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STOICORUM VETERUM FRAGMENTA LIBRO III

Tutti i frammenti greci e latini

SVF III, 1

Nuovamente tradotti da Franco Scalenghe

Diogene Laerzio VII, 84. <Gli Stoici> [III,3,1] dividono la parte Etica della filosofia in diversi ambiti: quello dell’impulso, quello dei beni e dei mali, delle passioni, della virtù, del sommo bene, del primo valore, delle azioni, delle esortazioni e dissuasioni doverose. [III,3,5] Così la suddividono i seguaci di Crisippo, di Archedemo, di Zenone di Tarso, di Apollodoro, di Diogene, di Antipatro e di Posidonio. Zenone di Cizio e Cleante, in quanto filosofi più antichi, discernettero circa queste faccende in modo più semplice. Costoro però divisero dal resto [III,3,10] sia la Logica che la Fisica.

ETHICA I.

Sul sommo bene

§ 1. Il sommo bene secondo gli Stoici

 Frammenti n. 2-19

SVF III, 2

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 46 W. [III,3,15] Gli Stoici dicono a mo’ di definizione: “Il sommo bene è ciò a motivo del quale tutte le azioni sono doverosamente effettuate, ed esso invece si effettua a motivo di null’altro”. Ed anche in quel modo: “Ciò in grazia di cui tutto il resto; esso, invece, a motivo di null’altro”. E di nuovo: “Ciò a cui tutte le azioni effettuate nella vita fanno doverosamente riferimento, mentre [III,3,20] esso non fa riferimento ad altro”.

SVF III, 3

Stobeo ‘Eclogae’ II, 76, 16 W. I seguaci di questa scuola filosofica parlano del ‘sommo bene’ in tre modi. Infatti, il sommo bene, per consuetudine filologica, si dice bene finale; come quando essi dicono che ‘sommo bene’ è l’ammissibilità con la ragione. Ma chiamano anche ‘sommo bene’ lo ‘scopo’; per esempio, quando, in riferimento al predicato che gli è accanto, parlano di vita ammissibile con la ragione. [III,3,25] In un terzo significato, poi, chiamano ‘sommo bene’ l’estremo dei desiderabili, cui tutto il resto fa riferimento.

SVF III, 4

[1] Diogene Laerzio VII, 87. A sua volta, come afferma Crisippo nel primo libro ‘Sui sommi beni’, il vivere secondo virtù è pari al vivere secondo perizia di ciò che avviene per natura, giacché le nostre [III,3,30] nature sono parti della natura del cosmo. Perciò ‘sommo bene’ diventa il vivere in modo conseguente alla natura delle cose, [III,4,1] cioè in accordo con la nostra propria natura e quella dell’intero cosmo; nulla attivando di ciò che la legge comune suole vietare: legge la quale è retta ragione che tutto pervade e che è identica a Zeus, guida e capo del governo delle cose. Proprio in questo consiste [III,4,5] la virtù e la serenità di vita dell’uomo felice, qualora egli tutto effettui in armonia col demone interiore che è in ciascuno di noi e con il piano di chi governa il cosmo.

[2] VII, 89. Per natura delle cose alla quale bisogna vivere in modo conseguente, Crisippo intende sia quella comune alle cose tutte, sia quella peculiarmente umana.

SVF III, 5

‘Commento a Lucano’ Libro II, 380 p. 73 Us. In questi versi <Lucano> [III,4,10] dichiara che Catone fu uno Stoico. Secondo Crisippo il fine di questa filosofia è quello di vivere in modo armonia con la natura delle cose.

SVF III, 6

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 14, p. 703 Pott. A partire di qui gli Stoici hanno chiamato [III,4,15] ‘fine’ della filosofia il vivere in modo conseguente alla natura.

SVF III, 7

Filone Alessandrino ‘De plantat. Noe’ 49, II, p. 143, 20 Wendl. Avere la potenza di vivere in modo conseguente alla natura è quello che i primi tra i filosofi hanno chiamato piena realizzazione della felicità.

SVF III, 8

Filone Alessandrino ‘De migrat. Abrah.’ 128, II, p. 293, 4 Wendl. E questo è il ‘fine’ cantato da coloro che hanno praticato la migliore filosofia: vivere in modo conseguente [III,4,20] alla natura.

SVF III, 9

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 482 Pott. A partire di qui, anche gli Stoici nutrirono il giudizio che il ‘sommo bene’ è ‘vivere in modo conseguente alla natura’; e però cambiarono il nome ‘Dio’ in quello di ‘natura’ in modo non confacente, dacché la natura pertiene anche ai vegetali […] e ai minerali.

SVF III, 10

Filone Alessandrino ‘De Moyse’ III, II, Mang. p. 158. [III,4,25] .…prendendo di mira il culmine della felicità e il ‘sommo bene’ verso il quale è necessario muovere celermente e riferire tutte le azioni, avendo a bersaglio, come nel tiro con l’arco, lo scopo della vita.

SVF III, 11

Cicerone ‘De finibus’ III, 23. Come le membra che ci sono state date [III,4,30] appaiono funzionali ad un certo tipo di vita, così l’impulso dell’animo, che i Greci chiamano ὁρμή, risulta esserci stato dato non per un genere di vita qualsiasi ma per un certo modo di vivere; e lo stesso dicasi per la ragione e per la perfetta ragione. Come non si affida all’attore una parte qualsiasi ma una ben precisa, né al danzatore l’esecuzione di una movenza qualsiasi ma di una ben precisa, così si deve condurre un genere di vita ben determinato e non uno a casaccio: quel genere che chiamiamo [III,4,35] conveniente e consentaneo. Noi riteniamo che la saggezza sia simile non all’arte del nocchiero o alla medicina, ma piuttosto, come ho appena detto, alla recitazione dell’attore e alla danza, giacché la virtù ha il proprio fine incorporato in se stessa, ossia è la pratica dell’arte di se stessa, e non cerca la propria perfezione fuori di sé. Tuttavia, la saggezza differisce anche da queste arti, giacché la perfezione in esse non incorpora [III,4,40] la totalità delle parti di cui ciascuna consta, mentre le azioni rette, che gli Stoici chiamano κατορθώματα, contengono in sé tutte le numerose virtù. Soltanto la saggezza è interamente conclusa in se stessa. […] La saggezza infatti include la magnanimità e la giustizia, [III,5,1] sicché si giudica superiore a tutti gli accidenti umani.

SVF III, 12

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 6, p. 450 M. Non accontentandosi di questo, Posidonio attacca i seguaci [III,5,5] di Crisippo in maniera ancor più evidente e veemente per non avere rettamente spiegato il ‘sommo bene’. Il suo discorso è questo: “… una volta messo da parte ciò, alcuni riducono il ‘vivere in modo ammissibile con la ragione’ al fare tutto il fattibile per conseguire le cose primarie secondo natura, e lo assimilano all’esporsi come scopo il piacere della carne o l’assenza di fastidi o qualcos’altro del genere. In questa enunciazione è palese una contraddizione, e nulla che abbia relazione col bello [III,5,10] e col felicitante. Le cose primarie secondo natura, infatti, sono di necessità concomitanti al ‘sommo bene’, ma non sono il ‘sommo bene’. Una volta che si abbia invece un retto discernimento del sommo bene, allora è possibile utilizzarlo per fare a fette le aporie che i sofisti avanzano. Non certo con definizioni del tipo ‘vivere secondo perizia delle cose che avvengono per natura intesa nel suo complesso’, che equivale a dire ‘vivere in modo ammissibile con la ragione’, dal momento che questa formulazione ha invece [III,5,15] per intento, in misura non piccola, l’ottenimento di cose indifferenti.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ II, 76, 3 W. Infatti Cleante, dopo avere accettato per primo la definizione scelta da Zenone, le addizionò ‘alla natura’ e così la restituì: “ ‘Sommo bene’ è il vivere in modo ammissibile con la ragione e la natura”. Al che Crisippo, deciso a renderla più chiara, tirò fuori questa formulazione: “Vivere [III,5,20] secondo perizia di ciò che avviene per natura delle cose”.

SVF III, 13

Cicerone ‘De finibus’ IV, 14. Avendo i filosofi precedenti detto, e fra costoro in modo esplicito da Polemone, che il sommo bene è ‘vivere secondo natura’, gli Stoici affermano che queste parole possono significare tre cose. La prima è: ‘Vivere con la piena conoscenza delle cose che accadono in natura’. Questo essi dicono che sia il sommo bene per Zenone, [III,5,25] il quale dichiara quello che hai detto tu: ‘Vivere in modo conveniente alla natura’. La seconda equivale a dire: ‘Vivere effettuando tutti o la maggior parte degli atti solo relativamente doverosi’. Il primo significato è diverso dal secondo, in quanto il primo parla di azione retta, quella che tu chiamavi κατόρθωμα, e compete al solo saggio. Il secondo significato invece si riferisce non a quello perfetto ma ad ogni atto doveroso imperfetto, che quindi può essere effettuato anche da molti stolti. [III,5,30] La terza è: ‘Vivere fruendo di tutte o del massimo numero di cose che sono secondo natura’. Questo non è legato soltanto al nostro modo di agire, ma si compie nell’unione di quel genere di vita che è virtuoso e delle cose che sono secondo natura ma non sono in nostro potere. Ora, il sommo bene che risulta dalla terza definizione e la vita che si [III,5,35] ispira al sommo bene, poiché si coniuga con la virtù, attiene solo al sapiente: e questo bene estremo, come vediamo scritto dagli stessi Stoici, è stato stabilito come tale da Senocrate e da Aristotele.

SVF III, 14

Cicerone ‘De finibus’ II, 34. Nel caso di tutti i filosofi citati, il sommo bene è la conseguenza logica delle premesse da cui essi muovono: per Aristippo [III,5,40] è il puro e semplice piacere; per gli Stoici è la consentaneità con la natura, intendendo con ciò il vivere secondo virtù una vita moralmente integra, ossia con piena intelligenza del corso naturale delle cose, scegliendo per sé quelle che sono secondo natura e rifiutando quelle contro natura. [III,6,1] Dunque ci sono tre sommi beni che non hanno a che fare con l’integrità morale […] e poi c’è un sommo bene semplice, quello teorizzato da Zenone, interamente basato sull’integrità morale.

SVF III, 15

Cicerone ‘De finibus’ III, 31. Rimane soltanto la possibilità che il sommo bene consista nel vivere con piena conoscenza del corso naturale delle cose, [III,6,5] scegliendo per sé quelle che sono conformi a natura e rifiutando quelle contro natura: cioè vivere in modo conveniente e congruente con la natura.

SVF III, 16

Stobeo ‘Eclogae’ II, 77, 16 W. Dicono che il ‘sommo bene’ sia l’essere felici e che questo è ciò per cui tutto si effettua, mentre l’essere felici è effettuato in vista di null’altro. Esso consiste nel vivere secondo virtù, nel vivere in modo ammissibile con la ragione ed anche, il che è lo stesso, nel vivere secondo la natura delle cose. [III,6,10] Zenone definì la felicità in questo modo: felicità è il sereno fluire dell’esistenza. Anche Cleante usa questa definizione nelle sue compilazioni. La usa anche Crisippo, e lo fanno tutti i loro successori, dicendo che la felicità è non altro che una vita felice, seppure affermino che la felicità è esposta come ‘scopo’, [III,6,15] mentre centrare la felicità è il ‘fine’, il che appunto è lo stesso che essere felici. E’ dunque da ciò manifesto che ‘vivere secondo la natura delle cose’, ‘vivere da bello’, ‘vivere bene’ e, ancora, ‘ciò ch’è dabbene’, e poi, ‘la virtù e quanto partecipa della virtù’, sono termini equivalenti. Insomma, tutto quanto è buono è anche bello, e similmente tutto quanto è brutto è anche male. Pertanto il sommo bene stoico si può parificare ad una vita secondo virtù.

SVF III, 17

[1] Michele di Efeso ‘In Aristot. Eth. Nicom.’ p. 598, 20 Heylb. [III,6,20] Che sia possibile far partecipare della felicità anche gli animali privi di ragione, stando alle concezioni circa la felicità degli altri filosofi, Epicurei e successivamente pure Stoici, […] lo si potrebbe riscontrare dalla seguente argomentazione. […] Se, secondo gli Stoici, il vivere bene è passarsela secondo natura; e se [III,6,25] il vivere bene, sia per gli Stoici che per Epicuro, è essere felici, allora il passarsela secondo natura è essere felici. Ma invero è proprio degli animali privi di ragione il passarsela secondo natura dal momento della generazione a quello della morte: dunque agli animali privi di ragione è dato essere felici.

[2] p. 599, 6 Heylb. Per contro, se per gli Stoici essere felici è l’estremo [III,6,30] dei desideri naturali, venuta al quale la natura ha il suo ‘ciò per cui’ e il suo ‘sommo bene’, centrato il quale essa non brama nulla di più eccetto il rattenere per sé questo bene familiare e non perderlo, allora questo esiste anche nel caso degli esseri privi di ragione e pertanto anche gli animali privi di ragione partecipano della felicità.

SVF III, 18

Cicerone ‘De finibus’ III, 22. A questo punto bisogna innanzitutto eliminare un errore, facendo sì che non ci sia chi stimi che i sommi beni sono due. [III,6,35] Se uno si proponesse di colpire un bersaglio, che noi possiamo equiparare al sommo bene, con un giavellotto od una freccia, costui farebbe tutto quel che può per colpirlo; ed anche noi come lui dobbiamo fare ogni sforzo per raggiungere il nostro fine. Tuttavia, sebbene egli faccia di tutto per realizzare il suo proposito ultimo, che equivale per noi al raggiungimento del sommo bene nella vita, [III,6,40] il colpire il bersaglio è qualcosa che egli può solo scegliere ma non pretendere di ottenere.

SVF III, 19

Alessandro d’Afrodisia ‘Quaestiones’ II, 16, p. 61, 1 Bruns. Se si dicesse che ‘fine’ delle arti stocastiche è quello di fare tutto quanto è in loro potere per centrare lo scopo proposto, come mai esse non centrano il fine loro proprio [III,7,1] in modo simile alle arti non-stocastiche? È proprio per il fatto di non centrare il fine in modo simile che le arti stocastiche paiono differire da quelle non-stocastiche. [III,7,5] Secondo alcuni, per i quali il loro fine è quello di centrare lo scopo proposto, allora esse differirebbero per il modo di centrarlo. Secondo altri invece, per i quali esse hanno il fine detto in precedenza, pur se centrassero similmente il fine, esse differirebbero però per non avere lo stesso fine. Ora, nelle arti non-stocastiche è necessario che il risultato s’accompagni all’applicazione delle regole dell’arte e che il fallimento dello scopo proposto consegua ad uno sbaglio di procedura, in quanto non avvenuta a regola d’arte. Il loro fine, infatti, è quello di centrare lo scopo proposto e, nel loro caso, [III,7,10] il fare tutto quanto è in loro potere per centrare lo scopo proposto è la stessa cosa che centrarlo giacché, ciò facendo, realizzano quanto è in loro potere. Nelle arti stocastiche, invece, il risultato non s’accompagna affatto all’applicazione delle regole dell’arte, perché per centrarlo c’è bisogno di molte cose che non dipendono solo da quell’arte. Per di più, le regole stesse dell’arte sono non ben definite né [III,7,15] sono produttive dei medesimi risultati, per il fatto di non applicarsi dappertutto a casi omogenei, dato che tutte o alcune cose possono avere conseguenze diverse dalle aspettative. Le arti stocastiche, pertanto, non hanno come fine quello di centrare lo scopo proposto ma quello di ottemperare alle regole dell’arte.

§ 2. Critica ai sommi beni di altri filosofi

Frammenti n. 20-28

SVF III, 20

Cicerone ‘De finibus’ IV, 28. Esponendo le differenze tra gli [III,7,20] animali, Crisippo dice che alcuni eccellono per doti del corpo, altri per doti dell’animo, parecchi sia per l’una che per l’altra cosa; e in seguito discute di cosa costituisca il sommo bene per ciascun genere di animali. Dopo avere collocato l’uomo nel genere di animali che eccellono per le doti dell’animo, egli definisce però il sommo bene dell’uomo in un modo tale [III,7,25] che ad eccellere non è più l’animo umano, bensì che l’uomo si riduce a nient’altro che il suo animo.

SVF III, 21

[1] Cicerone ‘Academica’ II, 138. È attestato che secondo Crisippo, il quale ritaglia e scarta un gran numero di definizioni del sommo bene, le tesi difendibili in proposito sono soltanto tre. Il sommo bene è l’integrità morale, oppure è il piacere, oppure è una combinazione dei due. Quanti affermano che il sommo bene è l’assenza d’ogni affanno, [III,7,30] evitano l’odioso nome ‘piacere’, ma nei fatti gli girano soltanto intorno; e lo stesso fanno quanti congiungessero l’assenza d’ogni affanno all’integrità morale o quanti sommassero a questa i beni naturali primari. Ecco in che modo si riducono a tre le posizioni che a suo avviso sono difendibili.                   

[2] II, 140. In fin dei conti resta in lizza soltanto [III,7,35] la coppia ‘piacere’ contro ‘integrità morale’. A quanto ne so in proposito, per Crisippo non ci fu gran lotta. Se rincorri il piacere crollano molte cose, e soprattutto la comunanza col genere umano, le relazioni [III,8,1] che prescindono dal denaro, l’amicizia, la giustizia e le restanti virtù, nessuna delle quali può esistere se non sarà gratuita; giacché ciò che spinto all’azione dal compenso di un piacere non è virtù, ma una fallace imitazione e simulazione di virtù.

SVF III, 22

Cicerone ‘De finibus’ II, 44. Messe così da parte le dottrine degli altri filosofi, [III,8,5] rimane aperto soltanto più il contrasto, non fra me e Torquato, ma fra la virtù e il piacere. Un uomo acuto e diligente come Crisippo non sottovaluta affatto questo contrasto, anzi reputa che in tutta la questione del sommo bene, la rivalità tra virtù e piacere rappresenti la discriminante fondamentale.

SVF III, 23

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1040c. [III,8,10] Per contro, dopo avere rimarcato nei libri ‘Sulla giustizia’ che, per quanti valutano il piacere della carne un ‘bene’ ma non il ‘fine’ è ancora fattibile salvaguardare la giustizia, e una volta posto ciò, <Crisippo> ha detto testualmente: “Forse, una volta lasciato il piacere della carne nel novero di ciò ch’è ‘bene’ ma non è il ‘fine’, poiché anche il bello è una delle cose che possono essere scelte per se stesse, potremmo salvaguardare [III,8,15] la giustizia, lasciando il bello e il giusto nel novero di ciò ch’è ‘bene maggiore’ del piacere della carne”.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1070d. Nei libri ‘Sulla giustizia’ <Crisippo> non crede che si possa salvaguardare la giustizia se si suggerisse che il piacere della carne è il ‘fine’, mentre crede che ciò sia possibile se si suggerisse che esso è non il fine ma semplicemente un ‘bene’. E non credo [III,8,20] che tu abbia bisogno di udirmi esporre le sue parole, dal momento che il terzo dei suoi libri ‘Sulla giustizia’ è dovunque disponibile.

SVF III, 24

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1040e. E per non tralasciare giustificazione alcuna alle sue polemiche, scrivendo contro Aristotele a proposito di giustizia, <Crisippo> dice: “Egli parla non rettamente quando afferma che, se il piacere della carne è il fine, la giustizia è abolita e che ciascuna delle altre virtù è abolita insieme con la giustizia. Giacché la giustizia è in verità [III,8,25] abolita da coloro che ritengono il piacere della carne il fine, ma nulla impedisce che le altre virtù continuino a sussistere e siano pur sempre beni e virtù, anche se non scelti per se stessi”. Le chiama poi ciascuna per nome. Ma la miglior cosa è riprendere le sue parole: [III,8,30] “Se, dice <Crisippo>, secondo siffatto ragionamento il piacere della carne si palesa essere un fine, io però non reputo che ciò abbracci tutte queste implicazioni. Perciò bisogna dire che nessuna delle virtù è scelta per se stessa né alcun vizio per se stesso fuggito, ma che tutte queste cose vanno riferite allo scopo soggiacente. Tuttavia nulla impedirà che, [III,8,35] per loro, virilità, saggezza, padronanza di sé, fortezza e le virtù simili a queste continuino ad essere dei beni e che gli opposti siano fuggiti”.

SVF III, 25

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1070d. Nessuno ignora che di due [III,9,1] beni: il ‘fine’ e ‘ciò che mira al fine’; il maggiore e più perfetto è il ‘fine’. Anche Crisippo riconosce questa differenza, come è manifesto nel terzo libro ‘Sui beni’, quando egli dissente dall’opinione di coloro che ritengono essere la scienza il ‘fine’.

SVF III, 26

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1071f. [III,9,5] Tu vedi, infatti, che anche Crisippo caccia Aristone in questo vicolo cieco, dal momento che i fatti non ci permettono di pensare la ‘indifferenza’ verso ciò ch’è né bene né male, se noi non abbiamo già pensato in precedenza cosa è bene e cosa è male. In tal modo, se è impossibile avere la cognizione di ‘indifferenza’ senza avere prima avuto la cognizione di ciò ch’è ‘bene’, [III,9,10] l’indifferenza appare preesistere a se stessa, ma allora essa soltanto e null’altro è ‘bene’.

SVF III, 27

Cicerone ‘De finibus’ IV, 68. Quando si afferma che l’integrità morale è l’unico bene, si toglie valore alla cura della salute, alla diligente gestione del patrimonio familiare, all’amministrazione dello Stato, alla ordinata condotta degli affari, agli atti doverosi per la vita; col risultato di dover fare poi a meno anche di quell’integrità morale nella quale soltanto [III,9,15] voi volete che tutto sia contenuto. Sono queste le acute critiche che Crisippo dirige contro Aristone.

SVF III, 28

Galeno ‘De animi peccat. dignosc.’ 4, V, p. 77 K. La falsa concezione del ‘fine’ di ciascuna vita è dunque all’origine di molti errori, e i singoli errori [III,9,20] germogliano da questa come da una radice. Ma si può, anche senza fallire nell’opinione circa il fine della vita, fallire in qualche singola cosa per mancanza di comprensione delle conseguenze.

§ 3. Soltanto il ‘bello’ è ‘buono’

Frammenti n. 29-37

SVF III, 29

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1039c. E nel libro ‘Sul bello’, [III,9,25] per dimostrare che soltanto il bello è buono, <Crisippo> ha usato questi argomenti: “Il buono è scelto, ciò ch’è scelto è gradito, ciò ch’è gradito è lodevole, ciò ch’è lodevole è bello”. E di nuovo: “Il buono è rallegrante, ciò ch’è rallegrante è solenne, ciò ch’è solenne è bello”.

SVF III, 30

Diogene Laerzio VII, 101. <Gli Stoici> affermano che soltanto il bello è buono, [III,9,30] secondo quanto dice Ecatone nel terzo libro ‘Sui beni’ e Crisippo nei libri ‘Sul bello’; e che questo è la virtù e quanto partecipa della virtù. Al che è pari l’affermazione che tutto ciò ch’è buono è bello e che ‘bene’ e ‘bello’ sono termini equivalenti, perché uno è pari all’altro. Infatti, dacché è bene è bello; ma è bello, dunque è bene.

SVF III, 31

Filone Alessandrino ‘De posteritate Caini.’ 133, II, p. 29, 7 Wendl. [III,9,35] [.…] il giudizio stoico che soltanto il bello è bene.

SVF III, 32

Alessandro d’Afrodisia ‘Quaestiones’ I, 14, p. 26 Bruns. Secondo i predetti <Stoici>, che nessun bene venga agli uomini [III,10,1] da parte degli dei, è manifesto da quanto segue. Il bello è in nostro esclusivo potere; ciò ch’è in nostro esclusivo potere lo acquisiamo da noi stessi; ciò che acquisiamo da noi stessi non promana da nessun altro; dunque il bello non ci promana da nessun altro, e se non ci promana da nessun altro non [III,10,5] ci promana neppure dagli dei. Ma invero il bene e il bello sono la stessa cosa per coloro che ritengono il bello un bene; e dunque dagli dei non promana agli uomini neppure bene alcuno.

SVF III, 33

Filone Alessandrino ‘Quod deterius potiori insid. soleat’ 7, I, p. 259, 25 Wendl. Essendo alla ricerca del sapere più con gli occhi alla politica che alla verità, <Giuseppe> [III,10,10] riunisce e riconduce ad unità i tre generi di beni – quelli esterni, quelli del corpo e quelli dell’animo – le cui nature sono interamente avulse le une dalle altre. E lo fa perché intende mettere in luce che ciascun bene ha bisogno di ciascun altro e tutti di tutti; e che il bene realmente integro e completo è quello composto dalla loro aggregazione, mentre i componenti dai quali questo bene è formato sono soltanto parti o elementi del bene, ma non beni perfetti. Come appunto né fuoco né terra né alcuno [III,10,15] dei quattro elementi dei quali risulta fabbricato il tutto, è il cosmo; il quale è invece il risultato della riunione e della mescolanza degli elementi in un tutto unitario; allo stesso modo la felicità non può essere rintracciata singolarmente né nei beni esterni né in quelli del corpo né in quelli dell’animo di per se stessi ma, giacché ciascuno dei detti beni ha il ruolo di parte o di elemento, dall’aggregazione di tutti loro. [III,10,20] È affinché disimpari e apprenda questa opinione che <Giuseppe> viene inviato presso uomini i quali legittimano come bene soltanto il bello, il quale è proprio dell’animo in quanto animo; uomini convinti che quelli chiamati esterni e del corpo siano soltanto sovrappiù ma non siano in verità dei beni.

SVF III, 34

Cicerone ‘De finibus’ III, 28. Io chiedo chi possa [III,10,25] gloriarsi di una vita miserabile e non beata. Quindi ci si può gloriare soltanto di una vita beata. Il che fa sì che una vita beata sia degna (per dir così) di gloria, e che ciò non possa di diritto spettare che ad una vita moralmente integra. Così accade che una vita di integrità morale sia una vita beata. E poiché colui cui spettano di diritto delle lodi ha doti insigni che lo segnalano per decoro e gloria e gli permettono di essere di diritto chiamato beato per la grandiosità dei suoi meriti; [III,10,30] si dirà rettissimamente la stessa cosa della vita un tale uomo. Così se una vita felice ha per suo contrassegno l’integrità morale, allora l’integrità morale va considerata quale unico bene.

SVF III, 35

Cicerone ‘De finibus’ III, 29. E che? Chi può negare che non potrà mai nascere un uomo d’animo saldo, tenace, generoso, quello che chiamiamo un grand’uomo, [III,10,35] se prima non si stabilirà che il dolore non è un male? Infatti, come chi pone la morte nel novero dei mali non può fare a meno di temerla, così nessuno mai può trascurare o disprezzare ciò che ha decretato essere un male. Ciò posto […] si assume che chi è d’animo grande e coraggioso [III,10,40] disdegna e non tiene in alcun conto le vicende che toccano solo l’esteriorità dell’uomo. E se così è, se ne deduce che nulla è male se non ciò ch’è moralmente deforme.

SVF III, 36

Cicerone ‘De finibus’ III, 29. Quest’uomo d’alto sentire, eccelso, magnanimo, fortissimo, che si giudica superiore a tutte le vicissitudini umane [III,11,1] non può certo mancare di fiducia in se stesso, nella sua vita passata e futura; e deve certo avere di sé un buon giudizio, una volta stabilito che al saggio non può accadere alcun male. Dal che si capisce pure che l’unico bene è l’integrità morale, e che una vita beata e una vita moralmente integra, cioè virtuosa, sono la stessa cosa.

SVF III, 37

[1] Cicerone ‘De finibus’ III, 27. Ciò ch’è bene è lodevole; [III,11,5] ma ciò ch’è lodevole è sempre moralmente integro; dunque ciò ch’è bene è anche moralmente integro. […] È assurdo che ci sia un bene che non sia anche da richiedersi; o che sia da richiedersi ciò che non è piacevole; o, se è piacevole, che non sia anche appetibile; e dunque anche degno di approvazione; ma allora è anche lodevole; e pure moralmente integro. [III,11,10] Ecco dunque che ciò ch’è bene è anche moralmente integro.

[2] IV, 50. Quello è appunto un sorite, ossia il ragionamento che voi reputate il più fallace di tutti: ‘ciò ch’è bene è da scegliersi; ciò ch’è da scegliersi è da richiedersi; ciò ch’è da richiedersi è degno di lode’ e così via per gradi.

[3] ‘Tusculanae disputationes’ V, 43. Ogni bene, allieta; ma ciò che allieta merito credito e stima; ciò che è tale è glorioso; [III,11,15] se davvero è glorioso è lodevole; ciò ch’è lodevole è senz’altro moralmente integro; dunque, il bene è l’integrità morale.

[4] V, 45. Qualunque cosa sia il bene, esso è da richiedersi; ciò ch’è da richiedersi è certo degno di approvazione; ciò che tu davvero approvi, devi tenerlo per cosa grata e bene accetta; dunque, deve essere considerato anche cosa degna. [III,11,20] Se è così, necessariamente esso è degno di lode; dunque, ogni bene è degno di lode. Ne deriva che quanto è moralmente integro è il solo bene.

§ 4. La virtù va ricercata per se stessa

Frammenti n. 38-48

SVF III, 38

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 99. Sì, ma anche quanti opinano che soltanto il bello sia [III,11,25] bene legittimano come dimostrato che, per natura, esso sia scelto anche dagli animali privi di ragione. Giacché noi vediamo, essi dicono, che alcuni animali di razza, come il toro e i galli, pur senza prospettiva alcuna di diletto e piacere combattono fino alla morte. E coloro tra gli uomini che danno tutto se stessi fino alla propria distruzione per amor di patria o dei genitori o dei figli forse [III,11,30] non lo farebbero mai, non essendovi speranza alcuna di piacere dopo la morte, se ciò ch’è dabbene non attraesse naturalmente costoro e sempre ogni creatura di razza alla scelta di se stesso.

[2] XI, 101. Li si può infatti udire affermare che è soltanto la disposizione saggia dell’animo a ravvisare la virtù, mentre la stoltezza [III,11,35] lo rende cieco a questa diagnosi. Ragion per cui sia il gallo che il toro, non partecipando della disposizione saggia, non sarebbero in grado di ravvisare né il bello né il buono.

SVF III, 39

Diogene Laerzio VII, 89. La virtù è una disposizione dell’animo ammissibile con la ragione, ed essa è scelta per se stessa, non a causa di qualche paura o speranza o cosa esteriore. Nella virtù, in quanto è animo fatto [III,11,40] per l’ammissibilità dell’intera la vita con la ragione, consiste la felicità.

