Categories
Scritti originali

ATOPIA E IMMOBILITÀ DI SOCRATE

Trasformare l’acqua in vino

Quando ci parlano di qualcuno capace di trasformare l’acqua in vino, perché pensiamo ad un miracolo e crediamo a ciò che ci raccontano senza prima riflettere? Siamo a Cana, un villaggio della Galilea alle pendici del Monte Tabor, circa quattrocento anni dopo la mia morte, e siamo stati invitati ad un banchetto di nozze. All’improvviso serpeggia tra i tavoli la notizia che, per l’imprevidenza o più verosimilmente per la tirchieria del padrone di casa, è finito il vino. A questo punto una madre, che certo desidera continuare a bere, dice a suo figlio: “Pensaci tu”, e agli inservienti: “Fate quello che lui vi dirà”. Il figlio sulle prime si rifiuta, ma poi esegue l’ordine ricevuto e comanda ai servitori di riempire d’acqua i recipienti che prima contenevano il vino. Ci rendiamo conto di quali materiali fossero fatti questi recipienti? Ci rendiamo conto di quali fossero le tecniche di vinificazione del tempo e di quanto fosse difficile la conservazione del vino? Abbiamo sentore di quale dovesse essere il deposito di feccia presente in anfore di terracotta o di altri simili contenitori a collo stretto? Pertanto è non sorprendente che da quei recipienti riempiti d’acqua fuoriuscisse poi un liquido colorato che venne addirittura scambiato per un vino di migliore qualità, essendo meno acido e meno astringente. Qui il solo miracolo, si fa per dire, è la stolida credulità dei presenti.

Coloro che credono al miracolo della trasformazione dell’acqua in vino, perché non dovrebbero dunque essere pronti a prendere sul serio l’interpretazione corrente che è stata data della mia ‘atopia’, e provare rispetto per quanti hanno scritto su di essa migliaia di pagine che, fortunatamente, sono in pochi a conoscere? Cos’è quello che chiamano la mia ‘atopia’? Non bastava la storia del mio essere padre del ‘tutto quel che so è di non sapere nulla’ e quella del mio démone e delle voci e degli starnuti e delle visioni che mi hanno attribuito e delle quali ho già spiegato qui origine e significato. Bisognava pure aggiungere e unire strettamente ad esse la leggenda della mia ‘atopia’. E siccome anche questa è una leggenda che ha me per protagonista e che è nata quando io era ancora vivo e vegeto, ve la faccio raccontare da chi ne ha scritto tra i primi, ossia da quel ragazzo di nome Platone, che io chiamo amichevolmente ‘una mia sventura postuma’. Egli inventa la vicenda di un Simposio al quale io avrei partecipato nel 416 a. C. -quando lui aveva si e no tredici anni- in occasione di un banchetto in casa di un poeta di nome Agatone e del quale io sarei stato innamorato. Sentite cosa racconta il ragazzo: 

“Socrate camminava per via con la mente tutta concentrata su se stesso ed era così rimasto indietro. Aristodemo si fermò allora per aspettarlo, ma Socrate gli disse che andasse pure avanti. [….] Sopraggiunse allora un domestico, il quale annunciò che Socrate s’era ritirato nell’atrio della casa dei vicini, che era fermo lì e che, benché chiamato, non voleva venir via. [….] E Aristodemo disse: “No, no; lasciatelo stare. Questa è una sua abitudine: talvolta si apparta dove capita e rimane fermo lì. Sarà qui ben presto, io credo. Dunque non disturbatelo e lasciatelo stare”. [….] Infatti Socrate arrivò poco tempo dopo”. 
Platone ‘Simposio’ 174D-175C

Platone fa i miracoli

Devo ammettere che l’evento descritto, pur non essendo vero, è comunque verosimile. Se si è in compagnia, una persona assorta in qualche pensiero ha ben il diritto di rallentare il passo. Salvo che ciò è non imputabile alla mia fantomatica ‘atopia’ bensì a disturbi alla prostata dei quali avevo cominciato a soffrire da poco e alle ricorrenti aritmie delle quali soffrivo ormai da molto tempo. Sono cose che molti di coloro che leggono possono ben ammettere di conoscere. Ma le spiegazioni semplici a volte sono leggermente meno interessanti e risultano poco filosofiche. Molto meglio fantasticare di me che nel recarmi da Agatone mi sento improvvisamente posseduto da una strana forza (ecco qua il mio ‘démone’ o una sua sottospecie) che non ha la forma di un sentimento umano, ma quella più inquietante della possessione di un Dio. Le cose d’amore, infatti, -e nel caso specifico il mio amore per Agatone- non apparterrebbero al racconto dell’anima razionale, perché in loro presenza l’anima subirebbe una dis-locazione, ecco la mia ‘atopia’, che, spostando il regime delle sue regole, indebolirebbe nell’uomo il possesso di sé. Pulsioni e desideri, irrompendo come significanti incontrollati nell’ordine dei significati statuiti, produrrebbero nel senso quel controsenso che fa ruotare i discorsi senza immobilizzarli intorno a un dispositivo ideale che l’anima ha faticosamente raggiunto come sua con-nessione razionale, e che si trova ad essere invece scon-volto ed aperto a nessi di tutt’altro genere. L’amore, infatti, porterebbe fuori dal luogo dove solitamente si svolge la vita e creerebbe uno stato di sospensione in cui spazio e tempo perdono estensione e durata. È questo la mia ‘atopia’ oppure questo è un modo di trasformare l’acqua in vino? 
Sforziamoci insieme di riflettere brevemente, cercando innanzitutto di capire il modo in cui ragiona Platone, quale sia la sua tecnica di vinificazione. Secondo lui l’anima dell’uomo è tripartita, ed è composta da una parte ‘raziocinante’ che è situata nella testa, da una parte ‘commotiva’ che è situata nel torace e da una parte ‘concupiscente’ che è situata nella zona ombelicale. Nel ‘Fedro’ lui stesso ce ne dà un’immagine notissima, paragonandola ad una biga tirata da due cavalli alati, uno bianco e uno nero, e guidata da un auriga. Il cavallo nero rappresenta la parte concupiscente dell’anima, quella che contiene gli istinti più volgari, è divina smania di cose materiali, tende verso il basso ed è riottosa ai comandi dell’auriga. Il cavallo bianco rappresenta la parte commotiva dell’anima, quella che contiene le pulsioni più nobili, è divina smania di cose celesti, tende verso l’alto ed è più ubbidiente ai comandi dell’auriga. L’auriga rappresenta la ragione, che è quella che deve dirigere il corso del carro verso l’iperuranio, ossia la sede ultra terrestre dell’unica realtà immortale che merita di essere conosciuta: quella delle idee. La dinamica dell’anima vivente, pertanto, prevede due componenti: un componente energetico, rappresentato dai cavalli alati e che è divina potenza erotica; e un componente direttivo che è logos ossia ragione. Senza eros la ragione è impotente, e senza la ragione eros è cieco. Nel Simposio, e in particolare nel discorso di Diotima, è possibile trovare accuratamente dettagliato il percorso della biga alata dalla apparente realtà terrestre alla vera realtà dell’iperuranio e viceversa. Qui la ragione rappresenta l’entità normativa assoluta e valida per tutti gli uomini, la quale è però sotto la continua minaccia di essere violata dalla irruzione dell’eroticamente divino, con tutto il seguito delle sue stragi e devastazioni. Questo è Platone, e con lui galoppano il Cristianesimo e la prevalente tradizione filosofica dell’Occidente.

