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OMAGGIO AI CINICI

Diogene di Sinope

Se prescindiamo da qualunque considerazione dotta e di merito, possiamo affermare senza tema di smentita che nel linguaggio italiano corrente l’aggettivo ‘Stoico’ viene comunemente usato in un modo che riflette un sostanziale rispetto e forse addirittura una certa ammirazione per questa antica Scuola Filosofica. L’accezione più comune, per non dire unica, nella quale esso viene usato è infatti quella di ‘resistente al dolore e alla sofferenza’, di ‘impavido di fronte alle avversità’. Questo è tutto ciò che è rimasto oggi dello Stoicismo, ossia di una straordinaria ricchezza di pensiero che con questo sito, unico nel suo genere, io mi sforzo come un archeologo di riportare alla luce, di ripulire, di rendere presentabile e finalmente di mettere a disposizione di tutti. 

Ben diversa è la sorte toccata all’aggettivo ‘Cinico’. Nel linguaggio italiano corrente sarebbe difficile trovare un’altra parola che sia usata per manifestare altrettanto disprezzo, esecrazione, quando non addirittura conclamato abominio di qualcuno o di qualcosa. Dire di qualcuno che è un ‘Cinico’ equivale oggi a negargli quasi la qualità di uomo, trasformandolo in un essere abietto e sordido indegno di vivere nel consorzio umano. Che poi il ‘Cinismo’ sia stata una Scuola Filosofica che ha preceduto e generato lo Stoicismo non lo sa, o non se lo ricorda, quasi nessuno. Ebbene, siccome io non mi ritengo né un Cristiano, né un Marxista, né un Nichilista, né un seguace delle decine e decine di ‘ismi’ filosofici antichi e recenti che vanno di moda; e invece mi onoro di essere qualcuno che ragiona e vive con la mentalità greca di uno Stoico e di un Cinico antico, sarà opportuno che io offra un quadro di cosa si debba davvero intendere per ‘Cinismo’. E lo farò parafrasando molto brevemente le ultime pagine del VI Libro delle ‘Vite dei filosofi’, pagine nelle quali Diogene Laerzio ne sintetizza i tratti fondamentali.

Innanzitutto bisogna ricordare che il Cinismo ha la dignità di una Scuola Filosofica e non è soltanto, come affermano alcuni, un istituto di vita. Il Cinismo mostra scarso o nessun interesse per la Logica e la Fisica, e concentra tutta la sua attenzione sull’Etica. I Cinici, quindi, ricusano di dare importanza alle nozioni enciclopediche, e sono dell’avviso che coloro i quali sono diventati virtuosi non hanno alcun bisogno di apprendere la ‘Letteratura’ o le ‘Scienze’, per non essere eventualmente distratti da attrattive estranee alla filosofia. Essi tolgono di mezzo anche la geometria, la musica e tutte le nozioni di questo genere. A chi gli mostrava una meridiana, Diogene diceva: “Questo aggeggio è utile per non arrivare tardi a pranzo”. E ad uno che sfoggiava le proprie doti musicali, disse: “Le città sono ben governate dall’intelligenza degli uomini, e anche le case lo sono; non dai suoni vibrati né dai trilli”. I Cinici concordano nel ritenere che per l’uomo il sommo bene è la vita in armonia con la virtù. Questa dottrina è esattamente simile a quella degli Stoici poiché, come ho già accennato, vi è una stretta relazione tra queste due scuole filosofiche. Questa è anche la ragione per cui è stato detto che il Cinismo è una ‘scorciatoia’ per la virtù. Del resto, proprio in questo modo condusse la sua vita Zenone di Cizio. I Cinici ritengono che si debba vivere frugalmente, utilizzando cibi non cotti e già naturalmente pronti per il consumo; vestirsi il più semplicemente e sobriamente possibile; spregiare la ricchezza, la gloria mondana e la nobiltà di natali. Taluni Cinici sono pertanto integralmente vegetariani, bevono soltanto acqua fresca e utilizzano come dimora i ripari che capitano ed anche le botti: come faceva Diogene, il quale giudicava che l’aver bisogno di nulla è proprio degli dei e che proprio degli uomini simili a dei è l’avere bisogno di poco. I Cinici ritengono anche che la virtù può essere insegnata e che la virtù, una volta acquisita, non può essere persa; che il sapiente è degno d’amore, è al riparo dalle aberrazioni, è amico del suo simile e che egli nulla delega alla fortuna. Anche i Cinici, poi, chiamano ‘indifferente’ tutto ciò che sta frammezzo alla virtù e al vizio. 

Il mio presente omaggio ai Cinici si compone dunque di due testi:

1) Il primo è la mia traduzione dal greco in italiano del Libro VI delle ‘Vite dei filosofi’ di Diogene Laerzio, libro interamente dedicato ai Cinici.
In esso Diogene Laerzio ci informa sulla vita e le opere dei seguenti filosofi:
– Antistene (c. 446 – 366 a. C.)
– Diogene di Sinope (404 – 323 a. C.)
– Monimo (IV secolo a. C.)
– Onesicrito (floruit 330 a. C.)
– Cratete (floruit 326 a. C.)
– Metrocle (c. 300 a. C.)
– Ipparchia (c. 300 a. C.)
– Menippo 
– Menedemo

2) Il secondo è la mia traduzione del Capitolo XXII del Libro III delle ‘Diatribe’ di Epitteto. Si tratta del capitolo che Epitteto dedica specificamente al suo ‘Omaggio ai Cinici’ e che testimonia della strettissima interdipendenza tra Cinismo e Stoicismo.
In questo circostanza mi sono permesso di proporre una mia traduzione che non rispetta al 100 % la fedeltà al discorso parlato che mi sono imposto nel caso della traduzione delle ‘Diatribe’. So comunque che in questo modo farò felice buona parte dei mei venticinque lettori, senza peraltro sentirmi traditore della sostanza del dettato di Epitteto.

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EPITTETO ‘DIATRIBE’ LIBRO III CAPITOLO XXII SUL CINISMO

SUL CINISMO

Quando un suo conoscente che appariva propenso a cinizzare, cercò di sapere da lui: “Che tipo di persona deve essere chi vive da Cinico? Qual è il preconcetto che dobbiamo avere della faccenda?”, Epitteto gli rispose: “Lo analizzeremo con agio; ma intanto ho da dirti che chi progetta per sé una faccenda così rilevante prescindendo dalla conoscenza di che cosa sia la divinità, è oggetto del disgusto divino e null’altro vuole che fare l’indecente in pubblico. Giacché neppure in una casa ben amministrata uno arriva e si dice: ‘Devo essere io l’amministratore’. Altrimenti il padrone di casa lo tiene d’occhio, e vedendolo dare altezzosamente ordini qua e là, lo caccia fuori e lo fa fare a pezzi. Così accade anche in questa grande città. Giacché c’è anche qui un padrone di casa, che è quello che stabilisce l’ordine di ciascuna cosa: ‘Tu sei sole: nel corso della tua rivoluzione hai il potere di fare l’anno e le stagioni, di far crescere e maturare i frutti, di far soffiare e placare i venti, di riscaldare in giusta proporzione i corpi degli uomini. Va’, compi la tua rivoluzione e così metti in movimento tutte le cose, dalle più grandi alle più piccole. Tu sei un vitello: quando si dia a vedere un leone, effettua l’opera tua; se no, mugugnerai. Tu sei un toro: vieni innanzi a combattere, giacché questo ti spetta, ti si confà e puoi fare. Tu puoi capeggiare l’esercito contro Ilio: sii Agamennone. Tu puoi combattere corpo a corpo con Ettore: sii Achille’. Se invece Tersite si facesse avanti e pretendesse il comando, in primo luogo non lo otterrebbe; oppure, una volta ottenutolo, si coprirebbe di ridicolo davanti ad una moltitudine di testimoni. 
Tu pertanto delibera sulla faccenda dell’abbracciare la vita Cinica con la dovuta solerzia, giacché non si tratta di quel che ti pare a prima vista: ‘Una mantellina la indosso già adesso e la indosserò pure allora; già ora mi corico sul duro e sul duro mi coricherò anche allora; aggiungerò una piccola bisaccia ed un bastone e, andando in giro, comincerò a fare delle domande a chi incontro e ad ingiuriarlo. Se vedrò uno depilato col dropace, lo rimprovererò; e lo stesso farò se vedrò qualcuno con il ciuffo tutto ben plasmato o che passeggia vestito in scarlatto’. Se tu immagini che il vivere da Cinico sia qualcosa di questo genere, stanne lontano: non avvicinartici, non è affare per te. Se invece, immaginandolo qual è non te ne stimi indegno, analizza a che grande faccenda metti mano.
Innanzitutto, per quanto ti riguarda, non devi più mostrarti simile in nulla all’uomo che sei adesso e smetterla di dare la colpa di qualcosa a dio o agli uomini. Devi completamente rimuovere da te il desiderio ed allogare la tua avversione solamente su ciò ch’è proairetico. Non devi più provare ira, sdegno, invidia, commiserazione. Una donzelletta graziosa, un po’ di reputazione, un garzoncello scherzoso, una focaccetta non devono più apparirti cose belle. Giacché devi sapere che le altre persone, quando fanno un certo genere di cose, le fanno dietro delle pareti, nelle loro case, al buio; ed hanno molti altri mezzi per nasconderle. Un tale ha fatto sbarrare la porta, ha collocato un servo davanti alla camera da letto e gli ha dato quest’ordine: ‘Se verrà qualcuno, dì che il padrone è fuori, che è impegnato!’. Invece di tutti questi paraventi, il Cinico è tenuto ad avere dinanzi a sé, quale sua unica protezione, il rispetto di sé e degli altri. Se no, nudo com’è ed all’aria aperta, altro non gli riuscirà di fare che l’indecente. Il rispetto di sé e degli altri è la sua casa, la sua porta, i suoi custodi davanti alla camera da letto, il buio. Il Cinico non deve voler celare qualcosa di suo (altrimenti è sparito, è andato in malora il Cinico, l’uomo che vive all’aria aperta, l’uomo libero; perché allora significa che ha iniziato ad aver paura di qualcuno degli oggetti esterni, che ha iniziato ad aver bisogno di qualcosa che lo nasconda) e, se pur volesse celarlo, non potrebbe neppure farlo. Giacché dove lo celerà o come lo celerà? E se colui che ha il compito di educare gli uomini all’uso della diairesi, il comune pedagogo fallirà nel suo intento, cosa deve necessariamente sperimentare? Se dunque il Cinico teme qualcuno degli oggetti esterni, è ancora possibile che ardisca soprintendere con l’animo intero alle altre persone? Ciò è inconcepibile, è impossibile.
Tu dunque devi, innanzitutto, fare puro il tuo egemonico e proporti questo istituto di vita: ‘Ora mio materiale è il mio intelletto, come il legno è materiale per il falegname e le pelli lo sono per il calzolaio. L’opera cui mi accingo è il retto uso delle rappresentazioni. Il mio corpo nulla è per me, nulla per me sono le sue parti. La morte? Venga quando vorrà, sia del corpo intero sia di qualche sua parte. L’esilio? E dove, in quale esilio può qualcuno cacciarmi? Cacciarmi fuori dell’ordine del mondo di sicuro non può. Dovunque andrò, là troverò il sole, ci saranno la luna, gli astri, le mie visioni in sogno, dei presagi augurali, la mia conversazione con gli dei’. 
Inoltre il vero Cinico, pur ben preparatosi a queste opere, non può accontentarsi di esse, ma deve avere piena coscienza di essere stato inviato da Zeus agli esseri umani quale messaggero. Un messaggero che indica loro quanto errano circa i beni e i mali, che mostra loro come essi cerchino la sostanza del bene e del male altrove da dov’essa è, mentre non pensano a cercarla dove invece essa si trova. Egli deve sapere di essere un esploratore come Diogene, il quale fu condotto al cospetto di Filippo di Macedonia dopo la battaglia di Cheronea. Giacché effettivamente il Cinico è un esploratore di quanto è amico e di quanto è nemico dell’uomo; e bisogna che egli, dopo avere analizzato la faccenda con ogni precisione, venga ad annunciare la verità agli uomini senza mostrarsi sbigottito, senza indicare nemici inesistenti, né apparire in qualche altro modo sconvolto o confuso dalle rappresentazioni.
Se capita, il Cinico deve dunque essere l’uomo capace di alzarsi in piedi, di salire sulla scena dove si sta svolgendo la tragedia e di pronunciare le parole di Socrate: ‘Ohimè, uomini, dove state andando? Cosa state facendo, disgraziati? Rotolate su e giù come ciechi; prendete la strada sbagliata dopo avere abbandonato quella giusta; cercate ciò che rasserena, ciò che fa felici altrove, là dove esso non è; e non vi fidate di chi ve lo mostra. Perché lo cercate fuori di voi? Nel corpo non c’è. Se non mi credete, guardate Mirone, guardate Ofellio. Nel patrimonio non c’è. Se non mi credete, guardate Creso; guardate la gente d’oggi piena di denaro: guardate di quanti mugugni è piena la loro vita. Nelle cariche istituzionali non c’è. Se no, bisognerebbe che quanti sono stati consoli per due o tre volte fossero felici: ma essi non lo sono. Delle parole di chi ci fideremo a questo riguardo? Di voi che scorgete le loro faccende soltanto dal di fuori e che siete abbagliati dalle vostre fantasie, oppure di loro stessi? Che cosa dicono essi? Ascoltateli, sentiteli quando mugugnano, quando gemono, quando si rendono conto di fare la vita più meschina e più pericolosa che ci sia proprio a causa dei consolati che esercitano, della reputazione di cui godono, della notorietà che hanno. Nel potere regale non c’è: altrimenti Nerone sarebbe stato felice, e lo sarebbe stato pure Sardanapalo. Neppure Agamennone era felice, pur essendo una persona più raffinata di Sardanapalo e di Nerone. Infatti, mentre gli altri russano, lui che fa? 

‘Dal capo si strappava i capelli a ciocche, fin dalla radice’,

e quali sono le sue parole?

‘Vado qua e là a questo modo’

 dice, e

‘Sono angosciato: il cuore mi balza fuori dal petto’.

Sciagurato Agamennone, cosa c’è di te che va male? Il patrimonio? Il tuo patrimonio non va affatto male: sei ricco d’oro e di bronzo. Il corpo? Neppure il tuo corpo sta male. Che male hai dunque? Quel male là: che di te risulta trascurato e in rovina ciò con cui desideriamo, ciò con cui avversiamo, con cui impelliamo e repelliamo. In che modo è stato trascurato? Esso ignora la sostanza del bene per cui è nato e quella del male; ignora che cosa è suo peculiare e che cosa è invece allotrio. Sicché quando qualcuna delle faccende che non sono in suo esclusivo potere va male, il tuo egemonico dice: 
‘Ahimè, i Greci sono in pericolo!’. 
Disgraziato egemonico, esso solo negletto e senza cura! 
‘Stanno per morire, distrutti dai Troiani!’. 
E se non li uccideranno i Troiani, non morrebbero comunque? 
‘Sì, ma non tutti in una volta’. 
E che differenza fa? Giacché se morire è un male, morire tutti assieme oppure morire uno per volta è similmente un male. Sta per accadere qualcos’altro dalla separazione di corpo ed animo? 
‘No, null’altro’. 
E se vanno in malora i Greci, per te la porta è stata chiusa? Non hai la potestà di morire anche tu? 
‘Sì, ce l’ho’. 
Perché dunque piangi e gridi ahimè!, pur essendo re ed avendo lo scettro di Zeus? Un re non è mai sfortunato, non più di quanto possa esserlo la Materia Immortale. Cosa sei tu dunque? In verità tu sei soltanto un pastore, giacché singhiozzi come i pastori quando il lupo ghermisce qualcuna delle loro pecore. E sono proprio pecore costoro che tu comandi. E perché sei venuto qui? Forse correvano dei pericoli il vostro desiderio, la vostra avversione; lo correvano forse il vostro impulso o la vostra repulsione? 
‘No’, dice, ‘siamo venuti qui perché era stata rapita la mogliettina di mio fratello’. 
Ma non è un gran guadagno l’essere privati di una mogliettina adultera? 
‘Dunque dobbiamo accettare di essere disprezzati dai Troiani?’ 
E chi sono i Troiani? Dei saggi o degli stolti? Se sono saggi, perché fate loro guerra? Se sono degli stolti, che v’importa di loro? 
‘Siccome non sta in nessuna di queste cose, in cosa sta dunque il bene? Diccelo, signor messaggero ed esploratore!’ 
Il bene sta dove voi non reputate che stia e dove non volete cercarlo; giacché, se così disponeste di fare, avreste già trovato che il bene è in voi. Sicché non lo proiettereste fuori di voi, né vi mettereste alla caccia di ciò che è allotrio come se fosse vostro peculiare. Datevi pensiero di voi stessi, decifrate i preconcetti che avete. Quale cosa vi rappresentate essere il bene?
‘Il bene è ciò che ci rasserena, che ci fa felici, che non è soggetto ad impacci’. 
Orsù, e non ve lo rappresentate naturalmente grandioso? Non ve lo rappresentate rimarchevole? Non ve lo rappresentate inoffensivo? In quale materiale bisogna dunque cercare ciò che rasserena e non è soggetto ad impacci? In qualcosa che è servo o in qualcosa che è libero? 
‘In qualcosa che è libero’. 
Allora: il corpo l’avete libero o servo? 
‘Non lo sappiamo’. 
Non sapete che il corpo è servo della febbre, della podagra, di un’oftalmia, della dissenteria, di un tiranno, del fuoco, del ferro, di qualunque cosa è più potente di lui? 
‘Sì, il corpo è servo di queste cose’. 
Come può dunque ancora essere non soggetto ad intralci qualcosa che ha a che fare con il corpo? Come può essere grandioso o rimarchevole ciò che è per natura cadavere, che è terra, che è argilla? E allora? Non possedete voi niente che sia libero? 
‘Forse niente’. 
Ditemi allora: chi può costringervi ad assentire a quanto vi appare falso? 
‘Nessuno lo può’. 
Chi può forzarvi a non assentire a quanto vi appare vero? 
‘Nessuno’. 
Dunque vedete che qua vi è in voi qualcosa che è libero per natura. Chi di voi può desiderare od avversare, impellere o repellere, prepararsi o proporsi qualcosa senza averne insieme la rappresentazione di vantaggioso o di contrario a ciò che gli è doveroso fare? 
‘Nessuno’. 
Pertanto anche in ciò voi avete qualcosa che non è soggetto ad impedimenti e che è libero. Disgraziati! Questo elaborate, di questo siate solleciti; qui cercate il bene! 
‘E com’è fattibile che se la passi serenamente chi non ha nulla, chi è nudo, senza casa, senza focolare, ispido, senza un servo e senza cittadinanza?’ 
Ecco, la divinità ha inviato chi vi mostrerà nella pratica che ciò è fattibile. 
‘Guardatemi: sono senza casa, privo di cittadinanza, squattrinato, senza un servo; mi corico per terra; non ho moglie, non ho figli, non ho pretorio, ma soltanto la terra, il cielo ed un solo mantellino. E cosa mi manca? Non so forse dominare l’afflizione, non so dominare la paura, non sono libero? Quando mai qualcuno di voi mi vide fallire nel desiderio o, nell’avversione, incappare in quanto avverso? Quando mai io biasimai dio od uomo, quando mai io incolpai qualcuno? Qualcuno di voi m’ha visto forse accigliato? Come vado incontro a costoro dei quali voi avete paura e siete infatuati? Non vado loro incontro come a degli schiavi? Vedendomi, chi non crede di vedere il suo re e padrone?’ 
Ecco accenti da Cinico, eccone lo stile e il progetto. Tu invece dici: ‘No! Quel che fa il Cinico sono una piccola bisaccia, un bastone e delle grandi mascelle. Da Cinico è il divorare tutto quel che gli darai, o metterlo in serbo, o ingiuriare intempestivamente chi gli viene incontro o mettere in mostra la bella spalla’. Vedi in che modo stai per porre mano ad una faccenda di tale rilievo? Prendi per prima cosa uno specchio e guarda le tue spalle, decifra i tuoi lombi e le tue cosce. Uomo! tu stai per iscriverti alle Olimpiadi, non ad una qualche gelida e disgraziata garetta. Alle Olimpiadi non si tratta soltanto di essere vinti e di uscire dalla gara, ma innanzitutto si tratta di fare una figura indecente davanti all’umanità intera che ti guarda, non soltanto davanti agli Ateniesi, agli Spartani o ai Nicopolitani. Inoltre, chi si iscrive avventatamente alle Olimpiadi deve aspettarsi di essere conciato per le feste, e ancor prima di essere conciato per le feste, deve aspettarsi di soffrire la sete, di patire il caldo e di ingoiare molta polvere. Consigliati dunque in proposito con la massima solerzia, riconosci te stesso, interroga il tuo démone, non mettere mano a questa impresa prescindendo dall’assenso del dio che è dentro di te. Giacché se il dio te lo consiglierà, sappi che dispone di farti diventare un grande uomo oppure vuole che tu prenda molte botte. Anche questo filo davvero assai grazioso risulta infatti intrecciato nell’impresa del Cinico: egli deve essere conciato per le feste come un asino; e pur così conciato, amare coloro stessi che così lo conciano, come padre o fratello di tutti. Tu invece dici: ‘No!’ E se qualcuno ti concia per le feste, allora mettiti a gracchiare in modo che tutti sentano: ‘O Cesare, nella tua pace quali angherie mi tocca subire? Andiamo dal proconsole!’ Ma per il Cinico chi è Cesare o un proconsole o un altro individuo, se non chi l’ha mandato su questa terra e colui al quale egli rende culto, ossia Zeus? Invoca egli altri che Zeus? Non è il Cinico persuaso che qualunque sorta di angherie gli toccherà subire, è Zeus che lo sta allenando? Eracle, allenato da Euristeo, non riteneva affatto di essere un meschino, ma realizzava intrepidamente tutti gli ordini che riceveva. E merita di portare lo scettro di Diogene chi, cimentato ed allenato da Zeus, si mette a strillare e a fremere? Ascolta cosa dice Diogene, quando ha la febbre, ai passanti: ‘Teste di cazzo’ dice ‘non vi fermerete? Fate tanta strada e arrivate fino ad Olimpia per vedere la lotta di atleti della malora, e vi rifiutate di vedere la battaglia tra la febbre ed un uomo?’ Ah, di sicuro uno come Diogene avrebbe incolpato Zeus di averlo messo al mondo per poi usare di lui a torto! Proprio lui che si abbelliva delle circostanze difficili e si riteneva degno di essere uno spettacolo per i passanti! Per cosa se la prenderà con Zeus? Perché gli concede di agire con decoro? Di cosa lo accuserà? Di permettergli di sfoggiare più radiosa la sua virtù? Orsù, e cosa dice Diogene della povertà di denaro, della morte, del dolore? Come paragonava la sua felicità a quella del Gran Re o, piuttosto, credeva che neppure fosse paragonabile? Giacché là dove sono sconcerti, afflizioni, paure, desideri imperfetti, avversioni che incappano in quanto avversano, invidie, gelosie: là che passaggio vi può mai trovare la felicità? Dovunque ci siano giudizi schifosi, là è necessario che alberghino tutti questi mali”. 
Quando il giovanotto cercò di sapere se, essendo ammalato, dovrà dare retta ad un amico che lo sollecita ad andare da lui per essere curato, Epitteto gli disse: “E dove mi troverai un amico del Cinico? Giacché costui deve essere un altro Cinico, per meritare di essere contato quale amico del primo. Deve essergli socio di scettro e di regno e degno ministro, se vuole essere degno della sua amicizia: come Diogene lo fu di Antistene e Cratete di Diogene. Oppure reputi che se uno chiunque va da un Cinico e gli dice ‘Salve!’ è suo amico, e che il primo lo riterrà degno di accoglierlo come tale? Se questo è quel che tu pensi, se hai in mente qualcosa del genere, piuttosto guardati intorno e cerca un accogliente immondezzaio sul quale avere la febbre, e che ti ripari dal vento di Borea per non congelare. A me sembra che tu voglia andare a casa di qualcuno giusto per essere foraggiato un po’ di tempo. Insomma, cosa c’entri tu con il mettere mano ad una faccenda della rilevanza del Cinismo?”.
A questo punto il giovanotto gli chiese: “Ma lo sposarsi e l’avere dei figli saranno assunti dal Cinico come eventi di cardinale importanza?”. 
“Se tu mi darai” gli rispose Epitteto “una città di sapienti, sarà probabilmente difficile che uno abbracci la vita Cinica. Giacché a favore di chi egli si incaricherà di questo modo di vivere? Se però assumiamo come valida questa ipotesi, allora nulla gli impedirà di sposarsi e di avere dei figli, giacché sua moglie sarà anche lei una Cinica, il suocero un altro Cinico e i figli saranno allevati a questo modo. Ma se la condizione della città è quella di adesso, cioè di schieramenti contrapposti, non deve forse il Cinico essere senza distrazioni, interamente dedito al ministero di Zeus, in grado di frequentare persone, non vincolato a doveri propri di gente comune né implicato in relazioni sociali violando le quali non salvaguarderà più il ruolo del virtuoso e serbando le quali manderà in malora il messaggero, l’esploratore ed araldo degli dei che egli è? Giacché vedi bene che in questo caso egli deve mostrarsi disponibile a prestare certi servizi al suocero, esplicarne altri per gli altri parenti della moglie e per la moglie stessa; e così facendo si esclude dal Cinismo per curare ammalati e per provvedere loro. Tralasciamo pure di parlare del resto, ma egli deve provvedere una cuccuma dove farà scaldare l’acqua per il figlio e fargli il bagno nella tinozza. Dovrà provvedere della lana per la moglie che ha partorito; poi dell’olio, un graticcio, una tazza (e le suppellettili diventano sempre più numerose); per tralasciare, dicevo, gli altri impegni, le altre distrazioni. Orbene, dove mi sarà più quel re, colui che bada ai comuni interessi, colui

‘A cui son tante genti commesse e tante cure’,

che deve sopravvedere gli altri: gli sposati, chi ha dei figli, chi tratta bene la propria moglie e chi la tratta male, chi litiga, quale casa è stabile e tranquilla e quale non lo è, andando in giro come un medico a tastare i polsi della gente? ‘Tu hai la febbre, tu hai mal di testa, tu hai la podagra; tu evita il cibo, tu mangia, tu non fare bagni; tu devi essere operato, tu cauterizzato’. Dov’è l’agio per il Cinismo da parte di chi è legato a doveri da persona comune? Non deve provvedere dei piccoli mantelli per i figli? Non deve inviarli dal maestro di grammatica con tavolette e tabelline per scrivere, ed avere pronto per loro un graticcio? Giacché non possono essere dei Cinici appena usciti dalle viscere della madre! Diversamente,  i neonati sarebbe meglio esporli che ucciderli così. Considera dunque a cosa riduciamo il Cinico se gli imponiamo tutto ciò, come lo priviamo del regno”. 
“Sì, va bene. Però Cratete si sposò”.
“Tu mi parli di una circostanza nata dalla passione amorosa e mi poni innanzi una donna che era un altro Cratete. Noi invece stiamo discutendo su matrimoni comuni e di circostanza, e così indagando riscontriamo che in queste condizioni la faccenda non è cardinale per il Cinico”.
“Ma comportandosi così” disse il giovanotto, “come potrà il Cinico contribuire alla sopravvivenza dell’umana società?” 
“Perdio, sono maggiori benefattori del genere umano coloro che introducono in loro vece due o tre laidi musi di marmocchi, oppure coloro che fanno del loro meglio per sopravvedere tutte le persone: cosa fanno, come se la passano, di cosa sono solleciti, cosa trascurano contro il conveniente? Quanti, morendo, lasciarono loro dei figli, giovarono ai Tebani più di Epaminonda che morì senza figli? E Priamo, che generò cinquanta lordure, o Danao od Eolo conferirono alla società più benefici di Omero? E poi, se una pretura o la composizione di un trattato tiene qualcuno lontano dal matrimonio o dalla paternità, e costui non reputa di avere cambiato l’essere senza figli con nulla: ebbene, il ruolo regale che ottiene non sarà la degna contropartita che il Cinico riceve? Come mai noi non ci accorgiamo abbastanza della sua grandezza e non ci rappresentiamo secondo merito il ruolo di Diogene, e limitiamo il nostro sguardo ai Cinici di oggi, a questi 

‘cani della mensa, di guardia alle porte’

i quali di Diogene nulla imitano se non l’essere degli scorreggioni in pubblico e nient’altro? Se noi invece guardassimo davvero a Diogene, la tua domanda non ci sorprenderebbe né trasaliremmo all’idea che il Cinico non si sposerà o non farà dei figli. Uomo! il Cinico ha per figli tutte le persone: i maschi come figli, le femmine come figlie; e così pure va da tutti, tutti tutela. Oppure reputi che egli ingiuri chi gli viene incontro per indiscrezione? Il Cinico lo fa da padre, da fratello e servitore del comune padre, di Zeus.
A questo punto, se così ti pare, tanto vale allora che tu mi chieda se il Cinico si interesserà anche di politica. Scodinzolone! cerchi una politica più grande di quella di cui egli già si interessa? Oppure vuoi che il Cinico se ne venga bel bello tra gli Ateniesi a parlare di entrate e di rendite, lui che deve dialogare con tutte le persone, tanto con gli Ateniesi, quanto con i Corinzi, quanto con i Romani non su rendite né su entrate, né su pace o su guerra ma su felicità ed infelicità, su buona e cattiva fortuna, su servitù e libertà? Di un uomo che si interessa di una politica di tale rilievo, tu cerchi di sapere da me se si interesserà di politica? Allora chiedimi anche se occuperà delle cariche pubbliche. Ti risponderò di nuovo così: Stupido! quale carica è più grande di quella che egli già occupa?
Un uomo come il Cinico ha però bisogno di avere anche un certo fisico, giacché se si presenterà tisicuzzo, magro e pallido, la sua testimonianza non ha più la stessa enfasi. Egli infatti, sfoggiando le qualità dell’animo suo, non soltanto deve convincere le persone comuni che è fattibile essere virtuoso anche in mancanza di tutte le cose che essi ammirano; ma altresì mostrare, attraverso l’aspetto del suo corpo, che un tenore di vita semplice, frugale ed all’aria aperta non lo guasta. ‘Ecco’ può quindi dire il Cinico ‘di queste verità siamo testimoni io ed il mio corpo’. Come soleva fare Diogene: giacché proprio Diogene se andava in giro mostrando una splendida forma fisica, ed il suo corpo stesso faceva voltare i più. Se invece il suo corpo suscita commiserazione, il Cinico sembra un mendicante: tutti se ne distolgono, tutti se ne offendono. Neppure deve mostrarsi sozzo, così da far scappare di spavento la gente; ma la sua stessa ispidezza deve essere pulita ed attraente.
Al Cinico deve anche essere congiunta molta grazia naturale ed acutezza di spirito (altrimenti è un lucignolo e nient’altro), per potere prontamente e dappresso affrontare i casi della vita. Come accadde a Diogene il quale, a chi gli domandava: ‘Tu sei quel Diogene che non crede che esistano gli dei?’ ‘E come potrebbe essere così’ rispose ‘se io ritengo proprio te un uomo personalmente inviso agli dei?’. E in un’altra occasione, ad Alessandro che gli stava accanto mentre lui era coricato e gli diceva:

‘Tutta dormir la notte ad uom sconviensi di supremo consiglio,

ancora assonnato replicò: 

‘A cui son tante genti commesse e tante cure’.

Ma prima di tutto l’egemonico del Cinico deve essere più puro del sole; se no, è necessariamente un giocatore d’azzardo ed un facilone chi, impigliato lui stesso in qualche vizio, rimprovera gli altri. Vedi, infatti, qual è il punto. Le guardie del corpo e le armi procuravano a questi re e tiranni, pur essendo essi gente cattiva, il potere di rimproverare aspramente alcuni e di castigare i criminali. Invece delle armi e delle guardie del corpo, sono le sue cognizioni a trasmette al Cinico questa potestà. Quando egli constata di avere vegliato sugli esseri umani e di avere faticato per loro; di essersi coricato pulito e che il sonno lo lascia ancora più pulito; che quanto ha ponderato l’ha ponderato da amico degli dei, da servitore, da partecipe della signoria di Zeus; che ovunque gli è a portata di mano il verso:

‘Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato’,

ed anche quell’altro:

‘Se così piace agli dei, così sia’;

perché non avrà il coraggio della libertà di parola con i suoi amici e con i figli, insomma con i congeneri?
Per questo, chi è cinicamente disposto è né indiscreto né impiccione. Quando infatti sopravvede le umane faccende, il Cinico non si impiccia di cose altrui ma di fatti propri. Altrimenti devi chiamare impiccione anche il generale quando sopravvede ed ispezioni i soldati, veglia su di loro e castiga chi è fuori posto. Se tu, mentre tieni sotto l’ascella una focaccetta, muoverai dei rimproveri ad altre persone, io mi sentirò autorizzato a dirti: ‘Non vuoi piuttosto andartene in un angolino a divorare quel che hai rubato? Cos’hai tu a che fare con le faccende altrui? Chi sei? Il toro sei, o l’ape regina? Mostrami i segni distintivi dell’imperio, quali essa ha di natura. Me se sei un pecchione che reclama di regnare sulle api, non reputi che i tuoi concittadini ti metteranno sotto come le api fanno con i pecchioni?’
Il Cinico deve poi avere una tale capacità di tolleranza da sembrare ai più insensibile, come di sasso. Nessuno lo ingiuria, nessuno lo percuote, nessuno lo oltraggia, ed egli ha dato il suo corpo da usare a chi vuole come decide. Giacché egli si ricorda sempre che di necessità l’inferiore, dov’è inferiore, è vinto dal superiore; e che un corpo solo è inferiore ad una folla di corpi, il corpo più debole a dei corpi più potenti. Dunque il Cinico non scende mai in questa gara nella quale può essere vinto; ma subito si ritrae da quanto è altrui e non pretende d’avere per sé quanto è servo. Quando invece si tratta di proairesi e di uso delle rappresentazioni, là vedrai quanti occhi ha; tanto da farti dire che Argo, al suo confronto, era cieco. Quando mai puoi trovare in lui un assenso precipitoso, un impulso avventato, un desiderio fallito, un’avversione che incappa in quanto avversa, un progetto imperfetto, una lagnanza, del servilismo o dell’invidia? Qui sono concentrati la sua grande attenzione e tutti i suoi sforzi; per il resto russa supino: pace completa. Un rapinatore di proairesi non esiste, non esiste tiranno di proairesi. E invece del corpo? Questo sì, esiste. E delle cosucce che possiede? Sì, ed anche di cariche ed onorificenze. E che gli importa di tutto ciò? Quando pertanto qualcuno voglia incutergli paura per mezzo loro, il Cinico gli dice: ‘Va’, cerca dei bambocci: è a loro che le maschere fanno paura; io invece so che sono di terracotta e che dentro non c’è nulla’.
Una faccenda di così grande importanza è quella sulla quale tu stai prendendo una decisione. Sicché se così ti parrà, perdio, posponila ed esamina innanzitutto la tua preparazione al riguardo. Vedi cosa dice Ettore ad Andromaca: ‘Va’ piuttosto a casa’ le dice ‘e tessi, perché 

‘alla guerra penseranno i maschi tutti, ed io sopra di tutti’. 

In questo modo egli mostrava consapevolezza della sua personale preparazione e dell’incapacità di lei.

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DIOGENE LAERZIO ‘VITE DEI FILOSOFI’ Libro VI

ANTISTENE (c. 446 – 366 a. C.)

[VI,1] Antistene, figlio di Antistene, era Ateniese. Si diceva però che non fosse di puro sangue Attico; laonde, a chi gli rinfacciava ciò, si narra che egli rispondesse: “Anche la madre degli dei è Frigia”. Sembrava infatti che egli fosse di madre Tracia. Questo è il motivo per cui dopo la battaglia di Tanagra, nella quale egli si era distinto, Socrate ebbe l’occasione di affermare che da due Ateniesi purosangue non sarebbe potuto nascere un uomo così valoroso. Ed a quegli Ateniesi che si davano delle arie per essere autoctoni dell’Attica, Antistene diceva in tono sprezzante che essi non erano più purosangue delle di lei chiocciole e cavallette.
Da principio Antistene fu uditore del retore Gorgia. È da lui che egli trasfonde lo stile retorico nei suoi dialoghi, soprattutto in quello ‘Sulla verità’ e nei ‘Dialoghi protrettici’. [VI,2] Ermippo afferma che in occasione delle solenni feste Istmiche, egli aveva preso la decisione sia di denigrare che di lodare gli Ateniesi, i Tebani e gli Spartani; ma che poi evitò di farlo quando vide che era arrivata moltissima gente da quelle città.
Successivamente entrò in contatto con Socrate, e fu tanto grande il guadagno che ne trasse, da esortare i suoi discepoli a diventare con lui condiscepoli di Socrate. Poiché abitava al Pireo, percorreva ogni giorno quaranta stadi per andare su ad ascoltare Socrate; e prendendone la forza d’animo ed emulandone il dominio sulle passioni, mostrò per primo la via del Cinismo. Egli stabilì poi che la fatica è un bene, mettendo insieme le figure del grande Eracle e di Ciro, traendo il primo esempio dai Greci e il secondo dai Barbari. 
[VI,3] Antistene fu il primo a definire così il discorso: “Il discorso rende manifesto cos’era o è qualcosa”. Soleva ripetere continuamente: “Possa io cadere preda della pazzia piuttosto che dell’ebbrezza per il godimento fisico”. Ed anche: “È d’uopo accostarsi sessualmente a donne tali che ce ne saranno grate”. Ad un adolescente del Ponto che stava per frequentare la sua scuola e che cercava di sapere da lui di quali cose avesse bisogno a questo scopo, Antistene rispose: “Nuovamente un libretto, nuovamente uno stilo e nuovamente una tavoletta per scrivere”, intendendo con ciò indicare una ‘nuova mente’. A chi gli chiedeva che sorta di donna sposare, Antistene disse: “Se è avvenente pagherai il fio d’averla in comune con altri; se è laida pagherai il fio”. Una volta, dopo aver sentito dire che Platone sparlava di lui, affermò: “È da re agire bene e sentir parlare male di sé”. 
[VI,4] Una volta, mentre veniva iniziato ai misteri Orfici, al sacerdote che affermava che gli iniziati a questi misteri partecipano di molti beni nell’Ade, disse: “Perché dunque tu non schiatti?”. Poiché una volta gli veniva rinfacciato di non essere figlio di due persone libere, rispose: “Neppure sono figlio di due lottatori, eppure io sono un lottatore”. Interrogato sul perché avesse pochi discepoli, disse: “Il fatto è che io li caccio via con una bacchetta magica d’argento”. Richiesto del perché fosse rigoroso nel censurare gli allievi, rispose: “Anche i medici lo fanno con i pazienti”. Una volta, vedendo un adultero che scappava a gambe levate, disse: “O sciagurato! Che gran pericolo potresti sfuggire al prezzo di un obolo!”. Secondo quanto afferma Ecatone nei suoi ‘Detti sentenziosi’, Antistene diceva che è meglio imbattersi nei corvi che negli adulatori, giacché i primi mangiano i cadaveri ma i secondi mangiano i vivi. 
[VI,5] Richiesto su quale fosse tra gli uomini la fine più beata, rispose: “Morire godendo di buona fortuna”. Una volta un conoscente prorompeva con lui in lamenti per avere perduto i propri Appunti, e Antistene gli disse: “Bisognava trascriverli nell’animo e non sulle carte”. Diceva che come il ferro è divorato dalla ruggine, così gli invidiosi sono divorati dal loro stesso carattere. Soleva anche dire che quanti vogliono essere immortali devono vivere in modo pio e giusto; e che gli Stati allora vanno in rovina quando non sono più in grado di distinguere gli insipienti dagli industriosi. Una volta, poiché veniva lodato da persone malvagie, disse: “Sono in ansia perché temo d’avere fatto male qualcosa”. 
[VI,6] Affermava che la comunanza di vita di fratelli che vanno d’accordo è più potente di qualunque muro. Diceva poi che bisogna approntare per se stessi un viatico tale da poter nuotare con esso anche se si fa naufragio. Una volta, poiché gli veniva rinfacciato di farsela con gente malvagia, disse: “Anche i medici stanno con gli ammalati, ma non per questo hanno la febbre”. Diceva che è assurdo selezionare il loglio dal grano e gli inabili alla guerra, e invece in fatto di cittadinanza non cercare di tener lontani i malvagi. Quando gli fu chiesto quale vantaggio gli era venuto dalla filosofia, rispose: “Quello di poter conversare con me stesso”. Poiché durante un simposio un tale gli disse: “Canta”, Antistene gli rispose: “E tu suonami il flauto”. A Diogene che gli chiedeva una tunica, Antistene ordinò di avvolgersi intorno due volte il mantello. [VI,7] Quando gli fu chiesto quale insegnamento fosse il più necessario, rispose: “Togliersi di torno il rifiuto di imparare”. E a coloro che sentivano parlar male di sé, prescriveva di farsi forza più che se uno fosse colpito da delle sassate.
Antistene scherniva Platone perché si dava un sacco di arie. Perciò in occasione di una processione, quando vide un cavallo tutto impennate e nitriti, che Platone non smetteva un attimo di lodare, gli disse: “Mi sembra che tu pure potresti essere un cavallo che incede bizzoso e fa lo splendido”. Una volta andò a casa di lui quand’era ammalato, e vedendo un bacile nel quale Platone aveva vomitato, disse: “Qua dentro vedo la tua bile, però la tua vanità non vedo”. [VI,8] Antistene soleva consigliare gli Ateniesi di votare che gli asini sono cavalli. Poiché quelli ritenevano ciò irragionevole, egli replicava: “Eppure presso di voi dei comandanti supremi spuntano fuori senza possedere alcuna competenza militare, giacché basta la vostra alzata di mano”. Ad una persona che gli diceva: “Molti ti lodano”, Antistene rispose: “Cos’ho fatto, dunque, di male?”. Quando egli rivoltò e mise in vista la parte lacera della sua mantellina, Socrate vedendolo gli disse: “Vedo attraverso la tua mantellina che ci tieni ad essere considerato un filosofo”. Come afferma Fania nel suo libro ‘Sui Socratici’ , quando uno gli chiese cosa dovesse fare per essere un uomo virtuoso, Antistene rispose: “Se imparassi da coloro che sanno che i vizi che tu hai sono da fuggirsi”. Ad uno che lodava l’effeminatezza, disse: “Possano essere effeminati i figli dei miei nemici”. 
[VI,9] Ad un adolescente che assumeva pose statuarie, Antistene chiese: “Se il bronzo prendesse voce, di cosa credi che andrebbe fiero?”. E poiché quello rispose: “Della sua bellezza”, Antistene gli disse: “Dunque non ti vergogni di gioire delle stesse cose di cui gioisce una cosa inanimata?”. Quando un giovanotto del Ponto gli fece solenne professione di tener conto del suo debito con lui se fosse arrivata la nave del pesce salato, Antistene prese lui e un sacco vuoto e con essi se ne venne da una venditrice di farina. Qui giunto, riempì il sacco e fece per andarsene. Poiché la venditrice reclamava l’importo dovuto, Antistene le disse: “Te lo darà questo giovanotto, non appena arriva la sua nave con il pesce salato”.
Sembra anche che Antistene sia stato la causa dell’esilio di Anito e della morte di Meleto. [VI,10] Essendosi infatti imbattuto in certi giovanotti del Ponto che erano giunti ad Atene spintivi dalla celebrità di Socrate, egli li condusse da Anito affermando con enfasi che costui era ben più sapiente di Socrate. Ragion per cui i circostanti si sdegnarono fortemente, tanto da scacciarlo dalla città. Se poi gli capitava di vedere una donna agghindata con sfarzo, andava a casa sua e intimava al marito di tirar fuori il cavallo e le armi. Dopo di che, se quello li aveva, gli diceva di lasciarla pur fare la sfarzosa giacché aveva i mezzi per difendersi; altrimenti di toglierle quegli ornamenti.
Queste erano le tesi che avevano il suo beneplacito. Egli dimostrava che la virtù può essere insegnata; che nobili non sono altri che i virtuosi; [VI,11] che per la felicità basta la virtù, poiché essa non abbisogna d’altro che della forza d’animo di Socrate; che la virtù è una questione di opere e non ha bisogno di molti discorsi né di molte cognizioni; che il sapiente è autosufficiente, giacché tutti i beni degli altri sono suoi; che il discredito è un bene pari alla fatica; che il sapiente non si regolerà secondo le vigenti leggi dello Stato ma secondo la legge della virtù; che il sapiente avrà relazioni sessuali per avere dei figli, congiungendosi con le donne della migliore natura; e che avrà anche relazioni omosessuali, giacché soltanto il sapiente sa chi è d’uopo amare.
[VI,12] Diocle gli ascrive anche queste tesi: che per il sapiente nulla è strano o senza via d’uscita; che l’uomo dabbene è degno d’amore; che i virtuosi sono amici; che bisogna farsi alleati gli uomini ardimentosi e insieme giusti; che la virtù è un’arma della quale non possiamo essere privati da altri; che è meglio combattere con pochi virtuosi contro tutti i viziosi, che non con molti viziosi contro pochi virtuosi; che è opportuno fare molta attenzione ai nemici personali, giacché essi sono i primi ad accorgersi delle nostre aberrazioni; che bisogna tenere l’uomo giusto in maggior considerazione del nostro congenere; che identica è la virtù dell’uomo e della donna; che belle sono le opere virtuose e brutte quelle viziose; e legittima come a te estranee tutte quelle malvage; [VI,13] che la saggezza è un muro sicurissimo, giacché non può né cadere a pezzi né essere presa a tradimento; e che tali muri vanno strutturati entro i nostri inespugnabili ragionamenti.
Antistene teneva le sue conversazioni nel ginnasio del Cinosarge, poco al di là dalle porte di Atene; laonde alcuni ritengono che la sua scuola sia stata denominata ‘Cinica’ dal nome di questo ginnasio. Egli stesso era soprannominato ‘Francocane’. Secondo quanto afferma Diocle, Antistene fu il primo a indossare due mantelline e ad utilizzare soltanto questo indumento. Prese anche con sé un bastone e una bisaccia. Neante dice che fu anche il primo a indossare due mantelli. Invece Sosicrate nel terzo libro delle ‘Successioni dei filosofi’ afferma che il primo fu Diodoro di Aspendo, il quale si fece anche crescere la barba ed utilizzò bisaccia e bastone.
[VI,14] Tra tutti i seguaci di Socrate, Teopompo loda il solo Antistene ed afferma che era abilissimo, attraverso un’armoniosa e ben regolata conversazione, a trarre dalla sua parte chiunque. Questo è manifesto dalle sue compilazioni, come pure dal ‘Simposio’ di Senofonte. Sembra anche che possa essere fatta risalire a lui l’origine del più virile Stoicismo; laonde l’epigrammatista Ateneo circa gli Stoici si esprime così: 

‘O esperti conoscitori dei discorsi stoici, o voi che avete riposto
 le più che ottime dottrine nelle sacre pagine dove s’afferma 
che la virtù è l’unico bene dell’animo, giacché essa soltanto 
preserva la vita degli uomini e le città. Invece è solo una 
delle figlie di Memoria, quella che porta a compimento il voluttuoso 
piacere della carne, che è l’ambìto scopo della vita per altri uomini’.

[VI,15] Antistene aprì la strada al dominio sulle passioni di Diogene, alla padronanza di sé di Cratete e alla fortezza di Zenone, ponendo le fondamenta dei loro modelli di ‘Repubblica’. Senofonte afferma che Antistene era di conversazione piacevolissima e padronissimo di sé quanto al resto. 
Le sue compilazioni sono contenute in dieci tomi. 
Il primo contiene: ‘Sull’elocuzione o sugli stili espressivi’, ‘Aiace o Discorso di Aiace’, ‘Odisseo o Su Odisseo’, ‘Difesa di Oreste o Sugli scrittori di discorsi forensi’, ‘Isografia o Lisia e Isocrate’, ‘Contro il ‘Senza testimoni’ di Isocrate’.
[VI,16] Il secondo contiene: ‘Sulla natura degli animali’, ‘Sulla generazione di figli o Sul matrimonio (discorso amoroso)’, ‘Sui sofisti (trattato fisiognomico)’, ‘Sulla giustizia e sulla virilità (discorso protrettico primo, secondo e terzo)’, ‘Su Teognide (discorso protrettico quarto e quinto)’.
Il terzo contiene: ‘Sul bene’, ‘Sulla virilità’, ‘Sulla legge o Sulla repubblica’, ‘Sulla legge o Sul bello e sul giusto’, ‘Sulla libertà e la schiavitù’, ‘Sulla lealtà’, ‘Sul delegato o Sull’ubbidire’, ‘Sulla vittoria (trattato economico)’.
Il quarto contiene: ‘Ciro’, ‘Eracle maggiore o Sulla potenza’.
Il quinto contiene: ‘Ciro o Sul regno’, ‘Aspasia’.
Il sesto contiene: ‘Verità’, ‘Sul dialogare (trattato dialettico)’, ‘Satone o Sul contraddire (tre libri)’, ‘Sulla lingua parlata’.
[VI,17] Il settimo contiene: ‘Sull’educazione o Sui nomi (cinque libri)’, ‘Sull’uso dei nomi (trattato eristico)’, ‘Sulla domanda e la risposta’, ‘Sull’opinione e la scienza (quattro libri)’, ‘Sul morire’, ‘Sulla vita e la morte’, ‘Sugli uomini nell’Ade’, ‘Sulla natura (due libri)’, ‘Una questione sulla natura (due libri)’, ‘Opinioni o L’eristico’, ‘problemi circa l’apprendimento’.
L’ottavo contiene: ‘Sulla musica’, ‘Sugli interpreti’, ‘Su Omero’, ‘Sull’ingiustizia e l’empietà’, ‘Su Calcante’, ‘Sull’esploratore’, ‘Sul piacere fisico’.
Il nono contiene: ‘Sull’Odissea’, ‘Sulla bacchetta magica’, ‘Atena o Su Telemaco’, ‘Su Elena e Penelope’, ‘Su Proteo’, ‘Il Ciclope o Su Odisseo’, [VI,18] ‘Sull’uso del vino o Sull’ubriachezza o Sul Ciclope’, ‘Su Circe’, ‘Su Anfiarao’, ‘Su Odisseo, Penelope e il Cane’.
Il decimo contiene: ‘Eracle o Mida’, ‘Eracle o Sulla saggezza o potenza’, ‘Ciro o L’amato’, ‘Ciro o Gli esploratori’, ‘Menesseno o Sul comandare’, ‘Alcibiade’, ‘Archelao o Sul regno’.
Queste sono le opere che egli compilò.
Timone lo rimprovera per la pletora dei suoi scritti e lo chiama ‘ciarlone che produce di tutto’. Antistene morì per una infermità proprio quando Diogene entrò da lui chiedendogli: “Hai forse bisogno di un amico?”. Una volta Diogene era entrato da lui recando con sé una piccola spada, e mentre Antistene si lamentava dicendo: “Chi potrebbe sciogliermi da questi dolori?”, gli mostrò la piccola spada gli disse: “Questa”. Al che Antistene replicò: “Dai dolori, dicevo, non dalla vita”. [VI,19] Antistene sembrava infatti più molle del dovuto nel sopportare la malattia a causa del suo amore per la vita. Ci sono dei nostri versi dedicati a lui, di questo tenore:

‘In vita eri un cane, o Antistene, nato per mordere il cuore
con le parole, non con i denti. Tu però moristi di consunzione,
e dirà forse qualcuno: “Cos’è questo mai? In ogni caso
bisogna avere una qualche guida per scendere all’Ade”. 

Ci furono altri tre Antistene. Uno fu un seguace di Eraclito, un altro un nativo di Efeso, il terzo uno storico di Rodi.
Poiché abbiamo discusso dei discepoli di Aristippo e di Fedone, ora passeremo in rassegna quelli di Antistene, tanto Cinici che Stoici. E l’ordine sia questo.

DIOGENE (404 – 323 a. C.)

[VI,20] Diogene era figlio di Icesia, un banchiere di Sinope. Diocle afferma che egli andò in esilio perché suo padre, che possedeva la Banca Popolare, contraffece la moneta. Invece Eubulide nel suo libro ‘Su Diogene’ dice che fu lo stesso Diogene ad effettuare questa operazione e che andò poi ramingo con il padre. Nondimeno è lo stesso Diogene che, parlando di sé nel dialogo ‘Pordalo’, dice d’essere stato lui a contraffare la moneta. Taluni riferiscono che egli, divenuto Governatore della Banca, fosse indotto a fare ciò da esperti artigiani, e che sia venuto a Delfi, oppure si sia recato ad un tempio di Apollo in patria, per cercare di sapere se fare ciò cui si intendeva persuaderlo. Il dio convenne sul cambiamento della moneta dello Stato, ma Diogene non capì e fece invece adulterare le monete di piccolo taglio. Fu condannato all’esilio, secondo alcuni, quando fu scoperto; secondo altri, egli si allontanò volontariamente dal suo paese per paura. [VI,21] Taluni sostengono che ottenne da suo padre la moneta che falsificò, che il padre morì in prigione e che egli fuggendo giunse a Delfi, dove chiese al dio non se contraffare la moneta bensì cosa dovesse fare per ottenere un grandissimo credito, e che così ottenne tale responso dall’oracolo. Stando ad Atene, Diogene s’accostò ad Antistene. E poiché questi lo respingeva, non ammettendo alcuno come allievo, Diogene la spuntò di forza grazie all’assiduità della sua frequentazione. Una volta Antistene levò contro di lui il suo bastone, ma Diogene gli offrì la testa dicendo: “Batti pure; non troverai un legno così duro col quale tenermi in disparte, fino a che non ti apparirà il caso di dirmi qualcosa”. Per l’appresso divenne suo uditore e, in quanto esule, intraprese una vita semplice e modesta. [VI,22] Secondo quanto afferma Teofrasto nel suo ‘Megarico’, Diogene scovò la via d’uscita dalle difficili circostanze nelle quali si trovava, osservando un topo che correva qua e là senza ricercare un giaciglio, senza avere timore del buio, senza bramare quelli che sembrano godimenti. Secondo alcuni egli per primo utilizzò la doppia mantellina, vista la necessità di usarlo anche per dormire. Portava una bisaccia entro la quale teneva le cibarie, ed usava qualunque luogo per qualunque scopo: per fare colazione, per dormire, per discutere. Talora, mostrando il portico di Zeus e l’edificio del Pompeion ripeteva che gli Ateniesi gli avevano provvisto i luoghi dove dimorare. [VI,23] Da principio si appoggiava al bastone quando si sentiva debole, ma in seguito lo portava sempre con sé; non nel centro della città ma quand’era per strada, insieme con la bisaccia, come riferiscono Olimpiodoro, che fu Governatore degli Ateniesi, il retore Polieucto e Lisania, figlio di Escrione. Quando incaricò un tale di provvedergli una casetta, poiché la faccenda andava per le lunghe, egli prese casa nella botte che si trovava nel Metroon, come chiarisce lui stesso nelle sue lettere. D’estate poi si rotolava nella sabbia calda e d’inverno abbracciava le statue innevate, trovando ogni occasione per esercitarsi alle intemperie. [VI,24] Era capace di trattare gli altri con grande alterigia. Soleva chiamare ‘fiele’ la scuola di Euclide, la conversazione di Platone una ‘perdita di tempo’, le gare in occasione delle Dionisiache ‘grandi meraviglie per gli stupidi’ e i demagoghi ‘ministri della folla’. Quando gli capitava di vedere dei piloti all’opera, o dei medici o dei filosofi, soleva dire di ritenere l’uomo il più dotato di comprendonio tra tutti gli animali. Quando però vedeva interpreti di sogni, indovini e tutti coloro che a gente simile prestano attenzione, oppure individui pieni di boria per la loro fama o ricchezza di denaro, diceva di ritenere che non ci fosse animale più folle dell’uomo. E ripeteva di continuo che per la conduzione della nostra vita bisogna essere attrezzati o della ragione o di un laccio. [VI,25] Una volta, in occasione di un pranzo sontuoso, osservando che Platone toccava soltanto olive, Diogene gli disse: “Perché tu, il sapiente che ha navigato fino alla Sicilia per godere di queste tavolate, ora non ne approfitti?”. E Platone gli rispose: “Per gli dei, Diogene, anche là io vissi per la maggior parte di olive e cibi simili”. E Diogene: “Perché dunque bisognerebbe navigare fino a Siracusa? O allora l’Attica non produceva olive?”. Favorino, nella sua ‘Storia varia’, afferma però che fu Aristippo a parlare così. Un’altra volta Diogene, mentre mangiava fichi secchi, incontrò Platone e gli disse: “Se vuoi, puoi averne in parte”. E siccome Platone prendeva e mangiava, prendeva e mangiava, Diogene gli disse: “T’avevo detto ‘averne in parte’, non di divorarli tutti”. [VI,26] Una volta Platone aveva invitato presso di sé degli amici giunti da parte di Dionisio, e Diogene camminando sui tappeti di casa sua disse: “Calpesto la futilità di Platone”. Al che Platone replicò: “Diogene, quanta vanità lasci trasparire pur facendo sembiante d’esserne privo!”. Alcuni però affermano che Diogene disse: “Calpesto la vanità di Platone”; e che Platone rispose: “Lo fai, o Diogene, con un’altra vanità”. Sozione afferma però nel quarto libro della sua opera che fu il Cinico a rivolgere a Platone questa battuta. Una volta Diogene gli chiese del vino e, visto che c’era, anche dei fichi secchi; e Platone gli mandò un’anfora intera piena di vino. Al che Diogene disse: “Se qualcuno ti chiederà quanto fa due più due, tu risponderai che fa venti? Sicché tu né dai ciò che ti si chiede, né rispondi a ciò che ti si domanda”. Questo era il suo modo di schernirlo come persona che non finiva mai di parlare. [VI,27] Quando gli fu chiesto dove vedesse in Grecia uomini dabbene, Diogene rispose: “Uomini da nessuna parte, ma ragazzi dabbene a Sparta”. Una volta che nessuno gli si avvicinava mentre stava parlando di cose serie, si mise a cinguettare. E poiché in tanti gli si radunarono intorno, Diogene inveì loro contro, perché a sentir quisquilie si premuravano di venire, mentre invece per le cose serie se la prendevano comoda. Soleva dire che gli uomini gareggiano nello scavare sabbia e tirarsi dei calci, e che invece nessuno gareggia nel diventare uomo dabbene. Si stupiva assai che i grammatici indaghino minutamente i mali di Odisseo e che invece ignorino i loro propri; che i musicisti accordino le corde della lira e che lascino invece discordanti i loro stati d’animo; [VI,28] che i matematici volgano lo sguardo al sole e alla luna e non badino invece alle faccende che hanno tra i piedi; che i retori dicano di industriarsi per le cose giuste senza attuarne assolutamente nessuna, tant’è che denigrano gli avari mentre amano il denaro alla follia. Condannava anche quanti lodano i giusti come persone al di sopra del denaro, e però guardano con gelosia gli straricchi. Lo muoveva a sdegno veder fare sacrifici agli dei per invocare salute e poi, nel corso stesso del sacrificio, gavazzare a detrimento della salute. Ammirava poi il fatto che i servi, pur vedendo i padroni mangiare a quattro palmenti, non sottraessero con destrezza alcuna vivanda. [VI,29] Lodava coloro il cui futuro è sposarsi e che non si sposano; coloro il cui futuro è navigare verso casa e che non ci navigano; coloro il cui futuro è occuparsi di faccende politiche e che invece non se ne occupano; coloro il cui futuro è fare figli ed allevarli e che invece non lo fanno; coloro il cui futuro è prepararsi a convivere con dei principi e che invece non vanno alla loro corte. Soleva anche dire che bisogna dare la mano agli amici con le dita tese e non piegate. Nella sua opera ‘La vendita di Diogene’, Menippo racconta che quando fu catturato e messo in vendita, gli fu chiesto cosa sapesse fare, e che egli rispose: “Comandare uomini”; ed anche che disse al banditore: “Banditore, grida e chiedi a questa gente se c’è qualcuno che vuole comprarsi un padrone”. E poiché gli fu impedito di sedersi, disse: “Non fa differenza, giacché pure i pesci si smerciano in qualunque posizione giacciano”. [VI,30] Diceva di meravigliarsi del fatto che quando si tratta di comperare una pentola o un piatto, noi ne saggiamo il tintinnio; e che per un uomo ci basta invece la sola vista. Al suo compratore Xeniade, Diogene diceva che doveva ubbidirgli anche se era un suo schiavo, giacché noi ubbidiremmo ad un medico o ad un pilota di nave anche se fosse uno schiavo. Nel suo libro intitolato ‘La vendita di Diogene’, Eubulo racconta che, oltre le altre discipline, Diogene insegnava ai figli di Xeniade a cavalcare, a tirare con l’arco, a colpire con la fionda ed a lanciare il giavellotto. In seguito, quando frequentarono la palestra, non consentiva all’istruttore di ginnastica di allenarli come dei veri e propri atleti, ma quel tanto che bastava a procurar loro il colorito roseo e una buona complessione. [VI,31] I ragazzi si abituavano invece a tenere a mente molti versi di poeti, brani di prosatori e di opere dello stesso Diogene; ed egli li esercitava a percorrere tutte le vie più rapide per ottenere una memoria di ferro. In casa insegnava loro a servirsi da sé, a consumare cibi frugali ed bere soltanto acqua. Rapati a zero e privi di ogni ornamento, li educava ad andare in giro senza tunica, scalzi, silenziosi, badando a se stessi quand’erano per via. Li conduceva anche a caccia. I ragazzi, a loro volta, si prendevano cura di lui, e facevano per lui delle richieste ai genitori. Sempre Eubulo riferisce che Diogene invecchiò presso Xeniade, e che quando morì fu sepolto dai suoi figli. In proposito, quando Xeniade cercò di sapere da lui come volesse essere sepolto, egli rispose: “A faccia in giù”. [VI,32] E poiché Xeniade gli chiese: “Perché?”, Diogene disse: “Perché in poco tempo il culo diventa la faccia”. Diceva questo perché ormai i Macedoni dominavano, ossia da oscura nazione erano diventati una potenza egemone. Una volta un tale lo introdusse in una casa sontuosa e gli vietava però di sputare. Al che Diogene, dopo essersi schiarito la gola, gli sputò in faccia dicendo di non avere trovato un luogo più sudicio dove sputare. Altri affermano invece che a fare ciò fu Aristippo. Come afferma Ecatone nel primo libro dei ‘Detti sentenziosi’, una volta chiamò a gran voce “Ehi, uomini!”, e quando la gente gli si riunì intorno la colpì col bastone dicendo: “Io chiamavo a me degli uomini, non della feccia!”. Si afferma anche che Alessandro Magno abbia detto che se non fosse diventato Alessandro avrebbe voluto essere Diogene. [VI,33] Egli diceva che ‘mutilati’ non sono i sordi e i ciechi, ma coloro che non hanno una bisaccia. Secondo il racconto di Metrocle nei suoi ‘Detti sentenziosi’ una volta, entrando soltanto mezzo rasato in un convito di giovani, fu preso a botte. Dopodiché egli annotò i nomi di coloro che l’avevano preso a botte su di un albo e andò in giro con questa tavoletta appesa al collo fino a che, stigmatizzati e censurati, non li ebbe circondati di dileggio. Soleva affermare di essere un cane di quelli che la gente loda, ma con il quale nessuno dei lodatori ha però l’ardire di uscire a caccia. Ad uno che diceva: “Ai giochi Pitici io sono vincitore tra gli uomini”, Diogene disse: “Io vinco uomini, tu schiavi”. [VI,34] A coloro che gli dicevano: “Sei ormai vecchio, lascia stare!”, rispondeva: “Che dici? Se io stessi gareggiando nella corsa lunga allo stadio, quasi all’arrivo dovrei lasciar perdere e non piuttosto intensificare lo sforzo?”. Invitato una volta a pranzo, disse che non ci si sarebbe presentato, giacché neppure il giorno innanzi gli era stato detto grazie per essersi presentato. Soleva calpestava la neve a piedi nudi e fare le altre cose di cui s’è detto sopra. Cercò anche di mangiare carne cruda, ma non riuscì a digerirla. Una volta s’imbatté in Demostene, l’oratore, che faceva colazione in una taverna; e poiché quello si ritraeva da lui, Diogene disse: “<Quanto più ti ritrai>, tanto più a lungo resterai nella taverna”. Una volta, poiché degli stranieri volevano vedere Demostene, Diogene distese il dito medio e disse: “Ecco a voi il demagogo degli Ateniesi!”. [VI,35] Quando buttò via un pane e un tale si vergognò di raccoglierlo, per dargli una lezione Diogene legò una corda attorno al collo di un vaso e lo strascinò per il Ceramico. Soleva dire che bisogna imitare i maestri del coro. Infatti anch’essi intonano la melodia un po’ sopra tono, di modo che i restanti coreuti possano toccare il tono conveniente. Soleva poi dire che la maggioranza degli uomini diventa pazza per un dito. Se infatti uno cammina col dito medio proteso, sembrerà a qualcuno che sia pazzo; se invece protende l’indice non sembrerà più pazzo. Diceva che cose di gran valore si smerciano per nulla e viceversa: ad esempio, una statua si smercia per tremila dracme, mentre un chenice di farina per due monete di rame. [VI,36] A Xeniade che l’aveva comprato, Diogene disse: “Orsù, bada di fare ciò che ti ordino”. E quando Xeniade gli citò il verso:

‘rimontano i fiumi alle sorgenti’

Diogene gli disse: “Se tu avessi comprato un medico e fossi ammalato, non gli ubbidiresti ma gli diresti che ‘rimontano i fiumi alle sorgenti’?”. Un tale voleva fare vita filosofica presso di lui e Diogene, datogli da portare un pesce saperda, gli comandò di seguirlo. Quello però ritenne ciò indecoroso, buttò via il pesce e se ne andò. Dopo un certo tempo Diogene lo incontrò e ridendo gli disse: “Un pesce saperda ha dissolto la nostra amicizia”. Diocle però in proposito scrive così. Quando un tale gli disse: “Diogene, dacci degli ordini”, egli lo menò con sé e gli diede da trasportare un pezzo di formaggio da mezzo obolo. E poiché quello rifiutò, Diogene gli disse: “Un pezzo di formaggio da mezzo obolo ha dissolto l’amicizia tra me e te”. [VI,37] Quando una volta osservò un ragazzo che beveva dal cavo della mano, prese la ciotola dalla bisaccia e la scagliò via dicendo: “Un ragazzo mi ha vinto in parsimonia”. Buttò via anche la catinella osservando un ragazzo il quale, poiché aveva rotto la scodella, metteva la sua porzione di lenticchie nel cavo di un pezzo di pane. Ragionava anche così: “Tutto è degli dei; i sapienti sono amici degli dei; i beni degli amici sono comuni; dunque tutto è dei sapienti”. Una volta osservò una donna prostrata supplichevolmente davanti agli dei in posizione assai indecente. Volendo spogliarla della superstizione, secondo quanto narra Zoilo di Perge, Diogene le si avvicinò e le disse: “Perché non usi la cautela, o donna, se un dio ti sta alle spalle – giacché tutti i luoghi sono pieni della sua presenza – di evitare di mostrarti in una posizione indecente?”. [VI,38] Dedicò ad Asclepio un fustigatore che correva a bacchettare coloro che si prostravano col viso fino a terra. Soleva dire che le maledizioni tragiche si erano incontrate tutte in lui. Infatti era

‘senza città, senza casa, privato della patria,
povero, errante, uno che vive alla giornata’

Soleva ripetere di contrapporre alla fortuna il coraggio, alla legge la natura, alla passione la ragione. Una volta che prendeva il sole nel Craneo, Alessandro Magno standogli davanti gli disse: “Chiedimi quel che vuoi”. Al che Diogene rispose: “Non farmi ombra”. Un tale stava leggendo ad alta voce da lungo tempo. Quando verso la fine del rotolo fece capolino la parte non scritta, Diogene disse: “Coraggio, uomini, vedo terra”. A colui che gli dimostrava mediante un sillogismo di avere le corna, toccandogli la fronte Diogene disse: “Io almeno non le vedo”. [VI,39] Similmente, a chi diceva che il movimento non esiste, levatosi in piedi si mise a camminare. E a chi parlava di fenomeni celesti disse: “Da quanti giorni sei qui venuto giù dal cielo?”. Poiché un eunuco depravato aveva fatto scrivere sulla porta di casa: “Non entri alcun male”, disse: “E allora il padrone di casa da dove entra?”. Quando si ungeva i piedi con olio profumato, soleva dire che dal capo il profumo si spande nell’aria, mentre dai piedi sale verso il naso. Poiché gli Ateniesi lo sollecitavano a farsi iniziare ai Misteri, affermando che quando sono nell’Ade agli iniziati toccano posti privilegiati, Diogene rispondeva: “È ridicolo che Agesilao ed Epaminonda se la passino nel brago, mentre gente da quattro soldi che però è stata iniziata ai Misteri dimora nelle Isole dei Beati”. [VI,40] Circa i topi che si arrampicavano sulla sua tavola, diceva: “Ma guarda un po’, anche Diogene nutre dei parassiti”. Poiché Platone lo chiamava ‘cane’, “Sì”, diceva, “infatti io ritorno continuamente da coloro che mi hanno venduto”. Uscendo dai bagni pubblici, a chi cercava di sapere da lui se erano molti gli uomini che facevano il bagno, rispondeva di no. A chi invece gli chiedeva se c’era molta folla, diceva di sì. Platone aveva appena dato dell’uomo questa definizione: “L’uomo è un animale bipede e implume”, ed era stato applaudito. Allora Diogene spennò un gallo e lo portò nella sala dicendo: “Questo è l’uomo di Platone”. Onde alla definizione fu aggiunto: “e dalle unghie larghe”. A chi cercava di sapere da lui a che ora si deve fare colazione, rispose: “Se sei ricco quando vuoi, se sei povero quando puoi”. [VI,41] Vedendo che a Megara le pecore avevano il vello protetto da pelli mentre i figli dei Megaresi andavano nudi, disse: “È più vantaggioso essere il montone di un Megarese piuttosto che il figlio”. Ad un tale che lo aveva prima spintonato con una trave e poi gli aveva detto: “Sta’ attento!”, ribatté: “Stai di nuovo per colpirmi?”. Soleva dire che i demagoghi sono i ministri della folla e che le loro corone sono degli esantemi di fama. Una volta che se ne stava fermo sotto una forte pioggia, poiché i circostanti ne avevano compassione, Platone, che era presente, disse: “Se volete averne compassione, andatevene”, alludendo alla vanità di Diogene. Quando un tale gli assestò un pugno, disse: “Che razza di dimenticanza è stata la mia nel passeggiare senza un elmetto in testa!”. [VI,42] Ma anche Meidia l’aveva preso a pugni e poi gli aveva detto: “Ci sono tremila dracme a tuo credito in banca!”. Al che Diogene, il giorno dopo, si mise dei guanti da pugile e lo fracassò di pugni, dicendogli: “Ci sono tremila dracme a tuo credito in banca!”. Poiché il farmacista Lisia gli domandava se credeva nell’esistenza degli dei, Diogene gli rispose: “E come posso non creder loro, dal momento che concepisco proprio te come persona invisa agli dei?”. Altri però affermano che a dire questo sia stato Teodoro. Quando vide un tale che si sottoponeva ad aspersioni purificatorie, soggiunse: “O infelice, non sai che con le aspersioni purificatorie, come non potresti sbarazzarti degli errori di grammatica che fai, così neppure puoi sbarazzarti delle azioni aberranti che fai nella vita?”. Circa gli auspici, incolpava gli uomini affermando che essi chiedono quelli che a loro sembrano beni e non quelli che davvero lo sono. [VI,43] Soleva dire di coloro che si lasciano sconvolgere dai sogni, che essi non si impensieriscono delle azioni che effettuano da svegli e però s’impicciano di quelle che fantasticano dormendo. Quando ad Olimpia l’araldo annunciò: “Dioxippo è vincitore tra gli uomini”, Diogene disse: “Costui vince schiavi, io invece uomini”. Era comunque caro agli Ateniesi, giacché quando un adolescente ruppe la sua botte, al costui essi diedero le botte ed a Diogene procurano un’altra botte. Dionisio lo stoico racconta che dopo la battaglia di Cheronea Diogene fu preso prigioniero e condotto davanti a Filippo. Quando gli fu chiesto chi fosse, egli rispose: “Io sono l’esploratore della tua insaziabilità”. Questa risposta gli procurò ammirazione e così fu rilasciato. [VI,44] Una volta, in Atene, Diogene fu presente all’arrivo di una lettera di Alessandro Magno ad Antipatro, recapitata attraverso un certo Atlio, e il suo commento fu: 

‘un meschino, discendente di un meschino, attraverso un meschino, ad un meschino’

Quando Perdicca minacciò di ucciderlo se non fosse venuto a vivere con lui, Diogene disse: “Nulla di straordinario, infatti anche uno scarafaggio o una tarantola lo farebbero”; giacché si aspettava piuttosto che la minaccia di Perdicca fosse “di vivere felicemente pur non vivendo in mia compagnia”. Soleva spesso gridare che gli dei hanno dato agli uomini una vita facile da fare, ma che questa verità è stata celata; visto che essi ricercano le focacce col miele e gli oli odorosi e cose similari. Ragion per cui a chi si faceva calzare da un domestico, disse: “Non sei ancora beato finché costui non ti soffia anche il naso; e ciò accadrà quando avrai perso l’uso delle mani”. [VI,45] Osservando una volta i magistrati custodi degli oggetti sacri mentre portavano via uno dei tesorieri che aveva sottratto una coppa, commentò: “I grandi ladri ne portano via uno piccolo”. Osservando una volta un adolescente che tirava pietre contro una croce, disse: “Bene ragazzo, centrerai il tuo scopo”. A degli adolescenti che gli stavano intorno e dicevano: “Vediamo di non farci mordere”, disse: “Ragazzi, un cane non mangia bietole”. Ad un tale che si pavoneggiava con indosso una pelle di leone, disse: “Smettila di svergognare il paramento della virtù”. A chi chiamava beato Callistene ed affermava che presso Alessandro poteva godere d’ogni splendore, Diogene disse: “Dunque di sicuro è infelice, lui che fa colazione e pranzo quando così pare ad Alessandro”. [VI,46] Quando aveva bisogno di denaro, soleva dire che lo richiedeva agli amici in restituzione, non che lo chiedeva. Una volta, mentre si masturbava nella piazza del mercato, affermò: “Magari fosse possibile non avere più fame semplicemente sfregandosi il ventre!”. Quando vide un adolescente che stava andando a pranzo con dei satrapi, lo staccò da loro e lo condusse dai familiari, intimando loro di fargli la guardia. A un adolescente agghindato con sfarzo che gli rivolse una domanda, disse che non gli avrebbe risposto se non si fosse prima tirato su le vesti per mostrargli se era femmina o maschio. Ad un adolescente che giocava al cottabo nei bagni pubblici, disse: “Quanto meglio giochi, tanto peggio è per te”. Nel corso di un pranzo, taluni gli gettarono delle ossa, come si fa coi cani. Al che Diogene, quando se ne andò, orinò loro sopra, come fa un cane. [VI,47] I retori e tutti coloro che cercano fama nell’eloquenza li soprannominava ‘tre volte uomini’, intendendo dire ‘tre volte meschini’. Diceva poi che la persona ricca di denaro ma incolta è una pecora dal vello d’oro. Osservando sulla casa di un depravato ubriacone la scritta ‘Si vende’, disse: “Lo sapevo che dopo tutte quelle ubriacature avresti facilmente vomitato il possessore”. All’adolescente che se la prendeva per la moltitudine di coloro che lo importunavano, disse: “Anche tu, però, smettila di portare in giro i segni di chi ha impuri desideri”. A proposito di un bagno pubblico sudicio, disse: “E coloro che hanno fatto il bagno qui, dove vanno poi a lavarsi?”. Diogene era il solo a lodare citaredo grande e grosso che era invece da tutti biasimato. Quando gli fu chiesto il perché, egli rispose: “Perché pur essendo così grande e grosso fa il citaredo e non il brigante”. [VI,48] Una volta Diogene ossequiò così un certo citaredo che veniva sempre lasciato solo dagli ascoltatori: “Salve, galletto!”. Al che quello gli chiese: “Perché galletto?”, e lui gli rispose: “Perché quando suoni e canti tu, fai alzare e andar via tutti quanti”. Mentre un adolescente stava declamando in pubblico, Diogene, con la piega anteriore della tunica piena di lupini, gli si piazzò dirimpetto e cominciò a mangiarne avidamente. Poiché la folla, a quel punto, cominciò a tenere gli occhi su lui, Diogene disse di stupirsi e di non capire come mai essi guardassero lui trascurando l’oratore. Ad un tale estremamente superstizioso che gli disse: “Con un colpo solo ti spaccherò la testa”, Diogene rispose: “E io ti farò tremare con uno starnuto da sinistra”. A Egesia che lo pregava di prestargli qualcuno dei suoi scritti, Diogene disse: “Tu sei matto, Egesia; perché scegli per te non i fichi secchi dipinti ma quelli veri, e però metti da parte la pratica della virtù nella vita vera e ti affanni soltanto a scriverne”. [VI,49] Ad un tale che gli imputava ad onta l’esilio, Diogene disse: “O infelice, ma è grazie all’esilio che ho potuto pervenire alla vita da filosofo!”. Quando un tale a sua volta gli disse: “Sono i cittadini di Sinope che ti hanno condannato all’esilio”, Diogene gli rispose: “Ma sono io che ho condannato loro a rimanere a Sinope”. Una volta, vedendo un vincitore ad Olimpia che pascolava le pecore, disse: “Ottimo amico mio, sei passato in fretta dai giochi Olimpici a quelli Nemei”. Quando fu interrogato sul perché gli atleti sono persone insensibili, rispose: “Perché sono stati rimpinzati di carni suine e bovine”. Una volta chiedeva l’elemosina ad una statua, e interrogato sul perché lo facesse rispose: “Mi esercito a fallire il mio scopo”. Per chiedere l’elemosina ad un tale – infatti fece ciò essendovi dapprima costretto dalla mancanza di mezzi di sussistenza – disse: “Se hai già dato ad un altro, dà anche a me. Se no, comincia da me”. [VI,50] Richiesto da un tiranno di quale fosse il miglior bronzo per una statua, rispose: “Quello col quale furono fatte le statue di Armodio e di Aristogitone”. Quando gli fu chiesto in che modo Dionisio trattasse gli amici, disse: “Come sacchi, giacché appende quelli pieni e butta via quelli vuoti”. Poiché un novello sposo aveva fatto scrivere sulla porta di casa:

‘Qui dimora Eracle vittorioso, figlio di Zeus.
Non entri alcun male’

vi aggiunse: “Dopo la guerra, l’alleanza”. Diceva anche che l’avidità di denaro è la metropoli di tutti i vizi. Osservando in una taverna un dissoluto che mangiava olive disse: “Se tu facessi colazione così, non pranzeresti così”. [VI,51] Affermava che gli uomini virtuosi sono immagini degli dei e che la passione amorosa è occupazione di disoccupati. Richiesto di cosa sia meschino nella vita, rispose: “Un vecchio privo di mezzi di sussistenza”. Quando gli fu chiesto di quali belve sia peggiore il morso, rispose: “Di quelle selvatiche, il morso del sicofante; di quelle addomesticate, il morso dell’adulatore”. Una volta, vedendo due centauri pessimamente dipinti, disse: “Quale di questi due è Chirone?”. Affermava che il discorso fatto per ingraziarsi qualcuno è una corda da impiccagione spalmata di miele. Soleva dire che il ventre è la Cariddi della vita. Una volta, sentendo dire che il flautista Didimo era stato colto in flagrante adulterio, commentò: “Già per il suo nome merita di essere impiccato”. Richiesto del perché la moneta d’oro è di un giallo pallido, disse: “Perché ha molti insidiatori”. Vedendo una donna in lettiga, disse: “La gabbia non s’accorda con la bestia”. [VI,52] Una volta, vedendo uno schiavo fuggitivo seduto sull’orlo di un pozzo, gli disse: “Giovanottello, bada di non caderci dentro”. Vedendo un ladro di mantelli in un bagno pubblico, gli disse: “Sei qui per una piccola unzione o per un altro mantello?”. Una volta, vedendo delle donne impiccate ad un olivo, disse: “Magari tutti gli alberi facessero simili frutti!”. Quando vide un rubavestiti, disse:

‘Che ci fai tu qui, o prode?
Sei forse qui per spogliare qualche cadavere?’

Richiesto se avesse una servetta o un servetto, rispose: “No”. E poiché un tale gli chiese: “Se dunque tu morissi, chi ti farà il funerale?”, Diogene rispose: “Chi ha bisogno della mia casa”. [VI,53] Vedendo un adolescente di bell’aspetto che s’era coricato e dormiva senza vestiti, lo scosse e gli disse: “Svegliati”

‘che qualcuno nel tergo una lancia non t’infigga mentre dormi’;

e ad un tale che spendeva moltissimo per i cibi

‘di breve vita mi sarai, figliolo, per quanto cibo compri’

Quando Platone disquisiva delle idee e nominava la ‘tavolità’ e la ‘ciatità’, Diogene gli disse: “Platone, io vedo il tavolo e il ciato, ma non la tavolità e la ciatità. Al che Platone replicò: “Lo dici a ragione, giacché hai gli occhi per discernere il tavolo e il ciato, ma non hai la mente con la quale si vedono tavolità e ciatità”. [VI,54] Quando un tale chiese a Platone: “Chi ti sembra essere Diogene?”, Platone rispose: “Un Socrate impazzito”. Richiesto di quale sia l’età opportuna per sposarsi, Diogene rispose: “Se si è giovani non ancora, se si è vecchi mai più”. Richiesto di quale vantaggio potesse trarre da un pugno, rispose: “Un elmetto”. Quando vedeva un adolescente tutto imbellettato, soleva dire: “Se lo fai per gli uomini sei un malpensante; se lo fai per le donne sei un malfattore”. Una volta, vedendo un adolescente arrossire disse: “Coraggio, siffatto è il colore della virtù”. Una volta, dopo avere ascoltato parlare due legulei li condannò entrambi, decretando che uno aveva rubato e che l’altro nulla aveva perduto. Richiesto di quale vino bevesse con piacere, rispose: “Quello altrui”. A chi gli diceva: “Molti ti deridono”, soleva rispondere: “Io invece non mi derido”. [VI,55] A chi affermava che il vivere è un male, Diogene rispondeva dicendo: “Male non è il vivere, ma il vivere male”. A coloro che gli consigliavano di andare in cerca del suo schiavo che era fuggito, soleva dire: “È ridicolo pensare che Mane possa vivere senza Diogene, e che invece Diogene non potrà vivere senza Mane”. Mentre faceva colazione con delle olive gli fu servita anche una focaccia, che Diogene respinse dicendo:

‘Straniero, va fuori dai piedi di chi è signore assoluto’

e in un’altra occasione:

‘Frustò l’oliva’.

Richiesto di qual razza di cane fosse, soleva rispondere: “Quando ho fame sono un Maltese e quando sono ben foraggiato un Molosso. Queste sono razze che i più lodano e con le quali non ardiscono però andare a caccia, per tema della fatica da reggere; così come voi non potete convivere con me per tema delle sofferenze da patire”. [VI,56] Quando gli fu chiesto se i sapienti mangiano delle focacce, rispose: “Sì, senz’altro, come tutti gli uomini”. Richiesto del perché gli uomini danno l’elemosina a chi vive mendicando e non a chi fa vita filosofica, soleva rispondere: “Perché stimano in cuor loro di poter diventare zoppi e ciechi, ma giammai di fare vita filosofica”. Una volta chiedeva l’elemosina ad un individuo avido di denaro, e poiché costui la menava per le lunghe gli disse: “Uomo, ti chiedo l’elemosina per il sostentamento, non per il sotterramento”. Quando gli veniva rinfacciato d’avere contraffatto la moneta, Diogene rispondeva: “Ci fu un tempo nel quale io fui tale e quale sei tu adesso. Ma quale io sono adesso, tu non lo sarai mai”. E ad un altro che gli rinfacciava la stessa cosa, disse: “Allora sulla gente ci pisciavo, ma adesso no”. [VI,57] Arrivato a Mindo e osservando che le porte erano grandi ma la città era piccola, disse: “Uomini di Mindo chiudete le porte, ché la vostra città non abbia ad uscirsene”. Osservando una volta un ladro di porpora colto in flagrante, disse:

‘lo colse la morte purpurea e la potente Moira’.

Quando Cratero lo sollecitò a venire ospite da lui, Diogene disse: “Voglio leccare sale ad Atene piuttosto che fruire della sontuosa mensa di Cratero”. Quando avvicinò il retore Anassimene, che era di pingue corporatura, disse: “Dà anche a noi poveracci un po’ del tuo ventre; così tu ne sarai alleggerito ed a noi sarà di giovamento”. Mentre Anassimene teneva un discorso, Diogene gli porse un pesce salato e ciò distolse l’attenzione degli ascoltatori. Poiché Anassimene per questo s’adirò molto, Diogene commentò: “Un pesce secco da un obolo è stato capace di dissolvere la facondia di Anassimene”. [VI,58] Rimproverato una volta perché mangiava nella piazza del mercato, Diogene disse: “Anche nella piazza del mercato ebbi fame”. Taluni affermano che è riferito a lui anche il seguente aneddoto. Una volta Platone, osservandolo mentre lavava della verdura gli si avvicinò e gli disse tranquillamente: “Se tu servissi alla corte di Dionisio non laveresti la verdura”. Al che Diogene rispose con la stessa tranquillità: “Pure tu laveresti la verdura, se non servissi alla corte di Dionisio”. A chi gli diceva: “Gli uomini in maggioranza ti deridono”, Diogene rispose: “Forse anche gli asini deridono gli uomini; ma come quelli non si danno pensiero degli asini, così io pure non mi do pensiero di loro”. Osservando una volta un adolescente che faceva vita filosofica, disse: “Bravo! Perché fai volgere gli amanti del corpo alla bellezza dell’animo”. [VI,59] Poiché un tale era pieno di stupore e di ammirazione per i doni votivi in Samotracia, Diogene disse: “Sarebbero molti di più se anche coloro che non si salvarono avessero potuto dedicare i loro”. Alcuni però affermano che a dire ciò sia stato Diagora di Milo. Ad un adolescente di bell’aspetto che se ne andava ad un convito, disse: “Tornerai peggiore”. Quello tornò e il giorno dopo gli disse: “Sono tornato e non sono diventato peggiore”. Al che Diogene soggiunse: “Chirone non sei tornato, ma Euritione sì”. Una volta chiedeva l’elemosina ad un tipo scorbutico, il quale gli disse: “Se mi persuaderai a farlo”. Al che Diogene ribatté: “Se io potessi persuaderti, ti avrei già persuaso da un pezzo ad impiccarti”. Una volta tornava da Sparta ad Atene, ed a chi gli chiese: “Da dove vieni e dove vai?”, rispose: “Dai locali degli uomini a quelli delle donne”. [VI,60] Mentre tornava da Olimpia, ad uno che gli chiedeva se colà vi fosse molta folla rispose: “Folla sì, molta; uomini, pochi”. A proposito dei dissoluti, diceva che essi sono simili a quei fichi che nascono e crescono sul bordo dei burroni: fichi i cui frutti nessun uomo gusta, ma che i corvi e gli avvoltoi mangiano. Ad una statuetta in oro di Afrodite, dedicata da Frine in Delfi, si racconta che Diogene abbia apposto questa dedica: “Dono della sregolatezza dei Greci”. Ad Alessandro che una volta gli stava dinnanzi e gli disse: “Io sono Alessandro il grande re”, rispose: “E io sono Diogene, il cane”. Richiesto quindi di dire cosa facesse per essere chiamato cane, spiegò: “Scodinzolo davanti a chi mi dà qualcosa, abbaio a chi nulla mi dà, mordo i malvagi”. [VI,61] Stava raccogliendo frutti da un fico, quando il custode del terreno gli disse: “Stamattina un uomo è stato impiccato a quel fico”; ed egli rispose: “Io lo purificherò”. Vedendo che un vincitore di Olimpia teneva gli occhi fissi su un’etera, disse: “Ecco come un ariete di Arimane è tirato per il collo da una ragazzotta qualunque”. Soleva infatti dire che le etere di bell’aspetto sono simili ad una pozione letale di idromele. Quando faceva colazione nella piazza del mercato, coloro che gli stavano intorno ripetevano in continuazione “Cane!”. Al che lui diceva: “Cani siete voi che mi state intorno mentre faccio colazione. Quando due effeminati mollaccioni cercavano di nascondersi alla sua vista, Diogene diceva loro: “Non cautelatevi, un cane non mangia bietole”. Richiesto di dove fosse un ragazzo che si era dato alla prostituzione, rispose: “È di Tegea”. [VI,62] Osservando che un lottatore privo di talento per la lotta s’era dato a praticare la medicina, Diogene commentò: “Cos’è questa storia? Lo fai per poter adesso atterrare coloro che una volta ti vincevano?”. Vedendo che il figlio di un’etera tirava pietre alla folla, gli disse: “Sta attento a non colpire tuo padre”. Quando un giovanetto gli mostrò un pugnale ricevuto in dono dall’amante, Diogene gli disse: “Bello è il pugnale, ma brutto è il manico”. Quando un tale gli chiese in restituzione una mantellina, gli disse: “Se me ne hai fatto dono, è mia; se me l’hai prestata, la sto usando io”. Quando un ragazzo suppositizio gli disse che aveva dell’oro nel mantello, Diogene gli rispose: “Sì, è per questo che io me lo metto sotto quando mi corico”. [VI,63] Richiesto di quale vantaggio gli fosse venuto dalla filosofia, rispose: “Se non altro l’essere preparato a qualunque caso di fortuna”. Richiesto di dove fosse, rispose: “Sono cittadino del mondo”. Poiché dei tali offrivano sacrifici agli dei per avere un figlio, Diogene disse: “E per essere sicuri di che specie di figlio verrà fuori, non fate sacrifici?”. Quando una volta gli fu chiesto di versare una quota di sottoscrizione, disse al collettore dei contributi:

‘Chiedi la quota agli altri, ma tieni le mani lontane da Ettore’.