SVF III, 40

Diogene Laerzio VII, 127. La virtù è scelta per se stessa; e dunque noi ci vergogniamo del male che facciamo, come se sapessimo che soltanto il bello è bene.

SVF III, 41

Cicerone ‘De finibus’ III, 36. Tutto ciò che è moralmente integro [III,12,1] è di per sé da richiedersi […] ed a questo principio gli Stoici si attengono strettamente. […] Per lo stesso motivo le azioni moralmente deformi vanno di per sé rifuggite. […] E quando diciamo che la stoltezza, la codardia, l’ingiustizia e l’intemperanza vanno rifuggite per gli effetti che hanno, [III,12,5] non lo diciamo per il gusto di contraddire il discorso di prima, ossia che soltanto ciò ch’è moralmente deforme è male, ma perché quegli effetti non attengono a danni fisici ma alle azioni moralmente deformi che nascono dai vizi (preferisco chiamare vizi e non malvagità ciò che i Greci designano con il termine κακίας ).

SVF III, 42

Cicerone ‘De legibus’ I, 40. Se dovesse essere la pena [III,12,10] e non la natura a tenere gli uomini lontani dall’ingiustizia, tolta la paura delle punizioni quale preoccupazione angustierebbe più gli empi? Non è mai esistito un delinquente che non neghi d’aver commesso il crimine, o che non inventi una qualche giusta causa del proprio misfatto, o che non cerchi una difesa del proprio crimine in qualche diritto naturale. Se a ciò [III,12,15] osano appellarsi gli empi, con quanta più cura vi si applicheranno gli onesti? Se è la pena e la paura del castigo, e non la turpitudine degli atti in sé a fare da deterrente ad una vita di ingiustizia e di crimini, allora nessun uomo è ingiusto ed i malfattori sono piuttosto da ritenersi degli incauti. Inoltre, se noi siamo mossi ad essere uomini dabbene non dall’integrità morale di per sé ma da un qualche vantaggio o tornaconto, siamo furbi e non buoni. Nascosto dalle tenebre, cosa farà chi non teme altri che il testimone e [III,12,20] il giudice? Cosa farà incontrando in un luogo deserto un uomo indifeso, solo, e che può essere spogliato del molto oro che ha con sé? Invece, il nostro giusto per natura, da uomo dabbene qual è, parlerà con lui, lo assisterà e gli farà da guida. Chi non fa nulla per gli altri e tutto riduce al proprio comodo, voi vedete, io credo, come agirà. [III,12,25] E se pure negherà che gli toglierà la vita a gli porterà via l’oro, non lo negherà mai perché giudichi tali atti turpi per natura, ma perché avrà paura che la cosa sia risaputa, cioè perché non gliene venga un male.

SVF III, 43

Cicerone ‘De legibus’ I, 48. Se ne conclude […] che il diritto e l’integrità morale sono da richiedersi di per sé. D’altra parte tutti gli uomini dabbene amano [III,12,30] l’equità e il diritto in quanto tali, e non è da uomo dabbene commettere l’errore di prediligere ciò che non va di per sé prediletto. Il diritto va dunque richiesto e coltivato di per sé; e se è così per il diritto così è anche per la giustizia; e come la giustizia anche le restanti virtù vanno coltivate di per sé. E che? La liberalità è gratuita o mercenaria? Se uno fa il bene senza l’attesa d’un premio, essa è gratuita; se ne ottiene una mercede essa è venale. Senza dubbio l’uomo liberale e benefico esegue atti doverosi e non [III,12,35] atti interessati. La giustizia nulla richiede in premio e non ha prezzo: dunque essa è da richiedersi di per sé. […] Dov’è la santità dell’amicizia se, come si dice, l’amico non è amato di tutto cuore in quanto tale? E se l’amicizia va coltivata di per sé, anche la solidarietà umana, l’uguaglianza e la giustizia vanno richieste [III,12,40] di per sé.

SVF III, 44

Cicerone ‘De finibus’ V, 20. In verità per gli Stoici l’integrità morale, la sola cosa che sia da richiedersi per se stessa nonché l’unico bene, consiste nel fare tutto il possibile per raggiungere le cose secondo natura quand’anche non si riesca a conseguirle.

SVF III, 45

Servio ‘In Aeneidem’ I, 604. ‘La mente ha autocoscienza del giusto’. [III,13,1] Secondo gli Stoici, i quali dicono che la virtù è premio a se stessa, anche senza altri premi.

SVF III, 46

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 8, p. 594 Pott. Se, malgrado il parere contrario di alcuni, taluni ‘indifferenti’ [III,13,5] hanno davvero ottenuto in sorte un pregio tale da sembrare degni di scelta; molto più sarà da legittimare come oggetto di contesa la virtù, senza riguardo ad altro che a ciò che può essere effettuato bene, sia che così sembri sia che così non sembri ad altri.

SVF III, 47

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 12. Gli Stoici […] negano che qualcuno possa essere reso felice se non dalla virtù. Pertanto il premio della virtù è una vita felice, [III,13,10] se la virtù, com’è stato detto rettamente, fa felice la vita. Dunque la virtù non è, come essi dicono, da richiedersi di per se stessa.

SVF III, 48

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ V, 17. Quando discutono della virtù, pur capendo che essa trabocca di tribolazioni e miserie, [III,13,15] tuttavia dicono che essa è da richiedersi di per se stessa.

§ 5. Per una vita beata è sufficiente la virtù

Frammenti n. 49-67

SVF III, 49

Diogene Laerzio VII, 127. Secondo quanto dicono Zenone, Crisippo nel primo libro ‘Sulle virtù’ ed Ecatone nel secondo libro ‘Sui beni’, la virtù è autosufficiente per la felicità. [III,13,20] Se infatti, si dice, la magnanimità è autosufficiente per farci elevare al di sopra di tutto, ed essa è soltanto una parte della virtù; anche la virtù sarà autosufficiente per la felicità, essendo capace di spregiare quelle che sembrano seccature.

SVF III, 50

Porfirione ‘Ad Horat. carm.’ III, 2, 17. Queste sono dottrine degli Stoici, i quali dicono che la virtù da sola è sufficiente per una vita beata.

SVF III, 51

Cicerone ‘De finibus’ I, 61. Questa è una verità che noi Epicurei [III,13,25] dimostriamo molto meglio degli Stoici. Essi infatti negano che esista altro bene all’infuori di quella non so che ombra che chiamano integrità morale: nome certo splendido per una cosa priva di sostanza; e sostengono che la virtù fondata su questa integrità morale non ha bisogno di alcun piacere e basta a se stessa per una vita beata.

SVF III, 52

Proclo ‘In Platonis Timaeum’ p. 61 B. Schn. [III,13,30] Gli Stoici affermano che il virtuoso non ha affatto bisogno della fortuna, ma Platone non parla così.

SVF III, 53

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046d. Se dunque <Crisippo> ritenesse, come Epicuro, la saggezza un bene produttivo della felicità, [III,13,35] <non si contraddirebbe, e invece egli si contraddice> giacché la saggezza, secondo lui, è non altra cosa dalla felicità ma la felicità stessa.

SVF III, 54

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1061f. I nostri uomini <Stoici> non dicono [III,14,1] soltanto questo ma affermano inoltre: “L’aggiunta del tempo non accresce il bene, e se uno sarà saggio anche per un solo istante in nulla resterà indietro, quanto a felicità, rispetto a chi eternamente usa virtù ed in essa beatamente vive”.

[2] ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046c. [III,14,5] In molti luoghi Crisippo ha detto che per il fatto di esserlo per molto tempo noi non siamo più felici, bensì che lo siamo ugualmente e tanto quanto coloro che partecipano della felicità per un istante.

[3] Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 98, 17 W. E perciò gli uomini virtuosi sono sempre assolutamente felici e gli insipienti, invece, infelici. La felicità dei primi [III,14,10] non differisce dalla felicità divina né, dice Crisippo, quella momentanea differisce dalla felicità di Zeus. Né la felicità di Zeus è preferibile o più bella o più solenne di quella degli uomini sapienti.

[4] Temistio ‘Orationes’ VIII, p. 101d. Crisippo pare mostrarsi uomo financo [III,14,15] a parole, quando dice che per un uomo virtuoso un giorno solo e perfino un’ora sola valgono quanto molte annate.

SVF III, 55

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1042a. In ogni suo libro di Fisica e di Etica <Crisippo> dichiara che essenza dell’infelicità è il vizio, e scrivendone sostiene energicamente che vivere nel vizio è la stessa cosa che [III,14,20] vivere infelicemente.

SVF III, 56

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ XVIII, 1, 4. In tale occasione, lo Stoico sosteneva che la vita dell’uomo può essere resa beata unicamente dalla virtù dell’animo e resa invece sommamente misera unicamente dal vizio, pur se mancassero alla virtù ed assistessero il vizio tutti quelli che sono chiamati beni corporali ed esteriori. [III,14,25] […] A questo punto lo Stoico ribatteva <al Peripatetico> di stupirsi che egli ponesse le due cose su piani diversi e che, siccome vizio e virtù sono due contrari e la vita beata e quella misera altrettanto, egli non serbasse inalterata la potenza della natura in entrambi i casi e quindi reputasse che a rendere una vita misera basta il solo vizio e invece dicesse che a rendere la vita beata non basta la sola virtù. [III,14,30] Aggiungeva poi che egli dissentiva e non conveniva con lui in questo: <il Peripatetico> confessa che la vita a nessun patto può essere resa felice se mancasse la sola virtù, e però poi nega l’esistenza di una vita felice in presenza della sola virtù; dando così alla virtù assente l’onore che essa merita, ma negandoglielo quando essa lo richiede ed è presente.

SVF III, 57

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 166, 21 Bruns. [III,14,35] Inoltre è scorretto dire: “Se noi vediamo bene a motivo dello stato di eccellenza di ciò grazie a cui vediamo e se noi udiamo bene a motivo dello stato di eccellenza di ciò grazie a cui udiamo; allora, per questo, noi viviamo bene a motivo dello stato di eccellenza di ciò grazie a cui viviamo, sicché la felicità sarebbe lo stato di eccellenza dell’animo poiché noi viviamo grazie all’animo”. Non è davvero per questo…

SVF III, 58

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXV, 2. Chi è saggio [III,14,40] è anche temperante, e chi è temperante è anche costante. Chi è costante è imperturbabile. Chi è imperturbabile [III,15,1] è al riparo dall’afflizione. Chi è al riparo dall’afflizione è beato: pertanto l’uomo saggio è beato e per una vita beata è sufficiente la saggezza.

[2] Chi è forte non ha timore. Chi non ha timore è al riparo dall’afflizione. Chi è al riparo dall’afflizione è beato.

SVF III, 59

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ V, 48. In verità quale uomo virtuoso [III,15,5] non riferisce tutto quel che fa e pensa a ciò ch’è degno di lode? Egli tutto riferisce al fine di vivere una vita beata; dunque, la vita beata è degna di lode, ma nulla privo di virtù è degno di lode; dunque, la vita beata è fatta di virtù. Alla stessa conclusione si giunge anche in questo modo. Nulla degno di credito o di cui gloriarsi c’è in una vita meschina, né in una vita [III,15,10] né meschina né beata; c’è però in qualche vita qualcosa degno di credito, di cui gloriarsi, degno di stima. […] Se è così, la vita beata è quella di cui gloriarsi, quella degna di credito e di stima; dunque, null’altro è degno di credito e di stima. Ciò posto, tu capisci cosa ne consegua. [III,15,15] Certo, se la vita beata non si identifica con la vita moralmente integra, è necessario che ci sia qualcos’altro che è meglio per una vita beata. Ma <gli Stoici> diranno certamente che l’integrità morale è questo meglio. Così esisterà qualcosa di meglio per la vita beata. Cosa si può dire di più perverso?

SVF III, 60

Cicerone ‘De finibus’ III, 43. Neppure è consentaneo […] che sia più beato chi possiede in maggior numero quei beni corporei che si stimano di gran valore. […] [III,15,20] Dato che si è stabilito che neppure l’abbondanza di quelli che noi stimiamo beni autentici basta a fare la vita più beata o più da richiedersi o di maggior valore, non c’è dubbio che ancora meno abbia a che vedere con la vita beata la moltitudine dei beni del corpo. Effettivamente, se sono da richiedersisia la salute sia la sapienza, e l’unione delle due sia da richiedersi più della sola sapienza, tuttavia, [III,15,25] se ambedue sono degne di stima, non è detto che l’unione delle due valga di più della sapienza presa separatamente. Noi infatti, pur giudicando la salute degna di stima, non la annoveriamo tra i beni, poiché non riteniamo il suo pregio tale da farla anteporre alla virtù. […] Come il lume [III,15,30] di una lucerna sbiadisce e s’attenua alla luce del sole; come si perdono una goccia di miele nell’immensità dell’Egeo; l’aggiunta di un teruncio alle ricchezze di Creso; un unico passo sulla via che porta da qui all’India: così una volta che il sommo bene sia quello che dicono gli Stoici, ogni valore delle cose corporee si oscura, si annulla e necessariamente svanisce al confronto [III,15,35] con lo splendore e la grandiosità della virtù.

SVF III, 61

Cicerone ‘De finibus’ IV, 30. A me sembra che gli Stoici scherzino quando dicono che, se alla vita vissuta virtuosamente s’aggiungessero un’ampolla o una strigile, il saggio sceglierebbe certo la vita con l’aggiunta di questi oggetti; [III,15,40] ben sapendo tuttavia che non sarebbe per ciò solo più beato.

SVF III, 62

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 211, 9. Così si potrebbe mostrare che ciascuna di quelle entità che i filosofi più recenti chiamano ‘indifferenti promossi’ è un possibile oggetto di scelta ed è un bene; giacché ciascuna di esse, se addizionata alla virtù, rende il complesso preferibile al saggio. La vita secondo virtù, infatti, è preferibile quando fosse associata a [III,15,45] salute, prosperità e buona reputazione, in quanto le cose che sono possibile oggetto di scelta e di fuga si determinano in base a ciò che il saggio sceglie o fugge.

SVF III, 63

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 161, 26 Bruns. [III,16,1] Le sensazioni stesse, se hanno il rango di entità necessarie affinché l’uomo sia uomo e non cooperano oltre alle attività della virtù, potrebbero avere il ruolo logico di ‘ciò senza di cui’. Se invece, in aggiunta ad essere necessarie all’uomo, [III,16,5] cooperano anche alle azioni e la virtù le sfrutta per le sue proprie attività (la rappresentazione è infatti crepidine delle azioni secondo virtù), allora esse non hanno, in rapporto alle attività virtuose, il ruolo logico di ‘ciò senza di cui’ come lo hanno il cielo, la terra, lo spazio e il tempo. Infatti, se noi ci attiveremo per operare secondo virtù qualunque sia il modo in cui stanno le sensazioni, o assentiremo anche alle [III,16,10] false rappresentazioni originate da siffatte sensazioni ed effettueremo quanto a ciò consegue (e come potrebbe questa essere attività da virtuoso?); oppure, se sospenderemo il giudizio e non daremo il nostro assenso, non effettueremo più nulla in funzione di esse e non ci attiveremo più per nulla.

SVF III, 64

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 160, 3 Bruns. Pertanto la virtù è non autosufficiente per la felicità, giacché o essa ha a che fare con la selezione [III,16,15] di ciò ch’è piacevole al modo di Epicuro, oppure con la selezione di ciò ch’è secondo natura, come reputano gli Stoici. […] Ma l’attività virtuosa è improduttiva di ciò ch’è secondo natura. E se tale attività ha a che fare con cose soggiacenti delle quali essa è improduttiva, allora la virtù è non autosufficiente nelle attività che le sono attinenti, giacché ha bisogno anche di entità esterne sulle quali estrinsecare la propria attività. E neppure, [III,16,20] come dicono, queste entità hanno il ruolo logico di ‘ciò senza di cui’, ma sono moventi della virtù e cause del praticarla attivamente. La virtù, infatti, le ha di mira come gli artisti hanno di mira il materiale ch’è loro proprio. Per questo si dice che le loro azioni sarebbero abolite se questi materiali non si tirassero addosso e non ne smuovessero, con le loro differenze, le virtù.

SVF III, 65

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 162, 32 Bruns. [III,16,25] Inoltre, se i comuni concetti circa la felicità la pongono nell’autosufficienza di vita (essi infatti prefigurano felice chi è senza bisogni) e concepiscono la felicità come l’estremo dei desiderabili (ma chiamano anche felicità il vivere secondo natura e la vita secondo natura; e oltre a ciò dicono che la felicità è [III,16,30] vivere bene, passar bene la vita e la buona vita); se, insomma, siffatta è la prefigurazione della felicità, allora la virtù è di per sé non sufficiente per questo, e dunque non potrebbe essere di per sé sufficiente per la felicità.

SVF III, 66

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 159, 33 Bruns. Se ogni arte fa qualcosa che è altro da se stessa e non se stessa, e la virtù è, secondo loro, [III,16,35] produttiva di felicità, allora la felicità sarebbe altro dalla virtù.

SVF III, 67

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 173, 11 W. Per chi afferma che la virtù è autosufficiente per la felicità consegue che il suicidio è non ragionevole e che né la salute né alcun’altra cosa può essere scelta al di fuori della virtù. Ciò dato, se qualcuna di queste affermazioni fosse inficiata, risulterebbe anche inficiato l’essere la virtù [III,16,40] autosufficiente per la felicità.

[III,17,1] ETHICA II.

Sui beni e sui mali

Frammenti n. 68-71

SVF III, 68

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1035c. Per contro, nelle sue ‘Questioni di Fisica’ <Crisippo dice>: “Non vi è altro né più appropriato modo [III,17,5] per affrontare il discorso sui beni e sui mali, sulle virtù e sulla felicità, che quello di prendere le mosse dalla natura delle cose e dal governo del cosmo”. E poi prosegue: “Giacché a questi bisogna collegare il discorso sui beni e sui mali non essendovi per essi altro fondamento né riferimento migliore, e non essendo [III,17,10] la teoria fisica da assumersi a motivo d’altro che per la separazione dei beni e dei mali”.

SVF III, 69

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1041e. Del ragionamento sui beni e sui mali che egli stesso introduce e valuta, <Crisippo> dice: “È perfettamente in armonia con la vita e quello che meglio si rifà alle prolessi innate”. [III,17,15] Così egli ha affermato nel terzo libro dei ‘Discorsi esortativi’.

SVF III, 70

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 57, 19 W. Delle cose che sono alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti. Beni sono cose di questo genere: saggezza, temperanza, giustizia, virilità e tutto ciò ch’è virtù o partecipa della virtù. Mali sono cose di questo genere: stoltezza, intemperanza, ingiustizia, viltà e tutto ciò ch’è vizio o [III,17,20] partecipa del vizio. Indifferenti sono cose di questo genere: vita, morte, reputazione, discredito, piacere fisico, dolore fisico, ricchezza di denaro, povertà di denaro, salute, malattia, e le cose simili a queste.

SVF III, 71

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 3. I seguaci dell’antica Accademia, i Peripatetici ed anche gli Stoici sogliono discriminare tra le cose che sono ed affermare che alcune di esse sono ‘beni’, altre ‘mali’ ed altre ancora cose frammezzo a queste, che essi chiamano [III,17,25] anche ‘indifferenti’.

§ 1. La nozione di bene

Frammenti n. 72-79

SVF III, 72

Cicerone ‘De finibus’ III, 33. Siccome i concetti delle cose si formano negli animi per esperienza, per collegamento, per somiglianza o per analogia, il concetto di bene si forma in noi in questo quarto ed ultimo modo, [III,18,1] giacché l’animo risale ad esso per via analogica, partendo dalle cose che sono secondo natura. Questo ‘bene’ è assoluto e non è una questione di grado, giacché il bene è riconosciuto e definito tale per caratteristiche sue proprie e non per comparazione con altre cose. Come il miele, per quanto sia dolcissimo, è di un dolce suo proprio non comparabile ad altri sapori dolci, [III,18,5] così il bene di cui parliamo è di pregio superlativo, ma tale pregio vale per qualità e non per quantità. Infatti il semplice valore, quello che i Greci chiamano ἀξία, non entra nel novero dei beni né dei mali, e per quanto lo si accresca continua a fare parte del suo genere. [III,18,10] Dunque il valore della virtù è tutt’altra cosa, essendo questione di genere, non di quantità.

SVF III, 73

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 3. Vi erano poi quelli dell’avviso che il bene è ciò che si sceglie per se stesso. Alcuni dicono così: ‘Bene è quanto soccorre per la felicità’. Altri: ‘Ciò ch’è completivo della felicità’. E la [III,18,15] felicità, come esplicitarono i seguaci di Zenone, di Cleante e di Crisippo, è il sereno fluire dell’esistenza.

SVF III, 74

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 69, 17 W. <Gli Stoici> affermano che il bene può essere espresso in più modi. Il primo, che ha rango come di fonte, può essere esplicitato così: [III,18,20] ‘Ciò da cui (esso, infatti, è primieramente causa) o per via di cui avviene di trarre giovamento’. Il secondo: ‘Ciò secondo cui avviene di trarre giovamento’. In un senso più comune ed esteso anche ai modi predetti: ‘Ciò ch’è tale da giovare’. Similmente essi affermano che anche il male può essere delineato in analogia col bene. ‘Ciò da cui o per via di cui avviene di essere danneggiati’. ‘Ciò secondo cui avviene di essere danneggiati’. E più genericamente [III,18,25] di questi: ‘Ciò ch’è tale da recare danno’.

SVF III, 75

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 22. Gli Stoici attenendosi ai concetti, come dire, comuni definiscono il bene in questo modo: ‘Bene è giovamento o non altro da giovamento’; e chiamano ‘giovamento’ la virtù e l’azione virtuosa, e ‘non altro da giovamento’ l’uomo virtuoso e l’amico. [III,18,30] Infatti, poiché istituisce l’egemonico in un certo modo di essere e poiché l’azione virtuosa è un’attività secondo virtù, la virtù è senza altre mediazioni ‘giovamento’. L’uomo virtuoso e l’amico, a loro volta, essendo anch’essi dei beni potrebbero essere chiamati né ‘giovamento’ né ‘non altro da giovamento’ per un motivo di questo genere. I seguaci degli Stoici, infatti, dicono che le parti sono né lo stesso degli interi né eterogenee agli interi. [III,18,35] Per esempio, la mano né è essa sola l’uomo intero, poiché la mano non è l’uomo intero, ma neppure è eterogenea all’intero, poiché l’uomo non è pensato come uomo nella sua interezza se non dotato di mano. Poiché dunque la virtù è parte sia dell’uomo virtuoso che dell’amico e le parti sono né identiche agli interi né altre dagli interi, si dice che l’uomo virtuoso e l’amico siano ‘non altro da giovamento’. Sicché [III,18,40] ogni bene è incluso nella definizione, sia che il ‘giovamento’ capiti per via diretta, sia che si tratti di ‘non altro da giovamento’. Da cui, per conseguenza, essi dicono che il bene può essere designato in tre modi e delineano ciascuno dei significati, di nuovo, secondo la sua peculiare accezione. In un primo senso essi affermano infatti che si dice bene ‘ciò per via di cui’ o ‘ciò da cui’ si può trarre giovamento, e questo era appunto il bene assolutamente originario e la virtù; poiché [III,19,1] da questa, come da un a fonte, scaturisce per natura ogni giovamento. In un altro senso essi chiamano bene ‘ciò secondo cui avviene di trarre giovamento’; e in questo modo saranno dette beni non soltanto le virtù ma anche le azioni secondo virtù, se appunto avviene di trarre giovamento anche in relazione ad esse. Nel terzo ed ultimo senso si dice [III,19,5] bene ‘ciò ch’è tale da giovare’, e questa esplicitazione include sia le virtù che le azioni virtuose, gli amici e gli uomini virtuosi, gli dei e i démoni virtuosi.

[2] XI, 30. Gli Stoici dispongono che nell’appellazione del ‘bene’ il secondo significato sia inclusivo del primo e che [III,19,10] il terzo abbracci i due precedenti.

[3] XI, 33. <Alcuni obiettano> che se davvero il bene è ‘ciò da cui si può trarre giovamento’, allora si deve dire che soltanto la generica virtù è bene e che ciascuna specifica virtù cade fuori dalla definizione. […] Per controbattere questa incolpazione <gli Stoici> dicono questo: “Qualora noi si affermi che [III,19,15] ‘bene è ciò da cui avviene di trarre giovamento’ diciamo questo intendendolo equivalente ad affermare che ‘bene è ciò da cui avviene di trarre giovamento in qualcuno dei casi della vita’. In questo modo ciascuna specifica virtù diventerà un bene, senza apportare genericamente il giovare ma procurando giovamento in qualcuno dei casi della vita: per esempio, una, come appunto la saggezza, l’essere saggi; un’altra, come [III,19,20] appunto la temperanza, l’essere temperanti.

SVF III, 76

Diogene Laerzio VII, 94. Il bene è, in generale, un qualche pro; e, in particolare, è lo stesso o non altro da giovamento. Onde la virtù stessa e il bene che di essa partecipa si possono chiamare in triplice modo: il bene [III,19,25] ‘da cui avviene di trarre giovamento’; quello ‘secondo cui avviene’, come nel caso dell’azione secondo virtù; quello ‘per via di cui’, come nel caso del virtuoso che partecipa della virtù. Un’altra particolare definizione che <gli Stoici> danno del bene è: ‘la perfezione secondo natura dell’animale logico in quanto logico’. Affermano poi che la virtù è tale che di essa partecipano sia le azioni virtuose che gli uomini virtuosi, e che ne risultano gioia, [III,19,30] letizia e cose similari. Allo stesso modo parlano dei mali. Mali sono la stoltezza, la viltà, l’ingiustizia e cose similari. Del male partecipano sia le azioni viziose sia gli individui insipienti e da esso risultano scoraggiamento, malanimo e cose simili.

SVF III, 77

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 40. Il ‘male’, infatti, è l’opposto del ‘bene’. [III,19,35] Il che significa che il ‘male’ è ‘danno’ oppure ‘non d’altro genere del danno’. Dire ‘danno’ è come dire ‘vizio’ e ‘azione insipiente’. Dire ‘non d’altro genere del danno’, è proprio come dire ‘persona insipiente’ e ‘nemico personale’.

SVF III, 78

Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 8, Vol. II, p. 226, 24 K. Se si dicesse ‘danno’ un moto o una quiete secondo il vizio, allora è manifesto che [III,19,40] nessun danno sfiorerebbe i sapienti.

SVF III, 79

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 90. […] della stoltezza, che i seguaci della Stoa affermano essere il solo male.

§ 2. Quale sia il bene

Frammenti n. 80-94

SVF III, 80

Simplicio ‘In Aristot. Phys.’ p. 1167, 21 Diels. È infatti possibile chiedere che la premessa mostri di per se stessa ciò che di per sé è non manifesto. Questo capita o senza altre mediazioni e allorché si valuti con chiarezza quello che abbiamo davanti, come facciamo noi dicendo [III,20,5] che certi beni non rendono gli uomini subito virtuosi: per esempio, le facoltà, le quali possono essere utilizzate bene o male. Infatti una facoltà buona sia per una cosa che per il suo contrario, non fa virtuoso se non colui che la usa bene. Gli Stoici, invece, levano questo di mezzo e dicono che ‘tutto ciò ch’è bene rende virtuosi’ e lo prendono come premessa.

SVF III, 81

Seneca ‘Epistulae morales’ XLV, 10. (L’uomo stolto) giudica necessarie cose [III,20,10] che in gran parte sono assolutamente superflue e che, quand’anche non fossero tali, non hanno alcuna capacità di renderlo beato e fortunato. Se una cosa è necessaria non per questo è subito buona; altrimenti degradiamo il bene, dando questo nome al pane, alla polenta e ad altre cose senza le quali ci è impossibile vivere. Ciò che è buono è in ogni caso necessario, ma [III,20,15] ciò che è necessario non sempre è buono, dato che certe cose sono necessarie pur essendo vilissime.

SVF III, 82

Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 62, Vol. II, p. 278, 15 K. Se Celso ha precisato il concetto di utile ed ha visto che utile è principalmente la virtù e l’azione secondo virtù…

SVF III, 83

Diogene Laerzio VII, 100. <Gli Stoici> [III,20,20] chiamano bello il perfetto bene perché ha tutti i numeri che la natura a questo fine ricerca o perché è perfettamente proporzionato. Quattro sono le specie del bello: ciò ch’è giusto, virile, composto, scientifico; giacché è sotto queste forme che si portano a compimento le azioni belle. Analogamente anche del brutto vi sono quattro specie: ciò ch’è ingiusto, [III,20,25] vile, scomposto, stolto. Essi chiamano poi bello unicamente il bene che rende lodevoli coloro che l’hanno, oppure il bene degno di lode. In altro senso bello è la buona attitudine naturale per la propria opera; altrimenti, ancora, è ciò che ornamenta, come quando diciamo che solo il sapiente è buono e bello.

