dagli antenati. E vedesi veramente che per simil modo il cielo dispensava loro le stagioni e le qualità dell’anno, non iscompigliatamente e quasi alla cieca, ma opportune ed accomodate così alla coltivazione delle loro terre, come alle ricolte dei frutti. Né dissimile da quello verso gli Dei si era il modo che eglino tenevano insieme tra loto. Imperciocché oltre a essere concordi nelle cose pubbliche, ancora nelle private tanta cura prendevano gli uni degli altri, quanta si conviene a ben consigliati uomini e di patria compagni. Poiché dall’una parte i più poveri, non tanto che portassero invidia a quelli che avevano più, ma eglino intendevano alla conservazione e alla prosperità delle case dei grandi non meno che delle proprie, stimando che la ricchezza di quelli fosse quasi fonte che in loro medesimi si derivasse; e all’incontro i ricchi, non che usassero coi poveri superbamente, anzi recando a propria vergogna la inopia dei cittadini, soccorrevano alle loro necessità, dando a questi o a quelli terreno da coltivare per fitti ragionevoli, alcuni mandando a mercatantare, e a chi somministrando di che potessero per altre vie procacciare di loro guadagni. E facendo questo, non temevano che dovesse loro incontrare l’una delle due cose, o di perdere il tutto, o vero dopo molta briga ricuperare solo una parte di quello che avessero dato a usare; anzi non si tenevano meno sicuri di quanto al prestato, che fossero in quanto a quello che eglino si serbavano riposto in casa, vedendo coloro che amministravano la ragione sopra tali materie, non fare abuso di dolcezza e benignità, ma ubbidire alle leggi, e non si procacciare nelle cause altrui la facoltà di operare essi medesimi ingiustamente, anzi più sdegno prendere contro quelli che frodavano i creditori, che non prendevano le stesse persone offese, e credere che da coloro che falsavano la fede dei contratti, ricevessero maggior danno i poveri che i facoltosi. I quali quando si fossero rimasti dallo accomodare di loro danari o di loro roba, sarebbero privati di piccioli emolumenti; dove che i poveri, non avendo chi gli accomodasse del suo, sarebbono ridotti alla ultima necessità. E per tanto egli non ci aveva persona, che tenesse celate le sue ricchezze, o che di bonissimo animo non s’inducesse a fare accordi e contratti, tanto che i ricchi vedevano più volentieri chi veniva dimandando in prestanza, che non chi rendeva il prestato. Poiché dall’accomodare altrui di loro avere, intervenivano loro a un medesimo tempo due beni i quali sarebbono avuti cari da ogni uomo di sano conoscimento; l’uno, che essi facevano beneficio ai loro cittadini, l’altro, che mettevano la loro roba a guadagno. E in fine (quello che è la somma del buono e beato convivere cittadinesco) la possessione della roba, a quelli che possedevano di ragione, era salva e sicura, ma gli usi della medesima erano comuni indifferentemente a ogni cittadino al quale facessero di mestieri. Ma qui potranno essere alcuni che mi riprendano che lodando io le cose e i fatti di quei tempi, io non dica altresì le cagioni perché quegli uomini usassero così bene insieme, e governassero la città per sì acconcio modo. A me pare aver già toccato alquanto di questa materia, ma pure io vedrò di trattarla più per inteso e più divisamente. Coloro dunque, in cambio di avere nella fanciullezza molti sopraccapi, e poi così tosto come fossero dichiarati uomini, poter fare ogni loro piacere, più diligentemente erano sopravveduti nel fiore della età che nella puerizia. Imperocché i nostri passati ebbero sì fattamente a cuore la costumatezza, che a procurarla e custodirla ordinarono il consiglio dell’Areopago, nel quale non poteva sedere chi non fosse bennato, e nei fatti e negli andamenti non avesse dato segni di molta virtù e modestia. Onde esso consiglio ragionevolmente vinse di degnità e fama tutti gli altri che erano nella Grecia. E quale fosse egli a quei tempi, si può giudicare anco da ciò che noi veggiamo al presente. Perocché se bene ora sono dismesse tutte le pratiche antiche circa la elezione e le disamine di quelli che avessero a essere del predetto consiglio, nientedimeno si veggono eziandio quelli che nel resto della loro vita sono intollerabili, come salgono all’Areopago, non si sapere indurre a usar la loro natura, e piuttosto osservare gli ordini di quel luogo, che seguitare le proprie tristizie. Tanto timore posero quegli antichi negli animi dei malvagi, e tal memoria lasciarono della loro virtù e modestia in quella loro sede. Questo sì fatto consiglio dunque constituirono curatore e conservatore della costumatezza, avendo per fermo che sieno molto ingannati colori i quali si persuadono, là essere gli uomini migliori, dove le leggi sono più accuratamente fatte. La quale opinione se fosse vera, niuna cosa aver potuto impedire che i Greci non fossero tutti conformi, come quelli che potevano agevolmente prendere il tenore e i vocaboli delle leggi gli uni dagli altri. Veramente non per le buone leggi, ma per gli studi e gli esercizi quotidiani, la virtù prosperare e crescere; tale di necessità riuscendo la più parte degli uomini, quale si fu l’educazione e la instituzione loro. Di più, la moltitudine e la minuta squisitezza delle leggi essere indizio di città male accostumata. La quale affaticandosi di porre argini e serragli alle colpe, necessariamente divenire la quantità delle leggi grande. Richiedersi al buono e ordinato vivere cittadino, non le logge piene di scritte, ma la rettitudine stabilita negli animi. Non consistere esso nei bandi, ma nei costumi; e gli uomini male allevati facilmente muoversi e contraffare anco alle leggi accuratamente scritte, dove che i bene instituiti volere osservare eziandio le non bene ordinate. Per sì fatta guisa discorrendo e affermando seco medesimi, essi non si volsero a cercare prima di tutto, in che modo avessero a gastigare quelli che trasandassero nelle opere o nei costumi, ma con quali rimedi potessero conseguire che niuno s’inducesse a cosa meritevole di gastigo; questo giudicando essere ufficio loro, laddove lo ingegnarsi molto intorno alle pene, essere atto convenevole agl’inimici. Per tanto avevano cura di tutti i cittadini, ma principalmente dei giovani, vedendo quella età essere più turbolenta di qualunque altra e piena di maggior numero di appetiti, e gli animi giovanili aver maggior bisogno di essere disciplinati nell’amore dei buoni studi e nelle fatiche non disgiunte da piaceri. Alle quali cose sole, quando eglino fossero liberalmente nutriti, ed accostumati all’altezza del sentimento, giudicavano che essi avrebbero voluto attendere anco per innanzi. Ora, perciocché tutti non si potevano educare negli stessi esercizi, considerata la diversità delle fortune; essi governandosi secondo che comportavano le sostanze, chiunque di roba era poco agiato indirizzavano alla coltivazione e alla mercatura, sapendo che dalla oziosità nasce la indigenza, e dalla indigenza procedono i maleficii. Per la qual cosa rimovendo il principio dei mali, si pensavano ovviare ai misfatti che vengono appresso a quelli. A coloro poi che copia di beni avevano a sufficienza, assegnavano la cavalleria, gli esercizi del corpo, la caccia, la letteratura, e a queste cose gli costringevano a dare opera; vedendo che per sì fatti mezzi, alcuni riescono uomini di gran valore, altri sono tenuti lontani da infinite malvagità. Né si contentarono di fare cotali statuti e poi non vi porre niuna cura, ma divisa la città per contrade o quartieri, e il contado per villate o vero castella, osservavano i portamenti di ciascheduno, e chiunque vedevano che disordinasse, menavanlo dinanzi al Consiglio. Il quale riprendeva gli uni, minacciava gli altri, e tali, a proporzione del merito, gastigava. Imperocché sapevano bene come egli ci ha due modi che dispongono gli uomini a male operare, e due che gli ritraggono dalle cattività. Cioè a dire che là ove contro alle dette cose, da un lato non si fa guardia, dall’altro non è posta pena e non si procede per giudizi accuratamente, quivi anco le nature si guastano. Ma ove i malfat tori non possono leggermente restare occulti, né scoprendogli, essere perdonati, colà i perversi costumi al tutto si spengono. Per le quali considerazioni eglino con ambedue le cose cioè colle pene e colla vigilanza, contenevano i cittadini. E non che potesse schifar di venire alla loro notizia niuno che avesse commesso alcuna malvagia opera, ma eglino presentivano eziandio quelli che avevano pure in animo di malfare. E per tanto a quei tempi non si vedevano i giovani per le bische, né per le case delle sonatrici di flauto, né per tali raddotti dove oggi spendono tutto il dì; ma erano intenti ciascheduno a quell’arte o quello esercizio che gli era stato assegnato, con molta osservanza onorando e seguitando quelli che in tale esercizio o vero arte erano eccellenti. E fuggivano il Mercato in guisa, che se per alcuna occorrenza talvolta bisognava loro passare di colà, facevanlo con segni di verecondia e modestia grande. Contraddire ai più vecchi, o con male parole mordergli, reputavano maggiore enormità che non istimano adesso l’offendere i genitori. Di mangiare o di bere nelle taverne, non che altri, ancora un famiglio da bene non si sarebbe ardito. E per ultimo studiavano di essere contegnosi e gravi, e non già di fare del buffone e del giocolare, tanto che gli uomini beffardi e motteggiatori, che oggi si chiamano ingegnosi, essi gli avevano per isciagurati. Né si pensasse per avventura alcuno, che io fossi occupato da qualche sinistra disposizione dell’animo verso i giovani. Imperocché, oltre che io non gli stimo autori né colpevoli di quello che noi veggiamo avvenire al presente, eziandio so per cosa certa che i più di loro non amano a modo alcuno questo sì fatto stato per virtù del quale è lecito loro di vivere in tali scostumatezze. Di modo che essi con ragione non possono essere ripresi; ma ben più convenevolmente si deono biasimare coloro che ressero la città poco prima di noi. Perciò che essi furono quelli che diedero principio a questa presente negligenza, e spensero l’autorità e la forza del consiglio dell’Areopago, sotto il cui reggimento la città non era piena di liti, di accuse, d’imposte, di povertà, di guerre, ma tranquilla dentro e in pace al di fuori, come quella che era fida e leale ai Greci, formidabile ai Barbari, avendo salvati gli uni, e degli altri presa tale vendetta, che non pareva loro poco, se dai nostri fossero lasciati stare senza altra offesa. Adunque per queste cagioni vivevasi a quei tempi in una tanta sicurtà, che nelle ville si vedevano le case e le masserizie più belle e di più prezzo che dentro alle mura, e non pochi cittadini ci aveva che mai non venivano alla città, né anco per le feste, volendo innanzi stare a godersi i beni propri, che partecipare dei comuni. Perocché nello appartenente agli spettacoli, i quali avrebbero potuto muovere le persone a venire, si procedeva allora assennatamente, senza punto d’insolenza o di fasto; avvengaché non si misurava la felicità dalla pompa delle processioni, né dai gareggiamenti nella sontuosità dei cori, né da altre sì fatte borie, ma dalla modestia nel comunicare insieme, e dal tenore della vita giornaliera, e dall’essere ciascun cittadino sufficientemente fornito del bisognevole, dalle quali cose si vogliono prendere i veri argomenti del buono e prospero stato e del non odioso convivere cittadino. Poiché oggi, a dir vero, io non so come possa fare niuno che buon giudizio abbia, a non si attristare considerando lo stato delle cose, e veggendo alcuni cittadini, dinanzi alle curie, trarre a sorte se essi avranno o non avranno da vivere per se stessi, e questi medesimi volere che si conducano a soldo e si mantengano rematori greci, e certi danzare in drappi d’oro, e passare poi la vernata io non vo’ dire in che panni; e altre somiglianti contrarietà che occorrono nello stato presente, con grande ignominia pubblica. Niuna delle quali cose accadeva a tempo della signoria del Consiglio. Il quale sollevava i poveri dalla inopia coi benefizi del comune, e coi sussidi che erano prestati loro dai ricchi; ritraeva i giovani dalla licenza col sopravvegliarli che faceva, e cogli studi in che gli teneva occupati; gli ufficiali della repubblica dalle ingiustizie e soperchierie co’ gastighi e con fare che tortamente operando, niuno potesse restare occulto; i vecchi dall’ignavia colle dignità civili e colla riverenza e osservanza della gioventù. E in vero, quale altro più bello e più commendevole reggimento si può trovare di uno che per sì acconcio modo provvedeva a ogni cosa? Dunque dello stato di allora noi abbiamo detto il più, e ciascuno potrà di leggeri intendere che quanto si è tralasciato di dire, fu conforme e corrispondente a quello che si è ragionato. Ora avendomi alcune persone udito recitare le predette cose, mi diedero quelle maggiori lodi che si potevano, e dissero degni d’invidia essere i nostri antichi per avere usato questa forma di reggimento; ma in un medesimo tempo giudicarono che voi non potreste essere indotti a praticarla, ma che lasciandovi guidare alla usanza, torreste di voler prima patire i danni e le incomodità dello stato presente, che godervi con migliori ordini una vita migliore. Anche dicevano che io consigliandovi il vostro meglio, porterei pericolo di parere inimico del popolo, e darei materia di sospettare che io m’industriassi di ridurre la città sotto la signoria di pochi. Ora, se i miei ragionamenti fossero stati di cose sconosciute e nuove, e che io vi avessi confortato a eleggere consiglieri o dettatori che di quelle dovessero deliberare, nel qual modo fu spenta la podestà del popolo ai tempi addietro, io potrei ragionevolmente incorrere nelle dette imputazioni. Dove che io non ho detto cosa di cotal fatta, ma ho ragionato di un governo, non mica occulto, ma palese; il quale tutti sapete essere stato adoperato dai nostri antichi, e avere partorito innumerabili beni, non che alla nostra patria, eziandio agli altri Greci; oltre di ciò essere stato prescritto e stabilito da uomini i quali è forza che ciascuno si accordi a tenere per li cittadini più popolani che sieno stati mai. Di modo che ella sarebbe pur dura e indebita cosa che per confortarvi di ripigliare questo così fatto ordine di repubblica, io fossi riputato cupido di novità. Senza che di leggeri voi potete conoscere il mio sentimento anche da questo, che nella più parte delle aringhe e dei discorsi detti da me insino a ora, io condanno le signorie di pochi, le prepotenze, i privilegi; e lodo le ugualità e gli stati di popolo, come che non tutti, ma solo i bene ordinati, con rettitudine e buono accorgimento, e non alla cieca. E lodogli perciocché io trovo che i nostri antichi con un sì fatto stato si avvantaggiarono di gran lunga dagli altri popoli, e che i Lacedemoni hanno la più bella repubblica che sia di questi tempi, perché si reggono più popolarmente. E che questo sia vero, veggiamo che nella elezione dei magistrati, nell’uso del vivere quotidiano, e in qual si sia studio e instituto, seguono la egualità e la conformità più che gli altri popoli, cose combattute sempre dalle signorie di pochi, e sempre usate da quelli che si reggono per istato popolare bene acconcio. Così se noi vorremo por mente alle altre città, riandando un poco, troveremo che alle grandi e più rilevate, meglio conferiscono i reggimenti del popolo che quei di pochi. Essendo che questo medesimo stato nostro che tutti riprendono, se noi lo paragoniamo, non più con quello che io v’ho raccontato innanzi, ma con quello che fu al tempo dei Trenta, quasi che egli ci parrà una cosa divina. Io voglio, quando anche sieno per dire che io mi dilungo alquanto dal mio soggetto, ricordare qui e dimostrare quanta differenza sia dallo stato presente a quello di allora; acciò niuno dica che io vo molto sottilmente cercando e discutendo i falli del popolo e da altro lato se egli si trova pure che quello abbia fatta alcuna bella o nobile e degna opera, che io la passo in silenzio. Non sarà questa parte del mio ragionare né troppo lunga né senza qualche profitto degli ascoltanti. Perduto dunque che avemmo il nostro navilio nelle marine dello Ellesponto, e venuto il comune in quelle disavventure che ne seguirono, sanno bene i più vecchi che quelli che erano chiamati popolani o di parte di popolo, si dimostrarono apparecchiati a dovere innanzi sostenere ogni peggior cosa, che ubbidire ad altri; riputando grandissima indegnità che quel popolo che aveva avuto in mano il governo della Grecia, fosse veduto sottoposto alla dominazione altrui. E che questi tali furono esclusi dall’accordo. All’incontro quelli che volevano lo stato di pochi, disfatte con pronto animo le mura, agevolmente si acconciarono alla servitù. E laddove al tempo che il reggimento era in potestà del popolo, i nostri avevano in mano le fortezze degli altri, venuta la repubblica sotto i Trenta, la nostra fortezza medesima fu in possessione degl’inimici. E sanno ancora che a quel tempo la città fu serva dei Lacedemoni; ma poiché i fuorusciti, tornando, si ardirono a combattere per la libertà, e da Conone fu vinta quella battaglia marittima, essi Lacedemoni ci mandarono per loro ambasciatori cedendo la signoria del mare. E anco de’ miei coetanei chi è che non si ricordi come lo stato popolare da un lato, con tempii e con sacrifici, rendette adorna e splendida la città per modo che anche al presente la foresteria che vi capita la giudica degna di comandare a tutto il mondo, non che alla Grecia; e dall’altro lato i Trenta spogliarono i tempii, trascurarono i sacrifici, e furono allora venduti e dati a disfare gli arsenali per tre talenti, dove che la città ve ne aveva speso insino a mille? Né anche si troverà niuno che in quanto si è alla lode della mansuetudine, voglia anteporre al reggimento del popolo quelli di costoro. I quali recatasi in mano per virtù di un decreto la potestà della repubblica, mille e cinquecento cittadini ammazzarono senza forme giuridiche, e più di cinquemila sforzarono a rifuggirsi come esuli nel Pireo. I popolani in contrario, ricuperata la patria per virtù di armi e di vittorie, tolti solo di mezzo i principali autori delle calamità passate, composero le cose intra i cittadini con tanta giustizia e onestà, che i ripatriati non istettero pure di un menomo vantaggiuzzo al di sopra di quelli che gli avevano posti in bando. Abbiamo eziandio questo sopra tutti gli altri bellissimo e grandissimo testimonio della bontà del popolo, che avendo quelli di dentro pigliato a interesse dai Lacedemoni la somma di cento talenti per cagione dell’assedio del Pireo, che si teneva per gli usciti, ragunato il popolo per deliberare della restituzione di detta somma, e dicendo molti che il soddisfare ai Lacedemoni si apparteneva di ragione a chi aveva improntato i danari e non agli assediati, il popolo determinò che la restituzione si facesse in comune. Con sì fatti modi ci recarono a tanta concordia e tanto avanzarono la città, che i Lacedemoni, i quali a tempo dei Trenta ci mandavano, si può dire, ogni dì ordinando quello che piaceva loro, poi rimesso in istato il popolo, vennero chiamando mercede e pregando che non gli lasciassimo distruggere dai Tebani. E per dire in somma, le intenzioni delle due parti furono così fatte, che quella voleva comandare ai cittadini e servire ai nemici, questa comandare agli altri, e coi cittadini serbare l’ugualità. Queste cose mi è paruto toccare per due cagioni; prima per dare ad intendere che io non sono vago né di signorie di pochi né di prepotenze, ma di una buona e ben composta repubblica; poi per dimostrare che gli stati di popolo, eziandio se male ordinati, sono manco nocivi; e quando poi si reggono per buoni ordini, sono migliori e più degni che qualunque altre, per essere più giusti, più accomunati, e fare la vita più dolce. Forse non mancheranno di quelli che si maraviglino come io vi conforti a lasciare questo reggimento, che si trova avere operato tanti e così begli effetti; e in iscambio di quello, prendere un altro; e come avendo ora lodato si magnificamente lo stato di popolo, poi d’ora in ora, mutata opinione, io lo condanni e mi dolga delle cose presenti. Ora voi dovete sapere che se io veggo anche una persona privata fare alcune poche cose bene e molte male, io la riprendo, e tengo che ella sia da manco che non si conviene: e più, se questo tale è disceso di assai valent’uomini, e che egli sia pure un poco migliore che la schiuma degli scellerati, ma peggiore assai che gli antichi di sua famiglia, in caso tale io lo biasimo, e dandosi la occasione, io lo consiglierei di lasciare così fatto essere. Con ciò sia dunque che anco delle comunità io giudichi per gli stessi termini, stimo che a noi non si convenga troppo pregiarci né tener paghi se noi siamo stati migliori e più leali che alcuni sciagurati e matti, ma più presto sdegnare e avere per male se noi ci troviamo essere peggiori che i nostri passati; colla virtù dei quali e non colla malvagità dei Trenta ci abbiamo a paragonare: massime che a noi si conviene essere primi in eccellenza fra tutti gli uomini. Io non dico ora questa cosa per la prima volta, ma io l’ho detta già in molte occasioni e a molti, che al modo che noi veggiamo negli altri luoghi generarsi dove una dove altra qualità di frutti, di arbori e di animali, propria di quella cotal terra e molto eccellente fra quelle che nascono nelle altre parti, così medesimamente il nostro terreno ha virtù di produrre e nutrire uomini, non solo di natura attissimi alle arti e opere della vita, ma di singolare disposizione eziandio per rispetto alla virilità dell’animo e alla virtù. Si conosce questa cosa manifestamente sì per le antiche battaglie fatte dai nostri colle Amazzoni, coi Traci e con tutte le genti del Peloponneso, e sì per le guerre avute coi re di Persia, dove i nostri, ora soli e ora con quelli del Peloponneso, per terra e per mare, combattendo e vincendo, riportarono i premii e gli onori principali delle vittorie. Le quali cose per certo non avrebbero potuto fare se essi non fossero stati da molto più che gli altri uomini di natura. E niuno si pensi che pervenga da ciò alcuna eziandio menoma lode a noi cittadini di oggidì; anzi per lo contrario. Perocché queste simili, sono lodi verso chi si dimostra degno della virtù degli antecessori, ma verso quelli che colla loro ignavia e cattività svergognano la eccellenza della loro stirpe, elle sono riprensioni e biasimi. Siccome (vaglia il vero) facciamo noi, che sì fatta natura avendo, non l’abbiamo saputa serbare, ma siamo caduti in grande ignoranza e confusione e in molte cattive cupidità. Ma se io volessi, seguitando questa materia, mordere e accusare i fatti di questi tempi, dubito che io non dovessi trascorrere troppo lungi dal mio proposito. Però di questi fatti lasceremo stare al presente, se non che siccome io già ne ho ragionato per addietro, così per l’avvenire altre volte ne ragionerò, se non mi sarà venuto fatto di rivocarvi da cotesti andamenti torti e nocevoli. Ora tornando in sul proposito primo di questo ragionamento, dette che io ne avrò certe poche cose, darò luogo a quelli che volessero altresì esporre la loro sentenza sopra questa materia. Dico adunque che se noi vorremo continuare a reggere la città nella forma che si usa oggi, egli non ci ha rimedio alcuno che noi possiamo fare altro che tutto giorno stare in consulte e in guerre, e vivere così come ora e di questi tempi addietro, e patire e operare tutti gli stessi mali. All’incontro, ripigliando la forma usata in antico, manifesto è che per la ragione medesima, quella condizione e quello andare avranno le cose nostre che ebbero quelle degli antenati. Perciocché dagli stessi ordini di repubblica necessaria cosa è che risultino i fatti o conformi o simili. Dei quali fatti prendendo i più riguardevoli, si vuol porgli a riscontro, e così risolvere quali ci sia più in acconcio di eleggere, o gli uni o gli altri. E prima veggiamo la condizione di quello e di questo reggimento verso i Greci e i Barbari, essendo che non piccola parte conferiscano costoro al ben essere della città, ogni volta che procedano le cose per opportuno modo tra loro e noi. I Greci dunque avevano tanta fede al reggimento di quei tempi, che la più parte di loro volontariamente si diedero nelle mani della città; e i Barbari, non che s’impacciassero dei fatti della Grecia ma essi non si ardivano di scorrere colle galee fin presso a Faselide, e colle genti di terra non passavano di qua dali fiume dell’Ali, e in fine attendevano a star quieti. Oggi sono ridotte le cose in sì fatti termini che quelli ci portano odio e questi dispregio. Dell’odio dei Greci avete udito dalla bocca dei capitani; e il re di Persia che disposizione abbia verso di noi, bene esso lo ha dato ad intendere per le lettere che ha mandate. Oltre di ciò da quei buoni ordini erano i cittadini per cotal guisa informati a procedere virtuosamente, che essi tra loro da un lato nessuna offesa e nessuna molestia facevano gli uni agli altri, e all’incontro, se alcuno di fuori veniva con armata mano sopra il contado, essi valorosamente combattendo, sempre riuscivano vittoriosi. Noi per contrario non lasciamo passare un dì che l’un cittadino all’altro non faccia male, e da altra parte nelle cose di guerra usiamo una tanto strabocchevole negligenza, che infino alle rassegne non vogliamo andare se non pagati. Per ultimo, e questa è cosa sopra tutte di gran momento, non era a quei tempi un cittadino che avesse disagio del necessario, e che si vedesse, limosinando per le vie, fare onta e vituperio alla città; laddove ora sono più i poveri che gli agiati: e bene è da perdonare a questi cotali bisognosi se eglino niuna cura hanno delle cose pubbliche, ma si vanno pure ogni dì argomentando del come trovar modo a durare insino a domani. Tenendo io dunque che se noi vorremo imitare gli antichi, saremo liberi da questi presenti mali, e cagione anco di salute, non alla città solamente, anzi a tutta la Grecia, ho messa innanzi questa deliberazione e detto questo ragionamento. Voi considerata bene ogni cosa che avete udita, fate quella risoluzione che crederete essere in maggior benefizio della città.    