Diceva che le etere sono le regine dei re, giacché questi effettuano qualunque cosa paia ad esse. Quando gli Ateniesi votarono che Alessandro Magno era Dioniso, Diogene disse: “E me, fatemi Serapide”. A chi gli rinfacciava di entrare in luoghi sudici, soleva rispondere: “Anche il sole illumina gli escrementi e non per questo si contamina”. [VI,64] Mentre pranzava in un tempio, prese dei pani sozzi che nel frattempo erano stati imbanditi e li scagliò lontano, dicendo che nulla di sozzo deve fare ingresso in un tempio. A chi lo apostrofava dicendogli: “Tu nulla sai e fai il filosofo”, soleva rispondere: “Pur se io simulo sapienza, anche questo è fare filosofia”. A chi gli raccomandava il figlio dicendolo molto dotato e di eccellenti costumi, Diogene disse: “Ma allora che bisogno ha di me?”. Soleva dire che quanti parlano della virtù e non la praticano, non differiscono dalla cetra. Anche questa, infatti, nulla sente e di nulla si rende conto. Entrava a teatro quando gli altri ne uscivano. Richiesto del perché lo facesse, rispose: “Questo è il mestiere di tutta la mia vita”. [VI,65] Vedendo una volta un giovanotto muoversi con movenze femminili, gli disse: “Non ti vergogni di deliberare per te cose peggiori di quelle che ha deliberato per te la natura? La natura, infatti, ti ha fatto uomo mentre tu, invece, ti fai violenza e ti costringi ad essere donna”. Vedendo uno stolto che accordava un salterio, gli disse: “Non ti vergogni di applicarti ad accordare i suoni di uno strumento di legno e di non accordare l’animo tuo alla vita?”. A chi diceva: “Sono inidoneo alla vita filosofica”, rispose: “Perché dunque vivi, se non t’importa di vivere bene?”. A chi spregiava il proprio padre, soleva dire: “Non ti vergogni di spregiare colui grazie al quale tu vai così fiero di te?”. Vedendo un giovanotto di bell’aspetto che parlava in modo indecente, gli disse: “Non ti vergogni di sguainare un pugnale di piombo da un fodero d’avorio?”. [VI,66] Poiché gli veniva rinfacciato di bere in una bettola, disse: “Anche dal barbiere mi taglio i capelli”. Quando gli fu rinfacciato d’avere accettato una mantellina da Antipatro, disse:

‘Non sono da rigettarsi gli splendidi doni degli dei’

Ad un tale che lo aveva prima urtato malamente con una trave e poi gli aveva detto: “Sta’ attento!”, prima diede una bastonata e poi disse: “Sta’ attento!”. A chi supplicava con insistenza un’etera, disse: “O disgraziato, perché vuoi ottenere qualcosa che è meglio non ottenere?” Ad uno che si profumava i capelli, disse: “Bada che il buon odore della tua testa non procuri un cattivo odore alla tua vita”. Soleva dire che i domestici sono servi dei loro padroni, come gli insipienti sono servi delle loro smanie. [VI,67] Richiesto del perché i prigionieri di guerra fossero stati chiamati ‘appiedati’, rispose: “Perché avevano i piedi degli uomini, ma l’animo tal quale l’hai tu che mi fai ora questa domanda”. Una volta chiedeva l’elemosina di una mina ad un dissoluto, e poiché quello gli domandava perché dagli altri mendicava un obolo e da lui invece una mina, Diogene rispose: “Perché dagli altri ho speranza di ottenere di nuovo qualcosa, mentre se otterrò ancora qualcosa da te è posto sulle ginocchia degli dei”. Quando gli veniva rinfacciato di mendicare mentre invece Platone non mendicava, rispondeva: “Anche lui mendica, ma

‘avvicinando il capo, sì che gli altri non vengano a saperlo’.

Vedendo un arciere incapace, Diogene si mise a sedere vicino al bersaglio dicendo: “<Lo faccio> per non essere colpito”. Soleva dire che dal piacere fisico gli amanti riescono a trarre sventure. [VI,68] Richiesto se la morte sia un male, rispose: “E come può essere un male ciò della cui presenza non ci accorgiamo?”. Ad Alessandro che gli sta davanti e gli diceva: “Non hai paura di me?”, chiese: “Chi sei tu? Un bene o un male?”. Alessandro gli rispose: “Un bene”. E Diogene: “Chi, dunque, ha paura del bene?”. Soleva dire che l’educazione per i giovani, è temperanza; per gli anziani, consolazione, per i poveri, ricchezza; per i ricchi, compostezza. All’adultero Didimone che medicava l’occhio di una ragazza, disse: “Mentre curi l’occhio della ragazza, guarda bene di non rovinare la pupilla!”. A chi gli diceva che degli amici stavano tramando insidie contro di lui, rispose: “Cosa bisogna fare, se si devono trattare amici e nemici allo stesso modo?”. [VI,69] Richiesto di quale sia la cosa più bella tra gli uomini, rispose: “La libertà di parola”. Entrando in una scuola e vedendovi molte statue delle Muse ma pochi discepoli, disse: “Per gli dei, maestro, hai molti discepoli!”. Soleva fare ogni cosa sotto gli occhi di tutti, anche ciò che riguarda Demetra e Afrodite. Usava prospettare dei ragionamenti di questo genere: “Se non è fuori luogo fare colazione, non è fuori luogo farla nella piazza del mercato; ma fare colazione non è fuori luogo, dunque neppure è fuori luogo farla nella piazza del mercato”. Quando si masturbava sotto gli occhi di tutti, diceva di frequente: “Magari fosse possibile far cessare la fame semplicemente sfregandosi il ventre!”. Di lui si riferiscono anche altri aneddoti, che però sarebbe lungo elencare giacché sono molti. [VI,70] Diogene soleva dire che l’esercizio pratico della vita filosofica è di due tipi: dell’animo e del corpo. Questo esercizio pratico è quello grazie a cui le rappresentazioni che nascono nel corso di un costante allenamento ci procurano facilità e speditezza alla realizzazione delle opere della virtù. Infatti l’un tipo di esercizio, sia in relazione all’animo sia in relazione al corpo, è imperfetto senza l’altro, poiché vigoria dell’animo e robustezza del corpo nascono congiuntamente. Egli citava inoltre le prove del fatto che attraverso l’allenamento si perviene all’eccellenza della virtù. Nelle arti manuali come pure in altre arti, è dato infatti vedere che gli artisti si sono procacciati la loro destrezza manuale grazie ad una pratica costante; e che anche i flautisti e gli atleti eccellono entrambi grazie al loro quotidiano e costante impegno; sicché se costoro trasferissero l’esercizio anche all’animo, si affaticherebbero certo non senza giovamento e non senza risultati. [VI,71] Soleva anche dire che nella vita assolutamente nessun successo è ottenibile senza strenuo esercizio, e che questo è capace di vincere qualunque ostacolo. È dunque necessario che quanti scelgono le fatiche che sono in armonia con la natura, invece di quelle improficue, vivano felicemente; mentre coloro che scelgono, contro natura, la dissennatezza siano infelici. Lo stesso abito acquisito di spregiare il piacere fisico è piacevolissimo; e come quanti sono abituati ad una vita piacevole si dispiacciono se vanno incontro al suo contrario, così coloro che sono esercitati al loro contrario spregiano con gran piacere proprio i piaceri fisici. Di questo genere erano i discorsi che faceva e che dimostrava mettendoli in pratica: contraffacendo effettivamente la moneta, non concedendo alla legalità l’autorità che invece concedeva alla natura, e affermando di condurre la stessa sorta di vita che era stata di Eracle, il quale nulla anteponeva alla libertà. [VI,72] Egli diceva che tutto è dei sapienti e prospettava i ragionamenti che abbiamo più sopra citato. Tutto è degli dei; gli dei sono amici dei sapienti; ma i beni degli amici sono comuni, dunque tutto è dei sapienti. Circa la legge e l’impossibilità di un governo della città senza di essa, Diogene affermava che non c’è alcun pro della convenzione urbana in assenza di una città e che la città è una convenzione urbana. Ma in assenza di una città non c’è alcun pro della legge; dunque la legge è una convenzione urbana. Si prendeva gioco della nobiltà di stirpe, della fama e di tutte quante le cose di questo genere, affermando che si trattava di ornamenti esteriori del vizio, e che l’unica retta costituzione è quella che regge il cosmo. Soleva anche dire che le donne devono essere comuni, poiché non legittimava alcuna forma di matrimonio ma la convivenza consensuale di uomo e donna; e perciò diceva che pure i figli devono essere comuni. [VI,73] Non riteneva fuori luogo portar via qualcosa da un tempio o gustare le carni di un qualunque animale; e neppure riteneva sacrilego cibarsi di carne umana, com’era manifesto dai costumi di popoli stranieri, poiché diceva che per la retta ragione tutto è contenuto in tutto e pervade tutto. Infatti della carne è contenuta nel pane, del pane è contenuto nella verdura, e anche i restanti corpi sono contenuti in tutti gli altri poiché vi penetrano attraverso degli invisibili pori e qui le loro particelle si vaporizzano. Ciò egli lo rende manifesto nel ‘Tieste’, se le tragedie sono davvero sue e non di Filisco di Egina, che era un suo conoscente, o di Pasifonte di Licia, composte dopo la sua morte come afferma Favorino nella sua ‘Storia varia’. Delle musica, della geometria, dell’astrologia e di argomenti simili diceva di non interessarsi, perché improficui e non necessari. [VI,74] Fu dunque estremamente sagace e pronto nel rispondere alle domande che gli venivano poste, come è manifesto dagli esempi che abbiamo riferito. Sopportò la sua vendita come schiavo con straordinaria nobiltà d’animo. Infatti, mentre navigava verso Egina fu catturato dai pirati comandati da Scirpalo, condotto a Creta e qui posto in vendita. Quando l’araldo gli domandò cosa sapesse fare, rispose: “Comandare uomini”. Fu allora che indicando un certo uomo di Corinto che portava un abito fregiato di porpora, il già citato Xeniade, disse: “Vendimi a costui, perché quest’uomo ha bisogno di un padrone”. Xeniade lo comprò, e condottolo a Corinto lo istituì tutore dei suo figli e gli mise in mano l’amministrazione di tutta la casa. Diogene, a sua volta, dispose di essa ad ogni riguardo in modo tale che Xeniade andava in giro dicendo: “Un buon demone è entrato in casa mia!”. [VI,75] Nell’opera intitolata ‘Pedagogico’, Cleomene riferisce che i suoi conoscenti volevano pagare il riscatto, ma che Diogene li chiamò sempliciotti: giacché i leoni non sono schiavi di chi li nutre, bensì è chi li nutre ad essere schiavo dei leoni. Infatti l’aver paura è da schiavi, e sono gli uomini ad avere paura delle belve. La capacità di persuasione di un simile uomo era straordinaria, tanto che facilmente portava dalla sua parte qualunque persona su qualunque argomento. Si racconta che un certo Onesicrito di Egina, il quale aveva due figli, ne mandò uno, di nome Androstene, ad Atene. Questo, ascoltati i discorsi di Diogene, tosto decise di fermarsi in città. Allora il padre inviò il figlio più anziano, il già citato Filisco, alla ricerca del primo; ma in modo simile anche Filisco fu trattenuto in città. [VI,76] Per terzo giunse ad Atene Onesicrito in persona, e nondimeno anch’egli rimase con i figli e con loro intraprese la vita filosofica. Tale era il fascino magico congiunto ai discorsi di Diogene. Furono suoi uditori anche Focione, soprannominato il Probo, Stilpone di Megara e molti altri uomini politici. Si dice che avesse circa novant’anni quando morì. Della sua morte si riferiscono diverse versioni. Secondo alcuni, dopo avere mangiato un polpo crudo Diogene fu preso dal colera e così morì. Secondo altri, egli morì per aver trattenuto il respiro. Tra i sostenitori di questa versione vi è Cercida di Megalopoli (o di Creta), il quale in versi coliambici dice così:

‘Non è più, chi era innanzi cittadino di Sinope,
celebre per il bastone che portava, per il doppio mantello e il vivere all’aria aperta.
[VI,77] S’imbarcò premendo il labbro contro i denti e mordendo il respiro.
 Era Diogene, un vero figlio di Zeus, un cane celeste.

Altri affermano che mentre stava dividendo un polpo tra vari cani fu morso da uno di essi al tendine del piede, e così perse la vita. Però i suoi conoscenti, secondo quanto afferma Antistene nelle sue ‘Successioni dei filosofi’, congetturarono che egli fosse morto per avere trattenuto il respiro. Capitò infatti che egli si stesse trattenendo nel Craneo, la palestra nei sobborghi di Corinto. Come d’abitudine erano venuti a trovarlo i suoi conoscenti, i quali lo rinvennero tutto avvolto e nascosto nel mantello ed immaginarono che stesse dormendo. Ma poiché Diogene era un tipo né dormiglione né sonnolento, dispiegata la mantellina lo rinvennero senza respiro, e concepirono che egli avesse fatto ciò volendo di proposito uscir di vita. [VI,78] A questo punto, come si racconta, nacque tra i suoi conoscenti una lite furibonda su chi dovesse seppellirlo, e si venne persino alle mani. Quando giunsero i padri ed altri personaggi eminenti, fu da questi stabilito che Diogene fosse sepolto presso la porta della città che conduce verso l’Istmo. Sulla sua tomba eressero una colonna, in cima alla quale posero un cane scolpito in marmo di Paro. Successivamente anche i concittadini l’onorarono con immagini in bronzo sulle quali scrissero così:

‘Anche il bronzo invecchia col tempo, ma la tua gloria,
o Diogene, non la demolirà l’eternità. Perché tu solo
 insegnasti ai mortali la lezione di un’esistenza bastante a se stessa
e mostrasti il percorso della più semplice vita’.

[VI,79] Ci sono anche dei nostri versi in metro proceleusmatico:

‘Orsù Diogene, dì quale destino ti colse e ti portò nell’Ade.
Mi ci portò il dente rabbioso di un cane’.

Taluni però affermano che morendo egli diede istruzione di gettarlo via insepolto, così che qualunque belva potesse averne per sé una parte, oppure di spingere il suo cadavere giù in un fosso e di ammonticchiarvi sopra un po’ di polvere. Altri invece di buttarlo nell’Ilisso, così da poter diventare di qualche utilità ai suoi fratelli. Demetrio, nei suoi ‘Omonimi’ afferma che Diogene morì a Corinto lo stesso giorno in cui Alessandro Magno morì a Babilonia. Era vecchio al tempo della CXIII Olimpiade. [VI,80] Di lui si riportano i seguenti libri. Dialoghi: ‘Cefalione’, ‘Ictias’, ‘Cornacchia’, ‘Pordalo’, ‘Il popolo di Atene’, ‘La repubblica’, ‘Arte etica’, ‘Sulla ricchezza’, ‘Erotico’, ‘Teodoro’, ‘Ipsias’, ‘Aristarco’, ‘Sulla morte’, ‘Lettere’. Sette tragedie: ‘Elena’, ‘Tieste’, ‘Eracle’, ‘Achille’, ‘Medea’, ‘Crisippo’, ‘Edipo’. Sosicrate nel primo libro delle ‘Successioni’, e Satiro nel quarto libro delle ‘Vite’ affermano che nessuna di tali opere è di Diogene. Satiro afferma anche che le tragedie sono di Filisco di Egina, un conoscente di Diogene. Sozione nel settimo libro afferma che soltanto queste sono opere di Diogene: ‘Sulla virtù’, ‘Sul bene’, ‘Erotico’, ‘il Poveraccio’, ‘Tolmeo’, ‘Pordalo’, ‘Casandro’, ‘Cefalione’, ‘Filisco’, ‘Aristarco’, ‘Sisifo’, ‘Ganimede’, ‘Detti sentenziosi’, ‘Lettere’. [VI,81] Ci sono stati cinque Diogene. Il primo, di Apollonia, filosofo della natura. Questo è l’inizio del suo trattato: “Quando si comincia un qualunque ragionamento, a me sembra indispensabile fornirsi di un principio incontrovertibile”. Il secondo, di Sicione, il quale scrisse una ‘Storia del Peloponneso’. Terzo è il nostro, di Sinope. Quarto col nome Diogene fu lo Stoico, originario di Seleucia ma chiamato ‘di Babilonia’ per vicinato. Il quinto, di Tarso, il quale ha scritto su questioni, che egli tenta di risolvere, concernenti la poesia. A sua volta Atenodoro, nell’ottavo libro delle sue ‘Passeggiate’ afferma che il nostro Diogene aveva sempre la pelle splendente perché usava ungersela.

MONIMO (IV secolo a. C.)

[VI,82] Monimo di Siracusa fu discepolo di Diogene ed era, secondo quanto afferma Sosicrate, al servizio di un banchiere di Corinto. Xeniade, il compratore di Diogene, faceva frequenti visite a questo banchiere e nel corso di esse si dilungava a narrare la virtù di quell’uomo nei fatti e nelle parole. Finì così per istillare in Monimo una passione amorosa per Diogene. Nel giro di poco tempo, Monimo simulò di essere impazzito e si mise a buttar per aria le monete di piccolo taglio e tutto il denaro che si trovava sul banco, sicché il suo padrone lo mise alla porta. In questo modo Monimo entrò direttamente nella cerchia di Diogene. Sovente seguiva dappresso anche il cinico Cratete e soleva intrattenersi con persone simili; sicché il suo padrone, vedendolo comportarsi così, tanto più si convinse che era impazzito. [VI,83] Divenne una personalità di grande spicco, tanto che lo ricorda anche il comico Menandro, il quale in una delle sue commedie ‘Il palafreniere’ dice così:

‘-O Filone, Monimo era un uomo sapiente ma un po’ meno famoso.
-Monimo chi? Quello che portava la bisaccia?
-Tre bisacce portava! Quell’uomo nulla tuttavia pronunciò di affine,
per Zeus, al ‘Riconosci te stesso’ né a queste altisonanti massime;
ma qualcosa ben al di sopra di esse, proprio lui che era un sudicio mendicante,
giacché affermava che ogni umana concezione è vana’.

Monimo fu un pensatore di profonda gravità, e tale da tenere in spregio le semplici opinioni ed incitare unicamente alla verità. Scrisse degli scherzi poetici nei quali è mescolata una nascosta serietà, due libri ‘Sugli impulsi’ e un ‘Protrettico’.

ONESICRITO (floruit 330 a. C.)

[VI,84] Secondo alcuni Onesicrito era nato ad Egina, ma Demetrio di Magnesia afferma che fosse nativo di Astipalea. Fu uno degli allievi di maggior spicco di Diogene. Sembra avere avuto una carriera assai simile a quella di Senofonte. Come infatti Senofonte partecipò alla campagna militare di Ciro, così Onesicrito partecipò a quella di Alessandro Magno. Come quello scrisse la ‘Ciropedia’, così il nostro scrisse come fu allevato Alessandro. Quello fece un encomio di Ciro, e il nostro di Alessandro. Anche quanto allo stile di scrittura essi sono simili; salvo che, in quanto imitatore, Onesicrito è inferiore al modello. Allievi di Diogene furono anche Menandro, soprannominato ‘Querceto’ e ammiratore di Omero; Egesia di Sinope, di soprannome ‘Collare’; e Filisco di Egina, come abbiamo già detto in precedenza.

CRATETE (floruit 326 a. C.)

[VI,85] Cratete, figlio di Asconda, era nativo di Tebe. Fu anch’egli uno dei discepoli di grande spicco del Cane. Ippoboto afferma però che egli non fu discepolo di Diogene, bensì di Brisone l’Acheo. A Cratete si attribuiscono degli ‘Scherzi poetici’ come i seguenti:

‘In mezzo alla livida, fosca vanità, c’è una città, Bisaccia,
bella e pingue, sudicia certo, con niente dentro:
verso di essa non naviga uno stupido parassita,
non naviga un ghiottone, né uno che gode delle chiappe di una puttana.
 Quando però porta in sé timo, e aglio e fichi e pani,
questi non si fanno la guerra gli uni contro gli altri,
e per i quattrini o per la gloria non imbracciano le armi’.

[VI,86] A lui è attribuito anche un libro dei conti giornalieri, molto divulgato e nel quale si legge:

‘Metti da parte per un cuoco, dieci mine; per un medico, una dracma;
per un adulatore, cinque talenti; per un consigliere, del fumo;
per una puttana, un talento; per un filosofo, tre oboli’.

Cratete era anche chiamato ‘Apriporte’ perché entrava in qualunque casa e vi portava del senno. È suo anche questo componimento:

‘Ho quel che imparai e pensai
e quel che di solenne appresi dalle Muse;
tante esultanze furono invece frutto di vanità’. 

Egli dice anche che dalla filosofia questo gli venne:

‘Un chenice di lupini e l’immischiarmi di nulla’.

Come suoi si citano pure questi versi:

‘La passione amorosa la fa cessare la fame, se no la fa cessare il tempo;
se poi non potrai essere servito dall’una o dall’altro, usa una corda!’ 

[VI,87] Cratete era nel fior degli anni al tempo della CXIII Olimpiade. Nelle sue ‘Successioni dei filosofi’ Antistene afferma che Cratete si aprì alla filosofia cinica vedendo Telefo, in una tragedia, passarsela ben miseramente con un cestino in mano. Monetizzò allora il suo patrimonio – apparteneva infatti ad una delle famiglie più in vista – e mise così insieme circa duecento talenti, che ripartì poi tra i cittadini. Dice pure che egli abbracciò la vita cinica così decisamente che anche il comico Filemone lo ricorda quando fa dire ad un personaggio:

‘D’estate portava un mantello felpato,
per essere come Cratete, e d’inverno un cencio’.

Diocle afferma che Diogene lo persuase ad abbandonare i suoi campi al pascolo delle pecore ed a buttare in mare il denaro che avesse. [VI,88] Dice anche che Alessandro Magno dimorò in casa di Cratete, come Filippo dimorò in quella di Ipparchia. Spesso gli capitò gli inseguire col bastone dei parenti che venivano a trovarlo per trattenerlo dai suoi propositi, nel mantenere i quali egli fu eroico. Demetrio di Magnesia racconta invece che egli diede il denaro in deposito ad un certo banchiere, con l’intesa di consegnarlo ai suoi figli se essi fossero diventati persone ordinarie, e di ripartirlo invece tra il popolo se essi fossero diventati filosofi, giacché facendo vita filosofica non ne avrebbero avuto bisogno. Eratostene afferma che da Ipparchia – della quale parleremo – Cratete ebbe un figlio, cui fu dato il nome di Pasicle. Quando Pasicle uscì dallo stato di efebo, Cratete lo condusse nella stanza di una giovane servetta dicendogli che questo era l’opportuno rapporto sessuale secondo il patrio costume; [VI,89] e spiegandogli che i rapporti sessuali tra adulteri sono relazioni tragiche, poiché hanno come ricompensa esili ed omicidi; mentre quelli di coloro che vanno con le etere sono relazioni comiche, poiché dissolutezza e ubriachezza rendono pazzi. Cratete ebbe anche un fratello di nome Pasicle, che fu discepolo di Euclide. Nel secondo libro dei suoi ‘Memorabili’ Favorino riferisce su Cratete una storiella carina. Racconta infatti che mentre rivolgeva un certo invito al ginnasiarca gli toccò le anche. E poiché quello si adirò assai, Cratete gli disse: ‘E perché? Le anche non sono forse tue, come le ginocchia?’. Soleva dire che è impossibile trovare un uomo assolutamente privo di difetti giacché, come nella melagrana, c’è sempre un chicco marcio. Una volta, poiché aveva fatto irritare il citaredo Nicodromo, questi lo percosse in viso. Cratete allora s’applicò in fronte un cartellino con sopra scritto: ‘Opera di Nicodromo’. [VI,90] Soleva ingiuriare le puttane a bella posta, per allenarsi così ad essere coperto di parole blasfeme. Rimbrottò Demetrio Falereo che gli aveva mandato dei pani e del vino, dicendo: “Magari le sorgenti ci dessero anche dei pani!”. È perciò manifesto che egli beveva soltanto acqua. Quando, ad Atene, fu rimproverato dagli ispettori di polizia perché portava addosso una veste trasparente di mussolina, disse loro: “Vi mostrerò anche Teofrasto cinto con una veste trasparente di mussolina”. E poiché quelli non gli credevano, li condusse in una bottega di barbiere e mostrò loro Teofrasto che s’era fatto radere barba e capelli. A Tebe, quando fu frustato dal ginnasiarca – secondo altri però questo avvenne a Corinto e ad opera di Euticrate – e trascinato per un piede, come se non si desse alcun pensiero di ciò, recitò il verso:

‘Afferratolo per un piede lo trascinò attraverso la soglia sacra’.

[VI,91] Diocle riferisce invece che a trascinarlo per il piede fu Menedemo di Eretria. Poiché infatti costui era di bell’aspetto e si diceva che avesse rapporti intimi con Asclepiade di Fliunte, una volta Cratete gli si attaccò alle cosce e disse: “Dentro, Asclepiade”. Menedemo allora s’infuriò e mentre lo trascinava per il piede Cratete recitò il verso riferito. Nei suoi ‘Detti sentenziosi’, Zenone di Cizio afferma che una volta Cratete, con tutta noncuranza, appiccò un vello di pecora alla mantellina. Era brutto d’aspetto, e quando faceva gli esercizi ginnici veniva deriso. Allora egli levava in alto le braccia e soleva dire: “Coraggio, Cratete, lo fai a beneficio dei tuoi occhi e del resto del tuo corpo. [VI,92] Costoro che ti deridono, li vedrai ormai rattrappiti da qualche malattia; e li sentirai chiamare te beato, mentre biasimeranno se stessi per la loro inerzia”. Affermava poi che bisogna filosofare fino ad arrivare al punto in cui i generali ci sembreranno dei semplici asinai. Diceva anche che quanti sono circondati da adulatori sono isolati come i vitelli in mezzo ai lupi, giacché né quelli né questi hanno intorno chi può soccorrerli ma soltanto chi li insidia. Quando si rese conto che stava per morire, cantò a se stesso questo ritornello:

‘Stai proprio avanzando, gobbo mio caro,
te ne vai verso le dimore dell’Ade curvo per la vecchiaia’,

gli anni l’avevano infatti reso curvo. [VI,93] Ad Alessandro Magno che gli chiedeva se volesse che la sua città fosse ricostruita, rispose: “Perché farlo? Tanto, un altro Alessandro la ridurrà di nuovo in macerie”. Diceva di avere come patria il discredito e la povertà, inespugnabili dalla fortuna; e come concittadino Diogene, immune alle trame dell’indivia. Anche Menandro si ricorda di lui e nei ‘Gemelli’ dice così:

‘Camminerai insieme a me indossando una mantellina,
come faceva un tempo la moglie del cinico Cratete’.

Come Cratete stesso afferma, egli diede una figlia in matrimonio di prova per trenta giorni. E veniamo ora ai suoi discepoli.

METROCLE (c. 300 a. C.)

[VI,94] Metrocle era nativo di Maronea, ed era fratello di Ipparchia. Fu dapprima uditore del peripatetico Teofrasto. Era così malandato in salute che una volta, nel corso di un esercizio scolastico di declamazione, scoreggiò. Si scoraggiò allora a tal punto da chiudersi in casa e da decidere di lasciarsi morire d’inedia. Quando Cratete apprese il fatto, in seguito ad un invito andò da lui dopo avere mangiato a bella posta dei lupini. Cercò quindi di persuaderlo con il ragionamento che non aveva commesso nulla di vizioso, giacché sarebbe stato invece mostruoso che egli non avesse dato il suo naturale sfogo all’aria del ventre. Alla fine del discorso anche Cratete scoreggiò, e così riuscì a risollevarlo, consolandolo con la perfetta somiglianza delle due opere. Da quel momento Metrocle fu uditore di Cratete e diventò un filosofo di rilievo. [VI,95] Come afferma Ecatone nel primo libro dei suoi ‘Detti sentenziosi’, Metrocle dette alle fiamme i propri scritti commentando:

‘Queste sono fantasticherie di sogni di morti’.

Altri dicono che egli bruciò gli appunti presi alle lezioni di Teofrasto, commentando:

‘Efesto, vieni qua; Teti ora ha bisogno di te’.

Metrocle soleva dire che delle cose, alcune si possono comprare col denaro: per esempio, una casa. Altre, come l’educazione, per essere acquisite hanno bisogno di tempo e di impegno solerte. La ricchezza di denaro è dannosa, se non la si sa utilizzare in modo degno. Morì vecchio, annegandosi. Suoi discepoli furono Teombroto e Cleomene. Di Teombroto fu discepolo Demetrio di Alessandria. Di Cleomene furono discepoli Timarco di Alessandria ed Echecle di Efeso. Nondimeno Echecle fu uditore anche di Teombroto, del quale fu allievo Menedemo, di cui parleremo. Anche Menippo di Sinope acquistò notorietà tra i suoi discepoli. 

IPPARCHIA (c. 300 a. C.)

[VI,96] Fu catturata dalle dottrine dei Cinici anche la sorella di Metrocle, Ipparchia. Entrambi erano nativi di Maronea. Ipparchia era perdutamente innamorata di Cratete, del suo modo di ragionare e di vivere; per cui non si dava alcun pensiero di coloro che chiedevano la sua mano e non badava né alle loro ricchezze, né alla nobiltà dei natali o alla loro bellezza: per lei Cratete era tutto. E invero minacciò i suoi genitori di suicidarsi qualora non fosse data in sposa a lui. Quindi Cratete, invitato dai genitori di lei a dissuadere la ragazza, fece di tutto a questo fine; ma non riuscendo a persuaderla di cambiare avviso, levatosi finalmente in piedi e toltosi senz’altro il vestito davanti ai suoi occhi, le disse: “Questo è lo sposo e questo è il suo patrimonio: davanti a questa evidenza prendi una decisione, giacché non potrà fare meco vita comune se non chi avesse le mie stesse occupazioni”. [VI,97] La ragazza fece la sua scelta e adottò il medesimo abito di vita, per cui andava in giro col marito, aveva con lui rapporti sessuali in pubblico e con lui partecipava ai pranzi. Quando una volta partecipò ad un convito offerto da Lisimaco, confutò Teodoro, soprannominato l’Ateo, formulando un sofisma di questo genere. ‘Ciò che non si direbbe ingiusto quando fosse fatto da Teodoro, non si direbbe ingiusto anche quando fosse fatto da Ipparchia. Ora, se quando Teodoro percuote se stesso non commette ingiustizia, neppure Ipparchia commette ingiustizia quando percuote Teodoro’. Alle parole di Ipparchia Teodoro non rispose, e però la denudò tirandole via il mantello. Ipparchia non ne rimase sbalordita né sconvolta, come avrebbe invece fatto una qualunque donna. [VI,98] E poiché Teodoro le recitava il verso:

‘È questa colei che lasciò le spole presso i telai?’,

Ipparchia gli rispose: “Sì, Teodoro, questa sono io. Ti pare forse che io abbia deciso male su di me, quando il tempo che stavo per consumare sui telai l’ho invece utilizzato per la mia educazione?”. Di questa donna filosofo si riferiscono questo e innumerevoli altri aneddoti. 
Si cita come opera di Cratete un suo libro di ‘Lettere’, nel quale ella si mostra eccellente filosofo e il cui stile è simile a quello di Platone. Scrisse anche tragedie di elevata impronta filosofica come, per esempio, in questo passaggio:

‘Patria non m’è una torre, non m’è un tetto,
ma d’ogni continente una città, una dimora,
preparata ad accoglierci e lasciarci vivere’.

Ipparchia morì in tarda età e fu sepolta in Beozia.

MENIPPO

[VI,99] Era un Cinico anche Menippo: Fenicio d’origine, schiavo; come afferma Acaico nella sua ‘Etica’. Diocle riferisce che il suo padrone era un cittadino del Ponto e che si chiamava Batone. Menippo chiedeva l’elemosina perché era più d’ogni altra cosa accecato dall’avidità di denaro, e riuscì pure a diventare cittadino Tebano. Egli non ci offre comunque nulla di serio. I suoi libri traboccano di molte ridicolaggini, pari a quelle di quel Meleagro che nacque dopo di lui. Ermippo riferisce che Menippo era diventato, ed era chiamato, ‘usuraio a giornata’, giacché prestava denaro a interesse contro garanzia della nave e contro ipoteca, tanto che ammassò un’enorme quantità di denaro. [VI,100] Alla fine fu però vittima di un complotto e fu defraudato di tutto. Per lo scoramento mise allora fine alla sua vita impiccandosi. Anche noi abbiamo composto su di lui dei versi scherzosi:

‘Fenicio di nascita, ma Cane di Creta,
usuraio a giornata – così era soprannominato –
forse tu conosci Menippo.
A Tebe costui, siccome una volta fu derubato
e perse tutto e non capiva la natura di un Cane,
s’impiccò’.

Taluni affermano che i suoi libri in verità non sono suoi, ma di Dionisio e di Zopiro, entrambi di Colofone, i quali li scrissero tanto per scherzare e poi li diedero a Menippo in quanto capace di meglio disporne la diffusione. [VI,101] Sono stati in sei a chiamarsi Menippo. Il primo è colui che scrisse un’opera ‘Sui Lidi’ e compose un’epitome dell’opera di Xanto. Il secondo è questo nostro. Il terzo è un sofista di Stratonicea, originario della Caria. Il quarto è uno scultore di statue. Il quinto e il sesto sono due pittori, entrambi ricordati da Apollodoro. I libri del Cinico Menippo sono tredici: ‘L’evocazione dei morti’, ‘Testamenti’, ‘Lettere fittizie a firma degli dei’, ‘Contro i fisici, i matematici e i grammatici’, ‘Nascita di Epicuro’, ‘Le onoranze che quelli della sua scuola rendevano ad Epicuro il venti di ogni mese’, e altri.

MENEDEMO

[VI,102] Menedemo fu discepolo di Colote di Lampsaco. Secondo quanto afferma Ippoboto, Menedemo si spinse a tal punto di ciarlataneria da andarsene in giro travestito da Erinni, affermando di essere venuto dall’Ade per prendere nota delle azioni colpevoli che venivano commesse, al fine di riferirle ai demoni di laggiù una volta che fosse colà ridisceso. Il suo abbigliamento era questo: una tunica di colore grigio scuro lunga fino ai piedi, stretta da una cintura color rosso porpora. In testa il cappello tipico dell’Arcadia, sul quale erano ricamati i dodici segni zodiacali; ai piedi i coturni che usano gli attori tragici; un gran barbone e in mano una verga di frassino. 
[VI,103] Queste sono le vite di ciascuno dei Cinici. Ora abbozzeremo altresì le tesi che hanno il comune beneplacito di tutti loro, giacché secondo noi anche il Cinismo è una  scuola filosofica e non soltanto, come affermano alcuni, un istituto di vita. Ha il loro beneplacito, come anche quello di Aristone di Chio, la rimozione dall’ambito filosofico della Logica e della Fisica, e l’attenzione alla sola Etica. E l’affermazione che alcuni ascrivono a Socrate, Diocle la ascrive invece a Diogene, poiché è dell’avviso che fosse quest’ultimo a dire che bisogna ricercare:

‘quel che di cattivo e di buono c’è nella magione’.

I Cinici, poi, ricusano di dare importanza alle nozioni enciclopediche. Antistene era dell’avviso che coloro i quali sono diventati virtuosi non hanno alcun bisogno di apprendere la letteratura, per non essere eventualmente distratti da attrattive estranee alla filosofia. [VI,104] Essi tolgono di mezzo anche la geometria, la musica e tutte le nozioni di questo genere. A chi gli mostrava una meridiana, Diogene diceva: “Questo aggeggio è utile per non arrivare in ritardo a pranzo”. E ad uno che sfoggiava le proprie doti musicali, disse:

‘Le città sono ben governate dall’intelligenza degli uomini,
e anche le case lo sono; non dai suoni vibrati né dai trilli’. 

Ha il loro beneplacito la dottrina, come afferma Antistene nel suo ‘Eracle’, secondo la quale il sommo bene è la vita in armonia con la virtù. Questa dottrina è esattamente simile a quella degli Stoici, poiché vi è una certa comunanza tra queste due scuole filosofiche. Questa è anche la ragione per cui è stato detto che il Cinismo è una ‘scorciatoia’ per la virtù. Del resto, proprio in questo modo condusse la sua vita Zenone di Cizio. Ha il loro beneplacito anche la dottrina secondo la quale si deve vivere frugalmente, utilizzando cibi non cotti e già naturalmente pronti per il consumo; vestirsi unicamente con delle mantelline; spregiare la ricchezza, la gloria mondana e la nobiltà di natali. Taluni Cinici sono pertanto integralmente vegetariani, bevono soltanto acqua fresca e utilizzano come dimora i ripari che capitano ed anche le botti: come faceva Diogene, il quale era dell’avviso che l’aver bisogno di nulla è proprio degli dei e che proprio degli uomini simili a dei è l’avere bisogno di poco. [VI,105] Ha anche il loro beneplacito la dottrina per cui, secondo quanto afferma Antistene nel suo ‘Eracle’, la virtù può essere insegnata e che la virtù, una volta acquisita, non può essere persa; che il sapiente è degno d’amore, è al riparo dalle aberrazioni, è amico del suo simile e che egli nulla delega alla fortuna. I Cinici, similmente ad Aristone di Chio, chiamano ‘indifferente’ tutto ciò che sta frammezzo alla virtù e al vizio. Questi sono i Cinici. Bisogna ora passare agli Stoici, primo dei quali fu Zenone di Cizio, che era stato discepolo di Cratete.

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SENOFONTE – ‘MEMORABILIA’

Libro I 

Introduzione

Quelli che la tradizione ha raccolto sotto il generico nome di ‘Memorabilia’, ovvero di ‘Detti e fatti memorabili’, sono appunti disparati che Senofonte scrisse in tempi diversi e senza un ordine preciso. L’unico elemento che appare tenerli uniti è la presenza costante del personaggio ‘Socrate’, come visto ed interpretato da Senofonte. 

Per comodità, io ho raccolto ciascun appunto in altrettanti paragrafi. Gli appunti che formano il Libro I sono in totale 23, e l’argomento di ciascuno di essi è il seguente:

Appunto 1 – [I,I,1-9] Riflessioni di Senofonte circa la vacuità delle argomentazioni, con le quali gli accusatori riuscirono a convincere gli Ateniesi che Socrate meritava la condanna a morte.

Appunto 2 – [I,I,10-15] Perché Socrate non discusse mai della generazione del Cosmo, limitandosi a ritenere che tali questioni fossero per gli uomini di impossibile soluzione.

Appunto 3 – [I,I,16-20] Socrate giudicava uomini ‘virtuosi’ quanti conoscevano le risposte a domande sulle faccende umane, e giudicava ‘schiavi’ quanti ignoravano tali risposte.

Appunto 4 – [I,II,1-3] Senofonte nota con stupore come gli Ateniesi, pur contro ogni evidenza, fossero persuasi della colpevolezza di Socrate in quanto corruttore dei giovani.

Appunto 5 – [I,II,4-8] Socrate non trascurava la cura del corpo ma ne disapprova l’eccesso, tanto quanto disapprovava la smania per il denaro. 

Appunto 6 – [I,II,9-11] Socrate era accusato di aizzare la gioventù a disdegnare le leggi vigenti e quindi alla violenza, in quanto criticava l’assegnazione a sorte delle cariche pubbliche. 

Appunto 7 – [I,II,12-38] Senofonte racconta per filo e per segno come Crizia, Alcibiade e Caricle divennero dapprima amici di Socrate, e successivamente si trasformarono in delinquenti. 

Appunto 8 – [I,II,39-48] Una discussione tra Pericle ed Alcibiade su cosa siano le ‘leggi’. Chi furono i veri amici di Socrate?

Appunto 9 – [I,II,49-55] Un’altra accusa rivolta a Socrate era quella di insegnare ad infangare la figura del proprio padre, e quella dei propri amici.

Appunto 10 – [I,II,56-57] Quali erano gli uomini che Socrate definiva ‘laboriosi’ e quali uomini definiva ‘oziosi’.

Appunto 11 – [I,II,58-59] La critica di Socrate ad alcuni versi dell’Iliade di Omero.

Appunto 12 – [I,II,60-61] Popolare e filantropo qual era, Socrate era sempre disponibile a discorrere con chiunque. E quanti discorrevano con lui, sempre se ne congedavano migliori di prima. 

Appunto 13 – [I,II,62-64] Socrate non fu mai all’origine, né mai fu causa, di sedizione o di guerra.

Appunto 14 – [I,III,1-4] Per Socrate, il culto degli dei e la celebrazione di riti sacrificali andavano mantenuti entro i limiti delle possibilità economiche di ciascuno.

Appunto 15 – [I,III,5-7] Uno stile di vita capace di educare tanto l’animo quanto il corpo.

Appunto 16 – [I,III,8-15] Le esortazioni di Socrate a proposito del godimento dei piaceri sessuali. L’esempio di Critobulo e del figlio di Alcibiade.

Appunto 17 – [I,IV,1] La capacità di Socrate, non soltanto di esortare alla virtù ma anche di prendere gli uomini con sé e di condurli fino ad essa.

Appunto 18 – [I,IV,2-19] Ciò che una volta Socrate, a proposito degli dei e del proprio démone, disse discorrendo con Aristodemo. 

Appunto 19 – [I,V,1-6] Socrate parla della virtù della temperanza.

Appunto 20 – [I,VI,1-10] Socrate discorre con Antifonte di felicità e di infelicità.

Appunto 21 – [I,VI,11-14] Socrate discute con Antifonte sulla possibilità di essere una persona giusta ed insieme una persona sapiente.

Appunto 22 – [I,VI,15] Socrate risponde ad Antifonte circa il miglior modo di occuparsi di politica.

Appunto 23 – [I,VII,1-5] Socrate spiega perché il tenersi il più lontano possibile dalla millanteria coincida già con l’essere vicinissimi alla virtù.

Traduzione

[I,I,1] Spesso mi sono chiesto con stupore, quali fossero le argomentazioni con le quali gli accusatori di Socrate riuscirono a convincere gli Ateniesi che egli, secondo le leggi dello Stato, meritava la condanna a morte. Infatti, l’atto di accusa contro di lui, suonava all’incirca così: “Socrate è colpevole di delegittimare gli dei che lo Stato ritiene legittimi, e di introdurre nuovi ed inauditi démoni. Inoltre egli è colpevole anche del reato di corruzione dei giovani”. [I,I,2] In primo luogo: di quali prove testimoniali si servirono gli accusatori, per dimostrare che Socrate riteneva illegittimi gli dei che lo Stato invece legittimava? Egli, infatti, offriva sacrifici sotto gli occhi di chiunque: molte volte in casa, ma spesso anche sui pubblici altari; né si nascondeva quando praticava la divinazione, giacché la sua affermazione che fosse un démone a segnalargli cosa fare, era cosa notoria. È soprattutto da questa affermazione, io credo, che sia nata l’accusa a Socrate di introdurre nuovi ed inauditi démoni. [I,I,3] Eppure, in realtà, egli non introdusse usanza alcuna più nuova ed inaudita di quelle introdotte da quanti, legittimando la divinazione, traggono auspici dal volo degli uccelli, da responsi oracolari, da segnali premonitori o da cerimonie sacrificali. Costoro non pensano che gli uccelli o i segni in cui si imbattono, conoscano cos’è utile per loro; ma che siano gli dei a segnalarlo loro per il tramite di quelli: e questo era ciò che anche Socrate riteneva. [I,I,4] Ma, mentre la maggioranza degli uomini afferma che sono il volo degli uccelli o i segni in cui ci si imbatte, che fanno allontanare oppure che spronano a certe azioni; Socrate riferiva il tutto a ciò che conosceva: ossia diceva che era un démone a segnalargli cosa fare. Sicché erano molti i sodali ai quali egli suggeriva di fare certe cose o di non farne delle altre, a seconda di quanto gli preannunciava il démone. Ed a quanti di loro ubbidivano al démone, ciò tornava utile; mentre quanti non gli ubbidivano, avevano poi di che pentirsene. [I,I,5] Chi non sarebbe d’accordo nel dire che Socrate non voleva certo mostrarsi sciocco o cialtrone agli occhi dei suoi sodali? Egli avrebbe invece dimostrato di essere entrambe le cose, predicendo falsamente qualcosa come si trattasse di una rivelazione divina. È quindi manifesto che egli nulla avrebbe predetto, se non con la certezza che la sua profezia si sarebbe avverata. E per le profezie, di chi altro si fiderebbe chiunque, se non di un dio? Ed avendo fiducia negli dei, come poteva Socrate ritenere che gli dei non esistono? [I,I,6] Con quanti aveva maggiore familiarità, egli era uso comportarsi in questo modo. Circa le cose assolutamente necessarie, egli consigliava loro di effettuarle comunque, e nel modo che essi ritenevano il migliore possibile. Circa le cose di incerta riuscita, egli li mandava a consultare l’oracolo, affinché ne tornassero sapendo se esse andavano effettuate. [I,I,7] A coloro che intendevano bene amministrare case o città intere, egli solitamente ripeteva che essi abbisognavano della divinazione. Infatti, del fare il falegname, o il fabbro, o l’agricoltore, o il comandante militare; e di siffatte attività diventare supervisore, controllore, economo, pianificatore: ebbene, egli riteneva che tali nozioni potessero essere apprese con l’aiuto del semplice intelletto umano. [I,I,8] Ma riteneva anche che le nozioni più segrete e profonde, gli dei le avevano riservate a loro stessi; sicché di esse, nessuna era agli uomini manifesta. Infatti, chi ha bene seminato il campo è del tutto ignaro di chi ne raccoglierà i frutti. Chi ha bene edificato una casa, non sa assolutamente chi l’abiterà. Lo stratega ignora del tutto se gli sia utile il comandare una certa spedizione militare. Il politico non sa affatto se gli sia utile prendere il governo dello Stato. Chi ha sposato una bella ragazza per godersela, ignora del tutto se andrà incontro ad un mare di guai per causa sua. Chi ha stabilito rapporti di parentela con uomini assai influenti nello Stato, non sa assolutamente se proprio da costoro sarà esiliato dallo Stato. [I,I,9] Socrate diceva anche che quanti credono che nessuna di siffatte nozioni più segrete e profonde sia comunicata a noi dai démoni, e che esse, anzi, siano tutte attingibili dall’intelletto umano, ritengono di essere dei démoni essi stessi. Sicché démoni si credono quanti interrogano l’oracolo su cose che gli dei hanno invece già posto in potere degli uomini, i quali sono capaci di distinguere da soli quale sia la risposta. Per esempio, credono di essere démoni coloro che interrogano l’oracolo chiedendo se sia meglio prendere per sé un conduttore di carri molto esperto nella guida, oppure uno che non lo è affatto; un pilota di nave che ha grande esperienza di viaggi per mare, oppure uno che non ne sa nulla; e così pure si credono démoni coloro che interrogano l’oracolo su cose che noi possiamo benissimo enumerare, misurare in lunghezza oppure pesare. Sicché egli riteneva che quanti pongono agli dei delle domande di questo genere, facciano richieste illegittime. Diceva, dunque, che noi dobbiamo imparare quali siano le cose che gli dei hanno messo in nostro potere; mentre quelle che rimangono a noi celate, dobbiamo tentare di conoscerle attraverso la divinazione; e che si tratta di rivelazioni che gli dei fanno soltanto a coloro con i quali intendono essere benevoli. 

[I,I,10] Era abitudine di Socrate quella di stare sempre all’aria aperta. La mattina se ne andava a passeggio e per palestre; e quando la piazza del mercato s’era riempita, lo si trovava sempre in mezzo alla gente. Per il restante della giornata, egli s’intratteneva di solito nei luoghi più affollati; dove parlava il più possibile, e chiunque volesse poteva ascoltarlo. [I,I,11] Nessuno mai udì Socrate dire una sola parola empia, né mai lo vide effettuare un solo atto sacrilego. Né egli soleva discutere degli argomenti di cui discuteva la maggior parte delle altre persone, ossia della Natura dell’Universo, e di come fu generato quello che i sofisti chiamano ‘Cosmo’, ed a quali cogenti leggi ubbidisca l’orbita di ciascun corpo celeste; ma anzi mostrava che quanti si preoccupano di siffatti problemi chiacchierano a vanvera. [I,I,12] Innanzitutto, infatti, egli cercava di capire se costoro fossero giunti ad occuparsi di siffatte questioni, dopo essere certi di avere ormai sviscerato a sufficienza tutte le faccende umane; oppure se, una volta messe da canto le faccende umane e studiando quelle che riguardano i démoni, essi ritengano di stare facendo ciò che loro davvero conviene. [I,I,13] Lo stupiva assai il fatto che non fosse loro evidente come queste questioni siano per gli uomini impossibili da risolvere; giacché anche i più esperti di simili problemi dichiarano di non avere affatto tutti le stesse opinioni al riguardo; ed anzi di trovarsi, gli uni verso gli altri, alla stessa stregua dei pazzi. [I,I,14] Infatti, alcuni pazzi non hanno timore neppure delle cose più terribili; altri invece hanno paura anche di ciò che paura non fa. Ad alcuni non appare affatto vergognoso dire o fare qualunque cosa in mezzo alla folla; mentre ad altri sembra che neppur si debba uscir di casa e mescolarsi con gli uomini. Altri non onorano sacrari, né altari, né qualunque cosa divina; mentre altri venerano dei sassi, dei pezzi di legno in cui si imbattono casualmente, e pure le belve. Di coloro che si affannano circa la Natura dell’Universo, ad alcuni pare che tutto ciò che esiste sia una entità sola; ad altri invece che la moltitudine degli enti sia infinita. Ad alcuni pare che tutte le cose siano in perpetuo movimento; ad altri che esse non siano mai mosse. Ad alcuni sembra che tutte divengono e poi decadono; ad altri invece che esse sarebbero né mai divenute, né mai decadute. [I,I,15] Circa costoro, egli cercava inoltre di capire se, come quanti hanno imparato tutto delle faccende umane, ritengono di potere poi applicare a proprio vantaggio o a vantaggio di chiunque loro vogliano, qualunque cosa abbiano imparato; allo stesso modo, anche quanti hanno indagato le faccende divine, una volta conosciute le leggi per cui ciascuna di esse avviene, potranno poi farla accadere quando vogliano: dico, i venti, le piogge, le stagioni e qualunque altro simile fenomeno di cui abbiano bisogno; oppure se neanche sperano di riuscire a tanto, ed a loro basta la conoscenza delle cause per cui ciascuno di tali fenomeni avviene. 

[I,I,16] Queste erano dunque le cose che Socrate diceva a proposito di coloro che si occupano di tali questioni. Quanto a lui, egli sempre discuteva delle faccende umane: cos’è pio, cos’è empio, cos’è bello, cos’è brutto, cos’è giusto, cos’è ingiusto, cos’è temperanza, cos’è intemperanza, cos’è virilità, cos’è viltà, cos’è Stato, cos’è politica, cos’è il governo di uomini, cos’è il governatore di uomini; e di altre faccende simili, ritenendo ‘uomini dabbene’ quanti conoscevano le risposte a queste domande, e che invece erano stati giustamente chiamati ‘schiavi’ quanti tali risposte ignoravano. [I,I,17] Ora, su questioni circa le quali non era noto cosa Socrate pensasse, non c’è da stupirsi che i giudici possano avere emesso un verdetto sbagliato; ma su fatti di cui tutti erano al corrente, non sorprende che i giudici non abbiano riflettuto a dovere? [I,I,18] Infatti, quando egli divenne membro del Consiglio dei Cinquecento, dopo avere prestato il rituale giuramento nel quale era previsto l’obbligo di rispettare strettamente le leggi vigenti, gli accadde di essere sorteggiato quale Presidente dell’Assemblea Generale. Ora, accadde che ad un certo punto la maggioranza dei presenti divenne smaniosa di approvare, seduta stante e con una sola votazione, la condanna a morte e l’uccisione di nove Ammiragli, tra i quali erano compresi Trasillo ed Erasinide. Questa unica votazione era del tutto contraria alla legge, e Socrate, quale Presidente dell’Assemblea, si rifiutò fermamente di metterla ai voti, benché avesse contro la maggioranza del popolo, e fosse sotto la minaccia di molti ed influenti personaggi presenti. Eppure egli dimostrò così di tenere in maggior conto il giuramento fatto, che l’andare contro la giustizia per riuscire gradito al popolo, e proteggersi così dalle accuse di quanti lo minacciavano. [I,I,19] Infatti, egli riteneva che gli dei si prendano cura degli uomini, ma non nel modo in cui lo crede la maggioranza della gente. Costoro credono che gli dei conoscano alcune cose, ma che altre non le conoscano. Socrate riteneva invece che gli dei sappiano tutto: tanto le parole che pronunciamo, quanto le azioni che facciamo e le deliberazioni che concepiamo; e che essi siano presenti dappertutto, e che inviino agli uomini segnali riguardanti tutte le cose umane. [I,I,20] Pertanto, grande è il mio stupore, se penso a come gli Ateniesi abbiano potuto essere persuasi che Socrate, circa gli dei, non la pensava da saggio. Proprio lui che, circa gli dei, mai aveva dato il minimo segno di empietà, né in parole, né in opere; ed anzi aveva detto e fatto cose che, in parole ed in opere, sarebbero davvero, e verrebbero giustamente ritenute, quelle del più pio di tutti gli uomini. 

[I,II,1] A me pare anche stupefacente la persuasione di taluni che Socrate fosse colpevole di corruzione dei giovani. Proprio lui che, innanzitutto, in fatto di cosiddetti piaceri sessuali e di quelli della tavola, era il più morigerato di tutti gli uomini. In secondo luogo, proprio lui che davanti ai rigori invernali, alle calure estive e ad ogni sorta di fatica era resistentissimo; e inoltre talmente allenato ad avere bisogno di qualunque cosa con una moderazione tale, che quel pochissimo che possedeva gli era facilmente più che bastante. [I, II,2] Come avrebbe potuto un uomo simile, essendo chi era, far sì che altri giovani fossero empi, delinquenti, ghiottoni, ingolfati nei piaceri sessuali, mollaccioni dinanzi alla fatica? Anzi, egli a molti di costoro fece smettere questi vizi, li fece smaniare per la virtù, dando loro la speranza che, se avessero avuto cura di se stessi, sarebbero diventati uomini dabbene. [I,II,3] Eppure egli non promise mai, in nessuna circostanza, di essere loro maestro in ciò; ma con l’essere ed il rimanere egli manifestamente l’uomo che era, faceva sperare i suoi interlocutori che, imitando lui, tali sarebbero diventati. 

[I,II,4] Socrate non trascurava la cura del corpo, e non lodava quanti invece la trascurano. Disapprovava l’eccesso di alimentazione accoppiata all’eccesso di fatica, ed approvava invece come sufficiente la quantità di fatica che l’animo è in grado di risentire come piacevole. Egli soleva dire che questa è la quantità di fatica sana e sufficiente per il corpo, e quella che non intralcia la sollecitudine che dobbiamo avere per l’animo. [I,II,5] Affettato o pretenzioso non era di certo, né nel modo di vestire né in quello di calzare, e neppure nel suo tenore di vita in generale. Non faceva dei suoi compagni degli appassionati del denaro. Anzi, mentre raffreddava le altrui smanie per esso, si guardava bene dal trasformare in denaro per se stesso la smania altrui di stare in sua compagnia. [I,II,6] Astenendosi infatti da questa pratica, egli giudicava di darsi cura della propria libertà; e soprannominava ‘schiavisti di se stessi’, quanti vendevano la loro conversazione contro un pagamento in denaro, giacché in tal modo diventava per essi obbligatorio dialogare con coloro dai quali venivano pagati. [I,II,7] Socrate era poi stupito dal fatto che qualcuno, professando di insegnare la virtù, guadagnasse del denaro e non ritenesse, invece, che il suo incomparabilmente maggior guadagno sarebbe stato l’acquisizione di un buon amico. Insomma, che costui avesse paura che chi è diventato davvero virtuoso, non abbia poi somma gratitudine verso colui che gli ha reso il più grande dei benefici. [I,II,8] Socrate non professò mai di insegnare la virtù, né promise mai alcunché di simile a nessuno; ma era invece fiducioso che quanti dei suoi seguaci avevano accolto i principi da lui valutati come positivi, per tutta la vita sarebbero stati buoni amici suoi e buoni amici tra di loro. Dunque, come potrebbe un uomo siffatto corrompere i giovani? A meno che il prendersi ogni cura della virtù sia ‘corrompere’. 

[I,II,9] Ma per Zeus, diceva l’accusatore, Socrate faceva sì che i suoi seguaci disdegnassero le leggi vigenti, sostenendo che era da stupidi eleggere quali giudici gente estratta a sorte tra tutti i cittadini; quando invece nessuno vorrebbe utilizzare l’estrazione a sorte per la scelta del pilota di una nave, né di un falegname, né di un flautista, né per alcun altro mestiere che abbisogna di specialisti, i cui errori comunque causano danni molto più lievi di quelli commessi da chi è alla guida dello Stato. Discorsi simili, sosteneva l’accusa, aizzano i giovani a disprezzare il presente Governo e fanno di essi dei violenti. [I,II,10] Io credo invece che quanti praticano costantemente la saggezza e si ritengono capaci di istruire i propri cittadini su ciò che davvero è loro utile, non diventino affatto violenti. Essi sanno bene come alla violenza si congiungano inimicizie personali e pericolose; mentre con la persuasione si ottengano gli stessi risultati senza pericolo alcuno ed amichevolmente. Le vittime di una violenza, infatti, odiano quanti hanno loro sottratto qualcosa; mentre se sono stati persuasi con le buone maniere, si sentono gratificati e mostrano amicizia. Dunque l’uso della violenza non appartiene a quanti praticano la saggezza, ma a coloro il cui potere non è associato ad intelligenza alcuna. [I,II,11] Invero, chi ha l’audacia di usare la violenza abbisogna di non pochi complici, mentre chi è capace di persuadere non ha bisogno di alcun aiuto, dal momento che ritiene certo bastargli la sua capacità di persuasione. A uomini simili non accade mai di commettere omicidi. Chi, infatti, preferirebbe assassinare qualcuno piuttosto che contare su di un vivo e fidato seguace? 

[I,II,12] Ma, sosteneva ancora l’accusatore, una volta diventati discepoli di Socrate, i due, ossia Crizia ed Alcibiade, furono entrambi causa di moltissimi mali per lo Stato. Di tutti i membri del Governo oligarchico, infatti, Crizia fu il più dedito al latrocinio, alle violenze e agli assassini; mentre Alcibiade, per parte sua, dell’insieme dei membri del Governo democratico fu di tutti il più impudente, il più oltraggioso e il più violento. [I,II,13] Se quei due hanno arrecato gravi danni allo Stato, io, per parte mia, non sono affatto qui per ergermi a loro difensore; ma intendo piuttosto raccontare come nacquero le loro abituali frequentazioni con Socrate. [I,II,14] Accadde dunque che questi due individui, ciascuno per sua natura, volessero diventare i più onorati e rispettati di tutti i cittadini Ateniesi; e che tutto il potere fosse nelle loro mani, così da diventare capi di Stato supremi ed indiscussi. Entrambi sapevano bene che Socrate, con le pochissime risorse di cui disponeva, menava una vita di totale indipendenza; che egli era morigeratissimo quanto a qualunque forma di piacere; e che, con il ragionamento, egli era in grado di condurre alle conclusioni che volesse tutti coloro che discutevano con lui. [I,II,15] Osservando che questi erano i fatti, ed essendo tali individui della predetta natura, qualcuno affermerebbe che ambedue smaniavano di condurre la vita di Socrate, imitando la temperanza che quello praticava; oppure che ambedue desideravano le conversazioni con lui perché entrambi sarebbero diventati così più efficaci parlatori ed esecutori dei loro progetti? [I,II,16] Quanto a me, io ritengo che se un dio avesse concesso loro di vivere tutta la vita come l’avevano vista vivere da Socrate, oppure di morire: ebbene, ambedue avrebbero scelto senza dubbio di morire. Ciò divenne evidente dalle azioni che i due effettuarono. Infatti, non appena essi ritennero di essere diventati superiori ai loro colleghi, subito abbandonarono Socrate e si buttarono nella politica, che era lo scopo per cui entrambi avevano desiderato l’amicizia di Socrate. [I,II,17] Forse a queste parole qualcuno obietterebbe che Socrate doveva insegnare ai discepoli per prima cosa la temperanza, e soltanto dopo parlare loro di politica. Io questo non lo nego, ma osservo che i maestri mostrano ai discepoli come essi stessi per primi mettano in opera ciò che professano, accostando poi ai fatti anche le parole. [I,II,18] Io so che anche Socrate dimostrava ai suoi discepoli di essere lui per primo un uomo virtuoso, e che dialogava splendidamente sulla virtù e su tutte le altre faccende umane. E so pure che quei due si comportavano con temperanza finché erano in presenza di Socrate, non per paura di essere puniti o malmenati da lui, ma credendo davvero che, in quelle circostanze, questa fosse per loro la cosa più opportuna da fare. [I,II,19] Forse molti di coloro che si dicono filosofi praticanti, sosterranno l’impossibilità che l’uomo giusto diventi ingiusto, che il temperante diventi oltraggioso; e che chi ha appreso qualcosa di cui c’è apprendimento, possa mai diventarne ignorante. A questo proposito io non la penso così. Osservo, infatti, che come quanti non esercitano costantemente il loro corpo sono poi incapaci di compiere le azioni ad esso richieste; così pure quanti non esercitano costantemente il proprio animo, sono poi incapaci di compiere le azioni ad esso richieste. E in questo modo costoro diventano incapaci sia di effettuare quanto va effettuato, sia di astenersi da quanto ci si deve astenere. [I,II,20] Perciò i padri tengono i figli, anche qualora siano ragazzi giudiziosi, lontani dalla frequentazione di uomini malvagi; giacché mentre la compagnia di uomini probi è già di per sé un esercizio di virtù, quella di uomini malvagi è già la completa dissoluzione di essa. Di ciò è testimone anche quello tra i poeti, che dice: 

‘è dai prodi che imparerai le prodezze;

ma mescolato ai dissennati perderai anche il senno che hai’

e quell’altro che dice:

‘nondimeno, un uomo virtuoso a volte è vizioso;

altre volte è un prode’

[I,II,21] La mia testimonianza è in accordo con le loro parole. Osservo, infatti, che come quanti trascurano di ripetere costantemente le composizioni poetiche in versi, finiscono poi per dimenticarle; così pure quanti non curano la continua ripetizione dei discorsi didascalici, lasciano che essi vadano a finire nel dimenticatoio. E qualora uno abbia dimenticato i discorsi che mettono in guardia la mente, sono stati dimenticati anche i discorsi per i quali smaniava l’animo nostro quando si pasceva di temperanza. Dunque non sorprende che chi ha dimenticato tali discorsi si sia scordato anche della temperanza. [I,II,22] Osservo, inoltre, che quanti si sono lasciati attirare al bere, e che quanti sono inviluppati in tresche amorose, sono meno capaci di curarsi di ciò che merita cura e di tenersi lontani da ciò che non la merita. E molte persone che prima di innamorarsi erano capaci di gestire i propri risparmi, ne diventano incapaci da innamorati, sperperano il loro denaro, e non si astengono più da quei guadagni da cui si tenevano in precedenza lontani poiché li ritenevano vergognosi. [I,II,23] Com’è dunque fattibile che chi in precedenza era temperante tutt’a un tratto non lo sia più; e che da individuo capace di effettuare azioni giuste, egli ne divenga di botto incapace? A me sembra, pertanto, che tutte le azioni virtuose vadano continuamente messe in pratica: che si tratti dunque di una questione di costante esercizio, in particolar modo per la temperanza. È infatti nel nostro corpo stesso che sono stati connaturati all’animo quei piaceri che lo persuadono a non essere temperante, ed a gratificare invece, il più in fretta possibile, proprio quelli ed il corpo. [I,II,24] Finché furono sodali di Socrate, Crizia e Alcibiade riuscirono, avendo lui come alleato, a tenere a freno le loro smanie viziose. Quando però entrambi si allontanarono da Socrate, Crizia fuggì in esilio in Tessaglia, e lì fece comunella con uomini dediti all’illegalità piuttosto che alla giustizia. A sua volta Alcibiade, a causa del suo bell’aspetto essendo terreno di caccia di molte signore del gran mondo; subendo, grazie all’ascendente di cui godeva in città e presso gli alleati, le lusinghe di numerosi uomini di potere; e recitando facilmente il ruolo di primattore grazie al favore popolare di cui godeva: come accade agli atleti che primeggiano facilmente nelle gare e quindi trascurano di allenarsi, così anch’egli non si curò più di se stesso. [I,II,25] Dati questi fatti: due individui orgogliosi per la loro nascita, esaltati per le loro ricchezze, boriosi per il loro potere, lusingati da molti uomini; cosa c’è di sorprendente se entrambi, per tutti questi motivi e per essere stati a lungo lontani da Socrate, divennero oltracotanti? [I,II,26] E poi, se i due commisero delle malefatte, l’accusatore ne accagiona Socrate? E del fatto che Socrate li conobbe entrambi da giovani, quando verosimilmente si è più scriteriati e più sregolati, e ne fece due persone temperanti: ebbene l’accusatore non ritiene Socrate degno neppure della minima lode? In altri casi almeno, non è certo così che si giudica. [I,II,27] Quale flautista, quale citaredo, quale altro maestro che abbia fatto dei propri allievi dei musicisti capaci, è responsabile del fatto che poi essi, frequentando un altro maestro, suonino peggio? Qualora un figlio che passa molto tempo in compagnia di una persona temperante, diventi successivamente malvagio a causa della continua frequentazione di un’altra persona: ebbene, quale padre incolpa di ciò il primo amico del figlio e invece non lo loda, tanto più quanto più il figlio si mostra peggiore in seguito alla frequentazione del secondo amico? I padri stessi, qualora siano persone temperanti, pur convivendo con i figli sono non responsabili delle malefatte di questi ultimi. [I,II,28] Giustizia voleva che anche Socrate fosse giudicato allo stesso modo. Se dunque egli avesse commesso qualche azione spregevole, sarebbe apparsa del tutto verosimile la sua malvagità. Ma se invece egli aveva trascorso tutta la sua vita praticando costantemente la temperanza; come poteva egli, secondo giustizia, essere ritenuto responsabile di una viziosità che non risiedeva affatto in lui? [I,II,29] E tuttavia se, pur senza fare alcunché di malvagio, vedendo gli altri due effettuare azioni spregevoli, <Socrate> li lodava: allora egli giustamente sarebbe stato da rimproverare. A questo proposito, quando si accorse che Crizia voleva diventare l’amante di Eutidemo, e che cercava di abusare di lui come fanno quanti godono dei piaceri sessuali legati al corpo; Socrate lo trattenne dal farlo, dicendogli che il mendicare l’elemosina dall’amato, al quale l’amante vuole invece mostrarsi uomo di gran valore, come fanno i poveracci, supplici e incapaci di ricambiare, e per di più per nulla di nobile; non era un’azione da persona libera, e che si trattava di cosa per nulla confacente ad un uomo dabbene. [I,II,30] Ora, poiché Crizia non diede affatto retta a tali ammonimenti, né prese le distanze da Eutidemo, si racconta che Socrate, in presenza di molte altre persone e dello stesso Eutidemo, disse: “A me pare proprio che Crizia sia in preda ad una porcata, giacché smania in continuazione di strofinarsi contro Eutidemo, come fanno i maiali contro le pietre”. [I,II,31] Da quel momento Crizia prese ad odiare Socrate, al punto che quando egli, insieme con Caricle, divenne uno dei legiferatori dei Trenta, memore del suo rancore per Socrate, fece scrivere nelle leggi che ‘l’insegnamento dell’arte delle parole’ era da considerarsi a tutti gli effetti illegale. Questo fu il modo capzioso che Crizia scovò per ingiuriare Socrate, non avendo nei fatti alcun aggancio per metterlo con le spalle al muro, se non quello di imputargli una pratica costantemente attribuita a tutti i filosofi, e che lo calunniava davanti alla maggioranza dei cittadini. Io stesso, infatti, non ho mai sentito parlare così di Socrate; né mi sono mai accorto che qualcun altro abbia parlato di lui in questi termini. [I,II,32] Comunque , la cosa si riseppe. Infatti, mentre i Trenta continuavano a far uccidere molti dei cittadini, e non dei peggiori; ed istigavano molti altri a commettere delle ingiustizie, Socrate una volta disse: “A me sembra stupefacente che chi è diventato pastore di una mandria di buoi, e ne rende minore il numero dei capi e ne peggiora la qualità, non ammetta di essere un cattivo mandriano. Ma ancora più stupefacente a me sembra che chi è diventato capo di Stato e ne rende i cittadini minori di numero e peggiori di qualità, non si vergogni né creda di essere un cattivo capo di Stato”. [I,II,33] Quando ciò fu riferito a Crizia e a Caricle, i due convocarono Socrate, gli mostrarono il testo della legge e gli vietarono categoricamente di discutere con i giovani. Socrate chiese ad ambedue se gli fosse concesso di porre loro delle domande, nel caso non capisse qualcosa dei loro decreti. I due risposero affermativamente. [I,II,34] “Quanto a me”, disse allora Socrate, io sono prontissimo ad ubbidire alle leggi. Ed affinché io non faccia qualcosa di contrario alla legge, non per ignoranza bensì a mia insaputa, questo intendo sapere esplicitamente da voi: ‘l’arte delle parole’ dalla quale mi intimate di astenermi, voi ritenete che sia quella consistente di argomentazioni corrette, oppure quella consistente di argomentazioni scorrette? Se voi ritenete che si tratti di quella consistente di argomentazioni corrette, è evidente che io dovrei astenermi dall’argomentare correttamente. Se invece si tratta dell’arte consistente di argomentazioni scorrette, è evidente che io dovrei sforzarmi di argomentare correttamente”. [I,II,35] A questo punto Caricle, in un empito d’ira, gli disse: “Socrate, siccome tu sei un ignorantone, detto in un modo più comprensibile per te, il nostro decreto significa questo: tu non devi assolutamente più dialogare con i giovani”. Socrate gli rispose: “Affinché non ci siano ambiguità sulla mia stretta obbedienza a quanto è ordinato nel vostro decreto, definitemi esattamente fino a quale età la legge vuole che gli uomini siano dei giovani”. E Caricle chiarì: “Esattamente fino a quando non è concesso agli uomini far parte del Consiglio dei 500; giacché fino ad allora essi non sono capaci di intendere e di volere. Pertanto ti è vietato dialogare con persone che siano al di sotto dei trent’anni”. [I,II,36] “Neppure nel caso”, chiese Socrate, “che io stia comprando qualcosa? Oppure se uno più giovane di trent’anni mi sta vendendo qualcosa, non posso chiedergli a che prezzo me la vende?” “Per cose simili, sì che puoi”, rispose Caricle, “ma proprio tu, caro Socrate, sei solito fare la maggior parte delle tue domande sapendo già in anticipo quale sarà la risposta. Queste sono le domande che non devi fare”. “Dunque non devo rispondere”, chiese Socrate, “ad un giovane il quale mi chieda, ed io lo sappia, per esempio: ‘dove abita Caricle?’; oppure: ‘dov’è Crizia?’ ” “Per cose simili, sì che puoi”, rispose Caricle. [I,II,37] “Dunque, caro Socrate”, aggiunse Crizia, “ti toccherà astenerti dai tuoi calzolai, dai tuoi falegnami e dai tuoi fabbri ferrai, i quali secondo me ne hanno pure le scatole piene di essere diventati notori per opera tua”. “Astenermi quindi”, disse Socrate, “anche dal trattare gli argomenti ad essi legati: ossia alle questioni del giusto, del sacrosanto e così via?”. “Sì, per Zeus”, sottolineò Caricle, “e anche dai mandriani. Altrimenti, sta bene in guardia dal non fare tu pure diminuire il numero dei buoi”. [I,II,38] A questo punto divenne evidente che qualcuno aveva riferito ai due il discorsetto di Socrate sulla mandria di buoi, e che per questo motivo essi erano furibondi con lui. Della qualità dello stare insieme di Crizia con Socrate, e del modo in cui si trattavano l’un l’altro, s’è detto abbastanza. 

[I,II,39] Io aggiungerei che nessuno riesce educato ad opera di un educatore che non gli sia gradito. A Crizia e ad Alcibiade, Socrate non era affatto gradito. Entrambi lo frequentarono tutto il tempo che lo frequentavano, ma fin dal principio il fine da cui i due erano mossi, era quello di diventare dei capi di Stato. E pertanto, quando erano insieme a Socrate, cercavano il modo di discutere con nessun altro, se non con coloro che maneggiavano faccende politiche. [I,II,40] Si racconta infatti che Alcibiade, ancor prima di avere raggiunto i vent’anni di età, quando Pericle era il suo tutore e il capo dello Stato, discutesse con lui delle leggi in questi termini. [I,II,41] “Dimmi, Pericle”, si narra che Alcibiade gli chiedesse, “avresti voglia di insegnarmi cosa sia una legge?” “Volentieri”, gli rispose Pericle. “Allora insegnamelo, in nome degli dei”, lo supplicò Alcibiade, “giacché quando io sento che alcuni uomini sono lodati per essere ligi alla legge, sarebbe giusto, io credo, che questa lode non toccasse a chi non sa cosa sia una legge”. [I,II,42] “Alcibiade”, gli rispose Pericle, “la spiegazione che cerchi sul cosa sia una legge, non è faccenda complicata da chiarire. Leggi sono tutte quelle deliberazioni scritte che la maggioranza dei cittadini, raccolta in assemblea, ha convalidato; specificando cosa bisogna fare e cosa bisogna non fare”. “E la decisione della maggioranza”, aggiunse Alcibiade, “è sempre quella di fare il bene oppure quella di fare il male?” “Per Zeus, giovanotto mio”, fu la risposta, “sempre il bene e mai il male”. 

[I,II,43] “Ma se, come avviene negli Stati retti da una oligarchia, non è la maggioranza dei cittadini ma una minoranza riunita in assemblea, a scrivere cosa è d’uopo fare: queste deliberazioni cosa sono?” “Tutto ciò che”, fu la risposta di Pericle, “è stato deliberato e messo per iscritto su cosa sia d’uopo fare, da chi è a capo dello Stato: ebbene, si chiama ‘legge’”. “E dunque, se un tiranno, messosi a capo dello Stato, scrive quel che i cittadini debbono fare: anche queste deliberazioni sono delle leggi?” “Anche quanto scrive un tiranno che sia capo dello Stato”, rispose Pericle, “si chiama ‘legge’”. [I,II,44] “Cosa sono allora violenza e illegalità? Non sono forse”, sottolineò Alcibiade, “le azioni di chi, essendo più forte, costringe chi è più debole, non con la persuasione ma con la forza bruta, a fare qualunque cosa paia a lui?”. “Credo”, rispose Pericle, “che si tratti proprio di questo”. “E dunque illegale è tutto ciò che un tiranno fa mettere per iscritto e costringe i cittadini i fare, senza averli persuasi?” “A me sembra”, disse Pericle, “che sia proprio questo. Quindi rinnego quanto da me detto poco fa, cioè che sia legge ciò che un tiranno fa mettere per iscritto senza il consenso dei cittadini”. [I,II,45] “Quindi, tutto ciò che una minoranza, senza il consenso della maggioranza, fa mettere per iscritto con l’uso della forza bruta, lo chiameremo violenza oppure lo chiameremo non-violenza?” “A me sembra”, ribadì Pericle, “che tutto quanto, sia esso messo per iscritto o non per iscritto, uno costringe un altro a fare contro il suo consenso, non è una legge ma è piuttosto violenza”. “E ciò che la stragrande maggioranza dei cittadini, usando la forza bruta contro i possidenti facoltosi, fa mettere per iscritto contro il loro consenso, non sarebbe violenza piuttosto che legge?” [I,II,46] “Va bene così, Alcibiade”, disse Pericle, “alla tua età anche noi eravamo abilissimi in cose di questo genere. Infatti questi giochetti anche noi li facevamo per esercizio, e ci sofisticavamo sopra. Erano proprio tali e quali a quelli sui quali anche tu ora mi sembri esercitarti”. Ed Alcibiade gli rispose: “Pericle, oh! se io t’avessi incontrato a quel tempo, quand’eri al culmine della tua abilità in questi esercizi!” [I,II,47] Quindi, non appena concepirono di essere di un livello superiore a quello dei comuni governanti, Crizia e Alcibiade cessarono di frequentare Socrate. Peraltro, ad essi Socrate non riusciva affatto gradito; e, quando capitasse loro di trovarsi con lui, sempre si adontavano per le sue contestazioni dei loro errori. Si diedero perciò a praticare la politica, che è il motivo per cui si erano avvicinati a Socrate. [I,II,48] Invece Critone era un vero discepolo di Socrate, come lo erano Cherefonte, Cherecrate, Ermogene, Simmia, Cebete, Fedone ed altri ancora; i quali furono suoi sodali, non allo scopo di diventare capaci di discorsi parlamentari o forensi, ma affinché, una volta diventati uomini dabbene, diventassero capaci di trattare come si deve in casa, con i domestici, con i familiari, con gli amici, con lo Stato e con i cittadini. E nessuno di costoro, né da più giovane né da più vecchio, fece mai del male, né si attirò delle accuse. 

[I,II,49] “Ma Socrate”, diceva l’accusatore, “insegnava a infangare la figura del padre. Intanto, persuadendo i suoi sodali che lui stava facendo di essi delle persone più sapienti dei loro padri; e poi affermando che era legale far incatenare chi era demente, fosse pure il proprio padre; prendendo a testimone di ciò la legalità del fatto che l’uomo più incolto fosse fatto incatenare da chi era più sapiente di lui”. [I,II,50] In realtà, l’opinione di Socrate era che chi fa incatenare qualcuno per incultura, secondo giustizia dovrebbe essere pure lui fatto mettere in catene da coloro che hanno le conoscenze che egli non ha. Su simili problemi, Socrate prendeva spesso in considerazione per cosa differisca la pazzia dall’incultura; e mentre riteneva che mettere in catene i pazzi fosse cosa utile sia per loro che per i loro amici; pensava invece che chi non aveva le dovute conoscenze, era giusto che le imparasse da chi quelle conoscenze le aveva. [I,II,51] “Ma Socrate”, insisteva l’accusatore, “rendeva disonorevoli agli occhi dei suoi sodali non soltanto i padri, ma anche gli altri congeneri; poiché sosteneva che i congeneri non sono di giovamento alcuno né ai sofferenti né a coloro che sono sotto processo, in quanto l’aiuto ai primi viene dai medici, ed ai secondi da coloro che sanno fare gli avvocati difensori. [I,II,52] A proposito degli amici”, aggiungeva poi l’accusatore, “Socrate sosteneva che la loro benevolenza non è di alcun pro, a meno che essi non siano capaci d’essere di qualche reale giovamento; e che i soli ad essere degni d’onore sono coloro che sanno cos’è che bisogna fare e sono capaci di spiegarlo a parole. Convincendo dunque i giovani di essere al vertice della sapienza e di essere il più capace di tutti a rendere sapienti gli altri, egli disponeva i suoi sodali in modo tale che, ai loro occhi, tutti gli altri nulla valevano a paragone di lui”. [I,II,53] Io, queste parole sui padri, sugli altri congeneri e sugli amici, ho visto Socrate pronunciarle. Ed oltre a queste parole, gli ho anche sentito dire che, una volta che l’animo sia uscito dal corpo, animo nel quale soltanto prende sede la saggezza, tutti costoro portano fuori casa e fanno sparire il più in fretta possibile il corpo del familiare, sia pur egli il più stretto. [I,II,54] Egli diceva anche, a proposito del corpo, che pur essendo esso, quando è in vita, ciò che più di tutto l’uomo ama, qualunque parte di esso che sia inutile o inservibile, è però l’uomo stesso a togliersela; oppure ad offrirla ad un altro perché gliela tolga. Sono gli uomini stessi a tagliarsi le unghie, i capelli e i calli; e ad offrire ai medici certe parti del corpo da mozzare e da cauterizzare pur tra dolori e sofferenze; ritenendo anzi che, per via di ciò, tocchi pagare ai medici anche un compenso. E sono ancora gli uomini stessi a sputare la loro saliva il più lontano possibile, giacché rimanendo essa nella bocca non è loro di alcun giovamento, ma anzi assai li danneggia. [I,II,55] Socrate, queste parole le pronunciava, non insegnando a sotterrare vivo un padre o a tagliare a pezzi se stessi; ma mettendo in tutta evidenza che ciò ch’è privo di mente è spregevole; e invitando quindi a dedicare ogni studio all’essere saggi e davvero giovevoli al massimo grado; affinché chi vuole essere tenuto in onore dal padre o dal fratello o da qualcun altro, ciò non trascuri, fidandosi del fatto di essere un familiare stretto, ma invece si sforzi di essere di reale giovamento a coloro dai quali vuole essere tenuto in onore. 

[I,II,56] L’accusatore sosteneva poi che Socrate trasceglieva i peggiori versi dei più celebrati poeti, e che usando questi come testimonianze, insegnava ai suoi sodali come essere malfattori e tirannici. Il verso di Esiodo è questo:

‘Nessun lavoro è un’onta, l’inazione invece è un’onta’

e Socrate sosteneva che il poeta, con questo verso, intimava di non astenersi da qualunque genere di lavori, fossero essi ingiusti oppure indecenti, e di fare anche questi a motivo di guadagno. [I,II,57] In realtà, Socrate avrebbe giudicato del tutto ammissibile considerare cosa giovevole e buona per un uomo l’essere un lavoratore, ed invece l’essere ozioso una cosa dannosa e cattiva: dunque un bene il lavorare e un male l’oziare. Egli sosteneva quindi che quanti fanno qualcosa di buono, stanno lavorando e sono lavoratori; mentre coloro che giocano a dadi o fanno qualcos’altro di malvagio e di nocivo, egli li soprannominava ‘gli oziosi’. Tenuto conto di queste precisazioni, risulterebbe corretto il verso di prima:

‘Nessun lavoro è un’onta, l’inazione invece è un’onta’

[I,II,58] L’accusatore denunciava poi che spesso Socrate citava questo passaggio di Omero, nel quale si dice che Odisseo:

‘Ed ogni capo o scelto eroe che incontrava,

con parole serene lo tratteneva standogli accanto:

“Pazzo, non va che a te come a un vile io faccia paura.

Ma siedi, e fa’ che siedano gli altri soldati”.

Chiunque poi del volgo vedeva e trovava a urlare,

con lo scettro lo batteva, con parole sgridava:

“Pazzo, stattene fermo a sedere, ascolta il parere degli altri,

che sono più forti di te; tu sei vigliacco e impotente,

non conti nulla in guerra e nemmeno in Consiglio”

e che lo spiegava asserendo che così il poeta loderebbe le solenni bastonature di popolani e di poveracci. [I,II,59] Invece Socrate non intendeva affatto dire questo, altrimenti avrebbe creduto di dover essere lui stesso preso a bastonate. Egli intendeva piuttosto far notare che quanti non sono di alcun giovamento né a parole né a fatti, che sono incapaci di essere d’aiuto all’esercito, allo Stato ed al popolo stesso, qualora ve ne sia il bisogno; e che fanno i gradassi soprattutto contro il popolo: ebbene le azioni di costoro devono essere impedite in ogni modo, quand’anche si trattasse, caso mai, di persone ricchissime. 

[I,II,60] Quanto a Socrate, egli era manifestamente tutto il contrario di simile gente, essendo egli uno favorevole al popolo e un filantropo. Egli, infatti, accettava di buon grado la compagnia di persone tanto della città quanto straniere, che fossero desiderose di frequentarlo; e non fece mai loro la richiesta di alcun pagamento per essere ammessi tra i suoi sodali, ma alle domande di tutti sovveniva in abbondanza con i suoi ripensamenti. Alcuni di questi sodali, si appropriavano poi gratuitamente di piccole parti di questi suoi ripensamenti, e li vendevano a gran prezzo ad altre persone, mostrando così di essere niente affatto dalla parte del popolo, visto che non volevano mai intavolare un discorso con chi non fosse fornito di denaro contante. [I,II,61] A confronto di altri uomini, Socrate dette anche un grandissimo lustro alla propria città; molto più di quanto fece il Lacedemone Lica, il quale si fece un gran nome per questo: ossia perché riceveva a cena gli ospiti stranieri che venivano a Sparta nel tempo in cui si celebravano le Gimnopedie. Socrate, invece, lungo il corso della sua intera vita, mettendo a disposizione di ognuno le grandissime doti che aveva, giovò a tutti quanti vollero servirsi di lui, giacché coloro con i quali si trovò insieme, sempre li congedava dopo averli resi migliori di prima. [I,II,62] Essendo dunque chi era, a me Socrate sembrava una persona degna di essere trattata della città con ogni onore, e non condannata a morte. E chi considerasse la sua vicenda da un punto di vista legale, troverebbe questo stesso risultato. Infatti, la pena di morte è la condanna che spetta a chi si sia manifestamente dimostrato un ladro, un rubavestiti, un tagliaborse, uno scassinatore, uno che riduce qualcuno in schiavitù, uno che si è macchiato di furti sacrileghi: tutti delitti dai quali Socrate si tenne lontano quant’altri uomini mai. [I,II,63] Invero, per la sua città egli non fu mai causa del sopravvenire di una guerra finita male, di una sedizione civile, né di episodi di tradimento, né di qualunque altra sorta di malefatta. In privato, non spogliò mai uomo alcuno dei suoi beni, né lo inviluppò in male alcuno; né fu mai denunciato per alcun episodio del genere. [I,II,64] Come poteva egli essere colpevole di quanto era scritto nell’atto di accusa? Egli, invece di non legittimare l’esistenza degli dei, come era stato scritto nella denuncia, era, al contrario, un manifesto cultore degli dei, più di quanto lo fossero tutti gli altri uomini. E invece di rovinare i giovani, visto che l’accusatore pure di ciò lo incolpava, egli si dava cura di far cessare le smanie malvage di quanti tra i suoi sodali di queste fossero preda, e li esortava invece a smaniare per quella nobilissima e grandiosissima virtù, grazie alla quale gli Stati e le famiglie prosperano. Così facendo, come poteva Socrate non essere meritevole di grandi onori da parte della sua città?

