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PILOTINA STOICA USS 10

Temperanza

Aristone di Chio ritenne la virtù sostanzialmente una sola e la chiamò salute. Soltanto in senso relativo vi sono differenti e plurime virtù, come se uno volesse chiamare la nostra visione, quando coglie oggetti bianchi, con il nome di ‘biancovisione’ e quando coglie oggetti neri, di ‘nerovisione’ o qualcos’altro di simile. Giacché la virtù, quando sopravveda quanto va fatto e quanto non va fatto, è stata chiamata saggezza; quando dà compostezza alla smania e definisce quanto è equilibrato ed opportuno nei piaceri fisici è stata chiamata temperanza; quando è in relazione con affari e transazioni con altre persone è stata chiamata giustizia. Così come il coltello è uno ma spartisce di volta in volta cose differenti; e come il fuoco, che è attivo su materiali diversi pur fruendo di una sola natura.
167/375 = SVF 1, 86, 8
Plutarco ‘De Virt. Morali’ p. 440 f.

La saggezza pone dei limiti nell’ambito di quanto va fatto; la virilità li pone alle cose cui si deve resistere; la temperanza a quelle che si devono scegliere; la giustizia a quelle che si devono distribuire.
1095/263(2) = SVF 3, 63, 36
Filone ‘Leg. Alleg.’ I §65

Giacché la temperanza è, nella scelta e nel rifiuto, l’attitudine a salvaguardare le determinazioni della saggezza.
1103/274 (6) = SVF 3, 67, 35
Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 174

Zenone di Cizio sembra essere trascinato in qualche modo a ciò quando definisce la saggezza nelle cose da distribuire come giustizia, la saggezza nelle cose che si devono scegliere come temperanza, nelle cose cui si deve resistere come virilità. Coloro che lo difendono sostengono che in queste definizioni la scienza è da Zenone denominata saggezza.
95/201 = SVF 1, 49, 30
Plutarco ‘De virtute morali’ 2 p.441 a

Aristone, ritenendo dunque che la facoltà dell’animo fosse una sola, quella con cui ragioniamo, suppose anche una sola virtù dell’animo: la scienza dei beni e dei mali. Qualora l’animo nostro debba scegliere i beni e fuggire i mali, Aristone chiama questa scienza temperanza. Qualora debba effettuare il bene e non effettuare il male, saggezza. Qualora debba affrontare con coraggio alcune cose ed altre fuggire, la chiama virilità. Qualora distribuisca a ciascuno secondo il merito, giustizia. In una parola, l’animo è sapienza e scienza quando conosce, senza effettuarli, beni e mali. Quando invece perviene alle azioni della vita, l’animo prende i plurimi nomi sopraddetti e si chiama saggezza, temperanza, giustizia e virilità. Siffatta è l’opinione di Aristone circa le virtù dell’animo.
165/374 = SVF 1, 85, 34
Galeno ‘De Hipp. et Plat. Decr.’ VII 2 (208, 591 M)

Saggezza è la scienza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e di quanto è udetero; oppure è la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri in rapporto alla natura di un animale politico. Così poi prescrivono di intendere circa le restanti virtù. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Giustizia è la scienza di distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Stoltezza è l’ignoranza dei beni, dei mali e degli udeteri; oppure è l’ignoranza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e degli udeteri. Impudenza è l’ignoranza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Ingiustizia è l’ignoranza nel distribuire a ciascuno secondo il merito. Viltà è l’ignoranza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Coloro che si attengono a quanto detto, definiscono in modo somigliante anche le altre virtù e vizi. Ed in genere affermano che la virtù è l’armoniosa disposizione di un animo con se stesso per tutta la vita.
1095/262 = SVF 3, 63, 23
Stobeo ‘Eclogae’ II 59, 4 W

Definiscono dunque la virilità come scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è intermedio. Temperanza è la stabile attitudine, nella scelta e nel rifiuto, a salvaguardare le determinazioni della saggezza. Affine alla virilità è quella resistenza che chiamano fortezza. Essa è la scienza di quanto va mantenuto saldo e di quanto non va mantenuto saldo. Magnanimità è la scienza che ci solleva al di sopra di quanto avviene. Affine alla temperanza è la cautela, che è una avversione attuantesi con ragione. [……….] Chi possiede una virtù sola, a causa della loro implicazione reciproca, le possiede tutte. Ora, la padronanza di sé è una disposizione a non superare i limiti di quanto appare secondo retta ragione. Chi dunque rattiene gli impulsi contrari alla retta ragione è padrone di sé, così come lo è chi rattiene se stesso in modo da non impellere contrariamente alla retta ragione.
1103/275 = SVF 3, 67, 37
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ II p.470 Pott.

Delle virtù alcune sono primarie, altre sono subordinate alle primarie. Le primarie sono quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia. La saggezza si occupa di quanto è doveroso, la temperanza degli impulsi dell’essere umano, la virilità delle sue resistenze, la giustizia delle sue distribuzioni. Di quelle che a queste virtù sono subordinate, alcune sono subordinate alla saggezza, altre alla temperanza, altre alla virilità, altre alla giustizia. Alla saggezza sono subordinate il buon consiglio, la ragionevolezza, la perspicacia, il buon senso, [la sagacia], l’ingegnosità. Alla temperanza sono subordinate la disciplina, la compostezza, il rispetto, la padronanza di sé. Alla virilità sono subordinate la fortezza, il coraggio, la magnanimità, l’ardimento, la laboriosità. Alla giustizia sono subordinate la pietà, la bontà, la socievolezza, l’affabilità. Buon consiglio è dunque la scienza del cosa e del come effettuare utilmente quanto effettuiamo. Ragionevolezza è la scienza capace di equilibrare e riassumere avvenimenti e risultati. Perspicacia è la scienza capace di trovare sul momento quanto è doveroso. Buon senso è la scienza del peggio e del meglio. Sagacia è la scienza di centrare lo scopo in ogni circostanza. Ingegnosità è la scienza capace di trovare una via d’uscita in ogni faccenda. Disciplina è la scienza del quando si deve effettuare una cosa, di cosa si deve effettuare dopo che cosa e, in generale, dell’ordine delle azioni. Compostezza è la scienza dei movimenti confacenti e non confacenti. Rispetto è la scienza che ci cautela da un retto rimprovero. Padronanza di sé è la scienza che ci fa non oltrepassare i limiti di quanto appare essere in accordo con la retta ragione. Fortezza è la scienza che ci mantiene fedeli alle rette determinazioni. Coraggio è la scienza grazie alla quale sappiamo che non incapperemo in nulla di terribile. Magnanimità è la scienza che ci fa essere superiori a quanto, per natura delle cose, accade sia ai virtuosi che agli insipienti. Ardimento è la scienza di un animo che procura a se stesso di essere invitto. Laboriosità è la scienza che elabora il proponimento senza esserne impedita dalla fatica. Pietà è la scienza di accudire gli dei. Bontà è la scienza del fare bene. Socievolezza è la scienza della parità in società. Affabilità è la scienza di intrattenere rapporti irreprensibili con chi abbiamo dintorno. Il fine di tutte queste virtù è di vivere coerentemente alla natura delle cose; e ciascuna di esse, con le sue peculiarità, procura questo fine all’uomo che la centra. Giacché l’uomo ha dalla natura risorse sia per il rinvenimento di quanto è doveroso, sia per la stabilità degli impulsi, sia per delle virili resistenze, sia per delle giuste distribuzioni. E ciascuna virtù, effettuando quanto è in armonia con le altre e quanto le è proprio, procura all’uomo una vita coerente con la natura delle cose.
1097/264 = SVF 3, 64, 14
Stobeo ‘Eclogae’ II 60. 9 W

Se dunque considerassimo bene, la virtù è –potenzialmente- una sola. Poi quando si ingeneri in queste faccende, le accade di chiamarsi saggezza; in queste altre faccende, temperanza; in queste altre ancora, virilità o giustizia. Allo stesso modo noi diciamo che una medesima dracma, quando sia data all’armatore di una nave, si chiama nolo; quando sia data ad un esattore, si chiama tassa; ad un proprietario di casa, affitto; ad un maestro di scuola, onorario; ad un venditore, caparra. Ciascuna virtù, pur chiamata con lo stesso nome di virtù, è però cagione soltanto del risultato che le è proprio, e l’uso congiunto di tutte le virtù diventa il vivere felicemente. Giacché noi non ci felicitiamo davvero per i nomi, quando chiamiamo felicità la vita retta e felice chi ha adornato virtuosamente l’animo suo.
167/376 = SVF 1, 86, 18
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ I p.376 Pott

Questo è quanto Zenone dice partecipare della sostanza. E delle cose che sono alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti. Beni sono queste: saggezza, temperanza, giustizia, virilità e tutto ciò che è virtù o partecipa di virtù. Mali sono queste: stoltezza, impudenza, ingiustizia, viltà e tutto ciò che è vizio o partecipa del vizio. Indifferenti sono queste: vita, morte, reputazione, discredito, dolore fisico, piacere fisico, ricchezza di denaro, povertà di denaro, malattia, salute e le cose simili a queste.
91/190 = SVF 1, 47, 19
Stobeo ‘Eclogae’ II p. 57, 18 W

Dei beni alcuni sono virtù, altri no. Dunque la saggezza, la temperanza, la giustizia, la virilità sono virtù. Invece la gioia, la letizia, il coraggio, la decisione e le cose somiglianti non sono virtù. Delle virtù alcune sono scienza ed arte di qualcosa, altre no. Saggezza, temperanza, giustizia e virilità sono scienza ed arte di certe cose. Invece magnanimità, vigore e forza d’animo non sono scienza né arte di qualcosa. Analogamente anche dei mali alcuni sono vizi, altri no. Stoltezza, ingiustizia, viltà, piccineria ed incapacità sono vizi. Invece afflizione, paura e le cose somiglianti non sono vizi. Dei vizi alcuni sono ignoranza e carenza di arte per certe cose, altri no. Stoltezza, impudenza, ingiustizia e viltà sono ignoranza e carenza di arte per certe cose. Piccineria ed incapacità non sono ignoranza né carenza di arte per certe cose.
1015/95 = SVF 3, 23, 22
Stobeo ‘Eclogae’ II p. 58, 5 W

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PILOTINA STOICA USS 09

Virilità

Zenone, come Platone, ci lascia in eredità una pluralità di virtù distinte come la saggezza, la virilità, la temperanza, la giustizia; e ce le lascia come inseparabili ma diverse e differenti una dall’altra. Quando definisce ciascuna di esse, afferma che la virilità è saggezza…..[ nelle cose cui si deve resistere, la temperanza è saggezza nelle cose che si devono scegliere, la saggezza in senso proprio è saggezza]…..nelle attività da svolgere, la giustizia è saggezza nelle cose da distribuire. E’ come se una fosse la virtù seppure, nelle sue relazioni con le faccende, sembri differire a seconda delle attività.
95/200 (1) = SVF 1, 49, 21
Plutarco ‘De Stoic. Repugn.’ 7 p.1034 c

Zenone di Cizio sembra essere trascinato in qualche modo a ciò quando definisce la saggezza nelle cose da distribuire come giustizia, la saggezza nelle cose che si devono scegliere come temperanza, nelle cose cui si deve resistere come virilità. Coloro che lo difendono sostengono che in queste definizioni la scienza è da Zenone denominata saggezza.
95/201 = SVF 1, 49, 30
Plutarco ‘De virtute morali’ 2 p.441 a

Con questo decide di delineare le virtù particolari. Esse sono in numero di quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia.
1095/263(1) = SVF 3, 63, 36
Filone ‘Leg. Alleg.’ 1 § 63 Vol. I p. 77, 12 Wendl

Aristone, ritenendo dunque che la facoltà dell’animo fosse una sola, quella con cui ragioniamo, suppose anche una sola virtù dell’animo: la scienza dei beni e dei mali. Qualora l’animo nostro debba scegliere i beni e fuggire i mali, Aristone chiama questa scienza temperanza. Qualora debba effettuare il bene e non effettuare il male, saggezza. Qualora debba affrontare con coraggio alcune cose ed altre fuggire, la chiama virilità. Qualora distribuisca a ciascuno secondo il merito, giustizia. In una parola, l’animo è sapienza e scienza quando conosce, senza effettuarli, beni e mali. Quando invece perviene alle azioni della vita, l’animo prende i plurimi nomi sopraddetti e si chiama saggezza, temperanza, giustizia e virilità. Siffatta è l’opinione di Aristone circa le virtù dell’animo.
165/374 = SVF 1, 85, 34
Galeno ‘De Hipp. et Plat. Decr.’ VII 2 (208, 591 M)

Saggezza è la scienza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e di quanto è udetero; oppure è la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri in rapporto alla natura di un animale politico. Così poi prescrivono di intendere circa le restanti virtù. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Giustizia è la scienza di distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Stoltezza è l’ignoranza dei beni, dei mali e degli udeteri; oppure è l’ignoranza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e degli udeteri. Impudenza è l’ignoranza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Ingiustizia è l’ignoranza nel distribuire a ciascuno secondo il merito. Viltà è l’ignoranza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Coloro che si attengono a quanto detto, definiscono in modo somigliante anche le altre virtù e vizi. Ed in genere affermano che la virtù è l’armoniosa disposizione di un animo con se stesso per tutta la vita.
1095/262 = SVF 3, 63, 23
Stobeo ‘Eclogae’ II 59, 4 W

Saggezza è dunque la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto non va scelto e degli udeteri. Giustizia è l’attitudine stabile a distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e degli udeteri.
1099/266 = SVF 3, 65, 21
Andronico ‘Sulle Passioni’ p.19 Schuchardt

Se uno ha virilità, ha la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è intermedio.
1103/274(2) = SVF 3, 67, 26
Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 153

Definiscono dunque la virilità come scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è intermedio. Temperanza è la stabile attitudine, nella scelta e nel rifiuto, a salvaguardare le determinazioni della saggezza. Affine alla virilità è quella resistenza che chiamano fortezza. Essa è la scienza di quanto va mantenuto saldo e di quanto non va mantenuto saldo. Magnanimità è la scienza che ci solleva al di sopra di quanto avviene. Affine alla temperanza è la cautela, che è una avversione attuantesi con ragione. [……….] Chi possiede una virtù sola, a causa della loro implicazione reciproca, le possiede tutte. Ora, la padronanza di sé è una disposizione a non superare i limiti di quanto appare secondo retta ragione. Chi dunque rattiene gli impulsi contrari alla retta ragione è padrone di sé, così come lo è chi rattiene se stesso in modo da non impellere contrariamente alla retta ragione.
1103/275 = SVF 3, 67, 37
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ II p.470 Pott.

Sanno coloro che non sono totalmente digiuni di educazione che virilità è la virtù avente a che fare con quanto è terribile; e se brevemente si accosteranno alla cultura sapranno che virilità è la scienza delle cose cui si deve resistere.
1109/286 = SVF 3, 70, 22
Filone ‘De sept. et fest. dieb.’ Vol. II Mang. P. 360

Delle virtù alcune sono primarie, altre sono subordinate alle primarie. Le primarie sono quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia. La saggezza si occupa di quanto è doveroso, la temperanza degli impulsi dell’essere umano, la virilità delle sue resistenze, la giustizia delle sue distribuzioni. Di quelle che a queste virtù sono subordinate, alcune sono subordinate alla saggezza, altre alla temperanza, altre alla virilità, altre alla giustizia. Alla saggezza sono subordinate il buon consiglio, la ragionevolezza, la perspicacia, il buon senso, [la sagacia], l’ingegnosità. Alla temperanza sono subordinate la disciplina, la compostezza, il rispetto, la padronanza di sé. Alla virilità sono subordinate la fortezza, il coraggio, la magnanimità, l’ardimento, la laboriosità. Alla giustizia sono subordinate la pietà, la bontà, la socievolezza, l’affabilità. Buon consiglio è dunque la scienza del cosa e del come effettuare utilmente quanto effettuiamo. Ragionevolezza è la scienza capace di equilibrare e riassumere avvenimenti e risultati. Perspicacia è la scienza capace di trovare sul momento quanto è doveroso. Buon senso è la scienza del peggio e del meglio. Sagacia è la scienza di centrare lo scopo in ogni circostanza. Ingegnosità è la scienza capace di trovare una via d’uscita in ogni faccenda. Disciplina è la scienza del quando si deve effettuare una cosa, di cosa si deve effettuare dopo che cosa e, in generale, dell’ordine delle azioni. Compostezza è la scienza dei movimenti confacenti e non confacenti. Rispetto è la scienza che ci cautela da un retto rimprovero. Padronanza di sé è la scienza che ci fa non oltrepassare i limiti di quanto appare essere in accordo con la retta ragione. Fortezza è la scienza che ci mantiene fedeli alle rette determinazioni. Coraggio è la scienza grazie alla quale sappiamo che non incapperemo in nulla di terribile. Magnanimità è la scienza che ci fa essere superiori a quanto, per natura delle cose, accade sia ai virtuosi che agli insipienti. Ardimento è la scienza di un animo che procura a se stesso di essere invitto. Laboriosità è la scienza che elabora il proponimento senza esserne impedita dalla fatica. Pietà è la scienza di accudire gli dei. Bontà è la scienza del fare bene. Socievolezza è la scienza della parità in società. Affabilità è la scienza di intrattenere rapporti irreprensibili con chi abbiamo dintorno. Il fine di tutte queste virtù è di vivere coerentemente alla natura delle cose; e ciascuna di esse, con le sue peculiarità, procura questo fine all’uomo che la centra. Giacché l’uomo ha dalla natura risorse sia per il rinvenimento di quanto è doveroso, sia per la stabilità degli impulsi, sia per delle virili resistenze, sia per delle giuste distribuzioni. E ciascuna virtù, effettuando quanto è in armonia con le altre e quanto le è proprio, procura all’uomo una vita coerente con la natura delle cose.
1097/264 = SVF 3, 64, 14
Stobeo ‘Eclogae’ II 60. 9 W