SVF III, 84

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CVI, 2. Tu sai che è mia intenzione [III,20,30] abbracciare tutta la filosofia morale e risolvere tutte le questioni ad essa pertinenti. Per questo sono stato indeciso se farti attendere finché venisse il momento opportuno per questa trattazione, oppure darti soddisfazione al di fuori di ogni ordine. Mi è parso più gentile non far attendere ulteriormente chi viene da così lontano. Pertanto stralcerò tale trattazione dall’ordine delle questioni, e se ve ne saranno altre dello stesso genere te ne scriverò senza bisogno che tu me lo richieda. Tu mi domandi di quali questioni si tratti? Si tratta di materia che tanto più è bene conoscere quanto più la sua conoscenza ci reca giovamento; [III,20,35] come la questione che tu poni: il bene è un corpo? Il bene ha un effetto e difatti reca giovamento. Ora, ciò che ha un effetto è un corpo. Il bene mette in moto l’animo e in un certo senso gli dà forma e lo mantiene, il che è proprio di un corpo. I beni di un corpo sono corpi, dunque anche quelli dell’animo lo sono. Pertanto anche l’animo è corpo. [III,20,40] Necessariamente il bene dell’uomo è corpo, perché l’uomo stesso è corporeo. Io sto mentendo se dico che ciò che lo nutre, lo tiene in salute e lo risana non è corpo. Dunque anche il suo bene è corpo. Tanto per inserire nel discorso un argomento da te non richiesto, non dubiterai, io penso, che siano corporee anche emozioni come l’ira, l’amore e la tristezza; [III,21,1] e se ne dubiti, guarda come alterino le nostre sembianze, facciano corrugare la fronte e distendere il volto, ci facciano arrossire o impallidire. Allora, effetti così evidenti su un corpo, che altro credi possa causarli se non un corpo? E se le emozioni sono corpi, lo sono anche le malattie dell’animo come l’avarizia, la crudeltà, i vizi incalliti ed ormai non più correggibili, [III,21,5] e quindi anche la malvagità in tutte le sue forme: la malignità, l’invidia, la superbia; e saranno corpi anche i beni, in primo luogo perché sono il contrario dei mali e poi perché te ne offriranno gli stessi indizi. Non vedi quanto vigore dà allo sguardo la fortezza? E quale acutezza dà la saggezza? Quale modestia e quale pacatezza il ritegno? Quale serenità la letizia? Quanto rigore la severità? [III,21,10] Quanta indulgenza la mitezza? Dunque sono corpi quelli che cambiano colore e forma ai corpi, che esercitano il loro potere su di essi. Ebbene, ogni virtù che ho citato è un bene, e anche tutte le conseguenze che seguono ad esse sono tali. Puoi dubitare che sia corpo ciò che è suscettibile di contatto? […] Tutte le realtà che ho menzionato non cambierebbero un corpo se non venissero a contatto con esso: dunque sono corpi. Inoltre anche quelle realtà che hanno la forza di impellere, costringere, trattenere e determinare sono corpi. [III,21,15] Ebbene, forse che la paura non trattiene, o che l’audacia non impelle, o che il coraggio non stimola e non dà slancio? Non è forse vero che la moderazione ci frena e ci trattiene, e che la gioia ci risolleva mentre la tristezza ci deprime? E poi, ogni nostra azione è sotto il dominio o del vizio o della virtù: [III,21,20] quello che ha il dominio su un corpo è corpo e, parimenti, è corpo quello che ha effetto su un corpo. Il bene del corpo è corporeo. Il bene dell’uomo è anche il bene di un corpo: e dunque è corporeo.

[2] Plutarco ‘De superstitione’ p. 165a. Per contro, alcuni credono che la virtù e il vizio siano corpi.

[3] Tertulliano ‘De anima’ cp. 6. Gli Stoici affermano giustamente [III,21,25] che anche le arti sono corpi.

SVF III, 85

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1042e-f. Crisippo ammette che beni e mali siano del tutto differenti; e ciò è necessario <se i mali rendono subito estremamente infelici coloro ai quali si presentano mentre i beni, invece, li rendono felici al massimo grado>. Inoltre egli afferma che beni e mali sono entità sensibili, scrivendo nel primo dei due libri [III,21,30] ‘Sul sommo bene’: “Che beni e mali siano entità sensibili è possibile affermarlo anche sulla base di queste considerazioni. Non soltanto, infatti, le passioni sono entità sensibili nelle loro specie, come l’afflizione, la paura e cose similari; ma è possibile accorgersi anche della ruberia, dell’adulterio e cose simili; e, in generale, accorgersi della stoltezza, della viltà e di altri non pochi vizi; e non soltanto della gioia, dei benefici [III,21,35] e di molte altre azioni rette, ma anche della saggezza, della virilità e delle restanti virtù”.

[2] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1062c. Secondo gli Stoici, infatti, esso non è per natura impercepibile; e Crisippo afferma in termini precisi nei [III,21,40] libri ‘Sul sommo bene’ che il bene è un’entità sensibile e, com’egli crede, lo dimostra anche.

SVF III, 86

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 69, 11 W. <Gli Stoici affermano che> tutti i beni sono giovevoli, profittevoli, utili, vantaggiosi, virtuosi, confacenti, [III,22,1] belli ed appropriati. Al contrario i mali sono tutti dannosi, incomodi, sconvenienti, svantaggiosi, infausti, non confacenti, vergognosi ed inappropriati.

SVF III, 87

Diogene Laerzio VII, 98. Ogni bene è utile, è un dovere, è vantaggioso, proficuo, profittevole, bello, giovevole, sceglibile e [III,22,5] giusto. Utile perché porta cose tali che, quando avvengono, noi ne traiamo giovamento. È un dovere perché fa stare uniti in ciò che bisogna. Vantaggioso perché compensa le spese per esso affrontate, così da superare in giovamento ciò che si scambia nella sua trattazione. Proficuo perché procura l’utilità del giovamento. Profittevole perché rende questa utilità lodevole. Bello perché è ben proporzionato [III,22,10] al proprio uso. Giovevole perché è tale da giovare. Sceglibile perché è tale che la sua scelta è ragionevole. Giusto perché è in armonia con la legge e produttivo di socialità.

SVF III, 88

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 72, 19 W. Ogni bene è scelto giacché vi è in esso del gradito, del valutato positivamente, del lodato. Ogni male, invece, è fuggito. [III,22,15] Infatti il bene, in quanto muove una scelta ragionevole, è scelto; in quanto giunge alla scelta senza sospetti, è gradito; <in quanto…valutato>; e, poi, in quanto lo si concepirebbe a ragion veduta essere una delle cose che discendono della virtù, lodato.

SVF III, 89

Stobeo ‘Eclogae’ II, 78, 7. <Gli Stoici> affermano che vi è differenza tra lo ‘astrattamente scelto’ e [III,22,20] il ‘da scegliersi concretamente’. ‘Astrattamente scelto’ è ogni bene; ‘da scegliersi concretamente’ è ogni giovamento, il quale è chiaramente risaputo essere connesso al bene. Perciò noi scegliamo il ‘da scegliersi concretamente’: per esempio, l’essere saggi, che è chiaramente risaputo essere connesso alla saggezza. Non scegliamo invece lo ‘astrattamente scelto’, ma semmai scegliamo di possederlo. Similmente, tutti i beni sono astratte possibilità di ‘reggere gli eventi’ e di ‘mantenersi fedeli alla ragione’ ed il discorso è analogo per le altre virtù, [III,22,25] se pure non le si nomina una per una. Tutti i giovamenti, a loro volta, sono pratica concreta di ‘reggere gli eventi’ e di ‘mantenersi fedeli alla ragione’. E lo stesso discorso vale per le altre condizioni attinenti ai vizi.

SVF III, 90

Stobeo ‘Eclogae’ II, 98, 7 W. Similmente essi dicono che tutti i beni sono astratte possibilità di ‘reggere gli eventi’ e di ‘mantenersi fedeli alla ragione’ ed il discorso è analogo per le altre virtù, se pure non le si nomina una per una. Tutti i giovamenti, a loro volta, sono dovere concreto di ‘reggere gli eventi’ e di ‘mantenersi fedeli alla ragione’, e così via. [III,22,30] Allo stesso modo concepiscono che vi sia differenza tra lo ‘astrattamente trattato con cautela’ e il ‘da trattarsi con cautela concretamente’; tra gli eventi ‘astrattamente impossibili da reggere’ e quelli ‘da non reggersi concretamente’. Lo stesso discorso vale per le altre condizioni attinenti ai vizi.

SVF III, 91

Stobeo ‘Eclogae’ II, 97, 15 W. Essi affermano che come differiscono lo ‘astrattamente scelto’ e il ‘da scegliersi concretamente’, così differiscono lo ‘astrattamente desiderato’ e il ‘da desiderarsi concretamente’; il ‘deciso in astratto’ e il ‘deciso [III,22,35] in concreto’; lo ‘astrattamente approvato’ e il ‘da approvarsi concretamente’. I beni sono ‘astrattamente scelti’, ‘decisi in astratto’, ‘astrattamente desiderati’, ‘astrattamente approvati’, mentre i giovamenti sono ‘da scegliersi concretamente’, ‘da decidersi in concreto’, ‘da desiderarsi concretamente’ e ‘da approvarsi concretamente’, essendo predicati connessi ai beni. Ed essi dicono che noi scegliamo il ‘da scegliersi concretamente’, decidiamo il ‘da decidersi in concreto’ e desideriamo il ‘da desiderarsi concretamente’. Le scelte, i desideri, [III,22,40] e le decisioni razionali sono tali dei predicati, come pure gli impulsi; tuttavia noi scegliamo, decidiamo e similmente desideriamo di possedere i beni, e perciò i beni sono anche ‘scelti concretamente’, ‘decisi nel concreto’ e ‘desiderati concretamente’. Noi, infatti, scegliamo di possedere la saggezza e la temperanza [III,23,1] e non, per Zeus, l’essere saggi e temperanti quando questi siano dei predicati incorporei.

SVF III, 92

Diogene Laerzio VII, 101. <Gli Stoici> reputano che tutti i beni siano pari, che ogni bene sia sceglibile in sommo grado e che esso non sia suscettibile né di attenuazione né di intensificazione.

SVF III, 93

Cicerone ‘De finibus’ III, 69. Affinché si conservi la socialità, la solidarietà, [III,23,5] la relazione dell’uomo con l’uomo che prescinde dal denaro, gli Stoici vollero che fossero comuni i profitti e le perdite, quelli che i Greci chiamano ὠφελήματα e βλάμματα: di essi i primi giovano, le seconde danneggiano; e li definirono non soltanto comuni ma anche pari. Invece le opportunità e le difficoltà che i Greci chiamano εὐχρηστήματα e δυσχρηστήματα [III,23,10] li vollero sì comuni, ma non pari. Infatti le realtà che giovano e che danneggiano sono o beni o mali e sono quindi necessariamente pari; invece le opportunità e gli difficoltà sono del genere che noi chiamiamo del promosso e del ricusato e possono essere non pari. [III,23,15] E se diciamo comuni i profitti e le perdite, le azioni rette e quelle malvage tali non sono.

SVF III, 94

Stobeo ‘Eclogae’ II, 95, 3 W. I beni sono comuni anche in un altro modo, giacché <gli Stoici> legittimano in ogni caso l’idea che chi reca giovamento a chiunque sia tragga per sé, da ciò stesso, pari giovamento; e che nessun insipiente né riceva né rechi giovamento. Recare giovamento, infatti, è trovarsi in postura virtuosa e ricevere giovamento è muoversi [III,23,20] secondo virtù.

§ 3. I tipi di bene

Frammenti n. 95-116

SVF III, 95

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 58, 5 W. Dei beni alcuni sono virtù, altri no. Dunque la saggezza, la temperanza, <la giustizia>, la virilità <la magnanimità, la vigoria e potenza d’animo> sono virtù. Invece la gioia, [III,23,25] la letizia, il coraggio, la decisione razionale e le cose similari non sono virtù. Delle virtù alcune sono scienza ed arte di qualcosa, altre no. Saggezza, temperanza, giustizia e virilità sono scienza ed arte di certe cose. Invece magnanimità, vigoria e potenza d’animo sono né scienza né arte di qualcosa. Analogamente anche dei mali alcuni sono [III,23,30] vizi, altri no. Stoltezza, ingiustizia, viltà, piccineria, impotenza d’animo sono vizi. Invece afflizione, paura e le cose similari non sono vizi. Dei vizi alcuni sono ignoranza e imperizia per certe cose, altri no. Stoltezza, impudenza, ingiustizia e viltà sono ignoranza e imperizia per certe cose. Piccineria, impotenza d’animo, [III,23,35] <debolezza> sono né ignoranza né imperizia per certe cose.

SVF III, 96

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 59. I seguaci della Stoa affermano anch’essi che capita di incontrare tre generi di beni, ma non li classificano allo stesso modo. Dei beni, infatti, alcuni sono beni attinenti all’animo; alcuni sono esterni; alcuni non attengono né all’animo né agli oggetti esterni, poiché essi estirpano dal novero dei beni il genere di beni attinenti al corpo in quanto li dichiarano non beni. Essi dicono che i [III,23,40] beni attinenti all’animo sono le virtù e le azioni virtuose. Beni esterni sono l’amico, l’uomo virtuoso, i figlioli e i genitori virtuosi, e cose simili. Bene attinente né agli oggetti esterni né all’animo è [III,24,1] l’uomo virtuoso stesso nei confronti di se stesso, giacché egli non può essere né un bene esterno a se stesso né un bene attinente all’animo, dal momento che consiste di animo e di corpo.

SVF III, 97

Stobeo ‘Eclogae’ II, 70, 8 W. Dei beni alcuni attengono all’animo, alcuni sono esterni, alcuni non attengono né all’animo né agli oggetti esterni. Beni attinenti all’animo sono [III,24,5] la virtù, le sue abituali posture virtuose e, in generale, le attività lodevoli. Beni esterni sono gli amici, i conoscenti e cose similari. Beni attinenti né all’animo né esterni sono i virtuosi e, in generale, i dotati di virtù. Similmente, anche dei mali alcuni attengono all’animo, alcuni sono esterni, alcuni non attengono né all’animo né agli oggetti esterni. Mali attinenti all’animo sono i vizi insieme con le sue abituali posture [III,24,10] depravate e, in generale, le attività denigrabili. Mali esterni sono i nemici personali di tutte le specie. Mali attinenti né all’animo né esterni sono gli insipienti e tutti coloro che sono affetti dai vizi.

SVF III, 97a

Diogene Laerzio VII, 95. Inoltre, dei beni alcuni attengono all’animo, alcuni sono esterni, alcuni non attengono né all’animo né agli oggetti esterni. Beni attinenti all’animo sono le [III,24,15] virtù e le azioni secondo virtù. Beni esterni sono l’avere una patria virtuosa, un amico virtuoso e la loro felicità. Bene né esterno né attinente all’animo è l’essere l’uomo per se stesso virtuoso e felice. All’opposto, anche dei mali, quelli che attengono all’animo sono i vizi e le azioni viziose. Mali esterni sono l’avere una patria stolta, un amico stolto e la [III,24,20] loro infelicità. Male né esterno né attinente all’animo è l’essere l’individuo per se stesso insipiente ed infelice.

SVF III, 98

Stobeo ‘Eclogae’ II, 94, 21 W. Dell’amicizia si parla in triplice modo. Il primo modo è quello che trae motivo dal comune giovamento e in relazione al quale gli amici si dicono tali. Ebbene <gli Stoici> affermano che questa amicizia non rientra nel novero dei beni poiché, secondo loro, non si dà [III,24,25] bene alcuno da parti disparate. Essi poi affermano essere nel novero dei beni attinenti agli oggetti esterni quella che viene chiamata amicizia nel secondo significato, ossia la generica relazione amichevole verso il prossimo. Dichiarano infine essere nel novero dei beni attinenti all’animo l’amicizia per qualcuno in persona, conforme alla quale uno è amico del prossimo.

SVF III, 99

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXIV, 22. Infatti, tra i beni voi annoverate dei figli devoti, una patria ben governata [III,24,30] e dei buoni genitori.

SVF III, 100

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CII, 3. Io mi sforzavo di provare una tesi cara a quelli della nostra Scuola, e cioè che la rinomanza che tocca ad uno dopo la morte è un bene.

[2] La rinomanza è l’opinione favorevole dei galantuomini.

[3] La rinomanza è la lode resa dai galantuomini ad un galantuomo.

SVF III, 101

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 74, 15 W. Inoltre, [III,24,35] dei beni alcuni sono pretti, ad esempio la scienza; altri sono misti, ad esempio: buona figliolanza, buona vecchiaia, buona vita. Buona figliolanza è un uso virtuoso di figlioli che vivono secondo natura. Buona vecchiaia è un uso virtuoso della vecchiaia trascorsa secondo natura; e similmente <si può dire della> buona vita.

SVF III, 102

Diogene Laerzio VII, 98. Genericamente intesi, dei beni sono beni misti [III,24,40] la buona figliolanza e la buona vecchiaia; la scienza, invece, è un bene schietto. Le virtù sono <beni> sempre presenti; non sempre presenti sono invece, per esempio, la gioia o una passeggiata filosofica.

SVF III, 103

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 68, 24 W. Inoltre, dei beni alcuni sono propri di tutti i saggi e lo sono sempre, mentre altri no. Virtù, saggia sensazione, [III,25,1] saggio impulso e beni simili sono propri di tutti i saggi e in ogni occasione. Invece gioia, letizia, una saggia passeggiata filosofica sono propri né di tutti i saggi né appartengono loro sempre. Lo stesso discorso vale per i mali, alcuni dei quali sono propri di tutti gli stolti e lo sono sempre, mentre altri no. Dunque [III,25,5] ogni vizio, stolta sensazione, stolto impulso e cose similari sono proprie di tutti gli stolti e lo sono sempre. Invece afflizione, paura, una stolta risposta non sono proprie di tutti gli stolti né in ogni occasione.

SVF III, 104

Stobeo ‘Eclogae’ II, 70, 21 W. Dei beni attinenti all’animo alcuni sono disposizioni, alcuni sono posture abituali e non disposizioni, alcuni sono né posture abituali [III,25,10] né disposizioni. Sono disposizioni d’animo tutte le virtù. Soltanto posture abituali e non disposizioni d’animo sono le occupazioni, come la mantica e cose similari. Né posture abituali né disposizioni d’animo sono le attività virtuose, per esempio, l’esercizio della saggezza, l’impossessarsi della temperanza e cose similari. Similmente, anche dei mali attinenti all’animo alcuni sono disposizioni, alcuni sono posture abituali e non disposizioni, alcuni sono né [III,25,15] posture abituali né disposizioni d’animo. Sono disposizioni d’animo tutti i vizi. Soltanto posture abituali le proclività, per esempio, quella all’invidia, quella all’afflizione e simili; e, ancora, gli stati morbosi e le infermità morali, per esempio, l’amore del denaro, l’avvinazzarsi e cose similari. Né posture abituali né disposizioni dell’animo sono le attività viziose, per esempio, la demenzialità, l’iniquità e cose a queste similari.

SVF III, 105

Diogene Laerzio VII, 98. Inoltre, [III,25,20] dei beni attinenti all’animo alcuni sono posture abituali, alcuni sono disposizioni, alcuni né posture abituali né disposizioni. Disposizioni d’animo sono le virtù, posture abituali sono le occupazioni, né posture abituali né disposizioni dell’animo sono le attività.

SVF III, 106

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 71, 15 W. Dei beni alcuni sono finali, [III,25,25] alcuni sono fattitivi, alcuni sono entrambe le cose. Dunque, l’uomo saggio e l’amico sono beni solo fattitivi. Invece gioia, letizia, coraggio, una saggia passeggiata filosofica sono beni finali. Tutte le virtù sono beni sia finali che fattitivi giacché sono generative e completive della felicità, essendone parte. Analogamente, [III,25,30] dei mali alcuni sono fattivi di infelicità, alcuni sono finali, alcuni sono entrambe le cose. Dunque, l’uomo stolto e il nemico personale sono mali solo fattitivi. Afflizione, paura, ruberia, una domanda stolta e simili sono mali solo finali. I vizi sono mali sia fattitivi che finali, giacché sono generativi e completivi dell’infelicità, essendone parte.

SVF III, 107

Diogene Laerzio VII, 96. Inoltre, [III,25,35] dei beni alcuni sono finali, alcuni sono fattitivi, alcuni sono finali e fattitivi. Dunque l’amico ed i giovamenti che da lui provengono sono beni fattitivi. Coraggio, elevatezza d’animo, libertà, diletto, letizia, dominio sull’afflizione e ogni azione virtuosa sono beni finali. Le virtù sono beni [III,25,40] fattitivi e finali giacché, in quanto hanno come risultato la felicità, sono beni fattitivi; in quanto ne sono completivi, così da esserne parte, sono beni finali. [III,26,1] Similmente, anche dei mali alcuni sono finali, alcuni sono fattitivi, alcuni sono entrambe le cose. Il nemico personale e i danni che da lui derivano sono mali fattitivi. Sgomento, servilismo, servitù, insoddisfazione, scoraggiamento, corruccio e ogni azione viziosa sono mali finali. [III,26,5] I vizi sono mali sia fattitivi che finali dacché, in quanto hanno come risultato l’infelicità, sono mali fattitivi e in quanto ne sono completivi, così da esserne parte, sono mali finali.

SVF III, 108

Cicerone ‘De finibus’ III, 55. Successivamente <gli Stoici> suddividono i beni in questo modo: beni finali (chiamo così quelli che i Greci chiamano τελικά); beni fattitivi, in greco ποιητικά; beni sia finali che fattitivi. [III,26,10] Beni finali sono soltanto le azioni moralmente integre; unico bene fattitivo è l’amico; bene sia finale che fattitivo è, a loro parere, solo la saggezza. Infatti la saggezza, in quanto ‘azione conveniente’ rientra nel genere dei beni finali; e in quanto induce ad effettuare azioni moralmente integre, si può chiamare [III,26,15] bene fattitivo.

SVF III, 109

Stobeo ‘Eclogae’ II, 72, 14 W. Inoltre, dei beni alcuni sono scelti per se stessi, alcuni sono fattitivi. Pertanto, quanti ricadono nell’ambito di una scelta ragionevole a motivo di null’altro, sono scelti per se stessi. Quanti, invece, lo sono come preparatori di certi altri beni, sono detti fattitivi.

SVF III, 110

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VI, 12, p. 789 Pott. Ora, [III,26,20] l’individuo di natura malvagia, una volta divenuto soggetto ad aberrare per via di un vizio, si ritrova ad essere un insipiente che ha il vizio che si è scelto volontariamente. Ed essendo soggetto ad aberrare, sbaglia anche nelle azioni; mentre, al contrario, l’uomo virtuoso agisce rettamente. Perciò chiamiamo beni non soltanto le virtù ma anche le belle azioni. Dei beni, poi, sappiamo che alcuni sono scelti per se stessi, [III,26,25] come il conoscimento; oltre il quale non diamo la caccia ad altro, quand’esso sia presente o soltanto che sia presente. Alcuni beni, invece, <sono scelti> in vista di altri…

SVF III, 111

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 73, 1 W. Dei beni, alcuni sono beni di moto; alcuni, invece, sono beni di quiete. Di moto sono beni quali la gioia, la letizia, la conversazione morigerata. Di quiete sono invece beni quali la disciplinata tranquillità, la permanenza in una condizione di [III,26,30] assenza di sconcerto, l’attenzione virile. Dei beni di quiete alcuni, per esempio, le virtù, sono anche di postura abituale dell’animo; alcuni, invece, sono soltanto di quiete, come quelli detti. Beni di postura abituale dell’animo sono non soltanto le virtù ma anche le arti, che nell’uomo virtuoso ad opera della virtù diventano altro e divengono immutabili come se fossero virtù. <Gli Stoici> dicono anche che nel novero dei beni di postura abituale rientrano pure [III,26,35] quelle che si chiamano occupazioni, per esempio, l’amore per le Muse, per la letteratura, per la geometria e cose similari. Giacché passa attraverso queste arti una certa strada la quale è capace di farci selezionare cose appropriate alla virtù e di farcele riferire al sommo bene della vita.

SVF III, 112

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 74, 16 W. Inoltre, dei beni alcuni sono beni di per sé, alcuni sono invece modalità di relazione. Beni di per sé sono la scienza, [III,26,40]la pratica della giustizia e simili. Relativi sono invece onori, benevolenza, amicizia, armonia. La scienza è apprensione certa e sicura la cui immutabilità è a prova di ragionamento. In un altro senso, la scienza è l’insieme di conoscenze scientifiche del genere della logica particolare che alberga nel virtuoso. In un altro senso ancora, essa è l’insieme di tecniche [III,27,1] scientifiche che trae da sé la propria saldezza, come vale per le virtù. In altro senso, la scienza è una postura ricettiva delle rappresentazioni, la cui immutabilità è a prova di ragionamento e che <gli Stoici> dicono consistere nel tono e nella potenza dell’animo. L’amicizia è comunanza di vita. L’armonia è somiglianza di giudizi circa le vicende della vita. Dell’amicizia, inoltre, la familiarità è amicizia tra [III,27,5] persone che si conoscono; la consuetudine, amicizia tra amici consueti; la compagnia, amicizia per scelta, come fosse tra pari età; l’accoglienza ospitale, amicizia per i forestieri. Vi è anche un’amicizia per consanguineità, che è quella tra congeneri; e un’amicizia erotica, che viene dalla passione amorosa. Il dominio sull’afflizione e la disciplina sono identiche alla temperanza; mente e buonsenso alla saggezza; la postura generosa e liberale dell’animo alla probità. Queste cose [III,27,10] furono così denominate dalla loro modalità di relazione, il che è doveroso osservare anche circa le altre virtù.

SVF III, 113

Stobeo ‘Eclogae’ II, 77, 6. Dei beni alcuni sono necessari per la felicità, altri no. Necessarie sono tutte le virtù e le attività che le utilizzano. Non necessarie sono la gioia, la letizia, occupazioni e mestieri. Similarmente anche dei mali, alcuni sono necessari come mali generativi d’infelicità, altri sono non necessari. Necessari sono tutti i vizi e le attività che ne discendono. [III,27,15]Non necessarie sono tutte le passioni, le infermità e gli stati a queste similari.

SVF III, 114

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 7, p. 853 Pott. Alcuni beni, dunque, sono beni in sé e per sé; altre cose, invece, partecipano dei beni, come [III,27,20] diciamo che ne partecipano le belle azioni. Certo, senza l’esistenza delle cose intermedie che ricoprono il ruolo di materiale, non sussistono azioni né buone né cattive; dico, per esempio, la vita, la salute e altre cose necessarie o circostanziali.

SVF III, 115

Seneca ‘Epistulae morales’ LXVI, 5. Il primo giorno il quesito era questo: come possono i beni essere equivalenti se sono legati a tre condizioni diverse? Alcuni di questi, secondo i nostri amici, sono beni primari: come la gioia, [III,27,25] la pace, la prosperità della patria. Altri sono beni legati ad una seconda condizione, e sono quelli che si manifestano nelle avversità, come la sopportazione delle torture e l’autocontrollo in una grave malattia. Il primo tipo di beni è senz’altro desiderabile, il secondo solo in caso di necessità. Esistono anche beni legati ad una terza condizione: come un portamento modesto, un volto che esprime onestà e decoro, e un modo di fare che si addice all’uomo per bene. [III,27,30]

SVF III, 116

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 177, I, p. 152, 14 Wendl. A <Giacobbe> è gradito che sia [III,27,35] ‘Colui che è’ in persona a dargli i beni cardinali, e che invece siano gli angeli e le sue parole a dargli i beni secondari. E beni secondari sono quanti includono lo scampo dai mali.

ETHICA III.

Sugli indifferenti

§ 1. La nozione di indifferente

Frammenti n. 117-123

SVF III, 117

[1] Diogene Laerzio VII, 102. Delle cose che sono, <gli Stoici> dicono che alcune [III,28,5] sono beni, alcune sono mali e alcune sono né beni né mali. [Beni sono, dunque, le virtù: saggezza, giustizia, virilità, temperanza, eccetera. Mali sono gli opposti: stoltezza, ingiustizia, eccetera.] Né bene né male sono tutte quelle cose che né giovano né danneggiano; per esempio, vita, salute, piacere fisico, avvenenza, potenza del corpo, ricchezza di denaro, celebrità, nobiltà di stirpe; e i loro opposti: morte, malattia, dolore fisico, laidezza, debolezza, povertà di denaro, discredito, umili origini e le cose a queste similari; secondo quanto affermano Ecatone nel settimo libro ‘Sul sommo bene’, Apollodoro ne [III,28,10] ‘L’etica’, e Crisippo. Questi, infatti, sono non beni ma ‘indifferenti’ appartenenti alla specie delle cose ‘promosse’. Giacché come è proprio del caldo il riscaldare e non il raffreddare, così è proprio del bene il giovare e non il danneggiare. La ricchezza di denaro e la salute non giovano più di quanto danneggiano e pertanto né la ricchezza di denaro né la salute sono beni. Essi inoltre affermano che ciò di cui è possibile un uso buono o cattivo[III,28,15] non è un bene. E siccome della ricchezza di denaro e della salute è possibile fare un uso buono o cattivo, ecco che né la ricchezza di denaro né la salute sono beni.

[2] Diogene Laerzio VII, 104. Giovare è muoversi secondo virtù o trovarsi in postura virtuosa. Danneggiare è muoversi secondo vizio o trovarsi in postura viziosa.

SVF III, 118

Stobeo ‘Eclogae’ II, 79, 1 W. Gli Stoici chiamano ‘indifferenti’ le cose che stanno frammezzo [III,28,20] ai beni e ai mali ed affermano che l’indifferente può essere pensato in due modi. Secondo un modo, ‘indifferente’ è ciò ch’è né bene né male, né scelto né fuggito. Secondo un altro modo, ‘indifferente’ è ciò ch’è motore né di impulso né di repulsione. In questo senso alcune cose sono anche dette ‘definitivamente indifferenti’: per esempio, l’avere in testa un numero pari o dispari di capelli, oppure il porgere il dito così o cosà, oppure il [III,28,25] levare di mezzo qualche intralcio, un fuscello o del fogliame. Nel primo senso, bisogna dire che si chiamano indifferenti le cose che stanno frammezzo alla virtù e al vizio […] non tuttavia per una loro selezione ed un loro scarto, giacché alcune di esse hanno un valore che le fa selezionare, altre un disvalore che le fa scartare, ma perché non conferiscono alcunché alla vita felice.

SVF III, 119

Diogene Laerzio VII, 104. Le cose sono dette ‘indifferenti’ in un duplice senso. Nel primo, [III,28,30] si chiamano indifferenti le cose che non cooperano né alla felicità né all’infelicità, com’è il caso della ricchezza di denaro, della reputazione, della salute, della potenza del corpo e simili. Infatti è fattibile essere felici anche senza queste cose, [III,29,1] essendo la qualità dell’uso di esse ad arrecare felicità oppure infelicità. Diversamente, si chiamano ‘indifferenti’ le cose che sono motori né di impulso né di repulsione, com’è il caso per l’avere in testa un numero pari o dispari di capelli, oppure per il protendere o serrare il dito. Non è questo il senso in cui sono dette indifferenti le cose menzionate per prime [III,29,5] giacché quelle sono motori di impulso e di repulsione, e ciò fa sì che alcune di esse siano selezionate positivamente ed altre scartate; mentre queste altre sono neutrali rispetto allo sceglierle o al fuggirle.

SVF III, 120

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXII, 15. Ma anche tra le cose che chiamiamo indifferenti o medie, caro Lucilio, vi sono grandi differenze. Ad esempio, la morte non è un indifferente paragonabile all’avere un numero [III,29,10] pari o dispari di capelli.