[I,III,1] Ora, siccome a me pare che Socrate giovasse ai suoi sodali, dimostrando, sia nei fatti che a parole, di cosa era capace; scriverò ora, su queste vicende, ciò di cui conservo memoria. Quanto al culto degli dei, era manifesto che egli operava e parlava al modo in cui la Pizia rispondeva a coloro che la interrogavano sul come comportarsi circa i riti sacrificali, sul culto degli antenati o su qualcos’altro del genere. E siccome il responso oracolare della Pizia è che quanti sono ligi alle leggi dello Stato sono al tempo stesso pii verso gli dei, Socrate così faceva lui stesso, e questo ammoniva gli altri a fare; mentre quanti facevano diversamente, egli la riteneva gente ossessionata dagli scrupoli. [I,III,2] L’auspicio che rivolgeva agli dei era semplicemente che essi gli concedessero dei beni, dato che gli dei sanno benissimo quali siano i beni. Coloro che invece auspicano per se stessi dell’oro o dell’argento o il potere assoluto o qualcos’altro del genere, egli riteneva che auspicassero per sé nulla di diverso dal buon esito di una posta al gioco dei dadi, o di una rissa o di qualcun’altra di quelle cose delle quali è manifestamente impossibile conoscere in anticipo come riescano. [I,III,3] Offrendo egli piccoli sacrifici che traeva dalle sue piccole sostanze, credeva però di non essere affatto da meno di coloro che offrivano molti e grandi sacrifici, traendoli dalle loro molte e grandi sostanze. Soleva anche dire che non si confaceva affatto agli dei il rallegrarsi più delle grandi offerte sacrificali che delle piccole, giacché così facendo sarebbero risultate loro gradite più le offerte dei malvagi che quelle degli uomini probi. Egli, quindi, riteneva che gli dei si rallegrino di più degli onori loro resi da quanti sono loro più devoti., e lodava questo verso: 

‘Agli dei immortali offri sacrifici secondo le tue possibilità’

aggiungendo che nel trattamento degli amici, degli stranieri, e qualunque sia lo stile di vita, quel detto ‘offri secondo le tue possibilità’ era un bell’ammonimento. [I,III,4] Se qualcosa gli sembrava essere una segnalazione divina, piuttosto cha a disobbedire ai segnali degli dei, sarebbe stato più facile convincerlo a prendere quale guida un cieco che non conosce la strada, invece di qualcuno che ha un’ottima vista e che conosce la strada. Quanto agli altri, egli denunciava la stupidità di coloro che, per custodirsi immuni dal discredito presso gli uomini, fanno qualcosa che è contrario ai segnali degli dei. Quanto a lui, disdegnava tutte le opinioni umane, se paragonate al consiglio degli dei. [I,III,5] Il suo stile di vita comportava l’educazione sia dell’animo che del corpo; e seguendo tale stile di vita, a meno che non accada qualcosa di sovrumano, un uomo se la passerebbe sempre con fiducia, e nella piena sicurezza di non mancare mai della necessaria quantità di denaro da spendere. Era così frugale, poi, che io non so davvero se uno possa lavorare tanto poco da non ricevere per mercede almeno la somma che a Socrate bastava per vivere. Consumava la quantità di cibo strettamente necessaria a mangiare di gusto, ed era preparato a considerare già l’appetito quale il suo condimento. Qualunque bevanda gli era gradita, visto che egli non beveva se non aveva sete. [I,III,6] Se qualche volta gli veniva voglia di andare ad un pranzo al quale era stato invitato, gli riusciva facile il tenersi ben lontano da ciò che è invece gravosissimo da evitare per la maggioranza della gente, ossia il rimpinzarsi di cibo assai al di là della sazietà. A quanti erano incapaci di fare come lui, egli consigliava di tenersi ben lontani almeno dagli aperitivi, ossia da quei cibi che invogliano coloro che non hanno fame, a mangiare; e coloro che non hanno sete, a bere; poiché soleva dire che si tratta di bocconi che guastano lo stomaco, la testa e l’animo. [I,III,7] A scherno dei più, egli era solito dire di credere che Circe trasformi gli uomini in maiali, facendoli pranzare a base di una gran quantità di siffatti aperitivi; e che Odisseo non diventi un maiale sia per ciò che Ermes gli somministra, sia per la padronanza che egli ha di se stesso, astenendosi così dall’accostarsi a quegli aperitivi, ed a rimpinzarsene oltre la sazietà. 

[I,III,8] Su tali argomenti, questo era ciò che egli soleva dire, un po’ scherzando e un po’ facendo sul serio. Quanto ai piaceri sessuali, egli esortava fortemente ad astenersi dai bei giovanotti, giacché non è facile che rimanga temperante chi si accosta a siffatti piaceri. Una volta, avendo saputo che Critobulo, il figlio di Critone, aveva baciato il figlio di Alcibiade, che era un bel giovanotto, Socrate chiese a Senofonte: [I,III,9] “Dimmi un po’, Senofonte, non ritenevi tu che Critobulo fosse una persona temperante piuttosto che sfrontata, e preveggente piuttosto che temeraria?” “Sì, cero che lo credevo” gli rispose Senofonte. “Da questo momento in poi, ritienilo una testa calda pronta a tutto; uno che farebbe i salti mortali dentro e fuori di un cerchio di spade o che salterebbe dentro il fuoco”. [I,III,10] “Ed è vedendolo fare cosa”, chiese Senofonte, “che lo hai riconosciuto capace di simili prodezze?” “Cosa ha fatto? Costui ha avuto l’ardire di baciare il figlio di Alcibiade, che è bellissimo di viso e nel fior degli anni”. “Ma se questa è temerarietà”, sorrise Senofonte, “mi ritengo anch’io pronto a correre un rischio simile!”. [I,III,11] “Oh te infelice!”, continuò Socrate, “Cosa credi di sperimentare, dopo avere baciato un bel ragazzo? Non è forse vero che all’istante sei diventato uno schiavo, mentre prima eri un uomo libero; uno che spende molto denaro per dei piaceri dannosi; uno che ha pochissimo tempo libero da dedicare al vivere da galantuomo, e che si dedica invece interamente a farsi costringere ad azioni alle quali non si dedicherebbe neppure se fosse pazzo?” [I,III,12] “Per Eracle”, disse Senofonte, “quanto è terribile la forza che tu attribuisci al bacio!” “E te ne stupisci?”, continuò Socrate, “Non sai che i falanghi, pur non arrivando neppure alla grandezza di un mezzo obolo, quando s’attacchino alla bocca, tribolano gli uomini con doglie strazianti che li mandano fuori di senno?” “Sì, per Zeus”, rispose Senofonte, “lo so; perché i falanghi iniettano qualcosa con il loro morso”. [I,III,13] “Ma stupidotto”, gli disse Socrate, “credi tu che baciando i bei ragazzi, costoro, soltanto perché tu non lo vedi, non iniettino in te qualcosa? Non sai che questa belva, chiamata un ‘bel ragazzo nel fior degli anni’, è di molto più terribile dei falanghi; in quanto questi iniettano qualcosa soltanto dopo essersi attaccati alla loro vittima; mentre il bel ragazzo non ha alcun bisogno di toccare la vittima, ma basta che uno lo veda perché egli da lontano inietti nella sua vittima qualcosa che la farà impazzire? [E forse è questo il motivo per cui gli ‘amorini’ sono chiamati arcieri, giacché è da lontano che i bei ragazzi feriscono] Perciò io ti consiglio, mio caro Senofonte, qualora tu veda un bel ragazzo, di fuggire a gambe levate; e a te, Critobulo, consiglio di passare un anno intero lontano da qui: e così, forse a stento, nel frattempo risanerai”. [I,III,14] Per quanto concerne i piaceri sessuali, Socrate pensava, dunque, che così dovessero comportarsi tutti coloro che non hanno di essi il sicuro dominio: ossia che l’animo non accetti i piaceri sessuali dei quali il corpo non ha assoluto bisogno, e che non creino impacci all’animo quelli dei quali il corpo ha invece assoluto bisogno. Quanto a se stesso, poi, egli era, a questo riguardo, chiaramente così preparato, che dai bei ragazzi nel fior degli anni si asteneva più facilmente di quanto gli altri si astenessero dai ragazzi laidissimi e stagionatissimi. [I,III,15] Quanto al cibo, al bere e ai piaceri sessuali, così egli disponeva per sé; e giudicava di sentirsi appagato a sufficienza, certamente non meno di quanti si davano un gran da fare per essi, ed anzi di andare incontro ad angustie molte meno volte di loro. 

[I,IV,1] Se vi sono persone le quali ritengono che Socrate era diventato, sì, abilissimo nell’esortare gli uomini alla virtù, e però incapace di prenderli e condurli fino ad essa, come taluni scrivono e raccontano quando il discorso cade su di lui: ebbene, che costoro analizzino non soltanto le affermazioni che egli, a mortificazione di coloro che credono di sapere tutto, confutava ponendo loro delle domande; ma anche ciò che egli diceva quando passava l’intera giornata in compagnia; e soltanto dopo, queste persone valutino la capacità di Socrate di rendere migliori i suoi sodali. [I,IV,2] Parlerò in primo luogo delle cose che una volta ho sentito dire da lui a proposito del suo démone, mentre dialogava con Aristodemo, quello soprannominato ‘il piccolo’. Avendo appreso che costui non offriva sacrifici agli dei, non rivolgeva loro preghiere, non usava la mantica, e che derideva pure quanti praticavano simili attività, Socrate gli chiese: “Dimmi un po’, Aristodemo, esistono degli uomini che tu hai ammirato per la loro sapienza?” “Certamente esistono” rispose Aristodemo. [I,IV,3] E Socrate aggiunse: “Dimmi i loro nomi”. “Dunque, quanto alla poesia epica, colui che io ho ammirato di più è Omero; quanto alla ditirambica è Melanippide, quanto alla tragedia è Sofocle, quanto alla scultura è Policleto e quanto alla pittura è Zeusi”. [I,IV,4] “E a te sembrano più degni di meraviglia i facitori di simulacri privi di mente e di moto, oppure i facitori di esseri viventi dotati di mente e capaci di varie attività?” “Per Zeus, di sicuro i facitori di esseri viventi, se codesti nascono non per qualche caso fortuito, ma ad opera di un facitore intelligente”. “Ora, delle cose di cui è impossibile congetturare lo scopo, e di quelle che sono manifestamenti fatte in vista di un qualche giovamento: quali delle due giudichi originate dalla sorte, e quali originate dall’intelligenza?” “Si confà che opera dell’intelligenza siano quelle nate per giovare”. [I,IV,5] “Non ti pare, dunque, che il facitore degli uomini li abbia fin da principio dotati di sensi, grazie ai quali percepire ciascuna delle cose che li circondano: gli occhi per vedere le cose visibili e le orecchie per sentire i suoni? E gli odori sarebbero per noi di qualche pro, se noi non fossimo stati dotati, in aggiunta, delle narici? E quale sensazione avremmo noi del dolce, dell’aspro, del piacevole, se non fosse stata fatta la lingua, che attraverso la bocca le discerne una dall’altra? [I,IV,6] Oltre a queste, non pare anche a te che somiglino ad opere della prònoia anche altre cose che dirò adesso? Poiché quello della vista è un organo debole, l’occhio è stato dotato di porte, quelle che usiamo chiamare palpebre; sicché quando c’è bisogno di utilizzare la vista, le palpebre si spalancano, e invece quando dormiamo esse collabiscono e spengono la vista. Affinché poi i venti non li danneggino, la natura ha dato agli occhi, a mo’ di filtro, le ciglia; e al di sopra degli occhi, a mo’ di gronda, sporgono le sopracciglia, affinché neppure il sudore che scende dal capo sia loro di nocumento. L’organo dell’udito accoglie tutti i suoni, senza però esserne mai troppo ripieno. I denti incisivi di tutti gli animali sono adatti a tagliare il cibo, mentre quelli molari sono fatti per ricevere il cibo da quelli e per macinarlo. La bocca, grazie alla quale gli animali ingeriscono i cibi che appetiscono, è posta vicino agli occhi e alle narici. Poiché gli escrementi sono di odore sgradevole, lo sbocco del loro canale è volto verso la parte posteriore del corpo, ed è posto il più lontano possibile dagli organi di senso. Pertanto, di tutte questa cose così pronoeticamente effettuate, tu dubiti se esse siano opere del caso oppure dell’intelligenza?” [I,IV,7] “No, per Zeus”, rispose Aristodemo, “a chi analizza a fondo la faccenda, queste opere appaiono come il capolavoro di un demiurgo sapiente ed amante degli animali”. “E l’ingenerare negli animali la pulsione alla generazione dei figli, nelle madri la pulsione ad allevarli, e nei figli allevati la grandissima bramosia di vivere, e la grandissima paura della morte?” “Senza dubbio, anche queste cose appaiono opere di qualcuno che ha deliberato che esistessero gli animali”. [I,IV,8] “Secondo te, ritieni di avere in te qualcosa che è dotato di raziocinio?” “Interrogami, e io ti risponderò”. “Credi tu che al di fuori di te, da nessun’altra parte esista qualcosa dotato di raziocinio? Tu sai di avere nel tuo corpo una piccola quantità di terra, terra che di suo è tantissima; una esigua quantità di acqua, che è molta anch’essa; e una certa quantità degli altri elementi, che sono in quantità enorme; e che ad opera di chi ha preso di ciascuno una piccola parte, è stato messo insieme armoniosamente il tuo corpo? Dunque la mente, che da sola non sta da nessuna parte, donde credi tu di averla fortunosamente ghermita? E queste cose che sono in quantità stragrande e di una moltitudine illimitata, credi tu che si dispongano ordinatamente grazie ad una qualche forma di assenza di raziocinio?” [I,IV,9] “Sì, per Zeus; giacché non ne vedo gli artefici, come invece vedo gli artigiani artefici delle opere d’arte che qui da noi si producono”. “Infatti, neppure vedi l’animo tuo, che è il signore del corpo. Eppure è grazie all’animo che hai la potestà di dire che tutto ciò che fai, lo fai non per intelligenza ma per caso”. [I,IV,10] “Socrate, io non disdegno il démone”, esclamò Aristodemo, “ma lo ritengo qualcosa di troppo grandioso perché esso abbia bisogno del mio culto”. “Dunque, quanto più grandioso è il démone che si degna di prendersi cura di te”, gli rispose Socrate, “tanto maggiore è il dovere che hai di rendergli onore”. [I,IV,11] “Socrate, tu lo sai bene. Se io ritenessi”, continuò Aristodemo, “che gli dei si preoccupano di qualche faccenda che riguarda gli uomini, ebbene io non ne trascurerei il culto”. “E perché ritieni che gli dei non si preoccupino degli uomini? Gli dei, infatti, in primo luogo hanno fatto dell’uomo, unico tra gli animali, un essere capace di stare in posizione eretta; e questa posizione eretta fa sì che egli possa vedere più lontano, guardare meglio le cose che gli stanno al di sopra, e in tal modo subire da loro meno danni. In secondo luogo, mentre agli altri animali, che prima strisciavano soltanto, gli dei diedero i piedi, piedi che concedono loro soltanto la possibilità di camminare; all’uomo diedero invece anche le mani; mani con le quali noi operiamo la maggior parte delle azioni, e grazie alle quali siamo molto più felici di quelli. [I,IV,12] Quanto alla lingua, benché tutti gli animali ne abbiano una, gli dei fecero sì che soltanto la lingua dell’uomo fosse capace di entrare in contatto, ora qui e ora là, con parti diverse della bocca; di articolare così la voce, e quindi di segnalare qualunque cosa tra di noi si voglia. Inoltre, quanto ai piaceri sessuali, gli dei li hanno concessi agli altri animali limitandoli unicamente ad un certo periodo dell’anno; mentre a noi li hanno concessi in godimento continuo, fino alla vecchiaia”. [I,IV,13] Eppure non bastò alla divinità il prendersi cura del corpo dell’uomo; ma, cosa ancor più grandiosa, essa ingenerò in lui un animo di somma eccellenza. Infatti, in primo luogo, l’animo di quale altro animale si accorge dell’esistenza di divinità che hanno disposto in ordine perfetto i grandissimi e splendidi corpi celesti? Quale altra schiatta, se non quella degli uomini, rende culto agli dei? Quale specie di animo è più capace di quello umano di premunirsi in anticipo contro la fame, la sete, il freddo, il caldo; di curare le malattie, di tenere allenata la forza fisica, di faticare per apprendere; e più capace di tenere a mente quanto ha sentito o visto o imparato? [I,IV,14] Non ti è evidente a sufficienza che, a differenza degli altri animali, gli uomini passano la vita come degli dei, essendo per natura superiori agli animali sia di corpo che d’animo? Neppure se avesse il corpo di un bue e l’intelligenza di un uomo, egli potrebbe fare ciò che vuole. Né gli animali che hanno le mani ma sono privi di raziocinio, hanno alcun vantaggio sugli altri. Tu che invece hai ottenuto in sorte entrambe queste due pregevolissime cose, credi che gli dei non si prendano cura di te? Cosa dovranno essi fare, così che tu li creda preoccuparsi di te?” [I,IV,15] “Quando invieranno, come tu affermi che essi inviano, dei consiglieri circa le cose che bisogna fare e non fare”. “Ma quando gli dei”, disse allora Socrate, “rispondono attraverso la mantica agli Ateniesi che cercano di sapere qualcosa da loro, non ti pare che gli dei stiano rispondendo anche a te? E quando gli dei mandano ai Greci, o anche a tutti gli uomini, dei portenti a segnalazione di qualcosa, li dispongono forse con trascuratezza, escludendone unicamente te solo? [I,IV,16] Credi tu che essi abbiano ingenerato negli uomini l’opinione che gli dei possono fare del bene e del male, se di ciò non fossero davvero capaci; e che su questo gli uomini si siano ingannati tutto il tempo, non essendosene mai accorti? Non vedi tu che le più durature e sapienti istituzioni umane, ossia gli Stati e le Nazioni, sono anche le più timorate degli dei, e che le età più ricche di saggezza sono anche le più diligenti nel culto degli dei? [I,IV,17] Mio caro Aristodemo, sappi anche che la mente, finché è in te, manipola il tuo corpo come vuole. Bisogna pertanto credere che il raziocinio inerente all’universo dispone tutte le cose nel modo che più gli aggrada; che se la tua vista non può andare oltre un certo numero di stadi, l’occhio della divinità può invece cogliere la totalità con un solo sguardo; e che se il tuo animo può darsi pensiero delle cose di qui, di quelle in Egitto e di quelle in Sicilia, il raziocinio della divinità è capace di prendersi cura di tutte quante esse. [I,IV,18] Se dunque, è essendo premuroso con gli uomini, che tu riconoscerai quali di essi intendano contraccambiarti con altrettante premure; che è facendo dei favori che riconoscerai chi intende contraccambiati con altrettanti favori; e che è consigliandoti con gli uomini che imparerai quali di essi sono saggi; allo stesso modo metterai alla prova gli dei rendendo loro il culto dovuto, e se essi vorranno darti consigli circa faccende il cui esito è del tutto dubbio agli uomini, riconoscerai finalmente che la divinità è così grande e così fatta che tutto vede, tutto ode, dappertutto è presente, e di tutte le cose si prende cura”. [I,IV,19] Dicendo queste parole, a me sembra che Socrate facesse in modo che i suoi sodali si astenessero da ogni empietà, da ogni ingiustizia e da ogni viltà, non soltanto quando erano visti dagli uomini ma anche quand’erano soli, proprio perché, qualunque cosa facessero, erano convinti di non poter sfuggire alla vista degli dei.

[I,V,1] Se poi la temperanza è per l’uomo un possesso virtuoso, analizziamo se è dicendo parole come le seguenti, che Socrate soleva far avanzare i suoi sodali verso tale virtù: “Signori, nel caso ci sopravvenisse una guerra e decidessimo di eleggere un uomo grazie al cui comando uscire noi salvi e sottomettere i nemici; sceglieremmo forse qualcuno che ci accorgiamo essere schiavo del ventre, o del vino, o dei piaceri sessuali, o del sonno? Come ritenere che un individuo di tal fatta, farà noi salvi e ridurrà alla nostra mercé i nemici? [I,V,2] Se noi, ormai in fin di vita, decidessimo di affidare a qualcuno l’educazione dei figli maschi, o la custodia delle figlie femmine non sposate, o la salvaguardia del nostro denaro, riterremmo a questo scopo degno di fiducia, chi non è padrone di sé? Affideremmo noi il nostro bestiame, i magazzini, la soprintendenza dei lavori necessari, ad uno schiavo che non ha padronanza di sé? Vorremmo noi prendere gratis quale servo incaricato degli acquisti, uno schiavo di tal fatta? [I,V,3] Ordunque, se noi non accoglieremmo in casa nessuno, neppure uno schiavo, che mancasse di temperanza; come può non essere cosa di gran pregio che il padrone di casa stia bene in guardia dal diventare egli stesso un intemperante? All’intemperante, inoltre, non accade quel che accade all’avaro. Infatti, come l’avaro, sottraendo i denari ad altrui pensa di arricchire se stesso; così pure l’intemperante, mentre è dannoso agli altri, crede di giovare a se stesso. Invece chi non è padrone di sé, mentre fa del male agli altri, fa molto più male a se stesso; e fare malissimo non è soltanto il rovinare la propria casa, ma anche il rovinare il proprio corpo e il proprio animo. [I,V,4] Chi godrebbe della compagnia di un intemperante, che tutti vedrebbero indulgere alle pietanze e al vino più che intrattenersi piacevolmente con gli amici, ed aver care le puttane più dei compagni di banchetto? Non è forse d’uopo che l’uomo il quale ritiene che la padronanza di sé sia il fondamento della virtù, in ogni occasione e in primo luogo la strutturi saldamente come tale nell’animo suo? [I,V,5] Chi è privo di temperanza, come potrebbe imparare qualcosa di buono, o metterlo in pratica in un modo degno di considerazione? Chi non sarebbe maldisposto sia di corpo che d’animo, se è schiavo dei piaceri? Sì, per Era; a me sembra del tutto auspicabile che un uomo libero non si imbatta mai in uno schiavo di tal fatta; e che chi è schiavo di siffatti piaceri supplichi gli dei di farlo imbattere in buoni padroni, giacché soltanto così egli potrebbe condursi a salvamento. [I,V,6] Questo era ciò che Socrate diceva. Ma egli si dimostrò padrone di sé ancor più nelle opere che a parole. Egli, infatti, aveva piena padronanza di sé non soltanto riguardo ai piaceri corporali, ma anche riguardo al denaro; poiché riteneva che chi prende denaro a prestito in quantità abnorme, istituisce per se stesso un padrone e si fa schiavo di una schiavitù tale che non ne esiste una più vergognosa.

[I,VI,1] Vale la pena di non lasciare da parte anche il discorso che Socrate ebbe con Antifonte il sofista. Infatti Antifonte, volendo far suoi i discepoli di Socrate, direttosi verso di lui ed in presenza di quelli, parlò così: [I,VI,2] “Socrate, io usavo credere che i filosofi praticanti dovessero diventare persone felicissime. A me pare che tu, invece di vantaggi, abbia ritratto dalla filosofia tutto il contrario. Infatti, tu stai vivendo in un modo tale, che neppure uno solo degli schiavi che campano sotto un padrone, potrebbe reggere. Mangi cibi e bevi bevande vilissime; ti cingi d’una mantellina non solo vile ma che è sempre la stessa d’estate e d’inverno; e passi la vita scalzo e senza una tunica. [I,VI,3] Non accetti denaro, il quale invece è cosa che mette di buonumore chi lo riceve, e permette a chi lo possiede di vivere in modo più libero da affanni e più piacevole. Se pertanto, come accade nel caso delle altre opere, gli insegnanti sono la dimostrazione vivente del fatto che gli allievi diventano loro imitatori, e che quindi tali anche tu finirai per rendere i tuoi sodali; credi pure di essere l’insegnante dell’infelicità”. [I,VI,4] Al che Socrate replicò: “Antifonte, mi sembra che tu ti sia fatta l’idea che io vivo una vita sommamente miserevole, onde mi sono convinto che tu sceglieresti di morire piuttosto di vivere come vivo io. Ordunque, analizziamo in dettaglio cos’è della mia vita che tu hai avvertito come insopportabile. [I,VI,5] È forse il fatto che quanti accettano del denaro, necessariamente devono poi applicarsi al lavoro per il quale vengono pagati; mentre io, non facendomi pagare, non ho alcun obbligo di discutere con chi non voglio discutere? È perché ritieni vilissimo il mio vitto, e che io mangi, per un verso, cose assai meno salubri delle tue o, per un altro verso, cose che forniscono assai meno vigoria? I componenti della mia dieta sono forse molto più difficili a procurarsi di quelli della tua, e sono forse assai più rari e assai più costosi? È forse perché i pasti che tu ti prepari, hanno un sapore più piacevole di quelli che mi preparo io? Non sai che più piacevole uno trova il cibo che mangia, di meno pietanze ha bisogno? E che più piacevole uno trova quel che beve, minore è smania che ha per le bevande che non sono sulla tavola? [I,VI,6] Quanto alle mantelline, tu sai che quanti se le cambiano, lo fanno a motivo del freddo e del caldo; e che quanti calzano le scarpe lo fanno per non essere impediti nel camminare da ciò che può arrecare danno ai piedi. Ordunque, hai tu mai sentito dire che io sia rimasto chiuso in casa a motivo del freddo; oppure che a motivo del caldo io abbia litigato per dell’ombra; oppure che a motivo di qualche dolore ai piedi io non abbia camminato fin dove volevo? [I,VI,7] Non sai che quanti sono di corpo debolissimo, a forza di esercizi nelle attività nelle quali si esercitano, diventano più gagliardi di coloro che, pur robusti per natura, trascurano di esercitarsi; e che sopportano la fatica più facilmente di loro? Tu non credi che io, esercitando continuamente il mio corpo, sia in grado di reggere le fatiche che capitano, e di sopportarle più facilmente di te che non ti ci eserciti? [I,VI,8] Quanto al non essere schiavo del ventre, del sonno e della lascivia, credi tu che esista altra causa maggiore del semplice fatto di avere io a disposizione cose ben più piacevoli di quelle; e cose le quali, in caso di necessità, non solo mi rallegrano, ma mi danno anche la speranza di essermi sempre di giovamento? Invero, tu sai sicuramente che quanti credono di non stare riuscendo bene in ciò che fanno, non sono affatto lieti; mentre quanti ritengono che gli affari procedono per loro benissimo, si tratti di agricoltura o di commercio marittimo o di qualunque altra attività alla quale si applichino, sono lieti, poiché tutto sta loro andando per il verso giusto. [I,VI,9] E credi tu che in tutte queste attività sia contenuto tanto piacere quanto quello che è contenuto nel ritenere di diventare giorno dopo giorno un uomo migliore, e di procurarsi amici sempre più eccellenti? Invero, io continuo a credere che sia così. E quando si debba sovvenire agli amici o alla patria, chi dei due avrà più agio di prendersi cura di ciò: chi conduce una vita come la mia attuale, o chi ha il regime di vita che tu definisci beato? Chi dei due parteciperà più facilmente ad una campagna militare: chi è incapace di vivere se non ha a disposizione dei cibi costosi, oppure colui a cui basta quel che c’è? E chi dei due si arrenderebbe più rapidamente nel caso di un assedio: chi abbisogna di cose difficilissime a trovarsi, oppure colui cui basta servirsi di cose in cui è facilissimo imbattersi? [I,VI,10] Antifonte, tu somigli a chi crede che la felicità sia lusso e sperpero. Io invece ritengo che il non mancare di alcunché sia cosa divina, e che il mancare del minor numero possibile di cose sia lo stato più vicino che esiste al divino. Ora, la divinità è suprema potenza: dunque, ciò che è vicinissimo al divino, è anche ciò che è vicinissimo alla suprema potenza”. 

[I,VI,11] In un’altra occasione, discutendo con Socrate, Antifonte disse: “Socrate, io ti ritengo senz’altro una persona giusta, ma in nessun modo una persona sapiente. A me sembra che tu stesso lo riconosca: infatti tu non ti fai pagare in denaro per la tua conversazione; e tuttavia la tua mantellina o la tua casa o qualcos’altro di ciò che possiedi e che ritieni avere un valore in denaro, a nessuno lo cederesti gratis, né ad un prezzo minore del suo valore di mercato. [I,VI,12] È dunque evidente che se tu credessi la tua conversazione avere un qualche valore in denaro, anche questa venderesti ad un prezzo non di certo inferiore al suo valore. Pertanto, se pur tu fossi un uomo giusto, giacché non inganni alcuno per avidità di guadagno, sapiente però non lo saresti, poiché la tua sapienza non ha alcun valore di mercato”. [I,VI,13] A questo, Socrate rispose: “Antifonte, dalle nostre parti esiste un modo nobile ed un modo vergognoso di disporre della giovanile bellezza e della sapienza. Qui da noi soprannominano ‘prostituto’ colui che vende per denaro il fior degli anni suoi a chi lo vuole; mentre noi riteniamo invece pienamente padrone di sé, chi si fa quale amante una persona che egli sappia essere un galantuomo. Accade la stessa cosa nel caso della sapienza; e pertanto, come soprannominano quegli altri ‘prostituti’, qui da noi soprannominano ‘sofisti’ coloro che vendono per denaro la sapienza a chi la vuole. Invece chiunque si faccia quale buon amico, chi egli sa essere di ottima natura e che gli insegna tutte le cose buone che può, noi pensiamo che assolva ai doveri di cittadino e di galantuomo. [I,VI,14] E io stesso, caro Antifonte, come altri godono chi per il possesso di un buon cavallo, chi di un cane e chi di un uccello; così io pure ancor di più godo della familiarità che ho con i miei buoni amici. E se so qualcosa di buono, ne metto anche loro al corrente; e li raccomando ad altri, qualora io ritenga che essi possano da loro trarre qualche giovamento nel cammino verso la virtù. E i tesori che i saggi del passato ci hanno lasciato nei libri scritti da loro, noi li apriamo insieme e tra amici insieme li scorriamo; e se vediamo in essi qualcosa di buono, lo mettiamo da parte, ritenendo un gran guadagno il diventare giovevoli gli uni agli altri”. Udendo queste parole, a me sembrava che Socrate fosse un uomo beato e che guidasse i suoi ascoltatori a diventare dei veri galantuomini. 

[I,VI,15] In una occasione diversa, Antifonte gli chiese come mai ritenesse di fare degli altri dei periti di politica, senza mai prendere lui stesso parte diretta alla politica. Al che Socrate rispose: “Antifonte, qual è il modo migliore in cui potrei occuparmi di politica? Forse quello di prendervi parte io singolarmente, oppure quello di darmi ogni cura affinché quante più persone possibile siano all’altezza di prendervi parte?”

[I,VII,1] Analizziamo ora attentamente se sia vero che allontanando i suoi sodali dalla millanteria, egli con ciò stesso li spronava a curarsi attivamente della virtù. Socrate soleva infatti dire che verso la buona fama non esiste strada migliore di quella che fa davvero di un individuo il galantuomo che egli vuole sembrare. [I,VII,2] Che stesse dicendo la verità, Socrate lo insegnava in questo modo. “Consideriamo il caso”, diceva, “di qualcuno che non è un buon flautista e che però vuole sembrarlo. Cosa dovrebbe egli fare? Quanto alle apparenze esteriori dell’arte, non gli tocca forse imitare i buoni flautisti? Pertanto, visto che costoro sono dotati di ottimi strumenti e che vanno in giro accompagnati da molti seguaci, egli deve in primo luogo fare le cose che fa il buon flautista. In secondo luogo, poiché sono molte le persone che li applaudono, anch’egli deve dotarsi di una vasta platea di gente che lo applaude. E tuttavia non dovrà mai e in nessun caso accettare la richiesta di suonare il flauto, giacché andrebbe incontro ad una immediata contestazione, in quanto individuo ridicolo che non è soltanto un pessimo flautista ma che è anche un millantatore. E così, dopo avere speso molto denaro senza ricavarne vantaggio alcuno e, per di più, essendosi guadagnato una pessima fama; come potrà egli vivere se non penosamente, in modo controproducente e sommerso dal ridicolo? [I,VII,3] Non altrimenti avviene, qualora uno voglia mostrarsi, pur non essendolo, un buon generale o un buon pilota di nave. Consideriamo dunque quel che gli accadrebbe. Se egli, smanioso com’è di sembrare all’altezza di simili compiti, non riuscisse a persuadere gli altri, ciò non diventerebbe per lui un motivo di afflizione? E se, nel caso vi riuscisse, qualcosa di ancor più meschino? È infatti manifesto che, una volta posto al comando di una nave, o a capo di una spedizione militare, chi non sa comandarli come si deve, manderebbe in completa rovina coloro che meno vorrebbe rovinare, e lui stesso se la caverebbe malissimo e si troverebbe sommerso dalla vergogna”. [I,VII,4] Ragionando allo stesso modo, Socrate rendeva evidente che era del tutto controproducente voler apparire ricco, virile e potente, senza esserlo. Soleva, infatti, dire a costoro, che a quanti si impegnano in imprese che sono al di là dei loro limiti, e che credono di poter effettuare azioni delle quali non sono capaci, non è concesso alcun perdono. [I,VII,5] E soleva anche chiamare truffatore non chi sottraesse un po’ di denaro o qualche suppellettile per via di persuasione, ma infinitamente più truffatore chiunque, essendo uomo di nessun valore, avesse ingannato i suoi concittadini, inducendoli a ritenerlo capace di governare lo Stato. A me pare pertanto che Socrate, discutendo di questi argomenti, allontanasse i suoi sodali da ogni forma di millanteria.

Libro II 

Introduzione

Quelli che la tradizione ha raccolto sotto il generico nome di ‘Memorabilia’, ovvero di ‘Detti e fatti memorabili’, sono appunti disparati che Senofonte scrisse in tempi diversi e senza un ordine preciso. L’unico elemento che appare tenerli uniti è la presenza costante del personaggio ‘Socrate’, come visto ed interpretato da Senofonte. 

Per comodità, io ho raccolto ciascun appunto in altrettanti paragrafi. Gli appunti che formano il Libro II sono in totale 11, e l’argomento di ciascuno di essi è il seguente.

Appunto 1 – [II,IA,1-20] Socrate ed Aristippo discutono sull’educazione da impartire ai destinati a comandare e ai destinati ad ubbidire; e se vivrebbero più piacevolmente i primi o i secondi.

Appunto 2 – [II,IB,21-34] La scelta di Eracle tra la virtù e il vizio, ossia la celebre ‘Favola di Prodico’.

Appunto 3 – [II,II,1-14] Socrate rimprovera suo figlio Lamprocle, per l’ingratitudine che mostra verso la propria madre.

Appunto 4 – [II,III,1-19] Cherecrate, fratello minore di Cherefonte, e gravemente in lite con lui, viene istruito da Socrate su quale sia il modo migliore per rappacificarsi col fratello maggiore.

Appunto 5 – [II,IV,1-7] Socrate discorre sul tema dell’amicizia e sulla ben maggiore utilità di un amico sincero e dabbene, rispetto a quella di uno schiavo domestico.

Appunto 6 – [II,V,1-5] Gli uomini liberi e gli schiavi si vendono a prezzi differenti. Accade lo stesso per gli amici? Hanno anche questi valori diversi? Ne discutono Socrate e Antistene.

Appunto 7 – [II,VI,1-39] Socrate e Critobulo discutono su che uomo sia colui del quale vale la pena di ricercare l’amicizia.

Appunto 8 – [II,VII,1-14] Socrate suggerisce ad Aristarco quale sia il modo in cui lui e la sua numerosissima famiglia, possano uscire dall’indigenza nella quale sono stati lasciati della guerra appena conclusa.

Appunto 9 – [II,VIII,1-6] Finita la guerra, Eutero è costretto a lavorare manualmente per sopravvivere; e Socrate, suo antico compagno, gli spiega quale tipo di lavoro ritenga essere per lui più adatto.

Appunto 10 – [II,IX,1-8] Su suggerimento di Socrate, l’amico Critone trova in Archedemo un ottimo avvocato, che sa come difenderlo dalla massa di ingiustificate querele che gli piovono addosso.

Appunto 11 – [II,X,1-6] Socrate suggerisce a Diodoro di assumere quale amministratore Ermogene: un uomo di provata probità, che versa nell’indigenza a causa della guerra in corso. 

Traduzione

[II,IA,1] Facendo discorsi del genere, a me pareva che Socrate spronasse i suoi sodali ad esercitare la piena padronanza di sé in fatto di cibi, di bevande, di lascivia, di sonno, di freddo, di caldo, di fatica. Ed essendo egli al corrente che uno dei suoi sodali praticava una sfrenata intemperanza verso tali cose, Socrate gli disse: “Senti un po’, Aristippo. Se tu prendessi con te due giovanetti e dovessi educarli: uno affinché diventi un capace comandante, e invece l’altro affinché non pretenda mai di comandare; in quale modo educheresti sia l’uno che l’altro? Sei d’accordo a cominciare con me questa indagine, partendo dalla questione elementare del vitto?” A ciò Aristippo rispose: “Mi sembra che quella del vitto sia la questione fondamentale, giacché chi non si alimenta neppure potrebbe vivere”. [II,I,2] “Ebbene, quando giungerà l’ora appropriata, è ben verosimile che la voglia di prendere del cibo si presenti ad entrambi, non ti pare?” “Sì, è senz’altro verosimile che sia così”. “Dunque, quale dei due giovanetti abitueremo a scegliere di sbrigare innanzitutto le faccende della massima urgenza, prima di gratificare il ventre?” “Sì, per Zeus”, rispose Aristippo, “educheremo prima il giovanetto destinato a comandare, affinché sotto il suo comando non rimangano inevase le pratiche riguardanti lo Stato”. “Dunque”, disse Socrate, “anche quando entrambi vorranno bere, nell’educazione del medesimo giovanetto dovremo aggiungere anche la capacità di sopportare la sete?” “Assolutamente sì”, confermò Aristippo, “è così”. [II,I,3] “E la piena padronanza di sé circa il sonno; così da essere capace di coricarsi tardi, alzarsi di buon mattino, e di stare sveglio quando ce ne sia il bisogno: all’educazione di quale dei due giovanetti la aggiungeremmo?” “Anche questo all’educazione del medesimo giovanetto”. “E circa l’essere temperante in fatto di piaceri sessuali”, chiese Socrate, “affinché egli non si trovi impedito ad effettuare qualcosa quando ce ne sia urgente bisogno?” “Pure questo all’educazione del medesimo giovanetto”. “E circa il non rifuggire le fatiche, ma anzi il sopportarle di buon grado: all’educazione di quale dei due giovanetti la aggiungeremmo?” “Anche questo”, disse Aristippo, “all’educazione del giovanetto destinato a comandare”. “E l’apprendere se vi siano delle nozioni idonee a sconfiggere e dominare gli avversari, all’educazione di quale dei due giovanetti converrebbe di più aggiungerlo?” “Sì, per Zeus”, esclamò Aristippo, “senza dubbio all’educazione di quello destinato a comandare; giacché tutto il resto non è di alcun pro, se manca l’apprendimento di siffatte nozioni”. [II,I,4] “Dunque”, disse Socrate, “chi è stato educato in questo modo, pare anche a te che verrebbe catturato dagli avversari molte meno volte di quanto lo sarebbero i restanti animali? Invero alcuni animali, pur in certi casi timidissimi, una volta adescati con del cibo e condotti alle esche dalla loro brama di mangiare, qui sono catturati; mentre altri animali soccombono ad agguati per la loro brama di abbeverarsi”. “Sì, è assolutamente così”, rispose Aristippo. “Ebbene anche altri animali: per esempio, le quaglie e le pernici; quando siano portati dalla lascivia verso il grido di richiamo della femmina per la smania e la speranza di piaceri sessuali, una volta buttata per aria ogni valutazione dei terribili pericoli che corrono, non cadono forse nelle reti dei cacciatori?” [II,I,5] “Sì, è così”, assenti Aristippo. “Dunque, non ti pare che sia vergognoso per un uomo il provare le stesse passioni che sperimentano delle bestie del tutto prive di raziocinio? Così gli adulteri entrano nelle stanze che nella casa sono riservate alle donne, pur sapendo che un adultero corre il pericolo di incappare nelle pene che la legge minaccia, di cadere in un tranello, di essere colto in flagrante e di subire ogni sorta di oltraggi; pur sapendo che sulla testa dell’adultero incombono ogni sorta di mali ignominiosi; pur sapendo dell’esistenza di molti rimedi capaci di scioglierlo in tutta sicurezza dalla smania che ha in corpo di godere il piacere sessuale. E purtuttavia egli si lascia trascinare in situazioni pericolose. Ebbene, tutto ciò non è forse proprio di chi è infelice dalla testa ai piedi?” “A me sembra che sia proprio così”. [II,I,6] “Il fatto poi che la maggior parte delle attività umane più necessarie si svolgano all’aria aperta: per esempio, le campagne militari, l’agricoltura, ed altre di non minore importanza; mentre invece la maggior parte degli uomini non è affatto esercitato a sopportare i rigori invernali e le calure estive: ebbene, non ti pare questa una grande trascuratezza?” “Sì, è così”, assenti Aristippo. “Dunque, non pare anche a te che chi sarà un comandante debba esercitarsi anche a sopportare di buon grado questi disagi?” “Sì, è assolutamente così”, rispose Aristippo. [II,I,7] “Se dunque noi poniamo gli individui tolleranti di tutti questi disagi nel novero dei comandanti, non disporremo forse tutti coloro che sono incapaci di temperanza nel novero di quanti neppure pretenderanno di comandare?” “Sì, è così”, assenti Aristippo. “E dunque?”, chiese Socrate, “poiché hai riconosciuto l’esistenza di queste due classi di persone, hai già esaminato in quale di queste due classi tu potresti porre giustamente te stesso?” [II,I,8] “Quanto a me”, rispose Aristippo, “io non annovero affatto me stesso tra coloro che vogliono comandare. A me queste sembrano cose completamente da pazzi: il non accontentarsi di procurare a noi stessi lo stretto necessario, il che richiede già un gran lavoro; l’incaricarsi di provvedere a ciò di cui hanno bisogno anche gli altri cittadini, lasciando così da parte molte delle cose che uno vuole per sé; una volta diventato Capo dello Stato, qualora non si effettui tutto ciò che lo Stato vuole, il trovarsi pure soggetto a delle pene: ebbene, come può questo non essere il colmo della stoltezza? [II,I,9] Gli Stati ritengono, in effetti, che sia il caso di valersi dei loro Capi al modo in cui io mi valgo dei miei servi di casa. E come io pretendo dai miei domestici che essi mi forniscano in abbondanza tutte le provviste necessarie, e che però non le tocchino; così le città reputano che vadano trattati i loro Capi, provvedendole cioè della maggior quantità possibile di beni, dai quali però essi devono astenersi completamente. Educati in questo modo, io porrei dunque nel novero dei comandanti tutti coloro che vogliono crearsi molti fastidi, e molti fastidi procurare ad altri; e metto invece me stesso nel novero di quanti vogliono passare la vita quanto più si può con agio e piacevolezza”. [II,I,10] “Vuoi che analizziamo”, disse allora Socrate, “anche questo aspetto della faccenda, cioè quale delle due classi di persone sia quella che vive una vita più piacevole: coloro che comandano, oppure coloro che sono comandati?” “Senz’altro”, rispose Aristippo”. “Innanzitutto, prendiamo in considerazione le nazioni delle quali conosciamo l’esistenza. In Asia”, indicò Socrate, “a comandare sono i Persiani; mentre i comandati sono i Siriani, i Frigi e i Lidi. In Europa, a comandare sono gli Sciti, e i comandati sono i Meoti. In Libia comandano i Cartaginesi, mentre i comandati sono i Libici. Di tutti costoro, quali di questi popoli credi tu che vivano più piacevolmente? E dei Greci, tra i quali ci sei anche tu, quali ti paiono vivere più piacevolmente: i dominatori o i dominati?” [II,I,11] “Quanto a me”, rispose Aristippo, “io non pongo di certo me stesso tra gli schiavi, giacché mi sembra che esista una strada intermedia tra questi due estremi. Si tratta della strada sulla quale io mi sforzo di camminare, che è né la via battuta dal Signore, né quella battuta dal Servo, ma è la strada della libertà, la strada maestra che conduce alla felicità”. [II,I,12] “Ma se”, rispose Socrate, “questa strada è battuta né da chi è Signore né da chi è Servo, cioè non è battuta da alcun uomo, forse tu staresti dicendo qualcosa. Se tuttavia, vivendo tra gli uomini, riterrai giusto né comandare né essere comandato, e non rispetterai volontariamente coloro che comandano, credo che tu veda bene come i superiori sappiano trattare gli inferiori, sia in pubblico che in privato, come schiavi e farli accasciare urlanti di dolore. [II,I,13] Non sei al corrente del fatto che sono altri a tagliare il grano di coloro che lo hanno seminato, e a sradicare gli alberi di coloro che li hanno piantati; altri coloro che vessano in ogni modo i più deboli che non vogliono sottomettersi loro, fino a costringerli a scegliere la schiavitù pur di non continuare la guerra contro chi è più forte? E non sai che anche nel privato, gli uomini maschi e potenti soggiogano quelli codardi e deboli, e li sfruttano?” “Ma io”, disse Aristippo, “appunto per non subire simili maltrattamenti, non mi rinchiudo in una cittadinanza sola, e sono un forestiero che se ne va dappertutto”. [II,I,14] “Quel che hai appena detto”, commentò Socrate, “è una presa da esperto lottatore, giacché da quando sono morti Sini, Scirone e Procuste, nessuno più osa macchiarsi di un’ingiustizia contro i forestieri. Eppure al giorno d’oggi i politicanti che nelle loro patrie amministrano lo Stato e fanno le leggi, al fine di non subire ingiustizie, oltre a coloro che sono necessariamente loro alleati, cercano di acquisirne pure altri che corrano in loro soccorso; circondano le città di presidi fortificati; acquistano armi con le quali proteggersi dai malfattori; ed oltre a queste precauzioni, cercano di procurarsi alleati anche in Stati stranieri. Eppure, nonostante ciò, alcuni di loro, pur avendo a disposizione tutte queste difese, nondimeno subiscono delle ingiustizie. [II,I,15] E tu, senza avere a disposizione neppure una di queste protezioni; tu che passi gran parte del tuo tempo nelle strade, ossia dove la maggior parte della gente è oggetto di soprusi; tu, che in qualunque Stato sia giunto, sei l’ultimo di tutti i cittadini, e uno di coloro contro i quali specialmente attentano i facitori di ingiustizie: ebbene, tu egualmente, per il semplice fatto essere un forestiero, credi che non subiresti ingiustizia alcuna? È forse perché gli Stati strombazzano di garantirti sicurezza sia quando arrivi che quando ne riparti? È per questo che ti fai coraggio? È forse perché ritieni di poter essere uno schiavo che a nessun padrone rechi vantaggio? È forse perché pensi: chi vorrebbe tenersi in casa un uomo che non ha alcuna voglia di faticare, e che però apprezza molto un tenore di vita dispendiosissimo? [II,I,16] Analizziamo, allora, il modo in cui i padroni trattano simili schiavi domestici. Non è forse vero che ne temperano la lascivia affamandoli? Che impediscono loro di rubare, mettendo sotto chiave qualunque dispensa dalla quale sarebbe possibile sottrarre qualcosa? Che precludono loro la fuga, incatenandoli? Che ne scacciano la pigrizia a forza di percosse? E come ti comporti tu, quando ti accorgi che uno dei tuoi domestici è uno schiavo di questo genere?” [II,I,17] “Lo castigo”, rispose Aristippo, “sottoponendolo ad ogni sorta di maltrattamenti, fino a che l’abbia costretto a fare lo schiavo che è. E tuttavia, caro Socrate, coloro che sono stati educati all’arte regale del comando, arte che a me sembra tu reputi coincidere con la felicità, in cosa differiscono da coloro che sono sottoposti per necessità a sofferenze: si tratti della fame, della sete, dei brividi di freddo, delle veglie forzate, o di ogni altro incomodo; che essi volontariamente sopportano? Io non vedo che differenza ci sia tra il ricevere volontariamente sulla propria pelle delle frustate, e il riceverle involontariamente; oppure trovare il proprio corpo volontariamente o involontariamente assediato da tutti quei tormenti insieme. Sopportare volontariamente tali tormenti non è forse una caratteristica peculiare dello stolto?” [II,I,18] “Aristippo”, gli chiese allora Socrate, “perché parli così? Non ti pare che vi sia una gran differenza tra siffatti tormenti scelti volontariamente e quelli subiti involontariamente? Una differenza per la quale chi aspetta volontariamente di avere fame, può mangiare quando vuole, e altrettanto può fare chi ha sete; mentre invece chi è costretto a subire fame e sete non ha la potestà di farle cessare quando lo voglia? Inoltre, chi si trova volontariamente in situazioni difficili, pur soffrendo s’allieta per la buona speranza di successo che ha: per esempio, i cacciatori di animali selvatici faticano con piacere, per la speranza che hanno di catturarli. [II,I,19] Siffatti premi delle fatiche hanno però ben poco valore. Invece, quanti faticano per acquistarsi dei buoni amici o al fine di mettere le mani sui propri nemici personali; oppure affinché dopo essere diventati potenti sia di corpo che d’animo, possano governare bene casa loro, fare del bene agli amici e beneficare la patria: ebbene, come si può non credere che costoro fatichino con piacere per il raggiungimento di questi scopi, e che vivano lietamente, compiacendosi di se stessi e lodati ed emulati dagli altri? [II,I,20] La poltronaggine e i. piaceri facili ed immediati non sono atti, come dicono i maestri di ginnastica, a conferire al corpo una buona complessione, e neppure infondono nell’animo alcuna conoscenza degna di nota; mentre invece la dedizione costante alle opere virtuose, come affermano i galantuomini, ci permette di pervenire a simili risultati. Da qualche parte Esiodo dice:

‘Facile a scegliersi è la malvagità, e quanta ne vuoi;

piana è la via e molto vicina essa dimora;

ma gli dei immortali posero il sudore davanti alla virtù;

lunga e ripida è infatti la strada, e, al principio, aspra,

ma quando si giunge alla vetta,

diventa agevole poi, per quanto difficile sia’

e lo testimonia anche Epicarmo in questo verso:

‘è a costo di fatiche che gli dei ci vendono tutti i beni’

e in un altro verso dice:

‘Oh uomo dappoco, non cercare morbidezze,

onde tu n’abbia a provare le durezze’

[II,IB,21] Anche Prodico racconta che quando Eracle imprendeva il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza, età nella quale i giovani, mentre stanno diventando padroni di se stessi, mostrano se nella vita prenderanno la strada della virtù o quella del vizio, uscitosene un giorno e trovato un posto tranquillo, se ne stava seduto incerto su quale delle due strade prendere. [II,I,22] Parve allora ad Eracle che gli si avvicinassero due donne adulte. Una era d’aspetto bello e nobile ed appariva adornata al naturale: pulito il corpo, il rispetto di sé e degli altri negli occhi, la compostezza nel portamento, la veste bianca. L’altra era ben pasciuta e di morbide carni, imbellettata in modo da apparire di colorito più bianco e più roseo del vero, con un portamento che la faceva sembrare più dritta e alta del naturale. Teneva gli occhi spalancati e portava un vestito dal quale potesse trasparire tutta la sua avvenenza. Si guardava intorno di frequente, sorvegliava se qualcun altro la osservasse e spesso volgeva lo sguardo anche alla propria ombra. [II,I,23] Quando gli si furono fatte più vicino, la prima continuò a camminare con lo stesso passo mentre la seconda, volendo precederla, corse verso Eracle e gli disse: “Ti vedo, Eracle, incerto su quale strada prendere nella vita. Se mi farai amica tua, io ti guiderò per la strada più piacevole e più facile di tutte, non rimarrai inesperto di alcuna delle delizie della vita e vivrai immune da ogni molestia. [II,I,24] In primo luogo, infatti, non dovrai preoccuparti né di guerre né di affari ma soltanto di considerare quale gradito cibo o bevanda potresti trovare; quale spettacolo o quale musica potrebbe deliziarti; il profumo o il tatto di che cosa darti godimento; la conversazione con quali amanti allietarti di più; e come potresti dormire il più mollemente possibile e il modo per centrare tutto ciò con la minore fatica. [II,I,25] E se mai sorgesse il sospetto di una scarsità dei mezzi grazie ai quali queste cose si ottengono, non temere che io ti conduca a provvederli con fatiche e travagli di corpo e d’animo; ma tu farai uso dei frutti del lavoro altrui perché non ti asterrai da nulla da cui sia possibile trarre un qualche lucro. Io, infatti, procuro ai miei sodali la potestà di ricavare guadagno da qualunque attività. [II,I,26] Udite queste parole, Eracle le disse: “Donna, come ti chiami?” E lei rispose: “I miei amici mi chiamano Felicità, ma coloro che mi odiano mi denominano spregiativamente Vizio”. [II,I,27] Nel frattempo era sopraggiunta l’altra donna, la quale disse: “Io sono giunta da te, Eracle, sapendo anche chi sono i tuoi genitori e dopo avere decifrato a fondo, durante il periodo della tua educazione, la tua indole. Per questo, se prendessi la strada che porta da me, spero proprio che tu possa diventare un eccellente operatore di tutto ciò che è bello e solenne, e che io possa apparire ancor più onorevole ed illustre per i benefici che reco. Non ti ingannerò con preamboli che lusingano, ma esporrò con verità il modo in cui gli immortali hanno disposto la realtà delle cose. [II,I,28] Nulla di ciò che è bello e nobile gli immortali danno agli uomini senza fatica e studio. Se tu disponi che gli dei ti siano benigni, devi accudire gli dei; se vuoi essere amato dagli amici, devi beneficare gli amici; se smani di essere onorato da una qualche città, devi giovare a quella città; se solleciti di essere ammirato per valore da tutta la Grecia, devi provare a far bene per la Grecia; se disponi che la terra ti porti frutti abbondanti, devi accudire la terra; se credi di doverti arricchire con il bestiame, devi avere sollecitudine per il bestiame; se impelli a farti grande con la guerra e disponi di poter liberare gli amici e soggiogare i nemici, devi imparare la tecnica militare da coloro che ne hanno scienza ed esercitarti nel come debba essere usata; se disponi di essere forte fisicamente, devi abituare il corpo ad essere servitore dell’intelligenza ed allenarlo con fatiche e sudore”. [II,I,29] Allora, come racconta Prodico, il Vizio prese la parola e disse: “Eracle, hai il concetto di come sia esasperante e lunga la strada verso la Letizia che questa donna ti espone? Io invece ti condurrò alla Felicità per una strada facile e corta”. [II,I,30] E la Virtù disse: “Sciagurata, che bene hai tu? Che piacere conosci tu, se per ottenerli non vuoi fare nulla? Proprio tu, che neppure aspetti di desiderare le cose piacevoli ma prima ancora di averne desiderio ti riempi di tutte: mangi prima di avere fame; bevi prima di avere sete; e per il piacere di mangiare, escogiti stuzzichini; per il piacere di bere procuri vini costosi e d’estate corri qual e là a cercare la neve; per il piacere di dormire profondamente, ti procuri non soltanto molli coperte ma anche sostegni per i letti, giacché desideri il sonno non perché sei affaticata ma perché non hai niente da fare. Ti costringi al piacere sessuale prima del bisogno, escogitandone d’ogni sorta e usando i maschi da femmine. Così, infatti, tu educhi i tuoi amici: perpetrando azioni oltraggiose di notte e passando la parte più proficua del giorno a dormire. [II,I,31] Pur essendo tu immortale, sei stata cacciata via dal consorzio degli dei e sei spregiata dagli uomini buoni. La lode di te stessa, il suono più dolce di tutti, tu non l’hai mai sentito e non hai visto lo spettacolo più dolce di tutti, giacché non hai mai visto una tua opera bella. Chi si fiderebbe di qualcosa che tu dici? Chi ti soccorrerebbe se avessi bisogno di qualcosa? Chi, sano di mente, ardirebbe far parte della tua brigata? I membri della quale sono, da giovani, invalidi di corpo e, da anziani, dissennati d’animo. Infatti, grassi e panciuti come sono, passano la gioventù da sfaticati e trapasseranno penosamente la vecchiaia nello squallore, vergognandosi di quello che hanno fatto ed oppressi da quello che fanno. Giacché hanno trascorso la gioventù fra le dolcezze e messo da parte tutto l’amaro per la vecchiaia. [II,I,32] Io invece sto con gli dei e con gli uomini virtuosi; e nessuna bella opera, né divina né umana, si realizza senza di me. Sono poi onorata sia presso gli dei che presso gli uomini, con i nomi che più di tutti convengono: ‘amata collaboratrice’ presso gli artigiani; ‘leale custode’ presso i padroni di casa; ‘paziente assistente’ presso i domestici; ‘valente alleviatrice delle fatiche’ nella pace; ‘salda alleata’ delle operazioni nella guerra; ‘eccelsa compagna’ d’amicizia. [II,I,33] I miei amici gustano cibi e bevande con piacere e spensieratezza, poiché aspettano di averne desiderio. Il sonno è per loro più dolce che per gli scioperati, ed essi non si adontano nel lasciarlo né trascurano di fare il loro dovere per causa sua. I giovani si rallegrano delle lodi dei più anziani; i più vecchi gongolano per l’onore in cui sono tenuti dai giovani, e ricordano con piacere le loro faccende d’antica data mentre godono di bene operare le presenti, essendo grazie a me cari agli dei, amati dagli amici e onorati nelle loro patrie. E quando venga la fatale fine, non giacciono in oblio senza onori, ma la loro memoria verdeggia e sono inneggiati per l’eternità. Eracle, figlio di eccelsi genitori, dandoti da fare a questo modo tu hai la potestà di possedere la più beata delle felicità. [II,I,34] All’incirca a questo modo Prodico racconta l’educazione di Eracle da parte della Virtù, e ne abbellisce gli avvisi con parole ancor più grandiose di quelle che ho usato io adesso. In ogni caso, caro Aristippo, vale la pena che tu rimugini simili avvisi, e che ti sforzi di tenerli a mente per il resto della vita.

[II,II,1] Accortosi una volta che Lamprocle, il suo figliolo maggiore, era infuriato con sua madre, Socrate gli chiese: “Figliolo mio, dimmi: sai tu che esistono uomini che sono chiamati ‘ingrati’?” “Certo che lo so”, rispose il giovanotto. “Hai investigato che cosa fanno costoro per essere soprannominati così?” “L’ho fatto:”, rispose Lamprocle, “si chiamano ‘ingrati’ quanti hanno ricevuto un beneficio e sono in grado di ricambiarlo, e però essi non lo ricambiano”. “Non ti pare dunque che gli ingrati possano a buon diritto essere catalogati tra gli ingiusti?” “Io penso di sì”, [II,II,2] “Ora, se il ridurre in schiavitù gli amici è considerato un atto ingiusto, ed invece giusto il farlo con i nemici; hai già analizzato se sia ingiusto essere ingrati con gli amici, ed invece giusto il farlo con i nemici?” “L’ho già fatto, eccome! E la mia conclusione è che chi riceve un beneficio, sia da un amico che da un nemico, è una persona ingiusta se non cerca il modo di contraccambiarlo”. [II,II,3] “Dunque, se la faccenda sta in questi termini, l’ingratitudine sarebbe la pretta ingiustizia”. Lamprocle fu d’accordo. “Pertanto, più sono grandi i benefici che uno riceve e che non contraccambia, tanto più ingiusto egli sarebbe?” Lamprocle fu d’accordo anche su ciò. “Chi dunque troveremmo noi”, chiese Socrate, “avere ricevuto benefici più grandi di quelli che i figli ricevono dai genitori? Figli che i genitori hanno fatto passare dall’inesistenza alla esistenza; creature a cui essi hanno dato la possibilità di vedere tutto quanto il bello che esiste e di partecipare a tutto quanto il buono che gli dei procurano agli uomini? Bellezze e beni che ci appaiono di così eccelso valore, che dalla loro perdita noi tutti rifuggiamo più che da qualunque altra. E infatti gli Stati hanno istituito la pena di morte per i delitti più gravi, al fine di far cessare i crimini grazie a quella che è la paura del male più grande di tutti. [II,II,4] Tu sicuramente, hai chiaro il concetto che gli uomini non fanno dei figli allo scopo di soddisfare i loro bisogni sessuali, giacché di mezzi che sciolgano da questo bisogno sono piene le strade, colmi i bordelli. Noi abbiamo invece ben chiaro e ben esaminato da quale sorta di donne potrebbe nascerci la prole migliore, ed è accoppiandoci con queste che ne generiamo dei figli. [II,II,5] Di poi, è il marito che provvede al sostentamento di colei che con lui concorrerà alla generazione dei figli, e che per i figli che nasceranno procaccia in anticipo e nella maggior quantità che gli è possibile, tutto ciò che egli ritiene sarà utile per la loro vita. A sua volta è la donna che, dopo avere concepito il bambino, ne sostiene il fardello e, pur appesantita e correndo pericoli per la propria vita, gli fornisce il nutrimento che alimenta anche lei. Dopo avere portato con gran fatica a termine la gravidanza ed avere partorito il bambino, ella lo nutre e se ne prende cura; senza avere prima ricevuto da lui alcun beneficio, senza che il neonato sappia da chi gli vien fatto del bene, e neppure sia in grado di indicare ciò di cui abbisogna. E tuttavia ella congettura cosa può essergli utile e grato, e si sforza di soddisfarlo: nutrendolo per molto tempo e sopportando fatiche sia diurne che notturne, pur senza sapere quale ricompensa ne otterrà. [II,II,6] Ai genitori, inoltre, non basta allevare i figli. Infatti, qualora conoscano nozioni utili per vivere bene, e sembri loro che i figli sono ormai capaci di imparare qualcosa, essi le insegnano ai figli. E se credono che qualcuno sia un insegnante più capace di loro, mandano il figlio da costui, spendendo del denaro, e curano di fare ogni sforzo affinché i figli diventino quanto più è possibile migliori”. [II,II,7] A queste considerazioni di suo padre, il giovanotto rispose: “Ma pur se ella avesse fatto tutto ciò, ed anche molto di più, nessuno riuscirebbe a sopportarne l’intrattabilità”. “E quale delle due selvatichezze”, gli chiese Socrate, “ritieni più difficilmente tollerabile: quella di una belva o quella di una madre?” “Io credo”, rispose Lamprocle, “che sia quella di una madre fatta come la mia”. “Dunque qualche volta ti ha ella mai fatto del male mordendoti o tirandoti dei calci, tutti trattamenti che sono in molti ad avere subito dalle belve?” [II,II,8] “Ma per Zeus, quella lì dice cose che uno vorrebbe non ascoltare mai, neppure nel corso di una vita intera!” “A tua volta”, ribatté Socrate, “quanti sono i fastidi, tanto a parole quanto a fatti, che sei stato tu a procurare a lei da quand’eri bambino, sia di notte che di giorno; e quante le afflizioni quand’eri malato?” “Ma io”, precisò Lamprocle, “né mai le dissi, né mai le feci alcun gesto infamante”. [II,II,9] “E dunque”, gli chiese il padre, “pensi che sia più sgradevole per te ascoltare le parole che dice una madre, di quel che lo sia per degli attori, quando nelle tragedie essi si dicono le cose più terribili? “Io penso”, rispose Lamprocle, “che gli attori lo sopportino più facilmente, poiché essi non credono alle parole che dicono. Infatti, chi confuta non confuta per punire davvero, e chi minaccia non minaccia per fare seriamente del male”. “Eppure tu ti esasperi, pur sapendo bene che quanto ti dice tua madre, ella te lo dice non soltanto senza malanimo, bensì volendoti bene quanto a nessun altro?” “Io però”, rispose Lamprocle, “questo non lo credo proprio”. [II,II,10] “Dunque”, gli rispose Socrate, “una madre che ti vuol bene, che si prende cura di te quanto più può quando sei malato, che al fine di farti guarire non ti fa mancare nulla di ciò che è necessario, che prega gli dei affinché ti colmino di benedizioni e che fa voti per te: tu di costei affermi che è una madre esasperante? A parer mio, se tu non puoi sopportare una madre siffatta, tu non puoi sopportare le cose buone. [II,II,11] E dimmi un po’: c’è qualcun altro che tu ritieni si debba trattare con riguardo? O sei già pronto a sforzarti di non riuscire gradito ad alcun uomo, e a non ubbidirgli, sia egli un generale o qualche altro comandante?” “Per Zeus”, rispose Lamprocle, “sì, qualcuno c’è!” [II,II,12] “Pertanto tu vuoi riuscire gradito ad un vicino, affinché ti favorisca un po’ del suo fuoco, quando ce ne sia bisogno, e tu possa così accendere il tuo; che per qualche buona impresa ti assista; e che in caso tu inciampassi egli ti sia dappresso e di benevole aiuto. “Sono pienamente d’accordo”. “E dunque? Quanto ad un compagno di viaggio per terra o per mare, o in chiunque altro tu ti imbatta, non fa per te differenza alcuna che egli ti diventi amico o nemico; oppure credi che valga la pena di procurarti la benevolenza di costoro?” “Io credo che ne valga assolutamente la pena”. [II,II,13] “E dopo esserti procurato la benevolenza di costoro, ritieni di non dover trattare con lo stesso riguardo tua madre, ossia la persona che più di chiunque altro ti vuole bene? Non sai che lo Stato trascura del tutto e non considera come ingiustizia qualunque forma di ingratitudine, e pertanto non bada a coloro che non contraccambiano i favori ricevuti; e che invece, ove qualcuno tratti i propri genitori senza il dovuto riguardo, infligge a costui una pena, e gli rifiuta il ricoprimento di qualunque carica pubblica, in quanto i sacrifici officiati da costui a nome dello Stato non sarebbero offerti con la dovuta pietà, ed in quanto nulla di ciò che costui facesse avrebbe il carattere di essere onorevole e giusto? E per Zeus, qualora uno non tenga in perfetto ordine i sepolcri dei propri genitori defunti: ebbene, lo Stato tiene conto anche di questo al momento della valutazione dei candidati alla carica di Arconte. [II,II,14] Pertanto, figlio mio, se sei savio, ove tu abbia trascurato qualcuno dei doveri verso tua madre, tu supplicherai gli dei che ti perdonino; così che essi, ritenendoti un ingrato, non cessino di beneficarti. E sta bene in guardia, affinché gli uomini, una volta accortisi che tu trascuri i tuoi genitori, non ti disonorino tutti quanti; ed affinché, a seguito di ciò, tu non rimanga solo e privo di qualunque amico. Infatti, se essi ti prederanno per un individuo ingrato verso i genitori, nessuno di loro crederà, se ti facesse un beneficio, di poterne ottenere da te il contraccambio.

[II,III,1] Cherefonte e Cherecrate erano due fratelli a Socrate ben noti. Essendo venuto a sapere che essi erano in lite, vedendo una volta Cherecrate, Socrate lo chiamò e gli chiese: “Dimmi un po’, Cherecrate: sei forse davvero anche tu uno di quegli individui che ritengono gli averi essere cosa più proficua dei fratelli? Eppure gli averi sono cose prive di intelligenza, mentre il fratello è cosa dotata di intelligenza; gli averi vanno continuamente accuditi, mentre il fratello le cure è in grado di porgerle; gli averi sono di tantissime persone, mentre il fratello è un’unica persona. [II,III,2] Una cosa stupefacente è poi questa: ossia che uno ritenga i fratelli essergli causa di una perdita, perché non possiede anche i loro averi; mentre invece non ritiene per lui essere causa di perdita i cittadini, dei quali pure non possiede gli averi. In questo caso gli uomini possono tenere conto del fatto che è meglio vivere in sicurezza in mezzo a tante persone e avendo quanto basta, piuttosto che passare la vita in solitudine, ma a costo di grandi pericoli, possedendo gli averi di tutti i cittadini. E tuttavia gli uomini ignorano che lo stesso discorso vale anche nel caso dei fratelli. [II,III,3] Infatti, coloro che possono comprano dei domestici per avere così dei collaboratori, e si fanno degli amici quando hanno bisogno di aiuto; e però trascurano i fratelli, come se di tra i cittadini possono trarsi degli amici, ma non di tra i fratelli. [II,III,4] E invero, a fini di amicizia ha un gran valore l’essere nati dagli stessi genitori, e gran cosa è pure l’essere stati allevati insieme; giacché anche tra le belve cresciute assieme si ingenera una intensa brama di vicinanza. Inoltre, gli uomini trattano quanti hanno dei fratelli, con rispetto maggiore di quello che riservano a quanti non ne hanno, e sono loro meno ostili”. [II,III,5] Al che Cherecrate rispose: “Socrate, se la lite fosse su questioni di piccolo conto, forse si dovrebbe sopportare un fratello; e non tenersene lontani per delle sciocchezze. In effetti, come tu dici, un fratello come si deve è un bene. E però quando egli viene completamente meno alla fratellanza, ed è tutto l’opposto di un fratello: perché uno dovrebbe mettere mano ad imprese impossibili?” [II,III,6] Socrate allora gli rispose: “Cherecrate, ma Cherefonte riesce sgradito assolutamente a tutti, come lo è a te; oppure esistono persone alle quali egli riesce del tutto gradito?” “Socrate, ma è proprio per questo motivo”, gli rispose Cherecrate, “che egli merita tutto il mio odio. Egli è infatti capace di rendersi gradito agli altri; ma qualunque sia il momento e qualunque sia il luogo in cui mi sta accanto, egli è per me, sia a fatti che a parole, più una punizione che un giovamento”. [II,III,7] “Dunque, come il cavallo”, aggiunse Socrate, “è una punizione per chi mette mano a cavalcarlo nella completa ignoranza dell’equitazione; così pure un fratello è una punizione per chi, senza affatto conoscerlo, mette mano ad interloquire con lui?” [II,III,8] “E come potrei io”, gli rispose Cherecrate, “non conoscere il modo di interloquire con mio fratello, dal momento che so benissimo come parlar bene di qualcuno che parla bene di me, e fare del bene a chi mi fa del bene? Invero, di chi, sia a parole che a fatti, fa ogni sforzo per infastidirmi, io non potrei né parlar bene né fargli del bene, e quindi neppure ci proverò”. [II,III,9] “Ma, Cherecrate, tu mi stai dicendo”, gli rispose Socrate, “qualcosa di stupefacente. Tu mi stai dicendo di avere un cane da gregge, adattissimo a far la guardia alle pecore e che accoglie pure festosamente qualunque pastore, il quale però si mette a ringhiarti minacciosamente contro non appena ti avvicini a lui; e che tu, messo da parte ogni scatto di ira, fai ogni sforzo per ammansirlo con le buone maniere. Tu affermi anche che un fratello è un gran bene, se si comporta verso di te come deve, ed ammetti di sapere perfettamente come parlar bene e fare del bene, e che tuttavia non intendi dedicarti a escogitare il modo per far sì che egli sia per te il migliore fratello possibile”. [II,III,10] Al che Cherecrate rispose: “Socrate, io temo di non avere la sapienza necessaria per far sì che Cherefonte sia nei miei riguardi il fratello che deve essere”. “Invero, per quanto riguarda tuo fratello, a mio parere”, disse Socrate, “non c’è bisogno di escogitare modi complicati o nuovi, e del resto io credo che tu stesso li conosca già, per guadagnarti la sua altissima stima”. [II,III,11] “Se ti sei accorto che io conosco un filtro magico che io stesso ignoro di sapere, ti prego di dirmelo subito”. “Dunque”, gli chiese Socrate, “se tu volessi che uno dei tuoi conoscenti ti coinvolgesse in una cerimonia sacrificale e che ti invitasse a pranzo: cosa faresti?” “È manifesto che comincerei io per primo, quando offrissi un sacrificio, ad invitarlo da me”. [II,III,12] “E se tu volessi incentivare uno dei tuoi amici a prendersi cura dei tuoi averi, ogni volta che tu ti allontanassi dalla patria: cosa faresti?” “È manifesto che io per primo metterei mano a prendermi cura dei suoi averi, ogni volta che egli si allontanasse dalla patria sua”. [II,III,13] “E se tu volessi far sì che uno straniero ti ospitasse in casa sua, ogni volta che tu ti recassi nella sua patria: cosa faresti?” “È manifesto che io per primo lo ospiterei in casa mia, ogni volta che egli venisse ad Atene. E se io volessi che quello sbrigasse premurosamente per me delle faccende per le quali io sono giunto da lui, è altrettanto manifesto che io per primo dovrei fare la stessa cosa per lui”. [II,III,14] “Dunque è da gran tempo, disse Socrate, che celavi in te la conoscenza di tutte le pozioni magiche che gli uomini usano? Oppure, è per non parer dare un segno di impudenza, che ti periti di essere tu a fare per primo una buona azione verso tuo fratello? Eppure, in verità, uomo degno di grandissima lode appare essere colui che precede tutti gli altri nel fare del male ai nemici e nel beneficare gli amici. E se prima mi sembrava che Cherefonte fosse più disponibile di te a questa amicizia, io avrei cercato ogni modo per persuadere lui a metter mano per primo a ristabilire il legame con te; ora però sei tu che mi appari più disponibile di lui a lavorare per questa ricomposizione. [II,III,15] E Cherecrate gli rispose: “Socrate, tu stai dicendo cose assurde e indegne di te, dal momento che intimi a me, che sono il più giovane, di prendere l’iniziativa; mentre per certo presso tutti gli uomini si ritiene l’esatto opposto: cioè che sia il più anziano a prendere qualunque iniziativa, sia a fatti che a parole”. [II,III,16] “Ma come”, rispose Socrate, “non si ritiene ovunque, che il più giovane debba cedere il passo alla persona più anziana in cui si imbatte, alzarsi se è seduto, fargli l’onore di un giaciglio comodo, lasciargli la parola? Caro mio, non indugiare, e metti mano ad ammansire quell’uomo; e vedrai che egli prestissimo ti ubbidirà. Non vedi quanto egli sia ambizioso e libero? Per catturare gli esseri umani malvagi bastano e avanzano dei regali. Ma i galantuomini li persuaderesti unicamente trattandoli con amichevole cortesia”. [II,III,17] “Ma se io faccio quello che tu mi suggerisci ora”, disse Cherecrate, “e però lui non migliora affatto il suo atteggiamento nei miei confronti?” “Cos’altro vuoi che succeda”, gli rispose Socrate, “se non che tu correrai il rischio di dimostrare di essere una persona proba ed amichevole, mentre lui è un individuo stolto ed indegno d’essere trattato bene? Ma io credo che non accadrà nulla di tutto ciò. Ritengo, infatti, che egli, dal momento in cui si accorgerà che tu lo sfidi a gareggiare, combatterà con tutte le sue forze per avere il sopravvento su di te, facendo del bene sia a parole che a fatti. [II,III,18] Voi due adesso siete disposti come lo sono le due mani, che il cielo fece affinché si soccorressero a vicenda; e invece, tralasciato ciò, esse si volgessero ad impedirsi l’un l’altra. Oppure come i due piedi, i quali, per destino divino fatti per aiutarsi a vicenda, trascurando di fare così, si intralciassero l’un l’altro. [II,III,19] Il danneggiarsi a vicenda, per coloro che sono stati invece fatti per essere di reciproco giovamento, non sarebbe forse una grave mancanza di cultura ed una somma infelicità? In verità, a me pare che due fratelli, il cielo li abbia fatti affinché fossero di un giovamento reciproco ben maggiore di quello di due mani, di due piedi, di due occhi, e di tutti quanti gli altri organi doppi che la natura generò negli uomini. Le mani, infatti, quando ce ne fosse bisogno, non potrebbero fare contemporaneamente loro due oggetti che fossero lontani più di una tesa; e i piedi non possono poggiare contemporaneamente su oggetti che distano uno dall’altro una tesa. Gli occhi, i quali appaiono capaci di gettare lo sguardo lontanissimo, non potrebbero però vedere oggetti anche vicinissimi che abbiano sia, proprio dinanzi a loro, oppure dietro di loro. Invece due fratelli che sono amici tra di loro, pur essendo lontanissimi uno dall’altro, possono al contempo essere di giovamento reciproco.

[II,IV,1] Una volta io ascoltai Socrate discorrere sul tema dell’amicizia, e gli udii pronunciare parole dalle quali a me pare che si possa trarre gran vantaggio, sia quanto al modo acquisire amici, sia quanto al modo di servirsene. Egli affermava, in proposito, di avere sentito dire da moltissima gente che un amico sincero e dabbene è il più eccellente di tutti i possessi. Aggiungeva però, di vedere che la maggior parte degli uomini, di tutto si prendeva cura piuttosto che di farsi degli amici. [II,IV,2] Infatti diceva di notare che gli uomini pongono ogni attenzione possibile nell’acquisizione di case, di terreni agricoli, di schiavi, di bestiame e di suppellettili, e che fanno ogni sforzo per salvaguardarsene il possesso; mentre di un amico, che pure affermano essere il massimo bene, diceva di osservare che i più né si preoccupano di acquisirlo, né di salvaguardare l’amicizia con quelli che hanno già. [II,IV,3] Anzi, quando tanto degli amici che degli schiavi domestici erano sofferenti, Socrate diceva di vedere che, per gli schiavi domestici, alcuni facevano venire in casa dei medici ed apprestavano con cura tutti i vari rimedi risanatori, mentre della salute degli amici non si davano affatto pensiero. Quando poi capitava che morissero sia uno dei primi che uno dei secondi, i padroni si sentivano oppressi dal dolore per la scomparsa di schiavi domestici e la reputavano una perdita; mentre la scomparsa di amici non li prostrava affatto. Quanto agli altri averi, nulla lasciavano gli uomini negletto o incontrollato, mentre degli amici che avevano bisogno di attenzioni non si prendevano affatto cura. [II,IV,4] Oltre a ciò, Socrate diceva di vedere che la maggior parte degli uomini conosce la quantità dei vari averi che possiede, pur quando queste proprietà sono assai numerose; e che invece degli amici che ha, i quali pur sono pochissimi, non soltanto non conosce il numero, ma numerandoli sulle dita di una mano, muta di avviso quando li riconta: tant’è grande la premura che essi dedicano agli amici. [II,IV,5] Eppure, se paragonato a qualunque altro avere, un amico dabbene non apparirebbe forse il possesso di gran lunga migliore? Quale cavallo o quale tiro a due sarebbe tanto proficuo quanto un amico probo? Quale schiavo avrebbe così tanta buona volontà e sarebbe così fedele? Quale altro possesso è di così universale utilità? [II,IV,6] Infatti, l’amico dabbene si mette a disposizione dell’amico per tutto ciò di cui questi è mancante, per mettere ordine sia nei suoi affari privati che in quelli pubblici. Quando egli debba fare del bene a qualcuno, l’amico dabbene unisce a lui le sue forze. Se qualche paura lo sconcerta, egli corre in suo aiuto: a volte partecipa alle sue spese, a volte coopera col suo lavoro, a volte con la persuasione, a volte facendogli forza, il più delle volte allietandosi con quanti hanno buoni successi, e il più delle volte rimettendo in piedi coloro che hanno fatto dei passi falsi. [II,IV,7] I servigi che a ciascuno di noi rendono le mani, gli occhi che vedono, le orecchie che sentono, i piedi che ci permettono di incedere: ebbene, a nessuno di questi servigi un amico benevolo è inferiore. Anzi, molte volte ciò che uno non ha ancora messo in opera per sé, o non ha visto, o non ha udito, o i passi che non ha fatto: ebbene, l’amico li ha già principiati per l’amico. Nonostante ciò, taluni dedicano ogni cura alla coltivazione degli alberi in vista della raccolta dei frutti, mentre a quel possesso capace di dare ogni sorta di frutti, che si chiama ‘amico’, la maggior parte degli uomini dedica un’attenzione pigra e svogliata. 

[II,V,1] Una volta udii anche un altro discorso di Socrate, nel quale a me pareva che egli spronasse uno degli ascoltatori ad esaminarsi sul proprio valore per gli amici che aveva. Infatti, visto che uno dei suoi sodali trascurava del tutto un amico che si trovava in estrema povertà, in presenza di costui e di molte altre persone, [II,V,2] interrogò Antistene e gli chiese: “Antistene, esistono forse diversi valori in denaro degli amici, così come ne esistono diversi per gli schiavi domestici? Degli schiavi domestici, infatti, uno può costare due mine, un altro neppure mezza mina, un altro costare cinque mine, e un altro ancora finanche dieci mine. Per esempio si racconta che Nicia, il figlio di Nicerato, abbia comprato, quale soprintendente delle miniere d’argento, uno schiavo che costava un talento. Analizziamo dunque a fondo questa faccenda”, insistette Socrate, “ossia se, com’è il caso degli schiavi domestici, anche gli amici abbiano un valore in denaro”. [II,V,3] “Sì, per Zeus”, gli rispose Antistene, “piuttosto che due mine, io vorrei l’amicizia di una certa persona; un’altra la valuterei nemmeno mezza mina; invece un’altra la sceglierei come amica, preferendola a dieci mine; l’amicizia di un’altra ancora, la vorrei a costo di qualsiasi somma di denaro e di qualunque fatica”. [II,V,4] “Dunque”, disse Socrate, “se le cose stanno in questi termini, sarebbe bene che ognuno di noi indagasse a fondo se stesso, su quale sia il suo valore per gli amici che ha; e che faccia di tutto per valere il più possibile, affinché questi non lo vendano a tradimento sottoprezzo. Infatti, molte volte io sento qualcuno dire che un amico lo ha venduto a tradimento; un altro dire che un uomo che egli credeva amico suo, ha scelto di venderlo a tradimento al prezzo di una mina. [II,V,5] In tutti i casi di questo genere io considero che, se qualcuno vende un pessimo schiavo e lo vende a qualunque prezzo, forse uno si sente invogliato a vendere un pessimo amico qualora possa ricavarne assai più del giusto prezzo. Invece, di schiavi domestici probi io non ne vedo messi in vendita neppur uno, né vedo amici di specchiata probità esser venduti a tradimento. 