Cleante, nei ‘Commentari alla Fisica’ afferma che “il tono è una botta di fuoco e che, quando diventi nell’animo tale da essere sufficiente a realizzare i progetti, si chiama potenza e potere”. Poi aggiunge testualmente: “Questa potenza e questo potere, se si ingenera in circostanze nelle quali manifestamente ci si deve mantenere saldi, è padronanza di sé; se in circostanze nelle quali bisogna resistere, è virilità; nei casi che coinvolgono meriti, è giustizia; nel caso di scelte e di avversioni è temperanza”.
251/563(1) = SVF 1, 128, 32
Plutarco ‘De Stoic. Rep.’ Cp.7 p. 1034 d

Se dunque considerassimo bene, la virtù è, potenzialmente, una sola. Poi quando si ingeneri in queste faccende, le accade di chiamarsi saggezza; in queste altre faccende, temperanza; in queste altre ancora, virilità o giustizia. Allo stesso modo noi diciamo che una medesima dracma, quando sia data all’armatore di una nave, si chiama nolo; quando sia data ad un esattore, si chiama tassa; ad un proprietario di casa, affitto; ad un maestro di scuola, onorario; ad un venditore, caparra. Ciascuna virtù, pur chiamata con lo stesso nome di virtù, è però cagione soltanto del risultato che le è proprio, e l’uso congiunto di tutte le virtù diventa il vivere felicemente. Giacché noi non ci felicitiamo davvero per i nomi, quando chiamiamo felicità la vita retta e felice chi ha adornato virtuosamente l’animo suo.
167/376 = SVF 1, 86, 18
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ I p.376 Pott

Certe azioni sono effettuate anche da coloro che non hanno retta conoscenza dei beni e dei mali, ma non sono effettuate secondo ragione. E’ il caso, ad esempio, della virilità. Alcuni individui sono per natura focosi ma, nutrendo questa loro dote senza vincolarla alla ragione, impellono irrazionalmente alla maggior parte delle faccende e fanno cose simili a chi ha virilità, così da compiere –a volte- le medesime azioni di successo e, ad esempio, resistere alle torture come se niente fosse. Ma essi non muovono dalla stessa causa da cui muove chi ha retta conoscenza né si propongono il medesimo fine, neppure se sacrificassero tutto il corpo. Ogni azione operata da chi è scienziato di beni e di mali è una azione di successo, mentre se è operata da chi non è scienziato di beni e di mali è un fallimento, anche se salvaguarda una risoluzione. Giacché quest’ultimo non si comporta virilmente partendo da un ragionamento, né dirige la sua azione a qualcosa di proficuo che vada a terminare in una virtù o che da una virtù si svolga. Il medesimo discorso vale anche per le altre virtù. 
1245/511 = SVF 3, 138, 4
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ VII 10 p. 867 Pott

….. che soltanto costui è sapiente, soltanto costui è bello, soltanto costui è giusto, virile, re, oratore, ricco, legislatore.
1287/622 = SVF 3, 159, 35
Luciano ‘Vitarum auctio’ 20

Questo è quanto Zenone dice partecipare della sostanza. E delle cose che sono alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti. Beni sono queste: saggezze, temperanza, giustizia, virilità e tutto ciò che è virtù o partecipa di virtù. Mali sono queste: stoltezza, impudenza, ingiustizia, viltà e tutto ciò che è vizio o partecipa del vizio. Indifferenti sono queste: vita, morte, reputazione, discredito, dolore fisico, piacere fisico, ricchezza di denaro, povertà di denaro, malattia, salute e le cose simili a queste.
91/190 = SVF 1, 47, 19
Stobeo ‘Eclogae’ II p. 57, 18 W

E nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ afferma espressamente che: “Ogni azione di successo è anche una azione conforme alla legge e alla giustizia. Giacché quanto è effettuato secondo padronanza di sé, fortezza, saggezza e virilità è una azione di successo. Sicché è anche una azione giusta”.
1115/297 = SVF 3, 73, 13
Plutarco ‘De Stoic. Rep.’ Cp 15 p. 1041 a

Dei beni alcuni sono virtù, altri no. Dunque la saggezza, la temperanza, la giustizia, la virilità sono virtù. Invece la gioia, la letizia, il coraggio, la decisione e le cose somiglianti non sono virtù. Delle virtù alcune sono scienza ed arte di qualcosa, altre no. Saggezza, temperanza, giustizia e virilità sono scienza ed arte di certe cose. Invece magnanimità, vigore e forza d’animo non sono scienza né arte di qualcosa. Analogamente anche dei mali alcuni sono vizi, altri no. Stoltezza, ingiustizia, viltà piccineria ed incapacità sono vizi. Invece afflizione, paura e le cose somiglianti non sono vizi. Dei vizi alcuni sono ignoranza e carenza di arte per certe cose, altri no. Stoltezza, impudenza, ingiustizia e viltà sono ignoranza e carenza di arte per certe cose. Piccineria ed incapacità non sono ignoranza né carenza di arte per certe cose.
1015/95 = SVF 3, 23, 22
Stobeo ‘Eclogae’ II p. 58, 5 W

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PILOTINA STOICA USS 08

Saggezza

Apollofane afferma che vi è una sola virtù: la saggezza.
175/406 = SVF 1, 90, 19
Diogene Laerzio VII, 92

Zenone, come Platone, ci lascia in eredità una pluralità di virtù distinte come la saggezza, la virilità, la temperanza, la giustizia; e ce le lascia come inseparabili ma diverse e differenti una dall’altra. Quando definisce ciascuna di esse, afferma che la virilità è saggezza…..[ nelle cose cui si deve resistere, la temperanza è saggezza nelle cose che si devono scegliere, la saggezza in senso proprio è saggezza]…..nelle attività da svolgere, la giustizia è saggezza nelle cose da distribuire. E’ come se una fosse la virtù seppure, nelle sue relazioni con le faccende, sembri differire a seconda delle attività.
95/200 (1) = SVF 1, 49, 21
Plutarco ‘De Stoic. Repugn.’ 7 p.1034 c

Zenone di Cizio sembra essere trascinato in qualche modo a ciò quando definisce la saggezza nelle cose da distribuire come giustizia, la saggezza nelle cose che si devono scegliere come temperanza, nelle cose cui si deve resistere come virilità. Coloro che lo difendono sostengono che in queste definizioni la scienza è da Zenone denominata saggezza.
95/201 = SVF 1, 49, 30
Plutarco ‘De virtute morali’ 2 p.441 a

Con questo decide di delineare le virtù particolari. Esse sono in numero di quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia.
1095/263(1) = SVF 3, 63, 36
Filone ‘Leg. Alleg.’ 1 § 63 Vol. I p. 77, 12 Wendl

Aristone, ritenendo dunque che la facoltà dell’animo fosse una sola, quella con cui ragioniamo, suppose anche una sola virtù dell’animo: la scienza dei beni e dei mali. Qualora l’animo nostro debba scegliere i beni e fuggire i mali, Aristone chiama questa scienza temperanza. Qualora debba effettuare il bene e non effettuare il male, saggezza. Qualora debba affrontare con coraggio alcune cose ed altre fuggire, la chiama virilità. Qualora distribuisca a ciascuno secondo il merito, giustizia. In una parola, l’animo è sapienza e scienza quando conosce, senza effettuarli, beni e mali. Quando invece perviene alle azioni della vita, l’animo prende i plurimi nomi sopraddetti e si chiama saggezza, temperanza, giustizia e virilità. Siffatta è l’opinione di Aristone circa le virtù dell’animo.
165/374 = SVF 1, 85, 34
Galeno ‘De Hipp. et Plat. Decr.’ VII 2 (208, 591 M)

Saggezza è la scienza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e di quanto è udetero; oppure è la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri in rapporto alla natura di un animale politico. Così poi prescrivono di intendere circa le restanti virtù. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Giustizia è la scienza di distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Stoltezza è l’ignoranza dei beni, dei mali e degli udeteri; oppure è l’ignoranza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e degli udeteri. Impudenza è l’ignoranza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Ingiustizia è l’ignoranza nel distribuire a ciascuno secondo il merito. Viltà è l’ignoranza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Coloro che si attengono a quanto detto, definiscono in modo somigliante anche le altre virtù e vizi. Ed in genere affermano che la virtù è l’armoniosa disposizione di un animo con se stesso per tutta la vita.
1095/262 = SVF 3, 63, 23
Stobeo ‘Eclogae’ II 59, 4 W

Saggezza è dunque la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto non va scelto e degli udeteri. Giustizia è l’attitudine stabile a distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e degli udeteri.
1099/266 = SVF 3, 65, 31
Andronico ‘Sulle Passioni’ p.19 Schuchardt

Definiscono dunque la virilità come scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è intermedio. Temperanza è la stabile attitudine, nella scelta e nel rifiuto, a salvaguardare le determinazioni della saggezza. Affine alla virilità è quella resistenza che chiamano fortezza. Essa è la scienza di quanto va mantenuto saldo e di quanto non va mantenuto saldo. Magnanimità è la scienza che ci solleva al di sopra di quanto avviene. Affine alla temperanza è la cautela, che è una avversione attuantesi con ragione. [……….] Chi possiede una virtù sola, a causa della loro implicazione reciproca, le possiede tutte. Ora, la padronanza di sé è una disposizione a non superare i limiti di quanto appare secondo retta ragione. Chi dunque rattiene gli impulsi contrari alla retta ragione è padrone di sé, così come lo è chi rattiene se stesso in modo da non impellere contrariamente alla retta ragione.
1103/275 = SVF 3, 67, 37
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ II p.470 Pott.

Delle virtù alcune sono primarie, altre sono subordinate alle primarie. Le primarie sono quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia. La saggezza si occupa di quanto è doveroso, la temperanza degli impulsi dell’essere umano, la virilità delle sue resistenze, la giustizia delle sue distribuzioni. Di quelle che a queste virtù sono subordinate, alcune sono subordinate alla saggezza, altre alla temperanza, altre alla virilità, altre alla giustizia. Alla saggezza sono subordinate il buon consiglio, la ragionevolezza, la perspicacia, il buon senso, [la sagacia], l’ingegnosità. Alla temperanza sono subordinate la disciplina, la compostezza, il rispetto, la padronanza di sé. Alla virilità sono subordinate la fortezza, il coraggio, la magnanimità, l’ardimento, la laboriosità. Alla giustizia sono subordinate la pietà, la bontà, la socievolezza, l’affabilità. Buon consiglio è dunque la scienza del cosa e del come effettuare utilmente quanto effettuiamo. Ragionevolezza è la scienza capace di equilibrare e riassumere avvenimenti e risultati. Perspicacia è la scienza capace di trovare sul momento quanto è doveroso. Buon senso è la scienza del peggio e del meglio. Sagacia è la scienza di centrare lo scopo in ogni circostanza. Ingegnosità è la scienza capace di trovare una via d’uscita in ogni faccenda. Disciplina è la scienza del quando si deve effettuare una cosa, di cosa si deve effettuare dopo che cosa e, in generale, dell’ordine delle azioni. Compostezza è la scienza dei movimenti confacenti e non confacenti. Rispetto è la scienza che ci cautela da un retto rimprovero. Padronanza di sé è la scienza che ci fa non oltrepassare i limiti di quanto appare essere in accordo con la retta ragione. Fortezza è la scienza che ci mantiene fedeli alle rette determinazioni. Coraggio è la scienza grazie alla quale sappiamo che non incapperemo in nulla di terribile. Magnanimità è la scienza che ci fa essere superiori a quanto, per natura delle cose, accade sia ai virtuosi che agli insipienti. Ardimento è la scienza di un animo che procura a se stesso di essere invitto. Laboriosità è la scienza che elabora il proponimento senza esserne impedita dalla fatica. Pietà è la scienza di accudire gli dei. Bontà è la scienza del fare bene. Socievolezza è la scienza della parità in società. Affabilità è la scienza di intrattenere rapporti irreprensibili con chi abbiamo dintorno. Il fine di tutte queste virtù è di vivere coerentemente alla natura delle cose; e ciascuna di esse, con le sue peculiarità, procura questo fine all’uomo che la centra. Giacché l’uomo ha dalla natura risorse sia per il rinvenimento di quanto è doveroso, sia per la stabilità degli impulsi, sia per delle virili resistenze, sia per delle giuste distribuzioni. E ciascuna virtù, effettuando quanto è in armonia con le altre e quanto le è proprio, procura all’uomo una vita coerente con la natura delle cose.
1097/264 = SVF 3, 64, 14
Stobeo ‘Eclogae’ II 60. 9 W

Se dunque considerassimo bene, la virtù è –potenzialmente- una sola. Poi quando si ingeneri in queste faccende, le accade di chiamarsi saggezza; in queste altre faccende, temperanza; in queste altre ancora, virilità o giustizia. Allo stesso modo noi diciamo che una medesima dracma, quando sia data all’armatore di una nave, si chiama nolo; quando sia data ad un esattore, si chiama tassa; ad un proprietario di casa, affitto; ad un maestro di scuola, onorario; ad un venditore, caparra. Ciascuna virtù, pur chiamata con lo stesso nome di virtù, è però cagione soltanto del risultato che le è proprio, e l’uso congiunto di tutte le virtù diventa il vivere felicemente. Giacché noi non ci felicitiamo davvero per i nomi, quando chiamiamo felicità la vita retta e felice chi ha adornato virtuosamente l’animo suo.
167/376 = SVF 1, 86, 18
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ I p.376 Pott

E nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ afferma espressamente che: “Ogni azione di successo è anche una azione conforme alla legge e alla giustizia. Giacché quanto è effettuato secondo padronanza di sé, fortezza, saggezza e virilità è una azione di successo. Sicché è anche una azione giusta”.
1115/297 = SVF 3, 73, 13
Plutarco ‘De Stoic. Rep.’ Cp 15 p. 1041 a

Dei beni alcuni sono virtù, altri no. Dunque la saggezza, la temperanza, la giustizia, la virilità sono virtù. Invece la gioia, la letizia, il coraggio, la decisione e le cose somiglianti non sono virtù. Delle virtù alcune sono scienza ed arte di qualcosa, altre no. Saggezza, temperanza, giustizia e virilità sono scienza ed arte di certe cose. Invece magnanimità, vigore e forza d’animo non sono scienza né arte di qualcosa. Analogamente anche dei mali alcuni sono vizi, altri no. Stoltezza, ingiustizia, viltà piccineria ed incapacità sono vizi. Invece afflizione, paura e le cose somiglianti non sono vizi. Dei vizi alcuni sono ignoranza e carenza di arte per certe cose, altri no. Stoltezza, impudenza, ingiustizia e viltà sono ignoranza e carenza di arte per certe cose. Piccineria ed incapacità non sono ignoranza né carenza di arte per certe cose.
1015/95 = SVF 3, 23, 32
Stobeo ‘Eclogae’ II p. 58, 5 W

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PILOTINA STOICA USS 07

Giustizia

Giustizia è la virtù che sa distribuire secondo il merito e non è stata posizionata né di fronte a chi accusa né di fronte a chi si difende ma di fronte al giudice. Sicché il giudice non ha prescelto né di vincere qualcuno né di combatterlo e neppure di opporglisi ma, quando pronuncia una sentenza, decide il giusto. Così la giustizia, senza essere avversaria di nessuno, assegna a ciascuna faccenda il merito che le spetta.
1097/263 (5) = SVF 3, 64, 8
Philo ‘Legum Allegoria’ I §87 / Vol. I p.84, 2 Wendland

Zenone, come Platone, ci lascia in eredità una pluralità di virtù distinte come la saggezza, la virilità, la temperanza, la giustizia; e ce le lascia come inseparabili ma diverse e differenti una dall’altra. Quando definisce ciascuna di esse, afferma che la virilità è saggezza…..[ nelle cose cui si deve resistere, la temperanza è saggezza nelle cose che si devono scegliere, la saggezza in senso proprio è saggezza]…..nelle attività da svolgere, la giustizia è saggezza nelle cose da distribuire. E’ come se una fosse la virtù seppure, nelle sue relazioni con le faccende, sembri differire a seconda delle attività.
95/200 (1) = SVF 1, 49, 21
Plutarchus ‘De Stoicorum Repugnantiis’ §7 p.1034 c

Zenone di Cizio sembra essere trascinato in qualche modo a ciò quando definisce la saggezza nelle cose da distribuire come giustizia, la saggezza nelle cose che si devono scegliere come temperanza, nelle cose cui si deve resistere come virilità. Coloro che lo difendono sostengono che in queste definizioni la scienza è da Zenone denominata saggezza.
95/201 = SVF 1, 49, 30
Plutarchus ‘De virtute morali’ §2 p.441a

Con questo decide di delineare le virtù particolari. Esse sono in numero di quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia.
1095/263(1) = SVF 3, 63, 36
Philo ‘Legum Allegoria’ I §63 / Vol. I p.77, 12 Wendland

Aristone, ritenendo dunque che la facoltà dell’animo fosse una sola, quella con cui ragioniamo, suppose anche una sola virtù dell’animo: la scienza dei beni e dei mali. Qualora l’animo nostro debba scegliere i beni e fuggire i mali, Aristone chiama questa scienza temperanza. Qualora debba effettuare il bene e non effettuare il male, saggezza. Qualora debba affrontare con coraggio alcune cose ed altre fuggire, la chiama virilità. Qualora distribuisca a ciascuno secondo il merito, giustizia. In una parola, l’animo è sapienza e scienza quando conosce, senza effettuarli, beni e mali. Quando invece perviene alle azioni della vita, l’animo prende i plurimi nomi sopraddetti e si chiama saggezza, temperanza, giustizia e virilità. Siffatta è l’opinione di Aristone circa le virtù dell’animo.
165/374 = SVF 1, 85, 34
Galenus ‘De Hippocr. et Plat. Decr.’ VII 2 (208.591 M.)

