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PILOTINA STOICA USS 05 

Felicità

Dei beni alcuni sono necessari per la felicità, altri no. Necessarie sono tutte le virtù e le attività che le utilizzano. Non necessarie sono la gioia, la letizia, occupazioni e mestieri. Somigliantemente dei mali, alcuni sono necessari come mali che generano infelicità, altri no. Necessari sono tutti i vizi e le attività che ne discendono. Non necessarie sono tutte le passioni, le affezioni e cose somiglianti.
1023/113 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 27, 11
Stobaeus  ‘Eclogae’ II 77, 6

E perciò gli uomini dabbene sono sempre assolutamente felici e gli insipienti, invece, infelici. La felicità dei primi non differisce dalla felicità divina né, dice Crisippo, quella di un istante differisce dalla felicità di Zeus. Né la felicità di Zeus è preferibile o più bella o più solenne di quella degli uomini sapienti.
997/54(3) = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 14, 8
Stobaeus ‘Eclogae’ II 98, 17 W

Gli Stoici chiamano ‘indifferenti’ le cose che stanno in mezzo tra i beni ed i mali e affermano che possono essere pensate in due modi. Secondo un modo, ‘indifferente’ è ciò che non è né bene né male, né da scegliersi né da fuggirsi. Secondo un altro modo, ‘indifferente’ è ciò che non muove né ad impulso né a repulsione. In questo senso alcune cose sono anche dette ‘definitivamente indifferenti’, come l’avere in testa un numero pari o dispari di capelli, oppure il protendere il dito così o cosà, oppure il levare di mezzo qualche intralcio, sterpaglia o fogliame. Nel primo senso, bisogna dire che si chiamano indifferenti le cose che stanno in mezzo tra la virtù ed il vizio [……………] certamente non per una elezione ed un rifiuto, giacché alcune hanno un valore che le fa eleggere, altre un disvalore che le fa rifiutare, ma in nessun modo un valore che sia di contributo alla vita felice
1025/118 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 28, 19
Stobaeus ‘Eclogae’ II 79, 1 W

Di Crisippo. Chi è al culmine del profitto adempie completamente tutto quanto è doveroso e non omette nulla. Crisippo afferma che la vita di costui non è ancora felice, ma che la felicità gli sopravviene qualora a queste azioni intermedie si aggiungano saldezza ed abitualità, ed esse prendano una loro solidità.
1243/510 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 137, 43
Stobaeus ‘Florilegium’ 103, 22

Dicono gli Stoici che tutte le virtù, siano esse scienze od arti, hanno comuni principi generali e, come si dice, medesimo fine, e perciò sono inseparabili. Chi ne ha una le ha tutte, e chi opera secondo una opera secondo tutte. Le virtù differiscono però una dall’altra per punti capitali. Così punto capitale della saggezza è, cardinalmente, conoscere i principi generali di ciò che va fatto ed effettuarlo; secondariamente, deputare ciò che si deve deputare, grazie al fatto di effettuare senza sbagli ciò che va fatto. Punto capitale peculiare della temperanza è, cardinalmente, procurare impulsi stabili e conoscerne i principi generali; secondariamente conoscere ciò che è oggetto delle altre virtù, per il fatto di condurci senza sbagli negli impulsi. Ugualmente la virilità è, cardinalmente, il resistere a tutto ciò cui si deve resistere e, secondariamente, il conoscere ciò che è oggetto delle altre virtù. Anche la giustizia è, cardinalmente, il considerare ciò che è secondo il merito di ciascuno e, secondariamente, anche il resto. Ogni virtù, infatti, guarda ai punti capitali di tutte le altre ed a ciò che è reciprocamente subordinato. Panezio soleva dire che quanto avviene riguardo alle virtù è simile a quanto avviene quando innanzi a molti arcieri giacesse un solo bersaglio, e questo avesse al proprio interno strisce di colore diverso. Ciascun arciere mirerebbe a centrare il bersaglio ma uno colpendo, caso mai, la striscia bianca, un altro la striscia nera, un altro ancora la striscia di qualche altro colore. Come costoro si danno quale fine supremo il centrare il bersaglio, seppure proponendosene il conseguimento chi in un modo chi in un altro, così tutte le virtù si danno quale fine l’essere felice –il che sta nel vivere coerentemente con la natura delle cose- e ciascuna lo centra a modo suo.
1107/280 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 69, 4
Stobaeus ‘Eclogae’ II 63, 6 W