[II,VI,1] Anche circa il valutare coloro che vale la pena di farsi amici, a me sembrava che Socrate facesse rinsavire il suo interlocutore, quando parlava come segue: “Dimmi un po’, Critobulo, se avessimo bisogno di un buon amico, cosa prenderemmo in considerazione? In primo luogo non dobbiamo forse scovare chi abbia il completo dominio sugli impulsi del ventre, sugli eccessi nel bere, sulla lascivia, sul sonno e sulla pigrizia? Infatti chi è dominato da questi impulsi non potrebbe fare ciò che è doveroso, né per lui stesso né a favore di un amico”. “Per Zeus, certo che ne sarebbe incapace”, gli rispose Critobulo. “Dunque, a te sembra che una persona dominata da questi impulsi vada scartata come amico?” “Assolutamente sì”. [II,VI,2] “E poi? Chi è uno spendaccione incapace di bastare a se stesso ed ha continuamente bisogno dei vicini? Colui che quando ottiene del denaro in prestito, non lo restituisce; e quando non lo ottiene odia chi non glielo ha prestato? Non ti sembra che anche l’amicizia di costui sarebbe una vera disgrazia?” “Assolutamente sì, lo è.” “Dunque, anche costui è da scartare quale possibile amico?” “Sì, è davvero da scartare”. [II,VI,3] “E poi? Colui che è capace di accumulare roba e smania di accumularne sempre di più? E che per questo motivo è tutt’altro che socievole? E che, inoltre, quando accumula roba gioisce, e non vuole mai rendere alcunché?”. “A me sembra”, disse Critobulo, “che costui sia una persona ancor più malvagia della precedente”. [II,VI,4] “E poi? Chi, a causa della sua sfrenata passione per l’accumulazione di denaro, non si dà tregua finché non abbia trovato donde cavar guadagno?” “A me sembra che anche costui sia del tutto da scartare; giacché di nessun giovamento sarebbe a chi di lui si servisse”. “E poi? Chi è sedizioso e vuole procurare numerosi nemici ai suoi amici?” “Per Zeus, da una persona simile bisogna fuggire a gambe levate!” “E se uno non avesse alcuno di questi vizi, e mentre accetta volentieri di essere trattato bene, non si preoccupa però affatto di rendere il contraccambio?” “Pure costui sarebbe di nessun giovamento. Ma allora, caro il mio Socrate, quale sorta d’uomo metteremo mano a farci amico?” [II,VI,5] “Chiunque, io credo, sia l’opposto di tutti questi viziosi. Dunque: chi ha la piena padronanza dei piaceri del corpo, chi è ospitale, leale negli accordi che capita di fare, ambizioso di non rimanere indietro nel far del bene a coloro che lo hanno già beneficato, per essere così di vantaggio a coloro che di lui si valgono”. [II,VI,6] “E in che modo potremmo noi valutare tutte queste qualità, prima di valercene come amico?” “Gli scultori”, rispose Socrate, “noi li valutiamo basandoci non sulle loro parole, ma sul fatto di vedere che abbiano scolpito con arte perfetta delle statue già in precedenza. Così facendo, siamo fiduciosi che costui scolpirà altrettanto bene le statue future”. [II,VI,7] “E tu dici”, chiese Critobulo, “che un uomo il quale mostri di avere fatto del bene agli amici già tempo prima, manifestamente beneficerà anche gli amici che avrà in seguito?” “Sì”, rispose Socrate, “giacché colui che io so avere già in precedenza utilizzato a regola d’arte dei cavalli, credo che in seguito farà buon uso anche di altri cavalli”. [II,VI,8] “Sia pur così”, disse Critobulo, “ma qual è il modo più opportuno per farsi amico colui che ci appare degno della nostra amicizia?” “In primo luogo bisogna esaminare quali siano le disposizioni degli dei, e se il loro consiglio è quello di farcelo amico”. “E dunque? Se a noi sembra il caso di farcelo amico, e se gli dei a ciò non si oppongono, sai dirmi come si debba andarne a caccia?” [II,VI,9] “Per Zeus, non certo seguendone a piedi le orme , come si fa con la lepre; né con le trappole, come si fa con gli uccelli; né con la violenza, come si fa con i nemici. È opera ben gravosa il farsi un amico contro la sua volontà; ed è ben arduo il conservarlo mettendolo ai lacci come uno schiavo; giacché coloro che subiscono questi trattamenti diventano nemici piuttosto che amici”. [II,VI,10] “Dunque come farseli amici?” “Alcuni affermano”, rispose Socrate, “che esistono degli incantamenti, cantando i quali, coloro che li conoscono riescono a farsi amico chi vogliono. Si parla anche dell’esistenza di filtri magici, grazie ai quali, chi li conosce e li somministra, riesce a farsi amico chiunque voglia”. [II,VI,11] “E da chi potremmo”, chiese Critobulo, imparare queste arti?” “Gli incantamenti che le Sirene cantavano ad Odisseo, li hai certamente sentiti pronunciare da Omero, e cominciano all’incirca con queste parole”:

‘Qui, presto vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei’

“Socrate, questo è dunque l’incantamento”, chiese Critobulo, “che le Sirene cantavano anche agli altri uomini per trattenerli, così che quelli ch’erano presi per incantamento non si allontanassero più da loro?” [II,VI,12] “L’incantamento non era diretto a tutti, ma a chi, per la propria eccellenza, ambiva la gloria”. “Pressappoco stai dicendo”, chiese Critobulo, “che è d’uopo cantare incantamenti tali che chi li ascolta non ritenga di essere in realtà ridicolizzato da chi lo sta lodando?” “Sì, giacché così facendo”, rispose Socrate, “chi fa l’incantamento gli si mostrerebbe ancor più nemico, ed allontanerebbe gli uomini da sé, se lodasse chi sa di essere piccolo, laido e debole, dicendo invece che è bello, grande e potente”. “E conosci tu degli altri incantamenti?” [II,VI,13] “No, ma ho sentito dire che Pericle ne conosceva molti, cantando i quali alla città egli faceva sì che essa lo amasse”. “E come riuscì Temistocle a far sì che la città lo amasse?” “Ma per Zeus, di certo non cantando, ma circondandola di certi eccellenti amuleti”. [II,VI,14] “Socrate, tu mi stia dicendo, così mi sembra, che se intendiamo acquistarci un buon amico, dobbiamo diventare noi stessi uomini virtuosi, sia a parole che a fatti”. “Tu credevi”, disse Socrate, “di essere capace, da uomo malvagio, di acquistarti l’amicizia di uomini probi?” [II,VI,15] “L’ho creduto, giacché ho visto oratori di nessun valore in rapporti amichevoli con parlatori più che egregi, e gente militarmente inetta in compagnia di comandanti militari peritissimi”. [II,VI,16] “Dunque, a proposito di ciò che stiamo discutendo”, chiese Socrate, “conosci tu delle persone del tutto inette ma capaci di farsi amici degli uomini in grado di giovare loro?” “Per Zeus, questo no”, gli rispose Critobulo; “ma se è impossibile che una persona malvagia possa farsi amici degli uomini dabbene; quel che mi interessa sapere è se si dà il caso che un uomo diventato dabbene, sia di per sé preparato e pronto ad essere amico di uomini dabbene”. [II,VI,17] “Ciò che ti sconcerta, mio caro Critobulo”, gli rispose Socrate, “è che spesso tu vedi persone che agiscono bene e che si astengono da azioni vergognose; le quali persone, invece di essere amiche, sono in continuo disaccordo tra di loro e si trattano peggio delle persone da nulla”. [II,VI,18] “Ed a trattarsi così”, disse Critobulo, “non sono soltanto gli individui singoli, ma anche gli Stati. Questi infatti, che sono massimamente solleciti della giustizia e che non approvano affatto le ingiustizie, spesso si trattano però l’un l’altro da nemici. [II,VI,19] Tenuto conto di questi fatti, io mi sento del tutto scoraggiato a farmi degli amici, visto che i malvagi non possono esserlo tra di loro. Infatti, come potrebbero diventare amici individui ingrati, trascurati, prevaricatori, infidi, non padroni di sé? Dunque i malvagi mi sembrano assolutamente e per natura, nemici uno dell’altro, ben più che amici. [II,VI,20] E invero, come dici tu, i malvagi non potrebbero mai conciliarsi in amicizia con gli uomini probi. Gli individui che fanno azioni malvagie, come potrebbero mai diventare amici di uomini che odiano siffatte azioni? E inoltre, se gli uomini esercitati alla virtù sono in continuo disaccordo tra di loro sul primeggiare negli Stati e, invidiosi come sono uno dell’altro, si odiano a vicenda; chi mai sarà più un amico, e tra quali uomini esisteranno ancora la benevolenza e la fiducia reciproca?” [II,VI,21] “Caro Critobulo”, rispose Socrate, “si tratta di una faccenda che ha aspetti assai variegati. Infatti, gli uomini hanno per natura degli impulsi alla pace, giacché hanno bisogno gli uni degli altri, provano compassione reciproca, collaborano tra di loro e si giovano a vicenda; ed avendo coscienza di ciò mostrano gratitudine gli uni verso gli altri. Ma gli uomini hanno anche impulsi naturali alla guerra, e legittimando entrambi gli impulsi come buoni e accettabili, e così dissentendo tra loro sulla pace e sulla guerra, si oppongono e arrivano a combattersi. Discordia e ira portano alla guerra, la voglia sfrenata di prevalere sugli altri diventa ostilità, e l’invidia diventa odio. [II,VI,22] Eppure, nonostante tutto ciò, l’amicizia si insinua tra gli uomini e congiunge insieme quelli dabbene. Grazie alla loro virtù, gli uomini dabbene scelgono, senza fatica, di possedere i beni con moderazione, piuttosto che di signoreggiare su tutto attraverso la guerra. Quando hanno fame e sete, essi sono capaci, senza affliggersene, di mettere in comune il cibo e le bevande; e pur sapendo godere dei piaceri sessuali con chi è nel fior degli anni, sanno padroneggiarsi così da non generare afflizione in chi non deve subirne. [II,VI,23] Gli uomini dabbene sono anche capaci, non soltanto di astenersi dalla eccessiva ricchezza e di mettere in comune quella legittima, ma anche di sovvenirsi l’un l’altro in caso di bisogno. Sanno comporre le discordie, non solo senza affliggersi, ma traendone utilità reciproca; ed impedire all’ira di procedere fino al rimorso. Essi, inoltre, bandiscono del tutto l’invidia, ed offrono i loro beni agli amici, ritenendo a loro volta propri, i beni degli amici. [II,VI,24] Come può essere verosimile che degli uomini dabbene, i quali non solo non si danneggiano ma anzi si giovano reciprocamente, non siano chiamati a compartecipare ad incarichi politici? Infatti, coloro che smaniano di ottenere onorificenze e di comandare nei vari Stati, per avere così la potestà di rubare il denaro pubblico, di usare la violenza contro i cittadini, e di spassarsela, sarebbero in ogni caso tutti ingiusti, malvagi, ed incapaci di andare d’accordo con chiunque. [II,VI,25] Se invece qualcuno vuole ottenere delle onorificenze da parte dello Stato, così da non essere più oggetto di ingiustizie, così da poter aiutare gli amici per una giusta causa; e se da funzionario cerca di fare qualcosa di buono per la patria: ebbene, perché un uomo del genere non potrebbe andare d’accordo con un altro individuo dello stesso genere? Forse che costui, insieme con gli uomini dabbene, potrà esser di minore giovamento agli amici, o avrà forse minori possibilità di beneficare lo Stato, avendo quali collaboratori degli uomini dabbene? [II,VI,26] Anche nel caso delle gare di atletica, è evidente che se fosse consentito al gruppo di atleti più forte, di gareggiare insieme contro il gruppo dei più deboli, i primi vincerebbero tutte le gare ed otterrebbero tutti i premi spettanti ai vincitori. Poiché, dunque, nel caso delle gare di atletica, questa pratica è proibita; e invece nel caso dell’attività politica, campo nel quale gli uomini dabbene detengono di gran lunga la supremazia, nessuno impedisce di fare del bene allo Stato associandosi con chiunque si voglia: ebbene, come può essere svantaggioso l’amministrare la cosa pubblica, se si hanno con sé gli amici più eccellenti, e se in tali faccende tutti si trattano come soci e collaboratori piuttosto che come antagonisti? [II,VI,27] Invero, è manifesto che se uno fa la guerra ad un altro, avrà bisogno di alleati, e di alleati in gran numero, ove si tratti di contrapporsi ad una armata di soldati valorosi. Inoltre i volontari che ha come alleati, egli dovrà coprirli di benefici, affinché questi accettino così di dimostrarsi coraggiosi. Cosa molto migliore è però il beneficare i pochi che sono più valorosi, piuttosto dei molti che sono codardi, giacché i codardi pretendono una quantità di prebende assai maggiore di quella richiesta dai prodi. [II,VI,28] Fatti dunque coraggio, mio caro Critobulo, e cerca di diventare un uomo virtuoso. E una volta diventatolo, metti mano alla caccia degli uomini dabbene. Forse potrei anch’io soccorrerti in questa caccia ai virtuosi, giacché io sono un adepto di eros. Circa gli uomini per i quali io eventualmente smanierò, mi sento già ora tutto intero preso da un impeto a farmeli amici e ad essere ricambiato dalla loro amicizia, a bramare la conversazione con loro e ad essere ricambiato con la stessa brama, a smaniare di stare insieme a loro ed a notare in loro la stessa smania. [II,VI,29] Io vedo che tu pure di queste cose senti il bisogno, quando smani di farti delle amicizie. Dunque, non nascondermi chi siano gli uomini che vorresti farti amici; e grazie al mio darmi cura di riuscire gradito a chi mi è gradito, credo di non essere inesperto nella caccia agli uomini. [II,VI,30] “Invero, caro Socrate, è da gran tempo”, rispose Critobulo, “che io smanio di apprendere queste nozioni; soprattutto se una medesima scienza mi sarà sufficiente per catturare le persone nobili d’animo e belle di corpo”. [II,VI,31] “Ma mio caro Critobulo”, gli rispose Socrate, “la mia scienza non comprende il mettere le mani addosso ai belli, per farli fermare. Io sono persuaso che gli uomini rifuggivano da Scilla per questo motivo, ossia perché ella metteva loro le mani addosso. Invece si dice che le Sirene, poiché non mettevano le mani addosso ad alcuno e cantavano a tutti da lontano i loro incantamenti, facessero fermare tutti gli uomini che rimanevano ammaliati dal loro canto”. [II,VI,32] “Io non metterò le mani addosso a nessuno”, promise Critobulo, “e tu insegnami quanto di buono conosci che sia utile per farsi degli amici”. “Dunque”, chiese Socrate, “neppure avvicinerai le labbra alle labbra di qualcuno?” “Abbi fiducia in me: io non avvicinerò le mie labbra”, rispose Critobulo, “a quelle di chiunque non sia bello”. “Ed ecco che tu, mio caro Critobulo, hai già subito fatto una affermazione del tutto sconveniente. Infatti siffatti baci, le persone belle d’animo non li sopportano; mentre sono quelle malvagie che volentieri di essi si compiacciono, credendo di essere chiamate così perché d’animo nobile. [II,VI,33] Al che Critobulo rispose: “Visto che bacerò una volta le persone belle di corpo, e che ribacerò più volte quelle di animo nobile: orsù, insegnami l’arte di andare a caccia di amici”. “Qualora dunque, caro Critobulo, tu voglia”, gli rispose Socrate, “diventare amico di qualcuno; mi permetterai di parlargli e di dirgli che tu lo ammiri e che smani di diventare suo amico?” “Dichiaraglielo pure”, disse Critobulo, “giacché so che nessuno odia coloro che lo lodano”. [II,VI,34] “E se inoltre aggiungerò”, disse Socrate, “che a causa dell’ammirazione che hai per lui, tu provi benevolenza nei suoi confronti; penserai forse che per parte mia io ti stia calunniando?” “Anzi, è il contrario”, disse Critobulo, “giacché in me si ingenera spontaneamente una particolare benevolenza verso coloro che io concepisco provare benevolenza nei miei confronti”. [II,VI,35] “Bene”, continuò Socrate, “dunque mi è concessa la piena potestà, a tuo riguardo, di parlare in questi termini con coloro che tu vorrai farti amici. Se, inoltre, mi concederai la potestà di dire, a tuo riguardo, che ti prendi ogni cura degli amici; che della compagnia di nessuno gioisci quanto di quella di amici dabbene; che ti compiaci delle opere virtuose degli amici, non meno che delle tue; che gioisci delle buone fortune degli amici non meno che delle tue, e che non ti stanchi un istante di trovare il modo per far sì che queste accadano loro; che da tempo hai riconosciuto che proprio di un uomo virtuoso è il superare gli amici nel far loro del bene e nel fare del male ai nemici: ebbene, io credo fermamente che sarei per te un più che idoneo compagno nella caccia agli amici dabbene”. [II,VI,36] “E perché mai”, gli chiese Critobulo, “mi dici queste cose; come se non dipendesse soltanto da te quel che vorrai eventualmente dire a mio riguardo?” “No, per Zeus! Quel che sto dicendo è ciò che io ho sentito una volta affermare da Aspasia. Ella soleva infatti dire che le buone mediatrici di matrimoni, riferendo secondo verità la dote posseduta dalle donne, sono portentose nel combinare per loro le nozze con degli uomini; e ripeteva però anche di non volere assolutamente lodare le mediatrici mendaci. Infatti, coloro che sono stati da esse ingannati, si odiano l’un l’altra, ed insieme odiano quella che ha fatto da mediatrice. Io pertanto, persuaso come sono della correttezza si simili affermazioni, quando ti lodo ritengo di non avere la potestà di dire alcunché che non sia pienamente veritiero”. [II,VI,37] “Dunque, mio caro Socrate, tu sei per me quel genere di amico”, disse Critobulo, “tale che tu mi vieni in soccorso se io già di mio sono idoneo a farmi degli amici; e che però, se io idoneo non sono, non inventerebbe mai qualche favoletta a mio giovamento”. “Mio caro Critobulo”, gli rispose Socrate, “io sembro a te giovarti di più se ti lodo dicendo delle menzogne, oppure persuadendoti a sforzarti di diventare un uomo dabbene? [II,VI,38] Se la risposta non ti appare abbastanza evidente, analizza la faccenda in questo modo. Se io, volendo farti diventare amico del comandante di una nave, tessessi le tue lodi mentendo, e quindi asserissi che tu sei un ottino nocchiero; e se egli, a questo punto, convinto dalle mie parole, cedesse a te, che non conosci affatto l’arte di governarla, il comando della nave: ebbene, hai qualche speranza di non mandare in malora sia te stesso che la nave? Oppure se io, ingannando pubblicamente l’intera città, la inducessi ad affidare a te, come generale espertissimo, giurista di prim’ordine ed abilissimo politico, la guida dello Stato: ebbene, cosa credi che sperimenteresti tu e che soffrirebbe lo Stato per opera tua? Oppure se io, ingannando in privato un certo numero di cittadini, li inducessi ad affidare a te, come esperto economista e diligente amministratore, le loro proprietà: ebbene, non daresti forse prova di essere per loro una vera sciagura e non faresti forse una figura ridicola? [II,VI,39] Invece, mio caro Critobulo, la via più spiccia, la via più sicura e quella migliore in assoluto, per realizzare qualunque impresa nella quale tu voglia mostrati uomo di valore, è questa: sforzarti di diventare un uomo dabbene. Quelle che tra gli uomini sono chiamate virtù, se le analizzi a fondo, troverai che tutte diventano rigogliose per via dell’apprendimento e del costante esercizio. Io dunque, Critobulo, credo che questo sia il modo in cui noi dobbiamo cacciare. Se tu poi conosci qualche altro modo, spiegamelo”. “Caro Socrate”, gli rispose Critobulo, “io mi vergognerei se contestassi queste tue parole; giacché non saprei pronunciarne altre altrettanto nobili e vere”.

[II,VII,1] Quanto poi alle angustie degli amici, Socrate cercava di porre rimedio col ragionamento a quelle che dipendevano dall’ignoranza; mentre a quelle causate dall’indigenza, insegnando loro come aiutarsi vicendevolmente nel miglior modo possibile. Anche su queste vicende riferirò ciò che appresi da lui. Infatti una volta, vedendo Aristarco tutto accigliato, Socrate gli disse: “Aristarco, mi sembra che tu ti stia portando dentro un gran peso. È opportuno che questo peso tu lo spartisca con gli amici, e forse noi potremmo alleggerirtelo un poco”. [II,VII,2] “In tutta verità, caro Socrate”, gli rispose Aristarco, “io mi trovo davvero in grandi angustie. Infatti, dopo che in città c’è stata la guerra civile e moltissimi cittadini sono sfollati al Pireo, hanno trovato rifugio da me tutte quante le sorelle, le nipoti e le cugine che mi erano rimaste: sicché io ora mi ritrovo in casa ben quattordici persone di condizione libera. Non ricaviamo nulla dalla nostra terra, perché di essa si sono impossessati quelli della fazione avversa; né ricaviamo qualcosa dalle abitazioni che possediamo, giacché vi è scarsezza di popolazione. Mobili e suppellettili nessuno li compra, e da nessuna parte è possibile trovare del denaro in prestito. Anzi, a me pare che si raccatterebbe prima del denaro cercandolo per terra sulla strada, che trovarlo cercando di ottenere un prestito. Pertanto è davvero esasperante il vedersi circondato da familiari in totale rovina, e nella impossibilità, in simili circostanze, di dar da mangiare a un così gran numero di persone”. [II,VII,3] Udite queste parole, Socrate allora gli chiese: “Cos’è a far sì che Ceramone, il quale dà da mangiare a molti, abbia la capacità di procurare tutte le provviste necessarie non soltanto a se stesso ma anche a costoro, riuscendo inoltre a mettere da parte tanto denaro da essere ricco; mentre tu invece, che pure dai da mangiare a molti, hai il timore che andiate in rovina tutti quanti per mancanza delle necessarie provviste?” “Ma per Zeus”, gli rispose Aristarco, “è perché lui dà da mangiare a degli schiavi, mentre io do da mangiare a delle persone di condizione libera”. [II,VII,4] “E secondo te”, gli chiese Socrate, “quali dei due gruppi ritieni tu che sia il migliore: quello delle persone di condizione libera o quello delle persone schiave?” “Io credo”, rispose Aristarco, “che sia quello delle persone di condizione libera che stanno da me” “E allora”, continuò Socrate, “non è vergognoso che Ceramone derivi la sua prosperità dal lavoro dei più malvagi, e che tu invece sia in angustie avendo con te delle persone molto migliori?” “Sì, per Zeus, ma quello”, fece notare Aristarco, “dà da mangiare a degli artigiani; io invece do da mangiare a delle persone che hanno avuto una educazione liberale!” [II,VII,5] “E gli artigiani sono persone”, chiese Socrate, “che hanno appreso l’arte di produrre qualcosa di proficuo?” “Senz’altro!” “E sono proficue le farine?” “Lo sono moltissimo” “E i pani?” “Non certo di meno” “E allora? I vestiti da uomo e da donna”, insistette Socrate, “le toghe, le tuniche, le mantelline, le canotte?” “Anche queste sono tutte proficue al massimo grado!” “E quindi quelli che stanno in casa tua non sanno fare neppure una di queste cose?” “A mio parere, essi le sanno fare tutte” [II,VII,6] “Dunque non sai che coi proventi di una sola di queste attività, cioè dalla macinatura delle farine, Nausicide non soltanto mantiene se stesso e dà da mangiare ai suoi familiari, ma oltre a ciò, alleva un gran numero di maiali e di buoi, sicché accumula tanto denaro che spesso si accolla la spesa per delle cerimonie riguardanti la città intera? Che Cirebo, dall’attività di panettiere, trae il sostentamento per tutta la sua numerosa famiglia e riesce a vivere nell’abbondanza? Che Demea di Collito, dalla confezione di mantelline, Menone da quella di sopravvesti, e la gran parte dei Megaresi da quella delle canotte ricavano di che mangiare?” “Sì, per Zeus, lo so”, rispose Aristarco, “ma costoro hanno al loro servizio uomini barbari che hanno comprato come schiavi, sicché possono costringerli a lavorare a loro piacimento. Io ho invece in casa persone di condizione libera e congeneri non barbari”. [II,VII,7] “E così”, gli rispose Socrate, “poiché si tratta di persone di condizione libera e di tuoi congeneri, credi tu che costoro debbano non fare altro che mangiare e dormire? Delle altre persone di condizione libera, vedi tu forse coloro che vivono a questo modo passarsela meglio, e le ritieni tu più felici, di quelle che si danno da fare in attività che esse conoscono bene essere proficue per vivere? Hai tu forse mai sentito dire che l’inerzia e l’incuria siano di gran giovamento agli uomini per imparare ciò che conviene loro conoscere bene; per ricordare ciò che abbiano imparato; per mantenere il corpo in buona salute e per renderlo più forte; per possedere e per salvaguardare tutto ciò che è proficuo per vivere: mentre il lavoro e la diligenza non sono a questo scopo di alcun giovamento? [II,VII,8] I lavori che tu dici essere ben conosciuti dalle tue congiunte, li hanno esse imparati come attività del tutto improficue per la vita, e che non avrebbero mai messo in opera; oppure, al contrario, come attività delle quali esse avrebbero continuato ad occuparsi anche nel futuro e dal cui impiego esse avrebbero tratto giovamento? In quale di questi due modi gli uomini diverrebbero più assennati? Rimanendo inerti, oppure dedicandosi a lavori proficui? E in che modo sarebbero più giusti? Lavorando per approvvigionarsi del necessario, oppure discutendone senza mettervi mano alcuna? [II,VII,9] Ma al giorno d’oggi, a parer mio, tu non vuoi affatto bene a quelle donne, ed esse non ne vogliono a te; dal momento che tu le ritieni dannose per te, e quelle ti vedono adontato con loro. Da questo stato di cose, c’è pericolo che la loro avversione per te diventi man mano più grande, e che la loro precedente gratitudine diminuisca. Se tu, invece, patrocinerai con decisione il progetto di far loro intraprendere un’attività, tu vorrai loro davvero bene, vedendo che ti sono di giovamento; ed esse ti avranno davvero caro, accorgendosi che tu ti compiaci di loro. Così, ricordandovi con maggior piacere delle precedenti buone azioni, incrementerete la gratitudine legata a tali attività, e più amichevolmente e più familiarmente sarete disposti gli uni verso gli altri. [II,VII,10] Certo, se esse intraprendessero un lavoro vergognoso, la morte sarebbe per loro la scelta migliore. Invece, esse conoscono bene lavori che sono onorevolissimi e adattissimi, come sembra, per delle donne. E quei lavori che tutte le donne conoscono bene, esse li effettuano con la più grande facilità, rapidità, esattezza e piacere. Non peritarti, quindi, a far loro intraprendere dei lavori”, concluse Socrate, “che avvantaggeranno sia te che loro; ed esse verosimilmente ti daranno retta con piacere”. [II,VII,11] “Sì, per gli dei”, rispose Aristarco, “mi sembra proprio che tu, caro Socrate, stia dicendo delle cose davvero giuste. Il fatto è che io, in precedenza, non procedevo a chiedere del denaro in prestito, perché sapevo bene che una volta speso quello ottenuto, non avrei avuto modo di restituirlo. Adesso invece mi sembra di potermi permettere di farlo, così da procurare la materia prima necessaria per tali lavori”. [II,VII,12] In seguito a questa decisione fu fatta la provvista di denaro e fu comprata la lana necessaria. Dopo di che, le congiunte di Aristarco, fatta colazione si mettevano all’opera e cenavano al termine della giornata di lavoro. Erano diventate ilari invece che immusonite; invece di tenere gli occhi bassi, si guardavano l’un l’altra con piacere; volevano bene a lui in quanto loro tutore, e lui le aveva care perché gli giovavano. Per farla breve, Aristarco, venuto una volta a trovare Socrate, mentre gli narrava tutto ciò, pieno di allegria aggiunse pure che le sue congiunte che aveva in casa, ora lo accusavano di essere il solo che mangiasse a sbafo. [II,VII,13] Al che, Socrate gli chiese: “E perché non racconti loro la favola del cane? Si narra, infatti, che quando gli animali avevano la parola, la pecora disse al padrone: ‘Tu fai qualcosa di stupefacente, giacché a noi che ti procuriamo la lana, gli agnelli e il formaggio, non dai altro da mangiare che quanto prendiamo dalla terra; e invece col cane, il quale non ti procura nulla del genere, tu spartisci addirittura il tuo stesso cibo’. [II,VII,14] Udite queste parole, il cane disse: ‘Sì, per Zeus, sono io quello che salvaguarda in vita pure voi pecore, così che non siate rubate dagli uomini né rapite dai lupi. Giacché se io non vi facessi la guardia, voi neppure pascolare potreste, per paura di perire tutte quante in malo modo’. E si racconta che fu questo il motivo per cui le pecore accettarono che il cane fosse anteposto loro quanto ad importanza. Dunque”, continuò Socrate, “dì alle tue donne che al posto del cane, ci sei tu a fare la guardia ed a prendersi cura di loro; e che grazie a te esse possono vivere senza patire ingiustizie e lavorare in sicurezza e con piacere”. 

[II,VIII,1] Una volta, vedendo dopo molto tempo un altro suo antico compagno, Socrate gli chiese: “E tu, Eutero, da dove spunti fuori?” “Socrate”, gli rispose Eutero, “è appena finita la guerra, ed io giungo qui proprio ora dal paese straniero in cui mi trovavo. E poiché mi sono stati confiscati tutti i possedimenti che avevo fuori dell’Attica, ed in Attica mio padre non mi ha lasciato padrone di alcunché; una volta tornato in patria mi trovo costretto a lavorare manualmente per procurarmi il necessario per vivere. A me pare che questa scelta sia migliore di quella di mendicare un aiuto dalla gente; e per un altro verso, non avendo io proprietà alcuna, mi è impossibile chiedere del denaro in prestito”. [II,VIII,2] “E per quanto tempo pensi”, gli domandò Socrate, “che ti basterà il lavoro manuale per ottenere una paga che ti fornisca il necessario per vivere?” “Per Zeus”, rispose Eutero, “non a lungo”. “Eppure, quando diventerai anziano, è manifesto che avrai bisogno di fare delle spese, e che però più nessuno vorrà pagarti per dei lavori di manovalanza”. [II,VIII,3] “Quel che dici, è vero”. “Dunque la cosa migliore è quella di impiegarsi immediatamente in quel genere di lavori che basteranno per vivere anche a chi è diventato anziano. Quindi si tratta di impiegarsi presso qualcuno di coloro che possiedono moltissime ricchezze, uno che ha bisogno di un collaboratore di fiducia che si prenda cura di esse, che soprintenda i lavori, raccolga gli interessi, faccia il custode del patrimonio: insomma, una persona che prestando il suo servizio ne riceva in cambio una paga”. [II,VIII,4] “Ma ben difficilmente, caro Socrate, io sopporterei una tale servitù”. “Eppure, coloro che governano gli Stati e si prendono cura degli affari pubblici, in seguito a questi incarichi non sono ritenuti persone servili ma persone più libere”. [II,VIII,5] “Socrate,”, ribadì Eutero, “io non mi adatto assolutamente ad essere oggetto della riprensione di qualcuno”. “Eppure, caro Eutero”, disse Socrate, “non è affatto facile trovare un lavoro facendo il quale uno non abbia qualche colpa. È infatti difficile effettuare qualcosa in modo da non errare; ed è anche difficile che chi fa qualcosa in modo irreprensibile, non si imbatta però in qualche giudice sconsiderato. Ed anche nel caso di coloro per i quali tu dici ora di lavorare, io mi meraviglierei che fosse facile passarsela senza rimproveri. [II,VIII,6] È pertanto d’uopo sforzarsi di rifuggire i colpevolisti, e seguire le tracce delle persone costumate. Quanto alle faccende che intraprendi, attieniti a quelle che puoi effettuare e guardati dall’effettuare quelle che non sei all’altezza di compiere. Qualunque cosa tu effettui, studiati poi sempre di effettuarla il meglio possibile, e impegnandoti in essa con piena convinzione. Operando in questo modo, io credo che tu non sarai oggetto di accuse, e soprattutto credo che tu troverai aiuto in momenti difficili, che la tua vita sarà più agevole e meno ricca di pericoli, e che sarà tale da non farti mancare alcunché fino alla tarda vecchiaia.

[II,IX,1] So che una volta Socrate sentì Critone sottolineare come il vivere ad Atene fosse esasperante per un uomo volenteroso di farsi i fatti suoi. “Infatti adesso”, diceva Critone, “taluni mi portano in tribunale, non perché io sia colpevole di qualche ingiustizia nei loro confronti, ma perché valutano che per me sia preferibile sborsare del denaro piuttosto che avere delle grane”. [II,IX,2] Pertanto, rivolgendosi a lui, Socrate gli chiese: “Dimmi un po’, Critone, mantieni tu dei cani, affinché essi ti tengano i lupi lontani dalle pecore?” “Senz’altro faccio così”, gli rispose Critone, “giacché mi è di maggior vantaggio il mantenerli che il non mantenerli”. “E dunque, non ti sarebbe di gran vantaggio anche il mantenere un uomo che voglia, e che sia capace di tenere lontani da te quanti armeggiano per commettere ingiustizie a tuo danno?” “A me farebbe molto piacere il farlo”, rispose Critone, “se fossi però sicuro che costui non mi si rivolta contro”. [II,IX,3] “E perché rivoltarsi contro di te? Non noti anche tu che è molto più piacevole giovarsi di un uomo come te, ingraziandoselo piuttosto che rendendoglisi odioso? E sappi che qui in città esistono uomini tali che riterrebbero un onore averti come amico”. [II,IX,4] Socrate e Critone rinvennero dunque uno di costoro in Archedemo. Archedemo era un oratore eccellente, capace negli affari, ma povero. Essendo una persona proba, egli infatti non era disposto a cavar denaro da chiunque, e sosteneva però che per lui era cosa facilissima mungere i sicofanti. Dunque, ogni volta che Critone ammassava del grano, oppure dell’olio, o del vino, o della lana, o qualcun’altro dei prodotti agricoli utili per la vita, ne dava una parte ad Archedemo; ed ogni volta che offriva un sacrificio agli dei, vi invitava anche Archedemo; e insomma si prendeva cura di lui in tutte le occasioni del genere. Ritenendo per se stesso un rifugio la casa di Critone, Archedemo prese così a dire un gran bene di lui. [II,IX,5] Quasi subito Archedemo rinvenne molte violazioni delle legge da parte dei sicofanti che accusavano Critone, e rinvenne anche molti loro nemici personali. Uno di questi sicofanti, egli lo faceva allora processare pubblicamente; e si trattava in genere di un processo nel quale si doveva giudicare se gli toccasse una pena corporale oppure il pagamento di una ammenda. [II,IX,6] Il sicofante, conscio com’era di avere sulle spalle molti e malvagi delitti, faceva allora di tutto per sbarazzarsi di Archedemo; ma Archedemo non mollava la presa su di lui fino a quando il sicofante non aveva ritirato l’accusa contro Critone, e non lo aveva risarcito con del denaro. [II,IX,7] Dopo avere mandato ad effetto questo e molti altri processi del genere; a quel punto ormai, come accade quando un pastore ha a disposizione un ottimo cane da guardia, anche gli altri pastori vogliono che le loro greggi stiano nei paraggi di quel pastore, per poter così usufruire della presenza di quel cane; molti degli amici di Critone solevano pregarlo di fornir loro Archedemo come guardiano. [II,IX,8] Ad Archedemo faceva molto piacere il far così cosa gradita a Critone, e che non soltanto Critone ma anche i suoi amici potessero vivere in pace. Se poi qualcuno di coloro ai quali Archedemo era odioso, gli rinfacciava di adulare Critone per l’utile che ne traeva, Archedemo rispondeva: “Ma è forse vergognoso l’essere beneficato da uomini probi e, ricambiandone i benefici, farsi amici uomini siffatti, distinguendosi così dai malvagi? O, piuttosto, vergognoso è il cercare di commettere ingiustizie contro gli uomini dabbene e farsene così dei nemici, e collaborando con i malvagi il farseli amici, servendosi dunque di costoro invece che di quelli?” Dopo di ciò, Archedemo fu il numero uno degli amici di Critone, ed era tenuto in grande onore anche dagli amici di Critone. 

[II,X,1] Sono anche al corrente del fatto che Socrate ebbe con il suo intimo amico Diodoro una discussione su argomenti come i seguenti. “Dimmi un po’, Diodoro”, gli chiese Socrate, “se uno dei tuoi schiavi domestici fuggisse di nascosto, ti prendi tu cura di andarne alla ricerca per riaverlo sano e salvo?” [II,X,2] “Sì, per Zeus, e invito anche altri a farlo, spargendo la voce che offro una ricompensa, nel caso che egli ritorni da me sano e salvo”. “E nel caso”, continuò Socrate, “che uno dei tuoi schiavi domestici cada malato, ti prendi cura di lui e chiedi l’intervento dei medici, affinché egli non muoia?” “Assolutamente sì!” rispose Diodoro. “E se uno dei tuoi conoscenti, il quale ti è di certo molto più utile degli schiavi domestici, corre il pericolo di andare in malora a causa della sua mancanza di mezzi, non ritieni che abbia gran valore la tua sollecitudine di salvarlo? [II,X,3] Ebbene, tu sai che Ermogene non è un ingrato, ma un uomo che, quando ricevesse un favore da te, si vergognerebbe di non ricambiartelo. Ordunque, l’avere un inserviente volenteroso, benevolo e fedele; capace di effettuare ciò che gli viene comandato; e non soltanto ciò che gli viene comandato, ma capace di utili iniziative autonome, di prevedere, di decisioni ben ponderate in anticipo: ebbene, io credo che valga quanto molti schiavi domestici. [II,X,4] I buoni amministratori, qualora abbiano la possibilità di acquistare a poco prezzo qualcosa che è di gran valore, affermano che quello è il momento di comprare. E di questi tempi, a causa delle vicende militari e politiche, c’è la possibilità di acquistare ottimi amici a buon mercato”. [II,X,5] “Stai dicendo una cosa molto giusta, caro Socrate”, disse Diodoro, “ed avverti quindi Ermogene di venire da me”. “Per Zeus”, gli rispose Socrate, “non sarò certo io a fare una cosa del genere. Ritengo infatti che in questa faccenda, la cosa più corretta da farsi non sia il chiedere a lui, attraverso di me, di venire da te; ma che sia tu ad andare spontaneamente da lui; e che per lui non vi sia maggior bene del vedere la cosa definita da te personalmente”. [II,X,6] Pertanto Diodoro si recò da Ermogene; e senza una gran spesa si fece un amico, il cui lavoro era quello di esaminare con attenzione, sia in teoria che in pratica, tutto ciò che risultasse utile e gradito a Diodoro.

Libro III

Introduzione

Quelli che la tradizione ha raccolto sotto il generico nome di ‘Memorabilia’, ovvero di ‘Detti e fatti memorabili’, sono appunti disparati che Senofonte scrisse in tempi diversi e senza un ordine preciso. L’unico elemento che appare tenerli uniti è la presenza costante del personaggio ‘Socrate’, come visto ed interpretato da Senofonte. 

Per comodità, io ho raccolto ciascun appunto in altrettanti paragrafi. Gli appunti che formano il Libro III sono in totale 24, e l’argomento di ciascuno di essi è il seguente.

Appunto 1 – [III,I,1-11] Socrate discute, con un suo giovane amico, della promessa del sofista Dionisodoro, appena giunto ad Atene, di insegnare l’arte di diventare Capo dell’Esercito.

Appunto 2 – [III,II,1-4] Socrate discute con una persona che è appena stata eletta alla carica di Generale dell’Esercito.

Appunto 3 – [III,III,1-15] Socrate discute con una persona che è appena stata eletta alla carica di Comandante della Cavalleria.

Appunto 4 – [III,IV,1-12] Socrate discute con Nicomachide sui diritti e sui doveri di un Comandante generale dell’Esercito.

Appunto 5 – [III,V,1-28] Socrate discute con Pericle, figlio del grande Pericle, il quale è appena stato eletto Comandante Generale dell’Esercito. 

Appunto 6 – [III,VI,1-18] Socrate discute con Glaucone, fratello di Platone, il quale ha il chiodo fisso di diventare Capo del Governo dello Stato.

Appunto 7 – [III,VII,1-9] Socrate discute con Carmide, zio di Platone; ed avendo grande stima delle sue doti, lo sollecita ad interessarsi degli affari dello Stato.

Appunto 8 – [III,VIII,1-10] Socrate viene interrogato da Aristippo, su cosa siano il bene e il male.

Appunto 9 – [III,IX,1-15] Socrate discute, e risponde a numerose domande, sulle virtù e sui vizi.

Appunto 10 – [III,X,1-5] Socrate visita la bottega del pittore Parrasio.

Appunto 11 – [III,X,6-8] Socrate visita la bottega dello scultore Clitone.

Appunto 12 – [III,X,9-14] Socrate visita la bottega del produttore di corazze Pistia.

Appunto 13 – [III,XI,1-18] Socrate rende una celebre visita alla bellissima Teodota.

Appunto 14 – [III,XII,1-8] Socrate discute con l’amico Epigene, sull’utilità della ginnastica. 

Appunto 15 – [III,XIII,1] Su chi si adira contro chi non gli ricambia il saluto.

Appunto 16 – [III,XIII,2] Su chi non prova piacere nel mangiare.

Appunto 17 – [III,XIII,3] Su chi si lamenta che l’acqua che beve è calda.

Appunto 18 – [III,XIII,4] Si chi punisce troppo severamente i servi.

Appunto 19 – [III,XIII,5] Su chi ha paura di non riuscire a camminare a piedi fino ad Olimpia.

Appunto 20 – [III,XIII,6] Su chi si sente sfinito dopo una lunga camminata.

Appunto 21 – [III,XIV,1] Sul comportamento dei partecipanti ad un banchetto

Appunto 22 – [III,XIV,2-4] Su chi mangia tante pietanze e poco pane

Appunto 23 – [III,XIV,5-6] Su chi mescola le pietanze che mangia

Appunto 24 – [III,XIV,7] Sul ‘trattarsi bene’ come sinonimo di ‘mangiare’.

Traduzione

[III,I,1] Ora narrerò come egli sapeva giovare a quanti aspiravano ad essere autori di opere gloriose, facendo sì che avessero esatta comprensione delle opere cui aspiravano. 

Una volta, avendo sentito dire che Dionisodoro era giunto ad Atene, e che professava di insegnare l’arte di Capo dell’Esercito, Socrate parlò in questi termini ad uno dei suoi sodali, che in città era risaputo aspirare ad una simile carica. [III,I,2] “Giovanotto, sarebbe davvero una vergogna che chi vuole diventare Capo dell’Esercito di questa città, quando ha la potestà di imparare proprio quest’arte, invece se ne disinteressasse dal tutto. E senz’altro una persona simile meriterebbe di essere punito dalla città, ben più severamente di chi intraprendesse a fare statue senza avere mai imparato nulla dell’arte statuaria. [III,I,3] Infatti, nei tempi perigliosi della guerra, la sorte dell’intero Stato è nella mani del Capo dell’Esercito; ed è verosimile che ne conseguano beni grandiosi nel caso che agli ottenga dei successi, e invece mali terribili nel caso di suoi insuccessi. Dunque, colui che non si cura affatto di imparare l’arte e si preoccupa soltanto di farsi eleggere a questa carica, come potrebbe evitare una giusta e severa punizione?” [III,I,4] Dicendo queste parole, Socrate convinse il giovanotto a recarsi ad apprendere l’arte di Capo dell’Esercito. Quando questi tornò ammaestrato, Socrate prese a canzonarlo, dicendo: “Come Omero soleva dire di Agamennone che era maestoso d’aspetto; non pare anche a voi, signori, che costui, avendo ormai appresa l’arte di comandare l’Esercito, abbia già un aspetto molto più maestoso? Infatti, come chi ha imparato a suonare la cetra, è un citaredo anche quando non la suona; e chi ha appreso l’arte medica, continua ad essere un medico anche mentre non la sta esercitando, così pure costui, da questo momento in poi è un Capo di eserciti, pur se nessuno l’ha ancora eletto a quella carica. Chi invece manca del tutto di conoscenza dell’arte medica e di quella di comandare eserciti, è né un medico né un comandante; neppure qualora fosse designato tale dalla maggioranza assoluta degli uomini. [III,I,5] E tuttavia”, aggiunse Socrate, “se qualcuno di noi servisse sotto il tuo comando come capo-reggimento o capo-plotone, affinché noi si abbia una più esatta conoscenza delle tattiche di guerra, spiegaci trattando quali argomenti < Dionisodoro> abbia iniziato ad insegnarvi l’arte del comando”. 

Al che il giovanotto rispose: “Dal principio alla fine egli ha trattato sempre la stessa cosa, spiegandomi null’altro che le manovre tattiche”. 

[III,I,6] “Ma questa”, rispose Socrate, “non è che una piccolissima parte delle doti del Capo dell’esercito. Infatti, egli deve essere in grado di procurare le armi e gli equipaggiamenti indispensabili per la guerra, e di fornire le provviste necessarie al vettovagliamento dei soldati. Deve poi essere un uomo ingegnoso, industrioso, solerte, resistente, perspicace, amichevole ed insieme crudo, schietto ed insieme insidioso, guardingo e ladro, prodigo e rapace, incline ai doni e alla prevaricazione, sicuro quand’è sulla difensiva e audace nell’offensiva. Insomma, chi è Capo dell’esercito deve possedere molte diverse doti sia naturali che acquisite. [III,I,7] Anche la conoscenza delle manovre tattiche è comunque opportuna ed utile, giacché fa molta differenza che un esercito sia schierato in modo ordinato oppure in modo disordinato. Pietre, mattoni, travi di legno e tegole buttate lì alla rinfusa non sono, infatti, di utilità alcuna. Qualora, invece, questi materiali siano ben disposti: nella parte più bassa e in quella più alta i materiali che non marciscono e non vanno in disfacimento, ossia le pietre e le tegole; e frammezzo ad essi, invece, i mattoni e le travi di legno come nelle opere di costruzione; ecco che il tutto diventa un possesso di gran valore: come si trattasse di una casa”. 

[III,I,8] “Socrate, la similitudine che hai appena usato”, disse il giovanotto, “è davvero perfetta. In guerra, infatti, le truppe migliori devono formare sia l’avanguardia che la retroguardia, mentre le truppe peggiori devono occupare il centro, così da essere trascinate dall’avanguardia e sospinte dalla retroguardia”. 

[III,I,9] “A patto però”, aggiunse Socrate, “che egli ti abbia insegnato come si fa a vagliare quali siano i soldati migliori e quelli peggiori. Altrimenti di che pro ti sarebbe quanto hai imparato? Infatti, se < Dionisodoro> ti avesse ordinato di disporre il pagamento dell’avanguardia e della retroguardia con moneta buona e delle truppe al centro con moneta falsa, senza averti però insegnato come si distingue il denaro vero da quello falso, tutto ciò non ti sarebbe di alcun pro”.

“Ma per Zeus”, rispose il giovanotto, “questo non l’ha insegnato affatto. E per conseguenza dovremmo essere noi a saper distinguere i buoni dai cattivi soldati”. 

[III,I,10] “E perché”, propose Socrate, “non prendere noi in considerazione il modo per non sbagliarci nel distinguere gli uni dagli altri?”

“Voglio proprio provarci”, rispose il giovanotto.

“Dunque”, cominciò Socrate, “se uno dovesse rapinare del denaro, noi non disporremmo correttamente nell’avanguardia i soldati più avidi di denaro?”

“A me pare proprio di sì”

“E cosa dire dei soldati che possono andare incontro a seri pericoli? Da disporre nell’avanguardia non sono quelli più ambiziosi di gloria e di notorietà?”

“Sì”, rispose il giovanotto, “questi sono i soldati pronti ad affrontare i pericoli, in cambio di promozioni e medaglie al valore. Costoro non se ne stanno nascosti, ma essendo ben visibili dappertutto sarebbero facili da scovare”.

[III,I,11] “Nondimeno”, chiese Socrate, “< Dionisodoro> ti ha insegnato soltanto la disposizione di una colonna, oppure anche dove e come impiegare ciascuna delle varie formazioni militari?”

“Di questo non ha proprio parlato”.

“Eppure sono molte le situazioni nelle quali è d’uopo né schierare né far muovere le formazioni militari allo stesso modo”.

“Ma per Zeus”, rispose il giovanotto, “queste cose non le ha chiarite affatto”.

“Per Zeus”, disse Socrate, “allora torna di nuovo da lui e interrogalo! Qualora, infatti, egli sia una persona coscienziosa e non uno spudorato, si vergognerà d’aver preso da te del denaro e di averti rimandato a casa a mani vuote”. 

[III,II,1] In una certa occasione, imbattutosi in una persona che era stata eletta alla carica di Generale Comandante, Socrate gli chiese: “Per quale motivo ritieni che Omero si rivolga ad Agamennone chiamandolo ‘pastore di eserciti’? Secondo me perché, come un pastore deve prendersi ogni cura che le pecore siano al sicuro, che abbiano le provviste idonee, e che si ottenga da esse ciò per cui sono nutrite; così pure il Comandante Generale deve prendersi ogni cura che i soldati siano al sicuro, abbiano le provviste necessarie e che ottengano il risultato per il quale stanno conducendo la campagna militare. Ed essi combattono al fine di sconfiggere i nemici e di ottenerne così più prosperità e benessere. [III,II,2] Di poi, perché Omero loda Agamennone, dicendo che era

‘sovrano nobile e insieme poderoso guerriero’?

Secondo me, Agamennone è chiamato ‘poderoso guerriero’ non perché da sé solo combatta contro i nemici, ma perché è in ciò impegnato assieme all’esercito tutto. Di poi Omero lo chiama ‘nobile sovrano’, non perché egli ben provveda da sé solo alla propria vita; ma perché ben provvede alla vita di coloro di cui è re, e così è causa per essi di prosperità e benessere. [III,II,3] Un re, infatti, non si sceglie al fine che egli si prenda ogni cura di sé; bensì affinché, grazie a lui, i suoi sudditi possano vivere nel modo migliore possibile. E tutti i sudditi prendono parte alle campagne militari, affinché la loro vita sia la migliore possibile, e i capi militari a questo scopo sono scelti e diventano loro comandanti. [III,II,4] Bisogna dunque che chi ha la carica di Comandante Generale, a questo provveda per coloro che lo hanno eletto a questo incarico. Qualcos’altro più bello ed onorevole di questa pratica è difficile da trovare, né vi è qualcosa peggiore e più vergognoso del suo contrario”. Esaminando in questo modo quale sia la virtù propria del Capo Supremo, Socrate metteva da parte tutto il resto, e lasciava al primo posto il far sì che quanti costui governava fossero felici di godere prosperità e benessere.

[III,III,1] So per certo che una volta <Socrate> dialogava in questi termini con una persona che era stata eletta Capo della cavalleria. 

“Giovanotto”, gli chiese Socrate, “potresti spiegarci per quale ragione smaniavi di diventare Capo della cavalleria? Non era di sicuro per guidare in prima fila la carica della cavalleria; giacché questo compito spetta agli arcieri a cavallo, i quali precedono nell’assalto anche i comandanti di cavalleria”.

“Stai dicendo la verità”, gli rispose il giovane. 

“E neppure l’hai fatto per diventare famoso; giacché anche i pazzi sono conosciuti da tutti”.

“È vero anche questo”, assentì il giovane.

[III,III,2] “È forse perché ritieni di poter restituire allo Stato la cavalleria in condizioni migliori di quelle in cui l’hai ricevuta; e che se ci fosse necessità dell’impiego di cavalieri, essendo il loro Comandante, tu potresti diventare autore di un qualche bene per lo Stato?”

“Certamente, è questo lo scopo che mi muove”, rispose lui.

“Sì, per Zeus”, annuì Socrate, “è certo una cosa meravigliosa che ti riesca di fare qualcosa del genere! E il Comando per il quale sei stato scelto concerne di certo sia i cavalli che chi li monta”.

“Sì, è proprio così”.

[III,III,3] “Orsù, allora adesso spiegaci prima di tutto questo: cioè quale sia il modo in cui tu pensi di rendere migliori i cavalli”. 

“Questo però”, gli rispose il giovanotto, “non è compito mio; ma spetta a ciascun cavaliere individualmente, il prendersi cura del proprio cavallo”.

[III,III,4] “Ma se dei tuoi cavalieri”, continuò Socrate, “alcuni ti si presenteranno dinnanzi con dei cavalli che hanno i piedi o le gambe in pessimo stato oppure deboli; altri, con cavalli che sono talmente denutriti da non riuscire neppure a tenere il passo; altri ancora, con cavalli talmente intrattabili da non riuscire a mantenere il posto in cui tu hai ordinato di disporli; altri ancora, talmente recalcitranti da rendere impossibile persino il farli entrare in formazione: di che pro ti sarà una simile cavalleria? E come ti sarà possibile, al comando di una cavalleria di questo genere, il fare qualcosa di buono per lo Stato?”

“Mi stai ponendo delle giuste domande”, rispose il giovane, “ed io farò ogni sforzo per prendermi ogni possibile cura dei cavalli”.

[III,III,5] “E poi? Non metterai mano”, gli chiese Socrate, “a migliorare capacità e qualità dei cavalieri?”

“Lo farò di certo”.

“Dunque, per prima cosa non farai sì che i cavalieri montino a cavallo con la massima agilità e sicurezza?”

“Bisogna davvero che lo faccia”, fu la risposta. “Giacché in questo modo, se qualcuno di loro cade da cavallo, avrebbe maggiori possibilità di salvarsi”. 

[III,III,6] “E che? Qualora si debbano affrontare situazioni pericolose, comanderai di attirare i nemici su terreno sabbioso, che è quello sul quale voi abitualmente vi siete esercitati; oppure cercherai di far addestrare i tuoi uomini anche a combattere su terreni diversi e sui quali i nemici vivono?” 

“Certo, questa seconda scelta è la migliore”.

[III,III,7] “E che? Avrai cura di far colpire e gettare a terra dai cavalli il maggior numero possibile di nemici? 

“Farò anche questo, che è la cosa migliore da fare”

“Hai pensato a come infervorare gli animi dei cavalieri e come aizzarli contro i nemici, così da esaltarne l’aggressività?”

“Non ancora; ma adesso mi sforzerò sicuramente di farlo”.

[III,III,8] “Ti sei preoccupato di far sì che i tuoi cavalieri ti obbediscano? Senza questa assoluta obbedienza a te, di nessun pro sono i cavalli e i cavalieri, pur se eccellenti ed aggressivi”.

“Tu dici il vero”, rispose il giovanotto, “e tuttavia, caro Socrate, quale potrebbe essere il modo migliore per spronarli a questa obbedienza? 

[III,III,9] “Tu sai bene che in qualunque faccenda, gli uomini sono disposti ad ubbidire soprattutto a coloro che essi ritengono dei veri esperti. Così, nel caso di una malattia, essi obbediscono di buon grado a colui che ritengono essere il medico più capace; durante un viaggio per mare, a colui che essi ritengono il nocchiero migliore; e in fatto di coltivazioni, a colui che è il più esperto di agricoltura”.

“È assolutamente così”. 

“Pertanto è verosimile”, continuò Socrate, “che anche nel caso della cavalleria, colui che mostra di avere piena e completa conoscenza di cosa si deve fare, è a costui che gli altri cavalieri sono disposti ad ubbidire”.

[III,III,10] “Socrate, quindi se è manifesto che io”, rispose il giovanotto, “sono di gran lunga miglior cavaliere di tutti loro; ebbene, basterà questo a far sì che essi mi ubbidiscano?”

“Basterà”, fu la risposta di Socrate, “se oltre a ciò, spiegherai loro che l’obbedire ai tuoi ordini sarà per essi la scelta più onorevole e quella che li salvaguarda il più possibile dai pericoli”.

“E come farò a spiegarlo loro?”

“Ma spiegare questo”, sorrise Socrate, “per Zeus, ti sarà certo più facile che se dovessi spiegare loro che i mali sono migliori e più vantaggiosi dei beni”.

[III,III,11] “Mi stai dicendo”, chiese a questo punto il giovanotto, “che il Comandante della cavalleria, oltre ai compiti che già ha, deve anche essere capace di curarsi del modo in cui si esprime?”

“E tu ritenevi”, continuò Socrate, “che il Comandante della cavalleria dovesse svolgere i suoi compiti stando zitto? Non hai ben ponderato il fatto che tutte quante le conoscenze che abbiamo appreso essere di norma le migliori in assoluto, ed in armonia con le quali sappiamo vivere, le abbiamo tutte quante imparate attraverso il discorso ragionato; che se qualcuno impara qualche nozione di valore, la impara attraverso il discorso ragionato; e che coloro che meglio insegnano, utilizzano soprattutto il discorso ragionato; e che quanti hanno conoscenze più approfondite discutono meglio di chiunque altro? [III,III,12] Oppure non hai ben ponderato il fatto che con il coro formato unicamente da cittadini di questa città, come quello che viene inviato a Delo, nessuno proveniente da qualunque altro luogo osa competere; né mai si raccoglie insieme in qualche altra città un coro paragonabile per capacità e valore a quello di questa?”. 

“Stai dicendo la verità”.

[III,III,13] “Invero, gli Ateniesi non differiscono granché dagli altri Greci, né per la stazza né per la vigoria del corpo, quanto invece per l’ambizione di onori e di gloria che essi nutrono, ambizione che acuisce il loro desiderio di imprese belle e che fanno onore”.

“Anche questo è vero”, assentì il giovanotto.

[III,III,14] “Dunque non pensi tu”, disse Socrate, “che se un Ateniese si prendesse cura della cavalleria come accade per il coro, essa diverrebbe ben superiore, in armi e cavalli, alle altre cavallerie: per la sua preparazione, per la sua disciplina, per la sua prontezza nell’affrontare i pericoli del combattimento contro i nemici, poiché gli Ateniesi riterranno che, così facendo, ne otterranno attestati di valore e gloria?”

“Sì, ciò è del tutto verosimile”

[III,III,15] “Quindi non peritarti”, concluse Socrate, “e sforzati di esortare i tuoi uomini al raggiungimento di questi risultati, dai quali trarrete giovamento tu, e gli altri cittadini grazie a te”.

“Sì, per Zeus, farò ogni sforzo in questo senso”. 

[III,IV,1] Una volta, vedendo Nicomachide che si allontanava dai seggi elettorali, Socrate gli domandò: “Nicomachide, chi sono gli eletti alla carica di Comandante Generale?”

“Socrate”, gli rispose Nicomachide, “ma ti pare che gli Ateniesi possano essere gente con una testa diversa? Infatti, non hanno eletto me, che mi sono logorato prestando servizio, prima come soldato semplice, poi come capo-plotone, poi come capo-reggimento, e che ho un gran numero di ferite infertemi dai nemici, (e a questo punto si denudò e sfoggiò le cicatrici delle ferite). E invece hanno eletto Antistene, uno che non ha mai servito come oplita, che non ha mai combinato alcunché di notevole nella cavalleria, e che non sa fare altro che accumulare quattrini”.

[III,IV,2] “Ma se egli sarà capace”, gli rispose Socrate, “di provvedere ai soldati tutto ciò di cui essi han bisogno, non è questa un’ottima cosa?”

“Ma pure i mercanti”, gli ribatté Nicomachide, “sono capaci di accumulare denaro; ma non per questo potrebbero fare i Comandanti Generali”. 

[III,IV,3] Al che Socrate rispose: “Ma Antistene ama anche moltissimo vincere: il che ben conviene attagliarsi ad un Comandante Generale. Non hai visto come tutte le volte che ha capeggiato un coro, il suo ha vinto su tutti gli altri?”

“Per Zeus”, disse Nicomachide, “ma non è affatto la stessa cosa dirigere un coro e dirigere un esercito”.

[III,IV,4] “E tuttavia Antistene”, continuò Socrate, “senza essere esperto di canto né maestro di cori, è stato ugualmente capace di trovare i migliori esperti in materia”.

“Quanto a questo”, disse Nicomachide, “anche nell’esercito egli troverà che altri sono coloro che danno gli ordini al posto suo, e altri sono quelli che combattono”.

[III,IV,5] “Quindi”, disse Socrate, “se egli sarà capace di trovare e di scegliere i migliori esperti di questioni militari e di guerra, come egli ha fatto con i cori; verosimilmente riporterà la vittoria anche in questa contesa. Ed è anche verosimile che egli preferirà spendere il suo denaro per una vittoria contro i nemici, vittoria che coinvolge l’intero Stato; piuttosto che spenderlo per una vittoria nei cori, che coinvolge soltanto la sua tribù”.

[III,IV,6] “Socrate mio”, disse Nicomachide, “tu stai sostenendo che l’uomo capace di essere vittorioso come Capo di un coro, è anche all’altezza di vincere una guerra come Comandante Generale?”

“Io sto affermando”, sottolineò Socrate, “che chiunque sia il Capo, se conoscerà le cose di cui c’è bisogno e sarà capace di provvederle, sarebbe un eccellente Capo, tanto di un coro quanto di una casa, di uno Stato o di un esercito”.

[III,IV,7] Nicomachide allora sbottò: “Socrate, non mi sarei mai aspettato da sentir dite da te, che i bravi padroni di casa sarebbero anche degli eccellenti Comandanti Generali”. 

“Suvvia”, lo invitò Socrate, “facciamo un’accurata indagine delle opere di ciascuno di essi, al fine di appurare se esse siano le stesse, oppure se differiscano per qualcosa”.

“Facciamola pure”.

[III,IV,8] “Dunque”, cominciò Socrate, “non è un lavoro sia dell’uno che dell’altro, quello di fare in modo che i loro subordinati prestino orecchio e siano obbedienti ai loro comandi?”

“Assolutamente sì”,

“E inoltre, l’assegnare ciascun compito a chi è idoneo a svolgerlo?”

“Anche questo è vero”.

“Inoltre, io ritengo che ben si convenga ad entrambi il castigare i malvagi e il premiare i buoni”.

“Assolutamente sì”.

[III,IV,9] “E il far sì che i loro subordinati siano ben disposti nei loro confronti, come potrebbe non essere un bene per entrambi?”

“Anche questo è vero”.

“Attirare a sé cobelligeranti ed alleati, pare a te che sia utile ad entrambi, oppure no?”

“Assolutamente utile, sì”.

“Non conviene ad entrambi, essere attenti custodi delle loro cose?”

“Al massimo grado!”

“Quindi, non conviene ad entrambi essere solerti e laboriosi nelle opere loro?”

[III,IV,10] “Queste sono tutte cose che hanno la stessa natura per entrambi, ma”, protestò Nicomachide, “il combattere con le armi in pugno, non è appannaggio di entrambi”. 

“Ma non accade che nascano dei nemici, sia per l’uno che per l’altro?”

“Sì, certo, anche questo sicuramente accade”.

“Dunque, l’avere il sopravvento sopra questi nemici, non è cosa comunque utile ad entrambi?

[III,IV,11] “Sono pienamente d’accordo su ciò; ma tu trascuri questa questione: se bisognerà combattere una guerra, di quale giovamento sarà l’economia?”

“Ti assicuro che l’economia”, rispose Socrate, “sarà del massimo giovamento. Infatti l’uomo d’affari, ben sapendo che nulla vi è di così vantaggioso e profittevole come la vittoria contro i nemici sul campo di battaglia, né alcunché di così svantaggioso e punitivo come la sconfitta, si darà da fare col massimo slancio per procurare tutti i denari utili per la vittoria; e prenderà in esame con ogni cura e starà bene in guardia dallo sprecare denaro in spese che potessero portare invece alla sconfitta. E il Comandante Generale si tiene ben pronto ad attaccare il nemico, se vede di essere sufficientemente preparato per vincerlo; ed evita assolutamente lo scontro con esso quando invece vede di non essere pronto a farlo. [III,IV,12] E tu, mio caro Nicomachide, non spregiare”, continuò Socrate, “gli uomini d’affari: Infatti la sollecitudine che si dedica al trattamento degli affari privati differisce da quella che si dedica al trattamento degli affari pubblici, soltanto per le quantità di denaro che sono in gioco, mentre per tutti gli altri aspetti essi sono similari. La somiglianza più grande è comunque questa: che né gli uni né gli altri possono avvenire senza il concorso di uomini; e che il trattamento degli affari privati e quello degli affari pubblici non è opera di due classi distinte di uomini. Infatti coloro che si interessano di affari pubblici non utilizzano a questo scopo uomini d’affari diversi da quelli che trattano affari privati. Pertanto coloro che sanno utilizzare entrambi hanno successo sia negli affari privati che in quelli pubblici, mentre coloro che non sanno utilizzare entrambi, sono e restano dei falliti”.

[III,V,1] Discorrendo con il Pericle figlio del grande Pericle, una volta Socrate gli disse: “Essendo tu adesso diventato Comandante Generale, io ho buona speranza che lo Stato sarà d’ora in poi molto meglio governato, che godrà di assai maggiore credibilità in fatto di guerra, e che riuscirà a sconfiggere e padroneggiare i suoi nemici”.

“Caro Socrate”, gli rispose Pericle, “io vorrei davvero che accadesse quel che stai dicendo; ma che le cose prenderanno davvero questa piega, non posso saperlo”.

“Vuoi dunque”, continuò Socrate, “che discutendone, noi si prenda in attento esame in che modo il ‘possibile’ può realizzarsi?”.

“Sono disposto a discuterne”,

[III,V,2] “Dunque tu sai che, per numero di abitanti, gli Ateniesi non sono da meno dei Beoti”.

“Lo so”, rispose Pericle.

“Tu pensi che gli individui di sana e robusta costituzione fisica siano stati arruolati in maggior numero tra i Beoti oppure tra gli Ateniesi?”

“A me pare” , rispose Pericle, “che, dei due Stati, neppure a questo riguardo ce ne sia uno che rimane dietro l’altro”.

“E degli abitanti di ciascuno Stato”, chiese Socrate, “quali ritieni che siano più amichevolmente disposti tra di loro?” 

“Io penso”, disse Pericle, ”che i più amichevolmente disposti tra di loro siano gli Ateniesi. Giacché molti abitanti della Beozia sono trattati con superiorità e disprezzo dai Tebani, e per questo motivo essi provano avversione e ostilità verso di loro. Invece, tra gli Ateniesi io vedo non accadere nulla del genere”.

[III,V,3] “Eppure gli Ateniesi sono i più ambiziosi di gloria e i più d’alto sentire tra tutti gli uomini: il che li incentiva non poco a correre, in difesa della patria, gravi pericoli, purché ciò procuri loro gloria”.

“Né gli Ateniesi”, commentò Pericle, “sono da biasimare per questi atti di eroismo”.

“Senza dimenticare”, continuò Socrate, “che non ci sono nobili opere ed imprese, più grandi e più numerose di quelle che sono state lasciate in eredità agli Ateniesi, e a nessun altro popolo, dai loro avi. Fatto dal quale molti si sentono esaltati e spronati a darsi cura della virtù, e a diventare uomini valorosi”.

[III,V,4] “Tutte le cose che stai dicendo”, caro Socrate, “sono pura verità. Eppure tu vedi bene che da quando avvennero: a Lebadea la disgraziata sconfitta dei mille capeggiati da Tolmide; e a Delio quella dell’esercito comandato da Ippocrate; ebbene, da quel momento in poi la fama degli Ateniesi presso i Beoti è caduta assai in basso; mentre è andata crescendo l’animosità dei Tebani verso gli Ateniesi. Sicché i Beoti, i quali in precedenza non osavano, neppure sul loro territorio, affrontare militarmente gli Ateniesi senza l’aiuto degli Spartani e degli altri abitanti delle città del Peloponneso; ora minacciano di invadere l’Attica anche da soli. Al contrario gli Ateniesi, che in precedenza avevano saccheggiato la Beozia, hanno adesso il timore che i Beoti possano devastare l’Attica”.

[III,V,5] “Mi rendo conto”, disse Socrate, “che le cose stanno in questi termini; e però a sembra che la nostra città sia oggi molto meglio disposta di prima, ad accettare come Comandante qualcuno che sia anche un uomo per bene. Infatti, l’eccessiva fiducia in sé ingenera trascuratezza, pigrizia e disobbedienza; mentre invece la paura rende gli uomini più attenti, più disponibili all’obbedienza, più disciplinati. [III,V,6] Potresti avere una chiara prova di ciò, se pensi a dei marinai in navigazione. Finché essi non hanno alcuna paura, tutto sulla nave è in disordine. Ma non appena siano preda del timore di una tempesta o dell’avvinarsi di navi nemiche, essi non soltanto eseguono tutti gli ordini che avevano trascurato, ma tacciono in attesa dei comandi che riceveranno, come fanno i cantanti di un coro”.

[III,V,7] “Certo”, rispose Pericle, “se al giorno d’oggi gli Ateniesi ubbidissero davvero, allora sarebbe giunta l’ora di chiederci come potremmo spronarli a rinnamorarsi dell’antica virtù, della gloria e della felicità”.

[III,V,8] “Ebbene”, gli rispose Socrate, “se noi volessimo che gli Ateniesi pretendano per sé del denaro di cui altri Greci sono in possesso, li spingeremmo ad impadronirsene soprattutto col dimostrare loro che tali ricchezze erano dei loro padri, e che quindi sono di loro appartenenza. E poiché noi vogliamo che gli Ateniesi si dedichino a primeggiare per valore e nobiltà d’animo; questo, a sua volta, è da ottenersi con il dimostrare che tale virtù si confà loro sin dai tempi più antichi; e che dandosi continua cura di essa, gli Ateniesi diventerebbero i più potenti di tutti i Greci”.

[III,V,9] “E come potremmo spiegare ciò agli Ateniesi?”

“Io credo che ci riusciremmo, se ricordassimo loro chi erano i più antichi progenitori dei quali noi abbiamo sentito parlare, e che anche gli Ateniesi hanno già sentito dire che erano uomini con il più nobile degli animi”.

[III,V,10] “Ti riferisci al giudizio degli dei, il cui verdetto essi pronunciarono dinnanzi a Cecrope, a causa della sua virtù?”

“Sì, mi riferisco a loro; ed anche alla nascita e all’allattamento di Eretteo; alla guerra combattuta a quel tempo contro di lui da parte di tutti i confinanti; alla guerra dei figli di Eracle contro gli abitanti del Peloponneso; a tutte le guerre combattute ai tempi di Teseo, tempi nei quali è manifesto che i progenitori degli Ateniesi eccelsero per atti di valore su tutti gli uomini del loro tempo. [III,V,11] E se vuoi, mi riferisco anche alle imprese che successivamente compirono i loro discendenti, nati non molto tempo prima di noi; imprese, alcune delle quali essi conclusero da soli, contro coloro che erano padroni di tutta l’Asia e dell’Europa fino alla Macedonia: che avevano un potere e che detenevano risorse come nessun altro al mondo, che avevano fatto edificare costruzioni immense. E mi riferisco anche alle eccelse imprese che noi abbiamo compiuto insieme ai popoli del Peloponneso, sia per terra che per mare. E si parla di questi Ateniesi come di persone che eccellevano per valore su tutti gli uomini dei loro tempi”.

“Effettivamente”, rispose Pericle, “così si parla di loro”.

[III,V,12] “Perciò, pur essendo avvenute in Grecia molte migrazioni, gli Ateniesi rimasero stabilmente sulla loro terra. Molti si rivolsero a loro per risolvere delle controversie legali; e molti altri ancora, che erano oggetto di angherie brutali da parte di popoli più potenti, trovavano rifugio presso di loro”.

[III,V,13] Pericle allora disse: “Socrate, io mi stupisco di come il nostro Stato abbia potuto prendere questa piega decisamente verso il peggio”. 

“Io penso”, gli rispose Socrate, “che, come alcuni atleti, a causa dell’essere nettamente superiori agli altri, impigriscono e diventano inferiori ai loro competitori; allo stesso modo è accaduto che gli Ateniesi, essendo di molto superiori agli altri popoli, hanno trascurato se stessi e così sono diventati peggiori”. 

[III,V,14] “Ordunque”, gli chiese allora Pericle, “facendo che cosa, noi potremmo riprenderci l’antica virtù?”

“A me, questa non sembra affatto”, gli rispose Socrate, “una faccenda misteriosa. Infatti gli Ateniesi, riscoprendo il modo di agire dei loro avi e non facendo peggio di loro, ecco che neppure diventerebbero peggiori di quelli. Altrimenti, basta che essi imitino i modi di agire di coloro che adesso primeggiano tra i Greci; e, agendo come quelli, per certo non sarebbero peggiori di loro; anzi, se li praticassero con ancor più cura, forse sarebbero anche migliori di loro”.

[III,V,15] “Tu stai dicendo”, gli rispose Pericle, “che la nobiltà d’animo se ne sta da qualche parte ben lontana dalla nostra città. Infatti, quando mai gli Ateniesi hanno rispetto, come invece hanno gli Spartani, per le persone più anziane? Proprio gli Ateniesi, che anzi iniziano a mostrare disprezzo per gli anziani già a cominciare dai loro padri? Oppure che fanno esercizi ginnici nelle palestre, come invece fanno gli Spartani; ed evitando di farli, trascurano del tutto la buona forma fisica; ed anzi irridono coloro che se ne curano? [III,V,16] Quando mai gli Ateniesi obbediscono ai loro comandanti: proprio loro, che si compiacciono piuttosto di disprezzare coloro che comandano? Quando mai essi vanno d’accordo gli uni con gli altri: proprio loro che invece di collaborare per la comune utilità, si calunniano a vicenda e sono gonfi di invidie reciproche, più che di invidia verso tutti gli altri uomini? Che litigano nelle riunioni sia private che pubbliche più di tutti gli altri Greci? Che si muovono l’un l’altro moltissime accuse che poi diventano denunce nei tribunali? Che prescelgono di ricavare dei quattrini l’uno dall’altro, piuttosto che di giovarsi reciprocamente? Che considerano gli affari pubblici come cose altrui che non li riguardano, e circa le quali tuttavia di nuovo litigano, e si rallegrano moltissimo di avere la facoltà di mettere becco su di essi? [III,V,17] Da tutto ciò si ingenerano nello Stato gravi danni, molte inimicizie personali, odio reciproco tra i cittadini; tutte cose a causa delle quali, io sempre temo molto che accada ad Atene un qualche male più grande di quello che la città può sopportare”.

[III,V,18] “No, no, Pericle”, gli disse Socrate, “non ritenere che gli Ateniesi siano ammalati di una malvagità tanto incurabile. Non vedi come essi siano disciplinati in tutte le operazioni che riguardano la flotta; quanto disciplinatamente essi accettino i verdetti degli arbitri nelle gare atletiche; ed eseguano alla perfezione, come nessun altro dei Greci, tutto ciò che i maestri del coro insegnano loro a fare?”

[III,V,19] “Certo, questo è vero”, gli rispose Pericle, “ma stupefacente è il fatto che gli Ateniesi citati da te siano obbedienti a chi li comanda; e che invece gli opliti e i cavalieri, i quali per coraggio e per valore hanno la fama di essere delle truppe scelte, siano i più disobbedienti di tutti i cittadini”. 

[III,V,20] Al che Socrate gli chiese: “Pericle, ma il Consiglio dell’Areopago non consta tutto di membri giudicati sceltissimi?”

“Sì, assolutamente sceltissimi”.

“Dunque conosci tu”, continuò Socrate, “tra coloro che amministrano la giustizia e che svolgono tutte le altre funzioni, qualcuno che sia migliore, più obbediente alla legge, più solenne e più giusto dei membri dell’Areopago?”

“Io non biasimo nessuno di costoro”.

“Pertanto non devi perdere fiducia negli Ateniesi, come se si trattasse di gente tutta indisciplinata”.

[III,V,21] “Eppure, nelle faccende militari”, insistette Pericle, “nelle quali soprattutto bisogna essere assennati, ben disciplinati e obbedienti agli ordini; ebbene, a nessuna di queste cose gli Ateniesi prestano attenzione”. 

“Forse, il motivo di ciò è che a comandarli”, gli rispose Socrate, “sono degli ufficiali che ne sanno ben poco. Non vedi che nessuno si azzarda a dare dei comandi a coloro che suonano la certa, ai coristi o ai danzatori, se non è un perfetto conoscitore di quelle arti; e neppure ai lottatori o ai pancraziasti? Tutti i maestri di queste discipline sono in grado di dimostrare donde abbiano imparato l’arte alla quale soprintendono, mentre invece la maggior parte dei nostri Comandanti generali sono dei semplici improvvisatori. [III,V,22] Io reputo che tu non sia uno di costoro, e credo anzi che tu sia senza dubbio in grado di dimostrare donde hai cominciato ad apprendere l’arte di Comandante Generale, o quella di lottatore. Ritengo anche che molti dei princìpi di Strategia militare tu li abbia appresi da tuo padre, come pure li abbia messi insieme da ogni sorta di insegnamento occasionale, qualunque fosse la circostanza che ti permetteva di imparare qualcosa di giovevole al ruolo di Comandante Generale. [III,V,23] Credo inoltre che tu ti dia molto da fare affinché non ti sfugga la conoscenza di nozioni utili alla strategia militare; e che qualora tu ti renda conto di non sapere qualcosa, tu vada in cerca di coloro che queste cose le sanno, non risparmiando né donativi né ringraziamenti al fine di imparare da essi quello che non sai, e al fine di avere dei valenti collaboratori”. 

[III,V,24] E Pericle gli rispose: “Mio caro Socrate, non mi sfugge che quel che dici, lo stai dicendo non perché tu ritenga che io stia davvero studiando queste materie, ma perché ti sforzi di insegnarmi che chi intende diventare Comandante Generale deve studiare con cura tutto ciò; e lo ammetto senz’altro anch’io”.

[III,V,25] “E tu, caro Pericle, ti sei già reso conto che le frontiere dell’Attica sono protette da una cintura di montagne altissime che si estendono fino alla Beozia, e grazie alle quali le vie di entrata sul nostro territorio sono strette e ripide? E sai anche che la parte centrale dell’Attica è cinta da piazzeforti montuose?” 

“Sì, lo so benissimo”.

[III,V,26] “E dunque? Hai sentito dire che, nel territorio del Gran Re, i Misi e i Pisidi, mantenendo il controllo di posizioni montuose fortificate, anche se armati alla leggera, sono in grado di scendere rapidamente in pianura e di fare scorrerie sul territorio del Gran Re, pur continuando a vivere come uomini liberi?” 

[III,V,27] “Anche questo l’ho sentito dire”.

“Non pensi tu”, continuò Socrate, “che degli agili e giovani Ateniesi, armati con armi leggere e tenendo il controllo dei passi montuosi che proteggono il nostro territorio, siano una spina nel fianco dei nostri nemici, e che rappresentino per i cittadini dell’Attica una potente difesa?” 

“Io sono il primo a credere”, rispose Pericle, “che queste siano misure di grande utilità”. 

[III,V,28] “Se pertanto, misure come queste sono di tuo gradimento”, concluse Socrate, “datti da fare per metterle in pratica, o mio ottimo amico. Ciascuna di quelle che farai effettuare, diventerà per te un motivo di lode ed un bene per lo Stato. E se ti risulterà impossibile farne realizzare qualcuna, non danneggerai la città, né ciò sarà per te causa di vergogna”.

[III,VI,1] Glaucone, figlio di Aristone, non aveva ancora vent’anni, ma aveva già il chiodo fisso di diventare Capo del Governo dello Stato. Nessuno dei suoi familiari né dei suoi amici riusciva a fargli cambiare idea, pur tirandolo giù ogni volta, a forza, dalla tribuna e coprendolo di scherno. Socrate fu l’unico, per via dell’amicizia con Carmide, zio di Glaucone; e con Platone, fratello di Glaucone, che riuscì a fargli cambiare idea. 

[III,VI,2] Infatti, imbattutosi una volta in lui, sulle prime, per fargli attaccare discorso, lo trattenne dicendogli così: “Caro Glaucone, sei tu che hai concepito l’idea di diventare il Capo di Governo del nostro Stato?”

“Sì”, gli rispose Glaucone, “sono proprio io!”

“Sì, per Zeus”, gli disse allora Socrate, “la tua è un’idea bellissima, se mai ne esiste qualcun’altra ancora migliore tra gli uomini. Infatti, è manifesto che se tu riuscirai a metterla in pratica, sarai in grado di ottenere qualunque cosa tu voglia; capace di giovare ai tuoi amici; innalzerai fino al cielo il prestigio della casata di tuo padre; accrescerai la ricchezza della tua patria; diventerai un cittadino rinomato dapprima in Atene, poi nella Grecia intera, forse all’altezza di un Temistocle, e poi anche tra i barbari; e dovunque tu sarai, sarai dappertutto considerato una celebrità”.

[III,VI,3] Udendo queste parole, a Glaucone pareva di toccare il cielo con un dito, e quindi rimase ben volentieri in compagnia di Socrate.

Allora Socrate gli disse: “Glaucone, non è dunque manifesto che se vuoi essere tenuto in onore, ti tocca fare cose che giovino alla tua città?”

“Assolutamente manifesto, sì” rispose Glaucone.

“In nome degli dei”, lo implorò allora Socrate, “dunque non tenerci all’oscuro, e dicci da cosa comincerai per coprire di benefici lo Stato”.

[III,VI,4] Poiché Glaucone continuava a tacere, come se stesse considerando da cosa cominciare, Socrate lo incoraggiò dicendogli: “Per esempio, se tu decidessi di accrescere il prestigio della casata di un amico, certo faresti di tutto per farla diventare più ricca. Allo stesso modo, non ti sforzerai di far diventare più ricco il nostro Stato?”

“Sì, certo; farei proprio così”

[III,VI,5] “Ebbene, il nostro Stato non sarebbe più ricco se aumentassero le sue entrate?”

“Verosimilmente sì” rispose Glaucone.

“Adesso dimmi:”, continuò Socrate, “al giorno d’oggi donde provengono ed a quanto ammontano le entrate dello Stato? Senza dubbio tu hai analizzato la faccenda, al fine di accrescere le entrate, qualora esse fossero insufficienti, e di procacciarne per lo Stato di nuove, se l’incasso di qualcuna di esse risultasse non avvenuto”.

“Ma per Zeus”, protestò Glaucone, “io queste cose non le ho prese neppure in considerazione”.

[III,VI,6] “Ma se hai tralasciato di considerare le entrate dello Stato”, continuò Socrate, “parlaci allora delle sue uscite. Circa le spese dello Stato tu pensi, senza dubbio, di eliminare quelle superflue”.

“Ma per Zeus”, ribatté Glaucone, “io non ho passato il mio tempo a considerare queste bazzecole”.

“Dunque”, concluse Socrate, “soprassediamo pure sul progetto di rendere lo Stato più ricco. Com’è infatti possibile che si dia cura di spese ed entrate dello Stato, chi neppure sa cosa esse siano?”. 

[III,VI,7] “Ma Socrate caro”, ridacchiò Glaucone, “lo Stato si può rendere ricco anche sconfiggendo e sottomettendo dei nemici”.

“Sì, per Zeus”, rispose Socrate, “addirittura ricchissimo, se sarà più forte dei suoi nemici. Ma se uno Stato è più debole dei suoi nemici, potrebbe perdere anche quel che ha”. 

“Dici il vero”, gli rispose Glaucone.

[III,VI,8] “Pertanto”, continuò Socrate, “chi parteciperà al Consiglio nel quale si decide contro chi fare la guerra, deve conoscere alla perfezione quale sia la potenza militare del proprio Stato, e quale sia la potenza militare del nemico che ha davanti. Al fine di consigliare di prendere l’iniziativa di una guerra, se la forza militare del proprio Stato è prevalente; e invece di persuadere ad essere cauti, qualora appaia prevalente la potenza militare di chi ci si trova davanti”.

“Stai parlando rettamente”, rispose Glaucone.

[III,VI,9] “Dunque, per prima cosa”, disse Socrate, “spiegaci quale sia l’entità delle nostre truppe di terra e quale sia l’entità della nostra flotta, e poi quale sia quella dei nostri nemici”. 

“Ma per Zeus, non saprei davvero riferirti questi numeri, così a memoria”.

“Se te li sei scritti da qualche parte, tirali pure fuori. Io proverei un grandissimo piacere nel sentire da te quali siano”.

“Ma per Zeus, io non me li sono scritti da nessuna parte”. 

[III,VI,10] “Pertanto”, concluse Socrate, “sulle prime, ci asterremo anche dal dare consigli circa una eventuale guerra. Ed è forse a causa della enormità di questi problemi, e del fatto che hai da poco assunto la carica di Capo del governo, che non hai ancora avuto il tempo di indagarli. Io so tuttavia per certo, che ti sei interessato alla protezione delle frontiere dello Stato; che sai quante sono le guarnigioni in pieno assetto di difesa per questo scopo, e quante quelle che non lo sono; quante guardie sono sufficientemente armate e quante non lo sono; e che tu consiglierai di ingrandire le guarnigioni efficienti e di eliminare quelle superflue”. 

[III,VI,11] “Sì, per Zeus”, rispose Glaucone, “io consiglierò piuttosto di eliminarle tutte quante, perché esse difendono talmente bene i nostri confini, che tutto quanto si produce nel nostro Stato viene rubato”.

“Ma se uno elimina le guarnigioni di frontiera”, obiettò Socrate, “non ritieni che chiunque lo voglia potrà sentirsi autorizzato a fare delle vere e proprie rapine? Nondimeno, sei andato tu in persona a fare questa indagine? Come fai a sapere che le nostre frontiere sono mal difese?”

“Io me lo immagino” rispose Glaucone.

“Dunque”, concluse Socrate, “anche su questa faccenda daremo il nostro consiglio quando non immagineremo soltanto, ma quando avremo la conoscenza certa di come stanno le cose?”

“Probabilmente”, assentì Glaucone, “questa è la miglior cosa da fare”.

[III,VI,12] “E per quanto concerne le miniere di argento”, chiese Socrate, “so con certezza che tu non sei arrivato fin là, sicché non puoi dire quale sia il motivo per cui da esse provengono oggi quantità di argento assai inferiori a quelle di prima’”.

“No, infatti non ci sono andato”.

“E sì, per Zeus; e ti capisco anche. Si racconta infatti”, spiegò Socrate, “che il luogo sia gravemente malsano; e che per chi debba dare un consiglio su tale argomento, questo è il pretesto che ti basterà come scusante”.

“Mi sento un po’ preso per i fondelli”, protestò Glaucone. 

[III,VI,13] “Comunque c’è una faccenda”, continuò Socrate, “della quale sono sicuro che tu non ti sei disinteressato; e della quale, anzi, sei stato un attento analizzatore. Si tratta di quanto grano cresce nel territorio del nostro Stato, e quindi di sapere per quanto tempo esso sia in quantità sufficiente a nutrire tutti gli abitanti; e quindi anche di quanto grano c’è annualmente bisogno. Dico questo, affinché una improvvisa carestia che colpisca lo Stato, non ti trovi impreparato, ed affinché tu sappia consigliare le misure necessarie ed indispensabili per venire in soccorso dello Stato e salvarlo”. 

“Tu stai parlando di un compito enorme”, disse Glaucone, “per chi dovrà studiare e prendersi cura anche di faccende di questo genere”.

[III,VI,14] “E tuttavia”, continuò Socrate, “nessuno sarà in grado di governare bene neppure la propria casa, se non sarà al corrente di tutto ciò di cui essa ha bisogno, e se non si curerà di rifornirla di tutto il necessario. E poiché il nostro Stato consiste di oltre diecimila case, ed è assai difficoltoso prendersi cura di un così gran numero di abitazioni; perché non provi a far arricchire dapprima quella di tuo zio <Carmide>? Egli ne ha davvero bisogno. E se sarai capace di fare questo, potrai darti da fare per un numero più grande di case. Se infatti non sei capace di giovare ad una, come potresti essere di giovamento a molte? Se uno non può mettere sul piatto un talento, come può non essere evidente che egli neppure può provare a metterne sul piatto molti di più?” 

[III,VI,15] “Ma io”, disse Glaucone, “aiuterei ben volentieri il casato di mio zio, se egli fosse disposto ad ubbidirmi!” 

“E dunque tu ritieni”, gli rispose Socrate, “incapace come sei di convincere tuo zio a darti retta, di poter fare in modo che tutti gli Ateniesi, compreso tuo zio, ti ubbidiscano? [III,VI,16] Caro Glaucone, mentre tu smani di acquistare fama e di diventare celebre, bada bene di non ottenere il risultato opposto! Non ti rendi conto di quanto sia scivoloso il percorso di chi vuole parlare di, o effettuare, cose che non conosce? Pondera bene la sorte cui vanno incontro tutte quelle altre persone che tu sai essere gente di questo genere. Pare a te che le persone le quali fanno mostra di dire e di fare cose che non sanno, per questo motivo vadano incontro a lodi oppure a denigrazioni? E che ne ottengano d’essere ammirati oppure di essere spregiati? [III,VI,17] Pondera bene anche la sorte cui vanno incontro coloro che sanno quel che dicono e quel che fanno. Tu scoprirai, come io ritengo, che in qualunque attività, gli uomini che hanno miglior fama e che godono di generale ammirazione fanno sempre parte del gruppo di coloro che hanno le più vaste e sicure conoscenze; mentre gli uomini che godono di cattiva fama e che sono più spregiati, fanno sempre parte del gruppo degli ignoranti e degli incolti. [III,VI,18] Pertanto, se tu smani di diventare famoso e di essere ammirato da tutti i cittadini, trova il modo da avere il massimo possibile di conoscenze certe e approfondite, su ciò che ti proponi di fare. Infatti, se metterai mano alla carriera politica, avendo questa differenza rispetto agli altri; non mi stupirei che tu potessi assai facilmente ottenere i risultati che smani di conseguire.

[III,VII,1] Socrate vedeva in Carmide, figlio del vecchio Glaucone, un uomo rimarchevole e molto più capace dei politici di quel tempo. Carmide però si peritava di parlare pubblicamente al popolo riunito in assemblea, e di interessarsi di affari pubblici. Per questo motivo, Socrate una volta gli chiese: “Dimmi un po’ Carmide: se uno che ha tutte le doti necessarie e sufficienti per vincere i grandi Giochi; grazie a ciò, per essere coperto di onori, e per rendere così la sua patria la più famosa di tutte in Grecia; il quale, però a quei Giochi non volesse partecipare: che sorta di uomo riterresti essere una persona simile?”

“Manifestamente”, gli rispose Carmide, “quest’uomo è un mollaccione e un codardo”.

[III,VII,2] “Se un tale”, continuò Socrate, “interessandosi degli affari politici di uno Stato, è capace di renderlo più ricco, e grazie a ciò di essere egli stesso coperto di onori; e si perita però di farlo: costui non sarebbe considerato a buon diritto un codardo?”

“Forse è così”, assentì Carmide, “ma a che scopo mi fai questa domanda?”

“Te la faccio, perché credo che tu, capace come sei di prenderti cura degli affari politici dello Stato, invece te ne periti; proprio quando, al contrario, si tratta di affari politici alla deliberazione sui quali è necessario che tu partecipi, in quanto di questo Stato tu sei a tutti gli effetti un cittadino”. 

[III,VII,3] “Ma questa capacità, in quale genere di mia attività l’hai vista all’opera, e quindi la riconosci come mia?” 

“Nelle conversazioni alle quali sei presente”, rispose Socrate, “con i responsabili della politica dello Stato. Infatti, qualora essi ti mettano al corrente di qualcosa, ti vedo sempre offrire ottimi consigli, e qualora essi commettano qualche sbaglio, ti vedo sempre criticarli rettamente”.

[III,VII,4] “Socrate caro”, disse Carmide, “ non è mica la stessa cosa discutere in privato, oppure dibattere su qualcosa in piena assemblea”.

“Ma tuttavia chi è capace di discutere sulla base di solidi dati numerici”, obiettò Socrate, “è capace di farlo altrettanto bene sia da solo, che in mezzo ad una assemblea. Così pure, i citaristi bravissimi a suonare la cetra quando sono soli, la padroneggiano altrettanto bene anche se si trovano attorniati dalla folla”.

[III,VII,5] “Socrate, ma non vedi”, gli rispose Carmide, “come un certo ritegno e una certa paura siano ingenerati negli uomini, e come ritegno e paura stiano sempre accanto agli uomini molto di più quando essi sono davanti ad una folla, che in occasione di conversazioni private?”.

“Mi affretto a spiegarti il perché di ciò che penso, dicendoti che tu ti vergogni di parlare in assemblea non per il ritegno che hai davanti ai presenti più assennati, né per paura dei presenti più esagitati. [III,VII,6] Infatti, che modo puoi mai tu provare vergogna davanti a dei gualcherai, a dei calzolai, a dei falegnami, a dei fabbri, a degli agricoltori, a dei commercianti, a gente che traffica tutto il giorno al mercato e d’altro non si preoccupa che di comprare a poco prezzo e di rivendere a caro prezzo? L’assemblea è fatta tutta quanta di persone di questo genere. [III,VII,7] Perché, dunque, credi che ciò che fai sia diverso da ciò che fa chi è superiore ed è in grado di battere dei corridori bene allenati, ed invece ha paura di gente qualunque senza allenamento alcuno? Tu, inoltre, dialoghi con facilità con dei personaggi di primo piano dello Stato, taluni dei quali sono sprezzanti con te; e sei di molto superiore ai politici correnti nel discutere. E quando invece ti trovi davanti a persone che non si sono mai preoccupate di politica, e che di certo non ti hanno trattato con spregio, ti periti di parlare, temendo di essere da loro ridicolizzato”. 

[III,VII,8] “Di che ti stupisci? Non ti pare”, obiettò Carmide, “che spesso i presenti all’assemblea mettano in ridicolo coloro che dicono cose giuste e sensate?” 

“Ma questo lo fanno anche altri”, insistette Socrate, “ed io mi meraviglio di te, perché mentre hai facilmente la meglio su coloro che ti ridicolizzano al di fuori dell’assemblea, ritieni invece di non potere assolutamente tirare dalla tua parte i presenti in assemblea. [III,VII,9] Mio caro, non ignorare chi sei, e non commettere gli errori che la maggior parte degli uomini commette. Infatti i più, trascinati come sono a considerare i fatti altrui, non si volgono ad indagare i fatti loro propri. Dunque, non essere pigro a questo riguardo, ma sforzati di rivolgere ogni attenzione piuttosto a te stesso; e non trascurare gli affari di Stato, ove vi sia in esso qualcosa che grazie a te può essere migliorato. Infatti, se gli affari di Stato ricevono le cure loro dovute, tu sarai di giovamento non soltanto agli altri cittadini, ma anche ai tuoi amici, e non poco pure a te stesso”.

[III,VIII,1] Una volta Aristippo sottopose Socrate ad interrogatorio, così come in precedenza Socrate aveva sottoposto lui. Ora Socrate, volendo in qualche modo giovare ai sodali presenti, dette le sue risposte non come fanno coloro la cui unica preoccupazione è che il discorso non esca in qualche modo fuori dal seminato; ma come chi è convinto di fare il proprio dovere il meglio possibile. 

[III,VIII,2] Aristippo, dunque, gli chiese se egli sapesse cos’è ‘bene’; per potergli così dimostrare, se egli avesse risposto che bene sono cose del tipo: cibo, bevande, denaro, salute, robustezza, audacia; che talvolta queste stesse cose sono ‘male’. Ora Socrate, sapendo che se qualcosa ci dà fastidio, abbiamo bisogno di un rimedio che faccia cessare il fastidio, rispose ad Aristippo in quel modo che fa l’uomo insuperabile.

[III,VIII,3] “Mi stai chiedendo se conosco un buon antipiretico?”

“No, non ti sto chiedendo questo”, rispose Aristippo.

“Se conosco un buon rimedio per il mal d’occhi?”

“Neppure questo”

“Allora un buon rimedio contro la fame?”

“Neanche per la fame”

“Ma allora, se tu mi chiedi se io conosca qualche bene che sia il bene di nulla, ti dirò”, gli rispose Socrate, “che questo bene io né lo conosco né sento il bisogno di conoscerlo”. 

[III,VIII,4] Allora Aristippo lo interrogò di nuovo, chiedendogli se conoscesse qualcosa ‘bello’; e Socrate gli rispose: “Sì, cose belle ne conosco molte”. 

“E dunque”, continuò Aristippo, “tutte sono simili una all’altra?”

“Al contrario”, rispose Socrate, “talune sono il più possibile dissimili una dall’altra”.

“E com’è possibile”, chiese Aristippo, “che una cosa bella sia dissimile dal ‘bello’ ?”

“Sì, è così, per Zeus”, continuò Socrate, “perché è possibile che un atleta bello per la lotta, sia dissimile da uno bello per la corsa; e si dà il caso che uno scudo bello per la difesa personale sia quant’altri mai dissimile da un giavellotto bello a viaggiare veloce e dotato di una grande forza”.

[III,VIII,5] “Non mi stai dicendo nulla di diverso da ciò che mi hai risposto quando ti interrogai chiedendoti se conoscessi qualcosa ‘buono’ ”

“Tu credi che una cosa sia il ‘buono’ e un’altra cosa il ‘bello’? Non sai che tutte le cose sono identicamente belle e buone? Infatti, in primo luogo, la virtù non è il ‘buono’ per alcune cose, e per altre cose il ‘bello’. In secondo luogo, gli uomini sono chiamati belli e buoni nello stesso modo e per le stesse cose. Anche i corpi degli uomini si mostrano belli e buoni in relazione alle stesse cose. E tutte le altre cose delle quali gli uomini si servono sono ritenute belle e buone, in relazione alla loro capacità di essere per essi profittevoli”.

[III,VIII,6] “Dunque, anche il pitale per gli escrementi è bello?”

“Sì, per Zeus”, rispose Socrate, “e uno scudo dorato è brutto; se il pitale è ben fatto per l’uso a cui serve, e lo scudo invece è mal fatto”.