Saggezza è la scienza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e di quanto è udetero; oppure è la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri in rapporto alla natura di un animale politico. Così poi prescrivono di intendere circa le restanti virtù. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Giustizia è la scienza di distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Stoltezza è l’ignoranza dei beni, dei mali e degli udeteri; oppure è l’ignoranza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e degli udeteri. Impudenza è l’ignoranza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Ingiustizia è l’ignoranza nel distribuire a ciascuno secondo il merito. Viltà è l’ignoranza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Coloro che si attengono a quanto detto, definiscono in modo somigliante anche le altre virtù e vizi. Ed in genere affermano che la virtù è l’armoniosa disposizione di un animo con se stesso per tutta la vita.
1095/262 = SVF 3, 63, 22
Stobaeus ‘Eclogae’ II 59, 4 W.

Saggezza è dunque la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto non va scelto e degli udeteri. Giustizia è l’attitudine stabile a distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e degli udeteri.
1099/266 = SVF 3, 65, 21
Andronicus ‘Sulle Passioni’ p.19 Schuchardt

Delle virtù alcune sono primarie, altre sono subordinate alle primarie. Le primarie sono quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia. La saggezza si occupa di quanto è doveroso, la temperanza degli impulsi dell’essere umano, la virilità delle sue resistenze, la giustizia delle sue distribuzioni. Di quelle che a queste virtù sono subordinate, alcune sono subordinate alla saggezza, altre alla temperanza, altre alla virilità, altre alla giustizia. Alla saggezza sono subordinate il buon consiglio, la ragionevolezza, la perspicacia, il buon senso, [la sagacia], l’ingegnosità. Alla temperanza sono subordinate la disciplina, la compostezza, il rispetto, la padronanza di sé. Alla virilità sono subordinate la fortezza, il coraggio, la magnanimità, l’ardimento, la laboriosità. Alla giustizia sono subordinate la pietà, la bontà, la socievolezza, l’affabilità. Buon consiglio è dunque la scienza del cosa e del come effettuare utilmente quanto effettuiamo. Ragionevolezza è la scienza capace di equilibrare e riassumere avvenimenti e risultati. Perspicacia è la scienza capace di trovare sul momento quanto è doveroso. Buon senso è la scienza del peggio e del meglio. Sagacia è la scienza di centrare lo scopo in ogni circostanza. Ingegnosità è la scienza capace di trovare una via d’uscita in ogni faccenda. Disciplina è la scienza del quando si deve effettuare una cosa, di cosa si deve effettuare dopo che cosa e, in generale, dell’ordine delle azioni. Compostezza è la scienza dei movimenti confacenti e non confacenti. Rispetto è la scienza che ci cautela da un retto rimprovero. Padronanza di sé è la scienza che ci fa non oltrepassare i limiti di quanto appare essere in accordo con la retta ragione. Fortezza è la scienza che ci mantiene fedeli alle rette determinazioni. Coraggio è la scienza grazie alla quale sappiamo che non incapperemo in nulla di terribile. Magnanimità è la scienza che ci fa essere superiori a quanto, per natura delle cose, accade sia ai virtuosi che agli insipienti. Ardimento è la scienza di un animo che procura a se stesso di essere invitto. Laboriosità è la scienza che elabora il proponimento senza esserne impedita dalla fatica. Pietà è la scienza di accudire gli dei. Bontà è la scienza del fare bene. Socievolezza è la scienza della parità in società. Affabilità è la scienza di intrattenere rapporti irreprensibili con chi abbiamo dintorno. Il fine di tutte queste virtù è di vivere coerentemente alla natura delle cose; e ciascuna di esse, con le sue peculiarità, procura questo fine all’uomo che la centra. Giacché l’uomo ha dalla natura risorse sia per il rinvenimento di quanto è doveroso, sia per la stabilità degli impulsi, sia per delle virili resistenze, sia per delle giuste distribuzioni. E ciascuna virtù, effettuando quanto è in armonia con le altre e quanto le è proprio, procura all’uomo una vita coerente con la natura delle cose.
1097/264 = SVF 3, 64, 14
Stobaeus ‘Eclogae’ II 60. 9 W

Cleante, nei ‘Commentari alla Fisica’ afferma che “il tono è una botta di fuoco e che, quando diventi nell’animo tale da essere sufficiente a realizzare i progetti, si chiama potenza e potere”. Poi aggiunge testualmente: “Questa potenza e questo potere, se si ingenera in circostanze nelle quali manifestamente ci si deve mantenere saldi, è padronanza di sé; se in circostanze nelle quali bisogna resistere, è virilità; nei casi che coinvolgono meriti, è giustizia; nel caso di scelte e di avversioni è temperanza”.
251/563 (1) = SVF 1, 128, 32
Plutarchus ‘De Stoicorum Repugnantiis’ §7 p. 1034 d

Se dunque considerassimo bene, la virtù è –potenzialmente- una sola. Poi quando si ingeneri in queste faccende, le accade di chiamarsi saggezza; in queste altre faccende, temperanza; in queste altre ancora, virilità o giustizia. Allo stesso modo noi diciamo che una medesima dracma, quando sia data all’armatore di una nave, si chiama nolo; quando sia data ad un esattore, si chiama tassa; ad un proprietario di casa, affitto; ad un maestro di scuola, onorario; ad un venditore, caparra. Ciascuna virtù, pur chiamata con lo stesso nome di virtù, è però cagione soltanto del risultato che le è proprio, e l’uso congiunto di tutte le virtù diventa il vivere felicemente. Giacché noi non ci felicitiamo davvero per i nomi, quando chiamiamo felicità la vita retta e felice di chi ha adornato virtuosamente l’animo suo.
167/376 = SVF 1, 86, 18
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ I p.376 Pott

Questo è quanto Zenone dice partecipare della sostanza. E delle cose che sono alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti. Beni sono queste: saggezze, temperanza, giustizia, virilità e tutto ciò che è virtù o partecipa di virtù. Mali sono queste: stoltezza, impudenza, ingiustizia, viltà e tutto ciò che è vizio o partecipa del vizio. Indifferenti sono queste: vita, morte, reputazione, discredito, dolore fisico, piacere fisico, ricchezza di denaro, povertà di denaro, malattia, salute e le cose simili a queste.
91/190 = SVF 1, 47, 18
Stobaeus ‘Eclogae’ II p. 57, 18 W

E nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ afferma espressamente che: “Ogni azione di successo è anche una azione conforme alla legge e alla giustizia. Giacché quanto è effettuato secondo padronanza di sé, fortezza, saggezza e virilità è una azione di successo. Sicché è anche una azione giusta”.
1115/297 = SVF 3, 73, 13
Plutarchus ‘De Stoicorum Repugnantiis’  §15 p. 1041a

Dei beni alcuni sono virtù, altri no. Dunque la saggezza, la temperanza, la giustizia, la virilità sono virtù. Invece la gioia, la letizia, il coraggio, la decisione e le cose somiglianti non sono virtù. Delle virtù alcune sono scienza ed arte di qualcosa, altre no. Saggezza, temperanza, giustizia e virilità sono scienza ed arte di certe cose. Invece magnanimità, vigore e forza d’animo non sono scienza né arte di qualcosa. Analogamente anche dei mali alcuni sono vizi, altri no. Stoltezza, ingiustizia, viltà piccineria ed incapacità sono vizi. Invece afflizione, paura e le cose somiglianti non sono vizi. Dei vizi alcuni sono ignoranza e carenza di arte per certe cose, altri no. Stoltezza, impudenza, ingiustizia e viltà sono ignoranza e carenza di arte per certe cose. Piccineria ed incapacità non sono ignoranza né carenza di arte per certe cose.
1015/95 = SVF 3,23,22
Stobaeus ‘Eclogae’ II p. 58, 5 W

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PILOTINA STOICA USS 06

Natura delle Cose

-Non so, diceva.- Invero ignorare il criterio dei colori, degli odori ed ancora dei sapori non è, caso mai, gran punizione; ma reputi piccola la punizione per chi ignora quello del bene e del male, del secondo la natura delle cose e del contro la natura delle cose per l’uomo? -La massima, dunque.-
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 11, § 11

Vengo e ricerco cosa dice questo interprete della natura delle cose. Inizio a non capire cosa dice e cerco il commentatore. “Ecco, esamina… Com’è detto bene questo, appunto come in latino!” Qua, dunque, quale giustificazione ha il cipiglio del commentatore? Neppure giustamente di Crisippo stesso, se soltanto spiega il piano della natura e lui non lo segue. Quanto più ciò vale per il suo commentatore? Giacché non abbiamo bisogno di Crisippo per Crisippo, ma per comprendere la natura delle cose. Né abbiamo bisogno del sacrificatore per il sacrificatore, ma perché attraverso quello crediamo di capire l’avvenire e quanto è significato dagli Dei. Né abbiamo bisogno delle viscere per le viscere, ma perché attraverso quelle è significato qualcosa. Né ammiriamo il corvo o la cornacchia, ma Zeus che significa attraverso queste creature. Vengo quindi da questo interprete e sacrificatore e dico: “Esaminami le viscere, cosa mi significano”. Lui le prende, le sbroglia, poi spiega: “Uomo, tu hai una proairesi per natura non soggetta ad impedimenti  e non soggetta a costrizioni. Qui, nelle viscere, questo è stato scritto. Te lo mostrerò innanzitutto nell’ambito dell’assenso. Può forse qualcuno impedirti di annuire al vero? Neppur uno. Può forse qualcuno costringerti ad accettare il  falso? Neppur uno. Vedi che  in questo ambito il proairetico l’hai non soggetto ad impedimenti, non soggetto a costrizioni, disimpacciato? Orsù, è diverso nell’ambito del desiderio e dell’impulso? Chi può vincere un impulso se non un altro impulso? Chi un desiderio ed un’avversione se non un altro desiderio ed un’altra avversione?” “Se,” qualcuno dice, “uno mi appresserà la paura della morte, mi costringe”. “Non è quanto viene appressato a costringerti, ma è che reputi meglio fare una di queste cose che morire. Di nuovo dunque il tuo giudizio ti costrinse; ossia proairesi costrinse proairesi. Se infatti la parte peculiare che Zeus ci diede spiccandosela, egli avesse strutturato soggetta ad impedimenti o costrizioni  sue o di qualcun altro, non sarebbe più materia immortale né sarebbe sollecita di noi nel modo dovuto. Questo trovo” dice, “nelle vittime sacrificali. Questo ti significano. Se lo disporrai sei libero. Se lo disporrai non biasimerai nessuno, non incolperai nessuno, tutto sarà secondo l’intelligenza insieme tua e quella di Zeus”. Per questo dono divinatorio vengo da questo sacrificatore e filosofo, non ammirando lui per la spiegazione ma quello che spiega.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 17, § 16-29

O uomo, se devi  disporti contro la natura delle cose circa i mali allotrii, commiseralo piuttosto che odiarlo. Lascia questa facoltà atta ad offendersi e ad odiare.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 18, § 9

Cos’è dunque educarsi a diairesizzare? Imparare ad adattare i naturali pre-concetti alle particolari sostanze in modo consono alla natura delle cose e, orbene, a discriminare che, delle cose, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. Sono in nostro esclusivo potere la proairesi e tutte le opere della proairesi; non sono in nostro esclusivo potere il corpo, le parti del corpo, patrimoni, genitori, fratelli, figlioli, patria, insomma i soci. Dove porremo dunque il bene? A quale sostanza lo adatteremo?
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 22, § 9-11

Tu che te ne vai al processo, vedi cosa vuoi serbare e dove vuoi concludere. Giacché se disponi di serbare la proairesi in accordo con la natura delle cose, hai ogni sicurezza, ogni facilitazione, non hai fastidi. Disponendo infatti di serbare incondizionato quanto è in tuo esclusivo potere e quanto è libero per natura e di questo accontentandoti, di cosa ti impensierisci ancora? Chi è suo Signore, chi può sottrartelo? Se disponi di essere rispettoso di te e degli altri e leale, chi non te lo permetterà? Se disponi di non essere impedito né costretto, chi ti costringerà a desiderare ciò che non reputi; chi ad avversare ciò che non ti pare? Però uno ti effettuerà cose che sembrano paurose. E come può far anche che tu le sperimenti con avversione? Qualora dunque sia in tuo esclusivo potere desiderare ed avversare, di cosa ti impensierisci ancora?
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 2, § 1-6

Ma il grande è questo: riservare a ciascuna cosa la facoltà che ha e, riservatala, vedere il valore della facoltà. Decifrare poi cos’è più possente e questo perseguire in ogni circostanza, su questo industriarsi, dopo avere fatto il resto accessorio e facendo  tuttavia del proprio meglio per non trascurarlo. Giacché bisogna esser solleciti degli occhi, ma non come della cosa più possente; piuttosto, anche degli occhi in funzione di quanto è più possente. Perché quello non starà secondo la natura delle cose altrimenti che operando razionalmente con questi e scegliendo certi oggetti invece di altri.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 23, § 34-35

O uomo, il proponimento era di strutturarti ad usare secondo la natura delle cose le rappresentazioni che ti incolgono; nel desiderio non fallendo il segno; nell’avversione non incappando in quanto avversi; mai sfortunato, mai preda di cattiva fortuna, libero, non soggetto ad impedimenti, non soggetto a costrizioni; conciliato al governo di Zeus, a questo governo ubbidiente, di questo governo compiacendoti; non biasimando nessuno, non accagionando nessuno, potendo dire queste righe dall’animo intero: *Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato*.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 23, § 42

-Ma non sono un erudito?- Ed a che scopo ti erudisci? Schiavo! Non è per essere sereno? Non è per essere stabile? Non è per stare e spassartela in accordo con la natura delle cose? Cosa impedisce che chi ha la febbre abbia l’egemonico in accordo con la natura delle cose? Qua è il controllo della faccenda, la valutazione di chi fa filosofia. Giacché è parte della vita anche questo, cioè la febbre, come una passeggiata, come un viaggio per mare o per terra.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 10, § 10-11

“Come uso le rappresentazioni che mi incolgono? Secondo la natura delle cose o contro la natura delle cose? Come rispondo loro? Come si deve o come non si deve? Soggiungo all’aproairetico che nulla è per me?” Giacché se non state ancora così, fuggite le abitudini di prima, fuggite le persone comuni, se intendete iniziare una volta ad essere qualcuno.  
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 16, § 15-16

Se invece riferirà la fatica al proprio egemonico, per averlo e spassarsela secondo la natura delle cose, allora soltanto lo dico laborioso. Non lodate e non  denigrate mai in base ai luoghi comuni, ma in base ai giudizi. Sono infatti questi il  peculiare di ciascuno e sono essi che fanno le azioni brutte o belle.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 4, Capitolo 4, § 43-44 

Delle cose che sono, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere sono concezione, impulso, desiderio, avversione e, in una parola, quanto è opera nostra. Non sono in nostro esclusivo potere il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche e, in una parola, quanto non è opera nostra. Le cose in nostro esclusivo potere sono per natura libere, non soggette ad impedimenti, non soggette ad impacci; mentre le cose non in nostro esclusivo potere sono deboli, serve, soggette ad impedimenti, allotrie. Ricorda dunque che se crederai libero quanto per natura delle cose è servo, e peculiare quanto è allotrio, sarai intralciato, piangerai, sarai sconcertato, biasimerai dei ed uomini. Se invece crederai tuo solo quanto è tuo ed allotrio, com’è, l’allotrio; nessuno mai ti costringerà, nessuno ti impedirà; non biasimerai nessuno, non incolperai nessuno, non effettuerai neppure una sola cosa tuo malgrado, non avrai nemici personali, nessuno ti danneggerà giacché non sperimenterai nulla di dannoso. Prendendo dunque di mira cose così rilevanti, ricorda che bisogna accostarsi ad esse non equilibratamente mossi ma che si deve tralasciarne alcune totalmente ed altre, per il presente, posporle. Se vorrai tanto queste cose quanto occupare cariche ed essere ricco di denaro, per il fatto di prendere di mira anche le precedenti non centrerai, caso mai, neppure queste; ma fallirai affatto quelle attraverso cui soltanto promanano libertà e felicità. Subito dunque, ad ogni rappresentazione scabrosa studia di soggiungere che “Sei una rappresentazione e non affatto quanto appari”. Poi indagala e valutala con questi canoni che hai, ed innanzitutto e soprattutto con questo: se è di cose in nostro esclusivo potere o di cose non in nostro esclusivo potere. E se sarà di qualcuna delle cose non in nostro esclusivo potere, ti sia a portata di mano che “Nulla è per me”.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Il Manuale, § 1