La ‘proairesiologia’ degli Stoici rende obsoleta la ‘psicologia’ di Platone

Dimentichiamo adesso Platone e tentiamo di costruire un nuovo e diverso modello che sia capace di rendere obsoleto il precedente. A questo fine sarà necessario abbandonare al loro destino numerosi capisaldi della filosofia classica facendo svanire, ad esempio, l’autonomia del concetto, la trascendenza delle idee e la distanza tra l’essenza dei fenomeni e la loro conoscenza sensibile. Posti allora dinanzi all’enigmaticità della realtà, alla pochezza e caducità di tutti gli oggetti materiali, ai violenti contrasti e alle guerre mortali che gli uomini conducono gli uni contro gli altri, alla volubilità delle loro idee e al sudiciume dei loro costumi, la filosofia ha ad un certo punto sancito la incomprensibilità del tutto, ha decretato la morte di Dio e le ideologie hanno fatto bancarotta. Il Nichilismo è un riassunto fedele di come sono andate le cose?
No. Alcuni filosofi non si sono spaventati di questa situazione ed hanno trovato la chiave per capire la realtà di questo mondo. E quando è avvenuto tutto ciò? Sorpresa! Tutto ciò non soltanto è già accaduto, ma è accaduto più di duemila anni fa, tra il 300 a.C. e il 200 d. C., appena qualche secolo dopo la mia morte. Gli artefici di questo verace ‘Rinascimento’ sono stati uomini come Zenone di Cizio, Crisippo di Soli, Epitteto. Sono stati infatti gli Stoici a chiedersi se, in tale tempesta e in tali tenebre, tutto ciò che esiste sia in nostro esclusivo potere, oppure nulla di ciò che esiste sia in nostro esclusivo potere, oppure se di ciò che esiste alcune cose siano in nostro esclusivo potere ed altre non lo siano. Essi hanno così potuto dimostrare empiricamente e in modo convincente che delle cose che sono, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere sono, ad esempio, giudizi, valutazioni, progetti, desideri, impulsi e così via, ed hanno chiamato queste entità ‘proairetiche’. Non sono invece in nostro esclusivo potere cose come il corpo, il denaro, la reputazione, il lavoro e così via, che vanno definite entità ‘aproairetiche’. Ed hanno altrettanto definitivamente dimostrato che questa è sempre stata, è, e sempre sarà la ‘natura delle cose’, la quale è invariante, inviolabile e valida per tutti gli uomini senza eccezione alcuna. Se la ‘diairesi’ è il giudizio che fa gli uomini capaci di distinguere in qualunque circostanza quanto è in loro esclusivo potere e quanto invece non lo è; e la ‘controdiairesi’ è il giudizio opposto, ossia quello che afferma in mio esclusivo potere quanto è non in mio esclusivo potere, oppure non essere in mio esclusivo potere quanto invece è in mio esclusivo potere: allora l’uomo entra in possesso della chiave che gli permette di trovare il giusto comportamento in ogni situazione, giacché nulla ci potrà accadere che non sia in armonia con la ‘natura’, ed è in esclusivo potere della nostra proairesi fare sì che nulla noi facciamo che sia in contrasto con la ‘natura delle cose’. Che ne è allora della tanto osannata ‘ragione’? Diccelo, Socrate, -vi sento rumoreggiare- diccelo, giacché noi siamo stati educati a considerare la ragione discorsiva come forma della verità, cittadella interiore e unico luogo garantito da ogni cedimento. Vi rispondo subito: la famosa ‘ragione’ non altro è che ‘antidiairesi’. Ascoltate. Tutti i comuni lavori manuali, come quello del falegname, del pescatore, dell’architetto o del medico possono essere definiti come opere dell’antidiairesi. Infatti, proairetica è la decisione di costruire una sedia, di uscire a pesca, di edificare una casa, di curare un ammalato, di rapinare una banca, di uccidere un uomo; ma la realizzazione di queste decisioni avviene poi sempre attraverso una serie di operazioni standard guidate da giudizi che rimangono subordinati alla decisione originaria. L’antidiairesi, cioè la ‘ragione’, può pertanto essere correttamente ed operativamente definita come l’insieme di giudizi subordinati operante su quanto è non in nostro esclusivo potere e che, in quanto complementare alla diairesi o alla controdiairesi, è competente a realizzare il progetto dell’una o dell’altra. Ciò significa che la tanto decantata ragione è strutturalmente incapace di qualunque scelta di ‘fini’ e di qualunque protocollo diverso dal puro e semplice approntamento dei ‘mezzi’ grazie ai quale giungere alla realizzazione di ciò che essa è delegata a perseguire.
L’antidiairesi, il nostro comune quotidiano lavoro, può essere allora immaginata come il tronco di un albero. Diairesi e controdiairesi sono allora come le radici dell’albero. A lavoro finito, libertà e felicità oppure schiavitù e infelicità sono i frutti che pendono dai rami dell’albero, a seconda che alla radice noi vi abbiamo posto la diairesi oppure la controdiairesi. Se gli artigiani sanno che per realizzare come si deve un lavoro qualunque occorre seguire strettamente le indicazioni della opportuna antidiairesi e non tener conto dei giudizi degli incompetenti, è stupefacente come noi invece ignoriamo che la realizzazione di noi stessi come uomini, ossia la saggezza, significa rispetto della natura delle cose, cioè mettere la diairesi alla radice dell’antidiairesi. Come si vede, il nuovo modello (che potete trovare in tutti i suoi dettagli qui e che è capace di fare da struttura naturale portante di quella che non si può più chiamare ‘psicologia’ e tanto meno ‘psicanalisi’ bensì ‘proairesiologia’) è composto non più di tre bensì di cinque elementi: ‘proairesi’, ‘natura delle cose’, ‘diairesi’, ‘controdiairesi’ e ‘antidiairesi’. Al suo centro vi sono la proairesi e la natura delle cose, le quali sono la stessa realtà semplicemente con nomi diversi: ‘Proairesi’, quando la riferiamo fisicamente ed esclusivamente al singolo uomo; ‘Natura delle cose’, quando la riferiamo all’universo inteso come insieme di cose aproairetiche cioè divine, e di cose proairetiche cioè umane. Diventa allora immediatamente chiaro che quando la proairesi dell’uomo, la quale è a quotidiano ed inevitabile contatto con tutto ciò che è divino e aproairetico: i sassi e le piante, il fango e gli animali, gli astri e gli escrementi, il cibo, il sesso, il denaro e così via; quando la proairesi, dico, concentra la propria luce e focalizza se stessa su ciò che è esclusivamente suo, vale a dire ciò che è proairetico e umano: come il cambiamento di un giudizio, la concezione di un progetto, la valutazione di un desiderio e così via, essa si de-localizza e viene a coincidere con l’universo, perdendo la località e la temporalità che caratterizzavano il suo precedente stato di relazione con l’aproairetico. Ecco spiegato cosa mi è accaduto molte volte, lo ripeto: ecco cos’era la mia atopia, associato alla quale uno stato di mia parziale o completa immobilità era casuale o comunque non qualificante, mentre esso mi veniva invece attribuito quale suo tratto caratteristico. 

Cosa accadde a Potidea

Nel mio caso, poi, l’origine della credenza in una stretto legame tra atopia e immobilità è allo stesso tempo curiosa, ridicola, degna di una commedia di Aristofane e segno di quanto possa essere interessante quel gioco che fanno i bambini e che si chiama passaparola. 

A Potidea, per parlare soltanto di quanto accaduto in quell’occasione, trattandosi di un assedio il mio comandante aveva assegnato a me la difesa di una certa posizione sulla cima di una collinetta, spiegandomi che si trattava di una posizione militare chiave da difendere a qualunque costo per almeno un giorno o comunque fino all’arrivo di qualcuno che mi desse il cambio. Nessuno venne a darmi il cambio prima di ventiquattro ore, io altro non feci che ubbidire agli ordini ricevuti, ed avevo altro a cui pensare che alle speculazioni filosofiche.
Diogene Laerzio lo dice bene quando racconta:

“<Socrate>partecipò anche alla spedizione militare contro Potidea: città che fu raggiunta per via di mare in quanto, a causa della guerra in corso, era impossibile arrivarvi per via di terra. Si racconta che in quest’occasione Socrate tenne per una notte intera una certa posizione <militare chiave>. Si meritò così sul campo il primo premio del valore, che egli però cedette ad Alcibiade del quale, come afferma Aristippo nel quarto libro della sua opera ‘Sulla dissolutezza degli antichi’, egli era l’amante”. 
Diogene Laerzio ‘Vite dei filosofi’ Libro II, § 23

Il ridicolo sta nel fatto che quel mio ‘tenere una certa posizione’, che è linguaggio tecnico militarmente corretto, nel corso del passaparola diventò ben presto ‘restare immobile in una certa posizione del corpo’, quasi che io fossi diventato la gru di Chichibio della quale narra Boccaccio nel Decamerone, e che se ne sta ritta e immobile sempre su una gamba sola. In questo senso, l’apoteosi del fraintendimento della mia atopica immobilità lo raggiunge Alcibiade, al quale Platone mette malignamente in bocca, sempre nel Simposio, una sorta di bollettino di guerra nel quale pare che si motivi, con il linguaggio retorico confacente a simile letteratura, l’assegnazione a me di una medaglia al valor militare. Dice infatti Alcibiade: 

“Una volta là <all’assedio di Potidea> mentr’era in servizio,

‘straordinario è quel che fece e durò il forte eroe’

e ciò val la pena di ascoltarlo. Infatti Socrate, tutto immerso nella riflessione su qualcosa fin dal primo mattino, teneva il posto assegnatogli restando in continua meditazione. Pur senza riuscire a venire a capo della faccenda, non cedeva di un palmo la posizione e continuava imperterrito nella ricerca. Giunto ormai il mezzogiorno, i commilitoni lo notavano e si dicevano l’un l’altro con stupore che Socrate stava saldo e fermo al suo posto fin dal mattino nella ponderazione di qualcosa. Giunta ormai la sera, alcuni della ‘Ionia’ che avevano finito di cenare, tiravano fuori dalle tende i loro lettucci da campo -si era allora in piena estate- e si ponevano a dormire al fresco; ma al tempo stesso provvedevano a montare turni di guardia per vedere se Socrate tenesse la propria posizione anche di notte. Cosa che egli faceva fino all’alba successiva e al sorgere del sole. Soltanto allora egli abbandonava la posizione assegnatagli e si allontanava, non prima però di avere rivolto una preghiera al sole”.
Platone ‘Simposio’ 220C-220D

Quando ne ho avuto occasione, io ho spiegato più che chiaramente il tutto:

“In verità, cittadini Ateniesi, la faccenda sta proprio in questi termini: qualora uno prenda una posizione perché la ritiene la migliore per sé, oppure perché così gli è stato ordinato di fare dal suo comandante; qui egli deve, a me sembra, rimanere saldamente a costo di qualunque pericolo, senza fare ulteriori calcoli e senza anteporre la morte o qualcos’altro al disonore e alla vergogna. Cittadini Ateniesi, quando i capi militari che voi sceglieste quali miei comandanti mi ordinarono di prendere una certa posizione sia a Potidea, sia ad Amfipoli e sia a Delio, allora io, come pure altri, tenni la posizione che mi era stato comandato di tenere e corsi dei rischi mortali. Pertanto quando fu invece il dio, come ho creduto e concepito, a comandarmi di prendere la posizione dell’uomo che vive la vita filosofica e sottopone ad un continuo esame se stesso e gli altri, avrei compiuto un’azione orribile se proprio in questo caso, per paura della morte o di qualche altra faccenda, io avessi disertato il posto assegnatomi. Questo sì sarebbe un fatto spaventoso, e allora davvero sarebbe giusto che qualcuno mi trascinasse davanti a un tribunale con l’accusa di non legittimare l’esistenza degli dei, in quanto disobbedisco all’oracolo, temo la morte e credo d’essere sapiente mentre invece non lo sono. Temere la morte, o cittadini, non altro è infatti che reputare d’essere sapiente senza esserlo, giacché equivale a reputare di sapere ciò che invece non si sa”.
Platone ‘Apologia di Socrate’ 28D-29A

Se poi qualcuno vorrà continuare a credere di poter trasformare l’acqua in vino, ebbene: buon pro gli faccia.

Categories
Scritti originali

Omaggio a Socrate – Socrate ha mai detto: “So di non sapere nulla?”

In questa nota mi piacerebbe sfatare la diceria secondo la quale Socrate è l’autore della famosa frase “So di non sapere nulla”: frase talmente utile e adatta alla pigrizia mentale degli esseri umani da essere scritta sulle T-shirt che si vendono a migliaia nella Plaka di Atene. Ed insieme far notare come il ‘démone’ che Socrate per primo introduce nel discorso filosofico possa essere il diretto antenato della ‘proairesi’ di Epitteto.

La Scuola di Atene

PERCHÉ SOCRATE NON HA MAI DETTO “SO DI NON SAPERE NULLA” 

“So di non sapere nulla” 

Il primo dei testi greci sui quali si usa appoggiare questa affermazione di Socrate, vedremo se presunta o meno, è un testo di Platone, il quale nella sua ‘Apologia di Socrate’ § 23b fa dire a Socrate:

σπερ ν ε εποι τι οτος μν, νθρωποι, σοφώτατός στιν, στις σπερ Σωκράτης γνωκεν τι οδενς ξιός στι τ ληθεί πρς σοφίαν.”

Il testo può essere tradotto così:

“è come se (il dio) dicesse che di voi, o uomini, questo è il più sapiente ossia chi, come Socrate, riconosce di essere in verità del tutto incapace di giungere alla sapienza”.

Il contesto del discorso che Socrate sta facendo è quello delle inattese conseguenze che ha avuto la sua inchiesta presso i politici, i poeti e gli artigiani di Atene, tesa a comprendere il significato dell’oracolo di Delfi che lo definiva il più sapiente degli uomini.Questa inchiesta gli ha procurato inimicizie numerose e violente, alle quali va fatta risalire l’origine del processo di cui egli è vittima. Gli ha anche procurato il titolo di ‘sapiente’, mentre invece è probabile che l’unico vero sapiente sia il dio e che il compito affidatogli da Apollo fosse semplicemente stato quello di mostrare agli uomini che il loro sapere nulla vale a paragone del divino sapere che si identifica con la vera sapienza. 