“Tu stai dicendo che le stesse cose sono belle e brutte?”

[III,VIII,7] “Sì, io sto dicendo proprio questo”, continuò Socrate, “e che le stesse cose sono anche bene e male. Infatti, molte volte ciò che è bene per la fame, è male per la febbre; e ciò che è bene per la febbre è male per la fame. E spesso ciò che è bello per la corsa, è brutto per la lotta; e ciò che è bello per la lotta è brutto per la corsa. Infatti, tutte le cose sono buone e belle in relazione alle attività cui si adattano alla perfezione; mentre sono cattive e brutte in relazione a quelle cui mal s’adattano”.

[III,VIII,8] Quando Socrate diceva, a proposito di case, che la casa deve essere bella ed insieme funzionale; a me pareva che egli suggerisse ai presenti quali case è opportuno edificare.

Egli soleva infatti guardare alla sua costruzione in questo modo: “Chi è intenzionato ad avere una casa come si deve, non è forse opportuno che faccia in modo da poterci vivere dentro il più piacevolmente possibile, e che essa sia la più funzionale possibile?”

[III,VIII,9] Una volta trovato l’accordo di tutti, Socrate disse: “Dunque, non è forse piacevole che d’estate la casa sia fresca, e che sia tiepida d’inverno?” 

Dopo che anche questo fu condiviso, Socrate continuò: “Dunque, nelle case che guardano verso sud, d’inverno il sole è basso sull’orizzonte e ne illumina i porticati, mentre d’estate il sole splende a picco su di noi e sui tetti, fornendoci così ombra per il nostro cammino. Pertanto, se è bello che gli eventi accadano in questo modo, è opportuno che le parti degli edifici rivolte verso sud siano più alte affinché il sole invernale possa illuminarle e non rimanere del tutto intercettato; e che siano più basse le parti degli edifici rivolte verso nord, affinché esse non siano colpite in pieno dai venti freddi che da lì provengono. [III,VIII,10] Riassumendo il tutto in breve, possiamo dire che il luogo in cui il proprietario possa rifugiarsi il più piacevolmente possibile tutte le stagioni dell’anno, e conservarvi tutti i suoi beni nel modo più sicuro: ebbene, questa verosimilmente sarebbe anche l’abitazione più piacevole e più bella di tutte. Quanto ai dipinti ed agli ornamenti vari, essi sottraggono più diletti di quanti ne procaccino. 

Riguardo ai templi ed agli altari, Socrate soleva dire che il territorio che meglio si confà loro sarebbe quello il più aperto possibile alla vista, il più lontano dalla città e il meno frequentato possibile. Giacché chi li vede da lontano pronuncia con piacere parole beneauguranti, ed ha piacere di accostarsi loro con purezza rituale. 

[III,IX,1] Successivamente, quando gli fu chiesto se la virilità possa essere insegnata, oppure se si tratti di una dote naturale, Socrate rispose: “Io credo che, come un corpo è per natura più resistente di un altro dinanzi alla fatica; così pure un animo è per natura più vigoroso di un altro, se si trova di fronte a dei cimenti terribili. Io vedo, infatti, che individui cresciuti obbedendo alle stesse leggi e condividendo gli stessi costumi, quanto ad audacia hanno comportamenti assai diversi uno dall’altro. [III,IX,2] Io ritengo, tuttavia, che la virilità innata di qualunque uomo possa essere accresciuta dall’apprendimento e dalla pratica costante. Infatti è risaputo che gli Sciti e i Traci non ardirebbero, se armati soltanto di scudi e di lance, affrontare un combattimento contro gli Spartani. Ed è chiaro che a loro volta gli Spartani, se armati soltanto di scudo leggero e di giavellotti, non sarebbero affatto disposti a competere contro i Traci; né, se armati soltanto di arco e frecce, contro gli Sciti. [III,IX,3] Io stesso ho quindi modo di vedere che, similmente, gli uomini differiscono per natura uno dall’altro anche per tutti gli altri riguardi, e che progrediscono di molto con una pratica costante. Da queste constatazioni deriva manifestamente che tutti gli uomini, sia i più dotati naturalmente, sia i meno dotati naturalmente, devono, nelle attività nelle quali intendono diventare rinomati, queste apprendere e praticare con costanza”.

[III,IX,4] Socrate non faceva una netta distinzione tra sapienza e temperanza; ed usava giudicare sapiente e al contempo temperante, colui che riconosceva ed usava tutto ciò che è bello e buono, e che sapeva come tenersi lontano da tutto ciò che è brutto. Quando una volta gli fu chiesto se ritenesse sapienti e padroni di sé, coloro che hanno scienza di ciò che si deve effettuare, e che però fanno il contrario, rispose: “Costoro sono nulla di più che persone insipienti e prive di padronanza di sé. Io reputo, infatti che, tra le azioni fattibili, tutti scelgono deliberatamente quelle che essi ritengono per loro le più convenienti, e queste effettuano. Io credo, quindi, che quanti operano non rettamente siano individui né sapienti né temperanti. [III,IX,5] Soleva poi aggiungere che la giustizia e tutte le altre forme di virtù, sono sapienza. Che tutte le azioni giuste e tutte quelle che si effettuano virtuosamente, sono azioni belle e buone. Che quanti sanno questa verità non sceglierebbero mai deliberatamente altro che queste azioni. Che quanti non ne hanno scienza non possono effettuarle; e che qualora vi mettessero mano, fallirebbero miseramente. Pertanto, i sapienti effettuano le azioni belle e buone, gli insipienti non possono effettuarle e qualora vi pongano mano, falliscono miseramente. Quindi, poiché tutte le azioni belle e buone sono azioni virtuose, è manifesto che anche la giustizia e tutte le altre virtù sono forme di sapienza. [III,IX,6] Socrate sosteneva che la pazzia è il contrario della sapienza, ma non riteneva pazzia l’assenza di conoscenze certe; o l’ignorare chi si è, oppure l’opinare di sapere ciò che invece uno non sa. Tutte queste cose, egli le computava non come pazzia, ma come cose che si avvicinavano moltissimo alla pazzia. Diceva quindi di negare che fossero pazzi i molti che ignorano ciò che la maggior parte degli uomini ignora, e coloro che su queste questioni si sono sbagliati; e di chiamare invece pazzi coloro che si sono sbagliati su faccende che la maggior parte degli uomini conosce bene. [III,IX,7] Per esempio: se uno ritiene di essere così grande e grosso da chinarsi quando esce dalle porte delle mura cittadine. Se uno si ritiene così forte che prova a sollevare delle case intere, oppure se si dedica a qualcun’altra di quelle imprese che sono manifestamente impossibili per chiunque. Ebbene, allora Socrate diceva che costoro erano pazzi. Egli diceva anche che quanti sbagliano su faccende di poco conto, ai più non sembrano pazzi; e che i più, come chiamano ‘potente smania’ la passione amorosa, così chiamano ‘grande confusione mentale’ la pazzia. 

[III,IX,8] Considerando cosa fosse l’invidia, Socrate trovava che essa è una sorta di afflizione; afflizione la quale, tuttavia, non riguarda le sfortune degli amici o le fortune dei nemici. Egli sosteneva, infatti, che invidiosi sono soltanto coloro che provano fastidio per la prosperità degli amici. Poiché taluni si meravigliavano del fatto che esistesse qualcuno il quale si affliggeva per la prospera fortuna di un amico, Socrate soleva rammentare loro che molte persone sono disposte in modo tale da non poter evitare di badare a quanti se la passano male, e che quindi soccorrono sì gli sfortunati, ma poi si affliggono quando un colpo di fortuna ne fa cambiare la sorte. Tuttavia, aggiungeva che una cosa simile non accadrebbe mai ad un uomo saggio, mentre a sperimentarla sono sempre gli sciocchi. 

[III,IX,9] Considerando cosa fosse l’essere padroni del proprio tempo, Socrate diceva di trovare che la maggior patte degli uomini qualcosa sta sempre facendo. Infatti, anche chi gioca a dadi, anche chi racconta barzellette, sta facendo qualcosa; ed egli diceva che tutti costoro sono padroni del proprio tempo, in quanto hanno la potestà di dedicarsi ad effettuare cose più nobili di quelle che stanno effettuando. Ma nessuno di coloro che passano da attività degne ad attività indegne, è più padrone del proprio tempo; e Socrate affermava che chi ciò effettuasse, e quindi non fosse più padrone del proprio tempo, faceva molto male a farlo.

[III,IX,10] Socrate spiegava, poi, che re e condottieri non sono coloro che hanno in mano degli scettri, né quanti sono stati scelti da chi capita, né quanti sono stati estratti a sorte, né quanti ottengono tali scettri con la violenza oppure con l’inganno; bensì coloro che conoscono l’arte di comandare. [III,IX,11] Infatti, una volta ammesso che il compito del comandante è quello di impartire gli ordini sul da farsi, e che il compito dei comandati è quello di ubbidire agli ordini; Socrate metteva in evidenza che, su una nave, chi conosce l’arte del comando, comanda; mentre il proprietario della nave, e tutto il resto dell’equipaggio, obbedisce a chi sa. Anche nel caso dell’agricoltura è così per i proprietari dei terreni; in caso di malattia per i malati; negli esercizi ginnici per i ginnasti; e in tutti gli altri casi per i quali ci sia bisogno di conoscenze specifiche e di attenta cura. Tutti coloro che ritengono di avere queste conoscenze specifiche e la cura necessaria, procedono da soli; ed altrimenti obbediscono agli esperti non solo quando questi sono presenti; ma li mandano a chiamare qualora siano assenti ed obbediscono loro, così da fare quel che si deve. Anche nel filare e lavorare la lana, Socrate diceva che sono le donne a comandare gli uomini, poiché esse sanno bene come trattarla, mentre gli uomini non lo sanno.

[III,IX,12] A chi affermasse che però è in potestà del tiranno il non obbedire ai comandanti che impartiscono corretti ordini sul da farsi, Socrate soleva rispondere: “E come potrebbe il tiranno non obbedire al giusto ordine di un comandante, visto che nella disobbedienza stessa ad un giusto ordine è già insita per chiunque la pena? Infatti, in seguito alla disobbedienza ad un giusto ordine, costui commetterà un grave errore, e quindi dovrà per forza pagarne le conseguenze”. 

[III,IX,13] Ed a chi insisteva dicendo che il tiranno ha anche la potestà di far uccidere un buon comandante, Socrate rispondeva: “Ma tu credi che chi fa uccidere i suoi più poderosi alleati, ne scampi la pena o vada incontro ad una punizione soltanto casuale? Tu credi che così facendo, il tiranno salvaguardi meglio la propria sicurezza, oppure che andrà più rapidamente incontro alla propria rovina?”. 

[III,IX,14] Quando uno gli chiese quale egli giudicasse essere la migliore delle attività possibili per un uomo, Socrate gli rispose: “il ben fare”. E richiesto nuovamente di dire se ritenesse che anche la buona sorte è un’attività umana, egli rispose: “Io credo fermamente che fortuna ed attività umana siano proprio il contrario una dell’altra. Infatti, se uno ottiene qualche cosa di cui manca e che neppure sta ricercando: questo io lo credo essere ‘buona sorte’. Ritengo invece essere ‘ben fare’ l’effettuare bene qualcosa, avendola imparata e studiata a fondo; e pertanto quanti questa attività praticano a me paiono uomini che fanno bene”. [III,IX,15] Aggiungeva anche che gli uomini in assoluto migliori e più cari agli dei sono, in campo agricolo, coloro che praticano bene l’agricoltura, in medicina coloro che praticano bene l’arte medica, in politica coloro che praticano bene l’arte politica. Chi invece nulla pratica bene, Socrate lo definiva un essere né proficuo, né caro agli dei.

[III,X,1] Quando gli capitava di dialogare con qualcuno degli artisti professionisti e del loro lavoro, la conversazione con Socrate riusciva ad essere davvero di giovamento anche a costoro. 

Infatti, entrato una volta nella bottega del pittore Parrasio e discutendo con lui, Socrate gli chiese: “Dunque voi pittori, grazie all’uso dei colori, dipingendo rappresentate fedelmente l’aspetto che hanno entità corporee basse ed alte, scure e chiare, dure e molli, ruvide e lisce, giovani e vecchie”.

“Stai dicendo il vero” rispose Parrasio.

[III,X,2] “E invero, poiché non è facile imbattersi in un individuo, tutte le parti del cui corpo siano irreprensibili; voi da molti uomini diversi traete e radunate insieme i particolari migliori di ciascuno, e così fate in modo che i corpi che dipingete appaiano belli?”.

[III,X,3] “Sì, questo è quel che noi facciamo”, rispose Parrasio.

“E che? Siete dunque capaci”, riprese Socrate, “di ritrarre fedelmente in un dipinto il carattere dell’animo di un personaggio qualunque: per esempio, un animo straordinariamente accattivante, o dolcissimo, o amichevolissimo, o colmo di bramosia, o perdutamente innamorato? Oppure si tratta di qualcosa che è impossibile ritrarre?”

“Socrate, e come puoi pensare che si possa ritrarre ciò che è informe, incolore, che non possiede alcuno dei caratteri che tu hai appena detto, e che neppure è visibile?”

[III,X,4] “Ma avviene”, replicò Socrate, “che un uomo indirizzi verso taluni uno sguardo che è amichevole, e verso altri uno sguardo da nemico?”

“Mi pare proprio di sì”.

“E questo sguardo non lo si può imitare, dipingendo opportunamente gli occhi?”

“Certo che si può”.

“E tu pensi che i successi e gli insuccessi degli amici”, continuò Socrate, “producano le stesse espressioni del viso in chi di loro si preoccupa, e in chi di loro non si preoccupa?”

“Per Zeus, no di sicuro!”, rispose Parrasio, “In caso di successo degli amici, quei volti diventano raggianti; mentre in caso di insuccesso essi diventano accigliati”.

“E dunque”, chiese Socrate, “è possibile riprodurre fedelmente anche queste espressioni dei volti?”

“Certamente sì!”

[III,X,5] “E inoltre anche magnificenza e liberalità, meschinità e grettezza, moderazione e accortezza, insolenza e assenza di buongusto, si palesano chiaramente nei volti e negli atteggiamenti di uomini sia fermi che in movimento?”.

“Sì, è vero”.

“Dunque anche questi caratteri possono essere riprodotti fedelmente?”

“Senza alcun dubbio”.

“E quale credi che sia il dipinto più gradevole a vedersi? Quello di uomini da cui traspaiono nobiltà d’animo e amabilità; oppure quello di uomini da cui traspaiono disonore, depravazione e odiosità?”

“Per Zeus, c’è una gran differenza tra i due!” 

[III,X,6] In un’altra occasione, entrato una volta nella bottega dello scultore Clitone e discutendo con lui, Socrate gli chiese: “Io so e vedo che tu scolpisci belle statue di corridori, di lottatori, di pugili e di pancraziasti. Ma come fai, e questo è ciò che più colpisce l’animo degli osservatori, a scolpirle dando l’impressione che esse siano viventi?”

[III,X,7] Visto che Clitone era incerto e non gli rispondeva subito, Socrate riprese la parola e gli disse: “È quindi raffigurando fedelmente le fattezze di atleti viventi, che fai apparire viventi le tue statue?”

“Sì, è proprio così”

“Dunque, è scolpendo corpi che si rannicchiano e che si rialzano, corpi bloccati nell’immobilità e che si divincolano, corpi tesi come archi e che si rilassano, nel modo più fedele possibile a quelli veri, che riesci a far apparire le tue statue così convincenti?”

“Sì, certamente” rispose Clitone.

[III,X,8] “E a dilettare gli spettatori, non è anche la fedele imitazione di ciò che quei corpi stanno sperimentando?

“Verosimilmente sì”

“E non vanno anche fedelmente imitate le occhiate minacciose dei combattenti, come pure lo sguardo trionfante dei vincitori?”

“Assolutamente sì”

“Pertanto”, concluse Socrate, “lo scultore deve saper raffigurare fedelmente anche i moti dell’animo dei suoi modelli”.

[III,X,9] Una vola Socrate entrò nella bottega di Pistia, il produttore di corazze; e poiché quello faceva sfoggio delle sue corazze ben lavorate, gli disse: “Sì, per Era, caro Pistia, è un gran bel ritrovato quello che protegge il torace, che è la parte dell’uomo che più ha bisogno di protezione, senza però impedirgli l’uso delle mani. [III,X,10] E tuttavia dimmi il motivo per cui, producendo corazze che sono né più resistenti né più pregiate di quelle di altri artigiani, tu le vendi ad un prezzo più alto”.

“Caro Socrate”, gli rispose Pistia, “il fatto è che io le faccio su misura”.

“E le misure che spiegano il loro maggior costo”, chiese Socrate, “sono misure di lunghezza o di peso? Infatti io non credo che tu faccia le corazze tutte dello stesso peso né della stessa lunghezza, se le fai adattabili”.

“Si, per Zeus; le faccio adattabili. Una corazza non è di alcun giovamento se non è fatta su misura”.

[III,X,11] “E dunque”, gli chiese Socrate, “i corpi di alcuni uomini sono proporzionati, mentre quelli di altri sono sproporzionati?”

“Ecco, sì: è proprio così”

“E come fai tu, adattando la corazza ad un corpo sproporzionato, a renderla proporzionata?”

“Appunto adattandola alla sproporzione di quel corpo; giacché è questo adattamento che rende la corazza proporzionata”

[III,X,12] “A me sembra quindi che tu intenda dire questo: ossia che proporzionata non è la corazza di per sé, ma il fatto che essa si adatti armoniosamente al corpo di chi la indossa. Così come si direbbe di uno scudo, che se si adatta bene alla corporatura di qualcuno, ecco che esso è uno scudo proporzionato. E si potrebbe dire la stessa cosa di una mantellina corta, o di qualunque altra cosa che paia a te. [III,X,13] Inoltre, forse c’è anche un altro non piccolo vantaggio congiunto all’adattamento”.

“Caro Socrate”, disse Pistia, “dimmelo subito, se ne hai in mente qualcuno”

“Le corazze ben adattate”, spiegò Socrate, “opprimono chi le indossa meno di quelle non ben adattate, pur avendo entrambe lo stesso peso. Infatti queste ultime, facendo gravare tutto il peso sulle spalle soltanto, o schiacciando pesantemente qualche altra parte del corpo, diventano gravose e scomode da indossare. Invece quelle ben adattate, suddividendo il loro peso in parte sulle clavicole, sulla sommità delle spalle, sulle spalle stesse, sul petto, sulla schiena e sull’addome, poco manca che somiglino non ad un gravame ma ad un accessorio”. 

[III,X,14] “Quel che hai appena detto”, gli rispose Pistia, “spiega perché io ritenga che il mio lavoro merita di essere considerate di maggior valore di quello di altri. Comunque, ci sono sempre taluni i quali preferiscono comprare corazze variopinte ed indorate”. 

“Invero”, gli disse Socrate, “se questo è il motivo per cui essi non acquistano corazze fatte su misura, a me sembra che con quelle variopinte ed indorate essi facciano un pessimo affare. [III,X,15] E tuttavia, poiché il corpo non mantiene sempre la stessa posizione, ma ora si incurva ed ora si raddrizza, come fanno le corazze fatte su misura ad adattarsi ai suoi movimenti?”

“Non c’è modo possibile”

 “Tu stai dicendo che ad adattarsi non sono le corazze fatte su misura, ma quelle che non danno fastidi quando le si usa?”

“Tu l’hai detto, Socrate, e l’hai appena approvato rettissimamente”.

[III,XI,1] Una volta capitò che si trovasse ad Atene una bella donna, di nome Teodota, la quale accettava la compagnia di chiunque le piacesse. Quando uno dei presenti ne citò il nome, riferì che la bellezza di quella donna era al di sopra di qualunque possibile descrizione. Aggiunse pure che dei pittori si recavano da lei per farle dei ritratti, e che ad essi ella mostrava di sé proprio tutto quanto stava bene mostrare. “Sarebbe il caso”, disse allora Socrate, “che noi andassimo a vederla con i nostri occhi; giacché di certo, più che ascoltare delle parole su di lei, è molto meglio vederla in carne ed ossa”.

[III,XI,2] Al che, colui che l’aveva citata, disse: “Non perdete l’occasione di vederla!” Così Socrate ed altri si misero in cammino verso la casa di Teodota. La trovarono in compagnia di un pittore che la stava ritraendo, ed ebbero tutto l’agio di osservarla. Quando il pittore ebbe finito, Socrate chiese: “Signori, chi dei presenti deve mostrare più gratitudine? Noi a Teodota, per averci sfoggiato tutta la sua bellezza? Oppure Teodota a noi, perché di tale bellezza siamo rimasti qui spettatori? E lo sfoggio di tanta bellezza giova di più a lei, e quindi è lei tenuta a ringraziare noi; oppure siamo noi tenuti a ringraziare lei, per lo spettacolo cui abbiamo assistito?” 

[III,XI,3] Poiché un tale diceva che la sua osservazione era giusta, Socrate continuò: “Costei si è ormai guadagnata la nostra lode, e dal momento che noi ne spargeremo in giro la notizia, di certo ella ne trarrà ancor più giovamento. Insomma, noi ormai smaniamo di toccare con mano tutto ciò che abbiamo appena visto. Ce ne andiamo quindi profondamente eccitati, ed una volta lontani, di lei conserveremo la brama. La verosimile conseguenza di ciò è che noi saremo i suoi adoratori, e lei l’adorata Teodota”. A questo ella rispose: “Sì, per Zeus. Se le cose stanno in questi termini, dovrei io essere grata a voi per avere assistito allo spettacolo”.

[III,XI,4] Tempo dopo, quando Socrate vide Teodota acconciata in modo costoso; vide la madre di lei in abiti non qualunque, ma molto curati; vide molte domestiche di bell’aspetto e che lavoravano senza sciatteria; e quando vide, oltre al resto, che la casa era abbondantemente fornita di suppellettili, Socrate le chiese: “Teodota, ma tu sei proprietaria di coltivi?”

“Io? No di certo”

“Di una casa da cui ricavi un affitto?”

“No, neppure di una casa”

“Forse hai alle tue dipendenze dei manovali?”

“No, neppure dei manovali”

“Ma allora come fai a procacciarti ciò che ti serve per vivere?”

“Se uno, che è diventato mio amico, vorrà fare del bene: ecco, costui è la mia vita” 

[III,XI,5] “Sì, per Era”, disse Socrate, “il tuo è davvero uno splendido possesso, cara Teodota; e molto migliore del possesso di pecore, di capre e di buoi. E tuttavia”, continuò Socrate, “dimmi: che uno diventi tuo amico, tu lo deleghi interamente alla fortuna, come si trattasse di una mosca che si posa su di te; oppure anche tu metti in opera qualche accorgimento al riguardo?” 

[III,XI,6] “E come potrei io”, gli rispose Teodota, “inventarmi un espediente per ottenerlo?”

“Per Zeus, sì che c’è”, le rispose Socrate, “ed ancora più spediente di quelli che impiegano i falanghi. Come tu sai, i falanghi vanno a caccia di quanto loro serve per vivere. A questo fine, essi tessono delle sottili tele di ragno e qualunque cosa cada in queste tele, essi di quella si cibano”. 

[III,XI,7] “Tu dunque”, gli rispose Teodota, “mi consigli di tessete qualcosa di simile ad una ragnatela?” 

“No di certo. Non è pensandola in un modo così rozzo”, le rispose Socrate, “che bisognerà praticare la caccia agli amici, ossia la più degna di tutte le caccie. Non vedi che anche per la caccia alla lepre, che è una caccia di ben poco valore, i cacciatori mettono in opera un sacco di astuzie? [III,XI,8] Infatti, poiché le lepri pasturano di notte, i cacciatori si provvedono di cani addestrati alla caccia notturna, e con questi le cacciano. E poiché all’alba le lepri fuggono lontano dai luoghi di pastura, i cacciatori sono provvisti di una muta di altri cani i quali, quando le lepri lasciano il luogo per ritirarsi nei loro covili, le individuano e le rintracciano grazie al loro finissimo odorato. E poiché le lepri sono velocissime nella corsa, tanto da sparire alla vista anche correndo in campo aperto, i cacciatori hanno pronta anche un’altra muta di cani, i quali sono capaci di inseguirle e catturarle seguendone le orme. E poiché qualche lepre riesce comunque a sfuggire anche a questi levrieri, i cacciatori dispongono delle reti sui loro percorsi di fuga, al fine da farle cadere in esse e così rimanere impastoiate”.

[III,XI,9] “Con quale di questi metodi”, chiese Teodota, “potrei dunque andare a caccia di amici?”

“Un metodo c’è, per Zeus”, le rispose Socrate, “Tu, invece di un cane, ti procurerai qualcuno che in tua vece, seguendo le loro orme, trovi per te degli uomini ricchi e amanti del bello; e una volta trovatili, escogiti il modo per farli imbattere nelle tue reti”.

[III,XI,10] “Ma quale sorta di reti, posseggo mai io?”

“Intanto una rete meravigliosamente atta ad avvilupparli è, di sicuro, il tuo corpo. Poi, all’interno di questo corpo c’è l’animo tuo. Animo, grazie al quale, all’istante sai decifrare come renderti gradita con uno sguardo; come allietare con una parola; come si deve accogliere di buon grado chi si prende cura di te, e invece chiudere la porta in faccia allo smargiasso; visitare con sincera preoccupazione l’amico che è caduto ammalato; compiacerti fino in fondo con l’amico che fa qualcosa di bello; e ringraziare di cuore chi si preoccupa davvero di te. Quanto al fare l’amore, io so bene che ne sei esperta, e non soltanto nel farlo con tenerezza ma anche con affetto. E so anche che gli amici a te più graditi, li convinci di ciò non con le parole ma con i fatti”.

“Ma per Zeus”, esclamò Teodota, “io non metto in opera neppur una delle smorfioserie che hai appena citato!”

[III,XI,11] “E comunque”, continuò Socrate, “è sempre un segno di grande distinzione il rivolgersi ad un uomo con naturalezza e insieme con correttezza. Infatti, non è con la violenza che potresti catturare e trattenere teco un amico, giacché puoi accattivarti questa preda e farla rimanere fedele, soltanto con il ben operare e la piacevolezza dei tuoi modi”. 

“Quel che dici è vero”.

[III,XI,12] “In primo luogo bisogna pertanto”, insistette Socrate, “chiedere a coloro che mostrano di darsi pensiero di te, quel genere di favori per fare i quali essi avranno il minimo di difficoltà. E poi, in secondo luogo, bisogna poter contraccambiare con la stessa moneta il favore ricevuto. In questo modo, infatti, essi diventerebbero amici sempre più stretti, più duraturi e capaci di fare dei favori sempre più grandi. [III,XI,13] E faresti cosa sommamente gradita agli amici, se facessi loro un dono da parte tua quando essi ne hanno bisogno, e non prima. Tu vedi, infatti, che anche i cibi più gradevoli, qualora vengano serviti in tavola prima di essere desiderati, appaiono sgradevoli e, a coloro che sono già sazi, procurano pure la nausea. Se invece uno serve in tavola dei cibi sia pur poverissimi, ma a gente affamata, questi appaiono gradevolissimi.

[III,XI,14] “E come potrei io rendere qualcuno affamato del mio cibo?”

“Sì, che lo puoi, per Zeus. In primo luogo”, soggiunse Socrate, “a coloro che sono già sazi, non serviresti in tavola né rammenteresti i tuoi cibi, fino a quando essi non abbiano smaltito la sazietà e ne sentano di nuovo la carenza. Successivamente, comportandoti come un modello di buona relazione, rammenteresti a coloro che ne sentono il bisogno, che tu sei riluttante a cedere, e ti tratterresti in disparte fino a che essi sentissero al massimo grado il bisogno di te. Infatti, allora i medesimi regali sono molto più graditi da chi li riceve, di quando essi siano offerti prima di essere stati desiderati.

[III,XI,15] “Caro Socrate, perché dunque”, esclamò allora Teodota, “non diventi mio compagno nella caccia agli amici?”

“Se riuscirai a persuadermi di farlo”, rispose Socrate.

“E come farei a persuaderti?”

“Questo modo lo troverai tu stessa, e lo metterai in opera se avrai bisogno da me di qualcosa”. 

“Vieni, dunque, a trovarmi spesso!”, lo invitò Teodota.

[III,XI,16] Allora Socrate, con la mente al proprio desiderio di tenersi ben lontano da qualunque noia, disse a Teodota: “Per me non è affatto facile avere del tempo libero a disposizione. Infatti, molti affari sia privati che pubblici me ne tengono lontano. E inoltre ci sono anche delle mie amiche le quali, sia di giorno che di notte, mi impediscono di allontanarmi; poiché da me stanno imparando come si fanno dei filtri magici e degli incantesimi”. 

[III,XI,17] “Socrate”, chiese stupita Teodota, “ma tu sai fare anche queste cose?”

“Ma per quale ragione credi tu, che Apollodoro e Antistene non mi lascino mai solo? E perché credi che Cebete e Simmia vengano a trovarmi provenendo fin da Tebe? Tu sai di sicuro, che cose come queste non càpitano se non ci sono di mezzo filtri magici, incantesimi e ruote fatate”.

[III,XI,18] “Metti dunque in funzione per me la tua ruota fatata”, disse allora Teodota, “affinché essa ti attiri a me per primo” 

“Ma per Zeus”, le rispose Socrate, “io non voglio affatto essere attirato verso di te, bensì che sia tu a procedere verso di me”

“Ma ci procederò di sicuro; e speriamo che tu mi accolga”

“Io ti accoglierò, se non ci sarà dentro di me un’altra cosa che mi è amica assai più di quanto lo sia tu”. 

[III,XII,1] Vedendo che Epigene, uno dei suoi sodali, pur essendo giovane era in assai cattive condizioni fisiche, Socrate una volta lo apostrofò dicendogli: “Caro Epigene, sei davvero a corto di allenamento fisico”.

Al che, Epigene rispose: “Caro Socrate, il fatto è che io sono un cittadino qualunque”.

“Certo non più allenato”, gli fece notare Socrate, “di coloro che sono in procinto di gareggiare ad Olimpia. Ma ti sembra una piccola cosa la lotta per la sopravvivenza che, quando capitasse, gli Ateniesi ingaggeranno contro i nemici? [III,XII,2] Eppure non sono pochi coloro che, a causa del pessimo stato fisico, muoiono nel corso delle tante situazioni pericolose legate alla guerra, oppure che si salvano a prezzo di viltà e disonore. Poi, molti di coloro che, a questo prezzo, sopravvivono, vengono catturati, e una volta prigionieri, o passano il resto della vita da schiavi, se così loro capita, nella più terribile schiavitù; oppure, caduti nelle ristrettezze più dolorose, e dopo avere pagato a volte più di quanto posseggano, passano il resto della vita nella indigenza delle cose più essenziali, e sopravvivono sottoposti a sofferenze inenarrabili. Molti sono, poi, coloro che acquisiscono una cattiva fama a causa della loro impotenza fisica, e che vengono ritenuti dei codardi. [III,XII,3] Tu spregi queste condanne del pessimo stato fisico, e pensi di poter sopportare a lungo siffatta nomea? Io credo che l’ottimo stato fisico del proprio corpo, sia un risultato assai più facile da ottenere e più gratificante della nomea di codardo. Oppure tu credi che il pessimo stato fisico sia più sano e, per il resto, più proficuo, dell’ottimo stato fisico? Oppure tu hai in spregio gli effetti dell’ottimo stato fisico? [III,XII,4] Eppure, a quanti sono in buone condizioni fisiche, accade tutto il contrario di ciò che accade a quanti sono in pessime condizioni fisiche. Infatti, quanti hanno il corpo in ottime condizioni, sono sani e pieni di forza. Grazie a ciò, sono molti coloro che si salvano valorosamente nei combattimenti sul campo di battaglia, e che sfuggono a tutti i terribili pericoli legati alla guerra. Molti sono anche coloro che vanno in soccorso degli amici; che fanno onore alla patria e che, per questa ragione, diventano degni di riconoscimenti; che acquisiscono grande fama; che ottengono splendidi doni e che quindi vivono meglio per il resto della loro vita, e che perciò lasciano in eredità ai loro figli risorse economiche più abbondanti.

[III,XII,5] Ora, il fatto che lo Stato non provveda, a pubbliche spese, alla buona condizione fisica dei suoi cittadini, non deve diventare, per questi, un motivo per trascurare la cura privata delle proprie condizioni fisiche; e quindi essi devono prendersi cura di esse nonostante tutto. Tu, infatti, sai bene che in nessuna gara ed in nessuna attività avrai la peggio, a causa dell’aver migliorato le tue condizioni fisiche. In tutte le attività pratiche nelle quali gli uomini si impegnano, il corpo è di fondamentale utilità; e in tutti gli impieghi del corpo, fa una gran differenza l’avere il proprio corpo nelle condizioni migliori possibili. [III,XII,6] Infatti, anche in attività nelle quali a te sembra esserci il minimo impiego del corpo, come nel pensare; chi non sa che anche in questa attività, molti commettono grandissimi errori a causa della cattiva salute del loro corpo? Spesso, a causa del loro pessimo stato fisico, la perdita della memoria, lo scoramento, la biliosità e la pazzia si abbattono su molti, in modo tale da privarli addirittura delle cognizioni che avevano. [III,XII,7] Per coloro il cui corpo è in ottime condizioni, non c’è invece alcun pericolo, e c’è la sicura garanzia di non sperimentare alcunché di simile a ciò che dipende da un pessimo stato fisico. Anzi, è del tutto verosimile che un ottimo stato fisico sia proficuo per ottenere tutto il contrario, e dunque per non imbattersi nelle conseguenze di un pessimo stato fisico. Di certo, a causa delle contrarietà appena citate, quali fatiche non sosterrebbe una persona assennata?

[III,XII,8] È vergognoso essere diventato vecchio per trascuratezza, senza mai vedere quale livello di bellezza e di forza fisica avrebbe potuto raggiungere il nostro corpo. Queste sono cose che chi non si è preso cura di sé non potrai mai vedere, poiché si tratta di cose che non accadono automaticamente e per conto loro. 

[III,XIII,1] Una volta, un tale s’era adirato poiché, avendo salutato qualcuno, costui non gli aveva ricambiato il saluto. “La tua ira è ridicola”, gli disse Socrate, “giacché non ti saresti adirato se avessi incontrato qualcuno in condizioni di salute peggiori delle tue. Invece ti affliggi per esserti imbattuto in qualcuno il cui animo è disposto in modo più selvatico e rozzo del tuo. 

[III,XIII,2] Poiché un altro andava dicendo di non provare alcun piacere nel mangiare, Socrate gli disse: “Per questa malattia, Acumeno spiega di avere un’ottima medicina”. “Di che medicina si tratta?”, gli fu chiesto. “Smettere di mangiare”, gli rispose Socrate, “giacché smettendo di mangiare, la farai passare in un modo più piacevole, più a buon mercato e più sano”.

[III,XIII,3] A sua volta, un altro andava dicendo che a casa sua l’acqua da bere era calda. “Ma allora”, gli disse Socrate, “quando deciderai di fare un bagno caldo, avrai l’acqua già bella pronta”.

“Ma per fare un bagno caldo”, obiettò l’altro, “quest’acqua risulta fredda”

“Quindi, i tuoi di casa si adontano per quest’acqua, sia quando la bevono, sia quando la usano per fare un bagno caldo?”

“No, per Zeus; ed io, più di una volta, sono rimasto stupito di come essi se ne servano con molta soddisfazione per entrambi gli usi”

“Ma l’acqua da bere più calda è quella di casa tua, oppure quella del tempio di Asclepio <ad Epidauro>?”

“Quella del tempio di Asclepio”

“E per fare un bagno caldo, è più fredda l’acqua di casa tua oppure quella del tempio di Anfiarao <ad Oropo>?”

“Quella del tempio di Anfiarao” 

“Dunque, fatti coraggio”, concluse Socrate, “perché rischi di essere più maldisposto di quei di casa tua e di quanti sono infermi”.

[III,XIII,4] Una volta, avendo visto che un tale puniva molto duramente uno dei servi che aveva al seguito, Socrate gli chiese perché mai si fosse tanto adirato con quello. La risposta che ebbe fu: “Perché essendo un mangione ingordo come pochi, è un codardo di un’indolenza senza pari; e in quanto avidissimo di denaro, è di una pigrizia assoluta”. 

“Ma hai già avuto il tempo di esaminare per bene”, gli chiese Socrate, “chi di voi due abbia più bisogno di botte: tu che ne sei il padrone oppure il tuo servo?”

[III,XIII,5] Poiché un tale aveva paura di mettersi in viaggio per Olimpia, Socrate gli disse: “Perché hai paura di questa camminata? Quando sei a casa, non passeggi forse quasi tutto il giorno? Anche quando camminerai fin là, dopo una passeggiata farai colazione, poi dopo un’altra passeggiata pranzerai e poi ti prenderai un po’ di riposo. Non sai che sommando tutte le passeggiate che fai adesso, in cinque o sei giorni avresti già facilmente coperto la distanza che separa Atene da Olimpia? Inoltre, è più confortevole anticipare la partenza di un giorno, piuttosto che ritardarla di altrettanto. Infatti, essere costretti ad allungare oltre misura la distanza percorsa in un giorno di cammino, fa diventare la camminata sgradevole; mentre invece l’avere un giorno in più a disposizione per essa, la fa diventare molto più comoda. Pertanto è meglio anticipare l’inizio del viaggio, piuttosto che allungare le distanze da percorrere ogni giorno”. 

[III,XIII,6] Sentendo un altro tale dire che una lunga camminata lo aveva sfinito, Socrate gli domandò se avesse con sé anche del bagaglio.

“Per Zeus, sì, certo. Ma io ho con me soltanto la mia toga”

“Ma hai camminato da solo, o avevi qualcuno al tuo seguito?”

“Sì. Avevo uno al mio seguito”

“E costui era senza bagaglio oppure portava qualcosa?”

“Per Zeus, portava le mie coperte ed altre suppellettili”

“E come se l’è cavata”, gli chiese Socrate, “in questo viaggio?”

“A me sembra che se la sia cavata meglio di me”

“E dunque? Se avessi dovuto portare tu il suo bagaglio, come ti saresti comportato?

“Sì, assai male. O piuttosto, diciamo che non sarei stato capace di trasportarlo fin qua” 

“E ti pare che sia degno di un uomo ben esercitato, l’essere così tanto meno capace di faticare di un servo?

 [III,XIV,1] Ogni volta che, dei partecipanti ad un pranzo, taluni conferivano una piccola quantità di cibo mentre altri ne conferivano una quantità assai maggiore, Socrate soleva imporre al servitore di mettere in comune sia le piccole che le meno piccole quantità, e di suddividere il tutto in parti uguali per ciascun commensale. I partecipanti che conferivano una quantità di cibo maggiore degli altri, si vergognavano infatti di non mettere in comune quanto avevano conferito, e di trattenerlo per sé. Essi mettevano quindi in comune anche i loro contributi; ma poiché ottenevano una quantità di cibo, di certo non maggiore di quella che ottenevano quanti avevano conferito di meno, smisero ad un certo punto di spendere più degli altri per l’acquisto del cibo.

[III,XIV,2] Una volta, Socrate si accorse che uno dei commensali aveva smesso di mangiare del pane e mangiava soltanto il companatico. Poiché il discorso era caduto sui nomi, cioè su quale fosse il nome che si confaceva a ciascuna azione, Socrate chiese: “Signori, avremmo noi modo di dire quale sia l’azione specifica per la quale un uomo viene chiamato: mangione ingordo? Tutti gli uomini mangiano il companatico con del pane, quando ce ne sia. Ma io non credo che sia questo il motivo per cui essi sono chiamati mangioni ingordi”. 

“No di certo”, disse uno dei presenti.

[III,XIV,3] “E dunque?”, continuò Socrate, “Se uno mangerà la pietanza senza mangiare del pane, e se lo farà non perché sta seguendo una dieta da atleta in allenamento ma per puro piacere, a voi sembra che costui sia un mangione ingordo oppure no?”

“Se non è a dieta, non si vede chi altro sia un mangione ingordo” 

A questo punto, un altro dei presenti chiese: “E come si chiama chi mangia poco pane e molto companatico?” 

“A me pare”, gli rispose Socrate, “che anche costui sia giustamente chiamato ‘mangione ingordo’, giacché quando gli altri uomini auspicano di ottenere dagli dei abbondanza di frutti, costui verosimilmente auspicherebbe di ottenere dagli dei abbondanza di pietanza”. 

[III,XIV,4] Mentre Socrate pronunciava queste parole, il giovanotto, ritenendo che esse fossero rivolte a lui, non smise di mangiare la pietanza, ma le aggiunse anche del pane. Allora Socrate, resosene conto avvertì: “Voi che gli state accanto, tenete d’occhio il giovanotto, per capire se egli utilizzerà il pane come pietanza oppure la pietanza come pane”.

[III,XIV,5] Una volta, vedendo uno dei commensali che gustava pietanze diverse, da lui mescolate insieme su un unico pezzo di pane, Socrate disse: “Potrebbe mai realizzarsi una cucina di pietanze più costosa o che più ne guasta il sapore, di quella che cucina per sé chi mette insieme pietanze diverse e porta alla bocca ogni sorta di insieme di salse? Costui fa diventare le pietanze ancor più costose di quelle che preparano i cuochi, mescolando vari ingredienti. Infatti gli ingredienti che i cuochi non mescolano perché non si armonizzano tra di loro, costui invece li mescola: e quindi, o i cuochi non operano rettamente, oppure è lui che sbaglia e manda al macero la loro arte. [III,XIV,6] E inoltre come può non essere ridicolo il comportamento di colui che assolda dei cuochi che conoscono meglio di tutti l’arte del cucinare, e che, senza neppur pretendere di conoscere quest’arte, altera del tutto il sapore dei cibi da essi cucinati? Succede pure qualcos’altro ancora a chi ha l’abitudine di mangiare cibi diversi mescolati assieme. Infatti, se non c’è varietà di cibi, a costui parrebbe esserci scarsità di quelli che abitualmente desidera; mentre invece chi è abituato a mangiare una sola pietanza con un solo pezzo di pane, quando di pietanze diverse non ce ne fossero molte, egli potrebbe servirsi di quella soltanto senza alcun disagio. 

[III,XIV,7] Socrate soleva anche dire che l’espressione ‘trattarsi bene’, nel dialetto di Atene era sinonimo di ‘mangiare’. E ribadiva che la presenza dell’avverbio ‘bene’ implicava il mangiare dei cibi che non creavano disagio né al corpo né all’animo, e che non erano difficili da trovare. Sicché, secondo lui, il trattarsi bene si attagliava anche a quanti avevano un tenore di vita ordinato e regolare.

Libro IV

Introduzione

Quelli che la tradizione ha raccolto sotto il generico nome di ‘Memorabilia’, ovvero di ‘Detti e fatti memorabili’, sono appunti disparati che Senofonte scrisse in tempi diversi e senza un ordine preciso. L’unico elemento che appare tenerli uniti è la presenza costante del personaggio ‘Socrate’, come visto ed interpretato da Senofonte. 

Per comodità, io ho raccolto ciascun appunto in altrettanti paragrafi. Gli appunti che formano il Libro IV sono in totale 26, e l’argomento di ciascuno di essi è il seguente:

Appunto 1 – [IV,I,1-2] Chi erano le persone delle quali Socrate si innamorava spesso.

Appunto 2 – [IV,I,3-5] Chi erano le persone che Socrate chiamava stupide e dannose.

Appunto 3 – [IV,II,1-2] Il giovane Eutidemo rifiuta sistematicamente ogni contatto con Socrate.

Appunto 4 – [IV,II,3-8] Socrate trova il modo di aprire una breccia nel mutismo di Eutidemo.

Appunto 5 – [IV,II,9-11] Eutidemo confida a Socrate di mirare a quella eccellenza che ci rende capaci di essere giusti e di governare gli Stati.

Appunto 6 – [IV,II,12-13] Socrate propone, ed Eutidemo accetta, di raccogliere in una colonna G tutte le opere giuste, ed in una colonna I tutte le opere Ingiuste.

Appunto 7 – [IV,II,14-19] Socrate sorprende Eutidemo, dimostrandogli  che tutte le azioni poste in G, sono le stesse che possono essere poste anche in I.

Appunto 8 – [IV,II,20-23] Socrate chiede ad Eutidemo se la scienza del giusto e la scienza delle lettere siano la stessa scienza? 

Appunto 9 – [IV,II,24-29] Socrate ed Eutidemo discutono sul ‘Riconosci te stesso’.

Appunto 10 – [IV,II,30-33] Socrate ed Eutidemo discutono sui beni e sui mali.

Appunto 11 – [IV,II,34-36] Socrate ed Eutidemo si chiedono se la felicità sia sempre un bene. 

Appunto 12 – [IV,II,37-40] Socrate ed Eutidemo discutono su cosa sia la democrazia. Eutidemo, persa ogni fiducia sul proprio presunto sapere, si allontana.

Appunto 13 – [IV,III,1-18] Socrate ed Eutidemo discutono sugli dei e sulla importanza del loro culto.

Appunto 14 – [IV,IV,1-5] Il rispetto di Socrate per la giustizia e per le leggi dello Stato. 

Appunto 15 – [IV,IV,6-25] Socrate discute di giustizia e di legalità con Ippia di Elide.

Appunto 16 – [IV,V,1-12] Socrate discute con Eutidemo dell’importanza della temperanza, e del pieno controllo di se stessi, in vista di una vita armoniosa, felice, e ricca di nobili imprese.

Appunto 17 – [IV,VI,1-5] Socrate ad Eutidemo sul come definire il ‘culto degli dei’.

Appunto 18 – [IV,VI,6] Socrate ad Eutidemo sul come definire le ‘azioni giuste’.

Appunto 19 – [IV,VI,7] Socrate ad Eutidemo sul come definire la ‘sapienza’.

Appunto 20 – [IV,VI,8] Socrate ad Eutidemo sul come definire il ‘bene’.

Appunto 21 – [IV,VI,9] Socrate ad Eutidemo sul come definire il ‘bello’.

Appunto 22 – [IV,VI,10-11] Socrate ad Eutidemo sul come definire la ‘virilità’.

Appunto 23 – [IV,VI,12-15] Governo sovrano e governo tirannico, secondo Socrate.

Appunto 24 – [IV,VII,1-10] Socrate insegnava anche fino a quale livello di esperienza di ciascuna faccenda pratica, debba pervenire l’uomo correttamente educato.

Appunto 25 – [IV,VIII,1-3] Socrate parla del suo démone.

Appunto 26 – [IV,VIII,4-11] Ermogene riferisce a Senofonte, i pensieri di Socrate nei suoi ultimi giorni di vita.

Traduzione

[IV,I,1] Su qualsivoglia faccenda e comunque la si considerasse, Socrate era di tale giovamento, che per chi prendeva sul serio le sue parole e ne comprendeva a sufficienza il significato, era evidente non esservi scelta più giovevole di quella di rimanere in sua compagnia, e quindi di discuterne con lui in qualunque luogo e in qualunque momento della giornata. Anche quando era assente, il semplice ricordarsi del suo punto di vista risultava di non piccolo giovamento a quanti erano abituati alla sua compagnia e lo accettavano come maestro; giacché, sia scherzando e sia parlando sul serio, egli era di non minore vantaggio ai suoi interlocutori. [IV,I,2] Per esempio, Socrate soleva spesso dire di essere innamorato di qualcuno; ma era evidente che egli si riferiva non all’amore per i corpi di persone nel fior degli anni, bensì alle persone bennate il cui animo era tutto rivolto al perseguimento della virtù. Egli arguiva l’esistenza di tali nobili nature, dal fatto che esse apprendevano rapidamente tutto ciò cui dirigevano l’attenzione, ricordavano ciò che avevano imparato e nutrivano uno speciale desiderio di tutte quelle conoscenze, grazie alle quali è possibile amministrare in modo eccellente una casa, lo Stato e, insomma, fare buon uso degli uomini e delle faccende umane. Socrate riteneva infatti che tali individui bennati, essendo stati educati alla virtù, fossero non soltanto uomini felici esse stessi, e capaci di amministrare in modo eccellente le loro case, ma di poter anche rendere felici gli altri uomini e gli altri Stati. [IV,I,3] Egli non si avvicinava a tutti gli uomini nello stesso modo. A quanti credevano di essere dei purosangue di nobile natura e che spregiavano ogni apprendimento, egli spiegava che le nature le quali si ritengono superiori a tutte le altre, hanno il massimo bisogno di educazione. Egli mostrava dunque loro che i cavalli purosangue, focosi e pieni di energia come sono, qualora siano stati domati quand’erano puledri, diventano profittevolissimi e splendidi animali; ma che se rimangono non domati, sono difficilissimi da tenere alla briglia e restano intrattabili. Anche nel caso dei cani delle migliori razze, amanti come sono della fatica e cacciatori di animali selvatici, quelli bene addestrati diventano strenui e profittevolissimi cacciatori; ma se rimangono non addestrati, restano pasticcioni, stupidi e disobbedienti. [IV,I,4] Allo stesso modo, anche i più bennati tra gli uomini, essendo d’animo fortissimo e brillanti esecutori di ciò cui mettono mano, se sono stati educati ed hanno imparato quel che si deve effettuare, diventano splendidi e giovevolissimi individui; apportatori di moltissimi e grandissimi beni. Qualora essi invece rimangano privi di educazione ed incolti, diventano persone pessime e dannosissime, giacché non avendo imparato a giudicare quel che si deve effettuare, mettono spesso mano ad imprese malvagie; ed essendo amanti del grandioso ed estremamente energiche, sono difficili da tenere a freno e difficili da dissuadere, e perciò sono apportatrici di moltissimi e grandissimi mali. [IV,I,5] Quanto a coloro che fanno un gran conto della ricchezza di denaro; che ritengono di non avere alcun bisogno di educazione; che ritengono bastar loro il denaro per effettuare qualunque cosa vogliano e per essere tenuti in grande onore dagli uomini; Socrate li faceva rinsavire affermando che è uno stupido chi, senza averlo mai imparato, crede di poter sceverare quali opere siano giovevoli e quali siano dannose; che è uno stupido chi, essendo incapace di sceverare quanto è di giovamento e quanto è di danno, crede di potersi provvedere col denaro di qualunque cosa vorrà e che potrà così fare il proprio comodo; che è uno sciocco chi, essendo incapace di fare il proprio comodo, crede di far bene e di procurarsi, egregiamente ed a sufficienza, quanto gli serve per vivere; che è sciocco chi crederà, nulla sapendo, di essere qualcosa di gran valore, per il denaro che ha; o che avrà buona fama pur apparendo essere un buono a nulla. 

[IV,II,1] Narrerò ora in quali termini Socrate usava riferirsi a coloro che ritenevano di avere ricevuto la migliore educazione possibile, e che si vantavano della loro sapienza. Socrate era venuto a conoscenza del fatto che il bell’Eutidemo aveva raccolto un gran numero di opere dei poeti e dei sofisti più famosi; e che riteneva, per questo motivo, di essere ormai ad un livello di sapienza ben diverso da quella dei suoi coetanei. Per di più, Eutidemo nutriva grandi speranze di mostrarsi differente da tutti nella capacità di parlare e di operare. Socrate, essendo venuto a sapere che, a causa della sua giovane età, Eutidemo non entrava mai nella piazza del mercato, e che quando intendeva che qualcuno sbrigasse per lui qualche faccenda, soleva sedere nella bottega di uno dei tanti sellai che si trovavano molto vicino alla piazza del mercato, si recò dunque in tale bottega, in compagnia di alcuni suoi seguaci. [IV,II,2] Sulle prime, uno dei suoi seguaci cercò di sapere da Eutidemo se Temistocle si fosse distinto così tanto da tutti gli altri cittadini, a causa della sua costante frequentazione di uomini sapienti; oppure semplicemente per delle doti sue naturali: giacché era sempre a lui che guardava la città intera, ogni volta che avesse bisogno di una guida industriosa e saggia. Socrate poi, volendo incoraggiare Eutidemo a dare una risposta, con tutta semplicità aggiunse: “È logico credere che se anche opere d’arte di poco valore non sono realizzabili alla perfezione senza l’insegnamento di maestri che ne siano all’altezza, anche il reggimento di uno Stato, che è la più eccellente di tutte le opere umane, non si realizza automaticamente e senza una guida”. [IV,II,3] In un’altra occasione, Socrate incontrò nuovamente Eutidemo, e notò che egli badava a tenersi ben discosto dalla sua compagnia, affinché fosse chiaro che non condivideva alcuna forma di ammirazione per Socrate e la sua sapienza. “Signori miei”, disse allora Socrate, “è manifesto da quel che l’Eutidemo qui presente sta facendo a bella posta, che egli, avendone ormai raggiunta l’età, non si asterrà dal dare i suoi consigli, quando la città abbia messo all’ordine del giorno dell’Assemblea una qualche questione. Io me lo vedo già che prepara un bel proemio, uno di quelli adatti ai discorsi parlamentari, in cui egli bada bene a non sembrare uno che abbia imparato qualcosa da qualcuno. Ed è evidente che egli comincerà il suo discorso con queste parole: [IV,II,4] “Signori Ateniesi, io mai ho imparato qualcosa da qualcuno. E sentendo dire che alcuni uomini erano eccellenti parlatori oppure ottimi artefici, mai io ho cercato di incontrarli, né mai mi sono dato la pena di diventare allievo di qualche dotto maestro. Ho fatto, invece, tutto il contrario; e la mia vita è stata una continua fuga, non soltanto dall’imparare qualcosa da qualcuno, ma anche dal solo sembrarlo. Perciò, qualunque siano i pensieri che mi passeranno automaticamente per la testa, ebbene questi saranno i miei consigli per voi”.

[IV,II,5] “Un proemio di questo genere”, continuò Socrate, “ben si acconcerebbe anche a coloro che volessero ottenere dalla città l’autorizzazione ad aprire uno studio medico. E sarebbe altamente idoneo, per costoro, cominciare il loro discorso con queste parole: ‘Signori Ateniesi, io mai ho imparato l’arte medica da qualcuno, e neppure ho mai cercato di far sì che qualche medico diventasse mio maestro. Ho passato la mia vita badando bene, non soltanto ad evitare di apprendere checchessia dai medici, ma anche ad evitare di sembrare qualcuno che ha imparato quest’arte. Perciò autorizzatemi ad aprire uno studio medico, giacché io farò ogni sforzo per imparare, facendo i miei esperimenti su di voi’. E così, udito questo proemio, tutti i presenti scoppiarono a ridere. [IV,II,6] Era ormai evidente che Eutidemo prestava attenzione alle parole che Socrate pronunciava, e che però badava bene a non aprire mai bocca, ritenendo così di circondarsi, col silenzio, della fama di individuo accorto. Perciò Socrate, volendo fargli smettere una buona volta il suo silenzio, disse: “È davvero stupefacente che quanti vogliono diventare suonatori di cetra o di flauto, oppure cavalieri o qualunque altra cosa del genere, facciano in continuazione ogni sforzo possibile per diventare esperti nell’arte di loro scelta. E ciò essi fanno, non chiudendosi nella solitudine, ma recandosi presso quanti sono considerati i migliori professionisti di quella tale arte; e tutto effettuano, e qualunque fatica sopportano, pur di non fare alcunché di contrario alle istruzioni ricevute, giacché questo è l’unico modo per diventare degni di considerazione. Invece, tra coloro che vogliono diventare capaci oratori ed importanti personaggi politici, certuni ritengono di essere capaci di diventare tali, senza una preparazione adeguata e senza un esercizio costante, bensì automaticamente, dall’oggi al domani. [IV,II,7] Eppure, queste capacità appaiono di tanto più difficile acquisizione rispetto alle altre appena citate, quanto più è grande il numero di coloro che si danno da fare in tal senso, ma piccolissimo quello di coloro che ce la fanno. È dunque manifesto che quanti mirano a questo risultato, hanno bisogno di uno studio ben superiore e ben più profondo di quello necessario a coloro che mirano alle altre mete”. [IV,II,8] Le prime volte, dunque, mentre Socrate parlava, Eutidemo altro non faceva che ascoltare. Ma quando Socrate si rese conto che Eutidemo appariva più disponibile e meno insofferente di sentirlo parlare, ed anzi appariva ascoltarlo più di buon grado, Socrate decise di recarsi da solo nella bottega del sellaio; e mentre gli sedeva accanto, gli disse: “Eutidemo, dimmi. È successo davvero quel che io sento dire, ossia che tu hai messo insieme un gran numero di testi dei cosiddetti uomini sapienti?” 

Eutidemo finalmente aprì bocca e gli disse: “Sì, per Zeus, caro Socrate, e ancora ne sto mettendo insieme altri, così da riuscire ad acquisire il maggior numero di scritti che mi sia possibile”. 

[IV,II,9] “Sì, per Era”, gli rispose Socrate, “mi compiaccio con te, perché non ti sei prescelto, quali tesori, il possesso di argento o di oro, bensì il possesso della sapienza. Così facendo, è manifesto che tu ritieni che argento ed oro non facciano per nulla gli uomini migliori, e che sono invece le convinzioni degli uomini sapienti ad arricchire di virtù coloro che le posseggono”. Eutidemo assai si compiacque di ascoltare queste parole, ritenendo di apparire così, agli occhi di Socrate, qualcuno che s’era messo rettamente sulla strada della sapienza. [IV,II,10] Allora Socrate, resosi conto del piacere provato da Eutidemo per questa lode, gli chiese: “E tu, Eutidemo, in cos’è che vuoi eccellere, raccogliendo tutti quei libri?” Poiché Eutidemo taceva, riflettendo su quale risposta dare, Socrate gli chiese nuovamente: “Forse diventando un medico? I trattati di medicina sono infatti assai numerosi”. 

La risposta di Eutidemo fu: ”Oh, per me no di sicuro”.

“Vuoi forse allora diventare un architetto? Anche questo mestiere abbisogna di un uomo dalle solide conoscenze”.

“No, neppure questo” rispose Eutidemo.

“Forse tu desideri assai”, lo incalzò Socrate, “diventare un ottimo matematico, come Teodoro?”

“No, neppure un matematico” fu la risposta.

“Forse tu vuoi diventare un astronomo?”.

Eutidemo rispose di no anche a questo.

“Forse un rapsodo?”, gli chiese Socrate., “Infatti si dice che tu possegga la raccolta completa di tutta la poesia Omerica”. 

“Per Zeus, sicuramente no”, rispose Eutidemo, “io so che i rapsodi recitano esattissimamente la poesia epica, ma so anche che di per se stessi, costoro sono degli sciocchi”.

[IV,II,11] Allora Socrate continuò: “Eutidemo, dunque allora tu miri a quella eccellenza grazie alla quale gli uomini diventano dei personaggi politici e degli economisti, delle persone capaci di presiedere gli Stati, degli individui giovevoli agli altri ed anche a loro stessi?”.

Al che Eutidemo esclamò: “Socrate, è assolutamente a questo che io miro; questa è l’eccellenza di cui io sento il bisogno”.

“Sì, per Zeus”, continuò Socrate, “questa è la virtù in assoluto più bella, e l’arte più grande a cui mirare, giacché essa è quella dei re, e quella che viene chiamata ‘arte regale’. Nondimeno hai tu acclarato se sia impossibile che tutto ciò sia bene, se tu non sei un uomo giusto?”

“L’ho acclarato a fondo, e ne ho concluso che, senza giustizia, è impossibile diventare un buon cittadino”.

[IV,II,12] “E dunque?”, gli chiese Socrate, “tu l’hai messa in opera?”

“Io credo di sì, caro Socrate; e credo anche di essermi mostrato giusto non meno di altri”.

“E dei giusti vi sono opere”, insistette Socrate, “come vi sono opere dei falegnami?”

“Sì, ci sono”.

“E dunque; come i falegnami”, disse Socrate, “possono mostrare le loro opere, così pure i giusti potrebbero dare spiegazioni delle loro opere?”

“E perché no?”, continuò Eutidemo, “Non potrei forse io spiegare le opere della giustizia? Sì, per Zeus; e spiegare pure quelle dell’ingiustizia? Giacché non sono poche le opere, sia dell’una che dell’altra, che ogni giorno ci è dato vedere ed ascoltare”.

[IV,II,13] “Vuoi, allora”, gli propose Socrate, “che disegniamo insieme due colonne: una colonna che chiameremo G ed una che chiameremo I. Ora, tutte le opere che a noi parranno essere opere di Giustizia, le scriveremo nella colonna G; mentre tutte quelle che a noi parranno essere opere di Ingiustizia, le scriveremo nella colonna I”.

“Se a te pare che ciò ci sia di aiuto”, accettò Eutidemo, “facciamo pure così”.

[IV,II,14] Dopo avere disegnato, come detto, le due colonne; Socrate chiese: “Tra gli uomini esiste la pratica di mentire?”

“Sì, esiste” rispose Eutidemo.

“In quale delle due colonne porremo dunque la tua risposta?”

“Manifestamente nella colonna dell’Ingiustizia”

“E l’ingannare, esiste anch’esso?”

“Assolutamente sì”

“E pure questo, in quale delle due colonne lo porremo?”

“Anche questo, è chiaro, nella colonna I”

“E cosa pensi del malaffare?”

“Anche questo va nella colonna I”

“E il ridurre in schiavitù?”

 “Anche questo nella I”

“E nessuna di queste opere”, caro Eutidemo, “andrà, secondo noi, mai posta nella colonna G, quella della Giustizia?”

“Fare una cosa del genere sarebbe una mostruosità”, protestò Eutidemo. 

[IV,II,15] “E quindi? Se uno che è stato eletto Comandante Generale, riduce in schiavitù uno Stato che gli è nemico e che vive di ingiustizie: diremo noi che egli ha commesso un’ingiustizia?”

“No di certo”, rispose Eutidemo.

“Non diremo forse che egli ha effettuato un’azione giusta?”

“Assolutamente giusta”

“E se egli inganna i nemici, che diremo?”

“Chiameremo giusta anche questa azione”

“E se egli ruberà e saccheggerà i loro beni, non sarà la sua un’azione giusta?”

“Assolutamente giusta. Ma in precedenza io mi ero fatto l’idea”, specificò Eutidemo, “che tu ponessi queste domande in riferimento soltanto a coloro che ci sono amici”.

“Pertanto”, concluse Socrate, “tutte le azioni che noi abbiamo posto nella colonna I, non sono le stesse che andrebbero poste anche nella colonna G?”

“In effetti, pare proprio che sia così!”

[IV,II,16] “Sei dunque d’accordo con me”, propose a questo punto Socrate, “nel riordinare il contenuto delle due colonne, e definire Giusto il comportarsi in un certo modo contro i nemici, ma Ingiusto il comportarsi allo stesso modo con gli amici, giacché verso questi ultimi bisogna essere di una lealtà assoluta?”

“Sono pienamente d’accordo”, rispose Eutidemo.

[IV,II,17] “E che succede, ora?” riprese Socrate. “Se il Comandante Generale, vedendo che il suo esercito è preda dello scoramento, annuncerà, mentendo, che degli alleati sono in arrivo; e se grazie a questa menzogna, farà cessare lo scoramento dei suoi soldati: ebbene, questo inganno, in quale delle due colonne lo porremo?”

“Io direi che vada ascritto alla colonna G, quella della Giustizia”.

“E se un padre vede che suo figlio si rifiuta di prendere una medicina della quale ha però bisogno; e gliela somministra, con l’inganno, come un cibo qualunque; e utilizzando questa menzogna lo fa guarire: ebbene, a quale colonna va ascritto questo inganno?”

“A me pare che vada scritto nella stessa colonna di prima”.

“E che? Se qualcuno, mentre un suo amico è gravemente depresso; temendo che egli si tolga la vita, gli ruberà o sottrarrà con la violenza la spada, oppure qualche altra arma del genere: ebbene, questa rapina in quale colonna la porremo?”

“Anche questa, per Zeus, nella colonna G, quella della Giustizia”.

[IV,II,18] “Tu stai dicendo che non bisogna sempre trattare con piena sincerità neppure gli amici?”

“Per Zeus, non intendo dire questo”, protestò Eutidemo, “e se mi è permesso, ritiro le parole che ho appena detto”.

“Questo ritiro va certamente permesso”, assentì Socrate, “giacché è molto meglio permetterlo, che disporre la risposta nella colonna sbagliata”. [IV,II,19] E di coloro che ingannano gli amici per recare loro un danno, lo dico per non lasciare senza considerazione anche questo caso, chi compie un’ingiustizia maggiore: chi inganna di proposito, oppure chi inganna non di proposito?” 

“Socrate, ormai ho perso io stesso fiducia nelle risposte che sto dando alle tue domande; giacché tutte le valutazioni che ho espresso in precedenza, mi appaiono ora avere un significato diverso da quello che credevo prima. Comunque, la mia attuale risposta questa: è più ingiusto chi mente di proposito, rispetto a chi mente non di proposito”.

[IV,II,20] “A te pare che l’apprendimento e la scienza del giusto siano come quelli delle lettere?”

“Io dico di sì”.

“Quale dei due giudichi più letterato: colui che scrivesse e leggesse, di proposito, non correttamente; oppure colui che lo facesse non di proposito?”

“Io dico: chi lo fa di proposito; giacché costui sarebbe anche capace di fare il tutto correttamente, se lo volesse”.

“Dunque colui che di proposito scrivesse scorrettamente, sarebbe un letterato; e chi invece lo facesse non di proposito, sarebbe un illetterato?”

“Come potrebbe non essere così?”

“E quale dei due compie opere giuste? Chi sa di mentire ed ingannare di proposito, oppure chi mente e inganna non di proposito?”

“Manifestamente chi lo fa non di proposito”.

“Dunque tu stai dicendo che colui il quale ha scienza delle lettere, è più letterato di chi non ha scienza delle lettere?”

“Sì”.

“E chi ha scienza della giustizia, è più giusto di chi non ne ha scienza?”

“Apparentemente sì; ma anche qui mi sembra di non sapere come collegare queste proposizioni”.

[IV,II,21] “E cosa diresti di colui che vuole mettere insieme la verità, ma non dice mai la stessa cosa sulle medesime cose; che indica sempre la stessa strada, ma una volta afferma che essa porta verso est e un’altra volta sostiene che va verso ovest; che quando effettua una somma, una volta dice che il totale è di più e un’altra volta di meno del vero: ebbene, chi ti pare che sia una persona simile?”

“Sì, per Zeus; è manifesto che costui non sa quello che crede di sapere”.

[IV,II,22] “Sai tu che certe persone sono chiamate ‘servili’?”

“Sì, lo so bene”.

“E sono chiamate così a causa della loro sapienza o della loro ignoranza?”

“Evidentemente, lo sono a causa della loro ignoranza”.

“Prendono questo nome a causa della loro ignoranza della lavorazione dei metalli?”

“No di certo”.

“A causa della loro ignoranza della falegnameria?”

“Neppure per questo”.

“Allora, per la loro ignoranza in fatto di calzoleria?”

“No, neppure per l’ignoranza di uno di questi lavori”, rispose Eutidemo, “anzi, è tutto il contrario. Infatti, è la maggior parte dei conoscitori di questi mestieri che sono indicati come persone servili”.

“Quindi il ‘servilismo’ è appannaggio di tutti coloro i quali non sanno cosa siano le opere virtuose, ossia le opere belle, buone e giuste?” 

“A me sembra che sia proprio così”

[IV,II,23] “Pertanto, noi dobbiamo rifuggire in ogni modo possibile dall’essere delle persone servili”.

“Sì, per gli dei, caro Socrate. Con i miei silenzi, io credevo davvero”, continuò allora Eutidemo, “di stare praticando la filosofia; una filosofia grazie alla quale io ero sicuro di essere stato educato a tutte le conoscenze che si confanno ad un uomo dabbene che desidera diventare virtuoso. Adesso cosa penserai di me, vedendomi così scoraggiato e incapace, nonostante tutti gli sforzi che ho fatto, di rispondere a domande su faccende che bisogna conoscere benissimo, e privo una qualunque altra via d’uscita, procedendo sulla quale potrei diventare un uomo migliore?

[IV,II,24] “Ma, Eutidemo, dimmi”, gli chiese allora Socrate, “ti sei già recato qualche volta a Delfi?”

“Sì, per Zeus, mi ci sono recato già due volte”.

“Ed hai notato che nei pressi del tempio c’è un’iscrizione con su scritto ‘Riconosci te stesso’?” 

“Certo che l’ho vista”.

“Non ti sei affatto curato di tale iscrizione, oppure le hai prestato attenzione ed hai cercato di esaminare quale sorta di creatura tu sia?”

“Per Zeus, non proprio”, gli rispose Eutidemo, “giacché credevo di conoscerne già benissimo il significato. Infatti sarebbe stato tempo perso, quello impiegato da me per sapere dall’oracolo qualcos’altro, se io neppure conoscessi me stesso”.

[IV,II,25] “Ma a te pare che riconosca se stesso, chiunque semplicemente sa come si chiama? Oppure a riconoscere chi è, è soltanto colui che ha analizzato a fondo se stesso, e che ha riconosciuto come sua propria facoltà, la facoltà che lo fa capace di spendersi come uomo tra gli uomini? Proprio come fanno i compratori di cavalli, i quali non credono di conoscere il cavallo che vogliono conoscere, prima di avere appurato se esso sia docile o indocile, forte o debole, veloce o lento e, in generale, se possieda quelle doti che ne fanno un animale idoneo oppure non idoneo ad una certa attività”.

“A me sembra”, rispose Eutidemo, “che le cose stiano così: colui che non sa di quale facoltà sia naturalmente dotato, ignora chi è”. 

[IV,II,26] “Non è manifesto che gli uomini, grazie alla conoscenza di se stessi”, spiegò Socrate, “sperimentano numerosissimi beni; e che invece sperimentano numerosissimi mali, se si sono ingannati su di se stessi? Infatti, coloro che sanno chi sono, sanno cos’è idoneo per loro, e sanno vagliare ciò che possono e ciò che non possono fare. In questo modo, effettuando le opere che essi sanno di poter compiere, si provvedono di ciò di cui abbisognano, e prosperano; mentre da ciò che non sanno si astengono, tenendosi così al riparo dalle aberrazioni ed evitando di passarsela male. E poiché, grazie al fatto di essersi riconosciuti per quello che davvero sono, hanno anche la capacità di valutare il comportamento degli altri uomini; con essi si provvedono di beni e si tengono lontani dai mali. [IV,II,27] Invece, coloro che non si sono riconosciuti per quello che davvero sono, e che si sono ingannati circa la facoltà della quale sono dotati per natura, si dispongono verso gli altri uomini e le altre faccende umane con puro conformismo. Quindi non sanno chi sono, non sanno di cosa hanno bisogno, non sanno cosa stanno facendo né con chi hanno a che fare; e sbagliando in tutte le loro azioni, falliscono l’ottenimento dei beni, e incappano continuamente nei mali. [IV,II,28] Inoltre, coloro che sanno quel che fanno, poiché centrano le mete che si sono proposte, ne ottengono buona fama e sono onorati. Quanti poi sono simili a loro, si intrattengono piacevolmente con essi: e se hanno qualche insuccesso nella propria attività, desiderano i loro consigli; si rivolgono ad essi per averne sostegno; ripongono in essi le loro speranze di miglioramento; e per tutti questi motivi insieme, li hanno cari al di sopra tutti gli altri uomini. [IV,II,29] Invece, coloro che non sanno quel che fanno, poiché operano scelte cattive e falliscono le mete che avranno preso di mira, non soltanto vengono puniti e castigati nel corso stesso di queste attività; ma perdono credito, diventano persone ridicole, disprezzate e vivranno nel disonore”.

“Tu vedi bene”, concluse quindi Socrate, “che questo vale anche nel caso degli Stati. Infatti di essi, quanti ignorano le proprie forze e combattono contro Stati più potenti, alcuni vengono sterminati, mentre altri, da liberi che erano diventano schiavi”. 

[IV,II,30] “Socrate, sta pur certo”, gli rispose Eutidemo, “che il ‘riconoscere se stesso’ a me sembra una cosa della massima importanza. Per sapere da dove bisogna cominciare quest’opera di scrutinio di se stessi, io guardo a te, se tu volessi spiegarmelo”.

[IV,II,31] “Dunque, io do per certo”, gli rispose Socrate, “che tu conosca perfettamente quali siano i beni e quali siano i mali”.

“Certamente, per Zeus! Se non sapessi neppure questo, io sarei più stupido degli schiavi!”

“Procedi, dunque; e spiegami quali cose siano beni e quali siano mali”.

“Non è affatto difficile farlo. In primo luogo io ritengo che lo stare in salute sia un bene, e che l’essere ammalato sia un male. Di poi, che lo siano anche le cause dell’uno e dell’altro stato. E che pure le bevande, i cibi, e le cose idonee a promuovere la salute siano dei beni, mentre quelle idonee a promuovere la malattia siano mali”.

[IV,II,32] “Dunque, secondo te, tanto la salute quanto la malattia”, gli chiese Socrate, “qualora fossero causate da qualcosa di buono, sarebbero beni; e se invece fossero causate da qualcosa di male, sarebbero mali?. 

“E quando mai”, si stupì Eutidemo, “la salute potrebbe avere quale causa qualcosa che è male, e la malattia qualcosa che è bene?”

“Per Zeus”, gli rispose Socrate, “coloro che prendono parte ad una campagna militare vergognosa, ad una spedizione navale disastrosa, e a molte altre azioni avventurose di questo genere; e che vi partecipano proprio a causa della loro robustezza fisica, periscono. Mentre invece, coloro che non si sono arruolati e sono stati lasciati indietro a causa della loro debolezza fisica, si salvano”.

“Quella che dici è la verità. Ma lo vedi anche tu che questo è vero anche nel caso delle spedizioni avventurose che hanno successo. Giacché anche in questo caso alcuni vi prendono parte a causa della loro robustezza fisica; mentre altri sono lasciati indietro a causa della loro debolezza fisica”.

“Dunque, queste avventure, che a volte finiscono in un successo e a volte in un disastro, sono più bene che male? 

“No di certo. Dal tuo ragionamento, di sicuro esse non appaiono essere più bene che male! [IV,II,33] E tuttavia la sapienza è, senza ambiguità alcuna, un bene. Infatti, quale sorta di azione sarebbe effettuata meglio: da chi è sapiente oppure da chi è stolto?”

“Ma dici sul serio? Non hai sentito raccontare”, gli rispose Socrate, “che Dedalo, a causa della sua sapienza, fu fatto catturare da Minosse, fu costretto a fargli da servo e fu privato così sia della patria che della libertà? Nel tentativo di fuggire dalla sua condizione servile insieme al figlio <Icaro>, intanto perse il figlio, e poi non riuscì lui stesso a salvarsi, in quanto fu trasferito forzosamente presso popoli barbari, e visse nuovamente tra di questi in condizioni di schiavitù?” 

“Per Zeus, queste sono le storie che si raccontano di lui”.

“E non hai mai sentito raccontare delle sciagure che dovette sopportare Palamede? Tutti i poeti ne cantano le vicende, e come accadde che sia stato fatto perire da Odisseo, il quale lo invidiava per la sua sapienza?”

“Anche queste sono le storie che di lui si narrano”.

“E quante altre persone credi tu che, a causa della loro sapienza, siano state sequestrate e trasferite con la forza presso corti reali, ed ivi siano vissute in condizione servile?”

[IV,II,34] “Socrate, io credo che valga la pena di dare per assolutamente incontrovertibile il fatto che la felicità sia un bene”.

“Eutidemo, a patto però che non si faccia risultare la felicità come qualcosa di composto da un insieme di beni altamente controversi in quanto tali”.

“E quale dei componenti della felicità, sarebbe altamente controverso?” 

“Nessuno lo sarebbe, a patto però di non assommare in essa delle componenti come: l’avvenenza fisica, la potenza muscolare, la ricchezza di denaro, la fama e qualcos’altro di siffatto”.

“Ma per Zeus, e invece le assommeremo! Giacché”, insistette Eutidemo, “come potrebbe essere felice, chi è privo di siffatte componenti?” 

[IV,II,35] “Sì, per Zeus, le assommeremo”, sbottò Socrate, “e sono proprio queste le componenti dalle quali derivano agli uomini molte esasperanti contrarietà. Infatti, a causa della loro avvenenza fisica, molti dei pretesi ‘felici’ sono stati rovinati da quanti perdono la testa per i bei giovanotti. Molti altri, a causa della loro potenza muscolare, mettono mano ad imprese più grandi di loro, e così incappano in non piccoli malanni. Molti, a causa della loro ricchezza di denaro, periscono svigoriti e soggetti ad ogni sorta di insidie. Molti ancora, a causa della loro fama e del potere politico di cui godono, hanno sofferto grandissimi mali”.

[IV,II,36] “Invero”, constatò Eutidemo, “se io non parlo rettamente neppur quando tesso la lode dell’essere felici, devo ammettere di non sapere più neppure cosa bisogna augurarsi di ottenere dagli dei”.

“Queste cose tu non le hai analizzate a fondo”, disse Socrate, “forse perché avevi molta fiducia di saperle. Ma poiché tu ti stai preparando a presiedere uno Stato democratico, certamente tu sai cos’è la democrazia”.

“Certo, che lo so: lo so a puntino”.

[IV,II,37] “E ti pare possibile sapere cosa sia democrazia, ossia il governo popolare, senza conoscere il popolo?”

“Per Zeus, no; di sicuro non si può”.

“E dunque sai cosa sia il popolo”.

“Credo proprio di saperlo”.

“Quindi, cosa credi che sia il popolo?”

“Io penso che sia l’insieme di tutta la parte povera dei cittadini di uno Stato”.

“E quindi tu conosci i poveri”.

“Come potrei dire di non conoscerli?”

“Pertanto, tu conosci anche i ricchi”.

“Non certo meno di quel che conosco i poveri”.

“E che sorta di individui sono coloro che tu chiami poveri, e coloro che tu chiami ricchi?”

“Poveri sono coloro che riescono appena a sbarcare il lunario; mentre ricchi sono coloro che hanno mezzi più che sufficienti”.

[IV,II,38] “E quindi risulta anche a te che taluni, i quali hanno davvero pochissimi mezzi, non soltanto se li fanno bastare, ma riescono pure a risparmiarne una parte? Mentre invece a coloro che di mezzi ne hanno davvero moltissimi, tutti quelli che hanno non bastano mai?”

“Sì, per Zeus”, rispose Eutidemo, “lo so; e tu fai bene a ricordarmelo. Io so anche che a causa della carenza di mezzi, taluni tiranni sono costretti a commettere dei delitti, come se fossero i più poveri tra i poveri”.

[IV,II,39] “E quindi, se la faccenda sta in questi termini”, concluse Socrate, “includeremo i tiranni tra il popolo; mentre includeremo tra i ricchi coloro che di mezzi ne possiedono ben pochi, ma che riescono addirittura a risparmiarne?”

“È palese che la mia stupidità”, balbettò a questo punto Eutidemo, “mi costringe ad ammettere anche questo. Penso che la miglior cosa da fare, sia per me quella di tacere; visto che sono ormai sull’orlo della franca ammissione di non sapere alcunché”. In preda ad un profondo scoramento, Eutidemo dunque si allontanò, privo ormai di fiducia in se stesso, e giudicando di essere davvero uno schiavo. 

[IV,II,40] Molti di coloro che Socrate riduceva in tale stato d’animo, solevano non avvicinarsi mai più a lui; ed erano coloro che Socrate riteneva essere le persone più codarde. Eutidemo, invece, concepì di non avere alcun altro modo per diventare un uomo di valore, se non quello di frequentare il più possibile la compagnia di Socrate. Perciò non tralasciava occasione, a meno che non si trattasse di una necessità inderogabile; ed a volte imitava anche i gesti abituali di lui. Quando Socrate si rese conto della disposizione di Eutidemo nei suoi confronti, ebbe cura di sconcertarlo il meno possibile; gli spiegò sempre, nel modo più semplice e diretto, le cose che egli riteneva che si dovessero sapere; ed anche quali fossero i modi di comportarsi più eccellenti e più idonei.

[IV,III,1] Socrate era uso non sollecitare mai i suoi sodali a diventare abili parlatori, uomini d’affari o persone ingegnose, giacché riteneva che prima di tutto ciò, bisognava che si ingenerasse in essi la temperanza. Egli riteneva infatti che quanti erano dotati di queste capacità, ma erano privi di temperanza, fossero individui più portati all’ingiustizia e a fare del male.

[IV,III,2] Socrate soleva inoltre fare di tutto per fare dei suoi sodali, innanzitutto degli uomini avveduti nel culto degli dei. Taluni riferivano di essere stati presenti, quando Socrate discorreva con altri su questo argomento; ed io stesso ero presente, quando egli ne discusse una volta con Eutidemo nei termini seguenti.

[IV,III,3] “Eutidemo, dimmi un po’: ti è mai avvenuto di rimuginare circa la sollecitudine con la quale gli dei si sono curati di approntare tutto ciò di cui gli uomini hanno bisogno?”

“Per Zeus, no”, gli rispose Eutidemo, “non l’ho fatto”.

“Ma tu sai sicuramente che la prima cosa di cui noi abbiamo bisogno è la luce, e che sono gli dei a fornircela”.

“Sì, per Zeus. Se non ci fosse la luce, a causa degli occhi che abbiamo, saremmo simili a dei ciechi”.

“E poiché noi abbiamo bisogno di intervalli di riposo, tu sai anche che gli dei ci procurano quella bellissima pausa di riposo che è la notte”. 

“Bellissima davvero”, assentì Eutidemo, “ed anch’essa degna di gratitudine da parte nostra”.

[IV,III,4] “Dunque tu sai che, essendo lucente, il sole illumina per noi le ore del giorno, e rende visibili tutte le altre cose. Invece la notte, essendo buia, le rende tutte invisibili. E sai anche che gli dei fecero di notte scintillare le stelle, le quali rischiarano per noi le ore notturne, e grazie ad esse noi possiamo effettuare molte cose che ci sono di bisogno”.

“Sì, è così”.

“Inoltre la luna, non soltanto ci rischiara la notte, ma ci rende anche chiaro quali siano le parti del mese”.

“È proprio così”.

[IV,III,5] “Quanto al nostro bisogno di cibo, sai che gli dei fecero in modo che esso si generasse dalla terra e nelle stagioni acconce. Sicché queste stagioni ci procurano il cibo non soltanto in quantità che soddisfano le nostre esigenze, ma anche con grande varietà di forme, e con sapori che ci deliziano”.

“Anche questi sono doni che devono provenirci da dei veri filantropi”.

[IV,III,6] “Tu sai anche che gli dei ci forniscono quel dono di grande valore che è l’acqua, la quale è capace di far germogliare e di far crescere dalla terra e nelle acconce stagioni, ogni sorta di vegetali, tutti a noi utilissimi, con i quali gli dei alimentiamo noi, e mescolandolo a tutti gli altri cibi che ci nutrono, fanno diventare il cibo di più facile digestione, più nutriente e più gradevole al palato. E poiché noi ne abbiamo bisogno in grande quantità, essi ce lo forniscono in grande abbondanza”.

“Tutto ciò”, esclamò Eutidemo, “mostra preveggenza”. 

[IV,III,7] “Tu sai anche che il fuoco rappresenta per noi una importante protezione dal freddo e dall’oscurità, un cooperatore in qualunque arte, e nella costruzione di tutti quegli artefatti che gli uomini apprestano per ottenerne dei giovamenti. Per dirla in breve, gli uomini non possono congegnare alcun artefatto che sia di utilità rimarchevole per la loro vita, senza l’impiego del fuoco”.

“Il fuoco è qualcosa”, affermò Eutidemo,” che va addirittura al di là della filantropia”.

[IV,III,8] Tu sai anche che il sole, una volta allontanatosi dalla terra durante l’inverno, poi le si riavvicina; alcune cose facendole maturare ed alcune altre facendole seccare, quando sia venuto il loro momento. Il sole effettua questo movimento senza tuttavia avvicinarsi troppo a noi, e badando bene a rimanere ad una distanza di sicurezza, per non danneggiarci riscaldandoci più del dovuto. E quando si allontana nuovamente dalla terra, anche in questo caso è palese che se esso si allontanasse troppo, noi rimarremmo congelati dal freddo; e quindi il sole torna di nuovo a muoversi verso la terra e le si riavvicina, chiudendo a questo punto un giro completo della volta celeste e compiendo il percorso che è di massimo giovamento per noi”.

“Sì, per Zeus”, esclamò Eutidemo, “anche questi movimenti somigliano a movimenti che avvengono assolutamente ad esclusivo beneficio degli uomini”.

[IV,III,9] “E tu sai anche, poiché ciò è manifesto, che noi non saremmo in grado di sopportare né la gran calura, né il gran gelo, se essi si producessero repentinamente, da un giorno all’altro. Perciò l’avvicinamento e l’allontanamento del sole dalla terra avvengono così gradualmente, che noi raggiungiamo sia l’uno che l’altro dei due estremi, senza essercene accorti”.

“Per parte mia”, affermò allora Eutidemo, “ormai considero che se gli dei lavorano, il loro lavoro è quello di accudire gli uomini. L’unica considerazione che mi intralcia alquanto in proposito, è che di questo trattamento partecipano anche tutti gli altri animali”. 

[IV,III,10] “E non è evidente anche questo fatto”, continuò Socrate, “ossia che tutti questi animali sono generati ed allevati ad esclusivo beneficio degli uomini? Dalle capre, dalle pecore, dai buoi, dai cavalli, dagli asini e da tutti gli altri animali, chi ricava una quantità di beni paragonabile a quella che da essi ricavano gli uomini? Anzi, a me sembra che l’uomo tragga ancor più vantaggi dagli animali che dai vegetali. In effetti, gli uomini si nutrono e si arricchiscono, commerciando non certo meno animali che vegetali. Infatti, gran parte del genere umano non utilizza alimenti di origine vegetale, bensì vive nutrendosi del latte, dei formaggi e delle carni ottenuti dal bestiame. Tutti gli uomini, poi, domano ed addomesticano i più profittevoli tra gli animali, e li utilizzano quali adiutori in guerra e per moltissimi altri scopi”.

“Io sono del tuo stesso parere”, acconsentì Eutidemo, “ed osservo che di simili animali, anche quelli molto più robusti di noi diventano così sottomessi all’uomo, che egli può utilizzarli per qualunque lavoro voglia”.

[IV,III,11] “Tu sai anche che gli dei, poiché esistono moltissime cose belle, vantaggiose, e tutte diverse una dall’altra, hanno fornito gli uomini di vari sensi, i quali sono capaci di adattarsi a ciascuna di esse, così che noi si possa fruire d’ogni sorta di beni. Sai inoltre, che gli dei hanno innaturato in noi la contezza delle cose, contezza grazie alla quale noi ci rendiamo conto delle cose delle quali abbiamo sperimentato la sensazione, le fissiamo nella memoria, ci formiamo la comprensione della utilità di ciascuna, ed escogitiamo svariati modi attraverso i quali fruire dei beni e tenerci lontani dai mali. [IV,III,12] Gli dei ci hanno anche elargito la facoltà di esprimere verbalmente i pensieri che concepiamo mentalmente, e grazie ad essi noi possiamo condividere con gli altri ogni sorta di beni attraverso l’insegnamento e, attraverso la comunicazione, stabilire delle leggi ed amministrare lo Stato”.

“Comunque si guardi la faccenda”, notò Eutidemo, “sembra proprio che gli dei si diano un gran da fare in favore degli uomini.”

“Infatti, anche se noi siamo incapaci di preveggenza circa l’utilità degli avvenimenti futuri, tu sai che gli dei cooperano con noi attraverso la mantica, parlando attraverso oracoli a coloro che li interrogano sugli avvenimenti cui andranno incontro, ed insegnando loro per quale via le cose potrebbero andare nel miglior modo possibile”. 

“E gli dei, “disse Eutidemo, “sembrano trattare proprio te, Socrate, assai più amichevolmente di come trattino gli altri uomini; se è vero che senza neppur essere interrogati da te, gli dei ti segnalano in anticipo cosa tu debba fare, e cosa tu debba non fare”.

[IV,III,13] “Tu riconoscerai che io ti sto dicendo la verità sugli dei, se per venerarli ed onorali non aspetterai di vederli in carne ed ossa, ma se ti basterà di vederne in atto le opere. Fissati bene in mente, che sono gli dei stessi a scegliere di presentarsi in questa forma. Infatti, di tutti i diversi dei che ci provvedono dei loro beni, neppur uno di essi viene a consegnarceli mostrandosi a viso scoperto. E tanto più farà così quel dio che coordina e mantiene unito il cosmo intero, cosmo in cui tutto è bene e bontà; quel dio che senza posa lo mantiene a nostra disposizione intatto, sano, sempre giovane, più veloce del pensiero nel servirci impeccabilmente. Ebbene, quel dio che effettua le cose più grandiose, neppure si lascia vedere da noi, e pur amministrando tutto ciò ci rimane occulto. [IV,III,14] Fissati bene in mente, che anche quello che tra gli dei sembra essere chiaramente visibile a tutti, ossia il sole, non si presta a lasciarsi vedere distintamente dagli uomini; e che se qualcuno si sforza spudoratamente di guardarlo, viene privato della vista. Troverai che anche i servitori degli dei sono invisibili. Infatti, è palese che il fulmine viene scagliato dall’alto, e che prende il pieno dominio di tutte le cose sulle quali si abbatte. Eppure esso non si lascia vedere né mentre si avvicina, né mentre colpisce, né mentre si allontana. Anche i venti stessi non si lasciano vedere; eppure i risultati di ciò che essi effettuano ci sono evidenti, e noi ci accorgiamo anche dei loro percorsi. Invero, anche l’animo umano, il quale più di ogni altra parte dell’uomo partecipa del divino, e che manifestamente regna in noi: ebbene, neppure esso è visibile”. 