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Isocrate – A Nicocle

Questa Orazione rivela un notevole grado di familiarità di Isocrate con lo stato delle cose nell’isola di Cipro sotto il regno di Evagora (tra il 411 e il 374 a.C.),  e lascia pertanto ipotizzare che tra i due vi fosse una conoscenza personale. Ed è possibile che questa stretta relazione tra i due sia stata mediata dal generale Ateniese Conone o, più verosimilmente, dal figlio di quest’ultimo, Timoteo, il quale è noto essere stato uno studente di Isocrate. Quando Evagora morì gli successe sul trono il figlio Nicocle. È a lui che Isocrate indirizza questa Orazione, la quale verte sul tema di come un re debba condursi verso i propri sudditi. L’Orazione ha un po’ il tono della lezione formale di un maestro ad un alunno, il che fa pensare che anche Nicocle fosse stato a suo tempo uno studente di Isocrate ad Atene. Come quella indirizzata a Demonico, questa Orazione è un saggio di Etica pratica, nel quale precetti di generica saggezza risultano piuttosto imperfettamente mescolati con vaghi, seppur nobili ed elevati, sentimenti.

Traduzione
di
Franco Scalenghe

Traduzione
di
Giacomo Leopardi

Coloro i quali, o Nicocle, sogliono offrire a voi sovrani delle vesti, oppure bronzo, od oro lavorato, o altri siffatti oggetti di valore dei quali essi hanno scarsità e voi invece abbondanza, pare a me con tutta evidenza che stiano facendo non un donativo bensì un commercio, e che stiano semplicemente trafficando tali oggetti in un modo molto più scaltro di coloro che ammettono di essere dei commercianti. Ho quindi ritenuto che questo potesse essere il più bello, il più proficuo, il più conveniente dono che io potessi farti e tu ricevere da me: l’essere io capace di definire quale sorta di occupazione perseguendo e da cosa astenendoti tu potresti governare nel miglior modo possibile la città e il regno. Molte sono le cose e le circostanze che educano i privati cittadini: in primo luogo il non sguazzare essi nel lusso e l’essere costretti a decidere quotidianamente sul modo di sbarcare il lunario. Poi vengono le leggi alle quali tutti i cittadini sono sottoposti; quindi viene la libertà di parola e dunque la manifesta potestà, tra amici di censurare e tra nemici di attaccare, uno gli errori dell’altro. Oltre a ciò, alcuni poeti dei tempi andati hanno lasciato dei suggerimenti su com’è d’uopo vivere, sicché è verosimile che per tutti questi motivi essi possano diventare migliori. Per i tiranni non esiste nulla di simile, e proprio coloro che avrebbero più bisogno degli altri di essere educati poiché istituiscono se stessi ad un posto di comando, trascorrono tutta la vita privi di ammonimenti. La maggior parte degli uomini, infatti, non si avvicina mai loro, ed i sodali conversano con essi soltanto per ingraziarseli. Perciò, una volta diventati padroni di moltissimo denaro e responsabili di importantissimi affari, il fatto che essi non utilizzino bene le risorse a disposizione ha fatto sì che molti dibattano se sia meglio scegliere la vita di privati cittadini che se la passano convenientemente bene, oppure quella di quanti esercitano un potere regale. Qualora volgano lo sguardo agli onori, alle ricchezze, al potere dinastico, tutti gli uomini ritengono che i capi dei regimi monarchici siano pari a Dei. Ma dacché ponderano le paure e i pericoli, e facendone la disamina vedono quelli mandati in rovina da coloro i quali meno avrebbero dovuto farlo, quelli costretti a compiere azioni aberranti contro i familiari più intimi e quelli ai quali sono accadute entrambe queste cose, tornano di nuovo a ritenere che sia più vantaggioso vivere in un modo qualunque, piuttosto che regnare sull’Asia intera a prezzo di siffatte sventure. 

Causa di questa anomalia e di questo sconcerto è che essi ritengono la carica di re, come quella di sacerdote, essere appannaggio di qualunque uomo, laddove invece di tutte le faccende umane essa è la più importante e quella che abbisogna della massima previdenza. Per ciascuna singola azione regale è compito di coloro che stanno sempre intorno al re quello di consigliargli come si potrebbe soprattutto governare a modo, preservare i propri beni e sfuggire le disgrazie. Ma delle occupazioni regali abituali, di quelle ch’è d’uopo essi abbiano di mira e quelle sulle quali bisogna che essi trascorrano più tempo, proverò io a discorrere in generale. È arduo notare dall’inizio se, a lavoro finito, il regalo sarà degno del progetto che gli sta alla base. Infatti, anche molti poemi in versi e molti trattati in prosa, se quand’erano nell’intelletto dei loro compositori si prestavano a grandi aspettazioni, una volta realizzati e mostrati agli altri ottennero una fama molto inferiore a quella sperata. Nondimeno il ricercare cose omesse da altri e leggi valide per gli Stati monarchici è una buona intrapresa; giacché quanti educano i privati cittadini giovano soltanto ad essi, mentre chi volgesse i signori del popolo alla virtù, recherebbe un guadagno ad entrambi: sia a coloro che godono di un potere dinastico quanto a coloro che sono loro soggetti, poiché renderebbero le cariche di comando più sicure per i primi e i regimi politici più miti per i secondi. 

In primo luogo bisogna dunque analizzare che opera sia quella  dei sovrani. Se, infatti, comprenderemo bene nei suoi punti capitali in cosa consiste il potere regale nel suo complesso, volgendo lo sguardo ad essi parleremo poi meglio anche delle sue particolarità. Tutti ammetterebbero, io credo, che quando lo Stato sia per malasorte in miseria, ai sovrani spetta il farla cessare; quando esso sia per proprio merito prospero, il mantenerlo tale; e se è piccolo, ingrandirlo. Tutte le altre incombenze vanno effettuate giorno per giorno in vista del raggiungimento di questi obiettivi. È invero chiaro che coloro i quali avranno questo potere e delibereranno su faccende di tale importanza, debbono essere né pigri né sciatti; ma individui che considerano il modo di essere più saggi degli altri, giacché è dimostrato che essi avranno regni tali quali saranno le convinzioni che essi stessi si formeranno. Sicché a nessun atleta conviene tanto allenare il corpo quanto conviene ai sovrani allenare l’animo; né tutte le sagre prese insieme propongono anche soltanto una parte dei premi per i quali voi re, giorno dopo giorno, gareggiate. Ponderando queste considerazioni, è d’uopo fare attenzione al fatto che quanto più tu sopravanzi gli altri in cariche ed onori, tanto più dovrai segnalarti superiore ad essi per virtù. Non ritenere, dunque, che la solerzia sia proficua nelle altre faccende e senza alcun valore nel diventare noi persone migliori e più sagge; e non condannare gli uomini ad una malasorte tanto grande da avere noi scoperto, circa le bestie, arti con le quali ne addomestichiamo gli animi e ne aumentiamo il valore; mentre poi, in vista della virtù, saremmo del tutto incapaci di giovare a noi stessi. Convinciti, invece, che l’educazione e la solerzia sono di grande beneficio alla nostra natura. Accostati pertanto ai più assennati di coloro che hai dintorno, e degli altri saggi fa’ di convocare a corte quelli che potrai. Reputa che non ti deve mancare l’esperienza del contatto con nessuno dei poeti e dei sapienti più celebri, e di alcuni di essi diventa uditore, di altri discepolo. Attrezzati, inoltre, per essere giudice delle loro opere minori e competitore delle maggiori, giacché attraverso questo allenamento diventeresti prestissimo tale quale abbiamo ipotizzato che debba essere chi regnerà rettamente e governerà lo Stato com’è d’uopo. Ma l’invito più pressante è quello che ti verrebbe da te stesso, ove ritenessi terribile che i peggiori comandino i migliori e che i più dissennati ingiungano qualcosa ai più saggi, giacché quanto più vigorosamente deprezzerai l’ignoranza altrui tanto più eserciterai il tuo proprio intelletto. Di qui è dunque d’uopo che comincino quanti intendono realizzare qualcosa di positivo; 

ed a questo fine il sovrano deve essere amante degli uomini e dello Stato, giacché è impossibile comandare bene dei cavalli, dei cani, degli uomini o dirigere qualunque altra faccenda se uno non sarà contento dei soggetti dei quali bisogna che si prenda sollecitudine. Abbi a cuore il popolo e in ogni occasione fa’ in modo di comandarlo garbatamente, sapendo che delle oligarchie e degli altri regimi politici, quelli che sopravvivono per più tempo sono quelli che si daranno da fare nel miglior modo possibile a favore del popolo. E guiderai bene il popolo se non permetterai alla folla di commettere oltraggi né tollererai che essa li subisca; se baderai che i migliori abbiano le onorificenze che meritano e che gli altri cittadini non subiscano ingiustizie, giacché questi sono gli elementi primi e fondamentali di un buon regime politico. 