SVF III, 121

Stobeo ‘Eclogae’ II, 82, 5. Inoltre, essi dicono che degli ‘indifferenti’ alcuni sono motori di impulso, alcuni di repulsione, alcuni né di impulso né di repulsione. Motori di impulso, dunque, sono proprio quegli ‘indifferenti’ che dicevamo essere secondo natura; e di repulsione, invece, tutti quelli contro natura; né di impulso né di repulsione quelli che sono né secondo né contro natura, come l’avere i capelli [III,29,15] in numero pari o dispari.

SVF III, 122

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 59. Gli Stoici affermano che la salute non è un bene ma un ‘indifferente’ e credono che dell’indifferente si possa parlare in tre modi. Il primo modo è quello di applicare il termine ‘indifferente’ a ciò verso cui si provano né impulso né repulsione; per esempio, l’essere le stelle o i capelli [III,29,20] sulla testa in numero pari o dispari. Il secondo modo è quello di applicarlo a ciò verso cui si provano impulso e repulsione, ma non più verso questo che verso quest’altro. Per esempio, qualora ci sia bisogno, tra due dracme indistinguibili per conio e brillantezza, di scegliere per noi una delle due; giacché vi è allora in noi un impulso per una, ma non più per questa che per quella. Nel terzo ed ultimo modo, essi chiamano ‘indifferente’ ciò che soccorre né per la [III,29,25] felicità né per l’infelicità. In accordo con questo significato essi dicono che la salute, la malattia, tutto quanto è corporale e la maggior parte degli oggetti esterni si trovano ad essere ‘indifferenti’, avendo essi per intento né la felicità né l’infelicità. Infatti, ciò di cui è possibile fare un uso buono o cattivo, ecco, questo sarebbe un ‘indifferente’. E siccome sempre si fa della virtù un uso buono, del vizio un uso cattivo, e invece è possibile fare della salute e [III,29,30] delle cose concernenti il corpo un uso ora buono ora cattivo, esse sarebbero perciò indifferenti. Inoltre essi affermano che degli ‘indifferenti’ alcuni sono promossi, alcuni sono ricusati, alcuni sono né promossi né ricusati. Promossi sono quegli indifferenti che hanno sufficiente valore, ricusati quelli che hanno sufficiente disvalore, né promossi né ricusati indifferenti come, per esempio, protendere o [III,29,35] ripiegare il dito e tutto ciò ch’è a questo similare. Sono posizionati tra gli ‘indifferenti’ promossi: la salute, la potenza del corpo, l’avvenenza, la ricchezza di denaro, la reputazione e quanto a ciò somiglia. Sono invece posizionati tra gli ‘indifferenti’ ricusati: la malattia, la povertà di denaro, le sofferenze e le cose analoghe. Così dicono gli Stoici.

SVF III, 123

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1048c. [III,29,40] E nella dimostrazione <gli Stoici> rendono ancora più appariscente l’opposizione. Essi affermano, infatti, che ciò di cui è possibile fare un uso buono o cattivo è né un bene né un male. Tutti i dissennati fanno cattivo uso della ricchezza di denaro, della salute, della vigoria del corpo: perciò nessuna di queste cose è un bene.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1070a. <Gli Stoici> [III,30,1] denominano le medesime cose, cose che possono essere prese se offerte e che possono essere non scelte; appropriate e non beni; futili ma profittevoli; cose che sono nulla in relazione a noi ma sono fondamenti di quanto è doveroso.

 [III,30,5] § 2. Valore, disvalore, éstimo

Frammenti n. 124-126

SVF III, 124

Stobeo ‘Eclogae’ II, 83, 10. Tutti gli indifferenti secondo natura hanno un valore e tutti gli indifferenti contro natura hanno un disvalore. Il valore è inteso in tre modi: l’éstimo è il prezzo di un oggetto di per sé; il contraccambio è il prezzo stabilito da un perito valutatore; e terzo, cui Antipatro dà l’appellativo di ‘selettivo’, valore è ciò per cui, [III,30,10] date delle faccende, noi scegliamo queste qua invece di quelle là: per esempio, la salute invece della malattia; la vita invece della morte; la ricchezza di denaro invece della povertà di denaro. In tre modi analoghi <gli Stoici> affermato che vada chiamato il disvalore, con significati contrapposti a quelli citati prima per il valore.

SVF III, 125

Stobeo ‘Eclogae’ II, 84, 4 W. Diogene <di Babilonia> afferma che [III,30,15] l’éstimo è determinazione di quanto qualcosa sia secondo natura o di quanto procuri un’utilità alla natura. Il termine di ‘valutato’ non deve qui essere assunto nel significato, come si dice, di ‘cose valutate’ ma inteso nel significato in cui diciamo essere ‘perito valutatore’ colui che valuta le cose, e dunque Diogene dice che tale individuo è perito valutatore del contraccambio. E questi sono i due modi di parlare del valore secondo i quali noi diciamo che qualche cosa è promossa per il suo valore. <Diogene> dice che il terzo modo è quello per cui [III,30,20] affermiamo che qualcosa ha gran pregio e valore, il che non accade per le cose indifferenti ma soltanto per quelle virtuose. Egli afferma anche che talora noi usiamo il nome ‘valore’ al posto di ‘ciò che spetta’; com’è assunto nella definizione della giustizia. Qualora infatti la si dica essere costumanza di assegnare ‘a ciascuno secondo il suo valore’ è come dire: assegnare ‘a ciascuno ciò che gli spetta’.

SVF III, 126

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 105. [III,30,25] Degli indifferenti, <gli Stoici> chiamano alcuni promossi e alcuni ricusati. Promossi sono gli indifferenti che hanno valore; ricusati sono quelli che hanno disvalore. Essi chiamano ‘valore’ ciò ch’è di conferimento, e questo è il requisito di ogni bene, alla vita ammissibile con la ragione. Chiamano inoltre ‘valore’ anche ciò che conferisce una qualche facoltà o [III,30,30] utilità intermedia in vista della vita in armonia con la natura delle cose; come dire quelle che la ricchezza di denaro e la salute forniscono alla vita in armonia con la natura delle cose. Infine per essi è ‘valore’ il contraccambio stabilito da un perito valutatore, ossia il valore definito da un esperto di queste faccende, come quando si dice che del grano si scambia per dell’orzo più una mula.

[III,31,1] § 3. Indifferenti promossi e indifferenti ricusati

Frammenti n. 127-139

SVF III, 127

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 106. Promossi sono dunque gli ‘indifferenti’ che hanno un valore. Per esempio, nell’ambito dell’animo: doti naturali da purosangue, arte, profitto morale e simili. Nell’ambito del corpo: vita, salute, vigoria, benessere, integrità fisica, avvenenza. [III,31,5] Nell’ambito degli oggetti esterni: ricchezza di denaro, reputazione, nobiltà di stirpe e simili. Sono invece ‘indifferenti’ ricusati, nell’ambito dell’animo: bastardaggine, imperizia e simili. Nell’ambito del corpo: morte, malattia, debolezza, malessere, storpiatura, laidezza e simili. Nell’ambito degli oggetti esterni: povertà di denaro, discredito, umili origini e similari. Né promossi né ricusati sono gli ‘indifferenti’ che non appartengono né agli uni né agli altri.

SVF III, 128

Stobeo ‘Eclogae’ II, 84, 18. Degli [III,31,10] indifferenti dotati di valore, alcuni ne hanno molto, altri poco. Similmente, degli indifferenti che hanno disvalore, alcuni ne hanno molto, altri poco. Ora, gli indifferenti dotati di molto valore sono detti ‘promossi’, mentre quelli aventi molto disvalore sono detti ‘ricusati’; e fu Zenone per primo a porre alle faccende in questione questi nomi. <Gli Stoici> chiamano ‘promosso’ [III,31,15] quell’indifferente che selezioniamo per noi secondo un ragionamento di prima istanza. Un discorso simile vale per l’indifferente ‘ricusato’ e gli esempi sono, per analogia, gli stessi. Invece nessuno dei beni è un ‘promosso’, giacché i beni hanno il massimo valore. L’indifferente ‘promosso’, pur essendo una faccenda di secondo rango e valore, s’approssima in qualche modo alla natura dei beni. A corte, infatti, [III,31,20] il re non appartiene ai ‘promossi’, mentre lo sono quelli posizionati dopo di lui. Gli indifferenti si dicono dunque ‘promossi’ non perché conferiscano qualcosa in vista della felicità o cooperino ad essa, ma perché necessariamente noi li selezioniamo a scapito degli indifferenti ‘ricusati’.

SVF III, 129

Cicerone ‘De finibus’ III, 50. Dopo avere provato a sufficienza che l’unico bene è l’integrità morale e l’unico male la deformità morale, [III,31,25] <gli Stoici> vollero che ci fosse una qualche differenza fra le cose che comunque non hanno alcun valore al fine di una vita beata o misera, e stabilirono così che alcune di esse sono preferibili, altre non preferibili e altre neutre. Quelle preferibili: come la salute, l’integrità dei sensi, l’assenza di dolore, la fama, la ricchezza di denaro e cose simili, mostrano di avere in se stesse una causa intrinseca [III,31,30] che le fa anteporre ad altre che non la possiedono. Quelle non preferibili: come il dolore, la malattia, la perdita dei sensi, la povertà di denaro, l’infamia hanno in se stesse, seppure non tutte, una causa intrinseca che le fa respingere. [III,31,35] Da qui nacque la distinzione introdotta da Zenone tra προηγμένον (promosso) e ἀποπροηγμένον (ricusato).

SVF III, 130

Cicerone ‘De finibus’ III, 53. Poiché noi sosteniamo che tutto quanto è bene occupa il primo posto, necessariamente è né un bene né un male ciò che denominiamo ‘promosso’ o precipuo, e che definiamo quale un ‘indifferente di valore mediocre’. […] Del resto era inevitabile [III,32,1] che fra le cose intermedie rientrassero anche cose che sono secondo natura e cose contro natura; e una volta rientratevi, questa classe di cose doveva necessariamente contenere cose ‘preferibili’ ad altre; e, ciò posto, ce ne dovevano per forza essere delle ‘promosse’. […] Per rendere il tutto più chiaro, gli Stoici fanno questo esempio. Se poniamo, dicono, che il fine ultimo [III,32,5] sia, tanto per dire, che il dado ‘resti diritto’, quando si getta il dado ed esso assume la ‘posizione giusta’ che precede quella che vogliamo, possiamo considerare tale posizione quale una posizione ‘promossa’ in relazione al fine che vogliamo raggiungere, mentre sarà il contrario se il dado gettato non assume la posizione giusta. Tuttavia, come la posizione del dado che chiamiamo ‘promossa’ non è costitutiva della finale ‘restare diritto’, così le cose ‘promosse’ sono sì passaggi in vista di un fine, ma non sono [III,32,10] costitutivi della sua intrinseca natura.

SVF III, 131

Stobeo ‘Eclogae’ II, 75, 1 W. <Gli Stoici> affermano che vi è differenza tra ‘ciò ch’è possibile oggetto di scelta’ e ‘ciò che può essere preso, se offerto’. Infatti, ‘ciò ch’è possibile oggetto di scelta’ è motore di un impulso avente il suo fine in se medesimo, mentre ‘ciò che può essere preso, se offerto’ è ciò che selezioniamo per noi razionalmente. Di quanto differisce ‘ciò ch’è possibile oggetto di scelta’ da ‘ciò che può essere preso, se offerto’, di tanto differisce ‘ciò che può essere scelto di per sé’ da ‘ciò che può di per sé essere preso, se offerto’ e, in generale, il bene [III,32,15] da ciò che ha un valore.

SVF III, 132

Cicerone ‘De finibus’ IV, 39. Gli Stoici vogliono che l’impulso naturale, che chiamano ὁρμή, l’atto doveroso e la stessa virtù siano cose secondo natura. Ma quando vogliono pervenire al sommo bene, essi sorvolano su tutto ciò e ci lasciano con due compiti [III,32,20] da svolgere invece di uno solo: cose da assumere e cose da richiedersi, invece di includere entrambi i compiti nel raggiungimento dell’unico fine.

SVF III, 133

Stobeo ‘Eclogae’ II, 80, 14 W. Inoltre, alcuni degli indifferenti hanno più valore, altri meno; alcuni sono ‘di per sé’, altri sono ‘fattitivi’; alcuni sono ‘promossi’, altri sono ‘ricusati’ e altri ancora non fanno parte né degli uni né degli altri. Promossi [III,32,25] sono quegli indifferenti che hanno molto valore, per quanto possano averlo gli indifferenti. Ricusati sono, similmente, quegli indifferenti che hanno molto disvalore. Né promossi né ricusati sono quegli indifferenti che hanno né molto valore né molto disvalore.

SVF III, 134

Cicerone ‘De finibus’ III, 56. Le cose che chiamiamo promosse, in parte sono promosse di per se stesse, in parte per gli effetti che producono, [III,32,30] e in parte per entrambe le ragioni. Per se stesse: come un certo atteggiamento della bocca e del volto, un modo di stare o di muoversi tali che in essi c’è qualcosa da promuoversi e qualcosa da ricusarsi; per gli effetti che producono: come il denaro; per entrambe le ragioni: come l’integrità dei sensi e la buona salute.

SVF III, 135

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 107. Degli indifferenti promossi, alcuni [III,32,35] sono promossi di per sé, alcuni a motivo d’altro e alcuni sia di per sé che a motivo d’altro. Promossi di per sé sono: doti naturali da purosangue, capacità di profitto morale e simili. Promossi a motivo d’altro: ricchezza di denaro, nobiltà di stirpe e simili. Promossi di per sé e a motivo d’altro: potenza del corpo, vigoria dei sensi, integrità fisica. <E sono promossi> di per sé perché sono indifferenti secondo natura, e <promossi> a motivo d’altro perché procacciano non poche utilità. Similmente stanno le cose, secondo il ragionamento opposto, per gli indifferenti ricusati.

SVF III, 136

Stobeo ‘Eclogae’ II, 80, 22. [III,32,40] Degli indifferenti promossi alcuni attengono all’animo, alcuni al corpo ed alcuni agli oggetti esterni. Quelli attinenti all’animo sono di questo genere: doti naturali da purosangue, capacità di profitto morale, memoria, acutezza d’intelletto, una costumanza per la quale si è capaci di persistere [III,33,1] negli atti doverosi, e quante arti possono maggiormente cooperare per una vita in armonia con la natura delle cose. Indifferenti promossi attinenti al corpo sono: salute, vigoria dei sensi e le doti a queste similari. Indifferenti promossi attinenti agli oggetti esterni sono: genitori, figlioli, un patrimonio proporzionato, l’accoglienza da parte degli uomini. [III,33,5] Degli indifferenti ricusati, quelli attinenti all’animo sono gli opposti dei predetti indifferenti promossi. Similmente, gli indifferenti ricusati attinenti al corpo e agli oggetti esterni sono i contrapposti dei predetti indifferenti promossi attinenti al corpo e agli oggetti esterni. Indifferenti né promossi né ricusati che attengono all’animo sono: rappresentazione, assenso e quant’altro è di questo genere. Indifferenti né promossi né ricusati che attengono al corpo sono: il candore [III,33,10] della pelle, il colore scuro o chiaro degli occhi, ogni piacere ed ogni dolore fisico e altro di questo genere. Indifferenti né promossi né ricusati che attengono agli oggetti esterni sono tutte quante le cose di poco conto e per nulla proficue che hanno un’utilità insignificante. Siccome l’animo è dominante sul corpo circa il vivere [III,33,15] secondo la natura delle cose, <gli Stoici> affermano che gli indifferenti promossi perché secondo natura e attinenti all’animo hanno maggior valore di quelli attinenti al corpo ed agli oggetti esterni. Per esempio, in vista della virtù le doti naturali da purosangue dell’animo sovrastano per importanza le doti naturali da purosangue del corpo, e similmente si può dire degli altri indifferenti.

SVF III, 137

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1048a. Nel [III,33,20] primo libro ‘Sui beni’, in un certo modo <Crisippo> ne conviene e concede il punto a coloro che vogliono chiamare ‘beni’ gli ‘indifferenti promossi’ e ‘mali’ i loro opposti, con queste parole: “Se uno vuole, in conformità a siffatte diversificazioni linguistiche, chiamare ‘bene’ un ‘indifferente promosso’ e chiamare ‘male’ un ‘indifferente ricusato’, una volta che abbia portato la faccenda su questo terreno e non vada altrimenti errando,<può procedere> [III,33,25] a patto di non cadere in errore nei significati e, per il resto, di avere di mira la consuetudine in fatto di terminologia”.

SVF III, 138

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1047e. Ma Crisippo ha reso la faccenda ancora più intricata. Talora, infatti, dice: “Sono pazzi coloro che tengono in nessun conto [III,33,30] la ricchezza di denaro, la salute, l’assenza di dolore, l’interezza e l’integrità del corpo e non s’attengono a siffatti obiettivi”. Talaltra, citando il verso di Esiodo

‘Lavora, Perse, prosapia divina’

ha esclamato che è pazzia ammonire l’opposto

[III,33,35] ‘Non lavorare, Perse, prosapia divina’.

SVF III, 139

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1041e. Nel primo libro <dei ‘Discorsi esortativi’, Crisippo> dice: “Questo ragionamento estirpa dall’uomo tutto il resto, come se esso [III,34,1] fosse nulla in relazione a noi e non cooperasse affatto alla felicità”.

[2] p. 1048a. Così, dopo avere avvicinato in questo passo l’indifferente promosso al bene ed averli mescolati insieme, in altri luoghi dice [III,34,5] di nuovo: “Questi indifferenti promossi sono assolutamente nulla in relazione a noi, e anzi la ragione ci spicca e ci distoglie da tutte le cose di questo genere”. Questo, infatti, ha scritto nel primo libro dei ‘Discorsi esortativi’.

[3] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1060e. Se, come ha scritto Crisippo [III,34,10] nel primo libro dei ‘Discorsi esortativi’, soltanto nel vivere secondo virtù consiste il vivere felicemente; allora “tutto il resto”, egli dice, “è nulla per noi e non coopera al raggiungimento di questo scopo”.

§ 4. Indifferenti secondo natura e indifferenti contro natura

Frammenti n. 140-146

SVF III, 140

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 79, 18 W. Inoltre alcuni indifferenti sono secondo natura, altri [III,34,15] contro natura e altri ancora né contro natura né secondo natura. Secondo natura sono indifferenti di questo genere: salute, potenza del corpo, integrità degli organi di senso e cose similari. Contro natura sono indifferenti di questo genere: malattia, debolezza, una storpiatura e cose del genere. Né contro natura né secondo natura: una condizione d’animo e di corpo per la quale l’animo è ricettivo delle rappresentazioni false; il corpo è ricettivo di [III,34,20] ferite e storpiature, e cose simili. Gli Stoici affermano che il discorso a questo riguardo va fatto a partire dalla definizione di cos’è primariamente secondo natura e di cos’è primariamente contro natura, giacché i termini ‘differente’ e ‘indifferente’ valgono per quel che si dice in relazione a qualcosa. Pertanto, essi dicono, quando noi affermiamo che le cose attinenti al corpo e gli oggetti esterni sono indifferenti, intendiamo dire che esse sono indifferenti riguardo al vivere decorosamente, nel quale consiste il vivere felicemente; e non intendiamo dire,[III,34,25] per Zeus, che esse siano indifferenti riguardo all’essere secondo natura o riguardo al nostro impulso ed alla nostra repulsione verso di esse.

SVF III, 141

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 82, 11 W. Degli indifferenti secondo natura, alcuni sono secondo natura ‘primariamente’; alcuni sono secondo natura ‘per partecipazione’. ‘Primariamente’ secondo natura sono gli stati di moto o di quiete che si verificano in conformità alle ragioni seminali. Per esempio: integrità fisica, salute, sensazione (intendo dire l’apprensione certa) e [III,34,30] la potenza del corpo. Sono invece secondo natura ‘per partecipazione’ tutte quelle cose che partecipano degli stati di moto o di quiete in conformità alle ragioni seminali. Per esempio: una mano integra, corpo sano e sensazioni non storpiate. Similmente si può dire, secondo un discorso analogo, per gli indifferenti che sono contro natura.

SVF III, 142

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 82, 20 W. Tutte le cose secondo natura sono, se offerte, prendibili; e tutte le cose contro natura, anche se offerte, sono da non prendersi. Delle cose secondo natura [III,34,35] alcune, se offerte, sono ‘prendibili di per sé’; altre invece, se offerte, sono ‘prendibili a motivo d’altre’. Se offerte, sono ‘prendibili di per sé’ tutte quelle cose che sono motori di impulso verso se stesse come scopi o verso l’attenersi ad esse. Per esempio: salute, vigoria dei sensi, assenza di dolore e avvenenza del corpo. Se offerte, sono invece ‘prendibili a motivo d’altre’ e dunque ‘fattitive’, tutte quelle cose secondo natura che [III,35,1] sono motori di impulso in un modo riconducibile ad altre e non a se stesse come scopi. Per esempio: ricchezza di denaro, reputazione e cose simili a queste. Similarmente, anche delle cose contro natura alcune sono, se offerte, da non prendersi di per sé; mentre alcune, se offerte, sono tali per essere fattitive di cose che sono di per sé da non prendersi.

SVF III, 143

Cicerone ‘De finibus’ III, 20. Gli Stoici chiamano ‘preferibile’ […] ciò che è esso stesso secondo natura oppure che fa sì che qualcosa sia degno d’essere scelto [III,35,5] poiché dotato di valore, che essi chiamano ἀξία, e di contro chiamano ‘non preferibile’ ciò che è l’opposto di quanto detto.

SVF III, 144

Epitteto ‘Diatribe’ I, 4, 27-29. Giacché se uno dovesse essere ingannato per imparare che degli oggetti esterni ed aproairetici nessuno è per noi, io disporrei [III,35,10] questo inganno, grazie al quale potrei poi io vivere con serenità e dominio dello sconcerto, <e voi vedervi quel che volete>. Che cosa ci procura dunque Crisippo? Egli dice: “Affinché tu riconosca che non è falso ciò da cui nascono serenità e dominio sulle passioni, prendi tutti i miei libri e riconoscerai come sia vero ed in armonia con la natura delle cose quanto mi fa capace di dominare le passioni”.

SVF III, 145

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 167, 13 Bruns. Inoltre, [III,35,15] le cose appropriate, promosse, profittevoli, dotate di valore, perché hanno queste denominazioni se non cooperano affatto alla felicità? Ogni indifferente promosso è stato promosso in vista di qualcosa e per il fatto di essere portatore ad un obiettivo piuttosto che ad un altro. Per questo si dice anche che è stato promosso in vista del sommo bene, ed è manifesto che la loro promozione coopera alla felicità. Se poi non coopera alla felicità [III,35,20] ma alla vita secondo natura, allora merita chiedere <agli Stoici> se la vita secondo natura sia un bene oppure non sia un bene, ma anch’essa una cosa appropriata e promossa oppure allotria e ricusata o una cosa che assolutamente non propende né verso questo né verso quello. Ma a queste domande non è possibile avere risposta. Certo essi diranno che non è un male. Se, dunque, è un bene [.…] non sarà un bene soltanto [III,35,25] il bello, ma tale sarà anche la vita secondo natura.

SVF III, 146

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1060c. <Gli Stoici> legittimano come ‘indifferenti’ cose che sono secondo natura, e ritengono salute, benessere, avvenenza, potenza del corpo cose che possono essere non scelte; ed essere né giovevoli, né vantaggiose, né completive della nostra perfezione secondo natura. E ritengono che anche gli opposti come [III,35,30] storpiature, sofferenze, laidezze, malattie possono essere non fuggiti ed essere non dannosi. Tutte cose delle quali proprio loro dicono che verso le une la natura ci estrania e verso le altre la natura ci imparenta. E la cosa più grande è che la natura ci estrania e ci imparenta ad esse a tal punto che coloro i quali non centrano ciò cui la natura ci imparenta e incappano in ciò da cui la natura ci estrania, escono fuori dalla vita a ragion veduta e rinunciano ad essa.

§ 5. Sul retto modo di valutare ciascun indifferente

Frammenti n. 147-168

SVF III, 147

Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ I, p. 43 Ald. [III,35,35] [….] E se la salute è un bene oppure se non lo è, come dice Crisippo.

SVF III, 148

Pseudo-Plutarco ‘De nobilitate’ cp. 17. Ma tralasciamo Crisippo, il quale non una volta sola è in opposizione con se stesso, come nel primo libro [III,36,1] ‘Sui beni’ e in quello ‘Sulla retorica’; dove non lotta contro chi pone la salute nel novero dei beni; e in quello ‘Sulle cose che possono essere scelte per se stesse’, dove non priva della taccia di pazzia coloro che spregiano queste cose.

SVF III, 149

Teodoreto ‘Graec. affect. cur.’ XI, 15, p. 395 Canivet. Invece gli Stoici si votarono, di rimando, ad opinioni opposte [III,36,5] a queste, giacché definirono ‘sommo bene’ il vivere in modo conseguente alla natura e sostennero che l’animo non riceve giovamento né danno dal corpo, poiché la salute non costringe con violenza l’animo che così non decide alla virtù; né la malattia tira l’animo in basso, al vizio, contro la sua intelligenza. Dicevano perciò che salute e malattia sono cose ‘indifferenti’. Essi avevano poi un parere davvero audace, quando affermavano che identica è la virtù [III,36,10] dell’uomo e quella di Dio.

SVF III, 150

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 5, p. 572 Pott. Merita poi stupore l’opinione degli Stoici, i quali dicevano che l’animo non è disposto dal corpo né verso il vizio ad opera della malattia, né verso la virtù ad opera della salute. Essi affermavano, invece, che entrambe queste cose sono ‘indifferenti’.

SVF III, 151

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXVII, 12. Ciò che è bene fa uomini buoni. [III,36,15] Infatti anche nell’arte musicale il buon pezzo fa il musicista. Invece gli eventi fortuiti non fanno il galantuomo: dunque non sono beni.

[2] 15. Ciò che tocca all’uomo più spregevole e vizioso non è certo un bene. L’opulenza tocca anche a lenoni e lanisti: [III,36,20] dunque non è un bene.

[3] 22. Un bene non nasce da un male. La ricchezza di denaro nasce anche dall’avarizia. Dunque, la ricchezza di denaro non è un bene.

[4] 28. Ciò che, mentre vogliamo conseguirlo, ci fa incappare in molti mali, non è un bene. Ma noi, mentre vogliamo conseguire la ricchezza di denaro, incappiamo in molti mali. [III,36,25] Dunque, quella ricchezza non è un bene.

SVF III, 152

Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ II, p. 107 Ald. Se così stanno le cose, bene reputerebbero gli Stoici quando dicono: “Ciò che accade attraverso un male non può essere un bene. La ricchezza di denaro proviene anche dal lenocinio, che è un male. Pertanto la ricchezza di denaro non è un bene”.

SVF III, 153

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1043e. [III,36,30] Eppure <Crisippo> sovente loda questi versi fino a diventare molesto:

‘Peraltro di che han bisogno i mortali salvo queste due cose sole:

del grano di Demetra e dell’acqua da bere?’

E nei libri ‘Sulla natura’ afferma: “Quand’anche il sapiente perdesse le più grandi [III,36,35] sostanze, reputerebbe d’avere buttato via una dracma”.

[2] p. 1048b. E nel terzo libro ‘Sulla natura’ <Crisippo> dice che certi regnanti e certe persone ricche di denaro sono chiamate beate, come se si chiamassero beati coloro che usano pitali d’oro e frange dorate. Per il virtuoso, invece, [III,36,40] perdere le sostanze è come perdere una dracma; e l’ammalarsi è come un intoppo.

[3] ‘De communibus notitiis’ p. 1069c. […] delle cose futili e [III,37,1] indifferenti. Giacché siffatti sono gli indifferenti secondo natura e ancor più gli oggetti esterni; se appunto <gli Stoici> paragonano la più grande ricchezza di denaro a frange dorate e pitali d’oro e, quando loro capiti, per Zeus, a fiaschette.

SVF III, 154

Cicerone ‘De finibus’ III, 17. La maggior parte degli Stoici ritiene [III,37,5] che il piacere non sia da porsi fra le pulsioni naturali primarie.

SVF III, 155

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 73. Per esempio, Epicuro afferma che il piacere della carne è un bene; chi dice “Possa io essere pazzo piuttosto che godere nella carne” afferma che è un male; gli Stoici che è un indifferente e un non promosso; Cleante nega che esso sia secondo natura, al modo che non è secondo natura una [III,37,10] spazzola, e che abbia valore nella vita; Archedemo che è secondo natura come i peli sotto l’ascella, e che non ha valore; Panezio che c’è qualche piacere della carne secondo natura e qualche altro contro natura.

SVF III, 156

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 103. Che il piacere della carne non sia un bene, lo affermano anche Ecatone nel libro ‘Sui beni’ e Crisippo nei libri ‘Sul [III,37,15] piacere fisico’. Vi sono, infatti, anche piaceri della carne vergognosi, e nulla di vergognoso è un bene.

SVF III, 157

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1040d. Nei libri contro Platone (ad esempio ‘La giustizia’), mentre lo accusa di far mostra di lasciare la salute nel novero dei beni, <Crisippo> afferma: “Non soltanto la giustizia, ma sono abolite anche la magnanimità, [III,37,20] la temperanza e tutte le altre virtù se lasceremo nel novero dei beni il piacere della carne o la salute o qualunque altra cosa non bella”.

SVF III, 158

Cicerone ‘De finibus’ I, 39. Ad Atene, come sentivo raccontare da mio padre quand’era in vena di irridere con garbata arguzia gli Stoici, c’è nel Ceramico una statua di Crisippo seduto e con una mano protesa. [III,37,25] Sul significato di quella mano protesa, mio padre si dilettava ad avere con Crisippo questa discussioncella: “La tua mano, atteggiata com’è ora, desidera forse qualcosa? No, nulla. Ma se il piacere fosse un bene, lo desidererebbe? Credo di sì. Dunque il piacere non è un bene”. […] Circa la prima risposta, caro Crisippo, sono d’accordo con te [III,37,30] che la mano protesa non desidera nulla. Ma <poiché, come dice Epicuro, bene è non il piacere ma l’assenza di dolore> non sono d’accordo con la tua seconda risposta: cioè che se il piacere fosse un bene sarebbe da desiderarsi.

SVF III, 159

Cicerone ‘De finibus’ III, 57. Circa la buona fama, (ciò che essi chiamano εὐδοξία, mi sembra più esatto tradurlo con ‘buona fama’ che con ‘gloria’) Crisippo e Diogene <di Babilonia> dicevano che per la buona fama non varrebbe la pena di muovere neppure un dito [III,37,35] se non per il vantaggio che se ne trae: e su questo punto sono assolutamente d’accordo. Invece i loro successori, incapaci di fare fronte agli attacchi di Carneade, dissero che quella che io ho chiamato buona fama sia un ‘indifferente promosso’ e quindi da assumersi come tale.