Questo Platone fa dire a Socrate. Laddove con ogni verosimiglianza Platone, com’è sua abitudine, mette in bocca a Socrate quel che invece crede soltanto lui, dico Platone: il quale pensa evidentemente alla sapienza come ad un’entità astratta, immutabile ed irraggiungibile. Appunto, le ‘idee’.

Dunque Platone non fa dire a Socrate: “So di non sapere nulla”, cioè che Socrate nulla sa, che in verità è una contraddizione in termini, un retorico gioco di parole; bensì che il suo sapere nulla vale a paragone del divino sapere che si identifica con la vera sapienza, la quale è appannaggio unicamente del dio. Concetto che viene ripetuto nelle ultime parole dell’Apologia, parole che suonano così: “Ora voi andate a vivere ed io a morire. Chi di noi vada verso il destino migliore è ignoto a chiunque fuorché al dio”. 

Pertanto se si vuole salvare ad ogni costo il gioco di parole: ‘So di non sapere nulla’ e dargli un senso non contraddittorio, bisogna trasformarlo in questa forma: ‘So di non sapere quello che soltanto il dio può sapere’ oppure, come minimo, in quest’altra forma: ‘So di non sapere quello che i politici, i poeti e gli artigiani millantano di sapere ma in realtà non sanno’.

A questo punto è prudente ed opportuno astenersi da ulteriori analisi sul cosiddetto Platonismo.

Adesso però viene il bello.

C’è infatti almeno un secondo testo greco al quale è stata appoggiata l’espressione della quale ci stiamo occupando. Questo testo compare nel § 32 del II Libro delle ‘Vite dei filosofi’ di Diogene Laerzio, libro dedicato, tra altri pensatori, anche alla vita e alla filosofia di Socrate. Il testo è il seguente:

“(1) λεγε δ κα προσημανειν τ δαιμόνιον τ μέλλοντα ατ`(2) τό τε ε ρχεσθαι μικρν μν μ εναι, παρ μικρν δέ`(3) κα εδέναι μν μηδν πλν ατ τοτο εδέναι”

Per chiarezza e al fine di intenderlo meglio, è utile dividere questo breve testo in tre parti ed esaminarle separatamente una per una.

Il primo periodo: (1) “λεγε δ κα προσημανειν τ δαιμόνιον τ μέλλοντα ατ
non presenta difficoltà di interpretazione e tutti lo traducono più o meno così:
‘(1) (Socrate) soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo quel che gli sarebbe accaduto’

Il secondo periodo: (2) “τό τε ε ρχεσθαι μικρν μν μ εναι, παρ μικρν δέ” 
ha invece procurato nel corso dei secoli molti mal di pancia a molti studiosi. 
Nel 1594, la sua traduzione latina ad opera dell’Aldobrandino è stata la seguente: 
– (2) ‘et bene incipere non parvum illud quidem esse, sed parvo proximum’.
Nel corso dell’Ottocento, il celebre Cobet espunge il verbo ρχεσθαι’ e lo rende così:
– (2) ‘et rectum non esse quidem parvum, sed in parvo momento positum’
Nello stesso secolo, l’Apelt traduce così: 
– (2) ‘Das gute Gelingen sei zwar nichts Geringes, fange aber mit kleinem an’.
Nel novecento, anche R. D. Hicks espunge il verbo ρχεσθαι’ e propone questa versione:
– (2) ‘that to make a good start was no trifling advantage, but a trifle turned the scale’.
Sempre nel Novecento, M. Gigante traduce così:
– (2) ‘il saper obbedire non è poca cosa, ma si conquista a poco a poco’.

A me pare che questo secondo periodo vada considerato in stretta relazione di dipendenza dal primo, e mi riesce del tutto logico considerare che se Socrate ha appena parlato della presenza in lui di un démone che lo preavvisa del futuro, ebbene che sia questo ‘démone’ il riferimento dell’infinito presente medio-passivo ρχεσθαι’il quale, in questo contesto, può conservare del tutto propriamente il suo principale significato di ‘comandarsi/essere comandato’‘ε ρχεσθαι’ vuol dunque dire ‘essere ben comandato’ dal démone e la frase tradotta con tutta naturalezza in questo modo: 
-(2) ‘che l’essere da esso ben comandati, anche su piccole questioni, non è piccola cosa’.

Veniamo da ultimo al terzo periodo (3) “κα εδέναι μν μηδν πλν ατ τοτο εδέναι”
Chi ha in mente il Socrate che dice “So di non sapere nulla” è finalmente tranquillo e certo di capirne il significato senza ambiguità.
Infatti le due autorevolissime traduzioni che ho a disposizione in questo momento parlano chiaro.
R. D. Hicks espunge il secondo infinito perfetto ‘εδέναι’ e propone questa versione:
– (3) ‘and that he knew nothing except just the fact of his ignorance’.
A sua volta M. Gigante, che invece non espunge il secondo infinito ‘εδέναι’, traduce così:
– (3) ‘nulla sapeva eccetto che nulla sapeva’.

Siccome la grammatica e la sintassi greca qui lo permettono, a me pare molto più convincente continuare a mantenere anche in questo caso la strettissima relazione con il primo e con il secondo periodo, e quindi il riferimento al ‘démone’ dal quale, come Socrate, ci siamo lasciati guidare finora. La semplice e naturale traduzione di questo terzo periodo diventa allora:
– (3) ‘e di nulla sapere se non sapere che c’è questo démone’.

Ricapitoliamo adesso il tutto, confrontando le tre traduzioni complete di questo interessante frammento di Diogene Laerzio.
Secondo R. D. Hicks ‘(Socrates) used to say that his supernatural sign warned him beforehand of the future; that to make a good start was no trifling advantage, but a trifle turned the scale; and that he knew nothing except just the fact of his ignorance’.
Secondo M. Gigante ‘(Socrate) diceva che un demone gli prediceva il futuro; il saper obbedire non è poca cosa, ma si conquista a poco a poco; nulla sapeva eccetto che nulla sapeva’.
Secondo F. Scalenghe ‘(Socrate) soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo quel che gli sarebbe accaduto; che l’essere da esso ben comandati, anche su piccole questioni, non è piccola cosa; e di nulla sapere se non sapere che c’è questo démone’

Poiché il sapere di non sapere è comunque un sapere, e siccome Socrate non è uno sprovveduto orecchiante di filosofia, appoggiandomi all’esame appena fatto escludo che si possa attribuirgli la frase: “So di non sapere nulla”.

A me pare pertanto che quanto Socrate vuole intendere sia molto più profondo, e tanto più intrigante, se si tiene bene a mente che tale ‘démone’ è già espressamente citato nell’atto di accusa presentato e giurato da Meleto, e che è alla base del processo a Socrate.
Socrate vuole cioè comunicarci che il suo unico sapere consiste nel sapere di possedere entro di sé un ‘démone’ che lo guida alle scelte giuste.
Non è dunque in gioco ciò che gli mette in bocca Platone, ossia qualcosa che assomiglia molto alla ‘docta ignorantia’ al di là della quale l’uomo non può arrivare, giacché la ‘scientia’ è appannaggio esclusivo del dio. Questa, per esempio, è la sciagurata strada che porta alla ‘omniscientia’ del Dio giudeo-cristiano: e qui strattono le redini per fermarmi e non cominciare a ruggire.

Socrate insomma afferma e ribadisce di percepire dentro di sé una voce, che egli chiama ‘démone’, la quale mai lo incita a qualcosa, ma unicamente sorge in lui per trattenerlo dal fare qualcosa. Questo ‘démone’ è la sua novità e la sua ricchezza, è la guida alla quale egli sempre si affida e che non lo ha mai tradito. 
Tutto ciò non sembra la oscura, incerta, confusa anticipazione di qualcosa? Qualcosa di cui Socrate sa soltanto, addirittura a costo della vita, testimoniare la presenza, ma che non sa né articolare né inserire in un contesto che non sia la sua esperienza psicologica personale? Non sembra l’aurora di quella che sempre fu, è e sarà il cardine, il criterio, il riferimento assoluto e invariante invano cercato da Platone nelle ‘idee’? Per farla breve: il ‘démone’ di Socrate non sembra l’anticipazione di quella che Epitteto chiamerà ‘proairesi’ e che si può anche tranquillamente chiamare ‘natura delle cose’? 

Dunque a me pare di poter affermare che Socrate non è il padre del ‘So di non sapere nulla’ bensì il nonno o l’avo, se così si vuole, del ‘Io sono proairesi’.

Cosa ci sarà poi scritto in futuro sulle T-shirt che vende qualunque negozietto della Plaka di Atene è ignoto a tutti fuorché al dio.

Categories
Traduzioni

Omaggio a Socrate – Apologia di Socrate  Riassunto secondo il testo del dialogo di Platone

APOLOGIA DI SOCRATE

Primo discorso: sulla colpevolezza  di Socrate (17a-35d) 

1) Esordio
Io, a differenza dei miei accusatori, dirò soltanto la verità; e lo farò esprimendomi nel modo che mi è solito (17a-18a)

2) Piano di sviluppo della mia difesa 
Io mi difenderò innanzitutto dalla marea dei miei antichi accusatori, Aristofane in testa, che fanno di me un ‘pensatore della natura’ interessato ai fenomeni celesti e sotterranei; nonché un ‘sofista’ capace di far prevalere il falso e l’ingiusto sul vero e sul giusto. Mi difenderò poi dalle accuse recenti di Anito e dei suoi compari (18a-19a)

3) Confutazione (19a-28)

3a) Confutazione degli antichi accusatori (19a-24b)

3aa) Chi io non sono (19a-20c)

3aaa) Io non sono un ‘pensatore della natura’, e per dimostrarlo mi basta fare appello alla testimonianza personale della stragrande maggioranza dei giudici presenti, che mi conoscono bene (19a-19d) 

3aab) Io non sono un ‘sofista’ come Gorgia di Leontini, Prodico di Ceo o Ippia di Elide. Costoro si dichiarano capaci di trasmettere un sapere che permette ai giovani di raggiungere quell’eccellenza che conviene a chi è uomo e cittadino, e si fanno pagare per questo. Ma io purtroppo non possiedo questo sapere; tant’è vero che il facoltosissimo Callia, interrogato una volta in proposito proprio da me, affermava di voler affidare l’educazione dei suoi due figli  non a me ma ad Eveno di Paro (19d-20c) 

3ab) Chi io sono, e qual è l’origine delle calunnie contro di me (20c-24b)

3aba) Io non parteggio per nessuna delle fazioni politiche della città; non sono un poeta; non esercito alcun mestiere artigianale. Di cosa mi occupo dunque? Donde  vengono le calunnie di cui sono vittima? (20c) 

3abaa) Oggetto del mio sapere sono i giudizi capaci di fare di un ‘essere umano’ un ‘uomo che vive bene’. Sono dunque qualcosa di nuovo. Io sono un ‘filosofo’. E’ possibile che il sapere di Gorgia, di Prodico e di Ippia sia di un rango superiore alla ‘filosofia’, ma  in ogni caso io non possiedo questo sapere. Chi afferma il contrario dice una menzogna e mi calunnia (20d-20e) 