Delle ordinanze e delle pratiche di governo altera e riforma quelle non bene istituite; scoprine quanto più puoi di migliori, e se non ne sei capace imita quelle che danno buoni frutti in altri Stati. Cerca che le leggi nel loro insieme siano giuste, utili e tra di loro coerenti, e inoltre che creino tra i cittadini il minor numero possibile di controversie e ne permettano per essi la risoluzione più rapida possibile, giacché a leggi vigenti buone devono appartenere tutte queste caratteristiche. Disponi le cose in modo che il lavoro sia fonte di guadagno e le liti, invece, di perdite; affinché i cittadini rifuggano queste ultime ed attendano con più ardore al primo. Le sentenze che emetti circa questioni sulle quali sorgano tra i cittadini delle controversie, fa’ che siano prive di favoritismi e non contrarie le une alle altre. Pertanto i tuoi verdetti sulle medesime questioni siano sempre gli stessi, giacché è confacente ed utile che le convinzioni dei sovrani in materia di giustizia siano salde ed inamovibili come lo sono le buone leggi vigenti. 

Amministra lo Stato come la tua patria proprietà: con splendore e regalità nelle provvisioni e con scrupolosa precisione nelle esazioni, in modo da ottenere il plauso dei cittadini ed insieme fare fronte alle spese. Fa’ sfoggio di magnificenza neppur in uno solo di quegli sperperi nei quali subito svanisce il denaro, bensì con le spese prima accennate, con la bellezza di ciò che possiedi, con le beneficenze fatte agli amici; giacché siffatte spese non saranno per te delle perdite, e quindi lascerai in eredità ai posteri cose di maggior valore delle somme investite. 

In materia di culto, tratta gli Dei come indicarono gli avi; ma ritieni che il sacrificio più bello ed il culto più grande è che tu procuri di essere la persona più nobile e più giusta possibile, giacché ci si può aspettare che siano siffatte persone, piuttosto che quanti sacrificano molte vittime, ad ottenere qualcosa di buono dagli Dei. 

Attribuisci pure cariche onorifiche agli amici coi quali hai maggiori legami di parentela, ma nei veri posti di comando metti gli amici più assennati e fedeli. 

Ritieni che la più sicura guardia del corpo esistente è la virtù degli amici, l’affetto dei cittadini e la tua propria saggezza. È infatti soprattutto grazie a questi mezzi che uno potrebbe acquisire e salvaguardare il potere assoluto. 

Tutela le proprietà dei cittadini, e ritieni che quanti dilapidano il danaro spendono del tuo e quanti lavorano ne incrementano la quantità; giacché tutti gli averi di coloro che dimorano nello Stato sono proprietà dei buoni sovrani. 

In ogni tempo mostra di preferire a tal punto la verità, che le tue parole siano stimate più affidabili dei giuramenti degli altri. 

Procura che lo Stato sia sicuro per tutti gli stranieri ed offra garanzie legali per i contratti. Fra gli stranieri che vi giungono, tieni in gran conto non coloro i quali ti recano dei donativi, bensì coloro i quali stimano di ottenerne da te: onorando infatti costoro, tu otterrai maggiormente il plauso degli altri. 

Leva via dai cittadini le molte paure, e non volere che quanti non hanno commesso alcuna ingiustizia siano timorosi. Infatti, come tu disporrai gli altri verso di te, così pure tu sarai disposto verso di loro. Non fare nulla con ira, ma fa’ che gli altri lo pensino qualora secondo te ne sia il caso. Fa’ di apparire terribile perché nulla di quel che succede ti sfugge, ma anche mite perché infliggi pene meno gravi delle colpe. 

Delibera di mostrare che sei il sovrano non per l’asprezza dei tuoi modi né per la severità dei castighi che imponi, ma perché tutti sono vinti dalla brillantezza del tuo intelletto e ritengono che tu prenda decisioni sulla loro salvezza meglio di loro stessi. 

Sii guerresco in quanto profondo conoscitore dell’arte della guerra e dei suoi preparativi, ma anche pacifico perché in nessun caso abusi del potere contro giustizia. Intrattieni con gli Stati più deboli le stesse relazioni diplomatiche che solleciteresti gli Stati più forti ad intrattenere con te. Non cercare di averla vinta in qualunque faccenda, ma di riuscire vincitore in quelle dalle quali te ne potrebbe venire un utile. Ritieni uomini da nulla non i vinti con loro profitto, ma i vincitori con loro danno. Reputa menti eccelse non quanti abbracciano cose più grandi di quelle che sono capaci di comprendere, ma quanti hanno di mira cose nobili e sono capaci di portare a termine il lavoro intrapreso. Emula non coloro i quali hanno acquisito un grande impero, bensì quanti hanno utilizzato ottimamente il potere che avevano; e reputa che sarai perfettamente felice non se comanderai su tutto il genere umano a prezzo di paure, di pericoli e di malvagità; ma se essendo l’uomo ch’è d’uopo tu sia ed agendo come ora agisci, avrai delle cose un equilibrato desiderio e neppure una di queste cose mancherai di ottenere. 

Fatti amici non tutti coloro che lo vogliono ma quanti sono degni della tua natura; e neppure coloro con i quali passi il tempo più piacevolmente, bensì coloro con l’aiuto dei quali governerai ottimamente lo Stato. Fa’ una precisa valutazione dei tuoi sodali, sapendo che tutti coloro i quali non ti stanno intorno riterranno che tu sia simile alle persone che utilizzi. Alla esecuzione delle faccende che non sono sotto la tua personale direzione preponi uomini dei quali sai che con essi governerai ottimamente lo Stato, giacché sarà tua la responsabilità di ciò che essi effettueranno. Ritieni fidate e leali non le persone che lodano qualunque cosa tu dica o faccia, ma quanti rimproverano coloro che commettono degli errori. Concedi piena ed incondizionata libertà di parola alle persone di buon giudizio, affinché tu abbia modo di esaminare con loro le questioni sulle quali sei dubbioso. Distingui chiaramente quanti ti adulano con arte e quanti ti servono di vero cuore, affinché i malvagi non abbiano più dei probi. Ascolta i discorsi che si fanno sugli uni e sugli altri, e cerca di conoscere i nomi sia di coloro che parlano sia di coloro dei quali essi parlano. Condanna alle stesse pene i falsi calunniatori e quanti sono rei di azioni aberranti. 

Comanda te stesso non meno di quanto comandi gli altri, e ritieni che questa sia la cosa più regale di tutte: il non essere schiavo di alcun piacere fisico e il dominare i propri desideri più dei propri cittadini. 

Non accettare alcun rapporto sessuale casuale né senza una vera ragione, ma abituati a godere di quei trastulli grazie ai quali tu progredirai e sembrerai agli altri migliore. 

Fa’ di non apparire uno che ambisce a quegli onori che anche ai viziosi è dato di conseguire; e mostra di pregiare assai la virtù, con la quale i malvagi nulla hanno a che spartire. Reputa che le più vere manifestazioni di stima non sono quelle tributate pubblicamente e per timore, bensì quelle che i cittadini ti rendono quando, soli con se stessi, ammirano più la tua intelligenza che la tua fortuna. Se mai ti accadrà di rallegrarti per delle cose da nulla, tienilo nascosto; e mostra invece che t’industri su faccende di grande importanza. 

Non essere del parere che gli altri debbano vivere con decoro e che invece i sovrani possano fare una vita disordinata; e fa’ invece della tua temperanza un modello per i cittadini, sapendo che i costumi dello Stato tutto intero assomigliano a quelli di chi lo comanda. 

Il segno che stai regnando bene sia per te la constatazione che i tuoi sudditi sono diventati più prosperi e più temperanti grazie alla tua sollecitudine per loro. 

Da’ maggiore importanza al fatto di lasciare in eredità ai tuoi figli una buona reputazione che una grande ricchezza. Infatti la ricchezza di denaro è cosa mortale, mentre la buona reputazione è cosa immortale; il denaro è acquisibile grazie alla buona reputazione, mentre la buona reputazione non è acquistabile col denaro; il denaro arriva nelle mani anche delle persone da nulla, mentre la buona reputazione non può essere acquisita altro che da uomini distintissimi. 

Sii sfarzoso nel vestire e per gli ornamenti che indossi e sii saldo e perseverante com’è d’uopo che siano i sovrani negli altri tuoi costumi, affinché coloro che ti vedono con gli occhi ti reputino degno del comando che ricopri, e coloro che vivono con te abbiano la medesima convinzione perché conoscono il vigore del tuo animo. 

Sopravvedi sempre le tue parole e i tuoi fatti, allo scopo di incappare nel minor numero possibile di errori. 

È certo ottima cosa centrare in pieno le occasioni propizie che si presentano, ma poiché esse sono tali da potersi difficilmente individuare, scegli di fare un passo indietro piuttosto che due in avanti, giacché il giusto equilibrio è più prossimo al mancare di poco il bersaglio che all’andargli di gran lunga aldilà. 

Cerca di essere spiritoso e solenne. La solennità, infatti, si confà al potere assoluto, mentre l’essere spiritoso s’acconcia alle relazioni intime. Di tutti i suggerimenti, questo è però il più malagevole da mettere in pratica; giacché troverai che nella maggior parte dei casi coloro che s’atteggiano con solennità riescono gelidi, e quanti vogliono essere spiritosi appaiono dei meschinelli. Bisogna però servirsi di entrambe queste modalità ideali e rifuggire i difetti che sono congiunti sia all’una che all’altra. 

Se vorrai conoscere con precisione uno qualunque dei negozi dei quali ai sovrani conviene avere perfetta scienza, applicati ad esso sia praticamente che teoricamente. La filosofia, infatti, ti mostrerà le strade da seguire, e l’allenarti nella pratica concreta di tali negozi farà sì che tu possa poi condurli effettualmente. Osserva attentamente le evenienze e le circostanze che coinvolgono sia i privati cittadini che i sovrani con potere assoluto, giacché se terrai bene a mente quelle passate delibererai meglio circa quelle future. 

Ritieni terribile che alcuni privati cittadini eleggano di morire per ottenerne lode dopo la morte, e che invece i sovrani non abbiano l’audacia di seguire costumi grazie ai quali ottenere il plauso dei loro sudditi già da vivi. Prendi la decisione di lasciare quale ricordo di te le immagini della tua virtù più che quelle del tuo corpo. Cerca di serbare ben difesa la sicurezza tua e quella dello Stato; e se sarai costretto a correre dei pericoli, scegli di morire valorosamente piuttosto che di vivere nella vergogna. In tutte le tue attività ricordati del potere regale che rivesti, e preoccupati di nulla effettuare che sia indegno di questo onore. Non permettere che la tua natura tutta intera sia contemporaneamente dissolta. E poiché hai avuto in sorte un corpo mortale, cerca di lasciare ai posteri un ricordo immortale dell’animo tuo. 

Studiati di parlare di buoni costumi, così da abituarti ad avere pensieri simili alle parole che usi. Quali che siano le imprese che ti appaiono le migliori dopo attenta riflessione, queste realizza nei fatti. Imita le azioni di coloro dei quali ammiri ed approvi le opinioni. Ritieni giusto rimanere fedele tu stesso alle azioni che consiglieresti ai tuoi figli di compiere. Serviti dei consigli che ti ho fin qui suggerito, oppure cercane di migliori. 

Ritieni sapienti non coloro che spaccano il capello in quattro su delle piccolezze, ma quanti parlano con cognizione di causa delle massime questioni; non coloro che promettono la felicità agli altri, mentre essi stessi non sanno dove sbattere la testa; bensì quanti fanno su se stessi affermazioni equilibrate, sono capaci di trattare gli affari e gli uomini, non si sconcertano per i mutamenti che accadono nel corso della vita e quindi sanno sopportare bene e con equilibrio le circostanze disgraziate e quelle fortunate. 

Non ti meravigliare se molte delle cose che vengo dicendo sono a te già note. Ciò non mi è sfuggito, ed io sapevo bene, essendo così grande la moltitudine degli uomini in generale e di coloro che li comandano, che queste cose alcuni le hanno già dette, alcuni le hanno già udite, alcuni hanno visto altri farle e alcuni capita pure che le pratichino. Non è in questi ragionamenti ch’è d’uopo ricercare le novità, giacché in essi non s’ha la potestà di dire alcunché di paradossale o d’incredibile o fuori di quanto è largamente condiviso. Bisogna piuttosto ritenere che il più raffinato degli scrittori sia colui che è capace di raccogliere insieme la maggior parte delle cose sparse qua e là nei ragionamenti altrui, ed esprimerle nel modo più elegante possibile. Peraltro a me era evidente fin da principio che seppure tutti gli uomini reputano straordinariamente proficui i consigli contenuti nelle opere in versi o in prosa, essi tuttavia non li ascoltano affatto con piacere, poiché sperimentano nei confronti di tali consigli ciò che sperimentano verso coloro che li ammoniscono. Essi lodano infatti costoro, ma poi decidono di accostarsi a quanti delinquono con loro e non a quanti li trattengono dal delinquere. Quali segni emblematici di ciò si potrebbero portare le poesie di Esiodo, di Teognide e di Focilide. Gli uomini, infatti, affermano che questi poeti sono stati i consiglieri migliori in assoluto per quanto riguarda la vita umana; ma una volta detto ciò, scelgono di passare il tempo chiacchierando tra di loro di stolidezze piuttosto che dare seguito ai suggerimenti di quelli. E dei poeti che vanno per la maggiore, se pur si selezionassero quelle che si chiamano ‘sentenze’ e nelle quali essi hanno dato il meglio di sé, ebbene gli uomini si disporrebbero in modo simile anche verso di esse; giacché ascolterebbero con maggior piacere la più stupida delle commedie piuttosto che opere così artisticamente composte. Ma che bisogno c’è di soffermarsi a parlare di esempi singoli uno per uno? Se volessimo considerare la natura umana nel suo complesso, troveremo che la maggior parte degli uomini, quanto ai cibi, non si rallegra affatto di mangiare i più salutari; quanto ai costumi, di seguire i più nobili; quanto alle azioni, di effettuare le più onorevoli; quanto ai vegetali e agli animali, di allevare i più giovevoli. Gli uomini, anzi, hanno piaceri assolutamente contrari a quelli loro utili, e nutrono addirittura l’opinione che quanti commettono delle mancanze siano persone forti e laboriose. Sicché come potrebbe riuscire gradito a gente siffatta chi la esorta, o le insegna qualcosa, o le dice qualcosa di proficuo? Si tratta di uomini che, oltre a quanto appena detto, vedono di malocchio le persone di buon senno e ritengono schiette quelle insensate; rifuggono talmente la verità dei fatti da non conoscere neppure quella che li riguarda; si affliggono pensando ai fatti loro e si rallegrano quando cianciano di quelli altrui, e preferirebbero soffrire corporalmente piuttosto che faticare sull’animo ed analizzare qualcuna delle necessità che hanno. Inoltre, quando sono in relazione tra di loro si scoprirebbe che essi altro non fanno che ingiuriare o essere ingiuriati, mentre quando sono soli non deliberano su qualcosa bensì implorano gli Dei. Questo non lo affermo di tutti gli uomini, ma di quanti sono imputabili di ciò che ho detto. Dunque appare chiaro che quanti vogliono inventare o trascrivere qualcosa che sia gradito alla moltitudine, devono ricercare non i discorsi più giovevoli bensì quelli più ricchi di favole, giacché le masse si rallegrano quando ascoltano racconti di questo genere e sono spettatrici di combattimenti e di gare. Perciò sono degne di ammirazione sia la produzione poetica di Omero, sia quella dei primi inventori della Tragedia. Essi, infatti, osservando dall’alto la natura degli uomini, fecero opportuno uso di entrambe queste idee guida nelle loro produzioni. Così Omero espresse in forma di favola i combattimenti e le guerre dei semidei, mentre i Tragici misero in scena i miti sotto forma di combattimenti e di azioni concrete, sicché i miti diventarono per noi non soltanto racconti da ascoltare ma anche spettacoli da vedere. Una volta che ormai esistono modelli di questo genere, risulta dimostrato che quanti vogliono accattivarsi l’animo degli ascoltatori devono astenersi dall’ammonire e dare consigli, ed invece dire il genere di cose delle quali vedono che le masse si rallegrano di più. 

Ho discorso di queste faccende ritenendo, visto che non sei uno dei tanti bensì uno che regna su tanti, che tu debba avere non le convinzioni che hanno gli altri né giudicare quale modo d’agire sia appropriato o quali persone siano di buon senno sulla base del tuo personale piacere, bensì valutarli dalla proficuità del loro operato; soprattutto perché i cultori della filosofia sono in disaccordo circa gli esercizi che disciplinano l’animo, ed alcuni filosofi affermano che quanti li avvicinano diventeranno più saggi grazie alla pratica dei discorsi eristici, altri grazie alla pratica dei discorsi politici, altri grazie alla pratica di altri ancora; e però tutti ammettono che l’allievo bene educato da ciascuno di questi diversi esercizi deve apparire capace di prendere delle decisioni. Tralasciando quindi gli aspetti controversi ed alla luce di quanto è ammesso da tutti, è d’uopo mettere gli uomini alla prova soprattutto osservando la loro capacità di prendere decisioni e dare consigli in occasioni concrete e specifiche; e se ciò non è possibile, quando discutono di questioni di interesse generale. A questo punto, rifiuta come consiglieri quanti non sanno che decisioni prendere, giacché è manifesto che chi non è utile a se stesso certo non potrebbe fare di un altro una persona saggia. Al contrario, fa’ gran conto ed abbi cura di quanti sono assennati e capaci di vedere più lontano degli altri, sapendo che un buon consigliere è il più proficuo ed appropriato di tutti i possessi per un sovrano con potere assoluto. E ritieni che a fare più grande il tuo regno sono quanti potranno giovare maggiormente al tuo intelletto. 