“Bisogna che colui il quale capisce queste verità non spregi l’invisibilità degli dei, ma che evinca dagli eventi che accadono la loro potenza e renda onore al démone”. 

[IV,III,15] “Quanto a me, caro Socrate, io so per certo”, sospirò Eutidemo, “che mai trascurerò il mio démone neppure per un attimo. E per i benefici che gli dei ci elargiscono, a scoraggiarmi alquanto mi sembra soltanto il pensiero che nessun uomo riuscirà mai a ricambiarli con ringraziamenti degni di loro”.

[IV,III,16] “Mio caro Eutidemo”, lo consolò Socrate, “non lasciarti scoraggiare da questo pensiero. Tu vedi bene, infatti, che quando il dio di Delfi viene interrogato sul modo in cui sia possibile ringraziare gli dei, egli risponde sempre: ‘Osserva le leggi dello Stato’. Le leggi esistono certamente dappertutto, e dunque è possibile rendersi graditi agli dei con offerte sacrificali secondo la legge, ed adeguate alle disponibilità di ciascuno di noi. Pertanto, quale modo c’è di rendere onore agli dei, che sia più bello e più pio del fare ciò che proprio essi comandano? [IV,III,17] Ma bisogna che l’offerente non rimanga mai al di sotto delle proprie possibilità di spesa, giacché qualora non faccia così, egli mostra chiaramente di non stare onorando gli dei. Bisogna dunque rendere onore agli dei, nulla tralasciando delle nostre possibilità; e poi farsi coraggio e sperare di ottenere da loro i beni più grandi. Infatti, non si mostrerà temperante l’uomo che sperasse di ottenere i beni più grandi da altri, che non sono coloro i quali hanno il potere di essergli del massimo giovamento, né in altro modo che non sia quello di essere loro gradito. E come potrebbe essere gradito agli dei, più che ubbidendo loro in tutto e per tutto?

[IV, III,18] Dicendo queste cose e mettendole lui stesso in opera, Socrate preparava i suoi sodali a diventare più pii e più temperanti”.

[IV,IV,1] Invero, Socrate non nascose mai le sue convinzioni sulla Giustizia, e lo dimostrò nei fatti. In privato, comportandosi secondo la legge e in modo collaborativo con tutti; e in pubblico, ubbidendo alle autorità costituite ed a quanto ordinavano le leggi, tanto nel servizio civile quanto nelle campagne militari: talché egli era più che manifestamente un modello di disciplina per tutti. [IV,IV,2] Mentre era presidente di Assemblea, egli non consentì al popolo di procedere ad una votazione che era illegale, e basandosi sulle leggi, si oppose ad una simile iniziativa popolare, la quale io credo che nessun altro uomo sarebbe stato capace di contrastare. [IV,IV,3] Quando i Trenta gli ingiungevano di fare qualcosa di contrario alla legge, Socrate non ubbidiva loro. Egli quindi disobbedì ai loro ordini di non discutere con i giovani; e quando i Trenta comandarono a lui e ad altri cittadini di procedere all’arresto di un uomo condannato a morte, Socrate fu il solo che si rifiutò di obbedire, poiché l’ordine che aveva ricevuto era illegale. [IV,IV,4] Nei tribunali Ateniesi, gli imputati solevano, contro la legge, implorare la grazia dai giudici, adularli, dichiararsi in stato di grave bisogno, e quando ricorrevano a sotterfugi del genere, spesso molti di loro venivano assolti. Quando si trattò di difendersi dalle accuse di Meleto, Socrate si tenne ben lontano da simili pratiche. Egli non volle usare alcuno dei mezzucci contrari alla legge che venivano solitamente impiegati dai processati, mezzucci grazie ai quali egli, pur utilizzandoli con moderazione, sarebbe stato facilmente assolto dai giudici; e scelse piuttosto di morire conformandosi in tutto e per tutto alla legge, piuttosto che sopravvivere da fuorilegge.

[IV,IV,5] Molte volte capitò che Socrate parlasse in questi termini anche con altre persone. Io so per certo, che in una occasione egli discusse con Ippia di Elide, su questioni concernenti la giustizia. Ippia si era tenuto lontano da Atene a lungo, e quando vi ritornò, si imbatté in Socrate che stava discutendo con certe persone. Socrate faceva notare come sia stupefacente il fatto che chi vuole che a qualcuno sia insegnata l’arte del calzolaio, o quella del falegname, o del fabbro, o del cavalcare, non ha dubbio alcuno sulla persona alla quale rivolgersi per ottenere ciò. [Taluni dicono anche che se qualcuno vuole fare di un cavallo o di un bue, giusto quell’animale che deve essere, egli ha a sua disposizione schiere di maestri] Invece, chi vorrà imparare egli stesso cosa sia giusto, oppure vorrà che il giusto sia insegnato ad un suo figlio o ad un suo domestico, non sa a quale persona rivolgersi per ottenere ciò. 

[IV,IV,6] Dunque Ippia, udendo Socrate fare queste affermazioni, lo squadrò ben bene e gli disse: ”Ma tu continui a dire ancora oggi, le stesse cose che io ti ho già sentito dire tanto tempo fa?” 

“Caro Ippia”, gli rispose Socrate, “ciò che trovo ancora più straordinario, è il fatto che io non soltanto continui a dire le stesse cose, ma che continui a discutere sempre delle stesse questioni. Tu invece, forse perché sei un tuttologo, sui medesimi argomenti non dici mai le medesime cose”.

“Lascia stare”, gli ribatté Ippia, “il fatto è che io provo a dire ogni volta qualcosa di nuovo”.

[IV,IV,7] “Dunque, circa la tua scienza del tutto”, continuò Socrate, “quale delle due cose è vera? Per esempio: se qualcuno ti interroga su quante e quali siano le lettere che compongono il nome ‘Socrate’, tu un tempo dicevi una cosa, mentre invece adesso cerchi di trovare il modo di dirne un’altra? Oppure, a coloro che ti interrogano circa i numeri, chiedendoti se 2 volte 5 fa 10, tu non confermi adesso la risposta che davi un tempo?” 

“Su queste questioni, caro Socrate, anch’io, come te, continuo a dare le stesse risposte che davo una volta. Invece, circa il ‘giusto’ io credo di poter esporre, adesso, delle dimostrazioni che né tu né alcun altro potrebbe contraddire”. 

[IV,IV,8] “Per Era”, sobbalzò Socrate, “stai accennando ad una grandissima scoperta. Una scoperta che farà smettere i giudici di votare per l’assoluzione e per la condanna; farà smettere i cittadini di affermare che si perpetrano delle ingiustizie, smettere di inoltrare denunce e di litigare dividendosi in fazioni; farà smettere gli Stati di contrapporsi gli uni agli altri sui propri diritti, e di farsi la guerra. Io non so proprio come potrei abbandonarti, prima di averti sentito parlare di una scoperta di tale valore ed importanza”.

[IV,IV,9] “Ma per Zeus”, gli rispose Ippia, “non mi sentirai dire una sola parola, se prima tu non avrai ben chiarito che cosa intendi per ‘giustizia’. Ormai ne ho abbastanza del tuo modo di mettere in ridicolo gli altri, facendo loro delle domande e contestando le risposte di tutti; mentre non vuoi mai rendere conto di nulla, né chiarire apertamente la tua convinzione su qualcosa”. 

[IV,IV,10] “Ma cosa stai dicendo, Ippia? Non ti sei accorto”, protestò Socrate, “che io non smetto un solo istante di mettere in evidenza cosa a me pare essere giusto?”

“E quali sono” chiese Ippia, “le parole che usi per definire il giusto?”

“Se non lo esprimo a parole, di certo lo metto in evidenza con i fatti. Oppure, a te pare che i fatti non siano una testimonianza molto più convincente delle parole?”

“Sì, certo è così, per Zeus! Giacché molti di coloro che parlano di giustizia”, disse Ippia, “sono autori di ingiustizie; mentre neppure uno solo di coloro che fanno cose giuste, potrebbe essere chiamato ingiusto”.

[IV,IV,11] “Ti sei mai accorto, anche per una volta sola, che io abbia reso una falsa testimonianza, o che io sia stato un delatore, o che abbia agito per trascinare degli amici o lo Stato in una lotta di fazioni, o che io sia stato l’autore di un’ingiustizia?”

“No, mai”, rispose Ippia, “ti ho visto fare alcunché del genere”

“Allora, non ritieni anche tu”, insistette Socrate, “che l’astenersi dalle opere ingiuste, coincida con l’essere giusto?” 

“Caro Socrate, è manifesto che pure adesso”, sottolineò Ippia, “tu stai mettendo in opera il tuo solito modo di sfuggire alla richiesta di mostrare quale sia la tua convinzione su ciò che legittimi essere giusto. Tu, infatti, stai chiacchierando non di cosa effettuano i giusti, ma di cosa essi non effettuano”. 

[IV,IV,12] “Quanto a me”, ribatté Socrate, “io credevo fermamente che il rifiutarsi di commettere un’ingiustizia, fosse una prova sufficiente di giustizia. Se a te pare che non sia così, vedi se ti garba di più quest’altra definizione: io affermo che giusto è ciò che è legale”.

“Dunque, tu stai dicendo che il giusto e il legale sono la stessa cosa?”

[IV,IV,13] “Sì, questa è la mia risposta”

“Non riesco a rendermi conto di quale ‘legale’ e di quale sorta di ‘giusto’ tu stia parlando”.

“Tu conosci”, chiese Socrate”, l’esistenza di leggi dello Stato?”

“Sì, certamente”.

“E quali sono le leggi che tu ritieni essere leggi dello Stato?”

“Quelle che i cittadini”, rispose Ippia, “riuniti in Assemblea, abbiano scritto, riguardo alle azioni che si devono effettuare e alle azioni dalle quali ci si deve astenere”.

“Pertanto, agirebbe legalmente”, precisò Socrate, “il cittadino che si comporta in armonia con queste leggi, e invece agirebbe contro la legalità, chi queste leggi le viola?”

“Proprio così”.

“Dunque, effettuerebbe azioni giuste”, ribadì Socrate. “colui che obbedisce a queste leggi, ed invece azioni ingiuste chi a queste leggi disubbidisce”.

“Certamente, è così”.

“Pertanto”, concluse Socrate, “colui che effettua azioni giuste è giusto, mentre chi effettua azioni ingiuste è ingiusto”.

“E come potrebbe essere diversamente?”

“Ne consegue”, concluse Socrate, “che chi opera secondo i dettami della legge è giusto, e chi opera contro i dettami della legge è ingiusto”.

[IV,IV,14] “Caro Socrate”, replicò Ippia, “ma davvero qualcuno potrebbe ritenere le leggi una cosa seria ed obbedire loro, se spesso gli autori stessi delle leggi, le rigettano e le cambiano?”

“Dici così perché gli Stati che hanno intrapreso una guerra”, gli chiese Socrate, “spesso fanno poi di nuovo la pace?”.

“Sì certamente, questo accade”.

“Dunque tu ritieni vile gentaglia coloro che obbediscono alle leggi, sulla base del fatto che le leggi potrebbero poi essere cambiate o annullate. Ebbene, parlando così, cos’altro credi tu di stare facendo, che sia diverso dal denigrare coloro che hanno valorosamente combattuto nelle guerre, sulla base del fatto che poi ne sarebbe seguita la pace? O diverso dal biasimare coloro che sono coraggiosamente corsi in aiuto della loro patria in guerra?”

[IV,IV,15] “Per Zeus, no! Non è questo il mio pensiero!”

“Ma ti sei reso conto”, gli spiegò allora Socrate, “che lo Spartano Licurgo altro non fece di diverso da ciò che facevano tutti gli altri Stati, se non che mise al primo posto, quale dovere supremo, quello di obbedire alle leggi? Tra coloro che governano gli Stati, non sai che i più capaci di far sì che i cittadini obbediscano alle leggi, sono i migliori governanti; e che lo Stato nel quale i cittadini massimamente obbediscono alle leggi, è quello che primeggia in tempo di pace, e che è invincibile in tempo di guerra? [IV,IV,16] Invero, anche la concordia tra i cittadini appare essere per gli Stati un grandissimo bene. Ed in essi, un numero infinito di volte, le Assemblee degli anziani e i loro uomini migliori, raccomandano ai cittadini la concordia. Dappertutto, in Grecia, esiste poi una legge secondo la quale i Greci giurano che osserveranno la concordia; e dappertutto viene fatto questo giuramento. Io credo che tutto ciò avvenga, non affinché i cittadini scelgano tutti i medesimi cori, lodino i medesimi flautisti, preferiscano gli stessi poeti, si compiacciano delle stesse cose, bensì affinché essi obbediscano alle leggi. Quando i cittadini si mantengono obbedienti alle leggi, gli Stati diventano più potenti e più prosperi. Senza concordia, nessuno Stato potrebbe essere governato bene, né una casa amministrata nel modo migliore. [IV,IV,17] E come potrebbe il privato cittadino essere meno punito dallo Stato, e tenuto in maggiore onore dallo stesso, che obbedendo alle sue leggi?. Nei tribunali, come potrebbe andare incontro al minor numero di condanne e al maggior numero di assoluzioni? In chi si avrebbe la maggiore fiducia nell’affidare in custodia del denaro, dei figli o delle figlie? Lo Stato intero, chi riterrebbe più degno di fiducia del cittadino obbediente alla legge? Genitori, parenti, domestici, amici, cittadini, stranieri, da parte di chi otterrebbero il giusto trattamento? I nemici, in chi riporrebbero maggiore fiducia, in fatto di tregue, di trattati, di accordi di pace? Con chi gli Stati vorrebbero diventare alleati, più che con uno Stato rispettoso delle leggi? A quale Stato, gli alleati affiderebbero con più fiducia il comando supremo, il controllo dei confini e la difesa delle città? E chi ha arrecato grandi benefici, da chi penserebbe di aspettarsi gratitudine, più che da chi è obbediente alle leggi? Chi beneficerebbe volentieri taluni, più di coloro che reputa capaci di essergli grati? Chi, uno vorrebbe avere più amico o meno ostile, di colui che sa essere grato? A chi uno farebbe meno la guerra, che a colui dal quale vorrebbe amicizia, il meno possibile di ostilità, e che ha moltissimi amici, del quale tutti vorrebbero essere alleati, ed al quale pochissimi sono ostili e nemici?

[IV,IV,18] “Pertanto, caro Ippia, io dichiaro che ciò che è secondo la legge e ciò che è giusto sono la stessa e identica cosa. Se poi tu conosci una dimostrazione del contrario, spiegamela”.

“Per Zeus, caro Socrate”, gli rispose Ippia, “circa ciò che è ‘giusto’, a me pare di non conoscere alcuna dimostrazione del contrario”. 

[IV,IV,19] “Caro Ippia”, gli chiese allora Socrate, “sai tu che esistono delle ‘leggi non scritte’?

“Si, lo so. Sono le leggi che vigono, identiche, in ogni paese”.

“Potresti tu affermare che sono stati gli uomini a stabilirle?”

“E come sarebbe possibile una cosa del genere”, rispose Ippia, “vista l’impossibilità che si siano riuniti tutti insieme, e il fatto che non parlano tutti la stessa lingua?”

“Dunque, da chi ritieni tu che queste leggi siano state stabilite?”

“Io credo che siano stati gli dei a stabilire per gli uomini queste leggi. Infatti, presso tutti gli uomini la prima legge da osservare è quella di venerare gli dei”.

[IV,IV,20] “E quella di onorare i propri genitori”, gli domandò Socrate. “non è anch’essa una legge universalmente valida?” 

“Sì, anche questa lo è”.

“E non lo è anche quella che vieta rapporti incestuosi tra genitori e figli e tra figli e genitori?”

“No, Socrate: questa a me pare non essere una legge divina”.

“E perché?”, chiese Socrate.

“Perché mi accorgo”, rispose Ippia, “che taluni la trasgrediscono”. 

[IV,IV,21] “Sì, infatti ci sono numerose altre leggi”, disse Socrate, “che gli uomini violano. E tuttavia coloro che trasgrediscono le leggi stabilite dagli dei, ne pagano il fio; giacché l’uomo non può in alcun modo sfuggire alla punizione divina. Questo accade, invece, nel caso delle leggi stabilite dagli uomini, leggi che taluni trasgrediscono riuscendo a non pagarne il fio, alcuni nascondendosi, altri servendosi della violenza”. 

[IV,IV,22] “Socrate, ma che sorta di fio è”, chiese Ippia, “quello che non possono sfuggire di pagare i genitori che hanno rapporti incestuosi con i figli, e i figli che hanno rapporti incestuosi con i genitori?”

“Sì, per Zeus”, rispose Socrate, “il fio più grande e più terribile. Quale punizione subirebbero coloro che generano dei figli, che sia peggiore di quella di far male a fare dei figli?”

[IV,IV,23] “Eppure, com’è possibile che questi genitori facciano male a fare figli”, insistette Ippia, “se nulla impedisce che questi figli siano bambini sani generati da genitori sani?”

“Per Zeus”, ribatté Socrate, “è così, giacché bisogna non soltanto che siano sani i bambini generati dal padre e dalla madre, ma anche che questi genitori siano nella pienezza del loro vigore fisico. Oppure a te pare che il seme di un padre e di una madre sia lo stesso, quando essi sono nel loro pieno vigore fisico, quando essi neppure hanno raggiunto la piena maturità fisica, o quando essi sono ormai persone del tutto fiacche e svigorite?”

“Sì, per Zeus”, assentì Ippia, “non è verosimile che quei semi siano tutti della stessa qualità”.

“E pertanto”, chiese Socrate, “quali sono i semi paterni e materni migliori?”

“È evidente”, rispose Ippia, “che i semi migliori sono quelli di chi è nel suo pieno vigore fisico”. 

“E dunque i semi di coloro che non sono nel loro pieno vigore fisico”, chiese ancora Socrate, “sono anche di qualità scadente?”

“Per Zeus”, rispose Ippia, “verosimilmente è così”.

“E dunque bisogna”, continuò Socrate, “che persone simili non abbiano dei bambini?”

“Sì, non devono averne”.

“Pertanto”, disse Socrate, “bisogna che quanti non sono ancora nella pienezza del loro vigore fisico non facciano dei bambini?”.

“Io penso”, gli rispose Ippia, “che non debbano farne”.

“E quali altri individui”, domandò ancora Socrate, “farebbero quindi male a fare dei bambini, se non coloro che non sono nella pienezza del loro vigore fisico?” 

“Concordo con te”, disse Ippia, “anche su questo punto”.

[IV,IV,24] “E quindi? Non è forse una legge universalmente valida, quella di ricambiare il beneficio ricevuto?”

“Sì, lo è”, rispose Ippia, “ma anche questa legge è violata”.

“Però, anche coloro che violano questa legge”, rispose Socrate, “ne pagano il fio. Infatti essi si isolano così dagli amici virtuosi, e sono costretti a tener dietro a coloro che li odiano. Infatti, non è forse vero che quanti fanno del bene a coloro che frequentano, sono amici virtuosi; mentre coloro che non ricambiano i benefici ricevuti, a causa della loro ingratitudine, diventano odiosi? E poiché è diventato per costoro più a buon prezzo il frequentare gli ingrati, ecco che essi vanno soprattutto dietro a questi”.

“Sì, per Zeus, mio caro Socrate”, disse Ippia, “tutte queste leggi sono verosimilmente opera degli dei. Il fatto che esse abbiano incorporate in loro stesse le punizioni per coloro che le violano, a me sembra essere certamente l’opera di un legislatore molto migliore dell’uomo”.

[IV,IV,25] “Dunque, caro Ippia, ritieni tu che gli dei stabiliscano per legge il ‘giusto’ oppure qualcosa di diverso dal ‘giusto’?”

“Per Zeus, null’altro che il giusto. Giacché è impossibile”, rispose Ippia, “che a stabilirlo sia qualcun altro diverso da un dio”. 

“Pertanto l’affermazione che ciò che è giusto e ciò che è secondo la legge siano la stessa cosa, ha il beneplacito anche degli dei”.

Affermando e mettendo in opera queste conclusioni, Socrate rendeva uomini più giusti coloro che lo avvicinavano.

[IV,V,1] Parlerò ora del fatto che Socrate soleva fare dei suoi sodali, delle persone più pratiche e più intraprendenti di prima. Egli riteneva, infatti, che l’essere padrone di sé sia un bene per colui che in futuro effettuerà qualche bella impresa. Per prima cosa, Socrate rendeva dunque evidente ai sodali che egli stesso si era esercitato nella padronanza di sé più di tutti gli altri uomini. Successivamente ne discuteva, e spronava tutti, e in particolar modo i sodali, alla padronanza di sé. [IV,V,2] Egli usava spesso dilungarsi a ricordare coloro che sanno impiegare la virtù in modo proficuo; e richiamare ciò alla memoria di tutti i suoi sodali. Io l’ho anche visto dialogare con Eutidemo, nel modo che ora dirò, sulla padronanza di sé. 

“Dimmi un po’, Eutidemo: ritieni tu”, gli chiese Socrate, “che la libertà sia, tanto per l’uomo quanto per lo Stato, un possesso bellissimo e grandioso?” 

“Sì, più di qualunque altro possesso”, rispose Eutidemo. 

[IV,V,3] “Pertanto, chiunque si lascia comandare dai piaceri del corpo; a causa di ciò non può effettuare alcunché di nobile. Ebbene, ritieni tu che costui sia un uomo libero?”

“No, niente affatto libero” 

“Posso azzardarmi ad affermare che, secondo te, un atto è libero quando con esso si effettuano le imprese più nobili; e che invece è una condizione di schiavitù, quella di chi ha dei padroni che gli impediscono di effettuare tali nobili imprese?”

“Sì, in tutti i sensi”.

[IV,V,4] “Quindi, a te pare che quanti sono non padroni di se stessi, sono a tutti gli effetti degli schiavi?”

“Sì, per Zeus, è ovvio che lo sono”.

“E coloro che sono non padroni di se stessi, secondo te sono soltanto impediti a compiere delle nobili imprese, oppure sono anche costretti ad effettuare le azioni più vergognose?”

“A me sembra”, rispose Eutidemo, “che essi siano impediti tanto quanto sono costretti”.

[IV,V,5] “Che sorta di padroni ritieni tu che siano, coloro che impediscono l’effettuazione di nobili imprese, e che costringono ad effettuare le azioni più vergognose?” 

“Per Zeus, sono i padroni peggiori possibili”.

“E quale sorta di schiavitù, ritieni tu che sia la peggiore possibile?” 

“Io penso”, rispose Eutidemo, “che sia quella che si patisce stando presso i peggiori padroni”.

“Dunque, coloro che sono non padroni di se stessi, patiscono la peggiore delle schiavitù possibili?”

“Così a me pare che sia”. 

[IV,V,6] “Non pare a te che il sommo bene sia la sapienza, quella che tiene gli uomini lontani dalla schiavitù; e che sia proprio la non padronanza di sé a ridurli in schiavitù? E non ti pare anche che sia la non padronanza di sé ad impedirci di prestare attenzione e di capire cosa ci giova davvero, trascinandoci così ai piaceri del corpo; e quella che molte volte, abbattendo la nostra percezione dei beni e dei mali, ci fa scegliere l’effettuazione del peggio e non del meglio?”

[IV,V,7] “ Proprio questo è ciò che accade”, confermò Eutidemo.

“E circa la temperanza, caro Eutidemo, a chi diremmo che essa nulla ha a che fare, e meno che con chiunque altro, proprio con colui che manca di padronanza di sé? Infatti, le azioni di chi è non padrone di sé, sono l’esatto opposto di quelle di chi è temperante”. 

“Sono d’accordo con te anche su questo”.

“Credi tu che esista un inibitore delle azioni nobili e virtuose che si confanno all’uomo, più potente della non padronanza di sé?”

“No, penso che non esista”.

“E della facoltà che fa l’uomo capace di prescegliere le azioni che lo danneggiano invece di quelle che gli giovano, che lo persuade a darsi cura delle prime ed a trascurare le seconde; e che costringe invece gli uomini temperanti a fare tutto il contrario: ebbene credi tu che esista qualche male peggiore di questo per l’uomo?”

“Nessun male può essere peggiore di questo”

[IV,V,8] “Pertanto, appare verosimile che la padronanza di sé sia, per gli uomini, la causa di quelle azioni che sono tutto il contrario delle azioni causate dalla non padronanza di sé”. 

“È assolutamente così”.

“Dunque, appare anche verosimile ritenere che la facoltà che è causa delle azioni opposte sia la facoltà in assoluto più nobile e migliore di tutte?”

“Sì, è verosimile”.

“Ed è anche verosimile, caro Eutidemo, che ad essere migliore per l’uomo sia la padronanza di sé?”

“Sì, Socrate: è verosimile che così sia”.

[IV,V,9] “Hai mai rimuginato tra te e te, Eutidemo, questo fatto?”

“Quale fatto?”

“Il fatto che alla festosa soddisfazione dei sensi, unicamente verso i quali la non padronanza di sé sembra trascinare gli uomini; questa da sola non è però capace di trascinarli; mentre invece la padronanza di sé permette all’uomo di godere pienamente di tali piaceri”.

“Com’è possibile una cosa del genere?”

“La non padronanza di sé non ci permette di resistere alla fame, né alla sete, né alla smania di piaceri sessuali, né al vigilare vegliando. Queste sono tutte attività, grazie alle quali soltanto è possibile mangiare con vero piacere, bere con piacere, avere con piacere rapporti sessuali; e altrettanto piacevolmente prendersi una pausa da essi, concedersi il tempo di riposare, sopportare senza affanno ed aspettare con pazienza fino al momento in cui tali piaceri diventeranno un piacere unico. La non padronanza di sé è quella che vieta, per intrinseca coerenza, ai suoi più coatti e più irrefragabili seguaci di provare un piacere che sia in armonia con la natura delle cose. Al contrario, la padronanza di sé è la sola virtù che ci fa resistere alle debolezze citate e che ci fa provare piacere in un modo che, su quanto sono venuto dicendo, è degno d’essere ricordato”.

“Socrate, tu stai dicendo l’assoluta verità”.

[IV,V,10] “Inoltre, l’apprendere qualcosa di nobile e di bello, l’applicarsi alla pratica delle virtù grazie alle quali l’uomo riuscirebbe a trattare bene il proprio corpo, a governare bene la propria casa, a giovare ai propri amici e allo Stato, ad avere il sopravvento sui suoi nemici personali: ecco, queste sono tutte opere dall’effettuazione delle quali si traggono non soltanto dei vantaggi, ma anche dei grandi piaceri. Piaceri dei quali, però, possono fruire unicamente coloro che sono padroni di se stessi, mentre coloro che sono non padroni di se stessi, non possono avere parte alcuna in siffatti piaceri. Di chi diremo, quindi, che meno di tutti ha a che fare con tali piaceri; se non colui che è del tutto impossibilitato ad effettuare quelle tali azioni, giacché si tiene ben lontano dall’impegnarsi in altro che non siano i piaceri più triviali?”

[IV,V,11] “Caro Socrate”, concluse allora Eutidemo, “a me sembra che tu stia dicendo questo: l’uomo che si lascia ogni volta sconfiggere dai piaceri del corpo, nulla ha che fare con una qualsiasi virtù”. 

“Sì, Eutidemo. Qual è infatti la differenza tra un uomo che non ha padronanza di sé, e la più incolta delle belve? Infatti, chiunque non tiene in considerazione le facoltà superiori che possiede, e cerca invece in tutti i modi di soddisfare il piacere dei sensi, in che cosa differirebbe dal bestiame più infoiato? Invece, è soltanto agli uomini padroni di sé, che è dato di tenere in considerazione le faccende della massima importanza, e distinguendole secondo il genere, tanto nelle parole quanto nei fatti, prescegliere per sé i beni ed astenersi dai mali”.

[IV,V,12] Operando in questo modo, Socrate diceva che si diventa uomini migliori, più felici e più abili nel dialogare. Egli spiegava anche che il termine ‘dialogare’ deriva dal fatto che quanti si riuniscono insieme per deliberare su diverse faccende, le prendono in esame una alla volta, essendo esse già state suddivise in precedenza, faccenda per faccenda. Bisogna dunque sforzarsi al massimo grado per essere pronti ad ottenere questo risultato, e prendersene ogni cura. È da ciò che nascono uomini nobilissimi, capacissimi di comandare e di discutere.

[IV,VI,1] Proverò ora a parlare anche del modo in cui Socrate migliorava l’abilità di discutere dei suoi sodali. Egli riteneva infatti, che quanti sono edotti del “cos’è” di ciascuna cosa, possono anche spiegarlo agli altri. Circa coloro, invece, che non ne sono edotti, egli affermava anche che non c’è nulla di stupefacente nel fatto che essi cadano in errore, e che facciano quindi cadere in errore anche gli altri. Per questo motivo egli non cessava mai di considerare attentamente, insieme ai suoi sodali, il “cos’è” di ciascuna cosa. 

Comunque, il dettagliare il modo in cui egli arrivava ad una definizione, sarebbe un’opera improba. Tra le tante, parlerò soltanto di alcune definizioni che, io credo, bastano a chiarire il suo modo di esaminarle. 

[IV,VI,2] Quale primo esempio, circa il ‘culto degli dei’, egli così ne esaminava la definizione.

“Dimmi un po’, Eutidemo, cosa ritieni tu che sia il culto degli dei?”

“Per Zeus, che sia una cosa bellissima”, gli rispose Eutidemo.

“Sei in grado di dirmi che sorta di uomo sia colui che pratica il culto degli dei?”

“A me pare che sia colui che rende onore agli dei”.

“E costui ha la potestà di onorare gli dei, qualunque sia il modo in cui egli decide di onorarli?”

“No, perché ci sono delle leggi, in osservanza delle quali bisogna onorare gli dei”.

[IV,VI,3] “Dunque, chi conosce queste leggi, conoscerebbe anche il modo in cui si deve rendere onore agli dei?”

”Io credo di sì”, rispose Eutidemo.

“Quindi, colui che sa come si deve rendere onore agli dei, ritiene anche che lo si debba effettuare non diversamente da quello che è a sua conoscenza?”

“Certo, non diversamente”.

“E c’è qualcuno che rende onore agli dei, diversamente dal modo in cui egli crede che si debba?”

[IV,VI,4] “No, io credo che non ci sia”.

“Dunque, chi conosce le leggi che riguardano gli dei, onorerebbe gli dei in modo conforme alle leggi?”

“Sì, assolutamente sì”.

“Pertanto, chi onora gli dei in modo conforme alla legge, rende loro onore?”

“E come potrebbe essere diversamente?”

“E colui che rende onore agli dei è un uomo pio?”

“Certamente sì”.

“Dunque colui che conosce ciò che è conforme alla legge, secondo noi sarebbe rettamente definito un uomo pio?

“A me pare che sia così”.

[IV,VI,5] “E nelle relazioni che si hanno con gli uomini, uno ha la potestà di trattarli in qualunque modo gli paia?”

“No; giacché anche a questo proposito esistono delle leggi alle quali ci si deve conformare”.

“Dunque, coloro che si conformano vicendevolmente alle leggi stabilite, si comportano come si deve?”

“Sicuramente. Come potrebbe essere altrimenti?”

“Dunque, coloro che si comportano come si deve, si comportano bene?”

“Assolutamente sì”, rispose Eutidemo.

“Quindi, coloro che si comportano bene con gli uomini, sbrigano bene le umane faccende?”

“Verosimilmente sì”.

“Pertanto, coloro che obbediscono alle leggi sono anche coloro che rispettano la giustizia?”

“Certamente sì”, rispose Eutidemo.

[IV,VI,6] “Sai tu”, gli chiese allora Socrate, “quali siano le azioni che sono chiamate ‘giuste’?”

“Sono quelle che le leggi comandano di fare”.

“Quindi coloro che fanno le azioni che le leggi comandano di fare, fanno anche le azioni giuste e dovute?”

“Come potrebbe essere altrimenti?”

“E coloro che fanno azioni giuste, sono anche uomini giusti?”

“Io credo proprio di sì”.

“Credi tu che taluni possano obbedire alle leggi, senza sapere quel che le leggi comandano di fare?”

“No, io credo che ciò sia impossibile”

“E credi tu che tra coloro che sanno cosa la legge dice di fare, ve ne siano alcuni i quali non fanno quel che invece si deve fare?”

“Io non lo credo”.

“E sai tu se ci siano taluni i quali fanno, non ciò che essi credono si debba fare, ma qualcos’altro?”

“Io non lo so”.

“Quindi, coloro che conoscono quali siano le leggi che devono regolare i rapporti tra gli uomini, sono anche coloro che effettuano le giuste azioni?”

“Sì, è proprio così”, rispose Eutidemo.

“Dunque, tutti coloro che effettuano le azioni giuste, sono uomini giusti?”

“Come potrebbe essere altrimenti?”

“Pertanto, definendo uomini ‘giusti’ coloro che conoscono le leggi che regolano le relazioni tra gli uomini, noi daremmo di loro la retta definizione?”

“A me sembra di sì”

[IV,VI,7] “E la sapienza? Cosa potremmo dire che essa è? Dimmi, Eutidemo: i sapienti pare a te che siano sapienti per le conoscenze certe che hanno, oppure ci sono taluni che sono sapienti di cose delle quali non hanno conoscenza certa?”

“Manifestamente di cose delle quali hanno conoscenza certa”, rispose Eutidemo. “Come si potrebbe mai essere sapienti di cose di cui non si ha conoscenza certa?”

“Pertanto i sapienti sono sapienti per le conoscenze certe che hanno?”

“Per cos’altro uno potrebbe essere sapiente, se non per la sua conoscenza certa?”

“Credi tu che la sapienza sia altro da ciò per cui gli uomini sono sapienti?”

“No, io non credo”.

“Dunque la conoscenza certa è la sapienza?”

“A me pare di sì”.

“E a te sembra che per l’uomo sia possibile avere conoscenza certa di tutte le cose esistenti?”

“No, per Zeus. Secondo me soltanto di un limitato numero di esse”.

“Quindi l’uomo non è all’altezza di essere sapiente di tutte le cose?”

“Per Zeus, certo che non ne è all’altezza”.

“Pertanto, ciascuno è sapiente soltanto di ciò di cui ha conoscenza certa?”

“A me pare che sia così”.

[IV,VI,8] “Dunque, caro Eutidemo, anche la ricerca su cosa sia il ‘bene’ va effettuata in questo modo?”

“Cosa intendi dire?”

“Ti sembra che la medesima cosa possa essere giovevole a tutti?”

“Io penso di no”.

“E dunque. Non ti pare che quanto è di giovamento ad una persona, a volte possa essere dannoso ad un’altra? 

“Certamente”.

“Tu diresti che il ‘bene’ è qualcosa di diverso da ciò che è giovevole?”

“Io proprio non lo direi”, rispose Eutidemo.

“Dunque ciò che è giovevole è anche un ‘bene’ per colui al quale esso è giovevole?”

“Così mi sembra”.

[IV,VI,9] “E circa il ‘bello’, potremmo noi parlarne in un modo diverso dal modo in cui se ne parla quando denomini ‘bello’ un corpo, una suppellettile, o qualunque altra cosa che sai essere, a tutti gli effetti ‘bella’?” 

“Per Zeus, certo che no”, raspose Eutidemo.

“Quindi, data una qualunque cosa che sia proficuo usare, è bello che ciascuno questa cosa la utilizzi?”

“A me pare proprio di sì”.

“Ed è bello che ciascuno utilizzi una certa cosa, per un qualche uso diverso da quello per cui è bello che essa sia utilizzata?”

“Non certo per qualche uso diverso”, rispose Eutidemo.

“Pertanto, ciò che è proficuo è bello per ciò per cui esso sia proficuo?”

“Sì, per nessun altro uso”.

[IV,VI,10] “Quanto alla ‘virilità’, caro Eutidemo, ritieni tu che essa sia una cosa bella?”

“Ritengo, anzi, che essa sia il più bello dei beni”.

“Ritieni che essa sia proficua, e non soltanto per le cose di poco conto?”

“Per Zeus, ritengo che essa, anzi, lo sia per le cose della massima importanza”.

“E ti pare che dinanzi ad eventi terribili e pericolosi, sia proficuo l’ignorarli?” 

“Per nulla proficuo”.

“E coloro che dinanzi ad eventi siffatti non hanno paura, perché non sanno di che cosa si tratti, sono individui privi di virilità?”

“Sì, per Zeus, ne sono privi”, rispose Eutidemo, “Giacché in tal caso anche schiere di pazzi e di vigliacchi, sarebbero individui virili”.

“E cosa diresti di coloro che hanno timore anche di ciò che non è affatto terribile?”

“Direi che si tratta di individui ancora meno virili”. 

“Dunque, tu ritieni che davanti ad eventi terribili e pericolosi, gli uomini dabbene si comportano virilmente; e che gli uomini malvagi si comportano invece da vigliacchi?”

“Assolutamente sì”.

[IV,VI,11] “Tu ritieni che davanti a siffatti eventi siano dabbene anche altri uomini, oltre coloro che sono capaci di comportarsi bene dinanzi ad essi?”

“Altri uomini, no; ma soltanto questi”, rispose Eutidemo. 

“E coloro i quali si comportano male dinanzi a siffatti eventi, sono uomini malvagi?”

“Quali altri sono uomini malvagi, se non costoro?”, rispose Eutidemo.

“E ciascuno di costoro si comporta come crede che si debba fare?”

“E come potrebbe comportarsi in modo diverso?”, rispose Eutidemo

“Dunque, coloro che sono incapaci di comportarsi bene, sanno come bisogna comportarsi?”

“Di sicuro non lo sanno”, rispose Eutidemo.

“E coloro che sanno come bisogna comportarsi, sono anche quelli che hanno la capacità di farlo?”

“Sono i soli a poterlo fare”, rispose Eutidemo.

“E coloro che non si sono sbagliati, si comportano forse male dinanzi siffatti eventi?” 

“Credo di no”, rispose Eutidemo.

“Dunque sono coloro che si sono sbagliati a comportarsi male dinanzi a siffatti eventi?”

“Verosimilmente è così”, rispose Eutidemo.

“Dunque, coloro che sanno comportarsi bene dinanzi agli eventi terribili e pericolosi, sono uomini virili; mentre coloro che sbagliano il modo di comportarsi, sono dei vigliacchi?”

“A me pare che sia così”, concluse Eutidemo.

[IV,VI,12] Socrate riteneva che il governo di un sovrano e il governo di un tiranno, fossero entrambe forme di governo, che però egli valutava ben differenti una dall’altra. Infatti, egli considerava governo ‘sovrano’, quel governo che aveva il consenso di tutti i cittadini e che obbediva alle leggi dello Stato. Invece, il governo che mancava del consenso di tutti i cittadini e che non obbediva alle leggi dello Stato, bensì alle sole decisioni di chi comandava, egli lo chiamava ‘tirannide’. Inoltre, laddove le cariche di governo erano ricoperte dagli ottimati, Socrate riteneva che questa forma di governo fosse ‘aristocratica’. Che laddove le cariche di governo fossero assegnate in base al censo, egli chiamava questa forma di governo ‘plutocratica’. E laddove tali cariche fossero invece aperte a tutti, egli chiamava questa forma di governo ‘democratica’. [IV,VI,13] Quando poi qualcuno faceva a Socrate delle obiezioni, senza avere nulla di chiaro da dire; ed asseriva, senza dimostrazione alcuna, che un certo tale è più sapiente di altri, oppure che è un politico più fine, oppure che è più virile o qualcos’altro del genere; Socrate riportava indietro tutto il discorso all’ipotesi iniziale, più o meno nel modo seguente.

[IV,VI,14] “Tu stai affermando che il cittadino che tu lodi è migliore del cittadino che lodo io?”

“Si, lo affermo”

“Come mai non abbiamo in precedenza preso in esame quale sia l’operato di un cittadino dabbene?”

“Facciamolo adesso”.

“Nella gestione del denaro pubblico, non prevarrebbe colui che rende lo Stato più prospero?

“Certamente sì”, rispose quel tale.

“E in una guerra, colui che fa prevalere il suo Stato sugli avversari?”

“E come no”.

“E in una ambasceria, colui che fa in modo di trasformare i nemici in amici?”

“Verosimilmente sì”.

“Quindi, anche nel caso di un discorso al popolo, colui che fa cessare la guerra civile e ingenera concordia tra i cittadini?”

“A me sembra proprio di sì”.

In questo modo, riportando indietro tutto il discorso all’ipotesi iniziale, la verità diventava evidente anche a coloro che avevano mosso a Socrate delle obiezioni.

[IV,VI,15] Ogni qualvolta Socrate esponeva un ragionamento, seguiva un percorso a tappe, segnate dalla generale condivisione delle sue affermazioni; ritenendo che questa fosse una garanzia della correttezza del proprio ragionamento. Ne conseguiva, che nei tantissimi discorsi che io l’ho sentito fare; qualunque cosa dicesse, egli riusciva a rendere i suoi ascoltatori disposti all’assenso. Egli soleva anche dire che Omero concede ad Odisseo la palma di oratore più convincente di tutti, in quanto capace di condurre per mano chi ascolta attraverso percorsi ben noti e condivisi dagli uomini di qualche valore. 

[IV,VII,1] Da quanto sono venuto dicendo, a me pare evidente che Socrate, con coloro coi quali conversava, metteva sempre in evidenza il proprio punto di vista con grande semplicità e chiarezza. Accennerò, adesso, anche al fatto che egli usava prendersi ogni cura affinché che ciascuno di coloro coi quali discuteva, si sentisse autonomo ed a proprio agio nell’attività pratica che gli si confaceva. Di tutti coloro che io ho conosciuto, Socrate era colui che massimamente ci teneva a sapere di che cosa ciascuno dei suoi sodali avesse una specifica ed approfondita competenza. Quanto a ciò che all’uomo dabbene conviene conoscere, e che Socrate sapeva, egli lo insegnava con sommo zelo; mentre su ciò di cui si sentiva inesperto, egli conduceva i suoi interlocutori presso coloro che ne erano esperti. [IV,VII,2] Socrate insegnava anche fino a quale livello di esperienza di ciascuna faccenda pratica, debba pervenire l’uomo correttamente educato. Per esempio, diceva che della geometria bisogna imparare quanto basta affinché lo studioso di essa diventi capace, quando ne fosse il caso, di misurare esattamente l’area di un pezzo di terra, per acquisirla, per cederla, per suddividerla o per comprovarne la misurazione. Ed aggiungeva che ciò era assai facile da imparare; sicché colui che faceva la misurazione con la dovuta attenzione, poteva poi allontanarsi sapendo quale fosse l’area del pezzo di terra, e conoscendo come si opera una misurazione. [IV,VII,3] Socrate valutava invece negativamente, l’apprendimento della misurazione di forme geometriche desuete; e spiegava di non vedere l’utilità di simili conoscenze, pur non essendone del tutto inesperto. Aggiungeva poi, che l’acquisizione di conoscenze di questo genere, era in grado di consumare la vita intera di un uomo, a scapito di molte altre conoscenze di ben maggiore utilità. [IV,VII,4] Socrate soleva poi esortare a familiarizzarsi con l’astronomia; ma anche in questo caso, solamente quel tanto che basta a poter riconoscere l’arrivo della notte, la stagione, il mese e l’anno, in vista di un viaggio per terra o per mare, o per dei turni di guardia; e in vista di tutte quelle operazioni che si fanno di notte, o in certi mesi oppure in certi anni, così da conoscere esattamente il tempo propizio per ciascuna di esse. Secondo Socrate, anche queste nozioni potevano essere facilmente imparare dai cacciatori notturni, dai piloti di navi, e da molte altre persone, le quali tutte erano interessate ad avere queste conoscenze. [IV,VII,5] Egli deprecava invece fortemente lo studio dell’astronomia, se spinto fino alla conoscenza del percorso dei diversi corpi celesti, delle orbite dei pianeti, della traiettoria delle comete, delle loro distanze dalla terra e delle loro rivoluzioni, logorandosi nella ricerca delle loro cause. Diceva, infatti, di non vedere alcun vantaggio in queste conoscenze, quantunque neppure di queste egli fosse del tutto all’oscuro; e ribadiva che esse erano capaci di logorare la vita di un uomo, a scapito di molte altre utili conoscenze. [IV,VII,6] Quanto ai corpi celesti, e quanto al modo in cui la divinità organizza i movimenti di ciascuno di essi, Socrate, in generale, deprecava che qualcuno se ne preoccupasse, giacché riteneva che tali ragioni non potessero essere scoperte dagli uomini. Pensava, anzi, che chi faceva ricerche su ciò che gli dei avevano deciso che rimanesse ignoto, non rendeva affatto onore agli dei. Affermava anche, che chi investigava questi fenomeni, stava vaneggiando; non meno di quanto vaneggiasse Anassagora, ossia il più grande investigatore di spiegazioni possibili delle meccaniche divine. [IV,VII,7] Anassagora, infatti, sostenendo che il fuoco e il sole erano fatti della stessa materia, non teneva conto del fatto che gli uomini possono facilmente sostenere la vista del fuoco, e che invece non possono guardare il sole; e, inoltre, che quando siano illuminati dalla luce solare, gli uomini si abbronzano, mentre ciò non accade ad opera della luce del semplice fuoco. Anassagora, inoltre, non teneva conto del fatto che tutti i vegetali che germogliano dalla terra, se sono privati della luce solare, non possono crescere bene; e che quando siano riscaldati dal fuoco, tutti i vegetali appassiscono e muoiono. Quando poi Anassagora insisteva sul fatto che il sole fosse una pietra infuocata; oltre al resto, egli ignorava l’evidenza del fatto che una pietra, stando nel fuoco, non getta luce, né essa resiste a lungo nel fuoco, mentre invece il sole è la stella più brillante di tutte, e tale rimane in eterno. [IV,VII,8] Socrate raccomandava, poi, l’apprendimento dell’aritmetica, ma anche in questo caso, ed in modo simile all’apprendimento di altre conoscenze, egli consigliava di evitarne lo studio matto e disperatissimo, e di impararne solo quel tanto che era utile per l’uso pratico; e lui stesso considerava e discuteva con i suoi sodali quanta aritmetica fosse utile per l’uso pratico. [IV,VII,9] Egli incitava quindi i suoi a sodali ad avere ogni cura della propria salute; informandosi, da coloro che ne sono esperti, sulla quantità di cibo da consumare; ed a badare per tutta la vita a quali alimenti, quali bevande e quali esercizi fisici si addicano loro meglio, così da poter vivere in buona salute il più a lungo possibile. Ed assicurava anche, che chi si prendeva una simile cura di se stesso, avrebbe fatto fatica a scovare un medico che meglio di lui conoscesse quali erano le cure più utili ed adatte alla sua salute. [IV,VII,10] Nel caso, poi, che qualcuno decidesse di giovarsi di una sapienza che è al di sopra di quella umana, Socrate gli consigliava di rivolgersi alla mantica. Infatti, chi sa riconoscere i segnali che gli dei mandano agli uomini, e che concernono le faccende umane, sa anche, ripeteva Socrate, che a lui non mancheranno mai i consigli degli dei.

[IV,VIII,1] Socrate soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo ciò che dovesse e non dovesse fare. Ora, se qualcuno crede, a causa della sua condanna a morte, che Socrate sia colpevole di essersi ingannato a proposito di tale démone; ebbene costui rifletta in primo luogo sul fatto che egli era allora già tanto avanti negli anni che, se pur non subito, sarebbe di certo morto non molto tempo dopo. In secondo luogo, rifletta sul fatto che in questo modo Socrate si lasciò alle spalle la parte più penosa e molesta della vita, quella nel cui corso in tutti diminuisce la capacità intellettiva; e invece di questo declino, continuando a sfoggiare tutto il vigore dell’animo suo, egli si guadagnò la gloria parlando al processo con il massimo di verità, di libertà e di giustizia di tutti gli uomini; e sopportando la condanna a morte con il massimo di mitezza e di virilità; [IV,VIII,2] giacché è ammesso che nessuno mai degli uomini di cui v’è memoria abbia sopportato la morte in modo più nobile. Dopo il verdetto, gli toccarono comunque di necessità altri trenta giorni di vita, poiché quello era il mese delle Delie, feste nel corso le quali la legge non permetteva l’esecuzione di alcuna condanna a morte, fino a che la sacra ambasceria non fosse tornata da Delo. Durante questo tempo, tutti i suoi amici intimi ebbero modo di vedere che Socrate continuava a vivere le giornate in modo per nulla differente dal suo solito; seppure già in precedenza Socrate era tra tutti gli uomini oggetto di speciale meraviglia per il suo modo di vivere sempre di buon umore e con semplicità. [IV,VIII,3] Come si potrebbe morire più nobilmente di così? Quale morte potrebbe essere più nobile di quella di morire il più nobilmente possibile? Quale morte potrebbe essere più felice di quella più nobile possibile? E quale morte potrebbe essere più cara agli dei della morte più felice possibile? 

[IV,VIII,4] Riferirò ora quello che di Socrate sentii dire da Ermogene, figlio di Ipponico. Raccontava dunque Ermogene di avere udito Socrate, quando ormai Meleto aveva scritto e presentato l’accusa, impegnarsi in ogni sorta di discussioni invece di parlare del processo, e di avergli detto che sarebbe stato il caso che egli considerare cosa dire in sua difesa. A questa domanda, Socrate dapprima rispose: “Non ti sembra che la mia vita intera sia stata una preparazione alla mia difesa?”. E quando Ermogene gli chiese: “In che senso?”, Socrate gli spiegò di non essere mai addivenuto a far altro che esaminare a fondo ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, effettuando le cose giuste ed astenendosi dalle ingiustizie, attività che egli legittimava come in assoluto la miglior preparazione possibile per la propria difesa. [IV,VIII,5] Allora Ermogene riprese dicendogli: “Non vedi, caro Socrate, che i giudici Ateniesi, fuorviati dai discorsi, hanno mandato a morte molti innocenti, e hanno invece assolto molti colpevoli?” “Sì, per Zeus, caro Ermogene” gli rispose Socrate, “ma quando io ho messo mano a considerare la faccenda della mia difesa davanti ai giudici, il mio démone vi si è opposto”. [IV,VIII,6] Udendo ciò, Ermogene espresse la sua sorpresa dicendogli: “Stai pronunciando parole davvero sorprendenti”. “Tu stai affermando”, gli rispose Socrate, “di stupirti del fatto che alla divinità sia apparso meglio che io, giunto a questo punto della mia vita, la finisca qui? Non sei al corrente del fatto che finora io non mi sono mai sottomesso ad alcun uomo, e che finora nessuno ha mai vissuto una vita migliore e più piacevole della mia? Infatti, io credo che vivano nel miglior modo possibile, coloro i quali hanno la maggior cura possibile di diventare gli uomini migliori possibili; e che vivano il più piacevolmente possibile coloro i quali si rendono conto, in sommo grado, di stare diventando davvero i migliori uomini possibile. [IV,VIII,7] Questi sono fatti, del cui accadere io mi sono reso conto, finora, giorno per giorno. Ed incontrando altri uomini e mettendomi a paragone con loro, questa è stata la conclusione alla quale sono giunto circa me stesso. E non soltanto io, ma anche i miei amici, continuano ad avere questa convinzione su di me, e non certo perché essi mi vogliano bene; – giacché anche coloro che vogliono bene ad altri, avrebbero allora questa stessa disposizione d’animo verso i loro amici, – bensì perché anche i miei sodali sono convinti di poter diventare gli uomini migliori possibili. [IV,VIII,8] Se io vivrò ancora a lungo, forse sarà per me inevitabile avere a che fare con gli acciacchi della vecchiaia: e quindi vedere ed udire di meno, avere difficoltà ad organizzare il pensiero, un indebolimento della capacità di apprendere, un aumento della smemoratezza, e diventare più ottusi di coloro dei quali in precedenza si era più vigili. Per colui che non si rende conto di questi acciacchi, la vita non diventerebbe invivibile? E per colui che invece se ne rende conto, il suo vivere non sarebbe necessariamente di qualità peggiore e più spiacevole? [IV,VIII,9] Se io, adesso, morirò a seguito di una condanna ingiusta, la vergogna per la mia condanna ricadrà tutta quanta su coloro che mi fanno uccidere ingiustamente. Infatti, se il commettere una ingiustizia è cosa di cui vergognarsi, come può non essere vergognoso il far uccidere un incolpevole? E che motivo ho io di vergognarmi, se certi individui sono incapaci di riconoscere e di applicare la giustizia nei miei confronti? [IV,VIII,10] Io osservo anche che, per vicende anteriori, l’opinione dei posteri su coloro che sono stati ingiusti e su coloro che hanno subito un’ingiustizia, non rimane sempre la stessa. Inoltre, io so che il mio caso sarà oggetto di attento studio da parte degli uomini, e che qualora io muoia adesso, tale attenzione non sarà la stessa per me e per i miei uccisori. Io so anche che sarà riconosciuta valida per sempre la mia testimonianza sul fatto che io mai commisi una ingiustizia contro chicchessia, e che non feci mai diventare i miei sodali uomini peggiori, ma che sempre mi sforzai di renderli migliori”. 

[IV,VIII,11] Questo era il tenore delle discussioni che Socrate ebbe con Ermogene e con altri. E di quanti sanno di cosa fosse capace Socrate, tutti coloro che hanno di mira la virtù continuano ancora oggi a desiderarne ardentemente, a preferenza di tutti gli altri uomini, la presenza; in quanto il più utile di tutti nel perseguimento della virtù. Essendo quindi Socrate stato un uomo del genere, io l’ho descritto tal quale era. Un uomo pio, che nulla effettuò mai senza avere prima consultato il responso degli dei; un uomo giusto, che mai danneggiò qualcuno, neppur di poco, e che giovò sommamente a quanti ebbero a che fare con lui; un uomo padrone di sé, il quale mai prescelse ciò che è più piacevole invece di ciò che è più nobile; un uomo saggio, che non sbagliò mai la decisione su ciò che è meglio e su ciò che è peggio; un uomo che mai ebbe bisogno dei suggerimenti altrui, un uomo che confidò in se stesso invece che nelle conoscenze altrui; un uomo capace di parlare a ragion veduta e di definire il proprio punto di vista; un uomo capace, nel contempo, di confutare coloro che erano in errore, spingendoli alla virtù e spronandoli alla nobiltà d’animo. A me, insomma, egli appariva essere un uomo modello, di superiore nobiltà d’animo e completamente felice. Se poi a qualcuno non piace la mia descrizione di Socrate, si faccia la propria opinione dopo avere paragonato il carattere di Socrate a quello degli altri uomini. 

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DIONE CRISOSTOMO

Brevi cenni sulla vita di Dione Crisostomo (40-120 d.C. circa)

Dione, coevo di Epitteto, era nato in Bitinia (Asia Minore) nella città di Prusa. Con i suoi fratelli ereditò dal padre, Pasicrate, una larga fortuna ma anche molti debiti. Divenne presto un abile oratore; in acerba polemica con i filosofi, da lui giudicati elementi ostili allo Stato. Nel corso di uno dei suoi viaggi giunse a Roma, allora sotto l’impero di Vespasiano. Qui, non si sa esattamente in quale anno, ebbe modo di ascoltare, come Epitteto, le lezioni di Musonio Rufo, e ciò gli fece cambiare atteggiamento nei confronti della filosofia. Fortemente critico nei confronti dell’imperatore Domiziano, nell’anno 82 d.C. fu esiliato e gli fu impedito di soggiornare sia in Italia che in Bitinia. Egli si trovò quindi costretto a girovagare qua e là in povertà, soprattutto nella regione del Danubio e della desolata Scizia. Sappiamo che nel 97 d.C. parlò in pubblico ai Greci riuniti ad Olimpia, che fu accolto amichevolmente dal nuovo imperatore Nerva a Roma, e che ebbe modo di ristabilirsi a Prusa. Tornato a Roma un paio di anni dopo in occasione di una ambasceria, entrò in stretta amicizia con l’imperatore Traiano. Coinvolto in un processo legato a dei progetti di ricostruzione edilizia nella sua città natale, nel 112 d.C. egli ebbe occasione di difendersi davanti a Plinio il giovane, allora Governatore romano della Bitinia. Poco si sa del resto della sua vita, nel corso della quale ebbe a subire la perdita della moglie e di un figlio.

– Il testo greco delle Orazioni XIV e XV ‘Sulla schiavitù e la libertà’ di Dione Crisostomo

Il testo greco delle due Orazioni da me tradotte è quello pubblicato nella Collana ‘The Loeb Classical Library’, 1977. 

– Perché la scelta di proporre la traduzione di queste due Orazioni

Dione Crisostomo, che è coevo di Epitteto, è una sorta di volgarizzatore e propagandista dello Stoicismo sul quale Epitteto ha un giudizio preciso e tagliente. Egli lo esprime in un lungo e articolato passaggio del Capitolo XXIII del III Libro delle sue Diatribe (§ 9-38). Detto in estrema sintesi, Dione Crisostomo rappresenta secondo Epitteto un modello di conferenziere insipiente; disprezzato, in cuor loro, dai suoi uditori; che bada soltanto alla ‘audience’ ed allo ‘share’; che cerca elogi, e il cui stile è né protrettico né confutatorio né didascalico bensì ‘per ostentazione’.

Ho scelto di tradurre le due Orazioni nelle quali Dione Crisostomo discute di libertà e di schiavitù appunto affinché chi vuole possa farsi un giudizio personale al riguardo, paragonando le parole di Dione a quelle di Epitteto, che nel Capitolo I del IV Libro delle sue Diatribe tratta lo stesso identico argomento.

Orazione n. 14

SULLA SCHIAVITU’ E LA LIBERTA’   I

(1) Gli uomini, sopra ogni altra cosa, smaniano d’essere liberi ed affermano che la libertà è il sommo dei beni, mentre la schiavitù è la più vergognosa e peggior fortuna che possa capitare; e però non sanno proprio questo, ossia cos’è ‘essere libero’ o cos’è ‘essere schiavo’. Pertanto essi neppure fanno mai qualcosa per sfuggire, come si dice, ciò ch’è vergognoso ed infesto, ossia la schiavitù; o per acquisire ciò che reputano di gran valore, ossia la libertà. Anzi, tutt’al contrario essi effettuano quelle azioni la pratica delle quali di necessità li costringe poi a passare tutto il tempo in stato di schiavitù ed a non centrare mai la libertà. (2) Ma forse non vale neppure la pena di stupirsi se costoro non possono né impadronirsi di né proteggersi da ciò che sono nella condizione di ignorare. Se essi, ad esempio, si trovassero davanti una pecora e un lupo ed ignorassero qual è l’uno e qual è l’altra, e però fossero al corrente che uno dei due è di giovamento e buono da possedere mentre l’altro è dannoso ed inutile, non ci sarebbe da stupirsi se a volte essi avessero paura e fuggissero la pecora come se fosse un lupo ed invece si avvicinassero al lupo e lo aspettassero ritenendolo una pecora. Giacché l’ignoranza ha effetti di questo genere su coloro che non sanno, e li costringe a fuggire e ad inseguire cose contrarie a quel che vogliono ed a ciò che è loro utile. (3) Orbene, analizziamo se i più sanno con chiarezza cosa siano la libertà e la schiavitù; giacché forse noi li accusiamo senza ragione, quando essi, invece, queste cose le sanno benissimo. (4) Se dunque qualcuno chiedesse loro cosa significa essere libero, essi forse affermerebbero che significa non ascoltare nessuno e fare semplicemente quel che ci pare. Se però uno ponesse a chi ha risposto così questa seconda domanda, ossia se crede che agisca bene e che sia un uomo libero colui che da corista in un coro non presta attenzione al capocoro e non lo ascolta, ma canta in tono e fuori tono come gli salta in mente; e se ritenga vergognoso e degno di uno schiavo il comportamento opposto, cioè il prestare attenzione ed obbedire al capocoro cominciando e smettendo di cantare quando quello lo comanda: ebbene, io credo che egli non si direbbe d’accordo. (5) Credo anche che egli non si direbbe d’accordo quando gli si domandasse se ritiene che per chi naviga sia un comportamento da uomo libero quello di non preoccuparsi del pilota e di non fare qualunque cosa questi dica di fare. Per esempio, restare in piedi sulla nave, soltanto perché questo gli è saltato in testa, quando invece il pilota ordina di sedersi. E credo che neppure chiamerebbe libero e degno d’emulazione l’uomo che, quando il pilota comanda di buttare fuori dalla nave l’acqua accumulatasi nella sentina o di tirare giù le vele, invece né svuota la sentina né mette mano alle funi perché in questo modo lui fa quel che gli pare. (6) Di certo, poi, uno non chiamerebbe schiavi i soldati perché ascoltano il generale, perché si levano in piedi quando egli ne dà l’ordine, perché consumano il cibo, prendono le armi, si dispongono in formazione, attaccano e si ritirano non altrimenti che come e quando il generale lo comanda. E quando obbediscono ai medici, gli ammalati non diranno certo di essere per questo degli schiavi. (7) Eppure essi obbediscono loro in cose né spicciole né facili, giacché i medici ingiungono a volte di digiunare e di astenersi da qualunque bevanda. Quando poi il medico ritenga di dover legare il paziente, ecco che immediatamente egli è legato; e se ritiene di dover operare un taglio e di cauterizzare, ecco che egli sarà tagliato e cauterizzato per quanto pare al medico. Se invece il paziente non obbedisce, tutti i presenti in casa fanno da assistenti al medico; e non soltanto gli uomini liberi ma spesso i domestici stessi dell’ammalato legano strettamente il padrone, recano il fuoco così che egli possa essere cauterizzato e si prestano per tutti gli altri servizi. (8) Non diresti dunque che quest’uomo, il quale sopporta molte cose spiacevoli per ordine di un altro, è un uomo libero? Certamente non diresti che non era un uomo libero Dario, il gran re dei Persiani, poiché, essendo caduto da cavallo nel corso di una battuta di caccia ed essendosi slogato una caviglia, diede ascolto ai medici, ed erano medici che venivano dall’Egitto, i quali gli tiravano e torcevano il piede per rimettere a posto l’articolazione. A sua volta, non diresti che non era un uomo libero Serse, quando, ritirandosi dalla Grecia e colto da una tempesta mentre era in nave, obbedì in tutto e per tutto al pilota e non si permise né di fare un cenno col capo né di cambiare posto contro il parere del pilota. Pertanto non si affermerà più che la libertà consiste nel non dare alcun ascolto ad altre persone o nel fare qualunque cosa si voglia. (9) Ma forse i più diranno che questi individui ascoltano gli ordini perché sono ordini che mirano al loro utile, com’è il caso dei passeggeri col pilota della nave. Ed è per questo motivo che i soldati obbediscono al generale ed i pazienti al medico, giacché costoro null’altro ingiungono se non ciò ch’è utile a chi esegue i loro ordini. 
– Invece i padroni non ordinano ai loro schiavi ciò che sarà utile a questi ultimi, bensì ciò che i padroni credono (10) essere vantaggioso per loro stessi. 
– Ma che dici? È forse utile al padrone che il suo domestico muoia o che si ammali o che sia un schiavo malvagio? Nessuno direbbe questo. Ben al contrario, io credo, è utile al padrone che il domestico viva, sia in salute e sia un buon servo. Queste stesse cose parranno utili anche al domestico; sicché il padrone, se è assennato, ingiungerà di fare ciò che è non meno utile al servo, giacché queste sono le cose che paiono utili anche al padrone stesso. 
– (11) Ma l’uomo, chiunque sia, per il cui acquisto uno abbia versato del denaro, è necessariamente uno schiavo.
– Eppure molti non hanno forse pagato del denaro per tanti uomini che erano liberi cittadini, alcuni dando il prezzo del riscatto ai nemici, altri ai briganti? E altri ancora non hanno forse pagato il prezzo del loro riscatto ai padroni? E questi padroni non sono di certo schiavi di se stessi.
– (12) Però qualora uno abbia la potestà di frustare un altro, di metterlo in catene, di eliminarlo o di fare di lui qualunque altra cosa voglia, allora quest’individuo è schiavo di quello.
– Che dici? I briganti non hanno la potestà di fare ciò a coloro che hanno catturato? E nondimeno questi prigionieri non sono degli schiavi. E allora? I giudici non hanno la potestà di comminare il carcere, la morte o qualunque altra pena vorranno a molti dei giudicati? E costoro non sono certo degli schiavi. E se anche lo fossero per un giorno, quello nel quale ciascuno di loro è giudicato, ciò non significherebbe nulla; giacché chi ha mai sentito dire che un uomo è stato schiavo per un giorno solo? 
– (13) Ma invero bisogna pur dichiarare, per dirlo in poche parole, che chiunque ha la potestà di fare ciò che vuole è un uomo libero, mentre invece chi non ha questa potestà è uno schiavo.
– No, tu non potrai dire questo di chi naviga, né degli ammalati, né di chi è impegnato in una campagna militare, né di quanti stanno imparando le lettere, o a suonare la cetra, o i movimenti della lotta, o qualche altra arte. A costoro, infatti, è concesso di effettuare non le azioni che vogliono, bensì quelle che comandano il pilota, il medico o l’insegnante. E neppure gli altri uomini hanno la potestà di fare quel che vogliono, giacché chi effettuerà qualcosa che va contro le leggi in vigore sarà punito.
– (14) Dunque, chi ha la potestà di effettuare oppure no, e come vuole lui, quanto è compreso entro l’ambito di ciò che è stato né proibito né ordinato dalle leggi è un uomo libero; mentre chi, al contrario, non ha questa potestà è uno schiavo.
– Che dici? Credi tu di avere la potestà di effettuare tutto ciò che non è espressamente proibito dalle leggi ma che peraltro gli uomini reputano vergognoso e fuori luogo: intendo, per esempio, fare l’esattore d’imposte, il tenutario di un bordello o altre attività simili?
– No, per Zeus. Io direi anzi che siffatte attività non sono neanche concesse a chi è libero, giacché esse comportano quale pena d’essere odiati ed abominati dagli uomini.
– (15) E allora? Nel caso degli spudorati, quanto costoro fanno a causa della loro impudenza; nel caso dei dissennati, quanto costoro fanno a causa della loro sconsideratezza, trascurando le loro sostanze o il loro corpo o trattando gli altri uomini ingiustamente e scriteriatamente: ebbene, tutte queste cose non sono altrettante penalità per coloro che le fanno? Infatti essi ne vengono danneggiati o nel corpo o nelle sostanze o, penalità più grande di tutte, nel loro animo.
– Questo che dici è vero.
– Pertanto neppure è lecito effettuare queste cose.
– Certo che no.
– (16) In una parola, non è lecito effettuare azioni viziose, assurde e inutili; mentre è d’uopo affermare che è conveniente e lecito effettuare quelle giuste, utili e virtuose?
– A me sembra che sia così.
– Dunque, per nessuno è senza punizione il fare azioni viziose e sconvenienti, sia egli greco o barbaro …. e neppure se ha pagato un prezzo in denaro per l’acquisto di chiunque?
– Certo che no.
– A tutti è però similmente accordata la possibilità di fare il contrario, e coloro che effettuano queste azioni trascorrono la vita senza punizione alcuna, mentre coloro che effettuano le azioni vietate sono puniti.(17) A te sembra che quanti effettuano le azioni lecite siano diversi da coloro che hanno scienza di esse, e che quanti effettuano le azioni contrarie siano diversi dagli ignoranti? 
– In nessun modo diversi da costoro.
– Pertanto tutto ciò che gli uomini saggi decidono di effettuare è loro lecito. Invece tutto ciò che le persone stolte decidono, non è lecito a chi mette mano ad effettuarlo. Cosicché è necessario che i saggi siano uomini liberi e che sia loro lecito fare ciò che dispongono, mentre è invece necessario che i dissennati siano individui schiavi e che facciano proprio ciò ch’è loro non lecito. 
– Forse è così.
– (18) Dunque è d’uopo anche chiamare la libertà scienza delle cose che è accordato effettuare e di quelle che è impedito effettuare; e chiamare la schiavitù ignoranza delle cose lecite e di quelle illecite. Da questo discorso discende la conclusione che nulla impedirebbe che il Gran Re, pur portando sulla testa una grandissima tiara, sia uno schiavo e che non gli sia lecito effettuare nessuna delle cose che fa, giacché quelle che effettua comportano per lui altrettante penalità e sono tutte altrettanto inutili. Se ne conclude anche che invece un altro individuo, che sembra uno schiavo e che così è chiamato; che è stato venduto non una volta sola ma, se così capita, molte volte; che, se così dovesse avvenire, porta pesantissimi ceppi, è più libero del Gran Re.
– (19) A me sembra del tutto assurdo che un uomo il quale porta dei ceppi, che è marchiato o che fa girare la macina in un mulino, sia più libero del Gran Re.
– Che dici? Sei mai stato in Tracia?
– Io sì, certo.
– Dunque là hai visto le donne di condizione libera piene di marchi, e con un numero di simili tatuaggi tanto maggiore e tanto più vari quanto più esse sono nobili e di nobile casata.
– E cosa significa questo?
– (20) Significa che nulla impedisce, com’è verosimile, che la regina sia marchiata. Credi tu di poter impedire un re? Tu quindi non hai sentito parlare di quel popolo presso il quale il re è custodito in un’altissima torre ed a cui non è lecito scendere dalla torre? Se ne avessi sentito parlare, sapresti che è possibile essere re anche se si è tenuti in completo isolamento. E se tu narrassi loro del Re dei Persiani, caso mai sentiresti quegli uomini manifestare grande stupore e non credere affatto che possa esistere un re che se ne va in giro su un carro e che va dove vuole.
– Però tu non potrai dimostrare che uno in catene è un re.
– Forse un re degli uomini, no. Ma il re degli Dei, il primo e più antico re è stato, come si racconta, messo in catene; almeno se bisogna credere ad Esiodo, ad Omero e ad altri uomini sapienti i quali questo dicono di Crono. E fu incatenato, per Zeus, non ingiustamente ad opera di un suo nemico personale; ma subì questo trattamento da parte del suo figlio più caro, il quale stava manifestamente riservando al padre un trattamento regale e a lui conveniente. (22) Però gli uomini ignorano questi fatti e non crederebbero mai che un poveraccio, qualcuno in catene o una persona screditata possa essere un re; seppure sentano raccontare che Odisseo, quand’era un poveraccio e un postulante presso i pretendenti, era nondimeno il re e il padrone di casa; mentre Antinoo ed Eurimaco, che Omero denominava re, erano persone meschine e preda della malasorte. Questi fatti, come dicevo, gli uomini li ignorano e si cingono, quali segni regali, di tiare, di scettri e di diademi, affinché non sfugga a nessuno che essi sono dei re; come, io credo, fanno i padroni quando marchiano il bestiame affinché esso sia facilmente distinguibile. (23) È appunto per questo che il re dei Persiani si preoccupava di essere l’unico a portare la tiara diritta; e se qualcun altro lo faceva, subito il re ordinava di mandarlo a morte, come se fosse né bene né utile che tra tante decine di migliaia di uomini ce ne fossero due che portavano in capo la tiara diritta. E però non gli importava un bel nulla di avere retta l’intelligenza e che (24) nessun altro avesse una mente più saggia della sua. Io dunque non vorrei che come esistevano allora siffatti segni del potere regale, dovessero esistere anche oggi simboli del genere per la libertà; e che si dovesse incedere portando in testa un berretto di feltro, perché altrimenti non potremo riconoscere l’uomo libero dallo schiavo. 

Orazione n. 15

SULLA SCHIAVITU’ E LA LIBERTA’   II

(1) Poco tempo fa, posso assicurarvi, fui presente ad una lunghissima discussione tra due persone che dibattevano circa la schiavitù e la libertà, non davanti a dei giudici né sulla pubblica piazza, ma in casa e a loro agio, avendo ciascuno dalla sua parte non pochi degli astanti. Secondo me era capitato che in precedenza essi avevano dibattuto altre questioni, e che uno dei due, trovatosi nel corso del dibattito sconfitto e a corto di argomenti, s’era dato ad ingiuriare l’altro, come suole accadere spesso, e gli aveva rinfacciato di non essere un uomo libero. Al che l’altro sorrise con grande mitezza e disse:
– (2) E da cosa sei in grado di dirlo? È possibile, mio caro, sapere chi è schiavo e chi è libero? 
– Sì, per Zeus, rispose quello; io so bene di essere un uomo libero e che liberi sono tutti i presenti, mentre tu con la libertà non c’entri proprio nulla.
Alcuni degli astanti risero, ma l’altro non provò punto vergogna. E come i galli da combattimento davanti alla botta subita si scuotono e prendono coraggio, così lui pure, davanti all’ingiuria, si scosse e prese coraggio, domandandogli donde gli veniva questa conoscenza riguardo a loro due.
– (3) Dal fatto che io so per certo che mio padre è Ateniese quant’altri mai, mentre il tuo è un servo domestico del tale – e ne disse il nome.
– Se è così, disse allora l’altro, che cosa m’impedisce di fare gli esercizi ginnici e di ungermi d’olio nel Cinosarge insieme ai figli bastardi, visto che mi capita d’essere nato da una madre di condizione libera, e forse addirittura cittadina Ateniese, e dal padre di cui parli tu? Non è forse vero che molte cittadine Ateniesi, a causa dell’isolamento e della penuria di maschi, sono rimaste incinte alcune ad opera di stranieri ed altre di schiavi, alcune ignorando questo fatto ma altre anche ben sapendolo? Nessuno dei figli generati così è schiavo, ma soltanto non è cittadino Ateniese.
– (4) Ma io so bene, disse quello, che anche tua madre è una serva domestica come tuo padre.
– E sia pure, rispose l’altro; ma tu sai chi è tua madre?
– Lo so benissimo: è cittadina Ateniese, figlia di Ateniesi e che ha anche portato al marito una bella dote.
– Potresti tu affermare sotto giuramento di essere figlio dell’uomo che dice tua madre? Telemaco, come sai, non riteneva affatto il caso di sostenere con tutte le sue forze, in difesa di Penelope figlia di Icario, la quale era reputata una moglie della massima castigatezza di costumi, che ella dice la verità quando dichiara che Odisseo è suo padre. Tu invece giureresti non soltanto in difesa tua e di tua madre, ma se qualcuno te lo intimasse giureresti, a quanto pare, anche a proposito di non importa quale schiava, come tu affermi essere mia madre, di sapere ad opera di chi rimase incinta. (5) Ti sembra impossibile che ella sia rimasta incinta ad opera di un altro uomo, di un libero cittadino o del suo stesso padrone? Non sono molti gli Ateniesi che hanno rapporti sessuali con le loro ancelle, alcuni di nascosto ma altri anche apertamente? Tutti gli Ateniesi, infatti, non sono certo migliori di Eracle, il quale non stimò indegno avere rapporti sessuali con la schiava di Iardano, dalla quale nacquero i re di Sardi. (6) Non ti pare che Clitennestra, figlia di Tindareo e moglie di Agamennone, abbia avuto rapporti coniugali, com’è verosimile, con suo marito Agamennone; e che quando questi se ne andò lontano abbia avuto rapporti sessuali con Egisto? Non ti pare che Aerope, la moglie di Atreo, abbia accettato le profferte di Tieste; e che molte altre mogli di uomini celebri e ricchi, sia anticamente che di questi tempi, abbiano avuto rapporti sessuali con altri uomini, e che a volte abbiano avuto da essi dei figli? Tu invece sei sicuro che l’ancella di cui parli abbia custodito la propria fedeltà a suo marito così precisamente da non avere avuto rapporti sessuali con nessun altro. (7) Per di più tu garantisci, a tuo ed a mio riguardo, che ciascuno di noi due è figlio di colei che sembra e si dice essere nostra madre. Eppure potresti dire il nome di molti Ateniesi, e dei più conosciuti, dei quali fu in seguito acclarato non soltanto che non erano figli del padre, ma neppure della madre che si diceva; trattandosi di bambini allevati da qualche parte come figli suppositizi. Queste vicende le vedi mostrate e raccontate ogni volta dagli scrittori di commedie e nelle tragedie; e tu nondimeno insisti egualmente a dire, a tuo ed a mio riguardo, di sapere bene le circostanze della nostra nascita e da chi siamo nati. (8) Non sai, concluse, che la legge permette di intentare un processo per calunnia contro colui che diffama qualcuno senza poter dimostrare chiaramente nulla di ciò di cui parla?
– Io so bene, disse quello, che se non hanno figli perché non riescono a rimanere incinte, le donne di condizione libera fanno spesso passare un figlio altrui come proprio; volendo ciascuna di esse tenersi stretto il proprio marito e conservare la casa, e poiché nel contempo non mancano loro i mezzi coi quali allevare i bambini. So anche che delle schiave, al contrario, alcune abortiscono; ed altre, se possono tener ciò nascosto e a volte anche con la complicità dei mariti, uccidono il bambino dopo il parto per non avere fastidi e non essere costrette, oltre al lavoro servile, anche ad allevare il neonato. 
– (9) Sì, per Zeus, disse l’altro, se però si eccettua quella schiava di Oeneo, figlio bastardo, si diceva, di Pandione. Infatti, il pastore di Oeneo e sua moglie, che vivevano ad Eleutere, non soltanto non esponevano i figli da loro generati, ma raccoglievano anche neonati non loro che trovavano per strada, senza sapere di chi fossero; li allevavano come figli loro e mai in seguito ammisero volontariamente che fossero figli altrui. Tu invece forse copriresti d’ingiurie anche Zeto ed Anfione, prima che la loro identità diventasse chiara; e circa dei figli di Zeus giureresti che sono degli schiavi.
– (10) Quello allora rise molto ironicamente e disse: ‘E tu chiami testimoni gli scrittori di tragedie?’
– Sì, disse l’altro, chiamo a testimoniare coloro nei quali i Greci hanno fiducia. Giacché quelli che i tragediografi ci mostrano come eroi, ebbene è a costoro che i Greci offrono sacrifici come ad eroi; ed è possibile vedere che i sacrari degli eroi sono stati edificati in loro onore. E fatti lo stesso concetto, se vuoi, anche della schiava Frigia di Priamo, la quale, presolo dal marito che era un bovaro, allevò Alessandro sul monte Ida come figlio suo, e portò innanzi l’allevamento del bambino senza esserne affatto incomodata. I Greci raccontano anche che Telefo, il figlio di Auge e di Eracle, non fu allevato da una donna ma da una cerva. E a te sembra che una cerva avrebbe più compassione di un neonato e proverebbe più desiderio di allevarlo di un essere umano, pur se costui è una schiava? (11) Orsù, per gli Dei! E se io pur ammettessi con te che i miei genitori sono quelli che tu dici, come fai tu a sapere che sono degli schiavi? Oppure tu conoscevi con assoluta certezza anche i loro genitori, e sei pronto a giurare a loro proposito che entrambi erano nati da genitori tutti e due schiavi, e che ciò vale anche per le generazioni precedenti e così per tutti loro fin dal principio? È infatti manifesto che qualora un membro della discendenza sia di condizione libera, non è più permesso né corretto legittimare i suoi discendenti come schiavi. Ciò non è possibile, mio caro, perché è impossibile, come si dice, che da tutta l’eternità esista una generazione di uomini nella quale non siano nati un numero sconfinato di individui di condizione libera, e in numero non minore individui di condizione schiava; e poi che non vi siano stati tiranni, re, prigionieri, schiavi marchiati, bottegai, calzolai e addetti a tutte quante le altre attività umane: tutta gente passata attraverso ogni sorta di lavoro, ogni sorta di vita, ogni sorta di fortuna e di guai. (12) Non sai che è questo il motivo per cui i poeti fanno risalire direttamente agli Dei la discendenza dei cosiddetti eroi, di modo che non si possa indagare più oltre il personaggio? Essi affermano anche che la maggior parte di tali eroi sono discendenti di Zeus, affinché i loro re, i loro fondatori di città e i loro eroi eponimi non si imbattano in situazioni tali che agli uomini sembrano essere vergognose e disonorevoli. Pertanto, se lo stato delle cose umane è questo che diciamo noi e che dicono altri più sapienti di noi, quanto a discendenza a te non si converrebbe più libertà, ed a me più schiavitù, di quanta ne convenga a chiunque di coloro che sembrano essere puri e semplici servi domestici, a meno che anche tu non faccia in fretta risalire i tuoi progenitori a Zeus o a Poseidone o ad Apollo.
– (13) Lasciamo dunque stare, disse quello, la faccenda della discendenza e degli antenati, poiché a te sembra una questione così difficile da appurare e poiché forse ne risulterà addirittura che tu sei come un Anfione, uno Zeto o come Alessandro, il figlio di Priamo. Quanto a te proprio, però, noi tutti sappiamo che sei di condizione servile.
– Ma che dici? continuò l’altro. A te sembra che tutti gli individui di condizione servile siano degli schiavi? Molti di essi non sono uomini liberi ingiustamente tenuti in schiavitù? Alcuni di questi, infatti, hanno adito i tribunali ed hanno dimostrato di essere uomini liberi. Altri, invece, sopportano di restare per sempre in stato servile poiché non hanno modo di dimostrare chiaramente la loro libertà, oppure affinché i cosiddetti padroni non siano duri e violenti con loro. (14) Orsù, prendi Eumeo, figlio di Ctesia, a sua volta figlio di Ormeno. Eumeo era figlio di un uomo assolutamente libero e ricco, eppure non svolgeva forse mansioni servili ad Itaca, presso Odisseo e Laerte? E pur essendogli permesso di navigare spesso verso casa, se così voleva, non ritenne mai il caso di farlo. E allora? Molti Ateniesi catturati in Sicilia, pur essendo uomini liberi non rimasero come schiavi in Sicilia e nel Peloponneso? E dei prigionieri di guerra catturati in molte altre battaglie, alcuni non rimasero schiavi per qualche tempo, ossia fino a che non trovarono chi pagava il loro riscatto; mentre altri lo rimasero per sempre? (15) Sembra che anche il figlio di Callia sia stato schiavo per lungo tempo in Tracia, dopo la battaglia nei pressi di Acanto nella quale gli Ateniesi furono sconfitti. Sicché successivamente, essendo riuscito a fuggire dalla prigionia ed a tornare a casa, egli avanzò pretese sull’eredità del padre e procurò molti fastidi ai parenti. Quello era però, io credo, un falso figlio di Callia, in quanto non ne era il figlio ma lo stalliere, simile soltanto di vista al figlio adolescente di Callia, cui invece era capitato di morire in battaglia. Egli, inoltre, parlava greco correttamente e conosceva le lettere; (16) ma miriadi di altre persone hanno sofferto vicende simili; poiché anche ora, di coloro che sono schiavi qui dove ci troviamo io non disconosco che molti sono uomini liberi. Se infatti un libero cittadino Ateniese preso prigioniero in guerra, sarà condotto in Persia oppure, per Zeus, portato in Tracia o in Sicilia e colà venduto, noi non diremo che costui è uno schiavo. Se invece sarà portato qui un Trace o un Persino, non soltanto nato colà da genitori di condizione libera ma pure figlio di qualche principe o di qualche re, noi non ammetteremo che costui sia un uomo libero. (17) Non sai, continuò, che ad Atene e in molti altri Stati, la legge non permette a chi è schiavo di partecipare dei diritti di cui godono i cittadini? Nessuno invece avrebbe sollecitato di escludere dalla cittadinanza Ateniese il figlio di Callia, se davvero egli si salvò dopo la cattura e giunse qui dalla Tracia dopo esservi vissuto per lunghi anni ed esservi stato spesso frustato. Sicché in certi casi anche la legge afferma perentoriamente che quanti sono tenuti ingiustamente in condizione servile non sono per questo diventati schiavi. (18) Per gli Dei, cosa sai tu che io faccio o subisco, per affermare di sapere che io sono uno schiavo?
– Io so che tu sei nutrito dal tuo padrone, che lo segui, che fai qualunque cosa egli ti ingiunga; e che se non la fai sei picchiato.
– Dicendo così, rispose l’altro, tu stai dichiarando che anche i figli sono schiavi dei loro padri. Infatti i figli seguono i padri, soprattutto se poveri, e vanno con loro in palestra o a pranzo. Tutti i figli sono nutriti dai padri, sono spesso da loro picchiati ed ubbidiscono a qualunque cosa i padri ingiungano loro di fare. (19) E a motivo dell’ubbidire e del prendere botte, allora tu dirai che quanti imparano le lettere sono servi domestici dei loro maestri di grammatica; e che gli istruttori di ginnastica o gli insegnanti di qualcos’altro sono padroni dei loro allievi, giacché in effetti essi ingiungono loro certe cose e li battono quando non ubbidiscono.
– Per Zeus, disse quello, così è; però né gli istruttori di ginnastica né gli altri insegnanti possono imprigionare i loro allievi né venderli, e neppure possono sbatterli in un mulino a far girare la macina; mentre tutte queste punizioni sono invece permesse ai padroni.
– (20) Forse tu non sai che in molti Stati retti da buonissime leggi, le cose che tu dici sono nella potestà dei padri verso i figli. I padri, infatti, possono imprigionare i figli quando vogliono, possono venderli e, cosa ancor più dura e violenta, possono ucciderli senza far loro un processo e senza neppure incriminarli di qualcosa. Eppure nondimeno essi non sono gli schiavi dei padri, ma i figli. E se io pur fossi uno schiavo quant’altri mai e giustamente schiavo fin dalla nascita; cosa impedisce, continuò l’altro, che io sia adesso nondimeno un uomo libero e che tu a tua volta, pur se fossi nato da genitori liberissimi, sia al contrario schiavo più di chiunque altro?
– (21) Io, disse quello, non vedo come potrò mai essere uno schiavo. Non è invece impossibile che tu divenga un uomo libero se il tuo padrone ti emancipa.
– O carissimo, rispose l’altro, che dici mai? Davvero nessuno schiavo potrebbe diventare libero se non per emancipazione dal proprio padrone?
– E come, se no? chiese quello.
– In questo modo: dopo la battaglia di Cheronea, gli Ateniesi decretarono che i servi domestici i quali avessero in futuro preso parte alla guerra sarebbero diventati uomini liberi. Se dunque la guerra fosse continuata e Filippo non avesse fatto pace con loro troppo presto, molti o praticamente tutti i servi domestici Ateniesi sarebbero oggi uomini liberi, senza essere stati emancipati uno per uno dal loro padrone.
– Sia pur così, se lo Stato ti libererà a sue spese.
– (22) Ma che dici? Ti pare che io non potrò liberarmi da solo?
– Sì, se verserai al tuo padrone il denaro che hai trovato da qualche parte.
– Non intendo in questo modo, ma nel modo in cui Ciro liberò non soltanto se stesso ma anche tutti i Persiani, una folla così numerosa di persone, senza versare ad alcuno del denaro e senza essere liberato dal proprio padrone. Non sai che Ciro era un vassallo di Astiage, e che quando poté e gli parve il momento divenne libero e re dell’Asia intera?
– E sia. Ma come fai a dire che io potrei diventare schiavo?
– (23) Io dico che in effetti miriadi di uomini liberi vendono se stessi per lavorare come schiavi a contratto, a volte a condizioni non solo inique ma durissime.