3abab) Sulla esistenza e sulla natura di questo mio sapere, sulla ‘filosofia’, io chiamo come testimone Apollo, il dio di Delfi (20e) 

3abac) Infatti Cherefonte, mio amico d’infanzia, osò una volta interrogare l’oracolo di Delfi per domandare se esistesse qualcuno più sapiente di me. La Pizia rispose che nessuno era più sapiente di me. Poiché Cherefonte è ormai morto, io chiamo a testimone di questo fatto il fratello di lui, Cherecrate (21a)
 
3abb) La mia inchiesta sul significato del responso dell’oracolo è all’origine delle calunnie di cui sono vittima (21b-22e) 

3abba) Non ritenendomi sapiente dei comuni saperi e siccome, però, Apollo non poteva mentire, mi risolsi di interrogare coloro che sono solitamente considerati sapienti. Se, tra di loro, io avessi potuto trovare qualcuno più sapiente di me, ecco che l’oracolo sarebbe stato provato falso (21b-21c)   

3abbb) La prima categoria di persone che interrogai fu quella dei cosiddetti politici. Oggetto del loro sapere sono i giudizi che portano alla conquista ed al mantenimento del ‘potere politico’. Questi individui passano agli occhi di molta gente, e soprattutto ai loro stessi occhi, per sapienti. Ma così non è. Io sono più sapiente di loro in quanto, almeno, so di non  sapere come si possa conquistare e  mantenere il ‘potere politico’. Essi immaginano, invece, di saperlo anche se, a causa della imprevedibilità degli esiti delle lotte di fazione, essi in realtà non lo sanno. Il risultato di questa inchiesta fu, per me, quello di attirarmi l’inimicizia dei ‘politici’ e dei loro galoppini (21c-21e) 

3abbc) La seconda categoria di persone che interrogai fu quella dei poeti. Portando con me le loro opere migliori, mi recai dai poeti e li interrogai incessantemente sul cosa avevano voluto dire nelle loro composizioni. Scoprii così che essi erano incapaci di rispondere alle mie domande, e mi convinsi che le loro composizioni non scaturiscono da un sapere ma da una disposizione naturale e da una possessione divina simile a quella di coloro che fanno profezie o rendono oracoli. Io sono più sapiente di loro in quanto, almeno, so di non sapere come si  compongano opere tanto mirabili. I poeti immaginano, invece, di saperlo. Ma così non è. Oggetto del loro sapere sono infatti soltanto i giudizi che rendono possibile la composizione di tragedie, commedie, ditirambi, eccetera; e non quel talento indipendente dalla ragione per cui essi si considerano, a torto, tra gli uomini più sapienti (22a-22c)

3abbd) La terza categoria di persone che interrogai fu quella degli artigiani. Oggetto del sapere di ciascuno di loro sono i giudizi che assicurano l’efficacia di ciascuna arte particolare. Da questo punto di vista trovai che effettivamente essi erano più sapienti di me. Ma mi resi anche conto che essi pretendevano del tutto impropriamente di possedere, per il fatto di praticare ciascuno la propria arte particolare in modo mirabile, i giudizi capaci di fare di un ‘essere umano’ un ‘uomo che vive bene’. E’ preferibile avere la loro sapienza e la loro ignoranza oppure non avere né la loro sapienza né la loro ignoranza? Per me la seconda alternativa è da preferire alla prima. Uno scultore saprà scolpire stupendamente ma non per questo saprà vivere bene. Io non saprò scolpire ma non per questo non saprò vivere bene (22c-22e)

3abc) Le conseguenze dell’inchiesta (22e-24b) 

3abca) Questa inchiesta mi ha procurato inimicizie numerose e violente, alle quali va fatta risalire l’origine delle calunnie di cui sono vittima (22e-23a) 

3abcb) Mi ha anche procurato il titolo di ‘sapiente’ nelle materie in cui, di volta in volta, metto alla prova i miei interlocutori. Ma è probabile che l’unico vero sapiente sia il dio e che il compito affidatomi da Apollo sia semplicemente quello di mostrare agli esseri umani che il loro sapere nulla vale a paragone del divino sapere sul ‘vivere bene’. Il servizio che io rendo al dio mi impedisce, inoltre, di occuparmi d’altro ed è anche causa della mia presente povertà di denaro (23a-23b)

3abcc) Molto deleteria è poi, per me, la comparsa spontanea di numerosi miei giovani imitatori. Costoro fungono, senza saperlo, da moltiplicatori della ostilità nei miei confronti (23c-23e) 

3abcd) E’ appoggiandosi su questa ostilità e queste calunnie che Meleto per conto dei poeti, Anito per conto degli artigiani e Licone per conto dei politici mi hanno denunciato. Questa è la verità. Ed è dicendo la verità che mi sono fatto tanti nemici. Sarà pertanto difficile, nel breve tempo del presente processo, che io riesca a distruggere, nella mente dei giudici, calunnie radicate profondamente e da tanto tempo (23e-24b)

3b) Confutazione dei nuovi accusatori e mio interrogatorio di Meleto (24b-28a)

3ba) Introduzione

3baa) L’accusa che il buon cittadino e patriota, a suo dire, Meleto ha presentato suona così: “Socrate è colpevole del delitto di corruzione della gioventù e del delitto di non legittimare gli dei che la città legittima, ma altre e nuove divinità” (24b-24c)

3bb) Sul delitto di corruzione della gioventù (24c-26a)

3bba) Meleto commette un primo errore circa la questione di sapere chi è capace di istruire un altro e di renderlo migliore. Egli risponde infatti alle mie domande dirette, affermando che tutti gli Ateniesi  sono capaci di istruire i giovani e di  renderli migliori eccetto me, che sono l’unico a corromperli. Accade la stessa cosa nel caso dell’allevamento dei cavalli? gli domando. O non accade piuttosto il contrario, cioè che uno solo o pochi sono capaci di istruire e rendere migliore qualcun altro mentre la maggior parte della gente lo rende peggiore? E’ così in tutti i casi: esseri umani, cavalli ed ogni altro vivente; qualunque cosa ne pensino Meleto ed Anito, io concludo. La risposta di Meleto testimonia il suo disinteresse per l’educazione dei giovani e la  leggerezza con la quale ha mosso la sua accusa (24c-25c)

3bbb) Meleto commette un secondo errore quando ritiene che io corrompa intenzionalmente la  gioventù. Ma, io affermo, chiunque corrompe un’altra persona corre poi il rischio, avendola trasformata in senso malvagio, di subire da quest’ultima un torto. Siccome nessuno cercherà mai, di  proposito, di subire un torto, ne consegue o che io non sono un corruttore dei giovani oppure che,  pur essendolo, non lo sono di mia piena intenzione. In quest’ultimo caso Meleto doveva avvertirmi personalmente e biasimarmi privatamente, non portarmi davanti ad un tribunale (25c-26a)

3bc) Sul delitto di legittimazione di nuovi dei e sul delitto di ateismo (26b-27e)

3bca) Secondo il capo di accusa, io corrompo i giovani insegnando loro a legittimare non gli dei che la città legittima ma altre e nuove divinità. Interrogato però da me, Meleto cambia l’accusa, affermando che io non legittimo assolutamente alcuna divinità e dunque che sono colpevole del delitto di ateismo. Io professo solennemente di non essere in alcun modo ateo e di credere per esempio, come tutti gli altri, che il sole e la luna siano dei. Che poi il sole sia una pietra e la luna una terra sono teorie discutibili quanto si vuole, ma note a tutti ed avanzate da Anassagora di Clazomene, non certo da me (26a-26e)

3bcb) Meleto tuttavia insiste nella sua accusa di radicale ateismo ed è pertanto costretto da me a contraddirsi. Come può, infatti, Meleto accusarmi di ateismo se Meleto stesso mi accusa di legittimare nuovi dei, siano essi demoni od altre entità a metà strada tra uomini e dei? Chi potrà mai credere che esistano muli ma non esistano cavalle ed asini, dal cui accoppiamento essi discendono? (26e-27e)

3c) Conclusione della mia difesa
Io ritengo a questo punto di avere dato la prova di non essere colpevole dei delitti di cui sono accusato da Meleto. Una mia eventuale condanna sarà dovuta non a queste accuse, che sono state provate infondate e false, ma alle calunnie sparse su di me da tanti Ateniesi ed alla loro gelosia (28a-28b)

4) Digressione (28b-34b)

4a) Prima obiezione: la condotta di vita scelta da te è dannosa, in quanto ti espone oggi al pericolo di una condanna a morte. Io rispondo che la mia condotta di vita è quella di un uomo virtuoso che si è messo al servizio di un dio (28b-31c) 

4aa) Bene è soltanto la virtù e ciò che partecipa della virtù: saggezza, giustizia, fortezza, temperanza (28b-30c)

4aaa) Alla obiezione che la mia condotta di vita è mortalmente dannosa, io rispondo affermando che la virtù, e non la vita, è il sommo dei beni; e che la viltà, e non la morte, è il sommo dei mali.  Infatti Achille non sarebbe il semi-dio Achille, se avesse paura più della morte che della viltà (28b-28d) 

4aab) Quando sappiamo giusta l’azione che compiamo, qualunque altra considerazione deve passare in secondo piano. All’assedio di Potidea, ad Amfipoli, nella battaglia presso il santuario di Apollo Delio a Lebadea, io non ha mai abbandonato, pur a rischio della vita, il posto di oplita che mi era stato assegnato dai vostri comandanti. Ora che Apollo mi ha assegnato il compito di vivere filosofando, ossia di sottomettere me stesso e gli altri ad un continuo esame della qualità e dello stato del nostro sapere, sarebbe ben strano che la paura della morte mi facesse abbandonare il mio posto. In questo caso, sì, sarebbe giusto tradurmi davanti ad un tribunale per accusarmi di non legittimare l’esistenza degli dei (28d-29a) 

4aac) Cos’è la paura della morte se non la pretesa di essere sapienti quando invece non lo si è? Per avere paura della morte bisogna infatti sapere cosa la morte è ed essere certi che è il sommo dei mali. Nessuno, invece, sa cosa sia la morte. Ed in questo io sono più sapiente di tanta gente. Io, infatti, so di non sapere se la morte sia un male oppure un bene. So invece con certezza che l’ingiustizia,   ossia disobbedire a chi è migliore di noi, sia esso un uomo oppure un dio, è un male. E dunque io non farò mai passare la paura di un male certo, ossia dell’ingiustizia, davanti a quella della morte, di cui non so se sia un male oppure un bene (29a-29b) 

4aad) Ai giudici  che oggi proponessero una assoluzione in cambio della rinuncia alla ‘filosofia’  io rispondo che obbedirei comunque al dio e non a loro, che non smetterei mai di spiegare ai miei concittadini ed agli stranieri che incontro, che la virtù non proviene dalla ricchezza di  denaro, dagli onori, dalla fama o dalle cariche pubbliche e che solo il virtuoso sa come apprezzare e godere della fama, degli onori, della ricchezza di denaro e delle cariche pubbliche (29b-30c)

4ab) Il virtuoso non può subire alcun male ad opera di chi virtuoso non è (30c-31c)

4aba) Gli Ateniesi non si rendono conto che, attraverso di me e la mia pratica della filosofia, il dio ha fatto alla città il regalo più grande. Uccidendomi, la città farebbe un male a se stessa, non a me. Anito e Meleto immaginano che per me la minaccia di una condanna a morte o all’esilio o alla privazione dei diritti di cittadinanza sia una prova terribile. Costoro non sanno, al contrario, che la sola cosa terribile in tutta questa vicenda è l’ingiustizia con la quale essi tentano di ottenere la morte di un uomo virtuoso e giusto, il quale è stato da Apollo attaccato ad Atene come un tafano ad un cavallo di razza che di tanto in tanto ha bisogno di essere risvegliato dalle punture dell’insetto. Questo è il compito che io svolgo, e questo compito è altamente giovevole ad Atene (30c-30e) 

4abb) Se, come un qualunque sofista, io mi facessi pagare per i miei consigli, la mia condotta avrebbe un senso banale e comprensibile a tutti. Ma i miei accusatori non hanno potuto produrre un solo testimone disposto ad attestare ciò. La verità del fatto che io sia un vero dono del dio ai miei  concittadini, per spronarli alla virtù ed alle ricchezze che da essa discendono è, a questo punto,  testimoniata dalla mia stessa onorata povertà di denaro (31a-31c) 

4b) Seconda obiezione: tu avresti dovuto prendere parte attiva alle lotte di fazione che dividono la città. 