SVF III, 160

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CII, 5. [III,38,1] Le obiezioni che i dialettici muovono contro questa opinione [ossia che la rinomanza dopo la morte sia un bene] dovevano essere tenute distinte, e quindi furono messe da parte. Ora, poiché tu vuoi che si discuta di tutto, le esporrò tutte e poi le esaminerò una per una. [III,38,5] Tuttavia se non farò una premessa, sarà impossibile capire le mie confutazioni. E in che cosa consiste questa premessa? Alcuni corpi, come l’essere umano, sono continui. Altri invece sono composti: ad esempio una nave, una casa, insomma tutto ciò che risulta dalla composizione di parti diverse unite insieme. Altri corpi ancora sono fatti di parti distinte e i loro componenti restano separati, come ad esempio un esercito, un popolo, il Senato. [III,38,10] Ora, gli elementi di questi corpi coesistono in virtù di una legge o di una funzione, mentre per natura essi sono singoli e individui. Qual è il seguito di questa premessa? Noi reputiamo che nessun bene sia costituito di parti distinte. [III,38,15] Infatti un solo bene deve essere contenuto e sorretto da un solo pneuma: unico il bene, unica la parte egemone. Questo, basterebbe volerlo, si dimostrerebbe da sé. Ora, però, è necessario darlo per scontato, perché le nostre armi sono usate dai dialettici contro di noi. Essi dicono: “Voi sostenete che nessun bene deriva da elementi distinti. Eppure proprio la rinomanza è l’opinione favorevole dei galantuomini. [III,38,20] Ora, come la fama non si riduce alle parole di apprezzamento di un solo uomo, né l’infamia alla disistima di uno solo, così neppure la rinomanza può consistere nel favore di un unico virtuoso: perché ci sia rinomanza c’è bisogno del consenso di parecchi uomini eccellenti e per bene. Pertanto, siccome deriva dal giudizio di più persone, e quindi di elementi distinti, essa non è un bene. Inoltre, si aggiunge, la rinomanza è la lode resa dai galantuomini ad un galantuomo. Essa ha la forma di un discorso, [III,38,25] e il discorso è un suono dotato di significato. Ora, quest’ultimo, quand’anche provenga da uomini virtuosi, non è un bene […] Dunque la rinomanza non è un bene. Infine, diteci se essa è un bene per chi loda o per chi è lodato: se dite che è un bene per chi è lodato, dite una cosa ridicola, come se sosteneste che la buona salute di un altro è un mio bene. Ma lodare chi ne è degno è un’azione onorevole, sicché la lode è un bene di chi loda, [III,38,30] ossia di chi agisce, non nostro cioè di noi che riceviamo la lode. E questa era la questione in discussione”.

[2] 20. A questi cavillatori risponderemo abbondantemente. Ma il nostro scopo non deve essere quello di perderci in argute disquisizioni [III,38,35] e intanto trascinare la filosofia dall’alto della sua maestà in queste miserie. Non è forse assai meglio seguire una via libera e dritta piuttosto che crearsi vie tortuose da ripercorrere fra mille difficoltà? Dispute siffatte non sono altro che giochi di gente che abilmente cerca di trarsi in inganno.

SVF III, 161

Scolia ad Platonis ‘Leges’, I, 625a Greene [III,38,40] Anche gli Stoici platonizzano quando affermano che ‘gloria’ è ciò che giustamente sopravviene ai virtuosi, mentre ‘fama’ è la reputazione che sopravviene ai non virtuosi.

SVF III, 162

‘Commento a Lucano’ Libro II, 240 p. 66 Us. ‘Temendo per tutti, sicuro di sé’. Così secondo gli Stoici, i quali dicono che la vita [III,38,45] vale meno dell’onore e che è bello spendere per la gloria ogni tua dote naturale. Così Virgilio: ‘vogliono dare la vita in cambio dell’onore’.

SVF III, 163

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 503 Pott. [III,39,1] Inoltre, per gli Stoici il matrimonio e l’allevamento dei bambini sono degli ‘indifferenti’.

SVF III, 164

Teodoreto ‘Graec. affect. cur.’ XII, 75, p. 440 Canivet. Gli Stoici percorsero una via mediana, giacché coniugarono il matrimonio e la [III,39,5] generazione di bambini agli ‘indifferenti’.

SVF III, 165

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘Quaestiones’ IV, 1, p. 119, 23 Bruns. Come mai non è incongruente del pari affermare che noi siamo imparentati dalla natura al vivere ed a fare ogni cosa in vista della nostra salvezza, e del pari non affermare che la natura ci imparenta a quel bene?

[2] p. 118, 23 Bruns. [III,39,10] “Se navigare bene è un bene e navigare male è un male, allora navigare è né un bene né un male. E se vivere bene è un bene e vivere male è un male, allora vivere è né un bene né un male”. (O non è vero che le forze di proposizioni contrapposte non differiscono e si equivalgono?)

SVF III, 166

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXV, 30. Ciò che è male, nuoce. [III,39,15] Ciò che nuoce ci rende peggiori. Il dolore e la povertà non ci rendono peggiori: dunque non sono mali.

SVF III, 167

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1039e-f. In questi stessi libri (i ‘Discorsi esortativi’) una volta, facendo le lodi di [III,39,20]Antistene, <Crisippo> mostra che bisogna acquisire per sé o una buona mente o un cappio; e cita il verso di Tirteo:

‘Sospingersi ai confini della virtù prima che della morte’.

Un’altra volta, rettificando Teognide, afferma che non si dovrebbe dire:

‘Per fuggire la povertà di denaro è d’uopo’

[III,39,25] ma piuttosto:

‘Per fuggire il vizio è d’uopo anche gettarsi nei profondi

abissi del mare e da rupi scoscese, o Cirno’.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1069d. E quindi <gli Stoici> ritengono Teognide [III,39,30] una persona infame e piccina piccina perché afferma:

‘Per fuggire la povertà di denaro è d’uopo anche gettarsi

nello smisurato mare e da rupi scoscese, o Cirno’

e fa così il codardo davanti alla povertà di denaro, che è invece un ‘indifferente’.

SVF III, 168

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ XII, 5, 4. “Se l’asprezza del dolore”, disse quello, “ è tale da costringere l’uomo a gemere contro la propria volontà, […] perché gli [III,39,35] Stoici chiamano il dolore un indifferente e non un male? E poi perché lo Stoico può essere costretto, o il dolore può costringerlo, a qualcosa, se gli Stoici dicono che il dolore non costringe affatto e che il saggio non può essere costretto?

ETHICA IV.

Sull’impulso e sulla selezione

§ 1. La nozione di impulso

Frammenti n. 169-177

SVF III, 169

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 86, 17 W. <Gli Stoici> affermano che motore dell’impulso altro non è che [III,40,5] una rappresentazione impulsiva e senza riflessione di quanto è doveroso, e che l’impulso è pulsione dell’animo a qualcosa, secondo il genere. Di esso, in specifico, dicono che si conosce sia l’impulso che nasce nelle creature logiche che quello che nasce nelle creature prive di ragione, alle quali non sono stati dati nomi distinti giacché il desiderio non è un impulso logico, ma una specie di impulso logico. Si [III,40,10] definirebbe invece convenientemente l’impulso logico dicendo che è pulsione dell’intelletto a qualcosa di pratico. A questo impulso si contrappone la repulsione, in quanto pulsione dell’intelletto che si distoglie da qualcosa di pratico. In particolare <gli Stoici> chiamano impulso anche l’impeto, che è una specie di impulso pratico; e affermano che l’impeto è pulsione dell’intelletto a qualcosa di futuro. Sicché, finora, si può parlare dell’impulso in quattro sensi e in due della repulsione. Se s’addiziona anche [III,40,15] l’abituale postura impulsiva dell’animo, che in particolare essi chiamano anche impulso, e grazie alla quale ci avviene di impellere, i sensi diventano cinque.

[2] Seneca ‘Epistulae morales’ CXIII, 18. Ogni animale razionale nulla fa se prima non sollecitato dalla rappresentazione di qualcosa. Di poi ha un impulso a cui, infine, conferma il suo assenso. Ora spiego cos’è l’assenso: devo camminare; ebbene cammino, [III,40,20] dopo essermi prospettato questa decisione e dopo averla approvata.

SVF III, 170

Origene ‘Comm. in Matth.’ III, p. 446, Delarue. Il che è avvenuto anche in altri casi, come hanno osservato gli esperti nell’apposizione di molti nomi. Essi affermano anche che ‘impulso’ è il genere supremo di specie, come nel caso di repulsione e impulso; e dicono che il termine di specie è omonimo [III,40,25] a quello di genere perché il significato di impulso è assunto per distinzione, contrapposta a quello di repulsione.

SVF III, 171

Stobeo ‘Eclogae’ II, 88, 1 W. Tutti gli impulsi sono assensi, e gli impulsi pratici includono anche il movente. Ora, di altro sono gli assensi, verso altro muovono gli impulsi. Gli assensi sono assensi a degli assiomi, mentre gli [III,40,30] impulsi muovono verso dei predicati ossia cose in qualche modo incluse negli assiomi, ai quali vanno gli assensi.

SVF III, 172

Galeno ‘De animi peccat. dignosc.’ 1, V, 58 K. [III,41,1] Inizio ordunque dal migliore dei principi […] che cosa si chiama ‘errore’, ragionando sopra ciò dopo avere mostrato come tutti i Greci siano soliti utilizzare questo termine. Essi infatti lo utilizzano alcune volte per indicare cose che avvengono non esattamente secondo le determinazioni prese, così che il termine riguarda soltanto la parte [III,41,5]logica dell’animo; altre volte lo utilizzano invece genericamente, così che esso coinvolge anche la facoltà irrazionale dell’animo […segue una grande lacuna nel testo…] <Cosa sia> l’assenso ad un errore è concordemente ammesso da tutti; [III,41,10]su cosa sia, invece, assenso debole non è così; giacché ad alcuni sembra meglio che all’assenso debole spetti un posto intermedio tra la virtù e il vizio. Costoro chiamano debole l’assenso qualora non si sia ancora noi stessi persuasi che questa certa opinione sia vera com’è vero, per fare un esempio a caso, che abbiamo cinque dita per mano e che due per due fa quattro. E forse, circa i veri errori di una persona anziana che [III,41,15] per la vita intera ha avuto agio di studiare, troverai proprio l’assentire debolmente a qualcuna di quelle cose che hanno invece una dimostrazione scientifica. Poiché è indubbio che la scienza del geometra circa gli asserti mostrati veri dagli ‘Elementi’ di Euclide è tale quale è certo il sapere dei più che due per due fa quattro […] Se, pertanto, qualcosa sarà un poco in disputa e l’assenso, al quale alcuni danno il nome di apprensione certa, a questi asserti non sarà saldo, allora si potrebbe convenire che questo è ‘errore’, come manifestamente [III,41,20] lo sarebbe quello di un geometra. Sono dunque consistentemente depravate le opinioni ed è falso, precipitoso o debole, l’assenso di colui che nel corso della vita aberra circa beni e mali, circa conoscimento, patrimonio ed esilio. Se noi infatti assentiremo ad una falsa opinione sui beni e sui mali, il pericolo a questo riguardo è non piccolo e [III,41,25] grandissimo è l’errore.

SVF III, 173

Stobeo ‘Eclogae’ II, 87, 14 W. Esistono più specie di impulso pratico, tra le quali anche queste: proposito, progetto, preparazione, intrapresa, scelta, proairesi, decisione razionale, volizione. Essi dicono dunque che proposito sia [III,41,30] la segnalazione di una realizzazione. Progetto, l’impulso di un impulso. Preparazione, l’azione di un’azione. Intrapresa, l’impulso a qualcosa che è già sotto mano. Scelta, la decisione dopo raffronto. Proairesi, la scelta di una scelta. Decisione razionale, il desiderio ragionevole. Volizione, la decisione intimamente deliberata.

SVF III, 174

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1045e. Nel [III,41,35] sesto libro ‘Sul doveroso’, dopo avere affermato che: “Vi sono faccende che non meritano davvero molta trattazione né attenzione”, <Crisippo> crede che noi si debba lasciarci andare all’inclinazione come capita dell’intelletto, affidando la scelta in merito alla sorte, e dice: “Per esempio, se di coloro che valutano queste certe due dracme alcuni dicessero che buona è questa e altri invece dicessero che buona è quella, e se [III,41,40] bisognasse prendere una delle due; allora, tralasciando di [III,42,1] ricercare oltre, noi prenderemo quella che capita affidando la scelta alla sorte secondo una ragione non evidente, anche a rischio di prendere proprio la dracma cattiva”.

SVF III, 175

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1037f. E [III,42,5] l’impulso, secondo <Crisippo> è la ragione dell’uomo in quanto imperativa del fare, come ha scritto in ‘Sulla legge’. Pertanto, anche la repulsione è ragione in quanto proibitiva, e anche l’avversione lo è. La cautela, poi, è avversione ragionevole. Quindi la cautela è ragione in quanto proibitiva di qualcosa al sapiente, giacché l’essere cauti è proprio dei sapienti e non [III,42,10] degli insipienti. Se, dunque, la ragione del sapiente è una cosa e la legge è un’altra, i sapienti hanno cautela quando la ragione sia in conflitto con la legge. Se, invece, la legge è non altro che la ragione del sapiente, allora si trova che la legge stessa proibisce ai sapienti di fare ciò che essi sono cauti a fare.

SVF III, 176

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 7, p. 853 Pott. Le cose alle quali sono rivolti desideri, [III,42,15] smanie e – per dirla in complesso – i nostri impulsi, sono le stesse alle quali sono rivolte anche le nostre preghiere. Perciò nessuno smania per una bibita, ma di bere una reale bevanda; né invero si smania per un’astratta eredità, ma di ereditare in concreto; e così non per una generica conoscenza, ma di conoscere sperimentalmente; non per la retta politica, ma di governare nei fatti. Dunque ciò per cui preghiamo è ciò che domandiamo; e ciò che domandiamo è ciò per cui smaniamo. Pregare e [III,42,20] desiderare nascono dunque in consonanza, al fine di possedere materialmente i beni e i giovamenti connessi.

SVF III, 177

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1057a. Nelle polemiche contro gli Accademici, sia per Crisippo che per Antipatro la maggior disputa su cos’era? Sulla possibilità [III,42,25]di: “Effettuare un’azione o impellere a qualcosa essendovi inassenzienti; e sul fatto che raccontano favole e fanno vuote ipotesi quanti stimano che, data una rappresentazione appropriata, vi sia subito l’impulso senza che ad essa noi abbiamo ceduto il passo o abbiamo dato l’assenso”. E in appresso Crisippo dice: “La divinità infonde delle rappresentazioni fallaci, e anche il sapiente lo fa, senza che vi sia il bisogno di dare, da parte nostra, assenso o di cedere ad esse il passo, ma soltanto [III,42,30] di effettuare qualcosa o di impellere a quel che appare. Noi, invece, in quanto siamo insipienti, a causa della nostra debolezza diamo il nostro assenso a siffatte rappresentazioni”.

[2] p. 1057b. Chi, sia esso dio oppure il sapiente, non ha bisogno di assensi ma soltanto di azioni da parte di coloro ai quali dà le rappresentazioni, sa che per agire bastano le rappresentazioni e che gli assensi sono ridondanti. [III,42,35] Sicché se, pur conoscendo che ad un impulso all’azione non fa riscontro una rappresentazione senza assenso, egli instilla rappresentazioni fallaci e persuasive, è causa volontaria del comportamento precipitoso e dell’aberrare di coloro che assentono a rappresentazioni non catalettiche.

 [III,43,1] § 2. L’impulso primario e l’appropriazione primaria

Frammenti n. 178-189

SVF III, 178

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 85. <Gli Stoici> affermano che il primo impulso che la creatura ha è quello di serbarsi in vita, poiché la natura l’ha imparentata ad esso fin dal principio. Ciò è in accordo con quanto sostiene Crisippo nel primo libro ‘Sui sommi beni’ [III,43,5] quando dice che la prima cosa appropriata ad ogni creatura è la sua propria sussistenza e la consapevolezza di essa. Sarebbe infatti inverosimile che la natura rendesse la creatura estranea a se stessa, e che la natura che l’ha generata la tenesse come estranea e non come familiare. Resta quindi solo da dire che la natura organizza la creatura affinché essa s’appropri di se stessa. In questo modo, infatti, essa respinge da sé ciò che la danneggia ed ammette per sé ciò che le è appropriato. Essi, poi, dichiarano falso ciò che alcuni sostengono, ossia che [III,43,10] il primo impulso degli animali sia diretto verso il piacere della carne. Essi affermano, invece, che il piacere della carne è una risultante, se lo è, qualora la natura, dopo avere ricercato le cose acconce alla sussistenza, assapori se stessa come tale; nel qual modo gli animali sono esilarati ed i vegetali fioriscono. Essi affermano poi che la natura che governa sui vegetali non è affatto diversa da quella che governa sugli animali, quando amministra i vegetali prescindendo da impulso e [III,43,15] sensazione e quando anche in noi alcuni fenomeni avvengono in modo vegetativo. Ma poiché agli animali è sopravvenuto in più l’impulso, adoperando il quale essi procedono verso gli scopi loro appropriati, ciò ch’è secondo natura per gli animali coincide col governarsi secondo l’impulso. E dal momento che, per un più perfetto reggimento, è stata data alle creature logiche la ragione, vivere rettamente secondo ragione diventa per queste ciò ch’è secondo la natura delle cose. [III,43,20] La ragione, infatti, sopravviene in esse quale artista dell’impulso.

SVF III, 179

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038b. Dunque, come mai <Crisippo> continua ad intronarci scrivendo in ogni libro di Fisica, per Zeus, e di Etica che: “Noi ci appropriamo di noi stessi appena nati, delle parti del nostro corpo e della nostra progenie”?

SVF III, 180

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 163, 14 Bruns. [III,43,25] Infatti la natura che ci ha dato l’animo ci ha dato anche il corpo, e ci ha imparentato alla perfezione e alla struttura quale deve essere dell’uno e dell’altro. Sicché colui che è defraudato della perfezione secondo natura o dell’uno o dell’altro non potrebbe vivere secondo natura (poiché per ‘secondo natura’ si intende ‘secondo il piano della natura’); e se non è così, allora[III,43,30] neppure si può vivere felicemente.

SVF III, 181

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ XII, 5, 7. “La natura delle cose tutte, disse <C. Tullo>, la natura che ci ha generato, inculcò e fece subito crescere in noi tra le pulsioni primarie con le quali siamo nati, l’amore e l’alto pregio di sé, così che nulla fosse a noi [III,43,35] più caro e più importante di noi stessi; e stabilì che questo fosse il fondamento su cui basare la perpetuità della stirpe umana, ossia che ciascuno di noi, non appena viene alla luce, provasse innanzitutto disposizione per quelle attività che gli antichi filosofi chiamavano ‘primarie per natura’, [III,44,1] le quali consistono nel perseguire tutte le comodità corporali e nell’aborrire tutti gli incomodi. In seguito, coll’avanzare dell’età, dai propri semi si svilupparono la ragione, la riflessione nel consigliarsi, la considerazione dell’integrità morale e della vera utilità, ed una più sottile ed approfondita scelta delle comodità e degli incomodi. [III,44,5] In questo modo emerse in tutto il suo splendore la dignità del bene morale; sicché, se un incomodo estrinseco ostasse alla sua conservazione o al suo ottenimento, di questo neppure si tiene conto; e si stima che null’altro sia veramente e interamente bene se non l’integrità morale, né qualcos’altro male se non ciò ch’è moralmente deforme. Decretarono quindi che tutte le restanti cose, in quanto entità intermedie [III,44,10] moralmente né integre né deformi, sono né bene né male; e però che esse vanno distinte e divise a seconda di quanto producono e delle relazioni che hanno, e le chiamarono indifferenti promossi e indifferenti respinti. Così il piacere e il dolore fisico, pur avendo pertinenza col fine stesso di vivere felicemente, sono relegati <dagli Stoici> fra le entità intermedie [III,44,15] e giudicati né beni né mali.

SVF III, 182

Cicerone ‘De finibus’ III, 16. Gli Stoici sono convinti […] che appena un essere vivente nasce (qui sta il punto di partenza) si concilia con se stesso, s’impegna alla conservazione di sé e del proprio stato, ama le cose che lo conservano in tale condizione e scaccia lontano la morte e tutto ciò che sembra avvicinarla. [III,44,20] Prova di ciò è il fatto che i piccoli, prima ancora d’aver fatto esperienza del piacere o del dolore, impellono a quanto è per loro salutare e rifiutano le cose opposte: il che non accadrebbe se essi non amassero il proprio essere e non temessero la morte. Né d’altra parte essi potrebbero provare impulso per qualcosa se non avessero percezione di sé ed amor di sé. Da ciò si capisce che la pulsione naturale primaria proviene [III,44,25] dall’amor di sé.

SVF III, 183

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 150, 25 Bruns. Che cosa sia oggetto dell’appropriazione primaria è stato tema di ricerca per i filosofi, e non tutti sono giunti alla medesima conclusione. Anzi, la differenza di opinioni tra quanti parlano dell’argomento è, circa l’oggetto dell’appetito primario, quasi pari a quella che si registra circa l’oggetto dell’appetito supremo. Dunque gli Stoici, [III,44,30] non tutti però, affermano che oggetto di appropriazione primaria della creatura è proprio se stessa (ciascuna creatura, infatti, appena nata si imparenta a se stessa, ed anche per l’uomo è così). Altri invece, reputando di parlare con più eleganza di loro e maggiore articolazione dell’argomento, sostengono che, appena nati, noi siamo imparentati alla sussistenza e alla conservazione di noi stessi.

SVF III, 184

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CXXI, 5. [III,44,35] Ci chiedevamo se tutti gli animali avessero il senso della propria complessione. Che ce l’abbiano appare evidente soprattutto da ciò: che essi muovono le membra con disinvoltura e speditezza, proprio come se fossero stati educati a tal fine.

[2] 10. La complessione, come voi la chiamate, è la parte egemonica dell’animo, la quale si atteggia in un certo modo verso il corpo.

[3] 14. [III,44,40] Voi sostenete, disse quello, che ogni animale per prima cosa si concilia con la sua propria complessione. Ora, la complessione dell’uomo è di natura razionale, e pertanto l’uomo si concilia a se stesso non in quanto animale ma in quanto essere razionale? L’uomo insomma ha caro se stesso grazie a quella parte per cui è uomo.

SVF III, 185

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 162, 29 Bruns. Giacché [III,44,45] dire che noi siamo imparentati a più cose e che però non fa per noi differenza alcuna il modo in cui esse stanno, equivale a fare affermazioni contraddittorie.

SVF III, 186

Cicerone ‘De finibus’ III, 23. Siccome tutti gli atti doverosi [III,45,1] prendono le mosse da pulsioni naturali primarie, è necessario che anche la saggezza prenda le mosse da esse. Ma al modo in cui succede spesso che se si è raccomandati a qualcuno, si finisce per dare più importanza a colui al quale si è stati raccomandati che a colui che ci ha raccomandato; così non c’è da stupirsi se noi, [III,45,5] dapprima raccomandati alla saggezza da quelle pulsioni naturali primarie, in seguito teniamo la saggezza più cara di quelle pulsioni che ci avevano indirizzato ad essa.

SVF III, 187

Cicerone ‘De finibus’ III, 17. Appare sufficientemente chiaro il motivo per cui noi amiamo quegli impulsi primari che assumiamo dalla natura. Infatti non c’è nessuno che, potendo scegliere, [III,45,10] non preferisca avere tutte le parti del corpo atte all’uso ed integre, piuttosto che menomate e deformi.

SVF III, 188

Cicerone ‘De finibus’ III, 20. Stabilite dunque le pulsioni naturali primarie per cui le cose secondo natura sono di per sé da assumersi e le contrarie da rigettarsi, il primo atto doveroso (così traduco il termine καθῆκον) è quello di conservarsi nello stato di natura, [III,45,15] e di poi di attenersi a ciò ch’è secondo natura ed di allontanare ciò che gli è contrario. Dopo il rinvenimento di tale scelta e tale rifiuto, viene la fase della selezione degli atti doverosi e la stabilizzazione di tale scelta nel tempo. Quando questa selezione avvenga costantemente in armonia con la natura, allora nell’individuo finalmente comincia a formarsi ed a diventare cosciente la nozione di ciò che davvero si può chiamare ‘il bene’. Prima di tutto viene dunque l’apparentamento dell’uomo con le cose secondo natura; ma non appena l’uomo acquisisce [III,45,20] l’intelligenza o meglio il concetto, che gli Stoici chiamano ἔννοιαν, e vede l’ordine, anzi per dir così, la concordia degli atti da compiere, dà molta più importanza a questi che agli impulsi che prima prediligeva, li raccoglie a lume di conoscenza e di ragione e stabilisce che qui è riposto quel sommo bene dell’uomo che è da lodarsi [III,45,25] e da richiedersi di per sé; il quale sta in ciò che gli Stoici chiamano ὁμολογία. Poiché dunque in essi sta il bene al quale tutto va riferito, esso stesso è integrità morale e gli atti moralmente integri sono opera unicamente degli uomini virtuosi. E quantunque il bene sorga in un secondo tempo, tuttavia esso solo è da richiedersi per il suo valore [III,45,30] intrinseco e per il suo pregio, mentre delle pulsioni naturali primarie nessuna è da richiedersi di per se stessa.

SVF III, 189

Cicerone ‘De finibus’ III, 17. Le cognizioni delle cose, che possiamo chiamare comprensioni o percezioni oppure, se questi termini non piacciono o non si capiscono, ‘concezioni’ (quelle che i Greci chiamano καταλήψεις) devono secondo noi essere acquisite di per sé, perché in un certo senso abbracciano e contengono la verità. Questo traspare [III,45,35] nei bambini piccoli, che vediamo provare soddisfazione quando scoprono qualcosa, pur se non torna loro di alcun vantaggio, col ragionamento. Per noi <Stoici> anche le arti sono da ricercarsi di per sé, sia perché contengono elementi degni d’essere assunti, sia perché constano di cognizioni [III,45,40] e contengono in sé un elemento fatto di ragione e metodo. Siamo invece alieni al falso assenso più che ad ogni altra cosa che sia ritenuta essere contro natura.

[III,46,1] § 3. La selezione

Frammenti n. 190-196

SVF III, 190

Cicerone ‘De finibus’ III, 31. Cosa potrebbe essere più ovvio del fatto che, se non ci è dato di distinguere le cose secondo natura [III,46,5] da quelle contro natura, ogni virtù risulta abolita?

SVF III, 191

Epitteto ‘Diatribe’ II, 6, 9-10. Per questo Crisippo dice bene: “Fino a che mi sarà dubbio il seguito, io sempre mi attengo ai giudizi più purosangue per centrare quanto è secondo la natura delle cose, giacché proprio dio mi ha fatto atto a selezionarli. Se appunto sapessi che ora mi è stato destinato [III,46,10] di ammalarmi, vi impellerei addirittura. Anche il piede, infatti, se avesse buonsenso, impellerebbe ad infangarsi”.

SVF III, 192

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 163, 4 Bruns. <Gli Stoici> infatti dicono: “Per il sapiente esistono cose promosse, che hanno valore, appropriate, attraenti”. Ma anche: “Se giacesse, da una parte, la virtù insieme a queste cose; e, dall’altra, [III,46,15] la virtù da sola; il sapiente non sceglierebbe mai la virtù separata, se gli fosse possibile prenderla insieme al resto”. Ma se è così, è manifesto che il sapiente avrà bisogno di queste cose.

SVF III, 193

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 164, 7 Bruns. Se, infatti, il patrimonio di cose selezionate fosse indifferente e non avesse per intento il sommo bene, allora [III,46,20] vuoto e matto affare sarebbe la loro selezione.

SVF III, 194

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 163, 32 Bruns. Inoltre, se secondo loro queste cose cadono sotto selezione da parte della virtù e la natura assume la virtù grazie alla loro selezione in quanto a noi appropriate e della reiezione di quelle contrapposte a queste; allora si devono selezionare beni attinenti al corpo [III,46,25] ed esterni e poi non esserne anche solleciti?

[2] ‘De anima libri mantissa’ p. 164, 32 Bruns. Quanto ai beni corporali e a quelli esterni, anch’essi affermano che sono in vista della virtù, affinché essa li selezioni per sé e se li procacci.

SVF III, 195

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1071a. Se dunque le cose per natura primarie sono non beni, ed invece lo sono la loro selezione razionale e [III,46,30] la nostra presa di possesso di esse, e che ciascuno faccia tutto ciò che può per centrare le cose per natura primarie, allora bisogna che tutte le nostre azioni facciano riferimento a quello scopo che è il centrare le cose per natura primarie. Non sarebbe infatti possibile avere il fine di centrarle se noi non le tenessimo come bersaglio e non le prendessimo di mira e qualora il sommo bene fosse diverso dalle cose alle quali le nostre azioni devono fare riferimento, ossia se avessimo di mira la loro selezione e non le cose per natura primarie in quanto tali. [III,46,35] Il sommo bene, insomma, è quello di selezionare e prendere saggiamente possesso delle cose per natura primarie, mentre invece le cose per natura primarie in quanto tali e il centrarle non è il sommo bene, ma una sorta di materiale soggiacente e dotato di un valore degno di selezione. Questa, io credo, è la formulazione con la quale, parlando e scrivendo, essi mostrano la differenza.

SVF III, 196

Frontone ‘Epistulae’ (ad M. Antoninum de eloquentia) p. 143 Naber. [III,47,1] Chi dubita che il saggio si distingue dall’insipiente precipuamente per capacità di riflessione e di scelta tra le cose, e per le opinioni che ha? Ad esempio, quando si possa optare tra ricchezza e povertà, benché entrambe siano né vizio né virtù, la scelta non mancherebbe tuttavia di essere lodevole o colpevole. [III,47,5] L’atto proprio e doveroso del saggio è quello di scegliere rettamente e non anteporre o posporre una cosa all’altra a casaccio. Se mi chiederai se io brami la buona salute, se fossi filosofo ti risponderei di no. Al saggio infatti non è lecito bramare o smaniare per qualcosa[III,47,10] cui ambirebbe invano, o che gli appaia in mano alla fortuna. Se poi fosse proprio necessario scegliere uno dei due, io sceglierei il piede veloce di Achille piuttosto che il piede infermo di Filottete.