Ti ho così offerto i consigli che conosco e ti rendo onore con i mezzi di cui mi trovo a poter disporre. Augurati, come dicevo all’inizio, che anche gli altri ti rechino non già gli abituali donativi che voi sovrani acquisite ad un prezzo ben maggiore di quello che paghereste a chi li vende, bensì donativi tali che seppure tu li utilizzerai intensamente e non smetterai neppure un giorno di usarli, non li logorerai bensì li renderai più grandi e di maggior valore.

Quelli, o Nicocle, che sogliono a voi altri principi recare in dono o vesti, o lavorii di bronzo o pur d’oro, o altra di così fatte masserizie delle quali eglino sono poveri e voi copiosi, paiono a me, non donare, ma trafficare assai manifestamente, e vendere quei loro arnesi con molta più scaltrezza di quelli che fanno professione di mercatantare. Io per me mi reputerei porgerti un donativo bellissimo sopra ogni altro ed utilissimo, e degno altresì sommamente a me di porgere e a te di ricevere, se io ti sapessi mostrare con quali instituti, e da quali azioni astenendoti, tu possa governare nel miglior modo cotesta città e cotesto regno. Imperocché uomini privati hanno non poche cose che gli ammaestrano. Prima e principalmente questa, che essi non vivono tra gli agi e le morbidezze, anzi sono costretti quasi a combattere quotidianamente per le necessità della vita. Poi le leggi alle quali sono sottoposti ciascuno secondo i luoghi. Anco la libertà del dire, e la facoltà che hanno gli amici di riprendergli apertamente, e gl’inimici di valersi dei loro falli per danneggiarli. Oltre di questo alcuni poeti antichi hanno lasciato diversi documenti del modo che si vuol tenere nella vita ordinaria. Onde per tutti questi rispetti è ragione che essi vengano più costumati. Ma i principi non hanno veruna di così fatte cose, e dove si converrebbe a loro più che a qualunque altro di essere bene ammaestrati, essi per lo contrario, da poi che sono ascesi all’impero, non ricevono ammaestramento né ammonizione alcuna; perché gli uomini la più parte vivono lontano da esso loro, e quelli che usano seco, attendono a lusingargli. Onde è seguìto che avendo avute in mano infinite ricchezze ed altre facoltà grandissime, per non le aver bene usate hanno fatto che da molti si dubiti quale sia più da desiderare, o la vita di quelli che essendo in grado privato, si portano dirittamente e bene, o pure la vita dei principi. Imperocché qualora riguardano agli onori, alle ricchezze ed alla potenza, per poco giudicano che i re sieno uguali agli Dei. Ma quando da altra parte pongono mente ai timori e ai pericoli, e recandosi alla memoria, trovano, questi essere stati uccisi da chi meno dovevano, quelli necessitati a offendere i loro parenti più stretti, e a tale essere avvenuta l’una e l’altra cosa, conchiudono per lo contrario, ogni altro modo di vita essere da volere, piuttosto che con sì fatte calamità regnare in su tutta l’Asia. La quale diversità di giudizi e confusione di animi nasce dal creder che fanno questi tali che il regno, come fosse un sacerdozio, sia cosa da tutti: quando ella è la maggiore di tutte le cose umane e quella che ricerca maggior provvidenza e senno. Quanto si è adunque ai negozi particolari, egli è ufficio di chi si trova presente nelle occasioni, il dar consiglio come quelli sieno da condurre, e come da preservare i beni e da schifare i sinistri. Ma generalmente i fini a cui si vuol tendere e gl’instituti che sono da tenere, m’ingegnerò io di mostrargli in questo discorso. Il quale se debba o no riuscire degno della materia, malagevolmente si può conoscere dal principio. Imperocché non pochi componimenti sì di verso come di prosa, insino a tanto che sono contenuti nell’animo degli autori, cagionano grandissima espettazione; ma poi, scritti e compiuti e mandati in luce, ottengono fama inferiore di gran lunga a quella speranza. A ogni modo il proposito, per lo manco, di questa fatica è lodevole, cioè di cercare le cose state pretermesse dagli altri, e di dar quasi legge ai principi. E in vero quelli che ammaestrano le persone private, fanno cosa utile a queste sole: ma chi volgesse allo studio della virtù i signori della moltitudine, gioverebbe a questi e ai loro sudditi parimente, facendo agli uni la signoria più sicura, agli altri la vita civile più tranquilla e più dolce. Prima dunque di tutto, si vuol chiarire qual sia l’ufficio del principe. Imperocché se avremo compreso bene la somma e il valore della cosa universale, avendo poi l’occhio colà, potremo meglio discorrere delle parti. Io credo che tutti sieno per consentire in questo, che il principe dee, se la città è misera, liberarla dalla miseria; se in istato prospero, mantenervela; e di una città piccola fare una grande. Tutti gli altri negozi che accaggiono alla giornata, si debbono fare in rispetto di questi fini. Ora egli è manifesto alla bella prima che a quelli che deggiono poter fare le dette cose e di esse pensare e deliberare, non si conviene attendere all’ozio e alle agiatezze, ma studiare ogni via di dovere essere più savi che gli altri. Perciocché non è dubbio alcuno che eglino tal regno avranno, quale si formeranno la propria mente. Onde a nessuno atleta è così richiesto esercitare il suo corpo, come ai principi l’animo, atteso che tutti i premi proposti in tutte le solennità dei giuochi, a pigliarli insieme, non sono da quanto è una menoma parte di quelli per li quali a voi bisogna contendere ogni giorno. Le quali considerazioni ti deggiono muovere a por mente e a sforzarti di avanzare gli altri in virtù quanto tu gli superi negli onori. E non ti pensassi che lo studio e la industria, benché facciano frutto nelle altre cose, non vagliano perciò nulla a farci migliori e più savi. Né volere attribuire alla condizione umana tanta infelicità, che laddove essi uomini hanno trovato arti colle quali si dimesticano e si migliorano gli animi delle bestie, eglino tuttavia non possano fare alcun giovamento a se stessi in quel che appartiene alla virtù; ma renditi certo che l’addottrinamento e la diligenza possono profittare agli animi nostri; e perciò fa di usare coi più assennati e più savi di quelli che tu hai dintorno, e degli altri recati in corte quelli che tu potrai; non voler trascurare nessun poeta famoso e nessun altro saggio, ma piglia ad ascoltare gli uni, degli altri renditi scolare, e procaccia di riuscir buon giudice delle minori cose, e delle maggiori emulo. Mediante i quali esercizi, in brevissimo tempo tu potrai divenire tale, quale abbiamo definito essere il principe buono ed atto a bene amministrare le cose pubbliche. E a questo intento per certo ti spronerai da te stesso gagliardamente, se tu stimerai cosa indegna che chi è da meno o peggiore comandi a chi è migliore o da più, e che gli sciocchi reggano i giudiziosi. Imperciocché quanto la scempiaggine altrui parratti più vile e più spregevole, con tanto maggiore studio eserciterai l’intelletto proprio. Da queste cose per tanto incomincino quelli che vogliono poter fare qualche buono effetto. Oltre di questo, bisogna amare gli uomini e la città. Né cavalli né cani né uomini né altra cosa veruna si può governare per acconcio modo, chi non ha inclinazione a quello a che egli dee soprastare. Tien conto della moltitudine, e studia quanto cosa alcuna del mondo che il tuo reggimento riesca loro a grado, considerando che sì delle signorie di pochi, sì degli altri stati, quelli durano più, i quali nel miglior modo si affaticano di piacere alla moltitudine. Tu governerai bene il popolo se non lo lascerai trascorrere a sfrenatezza e insolenza contro agli altri, né gli altri contro a lui, provvedendo che i più meritevoli abbiano gli onori e le dignità, e gli altri non sieno ingiuriati in cosa alcuna; fondamenti primi e principalissimi di buona repubblica. Dei bandi, degli statuti, delle costumanze togli o riforma quello che non istà bene; e se tu puoi, trova per te medesimo gli ordinamenti più acconci, se no, imita quello che di buono e di convenevole hanno gli altri luoghi. Cerca di così fatte leggi che oltre ad essere giuste, utili e tra se concordi, facciano le liti e le controversie dei cittadini pochissime e le decisioni prestissime quanto più si può; di tutti questi pregi dovendo essere fornite le leggi buone. Fa che i lavori ed ogn’industria lodevole riesca a’ tuoi sudditi di guadagno, e per lo contrario le brighe e i litigi sieno loro di scapito, acciocché da queste cose abborriscano, ed a quelle attendano volentieri. Giudica le loro contese senza favore, e per guisa che i giudizi non sieno contrari gli uni agli altri, ma delle cose medesime sentenzia in un medesimo modo sempre; perché egli è decoroso e utile insieme, che il sentimento del principe nelle cose che toccano alla giustizia, sia fermo ed immobile al pari delle buone leggi. Governa la città nel modo che tu dei governare la casa paterna, cioè con isplendidezza regia negli apparati, e con molta esattezza in ogni faccenda, a fine di potere a un medesimo tempo tenerti in riputazione e bastare alle spese. Magnifico non ti dimostrare in quelle cose che vogliono il dispendio grande e passano subito, ma sì bene in quelle dette di sopra, e nella bellezza delle robe, e nell’usare liberalità cogli amici. Imperocché il frutto di cotali spese ti resterà sempre mentre che tu vivrai, ed ai posteri, oltre a ciò, lascerai cose di più valore che non saranno state le somme che tu avrai spese. Onora gli Dei nel modo che praticarono gli antenati; ma pensa che il sacrificio più bello e il maggior culto divino si è quando l’uomo è migliore e più giusto che può, atteso che egli è più da aspettare che questi tali impetrino alcuna grazia da Dio, che non quelli che offeriscono molte vittime. Gli onori che sono principali nell’apparenza, si vogliono dare ai più congiunti di sangue, ma quelli di più sostanza, alle genti più affezionate. Fa ragione che la più sicura guardia del corpo che tu possa avere sia la virtù degli amici, la benevolenza dei cittadini e il senno tuo proprio; perciocché con questi mezzi più che con qualunque altro si possono sì conseguire i principati e sì conservargli. Abbi cura delle sostanze dei privati, e fa conto che chi scialacqua spenda del tuo, chi lavora e fa roba accresca le tue facoltà; perché tutti gli averi dei sudditi sono propri del signore che regna bene. Dimóstrati perpetuamente studioso del vero per sì fatta guisa che più fede sia prestata alle tue parole che ai giuramenti degli altri. Provvedi che tutti i forestieri vivano costì sicuramente, e vi sia mantenuta loro la fede nei contratti. Ma fra quelli, abbi a cuore in modo speciale, non mica chi ti viene a donare, anzi chi vuole avere da te, i quali accarezzando e beneficando, tu ne acquisterai più riputazione. Togli via da’ tuoi sudditi le paure e i sospetti, e non volere esser temuto da chi non fa male nessuno; perché nel modo che gli altri saranno disposti verso di te, parimente sarai tu verso gli altri. Con ira tu non farai cosa alcuna, ma però te ne infingerai qualora ti sarà in acconcio. Dimóstrati formidabile con operare che nessuno atto dei sudditi non ti si possa nascondere, ma benigno poi con essere contento di pene minori che non corrisponderebbero alle colpe. Usa una cotale arte di governare che non già mica consista nella fierezza e nel gastigare aspramente, ma nel fare in modo che tu vinca ogni altro di prudenza, e che tutti credano che tu provvegga per la salute loro meglio che non saprebbero essi medesimi. Guerriero ti conviene essere di scienza e di apparati, ma pacifico in guanto tu non appetirai cosa alcuna oltre il giusto. Verso i potentati inferiori portati come tu vuoi che i superiori si portino verso di te. Non istare a contendere di ogni cosa, ma bene di quelle dove, se ti succede il vincere, tu guadagni. Abbi per gente da poco, non quelli che si lasciano vincere con profitto loro, anzi quelli che vincono con danno proprio; e per magnanimi, non quelli che abbracciano più che non possono tenere, ma quelli che hanno propositi moderati e facoltà di condurre a perfezione le imprese che fanno. Porta invidia onorata ed emulazione, non mica a quelli che acquistarono maggior signoria che gli altri, ma sì a coloro che amministrarono meglio quella che ebbero; e non ti dare a intendere di avere a esser felice perfettamente, se con timori e pericoli tu fossi signore di tutti gli uomini, ma se essendo tale quale ti si conviene, e operando nel modo che i tempi e tue condizioni ricercheranno, dall’un canto tu non desidererai cosa se non moderata, e dall’altro nessuna di queste sì fatte ti mancherà. Pigliati per amici non tutti quelli che vorrebbero, né coi quali usando, tu avrai più diletto e spasso, ma quelli che più si convengono colla tua natura, e coi quali tu governerai meglio lo stato. Infórmati dei costumi de’ tuoi familiari con diligenza grande, perché l’altra gente ti reputerà simile a quelli che praticheranno teco. Alle faccende che tu non maneggerai personalmente, preponi di così fatti uomini quali dee preporre colui che sarà imputato del bene e del male che essi faranno. Abbi per fidate non già quelle persone che lodano ogni tua parola e ogni tuo fatto quale si sia, ma quelle che ti ripigliano de’ tuoi falli. Consenti che gli uomini gravi e di buon giudizio ti possano favellare alla libera, sicché nelle incertitudini e nelle sospensioni d’animo tu abbi chi ti aiuti a disaminare le cose. Studia di conoscere chi ti lusinga per arte da chi ti gratifica per buon volere, acciò non prevagliano appresso di te i malvagi ai buoni. Presta orecchio a quello che gli uomini dicono gli uni degli altri, e sforzati d’intendere a un medesimo tempo chi e quali sieno quelli che parlano e quelli di che essi parlano. Prendi del calunniatore la medesima pena che tu avresti presa del calunniato, trovandolo in colpa. Tu regnerai non meno sopra te stesso che sopra gli altri, e giudicherai convenirsi alla condizione regia sopra ogni cosa, non essere schiavo di niuna voluttà ed avere nelle passioni proprie maggiore impero che tu abbi nei cittadini. Non istringere familiarità con alcuno così alla cieca e senza pensare, e avvezzati a compiacerti di quelle conversazioni per le quali tu farai profitto ed anche sarai più stimato. Non fare troppo caso degli onori che si raccolgono da quello che è possibile ancora ai tristi, ma sì mostra di pregiarti assai della virtù, nessuna parte della quale è comune ai malvagi. E pensa che i più veraci onori non sono quelli che si rendono pubblicamente per paura, ma quando gli uomini in se stessi o privatamente, ammirano il senno del principe più che la fortuna. Se tu avessi affetto a qualche cosa vile o di picciolo conto, provvedi che ciò non si conosca, e per lo contrario fa che sia manifesto che tu vai dietro alle cose di momento sommo. Non giudicare che egli sia di ragione che gli altri abbiano a procedere modestamente e il principe senza modo, anzi fa che la tua propria temperanza e misuratezza sia d’esempio agli altri, considerando che i costumi di tutta la città si rassomigliano a quelli dei principi. Fa conto che egli sia segno che il tuo reggimento è buono, se tu vedi che per le tue diligenze la città divenga più ricca e più costumata. Maggiormente ti caglia di poter lasciare ai figliuoli una fama onorevole che una ricchezza grande; perché questa passa, quella no; e colla fama si acquistano le ricchezze, ma colle ricchezze non si compera la riputazione; e quelle toccano anche alla gente da nulla, ma questa non la possono conseguire altri che gli eccellenti. Nelle vesti e negli ornati del corpo tu dèi seguitare il lusso, ma nelle altre cose, siccome si conviene ai principi, essere parco e tollerante; di modo che quelli che ti vedranno, dalle apparenze di fuori ti giudichino degno del principato, e quelli che useranno teco, giudichino altrettanto dalla fortezza dell’animo. Esamina continuamente i tuoi fatti e le tue parole, per fallire il meno che si può. Ottimo in tutti i negozi si è adoperar quella misura appunto che si richiede, né più né meno; ma poiché questa a fatica si può conoscere, eleggi piuttosto il difetto che l’eccesso, atteso che la giusta mediocrità suol potere più in quello che in questo. Proccura di essere festevole e grave, perché questo è conveniente alla dignità reale, quello fa per le conversazioni amichevoli e familiari. Ma ciò è cosa sopra tutte le altre malagevolissima; perché noi veggiamo ordinariamente quelli che vogliono essere contegnosi, riuscire freddi e scipiti, e chi vuole essere sollazzevole, dare nel basso e nell’ignobile. Ora egli è di bisogno studiarsi di esercitare ambedue le dette qualità, e di fuggir quello inconveniente che tien dietro a ciascuna di loro. A voler conoscere perfettamente una qual si sia cosa di quelle che si appartiene ai principi di sapere, adòperavi la pratica e la filosofia. Perocché dalla filosofia ti saranno insegnate le strade, e coll’esercizio pratico acquisterai facoltà di saper condurre i negozi effettualmente. Osserva di giorno in giorno le operazioni e i casi dei privati e dei principi, perché se tu avrai bene a memoria le cose passate, tu consulterai più acconciamente delle future. Paiati difetto grandissimo che dove parecchi uomini privati si eleggono di morire a fine di essere lodati dopo la morte, ai principi non basti il cuore di attendere a quegl’instituti e proponimenti per cui sarebbero gloriosi ancora in vita. Mettiti in animo che le immagini che tu lascerai debbano più ricordare la tua virtù che le tue fattezze. Fa ogni tuo potere perché tu e i tuoi vi dobbiate conservare in istato tranquillo e sicuro; ma se tu fossi costretto di porti a pericolo, eleggi innanzi di morire onoratamente che di vivere con vergogna. In qualsivoglia atto ricordati del principato, e studia di non far cosa indegna di questo grado. Non sofferir che la tua natura si risolva tutta, ma poiché ti fu dato un corpo mortale e un animo eterno, sforzati di lasciar dell’animo una memoria immortale. Vienti esercitando nel favellare degl’instituti e dei fatti egregi, per assuefarti ad aver sentimenti e disposizioni d’animo conformi a sì fatte parole. Quello che tu, discorrendo teco medesimo, giudichi essere il meglio, quello metti in esecuzione operando. Imita i fatti di coloro dei quali tu vorresti avere la riputazione. Quei consigli che tu daresti a tuoi figliuoli, mettigli in pratica per te stesso. Attienti a ciò che è detto fin qui, o cerca di meglio. In fine abbi per sapienti, non quelli che con sottigliezza grande quistionano di cose lievi, ma quelli che ragionano acconciamente di materie gravissime; e non quelli che agli altri promettono beatitudini, ed essi vivono in gran difficoltà e miseria, ma quelli che da un lato parlano di se moderatamente, dall’altro sanno usare cogli uomini e trattare i negozi, e per le mutazioni della fortuna non si turbano, ma portano bene e temperatamente sì le cose prospere e sì le avverse. E non ti maravigliare se una buona parte di quello che è detto di sopra, ti era nota innanzi, perché io non lo ignorava, e sapeva bene che in tanto numero d’uomini o privati o principi, alcuni avevano già detta o una o un’altra di quelle cose, alcuni ne avevano udite, e chi ne aveva vedute praticare, altri ne metteva in opera esso medesimo. Ma in questi ragionamenti degl’instituti e degli uffici, non sono da cercare le novità, perché nulla vi si può trovare d’inaspettato né d’incredibile né d’insolito; ma quello è da riputare di cotali scritti il più bello, nel quale sieno raccolti in sulla materia la più parte dei concetti che erano dispersi nelle menti degli uomini, e questi più leggiadramente esposti che in alcuno altro. Io vedeva anche bene, che dalla universalità quelle scritture, o che elle sieno prose o poemi, le quali porgono consigli ed avvertimenti, sono per verità giudicate utili più di tutte, ma non mica udite più volentieri; anzi interviene loro come alle persone che s’impacciano di ammonire gli altri, le guali sono lodate da tutti, ma niuno le vuole avere intorno, e meglio amano gli uomini usare con chi gli aiuta a far male, che con questi che si adoperano per dissuadernegli. Esempio di ciò potrebbero essere i poemi di Esiodo, di Teognide e di Focilide, i quali autori hanno voce di esser maestri eccellenti della vita umana, e tuttavia quegli stessi che così li chiamano, si eleggono d’intrattenersi scambievolmente colle loro stoltizie, piuttosto che spendere il tempo intorno ai coloro ammaestramenti. Così chi scegliesse da’ poeti migliori quelle che si chiamano sentenze, che sono quella parte dove essi poeti posero più studio, il medesimo avverrebbe ancora a queste, che gli uomini ascolterebbero più volentieri una commedia, se ben fosse la più scempia del mondo, che non quelle cose composte con tanto artifizio. Ma che bisogno è di fermarsi a dir dei particolari a uno a uno, quando in generale, se noi vogliamo por mente alle nature degli uomini, possiamo di leggeri comprendere che i più di loro non amano né i cibi più sani, né gli studi più degni ed onesti, né le azioni migliori, né le discipline più profittevoli, ma in ogni cosa hanno la inclinazione e il piacere contrario all’utile, e molti che non fanno cosa che si convenga, pur sono stimati forti, tolleranti e dediti alla fatica? Di modo che a questi tali come può mai l’uomo piacere o consigliando o insegnando o favellando di alcuna cosa utile? I quali, oltre al detto innanzi, portano invidia agli uomini di buon senno, e gl’insensati chiamano schietti e candidi; e hanno sì fattamente in odio la verità, che non conoscono pure le cose proprie, anzi a pensarne, si annoiano e si rattristano, e per lo contrario godono di cianciare di quelle d’altri; e prima torrebbero di patire corporalmente che di affaticare l’animo e discorrere seco stessi di qual si sia cosa necessaria. Nel commercio scambievole, o mordono e rimbrottano o sono rimbrottati e morsi; nella solitudine, in cambio di deliberare, attendono a far desiderii. Io non dico queste cose di tutti, ma di quelli a cui toccano. Certo e manifesto si è, che chiunque vuole o con versi o con prose piacere alla moltitudine, dee cercare sopra ogni cosa, non l’utile, ma il favoloso, perché di udir questo le genti si dilettano molto, se bene hanno poi disgusto quando veggano le battaglie e le contese reali. Per la qual cosa è da ammirare l’artificio d’Omero e dei primi che inventarono la tragedia, i quali conosciuta la natura degli uomini, adoperarono nella loro poesia l’uno e l’altro genere: perocché Omero cantò favolosamente le battaglie e le guerre de’ semidei, e quegli altri ridussero le favole in combattimenti e in azioni, di modo che, oltre a essere udite, elle ci divennero anche visibili. Adunque per così fatti esempi si dà bene ad intendere a chi vuol toccare gli animi degli uditori, che lasciando da parte i consigli e le ammonizioni, gli bisogna dire e scrivere quello di che egli vede che il popolo si diletta. Queste cose ti ho voluto significare, pensando che a te, il quale sei, non uno della moltitudine, anzi signore di molti, si convenga sentire diversamente dagli altri, e le cose gravi e gli uomini giudiziosi non misurare dal piacere, ma provargli nelle operazioni utili, e secondo la utilità stimargli. Massimamente che se bene i filosofi non si accordano intorno agli esercizi dell’animo, volendo alcuni che per mezzo della dialettica, altri che per via della politica, altri che per altre dottrine i loro discepoli abbiano a divenire più savi e di miglior senno, tutti però convengono in questo, che l’uomo bene ammaestrato debbe, o per l’una o per l’altra di quelle tali discipline, riuscire atto a ben consigliare e deliberare. Vuolsi per tanto, lasciata star quella parte che è controversa, e tenendosi a quello che è confessato da tutti, venire alla prova degli uomini, e, se si può, vedere nelle occasioni come sappiano consigliare, se no, intender come ragionino delle cose in generale, e quelli che non dimostrano alcun buono avvedimento, averli per nulla e rigettarli, manifesta cosa essendo che queste sì fatte persone, le quali non possono pur giovare a se medesime, molto meno potranno far savio e prudente altrui. Ma per lo contrario gli uomini giudiziosi e atti a vedere più che gli altri, tiengli in conto grande e accarezzagli, considerando che niuno altro bene si trova, così utile a possedere e così regio, come è un buono e sufficiente consigliatore. E fa ragione che quelli ti accresceranno maggiormente il regno, i quali più ti beneficheranno l’intendimento. Io dunque ti ho mostrato quello che io so e che io reputo convenevole, e ti onoro con quelle cose che comporta la mia facoltà. E consiglioti a volere che eziandio gli altri, in iscambio dei consueti donativi, i quali voi, come ho detto a principio, comperate molto più caro da chi gli dona, che non fareste da quelli che gli vendessero, ti rechino di così fatti presenti, che se tu gli userai molto, e non passerai giorno che tu non gli adoperi, in vece di logorarli, gli farai maggiori e di più valuta.
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Scritti originali