Qualora stia per accostarti ad un’opera, richiamati alla memoria qual è la natura dell’opera. Se te ne andrai per fare un bagno caldo, mettiti davanti gli avvenimenti alle terme: quelli che spruzzano, quelli che spintonano, quelli che ingiuriano, quelli che rubano. E così ti accosterai all’opera più sicuramente se subito soggiungerai: “Dispongo di fare un bagno caldo, ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose”. E fa’ allo stesso modo per ciascuna opera. Giacché così, se qualcosa diverrà un intralcio a fare un bagno caldo, avrai a portata di mano che: “Io non disponevo solo questo, ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose; e non la serberò se fremerò davanti agli avvenimenti”.
Epitteto: “L’albero della diairesi”  Il Manuale, § 4 

Qualora uno faccia il solenne perché può capire e commentare i libri di Crisippo, fra te e te di’: “Se Crisippo non avesse scritto con poca chiarezza, costui non avrebbe nulla per cui fare il solenne”. Io cosa decido? Di decifrare la natura delle cose ed accompagnarmi a lei. Cerco dunque chi è il commentatore e, sentito dire che è Crisippo, vengo da lui. Ma non ne capisco gli scritti. Cerco dunque il commentatore di Crisippo. E fin qui non v’è ancora nulla di solenne. Qualora trovi il commentatore, avanza di usare le prescrizioni: questo solo è solenne. Se invece ammirerò il fatto in sé di commentare, che altro risulto se non un grammatico invece che un filosofo? Eccetto che invece di Omero so commentare, appunto, Crisippo. Qualora uno mi dica: “Rileggimi Crisippo”, io dunque piuttosto arrossirò, qualora non possa sfoggiare opere simili ed in armonia con i suoi discorsi.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Il Manuale, § 49

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PILOTINA STOICA USS 05 

Felicità

Dei beni alcuni sono necessari per la felicità, altri no. Necessarie sono tutte le virtù e le attività che le utilizzano. Non necessarie sono la gioia, la letizia, occupazioni e mestieri. Somigliantemente dei mali, alcuni sono necessari come mali che generano infelicità, altri no. Necessari sono tutti i vizi e le attività che ne discendono. Non necessarie sono tutte le passioni, le affezioni e cose somiglianti.
1023/113 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 27, 11
Stobaeus  ‘Eclogae’ II 77, 6

E perciò gli uomini dabbene sono sempre assolutamente felici e gli insipienti, invece, infelici. La felicità dei primi non differisce dalla felicità divina né, dice Crisippo, quella di un istante differisce dalla felicità di Zeus. Né la felicità di Zeus è preferibile o più bella o più solenne di quella degli uomini sapienti.
997/54(3) = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 14, 8
Stobaeus ‘Eclogae’ II 98, 17 W

Gli Stoici chiamano ‘indifferenti’ le cose che stanno in mezzo tra i beni ed i mali e affermano che possono essere pensate in due modi. Secondo un modo, ‘indifferente’ è ciò che non è né bene né male, né da scegliersi né da fuggirsi. Secondo un altro modo, ‘indifferente’ è ciò che non muove né ad impulso né a repulsione. In questo senso alcune cose sono anche dette ‘definitivamente indifferenti’, come l’avere in testa un numero pari o dispari di capelli, oppure il protendere il dito così o cosà, oppure il levare di mezzo qualche intralcio, sterpaglia o fogliame. Nel primo senso, bisogna dire che si chiamano indifferenti le cose che stanno in mezzo tra la virtù ed il vizio [……………] certamente non per una elezione ed un rifiuto, giacché alcune hanno un valore che le fa eleggere, altre un disvalore che le fa rifiutare, ma in nessun modo un valore che sia di contributo alla vita felice
1025/118 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 28, 19
Stobaeus ‘Eclogae’ II 79, 1 W

Di Crisippo. Chi è al culmine del profitto adempie completamente tutto quanto è doveroso e non omette nulla. Crisippo afferma che la vita di costui non è ancora felice, ma che la felicità gli sopravviene qualora a queste azioni intermedie si aggiungano saldezza ed abitualità, ed esse prendano una loro solidità.
1243/510 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 137, 43
Stobaeus ‘Florilegium’ 103, 22

Dicono gli Stoici che tutte le virtù, siano esse scienze od arti, hanno comuni principi generali e, come si dice, medesimo fine, e perciò sono inseparabili. Chi ne ha una le ha tutte, e chi opera secondo una opera secondo tutte. Le virtù differiscono però una dall’altra per punti capitali. Così punto capitale della saggezza è, cardinalmente, conoscere i principi generali di ciò che va fatto ed effettuarlo; secondariamente, deputare ciò che si deve deputare, grazie al fatto di effettuare senza sbagli ciò che va fatto. Punto capitale peculiare della temperanza è, cardinalmente, procurare impulsi stabili e conoscerne i principi generali; secondariamente conoscere ciò che è oggetto delle altre virtù, per il fatto di condurci senza sbagli negli impulsi. Ugualmente la virilità è, cardinalmente, il resistere a tutto ciò cui si deve resistere e, secondariamente, il conoscere ciò che è oggetto delle altre virtù. Anche la giustizia è, cardinalmente, il considerare ciò che è secondo il merito di ciascuno e, secondariamente, anche il resto. Ogni virtù, infatti, guarda ai punti capitali di tutte le altre ed a ciò che è reciprocamente subordinato. Panezio soleva dire che quanto avviene riguardo alle virtù è simile a quanto avviene quando innanzi a molti arcieri giacesse un solo bersaglio, e questo avesse al proprio interno strisce di colore diverso. Ciascun arciere mirerebbe a centrare il bersaglio ma uno colpendo, caso mai, la striscia bianca, un altro la striscia nera, un altro ancora la striscia di qualche altro colore. Come costoro si danno quale fine supremo il centrare il bersaglio, seppure proponendosene il conseguimento chi in un modo chi in un altro, così tutte le virtù si danno quale fine l’essere felice –il che sta nel vivere coerentemente con la natura delle cose- e ciascuna lo centra a modo suo.
1107/280 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 69, 4
Stobaeus ‘Eclogae’ II 63, 6 W

Delle cose che hanno valore alcune ne hanno molto, altre poco. Ugualmente, delle cose che hanno disvalore alcune ne hanno molto, altre poco. Ora, le cose che hanno molto valore sono dette ‘preferibili’, mentre quelle che hanno molto disvalore sono dette ‘rifiutabili’; e fu Zenone a dare per primo alle faccende della vita questi nomi. Si dice ‘preferibile’ quella faccenda che è indifferente ma che noi eleggiamo in prima istanza. Un discorso simile vale per le faccende ‘rifiutabili’ e gli esempi sono, per analogia, gli stessi. Invece nessuno dei beni è preferibile, giacché i beni hanno il massimo valore. Il ‘preferibile’, pur essendo una faccenda di secondo rango e valore, si approssima però in un certo modo alla natura dei beni. A corte, infatti, il re non è dei preferibili, ma lo sono quelli posizionati dopo di lui. Si dicono dunque faccende preferibili non perché conferiscano qualche felicità o cooperino ad essa, ma perché ci è necessario eleggere esse invece di quelle rifiutabili.
93/192 = 1031/128 = Stoicorum Veterum Fragmenta 1, 48, 3 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 31, 10
Stobaeus ‘Eclogae’ II 84, 21 W 
Stobaeus ‘Eclogae’ II 84, 18

Dicono che il fine è l’essere felici e che questo è ciò per cui tutto si effettua, mentre l’essere felici è effettuato in vista di null’altro. Questo consiste nel vivere secondo virtù, nel vivere coerentemente ed anche, il che è lo stesso, nel vivere secondo natura. Zenone definì la felicità in questo modo: felicità è il sereno fluire dell’esistenza. Anche Cleante usa questa definizione nei suoi trattati. La usa anche Crisippo. E lo fanno tutti i loro successori, dicendo che la felicità non è altro che una vita felice, seppure affermino che la felicità è proposta come scopo, mentre centrare la felicità è il fine, il che appunto è lo stesso che essere felici. E’ dunque da ciò manifesto che ‘vivere secondo natura’, ‘vivere da bello’, ‘vivere bene’ e ancora ‘ciò che è dabbene’, ‘la virtù e quanto partecipa della virtù’ sono termini equivalenti. E poi tutto quanto è buono è anche bello, e similmente tutto quanto è brutto è anche male. Anche perciò il fine stoico può parificarsi ad una vita secondo virtù.
981/16 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 6, 7
Stobaeus ‘Eclogae’ II 77, 16 W

La virtù è una disposizione d’animo ammissibile con la ragione e scelta per se stessa, non a causa di qualche paura o speranza o cosa esteriore. Nella virtù, in quanto è animo fatto per l’ammissibilità dell’intera la vita con la ragione, consiste la felicità.
991/39 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 11, 37
Diogene Laerzio VII 89

Io lodo la baldanza e l’apertura mentale degli Stoici, i quali affermano che nessuna delle cose estrinseche è di impedimento alla felicità e che l’uomo virtuoso è beato anche se il toro di Falaride lo avrà bruciato.
1277/586 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 154, 1
Gregorius Nazianzienus Epist. 32

Perciò anche Cleante, nel secondo libro sul ‘Piacere fisico’ dice che Socrate insegnava in particolare come uno e medesimo sono l’uomo giusto e l’uomo felice, e che malediva chi per primo aveva spartito il giusto dall’utile, perché aveva compiuto un’empietà. Giacché sono effettivamente empi coloro che separano l’utile dal giusto secondo la legge.
249/558 = Stoicorum Veterum Fragmenta 1, 127, 20
Clemens Alex. Strom II 22, 131 p.499 P

Gli stoici chiamano felice chi ha resistito a guai degni di Priamo. 
1275/585  = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 153, 38
Stephanus Frag. Comment. in Aristot. Rhet. III p. 325, 13 Rabe


In molti luoghi Crisippo ha affermato che per il fatto di esserli per molto tempo noi non siamo più felici, bensì che lo siamo ugualmente ed altrettanto a coloro che partecipano per un istante della felicità.
997/54(2) = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 14, 5
Plutarchus ‘De Stoicorum Repugnantiis’ §26 p. 1046c


E Zenone non seguì forse costoro (i Peripatetici) i quali ipotizzavano come elementi della felicità la natura delle cose e quanto è secondo la natura delle cose?
89/183 = Stoicorum Veterum Fragmenta 1, 46, 12
Plutarchus ‘De communibus notitiis adversus Stoicos’ p. 1069f


Gli Stoici non dicono soltanto questo ma dicono inoltre che l’aggiunta del tempo non accresce il bene, e che se uno diverrà saggio anche per un solo istante in nulla resterà indietro, quanto a felicità, rispetto a chi eternamente usa virtù ed in essa beatamente vive.
997/54(1) = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 13, 38
Plutarchus ‘De comm. Not.’ §8 p. 1061f


Se, come ha scritto Crisippo nel primo libro del ‘Protrettico’, soltanto il vivere secondo virtù è vivere felicemente e nessun’altra cosa, dice, ci riguarda od a questo coopera…
1037/139(3) = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 34, 9
Plutarchus ‘De comm. Not.’ p. 1060D


Vi erano poi quelli che dicevano essere ‘il bene’ ciò che si sceglie per sé e non per altro. Alcuni dicono così: ‘Bene è quanto soccorre per la felicità’. Altri affermano che: ‘Bene è quanto completa la felicità’. E la felicità, come assunsero le scuole di Zenone, di Cleante e di Crisippo, è il sereno fluire dell’esistenza.
1005/73 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 18, 12
Sextus ‘Adversus Mathematicos’ XI, 30


La felicità promana dalla saggezza, la saggezza si muove tra azioni di successo e l’azione di successo è ciò che, quando effettuato, ha una giustificazione ragionevole.
1109/284 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 70, 7
Sextus ‘Adversus Mathematicos’ VII, 158

I primi stoici chiamarono colmo della felicità il riuscire a vivere consequenzialmente alla natura delle cose.
977/7 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 4, 16
Philo ‘De plantatione Noe’ §49 Vol. II p. 143,20 Wendland

Quando i filosofi Stoici chiamano identica la virtù di un uomo e di un dio, e soprattutto se affermeranno che dio non è più felice di chi, secondo loro, è tra gli uomini sapiente ma che pari è la felicità di entrambi, ebbene Celso non deride…
1087/248 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 59, 7
Origenes ‘Contra Celsum’ VI, 48 Vol. II p.119, 16 Ko


Se l’animo loro diventerà cosciente e la loro mente dabbene e saranno in grado di effettuare rettamente le proprie faccende e quelle altrui, ebbene è necessario che costoro vivano anche felicemente, perché hanno centrato il buon genio e sono amici degli dei. Giacché è inverosimile che i saggi non siano esperti delle faccende umane e che chi riflette sulle faccende umane non rifletta su quelle divine e che chi è scienziato di cose divine non sia santo e che chi è santo non sia caro agli dei. Né è verosimile che alcuni individui siano stolti e però che siano altri ad ignorare le faccende doverose per loro, né è verosimile che chi ignora le proprie faccende conosca quelle divine, né che chi ha concezioni da insipiente circa il divino non sia sacrilego. Neppure è verosimile che gli individui sacrileghi siano tali da essere cari agli dei, e chi non è caro agli dei è inverosimile che non abbia cattiva fortuna.
1275/584 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 153, 21
Dione Crisostomo Oraz. LXIX § 4

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PILOTINA STOICA USS 04

Educazione alla Diairesi

Un diverso ragionevole ed irragionevole, appunto come pure un diverso bene e male, ed utile e inutile incolgono persone diverse. Per questo soprattutto abbiamo bisogno di educazione a diairesizzare, così da imparare ad adattare il pre-concetto di ragionevole ed irragionevole alle particolari sostanze in armonia con la natura delle cose.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 2 , § 5-6

Giacché grande facoltà ed arte è quella di argomentare e persuadere, soprattutto se godesse di frequente allenamento e dalle locuzioni aggiungesse a sé anche una certa confacenza. E poi che in generale ogni facoltà ed arte che sopravvenga ai non educati a diairesizzare ed ai deboli nell’uso della diairesi, è malsicura riguardo all’imbaldanzirne ed invanirne.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 8, § 7-8

Chi poi si sta educando a diairesizzare, è tenuto a venire ad educarsi con questo progetto: “Come accompagnarmi in ogni circostanza agli dei, come compiacermi del governo della materialità, come diventare libero?”
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 12, § 8

Ma educarsi a diairesizzare è questo imparare a disporre ciascuna cosa così come accade. E come accade? Come la costituì il costitutore. Costituì che vi fossero estate ed inverno, profusione e penuria, virtù e vizio e tutte le opposizioni siffatte per l’armonia dell’intero; ed a ciascuno di noi diede un corpo, delle parti del corpo, un patrimonio e dei soci.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 12, § 15-16

Memori dunque di questa costituzione, bisogna venire ad educarsi a diairesizzare non per cambiare le premesse (giacché ciò non ci è dato né è meglio), ma perché stando le cose intorno a noi come stanno e come sono per natura, noi teniamo la nostra intelligenza conciliata agli avvenimenti. E che? E’ fattibile fuggire le persone? E com’è possibile? Stando con loro, cambiarle? E chi ce lo dà? Cosa dunque avanza o quale accorgimento si trova per usare con esse? Un uso siffatto per cui quelle faranno quanto loro pare e noi nondimeno staremo in accordo con la natura delle cose.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 12, § 17-19

Cos’è dunque educarsi a diairesizzare? Imparare ad adattare i naturali pre-concetti alle particolari sostanze in modo consono alla natura delle cose e, orbene, a discriminare che, delle cose, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. Sono in nostro esclusivo potere la proairesi e tutte le opere della proairesi; non sono in nostro esclusivo potere il corpo, le parti del corpo, patrimoni, genitori, fratelli, figlioli, patria, insomma i soci. Dove porremo dunque il bene? A quale sostanza lo adatteremo? A quella in nostro esclusivo potere? -E poi  non sono beni salute del corpo, integrità fisica, vita e neppure figlioli, genitori, patria?- E chi ti tollererà? Alloghiamolo dunque di nuovo qua. E’ fattibile che sia felice chi subisce danno e fallisce il bene? -Non è fattibile.- E che serbi verso i soci la condotta che si deve? E com’è fattibile? Giacché io sono nato per il mio utile. Se mi è utile avere un fondo, mi è utile anche sottrarre quello di chi mi è dintorno; se mi è utile avere una toga, mi è utile anche rubarla alle terme. Di qua guerre, conflitti civili, tirannie, insidie.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 19, § 9-14

Anche qua. “Prendi l’imperio!” Lo prendo e, presolo, mostro come si conduce un uomo che è stato educato a diairesizzare. “Deponi il laticlavio ed indossando dei cenci vieni innanzi in siffatto personaggio!” E dunque? Non mi è stato dato di portarmi dentro una magnifica voce? “Dunque, come sali ora sulla scena?”Come testimone chiamato da Zeus. “Vieni tu, e rendimi testimonianza. Giacché tu meriti di essere promosso da me come testimone. E’ forse qualcuno degli oggetti esterni alla proairesi, bene o male? Danneggio forse qualcuno? Feci forse quanto a ciascuno giova in esclusivo potere d’altri o di lui stesso?” Che testimonianza dai alla materia immortale? “Sono in difficoltà terribili, Signoreedho cattiva fortuna; nessuno si impensierisce per me, nessuno mi dà nulla, tutti mi denigrano e parlano male di me”. Questo sei per testimoniare e per svergognare la chiamata che ti ha fatto; perché ti onorò di questo onore e ritenne degno che ti appressassi per una testimonianza così rilevante?
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 29, § 44-49