Delle cose che hanno valore alcune ne hanno molto, altre poco. Ugualmente, delle cose che hanno disvalore alcune ne hanno molto, altre poco. Ora, le cose che hanno molto valore sono dette ‘preferibili’, mentre quelle che hanno molto disvalore sono dette ‘rifiutabili’; e fu Zenone a dare per primo alle faccende della vita questi nomi. Si dice ‘preferibile’ quella faccenda che è indifferente ma che noi eleggiamo in prima istanza. Un discorso simile vale per le faccende ‘rifiutabili’ e gli esempi sono, per analogia, gli stessi. Invece nessuno dei beni è preferibile, giacché i beni hanno il massimo valore. Il ‘preferibile’, pur essendo una faccenda di secondo rango e valore, si approssima però in un certo modo alla natura dei beni. A corte, infatti, il re non è dei preferibili, ma lo sono quelli posizionati dopo di lui. Si dicono dunque faccende preferibili non perché conferiscano qualche felicità o cooperino ad essa, ma perché ci è necessario eleggere esse invece di quelle rifiutabili.
93/192 = 1031/128 = Stoicorum Veterum Fragmenta 1, 48, 3 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 31, 10
Stobaeus ‘Eclogae’ II 84, 21 W 
Stobaeus ‘Eclogae’ II 84, 18

Dicono che il fine è l’essere felici e che questo è ciò per cui tutto si effettua, mentre l’essere felici è effettuato in vista di null’altro. Questo consiste nel vivere secondo virtù, nel vivere coerentemente ed anche, il che è lo stesso, nel vivere secondo natura. Zenone definì la felicità in questo modo: felicità è il sereno fluire dell’esistenza. Anche Cleante usa questa definizione nei suoi trattati. La usa anche Crisippo. E lo fanno tutti i loro successori, dicendo che la felicità non è altro che una vita felice, seppure affermino che la felicità è proposta come scopo, mentre centrare la felicità è il fine, il che appunto è lo stesso che essere felici. E’ dunque da ciò manifesto che ‘vivere secondo natura’, ‘vivere da bello’, ‘vivere bene’ e ancora ‘ciò che è dabbene’, ‘la virtù e quanto partecipa della virtù’ sono termini equivalenti. E poi tutto quanto è buono è anche bello, e similmente tutto quanto è brutto è anche male. Anche perciò il fine stoico può parificarsi ad una vita secondo virtù.
981/16 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 6, 7
Stobaeus ‘Eclogae’ II 77, 16 W

La virtù è una disposizione d’animo ammissibile con la ragione e scelta per se stessa, non a causa di qualche paura o speranza o cosa esteriore. Nella virtù, in quanto è animo fatto per l’ammissibilità dell’intera la vita con la ragione, consiste la felicità.
991/39 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 11, 37
Diogene Laerzio VII 89

Io lodo la baldanza e l’apertura mentale degli Stoici, i quali affermano che nessuna delle cose estrinseche è di impedimento alla felicità e che l’uomo virtuoso è beato anche se il toro di Falaride lo avrà bruciato.
1277/586 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 154, 1
Gregorius Nazianzienus Epist. 32

Perciò anche Cleante, nel secondo libro sul ‘Piacere fisico’ dice che Socrate insegnava in particolare come uno e medesimo sono l’uomo giusto e l’uomo felice, e che malediva chi per primo aveva spartito il giusto dall’utile, perché aveva compiuto un’empietà. Giacché sono effettivamente empi coloro che separano l’utile dal giusto secondo la legge.
249/558 = Stoicorum Veterum Fragmenta 1, 127, 20
Clemens Alex. Strom II 22, 131 p.499 P