4ba) Io rispondo che ne sono stato impedito da una voce interiore e divina e che, se avessi fatto questo, sarei già morto da molto tempo senza essere stato utile né a me stesso né alla città (31c-34b)

4baa) Io, che pure parlo in privato con chiunque, non ho mai avuto il coraggio di salire sulla tribuna della Pnice per parlare all’Assemblea del popolo. Questo comportamento mi è stato imposto da un segno divino, da una voce interiore che io sento fin dall’infanzia e che mi vieta di fare ciò che sto per fare, senza però spingermi mai a qualche azione specifica. Si è trattato di una opposizione particolarmente felice, giacché se avessi preso parte attiva alle lotte di fazione della città sarei già morto da molto tempo senza essere stato utile né a me stesso né alla città. (31c-31d) 

4bab) Infatti, chiunque cerchi di impedire qualcuna delle azioni ingiuste ed illegali che sono commesse in città per decisione dell’Assemblea del popolo o di qualche altro potere, trova prima o poi la morte ed è impossibile non commettere atti ingiusti ed illegali se si prende parte alle lotte di fazione e si vuole restare in vita. Due esempi che hanno riferimento diretto alla mia persona, in due contesti politici diversi, valgono a provarlo. Nel 406, in un contesto di potere democratico, io ero membro del Consiglio dei 500 e, dopo la battaglia delle Arginuse, fui il solo ad opporre il mio voto alla procedura illegale con la quale furono poi condannati a morte, in blocco, gli strateghi reduci da quell’impresa. Nel 404, in un contesto di potere oligarchico, fu ordinato a me e ad altre quattro persone di recarci a Salamina per catturare e portare ad Atene un certo Leonte, che doveva essere messo a morte. Ma io rifiutai di rendermi complice di questo crimine e, mentre gli altri quattro partirono per Salamina, io me ne andai a casa. Numerose persone possono attestare le mie affermazioni e ciò vale a dimostrare che io ho sempre preferito rischiare la vita piuttosto che commettere un atto ingiusto od empio. (31e-32e)

4bac)Ecco perché mi limito a discussioni private, dalle quali io non escludo nessuno (32e-33b)

4bad) Le persone che poi mi seguono, ed in particolare i giovani, lo fanno perché fa loro piacere vedere castigata, a volte, l’albagia di chi si crede sapiente senza esserlo. Ma pure ammettendo che io abbia corrotto i giovani che mi stanno intorno come mai non uno solo, non di loro, ma dei loro parenti più prossimi, che certamente avrebbero tutto l’interesse a denunciarmi, è salito su questa tribuna per dare man forte all’accusa di Meleto? Questi parenti presenti al processo io posso indicarli a Meleto a decine, e mi offro di lasciargli il posto così che egli possa produrli come testimoni dell’accusa (33b-34b)

5) Perorazione: io non supplicherò i giudici (34b-35d)

Giunti a questo punto del processo è costume comune, anche per casi meno gravi, che gli accusati supplichino, versino torrenti di lacrime e facciano salire sulla tribuna i loro bambini, parenti ed amici per impietosire i giudici e strappare così un voto di assoluzione. Io, che pure ho tre figli e parenti ed amici, non farò nulla del genere ed invito i giudici a non irritarsi per questo ed a non depositare un voto di condanna che sarebbe allora mosso soltanto dalla collera. Se, a torto o a ragione, vi è in me qualcosa che mi distingue dalla maggior parte degli altri, ebbene il supplicare i giudici non gioverebbe certamente a questa mia reputazione. Né gioverebbe a quella di Atene, la quale vede già troppi suoi rinomati cittadini perdere ogni dignità di fronte all’eventualità di una propria condanna. Costoro, in nulla distinguendosi dalle femminette, immaginano la morte un male spaventoso -come se una volta assolti, invece, diventassero immortali- e  preferiscono, alla morte, vivere nella vergogna. Questo è un comportamento ridicolo che, per la buona reputazione della città, i giudici dovrebbero fermamente sanzionare (34b-35b)
A parte la questione della reputazione, supplicare i giudici non è comunque atto conforme a giustizia. I giudici, infatti, non siedono in tribunale per fare della giustizia un favore ma per rendere giustizia conformemente alle leggi sulla base della esposizione dei fatti e di una libera persuasione (35b-35c) 
Se io supplicassi i giudici e li inducessi così a violare la santità del loro giuramento insegnerei, con questo, a credere che gli dei non esistono e darei davvero la prova provata di essere meritevole di condanna. Ma così non sarà, ed io professo di legittimare gli dei più fermamente dei miei accusatori (35c-35d)

Ha luogo la votazione. 
L’esito della votazione è il seguente: circa 280 giudici hanno votato per la condanna di Socrate, circa 220 per la sua assoluzione. 
Socrate risulta dunque condannato. 
I suoi accusatori hanno proposto per lui la pena di morte. 
Tocca ora a Socrate proporre una pena alternativa. 
I giudici voteranno poi una seconda volta per decidere quale delle due pene infliggere a Socrate.

Secondo discorso: sulla pena da infliggere a Socrate (35e-38b)

6) Esordio 

Sono stato riconosciuto colpevole, ma soltanto per un lieve scarto di voti. Sarebbe bastato lo spostamento di una trentina di voti ed il verdetto sarebbe stato, sorprendentemente per me, di assoluzione. Essendo tre i miei accusatori, io mi considero comunque assolto dalle accuse di Meleto al quale, avendo da solo raccolto meno del venti per cento dei voti totali, spetterebbe addirittura di pagare una ammenda di 1000 dracme (35e-36b)

7) Proposizione da parte mia di una pena alternativa alla morte e che tenga conto dei miei meriti (35e-37a)

La pena proposta per me da Meleto è la morte. Tocca ora a me proporre per me una pena alternativa. Qual è la pena giusta per un uomo che ha trascurato gli affari, l’amministrazione del proprio patrimonio, le cariche, le magistrature, le fazioni politiche della città per dedicarsi a spronare ciascun singolo cittadino ad una vita migliore, la più virtuosa possibile? (36b-36d)
Il trattamento che va riservato ad un simile uomo, ad un uomo povero di denaro, a un benefattore della città, a qualcuno che ha bisogno di tempo libero non per riportare vittorie alle Olimpiadi montando cavalli da corsa ma per dire la verità ai suoi concittadini, è quello di essere mantenuto a spese pubbliche nel Pritaneo. Questa è la giusta pena che io propongo per me (36d-37a) 

8) Proposizione da parte mia di una pena alternativa alla morte e che tenga conto delle regole giudiziarie (37a-38b)

Mi rammarico di non essere riuscito a convincere i giudici della mia innocenza e sono certo che, se il processo fosse durato non un giorno soltanto ma più giorni, sarei riuscito ad allontanare da me le gravi calunnie di cui sono stato vittima. Sapendo di essere innocente, io non posso comunque essere ingiusto con me stesso e proporre una pena che non merito. La mia non è dunque arroganza. Della morte, ignorando se essa sia un bene o un male, io non ho paura. Vogliono invece ad ogni costo i giudici che io scelga per me, come pena, qualcosa che so essere certamente per me un male? Sarà la schiavitù dell’ergastolo? Sarà una forte ammenda e la prigione fino a che io non l’abbia pagata? Ma questa pena equivarrebbe alla precedente, giacché non avrei comunque denaro sufficiente per pagarla. Sarà l’esilio? Questa è una pena che i giudici si aspettano che io proponga e che potrebbero accettare.  Ma se sono diventato insopportabile per i miei concittadini Ateniesi, come potrei sperare di non diventarlo per gli abitanti di città straniere, come potrei sperare di non essere scacciato anche di là? (37a-37e)
Non potrei andare in esilio e lì starmene zitto e tranquillo? A questa proposta io rispondo che così facendo disubbidirei al dio e che una vita senza la luce della ‘filosofia’, senza il continuo esame della qualità e dello stato del nostro sapere, non merita di essere vissuta. (37e-38a)
Io non reclamerò mai per me stesso un male. Se avessi del denaro, avrei dunque già proposto come pena una congrua ammenda che fossi in grado di pagare. La perdita di un po’ di denaro, infatti, non rappresenta alcun male. A meno che voi giudici non accettiate la proposta della modesta ammenda di soltanto una mina, somma di cui dichiaro di disporre. Ecco dunque la pena legale che io propongo per me. (38a-38b) 
A questo punto, alcuni amici presenti al processo mi sollecitano ad elevare l’ammontare della ammenda da una mina a trenta mine. Saranno essi i garanti del pagamento di tale somma. (38b-38c)

Ha luogo la seconda votazione. 
L’esito della votazione è il seguente: Socrate è condannato a morte.