ETHICA V.

Sulla virtù

§ 1. La nozione di virtù

Frammenti n. 197-213

SVF III, 197

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 89. La virtù è una disposizione d’animo [III,48,5] ammissibile con la ragione.

[2] VII, 90. Virtù è la perfezione di una cosa qualunque in generale, per esempio, quella di una statua; e può essere ateoretica, come la salute; oppure teorematica, come la saggezza.

SVF III, 198

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 34. La virtù è una disposizione stabile e conveniente dell’animo che rende degni di lode quanti l’hanno […] In modo [III,48,10] più conciso la virtù si può chiamare retta ragione.

SVF III, 199

‘Commento a Lucano’ p. 75 Us. Non c’è qui alcuna menzione della saggezza; ma, come ho detto, il termine ‘honestum’ significa la virtù in generale, la cui definizione è questa: ‘abitudine coerente di vita’; e se egli nomina altre virtù, queste possono per analogia significare anche quella. Infatti, chi ha la virtù in generale ha anche quelle specifiche [III,48,15] e chi ha quelle specifiche ha anche la virtù in generale.

SVF III, 200

Seneca ‘Epistulae morales’ XXXI, 8. Perché la virtù sia perfetta bisogna che le si accompagnino calma interiore e un tenore di vita consono ad essa. Il che non può accadere se manca la conoscenza della natura delle cose e l’arte grazie a cui si comprendono le cose umane e divine.

SVF III, 200a

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ LXXVI, 9. [III,48,20] Cos’ha l’uomo di ottimo? La ragione. Grazie ad essa sorpassa gli animali e segue gli dei. La perfezione della ragione è dunque il bene primario, mentre tutto il resto egli lo condivide con gli animali.

[2] 10. Cos’è proprio dell’uomo? La ragione, che quando è retta e perfetta dà all’uomo la pienezza della felicità. Perciò, se ogni cosa quando realizza perfettamente il suo bene specifico, è degna di lode [III,48,25] e raggiunge il suo fine naturale, e se il bene dell’uomo è la ragione, allora una volta che questi l’abbia pienamente realizzata è degno di lode ed ha raggiunto il suo fine naturale. Questa perfetta ragione si chiama virtù ed è onestà morale. Questo è il solo bene dell’uomo, perché uno solo è il suo bene.

SVF III, 201

Anonimo ‘In Aristot. Eth. Nicom.’ p. 128, 5 Heylbut [III,48,30] Bisogna sapere che anche prima degli Stoici esisteva questa opinione, che poneva le virtù nel dominio sulle passioni.

SVF III, 202

[1] Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ I, 56, I, p. 75, 6 Wendl. Questi <alberi> sono le virtù particolari, le [III,49,1] attività in armonia con esse, le azioni rette e quelle che i filosofi chiamano azioni doverose.

[2] I, 57. Alcune arti, infatti, sono teoretiche e non pratiche; per esempio, la geometria e l’astronomia. Alcune sono invece pratiche e non teoretiche; per esempio, la falegnameria, la metallurgia e quante sono dette meccaniche. La virtù, invece, è sia [III,49,5] teoretica che pratica. Ha del teorico nel momento in cui la via che porta ad essa è la filosofia attraverso le sue tre parti: logica, etica e fisica. Ma ha anche del pratico, giacché la virtù è arte della vita nella sua interezza, vita nella quale rientrano tutte quante le azioni. E seppure la virtù ha del teorico e del pratico, essa inoltre eccelle al massimo grado sia nell’uno che nell’altro. Infatti, la teoria della virtù è [III,49,10] bellissima ed ambìti sono la sua pratica e il suo uso.

SVF III, 203

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 58A Ed. Bas. Se infatti, come esplicitano gli Stoici, una ‘potenzialità’ è l’apportatrice di più casi effettuali; per esempio, la saggezza è apportatrice del saggio passeggiare e del saggio dialogare; allora saranno potenzialità, secondo siffatta definizione, anche quelle or ora chiamate [III,49,15] ‘impotenze’; giacché anche le imperizie sono apportatrici di più cadute in errore. Se poi, secondo un altro costituto stoico, s’affermasse che una ‘potenzialità’ è l’apportatrice di più casi effettuali la quale tiene soggette a sé le attività subordinate, ecco che le s’adatta la definizione di Plotino. Infatti il vizio, che secondo la definizione degli Stoici è un’impotenza, tiene soggette a sé le attività che gli attengono. Anche[III,49,20] le arti intermedie, pur cadendo fuori dal novero delle attività dagli effetti ben saldi, sono tuttavia tali che i loro effetti possono quel che possono, sicché le impotenze di quel genere rimangono incluse nella potenzialità propria della qualità di ciascuna arte intermedia.

SVF III, 204

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 167, 4 Bruns. Dire: “Come l’auletica può [III,49,25] rettamente utilizzare qualunque data melodia, così fa la virtù con qualunque faccenda” è sano, ma bisogna distinguere ulteriormente…

SVF III, 205

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 167, 9 Bruns. Inoltre, non “perché la virtù utilizza bene qualunque faccenda”, allora “l’utilizzo di qualunque faccenda porta alla felicità”.

SVF III, 206

Proclo ‘In Platonis Timaeum’ p. 18 C. Schn. [III,49,30] La guerra mostra la grandezza della virtù più della pace, come anche i marosi e la tempesta quella dell’arte del pilota e, in complesso, ciò vale per tutte le circostanze difficili. Sicché gli Stoici sono soliti dire: “Dà una circostanza difficile e prendi l’uomo”. Infatti ciò che rimane invitto davanti alle cose che asserviscono gli altri, manifesta integralmente il valore della vita.

SVF III, 207

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 11 (p. 254 Aucher). <L’intelletto> interrogato [III,49,35] risponde: ‘La virtù non alberga soltanto in me ma anche in quel cavo e sicuro ricettalo che è il corpo, e si estende ai sensi e ai loro specifici organi. Secondo virtù io vedo, odo, odoro, gusto, tocco ed [III,49,40] eseguo gli altri movimenti secondo prudenza, castità, fortezza e giustizia’.

SVF III, 208

Stobeo ‘Eclogae’ II, 100, 15 W. <Gli Stoici> danno alla virtù molti nomi appellativi. Infatti la chiamano ‘bene’, perché ci conduce alla retta vita; ‘gradita’, perché è valutata positivamente senza sospetto alcuno; [III,50,1] ‘di gran valore’, perché ha un valore insuperabile; ‘industriosa’, giacché è degna di grande industria; ‘lodevole’, giacché la si loderebbe con ragione; ‘bella’, perché è nata per chiamare a sé coloro che la desiderano; ‘utile’, giacché ci porta cose tali che hanno per scopo il vivere bene; ‘proficua’, [III,50,5] perché nel bisogno è giovevole; ‘scelta’, giacché derivano da essa cose che è ragionevole scegliere; ‘necessaria’, perché quando è presente giova, e quando è assente non è possibile ricevere giovamento; ‘vantaggiosa’, giacché i giovamenti che si traggono da essa sono migliori della trattazione teorica che ha questi per scopo; ‘autosufficiente’, giacché è bastante a chi l’ha; ‘libera dal bisogno’, perché è lontana da ogni [III,50,10] carenza; ‘adeguata’, per essere sufficiente nell’uso e prolungarsi su ogni bisogno della vita.

SVF III, 209

Filone Alessandrino ‘Quod deterius potiori insid. soleat’ 72, I, p. 274, 30 Wendl. E dunque <i sofisti> ci intronano le orecchie dichiarando la giustizia socievole, la temperanza utile, la padronanza di sé virtuosa, [III,50,15] la religiosità giovevolissima e ogni altra virtù salutare al massimo grado e salvifica. E, al contrario, ci dettagliano l’ingiustizia senza tregua, l’intemperanza malsana, l’irreligiosità fuorilegge e ogni altro vizio dannosissimo.

SVF III, 210

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046c. Per contro, in molti luoghi <Crisippo> ha detto: “Non sarebbe doveroso porgere neppure il dito per una saggezza [III,50,20] momentanea che ci attraversa come un lampo”. Basterà citare quel che egli ha scritto in proposito nel sesto libro delle ‘Ricerche etiche’. Dopo avere rimarcato che: “Non ogni bene finisce parimenti in gioia né ogni retta azione in parole solenni”, ha inferito questo: “E infatti, se si trattasse soltanto di ottenere la saggezza per un istante o per [III,50,25] l’estremo nostro momento, allora non sarebbe doveroso neppure protendere il dito a motivo di una saggezza presente a questo modo”.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1062a. Di nuovo essi affermano: “Una virtù di breve durata non è di alcun pro. Che pro, infatti, viene a colui cui la saggezza sopravverrà mentre è sul punto di naufragare o di essere gettato in un precipizio? Che pro per Lica, se egli muterà dal vizio alla virtù nell’attimo in cui è [III,50,30] scagliato in mare da Eracle come il sasso da una fionda?”.

SVF III, 211

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038f. Quando <Crisippo> intima di non lodare qualunque azione effettuata secondo virtù, egli palesa esservi una certa differenza tra le azioni rette. Nella compilazione ‘Su Zeus’ egli dice così: “Quantunque le opere secondo virtù siano appropriate, portate ad esempio [III,50,35] ci sono anche opere di questo genere. Per esempio: virilmente protendere il dito; con padronanza di sé astenersi da una vecchia con un piede già nella fossa; senza precipitoso assenso stare a sentire fino alla fine che il tre non è il quattro. Chi pone mano a lodare ed encomiare della gente attraverso esempi del genere, non si palesa un freddurista?”

SVF III, 212

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1039a. [III,50,40] <Crisippo> ha detto cose simili a queste nel terzo libro ‘Sugli dei’. Infatti egli afferma: [III,51,1] “Inoltre io credo che le lodi per cose del genere di ‘astenersi da una vecchia che ha un piede già nella fossa’ e di ‘reggere con fortezza la puntura di una mosca’, ci estranieranno da quelle per azioni che derivano dalla virtù”.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1061a. [III,51,5] Nella compilazione ‘Su Zeus’ e nel terzo libro ‘Sugli dei’ Crisippo dice: “È una freddura, è assurdo, è improprio lodare cose del genere: ‘resse virilmente la puntura di una mosca’ e ‘con temperanza s’astenne da una vecchia con un piede già nella fossa’, come azioni derivanti dalla virtù”.

SVF III, 213

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1061c. [III,51,10] Per loro <Stoici>, infatti, fra molte apprensioni certe e ricordi di apprensioni certe, l’uomo diventato sapiente e saggio ritiene che poche lo riguardino direttamente; e senza preoccuparsi delle altre crede di avere né di meno né di più se si rammenta che l’anno scorso ebbe l’apprensione certa di Dione che starnutiva o di Teone che giocava a palla. Seppure, nell’uomo sapiente, ogni apprensione certa e ogni [III,51,15] ricordo sicuro e saldo siano anche direttamente scienza e un bene grande, anzi sommo.

§ 2. Come la virtù esista nell’uomo

Frammenti n. 214-227

SVF III, 214

‘Anecdota Graeca’ Paris I, p. 171 Cramer. Aristotele ritiene <che si diventi buoni o cattivi> per natura, abitudine e ragionamento. Senza fallo è così [III,51,20] anche per gli Stoici, giacché la virtù è un’arte. E ogni arte è un insieme di principi generali coesercitati, ragionamento in accordo coi principi generali e abitudine alla coesercitazione. Noi siamo tutti generati per la virtù, in quanto abbiamo le risorse…

SVF III, 215

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1048d. Se dunque [III,51,25] la divinità non dà agli uomini la virtù, ma il bello è libera scelta dell’uomo, <la divinità però dà ricchezza di denaro e salute sprovviste di virtù a gente che le utilizzerà non bene ma male, ossia in modo dannoso, vergognoso, sciagurato.> Eppure, se gli dei possono procurare la virtù, sono non probi se non la procurano. Se, invece, non possono rendere gli uomini virtuosi, neppure possono loro giovare, dal momento che null’altro è buono e giovevole. Non conta nulla, infatti, che essi giudichino per virtù e potenza coloro che sono divenuti virtuosi per altra via, giacché anche [III,51,30] i virtuosi giudicano gli dei per virtù e potenza. Sicché gli dei recano un giovamento non maggiore di quanto ne ricevano dagli uomini.

SVF III, 216

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VI, 9. Se la virtù va conquistata, come rettamente sostengono <gli Stoici>, in quanto consta che l’uomo sia nato per essa.

SVF III, 217

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 62Γ Ed. Bas. [III,51,35] Gli Stoici, infatti, riservarono alle arti la sola idoneità così semplicemente teorizzata. Nei confronti delle virtù, invece, dichiararono che il rimarchevole profitto prende iniziativa dalla natura, quella che i Peripatetici chiamavano ‘virtù naturale’.

SVF III, 218

Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 52, Vol. II, p. 267, 15 K. [III,51,40] Giacché non si troverebbero persone che abbiano del tutto perso i comuni concetti di bello e di brutto, di giusto e di ingiusto.

SVF III, 219

Seneca ‘Epistulae morales’ XLIX, 11. La natura [III,52,1] ci ha fatti capaci di apprendere dandoci una ragione imperfetta ma capace di perfezionamento.

SVF III, 220

Cicerone ‘De legibus’ I, 27. <È evidente che> la natura fa di per sé altri passi avanti. Essa infatti, senza alcun educatore, muovendo dalle cose i cui caratteri conobbe [III,52,5] grazie ai primi abbozzi di intelligenza, sola e senz’aiuto rafforza e perfeziona la ragione.

SVF III, 221

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 6, p. 575 Pott. Gli Stoici affermano che la conversione al divino avviene per trasformazione dell’animo, il quale muta e si orienta verso la sapienza.

SVF III, 222

Filone Alessandrino ‘Quis rer. div. heres’ 299, III, p. 68, 7 Wendl. [III,52,10] Il primo numero è quello per cui non è possibile prender concetto né di beni né di mali poiché l’animo non è ancora modellato. Il secondo è quello per cui noi usiamo le aberrazioni a profusione. Il terzo è quello in cui ci curiamo, respingendo le cose malsane ed abbandonando all’adolescenza l’acme delle passioni. Il quarto è quello in cui facciamo nostra la definitiva salute e [III,52,15] robustezza, ossia quando, una volta distoltici dai giudizi insipienti, riteniamo di mettere mano a quelli virtuosi. Prima non se ne ha la potestà.

SVF III, 223

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 91. Anche Crisippo, nel primo libro ‘Sul sommo bene’, afferma che la virtù è insegnabile [….] e che sia insegnabile è manifesto dal fatto che gli [III,52,20] insipienti diventano virtuosi.

SVF III, 224

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 3, p. 839 Pott. Infatti noi non siamo generati possedendo per natura la virtù né, una volta nati, essa ci sopravviene in seguito naturalmente, come accade per certe altre parti del corpo; dacché allora il fatto non sarebbe ancora deliberato né degno di lode. Neppure la virtù si perfeziona per la sopravveniente [III,52,25] consuetudine con le cose che avvengono, com’è invece il caso per la lingua che parliamo; anzi è piuttosto il vizio che si ingenera in questo modo. Né la conoscenza della virtù promana da qualcuna delle arti provveditrici di oggetti esterni o terapeutiche del corpo. Ma neppure dall’educazione enciclopedica…

SVF III, 225

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 336 Pott. Giacché si diventa uomini dabbene non per natura ma per apprendimento, [III,52,30] appunto come si diventa medici e piloti […] Che alcuni, rispetto ad altri, siano per natura meglio disposti alla virtù, lo mostrano alcune loro occupazioni rispetto a quelle degli altri. Ma quanto a perfezione nella virtù, neppure una di esse categorizza coloro che hanno per natura migliori disposizioni d’animo; dal momento che anche gli individui nati con peggiori disposizioni d’animo, qualora abbiano in sorte [III,52,35] l’educazione conveniente, vengono generalmente a capo della virtù; mentre, al contrario, coloro che sono nati idonei ad essa diventano viziosi per trascuratezza. A sua volta Dio ci creò per natura socievoli e giusti, donde neppur si deve dire che il giusto appare tale solo perché tale lo si pone. Bisogna invece capire che il bene della creazione si riaccende a partire dall’istruzione originaria presente nell’anima quando questa sia stata educata, con l’apprendimento, a disporre di [III,52,40] scegliere l’ottimo.

SVF III, 226

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038e. Inoltre tralascio il fatto che, nella compilazione ‘Su Zeus’, <Crisippo> afferma: “Le virtù sono suscettibili di accrescimento e di avanzare a grandi passi”. [Lo faccio] per non sembrare uno che s’abbranca ai nomi, seppure Crisippo morda amaramente, in questo genere di cose, Platone e gli altri.

SVF III, 227

Filone Alessandrino ‘De Moyse’ III, II, Mang. p. 162. [III,53,1] Così stanno le cose anche per le virtù, giacché a ciascuna di esse è avvenuto di essere principio e fine: principio, perché non deriva da altra facoltà ma germoglia da se stessa; fine, perché la vita secondo natura s’affretta verso di essa.

[III,53,5] § 3. Sul pervertimento della ragione

Frammenti n. 228-236

SVF III, 228

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 89. La creatura logica si perverte a volte per la persuasività di faccende esteriori, a volte per la [III,53,10] catechesi dei sodali; visto che la natura le dà risorse non pervertite.

SVF III, 229

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 165. Dicono inoltre che le azioni malvagie non sono volontarie, giacché ogni animo, in quanto partecipe della divinità, per impulso naturale richiede per sé sempre il bene, ed erra però talvolta nel giudizio sui beni e sui mali. Infatti, alcuni reputano quale sommo bene la voluttà, altri la ricchezza, la maggior parte di noi [III,53,15] la fama, insomma tutto meno ciò ch’è vero bene. Le cause di questo errore sono molteplici. La prima è quella che gli Stoici chiamano doppio pervertimento. Esso nasce tanto dalle cose di per sé, quanto dalle opinioni popolarmente accolte al riguardo. Senza dubbio per quanti nascono, nel momento stesso in cui escono dal grembo materno la nascita comporta un certo dolore, poiché passano da un ambiente caldo e umido [III,53,20] a quello freddo e secco dell’aria. Contro questo doloroso freddo dei neonati, a mo’ di medicina si oppone un ingegnoso rimedio delle ostetriche, consistente nel riscaldarli in un bagnetto d’acqua tiepida, così che si ricrei una somiglianza col grembo materno in un caldo covile, disteso nel quale il tenero corpicino si diletta e si calma. Perciò da entrambe le sensazioni, tanto di dolore che di diletto, sorge [III,53,25] una certa opinione naturale secondo cui tutto tutto ciò ch’è soave e dilettevole è bene, e per contro che tutto ciò che procura dolore è male e va evitato. Quando poi siano più grandicelli, essi hanno lo stesso parere sulla fame e sulla sazietà, sulle carezze e sui rabbuffi; ed anche in età matura rimangono dello stesso parere che avevano all’inizio, stimando ogni blandizie, [III,53,30] pur se inutile, un bene; e ogni cosa faticosa, pur se arreca vantaggi, un male. Di conseguenza prediligono di gran lunga la ricchezza, giacché essa è un validissimo mezzo per procurarsi sfrenati piaceri, ed abbracciano la fama credendola l’onore. In verità, ogni uomo prova un impulso naturale per la lode e l’onore, giacché l’onore è testimonianza di virtù. [III,53,35] Ma gli uomini saggi e quelli impegnati nella ricerca della saggezza, sanno bene quale sia e come vada coltivata la virtù. Invece il volgo, inesperto per ignoranza delle cose, coltiva la fama e la stima popolare credendola l’onore, e credendola davvero la virtù persegue una vita stillante piaceri sfrenati, stimando la potestà di fare ciò che vuole una sorta di superiorità regale. [III,53,40] Siccome l’uomo è per natura il re degli animali e poiché regnare s’accompagna sempre a potere, il volgo ritiene che al potere consegua la regalità; quando invece il regnare è semplicemente l’esercizio della giusta tutela, simile a quella che esercitano i genitori. Al tempo stesso, poiché chi è felice necessariamente vive come gli aggrada, il volgo reputa che anche quanti vivono nei piaceri sfrenati siano felici. [III,54,1] Questo è l’errore, io reputo, che sorgendo dalle cose di per sé possiede gli animi umani. Ci sono poi le opinioni popolarmente accolte, che all’errore suddetto aggiungono il sussurrio di voti delle madri e delle nutrici affinché al neonato tocchino ricchezza, fama e tutte le altre cose che falsamente sono ritenute beni; gli spaventi dovuti ai babau, che in tenera età fanno ancor più impressione; [III,54,5] e poi le consolazioni conseguenti e tutto il resto. La poesia che addolcisce menti già temprate ed altre magnifiche opere di scrittori ed autori, non introducono forse negli animi rozzi, accanto a voluttà e travaglio, inclinazioni al favore del volgo? E che? I pittori e gli scultori non rapiscono forse gli animi dall’industriosità alla mollezza? Ma il massimo eccitamento [III,54,10] ai vizi viene dall’unione tra corpo ed animo per cui, in base ad abbondanza e povertà, noi siamo più propensi alla libidine o all’iracondia. A questi si aggiungano i diversi casi della vita e della fortuna: la malattia, la servitù, la mancanza delle cose necessarie; tutti fatti occupati dai quali siamo trascinati dai nobili studi alle miserie della vita quotidiana e strappati alla cognizione del vero bene. [III,54,15] Ai futuri saggi serve dunque tanto l’educazione liberale e precetti conducenti all’integrità morale, quanto una cultura separata da quella del volgo, capace di vedere, approfondire e scegliere tutto ciò che porta alla saggezza. (Si confronti questo frammento con le parole del precedente frammento di Diogene Laerzio VII, 89. “La creatura logica [III,54,20] si perverte a volte per la persuasività di faccende esteriori, a volte per la catechesi dei sodali; visto che la natura le dà risorse non pervertite”.)

SVF III, 229a

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 5, p. 437 M. E in primo luogo […] metteremo mano alla trattazione del governo dei bambini. [III,54,25] Infatti, non si può affermare che i loro impulsi siano sotto la tutela della ragione (giacché non hanno ancora la ragione), né che essi non provino rancore, afflizione, godimento; che non ridano, che non rompano in alti lamenti e non sperimentino miriadi di altre passioni del genere. Anzi, le passioni sono molte di più e più veementi nei bambini che negli adulti. Queste evidenze sono invero inconseguenti con i giudizi teorici di Crisippo ed anche col giudizio che non vi sia alcuna tendenza naturale [III,54,30] all’appropriazione del piacere fisico ed all’estraniazione dal dolore fisico. […] Ci sono dunque per natura in noi questi tre tipi di appropriazione, corrispondenti a ciascuna specificità dei tre pezzi dell’animo: appropriazione del piacere fisico per via del pezzo concupiscente; appropriazione dell’essere vincenti per via del pezzo irascibile; appropriazione del bello per via del pezzo raziocinante. Epicuro osservò soltanto l’appropriazione del pezzo peggiore dell’animo [III,54,35] e Crisippo quella del pezzo migliore, poiché ha affermato che noi siamo imparentati solo al bello, che è manifestamente anche il bene. Soltanto agli antichi filosofi fu dato di osservare tutte e tre le appropriazioni. Poiché dunque ha lasciato da parte le prime due, Crisippo dirà verosimilmente di difettare di una spiegazione della genesi del vizio, non potrà citarne la causa né i modi di sussistenza, [III,54,40] e neppure potrà scovare come mai i bambini aberrino; tutte cose che ragionevolmente, io credo, anche Posidonio di lui biasima e confuta. Ma invero si vede che quand’anche un bambino sia nutrito di probe abitudini e sia convenientemente educato, comunque incappa in qualche aberrazione; e proprio questo fatto anche Crisippo lo ammette. Eppure era contingente per lui, che disdegna cose che [III,54,45] appaiono evidenti, ammettere soltanto ciò ch’è conseguente con le sue ipotesi ed essere dell’avviso che se i bambini fossero ben condotti, essi diverrebbero comunque, con il passare del tempo, uomini saggi. Ma non ha avuto l’audacia di fare questa dichiarazione smentita dall’evidenza ed ha ammesso che se anche saranno educati solo da un filosofo e non osserveranno né ascolteranno giammai un esempio di vizio, [III,55,1] ugualmente questi bambini non diventeranno di necessità filosofi. Duplice è infatti la causa del pervertimento: una è quella ingenerata dalla catechesi della maggioranza degli uomini, l’altra è ingenerata dalla stessa natura delle cose. […] se Crisippo pare ammettere, [III,55,5] non per le parole usate ma per la forza delle argomentazioni addotte, che vi sono in noi per natura un’appropriazione ed un’estraniazione verso ciascuna delle entità dette (cioè verso il piacere e il dolore fisico, verso l’onore e il disonore). Qualora infatti egli affermi che i pervertimenti circa i beni e i mali si ingenerano nei viziosi a motivo della persuasività delle rappresentazioni e della catechesi, bisogna domandargli quale sia la causa per cui [III,55,10] il piacere fisico e la sofferenza ci mettono davanti un’immagine persuasiva, l’una del bene e l’altra del male. E allo stesso modo anche perché la vittoria alle Olimpiadi e l’erezione di statue siano cose lodate e giudicate beate dai più e da noi intese come beni; e invece, circa la sconfitta e il disonore, noi ci persuadiamo prontamente che siano mali. […] Nel [III,55,15] presente il mio ragionamento si sofferma contro i seguaci di Crisippo, i quali non conoscono altro di ciò che attiene alle passioni; neppure che le mescolanze degli umori del corpo elaborano moti passionali appropriati a se stesse. […] <In proposito, poi> Crisippo in persona non soltanto nulla ha detto di decente, ma neppure ha lasciato dietro di sé a qualcuno dei seguaci risorse per il rinvenimento della verità, poiché ha posto a supporto del [III,55,20] suo ragionamento uno zoccolo di cattiva qualità.

SVF III, 229b

Cicerone ‘De legibus’ I, 47. A turbarci sono la varietà delle opinioni degli uomini e i loro dissensi; e poiché tale varietà non si riscontra nei sensi, questi noi li reputiamo per natura affidabili; mentre diciamo inventate le cose che appaiono ad alcuni in un modo, ad altri in un altro, né sempre allo stesso modo alle stesse persone. La realtà è però diversa. Infatti non c’è genitore, balia, maestro, [III,55,25] poeta, o scena teatrale capace di depravare i nostri sensi né può sviarli il consenso della moltitudine. Invece agli animi nostri sono tese ogni sorta di insidie da parte di quanti ho elencato, i quali li accolgono tenerelli ed inesperti e poi li manipolano e piegano come vogliono, attraverso quella imitatrice del bene che risiede intrecciata a fondo in ciascuno dei nostri sensi, che si chiama ebbrezza [III,55,30] ed è la madre di tutti i mali. In questo modo gli animi, corrotti dalle blandizie dell’ebbrezza, non riescono a riconoscere a sufficienza le cose che sono per natura buone in quanto carenti di questa dolce attrattiva.

SVF III, 230

Cicerone ‘De legibus’ I, 31. È insigne la somiglianza del genere umano non soltanto nelle opere rette ma anche in quelle malvagie. Tutti sono catturati dall’ebbrezza la quale, [III,55,35] pur essendo un allettamento alla turpitudine, tuttavia ha qualcosa di simile al bene naturale, giacché diletta con la sua soave leggerezza e per un errore della mente viene abbracciata come qualcosa di salutare. Preda della stessa incomprensione, noi fuggiamo la morte quasi si trattasse della dissoluzione della natura; richiediamo la vita, perché ci mantiene nello stato di quando nascemmo; riteniamo il dolore essere il peggiore dei mali, sia per la sua asprezza sia perché ci sembra che ad esso consegua lo sfascio della nostra natura; per la similitudine esistente [III,55,40] tra integrità morale e fama, ci sembrano beati quanti sono onorati e invece miseri quanti non hanno fama. Molestie, letizie, cupidigie e timori vagano similmente nella mente di tutti, e se uomini diversi hanno opinioni diverse, non per questo quanti onorano come divinità il cane e il gatto sono afflitti [III,56,1] da superstizioni diverse da quelle degli altri popoli.

SVF III, 231

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CXV, 11. I genitori hanno istillato in noi l’ammirazione per l’oro e l’argento, sicché l’avidità per essi infusaci da bambini, via via ha messo radici ed è cresciuta con noi. Quindi tutto il popolo, pur in disaccordo su altre cose, sull’oro e l’argento è d’accordo, [III,56,5] a quelli guarda e chiede per i propri figli.

[2] 12. Si aggiungono a ciò le composizioni poetiche […] nelle quali la ricchezza d’oro e d’argento è lodata quale unico pregio ed ornamento della vita.

SVF III, 232

Seneca ‘Epistulae morales’ XCIV, 53. Non c’è parola che giunga impunemente al nostro orecchio. Ci nuocciono [III,56,10] sia quanti ci augurano il bene, sia quanti ci esecrano. Infatti, le maledizioni di questi ultimi ci istillano in animo false paure; mentre l’affetto dei primi, augurandoci il bene, è cattivo maestro, giacché ci indirizza verso beni lontani, incerti e vaghi, mentre potremmo trarre la felicità da noi stessi.

SVF III, 233

Origene ‘Contra Celsum’ III, 69, Vol. I, p. 261, 12 K. [III,56,15] Noi siamo coloro che sanno bene che una sola è la natura di ogni anima logica; che sono dell’avviso che nessuna anima è stata creata malvagia dal costruttore dell’intero cosmo e che molti sono diventati viziosi per allevamento, per pervertimento, per gli echi che hanno intorno, sicché in alcuni il vizio è diventato una seconda natura.

SVF III, 234

[1] Galeno ‘De morib. anim.’ 11, IV, p. 816 K. In questo [III,56,20] mi stupisco degli Stoici, ossia del fatto che essi credano tutti gli uomini idonei all’acquisizione della virtù ma che essi siano pervertiti da coloro che non vivono bene.

[2] p. 818 K. Sciocchissimi sono poi quanti affermano che noi siamo pervertiti dal piacere della carne in quanto esso ha molto di seducente; mentre il dolore fisico sarebbe repellente e scabroso.

SVF III, 235

Galeno ‘De morib. anim.’ Ed. Bas. 1, 351, K., IV, p. 820. [III,56,25] Come affermano gli Stoici, infatti, il vizio nella sua totalità non viene nei nostri animi dall’esterno, ma la maggior parte di esso gli uomini malvagi l’hanno in loro stessi e quel che viene dall’esterno è molto meno di questo.