Il Chiuso Morbo

‘Il chiuso morbo’ è una biografia che offre una nuova e sorprendente interpretazione dell’infanzia e dell’adolescenza (1798-1816) del più celebre traduttore italiano del ‘Manuale’ di Epitteto.

Questo mio libro è stato segnalato dalla giuria del XXVI ‘Premio Calvino’ (2013) con la seguente motivazione:
Franco SCALENGHEIl chiuso morbo
«per l’inedito punto di vista, l’estrema perizia stilistica e l’ironia con cui vengono dipinte la fanciullezza e l’adolescenza di Leopardi»

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Isocrate – Nicocle o i Ciprioti

Il buon accoglimento dell’Orazione indirizzata a Nicocle e concernente i doveri del sovrano verso i sudditi, convinse probabilmente Isocrate dell’opportunità di scrivere un’Orazione parallela sui doveri dei sudditi verso il sovrano. Che la presente Orazione sia stata messa da Isocrate sulle labbra dello stesso Nicocle e che questi non si periti di attribuirsi tutte le virtù di questo mondo, manifesta il comprensibile desiderio di Isocrate di spingere ad una riflessione sugli aspetti positivi, e non soltanto su quelli negativi, della forma monarchica di governo. La forma ideale di governo per Isocrate parrebbe essere rappresentata dalla Democrazia ‘limitata’ di Solone, ma è probabile che l’idealizzazione che Isocrate fa qui della monarchia serva più che altro ad evidenziarne lo stridente contrasto con la debolezza, il disordine e l’irresponsabilità che regnava nella democrazia Ateniese negli anni in cui l’Orazione fu scritta, ossia verosimilmente tra il 372 e il 365 a.C.

Traduzione
di
Franco Scalenghe

Traduzione
di
Giacomo Leopardi

Esistono persone accesamente ostili ai discorsi ragionati, le quali biasimano i filosofi ed affermano che essi dedicano il loro tempo a siffatte attività non per diventare virtuosi ma per trarne dei vantaggi materiali. Mi piacerebbe allora sapere da individui così maldisposti, perché denigrano quanti ambiscono parlare bene e invece lodano quanti vogliono rettamente operare. Infatti, se ad infastidirli sono i vantaggi materiali, troveremo che sono ben più numerosi e maggiori i vantaggi che provengono dalle opere rispetto a quelli che provengono dai discorsi. Inoltre sarebbe strano se a costoro fosse sfuggito il fatto che noi veneriamo gli Dei, esercitiamo la giustizia e pratichiamo le altre virtù non per ottenere meno degli altri, bensì per trascorrere la vita circondati dal maggior numero possibile di beni. Sicché non si debbono condannare quei comportamenti virtuosi dai quali accade di trarre dei vantaggi materiali, bensì gli uomini che compiono nei fatti azioni delittuose o fanno discorsi ingannevoli e li usano per far prevalere l’ingiustizia. Mi stupisco, pertanto, che quanti nutrono verso i discorsi ragionati la convinzione che ho detto, non parlino però male anche della ricchezza di denaro, del vigore fisico e della virilità. Se, infatti, sono ostili ai discorsi ragionati a causa di quanti compiono azioni delittuose e dicono il falso, conviene che essi mostrino riprovazione anche per questi altri beni, giacché sarà evidente che anche alcuni che li possiedono compiono azioni delittuose e che, mediante tali beni, fanno del male a molti. 

Se alcune persone percuotono chi viene loro incontro non è certo giusto accusare il loro vigore fisico, né bisogna lanciare ingiurie contro la virilità a causa di quanti uccidono chi non si deve uccidere, e neppure trasferire la malvagità degli uomini alle loro azioni; bensì si devono denigrare quegli stessi uomini che usano male dei beni e che, con cose che possono giovare, mettono invece mano a danneggiare i loro concittadini. Ora, avendo trascurato di definire ciascun aspetto della faccenda e disposti come sono in modo apertamente avverso a tutti i discorsi ragionati, costoro hanno sbagliato così tanto da non accorgersi di essere avversi alla facoltà che, di tutte quelle presenti nella natura umana, è causa della maggior parte dei beni dell’uomo. Infatti, per le altre risorse che possediamo noi non ci differenziamo per nulla dagli altri animali; anzi per molte di esse: come la velocità, il vigore fisico ed altre ancora, ci capita di essere a loro molto inferiori. Ma poiché è stata ingenerata in noi la facoltà di persuaderci l’un l’altro e di venire in chiaro con noi stessi delle decisioni che prendiamo, noi non soltanto ci siamo allontanati dal modo di vivere delle bestie ma ci siamo messi insieme ed abbiamo edificato delle città, stabilito delle leggi, inventato delle arti. Ed è ancora il discorso ragionato quello che ci ha aiutato a realizzare quasi tutte le cose da noi escogitate. È il discorso ragionato ad avere stabilito le leggi del giusto e dell’ingiusto, di ciò ch’è disonorevole e di ciò ch’è onorevole: tutte leggi senza il cui previo stabilimento noi neppure saremmo in grado di abitare gli uni con gli altri. È col discorso ragionato che noi confutiamo i viziosi ed encomiamo i virtuosi. È con esso che noi educhiamo i dissennati e valutiamo i saggi, giacché consideriamo massimo segno del pensare bene quello di parlare come si deve; e un discorso vero, aderente alla legge e alla giustizia, l’aspetto che prende un animo nobile e leale. È con esso che dibattiamo sulle questioni controverse e veniamo in chiaro della nostra ignoranza, giacché le argomentazioni con le quali persuadiamo gli altri sono le stesse che usiamo quando prendiamo delle decisioni che ci riguardano. È per esso che chiamiamo retori quanti sono capaci di parlare davanti alla folla, e reputiamo buoni consiglieri quanti sappiano disquisire tra sé e sé delle faccende in modo ottimale. Se poi si deve parlare in ristretto di questa facoltà, troveremo che neppure una sola delle cose effettuate saggiamente lo è in modo non ragionato, giacché il discorso ragionato è la guida suprema di tutte le opere e di tutti i pensieri, e che ad utilizzarlo sono soprattutto le persone di senno. Pertanto quanti hanno l’audacia di coprire di parole blasfeme coloro che educano al discorso ragionato e alla filosofia meritano di essere odiati tanto quanto coloro che profanano i templi degli Dei. 

Quanto a me, io accolgo con favore tutti i discorsi ragionati, anche quelli capaci di giovarci seppur di poco; e nondimeno ritengo bellissimi, degni di un re e soprattutto a me confacenti, quelli che danno consigli e regole sul governo dello Stato; e di questi specialmente quelli che insegnano a chi esercita il potere come trattare il popolo e com’è d’uopo che i privati cittadini si dispongano verso chi li comanda, giacché è attraverso questi discorsi che vedo gli Stati raggiungere la massima prosperità e grandezza. L’altro discorso, quello su com’è d’uopo esercitare il potere regale, l’avete già sentito pronunciare da Isocrate. Il discorso a quello correlato, ossia su cosa devono fare i sudditi, proverò ad esporlo io; non con l’intenzione di superare quell’altro, ma perché questo è il soggetto che soprattutto mi conviene discutere con voi. Infatti, se voi sbagliaste a capire il mio intendimento perché io non ho manifesto con chiarezza ciò che voglio voi facciate, sarebbe ragionevole che io non mi adirassi con voi; ma se io vi dico prima con chiarezza ciò che voglio voi facciate, e però poi nessuna di queste cose accade, sarei nel giusto se mi lagnassi di coloro che non ubbidiscono. Ritengo che meglio vi inviterei e spingerei a ricordare le mie parole e ad ubbidire loro, non se mi limitassi soltanto a darvi dei consigli, ed una volta enumeratili accuratamente chiudessi lì il discorso; bensì se per prima cosa vi dimostrassi che il presente governo dello Stato è degno d’esser tenuto caro non soltanto per necessità, né perché con esso noi viviamo tutto il tempo, ma perché esso è il migliore dei governi. Poi, che io detengo il potere non in modo illegale né per usurpazione, ma in modo conforme alla legge divina e alla giustizia umana: e tutto ciò grazie ai miei antichi avi, grazie a mio padre e grazie a me stesso. Una volta mostrate queste credenziali, chi non condannerà se stesso alla massima pena qualora non ubbidisca ai miei consigli e alle mie ingiunzioni? 

Dunque, circa il governo degli Stati (giacché è di qui che ho deciso di cominciare), io credo sembri assolutamente mostruoso a tutti che i cittadini probi e quelli malvagi siano stimati degni del medesimo trattamento, e che la cosa più giusta sia invece quella di discriminare gli uni dagli altri, di modo che non tocchino le medesime cose a quanti sono diversi tra di loro, e che ciascuno ottenga d’essere onorato per quanto vale. Ora, gli Stati oligarchici e quelli democratici ricercano l’eguaglianza tra i cittadini loro appartenenti, ed in essi raccoglie il plauso generale l’idea che nessun cittadino possa avere più di un altro: il che va a tutto vantaggio dei malvagi. Gli Stati monarchici, invece, concedono di più al migliore, la parte confacente al secondo a chi viene dopo il migliore, poi agli altri le parti confacenti al terzo e al quarto secondo lo stesso criterio. E seppure questa regola non è istituita ovunque, questo è il piano dello Stato monarchico. Comunque tutti ammetterebbero che sono specialmente gli Stati governati con potere assoluto quelli capaci di distinguere chiaramente le nature e le azioni degli uomini. E quindi quale uomo assennato rifiuterebbe di appartenere ad uno Stato siffatto, ossia ad uno Stato in cui non passerà inosservato se è un uomo probo, invece di rimanere anonimo e mescolato tra la folla senza che si sappia che genere di uomo è? Inoltre, se giudicassimo che lo Stato governato con potere assoluto è anche lo Stato più mite, saremmo tanto più nel giusto quanto più è facile prestare attenzione alle direttive di un solo uomo, piuttosto che cercare di riuscire gradito a molti e variegati intelletti. Sono tanti i modi in cui si potrebbe dimostrare che quello monarchico è il più gradito ai sudditi, il più mite e il più giusto degli Stati, e nondimeno è facile notare ciò già da quel che sono venuto dicendo. 