Gli stoici chiamano felice chi ha resistito a guai degni di Priamo. 
1275/585  = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 153, 38
Stephanus Frag. Comment. in Aristot. Rhet. III p. 325, 13 Rabe


In molti luoghi Crisippo ha affermato che per il fatto di esserli per molto tempo noi non siamo più felici, bensì che lo siamo ugualmente ed altrettanto a coloro che partecipano per un istante della felicità.
997/54(2) = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 14, 5
Plutarchus ‘De Stoicorum Repugnantiis’ §26 p. 1046c


E Zenone non seguì forse costoro (i Peripatetici) i quali ipotizzavano come elementi della felicità la natura delle cose e quanto è secondo la natura delle cose?
89/183 = Stoicorum Veterum Fragmenta 1, 46, 12
Plutarchus ‘De communibus notitiis adversus Stoicos’ p. 1069f


Gli Stoici non dicono soltanto questo ma dicono inoltre che l’aggiunta del tempo non accresce il bene, e che se uno diverrà saggio anche per un solo istante in nulla resterà indietro, quanto a felicità, rispetto a chi eternamente usa virtù ed in essa beatamente vive.
997/54(1) = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 13, 38
Plutarchus ‘De comm. Not.’ §8 p. 1061f


Se, come ha scritto Crisippo nel primo libro del ‘Protrettico’, soltanto il vivere secondo virtù è vivere felicemente e nessun’altra cosa, dice, ci riguarda od a questo coopera…
1037/139(3) = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 34, 9
Plutarchus ‘De comm. Not.’ p. 1060D


Vi erano poi quelli che dicevano essere ‘il bene’ ciò che si sceglie per sé e non per altro. Alcuni dicono così: ‘Bene è quanto soccorre per la felicità’. Altri affermano che: ‘Bene è quanto completa la felicità’. E la felicità, come assunsero le scuole di Zenone, di Cleante e di Crisippo, è il sereno fluire dell’esistenza.
1005/73 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 18, 12
Sextus ‘Adversus Mathematicos’ XI, 30


La felicità promana dalla saggezza, la saggezza si muove tra azioni di successo e l’azione di successo è ciò che, quando effettuato, ha una giustificazione ragionevole.
1109/284 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 70, 7
Sextus ‘Adversus Mathematicos’ VII, 158

I primi stoici chiamarono colmo della felicità il riuscire a vivere consequenzialmente alla natura delle cose.
977/7 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 4, 16
Philo ‘De plantatione Noe’ §49 Vol. II p. 143,20 Wendland

Quando i filosofi Stoici chiamano identica la virtù di un uomo e di un dio, e soprattutto se affermeranno che dio non è più felice di chi, secondo loro, è tra gli uomini sapiente ma che pari è la felicità di entrambi, ebbene Celso non deride…
1087/248 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 59, 7
Origenes ‘Contra Celsum’ VI, 48 Vol. II p.119, 16 Ko


Se l’animo loro diventerà cosciente e la loro mente dabbene e saranno in grado di effettuare rettamente le proprie faccende e quelle altrui, ebbene è necessario che costoro vivano anche felicemente, perché hanno centrato il buon genio e sono amici degli dei. Giacché è inverosimile che i saggi non siano esperti delle faccende umane e che chi riflette sulle faccende umane non rifletta su quelle divine e che chi è scienziato di cose divine non sia santo e che chi è santo non sia caro agli dei. Né è verosimile che alcuni individui siano stolti e però che siano altri ad ignorare le faccende doverose per loro, né è verosimile che chi ignora le proprie faccende conosca quelle divine, né che chi ha concezioni da insipiente circa il divino non sia sacrilego. Neppure è verosimile che gli individui sacrileghi siano tali da essere cari agli dei, e chi non è caro agli dei è inverosimile che non abbia cattiva fortuna.
1275/584 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 153, 21
Dione Crisostomo Oraz. LXIX § 4