SVF III, 236

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 368 Pott. Né le lodi, né le [III,56,30] denigrazioni, né gli onori, né i castighi sarebbero giusti se l’anima non avesse la potestà dell’impulso e della repulsione e se il vizio fosse involontario […] Ma dacché proairesi ed impulso sono all’origine delle aberrazioni, talvolta ci padroneggia una concezione sbagliata dalla quale, che pur è ignoranza e incultura, siamo negligenti a distornarci; e verosimilmente Dio ci castiga per questo. Giacché avere la febbre è cosa involontaria, [III,56,35] ma qualora uno abbia la febbre per colpa della sua non padronanza di sé, noi accagioniamo costui. Così pure è del vizio, quando sia involontario. Uno, infatti, non sceglie il male in quanto male, ma lasciandosi trascinare dal piacere che lo circonda, e dunque concependolo un bene, lo ritiene qualcosa che può, se offerto, essere preso.

§ 4. Se la virtù possa essere persa

Frammenti n. 237-244

SVF III, 237

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 127. Per Crisippo la virtù [III,56,40] si può buttar via. Cleante, invece, sostiene che non si può buttar via. Secondo Crisippo la si può buttar via per ubriachezza e malinconia. Secondo Cleante essa non può esser buttata via a causa della saldezza delle apprensioni certe.

SVF III, 238

[1] Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 102A ed. Bas. [III,57,1] Accade che un individuo da insipiente diventi virtuoso; ma gli Stoici non concedono che accada il contrario, giacché essi dicono che la virtù non si può perdere.

[2] 102B. Contro queste affermazioni è facile ribattere come si tocchi con mano che [III,57,5] si può perdere la virtù. Teofrasto ha dato dimostrazioni sufficienti della sua mutevolezza ed Aristotele reputa che ciò che non si può perdere non sia umano. Inoltre, anche gli Stoici convengono che nei casi di malinconia, torpore, letargia, assunzione di farmaci avviene un perdimento, insieme con l’intera abituale postura logica dell’animo, proprio della virtù; pur se non [III,57,10] si introduce al suo posto il vizio, poiché s’affievolisce la saldezza dell’animo ed esso cade in quella che gli antichi chiamavano postura intermedia.

SVF III, 239

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 161, 16 Bruns. Inoltre, se è possibile che l’uomo virtuoso si trovi in stato di letargia, malinconia, obnubilamento o delirio, condizioni nelle quali è impossibile [III,57,15] svolgere attività virtuose; allora la virtù è non autosufficiente per le attività che le sono attinenti. Come si potrebbe infatti affermare, se non per partito preso, che chi delira ed ha per questo bisogno di catene e dell’aiuto degli amici, agisca in quel momento virtuosamente? Inoltre se la virtù, secondo costoro, respinge ed avversa alcuni ‘indifferenti’ mentre altri li sceglie e li seleziona, allora essa non sarebbe autosufficiente in vista della felicità. [III,57,20] Come potrebbe infatti essere felice chi si trova in condizioni che la virtù respinge?

SVF III, 240

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 22, p. 627 Pott. Costui non avrà in alcun modo una virtù che possa essere buttata via né in veglia, né in sonno, né per una rappresentazione qualunque; dacché la postura abituale dell’animo non può mai ritrarsi da se stessa, pena l’abortire come postura, sia che si chiami la conoscenza una postura, sia che la si chiami una disposizione. Per il fatto, poi, che non s’intrudono mai [III,57,25] concetti differenti, l’egemonico rimane invariato e non aggiunge alterazione alcuna alle rappresentazioni mentre sogna le immagini oniriche dei suoi moti diurni.

SVF III, 241

Teogneto comico Fr. 1, III, p. 364 Kock. Uomo, tu mi manderai in malora. Zeppo come sei di discorsetti stoici, [III,57,30] sei malato: “La ricchezza di denaro è per l’uomo una cosa allotria”. Brina! “Propria dell’uomo è la sapienza”. Ghiaccio! “Nessuno mai dopo averla ottenuta l’ha persa”. Sciagurato me! Con che razza di filosofo mi ha messo a coabitare il mio demone?

SVF III, 242

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ p. 199, 27 Bruns. Dunque non è in suo potere il non avere più la postura virtuosa dell’animo […] [III,57,35] Ma proprio delle attività che egli compie avendone costumanza, è in suo potere anche non farne qualcuna. Giacché se è del tutto ragionevole che l’uomo saggio compia attività secondo ragione e secondo saggezza, in primo luogo alcune di queste non in modo definitivo….

SVF III, 243

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046f. Ma nel [III,57,40] sesto libro delle ‘Ricerche etiche’ Crisippo afferma: “Non sempre l’uomo urbano si comporta [III,58,1] virilmente né l’insipiente si comporta vilmente così che, all’apparire di certe rappresentazioni, uno mantenga le proprie determinazioni e l’altro invece se ne distorni”. Ed afferma anche: “È plausibile che l’insipiente non sempre sia intemperante”.

SVF III, 244

[1] Filone Alessandrino ‘De sobrietate’ 34, II, p. 222, 10 Wendl. Quiete e [III,58,5] moto differiscono uno dall’altro. Il primo è immobilità, mentre il moto è pulsione. Del moto vi sono due specie: il moto traslatorio e il moto circolare. Dunque, una postura abituale è sorella della quiete, mentre invece l’attività è sorella dello stato di moto. Quanto appena detto potrebbe diventare più ovvio mediante un esempio appropriato. Un falegname, un pittore, un agricoltore, un musicista e gli altri artisti, quand’anche se ne stiano a riposo e non pratichino alcuna delle attività attinenti [III,58,10] alle loro arti, nondimeno è usanza chiamarli coi detti nomi, dacché essi si portano addosso perizia e scienza in ciascuna di esse. Ma non appena il falegname prende a lavorare il materiale ‘legno’ […] e se ciascuno degli altri artisti pone mano alle opere relative a ciò di cui ha scienza, allora di necessità sopravvengono loro altri termini imparentati con i precedenti: al ‘falegname’ quello di ‘falegname in attività’; al [III,58,15] ‘pittore’ quello di ‘pittore in attività’. E a chi tengono dunque dietro le denigrazioni e le lodi? Non forse a coloro che sono in attività e compiono delle opere? Giacché operando rettamente ne fruttano lodi; se invece operano sbagliando ne fruttano denigrazioni.

[2] 38 Il medesimo ragionamento s’adatta anche ai casi di stoltezza e, in generale, a quelli di virtù e di vizio. Innumerevoli uomini che sono diventati saggi, [III,58,20] temperanti, virili, giusti nell’animo […] non furono capaci di sfoggiare la bellezza delle visioni presenti nei loro intelletti a causa di povertà di denaro o del discredito o di qualche malattia del corpo […]. Pertanto costoro acquisirono dei beni che erano come legati e reclusi mentre altri, invece, li utilizzarono tutti in scioltezza, avendo in più una grandissima abbondanza di materiali per lo sfoggio di quella bellezza. Il saggio ebbe in più il patrocinio [III,58,25] di affari privati e pubblici, nei quali sfoggia intelligente comprensione e buon consiglio. Il temperante ebbe in più la cieca ricchezza di denaro, la quale è terribile ad esaltare e invitare alla dissolutezza, affinché si dimostrasse avveduto. Il giusto ebbe in più l’autorità grazie alla quale sarà capace di assegnare a ciascuno secondo il merito senza essere soggetto ad impedimenti. Senza queste attività le virtù ci sono sì, ma sono virtù immote e se ne stanno a riposo. [III,58,30]

§ 5. Identica è la virtù di dei e di uomini, di uomini e di donne

Frammenti n. 245-254

SVF III, 245

Cicerone ‘De legibus’ I, 25.

La virtù è la stessa nell’uomo e in dio, e non è presente in alcun’altra creatura. La virtù è null’altro che natura giunta al suo massimo grado di perfezione.

SVF III, 246

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1076a. [III,58,35] Ma secondo Crisippo non resta agli dei neppure questa superiorità: “Giacché, quanto a virtù, Zeus è non più eminente di Dione. E Zeus e Dione, poiché sono saggi, si recano l’un l’altro un giovamento simile, qualora uno dei due si imbatta nei movimenti dell’altro”.

SVF III, 247

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ p. 211, 13 Bruns. [III,59,1] Non è possibile affermare che le virtù degli uomini e degli dei siano le stesse. Né, d’altra parte, si dice la verità affermando che le perfezioni e le virtù di esseri tanto disparati per natura siano identiche. E neppure i loro ragionamenti [III,59,5] circa gli dei hanno in sé qualche ragionevolezza.

SVF III, 248

Origene ‘Contra Celsum’ VI, 48, Vol. II, p. 119, 16 K. E poi se i filosofi Stoici, dopo avere chiamato identica la virtù dell’uomo e di Dio, diranno che Dio non è [III,59,10] su tutti più felice di chi, secondo loro, è tra gli uomini sapiente, ma che pari è la felicità di entrambi, ebbene Celso non deride…

SVF III, 249

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 29, Vol. I, p. 298, 27 K. Sicché identica è la virtù dell’uomo e quella di Dio.

SVF III, 250

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 14, p. 886 Pott. Noi infatti non affermiamo, come affermano [III,59,15] gli Stoici da perfetti atei, che la virtù dell’uomo è identica a quella di Dio.

SVF III, 251

Temistio ‘Orationes’ II, p. 27c. Se, a sua volta, qualcuno dicesse che è adulazione paragonare un re ad Apollo Pizio, Crisippo e Cleante non ne converrebbero con voi; e neppure l’intera etnia filosofica degli Stoici, i quali sono dell’avviso che identiche siano la virtù e la verità [III,59,20] dell’uomo e di dio.

SVF III, 252

Proclo ‘In Platonis Timaeum’ p. 106 F. Schn. Gli Stoici hanno affermato che la virtù degli dei e degli uomini è identica, tenendosi ben lontano dall’emulare la santità di Platone e l’equilibrio di Socrate.

SVF III, 253

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 25. Se [III,59,25] la natura dell’uomo è tale che egli è capace di saggezza, allora bisogna che artigiani, contadini, donne, insomma chiunque ha fattezze umane, riceva una educazione che li renda saggi, e che si formi un popolo di saggi d’ogni lingua, condizione, sesso ed età. […] Di ciò si avvidero gli Stoici, i quali sostennero che anche le donne e gli schiavi dovevano dedicarsi alla filosofia. [III,59,30] E se ne accorse anche Epicuro, il quale invita alla filosofia gli illetterati.

SVF III, 254

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 8, p. 590 Pott. [1] Noi abbiamo ammesso che, all’interno di ciascun genere, la medesima natura sia in stato di avere anche la medesima virtù. Pertanto, poiché quanto ad umanità la natura della donna non [III,59,35] appare diversa da quella dell’uomo ma la stessa, così deve valere anche per la virtù.

V, 14, p. 592 Pott. [2] Debbono praticare la filosofia anche le donne, in modo simile agli uomini.

§ 6. Le virtù sono numerose e di varia qualità

Frammenti n. 255-261

SVF III, 255

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 441a. Sembra che anche [III,59,40] Zenone di Cizio si lasci in un certo senso trarre a questa opinione, poiché definisce la saggezza nelle cose [III,60,1] che si devono assegnare, giustizia; quella nelle cose che si devono scegliere, temperanza; quella nelle cose che si devono reggere, virilità; e i suoi difensori sono del parere che in queste definizioni la conoscenza certa sia stata da Zenone chiamata col nome di saggezza. Crisippo invece, legittimando l’idea che se esiste una certa qualità sussista una virtù con quella peculiare qualità, senza avvedersene svegliò, per dirla [III,60,5] con Platone, “uno sciame di virtù” inconsuete e sconosciute. Infatti, come di contro al ‘virile’ c’è la ‘virilità’, di contro al ‘mite’ c’è la ‘mitezza’ e la ‘giustizia’ sta di contro al ‘giusto’; così di contro al ‘carino’ egli pose la ‘carinità’, al ‘prode’ la ‘prodità’, al ‘grande’ la ‘grandità’, al ‘bello’ la ‘bellità’; e ponendo altre siffatte [III,60,10] ‘garbatezze’, ‘affabilitezze’ e lepidezze come virtù, ha infarcito la filosofia, che non ne aveva bisogno, di molti nomi assurdi.

SVF III, 256

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ VII, 2, (208,591) M. [III,60,15] Dunque Aristone, poiché legittimava l’idea che la facoltà dell’animo sia una sola, quella con cui ragioniamo, pose anche l’esistenza di una sola virtù dell’animo: la scienza dei beni e dei mali. Qualora l’animo nostro debba scegliere i beni e fuggire i mali, Aristone chiama questa scienza temperanza. Qualora debba effettuare il bene e non effettuare il male, saggezza. Qualora debba affrontare con coraggio alcune cose [III,60,20] ed altre fuggire, la chiama virilità. Qualora distribuisca a ciascuno secondo il merito, giustizia. In una parola, l’animo è sapienza e scienza quando conosce, senza effettuarli, beni e mali. Quando invece perviene alle azioni della vita, l’animo prende i plurimi nomi sopraddetti e si chiama saggezza, temperanza, giustizia e [III,60,25] virilità. Siffatta è l’opinione di Aristone circa le virtù dell’animo. Crisippo invero mette mano, non so a che scopo, a muovere obiezioni ad Aristone, il quale custodisce intatta precisamente l’ipotesi che è comune anche a lui. Infatti quando noi conosciamo ed effettuiamo bene ogni cosa, la vita sarebbe governata secondo scienza; quando invece noi conosciamo ed effettuiamo ogni cosa male [III,60,30] ed in modo fallace, la vita sarebbe governata secondo ignoranza, proprio come Crisippo vuole. E per questo motivo la virtù diverrebbe una sola: la scienza certa; e uno solo allo stesso modo il vizio, designato anche questo col nome ora di ignoranza, ora di ascientificità. Se dunque uno sarà timoroso della morte, della povertà di denaro e della malattia come se fossero ‘mali’, quando invece bisogna farsi coraggio di fronte ad esse come di fronte a cose [III,60,35] ‘indifferenti’, allora queste lo dispongono per la sua carenza di scienza, come direbbero sia Aristone che Crisippo, ad ignorare il vero e ad avere quel vizio dell’animo chiamato viltà. Essi dicono anche che la virtù opposta alla viltà è la virilità, la quale è scienza delle cose di fronte alle quali è d’uopo essere coraggiosi o non essere coraggiosi, cioè dei beni e dei mali; beninteso quelli che tali sono per essenza, non quelli concepiti tali per [III,61,1] falsa opinione: come salute e ricchezza di denaro da un lato, malattia e povertà di denaro dall’altro. Essi affermano che nessuna di queste cose è bene o male, ma che sono tutte quante ‘indifferenti’. E quindi se uno legittima una cosa piacevole come ‘bene’ ed una cosa fastidiosa come ‘male’, e seguendo questa opinione facesse della prima la scelta [III,61,5] e rifuggisse dalla seconda, ebbene a costui manca la cultura della sostanza del bene e perciò è un impudente. Poiché, inoltre, noi scegliamo in tutte le azioni quel che ci appare bene e rifuggiamo da quello che ci appare male, e poiché abbiamo per natura questi impulsi per entrambe le cose, la filosofia, insegnandoci ciò che davvero è bene e ciò che davvero è male, ci mette al riparo dalle aberrazioni. Crisippo, [III,61,10] non so a che scopo e come un qualunque idiota di ragionamenti, pone poi mente alle differenze fonetiche e non alla sostanza delle faccende come capitano, legittimando l’idea che ciascuna delle seguenti voci: ‘il da scegliersi’, ‘il da farsi’, ‘il farsi coraggio’, ‘bene’, manifestino un significato diverso. Il loro significato non è invece diverso, ma è in tutte il medesimo, appunto quello manifestato dalla parola ‘bene’. […] Anche per Crisippo stesso con tutte [III,61,15] queste locuzioni non si dice altro che ‘bene’ e ‘male’, se appunto proprio il bene è la sola cosa da scegliersi, da farsi e per cui farsi coraggio. Così la conoscenza certa dei beni, una volta indagati differenti materiali e differenti azioni, prende più di un nome; ciascuno dei quali sottostà in relazione a qualcosa secondo materiale e secondo azione. […] [III,61,20] In questo modo nei libri ‘Sulla differenza delle virtù’ Crisippo, discostandosi dagli assunti scientifici e dimostrativi, vagabonda nei restanti tre generi; lui che, nel libro ‘Le virtù sono qualità’, s’accosta molto di più ad assunti scientifici i quali, in essenza, abbattono il ragionamento di Aristone e non si confanno davvero [III,61,25] all’ipotesi loro attinente.

SVF III, 257

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 5, p. 446 M. <Al discorso sulle passioni> fa seguito quello sulle virtù. Il difetto di questo discorso è duplice, sia che si concepiscano tutte le virtù come conoscenze certe sia che si concepiscano come facoltà. È infatti necessario che le virtù delle parti non-razionali dell’animo siano anch’esse non-razionali, e che sia logica soltanto la virtù della parte raziocinante dell’animo. Sicché a ragion veduta le virtù delle parti [III,61,30] non-razionali dell’animo sono facoltà, mentre scienza è soltanto la virtù della parte raziocinante di esso. Crisippo, invece, è grandemente in difetto non perché non abbia fatto di nessuna virtù una facoltà (un difetto del genere non è un gran difetto e noi non ci differenziamo da lui al riguardo) ma perché, dopo avere affermato che molte sono [III,61,35] le scienze e le virtù, ha affermato che una sola è la facoltà dell’animo. Non è fattibile, cioè, che molte virtù siano virtù di una sola facoltà, se è vero che non vi sono perfezioni multiple di una sola faccenda. Una sola è la perfezione di ciascuno degli esseri, e la virtù è perfezione della natura di ciascuno di essi, come egli ammette. Molto meglio, allora, Aristone di Chio; [III,62,1] il quale dichiarò che le virtù dell’animo sono non molte ma una sola, che egli chiama scienza dei beni e dei mali; e il quale non scrisse sulle passioni cose opposte alle sue proprie ipotesi, come invece ha fatto Crisippo.

SVF III, 258

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034d. Non soltanto [III,62,5] Zenone appare contraddirsi su questo argomento <se le virtù siano molte o una sola>, ma è così anche per Crisippo in quanto egli incolpa Aristone d’avere affermato che tutte le virtù sono forme di relazione di una sola virtù, e difende la causa di Zenone, il quale aveva però definito ciascuna delle virtù proprio in questo modo.

SVF III, 259

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ VII, (206,583) M. Non ci siamo [III,62,10] soltanto dilungati a contestare i loro ragionamenti interrogativi sull’egemonico dell’animo, ma pure a contestare le cose scritte da Crisippo sulle passioni dell’animo nelle tre Memorie logiche e nel ‘Terapeutico’, dopo avere anche mostrato che egli litiga con se stesso. Abbiamo menzionato anche le compilazioni di Posidonio, [III,62,15] nella quali questi loda l’antica dottrina e contesta le tesi erronee di Crisippo sulle passioni dell’animo e sulla differenza delle virtù. Crisippo, infatti, nello stesso modo in cui abolisce le passioni dell’animo, come se esistesse soltanto la parte raziocinante di esso e non anche la parte concupiscente e la parte irascibile, così pure abolisce tutte le restanti virtù ad eccezione della saggezza. Eppure anche qui, se [III,62,20] si ripercorressero col ragionamento gli scritti di Crisippo ‘Sulla differenza delle virtù’ in 4 libri e si tormentassero le tesi da lui discusse anche in un altro libro nel quale, contestando il ragionamento di Aristone, mostra che le virtù sono qualità, non ci sarebbe bisogno di uno o due ma di tre o 4 libri. C’è a questo punto, invece, solo un mio breve e [III,62,25] scientifico ragionamento che contesta Crisippo, in quanto non ambasciatore di verità e scrittore troppo prolisso. Al contrario, coloro che non hanno educazione al metodo dimostrativo e non sanno neanche lontanamente cosa esso sia, poiché pongono mente soltanto alla mole ed allo stuolo dei libri scritti da Crisippo, legittimano l’idea che in essi si trovino tutte verità. Ed effettivamente [III,62,30] nella maggior parte di essi ci sono verità, soprattutto in quel libro in cui egli mostra che le virtù sono qualità. Ma il fatto è che le affermazioni fatte in questo libro contraddicono chi ipotizza esservi una sola facoltà dell’animo, quella che ha nome di facoltà logica e critica, e chi ne abolisce la parte concupiscente e la parte irascibile, proprio quelle che Crisippo ha abolito; e questo è ciò per cui uno [III,62,35] potrebbe biasimarlo. Non lo si biasimerebbe, invece, per il fatto che la scuola di Aristone sia stata veramente abbattuta dai suoi scritti. Aristone, infatti, legittima l’idea che la virtù sia una sola, ma che sia [III,63,1] chiamata con più nomi a seconda di ciò con cui è in relazione. Crisippo mostra, quindi, che lo stuolo delle virtù e dei vizi non si genera nella relazione con qualcosa ma, invece, nelle appropriate sostanze che cambiano qualitativamente, come voleva il ragionamento degli antichi filosofi. [III,63,5] Tesi che, brevemente svolta, Crisippo ha discusso con altre parole nel libro ‘Le virtù sono qualità’, tuttavia con epicherèmi che non si confanno a chi ha proposto esservi soltanto la parte raziocinante dell’animo ed ha abolito la sua parte passionale. Come posso dunque essere io la causa della lunghezza di questi discorsi, se ora sono costretto a dimostrare che [III,63,10] Crisippo ha verosimilmente abbattuto l’opinione di Aristone utilizzando epicherèmi di un’altrui scuola?

SVF III, 260

Galeno ‘Hipp. de humor.’ II, XVI, p. 303 K. Eppure ci sono ugualmente alcuni i quali affermano che la sostanza dell’animo è una sola, e vogliono che la virtù sia perfezione della natura di ciascuno. Ma se la virtù è una faccenda del genere, una sola sarà la [III,63,15] virtù come una sola è la perfezione. In questo modo, in armonia con la parte raziocinante dell’animo, è necessario che la virtù sia scienza. E se nei nostri animi vi è proprio una parte sola, è d’uopo non ricercare molte virtù.

SVF III, 261

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 92. Panezio afferma che le virtù sono due; […][III,63,20] i seguaci di Posidonio, che sono quattro; i seguaci di Cleante e di Crisippo, che sono ancora di più.

§ 7. Sulle singole virtù

Frammenti n. 262-294

SVF III, 262

Stobeo ‘Eclogae’ II, 59, 4 W. La Saggezza è scienza di ciò che deve essere fatto, di ciò che deve non essere fatto e di ciò che deve né essere né non essere fatto; o altrimenti: la scienza dei beni, dei mali e di ciò ch’è [III,63,25] né bene né male per la natura di un animale politico. Così essi prescrivono poi di intendere le restanti virtù: temperanza è scienza delle cose che devono essere scelte, di quelle che devono essere fuggite e di quanto deve essere né scelto né fuggito; giustizia è scienza di assegnare a ciascuno secondo il merito; virilità è scienza di ciò ch’è terribile, di ciò ch’è non terribile e di ciò ch’è né l’una né l’altra cosa; stoltezza è ignoranza dei beni, dei mali e di ciò ch’è né bene né male, oppure ignoranza [III,63,30] di ciò che deve essere fatto, di ciò che deve non essere fatto e di ciò che deve né essere né non essere fatto; impudenza è ignoranza delle cose che devono essere scelte, di quelle che devono essere fuggite e di ciò che deve essere né scelto né fuggito; ingiustizia è ignoranza nell’assegnare a ciascuno secondo il merito; viltà è ignoranza di ciò ch’è terribile, di ciò ch’è non terribile e di ciò ch’è né l’una né l’altra cosa. Coloro che s’attengono a quanto detto definiscono in modo somigliante anche le altre virtù e vizi, ed in genere affermano che la virtù è [III,63,35] la disposizione di un animo in armonia con se stesso per tutta la vita.

SVF III, 263

[1] Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ I, 63, Vol. I, p. 77, 12 Wendl. Con questi <fiumi, il ‘Genesi’> vuole delineare le virtù particolari. Esse sono in numero di quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia.

[2] 65 La saggezza, in quanto delimita le cose che devono essere fatte; la [III,64,1] virilità, quelle che si devono reggere; la temperanza, quelle che devono essere scelte; la giustizia, quelle che devono essere assegnate.

[3] 67 Nell’ambito della saggezza vi sono due cotali uomini: il saggio e l’attivamente saggio […] il potenzialmente [III,64,5] saggio e l’attivamente saggio che la pratica.

[4] 68 …infatti <la virilità> è scienza delle cose che si devono reggere, di quelle che si devono non reggere e di quelle che sono né le une né le altre.

[5] 87, p. 84, 2. …Giustizia è la virtù atta ad assegnare secondo il merito e non sta né dalla parte di chi accusa né dalla parte di chi si difende [III,64,10] ma dalla parte del giudice. Sicché il giudice ha prescelto né di vincere qualcuno né di combatterlo e neppure di opporglisi ma, quando pronuncia una sentenza, arbitra il giusto. Così la giustizia, senza essere avversaria di nessuno, assegna a ciascuna faccenda il merito che le spetta.

SVF III, 264

Stobeo ‘Eclogae’ II, 60, 9 W. Delle virtù alcune sono primarie, [III,64,15] altre sono subordinate alle primarie. Le primarie sono quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia. La saggezza si occupa di quanto è doveroso, la temperanza degli impulsi dell’essere umano, la virilità della sua capacità di resistenza agli eventi, la giustizia delle sue assegnazioni. Di quelle che a queste virtù sono subordinate, alcune sono subordinate alla saggezza, [III,64,20] altre alla temperanza, altre alla virilità, altre alla giustizia. Alla saggezza sono subordinate il buon consiglio, la razionalità, la perspicacia, l’accortezza, [la sagacia], l’ingegnosità. Alla temperanza sono subordinate la disciplina, la compostezza, la pudicizia, la padronanza di sé. Alla virilità sono subordinate la fortezza, il coraggio, la magnanimità, l’ardimento, la laboriosità. Alla giustizia sono subordinate la religiosità, la probità, la socievolezza, [III,64,25] l’affabilità. Essi affermano dunque che il buon consiglio è scienza del cosa e del come effettuare utilmente quanto effettueremo; la razionalità è scienza atta a mediare e ricapitolare avvenimenti e risultati; la perspicacia è scienza atta a trovare all’istante quanto è doveroso; l’accortezza è scienza del peggio e del meglio; la sagacia è [III,64,30] scienza di centrare lo scopo in ogni circostanza; l’ingegnosità è scienza atta a trovare una via d’uscita in ogni faccenda. La disciplina è scienza del quando si deve effettuare una cosa, di cosa si deve effettuare dopo che cosa e, in generale, dell’ordine delle azioni; la compostezza è scienza dei movimenti confacenti e non confacenti; la pudicizia è scienza che ci cautela da un retto rimprovero; la padronanza di sé è scienza che ci fa non oltrepassare i limiti [III,64,35] di quanto appare essere in accordo con la retta ragione. La fortezza è scienza che ci mantiene fedeli alle rette determinazioni; il coraggio è scienza grazie alla quale sappiamo che non incapperemo in nulla di terribile; la magnanimità è scienza che fa elevare al di sopra di quanto accade per natura sia ai virtuosi che ai viziosi; l’ardimento è scienza di un animo che procura a se stesso di essere invitto; la laboriosità è scienza [III,64,40] che elabora il proponimento senza esserne impedita dalla fatica. La religiosità è scienza di accudire gli dei; la probità è scienza del fare bene; la socievolezza è scienza della parità in società; l’affabilità è scienza di intrattenere rapporti irreprensibili con chi abbiamo dintorno. Il fine di tutte queste virtù è di vivere in modo conseguente alla natura delle cose; [III,64,45] e ciascuna di esse, con le sue peculiarità, procura questo sommo bene all’uomo che la centra. [III,65,1] Giacché l’uomo ha dalla natura risorse sia per il rinvenimento di quanto è doveroso, sia per la stabilità degli impulsi, sia per delle virili pazienze, sia per delle giuste assegnazioni. E ciascuna virtù, effettuando quanto è in armonia con le altre e quanto le è proprio, ci procura un uomo capace di vivere in modo conseguente alla natura delle cose.

SVF III, 265

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 92. [III,65,5] Delle virtù, alcune sono primarie; altre sono subordinate a queste. Le virtù primarie sono le seguenti: saggezza, virilità, giustizia, temperanza. Della specie di queste sono anche la magnanimità, la padronanza di sé, la fortezza, la perspicacia, il buon consiglio. La saggezza è scienza dei beni, dei mali e di ciò ch’è né bene né male. La temperanza è scienza delle cose che devono essere scelte, [III,65,10] delle cose verso le quali si deve essere cauti e di ciò ch’è né una cosa né l’altra [….] La magnanimità è scienza o postura abituale dell’animo che fa elevare al di sopra degli avvenimenti che toccano in comune agli insipienti e ai virtuosi; la padronanza di sé è la disposizione d’animo a non oltrepassare ciò ch’è secondo retta ragione o la postura abituale di un animo invitto dai piaceri fisici; la fortezza è scienza, o postura abituale dell’animo, delle cose che devono essere mantenute, di quelle che devono non essere mantenute e di ciò ch’è né una cosa né l’altra; la perspicacia è la postura abituale dell’animo atta a trovare [III,65,15] all’istante ciò ch’è doveroso; il buon consiglio è scienza del considerare cosa e come effettuare utilmente quanto effettueremo. Analogamente, anche dei vizi alcuni sono primari; altri sono subordinati a questi. Per esempio: la stoltezza, la viltà, l’ingiustizia, l’impudenza sono vizi primari. La non padronanza di sé, l’ottusità, la malevolenza sono fra i vizi subordinati. [III,65,20] I vizi sono ignoranza di ciò di cui le virtù sono scienza.

SVF III, 266

Andronico ‘De passionibus’ p. 19, Schuchardt. La saggezza è dunque scienza dei beni, dei mali e di ciò ch’è né bene né male. La temperanza è scienza delle cose che devono essere scelte, delle cose che devono non essere scelte e delle cose che devono essere né scelte né non scelte. La giustizia è postura abituale dell’animo ad assegnare a ciascuno secondo il merito. [III,65,25] La virilità è scienza di ciò ch’è terribile, di ciò ch’è non terribile e di ciò ch’è né una cosa né l’altra.