Fino a questo punto i presenti avevano prestato attenzione ai discorsi dei due come a cose dette non tanto sul serio quanto per scherzo. Successivamente, però, i due entrarono in una seria disputa, giacché sembrò loro assurdo che non si potesse invocare una prova certa grazie alla quale distinguere in modo incontestabile lo schiavo dall’uomo libero; e che invece fosse facilmente possibile in qualunque caso mettere in piedi una controversia ed obiettare polemicamente. (24) Lasciata pertanto cadere la considerazione dello specifico caso della schiavitù o meno di uno dei due, essi presero a considerare chi sia in generale lo schiavo. E parve ad essi che qualora uno entri in pieno e incondizionato possesso di un essere umano, così com’è padrone assoluto di qualunque altro dei suoi beni o dei suoi capi di bestiame, tanto da avere la potestà di servirsene come vuole, allora quest’essere umano può rettamente essere chiamato, e di fatto è, schiavo del suo possessore.
Ma a questo punto quello cui era stato rinfacciato di essere uno schiavo mise di nuovo in piedi una controversia, obiettando polemicamente di voler sapere cosa fosse il ‘pieno e incondizionato possesso’. (25) Giacché, diceva, era già venuto chiaramente in luce come molti di coloro che da lungo tempo possedevano una casa, un podere, un cavallo o un bue, e taluni avendoli ricevuti dai propri padri, non godevano di tale possesso secondo giustizia; e pertanto, allo stesso modo, era possibile anche l’ingiusto possesso di un essere umano. Infatti, come nel caso di tutti gli altri beni, tra i beni che si acquisiscono ci sono anche i servi domestici, che alcuni padroni prendono da altri possessori o per cessione gratuita, o per eredità, o per acquisto oneroso; mentre altri schiavi essi li possiedono fin dal principio, in quanto sono stati generati presso gli stessi padroni e sono quelli che si chiamano schiavi nati in casa. Il terzo modo di acquisire uno schiavo è quando si prenda qualcuno prigioniero in guerra, oppure lo si rapisca e lo si riduca in schiavitù; modo, questo, che io credo sia il più antico di tutti. Non è infatti verosimile che i primi individui diventati schiavi siano nati da uomini fin dal principio per natura schiavi, bensì che per rapimento o per cattura in guerra alcuni individui siano poi stati costretti alla schiavitù da coloro che li avevano catturati. (26) Dunque questo antichissimo modo dal quale tutti gli altri dipendono è, quanto a giustizia, debolissimo e per nulla fondato; sicché qualora quegli schiavi possano fuggire, nulla impedisce che essi siano di nuovo uomini liberi; e poiché erano ingiustamente schiavi ne consegue che essi non erano schiavi neppure prima. A volte, poi, questi schiavi non soltanto fuggirono dalla schiavitù ma ridussero in schiavitù i loro stessi padroni. Anche in questo caso, come si dice, a seconda di come cade e si rivolta il coccio, tutto diventa il contrario di com’era prima. A questo punto uno dei presenti disse che forse quelli non potrebbero essere chiamati schiavi in senso proprio, ma che ai loro figli e a quelli di seconda e terza generazione potrebbe convenire in senso proprio il nome di schiavi. 
– (27) Ma com’è possibile ciò? Se infatti a fare uno schiavo è la cattura, questo nome converrebbe a coloro che sono stati catturati ben più che ai loro discendenti. Se invece a fare uno schiavo è la nascita da genitori schiavi, poiché i catturati sono manifestamente degli uomini liberi, i loro discendenti non potrebbero essere dei servi domestici. Noi ad esempio vediamo che dopo tanti anni i famosi Messeni recuperarono non soltanto la libertà ma anche le loro terre. (28) Quando infatti gli Spartani furono sconfitti a Leuttra dai Tebani, questi ultimi e i loro alleati entrarono militarmente nel Peloponneso, costrinsero gli Spartani a cedere la Messenia e reinsediarono a Messene quanti erano originari di quella regione, e che in precedenza erano tenuti in schiavitù dagli Spartani e chiamati Iloti. E nessuno afferma che i Tebani abbiano compiuto queste imprese contro giustizia, bensì del tutto onorevolmente e secondo giustizia. Se pertanto questo modo, dal quale tutti gli altri originano, di entrare in possesso di un uomo non è giusto, si rischia che nessun altro lo sia, e dunque che effettivamente la parola ‘schiavo’ non sia pronunciata secondo verità. (29) Può tuttavia darsi che la parola ‘schiavo’ non sia stata da principio pronunciata in questo senso, ossia a proposito di colui per il cui corpo qualcuno abbia versato del denaro; oppure, come ritengono i più, che schiavo sia chi è nato da genitori schiavi; ma che il termine ‘schiavo’ indicasse piuttosto chi è d’animo non libero ed incline al servilismo. Noi infatti ammetteremo che dei cosiddetti schiavi molti sono certamente uomini d’animo libero, e che invece molti dei cosiddetti uomini liberi sono persone del tutto inclini al servilismo. Ciò vale anche per le persone ‘di nobile indole’ e ‘bennate’. Dapprima gli uomini chiamarono così coloro che mostravano d’essere nati per la virtù, senza impicciarsi di sapere di chi fossero figli. Successivamente, però, i discendenti di famiglie d’alta reputazione e d’antica ricchezza furono da alcuni chiamati ‘bennati’. (30) Di ciò rimane un segno chiarissimo nel fatto che la designazione ‘di razza’, quale era stata applicata anche agli uomini in tempi antichi, si è conservata nel caso dei galli, dei cavalli e dei cani. Chi infatti vede un cavallo focoso, fiero, ben dotato per la corsa, senza cercare di sapere se il padre sia uno stallone proveniente dall’Arcadia o dalla Media o dalla Tessaglia, lo giudica per le sue doti e dice che è un cavallo ‘di razza’. Similmente, se chi è esperto di cani vede una cagna veloce, piena di slancio e sagace nel seguire le orme, non va a cercare se sia di un genere proveniente dalla Caria, dalla Laconia o da qualche altra regione, ma dice che è una cagna ‘di razza’. La stessa cosa vale nel caso di un gallo e degli altri animali. (31) È dunque manifesto che la faccenda starebbe in questi termini anche nel caso degli uomini. Sicché chi sarà bennato per la virtù, costui conviene che sia chiamato di nobile indole, anche se nessuno conosce i suoi genitori né i suoi antenati.
– Ma non è proprio possibile che uno sia ‘di nobile indole’ e che non sia ‘bennato’, né che sia ‘bennato’ e che non sia un uomo ‘libero’: sicché è anche del tutto necessario che chi è ‘ignobile’ sia uno ‘schiavo’. Dunque s’intende che se ci fosse l’abitudine di parlare della libertà e della schiavitù come se ne parla nel caso dei cavalli, dei galli e dei cani, noi non diremmo che alcuni sono ‘di razza’ ed altri invece sono ‘liberi’, né  che alcuni sono ‘schiavi’ ed altri invece sono ‘ignobili’.
– (32) Allo stesso modo, anche nel caso degli uomini non è verosimile chiamare alcuni ‘di nobile indole’ e ‘bennati’ ed altri invece ‘liberi’, giacché deve trattarsi delle stesse identiche persone; e così pure è inverosimile chiamare alcuni ‘ignobili’ e ‘servi nell’animo’ ed altri invece ‘schiavi’.
– Così il ragionamento rende palese che a fare un cattivo uso dei nomi non sono i filosofi bensì la maggioranza degli uomini dissennati, per la loro inesperienza in materia.

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Omaggio a Socrate – Apologia di Socrate  Riassunto secondo il testo del dialogo di Platone

APOLOGIA DI SOCRATE

Primo discorso: sulla colpevolezza  di Socrate (17a-35d) 

1) Esordio
Io, a differenza dei miei accusatori, dirò soltanto la verità; e lo farò esprimendomi nel modo che mi è solito (17a-18a)

2) Piano di sviluppo della mia difesa 
Io mi difenderò innanzitutto dalla marea dei miei antichi accusatori, Aristofane in testa, che fanno di me un ‘pensatore della natura’ interessato ai fenomeni celesti e sotterranei; nonché un ‘sofista’ capace di far prevalere il falso e l’ingiusto sul vero e sul giusto. Mi difenderò poi dalle accuse recenti di Anito e dei suoi compari (18a-19a)

3) Confutazione (19a-28)

3a) Confutazione degli antichi accusatori (19a-24b)

3aa) Chi io non sono (19a-20c)

3aaa) Io non sono un ‘pensatore della natura’, e per dimostrarlo mi basta fare appello alla testimonianza personale della stragrande maggioranza dei giudici presenti, che mi conoscono bene (19a-19d) 

3aab) Io non sono un ‘sofista’ come Gorgia di Leontini, Prodico di Ceo o Ippia di Elide. Costoro si dichiarano capaci di trasmettere un sapere che permette ai giovani di raggiungere quell’eccellenza che conviene a chi è uomo e cittadino, e si fanno pagare per questo. Ma io purtroppo non possiedo questo sapere; tant’è vero che il facoltosissimo Callia, interrogato una volta in proposito proprio da me, affermava di voler affidare l’educazione dei suoi due figli  non a me ma ad Eveno di Paro (19d-20c) 

3ab) Chi io sono, e qual è l’origine delle calunnie contro di me (20c-24b)

3aba) Io non parteggio per nessuna delle fazioni politiche della città; non sono un poeta; non esercito alcun mestiere artigianale. Di cosa mi occupo dunque? Donde  vengono le calunnie di cui sono vittima? (20c) 

3abaa) Oggetto del mio sapere sono i giudizi capaci di fare di un ‘essere umano’ un ‘uomo che vive bene’. Sono dunque qualcosa di nuovo. Io sono un ‘filosofo’. E’ possibile che il sapere di Gorgia, di Prodico e di Ippia sia di un rango superiore alla ‘filosofia’, ma  in ogni caso io non possiedo questo sapere. Chi afferma il contrario dice una menzogna e mi calunnia (20d-20e) 

3abab) Sulla esistenza e sulla natura di questo mio sapere, sulla ‘filosofia’, io chiamo come testimone Apollo, il dio di Delfi (20e) 

3abac) Infatti Cherefonte, mio amico d’infanzia, osò una volta interrogare l’oracolo di Delfi per domandare se esistesse qualcuno più sapiente di me. La Pizia rispose che nessuno era più sapiente di me. Poiché Cherefonte è ormai morto, io chiamo a testimone di questo fatto il fratello di lui, Cherecrate (21a)
 
3abb) La mia inchiesta sul significato del responso dell’oracolo è all’origine delle calunnie di cui sono vittima (21b-22e) 

3abba) Non ritenendomi sapiente dei comuni saperi e siccome, però, Apollo non poteva mentire, mi risolsi di interrogare coloro che sono solitamente considerati sapienti. Se, tra di loro, io avessi potuto trovare qualcuno più sapiente di me, ecco che l’oracolo sarebbe stato provato falso (21b-21c)   

3abbb) La prima categoria di persone che interrogai fu quella dei cosiddetti politici. Oggetto del loro sapere sono i giudizi che portano alla conquista ed al mantenimento del ‘potere politico’. Questi individui passano agli occhi di molta gente, e soprattutto ai loro stessi occhi, per sapienti. Ma così non è. Io sono più sapiente di loro in quanto, almeno, so di non  sapere come si possa conquistare e  mantenere il ‘potere politico’. Essi immaginano, invece, di saperlo anche se, a causa della imprevedibilità degli esiti delle lotte di fazione, essi in realtà non lo sanno. Il risultato di questa inchiesta fu, per me, quello di attirarmi l’inimicizia dei ‘politici’ e dei loro galoppini (21c-21e) 

3abbc) La seconda categoria di persone che interrogai fu quella dei poeti. Portando con me le loro opere migliori, mi recai dai poeti e li interrogai incessantemente sul cosa avevano voluto dire nelle loro composizioni. Scoprii così che essi erano incapaci di rispondere alle mie domande, e mi convinsi che le loro composizioni non scaturiscono da un sapere ma da una disposizione naturale e da una possessione divina simile a quella di coloro che fanno profezie o rendono oracoli. Io sono più sapiente di loro in quanto, almeno, so di non sapere come si  compongano opere tanto mirabili. I poeti immaginano, invece, di saperlo. Ma così non è. Oggetto del loro sapere sono infatti soltanto i giudizi che rendono possibile la composizione di tragedie, commedie, ditirambi, eccetera; e non quel talento indipendente dalla ragione per cui essi si considerano, a torto, tra gli uomini più sapienti (22a-22c)

3abbd) La terza categoria di persone che interrogai fu quella degli artigiani. Oggetto del sapere di ciascuno di loro sono i giudizi che assicurano l’efficacia di ciascuna arte particolare. Da questo punto di vista trovai che effettivamente essi erano più sapienti di me. Ma mi resi anche conto che essi pretendevano del tutto impropriamente di possedere, per il fatto di praticare ciascuno la propria arte particolare in modo mirabile, i giudizi capaci di fare di un ‘essere umano’ un ‘uomo che vive bene’. E’ preferibile avere la loro sapienza e la loro ignoranza oppure non avere né la loro sapienza né la loro ignoranza? Per me la seconda alternativa è da preferire alla prima. Uno scultore saprà scolpire stupendamente ma non per questo saprà vivere bene. Io non saprò scolpire ma non per questo non saprò vivere bene (22c-22e)

3abc) Le conseguenze dell’inchiesta (22e-24b) 

3abca) Questa inchiesta mi ha procurato inimicizie numerose e violente, alle quali va fatta risalire l’origine delle calunnie di cui sono vittima (22e-23a) 

3abcb) Mi ha anche procurato il titolo di ‘sapiente’ nelle materie in cui, di volta in volta, metto alla prova i miei interlocutori. Ma è probabile che l’unico vero sapiente sia il dio e che il compito affidatomi da Apollo sia semplicemente quello di mostrare agli esseri umani che il loro sapere nulla vale a paragone del divino sapere sul ‘vivere bene’. Il servizio che io rendo al dio mi impedisce, inoltre, di occuparmi d’altro ed è anche causa della mia presente povertà di denaro (23a-23b)

3abcc) Molto deleteria è poi, per me, la comparsa spontanea di numerosi miei giovani imitatori. Costoro fungono, senza saperlo, da moltiplicatori della ostilità nei miei confronti (23c-23e) 

3abcd) E’ appoggiandosi su questa ostilità e queste calunnie che Meleto per conto dei poeti, Anito per conto degli artigiani e Licone per conto dei politici mi hanno denunciato. Questa è la verità. Ed è dicendo la verità che mi sono fatto tanti nemici. Sarà pertanto difficile, nel breve tempo del presente processo, che io riesca a distruggere, nella mente dei giudici, calunnie radicate profondamente e da tanto tempo (23e-24b)

3b) Confutazione dei nuovi accusatori e mio interrogatorio di Meleto (24b-28a)

3ba) Introduzione

3baa) L’accusa che il buon cittadino e patriota, a suo dire, Meleto ha presentato suona così: “Socrate è colpevole del delitto di corruzione della gioventù e del delitto di non legittimare gli dei che la città legittima, ma altre e nuove divinità” (24b-24c)

3bb) Sul delitto di corruzione della gioventù (24c-26a)

3bba) Meleto commette un primo errore circa la questione di sapere chi è capace di istruire un altro e di renderlo migliore. Egli risponde infatti alle mie domande dirette, affermando che tutti gli Ateniesi  sono capaci di istruire i giovani e di  renderli migliori eccetto me, che sono l’unico a corromperli. Accade la stessa cosa nel caso dell’allevamento dei cavalli? gli domando. O non accade piuttosto il contrario, cioè che uno solo o pochi sono capaci di istruire e rendere migliore qualcun altro mentre la maggior parte della gente lo rende peggiore? E’ così in tutti i casi: esseri umani, cavalli ed ogni altro vivente; qualunque cosa ne pensino Meleto ed Anito, io concludo. La risposta di Meleto testimonia il suo disinteresse per l’educazione dei giovani e la  leggerezza con la quale ha mosso la sua accusa (24c-25c)

3bbb) Meleto commette un secondo errore quando ritiene che io corrompa intenzionalmente la  gioventù. Ma, io affermo, chiunque corrompe un’altra persona corre poi il rischio, avendola trasformata in senso malvagio, di subire da quest’ultima un torto. Siccome nessuno cercherà mai, di  proposito, di subire un torto, ne consegue o che io non sono un corruttore dei giovani oppure che,  pur essendolo, non lo sono di mia piena intenzione. In quest’ultimo caso Meleto doveva avvertirmi personalmente e biasimarmi privatamente, non portarmi davanti ad un tribunale (25c-26a)

3bc) Sul delitto di legittimazione di nuovi dei e sul delitto di ateismo (26b-27e)

3bca) Secondo il capo di accusa, io corrompo i giovani insegnando loro a legittimare non gli dei che la città legittima ma altre e nuove divinità. Interrogato però da me, Meleto cambia l’accusa, affermando che io non legittimo assolutamente alcuna divinità e dunque che sono colpevole del delitto di ateismo. Io professo solennemente di non essere in alcun modo ateo e di credere per esempio, come tutti gli altri, che il sole e la luna siano dei. Che poi il sole sia una pietra e la luna una terra sono teorie discutibili quanto si vuole, ma note a tutti ed avanzate da Anassagora di Clazomene, non certo da me (26a-26e)

3bcb) Meleto tuttavia insiste nella sua accusa di radicale ateismo ed è pertanto costretto da me a contraddirsi. Come può, infatti, Meleto accusarmi di ateismo se Meleto stesso mi accusa di legittimare nuovi dei, siano essi demoni od altre entità a metà strada tra uomini e dei? Chi potrà mai credere che esistano muli ma non esistano cavalle ed asini, dal cui accoppiamento essi discendono? (26e-27e)

3c) Conclusione della mia difesa
Io ritengo a questo punto di avere dato la prova di non essere colpevole dei delitti di cui sono accusato da Meleto. Una mia eventuale condanna sarà dovuta non a queste accuse, che sono state provate infondate e false, ma alle calunnie sparse su di me da tanti Ateniesi ed alla loro gelosia (28a-28b)

4) Digressione (28b-34b)

4a) Prima obiezione: la condotta di vita scelta da te è dannosa, in quanto ti espone oggi al pericolo di una condanna a morte. Io rispondo che la mia condotta di vita è quella di un uomo virtuoso che si è messo al servizio di un dio (28b-31c) 

4aa) Bene è soltanto la virtù e ciò che partecipa della virtù: saggezza, giustizia, fortezza, temperanza (28b-30c)

4aaa) Alla obiezione che la mia condotta di vita è mortalmente dannosa, io rispondo affermando che la virtù, e non la vita, è il sommo dei beni; e che la viltà, e non la morte, è il sommo dei mali.  Infatti Achille non sarebbe il semi-dio Achille, se avesse paura più della morte che della viltà (28b-28d) 

4aab) Quando sappiamo giusta l’azione che compiamo, qualunque altra considerazione deve passare in secondo piano. All’assedio di Potidea, ad Amfipoli, nella battaglia presso il santuario di Apollo Delio a Lebadea, io non ha mai abbandonato, pur a rischio della vita, il posto di oplita che mi era stato assegnato dai vostri comandanti. Ora che Apollo mi ha assegnato il compito di vivere filosofando, ossia di sottomettere me stesso e gli altri ad un continuo esame della qualità e dello stato del nostro sapere, sarebbe ben strano che la paura della morte mi facesse abbandonare il mio posto. In questo caso, sì, sarebbe giusto tradurmi davanti ad un tribunale per accusarmi di non legittimare l’esistenza degli dei (28d-29a) 

4aac) Cos’è la paura della morte se non la pretesa di essere sapienti quando invece non lo si è? Per avere paura della morte bisogna infatti sapere cosa la morte è ed essere certi che è il sommo dei mali. Nessuno, invece, sa cosa sia la morte. Ed in questo io sono più sapiente di tanta gente. Io, infatti, so di non sapere se la morte sia un male oppure un bene. So invece con certezza che l’ingiustizia,   ossia disobbedire a chi è migliore di noi, sia esso un uomo oppure un dio, è un male. E dunque io non farò mai passare la paura di un male certo, ossia dell’ingiustizia, davanti a quella della morte, di cui non so se sia un male oppure un bene (29a-29b) 

4aad) Ai giudici  che oggi proponessero una assoluzione in cambio della rinuncia alla ‘filosofia’  io rispondo che obbedirei comunque al dio e non a loro, che non smetterei mai di spiegare ai miei concittadini ed agli stranieri che incontro, che la virtù non proviene dalla ricchezza di  denaro, dagli onori, dalla fama o dalle cariche pubbliche e che solo il virtuoso sa come apprezzare e godere della fama, degli onori, della ricchezza di denaro e delle cariche pubbliche (29b-30c)

4ab) Il virtuoso non può subire alcun male ad opera di chi virtuoso non è (30c-31c)

4aba) Gli Ateniesi non si rendono conto che, attraverso di me e la mia pratica della filosofia, il dio ha fatto alla città il regalo più grande. Uccidendomi, la città farebbe un male a se stessa, non a me. Anito e Meleto immaginano che per me la minaccia di una condanna a morte o all’esilio o alla privazione dei diritti di cittadinanza sia una prova terribile. Costoro non sanno, al contrario, che la sola cosa terribile in tutta questa vicenda è l’ingiustizia con la quale essi tentano di ottenere la morte di un uomo virtuoso e giusto, il quale è stato da Apollo attaccato ad Atene come un tafano ad un cavallo di razza che di tanto in tanto ha bisogno di essere risvegliato dalle punture dell’insetto. Questo è il compito che io svolgo, e questo compito è altamente giovevole ad Atene (30c-30e) 

4abb) Se, come un qualunque sofista, io mi facessi pagare per i miei consigli, la mia condotta avrebbe un senso banale e comprensibile a tutti. Ma i miei accusatori non hanno potuto produrre un solo testimone disposto ad attestare ciò. La verità del fatto che io sia un vero dono del dio ai miei  concittadini, per spronarli alla virtù ed alle ricchezze che da essa discendono è, a questo punto,  testimoniata dalla mia stessa onorata povertà di denaro (31a-31c) 

4b) Seconda obiezione: tu avresti dovuto prendere parte attiva alle lotte di fazione che dividono la città. 

4ba) Io rispondo che ne sono stato impedito da una voce interiore e divina e che, se avessi fatto questo, sarei già morto da molto tempo senza essere stato utile né a me stesso né alla città (31c-34b)

4baa) Io, che pure parlo in privato con chiunque, non ho mai avuto il coraggio di salire sulla tribuna della Pnice per parlare all’Assemblea del popolo. Questo comportamento mi è stato imposto da un segno divino, da una voce interiore che io sento fin dall’infanzia e che mi vieta di fare ciò che sto per fare, senza però spingermi mai a qualche azione specifica. Si è trattato di una opposizione particolarmente felice, giacché se avessi preso parte attiva alle lotte di fazione della città sarei già morto da molto tempo senza essere stato utile né a me stesso né alla città. (31c-31d) 

4bab) Infatti, chiunque cerchi di impedire qualcuna delle azioni ingiuste ed illegali che sono commesse in città per decisione dell’Assemblea del popolo o di qualche altro potere, trova prima o poi la morte ed è impossibile non commettere atti ingiusti ed illegali se si prende parte alle lotte di fazione e si vuole restare in vita. Due esempi che hanno riferimento diretto alla mia persona, in due contesti politici diversi, valgono a provarlo. Nel 406, in un contesto di potere democratico, io ero membro del Consiglio dei 500 e, dopo la battaglia delle Arginuse, fui il solo ad opporre il mio voto alla procedura illegale con la quale furono poi condannati a morte, in blocco, gli strateghi reduci da quell’impresa. Nel 404, in un contesto di potere oligarchico, fu ordinato a me e ad altre quattro persone di recarci a Salamina per catturare e portare ad Atene un certo Leonte, che doveva essere messo a morte. Ma io rifiutai di rendermi complice di questo crimine e, mentre gli altri quattro partirono per Salamina, io me ne andai a casa. Numerose persone possono attestare le mie affermazioni e ciò vale a dimostrare che io ho sempre preferito rischiare la vita piuttosto che commettere un atto ingiusto od empio. (31e-32e)

4bac)Ecco perché mi limito a discussioni private, dalle quali io non escludo nessuno (32e-33b)

4bad) Le persone che poi mi seguono, ed in particolare i giovani, lo fanno perché fa loro piacere vedere castigata, a volte, l’albagia di chi si crede sapiente senza esserlo. Ma pure ammettendo che io abbia corrotto i giovani che mi stanno intorno come mai non uno solo, non di loro, ma dei loro parenti più prossimi, che certamente avrebbero tutto l’interesse a denunciarmi, è salito su questa tribuna per dare man forte all’accusa di Meleto? Questi parenti presenti al processo io posso indicarli a Meleto a decine, e mi offro di lasciargli il posto così che egli possa produrli come testimoni dell’accusa (33b-34b)

5) Perorazione: io non supplicherò i giudici (34b-35d)

Giunti a questo punto del processo è costume comune, anche per casi meno gravi, che gli accusati supplichino, versino torrenti di lacrime e facciano salire sulla tribuna i loro bambini, parenti ed amici per impietosire i giudici e strappare così un voto di assoluzione. Io, che pure ho tre figli e parenti ed amici, non farò nulla del genere ed invito i giudici a non irritarsi per questo ed a non depositare un voto di condanna che sarebbe allora mosso soltanto dalla collera. Se, a torto o a ragione, vi è in me qualcosa che mi distingue dalla maggior parte degli altri, ebbene il supplicare i giudici non gioverebbe certamente a questa mia reputazione. Né gioverebbe a quella di Atene, la quale vede già troppi suoi rinomati cittadini perdere ogni dignità di fronte all’eventualità di una propria condanna. Costoro, in nulla distinguendosi dalle femminette, immaginano la morte un male spaventoso -come se una volta assolti, invece, diventassero immortali- e  preferiscono, alla morte, vivere nella vergogna. Questo è un comportamento ridicolo che, per la buona reputazione della città, i giudici dovrebbero fermamente sanzionare (34b-35b)
A parte la questione della reputazione, supplicare i giudici non è comunque atto conforme a giustizia. I giudici, infatti, non siedono in tribunale per fare della giustizia un favore ma per rendere giustizia conformemente alle leggi sulla base della esposizione dei fatti e di una libera persuasione (35b-35c) 
Se io supplicassi i giudici e li inducessi così a violare la santità del loro giuramento insegnerei, con questo, a credere che gli dei non esistono e darei davvero la prova provata di essere meritevole di condanna. Ma così non sarà, ed io professo di legittimare gli dei più fermamente dei miei accusatori (35c-35d)

Ha luogo la votazione. 
L’esito della votazione è il seguente: circa 280 giudici hanno votato per la condanna di Socrate, circa 220 per la sua assoluzione. 
Socrate risulta dunque condannato. 
I suoi accusatori hanno proposto per lui la pena di morte. 
Tocca ora a Socrate proporre una pena alternativa. 
I giudici voteranno poi una seconda volta per decidere quale delle due pene infliggere a Socrate.

Secondo discorso: sulla pena da infliggere a Socrate (35e-38b)

6) Esordio 

Sono stato riconosciuto colpevole, ma soltanto per un lieve scarto di voti. Sarebbe bastato lo spostamento di una trentina di voti ed il verdetto sarebbe stato, sorprendentemente per me, di assoluzione. Essendo tre i miei accusatori, io mi considero comunque assolto dalle accuse di Meleto al quale, avendo da solo raccolto meno del venti per cento dei voti totali, spetterebbe addirittura di pagare una ammenda di 1000 dracme (35e-36b)

7) Proposizione da parte mia di una pena alternativa alla morte e che tenga conto dei miei meriti (35e-37a)

La pena proposta per me da Meleto è la morte. Tocca ora a me proporre per me una pena alternativa. Qual è la pena giusta per un uomo che ha trascurato gli affari, l’amministrazione del proprio patrimonio, le cariche, le magistrature, le fazioni politiche della città per dedicarsi a spronare ciascun singolo cittadino ad una vita migliore, la più virtuosa possibile? (36b-36d)
Il trattamento che va riservato ad un simile uomo, ad un uomo povero di denaro, a un benefattore della città, a qualcuno che ha bisogno di tempo libero non per riportare vittorie alle Olimpiadi montando cavalli da corsa ma per dire la verità ai suoi concittadini, è quello di essere mantenuto a spese pubbliche nel Pritaneo. Questa è la giusta pena che io propongo per me (36d-37a) 

8) Proposizione da parte mia di una pena alternativa alla morte e che tenga conto delle regole giudiziarie (37a-38b)

Mi rammarico di non essere riuscito a convincere i giudici della mia innocenza e sono certo che, se il processo fosse durato non un giorno soltanto ma più giorni, sarei riuscito ad allontanare da me le gravi calunnie di cui sono stato vittima. Sapendo di essere innocente, io non posso comunque essere ingiusto con me stesso e proporre una pena che non merito. La mia non è dunque arroganza. Della morte, ignorando se essa sia un bene o un male, io non ho paura. Vogliono invece ad ogni costo i giudici che io scelga per me, come pena, qualcosa che so essere certamente per me un male? Sarà la schiavitù dell’ergastolo? Sarà una forte ammenda e la prigione fino a che io non l’abbia pagata? Ma questa pena equivarrebbe alla precedente, giacché non avrei comunque denaro sufficiente per pagarla. Sarà l’esilio? Questa è una pena che i giudici si aspettano che io proponga e che potrebbero accettare.  Ma se sono diventato insopportabile per i miei concittadini Ateniesi, come potrei sperare di non diventarlo per gli abitanti di città straniere, come potrei sperare di non essere scacciato anche di là? (37a-37e)
Non potrei andare in esilio e lì starmene zitto e tranquillo? A questa proposta io rispondo che così facendo disubbidirei al dio e che una vita senza la luce della ‘filosofia’, senza il continuo esame della qualità e dello stato del nostro sapere, non merita di essere vissuta. (37e-38a)
Io non reclamerò mai per me stesso un male. Se avessi del denaro, avrei dunque già proposto come pena una congrua ammenda che fossi in grado di pagare. La perdita di un po’ di denaro, infatti, non rappresenta alcun male. A meno che voi giudici non accettiate la proposta della modesta ammenda di soltanto una mina, somma di cui dichiaro di disporre. Ecco dunque la pena legale che io propongo per me. (38a-38b) 
A questo punto, alcuni amici presenti al processo mi sollecitano ad elevare l’ammontare della ammenda da una mina a trenta mine. Saranno essi i garanti del pagamento di tale somma. (38b-38c)

Ha luogo la seconda votazione. 
L’esito della votazione è il seguente: Socrate è condannato a morte.

Terzo discorso: ai giudici che hanno votato per la condanna a  morte di Socrate (38c-39d)

9) Esordio

Con il presente verdetto gli Ateniesi acquisiranno, presso tutti coloro che intendono denigrare Atene, la fama di avere ingiustamente condannato a morte un uomo sapiente. Io sono ormai molto anziano e non lontano dalla morte. Vi sarebbe bastato aspettare un po’ di tempo e lasciar fare alla natura, per sgravarvi di una responsabilità tanto obbrobriosa. (38c)

10) La pena alla quale sono stato condannato io e la pena alla quale sono stati condannati i miei accusatori (38d-39b)

10a) La causa della mia condanna a morte e la qualità della mia pena 

10aa) Ciò che ha portato alla mia condanna  è stata la mia incapacità a tenere i discorsi che conseguono al giudizio che bisogna dire e fare qualunque cosa pur di sfuggire alla morte. Dunque a perdermi  è stata la mia incapacità a mostrare ardire protervo e sfrontatezza nel piangere, nel gemere, nell’implorare al modo che i giudici sono abituati a veder fare dagli altri accusati. Ma tutto ciò non è degno di un uomo libero come me ed io non mi pento affatto del comportamento che ho tenuto. Io preferisco morire a prezzo della libertà piuttosto che vivere a costo della viltà. (38d-39a) 

10b) Da chi ed a quale pena sono stati condannati i miei accusatori 

10ba) Tanto in tribunale quanto in guerra, se si ha la sfrontatezza di fare qualunque cosa, si hanno molte probabilità di sfuggire alla morte. Ma a quale costo? E’ più difficile sfuggire alla viltà che alla morte. In effetti la viltà corre molto più veloce della morte. Io, ormai vecchio e lento, sono stato raggiunto dalla morte. I miei accusatori, giovani e agili, sono stati raggiunti dalla viltà, e dall’ingiustizia. E questa è la condanna alla quale essi sono stati condannati dalla verità. (39a-39b)

11) La mia profezia

Ormai vicino a morire, io mi trovo in quel momento della vita che è il più propizio alle profezie. I giudici che mi hanno condannato a morte credono di essersi così liberati dalla necessità di giustificare e di rendere conto del loro modo di vita. Ma questo è un cattivo calcolo, e la maniera che essi hanno scelto per sbarazzarsi del problema non è né particolarmente efficace né particolarmente onorevole. Il solo modo elegante e pratico per risolvere il problema non consiste nello sbarazzarsi di uomini come me ma nel prendere i provvedimenti che si impongono affinché ciascuno di voi faccia di se stesso il miglior uomo possibile. Dopo la mia scomparsa, vipredicoche non diminuirà ma aumenterà il numero di coloro che chiederanno agli Ateniesi di giustificare il loro modo di vita, e molti di costoro saranno giovani, e più aggressivi di quanto sarebbero stati se io fossi ancora in vita. (39c-39d)

Mentre si portano a termine le formalità processuali di rito ed in attesa di essere condotto nella prigione dove dovrà morire, Socrate si rivolge ai cittadini che hanno votato per la sua assoluzione.

Quarto discorso: ai giudici che hanno votato per l’assoluzione di Socrate (39e- 41c)

12) Esordio

Ai cittadini che hanno votato per la mia assoluzione, ed ai quali soltanto riservo il nome di ‘giudici’, io intendo spiegare, come ad amici, la mia interpretazione di quanto è accaduto (39e-40a)

13) Come io interpreto i fatti accaduti

Mi è accaduto, con la condanna a morte, ciò che viene comunemente ritenuto il sommo dei mali. Non è affatto questa la mia interpretazione dei fatti. Come si può conciliare la serenità di cui godo con il giudizio di patire un male? In effetti oggi mi è accaduto qualcosa di straordinario.Il segno divino, quella voce interiore che io sento fin dall’infanzia e che mi vieta di fare ciò che non devo fare e che non è bene, anche in questioni di poco conto, non mi ha mai avvertito della presenza di un pericolo e nonmi ha trattenutoné in mattinata quando stavo uscendo di casa né quando, in tribunale, stavo salendo sulla tribuna né in alcun momento dei miei discorsi di difesa. Non vi è che una spiegazione possibile di tutto ciò, ed è che quanto è accaduto  è verosimilmente un bene per me. (40a-40c)
      
14) Per me la morte non è di per sé un male e forse è un bene. Due possibili rappresentazioni della morte (40c-41c)

14a) La morte come sonno eterno

Nei confronti della morte, delle due cose l’una. O chi muore non ha mai più coscienza di nulla oppure la morte è, per l’animo, un cambiamento di domicilio. Se si crede la morte un tranquillo, eterno sonno, chi non considererebbe ciò un bene? Chi, sia egli un re o un semplice essere umano, non preferirebbe questo alle angosciose notti colme di incubi o ai disperati giorni pieni di paura che tutti i viventi conoscono? (40c-40e)

14b) La morte come cambiamento di domicilio dell’animo

Se, con la morte, il nostro animo si sposta in una regione nella quale trova gli animi di tutti coloro che ci hanno preceduto ebbene, io dico, anche in questo caso non varrebbe la pena di considerare ciò un bene? Essere giudicati da veri giudici giusti, godere della compagnia di semi-dei, di eroi e di uomini illustri, poter sottoporre costoro all’esame cui io sottoponevo i miei concittadini senza rischiare, per questo, la morte: non sarebbe, tutto ciò, il colmo della felicità? (40e-41c) 

15) Conclusione generale di Socrate

Nessun male potrà mai toccare l’uomo virtuoso né in vita né in morte, ed egli avrà sempre su di sé lo sguardo interessato degli dei. La sorte che oggi mi è toccata non è il frutto di un caso. Al contrario, è evidente che adesso per me è meglio morire ed essere così liberato da ogni preoccupazione. Ecco perché il segno divino non mi ha mai trattenuto ed ecco perché io non serbo rancore né per i miei accusatori né per i giudici che mi hanno condannato. Costoro intendevano però causarmi un male, che invece hanno causato a loro stessi, e per questo vanno biasimati. Ma essi possono ancora ricredersi e dare una futura prova di giustizia nei miei confronti. (41c-41e)

16) L’estrema richiesta di Socrate ai giudici che lo hanno condannato 

Quale? Se ad essi parrà che i miei figli, quando saranno grandi, si diano pensiero del denaro o di qualunque altra cosa più che della virtù; se ad essi parrà che credano di essere qualcosa mentre non sono nulla: di punirli, di tormentarli, di indirizzare ai miei figli il rimprovero che io indirizzavo proprio a loro: quello di non darsi pensiero di ciò di cui ci si deve dare pensiero e di credersi qualcuno mentre non si vale nulla. (41e-42a)

17) Epilogo

Ma ecco che io vengo condotto via, verso la prigione dove dovrò morire, mentre i giudici ed i cittadini sfollano il tribunale e vanno ciascuno verso la loro vita. Chi di noi va verso la sorte migliore? Nessuno conosce la risposta, eccetto chi è dio. (42a)

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Traduzioni

Omaggio a Socrate – Diogene Laerzio ‘Vite dei filosofi’ Libro II

DIOGENE LAERZIO LIBRO II

SOCRATE (469 – 399 a. C.)

[II,18] Socrate era figlio di Sofronisco, uno scalpellino, e di Fenarete, una mammana, come afferma Platone nel ‘Teeteto’. Era Ateniese, del demo Alopece. Pare che abbia collaborato con Euripide, ragion per cui Mnesimaco dice così:

‘Questo è ‘I Frigi’, il nuovo dramma di Euripide
<cucinato dentro un pentolone> sotto il quale anche Socrate 
mette di suo della legna secca’

e ancora:

‘Euripide incavicchiato da Socrate’.

E Callia nei suoi ‘Prigionieri in ceppi’ dice:

‘A. Perché hai un’aria così solenne e così orgogliosa?
B. Ne ho ben donde: Socrate è il mio autore’.

E Aristofane nelle ‘Nuvole’:

‘È questo qui che fa le tragedie per Euripide,
quelle storie piene di ciarle sapienti’.

[II,19] Secondo alcuni egli fu uditore di Anassagora; ma anche di Damone, come afferma Alessandro nelle sue ‘Successioni dei filosofi’. Dopo la condanna di Anassagora divenne discepolo del fisico Archelao del quale, secondo Aristosseno, diventò pure l’amasio. Duride riferisce che egli fece il manovale e che lavorava la pietra; e taluni affermano che sono opera sua le Grazie con i drappeggi che si trovano sull’Acropoli. Perciò Timone nei suoi ‘Silli’ dice:

‘Altra strada rispetto ai quali prese <Socrate>, lo scalpellino, il ciarlone di leggi,
l’ammaliatore dei Greci, l’inventore di sottili argomentazioni,
il motteggiatore derisore dei retori, l’ironizzatore Attico a metà’.

Come riferisce Idomeneo, Socrate era infatti un abilissimo oratore; [II,20] ma i Trenta, secondo quanto racconta Senofonte, gli vietarono di insegnare l’arte della parola. Aristofane gli fa fare in commedia la parte di colui che è capace di trasformare il torto in ragione. Secondo quanto afferma Favorino nella sua ‘Storia varia’, Socrate fu il primo, insieme al suo allievo Eschine, ad insegnare la retorica. Anche Idomeneo dice la stessa cosa nella sua opera ‘Sui Socratici’. Egli fu anche il primo a discutere sulla condotta della vita umana e morì, primo tra tutti i filosofi, in seguito a una condanna a morte. Aristosseno, figlio di Spintaro, afferma che egli si occupò di finanza, giacché soleva investire un certo capitale, ricavarne un interesse, spendere l’interesse e reinvestire il capitale. Demetrio di Bisanzio riferisce che Critone, innamoratosi della grazia del suo animo, lo tirò fuori dall’officina nella quale lavorava e lo fece educare. [II,21] Una volta riconosciuto che la speculazione naturalistica non ha per noi alcun valore, Socrate discuteva di questioni etiche sia nelle officine che nella piazza del mercato, ripetendo che a lui interessava ricercare:

‘quel che di cattivo e di buono c’è nella magione’.

Nel corso delle sue ricerche discuteva spesso con grande veemenza, sicché gli interlocutori lo prendevano a pugni oppure gli strappavano i capelli; la maggior parte delle volte, però, lo deridevano con disprezzo. Ma egli sopportava pazientemente tutte queste offese. Ragion per cui anche quando fu preso a calci, poiché un tale era meravigliato della sua sopportazione Socrate gli disse: “Se mi avesse dato un calcio un asino, forse che gli farei intentare un processo?”. Queste sono le cose che racconta Demetrio. [II,22] Come accade ai più, non ebbe mai bisogno di andare all’estero fuorché quando ci fu bisogno di partecipare ad una spedizione militare. Per il resto del tempo se ne stava ad Atene e qui la sua maggiore ambizione era di poter fare dibattiti, non per far cambiare opinione agli interlocutori bensì nel tentativo di imparare da loro la verità. Si racconta che Euripide gli diede una copia dell’opera di Eraclito e gli chiese: “Cosa ti sembra?”. La risposta di Socrate fu: “Le cose che ho capito mi sembrano davvero eccellenti, e credo che lo siano anche quelle che non ho capito, eccetto che per arrivare al loro fondo c’è bisogno di un palombaro di Delo”. Usava darsi gran cura degli esercizi fisici ed era di corporatura forte e vigorosa. Prese parte alla spedizione militare contro Amfipoli, e nella battaglia di Delio raccolse e salvò la vita a Senofonte che era caduto da cavallo. [II,23] In quell’occasione, mentre tutti gli Ateniesi s’erano dati ad una fuga precipitosa, Socrate arretrava invece senza fretta, volgendosi continuamente qua e là e pronto a difendersi se mai qualcuno lo assalisse. Partecipò anche alla spedizione militare contro Potidea: città che fu raggiunta per via di mare in quanto, a causa della guerra in corso, era impossibile arrivarvi per via di terra. Si racconta che in quest’occasione Socrate tenne per una notte intera una certa posizione militare chiave. Si meritò così sul campo il primo premio del valore, che egli però cedette ad Alcibiade del quale, come afferma Aristippo nel quarto libro della sua opera ‘Sulla dissolutezza degli antichi’, egli era l’amante. Ione di Chio afferma che da giovane Socrate viaggiò fino a Samo in compagnia di Archelao, ed Aristotele che andò a Delfi. Nel primo libro dei suoi ‘Memorabili’ Favorino riferisce poi che egli raggiunse anche l’Istmo di Corinto. [II,24] Era un uomo di solide convinzioni e favorevole al partito popolare. Ciò è manifesto dal fatto che non cedette agli ordini dei membri del partito di Crizia, i quali gli intimarono di portare dinanzi a loro Leonte di Salamina, un uomo assai ricco, per mandarlo a morte; e che fu il solo a votare contro la condanna dei dieci generali. Altrettanto manifesto ciò è dal fatto che quando gli fu possibile evadere dalla prigione, egli non volle farlo; che censurò coloro che erompevano in alti lamenti per la sua sorte; e che fece quei famosi, bellissimi discorsi mentre era in catene. Era un uomo di carattere indipendente e che ispirava rispetto. Nel settimo libro dei suoi ‘Appunti’, Panfilo ricorda che una volta Alcibiade gli offrì un grande pezzo di terreno affinché potesse costruirvi sopra una casa, e che lui gli disse: “Se io avessi bisogno di calzari e tu mi offrissi del cuoio col quale farmeli io stesso, sarei ridicolo se lo accettassi”. [II,25] Spesso, guardando la moltitudine di merci che erano poste in vendita, diceva a se stesso: “Di quante cose non ho bisogno!”. Di continuo poi recitava ad alta voce questi versi giambici:

‘Le argenterie o le vesti di porpora
son buone per le tragedie, non per la vita’.

Trattò con profondo disprezzo Archelao di Macedonia, Scopa di Crannone ed Euriloco di Larissa, non accettando soldi da loro e non recandosi alle loro corti. Il suo tenore di vita era disciplinatissimo, tanto che quando ad Atene vi erano delle pestilenze, spesso lui era il solo a non ammalarsi. [II,26] Aristotele dice che egli sposò due donne. La prima fu Santippe, dalla quale ebbe il figlio Lamprocle. La seconda fu Mirto, figlia di Aristide detto ‘il Giusto’, che egli prese in sposa pur se priva di dote e dalla quale nacquero i figli Sofronisco e Menesseno. Altri affermano però che egli sposò per prima Mirto. Altri ancora, tra i quali sono Satiro e Ieronimo di Rodi, riferiscono che egli le ebbe contemporaneamente entrambi come mogli. Essi raccontano infatti che gli Ateniesi avevano deliberato di accrescere di numero la popolazione e che, a causa della scarsezza di individui maschi, avevano votato di concedere il diritto di sposare una donna cittadina e però di avere figli anche da un’altra: il che è ciò che anche Socrate fece. [II,27] Era capace di guardare dall’alto in basso coloro che lo schernivano; andava fiero della sua parsimonia e non riscosse mai alcuno stipendio. Poiché mangiava con sommo piacere, soleva dire di non avere affatto bisogno di cibi squisiti; e poiché beveva con sommo piacere, diceva di non aspettarsi altra bevanda che quella che era a disposizione; e poiché aveva bisogno di pochissime cose, di essere vicinissimo agli dei. Queste sue affermazioni si possono apprendere anche dai testi dei commediografi, i quali non si rendono conto di stare lodandolo proprio attraverso ciò che dicono di lui per schernirlo. Aristofane parla di lui in questi termini:

‘O uomo giustamente smanioso della grande sapienza,
come te la passerai felice tra gli Ateniesi ed i Greci!
Tu sei uno di memoria tenace, e pensatore, e la sopportazione è dentro
l’animo tuo, e non ti stanchi né stando fermo né camminando,
e non soffri troppo quando hai freddo, e non dai in smanie per la colazione,
e ti astieni dal vino, dalla voracità e dalle altre stupidaggini’.

[II,28] Amipsia, mettendolo in scena con indosso una mantellina, dice così:

‘O Socrate, di un pugno d’uomini il migliore, 
certo di gran lunga il più stravagante, anche tu 
sei giunto tra di noi. Forte lo sei davvero. Ma da dove 
potrebbe venire per te una mantella di cuoio?
B. Questa mancanza è diventata un’offesa per i cuoiai!
A. Costui, pur affamato non s’è mai piegato ad adulare!

Il suo sguardo superiore e la sua grandezza d’animo, la rende palese Aristofane quando dice:

‘Perché tu ti pavoneggi per le strade, e torci gli occhi,
e scalzo molti mali sopporti, e guardi a noi con aria grave’.

Eppure, a volte e nelle opportune occasioni Socrate sapeva adattarsi ed indossare splendide vesti: come quando, nel ‘Simposio’ di Platone, sta camminando verso la casa di Agatone. [II,29] Socrate era abile tanto nello spronare gli altri quanto nel trattenerli. Infatti, dopo avere discusso con lui su cosa sia la ‘scienza’, congedò Teeteto pieno di entusiasmo, come ci riferisce Platone. Invece, facendo con lui una serie di considerazioni su cosa sia il ‘sacro’, distolse dal suo proposito Eutifrone, il quale voleva intentare un processo contro suo padre per l’omicidio di un servo di casa. E con lo spronarlo alla virtù, fece di Liside una persona di grande moralità. Socrate era infatti abilissimo a trovare le proprie argomentazioni traendole dai fatti. Fece rinsavire anche suo figlio Lamprocle, il quale era oltremodo infuriato contro la madre Santippe; come racconta, se non erro, Senofonte. Distornò Glaucone, il fratello di Platone che voleva interessarsi di affari cittadini, da un simile progetto in quanto del tutto inesperto di politica, come dice Senofonte. Al contrario, invece, assistette Carmide in tale progetto in quanto possedeva le qualità adatte allo scopo. [II,30] Risollevò lo spirito di Ificrate, il generale, mostrandogli i galli da combattimento del barbiere Midia, che sbattendo le ali sfidavano quelli di Callia. E Carmide, il figlio di Glaucone, era del parere che Socrate procacciasse alla città il prestigio che procaccia il possesso di un fagiano o di un pavone. Soleva ripetere che è stupefacente la facilità con la quale ciascuno di noi saprebbe dire il numero delle pecore che ha, e invece non saprebbe dire né il nome né il numero degli amici che possiede: a tal punto li tiene in poco conto. Vedendo che Euclide s’industriava assai sui discorsi eristici, gli disse: “Euclide, potrai adoperarli con i sofisti, ma con gli uomini mai”; giacché credeva del tutto inutile, come afferma Platone nel suo ‘Eutidemo’, darsi da fare su ragionamenti frivoli e cavillosi. [II,31] Quando Carmide gli offrì dei servi affinché potesse dal loro lavoro ricavare delle entrate, Socrate declinò l’offerta; e secondo alcuni ebbe anche in disdegno la bellezza fisica di Alcibiade. Secondo quanto afferma Senofonte nel suo ‘Simposio’, lodava invece il tempo libero dedicato all’educazione come il più meraviglioso dei possessi. Ripeteva perciò che vi è un solo bene: la scienza; e un solo male: l’ignoranza; e che la ricchezza di denaro e la nobiltà di natali non incorporano in se stessi alcunché di buono e solenne bensì, tutt’al contrario, ogni male. Quando dunque un tale gli disse che Antistene aveva una madre originaria della Tracia, Socrate gli rispose: “E tu crederesti che da due Ateniesi possa nascere una persona di tale nobiltà d’animo?”. Ingiunse poi a Critone di pagare il riscatto di Fedone il quale, essendo un prigioniero di guerra era costretto a prostituirsi, e ne fece un filosofo. [II,32] Quand’era ormai vecchio imparò a suonare la lira, affermando che nulla c’è di assurdo nell’imparare le cose che uno non sa. Danzava inoltre regolarmente, ritenendo che simile ginnastica fosse vantaggiosa per la buona complessione fisica, come anche Senofonte afferma nel suo ‘Simposio’. Soleva ripetere che il suo démone gli segnalava in anticipo quel che gli sarebbe accaduto; che l’essere da esso ben comandati, anche se per poco tempo, non è piccola cosa; e di nulla sapere se non sapere che c’è questo demone. Diceva anche che quanti comperano a caro prezzo frutti precoci, rinunciano con ciò a farli giungere a maturazione. Interrogato una volta su quale fosse la virtù di un giovane, rispose: “Nulla di troppo”. Era dell’avviso che si debba imparare la geometria fino al punto da essere capaci di misurare la terra che si acquisisce o si cede. [II,33] Quando nella sua ‘Auge’ Euripide afferma della virtù che:

‘la miglior cosa è lasciar queste cose andare come capita’,

Socrate si alzò e uscì dal teatro, dicendo che è ridicolo ritenere cosa degna l’andare in cerca di un servo fuggitivo che non si trova, e invece lasciar andare in malora a questo modo la virtù. Richiesto da un tale se sia il caso di sposarsi oppure no, rispose: “Qualunque delle due cose tu faccia, te ne pentirai”. Diceva anche di stupirsi assai del fatto che quanti scolpiscono statue di marmo, d’altro non si diano pensiero se non che la pietra sia il più possibile simile al modello umano; e che invece non si diano alcun pensiero di non apparire essi stessi simili a pezzi di marmo. Soleva sollecitare i giovani a guardarsi di continuo nello specchio, allo scopo, nel caso fossero belli, di diventarne degni; e nel caso fossero brutti, di nascondere la loro bruttezza sotto la buona educazione. [II,34] Una volta Socrate invitò a pranzo delle persone ricche, e poiché Santippe temeva di non essere all’altezza della situazione, lui le disse: “Fatti coraggio: se fossero persone a modo, si comporterebbero con compiacenza; se saranno degli sciocchi, di loro a noi non importerà nulla”. Soleva ripetere che mentre gli altri uomini vivono per mangiare, lui invece mangiava per vivere. Circa la folla indistinta, era dell’avviso che è come se uno, mentre rifiuta di accettare per buona una tetradracma, accettasse invece come buone simili monete se sono in mucchio. Quando Eschine gli disse: “Sono povero e non ho altro, ecco ti do me stesso”, Socrate gli rispose: “Non ti accorgi che mi stai offrendo la cosa più grande di tutte?”. Un tale esprimeva il suo disappunto perché quando i Trenta misero in piedi il loro governo non lo tennero in considerazione, e Socrate gli disse: “E non te ne penti?”. [II,35] A chi gli diceva: “Gli Ateniesi ti hanno condannato a morte”, egli rispose: “E la natura ha condannato a morte gli Ateniesi”. Altri tuttavia attribuiscono questo detto ad Anassagora. Quando sua moglie gli disse: “Tu muori ingiustamente”, Socrate le rispose: “E tu vorresti che io morissi colpevole?”. Quando in sogno gli sembrò che un tale gli dicesse:

‘Al terzo giorno verrai a Ftia fertile zolla’,

disse ad Eschine: “Fra tre giorni morirò”. Poco prima che bevesse la cicuta, Apollodoro gli offrì un mantello bello ed elegante affinché potesse morire con esso addosso. Ma Socrate gli disse: “E perché? Se il mio mantello era idoneo a rivestirmi da vivo, non lo sarà anche per morirci dentro?”. A chi gli annunciava: “Il tale parla male di te!”, egli rispose: “Già, non ha mai imparato a parlar bene”. [II,36] Poiché Antistene aveva rivoltato e messo in vista la parte lacera della sua mantellina, Socrate gli disse: “Attraverso la mantellina vedo la tua vanagloria”. A chi gli diceva: “Ma il tale non ti sta ingiuriando?”, Socrate rispose: “No, queste sue ingiurie nulla hanno a che fare con me”. Soleva poi affermare che bisogna offrirsi a bella posta alle facezie dei poeti comici, giacché se queste cogliessero qualcuno dei nostri difetti, ci correggeranno; se no, i loro lazzi non ci riguarderanno”. Quando Santippe prima lo coprì d’ingiurie e poi gli rovesciò addosso dell’acqua, Socrate disse: “Non dicevo io che quando Santippe tuona, poi fa anche piovere?”. Ad Alcibiade il quale diceva che Santippe è insopportabile quando si mette ad ingiuriare, Socrate rispose: “Ma io c’ho fatto l’abitudine. È come se sentissi di continuo lo stridore di una carrucola. [II,37] E tu” soggiunse quindi “non sopporti forse il chiasso delle oche starnazzanti?”. “Sì, ma quelle mi danno uova e pure dei paperi!”. “E pure a me Santippe genera dei figli!”. Nella piazza del mercato una volta Santippe gli strappò addirittura di dosso il mantello, e mentre i conoscenti che aveva intorno gli suggerivano di difendersi mettendole le mani addosso, Socrate disse: “Sì, per Zeus, di modo che mentre noi facciamo a pugni, ciascuno di voi possa poi mettersi a gridare ‘Forza Socrate!’ e ‘Dai Santippe!’ ”. Soleva ripetere di montare una moglie riottosa come i cavalieri cavalcano i cavalli focosi, e diceva: “Come i cavalieri, una volta domati questi, riescono poi facilmente a spuntarla con gli altri; così anch’io, abituato alla relazione con Santippe, saprò convivere con gli altri uomini”. Questi ed altri simili sono le parole ed i fatti che trovarono testimonianza da parte della Pizia, quando essa diede a Cherefonte il famoso responso:

‘Di tutti gli uomini Socrate è il più sapiente’.

[II,38] Da quel momento in poi, Socrate diventò oggetto di somma invidia; anche perché confutò come dissennati coloro che avevano un gran concetto di se stessi: ad esempio Anito, come si legge nel ‘Menone’ di Platone. Infatti costui, incapace di sopportare la sbeffeggiatura da parte di Socrate, dapprima gli sollevò contro i poeti della cerchia di Aristofane, e poi persuase Meleto a presentare contro di lui una denuncia per empietà e per corruzione dei giovani. Meleto presentò dunque la denuncia; l’arringa davanti al tribunale fu pronunciata da Polieucto, come afferma Favorino nella sua ‘Storia varia’. Il discorso fu redatto dal retore Policrate, secondo quanto riferisce Ermippo; oppure, secondo altri, da Anito. A tutti gli altri preparativi provvide il demagogo Licone. [II,39] Antistene nelle sue ‘Successioni dei filosofi’ e Platone nella sua ‘Apologia’ affermano che gli accusatori di Socrate furono tre: Anito, Licone e Meleto. Anito dava voce all’ira degli artigiani e dei politici, Licone a quella dei retori e Meleto a quella dei poeti: tutta gente che Socrate aveva fatto a pezzi. Nel primo libro dei suoi ‘Memorabili’, Favorino afferma che il discorso di Policrate contro Socrate è spurio, giacché in esso è citata la ricostruzione delle mura della città ad opera di Conone, cosa che avvenne soltanto sei anni dopo la morte di Socrate. Ed in effetti la faccenda sta proprio così. [II,40] La dichiarazione giurata dell’accusa che, come riferisce Favorino nel suo ‘Metroo’ è ancor oggi disponibile, era di questo tenore: ‘Meleto, figlio di Meleto, del demo Pito, presenta e giura le seguenti accuse contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece: Socrate è colpevole di non legittimare gli dei che la città legittima, poiché introduce altre e nuove divinità; ed è anche colpevole di corrompere i giovani. La pena richiesta è la morte’. Quando Lisia redasse per lui la difesa, il nostro filosofo dopo averla letta, disse: “Il tuo discorso, Lisia, è bello ma non è acconcio a me”. Si trattava, cioè, di un discorso di carattere molto più forense che filosofico. [II,41] E poiché Lisia ribatté: “Ma come? Se il discorso è bello come fa a non esserti acconcio?”; Socrate gli spiegò: “Così come non mi sarebbero acconci i bei mantelli e i bei calzari”. Nella sua opera ‘La Corona’ Giusto di Tiberiade racconta che nel corso del processo Platone salì alla tribuna ed ebbe appena il tempo di dire: “Cittadini Ateniesi, io sono qui il più giovane di coloro che salgono alla tribuna…” che i giudici gli gridarono: “Scendi giù! Scendi giù!”. Tolti i voti favorevoli all’assoluzione, Socrate fu condannato a maggioranza semplice, con duecento ottantuno voti. E quando i giudici valutarono a quale pena o a quale multa egli dovesse essere condannato, Socrate si offrì di pagare una multa di venticinque dracme. Eubulide afferma però che egli convenne di pagarne cento. [II,42] Poiché i giudici si misero a rumoreggiare, a questo punto Socrate disse: “Ebbene, allora in considerazione dei servizi da me resi alla città, io dico che la giusta pena per me è quella di essere mantenuto nel Pritaneo a spese pubbliche”. Ma i giudici lo condannarono a morte, aggiungendo ai precedenti altri ottanta voti. Messo in prigione, non molti giorni dopo bevve la cicuta, dopo avere tenuto i nobilissimi discorsi che Platone riferisce nel suo ‘Fedone’. Secondo alcuni Socrate compose allora un peana, il cui inizio è:

‘Delio Apollo salve, e tu Artemide, inclita prole’.

Dionisodoro afferma però che il peana non è suo. Compose anche una favola al modo di Esopo, invero non tanto ben riuscita, il cui inizio è:

‘Una volta Esopo disse agli abitanti di Corinto
di non far giudicare la virtù dalla sapienza dei giudici popolari’.

[II,43] Dunque egli così si dipartì dal consorzio degli uomini. E gli Ateniesi ben presto se ne pentirono, tanto da chiudere palestre e ginnasi, da esiliare gli altri accusatori e da condannare a morte Meleto. Onorarono poi Socrate con una statua di bronzo lavorata da Lisippo, che posero nel Pompeio. Quando Anito fece ritorno ad Eraclea, sua patria, il giorno stesso i suoi abitanti lo bandirono. Gli Ateniesi hanno avuto di che pentirsi non soltanto nel caso di Socrate ma anche di moltissimi altri. Infatti, secondo quanto riferisce Eraclide, multarono Omero di cinquanta dracme per manifesta pazzia; dicevano che Tirteo delirava; ed onorarono con una statua di bronzo Astidamante a preferenza dei poeti della cerchia di Eschilo. [II,44] Nel suo ‘Palamede’, Euripide vitupera gli Ateniesi dicendo:

‘Voi uccideste, uccideste l’onnisapiente che nessuna
sofferenza mai causò, l’usignolo delle Muse’

E così è. Filocoro afferma però che Euripide morì prima di Socrate. Secondo quanto riferisce Apollodoro nella sua ‘Cronologia’, Socrate nacque sotto l’arcontato di Apsefione nel quarto anno della LXXVII Olimpiade, il sesto giorno del mese Targelione, quando gli Ateniesi purificano la città e gli abitanti di Delo dicono che sia nata Artemide. Morì nel primo anno della XCV Olimpiade, all’età di settanta anni. Questo riferisce anche Demetrio Falereo. Taluni però affermano che egli morì all’età di sessanta anni. [II,45] Sia Socrate che Euripide furono entrambi uditori di Anassagora; ed Euripide nacque nel primo anno della LXXV Olimpiade, sotto l’arcontato di Calliade. È mia opinione che laddove, stando alle parole di Senofonte, Socrate fa alcune considerazioni sulla Prònoia, egli stia discutendo anche di Fisica, seppure lo stesso Senofonte affermi però che Socrate parlasse soltanto di Etica. Anche Platone quando nella sua ‘Apologia’ menziona Anassagora ed alcuni altri filosofi della natura, parla in realtà a nome proprio di argomenti che Socrate nega di conoscere e che tuttavia egli gli attribuisce. Aristotele riferisce poi che un certo Mago venuto ad Atene dalla Siria predisse a Socrate, tra altre cose, che la sua morte sarebbe stata una morte violenta. [II,46] Ci sono anche dei nostri versi scritti per lui, che suonano così:

‘Bevi, o Socrate, ora che sei nella casa di Zeus: perché davvero 
eri sapiente e tale ti disse il dio: e il dio è sapienza.
Tu dagli Ateniesi ricevesti semplicemente la cicuta,
ma furono essi a tracannarla attraverso la tua bocca’.

Secondo quanto afferma Aristotele nel terzo libro della sua ‘Poetica’, erano suoi acerrimi critici un certo Antiloco di Lemno e l’indovino Antifonte, come Cilone ed Onata lo erano di Pitagora; Siagro lo era di Omero vivente e Senofane di Colofone lo era di Omero morto; Cercope di Esiodo vivente e il predetto Senofane di Esiodo morto; Anfimene di Coo lo era di Pindaro; Ferecide di Talete; Salaro di Priene lo era di Biante; Antimenida e Alceo lo erano di Pittaco; Sosibio di Anassagora e Timocreonte di Simonide. [II,47] Dei suoi successori i più in vista furono Platone, Senofonte e Antistene; e dei dieci riportati quali suoi seguaci, i più distinti furono quattro: Eschine, Fedone, Euclide e Aristippo. Bisogna che io parli per primo di Senofonte, poi di Antistene tra i Cinici, poi dei Socratici e ancora dopo di Platone, poiché Platone dà inizio alle dieci scuole filosofiche e istituisce la prima Accademia. Questo è l’ordine di successione che io seguirò. Ci fu anche un altro Socrate, uno storico che scrisse una periegési di Argo. Un altro fu un Peripatetico, originario della Bitinia. Un altro fu un poeta epigrammatico. Infine un Socrate di Coo scrisse una epiclési degli dei.

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IL DIPINTO SU TAVOLA DI CEBETE

Incisione della Tabula Cebetis intagliata da David Kandel attorno al 1560-1563

Una breve introduzione

La datazione dell’opera

Scritto in greco da un autore che ci rimane sconosciuto, è ormai certo che questo drammatico “dialogo raccontato” risale al I secolo dopo Cristo. Il suo impianto è stoico-cinico, ed il Cebete di cui si parla nel titolo nulla ha a che fare con il personaggio che compare nel “Fedone” di Platone.

Il significato dell’opera

Mi tocca anzitutto doverosamente avvertire chi legge, che questo dialogo è altamente pericoloso in quanto si tratta, per il lettore, di vita o di morte. Chi si imbatte in esso, infatti, è chiamato a fare la stessa esperienza che fece Edipo sulla via di Tebe, quando si imbatté nella Sfinge.
Questo dialogo, e la spiegazione che esso contiene, sono altamente pericolose perché chi presta la dovuta attenzione e capisce quanto vi si dice è già, o è destinato ad essere, un uomo saggio e felice. Chi, invece, non presta la dovuta attenzione e non capisce quanto vi si dice è già, o è destinato inevitabilmente a rimanere, un individuo stolto ed infelice, una persona amareggiata ed incolta che vive male. 
La ragione di ciò sta nel fatto che la spiegazione contenuta in questo dialogo assomiglia all’enigma che la Sfinge, sulla via di Tebe, proponeva alle persone. Se uno capiva l’enigma e dava la risposta corretta, aveva salva la vita. Ma se uno non lo capiva e dava la risposta scorretta, periva divorato dalla Sfinge.

Edipo e la Sfinge

Le cose stanno allo stesso modo anche nel caso di questa spiegazione. Giacché la Stoltezza è, per il lettore, una Sfinge. Il dipinto su tavola del quale il dialogo tratta, allude enigmaticamente a quanto è bene, a quanto è male ed a quanto è né bene né male nella vita. E chi non capisce queste cose è destinato a perire per opera della Stoltezza; non in una sola volta, come chi moriva divorato dalla Sfinge, ma rovinato poco per volta nel corso dell’intera esistenza, come i condannati ad una punizione perenne. Se il lettore, invece, riconosce e capisce queste cose è la Stoltezza, all’opposto, a perire; mentre lui si salva e diventa beato e felice per tutta la vita. Chi legge presti dunque molta attenzione e non fraintenda nulla.

D’altra parte è arduo capire “Il dipinto su tavola di Cebete” se non si ha familiarità con la mia traduzione dell’opera di Epitteto. I concetti di ‘proairesi’ e di ‘diairesi’, di ‘cultura’ (cioè di ‘educazione alla diairesi’) e di ‘pseudocultura’ (cioè di ‘educazione a tutte le altre conoscenze’), di ‘essere umano’ e di ‘uomo’, di ‘felicità’ e di ‘infelicità’, di ‘virtù’ e di ‘vizio’, di ‘bene’, di ‘male’ e di ‘udetero’ trovano qui un’efficacia pittorica di straordinaria attualità, nella spiegazione che un anziano signore dà ad un gruppo di forestieri del significato di un dipinto su tavola visibile in un antico tempio di Crono.

La traduzione

Trattandosi di un’opera di dimensioni contenute, per la traduzione non ho avuto bisogno di lavorare su di un vero e proprio Index Verborum. 
A differenza de “L’albero della Diairesi”di Epitteto, che è la fedele registrazione di un parlato dal vivo, questo “Il dipinto su tavola di Cebete” è un testo letterario. Fatta dunque salva la scrupolosità nel tradurre tutte le parole chiave e filosoficamente rilevanti, so di essermi permesso quelle libertà di stile che mi parevano concesse dalla natura del testo.

Il testo

La traduzione che qui presento è stata da me condotta sul testo greco pubblicato da D. Pesce: “La tavola di Cebete” Paideia Editrice, Brescia 1982, nella collana “Antichità classica e cristiana”. Questo testo riproduce essenzialmente l’edizione critica di K. Praechter (Teubner, Lipsia 1893). Io me ne sono discostato in un luogo solo.

La mia traduzione della Tavola di Cebete è disponibile anche in versione cartacea cliccando sull’immagine qui sotto.

IL   DIPINTO   SU   TAVOLA DI   CEBETE

nuovamente tradotto

da

Franco Scalenghe

[1.1] Passeggiavamo per caso nel recinto sacro a Crono, considerando molti e diversi doni votivi. Dinanzi al tempio era dedicato anche un dipinto su tavola, con una strana pittura raffigurante storie assai particolari che non riuscivamo a congetturare quali mai fossero. [1.2] Il dipinto non ci sembrava raffigurare né una città né un accampamento, ma un recinto contenente al proprio interno altri due recinti, uno più grande ed uno più piccolo. Nel primo recinto vi era un portale, e presso di esso appariva sostare molta folla. [1.3] All’interno del recinto si vedeva uno stuolo di donne. Sul portone era fermo un vecchio, il quale faceva dei cenni come ingiungendo qualcosa alla folla che entrava. [2.1] Eravamo incerti sul significato della storia e ci interrogavamo l’un l’altro da un po’ di tempo quando un anziano signore, che stava accanto a noi, disse:

-Forestieri, non provate nulla di straordinario se siete incerti sull’interpretazione da dare a questa pittura. Pochi, anche tra la gente del posto, sanno quale sia il significato della storia. [2.2] Il dono votivo non è, infatti, di un cittadino di qui ma di un forestiero, un uomo intelligente e di straordinaria sapienza, emulo in teoria ed in pratica della vita Pitagorica e Parmenidea, il quale venne qui molto tempo fa e dedicò sia questo recinto sacro sia la pittura a Crono-

[2.3] -Ma quest’uomo- dissi io -tu l’hai conosciuto di persona?-

-E l’ho anche ammirato- disse lui -per molto tempo quando ero più giovane. Giacché era solito discorrere di molti e seri argomenti; ed allora io lo ascoltai più volte raccontare il significato di questa storia-

[3.1] -Ebbene per Zeus- dissi io -se non ti capita d’avere qualche altro impegno pressante, esponilo anche a noi. Siamo, infatti, assai smaniosi di ascoltare di che storia si tratta-

-Forestieri- rispose -non lo ricuserò. Ma innanzi tutto dovete ascoltare questo, che la spiegazione contiene in sé qualcosa di pericoloso-

-Quale pericolo?- chiesi io

-Che se presterete attenzione- continuò lui -e capirete quanto vi si dice, sarete uomini saggi e felici; altrimenti diventerete stolti ed infelici, amareggiati ed incolti esseri umani e vivrete male. [3.2] La spiegazione assomiglia, infatti, all’enigma che la Sfinge proponeva alle persone. Se uno lo capiva, si salvava; ma se non lo capiva, periva per opera della Sfinge. Le cose stanno allo stesso modo anche nel caso di questa spiegazione. Giacché la Stoltezza è per le persone una Sfinge. [3.3] Il dipinto su tavola allude enigmaticamente a quanto è bene, a quanto è male ed a quanto non è né bene né male nella vita. E se uno non capisce queste cose, perisce per opera della Stoltezza; non in una sola volta, come chi moriva divorato dalla Sfinge, ma rovinato poco per volta nel corso dell’intera esistenza, come i condannati ad una punizione perenne. [3.4] Se uno invece riconosce queste cose è la Stoltezza, all’opposto, a perire; mentre lui si salva e diventa beato e felice per tutta la vita. Prestate dunque attenzione e non fraintendete-

[4.1] -Per Eracle, se le cose stanno così, che grande smania ci hai messo addosso!-

-E stanno proprio così- disse lui

-Esponici quindi al più presto il significato della storia e, siccome siffatta è la ricompensa, noi ti presteremo un’attenzione non superficiale-

[4.2] Raccolta dunque una bacchetta, l’anziano signore la protese verso la pittura e disse:

-Vedete questo recinto?-

-Lo vediamo-

-Dovete innanzi tutto sapere che questo luogo si chiama Vita. E la gran folla che sosta presso il portale è la folla di coloro che stanno per fare ingresso nella Vita. [4.3] Il vecchio fermo in alto con un foglio di papiro in una mano e che con l’altra indica qualcosa, si chiama Genio. Egli ingiunge a coloro che fanno ingresso cosa debbono fare quando siano entrati in Vita, ed indica loro quale strada debbono percorrere se intendono salvarsi nella Vita-

[5.1] -Quale strada intima di percorrere e come?- chiesi io

-Vedi presso il portale- rispose lui -un seggio, posto nel luogo in cui la folla fa il suo ingresso e sul quale siede una femmina dipinta in modo da apparire suadente e che ha in mano una coppa?-

[5.2] -La vedo- dissi io -E chi è?-

-Si chiama Inganno- rispose -ed induce in errore tutti gli esseri umani-

-E cosa effettua costei?-

-A coloro che fanno ingresso nella Vita dà a bere la sua propria facoltà-

[5.3] -Cos’è questa bevanda?-

-Errore- disse -ed Ignoranza-

-E poi cosa accade?-

-Dopo avere bevuto questa bevanda procedono verso la Vita-

-Ma tutti bevono l’errore oppure no?-

[6.1] -Tutti lo bevono- rispose -alcuni di più, altri di meno. E vedi ancora, all’interno del portale, uno stuolo di altre femmine che hanno aspetti d’ogni genere?-

-Le vedo-

[6.2] -Si chiamano Opinioni, Smanie, Piaceri. Quando la folla fa il suo ingresso esse balzano su, si avvinghiano a ciascuno e lo menano via-

-E dove li menano?-

-Alcune menano gli esseri umani alla salvezza- rispose -altre invece li menano alla perdizione per opera dell’Inganno-

-Caro amico, che sgradevole pozione è quella di cui parli!-

[6.3] -Tutte però- aggiunse -professano di condurre all’ottimo e ad una vita felice e vantaggiosa. E costoro, a causa dell’ignoranza e dell’errore che hanno bevuto dalla coppa dell’Inganno, non trovano quale sia la vera strada nella Vita ma vanno errando a casaccio, come puoi vedere osservando coloro che hanno fatto il loro ingresso prima, i quali vanno in giro dove capita-

[7.1] -Li vedo- dissi -E chi è quella donna che appare essere come cieca e pazza, e che se ne sta ritta sopra una pietra rotonda?-

-Si chiama Fortuna- rispose -E non è soltanto cieca e pazza ma anche sorda-

[7.2] -Quale funzione ha?-

-Si aggira dappertutto- rispose -e ghermisce gli averi di alcuni per darli ad altri. Poi a questi stessi subito di nuovo sottrae ciò che ha dato e lo dà al altri, a casaccio ed in modo instabile. Perciò anche quel segno svela bene la sua natura-

[7.3] -Quale segno?- chiesi io

-Il fatto che sta ritta sopra una pietra rotonda-

-E questo cosa significa?-

-Significa che il suo dare non è né sicuro né saldo. Qualora uno si fidi di lei ne nascono grandi e dure delusioni-

[8.1] -Ma cosa vuole questa gran folla che le sta intorno, e come si chiamano costoro?-

-Si chiamano Sconsiderati. Ciascuno di essi chiede per sé le cose che la Fortuna getta-

-Come mai non hanno tutti un aspetto simile, ma alcuni appaiono rallegrarsi mentre altri hanno le mani protese e sono scoraggiati?-

[8.2] -Quelli che appaiono rallegrarsi e ridere- rispose -sono coloro che hanno ricevuto qualcosa da lei, e questi la chiamano buona Fortuna. Quelli che appaiono singhiozzare sono invece coloro ai quali la Fortuna ha sottratto ciò che aveva prima dato, e questi al contrario chiamano lei cattiva Fortuna-

[8.3] -Quali sono le cose che la Fortuna dà e per le quali coloro che le ricevono si rallegrano, mentre coloro che le perdono singhiozzano?-

-Sono quelle- rispose -che alla massa degli esseri umani sembrano essere beni-

-Quali sono questi beni?-

[8.4] -La ricchezza di denaro, evidentemente; e la fama, la stirpe nobile, la figliolanza, il potere tirannico, il potere regale e quant’altre cose somigliano a queste-

-Ma come? Questi non sono beni?-

-Di questo- disse -potremo discutere in seguito. Ora stiamo al significato della storia-

-Va bene-

[9.1] -Come oltrepassi con lo sguardo questo portale, vedi più in alto un altro recinto e ferme, fuori del recinto, delle femmine acconciate come sono solite acconciarsi le prostitute?-

-Certamente-

-Esse si chiamano una Non padronanza di sé, l’altra Dissolutezza, l’altra Insaziabilità, l’altra ancora Adulazione-

[9.2] -Perché sono ferme lì?-

-Perché spiano- disse -coloro che hanno ricevuto qualcosa dalla Fortuna-

-E poi cosa accade?-

-Esse balzano su queste persone e vi si avvinghiano, le adulano, le urgono a rimanere presso di loro dicendo che avranno una vita piacevole, indolore e priva di patimenti. [9.3] E se uno si lascia persuadere da queste femmine ad entrare da Lascivia, il trastullo sembra piacevole fino a che solletica l’individuo, poi non più. Giacché qualora ritorni in sé, costui si accorge che non era lui a mangiare da Lascivia ma che era Lascivia a mangiare vivo e ad oltraggiare lui. [9.4] Perciò, quando abbia speso tutto quanto aveva ricevuto dalla Fortuna, è costretto a fare da servo a queste femmine, a soggiacere ad esse in tutto, a comportarsi indecentemente, a fare per causa loro ogni sorta di azione dannosa come frodare, derubare templi, spergiurare, tradire, depredare e quant’altre azioni somigliano a queste. Quando poi a costoro venga meno ogni risorsa, queste femmine li consegnano alla Punizione-

[10.1] -Quale figura è la Punizione?-

-Vedi- disse -un po’ dietro e sopra di loro come una piccola porticina ed un luogo angusto ed oscuro?-

-Certamente-

-E non ti sembra che ci siano anche delle femmine laide, sozze e rivestite di cenci?-

[10.2] -Certamente-

-Queste dunque- rispose -si chiamano: quella che ha la frusta, Punizione; quella che ha il capo chino tra le ginocchia, Afflizione; quella che si strappa i capelli, Doglia-

[10.3] -Chi è quest’altro che sta accanto ad esse, quest’uomo deforme, magro e nudo; e chi è l’altra che è insieme con lui ed è, come lui, laida e magra?-

-Lui si chiama Rammarico- rispose -lei Prostrazione; e sono fratello e sorella. [10.4] A questi dunque egli è consegnato e con questi convive in continua punizione. Di qua, poi, è gettato in un’altra dimora, quella dell’Infelicità, e qui trascorre il resto della vita in totale infelicità, a meno che il Ripensamento non s’imbatta in lui venendogli incontro dalla sua propria proairesi-

[11.1] -E poi cosa accade se gli viene incontro il Ripensamento?-

-Lo cava fuori dei mali e gli raccomanda un’altra Opinione, quella che conduce alla vera Educazione ed insieme a quella che si chiama Pseudoeducazione-

[11.2] -E poi cosa accade?-

-Se egli accetta l’Opinione in quanto lo conduce alla vera Educazione- rispose -purificato da essa si salva e diventa beato e felice nella vita. Se no, viene di nuovo indotto in errore dalla stessa Opinione in quanto lo conduce alla Pseudoeducazione-

[12.1] -Per Eracle! Che altro gran pericolo è questo. E qual è- chiesi io -la figura della Pseudoeducazione?-

-Vedi quell’altro recinto?-

[12.2] -Certamente- dissi io

-E vedi fuori del recinto, presso l’ingresso, ferma una femmina che appare molto pulita e ben ordinata?-

-Certamente-

[12.3] -Le masse di gente avventata- disse -chiamano costei Educazione, ma essa non è la vera Educazione bensì la Pseudoeducazione. Comunque quando coloro che si salvano decidono di venire alla vera Educazione, innanzi tutto si presentano qui-

-C’è un’altra strada che conduce alla vera Educazione?-

-C’è- rispose

[13.1] -Chi sono gli uomini che vanno su e giù all’interno del recinto?-

-Sono- disse -gli ingannati amanti della Pseudoeducazione, i quali credono di conversare con la vera Educazione-

-E come si chiamano?-

[13.2] -Si chiamano- rispose -poeti, oratori, dialettici, musicisti, matematici, geometri, astronomi, edonisti, peripatetici, critici e quant’altri esseri umani somigliano a questi-

[14.1] -E chi sono quelle donne che appaiono correre intorno a costoro, simili nell’aspetto alle prime cioè a quelle tra le quali dicevi esservi la Non padronanza di sé?-

-Sono proprio quelle femmine- rispose

[14.2] -Dunque esse fanno ingresso anche qui?-

-Si, per Zeus! anche qui; ma raramente e non come nel primo recinto-

-Ed anche le Opinioni fanno ingresso qui?- chiesi io

[14.3] -Sì, giacché anche in costoro permane l’effetto della pozione che hanno bevuto dalla coppa dell’Inganno-

-L’Ignoranza permane anche in costoro?-

-Sì, per Zeus! ed insieme all’Ignoranza permane anche la Stoltezza. E non c’è pericolo che si separino da costoro né l’opinione né ogni restante vizio fino a che essi, disperando ormai della Pseudoeducazione, non imbocchino la vera strada e bevano le facoltà che li purificano. [14.4] Quando poi siano purificati ed abbiano espulso tutti i loro mali, le opinioni, l’ignoranza ed ogni restante vizio, allora in questo modo saranno salvi. Ma rimanendo qui presso la Pseudoeducazione essi non ne saranno mai liberati, né alcun male li abbandonerà per opera di questo genere di conoscenze-

[15.1] -Qual è la strada che porta alla vera Educazione?- chiesi io

-Vedi lassù- disse -quel luogo dove non dimora nessuno e che appare deserto?-

-Lo vedo-

[15.2] -Vedi anche una piccola porta e, davanti alla porta, una strada non molto affollata sulla quale assai pochi procedono, come su una strada che appare impervia, scabrosa e pietrosa?-

-Certamente- dissi io

[15.3] -Si vedono anche un elevato colle ed una salita assai angusta con profondi burroni da una parte e dall’altra-

-Li vedo-

-Questa è la strada- disse -che conduce alla vera Educazione-

[15.4] -A guardarla, è una strada davvero difficile-

-E vedi lassù sul colle una gran rupe, elevata e scoscesa tutt’intorno?-

-La vedo- dissi io

[16.1] -Vedi anche due donne, dal corpo florido e vigoroso, ferme sulla rupe e che hanno le mani protese con slancio?-

-Le vedo- dissi io -e come si chiamano?-

[16.2] -Una si chiama Padronanza di sé- rispose -l’altra Fortezza, e sono sorelle-

-Perché hanno le mani protese con tanto slancio?-

[16.3] -Invitano- disse -quelli che si presentano in quel luogo ad avere coraggio ed a non avvilirsi, dicendo loro che debbono ancora farsi forza brevemente e che poi giungeranno ad una magnifica strada-

[16.4] -Ma quando le persone si presentano alla rupe, come fanno a salire? Non vedo, infatti, nessuna strada portare alle due donne-

-Sono le due donne a scendere lungo il burrone ed a trarli lassù presso di sé. Li esortano quindi a riposarsi. [16.5] Dopo un poco, danno loro forza e coraggio professando che li introdurranno alla vera Educazione e mostrando loro come la strada sia magnifica, piana, agevole e pulita d’ogni male, come vedi-

-E’ palese, per Zeus!-

[17.1] -Vedi anche- disse -davanti a quel bosco un luogo che appare magnifico, simile ad un prato sfolgorante di luce?-

-Certamente-

[17.2] -E scorgi in mezzo al prato un altro recinto ed un altro portale?-

-E’ così. Ma come si chiama questo luogo?-

[17.3] -Abitazione degli uomini felici- rispose -Qui soggiornano tutte le Virtù e la Felicità-

-Sì- dissi io -com’è magnifico il luogo di cui parli!-

[18.1] -E vedi- continuò lui -che presso il portale vi è una donna con un bel volto calmo, di media e già matura età, indossante una veste semplice e disadorna? Essa non sta ritta sopra una pietra rotonda ma su una quadrata, solidamente piantata in terra, [18.2] ed insieme a lei sono altre due donne che sembrano essere sue figlie-

-E’ palesemente così-

-Di queste tre donne, dunque, quella nel mezzo è la vera Educazione, l’Educazione alla diairesi, le altre due sono la Verità e la Fiducia in se stessi-

[18.3] -Perché la vera Educazione sta ritta sopra una pietra quadrata?-

-E’ segno- rispose -che sicura e salda è la strada per coloro che arrivano da lei e che sicuro è il suo dare per coloro che lo ricevono-

[18.4] -E quali sono le cose che l’Educazione dà?-

-Coraggio e Dominio sulla paura- disse lui

-E cosa sono queste?-

-Sono la scienza- rispose -che permette di non sperimentare nulla di terribile nella vita-

[19.1] -Per Eracle- dissi io -che magnifici doni! Ma perché sta così fuori del recinto?-

-Per curare- rispose -coloro che si presentano e per dare loro a bere la facoltà purificatrice. Poi quando siano purificati li conduce dalle Virtù-

[19.2] -Non capisco come questo accade- dissi io

-In questo modo lo capirai- rispose -Se uno fosse per caso gravemente malato ed andasse da un medico, questi gli farebbe dapprima espellere le cause della malattia grazie a farmaci purificatori e così lo porterebbe poi al recupero della salute. [19.3] Ma se il malato non ubbidisse alle sue prescrizioni, sarebbe respinto a ragione dal medico e sarebbe distrutto dalla malattia-

-Questo lo capisco- dissi io

[19.4] -Allo stesso modo- continuò -qualora uno si presenti all’Educazione alla diairesi essa lo cura e gli dà a bere la sua propria facoltà, affinché innanzi tutto sia purificato ed espella tutti quanti i mali con cui era venuto qui-

-Quali mali?-

[19.5] -L’ignoranza e l’errore che aveva bevuto dalla coppa dell’Inganno, e poi la cialtroneria, la smaniosità, la non padronanza di sé, il rancore, l’avidità di denaro e tutti i restanti mali di cui si era riempito nel primo recinto-

[20.1] -E quando sia purificato, l’Educazione dove lo invia?-

-Lo invia dentro il recinto- rispose -presso la Scienza e le altre Virtù-

-Quali sono queste figure?-

[20.2] -Vedi- disse -al di là del portale un coro di donne, e come appaiono avvenenti ed ordinate con indosso una veste semplice e sobria? Vedi anche come sono naturali e per nulla imbellettate come le altre?-

[20.3] -Le vedo- risposi -E come si chiamano?-

-La prima si chiama Scienza, disse. Le altre sono sue sorelle e si chiamano Virilità, Giustizia, Probità, Temperanza, Disciplina, Libertà, Padronanza di sé, Mitezza-

[20.4] -O carissimo- dissi io -in che grande speranza siamo!-

-A patto che capiate- disse -e procuriate di fare un abito di quanto state ascoltando-

-Presteremo la massima attenzione a questo- dissi io

-Pertanto- continuò -sarete salvi-

[21.1] -Qualora le Virtù l’abbiano preso con loro, dove lo conducono?-

-Dalla loro madre- rispose

-E chi è?-

-La Felicità- disse

-Qual è la figura della Felicità?-

[21.2] -Vedi la strada che porta a quel luogo elevato, rappresentante l’acropoli di tutti i recinti?-

-La vedo-

[21.3] -Non vedi nel vestibolo un’avvenente donna di mezza età che siede sopra un alto trono, acconciata con libertà e senza ricercatezza, ed incoronata di una splendida corona di fiori?-

-E’ palesemente così-

-Questa è la Felicità- disse

[22.1] -E quando uno si presenti qui, cosa fa?-

-La Felicità lo incorona- disse -con la sua propria facoltà e così fanno le altre Virtù, come con i vincitori delle gare più importanti-

-Che genere di gare ha vinto?- chiesi io

[22.2] -Le più importanti- rispose -poiché ha domato tutte le peggiori belve, quelle che prima lo mangiavano vivo, lo castigavano, facevano di lui un servo. Tutte queste ha vinto e scacciato lontano da sé ed è diventato padrone di se stesso, sicché ora quelle sono asservite a lui come prima era lui asservito ad esse-

[23.1] -Quali sono le belve di cui parli? Bramo vivamente sentirlo da te-

-Innanzi tutto- rispose -l’Ignoranza e l’Errore. O queste non ti sembrano belve?-

-E belve davvero malvagie- risposi io

[23.2] -Poi l’Afflizione, il Rammarico, l’Avidità di denaro, la Non padronanza di sé ed ogni restante Vizio. Egli domina tutto ciò e non ne è dominato, come accadeva prima-

[23.3] -Che belle imprese- dissi io -e che bellissima vittoria! Ma dimmi ancora: quale facoltà ha la corona con la quale affermavi che la Felicità lo incorona?-

[23.4] -La facoltà felicitante, giovanotto. Giacché chi è incoronato con questa facoltà diventa felice e beato e non ripone le proprie speranze di felicità in altri ma in se stesso-

[24.1] -Di che bella vittoria parli! E quando sia stato incoronato, cosa fa e dove va?-

[24.2] -Le Virtù lo prendono con loro e lo conducono nel luogo dal quale era prima venuto. Gli mostrano come passino male il tempo e vivano meschinamente gli esseri umani che là soggiornano, quale naufragio sia la loro vita, come vadano errando e siano condotti quasi in balia di nemici, chi dalla Non padronanza di sé, chi dalla Cialtroneria, chi dalla Avidità di denaro, altri dalla Vanagloria e chi da altri Mali. [24.3] Mali terribili, cui essi sono avvinti e dai quali non sono capaci di affrancarsi, così da salvarsi ed arrivare qua. Essi restano invece nello sconcerto per tutta la vita; e questo sperimentano perché, avendo dimenticato l’ingiunzione del Genio, sono incapaci di trovare la strada che conduce qui-

[25.1] -Mi sembri parlare rettamente. Ma ho ancora questa incertezza: perché le Virtù gli mostrano il luogo dal quale era precedentemente giunto?-

[25.2] -Perché non sapeva precisamente- disse -perché non aveva scienza di nessuna delle cose di là ed era in dubbio. A causa dell’ignoranza e dell’errore che aveva bevuto, egli infatti legittimava come beni quelli che beni non sono e come mali quelli che mali non sono; [25.3] e per questo viveva male, come vivono male gli altri esseri umani che là soggiornano. Ora invece che quest’uomo ha acquisito la scienza delle cose utili, lui stesso vive bene e considera come finiscono male quegli esseri umani-

[26.1] -E quando abbia tutto considerato, cosa fa e dove va ancora?-

-Dove decide lui- rispose -Giacché dappertutto egli è sicuro come chi sta nell’antro Coricio, e dovunque arrivi vivrà benissimo ed in completa sicurezza. Tutti, infatti, lo accoglieranno lietamente, come fanno i sofferenti con il medico-

[26.2] -Non ha più paura di patire qualche danno da parte di quelle donne che dicevi essere belve?-