Ma chi ne ha la potestà dichiarò: “Ti giudico empio e sacrilego “. Che ti è accaduto? “Fui giudicato empio e sacrilego”. Nient’altro? “Niente”.E se di una  proposizione ipotetica colui avesse decretato e data dichiarazione “Il ‘se è giorno c’è luce’ lo giudico falso” cosa sarebbe accaduto alla proposizione ipotetica? Chi è qui giudicato? Chi è stato condannato? La proposizione ipotetica o chi si è ingannato su di lei? Chi mai  è costui che ha la potestà di dichiarare qualcosa su di te? Sa cos’è il pio o l’empio? L’ha studiato? Ha imparato? Dove? Da chi? E poi un musicista non si impensierisce se colui dichiarasse che la corda più bassa è la più alta; né uno studioso di geometria se decreterà che i segmenti che dal centro incolgono la circonferenza non sono di pari lunghezza. E chi  davvero è stato educato a diairesizzare si impensierirà per un individuo non educatovi, il quale decreta qualcosa sul sacrosanto e sul sacrilego, sull’ingiusto e sul giusto? Che ingiustizia da parte degli educati a diairesizzare! Queste cose le imparasti qui?
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 29, § 50-55

Qual è dunque il frutto di questi giudizi? Quello che dev’essere il più bello ed appropriato per coloro che effettivamente sono educati a diairesizzare: dominio sullo sconcerto e sulla paura, libertà. Giacché non bisogna su questo fidarsi dei più, i quali dicono che soltanto i cittadini liberi hanno la potestà di essere educati; ma piuttosto dei filosofi, i quali dicono che soltanto gli educati a diairesizzare sono liberi. -Come questo?- Così: ora, la libertà è qualcos’altro dalla potestà di spassarcela come decidiamo? “Nient’altro”. Ditemi, o uomini: decidete di vivere aberrando? “Non lo decidiamo”. Quindi nessuno che aberri è libero. Decidete di vivere avendo paura, decidete di vivere afflitti, decidete di vivere sconcertati? “Nient’affatto!” Proprio nessuno che abbia paura, sia afflitto, sia sconcertato è libero; mentre chiunque si è allontanato da afflizioni, paure e sconcerti ebbene costui, per la stessa strada, si è allontanato anche dall’essere servo. Dunque come potremo ancora affidarci a voi, o carissimi legislatori, che non consentite di essere educati se non ai cittadini liberi?  I filosofi infatti dicono che non consentiamo di essere liberi se non a coloro che sono stati educati a diairesizzare, cioè che è la materia immortale a non consentirlo. 
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 2, Capitolo 1, § 21-25

Orbene, perché sali a Roma come a cose grandiose? Sono più piccole della tua preparazione, tanto da far dire ad un giovane purosangue: “Non meritava tanto avere ascoltato cotante lezioni, avere scritto cotanto, essere stati seduti per cotanto tempo accanto ad un vecchietto che non vale granché”. Tu soltanto ricordati di quella diairesigrazie alla quale si definisce quanto è in tuo esclusivo potere e quanto non lo è.  Non pretendere mai alcunché di allotrio. Tribuna e prigione sono, l’una e l’altra, un posto; la tribuna, elevato; la prigione, miserabile. Ma la proairesi può essere custodita pari, se pari disporrai di custodirla nell’uno e nell’altro posto.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 2, Capitolo 6, § 23-25

Gratifica il tuo desiderio e la tua avversione con povertà di denaro e ricchezza di denaro: fallirai, incapperai in quanto avversi. E con salute del corpo: avrai cattiva fortuna;  con cariche, onorificenze, patria, amici, figli, insomma con qualcosa di aproairetico. Gratificalo invece a Zeus, agli altri dei; trasmettilo ad essi; essi  pilotino; sia stato posizionato con essi. E dove ancora non sarai sereno? Ma se invidi, o indolente, ed hai pietà e sei geloso e tremi e non smetti un giorno solo di singhiozzare disperato di te e degli Dei, perché asserisci di essere stato educato a diairesizzare? Quale educazione a diairesizzare, o uomo? Che effettuasti sillogismi, ragionamenti equivoci? Non vuoi, se possibile, disimparare tutto questo ed iniziare daccapo, dopo aver preso consapevolezza del fatto che finora neppure hai toccato la faccenda e, orbene, iniziando da qua edificarvi in aggiunta il seguito: come nulla sarà contro la tua disposizione e, disponendolo tu, nulla non sarà?
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 2, Capitolo 17, § 24-28

Mostra come sei solito allenarti su un bastimento. Ti ricordi di questa diairesi qualora la vela rumoreggi e, mentre tu sbraiti, un dispettoso passeggero che ti sta accanto ti dica: “Dimmi, per gli dei, quel che dicevi l’altro giorno: forse che naufragare è un vizio, è forse qualcosa che partecipa del vizio?” Sollevato un legno, non glielo scuoterai addosso? “Che c’è fra noi e te, uomo? Andiamo in malora e tu vieni a scherzare?” Se Cesare ti farà convocare perché sei accusato, ti ricordi della diairesi? Se uno, mentre entri e sei  pallido ed insieme tremante, verrà innanzi a dire: “Perché tremi, o uomo? Per quali faccende è la tua citazione? Forse che lì dentro Cesare dà a chi entra virtù o vizio?” “Perché ti burli di me anche tu, oltre i miei mali?” “Ugualmente, o filosofo, dimmi: perché tremi? Il pericolo che corri non è morte o carcere o dolore del corpo o l’esilio od il discredito? E cos’altro? E’ forse vizio, forse qualcosa che partecipa del vizio? Tu dicevi essere cosa questo?” “Che c’è fra me e te, uomo? Mi bastano i miei mali”. E dici bene. Giacché a te bastano i tuoi mali: la grettezza, la viltà, la cialtroneria che cialtroneggiavi seduto a scuola. Perché ti abbellivi di giudizi allotrii? Perché ti dicevi stoico?
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 2, Capitolo 19, § 15-19

Ed ora io sono chi vi educa a diairesizzare, mentre voi a ciò vi educate presso di me. Io ho questo progetto: farvi risultare non soggetti ad impedimenti, non soggetti a costrizioni, non soggetti ad impacci, liberi, sereni, felici, che tengono gli occhi su Zeus in ogni circostanza, sia piccola che grande; e voi presenziate per imparare e studiare questo. Perché dunque non concludete l’opera, se avete anche voi il progetto che si deve ed io la preparazione che si deve per il progetto? Cos’è che manca? Qualora io veda un falegname cui giace accanto il materiale, mi aspetto l’opera. Anche qua c’è il falegname, c’è il materiale. Cosa ci manca? La faccenda non è insegnabile? E’ insegnabile. Non è dunque in nostro esclusivo potere? Anzi è la sola fra tutte le altre. Né la ricchezza di denaro né la salute del corpo né la reputazione né altro insomma sono in nostro esclusivo potere, eccetto il retto uso delle rappresentazioni. Soltanto questo è per natura delle cose non soggetto ad impedimenti, non soggetto ad intralci. Perché dunque non concludete? Ditemi la cagione. Giacché o nasce da me o da voi o dalla natura della faccenda. La faccenda in sé è fattibile e solo in nostro esclusivo potere. Orbene la cagione sta in me o in voi o, che è più vero, in entrambi. E dunque? Volete che iniziamo una volta a trasferire qui siffatto progetto? Tralasciamo quel che è stato finora. Solo iniziamo, fidatevi di me, e vedrete.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 2, Capitolo 19, § 29-34

E così, anche cresciuti ci mostriamo bimbi. Giacché bamboccio in musica è il digiuno di musica; in grammatica il digiuno di grammatica; in vita il non educato a diairesizzare.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 3, Capitolo 19, § 6

Un uomo dabbene ha paura che gli manchi il cibo? Il cibo non manca ai ciechi, non manca agli zoppi. Mancherà ad un uomo dabbene? Non manca chi dà il soldo ad un soldato dabbene né ad un operaio né ad un calzolaio. E mancherà a chi è dabbene? A tal punto la materia immortale trascura i suoi felici successi, i ministri, i testimoni, coloro che soli usa come paradigmi nei confronti dei non educati a diairesizzare per mostrare che esiste, che ben governa l’intero, che non trascura le faccende umane e che per l’uomo dabbene non c’è male né in vita né in morte? -E dunque qualora non procuri cibo?- Che altro significherà se non che, come un buon stratega, mi ha significato la ritirata?  Ubbidisco, la seguo glorificando il leader, inneggiando alle sue opere. Giacché venni quando lei lo reputò e di nuovo me ne vado quando lei lo reputa. Vivendo, questa era l’opera mia: inneggiare a Zeus, sia io per me stesso che con un altro o con molti. 
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 3, Capitolo 26, § 27-30

Tu ricordati soltanto dei principi universali: “Cos’è mio, cosa non è mio? Cosa mi è dato? Cosa Zeus dispone che io ora faccia, cosa non dispone?” Poco fa disponeva che tu oziassi, parlassi con te stesso, scrivessi su questi principi, che leggessi, ascoltassi, ti preparassi: avesti tempo sufficiente per questo. Ora ti dice: “Vieni ormai in gara, mostraci cosa imparasti, come ti cimentasti. Fino a quando ti allenerai da solo? E’ ormai tempo di riconoscerti, se sei un atleta degno di vittoria oppure uno di quelli che vanno in giro per la terra abitata da vinti”. Perché dunque fremi? Nessuna gara accade senza trambusto. Devono essere molti i preparatori atletici, molti quelli che strepitano, molti i soprintendenti, molti gli spettatori. -Ma io vorrei passarmela in quiete.- Mugugna, quindi, e gemi come meriti. Giacché quale altra punizione per chi non è educato a diairesizzaree disubbidisce alle costituzioni della materia immortale è maggiore di questa, cioè dell’affliggersi, piangere, invidiare, insomma del non avere fortuna ed avere cattiva fortuna? Non vuoi allontanarti da questo? 
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 4, Capitolo 1, § 29-32

Se invece vorrà che il figlio o la moglie non aberrino, egli vuole che l’allotrio non sia allotrio. Ed educarsi a diairesizzare è questo: imparare quanto è nostro peculiare e quanto è allotrio.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 4, Capitolo 5, § 7

Sconcertano gli esseri umani non le faccende, ma i giudizi sulle faccende. Per esempio, la morte nulla è di terribile, dacché questo sarebbe parso anche a Socrate; ma il giudizio sulla morte, che sia terribile, quello è il terribile. Qualora dunque siamo intralciati o sconcertati od afflitti, non accagioniamo mai altro che noi stessi, cioè i nostri giudizi. Incolpare altri per ciò per cui lui finisce male è opera del non educato a diairesizzare. Incolpare se stessi è opera di chi ha iniziato a diairesizzare. Non incolpare né un altro né se stesso, di chi è stato educato a diairesizzare.
Epitteto: ‘Il Manuale’ Capitolo 5

Ed a quale tempo ancora rimandi il meritarti l’ottimo ed il non violare in nulla la ragione che opera la diairesi? Hai assunto i principi filosofici generali con i quali dovevi metterti alle prese e ti sei messo alle prese. Quale insegnante dunque paventi ancora, per posporre a lui di fare la tua rettificazione
Epitteto: ‘Il Manuale’ Capitolo 51

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Dialogue V

Gyges: Diairesis and Counterdiairesis, Good and Evil

Ο μν ον τ ληθεί, φάναι,  φιλούμενε γάθων, δύνασαι ντιλέγειν, πε Σωκράτει γε οδν χαλεπόν.

“No, it is Truth, my dear Agathon, that you cannot contradict; Socrates you easily may”
(Plato ‘Symposium’ 201D)

The characters:

Raniero
Irene
Muriel
Candaules, King of Lydia
The Queen, wife of Candaules
Gyges, a bodyguard of Candaules