Quanto ai suoi ulteriori pregi, ossia di quanto gli Stati monarchici eccellano nel deliberare e nell’effettuare alcunché di positivo, lo potremo osservare benissimo se ponessimo una accanto all’altra le pratiche amministrative principali dei diversi Stati ed imprendessimo ad esaminarle. Coloro i quali entrano in carica e vi rimangono per un anno, ridiventano privati cittadini prima di avere potuto capire qualcosa delle faccende di Stato e di averne acquisito la necessaria esperienza. Coloro che invece attendono continuamente a quelle stesse incombenze, quand’anche fossero per natura meno dotati, sopravanzano di gran lunga gli altri per esperienza. Inoltre, mentre i primi trascurano molti compiti perché si aspettano di vederli assolti da altri, i secondi non ne tralasciano alcuno, sapendo che tocca a loro provvedere a tutto. Oltre a ciò, i cittadini degli Stati oligarchici e democratici nocciono alla comunità a causa delle continue rivalità tra di loro; mentre quanti vivono in Stati monarchici, non avendo chi invidiare, tutto effettuano al meglio possibile. Inoltre, gli uni sono sempre in ritardo rispetto agli eventi politici, giacché passano la maggior parte del tempo a discutere di affari loro e quando si riuniscano in assemblea, la maggior parte delle volte li si troverebbe a litigare invece che a consigliarsi vicendevolmente. Gli altri, invece, non essendo previste per loro né assemblee né tempi di lavoro, e dunque stando notte e giorno sulle faccende di Stato, non rimangono mai nell’ignoranza delle opportunità che si presentano e quindi effettuano ciascuna cosa al momento adatto. Per di più i primi, mossi come sono dalla malevolenza, vorrebbero che quanti entrano in carica prima di loro e dopo di loro, governassero la Stato nel peggior modo possibile, così da poter ottenere per sé la maggior gloria possibile. Invece i secondi, essendo per tutta la vita padroni assoluti dello Stato, sono mossi tutto il tempo da sentimenti di benevolenza verso i sudditi. E poi viene il fatto fondamentale: gli uni prestano attenzione alle faccende dello Stato come a faccende altrui, gli altri invece come a faccende proprie e personali; ed a loro riguardo utilizzano quali consiglieri, i primi, i più temerari tra i cittadini, gli altri invece, dopo averli selezionati tra tutti, i più assennati; e mentre gli uni onorano quanti sono capaci di arringare la folla, gli altri rendono onore a coloro che hanno scienza di come si trattano le faccende pratiche. 

Le differenze tra gli Stati monarchici e gli altri Stati non si riferiscono soltanto alle occupazioni ordinarie e quotidiane, ma includono anche tutte le superiorità che essi possono vantare in caso di guerra. Infatti gli Stati a potere assoluto sono capaci più di tutti gli altri di organizzare le forze armate e di utilizzarle in modo da tenerle nascoste e da anticipare le mosse altrui, da persuadere certuni e costringere altri con la forza, da corrompere taluni col denaro e farsi altri alleati con altri mezzi. Che su questa verità si possa fare affidamento è dimostrato dai fatti non meno che dalle parole. Noi tutti sappiamo che l’esercito dei Persiani raggiunse la sua enorme grandezza non a causa della saggezza di quegli uomini ma perché i Persiani, più degli altri popoli, hanno in onore la monarchia. Sappiamo anche che quando il tiranno Dionisio assunse il regno, tutto il resto della Sicilia era a soqquadro e che la sua stessa patria, cioè Siracusa, si trovava in stato di assedio. Ebbene egli non soltanto allontanò la sua patria dai pericoli che la sovrastavano, ma ne fece addirittura la più grande delle città greche. Inoltre sappiamo che i Cartaginesi e gli Spartani, popoli governati infinitamente meglio degli altri, in tempo di pace sono governati da una oligarchia, ma in tempo di guerra sono governati da dei re. E si potrebbe dimostrare che anche la città che più di tutte ha in odio le tirannidi, ossia Atene, qualora metta in campo molti generali va incontro a disastri militari, mentre quando dà ad uno solo la responsabilità di affrontare i pericoli della guerra, ottiene grandi vittorie. Con quali esempi migliori di questi si potrebbe più chiaramente dimostrare che la monarchia è il più eccellente dei governi? L’evidenza mostra infatti che gli Stati governati in permanenza da monarchi con potere assoluto hanno gli eserciti più grandi; che degli Stati ben governati da una oligarchia, qualora si tratti di faccende della massima importanza, alcuni istituiscono quale comandante supremo delle forze armate un generale soltanto, altri un re; e che gli Stati che odiano i re con potere assoluto, qualora mettano in campo molti generali, non concludono mai nulla di positivo. 

Se poi si deve parlare anche di storie antiche, ebbene si racconta che pure gli Dei abbiano Zeus quale loro re. Se quel che si racconta degli Dei è vero, è manifesto che anch’essi giudicano questa forma di governo essere la migliore. Se poi nessuno sa con certezza come stiano le cose e siamo stati noi a concepire a loro riguardo una simile ipotesi; ciò è comunque un chiaro segno che tutti noi preferiamo la monarchia, giacché non diremmo mai che gli Dei la utilizzano se non ritenessimo che essa in effetti sopravanza le altre forme di governo. 

Circa le forme di governo degli Stati e quanto esse differiscano una dall’altra, è cosa impossibile sia lo scoprirle sia il discuterle tutte. Nondimeno, a loro riguardo, per il momento è stato detto abbastanza. Sul fatto che io detenga il potere regale con pieno diritto, il discorso è invece molto più breve e molto meno aperto a dispute. Chi non sa infatti che Teucro, il capostipite della mia stirpe, prese con sé i progenitori degli altri cittadini, navigò fin qui, fondò per loro una città e ripartì tra di loro il territorio? E che mio padre Evagora, dopo che gli altri discendenti avevano perso il trono, lo riprese nuovamente dopo essersi sottoposto ai maggiori pericoli e introdusse cambiamenti così radicali che i Fenici non poterono mai più esercitare il potere assoluto sulle genti di Salamina, e che coloro cui apparteneva un tempo il regno sono anche adesso i re? 

Orbene, delle materie che mi proposi di trattare rimane ora da discorrere di me, affinché conosciate che chi regna su di voi è uomo di una levatura tale, non soltanto per merito dei suoi avi ma anche per merito suo proprio, che meriterebbe giustamente di ricoprire una carica anche più grande di quella che ricopre. Ora, delle virtù tutti ammetterebbero, io credo, che quelle degne del massimo onore sono la temperanza e la giustizia. Esse, infatti, non soltanto ci giovano in quanto tali, ma se volessimo considerare le umane faccende guardando alle loro nature, alle facoltà che coinvolgono e agli usi cui sono destinate, troveremo che quante non partecipano di queste grandi idee sono causa di mali, mentre quelle che sono congiunte alla giustizia e alla temperanza giovano in molti modi alla vita degli uomini. E se alcuni dei miei predecessori furono assai rinomati per il possesso di queste virtù, credo spetti anche a me la stessa loro rinomanza. Potreste vedere all’opera la mia giustizia specialmente a partire da quando fui incoronato re. Trovai allora le casse reali vuote, tutte le entrate già spese, gli affari di Stato in disordine e bisognosi di gran cura, di vigilanza e di notevoli esborsi di denaro. Pur ben sapendo che altri, trovandosi in situazioni come queste, cercano in ogni modo di raddrizzare le proprie finanze personali e sono costretti ad effettuare azioni contrarie alla loro stessa natura; io non mi lasciai pervertire da nessuna di queste tentazioni, e mi presi cura di ogni faccenda con una devozione tale e così bene da non tralasciare alcuna di quelle azioni che sono capaci di rendere più grande lo Stato e di farlo progredire verso il benessere. Inoltre mi comportai verso i cittadini con una tale mitezza che durante i miei anni di regno non ci sono stati né esili né condanne a morte né sprechi di denaro né alcun’altra di simili calamità. Essendo la Grecia per noi inaccessibile a causa della guerra sopravvenuta ed essendo noi depredati ovunque, io posi termine alla maggior parte di questi problemi pagando ad alcuni tutti i loro crediti, ad altri una parte di essi, chiedendo a taluni di differire le loro richieste e con altri ancora trovando, circa i loro reclami, il compromesso che mi fu possibile. Inoltre, essendo gli abitanti dell’isola assai maldisposti verso di noi e il Gran Re riconciliato con noi a parole ma nella verità dei fatti ferocemente avverso, io li rabbonii entrambi, mostrandomi premuroso servitore del secondo e procurando di essere giusto con i primi. Infatti io sono talmente alieno dal desiderare i beni altrui che mentre gli altri regnanti, appena abbiano un esercito anche di poco più potente di quello dei confinanti, si appropriano di una parte della loro terra e cercano di soverchiarli, io non ritenni giusto accettare neppure il territorio che mi veniva offerto ma scelsi, secondo giustizia, di tenere per me soltanto la terra che mi apparteneva piuttosto che acquisire con mezzi vili e vergognosi un territorio molto più grande di quello che possiedo. Ma che bisogno c’è di dilungarsi a parlare dei fatti miei uno per uno, quando m’è dato di rendere chiaro chi sono con pochissime parole? Sarà allora manifesto che io sono colui che non ha mai commesso ingiustizia contro alcuno, che ha fatto del bene a molti dei suoi cittadini e agli altri Greci, e che ha fatto ad entrambi doni più grandi di quelli che fecero tutti insieme coloro che regnarono prima di me. Ed è certo d’uopo che quanti si pregiano d’avere un grande concetto della giustizia e si vantano di essere superiori al vile denaro possano dire di se stessi cose altrettanto mirabolanti. 

Anche più grandiose di queste sono le cose di cui mi trovo a poter discorrere circa la mia temperanza. Infatti, ben sapendo che tutti gli uomini tengono in grandissima considerazione i propri figli e le proprie mogli, e che s’accendono d’ira tremenda contro quanti si macchiano di aberrazioni nei loro confronti; che l’oltraggio recato ai figli o alle mogli è causa di mali grandissimi; e che moltissime persone, tanto privati cittadini quanto regnanti in carica, hanno fatto una fine orribile a causa di comportamenti oltraggiosi; io ho talmente evitato di prestarmi ad accuse di questo genere che dal momento in cui sono diventato re nessuno può accusarmi di avere avuto altre relazioni sessuali che con mia moglie. Inoltre, pur non ignorando che godono ottima fama da parte di moltissime persone anche re i quali, pur trattando i cittadini secondo giustizia, si procurarono però piaceri carnali da qualche altra parte; ho deciso di tenermi il più lontano possibile da siffatti sospetti ed insieme di fare del mio comportamento un esempio per gli altri cittadini, conoscendo che in queste materie il popolo ama passarsela al modo in cui vede che passano il tempo coloro che lo comandano. Di poi ho ritenuto conveniente che i re siano migliori dei privati cittadini di quel tanto che corrisponde ai maggiori privilegi di cui essi godono, e che fanno una sconcezza quelli che costringono gli altri a vivere con compostezza e poi mostrano di essere meno temperanti dei loro sudditi. Oltre a ciò io vedevo che i più sono padroni di sé in altre faccende, ma che anche i migliori di essi si lasciano vincere da una scomposta passione quando si tratta di fanciulli e di donne. A questo proposito ho dunque deliberato di dimostrarmi capace di essere forte in cose nelle quali intendevo essere superiore non soltanto al volgo ma anche a quanti si pregiano d’essere virtuosi. Io stigmatizzavo perciò la profonda malvagità di coloro che prendono moglie e, una volta fattasela consorte di tutta la vita, non si conformano però ai patti sottoscritti, e con i piaceri carnali che si prendono gettano nell’afflizione donne dalle quali s’aspettano di non ricevere mai motivo alcuno di afflizione; e i quali, mentre procurano di essere onesti e corretti nel caso di altre relazioni, commettono però gravi mancanze in quelle con la moglie: relazioni che bisognerebbe invece custodire con tanta più fedeltà, quanto più capita che esse siano più intime e più preziose delle altre. Per di più essi non s’avvedono di lasciar così crescere lotte intestine e discordie all’interno degli stessi palazzi reali; laddove invece è d’uopo che i buoni re provino a gestire nella concordia non soltanto gli Stati sui quali regnano ma anche le persone della loro cerchia familiare e le tenute nelle quali dimorano, essendo tutte queste opere di temperanza e di giustizia. Inoltre io non ho avuto la stessa convinzione che ha la maggior parte dei re neppure circa la generazione dei figli. Non ho cioè creduto che un re debba fare figli con donne di bassa condizione e altri con donne di alta condizione, né lasciare dei figli alcuni bastardi altri legittimi, ma che tutti debbano avere la stessa natura e quindi risalire in linea paterna e materna: quanto ai mortali a mio padre Evagora, quanto ai semidei agli Aiacidi, quanto agli Dei a Zeus; né privare alcuno dei miei discendenti di questa nobile origine. 

Pur essendo molti i motivi che mi spronavano a rimanere fedele a questi intendimenti, mi invitava massimamente ad essi il vedere che anche molti viziosi partecipano della virilità, dell’abilità oratoria e di altre qualità assai lodate, mentre la giustizia e la temperanza sono possesso esclusivo dei virtuosi. Concepii dunque che la cosa più bella che si possa fare è di eccellere sugli altri in queste virtù, nelle quali nessun malvagio ha la menoma parte e che sono le più genuine, le più salde e quelle degne della massima lode. Per questo motivo e con questi pensieri in mente, ho esercitato più delle altre la temperanza, e dei piaceri ho prescelto non quelli che nei fatti non ci fanno alcun onore, ma quelli che ci fanno ottenere la fama che nasce dalla nobiltà di carattere. 

È d’uopo valutare le virtù non tutte nelle identiche situazioni ideali, ma la giustizia in situazioni di incertezza, la temperanza in quelle di potere assoluto e la padronanza di sé in età giovanile. Si vedrà allora che io ho dato prova della mia natura in tutte le situazioni. Quando fui lasciato privo di denaro, procurai di essere così giusto da non angustiare alcun cittadino. Quando ebbi la potestà di fare qualunque cosa volessi, divenni più temperante dei privati cittadini. Ed in entrambe queste circostanze mostrai il mio autocontrollo in un’età nella quale troveremo che la maggior parte delle persone usa commettere moltissime azioni aberranti. Davanti ad altre persone forse mi periterei di dire questa cose, non perché io non aspiri ad essere lodato per quel che ho fatto, ma perché quel che dico potrebbe essere stimato non degno di fede; mentre voi, invece, mi siete testimoni di tutto quanto ho detto. Ora, se vale la pena lodare ed ammirare le persone per natura costumate, ancor di più ciò varrà per quanti sono costumati per raziocinio; giacché coloro la cui temperanza è frutto del caso e non di convinzione, potrebbero mutare avviso; mentre quanti, oltre ad esserlo per natura sanno per avere ben vagliato la questione che la virtù è il sommo dei beni, è manifesto che manterranno per tutta la vita questo convincimento. 

Il motivo per cui mi sono dilungato in discorsi su di me e sugli altri soggetti che ho trattato, è di non lasciarvi alcun pretesto per non fare volontariamente e con slancio tutto ciò che io vi consiglierò e vi ingiungerò di fare. Dico dunque che ciascuno di voi assolva i compiti che gli sono assegnati con sollecitudine e con giustizia, giacché qualunque sia di queste due la modalità che trascurate, è necessario che le azioni che ne conseguono riescano male. Non siate pertanto negligenti e non sottovalutate nessuno dei compiti assegnati, pensando che quello assegnato a voi non sia importante, ma pensando invece che il successo buono o cattivo del tutto dipenderà dal successo di ciascuna delle parti, e così industriatevi sopra di esse. Tutelate i miei beni non meno dei vostri, e non ritenete che siano piccola cosa gli onori di cui godono i buoni soprintendenti dei miei. 

Astenetevi dai possedimenti altrui così da possedere più sicuramente i vostri, giacché è d’uopo che vi comportiate con gli altri come ritenete giusto che io vi tratti. Non abbiate più fretta di arricchirvi che di essere uomini probi, sapendo che sia tra i Greci che tra i barbari coloro che hanno gran fama d’essere virtuosi sono i possessori del maggior numero di beni. Siate certi che l’accumulazione di denaro ottenuta in modi ingiusti genererà non ricchezza bensì pericoli. Non reputate che l’incassare denaro sia un guadagno e lo spenderlo sia una perdita, giacché né l’una né l’altra di queste due operazioni ha sempre la stessa valenza, ed è invece vero che qualunque delle due sia fatta al tempo opportuno e con virtù, giova a coloro che la fanno. 

Non siate ostili a neppur uno dei miei comandi, giacché quanti di voi si presteranno utilmente alla realizzazione del maggior numero di essi, ebbene costoro massimamente gioveranno al loro patrimonio. 