-Non sarà più disturbato né dalla Doglia, né dalla Afflizione, né dalla Non padronanza di sé, né dalla Avidità di denaro, né dalla Povertà di diairesi né da alcun altro Male. [26.3] L’uomo, infatti, le signoreggia tutte ed è al di sopra di tutto ciò che precedentemente lo affliggeva, come coloro che sono immuni al morso delle vipere. Proprio le vipere, che avvelenano tutti gli altri fino a farli morire, non affliggono coloro che ne sono immuni, poiché questi possiedono gli anticorpi contro il loro veleno. Allo stesso modo anche quest’uomo, poiché possiede gli anticorpi contro i Mali, non ne è più afflitto-

[27.1] -Mi sembri parlare bene. Ma dimmi ancora questo: chi sono coloro che appaiono presentarsi di là dal colle? Alcuni di essi sono incoronati e fanno cenni come d’allegrezza mentre altri, non incoronati, fanno cenni di afflizione e sconcerto, hanno gambe e teste contuse [27.2] e sono trattenuti da alcune donne-

-Gli incoronati sono coloro che si sono salvati pervenendo all’Educazione alla diairesi e sono allegri per averla conseguita. [27.3] Di quelli senza corona alcuni, avendo l’Educazione alla diairesi disperato di loro, tornano indietro mal disposti come gente meschina mentre altri, avvilitisi e non saliti alla Fortezza, tornano indietro a loro volta e vanno errando per strade impervie-

[27.4] -E chi sono le donne che li seguono?-

-Sono Afflizioni- rispose -sono Doglie, Prostrazioni, Infamie, Ignoranze-

[28.1] -Stai affermando che tutti i mali li seguono?-

-Tutti i mali, per Zeus, li seguono! continuò. E qualora questi esseri umani, nel primo recinto, si presentino a Lascivia ed alla Non padronanza di sé, [28.2] non accusano se stessi ma si affrettano a parlar male dell’Educazione alla diairesi e degli uomini che a lei vanno, affermando che sono dei disgraziati, dei meschini e degli infelici i quali, abbandonata la vita che si conduce in compagnia della Lascivia e della Non padronanza di sé, vivono male e non fruiscono dei beni che esse dispensano-

[28.3] -E quali cose costoro chiamano beni?-

-La dissolutezza e la non padronanza di sé, per dirla sommariamente. Giacché ritengono fruizione dei sommi beni il montare a modo del bestiame-

[29.1] -Le altre donne che si presentano di là, ilari e ridenti, come si chiamano?-

[29.2] -Si chiamano Opinioni- rispose -Esse, dopo aver condotto all’Educazione alla diairesi quanti entreranno dalle Virtù, stanno tornando indietro per condurne altri e stanno annunziando che gli uomini da esse prima menati lassù sono ormai diventati felici-

[29.3] -Ma le Opinioni- chiesi io -non fanno ingresso presso le Virtù?-

-No- rispose -Esse, giacché non è lecito ad una Opinione fare ingresso presso la Scienza, consegnano le persone all’Educazione alla diairesi. [29.4] Poi, quando l’Educazione alla diairesi  abbia preso queste con sé, le Opinioni tornano indietro per condurre altre persone, come navi mercantili che, scaricato il carico, tornano indietro e rifanno il carico di altre merci-

[30.1] -Mi sembra che tu abbia spiegato queste cose davvero bene- dissi io -Ma non ci hai ancora chiarito che cosa il Genio ingiunge di fare a coloro che fanno ingresso nella Vita-

[30.2] -Di avere coraggio- rispose -Abbiatelo quindi anche voi, giacché io spiegherò tutto e non tralascerò nulla-

-Dici bene- risposi io

[30.3] Protesa dunque di nuovo la mano verso il dipinto

 -Vedete- disse -quella femmina che appare essere cieca, che sta ritta sopra una pietra rotonda e che poco fa vi dissi chiamarsi Fortuna?-

-La vediamo-

[31.1] -Il Genio intima- continuò -di non fidarsi di lei, di non legittimare come salda e sicura qualunque cosa si riceva da lei e di non ritenerla come nostra propria; [31.2 ] giacché nulla impedisce che queste cose ci siano di nuovo sottratte e date ad un altro. La Fortuna è spesso solita far questo, ed a cagione di ciò il Genio intima di essere equilibrati nei confronti del suo dare, senza cioè rallegrarsi qualora dia e senza scoraggiarsi qualora sottragga, senza denigrarla e senza lodarla. [31.3] Essa infatti nulla fa con raziocinio ma tutto a casaccio e come capita, come prima vi dissi. Per questo il Genio intima di non meravigliarsi, qualunque siano le operazioni che essa effettua e di non diventare simili ai cattivi banchieri. [31.4] QQQ   uando i cattivi banchieri ricevono del denaro dalla gente, si rallegrano e lo legittimano come loro proprio. Quando poi ne siano richiesti, fremono e credono di avere patito un terribile torto, senza ricordare che avevano ricevuto i depositi a patto che non vi fosse alcun impedimento a ritrasferire il deposito. [31.5] Il Genio intima dunque di comportarsi allo stesso modo nei confronti di quanto la Fortuna dà e di ricordare che essa ha natura siffatta da sottrarre quel che ha dato, poi di ridarlo immediatamente moltiplicato, poi di seguito di sottrarre quel che ha dato e non solo questo, ma pure quel che si aveva prima. [31.6] Quello che dunque la Fortuna dà, il Genio intima di prenderlo e di spicciarsi ad uscire dal primo recinto, mirando al dare saldo e sicuro-

[32.1] -Qual è il dare saldo e sicuro?- chiesi io

-Quello che riceveranno dall’Educazione alla diairesi, se si salveranno giungendo lassù da lei-

-Qual è questo dare?-

[32.2] -La scienza vera delle cose utili- rispose -Questo è il dare sicuro, saldo e senza rimorsi. [32.3] Il Genio intima dunque di spicciarsi a fuggire verso l’Educazione alla diairesi e qualora quelli che fanno ingresso nella Vita si avvicinino a quelle femmine che anche prima dicevo chiamarsi Non padronanza di sé e Lascivia, egli intima di spicciarsi ad allontanarsene ed a non fidarsi per nulla di loro, fino a che non siano arrivati alla Pseudoeducazione. [32.4] Intima quindi di trastullarsi qui qualche tempo e di prendere dalla Pseudoeducazione, come viatico, qualunque cosa decidano di prendere; ma poi di spicciarsi ad andarsene di qui alla volta della vera Educazione. [32.5] Questo è quanto ingiunge il Genio. E chi fa qualcosa di contrario a queste ingiunzioni o le fraintende, perisce malamente da vizioso. [33.1] Forestieri, siffatta è dunque la storia dipinta sulla tavola. Se intendete sapere ancora qualcosa su ciascuna delle figure dipinte, io non ricuserò di rispondervi-

[33.2] -Stai parlando bene- dissi io -Ma il Genio, a chi fa ingresso nella Vita, cosa intima di prendere dalla Pseudoeducazione?-

-Le cose che sembrano proficue-

-E quali sono?-

[33.3] -Le lettere- rispose -e, tra le altre conoscenze, quelle che anche Platone afferma aver quasi facoltà di briglie per i giovani, affinché non siano distratti ad altro-

[33.4] -Ma è necessario che chi intende giungere alla vera Educazione riceva queste conoscenze, oppure no?-

-Non vi è alcuna necessità- rispose -quantunque esse siano proficue per venirvi più celermente. Tuttavia queste conoscenze nulla conferiscono per diventare migliori-

[33.5] -Stai affermando che queste conoscenze non sono proficue per far diventare gli uomini migliori?-

-Sto dicendo che è possibile agli esseri umani diventare migliori, cioè uomini, anche senza queste conoscenze; quantunque esse pure non manchino di una certa proficuità. [33.6] Come infatti a volte noi contribuiamo a quanto viene detto in una discussione grazie all’opera di un interprete, anche se non sarebbe improficuo che noi pure sapessimo parlare quella lingua, giacché questo ci permetterebbe di capire con maggiore precisione; così nulla impedisce agli esseri umani di diventare migliori anche senza queste conoscenze-

[34.1] -Dunque quelli che possiedono queste conoscenze, quanto al diventare migliori non sono superiori agli altri uomini?-

[34.2] -Come possono essere superiori, dal momento che dimostrano di essersi ingannati sui beni e sui mali come gli altri esseri umani e sono ancora trattenuti nel secondo recinto da ogni sorta di vizio? [34.3] Giacché nulla impedisce di sapere le lettere e di possedere tutte le conoscenze della Pseudoeducazione ed ugualmente di essere un ubriacone, un individuo non padrone di sé, avido di denaro, ingiusto, traditore e, alla fine, uno stolto-

[34.4] -Senza fallo è possibile vedere molti uomini siffatti-

-Quanto al diventare migliori, cioè uomini, grazie a queste conoscenze, in che modo sono dunque costoro superiori agli altri esseri umani?-

[35.1] -Il tuo ragionamento dimostra che essi non sono in alcun modo superiori. Ma qual è la causa- chiesi io -del fatto che soggiornano nel secondo recinto come coloro che si accostano alla vera Educazione?-

[35.2] -E questo a che giova loro- rispose -quando è possibile vedere gente che, provenendo dal primo recinto, dalla Non padronanza di sé e da ogni altro Vizio, si presenta direttamente al terzo recinto, alla vera Educazione, quella alla diairesi, lasciandosi indietro i possessori di queste conoscenze della Pseudoeducazione? Sicché come si può ancora dire che essi siano superiori, quando invece sono più torpidi e tardi ad imparare?-

[35.3] -Com’è possibile questo?- chiesi io

-A parte il resto, anche coloro che soggiornano nel secondo recinto, come quelli che soggiornano nel primo, non sanno ciò che pretendono di sapere. E finché hanno l’opinione di sapere è necessario che siano torpidi ad impellere verso la vera Educazione. [35.4] E poi non vedi l’altro fatto, cioè che le Opinioni, provenendo dal primo recinto, fanno ugualmente ingresso presso di loro? Sicché questi non sono migliori di quelli, a meno che anche a questi non si accompagni il Ravvedimento e si convincano di avere non Educazione alla diairesi ma Pseudoeducazione, e che ad opera sua sono ingannati. [35.5] Disposti tuttavia come sono, non si salverebbero mai. Forestieri- disse -voi fate quindi così ed attenetevi a quanto detto fino a prenderne un abito. Queste medesime cose bisogna sopravvederle spesso e non smettere di ritenere le altre accessorie. Altrimenti ciò che avete ora ascoltato non vi sarà di alcun pro-

[36.1] -Lo faremo. Ma spiegaci questo: come mai non sono beni quelli che gli uomini ricevono dalla Fortuna; cose ad esempio come il vivere, l’essere in salute, essere ricchi, essere applauditi, avere figliolanza, vincere, e quant’altre cose somigliano a queste? [36.2] E come mai, a loro volta, non sono mali le cose opposte? Quel che hai detto ci pare infatti assai paradossale ed incredibile-

-Orsù dunque- disse -prova a rispondere secondo il tuo parere alle domande che ti rivolgerò-

[36.3] -Lo farò- dissi io

-Se uno vive male, il vivere è per lui un bene?-

-Non mi sembra- risposi io -ma un male-

-Com’è dunque un bene il vivere- continuò -se per costui è invece un male?-

[36.4] -Perché il vivere a me sembra un male per coloro che vivono male, ed invece un bene per coloro che vivono bene-

-Dunque stai dicendo che il vivere è sia un male che un bene?-

-Sì, io dico così-

[37.1] -Non dire cose inverosimili. E’ impossibile che la stessa faccenda sia un male ed un bene. Giacché allora la stessa faccenda sarebbe costantemente sia giovevole che dannosa, sia da scegliersi che da fuggirsi-

[37.2] -Sì, è inverosimile. Ma come fa a non succedere un male a colui che vive male? E se dunque gli succede un male, proprio il vivere è male-

-Ma il vivere ed il vivere male non sono la stessa cosa. Oppure hai un parere diverso?-

-Senza fallo, neppure a me sembrano essere la stessa cosa-

[37.3] -Ad essere un male è quindi il vivere male, ma il semplice vivere non è un male, giacché se fosse un male, a coloro che vivono bene succederebbe un male perché comunque succede loro di vivere, il che appunto tu dici essere un male-

-Mi sembra che tu stia dicendo il vero-

[38.1] -Poiché quindi avviene che vivano entrambi, sia coloro che vivono bene sia coloro che vivono male, il vivere non potrebbe che essere né un bene né un male. Come non è il tagliare ed il cauterizzare, nel caso degli infermi, ad essere causa di malattia o salute ma il modo in cui si taglia; così pure nel caso della vita, non è il vivere di per sé ad essere un male, ma il vivere male-

[38.2] -E’ così-

-Se quindi le cose stanno così, considera se tu decideresti di vivere male oppure di morire bene e virilmente-

-Io, di morire bene-

[38.3] -E dunque neppure il morire è un male, se spesso il morire è preferibile al vivere-

-E’ così-

[38.4] -Lo stesso discorso vale anche circa l’essere in salute o l’essere malati. Giacché spesso non è utile essere in salute ma il contrario, qualora la circostanza sia tale da renderlo preferibile-

-Stai dicendo il vero-

[39.1] -Orsù, anche riguardo alla ricchezza di denaro, analizziamo se è davvero possibile considerare –come spesso è possibile vedere- che ad una persona succeda di essere ricco di denaro ma di vivere male e meschinamente-

-Per Zeus, di uomini simili se ne possono vedere molti!-

[39.2] -Dunque la ricchezza di denaro non aiuta costoro a vivere bene?-

-Non pare aiutarli, giacché costoro sono insipienti-

[39.3] -Dunque non è la ricchezza di denaro a fare gli uomini virtuosi, ma l’Educazione alla diairesi-

-E’ verosimile-

-In conseguenza di questo discorso, neppure la ricchezza di denaro è un bene, se appunto non aiuta quelli che l’hanno ad essere migliori-

-Così pare-

[39.4] -Quindi ad alcuni neppure è utile essere ricchi di denaro, qualora non sappiano usare la ricchezza di denaro-

-Mi sembra vero-

-Dunque, come si giudicherebbe essere un bene ciò che spesso non è utile avere?-

[39.5] -In nessun modo-

-Se dunque uno sa usare bene ed espertamente della ricchezza di denaro, vivrà bene; se no, vivrà male-

-Mi sembra che tu stia dicendo una cosa verissima-

[40.1] -Insomma è possibile apprezzare queste cose come beni o deprezzarle come mali, e proprio questo è ciò che sconcerta e danneggia gli esseri umani. Qualora, infatti, le apprezzino e credano possibile essere felici soltanto grazie ad esse, essi soggiacciono ad effettuare per causa loro qualunque azione e non schivano anche quelle che appaiono le più empie e vergognose. [40.2] E questo sperimentano a causa dell’ignoranza di cosa sia il bene. Essi ignorano che un bene non nasce da mali. [40.3] Invece è possibile vedere molte persone acquisire ricchezza di denaro con azioni cattive e vergognose, dico ad esempio con il tradimento, con la depredazione, l’omicidio, la delazione, la frode e molte altre azioni depravate-

-E’ così-

[41.1] -Se quindi nessun bene nasce da un male, com’è verosimile, e la ricchezza di denaro nasce da cattive azioni, è necessario che la ricchezza di denaro non sia un bene-

-Avviene così, in conseguenza di questo discorso-

[41.2] -Ora, poiché non è possibile acquisire la saggezza né l’operare con giustizia attraverso le cattive azioni, allo stesso modo che non è possibile acquisire l’operare contro la giustizia né la stoltezza attraverso le azioni virtuose, queste due cose non possono succedere contemporaneamente alla stessa persona. [41.3] Invece nulla impedisce che la ricchezza di denaro, la fama, la vittoria e le restanti cose che somigliano a queste, succedano ad una persona assieme a grandi vizi. Sicché queste cose non potrebbero essere né beni né mali, ma soltanto la saggezza è bene, mentre la stoltezza è male-

[41.4] -Mi sembra che tu abbia parlato a sufficienza- dissi io.

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Traduzioni

POSIDONIO di APAMEA

“Siccome a me avviene di perlustrare terre vergini ed esplorare in solitudine percorsi mai battuti, non ho bibliografie da offrire né debiti di gratitudine verso alcuno”.

Franco Scalenghe

Un semplice accenno alla vita di Posidonio

Posidonio nacque ad Apamea di Siria, piccola città sulle rive del fiume Oronte, a Sud-Ovest di Aleppo, intorno al 135 a.C. e dovette morire intorno al 51 a. C. Di famiglia certamente facoltosa, andò in gioventù a studiare ad Atene e divenne allievo dello Stoico Panezio. Dopo il soggiorno Ateniese, probabilmente un po’ prima del 95 a.C., si stabilì nell’isola di Rodi e qui fondò la propria scuola, tra i cui allievi ed uditori figurarono anche Cicerone e Pompeo Magno. A Rodi raggiunse le più alte cariche pubbliche, ricoprendo pure quella di Pritano, e partecipò alla ambasceria che i Rodiesi inviarono a Roma nel 87 a.C. Qui trovò facile accesso e allacciò durevoli relazioni con i circoli aristocratici della capitale. Fece certamente uno o più lunghi viaggi che lo portarono a conoscere tutte le terre che si affacciano sul Mediterraneo. Visitò in particolare la Gallia e fu tra i primi a riferire dei costumi dei Celti. 

Un brevissimo accenno alle opere e al pensiero filosofico di Posidonio

Posidonio fu senza dubbio una personalità dai vasti interessi. Le sue ricerche, testimoniate dalle molte opere oggi purtroppo perdute, furono enciclopediche e spaziarono dalla Fisica all’Astronomia, dalla Geografia alla Etnologia, alla Geologia, alla Meteorologia, alla Matematica, senza dimenticare la ‘Storia Universale’, l’interesse per la quale lo spinse a continuare l’opera di Polibio descrivendo, in 52 libri, gli eventi del periodo che va dal 146 al 88 a.C. Molti autori gli sono debitori di parti sostanziali delle loro opere: basterà citare il geografo Strabone, Cicerone, Tito Livio, Plutarco, Seneca, Diodoro Siculo e Tacito.
Per quanto concerne la filosofia, Posidonio ci appare decisamente propenso a condividere l’abbandono di almeno due delle dottrine che avevano caratterizzato lo Stoicismo di Crisippo, ed a favorire un ritorno alle dottrine di Platone e di Aristotele. Il primo ripiegamento consiste nella rivalutazione della tripartizione Platonica dell’animo, giacché nel suo trattato ‘Sulle passioni’ Posidonio sostiene che noi siamo governati da tre facoltà: la concupiscente, l’irascibile e la raziocinante. Il secondo ripiegamento consiste nella rivalutazione della tripartizione Aristotelica del ‘bene’ in beni esterni, beni del corpo e beni dell’animo: fatto che porta Posidonio a sostenere che la virtù non è autosufficiente per il raggiungimento della felicità, giacché a questo scopo c’è bisogno anche di salute, di ricchezza di denaro e di vigore fisico. 

La mia scelta dei Frammenti greci di Posidonio

Posidonio è certamente un professore ricco di cognizioni in ogni campo del sapere, ma mi riesce difficile capire come possa essere considerato uno Stoico. Gliene mancano i presupposti. Non è certo un caso che sia lui che il suo maestro Panezio non siano citati neppure una sola volta da Epitteto.
Poiché non sento alcun calore nello sguardo che Posidonio posa sull’uomo, e quindi su di me, e siccome non provo alcun interesse per l’enciclopedismo di Posidonio, la mia scelta di suoi Frammenti greci si è ridotta ad una ben povera cosa.

La mia traduzione di Posidonio

Per la traduzione ho utilizzato il testo curato da Emmanuele Vimercati ‘Posidonio – Testimonianze e Frammenti’ Bompiani, 2004

POSIDONIO

Frammenti greci scelti

1. Partizioni del sapere filosofico

1.1 = SVF II, 37 = Diogene Laerzio VII, 39 
Gli Stoici affermano che la ragione insita nel cosmo è, secondo filosofia, tripartita. Una sua parte, infatti, è qualcosa di fisico, un’altra di etico e un’altra di logico. Così per primo la suddivisero Zenone di Cizio nel suo libro ‘Sulla ragione’; Crisippo nel primo libro ‘Sulla ragione’ e nel primo libro della ‘Fisica’; Apollodoro l’Efillo nel primo libro delle ‘Introduzioni ai principi’; Eudromo nel ‘Trattato elementare di Etica’; Diogene di Babilonia e Posidonio. Apollodoro chiama queste parti ‘ambiti’, Crisippo ed Eudromo le chiamano ‘specie’, altri le chiamano ‘generi’.
                                                                                                                          
1.2 = SVF II, 38 (1) = Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 16. 
Più soddisfacente è l’opinione di quanti affermano che la filosofia è divisa in fisica, etica e logica: suddivisione primo autore della quale è potenzialmente Platone. Coloro che si attengono più espressamente a questa suddivisione sono quelli della cerchia di Senocrate, i Peripatetici e inoltre gli Stoici. Di conseguenza essi agguagliano plausibilmente la filosofia ad un frutteto ricco d’ogni sorta di frutti, affinché la fisica sia simboleggiata dall’elevatezza delle piante, l’etica dal gusto saporito dei frutti e la logica dalla fortificazione delle mura. Altri affermano che la filosofia è simile ad un uovo. L’etica somiglierebbe al tuorlo, che alcuni dicono essere il pulcino; la fisica all’albume, che è il nutrimento del tuorlo; e la logica al guscio esterno. Tuttavia Posidonio, poiché le parti della filosofia sono inseparabili una dall’altra mentre invece le piante hanno un aspetto diverso dai frutti e le mura sono separate dalle piante, sollecitava di far rassomigliare la filosofia piuttosto ad un animale, col sangue e la carne che simboleggiano la fisica; le ossa e i tendini, la logica; e l’animo l’etica.

1.3 = SVF II, 38 (2) = SVF II, 41 = SVF II, 43 = Diogene Laerzio VII, 40-41
Gli Stoici fanno rassomigliare la filosofia ad un animale, assimilando la logica alle ossa e ai tendini, l’etica alle parti più carnose e la fisica all’animo. Oppure la fanno rassomigliare ad un uovo: la logica è il guscio dell’uovo, l’etica è la parte intermedia e la fisica è la parte più interna. Oppure la fanno rassomigliare ad un campo ferace: la logica è lo steccato di recinzione, l’etica è il frutto e la fisica è la terra e gli alberi. Oppure la fanno rassomigliare ad una città ben fortificata e governata secondo ragione. Nessuna delle tre parti della filosofia è separata dalle altre, come pure affermano alcuni di loro. Esse sono invece intimamente mescolate e gli Stoici ne facevano la trasmissione mista. Altri invece posizionano per prima la logica, per seconda la fisica e per terza l’etica. Tra questi vi sono Zenone, nel suo libro ‘Sulla ragione’, Crisippo, Archedemo ed Eudromo. Diogene di Tolemaide, invece, comincia dall’Etica; Apollodoro posiziona l’Etica per seconda; mentre Panezio e Posidonio cominciano dalla Fisica, secondo quanto afferma Fania, discepolo di Posidonio, nel primo libro delle ‘Lezioni di Posidonio’.

2. Fisica

2.1 Il cosmo

2.1.1 = Diogene Laerzio VII, 138
Si può chiamare cosmo la qualificazione qualitativa propria di tutta quanta la sostanza; oppure, come afferma Posidonio nei suoi ‘Elementi di Meteorologia’, cosmo è l’insieme formato dal cielo, dalla terra e dai corpi naturali in esso presenti; oppure è l’insieme di dei, di uomini e di tutte le cose nate per opera loro.

2.1.2 = SVF I, 163 = SVF II, 1022 = SVF III [AT], 44 = SVF III [BS], 3 = Diogene Laerzio VII, 148
Zenone afferma che sostanza della divinità sono il cosmo nella sua interezza e il cielo, e in modo simile parlano anche Crisippo nel primo libro ‘Sugli dei’ e Posidonio nel primo libro ‘Sugli dei’. E Antipatro nel settimo libro ‘Sul cosmo’ afferma che la sostanza della divinità è simile ad aria. Nella sua opera ‘Sulla natura’, Boeto sostiene che la sostanza della divinità è la sfera delle stelle fisse.

2.1.3 = Ario Didimo ‘Epitome’ fr. 20 = Stobeo ‘Eclogae’ I, 11, 5c; I, 133, 18 W.
Posidonio diceva che la sostanza dell’intero cosmo è un materiale privo di qualità e di forma in quanto non avente di per se stesso una sua propria figura né qualità definita, e però trovandosi esso sempre ad avere una certa figura e qualità. Diceva anche che la sostanza, quella reale, differisce dal materiale soltanto nel nostro pensiero.

2.1.4 = SVF I, 85 (1) = SVF I, 493 = SVF II, 299 = SVF II, 300 = SVF III [ArT], 12 = Diogene Laerzio VII, 134
Gli Stoici ritengono che i fondamenti del cosmo nella sua interezza siano due: quello che fa l’azione e quello che la sperimenta. Quello che sperimenta l’azione è la sostanza senza qualità, il materiale. Quello che fa l’azione è la ragione insita nel materiale, ossia la divinità. Poiché questa ragione sempiterna è connaturata a qualunque materiale, è essa a fabbricare tutte e singole le cose esistenti. A porre questo principio sono: Zenone di Cizio nel suo libro ‘Sulla sostanza’, Cleante nel suo libro ‘Sugli atomi’, Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’, verso la fine, Archedemo nel suo libro ‘Sugli elementi’ e Posidonio nel secondo libro della sua ‘Fisica’. Essi affermano che i fondamenti e gli elementi sono cose diverse, giacché i fondamenti sono ingenerati e imperituri, e gli elementi invece periscono nella conflagrazione universale. I fondamenti sono corporei privi di forma, mentre gli elementi sono corporei dotati di forma. 

2.1.5 = SVF III [AT], 43 = Diogene Laerzio VII, 140
Il cosmo è uno solo, finito e di figura sferica; giacché siffatta figura è la più acconcia al movimento, secondo quanto affermano Posidonio nel quinto libro ‘Sulla Fisica’ e i seguaci di Antipatro nei libri ‘Sul cosmo’. 

2.1.6 = SVF I, 97 (1) = SVF II, 531 = SVF III [AS], 11 = Diogene Laerzio VII, 143
Che il cosmo sia uno lo affermano Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo, Apollodoro nella ‘Fisica’ e Posidonio nel primo libro della ‘Fisica’.

2.1.7 = SVF II, 634 = Diogene Laerzio VII, 138
Secondo quanto affermano Crisippo nei suoi libri ‘Sulla Prònoia’ e Posidonio nel terzo libro ‘Sugli dei’, il cosmo è governato da mente e Prònoia. La mente ne pervade ogni parte, come fa l’animo in noi; ma ne pervade di più alcune parti e meno altre. In alcune, infatti, essa si fa spazio come forza di coesione: come accade per le ossa e i nervi. In altre invece si fa spazio come vera e propria mente, come accade con l’egemonico. 

2.1.8 = SVF II, 633 = SVF III [AS], 10 = Diogene Laerzio VII, 142-143
Che il cosmo sia una creatura vivente, razionale, animata e cognitiva, lo affermano anche Crisippo nel primo libro ‘Sulla Prònoia’, Apollodoro nella ‘Fisica’ e Posidonio. Creatura vivente nel senso che è una sostanza animata capace di sensazioni. La creatura vivente è migliore di quella non vivente, e nulla è migliore del cosmo. Dunque il cosmo è una creatura vivente. Ed esso è animato, com’è manifesto dall’animo nostro; il quale è una scintilla che di là viene. Boeto afferma invece che il cosmo non è una creatura vivente. 

2.1.9 = SVF I, 499 (3) = SVF II, 644 = Diogene Laerzio VII, 139
Così il cosmo intero, che è una creatura vivente, animata e razionale, ha come egemonico l’etere, come affermano Antipatro di Tiro nell’ottavo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo nel primo libro ‘Sulla Prònoia’ e Posidonio nel suo libro ‘Sugli dei’, quando affermano che l’egemonico del cosmo è il cielo, mentre secondo Cleante è il sole.

2.1.10 = Ps. Plutarco ‘De placitis’ II, 9
Secondo Posidonio il vuoto che sta al di fuori del cosmo non è infinito, ma grande quel tanto che è sufficiente per accogliere il cosmo quando esso si dissolve in fuoco.

2.1.11 = Stobeo ‘Eclogae’ I, 18, 4b; I, 160, 13 W.
Nel primo libro ‘Sul vuoto’ Posidonio afferma che il vuoto che sta al di fuori del cosmo non è infinito, ma grande quel tanto che è sufficiente per accogliere il cosmo quando esso si dissolve in fuoco. Aristotele afferma che non esiste il vuoto. Platone, a sua volta, dice che non esiste vuoto né all’interno né all’esterno del cosmo. 

2.1.12 = SVF I, 404 = SVF II, 543 = SVF III [AS], 5 =Diogene Laerzio VII, 140
Al di fuori del cosmo e intorno ad esso si spande il vuoto infinito, il quale è incorporeo; incorporeo nel senso che sarebbe capace di essere occupato da dei corpi ma non ne è occupato. Nel cosmo, invece, non c’è alcun vuoto, ed esso è unitario; giacché questo è il necessario risultato della cospirazione e della sintonia tra corpi celesti e corpi terrestri. Del vuoto parlano Crisippo nella sua opera ‘Sul vuoto’ e nel primo libro di quella ‘Sulle Scienze fisiche’, Apollofane nella ‘Fisica’, Apollodoro e Posidonio nel secondo libro ‘Sulla Fisica’.

2.1.13 = SVF I, 93 (1) = SVF III [AS], 8 = Ario Didimo ‘Epitome’ fr. 26 = Stobeo ‘Eclogae’ I, 8, 42; I, 105, 17 W.
Di Posidonio. Alcune cose sono infinite in senso assoluto, come il tempo inteso nella sua interezza. Altre invece lo sono in senso relativo, come il tempo passato e quello futuro; giacché sia l’uno che l’altro sono determinati come tali unicamente in relazione al tempo presente. Il tempo è definito così: il tempo è una dimensione del moto; oppure: il tempo è una misura della velocità e della lentezza. In relazione al ‘quando’, le modalità di divisamento del tempo sono: il passato, il futuro e il presente; presente che consiste di una certa parte di passato e di futuro, esattamente laddove c’è la loro determinazione distintiva: e proprio quest’ultima ne segna il tratto caratteristico. Nel caso di ‘adesso’ e di simili determinazioni temporali, il tempo è pensato con approssimazione e non con perfetta conformità. Si chiama anche ‘adesso’ l’istante di tempo più breve a percepirsi laddove c’è la determinazione distintiva del futuro e del passato.

2.1.14 = SVF I, 102 (3) = SVF II, 581 = SVF III [AT], 45 = Diogene Laerzio VII, 142
Il cosmo si genera quando la sostanza sia volta da fuoco in umidità passando attraverso uno stato aereo. Dopo di che la sua parte più densa si condensa e ne risulta la terra, mentre quella più finemente particellata diventa aria e quindi, rarefattasi ancora di più, rigenera del fuoco. In seguito, per mistura di questi elementi sono generati i vegetali, gli animali e gli altri generi di esseri. Della genesi e della rovina del cosmo parlano Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’, Posidonio nel primo libro ‘Sul cosmo’, Cleante e Antipatro nel decimo libro ‘Sul cosmo’.

2.1.15 = Ario Didimo ‘Epitome’ fr. 27 = Stobeo ‘Eclogae’ I, 20, 7; I, 177, 20 W.
Posidonio afferma che le distruzioni e le generazioni che avvengono dagli esseri agli esseri sono di quattro tipi giacché, come abbiamo detto in precedenza, egli disconobbe come impossibili a sussistere le trasformazioni a partire da esseri inesistenti e quelle risultanti in esseri inesistenti. Delle trasformazioni distruttive risultanti in esseri esistenti una è per ‘divisione’, una è per ‘alterazione’, una è per ‘fusione di qualità componenti’ ed una è quella detta per ‘generale dissoluzione’. Di queste trasformazioni distruttive quella per ‘alterazione’ interessa direttamente la sostanza, mentre le altre tre interessano le qualità della sostanza. Le generazioni, poi, avvengono in modi consequenziali alle distruzioni. La sostanza, infatti, né aumenta né diminuisce, per addizione o per sottrazione, ma muta soltanto aspetto, come avviene nel caso dei numeri e delle misure. Invece circa le qualità specifiche, come le qualità di Dione e di Teone, ci sono aumenti e diminuzioni. Perciò la qualità della sostanza di ciascun essere permane dalla generazione alla distruzione, come accade nel caso di quelli passibili di distruzione, quali gli animali, i vegetali e gli esseri a questi similari. Posidonio dice che quanto alle qualità specifiche sono due le parti capaci di accoglierle: la parte afferente alla realtà specifica della sostanza e la parte afferente quella della qualità. Quest’ultima, come abbiamo ripetuto più volte, è passibile di aumento e di diminuzione. La qualità specifica della sostanza e la sostanza dalla quale tale qualità risulta non sono la stessa cosa e neppure sono altro tra di loro. Non sono la stessa cosa semplicemente perché la qualità specifica della sostanza è parte della sostanza e ne occupa lo stesso luogo, mentre le stesse qualità specifiche di altra identica sostanza devono essere separate nello spazio, senza poter essere però pensate come distinte e a parte.

2.1.16 = Simplicio‘In Aristotelis de Caelo’ IV, 3, (310b 1)
La sintesi dell’intero discorso è questa: ciò che si muove verso il proprio ‘luogo naturale’ si muove verso il proprio contenitore; e ciò che si muove verso il proprio contenitore si muove verso ciò che gli è simile. Questo avviene, precisa Aristotele, poiché il luogo naturale ha per confine il limite dell’elemento contenitore, e l’estremità [i.e. la sfera delle stelle fisse] e il centro [i.e. la terra] contengono tutti gli elementi che si muovono, non con semplice moto circolare, ma che si muovono verso l’alto e verso il basso. Infatti il corpo che ha un moto circolare [i.e. la sfera delle stelle fisse] è l’estremità di se stesso, e solo i corpi che si muovono verso l’alto e verso il basso sono contenuti tra un’estremità ed un centro. Ciò, io credo, egli ha aggiunto non a caso, ma per mostrare che quando dei corpi si muovono verso l’alto, l’elemento sovrastante è il contenente di quello sottostante, come il fuoco lo è dell’aria; mentre quando dei corpi si muovono verso il basso il contenente è il sottostante, giacché essi si trovano più in vicinanza dei contenenti che dell’estremità e del centro. Egli dice poi che in qualche modo il contenitore diventa la forma del contenuto, e parla del contenuto come di ciò che gli sta ad immediato contatto, giacché se il luogo superiore dà la forma ai corpi che diventano leggeri allorquando si trovino nel luogo superiore, e il luogo inferiore dà la forma ai corpi che diventano pesanti; allora al fuoco la forma la dà l’estremo confine superiore [i.e. la sfera delle stelle fisse], giacché è qui che esso ha la propria perfezione; mentre è il fuoco a dare la forma all’aria poiché l’ascesa dell’aria giunge fino al confine del fuoco. A sua volta, è il centro a dare forma alla terra, mentre a dare forma all’acqua è la terra; poiché l’acqua che nasce dentro la terra, siccome ha preso la propria forma dalla terra, si separa dalla pesantezza di quella. I due elementi estremi [i.e. il fuoco e la terra], inoltre, sono analoghi per ‘forma’, in quanto produttori della forma degli elementi che sono a loro immediato contatto, mentre gli elementi centrali [i.e. l’aria e l’acqua] sono analoghi per ‘materia’, in quanto prodotti come forma dai precedenti. Infatti il fuoco cede all’aria la leggerezza, mentre la terra cede all’aria la pesantezza. Una cosa è questo modo di suddividere i quattro elementi in elementi che danno ‘forma’ e in elementi che fanno da ‘materia’. Un altro modo è quello di cui parlano, tra gli altri, lo stesso Aristotele, Teofrasto nel suo libro ‘Sulla generazione degli elementi’ e lo stoico Posidonio, che lo ha ha appreso da loro e lo utilizza ovunque nei suoi scritti: il modo è quello di suddividere i quattro elementi in elementi pesanti e freddi ai quali si dà il ruolo di materia, e in elementi leggeri e caldi ai quali si attribuisce il ruolo di dare la forma.

2.2 Il sole

2.2.1 = SVF II, 650 =Diogene Laerzio VII, 144
Il sole è di forma sferica, come affermano lo stesso Posidonio e i suoi discepoli, analogamente al cosmo. 

2.2.2 = SVF II, 650 =Diogene Laerzio VII, 144
Il sole è puro e limpido fuoco, come afferma Posidonio nel settimo libro ‘Sui fenomeni celesti’ ed è fuoco perché opera tutto ciò che opera il fuoco. 

2.2.3 = SVF II, 650 =Diogene Laerzio VII, 144
Il sole è più grande della terra, come afferma lo stesso Posidonio nel sesto libro della ‘Fisica’ ed è più grande della terra perché essa è tutta quanta illuminata da lui; ed esso illumina anche il cielo. Anche il fatto che la terra risulti avere un’ombra di forma conica significa che il sole è più grande di lei; e a causa della sua grandezza, il sole può essere scorto da ogni parte della terra. 

2.3 La luna

2.3.1 = SVF II, 671 = Aezio ‘Placita’ II, 25, 5 = Stobeo ‘Eclogae’ 1, 219, 16 W. 
Posidonio e la maggior parte degli Stoici sostengono che la luna è un misto di fuoco e d’aria. Che essa è più grande della terra, così come lo è anche il sole. Che essa ha forma sferica, e che prende diverse apparenze: luna piena, mezzaluna, luna convessa, luna falciforme.

2.3.2 = Diogene Laerzio VII, 145 
La luna, invece, capitandole di essere mischiata con dell’aria e di essere più prossima alla terra, è nutrita dalle acque potabili, come dice Posidonio nell’ottavo libro della ‘Fisica’. 

2.3.3 = SVF II, 678 (2) = Diogene Laerzio VII, 146 
La luna s’eclissa quando cade nel cono d’ombra della terra. Laonde essa s’eclissa soltanto nel corso dei pleniluni, anche se si trova ogni mese diametralmente opposta al sole. Infatti, muovendosi verso il sole obliquamente, si discosta da esso per latitudine o più verso nord o più verso sud. Tuttavia, quando la latitudine della luna diventa conforme a quella del sole nello zodiaco ed essa si trova diametralmente opposta al sole, allora si ha l’eclisse. La sua latitudine diventa conforme a quella dello zodiaco quando essa si trova nella costellazione del Cancro, dello Scorpione, dell’Ariete e del Toro, come sostengono Posidonio e la sua scuola. 

2.4 Dio, Pneuma, Destino

2.4.1 = Aezio ‘Placita’ I, 7, 19 = Stobeo ‘Eclogae’ 1, 34, 26 W. 
Secondo Posidonio dio è uno pneuma cognitivo ed igneo, privo di forma propria, capace di trasformarsi in ciò che vuole e di assomigliare a qualunque cosa.

2.4.2 = SVF II, 1063 = Giovanni Lido ‘De mensibus’ IV, 71, 48 
Cratete vuole che Zeus, il quale pervade ogni cosa, abbia avuto questo nome dal fatto che inzuppa la Terra, cioè la rende pingue. Posidonio, invece, perché è colui che governa ogni cosa. Crisippo perché tutto avviene per causa sua. Altri vogliono che il nome ‘Dio’ derivi da ‘dein’ legare, cioè tenere collegato, tenere coeso l’universo sensibile. Altri da ‘zen’ vivere. 

2.4.3 = Giovanni Lido ‘De mensibus’ IV, 81, 53 = Aezio ‘Placita’ I, 28, 5 
Secondo Posidonio la Prònoia è, in primo luogo, Zeus; in secondo luogo, la Natura; e in terzo luogo il Destino.

2.4.4 = SVF II, 915 = Diogene Laerzio VII, 149
Crisippo nei libri ‘Sul destino’, Posidonio nel secondo libro ‘Sul destino’, Zenone, e Boeto nel primo libro ‘Sul destino’ affermano che tutto avviene in armonia col destino. E il destino è la causa concatenante delle cose che sono, oppure la ragione in armonia con la quale il cosmo se la tragitta. 

2.5 La Divinazione e l’Astrologia

2.5.1 = SVF II, 1191 = Diogene Laerzio VII, 149
Gli Stoici dicono che se c’è la Prònoia ogni forma di mantica è fondata; e dichiarano, sulla base di certi esiti, che essa è un’arte, come affermano Zenone, Crisippo nel secondo libro ‘Sulla mantica’, Atenodoro e Posidonio nel secondo libro della ‘Fisica’ e nel quinto libro ‘Sulla mantica’. 

2.6 I fenomeni Meteorologici

2.6.1 = SVF III [AS], 6 = Diogene Laerzio VII, 135 
La ‘superficie’ è il limite di un corpo, ossia ciò che ha lunghezza e larghezza ma non profondità. Nel quinto libro ‘Sulle meteore’ Posidonio mette la superficie nel novero delle realtà sia divisate che sostanziali.

2.6.2 = SVF II, 702 = Diogene Laerzio VII, 153 
La grandine è una nuvola congelata trasformata in gragnola dal vento. La neve è umidità che precipita da una nuvola congelata, come dice Posidonio nell’ottavo libro della ‘Fisica’.

2.6.3 = SVF II, 692 = Diogene Laerzio VII, 152
L’arcobaleno è formato da raggi di luce che sono stati riflessi da nuvole umide; oppure, come afferma Posidonio nella sua ‘Meteorologia’, è il l’apparenza che prende una sezione del sole o della luna in una nube rorida, cava, visibile senza interruzione e che ci appare come in uno specchio sotto forma di un arco di cerchio.

2.7 I Terremoti

2.7.1 = Diogene Laerzio VII, 154
I terremoti avvengono quando il vento irrompe con irruenza nelle cavità della terra o allorché esso vi si trovi imprigionato, come afferma Posidonio nel settimo libro della ‘Fisica. Alcuni terremoti sono ondulatori, altri producono spaccature del suolo, altri ancora spostamenti orizzontali del suolo e altri, infine, sussultori.

3. Psicologia

3.1 Essenza dell’Animo

3.1.1 = SVF III [AT], 49 = Diogene Laerzio VII, 157 
Zenone di Cizio, Antipatro nei libri ‘Sull’animo’ e Posidonio affermano che l’animo è pneuma caloroso. È grazie a questo che noi siamo creature spiranti ed è da questo che noi siamo mossi.

3.2 Parti e Facoltà dell’Animo

3.2.1 = SVF I, 571 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ VIII, p. 652-653 M. 
In relazione a ciò io aggiunsi ai primi due libri altri tre libri, mostrando in essi per prima cosa che Panezio, il più scientifico degli Stoici grazie ai suoi studi di geometria, si discostò da Crisippo e nella sua trattazione ‘Sulle passioni’ dimostra che noi siamo governati da tre facoltà: la concupiscente, l’irascibile e la raziocinante. Posidonio mostrò poi che anche Cleante è della stessa opinione. Egli afferma pure che sulla base di queste fondamenta anche il discorso sulle virtù giunge a conclusioni corrette, e lo dimostra in un corposo trattato scritto da lui a parte.

3.2.2 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, p. 454-455 M. 
Aristotele e Posidonio ammettono che le facoltà dell’animo sono in numero di tre, e che grazie ad esse noi proviamo concupiscenza, ci adiriamo e siamo capaci di ragionare. È invece dottrina di Ippocrate e di Platone che le facoltà risiedano in luoghi separati, e che il nostro animo non soltanto possieda molte facoltà, ma anche che sia il risultato della composizione di parti eterogenee e differenti per sostanza.

4. Etica

4.1 Branche dell’Etica

4.1.1 = SVF III, 1 = Diogene Laerzio VII, 84
Gli Stoici dividono la parte Etica della filosofia in diversi ambiti di ricerca: quello dell’impulso, quello dei beni e dei mali, delle passioni, della virtù, del sommo bene, del primo valore, delle azioni, delle esortazioni e dissuasioni doverose. Così la suddividono i seguaci di Crisippo, di Archedemo, di Zenone di Tarso, di Apollodoro, di Diogene, di Antipatro e di Posidonio. Zenone di Cizio e Cleante, in quanto filosofi più antichi, discernettero circa queste faccende in modo più semplice. Costoro però divisero dal resto sia la Logica che la Fisica.

4.2 Le Passioni: essenza, origine, struttura

4.2.1 = SVF I, 571 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ IX, 1, p. 653 M. 
Nella sua trattazione ‘Sulle passioni’ Posidonio mostra che noi siamo governati da tre facoltà: la concupiscente, l’irascibile e la raziocinante. Posidonio mostrò poi che anche Cleante è della stessa opinione.

4.2.2 = SVF I, 209 (2) = SVF III, 462 (3) = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ IV, p. 377-379 M. 
Quando subito dopo passa ad esaminare se è d’uopo legittimare l’opinione che le passioni siano certe determinazioni oppure le conseguenze di certe determinazioni, su entrambi i punti Crisippo si discosta dagli antichi, e soprattutto ritiene valida l’ipotesi peggiore. In questo modo egli contraddice Zenone e molti altri Stoici, i quali concepiscono che le passioni dell’animo non siano le determinazioni dell’animo in quanto tali, ma le irragionevoli contrizioni e servilismi e strazi, come pure le esaltazioni ed effusioni a seguito di tali determinazioni. Posidonio, alla fine, si discostò completamente da entrambe le opinioni. Egli infatti, seguendo in tutto e per tutto l’antica spiegazione, ritiene che le passioni siano né determinazioni né affezioni che sopravvengono a delle determinazioni, bensì che esse nascano dalla facoltà irascibile e concupiscente dell’animo. Egli pertanto, nel suo trattato ‘Sulle passioni’ cerca non poche volte di sapere dai seguaci di Crisippo quale sia la causa dell’impulso eccessivo, giacché la ragione non potrebbe andare per eccesso al di là della propria ben misurata attività. È dunque evidente come la causa che fa andare l’impulso al di là dei ben misurati limiti posti dalla ragione sia una qualche altra facoltà irrazionale, così com’è una causa irrazionale, ossia il peso del corpo, quella che nella corsa ci fa andare al di là del ben misurato limite posto dalla proairesi. Il fatto sorprendente non è tuttavia che Crisippo affermi il contrario di quanto molti sostengono, e neppure che egli abbia fallito nella ricerca della verità -giacché si può ben perdonare un uomo che, in quanto tale, sbaglia- bensì il fatto che egli non abbia assolutamente messo mano a riconciliarsi con le affermazioni degli antichi filosofi e che egli litighi con se stesso, dal momento che ora legittima l’idea che le passioni nascano senza ragione e senza previa determinazione, ora è dell’avviso che le passioni non soltanto s’accompagnino a delle determinazioni ma che siano esse stesse determinazioni. Ora, il fatto che la passione non trovi il minimo appiglio in una determinazione è proprio l’esatto opposto dell’essere essa una determinazione; a meno che, per Zeus, volendo correre in soccorso di Crisippo uno non affermasse che il sostantivo ‘determinazione’ ha più di un significato e, nella spiegazione della definizione di ‘passione’, dicesse che determinazione significa ‘circospezione’; di modo che dire ‘senza determinazione’ equivalga a dire ‘senza circospezione’ e che, laddove invece ha detto che le passioni sono determinazioni, si chiamassero determinazioni gli impulsi e gli assensi. Ma se pure si accogliesse ciò, allora la passione sarà un assenso eccessivo e Posidonio domanderà nuovamente a Crisippo, oltre all’avere egli commesso un madornale errore nell’insegnarlo, la causa di questa eccessività. Se infatti la validità dell’analisi critica consiste proprio in questo, ossia nel dirimere i casi di omonimia e nel mostrare secondo quale significato le passioni nascono senza determinazione e secondo quale significato esse sono determinazioni, e se Crisippo non lo ha fatto in nessuno dei 4 libri che ha scritto ‘Sulle passioni’, come si potrebbe non biasimarlo giustamente? 

4.2.3 = SVF III, 481 = SVF III, 482 = SVF III, 466 = SVF III, 467 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ IV, p. 416-427 M.
Passerò ora ad alcune delle argomentazioni che Posidonio oppone a quelle di Crisippo. Posidonio afferma che questa definizione di ‘afflizione’, come anche molte altre definizioni delle passioni formulate da Zenone e messe per iscritto da Crisippo, confuta chiaramente il punto di vista di quest’ultimo, il quale afferma che l’afflizione è ‘opinione immediata e senza riserva che un male ci è presente’. Parlando a volte in modo più spiccio, Crisippo e i suoi seguaci proferiscono la definizione all’incirca così: ‘afflizione è opinione immediata e senza riserva della presenza di un male’, e dicono che ‘immediata’ significa ‘recente nel tempo’. Posidonio, a questo punto, li sollecita allora a spiegare la causa per cui l’opinione del male, quando è immediata, fa restringere l’animo e suscita l’afflizione; mentre invece, col passare del tempo, o non lo fa affatto più o comunque non in maniera simile. Eppure, se le dottrine di Crisippo sono vere, non ci sarebbe bisogno di interporre quell’ ‘immediata’ nella definizione. Secondo il suo punto di vista, infatti, si dovrebbe dire che l’afflizione è piuttosto opinione, come lui stesso è solito nominarla, di un male grande o non reggibile o defatigante. A questo riguardo l’obiezione di Posidonio a Crisippo è duplice. In riferimento a questa seconda definizione, gli rimemora dei saggi e di coloro che stanno facendo progressi nella virtù. I primi, infatti, si concepiscono attorniati dai massimi beni ed i secondi dai massimi mali, eppure né gli uni né gli altri sono per questo preda della passione. In riferimento alla prima definizione, poi, domanda quale sia la causa per cui non è l’opinione della presenza di un male a suscitare l’afflizione ma soltanto l’opinione immediata. E dice: “Perché tutto ciò che di inusitato e strano ci incoglie di botto, ci fa fuoriuscire e ritrarre dalle antiche determinazioni; e invece, quanto al muoverci in preda alla passione, tutto ciò che di usitato, consuetudinario, cronico ci incoglie, o non ci fa ritrarre affatto dalle antiche determinazioni o certamente ce ne fa ritrarre per poco”. Afferma perciò che bisogna familiarizzarsi a trattare le faccende non ancora presenti come se fossero presenti; e per Posidonio il termine ‘familiarizzarsi’ vuole significare qualcosa come plasmare e modellare in anticipo in noi stessi la faccenda prima che essa avvenga nel futuro, e farsene in breve un costume come se essa fosse già avvenuta. A tal proposito, perciò, egli ha assunto l’esempio di Anassagora il quale, ad uno che gli annunciava la morte del figlio, senza affatto scomporsi disse: ‘Sapevo di averlo generato mortale’. Anche Euripide fa suo questo pensiero e fa dire a Teseo:

‘Avendo imparato ciò da un uomo saggio,
io volgevo la mente a preoccupazioni e guai;
io, esule dalla mia patria, proponendo a me stesso in sorte
morti premature ed altre vie funeste; 
così che se sperimentassi qualcuna 
delle sventure che opinavo, le nuove, 
incogliendomi, non mi mordessero l’animo’.

Ed afferma che dicono così anche questi versi:

‘Se questo fosse il primo giorno delle mie sventure
e se già a lungo non avessi viaggiato nei dolori,
sarebbe verosimile che io mi dibattessi
come un puledro appena aggiogato e che or ora ha morso il freno.
Invece ormai sono frollo e affranto dai mali’.

E talora cita questi:

‘Il tempo lungo l’ammorbidirà; ora, però,
il male è ancora fresco’.

Nel secondo libro ‘Sulle passioni’, anche Crisippo testimonia che negli uomini le passioni s’ammorbidiscono col passare del tempo, pur permanendo in essi l’opinione che è loro accaduto un male, e scrive così: “Si potrebbero anche fare ricerche sul modo in cui avviene l’attenuazione della afflizione: se per spostamento di una certa opinione oppure, se tutte le opinioni restano tali, per quale causa ciò avvenga”. E poi in aggiunta afferma: “Io reputo che l’opinione di un male in quanto male presente, perduri; e che però col passare del tempo la contrizione trovi sollievo e che lo trovi pure, come credo, l’impulso alla contrizione. Ma se anche capita che l’opinione perduri, le azioni successive non le daranno retta, a causa del sopravvenire di una disposizione d’animo di qualità diversa, la quale non tiene razionalmente conto di ciò ch’è avvenuto. È così, infatti, che chi singhiozza smette di singhiozzare e che chi vuole trattenersi dal singhiozzare singhiozza, qualora gli oggetti che ha davanti, siano essi reali oppure no, producano simili rappresentazioni. È ragionevole pertanto pensare che, al modo in cui cessano lamenti funebri e singhiozzi, questo genere di cose capiti anche a proposito di quelle faccende che all’inizio emozionano di più, come dissi avvenire a proposito delle cose che suscitano il riso e di quelle simili a queste”. Lo stesso Crisippo ammette dunque che col tempo, pur perdurando l’opinione, le passioni cessano; anche se afferma che è difficile comprendere per quale causa ciò avvenga. Poi di seguito scrive di altri eventi similari circa i quali professa manifestamente di non conoscere la causa. Invece Posidonio, o caro Crisippo, non afferma affatto di ignorare le cause di siffatte passioni, bensì loda ed accoglie le tesi avanzate dagli antichi, tesi che qui di seguito dirò. Tu invece, senza ricordare quelle tesi e senza proporne una tu stesso, credi una questione risolta se ammetterai di ignorarne la causa? Eppure il tema che unifica l’intero Trattato delle ricerche logiche e quello Terapeutico delle passioni è null’altro che lo scovare le cause per cui esse nascono e per cui cessano. Giacché così, credo, si potrebbe impedire la loro genesi e farle cessare quando nascono, essendo ragionevole pensare, credo ancora, che insieme con la sparizione delle loro cause scompaiano anche simultaneamente la loro genesi e la loro sussistenza. Ma su queste questioni, stando al libro ‘Sulle passioni’, tu sei in imbarazzo e non sai scriverci qualcosa ponendo mente alla quale noi potremo impedire il sorgere di ciascuna passione e guarire quella che sia insorta. Eppure queste cose le aveva già scritte mirabilmente Platone; come segnala anche Posidonio, il quale è pieno di ammirazione per quell’uomo, lo chiama divino, tiene in gran conto la sua dottrina sulle passioni, sulle facoltà dell’animo e su quant’altro è stato da lui scritto circa il non far insorgere oppure, una volta insorte, circa il far rapidamente cessare le passioni dell’animo. Posidonio afferma anche che l’insegnamento delle virtù e quello del sommo bene è rannodato a queste questioni; e che, in complesso, tutte le dottrine etiche della filosofia sono legate come da un unico filo, che è quello della chiara cognizione delle facoltà dell’animo. Sempre lui dimostra che le passioni nascono dal rancore e dalla smania, e per quale causa nel corso del tempo esse si calmino; pur se nelle persone permangono le opinioni e le determinazioni relative al loro star male o all’essere loro accaduto un male. Ed a questo fine Posidonio sfrutta come testimone lo stesso Crisippo il quale, nel secondo libro ‘Sulle passioni’, scrive pressappoco così: “Quanto all’afflizione, alcuni paiono distornarsene come se ne fossero sazi, e queste sono appunto le parole di Omero su Achille che piange il lutto di Patroclo:

‘Ma quando fu satollo di singhiozzare e di rotolarsi’

e

‘A lui pervenne bramosia dai precordi e dalle membra’

ed ebbe l’impulso di chiamare a sé Priamo, per fargli riscontrare l’irrazionalità dell’afflizione”. Poi di seguito aggiunge questo: “Ragion per cui, col passare a questo modo del tempo sopra le vicende e attenuandosi l’infiammazione passionale, non si dovrebbe perdere la speranza che la ragione, intrudendosi e come prendendo spazio, faccia riscontrare l’irrazionalità della passione”. In questi passi Crisippo ammette in modo evidente che l’infiammazione passionale, pur permanendo la concezione e l’opinione, s’attenui col passare del tempo; che gli uomini si sazino dei moti passionali e, poiché la passione prende una certa pausa e s’acquieta, che la ragione riesca a prevalere. Queste cose sono vere, anche se alcune altre contraddicono le sue ipotesi, come le affermazioni di questo tenore: “Si dicono anche parole del genere circa la trasformazione delle passioni:

‘Del frigido pianto si è in fretta satolli’

e parole del genere rivolte a ciò che conduce all’afflizione:

‘Com’è dilettoso per chi ha cattiva sorte
singhiozzare e prorompere in lamenti sulla sorte’

e poi ancora di seguito:

‘Così disse; e in tutti fece insorgere bramosia di pianto’

ed anche

‘Ridesta il medesimo pianto, riprendi il canto che fa versare molte lacrime’.

È senza fallo possibile mettere assieme, traendole dai poeti, anche moltissime altre testimonianze del fatto che gli uomini si saziano di afflizione, di lacrime, di singhiozzi, di lamenti, di vittorie, di onori e di tutte le cose del genere, dalle quali non è arduo dedurre la causa per cui col tempo le passioni cessano e la ragione padroneggia gli impulsi. Infatti, come la parte passionale dell’animo prende di mira certi appropriati oggetti di desiderio, altrettanto essa, una volta centratili, se ne sazia; e con ciò s’arresta il loro moto, quello che padroneggiava l’impulso dell’animale e lo conduceva a proprio piacimento a ciò che lo fuorviava. Pertanto le cause delle passioni non sono inaccessibili alla ragione, come invece sostiene Crisippo, e sono del tutto chiare a chi non ha l’ambizione di mettersi a gareggiare con gli antichi filosofi. Nulla è così evidente quanto la presenza nei nostri animi di alcune facoltà le quali mirano per natura, una al piacere fisico ed un’altra al potere sugli altri e alla vittoria; facoltà che Posidonio afferma essere chiaramente visibili anche negli altri animali, come pure noi abbiamo dimostrato subito all’inizio del primo libro. Posidonio biasima rettamente l’affermazione di Crisippo secondo cui ‘a volte capita che pur in permanenza di un impulso, le azioni successive non gli corrispondano, a causa del sopravvenire di una disposizione qualitativamente differente’. È infatti inconcepibile, dice Posidonio, che sia presente l’impulso e però che l’atto corrispondente sia impedito da qualche altra causa. Laonde qualora Crisippo dica che ‘coloro i quali stanno singhiozzando smettono di singhiozzare e coloro i quali non vogliono singhiozzare si mettono invece a singhiozzare quando le circostanze oggettive producano in essi simili rappresentazioni’; Posidonio anche in questo caso gli chiede di spiegare la causa per cui molte persone che non vogliono singhiozzare, molte volte si mettono a singhiozzare e non sono capaci di trattenere le lacrime; mentre altre persone che vogliono ancora singhiozzare smettono invece di farlo ben prima di quanto vogliano. Ciò manifestamente avviene a causa del fatto che i moti passionali incalzano così violentemente da non poter essere dominati da parte della decisione razionale di non piangere, oppure perché essi sono cessati così completamente da non poter più essere ridestati dalla decisione razionale. Si scoprirà così la battagliera contrapposizione tra ragione e passione, ed evidentemente risulterà salvaguardata l’esistenza delle facoltà concupiscente ed irascibile dell’animo, giacché questi fenomeni avvengono non, per Zeus, come sostiene Crisippo, per cause illogiche bensì a causa di quelle facoltà delle quali parlano gli antichi filosofi. Infatti non erano soltanto Aristotele e Platone ad avere questa opinione. Prima di loro essa fu condivisa da altri filosofi e tra di essi da Pitagora; il quale, secondo Posidonio, fu il primo ad affermarla, mentre Platone la elaborò e la strutturò in modo più perfetto. Perciò sia le abitudini sia il tempo nel suo complesso appaiono avere la massima influenza sui moti passionali. La parte irrazionale dell’animo si familiarizza rapidamente con le abitudini delle quali sia nutrita. Poi, col passare del tempo, come è stato detto in precedenza, quando le facoltà irrazionali dell’animo si siano saziate degli oggetti per i quali in precedenza smaniavano, ecco che le passioni si acquetano. Invece sia le cognizioni logiche, sia le determinazioni, sia tutto il complesso delle conoscenze scientifiche ed artistiche, a causa del puro e semplice trascorrere del tempo non appaiono diventare difficili da eliminare, come sono invece le abitudini passionali, né difficili da ritrattare e da sospendere, come sono invece l’afflizione e le altre passioni. Chi mai, infatti, col passar del tempo si è saziato dell’idea che due volte due faccia quattro e perciò l’ha riposta in un canto e si è fatto un’altra opinione? Chi mai si è nauseato dell’idea che tutti i raggi di una circonferenza siano uguali? E anche degli altri teoremi nessuno si è saziato ed ha riposto in un canto l’antica opinione, come si ripongono invece in un canto il singhiozzare, l’affliggersi, il gemere, il mugugnare, il lamentarsi e tutte le altre manifestazioni di questo genere, pur restando identiche le concezioni degli eventi accaduti come ‘mali’. Senza fallo queste considerazioni sono sufficienti a dimostrare l’erroneità delle tesi di Crisippo sulle passioni dell’animo, ed ancor più a monte sulle facoltà che le suscitano. Nondimeno ho intenzione di tornare a discutere sulle tesi di Crisippo nel mio quinto libro, tralasciando però la maggior parte delle sue tesi erronee e ricordando soltanto quelle nelle quali egli contraddice se stesso ed ha l’ardire di pronunciare affermazioni contrarie alla più lampante evidenza. E in tale trattato ricorderò anche le critiche che Posidonio muove alle tesi di Crisippo.

4.2.4 = SVF III, 461 (2) = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, p. 429 M.
Nel primo libro ‘Sulle passioni’ Crisippo prova a dimostrare che le passioni sono determinazioni della parte raziocinante dell’animo; mentre Zenone legittimava invece l’idea che le passioni siano non le determinazioni come tali ma le contrizioni e le effusioni, le esaltazioni e le depressioni dell’animo che sopravvengono ad esse. Posidonio dissente da entrambe queste tesi e invece loda ed ammette per sé la dottrina di Platone, mentre ribatte ai seguaci di Crisippo mostrando che le passioni sono né determinazioni né affezioni che sopravvengono a delle determinazioni, bensì moti di certe altre facoltà irrazionali dell’animo cui Platone ha dato il nome di facoltà concupiscente e di facoltà irascibile.

4.2.5 = SVF I, 570 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, 6, p. 456 M. 
Egli afferma che il punto di vista di Cleante sulla parte passionale dell’animo appare da questi versi:

[Ragione] – Cos’è mai che vuoi, o Rancore? Dimmelo
[Rancore] – Che tu faccia, o Ragione, tutto ciò che io voglio
[Ragione] – Parli da re; però comunque ripetilo
[Rancore] – Che le cose per cui smanio, avvengano!’

Posidonio afferma che questo scambio di battute è di Cleante e che mostra con evidenza il suo punto di vista sulla parte passionale dell’animo, se appunto ha fatto dialogare l’un l’altro Ragione e Rancore.

4.2.6 = SVF III, 460 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, 6 (168), p. 448 M. 
“Il causativo delle passioni, cioè dell’operare in modo inammissibile con la natura delle cose e della vita infelice, sta proprio nel non accompagnarsi in tutto al demone che è in lui stesso, cui è congenere e che ha natura simile alla ragione che governa il cosmo intero; evitando nel contempo di portarsi verso la parte peggiore e animalesca dell’uomo. I seguaci di Crisippo trascurano invece ciò, e in questi libri non migliorano la nostra conoscenza della causa delle passioni, né opinano rettamente in quelli sulla felicità e sull’ammissibilità con la natura delle cose. Essi infatti non vedono che il primo requisito per la felicità è di non lasciarsi guidare in nessun caso dalla parte irrazionale, infelice e atea dell’animo”. Con queste parole Posidonio palesemente insegna quanto grandemente aberrino i seguaci di Crisippo, non soltanto nei ragionamenti circa le passioni ma anche in quelli circa il sommo bene; giacché il ‘vivere in modo ammissibile con la natura delle cose’ non è vivere come dicono loro ma come insegna Platone.

4.2.7 = SVF III, 229a = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, 5, p. 437 M. 
E in primo luogo metteremo mano alla trattazione del governo dei bambini. Infatti, non si può affermare che i loro impulsi siano sotto la tutela della ragione (giacché non hanno ancora la ragione), né che essi non provino rancore, afflizione, godimento; che non ridano, che non rompano in alti lamenti e non sperimentino miriadi di altre passioni del genere. Anzi, le passioni sono molte di più e più veementi nei bambini che negli adulti. Queste evidenze sono invero inconseguenti con i giudizi teorici di Crisippo ed anche col giudizio che non vi sia alcuna tendenza naturale all’appropriazione del piacere fisico ed all’estraniazione dal dolore fisico. Ci sono dunque per natura in noi questi tre tipi di appropriazione, corrispondenti a ciascuna specificità dei tre pezzi dell’animo: appropriazione del piacere fisico per via del pezzo concupiscente; appropriazione dell’essere vincenti per via del pezzo irascibile; appropriazione del bello per via del pezzo raziocinante. Epicuro osservò soltanto l’appropriazione del pezzo peggiore dell’animo e Crisippo quella del pezzo migliore, poiché ha affermato che noi siamo imparentati solo al bello, che è manifestamente anche il bene. Soltanto agli antichi filosofi fu dato di osservare tutte e tre le appropriazioni. Poiché dunque ha lasciato da parte le prime due, Crisippo dirà verosimilmente di difettare di una spiegazione della genesi del vizio, non potrà citarne la causa né i modi di sussistenza, e neppure potrà scovare come mai i bambini aberrino; tutte cose che ragionevolmente, io credo, anche Posidonio di lui biasima e confuta. Ma invero si vede che quand’anche un bambino sia nutrito di probe abitudini e sia convenientemente educato, comunque incappa in qualche aberrazione; e proprio questo fatto anche Crisippo lo ammette. Eppure era contingente per lui, che disdegna cose che appaiono evidenti, ammettere soltanto ciò ch’è conseguente con le sue ipotesi ed essere dell’avviso che se i bambini fossero ben condotti, essi diverrebbero comunque, con il passare del tempo, uomini saggi. Ma non ha avuto l’audacia di fare questa dichiarazione smentita dall’evidenza ed ha ammesso che se anche saranno educati solo da un filosofo e non osserveranno né ascolteranno giammai un esempio di vizio, ugualmente questi bambini non diventeranno di necessità filosofi. Duplice è infatti la causa del pervertimento: una è quella ingenerata dalla catechesi della maggioranza degli uomini, l’altra è ingenerata dalla stessa natura delle cose. Se Crisippo pare ammettere, non per le parole usate ma per la forza delle argomentazioni addotte, che vi sono in noi per natura un’appropriazione ed un’estraniazione verso ciascuna delle entità dette (cioè verso il piacere e il dolore fisico, verso l’onore e il disonore). Qualora infatti egli affermi che i pervertimenti circa i beni e i mali si ingenerano nei viziosi a motivo della persuasività delle rappresentazioni e della catechesi, bisogna domandargli quale sia la causa per cui il piacere fisico e la sofferenza ci mettono davanti un’immagine persuasiva, l’una del bene e l’altra del male. E allo stesso modo anche perché la vittoria alle Olimpiadi e l’erezione di statue siano cose lodate e giudicate beate dai più e da noi intese come beni; e invece, circa la sconfitta e il disonore, noi ci persuadiamo prontamente che siano mali. Nel presente il mio ragionamento si sofferma contro i seguaci di Crisippo, i quali non conoscono altro di ciò che attiene alle passioni; neppure che le mescolanze degli umori del corpo elaborano moti passionali appropriati a se stesse. In proposito, poi Crisippo in persona non soltanto nulla ha detto di decente, ma neppure ha lasciato dietro di sé a qualcuno dei seguaci risorse per il rinvenimento della verità, poiché ha posto a supporto del suo ragionamento uno zoccolo di cattiva qualità.

4.2.8 = SVF III, 465 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, 2, p. 411 M. 
Ancor più assurdamente di Posidonio, Crisippo conviene nell’idea che la malattia dell’animo non assomigli a quella di chi è affetto da malattie periodiche, come le febbri terzane e quartane, e scrive così: “Bisogna dunque sottintendere che la malattia dell’animo sia del tutto simile a quella condizione febbrile del corpo per la quale insorgono, non periodicamente ma disordinatamente, febbri e brividi indipendenti dalla nostra disposizione fisica e per il sopravvenire di piccole cause”. Non so poi sulla base di quale opinione Crisippo affermi che quanti hanno facilità di ammalarsi sono già ammalati e che invece quanti sono già ammalati non lo sono interamente.
In seguito Galeno paragona quanti piangono per un lutto o sono preda della passione amorosa o dell’invidia ai malati di febbri terzane e quartane e invece considera coloro nei quali non v’è lutto né sono presenti accenni di smania o di rancore pressoché uguali alle persone in salute, giacché taluni di costoro però vanno facilmente soggetti alle malattie, taluni no.

4.2.9 = SVF III, 469 = Galeno ‘De moribus animalium’ Ed. Bas. 1, 351, K., p. 820. 
Per questo motivo Posidonio, stando al suo trattato ‘Sulle passioni’, pensa cose del tutto opposte a Crisippo; e nel libro ‘Sulla differenza delle virtù’ biasima molte delle affermazioni fatte da Crisippo nelle sue ricerche logiche sulle passioni, e ancora di più quelle contenute nei libri sulle differenze delle virtù.

4.2.10 = SVF III, 480 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ IV, 5 (144), p. 368 M. 
Dianzi ho citato il passo tratto dal primo libro ‘Sulle passioni’ in cui Crisippo afferma che le passioni nascono all’infuori della determinazione. E che egli sia della medesima opinione anche nel suo libro ‘Terapeutico’, che è registrato anche come ‘Etico’, è possibile apprenderlo da questo passo: “Il motivo per cui le passioni si chiamano infermità non sta nel determinare che queste cose siano beni ma nell’esservi piombati sopra con maggior forza di quanto la natura richieda”. Se qualcuno avesse frainteso, il punto di vista di Crisippo sarà appalesato da quanto segue: “Donde si dice non irragionevolmente che alcuni ‘vanno pazzi per le donne’ e ‘vanno pazzi per gli uccelli’ ”. Ma, per Zeus, forse qualcuno potrebbe dire che il ‘pazzesco’ non nasce a causa di una facoltà irrazionale ma dall’avere noi estrovertito più di quanto convenga sia la determinazione che l’opinione, il che è come dire che le infermità nascono nell’animo non banalmente per avere concepito falsi giudizi su delle cose come beni o come mali, ma per il legittimarle come il massimo dei beni o dei mali. Infermità non è, infatti, l’opinione che la ricchezza di denaro sia un bene, ma il legittimarla come il sommo dei beni e il concepirsi indegno di vivere da parte chi ne sia privo. Giacché in ciò consistono l’avarizia e l’amore per il denaro, i quali sono infermità dell’animo. Ma a chi è di questo avviso Posidonio obietta e dice più o meno così: “Le cose dette da Crisippo… 

4.2.11 = SVF III, 259 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ VII, (206,583) M. 
Non ci siamo soltanto dilungati a contestare i loro ragionamenti interrogativi sull’egemonico dell’animo, ma pure a contestare le cose scritte da Crisippo sulle passioni dell’animo nelle tre Memorie logiche e nel ‘Terapeutico’, dopo avere anche mostrato che egli litiga con se stesso. Abbiamo menzionato anche le compilazioni di Posidonio, nella quali questi loda l’antica dottrina e contesta le tesi erronee di Crisippo sulle passioni dell’animo e sulla differenza delle virtù. Crisippo, infatti, nello stesso modo in cui abolisce le passioni dell’animo, come se esistesse soltanto la parte raziocinante di esso e non anche la parte concupiscente e la parte irascibile, così pure abolisce tutte le restanti virtù ad eccezione della saggezza. Eppure anche qui, se si ripercorressero col ragionamento gli scritti di Crisippo ‘Sulla differenza delle virtù’ in 4 libri e si tormentassero le tesi da lui discusse anche in un altro libro nel quale, contestando il ragionamento di Aristone, mostra che le virtù sono qualità, non ci sarebbe bisogno di uno o due ma di tre o 4 libri. C’è a questo punto, invece, solo un mio breve e scientifico ragionamento che contesta Crisippo, in quanto non ambasciatore di verità e scrittore troppo prolisso. Al contrario, coloro che non hanno educazione al metodo dimostrativo e non sanno neanche lontanamente cosa esso sia, poiché pongono mente soltanto alla mole ed allo stuolo dei libri scritti da Crisippo, legittimano l’idea che in essi si trovino tutte verità. Ed effettivamente nella maggior parte di essi ci sono verità, soprattutto in quel libro in cui egli mostra che le virtù sono qualità. Ma il fatto è che le affermazioni fatte in questo libro contraddicono chi ipotizza esservi una sola facoltà dell’animo, quella che ha nome di facoltà logica e critica, e chi ne abolisce la parte concupiscente e la parte irascibile, proprio quelle che Crisippo ha abolito; e questo è ciò per cui uno potrebbe biasimarlo. Non lo si biasimerebbe, invece, per il fatto che la scuola di Aristone sia stata veramente abbattuta dai suoi scritti. Aristone, infatti, legittima l’idea che la virtù sia una sola, ma che sia chiamata con più nomi a seconda di ciò con cui è in relazione. Crisippo mostra, quindi, che lo stuolo delle virtù e dei vizi non si genera nella relazione con qualcosa ma, invece, nelle appropriate sostanze che cambiano qualitativamente, come voleva il ragionamento degli antichi filosofi. Tesi che, brevemente svolta, Crisippo ha discusso con altre parole nel libro ‘Le virtù sono qualità’, tuttavia con epicherèmi che non si confanno a chi ha proposto esservi soltanto la parte raziocinante dell’animo ed ha abolito la sua parte passionale. Come posso dunque essere io la causa della lunghezza di questi discorsi, se ora sono costretto a dimostrare che Crisippo ha verosimilmente abbattuto l’opinione di Aristone utilizzando epicherèmi di un’altrui scuola?

4.3 La virtù e il sommo Bene

4.3.1 = Diogene Laerzio VII, 84
Posidonio, nel primo libro della sua ‘Etica’, afferma che testimonianza dell’esistenza della virtù è il fatto che Socrate, Diogene, Antistene e i loro discepoli abbiano fatto in essa dei progressi. D’altra parte anche il vizio esiste realmente, perché si contrappone alla virtù.

4.3.2 = Diogene Laerzio VII, 86-87
Ma poiché agli animali è sopravvenuto in più l’impulso, adoperando il quale essi procedono verso gli scopi loro appropriati, ciò ch’è secondo natura per gli animali coincide col governarsi secondo l’impulso. E dal momento che, per un più perfetto reggimento, è stata data alle creature logiche la ragione, vivere rettamente secondo ragione diventa per queste ciò ch’è secondo la natura delle cose. La ragione, infatti, sopravviene in esse quale artista dell’impulso. E perciò Zenone per primo, nel suo libro ‘Sulla natura dell’uomo’ disse che il sommo bene è vivere in modo ammissibile con la natura, il che significa vivere secondo virtù; giacché è la nostra natura a condurci alla virtù. In modo simile parlano Cleante nel suo libro ‘Sul piacere fisico’, Posidonio ed Ecatone nei suoi libri ‘Sui sommi beni’.

4.3.3 = SVF III, 12 (1) = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, 6, p. 450 M. 
Non accontentandosi di questo, Posidonio attacca i seguaci di Crisippo in maniera ancor più evidente e veemente per non avere rettamente spiegato il ‘sommo bene’. Il suo discorso è questo: “Una volta messo da parte ciò, alcuni riducono il ‘vivere in modo ammissibile con la ragione’ al fare tutto il fattibile per conseguire le cose primarie secondo natura, e lo assimilano all’esporsi come scopo il piacere della carne o l’assenza di fastidi o qualcos’altro del genere. In questa enunciazione è palese una contraddizione, e nulla che abbia relazione col bello e col felicitante. Le cose primarie secondo natura, infatti, sono di necessità concomitanti al ‘sommo bene’, ma non sono il ‘sommo bene’. Una volta che si abbia invece un retto discernimento del sommo bene, allora è possibile utilizzarlo per fare a fette le aporie che i sofisti avanzano. Non certo con definizioni del tipo ‘vivere secondo perizia delle cose che avvengono per natura intesa nel suo complesso’, che equivale a dire ‘vivere in modo ammissibile con la ragione’, dal momento che questa formulazione ha invece per intento, in misura non piccola, l’ottenimento di cose indifferenti.

4.3.4 = SVF I, 180 = SVF I, 552 (3) = SVF III [AT], 58 = SVF III [ArT] 21 = Clemente Alessandrino ‘Stromata’ II, 21, 129, 1-5
A sua volta lo Stoico Zenone ritiene che il sommo bene consista nel vivere secondo virtù. Cleante ritiene che il sommo bene sia il vivere in modo ammissibile con la natura. Diogene di Babilonia credeva che il sommo bene consista nell’operare razionalmente, la qual cosa egli discerneva consistere nella selezione delle cose che sono secondo natura. Antipatro, uno della cerchia dei discepoli di questo Diogene, concepisce che il sommo bene giaccia nel selezionare per noi, continuamente ed inviolabilmente, le cose che sono secondo natura e nello scartare quelle che sono contro natura. A sua volta Archedemo spiegava così il sommo bene: “Sommo bene è il vivere selezionando per sé le cose più grandi e principalissime secondo natura, che sono anche quelle oltre le quali è impossibile andare”. Oltre a questi, Panezio dichiarava essere ‘sommo bene’ il vivere in armonia con le risorse dateci dalla natura. Infine, secondo Posidonio, sommo bene è il vivere avendo chiara conoscenza del vero ordinamento del cosmo, facendo al possibile la nostra parte nello strutturarlo con il non lasciarci in nessun caso guidare dalla parte irrazionale dell’animo. Alcuni degli Stoici più recenti lo hanno definito così: ‘sommo bene’ è il vivere in modo conseguente alle caratteristiche strutturali dell’uomo.

4.3.5 = SVF III, 261 = SVF III [AT], 60 = Diogene Laerzio VII, 92 
Panezio afferma che la virtù è duplice: teoretica e pratica. Altri dicono che è triplice: logica, naturale ed etica. I seguaci di Posidonio affermano che le virtù sono quattro; i seguaci di Cleante, di Crisippo e di Antipatro che sono ancora di più. Apollofane sostiene invece che la virtù è una sola: la saggezza.

4.3.6 = SVF I, 567 = Diogene Laerzio VII, 91
Anche Crisippo, nel primo libro ‘Sul sommo bene’, Cleante, Posidonio nei ‘Protrettici’ ed Ecatone affermano che essa, dico la virtù, è insegnabile; e che sia insegnabile è manifesto dal fatto che degli insipienti diventano virtuosi.

4.4 Il Male

4.4.1 = Diogene Laerzio VII, 103
Ecatone, Apollodoro e Crisippo inoltre affermano che ciò di cui è possibile un uso buono o cattivo non è un bene. E siccome della ricchezza di denaro e della salute è possibile fare un uso buono o cattivo, ecco che né la ricchezza di denaro né la salute sono beni. Tuttavia Posidonio afferma che anche questi sono beni. 

4.4.2 = Diogene Laerzio VII, 127-128
Secondo quanto dicono Zenone, Crisippo nel primo libro ‘Sulle virtù’ ed Ecatone nel secondo libro ‘Sui beni’, la virtù è autosufficiente per la felicità. Tuttavia Panezio e Posidonio dicono che la virtù non è autosufficiente, e affermano che c’è bisogno anche di salute, di proventi e di vigore fisico. 

4.4.3 = SVF III, 367 = Diogene Laerzio VII, 129
Inoltre ha il loro beneplacito il dire che noi non abbiamo alcun obbligo di giustizia verso gli altri animali, a causa della dissomiglianza tra noi e loro, secondo quanto affermano Crisippo nel primo libro ‘Sulla giustizia’ e Posidonio nel primo libro ‘Su ciò ch’è doveroso’. 

4.4.4 = Diogene Laerzio VII, 124
Come affermano Posidonio nel primo libro ‘Sulle attività doverose’ ed Ecatone nel terzo libro ‘Sui paradossi’, gli stoici dicono che che il sapiente auspicherà postulando per sé dei beni da parte degli dei.

4.5 Frammenti di Logica

4.5.1 = SVF I, 631 = Diogene Laerzio VII, 54
Gli Stoici affermano che criterio della verità è la rappresentazione catalettica, cioè quella del realmente esistente, come dicono Crisippo nel secondo libro della ‘Fisica’, Antipatro e Apollodoro. Boeto ammette più criteri di verità: mente, sensazione, desiderio e scienza. Invece Crisippo, nel primo libro ‘Sulla ragione’ si differenzia da lui ed afferma che i criteri di verità sono la sensazione e la prolessi. La prolessi è un concetto naturale degli universali. Alcuni altri degli Stoici più antichi riservano invece la funzione di criterio di verità alla retta ragione, come afferma Posidonio nel suo libro ‘Sul criterio’. 

4.5.2 = SVF II, 122 = Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 62
La dialettica, come afferma Posidonio, è scienza del vero, del falso e di ciò ch’è né l’uno né l’altro. Essa è anche, come afferma Crisippo, scienza dei significanti e dei significati.

4.5.3 = Diogene Laerzio VII, 60
L’elocuzione poetica, come afferma Posidonio nella sua ‘Introduzione all’elocuzione’ è un’elocuzione in versi o ritmata, avente cioè una struttura che va al di là della forma discorsiva. Elocuzione ritmata è la seguente:

‘O terra immensa ed etere di Zeus’

L’elocuzione poetica dotata di significato in quanto ritrae delle faccende divine e umane è poesia. 

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Traduzioni

Marco Aurelio

La traduzione dell’opera di Marco Aurelio è stata da me condotta sulla base del testo greco pubblicato in edizione critica da Joachim Dalfen con il titolo: MARCI AURELII ANTONINI Ad se ipsum Libri XII, Teubner, Leipzig, 1979. Ho tuttavia tenuto conto anche di numerose altre edizioni del testo di Marco Aurelio preparate da diversi autori e, in davvero pochi casi, di esse mi sono servito laddove una congettura testuale mi sembrava più convincente di quella proposta da Dalfen. 

Com’è noto, già nell’antichità l’opera di Marco Aurelio non aveva un titolo. La cosa non deve sorprendere, perché allora era pratica comune che un testo non avesse un titolo finché qualcuno, che in genere non era l’autore, si incaricava di darglielo nel momento in cui rendeva l’opera di pubblico dominio. Il testo è stato citato fin dall’antichità semplicemente come ‘ta èis heautòn ethikà’‘tòu idìou bìou agoghè’, e poi, a partire dal 1559 d.C., ha avuto come titolo ‘De seipso seu vita sua’‘Meditations concerning himself’‘Pugillaria’‘Pensieri’‘A se stesso’ , ‘Ricordi’ e numerosi altri. Siccome io giudico, insieme ad Epitteto, che la sola ed unica cosa della quale l’uomo può avere una conoscenza non libresca è la sua propria proairesi e siccome lo scritto di Marco Aurelio è palesemente una continua variazione su quest’unico tema della natura, dell’essenza e dello stato della sua proairesi, mi è parso del tutto naturale intitolarlo: ‘La proairesi a se stessa’.

Essendo infine io, per questo motivo, alieno alle bibliografie ed altri simili apparati, ho posto ogni cura nel risparmiarli a chi mi legge, ed ho badato esclusivamente alle questioni di sostanza, fidandomi per la compiuta comprensione del testo delle brevi introduzioni che ho apposto ad ogni frammento. Chi, nonostante tutto, avesse invece insopprimibili smanie per l’oscurità e il masochismo camuffati da ‘competenza’, non ha certamente bisogno delle mie indicazioni per trovare tra le fatiche di tanti emeriti professori abbondante modo per soddisfarle.

Vale per l’opera di Marco Aurelio quello che vale per le mie altre traduzioni presenti in questo sito.

La loro caratteristica principale, ed anche unica -credo- rispetto alle altre traduzioni delle stesse opere, è quella di essere state condotte rigorosamente sulla base del corrispondente Index Verborum. Nel caso dell’opera di Marco Aurelio, l’Index Verborum è quello compreso nell’edizione critica di tale opera preparata da Joachim Dalfen con il titolo: MARCI AURELII ANTONINI, Ad se ipsum Libri XII, Teubner, Leipzig, 1979.

Cosa significa tradurre in lingua italiana un testo in greco antico sulla base dell’Index Verborum? Significa innanzitutto partire dalla presunzione, o se volete dalla scommessa, che la lingua italiana abbia una struttura ed una dovizia di vocaboli sufficienti a restituire con accettabile approssimazione le forme e i panneggi dell’abito confezionato nell’antichità. Possiamo paragonarla, insomma, ad un’impresa di alta moda. Io mi sono ovviamente servito dell’aiuto di un gran numero di traduzioni in italiano, in inglese e in francese per superare le numerose incertezze e i frequenti scogli che il testo di Marco Aurelio presenta, e posso dunque parlare al riguardo con conoscenza di causa delle modeste o modestissime sartine -absit iniuria verbis- nelle quali mi sono imbattuto. Non desiderando fare nomi, mi spiegherò con un esempio preso da un testo che invece assolutamente tutti conoscono, dotato di un’autorità senza paragoni e che rappresenta dunque un caso ancora più grave. L’esempio è tratto dal testo ‘La Sacra Bibbia’, Traduzione dai testi originali, Edizioni Paoline, 1964 ed è questo:
**Do per buona la citazione di Luca 19, 41, che fa il paio con quella di Giovanni 11, 35.
In entrambi i casi la traduzione italiana del testo del Vangelo usa il verbo ‘piangere’. Gesù dunque pianse due volte sole in vita sua: una su Lazzaro che poi avrebbe risuscitato e, più tardi, alla vista di Gerusalemme. 
Ma le cose stanno veramente così? 
Tralascio di parlare della traduzione latina di S. Gerolamo. Cosa è scritto nel testo greco?
In Giovanni 11, 35 il testo greco è questo:  “Edàkrusen o Iesùs”. Il verbo “dakrùo” vuol dire propriamente “versare lacrime” e “dàkru” è infatti il sostantivo greco che indica la “lacrima”. Dunque siamo ampiamente autorizzati a tradurre “Gesù pianse” (versando lacrime).
In Luca 19, 41 il testo greco è il seguente: “Kai òs énghisen, idòn tèn pòlin éklausen ep’autèn”, che si può tradurre: “E quando si avvicinò, guardando la città (Gerusalemme) éklausen su di essa”. 
Tutti capiscono che il verbo “klàio” non è il verbo “dakrùo”, meno i traduttori in italiano dei Vangeli, che traducono per sentito dire, per pigrizia, con disprezzo dei lettori i quali, tanto, non si accorgeranno di nulla. 
Il verbo “klàio”  è usato in greco per indicare qualunque espressione sonora di dolore o di afflizione che può, ma può anche non, essere accompagnata dalle lacrime. Io lo tradurrei con un verbo come “singhiozzare”, “rompere in alti lamenti”. Si può piangere in silenzio ma non si può “klàiein” in silenzio. Si può “klàiein” senza versare lacrime ma non si può  fare altrettanto se si piange.
Ne concludo che in Giovanni il testo greco si propone di sottolineare il silenzioso scorrere delle lacrime sul volto di Gesù e tutta l’intimità della sua pena in un ambiente familiare e raccolto.
In Luca, invece, il testo intende porre in evidenza tutta la sonorità e la spettacolarità di un lamento che è fatto davanti a un grande pubblico e per un grande pubblico. Esso sarà infatti immediatamente seguito dalla cacciata dei mercanti dal Tempio.**
Traducendo Marco Aurelio, ho ripetuto per ben 3204 volte l’operazione appena citata con i verbi ‘dakrùein’ e ‘klàiein’, cercando inoltre di dare ad ogni vocabolo che non sia un ‘hapax legomenon’, uno od il minor numero possibile di significati compatibili con i vari contesti. Mi auguro di essermi spiegato. 

L’opera di Marco Aurelio è composta da un totale di circa 30.260 parole. Escludendo dal computo congiunzioni, particelle, preposizioni e pronomi, essa risulta formata da 3367 vocaboli diversi, dei quali il 4,8% (esattamente 163) sono nomi propri. Dei 3204 vocaboli che non sono nomi propri 1768, ossia il 55,2%, sono ‘hapax legomena’, cioè vocaboli usati una sola volta. 

Il numero di ‘hapax legomena’ è notevole, se paragonato al corrispondente valore riscontrabile nell’opera omnia di Epitteto. Questa si compone, infatti, di un totale di circa 84.900 parole e risulta formata, escludendo i nomi propri, da 4292 vocaboli diversi, dei quali soltanto 1485, ossia il 34,6%, sono ‘hapax legomena’.

Pur con tutte le cautele del caso, una differenza così significativa -1768 vocaboli unici su 30.260 parole in Marco Aurelio, contro 1485 vocaboli unici su 84.900 parole in Epitteto- potrebbe effettivamente avvalorare la conclusione che il testo dell’opera di Epitteto sia la fedele registrazione di un parlato dal vivo, mentre l’opera di Marco Aurelio sia un testo prima abbozzato, poi corretto e infine letterariamente rifinito. Le mie traduzioni, comunque, tengono conto di queste loro diverse caratteristiche.