A few days later Muriel, Irene and Raniero gathered again in the small amphitheater and resumed their conversations.
-Some time ago, began Raniero, I reread a few chapters of the first book of the ‘Histories’ of Herodotus, and I came across on the story about Gyges. The vicissitudes of Gyges revolve around the choices he has to do, and the story in which he is involved seems to me a good explanatory example of what ‘good’ and ‘evil’ are, of where they lie and of what the correct use of our proairesis means-
-I have never heard this story and I’ll listen to it gladly, said Muriel-
-The name of Gyges sounds quite new to me too and I’d like to know more about him, said Irene-
-Here is the story, said Raniero, as Herodotus tells it.
* Candaules, the King of Lydia, was in love with his bride and, as he was in love, he believed to possess  by far the most beautiful of all women. Among his bodyguards was Gyges, the son of Daskylos. He was particularly dear to him. Candaules used to confide in him his most important business and even spoke to him about the beauty of his wife, praising her beyond measure. One day the King said to Gyges: “Gyges, I think that you don’t believe me when I speak of the beauty of my wife. Try, therefore, to see her naked”. Gyges replied in an agitated voice: “Lord, what insane speech are you making, inviting me to look at my naked sovereign? With the stripping of the clothes the woman is stripped also of her modesty. Since ancient times men have found good precepts from which we must learn, and one of them is that everyone must take care of his things. I am absolutely convinced that the Queen is the most beautiful of all women, so please don’t ask me to do things that are against the law”. But Candaules told him: “Be reassured, Gyges, and don’t be afraid of me. I am not making these proposals in order to put you through a test. Don’t be afraid of my wife either, that you may receive harm from her, because I will arrange everything so that she will not even know of having been seen by you. I shall take you secretely into the room where we sleep, and I’ll hide you behind the door left open. After I come in, my wife will soon follow me and get into the bedroom. Next to the entrance there is a stool where she will place her clothes, taking them off one by one, and you’ll be able to quietly contemplate her. Then, when she heads off from the stool to the bed and you see her back and shoulders, be quick to get out of the bedroom and be careful not to be seen on the way out of the door”. So Gyges, since he could not refuse, was ready to obey the King. Candaules, when it was time to sleep, led him into the bedroom. Then his wife appeared and, as soon as she got in, she started undressing and laying her clothes on the stool, while Gyges watched. When he found himself behind the woman walking toward the bed, he came out stealthily. She saw him as he left but, having understood what her husband had done, did not cry out of shame and pretended to have noticed nothing. However, she planned to take revenge on Candaules. Among the Lydians, as is usual also in the case of other barbarians, to be seen naked is a cause of great shame, even for a man. As soon as it was day the Queen summoned Gyges. Gyges, still believing that she knew nothing about the incident, accepted the invitation because from time to time he used to visit the Queen when she called him. As soon as Gyges came in, the woman said: “Now, Gyges, of the two roads which are in front of you I’ll let you choose which one you want to head for. Either you kill Candaules, get me and the Kingdom of Lydia, or you yourself must die, so that in the future you’ll no longer see what you must not see. Come on, then! Either he who has hatched this trap must perish or you, who saw me naked and are guilty of an illegitimate action”. Gyges was at first stunned by this speech, and after a while implored the Queen not to force him to make such a choice. However, he was  unable to persuade her and saw himself forced to either kill his master or to perish himself at the hands of other people. He chose to live, and asked: “Since you force me to kill my Lord against my will, let me at least know the way we will attack him”. The Queen answered: “The attack will take place in the same room where he showed me naked to you, and we shall attack him while he sleeps”. So they plotted the trap, and when night came Gyges followed the woman into the bedroom. She gave him a dagger and hid him behind the same door. Later, while Candaules was sleeping, Gyges came out of hiding, killed him and took the woman and her Kingdom. *
-What do you think?-
-A very interesting story, said Irene-
-I would like to look at it, proposed Raniero, by entering into the head of the three characters and examining what happens in their proairesis. If you believe that it’s worthwile, we can start with a cursory examination of the story. Since we are three and the characters in question are also three, we may assign one to each of us-
-I agree, said Irene excitedly. I propose Raniero be the first, because in this way he can also put us on a good track, and that he be Candaules. Muriel can speak about the Queen and I shall, lastly, talk of Gyges. Do you agree?-
-Wow! exclaimed Muriel. I’ll do my best to be up to the task-
-Then I shall start, said reassuringly Raniero. We are not in front of a board of examiners. We seek only to understand the story better and we’ll give each other a hand. We will assume that the Queen was really the most beautiful of all women. Let’s also assume that all of the King’s subjects, including Gyges, were sincerely convinced of this fact-
-Yeah! said Irene, so why does Candaules question Gyges?-
-He questions him, said Raniero, because the King is the kind of person who cannot even stand the suspicion that other people have judgments different from his own. He firmly believes that this is an ‘evil’ for him. Doubting Gyges, Candaules decides to actually convince him that his wife is by far the most beautiful of all women. To achieve this goal he plans to show to Gyges the Queen in her splendid nudity, believing that this would be a vision capable of making Gyges admit the truth. The project that Candaules must implement for this purpose is very risky, because he is well aware that Gyges should see the Queen but should not be seen by her. In fact, if the Queen discovered the trick and knew that she had been seen naked by a stranger, she would avenge the outrage. However, Candaules judges more harmful for him the doubt he has about the judgments of Gyges than the possible revenge of his wife. Gyges has therefore the opportunity to contemplate his Queen naked, and after this vision we can easily be sure that Gyges swears again and again to be now absolutely convinced that the Queen is the most beautiful of all women. The design of the King seems to have been carried out to perfection. Candaules is happy and feels ‘good’ because he has got what he wanted. Gyges is happy and feels ‘good’ because he also has got what he wanted. The reality, on the contrary, is that neither Candaules nor Gyges know how the things actually are. Let us see how and why it is so. We now possess the tools necessary to examine the character of Candaules with reference to ‘proairetic things/aproairetic things’ and with reference to ‘good/evil’. Let’s have a look at the side ‘proairetic things/aproairetic things’. The first question I ask myself is this one: “Is the judgment of Gyges on the beauty of the wife of Candaules a proairetic or an aproairetic thing?” My answer is, and if you don’t agree please interrupt me: “The judgment of Gyges is a proairetic thing for Gyges but an aproairetic thing for everyone else, including Candaules”. Now I ask myself: “Do we know what Candaules thinks about the judgment of Gyges?” We know it for certain, as he himself tells it to us. Candaules thinks that the judgment of Gyges about the beauty of the Queen must be in his own power, in the power of the King. This is so true that Candaules, unable to bear any uncertainty about controlling the proairesis of Gyges, implements the project that we know. So the thought of King Candaules could be summed up in the following way: “I am the King and the proairesis of my subjects is my own business!” Now, the project Candaules sets at work in order to dominate the proairesis of Gyges can be divided into two elements: the design and the implementation of the project. We already know that the conception of a project is a proairetic thing while its implementation is an aproairetic thing. Now I ask myself the third question: “Does Candaules think that the implementation of his project is a proairetic thing or an aproairetic thing?” He certainly believes it to be a proairetic thing, as his behavior tells us. Candaules is certain, without reservation, that Gyges will see without being seen. The thought of Candaules in this regard could be summed up in this way: ‘The King proposes and the King disposes!’ Let us now examine the character of Candaules with reference to ‘good/evil’. We know that no aproairetic thing can be ‘good’ or ‘evil’, and that ‘good’ is only the judgment of the proairesis working properly, while ‘evil’ is the judgment of the proairesis not working properly. So we know that ‘good’ is the judgment: “The judgments of other people are neither good nor evil for me”. We also know that ‘evil’ are the two judgments: “The judgments of other people are a ‘good’ for me” and “The judgments of other people are an ‘evil’ for me”. What does Candaules think about these statements? Even in this case it’s enough to hear his words and look at his behavior. Candaules thinks that the judgment of Gyges on the beauty of the Queen is ‘evil’ if it’s different from his own, the King’s judgment. Subsequently he falls from the frying pan into the fire. In fact he thinks that the judgment of Gyges on the beauty of the Queen is now ‘good’ because it has become equal to his own. Let me summarize. In at least two cases Candaules has gone astray, because he considers as proairetic something that by the nature of things is  aproairetic. In addition Candaules is in the ‘evil’ because he has at least a couple of judgments that we know to be the distinctive form taken by a proairesis not operating properly. What shall we say to Candaules? We shall say: “Stop it, Candaules, stop it! What you believe to be love, what you believe to be happiness and ‘feeling good’ rests upon incorrect foundations, disrespectful of the nature of things. Stop it and change your judgments. You can escape the tragic chain of error, vice and misery already tight around your neck, only by using the diairesis!”-
-Now it’s my turn, said Muriel with a little fear in her heart. I’ll speak of the Queen. I hope you agree if I limit myself to the consideration of the ‘good/evil’ issue-
-We agree. This is more than enough, nodded both Irene and Raniero-
-We already know, continued Muriel, that ‘good’ is the judgment: “To be seen naked by other eyes is neither good nor evil”. We also know that ‘evil’ is the pair of judgments: “To be seen naked by other eyes is good” and “To be seen naked by other eyes is evil”. Which are the judgments of the Queen? In my opinion there is no doubt that the judgments of the Queen are as follows: “To be seen naked by Candaules is good” and “To be seen naked by Gyges is evil”. She believes that the eye of Candaules has the power to encircle her with the ‘good’ and believes, on the contrary, that the eye of Gyges has the power to put shame on her, to put her in a state of unbearable ‘evil’. So, the outrage she has suffered is so serious as to merit a vengeance. Neither Candaules nor Gyges know that the Queen had a glimpse of  Gyges when he left the bedroom and she, while Candaules embraces her, reasons in this way: “I am the Queen and to be seen naked by my husband Candaules is ‘good’ for me. But now I know that Gyges saw me naked and this is ‘evil’ for me. Gyges could never see me naked if he were not authorized and maybe instigated to do so by Candaules. So Candaules betrayed me and it is primarily on him that I must take my revenge. But Gyges, who fully obeys Candaules, deserves to die too, so that in the future he will no more see what he must never see. I will therefore make them perish, either one or the other, so that I can again be surrounded by the ‘good’ and again say to myself: “To be seen naked by X is ‘good’ for me”. At this point the Queen operates upon the weakest ring of the chain and designs a way to raise Gyges against Candaules. She summons Gyges and brutally puts him in front of the alternative of killing the King or dying. The proairesis of the Queen has planned a real murder. We know that this project is a proairetic thing, and that ‘good’ and ‘evil’ lie only in what is proairetic. Allow me to skip the analysis of the actual implementation of the killing project of the Queen, which will be carried out by the hand of Gyges armed by her, the seizure of power by Gyges and the new marriage of the Queen with Gyges. I jump directly to the question: “Is the conception of this project by the murderous Queen something ‘good’ or something ‘evil’?” At this point I know I have an answer, but I don’t know how to justify it. I need you, Raniero, to help me clarify this point. In fact, if ‘good’ and ‘evil’ are characteristic only of what is proairetic, if they are nothing more than different attitudes of the proairesis, when can we say that a certain attitude of our proairesis is ‘good’ and that a different attitude of our proairesis is ‘evil’?” Or, to put the question in slightly different terms: “When can we say that a certain project of the proairesis is ‘good’ and that a different project of the proairesis is ‘evil’?-
-Thank you Muriel, said Raniero, for the confidence you place in me. I’ll try to give you an answer. Let me ask the question in the following way: “Are all the proairetic things, that is, all the things that are in our exclusive power, ‘good’? Are all our projects, impulses, desires, aversions, approvals and so on ‘good’  simply because they are proairetic things?” Certainly it is not so, because we know that they can also be ‘evil’, while no aproairetic thing can be ‘good’ or ‘evil’. “Therefore, when can we define a judgment, an impulse, a desire, an aversion, an approval and so on, to be ‘good’, and when can we define it to be ‘evil’?” The problem is a serious one, because in order to get out of trouble in this case we need to find a canon, a parameter that is ‘invariant’, that is unaffected by any difference of ideology, culture, race, religion, language, age, gender, and so on between human beings. Do you remember that in one of our conversations we reached the fundamental conclusion that the nature of things exists also in the case of proairetic things, and that our projects, desires, approvals and so forth are all aspects of the same invariant and infinite quantity that we have called ‘freedom’? Our proairesis is this invariant and infinite quantity, and as such human proairesis is by nature free, unhampered and unconstrained. Which is, then, the canon we are looking for? I think that the answer can be formulated in these terms: “The proairesis is true to itself, it’s ‘good’, when it keeps itself free, unhampered and unconstrained. The proairesis is untrue to itself, it’s ‘evil’, when it no loger keeps itself free, unhampered and unconstrained”. The naked proairesis is an infinite quantity, no finite thing can be greater than it is, and so no aproairetic thing can limit it. It’s only the proairesis that can choose to dress up and disguise itself as a slave, a coward, an unhappy man. The proairesis is therefore ‘evil’ when it disguises itself in this way, and I suggest to call this perversion ‘counterdiairesis’. When our proairesis counterdiairesizes, it claims to lack exclusive power over what the nature of things has placed in its exclusive power. When the proairesis sets at work the counterdiairesis, it loses its sense of responsibility and shows itself conditioned by smaller, finite quantities. Diairesis and counterdiairesis thus appear as the two ways that the proairesis has at its disposal to rotate on itself, while the implementation of what anyone decides is entrusted, when it’s the case, to the antidiairesis, which can be complementary to both. Once we have found the canon, I think we have found the answer to the difficult question that had been raised and now we can go back to the story of the Queen-
-Dear Raniero, said Muriel smiling, you’re priceless. I hope I have got it right and I believe I am now able to complete my task. Incidentally, I want to note an important thing with reference to one of our previous conversations. Talking about Medea, we compared our proairesis to a Court with two judges. Now we can say that there were not two judges in office but three, and we can finally give a name to the mysterious judge who wrote the instructions for Medea: his name is definitely counterdiairesis.  Let’s now go back to our present subject. We know that Gyges and Candaules are aproairetic things for the Queen. If the Queen’s proairesis judges that she has to kill either Candaules or Gyges or both, this means that she judges their existence as an impairment of her freedom. But if the proairesis finds that its own freedom can be impaired by an aproairetic thing, the proairesis is no longer judging itself as an infinite freedom. Therefore the proairesis of the Queen doesn’t set at work the diairesis but the counterdiairesis. This means that the proairesis of the Queen has corrupted itself and is therefore in the ‘evil’. Let’s summarize. The proairesis of the Queen, like the proairesis of Candaules, is in the ‘evil’ because it has at least a couple of judgments that we know to be those of a proairesis unable to operate properly. Furthermore, the proairesis of the Queen is in the ‘evil’ because, using the counterdiairesis, it harbours feeling of revenge and nurtures a specific project of murder. What shall we say to the Queen? We shall say: “What a night was this one for you, lady! The garlands suddenly fell from the walls of the palace. Stop it, my Queen, stop it! Change your judgments! If you don’t use the diairesis, you will celebrate a tremendous blood wedding and misery will be the perennial guest at your banquets’-
-Dear Muriel, said Irene, you were so clear as someone reading a book! Now that it’s up to me, I don’t really know if I shall succeed in matching your accuracy and your clarity. I have to examine the behavior of Gyges. Gyges is obviously the weakest of the three characters and he could say: “The King has forced me to see the Queen naked and I could not refuse his order. The Queen has forced me to do something against my will and I could not refuse her order”.  Let’s see if this is true. Candaules puts Gyges in front of a dilemma regarding the compliance with or the violation of a law. This law has nothing to do with the nature of things and could actually be called, in a much more precise way, a simple cultural model. We are in fact dealing with people who believe it a great evil for a woman and for a man to be seen naked. The law in question, which obviously excludes only the King, could be summarized in this way: ‘You’ll never see your Queen stark naked’. Raniero has already examined the reasons why Candaules introduces Gyges into this labyrinth and we know from the words of Herodotus that Gyges, despite the assurances of the King, finds himself in a situation in which he cannot avoid to choose. Candaules is aware that he is asking Gyges to violate the law, and Gyges is also fully aware of it. The command of the King then puts Gyges in the following contradiction: ‘To obey the King is ‘good’ for me (because I’ll continue to obtain his favours)’ and ‘To obey the King is ‘evil’ for me (because I violate the law)’. We know that the contradiction is rationally unbearable and must be swiftly solved. It is also clear from the account of Herodotus that Gyges would prefer to choose the respect of the law, but he is certain that disobeying the King would mean to lose his favours. Gyges knows that if he does not break the law he can keep his proairesis free, unhampered and unconstrained, but he can attain this result only by disobeying the orders of the King and losing his favours. On the contrary, Gyges knows that, if he obeys the orders of the King and violates the law, he will retain the favours of the King at the cost, however, of counterdiairesizing and then of making his proairesis slave, subservient and subordinate. We know what Gyges chooses. The proairesis of Gyges, infatuated as it is with aproairetic things like the favours of the King, has perverted itself and is therefore in the ‘evil’. When the human proairesis puts itself in this evil state and dresses up with counterdiairesis, then the problem arises of how to justify this renunciation of its infinite freedom. This justification, for any human being belonging to any culture, civilization, sex, religion, language and so on, takes invariably the form: ‘It’s the fault of someone else’. The proairesis which is no longer free and master of itself due to the use of counterdiairesis, is forced ‘invariably’ to project outside itself the cause of its perversion; and this happens because the proairesis is, at least temporarily, unable to recognize the nature of things. This is the reason why Gyges says that his choice is actually the King’s fault. And what shall we say to Gyges? We shall say: ‘Stop it, Gyges, stop it! At what a small price you are selling your proairesis! You are selling it at the price of indigestion and drunkenness. Stop using the counterdiairesis. Change your judgments, otherwise you’ll be forced to a banquet of blood!’ After a few days Gyges finds himself for the second time in a completely unexpected situation, and that again forces him to make a choice. This time it’s the Queen who asks him brutally to make a choice between life and death. Gyges enters here in the following contradiction: ‘To obey the Queen is ‘good’ for me (because I shall live, I’ll have the Queen and the Kingdom)’ and ‘To obey the Queen is ‘evil’ for me (because I have to assassinate my King).’ The contradiction, as we know, is unbearable and must be quickly resolved. It’s clear from the account of Herodotus that Gyges would tend to choose not to murder Candaules, but this would mean his own death. And Gyges chooses to live. Let’s forget for a moment that the proairesis of Gyges is already in the ‘evil’ because of its first counterdiairesis. If Gyges does not kill the King, he keeps his own proairesis (supposing that it is in a ‘good’ state) free, unhampered and unconstrained. But this choice would mean his own death. If Gyges murders the King, he stays alive and gets the Queen and the Kingdom, at the cost, however, of the perversion of his own proairesis. We know what Gyges chooses and we also know that for this choice he blames, this time, the Queen. What shall we say to Gyges? We shall say: ‘Stop it, Gyges, stop it! Your proairesis is twice in the ‘evil’. Change your judgment, use the diairesis and give up the banquet of blood. Gyges today is saving himself by dying, not by killing!’-
A long silence followed.
Today, said Raniero softly, I think we learned about at a lot of things, and I believe that it’s now time to go prepare dinner. Are you staying with us for dinner, Muriel?-
-I really do want a glass of retsina, said Muriel with tears in her eyes-
-We will put the dining table on the big terrace, said Irene, eat, and wait until we see the stars lighting up slowly in the sky-

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Dialogue IV

The Nature of Things

Ο μν ον τ ληθεί, φάναι,  φιλούμενε γάθων, δύνασαι ντιλέγειν, πε Σωκράτει γε οδν χαλεπόν.

“No, it is Truth, my dear Agathon, that you cannot contradict; Socrates you easily may”
(Plato ‘Symposium’ 201D)

The characters:

Raniero
Irene
Muriel
Albert Einstein
Saint Francis of Assisi
Mohandas Gandhi

An old, large and still very vibrant juniper, thick with fragrant berries, stands leaning against a stonewall which is not far from the small amphitheater overlooking the sea. Its long, rough and prickly lower branches spread out radially and down to the ground. By properly cutting them away, Raniero has been able to set up under the juniper a magnificent natural gazebo. Especially after lunch, when the summer sun pours its shiny streams of heat on the island and no movement is possible, it’s very pleasant to take a siesta in the shade and coolness of the gazebo.
Muriel told me that one summer day she had been invited by Raniero and Irene to join them in the late afternoon. While looking at whether the lavender and the geranium, which had been planted a few days earlier needed some watering, she was surprised by the sudden appearence of her two friends behind her.
-I didn’t see you coming, said Muriel, and I was a bit scared. Where do you come from?-
-We took a nap on cots placed under the gazebo, answered Irene, and when we saw you we came out to meet you. Today Raniero really amused me. Do you want to know with which name he has just baptized the gazebo?-
-I have no idea, replied Muriel, but as Raniero often jokes, I expect it to be a funny name-
-Now he calls it “our Siestina Chapel” said Irene laughing and looking fondly at Raniero-
Muriel laughed too, while Raniero endeavored to remain very serious.
-Despite the north wind, the plants you transplanted the past few days look great! noted Muriel-
-Yes, agreed Raniero. I didn’t expect so big a success, because in these things we are only amateurs. Now I propose to go indoors and to prepare a good cup of coffee. Then if you want we can resume our conversations in the amphitheater-
-I accept with enthusiasm, immediately nodded Muriel-
-The air is no longer as hot as a few hours ago, said Irene, and the wind is very calm. It will be great to talk together again-
Once they had tasted the coffee and taken a seat on the steps of the amphitheater, Muriel turned to Raniero and asked him:
-You speak often of the nature of things. To you, does understanding the nature of things mean being able to capture all the data of a given situation?-
-Not so much the data, answered Raniero, which could also be called the representations that a person gets of a certain situation. When I speak of the nature of things I refer, first of all, to the fact that of all the existing things, some are in our exclusive power while some others are not. The nature of things is essentially their fundamental bipartition in things that depend exclusively on us and things that don’t depend exclusively on us; that is, as Epictetus defines them, in proairetic things and in aproairetic things-
-For the sake of clarity, intervened Irene, can you give us once more an example of the ones and of the others? –
-Well, responded Raniero, in our exclusive power, and therefore proairetic things are: our judgments, impulses, desires, aversions, assents; in a word, everything that is the work of our own proairesis. Not in our exclusive power, and therefore aproairetic things are, for example: our body, property, reputation, titles; in a word, everything that is not the work of our own proairesis-
-But is Stoicism not an ‘ideology’, asked Muriel? It seems to me that Stoicism is only one of the many existing ‘isms’ such as, to quote only a few of them, Epicureanism, Idealism, Marxism, and so on-
-And what’s more, added Irene, is it not a purely ‘cultural’ thing, that is a construction linked to historical contingencies and cultural models that have in no way universal value?-
-You pose rightly and straightaway the problem of the very existence of the nature of things, that is the existence of something that can be defined as ‘invariant’, and to which everything else is relative. Let’s start then from the material world and the laws of physics. When they speak of the ‘Theory of Relativity’, certain people really like to repeat that ‘everything is relative’. This is of course nonsense, since the so-called theory of relativity doesn’t show at all that in the physical world everything is relative. On the contrary, this theory is intended to exclude from its foundations everything that is relative to the conditions of the observers, and it succeeds in arriving to a formulation of the physical laws that is completely independent from them. In the physical world is there at least a parameter that is invariant and to which all the others are relative?-
-Irene and Muriel were puzzled and replied: we don’t know what to answer-
-The answer is yes, said Raniero. Einstein and many other physicists with him have shown that this parameter exists and that it’s the speed of propagation of the electromagnetic field in the vacuum or, to put it more simply, the speed of light. Now, let’s skip entirely the flood of implications and consequences that are inherent to this achievement, and let’s ask this simple question: is the light a proairetic or an aproairetic thing?-
-Certainly an aproairetic thing, answered confidently Irene-
-Then we can conclude, continued Raniero, that at least in the case of aproairetic things it’s legitimate to speak of the existence of the nature of things. This means, in other words, that it’s possible to propose rules that will enable us to interpret and predict the behavior of at least some material objects-
-In fact, Muriel agreed, so far the discussion seems to me to go on smoothly-
-Let’s ask now whether it’s possible to speak of the existence of the nature of things in the case of proairetic things too. We can ask the question in this form: “Is it possible to find in the case of proairetic things a parameter that has the same importance and the same meaning of the speed of light in the case of aproairetic things?”-
-This seems to me, confessed Irene, a very difficult question, and one which has no possible answer-
-It’s not so, said Raniero. The invariant parameter we are looking for in the case of what is proairetic exists, we all know it and its name is ‘freedom’-
-How, said Muriel filled with wonder, can you compare the speed of light to freedom? The speed of light is a quantity that has a finite and measurable value. You cannot speak of freedom as if it were a measurable quantity-
-I understand, admitted Raniero, that you are somewhat perplexed and I will not go into details that I don’t master. For me it’s enough if we admit the existence of infinite quantities which are suitable to be treated with the same ease with which we treat integers and finite quantities. If that it’s the case, we are entitled to believe that the nature of things exists even in the case of what is proairetic, and are entitled to speak about it, that is about our conceptions, impulses, desires, aversions, judgments and so on, as aspects of the same invariant and infinite quantity that we call ‘freedom’-
-But, asked Muriel, which kind of freedom is the one you are talking about?
-Let’s forget about freedom as an abstract concept, and let’s talk about free men as concrete individuals. Who are these free men? They are the men ‘to whom everything happens according to the judgments of their proairesis’. Namely, they are the men who don’t pursue what is not in their exclusive power as if it were in their exclusive power, those who learned how to deal with any aproairetic thing and who know how to pass this test keeping their virtue, beauty and happiness intact. Free is therefore the man who uses the diairesis and is well aware of the nature of things-
-You certainly know, stepped in Irene, the statement that tells: ‘My freedom ends where yours begins’. How does this statement relate to what you are saying?-
-Epictetus repeats many times that no man can be master of the proairesis of another man. The proairesis is such a thing that nothing can force it to conceive or prevent it from conceiving, for instance, a judgment, a project or a desire. This means that the human proairesis is absolutely free and is an infinite quantity-
-Does this mean that a man can do whatever he wants?-
-Infinity is not at all equivalent to omnipotence. So, although your proairesis is infinite, as there is by nature no quantity superior to it, when you clash with another proairesis, there ends what you call ‘omnipotence’ because you can never, as we have said, be master of the proairesis of someone else. If the proairesis were something of a finite size, then the larger or stronger proairesis would be the master of the smaller or weaker proairesis. The proairesis of a man, however, is neither larger nor smaller than the proairesis of another man. Both proairesis are infinite, and can be masters only of themselves-
-I realize now, interrupted Irene, that when we discuss proairesis we are just talking about this invariant parameter, and I understand now why we always speak of proairesis as of something unhampered and unconstrained by nature-
-You are definitely right, concluded Raniero. What no power is able to hamper or constrain can rightly be defined as infinite. This is the freedom of each of us, of every human being. This is the answer to the question we have asked about the existence of the nature of things in the field of what is proairetic-
-Excuse me, protested Muriel, but you forget that it’s enough, in order to subordinate and enslave a man, just to threaten him with death!-
-Let’s use again the words of Epictetus, answered Raniero, and say that it’s not the threat of death which subordinates and enslaves such a man, but that it’s the infinite freedom of his proairesis that judges better for him to do what he is asked to do than to die. It’s always a judgment that compels another judgment, that is, it’s always the proairesis which forces itself, since an infinite quantity cannot be overcome by a finite quantity-
-But you have not yet explained, said Muriel, why the existence of the nature of things and the bipartition into proairetic and aproairetic things is not a purely ‘ideological’ and ‘cultural’ belief. The main difficulty I see in this regard lies in the fact that good and evil, happiness and misery, beauty and ugliness are judgments that belong only to individuals and that they are forms, to use your terminology, of their infinite freedom. However, the variety of civilizations, cultures, languages ​​and human individuals is so huge that I don’t see how you could focus on defining a model, for example, ‘right’ and consider other ones as ‘wrong’. This is what I mean when I say that I am sick and tired of ‘ideologies’ and when I say that all the ‘cultural models’ are relative-
-Let’s summarize, resumed Raniero, what we have said so far. I believe we now agree on the existence of proairetic things and aproairetic things. This bipartition is not an ideological or a cultural concept: it reflects the simple and incontrovertible empirical evidence of what we can do and of what we cannot do. We agree on the existence of the nature of things in the case of aproairetic objects, as we are taught by the physicists who study them and who clearly demonstrate that any aproairetic thing is subject to impediments and constrictions by what has a finite value bigger that it has. We agree on the existence of the nature of things also in the case of proairetic things: a nature of things which is embodied in the infinite freedom of our proairesis. The difficulty that Muriel sees can be resolved in this way. There is no doubt that good and evil, happiness and misery, beauty and ugliness, and so on are proairetic things, that they are judgments that belong only to individuals, and that these judgments are forms of their infinite freedom. Let’s now ask the crucial question in this way: “Even if it’s certain that men differ in judging good and bad things, is there at least one judgment, or a pair of judgments, upon which all human beings cannot but agree, regardless of their culture, race, religion, ideology, language, age, gender, and whatever difference you can imagine?” If the answer is ‘yes’, we can say we have found the unshakable foundation upon which to build our confidence in the existence of the human nature. If the answer is ‘no’, we conclude that there is no human nature, and that we shall be eternally enclosed within the boundaries of ‘ideology’ and ‘culture’, with all the consequences that this conclusion implies. Do either of you have an answer to this question or at least feel ready to venture a guess?-
In the silence, you could hear the hiss of the wings of large seagulls darting in the sky and whose raucous shrieks mingled with the inexhaustible chirping of cicadas.
-Okay, resumed Raniero, let me try to give an answer. I declare that there is a pair of judgments on which all human beings cannot but agree regardless, as I said before, of their culture, race, religion, ideology, language, age, gender, and so on. Indeed no human being, I repeat, no human being can avoid judging what he wants as a beautiful, happy and good thing, and judging ugly, unhappy and bad stumbling into what he averts. This statement is the unshakable foundation we were looking for-
-I don’t understand, interrupted Irene, in what sense this statement can be an unshakable foundation-
-It is an unshakable foundation, answered Raniero, in the sense that human nature exists because every human being is such that he tends to get for himself what he regards as beautiful, just, good and so on; and to run away from what he regards as ugly, unjust, bad, and so on. Because of this empirical evidence we are also allowed to define the human nature as a nature that tends to happiness and not to its opposite-
-I don’t agree with you, said Irene. A friend of mine who is a professional psychotherapist tells me that most of the people who seek her help complain continuously about making choices that they themselves define as ‘wrong’ and that make them unhappy. They say they always make choices that make them feel bad, by a sort of compulsion to repeat their mistakes-
-Look, explained Raniero. It would seem that the behavior of these people contradicts what I said before, but in reality when they choose something that may well appear to them ‘negative’, such as to gorge themselves with food in the case of a bulimic person, as a matter of fact they make a choice that is good for them, because otherwise they would not make it-
-What you notice is true, said Irene. After all, what is therapy but a path that leads people to change their judgment of what is good for them?-
-I also agree on this, said Muriel. Any individual wants his own good and avoids his own evil, but it’s quite evident that the difference among individuals lies exactly in what each of them judges to be good and to be bad, to be right and to be wrong, and then in what each of them will concretely desire or avert-
-Well, let’s restrict ourselves, for simplicity, to the consideration of desire and of aversion. It’s true that the differences between us, continued Raniero, lie in what we desire or avert and that for each of us the verb ‘to desire’ and the verb ‘to avert’ can have very different meanings. Do you remember the discussion on the three cities that we had in the first dialogue, when we introduced the word ‘proairesis’?-
-Yes, we remember it perfectly, said both Muriel and Irene-
-Well, I believe that the key to the solution of the problem is right there. Humans want different things, but there are only two classes of things that they can desire or avert: proairetic things and aproairetic things. This statement is valid always and for everyone, since it reflects the natural, basic bipartition of reality. So, the only sensible question we must ask when dealing with any desire or aversion of any human being is this one: “Is this individual desiring or averting a proairetic thing or an aproairetic one?” Again, for the sake of simplicity, let’s consider only the case of desire and aversion and give an example. Does any of you want to suggest a subject?-
-Let’s take money as the subject of the example, suggested Muriel-
-Great one, congratulated her Raniero. An individual deems money a desirable thing and judges it to be a good. Money is obviously an aproairetic thing and our man puts his desire upon it-
-In doing so, intervened Irene, he makes his own happiness depend on the fulfilment of his own desire. But we know that the possession of an aproairetic object, given the nature of things, will never be in his exclusive power. So our man runs a very serious risk-
-Yes, resumed Raniero, you are telling the truth when you say that he runs a very serious risk. Indeed, as we assume that our man is someone who knows what he does, and given the fact that he judges money to be a good thing, he cannot but aim at acquiring all the money in the world, and in order to do that he must be willing, albeit tacitly, to steal as much money as he can. Then, if an individual is true to himself and the money is for him a good thing, he ‘must’ become a thief. And since he will never reach the goal of his life, which is to have all the money in the world, he is doomed to eternal misery-
-But you exaggerate, interrupted him Muriel, when you take Scrooge McDuck as an example. An individual doesn’t usually want for himself all the money in the world and is satisfied with much less-
-Of course, answered Raniero; but this happens simply because the world teems with insignificant persons, contradictory people who say a little ‘wish’ and a little ‘do not wish’, who think they can say ‘yes’ and ‘no’ at the same time-
-And anyway their lives, interjected Irene, are a ride of misery. But let’s now analyze the case of a man who, on the contrary, judges that money is a bad thing and who averts its possession-
-I accept your suggestion, said Raniero. This individual judges money to be a bad thing and therefore, first of all, he tries to get rid of the money he has-
-This, said Muriel, immediately reminds me of the story of Saint Francis of Assisi-
-Let us leave the poor man of Assisi alone, continued Raniero. We are interested in talking about an individual who is well aware of what he averts. Whatever is the way by which this man got rid of the money in his possession, he makes his own happiness depend on the aversion of money. But he constantly stumbles into what he averts, because he ceaselessly comes across people who use it and offer it to him, and this makes him unhappy. He will then, by explaining why and how money is pure evil, try to convince other people to do what he has done. But his plan to eradicate money from the world is totally meaningless, because it contradicts his own necessities of life. Do you know the quip going round in the circle of people who were part of the more immediate entourage of Gandhi? The quip was the following: “It is unbelievable how much money it costs to keep Gandhi poor”. Since our individual is a consistent person, he will soon be forced to flee from all contacts involving exchange. This is equivalent to an escape from the human world in search of a pure an absolute self-sufficiency. As you can see, this man ‘must’ escape other men and totally isolate himself. And since he never finds perfect isolation and perfect self-sufficiency, I would not be astonished if he decided to commit suicide. And here we leave him-
-In short, concluded Irene, to crave for an aproairetic object or to crave for avoiding it doesn’t make much difference. In both cases, we show ourselves ignorant of the art of using aproairetic objects to enjoy peace and to be happy-
-It‘s exactly like that, concluded Raniero. The last case remains to be considered, that is the case of the man for whom no aproairetic object is good or bad, and for whom only his judgment about an aproairetic object can be good or bad. This individual will judge that money is neither a good nor an evil thing and will act accordingly-
-Do you mean that this man, asked Irene, in the case he has a lot of money, will know how to be rich in money with dignity and respect for himself and for other people? Do you mean that this man will not forget where his true wealth is? And that he will do the same in the case he is poor in money?-
-It’s exactly like that, responded Raniero; this is what I mean. The true good is not the money in itself but the judgment that the money is neither a good nor an evil thing. All you need to be a happy and virtuous man is to intimately possess this judgment and to apply it in everyday life. Similarly, we can say that the true evil is not the money but the judgment that makes us crave for it as if it were a good or, inversely, to avoi it as if it were a bad thing. Who feeds on the judgment that money is a good thing is unhappy as the one who is nourished by the judgment that money is an evil thing-
-Let’s analyze another example, proposed Muriel, which has nothing to do with money-
-Well, said Raniero, here is another example of our inability to recognize the nature of things and its fundamental bipartition. A person cannot stand the idea that other people have opinions different from his own and, believing he can master their proairesis, seeks in various ways to impose his own ideas. First of all, let’s ask: “Are the judgments of other people proairetic or aproairetic things?” Obviously they are aproairetic things, aproairetic like the money we mentioned earlier; though, unlike money, we can consider them immaterial things. We can apply the conclusions we have just reached to the case of immaterial aproairetic things as well. ‘Good’ is the judgment that the judgments of other people are neither good nor evil things for me. ‘Evil’ is the judgment that the judgments of other people are a good or a bad thing for me. In the first case, I’ll be tolerant and I’ll try to understand and make myself understood by other people. In the second case, I’ll be ready to become the follower of a sect, a party, a religion, and I’ll hold myself compelled to do everything I can in order to change the minds of those who don’t have my judgments-
-This is also the premise, if I’m not mistaken, that underlies all the great monotheistic religions, said Muriel. None of them recognizes the fundamental bipartition of things and their nature. They all declare themselves to be the custodian of ‘Revealed Truths’ and aim to ‘save’ humans bringing them from the condition of ‘Unbelievers’ to that of ‘Believers’-
-I want to suggest, stepped in Irene, an example closer to the experience of all of us. When two people make love it happens sometimes that they cannot reach an orgasm, either both or one of them, even if they are fond of each other. There are two popular ways to manage this situation: the first, which is the commonest, is to think that the fault lies with the partner; the second is to feel guilty for not having been up to the task. What is at stake here is the fact that ordinary people believe sexual orgasm to be a thing in our exclusive power and therefore proairetic. The main result of this way of thinking is unhappiness, accusations, quarrels and disaffection. But sexual orgasm is something which is not in our exclusive power, since a lot of different subjective and environmental events can condition it. Only by thinking this way we can allow ourselves to enjoy the pleasures we have lived; I mean the kisses, the caresses, the sensuality of those moments, without spoiling what we have lived because we have actually not reached the orgasm-
-Even after having been presented with all these examples, said Muriel, I am not convinced and I am still in doubt. Does such an attitude towards life not confine us to a sort of passivity? If everything is aproairetic except our judgments, we can change absolutely nothing!-
-It’s not true that we can change nothing, answered Raniero. First of all, you can change your judgments, and a few days ago we already discussed this question in depth. Our conclusion was that it’s not correct to call ‘activity’ the attempt to dominate and change aproairetic things, and call ‘passivity’ the project of making the right use of our proairesis. Secondly, we already admitted that none of us can live without interacting with other people and with external things. Well, we made it clear that we should not be afraid of these relationships with what is aproairetic and that we should not expect from them any harm or evil but a good, if we know, thanks to diairesis, how to value them properly. Thirdly, we agreed that to learn diairesis is essential in order to recognize the nature of things and their fundamental bipartition, and so be able to use the materials of our existence without neglect, without recklessness and without carelessness; because it’s true that all aproairetic things are indifferent but our use of them is not at all indifferent and requires attention, diligence and extreme care-
-I would very much like to have one more coffee, interrupted Irene. What we have just had was so good… Isn’t it, Muriel?-
-I agree on a second coffee, answered Muriel-
-I’d also gladly drink a coffee, and let us stop here our conversation for today, concluded Raniero. We might meet again in a few days. I would like to tell a story, if you still want to hear any, about a certain Gyges-

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Dialogue III

The Diairesis at work

Ο μν ον τ ληθεί, φάναι,  φιλούμενε γάθων, δύνασαι ντιλέγειν, πε Σωκράτει γε οδν χαλεπόν.