Ciascuno di voi tenga per certo che qualunque sia il pensiero che avrà tra sé e sé, esso non mi rimarrà nascosto; giacché se pur io non fossi presente di persona, si sappia però che l’animo mio è presente a tutto ciò che accade; sicché avendo questa convinzione voi vi consiglierete su tutto più saggiamente. Non nascondete alcunché né dei vostri possessi, né di ciò che fate, né di ciò che intendete effettuare, sapendo che dalle faccende tenute nascoste necessariamente nascono molte paure. Non cercate di interessarvi degli affari cittadini artificiosamente e subdolamente, ma con tale semplicità e così apertamente che non sia facile calunniarvi neppure volendolo. Valutate le vostre azioni e reputate malvage quelle che volete fare di nascosto da me, ed invece buone quelle grazie alle quali io, una volta venutone a conoscenza, vi riterrò migliori di prima. Se vedrete persone che tramano contro la carica che ricopro, non tacete ma denunciatele; e legittimate che meritino la stessa pena coloro che nascondono un crimine e coloro che lo commettono. Non riteniate che ad avere buona fortuna siano quanti fanno il male e non sono colti in fallo, bensì quanti non commettono alcun delitto; giacché è verosimile che i primi subiscano poi pene adeguate ai mali che infliggono, e che i secondi ottengano invece la riconoscenza della quale sono degni. Non formate leghe o consorterie senza il mio consenso, giacché tali associazioni nelle altre forme di Stato sono di vantaggio, mentre sono pericolose negli Stati monarchici. Astenetevi non soltanto dal malaffare ma anche da quelle occupazioni nelle quali è necessario che si ingenerino su di voi dei sospetti; 

e siate certi che l’amicizia con me è sicurissima e saldissima. Custodite intatte le attuali istituzioni e non smaniate per alcuna loro trasformazione, sapendo che a causa dei disordini inevitabilmente gli Stati periscono e le case private vanno a soqquadro. Non crediate che chi detiene il potere assoluto regni con ferocia o con mitezza a seconda di una sua disposizione naturale, bensì che a determinare ciò è anche il modo di comportarsi dei cittadini. Infatti è dalla malvagità dei sudditi che molti tiranni sono stati costretti a governare più rudemente di quanto fosse loro intenzione. Abbiate fiducia nella vostra virtù più che nella mia mitezza, e credete che la mia sicurezza è per voi stessi una garanzia. Infatti, quando le cose mie stanno bene, allo stesso modo staranno le cose per voi. 

Voi dovete essere obbedienti al mio governo, attenendovi ai costumi tradizionali, osservando scrupolosamente le leggi del regno e mostrandovi splendidi nei servizi resi allo Stato e nella esecuzione dei miei altri comandi. 

Esortate i più giovani alla virtù non soltanto incitandoli ad essa a parole, ma anche mostrando loro nei fatti che sorta di persone è d’uopo siano gli uomini dabbene. Insegnate ai vostri figli ad obbedire a questi ed abituateli a dedicare il maggior tempo possibile all’educazione suddetta, giacché se impareranno ad obbedire come si deve ai comandi, saranno poi in grado di comandare su molti; e se saranno leali e giusti parteciperanno dei nostri beni, mentre se diventeranno malvagi correranno il pericolo di perdere i loro. Abbiate per certo che trasmetterete ai figli la massima e più salda ricchezza se potrete lasciare loro in eredità la nostra benevolenza. 

Ed abbiate per supremamente miseri e sfortunati quanti hanno mancato di fede a chi si era fidato di loro; giacché è necessario che individui siffatti siano scoraggiati, abbiano paura di tutto e trascorrano il resto della loro vita senza più fiducia negli amici né nei nemici. Emulate non quanti hanno accumulato grandi ricchezze, bensì quanti hanno la coscienza monda d’ogni male, giacché è con quest’animo che si potrebbe trascorrere la vita con somma piacevolezza. Non crediate che il vizio possa giovare più della virtù e che sia soltanto il suo nome a causare fastidio; anzi siate certi che quali sono i nomi che ciascuna cosa ha ricevuto, tali sono anche le sue proprietà. 

Non provate rancore verso coloro che nel mio governo primeggiano, ma affrontate la contesa e, procurando di essere probi, cercate di innalzarvi al livello di coloro che vi sono superiori. Pensate che è vostro dovere amare ed onorare coloro che anche il re ama ed onora, affinché possiate così essere da me ricambiati con le stesse dimostrazioni di affetto. 

Le cose che dite in mia presenza, pensatele anche in mia assenza; e la buona disposizione nei nostri confronti dimostratela con i fatti piuttosto che con le parole. 

Non fate agli altri ciò che vi fa adirare quando dovete subirlo dagli altri, e ciò che condannate a parole non praticatelo nei fatti. 

Attendete a fare le cose tali e quali come se pensaste di farle per noi; e non lodate soltanto gli uomini dabbene ma imitateli pure. 

Mentre date alle mie parole il valore di leggi, cercate anche di osservarle; sapendo che quelli di voi che maggiormente faranno ciò che io voglio, più rapidamente avranno la potestà di vivere come vogliono. 

Il punto capitale del mio discorso è questo: è d’uopo che voi abbiate verso il potere che io detengo lo stesso atteggiamento che credete debbano avere verso di voi i vostri sottoposti. 

Se lo farete, che bisogno c’è di spendere altre parole su ciò che accadrà? Se infatti io procurerò di essere il sovrano che sono stato in passato e voi continuerete a rendermi i vostri servigi, vedrete ben presto la vostra vita aver fatto progressi, il mio potere accresciuto e lo Stato divenuto felice. In vista di beni così grandi, vale dunque la pena di nulla tralasciare, ma di sopportare fatiche e pericoli di qualunque genere; ed è in vostra potestà procacciarvi tutti questi beni senza tribolazione alcuna, semplicemente con l’essere leali e giusti.