Terzo discorso: ai giudici che hanno votato per la condanna a  morte di Socrate (38c-39d)

9) Esordio

Con il presente verdetto gli Ateniesi acquisiranno, presso tutti coloro che intendono denigrare Atene, la fama di avere ingiustamente condannato a morte un uomo sapiente. Io sono ormai molto anziano e non lontano dalla morte. Vi sarebbe bastato aspettare un po’ di tempo e lasciar fare alla natura, per sgravarvi di una responsabilità tanto obbrobriosa. (38c)

10) La pena alla quale sono stato condannato io e la pena alla quale sono stati condannati i miei accusatori (38d-39b)

10a) La causa della mia condanna a morte e la qualità della mia pena 

10aa) Ciò che ha portato alla mia condanna  è stata la mia incapacità a tenere i discorsi che conseguono al giudizio che bisogna dire e fare qualunque cosa pur di sfuggire alla morte. Dunque a perdermi  è stata la mia incapacità a mostrare ardire protervo e sfrontatezza nel piangere, nel gemere, nell’implorare al modo che i giudici sono abituati a veder fare dagli altri accusati. Ma tutto ciò non è degno di un uomo libero come me ed io non mi pento affatto del comportamento che ho tenuto. Io preferisco morire a prezzo della libertà piuttosto che vivere a costo della viltà. (38d-39a) 

10b) Da chi ed a quale pena sono stati condannati i miei accusatori 

10ba) Tanto in tribunale quanto in guerra, se si ha la sfrontatezza di fare qualunque cosa, si hanno molte probabilità di sfuggire alla morte. Ma a quale costo? E’ più difficile sfuggire alla viltà che alla morte. In effetti la viltà corre molto più veloce della morte. Io, ormai vecchio e lento, sono stato raggiunto dalla morte. I miei accusatori, giovani e agili, sono stati raggiunti dalla viltà, e dall’ingiustizia. E questa è la condanna alla quale essi sono stati condannati dalla verità. (39a-39b)

11) La mia profezia

Ormai vicino a morire, io mi trovo in quel momento della vita che è il più propizio alle profezie. I giudici che mi hanno condannato a morte credono di essersi così liberati dalla necessità di giustificare e di rendere conto del loro modo di vita. Ma questo è un cattivo calcolo, e la maniera che essi hanno scelto per sbarazzarsi del problema non è né particolarmente efficace né particolarmente onorevole. Il solo modo elegante e pratico per risolvere il problema non consiste nello sbarazzarsi di uomini come me ma nel prendere i provvedimenti che si impongono affinché ciascuno di voi faccia di se stesso il miglior uomo possibile. Dopo la mia scomparsa, vipredicoche non diminuirà ma aumenterà il numero di coloro che chiederanno agli Ateniesi di giustificare il loro modo di vita, e molti di costoro saranno giovani, e più aggressivi di quanto sarebbero stati se io fossi ancora in vita. (39c-39d)

Mentre si portano a termine le formalità processuali di rito ed in attesa di essere condotto nella prigione dove dovrà morire, Socrate si rivolge ai cittadini che hanno votato per la sua assoluzione.

Quarto discorso: ai giudici che hanno votato per l’assoluzione di Socrate (39e- 41c)

12) Esordio

Ai cittadini che hanno votato per la mia assoluzione, ed ai quali soltanto riservo il nome di ‘giudici’, io intendo spiegare, come ad amici, la mia interpretazione di quanto è accaduto (39e-40a)

13) Come io interpreto i fatti accaduti

Mi è accaduto, con la condanna a morte, ciò che viene comunemente ritenuto il sommo dei mali. Non è affatto questa la mia interpretazione dei fatti. Come si può conciliare la serenità di cui godo con il giudizio di patire un male? In effetti oggi mi è accaduto qualcosa di straordinario.Il segno divino, quella voce interiore che io sento fin dall’infanzia e che mi vieta di fare ciò che non devo fare e che non è bene, anche in questioni di poco conto, non mi ha mai avvertito della presenza di un pericolo e nonmi ha trattenutoné in mattinata quando stavo uscendo di casa né quando, in tribunale, stavo salendo sulla tribuna né in alcun momento dei miei discorsi di difesa. Non vi è che una spiegazione possibile di tutto ciò, ed è che quanto è accaduto  è verosimilmente un bene per me. (40a-40c)
      
14) Per me la morte non è di per sé un male e forse è un bene. Due possibili rappresentazioni della morte (40c-41c)

14a) La morte come sonno eterno

Nei confronti della morte, delle due cose l’una. O chi muore non ha mai più coscienza di nulla oppure la morte è, per l’animo, un cambiamento di domicilio. Se si crede la morte un tranquillo, eterno sonno, chi non considererebbe ciò un bene? Chi, sia egli un re o un semplice essere umano, non preferirebbe questo alle angosciose notti colme di incubi o ai disperati giorni pieni di paura che tutti i viventi conoscono? (40c-40e)

14b) La morte come cambiamento di domicilio dell’animo

Se, con la morte, il nostro animo si sposta in una regione nella quale trova gli animi di tutti coloro che ci hanno preceduto ebbene, io dico, anche in questo caso non varrebbe la pena di considerare ciò un bene? Essere giudicati da veri giudici giusti, godere della compagnia di semi-dei, di eroi e di uomini illustri, poter sottoporre costoro all’esame cui io sottoponevo i miei concittadini senza rischiare, per questo, la morte: non sarebbe, tutto ciò, il colmo della felicità? (40e-41c) 

15) Conclusione generale di Socrate

Nessun male potrà mai toccare l’uomo virtuoso né in vita né in morte, ed egli avrà sempre su di sé lo sguardo interessato degli dei. La sorte che oggi mi è toccata non è il frutto di un caso. Al contrario, è evidente che adesso per me è meglio morire ed essere così liberato da ogni preoccupazione. Ecco perché il segno divino non mi ha mai trattenuto ed ecco perché io non serbo rancore né per i miei accusatori né per i giudici che mi hanno condannato. Costoro intendevano però causarmi un male, che invece hanno causato a loro stessi, e per questo vanno biasimati. Ma essi possono ancora ricredersi e dare una futura prova di giustizia nei miei confronti. (41c-41e)

16) L’estrema richiesta di Socrate ai giudici che lo hanno condannato 

Quale? Se ad essi parrà che i miei figli, quando saranno grandi, si diano pensiero del denaro o di qualunque altra cosa più che della virtù; se ad essi parrà che credano di essere qualcosa mentre non sono nulla: di punirli, di tormentarli, di indirizzare ai miei figli il rimprovero che io indirizzavo proprio a loro: quello di non darsi pensiero di ciò di cui ci si deve dare pensiero e di credersi qualcuno mentre non si vale nulla. (41e-42a)

17) Epilogo

Ma ecco che io vengo condotto via, verso la prigione dove dovrò morire, mentre i giudici ed i cittadini sfollano il tribunale e vanno ciascuno verso la loro vita. Chi di noi va verso la sorte migliore? Nessuno conosce la risposta, eccetto chi è dio. (42a)

Categories
Traduzioni

Omaggio a Socrate – Diogene Laerzio ‘Vite dei filosofi’ Libro II

DIOGENE LAERZIO LIBRO II

SOCRATE (469 – 399 a. C.)

[II,18] Socrate era figlio di Sofronisco, uno scalpellino, e di Fenarete, una mammana, come afferma Platone nel ‘Teeteto’. Era Ateniese, del demo Alopece. Pare che abbia collaborato con Euripide, ragion per cui Mnesimaco dice così:

‘Questo è ‘I Frigi’, il nuovo dramma di Euripide
<cucinato dentro un pentolone> sotto il quale anche Socrate 
mette di suo della legna secca’

e ancora:

‘Euripide incavicchiato da Socrate’.

E Callia nei suoi ‘Prigionieri in ceppi’ dice:

‘A. Perché hai un’aria così solenne e così orgogliosa?
B. Ne ho ben donde: Socrate è il mio autore’.

E Aristofane nelle ‘Nuvole’:

‘È questo qui che fa le tragedie per Euripide,
quelle storie piene di ciarle sapienti’.

[II,19] Secondo alcuni egli fu uditore di Anassagora; ma anche di Damone, come afferma Alessandro nelle sue ‘Successioni dei filosofi’. Dopo la condanna di Anassagora divenne discepolo del fisico Archelao del quale, secondo Aristosseno, diventò pure l’amasio. Duride riferisce che egli fece il manovale e che lavorava la pietra; e taluni affermano che sono opera sua le Grazie con i drappeggi che si trovano sull’Acropoli. Perciò Timone nei suoi ‘Silli’ dice:

‘Altra strada rispetto ai quali prese <Socrate>, lo scalpellino, il ciarlone di leggi,
l’ammaliatore dei Greci, l’inventore di sottili argomentazioni,
il motteggiatore derisore dei retori, l’ironizzatore Attico a metà’.

Come riferisce Idomeneo, Socrate era infatti un abilissimo oratore; [II,20] ma i Trenta, secondo quanto racconta Senofonte, gli vietarono di insegnare l’arte della parola. Aristofane gli fa fare in commedia la parte di colui che è capace di trasformare il torto in ragione. Secondo quanto afferma Favorino nella sua ‘Storia varia’, Socrate fu il primo, insieme al suo allievo Eschine, ad insegnare la retorica. Anche Idomeneo dice la stessa cosa nella sua opera ‘Sui Socratici’. Egli fu anche il primo a discutere sulla condotta della vita umana e morì, primo tra tutti i filosofi, in seguito a una condanna a morte. Aristosseno, figlio di Spintaro, afferma che egli si occupò di finanza, giacché soleva investire un certo capitale, ricavarne un interesse, spendere l’interesse e reinvestire il capitale. Demetrio di Bisanzio riferisce che Critone, innamoratosi della grazia del suo animo, lo tirò fuori dall’officina nella quale lavorava e lo fece educare. [II,21] Una volta riconosciuto che la speculazione naturalistica non ha per noi alcun valore, Socrate discuteva di questioni etiche sia nelle officine che nella piazza del mercato, ripetendo che a lui interessava ricercare:

‘quel che di cattivo e di buono c’è nella magione’.