“No, it is Truth, my dear Agathon, that you cannot contradict; Socrates you easily may”
(Plato ‘Symposium’ 201D)

The characters:

Raniero
Irene
Muriel
Nicola, a boatman
An elderly man
Iorgos, a young man
Tom, a young man
Maria, a young woman
Penelopi, a young woman
Sofia, a young woman
Dimitri,a young man 

The plan of Raniero, Irene and Muriel was to enjoy a delicious swim in a calm and crystal clear sea. But once at Kedros beach, they immediately had to face an unexpected situation. The beach was overcrowded. A lot of people were playing with beach-rackets and produced a constant and annoying noise that seemed especially designed to cover the gentle sound of the waves breaking on the shore. Other people, running on the sand, were spraying those lying near the shore. Some people delighted in throwing to two dogs a stick that always ended up on someone’s feet. There were people who produced clouds of sand by shaking their towels. Others yelled very loudly calling some friend at the other end of the beach. Someone was stealing what was in the unattended bags of people at sea.
-Here is a situation, said Raniero, that seems especially designed for us. I mean, designed to test our abilty to put the diairesis at work. When we decided to come here to swim we also said: “I want to swim, but I want also to keep my proairesis in accordance with the nature of things, and I’ll not achieve this goal if I shudder with indignation and anger in front of activities that other people consider useful for themselves and that are not my exclusive power to change”. Do you remember?-
-Yes, said Irene, I remember it very well. To keep our proairesis in accordance with the nature of things means to remember that we cannot have complete control over what is not in our exclusive power. So now we are faced with two possibilities. The first one is to get angry and intervene to stop those we judge are jammers. But it is clear that, here and now, this would be hazardous and perhaps even counterproductive. The second possibility is to put the diairesis at work, to not place ourselves in direct conflict with them and choose a different beach. But which beach?- 
-I agree that we should not protest against this crowd, added Raniero. If they like what they do, let them enjoy it! We have here a good opportunity to exercise our tolerance. It is not what we hoped, but we are endowed by nature with enough resources to cope with this and other far more serious difficulties. I find this a wonderful demonstration of the truth we were discussing a few days ago: one thing is the project to find a quiet beach and to bathe, and a very different one is to actually find a beach that is quiet, because this outcome is not in our exclusive power! Anyway, I know that on the island there is another beach that is even more extraordinary than this one. It’s a couple of miles away and is more secluded: its name is Livadi. Do we want to go there?-
-Yes, nodded Irene, but it takes a long time to walk there and the path is not so easy-
While they were discussing the situation, the big blue boat of Nicola appeared far away on the sea, coming from behind the headland overlooking the beach. The boat was already loaded with people going to Livadi. After a few minutes and to their complete surprise, Raniero, Irene and Muriel saw the boat coming towards them and directing itself to the left end of the beach, where there is a small dock. “Here is the solution: let’s go to Livadi by boat”. They quickly reached other people already waiting on the pier and, after they got into the boat, Muriel noticed the presence of an elderly man wearing a white cloak. A flowing white beard framed his face, which was serene and sun-tanned. Muriel found a place beside him and distinctly heard him ask one of the young men who accompanied him to write down what he would slowly dictate. His words were the following: “We must train ourselves especially in this form of exercise. At once, stepping forth at dawn, inquire about whom you see, inquire about whom you hear and answer like to a question. What did you see? A handsome younker or a pretty wench? Apply the standard. Is it an aproairetic or proairetic thing? Aproairetic. Ignore it. What did you see? Someone mourning the death of her child? Apply the standard. Death is an aproairetic thing. Ignore it. Did you meet a consul? Apply the standard: what kind of thing is a consulship? Aproairetic or proairetic? Aproairetic: ignore it, too, for it has no value; throw it away, it is nothing to you. If we did this and in this we exercised every day from dawn to night, something would happen, by the gods! Instead, we are surprised by every impression, and only when at school we might wake up a bit. And then, when we leave the school, if we see someone mourning we say: ‘She is lost!’. If we see a consul: ‘Blessed man!’. If a banished fellow: ‘Disgraced man!’. If someone poor in money: ‘Miserable man, he has nothing to eat!’. For, what is to cry and to wail? A judgement. What is ill fortune? A judgement. What is conflict, what is disagreement, what is blame, what is accusation, what is impiety, what are babbles? These are all judgements and nothing else, and judgements on aproairetic things as good or evil. Transpose these judgements onto proairetic things, and I guarantee that you will be stable, no matter the circumstances that surround you”.
Once they got out of the boat, Muriel noticed that the elderly man was leaning on a cane and limping noticeably.
Livadi is a large white sand beach, very secluded, with a ​​clear blue sea and calm waters. Beyond the beach, in the shadow of a great tamarisk, they saw some tents and a group of young people sitting in a circle on colorful towels. They were all naked, and were talking quietly among themselves. On the beach other people were swimming or sunbathing or simply walking along the seashore. Some of them were wearing a bathing suit, but the majority of people had gotten rid of all clothing.
After a swin, Raniero and Irene approached the group of young people under the tamarisk. Muriel approached them too, and turning to his two friends said: “Sorry, I had lost sight of you both because I decided to write down the terrible things that I heard from an elderly man while we were on the boat. I can read them to you later, if you want”.
The young people welcomed them and offered them some water. At a certain point, a guy named Iorgos told them that just that morning two dear friends of him had left the island and gone back home. He confessed that this separation had touched him very deeply, that he was feeling unhappy, and that for this reason he needed to share his feelings with other people.
-Feelings? What do you mean, asked Tom, when you use this word?-
-For me, answered Mary, to have feelings means to express the emotions I feel towards other people. You told the two friends who left, that you loved them. For me, the only true feeling is essentially the feeling of love-
-I completely agree with you, said Tom. But I must add, as I told Iorgos this morning, that to share this feeling with other people doesn’t heal the pain and misery that I, too, feel for this separation-
-If you, intervened Raniero, let yourself be overrun by nostalgia and grief because of the separation, you seem to give a purely negative judgment of the situation, and thus unlock the door that brings you unhappiness. Why do you need to behave this way?-
-This is not the point, said Iorgos. I just give myself the right to feel what I feel, and to notify you about this. If you experience the same feeling, this empathy makes the misery of separation more bearable for me. I find the possibility of sharing our feelings with other people helpful and important-
-Look, said Raniero: if you analyze the subject in depth, you’ll come to the conclusion that those you call feelings are in fact judgments-
-How can you say this? asked Iorgos-
-The ones you call feelings, explained Raniero, are judgments because they can always be translated as follows: “I like being with these people”. If your judgment were different and were: “I don’t like being with these people” you would call this a feeling of aversion, and the separation would not bring you any unhappiness-
-Your argument, rose up Tom, seems trivial to me! You’re simply saying that if the situation were different my feelings would be different. So what?-
-I accept your obvious criticism, replied calmly Raniero. But the important thing here is to acknowledge that our feelings are in fact judgments, that our judgments are our true self, and that the complete control upon our judgments is the only actual power that we have. We are the only ones able to change them. No one else can do it for us, nor we can ask someone else to do it for us: we are totally free in our judgments-
-So, continued Iorgos, I should change my opinion of the situation, and say that I don’t care if my friends have gone? Is this the way I could avoid feeling unhappy? Is this what you mean?-
-Nature, replied Raniero, has made us the only masters of our judgments. When you talk of the feelings as if they were entities independent of our judgments, you run the risk of believing that the feelings are our masters and that we are the guests of our feelings. If our feelings were really masters of us, logically the separation you mention should drag you to extreme decisions. This is what you should do: kill yourself for the misery that you experience because of the separation, as did Dido when Aeneas left her. If these friends had not only left you but if they were already dead in an accident and you could never see them again, what would you do? Since they are for you really good people, since the removal of this good thing is for you an evil that makes you unhappy, since you have lost this good that they took away by leaving you, in order to be consistent and true to yourself you should commit suicide-
-It seems to me an overstatement, said Iorgos. In a person’s life there are not only friends but many other things. So why commit suicide? I’m just sad-
-Be careful then, replied Raniero, because you are not sufficiently aware that your behavior is the consequence of a chain of judgments that follow each other. First, you chop the ‘big good’ into small bits, into a lot of different ‘small goods’, as many as the number of people and of external objects that you judge important and useful to you. Secondly, you think to have over each of these bits such a power that their possession brings you happiness and their loss misery. Thirdly, you tacitly decide that there will never be a decisive loss, and therefore, that you’ll choose to commit suicide only if all these people together and all these external objects were taken away from you all at once. But if you reason soundly, you must recognize that not even one of these persons and objects belongs to you, because they are people and things outside of you. They are, as we said, aproairetic entities over which you have no exclusive power-
-Yes, intervened Mary, it can be so. But this doesn’t prevent me from feeling unhappiness because of a separation-
-This happens, continued Raniero, because you equate the separation with a loss, and judge that it has only a negative value. On the contrary, you must judge that your friends are for you, as external to you, neither good nor evil things; and therefore that your separation from them is not the separation from something which is good but from something which is neither good nor evil-
-You mean, Mary said, that all external objects have no value at all? This seems to me a very self-centered attitude and one that doesn’t convince me at all-
-I am stunned, said Raniero. If you take away from everything that is external the quality of being good or evil, does this mean that you take away all importance to what is external? If something is neither good nor evil, does this mean that it no longer continues to be hot or cold, colored or colorless, heavy or light, sweet or savory; and in the case of a person, attractive or repulsive, tall or short, male or female, happy or unhappy, and all the countless other possible determinations that specify and characterize him or her?-
-When you state, said Irene, that a person is neither a good nor a bad thing it seems to me that you are saying that she or he is worthless, and that bothers me. In our culture the words ‘good’ and ‘bad’ are closely related to the concept of value-
-All that is external to us (people, things, situations, etc..) is neither good nor evil, repeated Raniero. Good and evil lay only in the use we make of these external things, and this use is in our exclusive power. For example, chess pieces are neither good nor evil things, they are simply chess pieces. The good player, however, will use them in the right way and  will win the game, while the bad player will lose it. This is not a judgment upon the value of the chess pieces as such, but about the way the players use them. A ship is neither a good nor an evil thing. Does it mean that the ship doesn’t exist or that it is worthless? The good pilot will dock it even in a rough sea, the bad pilot will make it sink-
-I understand, Tom said. All that is external to us is neither good nor evil, and good and evil are only in the use we make of what is external to us-
-You are right, nodded Raniero, this is the truth. You preserve the power to judge pleasant, desirable and useful the presence of the friends who left the island, because this judgment is exclusively up to you. But you must admit that the separation, on the contrary, doesn’t depend exclusively on you. You preserve the right to have your own opinion of the separation, too. But why should this judgment always be negative and cause you unhappiness? Allow me to put the question in this way: what hurts you is not the departure of your friends but your fear of suffering-
-Maybe you are right, murmured Iorgos emotionally. But what can we do better than that?-
-You can make a different choice, said Raniero. You can consider the separation from another point of view. You are free to conceive other judgments. For example, that the separation will make it more pleasant to meet your friends again, or that the separation is unavoidable and will produce something new and unexpected, and so on. If you put the diairesis at work, the diairesis will change your judgments and these new judgments will change your feelings. If you take good and evil away from what is aproairetic, why do you deduce as a consequence that you cannot have feelings anymore? Don’t be afraid to feel this languor, do not try to resist the pang, don’t fear the separation, allow yourself to experience something that you imagine can crush you while, in fact, you are actually superior to it and able to master it-
-When I feel pain, said Penelopes, I censor it. I start thinking about a lot of different things and become hyperactive, because I don’t want to feel badly. I don’t do what you suggest, I don’t accept the pain and I go elsewhere-
-When I feel the pain of separation, said Muriel, I lose energy and no longer want to do anything. Nothing anymore seems to me interesting and everything seems negative. I soon enter a state of depression and nothing appears valuable to me anymore. I start to believe that the separation is my fault and that I have no value at all, because otherwise there would be no separation. This happens to me especially if the separation is the end of a romance-
-When you say, Raniero explained, that you feel guilty for the separation and that you are worthless, you implicitly assume that the separation is something in your exclusive power. If you judge yourself to be the cause of the separation, you also admit to be the origin of your own affliction. Now, if you judged that the separation doesn’t depend exclusively on you, you would at least avoid the vicious cycle you’ve described, which forces you to live the separation as well as the depression-
-On my part, intervened Sofia, I find it important to stay in the situation, even if it is one of nostalgia or unhappiness, and accept it, as Raniero said. If you refuse the situation, the pain gets bigger and bigger, while if you accept and dominate it you can be happy-
-Excuse me, protested Iorgos, you cannot tell me that you can be happy and unhappy at the same time…-
-You are right in saying this, intervened Raniero, because if we use contradictory terms we’ll make a mess and understand very little. So I suggest that we don’t call unhappiness the whole range of soft, delicate and nostalgic feelings of those who have learned the right use of their proairesis. Epictetus frequently invites us not to use a judgment without first having carefully analyzed it. So, how must we show affection? We must be affectionate as the free men are, as the lucky men are. Our reason will never choose that we are slaves in our proairesis, nor that we lose its vigour or make it depend on this or that. We can, therefore, love, and love with the intention of preserving our proairesis free and in accordance with the nature of things. If, however, due to the feeling of affection, whatever it is we call affection, we are to be slaves and petty men, we must avoid being affectionate-
-I’m sorry, asked Irene, are you saying that in order to avoid the risk of being unhappy or enslaved it’s better not to be affectionate at all?-
-I’m telling you, answered Raniero, that your presence is dear to me, but that if you leave me, even though I will feel a sense of lack, of longing, or the languor that follows a separation, I’ll live in your absence as a free man lives, a man who is not overwhelmed by feelings related to events that are not within his power-
-It seems to me, said Muriel, that in this way you’re passively accepting the choices of other people-
-I can try, answered Raniero, to influence the choices of Irene, in order to facilitate or hinder the choice I don’t like; but certainly it’s not in my power to ensure that she will choose what I prefer. I don’t forget the existence and the meaning of the feelings of sadness, languor or nostalgia which follow a separation. We can usefully define these feelings as sudden, short-term feelings. But I don’t lose sight of the fact that these feelings cannot overwhelm me, as they are themselves aproairetic events, that is events that are not in my exclusive power. At this point what I can and must do, is to put at work the diairesis, analyze them in the light of the fact that they are not in my exclusive power and open the door to the stable, long-term feelings that we now know to be actually judgments. This is what depends exclusively on me. To feel badly or good is therefore totally up to me-
-I separated from my wife last year, intervened Dimitri, and I still cannot accept this separation. I constantly seek traces of her in the form of letters, photographs, of people who remember her, so that I can feel again as I used to feel before-
-The judgment that you have of your wife, said Penelopes, is that she was certainly a good thing for you, and the separation from her makes your life unhappy. But if you try to recreate a situation that is no longer possible, you won’t get anything out of it-
-I have given up, sighed Dimitri, experiencing new things and I want to be alone with the memory of what was good for me-
-Nobody in the world, nodded Raniero, will convince you of the opposite. I think it’s a pity to lose a friend like you, who chooses to live alone. It’s a pity to lose your company and the opportunity of meeting and discussing together. But if this is your choiche, we cannot change it. You, my dear Dimitri, are sending a man to hell, that is yourself; a man who has committed no injustice at all-
-On the contrary, intervened Irene, I have experienced the diairesis at work, the change of judgment, as you call it, after a separation. For me, the separation is not exclusively negative and a source of regret, though, of course, this feeling is not unknown to me. The separation has been for me a period that has allowed me to see more clearly what I lived, and to experience feelings of gratitude for what I had before, while being aware that everything has a beginning and an end. I think that this is exactly the opposite of what Medea chose to do because of her painful separation from Jason. We know that she chose to devalue all that had passed between them-
-If I understand it well, said Mary, you Raniero do not deny the existence of sudden feelings and the legitimacy of experiencing them. You simply say that the long-term feelings are in fact judgments, that we are masters of these judgments and that the use of our feelings is an open question-
-That’s right, Raniero stated, and of course what we do with our feelings depends on the judgments that guide us. The word ‘diairesis’ itself means separation. Separation from what? Separation of the judgment of good and evil from everything external to our proairesis and the assignment of good to our individual proairesis when it operates correctly, that is, when it is capable of distinguishing between what is in our exclusive power and what is not. I don’t deny the sadness of separation, but I don’t forget that the separation doesn’t depend exclusively on me; and I deny that the judgment on separation must always be a cause of unhappiness. On the other hand, we cannot  but interact with people and things outside us. Well, we should not be afraid of these relationships and we should not expect to suffer harm from them, but good, provided that we know, thanks to the ability to use the diairesis, to appreciate and firmly hold their true value. No football player disputes the weight or size of the ball. The talent of each player is shown by his ability to use the ball as it is, identical for all. Up to us is to overcome the obstacles, including the fear of winning, and to decide to score a goal-
It was late afternoon and suddenly a distant but unmistakable rumbling announced the imminent arrival of the big blue boat of Nicola.
-Who wants, asked Mary and Dimitri, to go to Kedros by boat with us? The boat is in sight and we must be ready to leave in a few minutes-
-The sea is calm and therefore I will gladly take the boat back with the two of you, said Muriel-
-I do wish, said Irene, to see again from the boat the magnificent rocky coast we admired coming here this morning. I’ll join you, Muriel. And you, Raniero, what will you do?-
-I prefer ​​walking. I would like to look at the sea from the top of the rocky coast and delight myself with the scent of the bushes of thyme and helichrysum that dot the rugged path leading here. Shall I see you later for a beer at the tavern of Nikitas?-