    Sono alcuni, i quali hanno l’animo avverso alle lettere, e biasimano i coltivatori di quelle, dicendo che essi seguitano sì fatto studio a fine, non di virtù, ma di avvantaggiarsi dagli altri. Io dimanderei volentieri a questi tali, che voglia dir ciò, che laddove essi lodano chi vuol bene operare, a un medesimo tempo fuggono da quelli che vorrebbono parlar bene. Che se spiacciono loro i vantaggi che uno ha dagli altri, veggiamo che più e maggiori se ne acquistano colle opere che colle parole. Anco sarebbe strano a pensare che questi nemici dei letterati non sapessero che noi facciamo onore agli Dei, pratichiamo la giustizia e seguitiamo le altre virtù, non mica per doverne avere disavvantaggio dagli altri, ma sì per vivere con quella maggior quantità di beni che per noi si possa ottenere. Sicché non sono da riprendere quelle cose per le quali uno può virtuosamente sopravanzare gli altri. ma sì quelle persone le quali peccano colle opere, e quelle che colle parole ingannano e che non le usano rettamente. E io mi maraviglio di questi che dicono male delle lettere, che non dicano anche male delle ricchezze, della forza, del coraggio. Imperocché se essi portano odio alle lettere per rispetto di coloro che si vagliono della eloquenza a ingannare altrui, ragion vuole che riprovino medesimamente anco gli altri beni, atteso che non mancano di coloro che vaglionsi di questi altresì per commetter male e far pregiudizio a molti.  Ma certo non è ragionevole, perché altri batta costui o colui, biasimare la forza, né condannare il coraggio per causa dei micidiali, né in somma riferire la malvagità degli uomini alle cose; ma voglionsi vituperare quei medesimi i quali usano male quelle che verso di se sono buone, e cercano nuocere ai compagni con quelle che sono atte a giovare. Ma questi tali, lasciate star queste distinzioni, guardano con mal occhio qualunque letteratura, e tanto si discostano dal diritto senso, che non si avveggono che essi portano odio a quella facoltà dell’uomo dalla quale nasce una copia di beni maggiore che da qualsivoglia altra. Imperocché nelle altre, come sarebbe a dire la velocità, la forza e simili, non che noi sormontiamo gli altri animali, anzi ne stiamo loro al di sotto. Ma per esserci dato dalla natura di poterci persuadere l’un l’altro e significare scambievolmente che che uno vuole, non tanto siamo potuti uscire della vita fiera e salvatica, ma congregati insieme, noi ci abbiamo fabbricato le città e posto leggi e trovato arti, e brevemente in quasi tutte le nostre invenzioni e fatture siamo stati aiutati principalmente dalla favella. Questa ha prescritto e statuito del diritto e del torto, del vituperevole e dell’onesto, senza i quali ordini noi non potremmo vivere insieme. Con questa accusiamo e convinciamo i cattivi, e celebriamo i buoni. Per mezzo di questa addottriniamo i semplici, e conosciamo i sensati. Imperciocché il favellare a proposito e acconciamente si è indizio di sensatezza certissimo fra tutti gli altri, siccome un parlar verace, legittimo e retto si è immagine di un animo buono e leale. Colla favella disputiamo delle cose dubbie, discorriamo tra noi medesimi delle ignote. Perocché quegli argomenti stessi coi quali l’uno, parlando, persuade l’altro, si usano altresì quando l’uomo delibera in se medesimo delle cose proprie; ed eloquenti sono denominati quelli che sanno favellare nella moltitudine, avveduti poi si stimano coloro che più saviamente parlano seco stessi di quel che occorre. E a dire di questa facoltà in ristretto, nessuna opera che si faccia con ragione e senno, si fa senza intervento della favella, governatrice e regina di tutti gli atti e pensieri dell’uomo; e trovasi che chi più intendimento ha, più la suole usare. Di modo che quelli che si ardiscono mordere i precettori delle lettere e gli studiosi di quelle, non sono manco da avere in abbominazione che sieno coloro che offendono i templi degl’immortali. Io quanto a me, ho cara e pregiata qualunque letteratura; ma bellissimi e regii ed accomodati a me sopra tutti gli altri mi paiono quei ragionamenti che danno consigli e regole sopra gl’instituti e gli uffici, e sopra i reggimenti delle città, e massime quelli che insegnano ai potenti come sia da trattare la moltitudine, e ai privati come sia da procedere verso i principi. Perocché io veggo per questi sì fatti ammaestramenti le città essere felici e crescere in grandezza oltremodo. Dell’altra parte, cioè come uno debba regnare, avete udito il ragionamento composto da Isocrate. Quella che le tien dietro, la quale si è degli uffici dei sudditi, vedrò di spiegarla io, non con animo di soverchiare Isocrate, ma in quanto che egli mi si conviene di favellarvi sopra tutto di questa materia. Perocché se non avendovi io dato a conoscere quello che io voglio che voi facciate, intervenisse che voi vi discostaste dalla intenzione mia, non me ne potrei giustamente crucciare. Ma se avendovelo io mostro, non seguisse l’effetto, ben ragionevolmente riprenderei chi non ubbidisse. Io credo che meglio mi verrà fatto di persuadervi, e meglio vi recherò a tener bene a memoria e mettere in pratica quello che io sono per dire, se non istarò solamente in sul consigliarvi, e annoverato che io v’abbia i miei precetti, farò fine, ma se da vantaggio dimostrerovvi, prima, che lo stato presente della città si vuole aver caro e contentarsene, non solo per rispetto alla necessità, né anco perciò solamente, che sempre siamo vissuti con questa forma, ma per rispetto eziandio che ella è la migliore di tutte. Poi, che questo principato che io tengo, io non l’ho per modo illegittimo e non è d’altrui, ma tengolo lecitamente e di ragione, sì avendo riguardo ai miei progenitori primi, sì a mio padre e sì ultimamente a me stesso. Dimostrate che sieno le quali cose, nessuno ci dovrà essere che, pure da se, non si giudichi degno di qual si sia maggior pena, in caso che egli contravvenga ai consigli e ai comandamenti miei. Quanto si è adunque agli stati delle città, poiché da questa parte ho proposto di dover cominciare, io penso che a tutti paia malissimo fatto che in una medesima condizione sieno i malvagi e i valentuomini, e giustissimo per lo contrario che le cose sieno distinte in modo che ad uno non tocchi quel medesimo che ad altri diversi da lui, ma ciascheduno riceva ed abbia secondo il merito. Ora le signorie di pochi, e medesimamente le repubbliche popolari, cercano la egualità fra quelli che partecipano dello stato, ed havvisi in pregio se l’uno non può di qual si sia cosa trapassare l’altro, il quale ordine ridonda in utilità dei tristi. Le monarchie danno il più e il meglio a chi similmente val più, la seconda parte a chi vien dopo, la terza e la quarta agli altri secondo la stessa regola. Che se questo modo non si trova usato da per tutto, nondimeno la proprietà della monarchia vorrebbe così. Distinguere le nature e gli andamenti degli uomini nessuno vorrà negare che non si faccia più nelle monarchie che negli altri stati. Ora dimando io, chi non bramerebbe, essendo di sano intendimento, di vivere in quella repubblica dove, se egli è persona d’assai, per tale debba essere conosciuto, anzi che starsene confuso tra la moltitudine senza che gli uomini sappiano quel che ei si vaglia? Oltre a tutto questo, di tanto è più discreta e più facile la monarchia che non sono le altre repubbliche, quanto è più leggera cosa aver l’occhio alla volontà di un solo, che sforzarsi di aggradire a molti e diversi ingegni Dunque che lo stato monarchico sia più comodo, più discreto e più giusto, si potrebbe anco provare con più ragioni, ma pure per le anzidette si è bastevolmente chiaro.
Nelle altre parti, quanto stieno di sopra le monarchie per rispetto sì al deliberare e sì all’eseguire convenientemente, si potrà considerare meglio che in altro modo, se noi porremo a riscontro quello che interviene ai diversi stati circa ai negozi principali. Coloro dunque che entrano ai magistrati d’anno in anno, prima ritornano nella condizione privata, che eglino abbiano potuto intendere alcuna parte delle occorrenze del comune, e farvi la pratica. All’incontro quelli che sempre stanno al governo delle medesime cose. quando pur fossero di natura manco adatta, certo però in quanto alla pratica, sono di gran lunga da più che gli altri. Poi, quelli trascurano molte cose, riposandosene gli uni negli altri scambievolmente; ma questi non lasciano cosa alcuna a cui non pongano cura, sapendo che a loro tocca di provvedere a che che sia. Oltre a ciò negli stati di pochi, e il simile nei popolari, quelli che governano nocciono alla comunità per le gare e le concorrenze che hanno tra se; laddove i monarchi, non avendo a chi portare invidia fanno di ogni cosa il meglio che possono. Aggiungasi che quelli fanno il bisognevole troppo tardi, perché il più del tempo si adoperano nei loro servigi privati, e quando sono insieme a consiglio, più spesso si veggono quistionare, che deliberare in comune. Per lo contrario i monarchi, non avendo né congregazioni né tempi assegnati al deliberare, e stando dì e notte in sul provvedere ai negozi, non restano indietro ai bisogni e alle occasioni, ma fanno ogni cosa a tempo. Di più, quelli hanno l’animo alieno gli uni dagli altri, e per acquistare essi più riputazione, vorrebbero che gli uomini stati negli uffici prima, e quelli che vi hanno a essere dopo loro, avessero fatto o fossero per fare della città il peggior governo del mondo. Ma i re, avendo in mano il reggimento tutta la vita, sempre amano la città di uno stesso amore. E quello che è di momento sommo e principalissimo, questi governano le cose della comunità come proprie, quelli come altrui; e gli uni, per loro consiglieri nel governarle, adoperano, fra i cittadini, i più arditi, gli altri scelgono fra tutti i più prudenti; e quelli onorano chi sa favellare tra la turba, questi chi sa maneggiare i negozi.
E non solo nelle cose ordinarie e in quelle che occorrono alla giornata, va innanzi lo stato monarchico a tutti gli altri, ma eziandio nella guerra ha tutti i vantaggi che si possono avere. Far preparamenti di forze, usarle per modo che elle o si rimangono occulte o sieno manifeste secondo che la utilità richiede, persuadere gli uni, sforzare gli altri, da questi comperare, quelli guadagnare con altre arti, tutte queste cose meglio si possono fare dalle monarchie che dagli altri stati. E che ciò sia vero, oltre alle ragioni, abbiamo anche gli esempi. Sappiamo tutti che la signoria de’ Persiani è venuta in questa tanta grandezza, non per senno e prudenza di quella gente, ma perciocché essi più che gli altri popoli onorano la monarchia. Veggiamo il re Dionigi, trovato il rimanente della Sicilia desolato e guasto, e la sua patria assediata, non solo averla tratta dai pericoli di quel tempo, ma ridottala eziandio la maggiore delle città greche. I Cartaginesi, e similmente i Lacedemoni, i quali hanno migliori ordini di repubblica che gli altri Greci, troviamo che in casa sono governati da pochi, alla guerra dai re. Si potrebbe anco dare a vedere che gli Ateniesi, i quali sopra tutti gli altri portano odio grandissimo ai principati, qualora prepongono agli eserciti molti capi, fanno mala prova, qualora un solo, succedono loro le cose felicemente. Ora, come si potrebbe meglio provare che con questi esempi, la monarchia vincere di eccellenza tutti gli altri stati? nei quali esempi si veggono, da una parte, uomini sottoposti sempre e compiutamente alla signoria d’un solo, avere imperio grandissimo; da altra parte, popoli governati da un convenevole reggimento di pochi, adoperare alle cose di maggior momento, quale la potestà di un solo capitano, quale il governo regio nelle soldatesche; in fine uomini odiatori dei principati, qualunque volta nelle guerre usano l’opera di più capi, non avere alcun successo buono.
Che se noi vogliamo anche toccare alcuna delle cose antiche, è fama che gli Dei medesimamente sieno sottoposti al regno di Giove. Dei quali, se la fama è vera, manifesto è che ancora essi giudicano sì fatta constituzione essere la migliore. Se niuno sa certamente il fatto come egli stia, ma solo congetturando noi siamo venuti in questa opinione, segno è che tutti abbiamo in pregio singolare lo stato monarchico, poiché non avremmo mai detto che gl’immortali si valessero della monarchia, se di lungo intervallo non la reputassimo superiore a qualunque altra forma di reggimento.
Dunque degli stati delle città, quanto si avvantaggino gli uni dagli altri, a pensarne non che a dirne ogni cosa, sarebbe impossibile; ma ora al nostro uopo basta quel tanto che ne è detto. Che poi giustamente e convenevolmente io mi tenga questa signoria, con molto minor numero di parole si può dichiarare, ed è cosa intorno alla quale consentono i giudizi degli uomini molto più. Tutti sanno che Teucro, ceppo della mia famiglia, presi con se gli antenati degli altri nostri cittadini, venuto in questi paesi, fondò ai compagni questa città, e tra loro il territorio distribuì; e che mio padre Evagora, stata perduta da altri la signoria, esso con pericoli grandissimi ricuperatala, mutò le cose per modo, che non più i Fenici comandano ai Salamini, ma quelli che ebbero questo regno a principio, hannolo anche al presente.
Resta che io dica di me stesso, acciocché voi conosciate tale essere il re vostro, che egli, non solo per rispetto degli antenati, una per se medesimo, sarebbe arco degno di maggior dominio che questo non è. Io penso che niuno voglia contendere che di tutte le virtù non sieno le più pregevoli la giustizia e la temperanza, poiché queste, non solo ci sono utili da se medesime, ma se noi prenderemo a considerare le cose umane, guardando alle nature, alle potenze ed agli usi loro, troveremo che quelle che sono al tutto divise da queste due qualità, producono mali grandi, e quelle che sono congiunte alla temperanza e alla giustizia, giovano in molti modi alla nostra vita. Ora se mai per l’addietro fu alcuno che di così fatte virtù avesse lode, parmi che ancora a me sia dovuta la stessa fama. La mia giustizia potete conoscere massimamente da questo, che avendo io trovato, quando presi a regnare, vòto l’erario regio, consumata ogni facoltà, ogni cosa piena di confusione e bisognosa di cura, di cautela e di spesa grande, benché io sapessi che altri in sì fatti casi non lasciano mezzo alcuno indietro, appartenente a riordinare le cose proprie, e si lasciano sforzare a molti atti diversi dalla natura loro, non per tanto non fui pervertito da tali difficoltà e da tali esempi, ma governai le cose con tanta innocenza e tanta onestà, che io non pretermisi di fare una menoma parte di quello perché la città dovesse crescere e prosperare. Imperciocché verso i cittadini io mi portai con tanta piacevolezza, che sotto il mio regno non si sono veduti esilii né morti né confiscazioni di beni né multe né così fatta calamità nessuna. Ed essendoci per la guerra di quei tempi la Grecia chiusa, e noi predati e spogliati in ogni luogo, i più di questi travagli io tolsi via, pagando a chi tutto, a chi parte, pregando alcuni d’indugio, con altri componendo le differenze come io potetti il meglio. Oltre di ciò essendo verso di noi gli animi delle genti dell’isola mal disposti, e l’Imperatore riconciliato in parole, ma in fatti pieno di mala volontà, io raddolcii gli uni e l’altro, questo colla diligenza e prontezza negli ossequi e nei servigi, quelli con procedere verso loro dirittamente. Imperocché io sono di tal maniera alieno da ogni appetito dell’altrui, che laddove molti, solo che possano poco più dei vicini, usurpano parte delle loro terre e cercano di vantaggiarsi contro il diritto, io non volli anco accettare quel tanto di paese che mi era offerto, e mi eleggo di possedere con giustizia il mio territorio solo, piuttosto che per vie torte acquistarne maggiore a più doppi. Ma che bisogno è dilungarsi ricordando questa e quella cosa, quando io posso con poche parole dire che egli sarà manifesto a chiunque ne cercherà, non avere io mai fatto ingiuria ad alcuno, e per lo contrario aver fatto beneficio a un maggior numero sì di cittadini e sì di altri Greci, e dato a questi e a quelli maggiori doni, che non fecero tutti insieme i re predecessori miei? E veramente converrebbe che quelli che si pregiano di giustizia grande, e che fanno professione di non essere superabili dall’amor della roba, potessero dire di se cose altrettanto insigni.
Anche maggiori di queste io mi trovo poter narrare intorno alla mia temperanza. Perocché veggendo che niuna cosa hanno tutti gli uomini generalmente così cara siccome le mogli e i figliuoli, e contro a niuno si adirano sì gravemente come contro a chi offende loro le une o gli altri; e che la contumeliosa libidine verso quelle o questi è fonte di calamità grandissime, e molti per sua cagione, così privati come principi, essere capitati male; io fuggii per modo ogni imputazione di sì fatte colpe, che egli si può trovare che da poi ch’io tengo il principato, niuna persona, salvo che la mia donna, ho usata amorosamente: non che io non sapessi che nell’universale hanno lode eziandio coloro che osservando i termini del giusto in quanto si è alle cose dei cittadini, procacciano però di loro diletti da qualche altra parte; ma da un canto io mi sono voluto tenere come più si poteva lontano da ogni sospetto in questo particolare, da un altro lato farmi esempio di costumatezza a’ miei cittadini, sapendo che la moltitudine suol tenere quegl’instituti e quei modi che ella vede essere usati da’ suoi reggitori. Di poi m’è paruto essere convenevole che siccome i principi sono maggiormente onorati che gli altri uomini, così ed altrettanto sieno migliori di quelli; e sconcio essere oltremodo il procedere di coloro i quali costringono gli altri a vivere modestamente, ed essi non dimostrano più di temperanza che i loro sudditi. Oltre che io vedeva nelle altre cose anche uomini volgari essere continenti, ma queste così fatte libidini vincere anco i migliori. Pertanto ho voluto dimostrarmi atto a resistere alla cupidità in quelle cose dove io non era solamente per superare il volgo, ma eziandio quelli che si pregiano di virtù. Mi pareva anche molto da biasimare chi avendo menata moglie e fattasela consorte di tutta la vita, poi contraffacendo al suo proprio fatto, affligge co’ suoi piaceri quella dalla quale egli si persuade che niuna afflizione gli convenga ricevere; e dove egli in altri consorzi e in altre congiunzioni si porta convenevolmente, non guarda di mancare in questo consorzio che egli ha colla moglie, il quale sarebbe da osservare con tanto più studio che gli altri, quanto egli è il più stretto e il maggiore che l’uomo ahbia. Ed ecco che questi tali per così fatto modo, non se ne avvedendo, dentro alla medesima reggia si creano e si nutricano sedizioni e discordie, laddove egli è pure ufficio dei principi buoni procacciare la unità degli animi non solo nelle città sottoposte alla signoria loro, ma eziandio ne’ palagi propri e dove che essi dimorino. Né anco mi è piaciuta mai quella opinione che hanno la più parte dei principi intorno alla procreazione dei figliuoli, né mi è paruto ben fatto, procrear questo da femmina di minor grado, quello da persona di più alto affare, e lasciar figliuoli, altri spuri ed altri legittimi; ma ho creduto che quanti nascessero da me, tanti dovessero potere, sì dal canto del padre e sì della madre, riferire la propria origine a mio padre Evagora tra i mortali, agli Eacidi tra gli eroi, a Giove tra gl’iddii, e nessuno de’ miei figliuoli dovere essere privato di questa nobiltà di stirpe.
E una delle molte considerazioni che mi hanno indotto a volere entrare e perseverare in questi andamenti e in questi propositi, è stata che il coraggio, l’ingegno e le altre qualità lodate, sono comuni a molti ribaldi, ma la temperanza e la giustizia sono proprie ricchezze degli uomini costumati e buoni. Onde la più onorata cosa che io potessi fare, mi è paruto che fosse di attendere, lasciate star le altre virtù, a queste due, delle quali nessuna parte hanno i tristi, verissime, durevolissime, grandissime sopra tutte, e degne di grandissima lode. Per questa considerazione, più che nelle altre virtù, ho posto cura all’esercitarmi nella temperanza e nella giustizia, e delle voluttà non ho scelto quelle che si godono in sul fatto stesso e che niuna sorta di onore portano seco, ma sì bene quelle che si colgono dalla gloria prodotta dalla bontà dei costumi e delle azioni.
Vuolsi poi giudicare delle virtù esaminandole, non tutte negli stessi casi, ma la giustizia laddove l’uomo trovasi disagiato di roba, la temperanza laddove egli è in istato potente, la continenza nella età giovanile. Ora in tutte queste condizioni si è potuto vedere il saggio delle mie qualità. Perciocché lasciato da mio padre in istrettezza di danari, io mi sono portato con giustizia tale che io non ho dato materia di rammarico a un cittadino qual si fosse; venuto in quel grado di potenza dove l’uomo fa quel che ei vuole, io mi sono dimostrato più temperante che non fanno i privati; e l’uno e l’altro a tempo che io mi trovava in quella età nella quale veggiamo che i più degli uomini sogliono nelle loro azioni trascorrere più che mai. Tutte queste cose, forse che a dirle con altri io non mi arrischierei leggermente, non che egli non me ne paia meritar lode o che io non la curi, ma per dubbio ch’elle non mi fossero credute; ben le dico francamente con voi, che al tutto me ne potete essere testimoni. Ora egli si conviene lodare e ammirare eziandio quelli che sono costumati naturalmente, ma più quelli in cui la costumatezza procede anco da ragione; perciocché ove quella è caso e non consiglio, medesimamente il caso la può disfare; ma quelli che oltre alla disposizione ingenita, hanno stabilita nell’animo per giudizio e conoscimento questa sentenza, la virtù essere il maggiore di tutti i beni, manifesto è che mai non sono per lasciare siffatto stile.
Mi sono voluto distendere in questi ragionamenti, così di me stesso come delle altre cose dette fin qui, per non vi lasciar luogo a nessuna scusa che voi non dobbiate far prontamente e di buona voglia quanto io vi sono per consigliare e per comandare. Dico dunque che ciascuno di voi faccia quello ufficio al quale è preposto, con accuratezza e rettitudine; perché se voi mancherete dell’una o dell’altra in qualunque parte, necessario è che in quella parte le cose non riescano come dovrebbero. Però non dovete spregiare né trascurare nessuno de’ miei comandamenti, immaginandovi che questi o quegli altri montino poco; anzi dovete pensate che da ciascuna delle parti dipenda che buona o cattiva sia la condizione del tutto, e usar diligenza proporzionata a questa opinione. Tanta cura abbiate delle cose mie, quanta delle vostre proprie; e non vi date ad intendere che piccioli beni sieno quegli onori che hanno i ministri miei buoni.
Astenetevi dalla roba d’altri, se volete più sicuramente possedere la roba vostra; e portatevi verso quelli nel modo che voi giudicate che io mi debba portare verso di voi.
Non vi caglia più dello arricchire che dello aver buona fama, perché dovete sapere che qualunque è tra i Greci o tra i Barbari, maggiormente celebrato dagli uomini per la virtù, ciascuno di questi tali ha maggior quantità di beni in suo potere. I guadagni fatti per modi ingiusti, abbiate per fermo essere per produrre, non mica ricchezza, ma pericolo. Non vogliate pensare che il ricevere o prendere sia guadagno, il dare, discapito; perocché né l’uno né l’altro importa quel medesimo sempre, ma qualunque dei due fassi tempo ed onestamente, ritorna in beneficio di chi lo fa.
Non abbiate a grave niuna delle mie commissioni, perché quelli di voi che mi saranno utili in maggior numero di servigi, avanzeranno maggiormente le case loro.
Fate conto che niuna di quelle cose delle quali ciascuno di voi sarà consapevole a se medesimo, mi debba restate occulta, ma quando io vi sia lontano colla persona, pensate che l’animo mio si trovi presente a ogni cosa; perché con questo pensiero procederete nelle vostre deliberazioni più sanamente. Non mi vogliate celar che che sia né di quanto voi possedete né di quanto operate o siete per operare; considerando che sopra le cose occulte nascono necessariamente molti sospetti. E così non vogliate usare un tenor di vita artificioso e nascosto, ma procedere con semplicità e scopertamente per modo che niuno, eziandio volendo, possa trovar taglio di accusa contro di voi. Esaminate ogni atto che siate per fare, e abbiate per cattivi quelli che voi non vorreste che io sapessi, per buoni quelli a cagione dei quali io terrovvi, dove io li risappia, in migliore estimazione di prima. Se vi abbattete a scoprire o fatti o disegni contrari alla mia potestà, non ve gli conviene tacere, ma dinunziargli, e pensare che quella pena medesima che è dovuta a chi pecca, si conviene ancora a chi nasconde il peccato. Felice dovete riputare non chi male operando, non è veduto, ma chi non fa male veruno, atteso che egli è da credere che l’uno e l’altro abbiano a riportare quella mercede che si appartiene al merito di ciascuno di loro. Non fate compagnie né ritrovi senza il mio consenso, perché sì fatte congiunzioni in tutti gli altri stati servono ad avvantaggiarsi, ma elle corrono pericolo nelle monarchie. Astenetevi non solo dalle malvage opere, ma da quegli andamenti altresì e da quegl’instituti i quali di necessità danno materia di sospetto.
Abbiate l’amicizia mia per sicurissima e costantissima, e sforzatevi di conservare lo stato presente né vogliate desiderar mutazione alcuna; considerando che per così fatti moti forza è che periscano le città e che le case private rovinino. Fate ragione che l’asprezza o la mansuetudine dei principi non procede solo dalla natura di quelli, ma eziandio da’ portamenti dei cittadini, perché molti signori per la malvagità dei sudditi sono necessitati di usare un governo più duro che non vorrebbono. Fondamento di sicurezza di animo vi debbe essere non più la benignità mia, che la vostra propria virtù. Ed abbiate a mente che l’essere io libero da pericoli, darà luogo a voi di poter anco vivere senza timori, perché se le mie cose staranno bene, le vostre eziandio staranno non altrimenti.
Voi dovete essere umili verso l’imperio mio, con osservare i costumi introdotti e custodire le leggi reali; ma splendidi nei servigi delle città e nello eseguire i miei comandamenti.
Studiatevi di menare i giovani alla virtù, non solo con le parole, ma eziandio mostrando loro colle opere come abbiano a esser fatti gli uomini buoni e d’assai. Ammaestrate i figliuoli propri a sapere essere governati dai principi, ed assuefategli a porre nello studio di così fatta virtù la maggiore industria e la maggior cura del mondo; perocché se eglino impareranno a esser governati, saranno poi molto meglio atti a governare; e se eglino riusciranno fedeli e diritti, entreranno a parte dei nostri beni; se tristi, andranno a pericolo di perdere i loro propri. E fate giudizio di avere a lasciare ai figliuoli una ricchezza grandissima e stabilissima, se voi lascerete loro la nostra benevolenza.
Abbiate per supremamente miseri e sfortunati quelli che sono mancati di fede a chi si era fidato di loro; necessaria cosa essendo che questi tali vivano il rimanente della loro vita in grande sconforto, avendo sospetto e paura di chicchessia e non si fidando più degli amici che dei nemici. Paianvi degni d’invidia, non quelli che abbondano di ricchezze più che gli altri, ma quelli a cui la coscienza non rimorde di nessun atto o pensamento sinistro; perché l’uomo può con sì fatto animo, trapassare la vita più dolcemente. E non vi date ad intendere che la malizia possa meglio fruttare che la virtù; solo aver nome più fastidioso a sentire: anzi abbiate per fermo universalmente che la proprietà delle cose corrisponde ai nomi che elle portano.
Non vogliate avere invidia a quelli che per disposizione mia tengono i primi luoghi, ma piuttosto emulargli, e sforzarvi, collo adoperar bene e valentemente, di pervenire agli stessi gradi. Quelli che il prinicpe ama ed onora dovete amare e onorare anche voi, se volete essere da me vicendevolmente onorati ed amati.
I pensieri vostri quando io vi sono lontano, fate che corrispondano alle parole che voi dite alla presenza mia; e più che colle parole, dimostratemivi affezionati colle opere.
Guardatevi di non fare agli altri quello che voi non potete portare in pace che sia fatto a voi, e medesimamente di non seguitare in effetto nessuna di quelle cose che voi condannate in parole.
Aspettatevi di aver a esser trattati secondo quali saranno i pensieri vostri verso il principe.
Non vogliate solo commendare gli uomini da bene, ma prendergli anco a imitare.
Abbiate le mie parole per leggi, e studiatevi di osservarle, perché quelli di voi che faranno maggiormente ciò che io voglio, avranno facoltà di vivere come essi vorrebbono.
E a recare le molte parole in poche, voi dovete procedere verso l’imperio mio nel modo che voi giudicate che si debbano portare verso di voi medesimi quelli che vi sono sottoposti. E adempiendo voi le predette cose, che starò io qui ad esporvi distesamente gli effetti che seguiranno? Basta che se io continuerò nello stile usato fin qui, e voi farete come innanzi quanto vi si appartiene, non passerà gran tempo che voi vedrete ridotta la vita vostra in istato più copioso e felice, accresciuto il mio regno, e la città in flore. Nessuno espediente per verità sarebbe da pretermettere, ogni qual si sia fatica o pericolo che si richiedesse, sarebbe da sostenere di buona voglia per l’acquisto di così fatti beni. Ora voi potete senza alcun travaglio né rischio, con solo essere giusti e fedeli, conseguire tutte queste felicità.    

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