Nel corso delle sue ricerche discuteva spesso con grande veemenza, sicché gli interlocutori lo prendevano a pugni oppure gli strappavano i capelli; la maggior parte delle volte, però, lo deridevano con disprezzo. Ma egli sopportava pazientemente tutte queste offese. Ragion per cui anche quando fu preso a calci, poiché un tale era meravigliato della sua sopportazione Socrate gli disse: “Se mi avesse dato un calcio un asino, forse che gli farei intentare un processo?”. Queste sono le cose che racconta Demetrio. [II,22] Come accade ai più, non ebbe mai bisogno di andare all’estero fuorché quando ci fu bisogno di partecipare ad una spedizione militare. Per il resto del tempo se ne stava ad Atene e qui la sua maggiore ambizione era di poter fare dibattiti, non per far cambiare opinione agli interlocutori bensì nel tentativo di imparare da loro la verità. Si racconta che Euripide gli diede una copia dell’opera di Eraclito e gli chiese: “Cosa ti sembra?”. La risposta di Socrate fu: “Le cose che ho capito mi sembrano davvero eccellenti, e credo che lo siano anche quelle che non ho capito, eccetto che per arrivare al loro fondo c’è bisogno di un palombaro di Delo”. Usava darsi gran cura degli esercizi fisici ed era di corporatura forte e vigorosa. Prese parte alla spedizione militare contro Amfipoli, e nella battaglia di Delio raccolse e salvò la vita a Senofonte che era caduto da cavallo. [II,23] In quell’occasione, mentre tutti gli Ateniesi s’erano dati ad una fuga precipitosa, Socrate arretrava invece senza fretta, volgendosi continuamente qua e là e pronto a difendersi se mai qualcuno lo assalisse. Partecipò anche alla spedizione militare contro Potidea: città che fu raggiunta per via di mare in quanto, a causa della guerra in corso, era impossibile arrivarvi per via di terra. Si racconta che in quest’occasione Socrate tenne per una notte intera una certa posizione militare chiave. Si meritò così sul campo il primo premio del valore, che egli però cedette ad Alcibiade del quale, come afferma Aristippo nel quarto libro della sua opera ‘Sulla dissolutezza degli antichi’, egli era l’amante. Ione di Chio afferma che da giovane Socrate viaggiò fino a Samo in compagnia di Archelao, ed Aristotele che andò a Delfi. Nel primo libro dei suoi ‘Memorabili’ Favorino riferisce poi che egli raggiunse anche l’Istmo di Corinto. [II,24] Era un uomo di solide convinzioni e favorevole al partito popolare. Ciò è manifesto dal fatto che non cedette agli ordini dei membri del partito di Crizia, i quali gli intimarono di portare dinanzi a loro Leonte di Salamina, un uomo assai ricco, per mandarlo a morte; e che fu il solo a votare contro la condanna dei dieci generali. Altrettanto manifesto ciò è dal fatto che quando gli fu possibile evadere dalla prigione, egli non volle farlo; che censurò coloro che erompevano in alti lamenti per la sua sorte; e che fece quei famosi, bellissimi discorsi mentre era in catene. Era un uomo di carattere indipendente e che ispirava rispetto. Nel settimo libro dei suoi ‘Appunti’, Panfilo ricorda che una volta Alcibiade gli offrì un grande pezzo di terreno affinché potesse costruirvi sopra una casa, e che lui gli disse: “Se io avessi bisogno di calzari e tu mi offrissi del cuoio col quale farmeli io stesso, sarei ridicolo se lo accettassi”. [II,25] Spesso, guardando la moltitudine di merci che erano poste in vendita, diceva a se stesso: “Di quante cose non ho bisogno!”. Di continuo poi recitava ad alta voce questi versi giambici:

‘Le argenterie o le vesti di porpora
son buone per le tragedie, non per la vita’.

Trattò con profondo disprezzo Archelao di Macedonia, Scopa di Crannone ed Euriloco di Larissa, non accettando soldi da loro e non recandosi alle loro corti. Il suo tenore di vita era disciplinatissimo, tanto che quando ad Atene vi erano delle pestilenze, spesso lui era il solo a non ammalarsi. [II,26] Aristotele dice che egli sposò due donne. La prima fu Santippe, dalla quale ebbe il figlio Lamprocle. La seconda fu Mirto, figlia di Aristide detto ‘il Giusto’, che egli prese in sposa pur se priva di dote e dalla quale nacquero i figli Sofronisco e Menesseno. Altri affermano però che egli sposò per prima Mirto. Altri ancora, tra i quali sono Satiro e Ieronimo di Rodi, riferiscono che egli le ebbe contemporaneamente entrambi come mogli. Essi raccontano infatti che gli Ateniesi avevano deliberato di accrescere di numero la popolazione e che, a causa della scarsezza di individui maschi, avevano votato di concedere il diritto di sposare una donna cittadina e però di avere figli anche da un’altra: il che è ciò che anche Socrate fece. [II,27] Era capace di guardare dall’alto in basso coloro che lo schernivano; andava fiero della sua parsimonia e non riscosse mai alcuno stipendio. Poiché mangiava con sommo piacere, soleva dire di non avere affatto bisogno di cibi squisiti; e poiché beveva con sommo piacere, diceva di non aspettarsi altra bevanda che quella che era a disposizione; e poiché aveva bisogno di pochissime cose, di essere vicinissimo agli dei. Queste sue affermazioni si possono apprendere anche dai testi dei commediografi, i quali non si rendono conto di stare lodandolo proprio attraverso ciò che dicono di lui per schernirlo. Aristofane parla di lui in questi termini:

‘O uomo giustamente smanioso della grande sapienza,
come te la passerai felice tra gli Ateniesi ed i Greci!
Tu sei uno di memoria tenace, e pensatore, e la sopportazione è dentro
l’animo tuo, e non ti stanchi né stando fermo né camminando,
e non soffri troppo quando hai freddo, e non dai in smanie per la colazione,
e ti astieni dal vino, dalla voracità e dalle altre stupidaggini’.

[II,28] Amipsia, mettendolo in scena con indosso una mantellina, dice così:

‘O Socrate, di un pugno d’uomini il migliore, 
certo di gran lunga il più stravagante, anche tu 
sei giunto tra di noi. Forte lo sei davvero. Ma da dove 
potrebbe venire per te una mantella di cuoio?
B. Questa mancanza è diventata un’offesa per i cuoiai!
A. Costui, pur affamato non s’è mai piegato ad adulare!

Il suo sguardo superiore e la sua grandezza d’animo, la rende palese Aristofane quando dice:

‘Perché tu ti pavoneggi per le strade, e torci gli occhi,
e scalzo molti mali sopporti, e guardi a noi con aria grave’.

Eppure, a volte e nelle opportune occasioni Socrate sapeva adattarsi ed indossare splendide vesti: come quando, nel ‘Simposio’ di Platone, sta camminando verso la casa di Agatone. [II,29] Socrate era abile tanto nello spronare gli altri quanto nel trattenerli. Infatti, dopo avere discusso con lui su cosa sia la ‘scienza’, congedò Teeteto pieno di entusiasmo, come ci riferisce Platone. Invece, facendo con lui una serie di considerazioni su cosa sia il ‘sacro’, distolse dal suo proposito Eutifrone, il quale voleva intentare un processo contro suo padre per l’omicidio di un servo di casa. E con lo spronarlo alla virtù, fece di Liside una persona di grande moralità. Socrate era infatti abilissimo a trovare le proprie argomentazioni traendole dai fatti. Fece rinsavire anche suo figlio Lamprocle, il quale era oltremodo infuriato contro la madre Santippe; come racconta, se non erro, Senofonte. Distornò Glaucone, il fratello di Platone che voleva interessarsi di affari cittadini, da un simile progetto in quanto del tutto inesperto di politica, come dice Senofonte. Al contrario, invece, assistette Carmide in tale progetto in quanto possedeva le qualità adatte allo scopo. [II,30] Risollevò lo spirito di Ificrate, il generale, mostrandogli i galli da combattimento del barbiere Midia, che sbattendo le ali sfidavano quelli di Callia. E Carmide, il figlio di Glaucone, era del parere che Socrate procacciasse alla città il prestigio che procaccia il possesso di un fagiano o di un pavone. Soleva ripetere che è stupefacente la facilità con la quale ciascuno di noi saprebbe dire il numero delle pecore che ha, e invece non saprebbe dire né il nome né il numero degli amici che possiede: a tal punto li tiene in poco conto. Vedendo che Euclide s’industriava assai sui discorsi eristici, gli disse: “Euclide, potrai adoperarli con i sofisti, ma con gli uomini mai”; giacché credeva del tutto inutile, come afferma Platone nel suo ‘Eutidemo’, darsi da fare su ragionamenti frivoli e cavillosi. [II,31] Quando Carmide gli offrì dei servi affinché potesse dal loro lavoro ricavare delle entrate, Socrate declinò l’offerta; e secondo alcuni ebbe anche in disdegno la bellezza fisica di Alcibiade. Secondo quanto afferma Senofonte nel suo ‘Simposio’, lodava invece il tempo libero dedicato all’educazione come il più meraviglioso dei possessi. Ripeteva perciò che vi è un solo bene: la scienza; e un solo male: l’ignoranza; e che la ricchezza di denaro e la nobiltà di natali non incorporano in se stessi alcunché di buono e solenne bensì, tutt’al contrario, ogni male. Quando dunque un tale gli disse che Antistene aveva una madre originaria della Tracia, Socrate gli rispose: “E tu crederesti che da due Ateniesi possa nascere una persona di tale nobiltà d’animo?”. Ingiunse poi a Critone di pagare il riscatto di Fedone il quale, essendo un prigioniero di guerra era costretto a prostituirsi, e ne fece un filosofo. [II,32] Quand’era ormai vecchio imparò a suonare la lira, affermando che nulla c’è di assurdo nell’imparare le cose che uno non sa. Danzava inoltre regolarmente, ritenendo che simile ginnastica fosse vantaggiosa per la buona complessione fisica, come anche Senofonte afferma nel suo ‘Simposio’. Soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo quel che gli sarebbe accaduto; che l’essere da esso ben comandati, anche se per poco tempo, non è piccola cosa; e di nulla sapere se non sapere che c’è questo demone. Diceva anche che quanti comperano a caro prezzo frutti precoci, rinunciano con ciò a farli giungere a maturazione. Interrogato una volta su quale fosse la virtù di un giovane, rispose: “Nulla di troppo”. Era dell’avviso che si debba imparare la geometria fino al punto da essere capaci di misurare la terra che si acquisisce o si cede. [II,33] Quando nella sua ‘Auge’ Euripide afferma della virtù che:

‘la miglior cosa è lasciar queste cose andare come capita’,

Socrate si alzò e uscì dal teatro, dicendo che è ridicolo ritenere cosa degna l’andare in cerca di un servo fuggitivo che non si trova, e invece lasciar andare in malora a questo modo la virtù. Richiesto da un tale se sia il caso di sposarsi oppure no, rispose: “Qualunque delle due cose tu faccia, te ne pentirai”. Diceva anche di stupirsi assai del fatto che quanti scolpiscono statue di marmo, d’altro non si diano pensiero se non che la pietra sia il più possibile simile al modello umano; e che invece non si diano alcun pensiero di non apparire essi stessi simili a pezzi di marmo. Soleva sollecitare i giovani a guardarsi di continuo nello specchio, allo scopo, nel caso fossero belli, di diventarne degni; e nel caso fossero brutti, di nascondere la loro bruttezza sotto la buona educazione. [II,34] Una volta Socrate invitò a pranzo delle persone ricche, e poiché Santippe temeva di non essere all’altezza della situazione, lui le disse: “Fatti coraggio: se fossero persone a modo, si comporterebbero con compiacenza; se saranno degli sciocchi, di loro a noi non importerà nulla”. Soleva ripetere che mentre gli altri uomini vivono per mangiare, lui invece mangiava per vivere. Circa la folla indistinta, era dell’avviso che è come se uno, mentre rifiuta di accettare per buona una tetradracma, accettasse invece come buone simili monete se sono in mucchio. Quando Eschine gli disse: “Sono povero e non ho altro, ecco ti do me stesso”, Socrate gli rispose: “Non ti accorgi che mi stai offrendo la cosa più grande di tutte?”. Un tale esprimeva il suo disappunto perché quando i Trenta misero in piedi il loro governo non lo tennero in considerazione, e Socrate gli disse: “E non te ne penti?”. [II,35] A chi gli diceva: “Gli Ateniesi ti hanno condannato a morte”, egli rispose: “E la natura ha condannato a morte gli Ateniesi”. Altri tuttavia attribuiscono questo detto ad Anassagora. Quando sua moglie gli disse: “Tu muori ingiustamente”, Socrate le rispose: “E tu vorresti che io morissi colpevole?”. Quando in sogno gli sembrò che un tale gli dicesse:

‘Al terzo giorno verrai a Ftia fertile zolla’,

disse ad Eschine: “Fra tre giorni morirò”. Poco prima che bevesse la cicuta, Apollodoro gli offrì un mantello bello ed elegante affinché potesse morire con esso addosso. Ma Socrate gli disse: “E perché? Se il mio mantello era idoneo a rivestirmi da vivo, non lo sarà anche per morirci dentro?”. A chi gli annunciava: “Il tale parla male di te!”, egli rispose: “Già, non ha mai imparato a parlar bene”. [II,36] Poiché Antistene aveva rivoltato e messo in vista la parte lacera della sua mantellina, Socrate gli disse: “Attraverso la mantellina vedo la tua vanagloria”. A chi gli diceva: “Ma il tale non ti sta ingiuriando?”, Socrate rispose: “No, queste sue ingiurie nulla hanno a che fare con me”. Soleva poi affermare che bisogna offrirsi a bella posta alle facezie dei poeti comici, giacché se queste cogliessero qualcuno dei nostri difetti, ci correggeranno; se no, i loro lazzi non ci riguarderanno”. Quando Santippe prima lo coprì d’ingiurie e poi gli rovesciò addosso dell’acqua, Socrate disse: “Non dicevo io che quando Santippe tuona, poi fa anche piovere?”. Ad Alcibiade il quale diceva che Santippe è insopportabile quando si mette ad ingiuriare, Socrate rispose: “Ma io c’ho fatto l’abitudine. È come se sentissi di continuo lo stridore di una carrucola. [II,37] E tu” soggiunse quindi “non sopporti forse il chiasso delle oche starnazzanti?”. “Sì, ma quelle mi danno uova e pure dei paperi!”. “E pure a me Santippe genera dei figli!”. Nella piazza del mercato una volta Santippe gli strappò addirittura di dosso il mantello, e mentre i conoscenti che aveva intorno gli suggerivano di difendersi mettendole le mani addosso, Socrate disse: “Sì, per Zeus, di modo che mentre noi facciamo a pugni, ciascuno di voi possa poi mettersi a gridare ‘Forza Socrate!’ e ‘Dai Santippe!’ ”. Soleva ripetere di montare una moglie riottosa come i cavalieri cavalcano i cavalli focosi, e diceva: “Come i cavalieri, una volta domati questi, riescono poi facilmente a spuntarla con gli altri; così anch’io, abituato alla relazione con Santippe, saprò convivere con gli altri uomini”. Questi ed altri simili sono le parole ed i fatti che trovarono testimonianza da parte della Pizia, quando essa diede a Cherefonte il famoso responso:

‘Di tutti gli uomini Socrate è il più sapiente’.

[II,38] Da quel momento in poi, Socrate diventò oggetto di somma invidia; anche perché confutò come dissennati coloro che avevano un gran concetto di se stessi: ad esempio Anito, come si legge nel ‘Menone’ di Platone. Infatti costui, incapace di sopportare la sbeffeggiatura da parte di Socrate, dapprima gli sollevò contro i poeti della cerchia di Aristofane, e poi persuase Meleto a presentare contro di lui una denuncia per empietà e per corruzione dei giovani. Meleto presentò dunque la denuncia; l’arringa davanti al tribunale fu pronunciata da Polieucto, come afferma Favorino nella sua ‘Storia varia’. Il discorso fu redatto dal retore Policrate, secondo quanto riferisce Ermippo; oppure, secondo altri, da Anito. A tutti gli altri preparativi provvide il demagogo Licone. [II,39] Antistene nelle sue ‘Successioni dei filosofi’ e Platone nella sua ‘Apologia’ affermano che gli accusatori di Socrate furono tre: Anito, Licone e Meleto. Anito dava voce all’ira degli artigiani e dei politici, Licone a quella dei retori e Meleto a quella dei poeti: tutta gente che Socrate aveva fatto a pezzi. Nel primo libro dei suoi ‘Memorabili’, Favorino afferma che il discorso di Policrate contro Socrate è spurio, giacché in esso è citata la ricostruzione delle mura della città ad opera di Conone, cosa che avvenne soltanto sei anni dopo la morte di Socrate. Ed in effetti la faccenda sta proprio così. [II,40] La dichiarazione giurata dell’accusa che, come riferisce Favorino nel suo ‘Metroo’ è ancor oggi disponibile, era di questo tenore: ‘Meleto, figlio di Meleto, del demo Pito, presenta e giura le seguenti accuse contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece: Socrate è colpevole di non legittimare gli dei che la città legittima, poiché introduce altre e nuove divinità; ed è anche colpevole di corrompere i giovani. La pena richiesta è la morte’. Quando Lisia redasse per lui la difesa, il nostro filosofo dopo averla letta, disse: “Il tuo discorso, Lisia, è bello ma non è acconcio a me”. Si trattava, cioè, di un discorso di carattere molto più forense che filosofico. [II,41] E poiché Lisia ribatté: “Ma come? Se il discorso è bello come fa a non esserti acconcio?”; Socrate gli spiegò: “Così come non mi sarebbero acconci i bei mantelli e i bei calzari”. Nella sua opera ‘La Corona’ Giusto di Tiberiade racconta che nel corso del processo Platone salì alla tribuna ed ebbe appena il tempo di dire: “Cittadini Ateniesi, io sono qui il più giovane di coloro che salgono alla tribuna…” che i giudici gli gridarono: “Scendi giù! Scendi giù!”. Tolti i voti favorevoli all’assoluzione, Socrate fu condannato a maggioranza semplice, con duecento ottantuno voti. E quando i giudici valutarono a quale pena o a quale multa egli dovesse essere condannato, Socrate si offrì di pagare una multa di venticinque dracme. Eubulide afferma però che egli convenne di pagarne cento. [II,42] Poiché i giudici si misero a rumoreggiare, a questo punto Socrate disse: “Ebbene, allora in considerazione dei servizi da me resi alla città, io dico che la giusta pena per me è quella di essere mantenuto nel Pritaneo a spese pubbliche”. Ma i giudici lo condannarono a morte, aggiungendo ai precedenti altri ottanta voti. Messo in prigione, non molti giorni dopo bevve la cicuta, dopo avere tenuto i nobilissimi discorsi che Platone riferisce nel suo ‘Fedone’. Secondo alcuni Socrate compose allora un peana, il cui inizio è:

‘Delio Apollo salve, e tu Artemide, inclita prole’.

Dionisodoro afferma però che il peana non è suo. Compose anche una favola al modo di Esopo, invero non tanto ben riuscita, il cui inizio è:

‘Una volta Esopo disse agli abitanti di Corinto
di non far giudicare la virtù dalla sapienza dei giudici popolari’.

[II,43] Dunque egli così si dipartì dal consorzio degli uomini. E gli Ateniesi ben presto se ne pentirono, tanto da chiudere palestre e ginnasi, da esiliare gli altri accusatori e da condannare a morte Meleto. Onorarono poi Socrate con una statua di bronzo lavorata da Lisippo, che posero nel Pompeio. Quando Anito fece ritorno ad Eraclea, sua patria, il giorno stesso i suoi abitanti lo bandirono. Gli Ateniesi hanno avuto di che pentirsi non soltanto nel caso di Socrate ma anche di moltissimi altri. Infatti, secondo quanto riferisce Eraclide, multarono Omero di cinquanta dracme per manifesta pazzia; dicevano che Tirteo delirava; ed onorarono con una statua di bronzo Astidamante a preferenza dei poeti della cerchia di Eschilo. [II,44] Nel suo ‘Palamede’, Euripide vitupera gli Ateniesi dicendo:

‘Voi uccideste, uccideste l’onnisapiente che nessuna
sofferenza mai causò, l’usignolo delle Muse’

E così è. Filocoro afferma però che Euripide morì prima di Socrate. Secondo quanto riferisce Apollodoro nella sua ‘Cronologia’, Socrate nacque sotto l’arcontato di Apsefione nel quarto anno della LXXVII Olimpiade, il sesto giorno del mese Targelione, quando gli Ateniesi purificano la città e gli abitanti di Delo dicono che sia nata Artemide. Morì nel primo anno della XCV Olimpiade, all’età di settanta anni. Questo riferisce anche Demetrio Falereo. Taluni però affermano che egli morì all’età di sessanta anni. [II,45] Sia Socrate che Euripide furono entrambi uditori di Anassagora; ed Euripide nacque nel primo anno della LXXV Olimpiade, sotto l’arcontato di Calliade. È mia opinione che laddove, stando alle parole di Senofonte, Socrate fa alcune considerazioni sulla Prònoia, egli stia discutendo anche di Fisica, seppure lo stesso Senofonte affermi però che Socrate parlasse soltanto di Etica. Anche Platone quando nella sua ‘Apologia’ menziona Anassagora ed alcuni altri filosofi della natura, parla in realtà a nome proprio di argomenti che Socrate nega di conoscere e che tuttavia egli gli attribuisce. Aristotele riferisce poi che un certo Mago venuto ad Atene dalla Siria predisse a Socrate, tra altre cose, che la sua morte sarebbe stata una morte violenta. [II,46] Ci sono anche dei nostri versi scritti per lui, che suonano così:

‘Bevi, o Socrate, ora che sei nella casa di Zeus: perché davvero 
eri sapiente e tale ti disse il dio: e il dio è sapienza.
Tu dagli Ateniesi ricevesti semplicemente la cicuta,
ma furono essi a tracannarla attraverso la tua bocca’.

Secondo quanto afferma Aristotele nel terzo libro della sua ‘Poetica’, erano suoi acerrimi critici un certo Antiloco di Lemno e l’indovino Antifonte, come Cilone ed Onata lo erano di Pitagora; Siagro lo era di Omero vivente e Senofane di Colofone lo era di Omero morto; Cercope di Esiodo vivente e il predetto Senofane di Esiodo morto; Anfimene di Coo lo era di Pindaro; Ferecide di Talete; Salaro di Priene lo era di Biante; Antimenida e Alceo lo erano di Pittaco; Sosibio di Anassagora e Timocreonte di Simonide. [II,47] Dei suoi successori i più in vista furono Platone, Senofonte e Antistene; e dei dieci riportati quali suoi seguaci, i più distinti furono quattro: Eschine, Fedone, Euclide e Aristippo. Bisogna che io parli per primo di Senofonte, poi di Antistene tra i Cinici, poi dei Socratici e ancora dopo di Platone, poiché Platone dà inizio alle dieci scuole filosofiche e istituisce la prima Accademia. Questo è l’ordine di successione che io seguirò. Ci fu anche un altro Socrate, uno storico che scrisse una periegési di Argo. Un altro fu un Peripatetico, originario della Bitinia. Un altro fu un poeta epigrammatico. Infine un Socrate di Coo scrisse una epiclési degli dei.