SVF III, 267

Andronico ‘De passionibus’ p. 20, 21, Schuchardt. Il buon consiglio è scienza di ciò ch’è utile. La perspicacia è postura abituale dell’animo che trova repentinamente ciò ch’è doveroso. La previdenza è postura abituale dell’animo capace di aprirci la strada al futuro in modo che si effettui quel [III,65,30] che è d’uopo. La regalità è perizia nel comandare moltitudini senza essere tenuto a renderne conto. La capacità strategica è postura dell’animo, teorica e pratica, circa le cose che sono utili all’esercito. La capacità politica è postura dell’animo, teorica e pratica, circa le cose che sono utili alla città. [III,65,35] La capacità economica è postura dell’animo, teorica e pratica, circa le cose che sono utili alla casa. La capacità dialettica è scienza del ben dialogare. La capacità retorica è scienza del parlare forbito. La fisica è scienza dei fenomeni naturali.

SVF III, 268

[III,65,40] Andronico ‘De passionibus’ p. 27, 16, Schuchardt. Secondo Crisippo: La saggezza è scienza di quali cose bisogna fare e quali non fare. La stoltezza è ignoranza delle medesime cose; e gli stolti sono coloro che ignorano qualcuna di esse [III,66,1] o che s’abbindolano in merito. La stoltezza, infatti, è ignoranza di quali cose bisogna fare e quali non fare. Alla saggezza sono subordinate buon consiglio, razionalità, perspicacia, accortezza, sagacia e ingegnosità. [III,66,5] La razionalità è scienza atta a ricapitolare avvenimenti e risultati. La perspicacia è scienza atta a trovare all’istante quanto è doveroso. L’accortezza è scienza del peggio e del meglio. La sagacia è scienza di centrare lo scopo in ogni circostanza. [III,66,10] L’ingegnosità è scienza atta a trovare una via d’uscita in ogni faccenda.

SVF III, 269

Andronico ‘De passionibus’ p. 28, 1, Schuchardt. Secondo Crisippo, alla virilità sono subordinate fortezza, coraggio, magnanimità, ardimento e laboriosità. [III,66,15] La fortezza è scienza del perseverare nelle rette determinazioni. Il coraggio è scienza grazie alla quale sappiamo che non incapperemo <in nulla di terribile>. La magnanimità è scienza <che fa elevare al di sopra di> quanto accade per natura sia ai virtuosi che ai viziosi. L’ardimento è scienza di un animo che procura a se stesso di essere invitto. [III,66,20] La laboriosità è scienza che elabora il proponimento senza essere consumata dalla fatica.

SVF III, 270

Andronico ‘De passionibus’ p. 22, 13, Schuchardt. L’ardimento è eutonia dell’animo alla realizzazione delle proprie opere. La risolutezza è postura abituale dell’animo che ci rende maneggevoli a porre mano a ciò ch’è d’uopo ed a [III,66,25] soggiacere a ciò che la ragione sceglie. La magnanimità è postura abituale dell’animo che fa elevare al di sopra di quanto accade per natura sia ai viziosi che ai virtuosi. La maschiezza è postura abituale dell’animo che fa gli uomini autosufficienti nelle fatiche che la virtù comporta. La fortezza è scienza delle cose che possono essere mantenute, delle cose che possono essere non mantenute e di ciò ch’è né una cosa né l’altra. [III,66,30] La maestosità è postura abituale dell’animo che esalta i suoi possessori e li riempie di elevatezza di spirito.

SVF III, 271

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 136 (p. 348 Aucher). Nomi ancillari della perseveranza sono: non propensione; non inclinazione per una parte; nessuna pendenza al contrario; impenitenza; immutabilità; indifferenza; costanza; [III,66,35] saldezza sulla base; invincibilità; rettitudine e tutte le denominazioni affratellate a queste e proprie di coloro che anelano alla stabile perseveranza.

SVF III, 272

Andronico ‘De passionibus’ p. 23, 17, Schuchardt. L’austerità è postura abituale dell’animo per la quale non si conversa con altri sui piaceri fisici né s’accetta da altri una tale conversazione. [III,66,40] La padronanza di sé è postura abituale dell’animo invitto dai piaceri fisici. La parsimonia è postura abituale dell’animo che non fa ostentazione nelle spese e negli apparati. La frugalità è postura abituale dell’animo che s’accontenta di quel che c’è. La compostezza è scienza di ciò ch’è confacente nei movimenti e nelle relazioni. [III,67,1] La disciplina è perizia nell’assettamento delle azioni o saldezza nelle azioni o negli assettamenti delle azioni. L’autosufficienza è postura abituale dell’animo che s’accontenta di ciò che deve ed è atta a provvedere le cose doverose per vivere.

SVF III, 273

Andronico ‘De passionibus’ p. 25, 9, Schuchardt. [III,67,5] La liberalità è la postura dell’animo la quale fa sì che le persone si conducano in modo ammissibile con la ragione nelle cessioni e negli incassi. La probità è postura abituale dell’animo che deliberatamente opera bene. L’equità giudiziaria è scienza dei verdetti, dei castighi e dei delitti. [III,67,10] La costumatezza è deliberata giustizia. La religiosità è scienza del culto degli dei. La riconoscenza è scienza del chi e quando si deve ringraziare e del come e da chi la si deve accettare. La santità è scienza che ci rende leali e osservanti del giusto [III,67,15] verso gli dei. L’affabilità è postura abituale dell’animo a custodire il giusto negli scambi di parole. La virtù legislativa è scienza delle costituzioni politiche che si riferiscono alla società.

SVF III, 274

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 153. [III,67,20] La padronanza di sé è disposizione d’animo a non oltrepassare i limiti delle cose che avvengono secondo retta ragione, oppure virtù che fa elevare al di sopra di ciò da cui pare difficile astenersi. Giacché essi affermano che padrone di sé è non chi s’astiene da una vecchia moribonda, ma da una Laide, da una Frine o da qualcuna del genere potendo godersela, e invece se astiene. La fortezza è scienza delle cose che si devono reggere e di quelle che si devono non reggere [III,67,25] oppure virtù che fa elevare al di sopra degli eventi che paiono difficili da reggere.

[2] IX, 158. Se uno ha virilità ha scienza delle cose terribili, di quelle non terribili e di quelle intermedie.

[3] IX, 161. Se uno ha magnanimità possiede una scienza che lo solleva al di sopra degli avvenimenti.

[4] IX, 162. [III,67,30] Se uno ha saggezza ha anche scienza dei beni, dei mali e delle cose indifferenti.

[5] IX, 167. Se il divino è tutto virtù ed ha saggezza, possiede anche il buon consiglio, dato che il buon consiglio è saggezza nelle deliberazioni.

[6] IX, 174. [III,67,35] Giacché la temperanza è, nella scelta e nel rifiuto, postura abituale dell’animo a salvaguardare le determinazioni della saggezza.

SVF III, 275

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 470 Pott. Definiscono dunque la virilità come scienza delle cose terribili, di quelle non terribili e di quelle intermedie. La temperanza è postura abituale dell’animo che, nella scelta e nel rifiuto, salvaguarda [III,67,40] le determinazioni della saggezza. Connessa alla virilità è quella resistenza che essi chiamano fortezza. Essa è scienza delle cose che devono essere mantenute e di quelle che devono essere non mantenute. La magnanimità è scienza che ci solleva al di sopra degli avvenimenti. Affine alla temperanza è anche la cautela, che è un’avversione attuantesi con ragione. [E poco dopo dice] Chi possiede una virtù sola, a causa della loro implicazione reciproca, [III,67,45] le possiede tutte. Ora, la padronanza di sé è disposizione d’animo a non oltrepassare i limiti di quanto [III,68,1] appare secondo retta ragione. Padrone di sé è dunque chi tiene a freno gli impulsi contrari alla retta ragione, oppure chi si tiene a freno in modo da impellere in modo non contrario alla retta ragione.

SVF III, 276

[1] Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ II, p. 247 Pott. La sufficienza è postura dell’animo che perviene a quanto ci attiene né per difetto né per eccesso. L’autosufficienza [III,68,5] è postura dell’animo che s’accontenta di ciò che deve ed è atta a provvedere le cose che portano a compimento la vita beata.

[2] III, p. 286 La purezza è postura dell’animo che appresta un tenore di vita puro e non commisto a brutture; mentre la semplicità è postura dell’animo che elimina il superfluo.

[3] III, p. 287 [III,68,10] La facile contentatura è postura abituale dell’animo senza eccessi che accetta, non per difetto, le cose bastanti per una vita ragionevolmente sana e beata.

[4] III, p. 303 La disciplina è […] posizionata come salda capacità di espletare in bel modo le varie operazioni poste una di seguito all’altra in un’opera; e come virtù è insuperabile.

SVF III, 277

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Exodum’ II, 112 (p. 541 Aucher). Ciascuna delle quattro virtù può trovarsi in uno di questi tre stati elementari: [III,68,15] dote abituale, dote da attivare, dote attivata. È così anche per i sensi: vista, visibilità, vedere; e pure: udito, udibilità, udire. Così, quindi, c’è: conoscenza, conoscibilità, conoscere; e pure: continenza, contenimento, contenersi; fortezza, fortificazione, avere fortezza, che più comunemente si dice essere forti; [III,68,20] e similmente: giustizia, senso del giusto, avere giustizia, che si chiama anche essere giusti.

SVF III, 278

Stobeo ‘Eclogae’ II, 62, 15 W. Essi affermano che quelle appena dette sono le virtù ‘perfette’ che riguardano la vita e che sussistono a partire da principi filosofici generali. A queste ne sopravvengono poi altre, che sono non ancora arti ma certe [III,68,25] capacità promananti dall’esercizio pratico; per esempio, la salute dell’animo, la sua integrità, la sua potenza e la sua bellezza. Infatti, come la salute fisica è il risultato della buona mescolanza degli umori caldi e freddi, secchi e umidi del corpo; così anche la salute dell’animo è la buona mescolanza dei suoi giudizi. E similmente, come la potenza del corpo è un idoneo tono dell’apparato neuromuscolare, così pure la potenza dell’animo è un [III,68,30] tono idoneo nel determinare e nell’effettuare qualcosa oppure no. Come la bellezza del corpo è simmetria delle sue membra costitutive, sia reciproca che relativa all’intero; così anche la bellezza dell’animo è simmetria della ragione e delle sue parti, sia relativa all’intero che reciproca.

SVF III, 279     

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 30. Le similitudini naturali [III,68,35] tra corpo ed animo valgono sia nel male che nel bene. Le doti naturali precipue del corpo di bellezza, forza, salute, salda costituzione, velocità, valgono anche per l’animo. E come l’armonioso equilibrio instaurantesi tra le parti che costituiscono il corpo è la salute, così si dice dell’animo quando i suoi giudizi ed opinioni concordano. […] Come un’adatta conformazione [III,68,40] delle membra del corpo cui si associ un colorito soave si chiama bellezza, così pure nel caso dell’animo l’uniformità e la costanza di giudizi ed opinioni cui si associno fermezza e stabilità […] si chiama bellezza. Si parla della forza, del nerbo, dell’energia del corpo e si indicano con le stesse parole le doti dell’animo. [III,69,1] La velocità del corpo si chiama rapidità, che è lodata nel caso dell’ingegno come dote d’un animo che dà una scorsa in breve tempo a molte cose.

SVF III, 280

Stobeo ‘Eclogae’ II, 63, 6 W. <Affermano gli Stoici> che tutte le virtù, siano esse scienze [III,69,5] od arti, hanno comuni principi filosofici generali e, come si dice, medesimo fine, e perciò sono inseparabili. Chi ne ha una le ha tutte, e chi opera secondo una opera secondo tutte. Le virtù differiscono però una dall’altra per punti capitali. Così punto capitale della saggezza è, cardinalmente, conoscere i principi generali di ciò che deve essere fatto ed effettuarlo; secondariamente, conoscere i principi generali di [III,69,10] ciò che deve essere assegnato <di ciò che deve essere scelto e di ciò che deve essere retto> al fine di effettuare senza errori ciò che deve essere fatto. Punto capitale proprio della temperanza è, cardinalmente, procurare impulsi stabili e conoscerne i principi generali; secondariamente, conoscere ciò ch’è oggetto delle altre virtù, per condurci senza errori negli impulsi. In modo simile la virilità è, cardinalmente, conoscenza certa [III,69,15] di tutto ciò che deve essere retto e, secondariamente, di ciò ch’è oggetto delle altre virtù. La giustizia è, cardinalmente, considerare ciascuna cosa secondo il merito e, secondariamente, anche il resto. Ogni virtù, infatti, guarda ai punti capitali di tutte le altre ed a ciò ch’è reciprocamente subordinato. Panezio soleva dire che quanto avviene riguardo alle virtù è simile a quanto avviene quando dinnanzi a molti arcieri giacesse [III,69,20] un solo bersaglio, e questo avesse al proprio interno strisce di colore diverso. Ciascun arciere mirerebbe a centrare il bersaglio ma uno colpendo, caso mai, la striscia bianca, un altro la striscia nera, un altro ancora la striscia di qualche altro colore. Come costoro si danno quale fine supremo quello di centrare il bersaglio, seppure proponendosene il conseguimento chi in un modo [III,69,25] e chi in un altro, così tutte le virtù si danno quale fine l’essere felice –il che sta nel vivere in modo ammissibile con la natura delle cose- e ciascuna lo centra a modo suo.

SVF III, 281

Cicerone ‘De finibus’ III, 72. Alle virtù di cui si è discusso <gli Stoici> aggiungono le Dialettica e la Fisica, e le chiamano entrambe virtù. [III,69,30] La prima perché segue un metodo razionale che permette di non assentire al falso né cadere in errore di fronte ad argomentazioni capziose, così da poter tenere saldo e difendere ciò che abbiamo imparato circa il bene ed il male. Infatti, essi ritengono che senza arte dialettica chiunque potrebbe essere sviato dal vero e tratto in errore. Se in ogni circostanza la temerarietà e l’ignoranza sono vizi, rettamente si denomina [III,69,35] dunque virtù quell’arte che le toglie di mezzo.

SVF III, 282

Cicerone ‘De finibus’ III, 73. Lo stesso onore è tributato anche alla Fisica, e non a casaccio, giacché chi deciderà di vivere in armonia con la natura dovrà farlo a partire dalla conoscenza di come sia amministrato il mondo nella sua interezza. In verità nessuno può avere retti giudizi sui beni e sui mali se non ha una completa conoscenza della natura e della vita degli dei, [III,69,40] e se non sa se la natura dell’uomo s’accordi oppure no con la natura universale. Quegli antichi precetti dei saggi che comandano di ‘obbedire al tempo’, ‘seguire dio’, ‘riconoscere se stessi’, e ‘nulla di troppo’, nessuno può vedere quanta forza abbiano, e ne hanno tanta, senza conoscere la Fisica. [III,70,1] Soltanto la conoscenza della Fisica può farci comprendere quanto valga la natura per la pratica della giustizia, la difesa dell’amicizia e per la conservazione dei restanti legami che prescindono dal denaro. Inoltre, se non si capisce la natura, non si può intendere la pietà per gli dei né quanta riconoscenza ad essi debbano gli uomini.

SVF III, 283

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ p. 211, 17 Bruns. [III,70,5] Virtù dell’uomo è la saggezza; la quale, come si dice, è scienza delle cose che devono essere fatte e delle cose che devono essere non fatte.

SVF III, 284

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 158. La felicità promana dalla saggezza e la saggezza si muove tra le azioni rette e [III,70,10] l’azione retta è quella che, quando effettuata, ha una giustificazione ragionevole.

SVF III, 285

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 53. Dunque, la fortezza è una disposizione dell’animo ad ottemperare alla suprema legge nel sopportare gli eventi; oppure la capacità di conservare un giudizio saldo nelle circostanze che suscitano paura, al fine di allontanarle o evitarle; oppure la scienza di ciò che suscita paura, del suo contrario e di ciò ch’è del tutto trascurabile, [III,70,15] la quale conserva di queste cose un giudizio stabile. Più brevemente si potrebbe dare la definizione di Crisippo, giacché le definizioni precedenti erano di Sfero, che gli Stoici reputano fra i migliori nel dare definizioni. Si tratta di formulazioni tutte molto simili che esprimono, più o meno, nozioni comuni a tutti loro. Qual è dunque la definizione di Crisippo? “La fortezza”, egli dice, “è la scienza delle cose che vanno sopportate fino in fondo, oppure la disposizione dell’animo [III,70,20] che resistendo e sopportando obbedisce senza timore alla legge suprema”.

SVF III, 286

Filone Alessandrino ‘De spec. legibus’ IV, 145, V, p. 241, 19 Cohn. Coloro che sono non definitivamente senz’arte né parte sanno che la virilità è la virtù avente a che fare con quanto è terribile; e se brevemente s’accosteranno all’educazione sapranno anche che essa è scienza delle cose [III,70,25] che si devono reggere.

SVF III, 287

‘Scholia’ in Hom. Iliad. V, 2. Per i filosofi Stoici il coraggio è l’intima e sicura persuasione che non si incapperebbe in nulla di terribile; e per i Peripatetici è l’avere buona speranza che non si potrebbe incappare in nulla di terribile.

SVF III, 288

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1041b. [III,70,30] Siccome Platone afferma che l’ingiustizia, in quanto rovina dell’animo e conflitto intestino, non perde la propria forza neppure negli stessi ingiusti e mette il malvagio alle prese con se stesso, lo mette in urto con se stesso, lo rende preda dello sconcerto; Crisippo, nei libri contro Platone ‘Sulla giustizia’, gli fa colpa di ciò e dice: “È assurdo [III,70,35] affermare che si sia ingiusti con se stessi; giacché l’ingiustizia è rivolta contro altri, non contro se stessi”.

[2] p. 1041c. Nei libri contro Platone, circa il dire che l’ingiustizia è rivolta contro un’altra persona e non contro se stessi, <Crisippo> ha affermato questo: “Gli ingiusti, presi singolarmente, non constano di una pluralità di persone che [III,71,1] dicono cose opposte, mentre invece l’ingiustizia è ottenuta proprio quando una pluralità di persone fossero tra di loro così disposte. Ma nulla del genere riguarda il singolo, almeno fino a che egli è così disposto verso chi ha dintorno”.

SVF III, 289

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1041c. [III,71,5] Ma <Crisippo> si dimentica di queste cose e nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ daccapo afferma: “Qualora commetta ingiustizia contro un’altra persona, l’ingiusto è vittima di un’ingiustizia da parte di se stesso e insieme autore di un’ingiustizia contro se stesso, poiché diviene causa a se stesso d’illegalità e danneggia se stesso contro il merito”.

[2] p. 1041d. [III,71,10] Nelle ‘Dimostrazioni’, circa il fatto che l’ingiusto sia anche vittima di un’ingiustizia che egli commette contro se stesso, <Crisippo> ha proposto argomenti di questo genere: “La legge proibisce di diventare complici di un’illegalità ed il commettere ingiustizia è un’illegalità. Pertanto chi diventa complice di se stesso nell’ingiustizia che commette, opera un’illegalità verso se stesso, e colui che opera un’illegalità verso qualcuno commette anche un’ingiustizia contro di lui. [III,71,15] Dunque chi commette ingiustizia contro chiunque, commette ingiustizia anche contro se stesso”. E ancora: “L’aberrazione fa parte dei detrimenti e chiunque aberra, aberra contro di sé. Dunque chiunque aberra danneggia se stesso [III,71,20] contro il merito e, se è così, allora commette anche un’ingiustizia contro se stesso”. E pure così: “Chi si giudica danneggiato da un altro, danneggia se stesso e si danneggia contro il merito. Ma questo equivale a commettere ingiustizia. Dunque chi giudica di subire un’ingiustizia da chiunque sia, commette in ogni caso ingiustizia contro se stesso”.

SVF III, 290

Seneca ‘De clementia’ II, III, 1. Clemenza è la moderazione dell’animo quando si abbia la potestà di vendicarsi, oppure è la mitezza del superiore nei confronti dell’inferiore nel decretare una pena. Per evitare che una definizione non sia abbastanza comprensiva oppure sia tale, per così dire, da far stralciare il processo, è più sicuro offrirne diverse. Per questo la clemenza si può anche chiamare [III,71,25] una inclinazione dell’animo alla mitezza nell’esigere le pene. Però ad una tale definizione, benché vicinissima al vero, si troveranno delle obiezioni. Infatti, se diremo che la clemenza è la moderazione per la quale si concede uno sconto sulla pena equa e meritata, si obietterà che non c’è virtù che dia [III,71,30] a qualcuno meno del dovuto.

SVF III, 291

Girolamo ‘Comment. in epist. ad Galatas’ III, 5, 22. Gli Stoici definiscono così la benignità: la benignità è la virtù di essere spontaneamente ben disposti a fare il bene. La benignità non è molto diversa dalla bontà, […] e i discepoli di Zenone la definiscono così: la bontà è virtù che giova, [III,71,35] o virtù da cui sorge un’utilità, o anche virtù per se stessa, o la disposizione che è fonte di utilità.

SVF III, 292

[1] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 450 Pott. L’amore caritatevole sarebbe allora concordia nelle cose di ragione, di vita e dei suoi modi; o, per dirlo concisamente, comunanza [III,71,40] di vita; oppure un’esuberanza d’amicizia e d’affettuosità accompagnata da retta ragione nel trattamento dei compagni.

[E poco dopo]

[2] [III,72,1] Connessa all’amore caritatevole è l’ospitalità, la quale è una certa bravura nel trattamento degli stranieri.

[3] p. 451 Pott. La filantropia […] è trattamento amichevole degli uomini. [III,72,5] L’affettuosità è una certa bravura nell’affezione verso amici o parenti. L’affezione, a sua volta, è conservazione di benevolenza o di amorevolezza. L’amorevolezza è accoglimento senza riserve […] per concordia, la quale è scienza dei beni comuni.

SVF III, 293 [III,72,10]

[1] Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ I, 13, p. 159 Pott. La virtù […] è disposizione dell’animo che, grazie alla ragione, si mantiene in armonia con se stesso per tutta la vita. <Gli Stoici> esplicitano la filosofia come studio e pratica attenta della dirittura della ragione.

[2] p. 160 Pott. [III,72,15] L’azione <virtuosa> è un’attività dell’animo razionale in armonia con una determinazione urbana e civile [e il desiderio di verità], eseguita attraverso il corpo che gli è connaturato ed ausiliare. Doveroso è <ciò ch’è> conseguente al fatto di essere in vita. Infatti, la vita <virtuosa> è l’insieme delle [III,72,20] azioni razionali, cioè l’attività senza errori che scaturisce dagli insegnamenti della ragione.

SVF III, 294

Stobeo ‘Eclogae’ II, 67, 5 W. <Gli Stoici> chiamano occupazioni, e non scienze, l’amore per la musica, per la letteratura, per l’equitazione, per la caccia e, in generale, per le arti dette enciclopediche. Essi, infatti, riservano il nome di scienza alle posture [III,72,25] virtuose dell’animo e, per conseguenza, affermano che soltanto il sapiente è amante della musica, della letteratura e analogamente del resto. Delineano poi l’occupazione in questo modo: strada che attraverso un’arte, o parte di essa, conduce alle azioni secondo virtù.

§ 8. Il rapporto reciproco delle virtù

Frammenti n. 295-304

SVF III, 295

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 125. [III,72,30] Essi affermano che le virtù hanno implicazione reciproca e che chi ne ha una le ha tutte, giacché i loro principi generali sono comuni; come dicono Crisippo nel primo libro ‘Sulle virtù’, Apollodoro ne ‘La fisica secondo l’antica Stoa’ ed Ecatone nel terzo libro ‘Sulle virtù’. L’uomo al meglio di sé [III,72,35] ha infatti una conoscenza teoretica e pratica delle cose da farsi concretamente. Le cose da farsi concretamente sono anche da scegliersi concretamente, sono dovere concreto di reggere gli eventi, di giuste assegnazioni, di mantenersi fedeli alla ragione. Sicché se uno fa le cose in modo opportunamente scelto, in modo da reggere gli eventi, nel rispetto di opportune assegnazioni e così [III,73,1] da mantenersi fedele alla ragione, allora egli è saggio e insieme virile, giusto e temperante. Ciascuna virtù, inoltre, fa capo ad un proprio punto capitale. Per esempio, la virilità fa capo agli eventi che si devono reggere; la saggezza alle cose che devono essere fatte, non fatte e né fatte né non fatte. Similmente, anche le altre virtù hanno ambiti [III,73,5] loro attinenti. Alla saggezza s’accompagnano il buon consiglio e l’intelligente comprensione; alla temperanza, la disciplina e la compostezza; alla giustizia, la parità di trattamento e la costumatezza; alla virilità, l’imperturbabilità e la tenacia.

SVF III, 296

Galeno ‘Optimum medicum esse philosophum’ I, p. 61 K. È così necessario che egli <ossia il medico sapiente> possegga anche le altre virtù. [III,73,10] Tutte quante le virtù s’accompagnano infatti una all’altra ed è impossibile che chi ne acquisisce una qualunque non le abbia subito per conseguenza tutte, come se esse fossero state legate insieme da un filo.

SVF III, 297

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1041a. E nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ <Crisippo> afferma espressamente: “Ogni [III,73,15] azione retta è azione conforme alla legge e pratica della giustizia. Giacché quanto è effettuato secondo padronanza di sé o fortezza o saggezza o virilità è un’azione retta. Sicché è anche pratica della giustizia”.

SVF III, 298

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ V, 17. Infine, per chiudere la discussione, è la ragione stessa ad insegnare che lo stesso uomo non può essere giusto e stolto, né saggio e ingiusto. [III,73,20] Chi è stolto non sa cos’è giusto e cos’è bene, e quindi pecca sempre. Egli è guidato dai vizi come un prigioniero, ed è incapace di resistere ad essi poiché manca della virtù in quanto la ignora. Invece il giusto si astiene da qualunque peccato, giacché altro non può fare chi ha cognizione del bene e del male. E chi può discernere il bene dal male se non il saggio? Così accade che lo stolto [III,73,25] mai possa essere giusto, e il saggio ingiusto. […] Dunque la stoltezza è un errare nel dire e nel fare, per ignoranza di ciò ch’è buono e giusto.

SVF III, 299

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046e. Essi dicono che le virtù [III,73,30] hanno implicazione reciproca non soltanto nel senso che chi ne possiede una le possiede tutte, ma anche nel senso che chi agisce secondo una di esse agisce secondo tutte. E non è uomo perfetto chi non ha tutte le virtù, né è azione perfetta quella che non è effettuata in armonia con tutte le virtù.

SVF III, 300

Girolamo ‘Epist. 66 ad Pammachium’ 3. Gli Stoici [III,73,35] descrivono quattro virtù a tal punto collegate e coerenti tra loro, che chiunque non ne abbia una manchi di tutte: saggezza, giustizia, fortezza e temperanza.

SVF III, 301

Filone Alessandrino ‘De ebrietate’ 88, II, p. 186, 21 Wendl. È d’uopo [III,73,40] non ignorare che la sapienza, la quale è arte delle arti, pare subire un cambiamento a seconda dei differenti materiali, ma essa invero palesa il suo vero aspetto non coinvolto in mutamento alcuno soltanto a coloro che hanno la vista acuta e non si lasciano trascinare dalla massa che è sparsa intorno alla sostanza, e [III,74,1] ne vedono in profondità lo stampo sigillatovi dall’arte. Dicono che il celebre scultore Fidia prendesse del bronzo, dell’avorio, dell’oro ed altri vari materiali e ne facesse statue; e che tutte queste opere fossero marchiate da una sola e medesima arte; così che non soltanto gli esperti ma anche le persone [III,74,5] del tutto profane potevano riconoscere il creatore dalle opere da lui create. […] Proprio come la natura, nel caso dei gemelli, utilizzando il medesimo stampo spesso modella somiglianze, a parte ben poco, del tutto simili; allo stesso modo anche l’arte perfetta, che è imitazione e copia della natura, qualora assuma materiali differenti vi foggia e sigilla però in tutti la medesima idea, di modo che in questa [III,74,10] le opere create diventano massimamente congeneri, sorelle, gemelle. […] La facoltà che alberga nel sapiente sfoggia lo stesso modo di agire, giacché quando s’affaccenda intorno a ciò che riguarda l’Essere si chiama religiosità e santità, e quando s’affaccenda intorno a ciò che riguarda il cielo e i regni sub-celesti si chiama scienza naturale. Si chiama facoltà ‘meteorologica’ quando s’affaccenda intorno a ciò che riguarda i fenomeni dell’aria e quanto attiene ai suoi rivolgimenti e trasformazioni sia nelle complete [III,74,15] stagioni annuali sia, in particolare, in quelle che per natura consistono di periodi mensili e giornalieri. Quando è interessata alla rettificazione dei caratteri umani questa facoltà si chiama ‘Etica’, e di essa sono aspetti: la facoltà ‘politica’, quando tratta cose che attengono allo Stato; la facoltà ‘economica’ quando tratta cose che attengono alla sollecitudine per gli affari domestici; la facoltà ‘conviviale’ quando tratta cose che attengono ai conviti ed ai convivi. Inoltre si chiama a sua volta facoltà ‘regale’ quando attiene alla signoria sugli uomini e facoltà ‘legislativa’ quando attiene ai [III,74,20] precetti e ai divieti. Il sapiente dalle molte voci e davvero dai molti nomi ha fatto spazio in sé per tutte queste cose, e in tutte sarà visto mantenere un solo e identico aspetto.

SVF III, 302

Olimpiodoro ‘In Platon. Alcibiad.’ 214, p. 134 West. Se anche le virtù hanno implicazione reciproca, esse però [III,74,25] differiscono per qualche particolarità. Infatti la virilità non è una sola virtù, ma tutte le virtù raccolte ‘in modo virile’ e, in altro caso, ‘in modo temperante’; così come tutti gli dei sono in Zeus ‘sotto forma di Zeus’ e, in un altro caso, ‘sotto forma di Era’, poiché nessun dio è imperfetto. E come Anassagora soleva dire che tutto è in tutti anche se uno solo predomina; così diremo anche noi delle cose divine. Infatti, ogni virtù è saggezza quando sa il da farsi; ognuna è virilità, quando [III,74,30] gareggia; ognuna è temperanza, quando induce al meglio; ognuna è giustizia, perché assegna quel che conviene alle azioni fattibili.

SVF III, 303

Filone Alessandrino ‘De Moyse’ II, II, Mang. p. 135. […] Quel che suole dirsi anche delle virtù, ossia che chi ne ha una le ha tutte.

SVF III, 304

[1] Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 82, I, p. 236, 3 Wendl. [III,74,35] Il discorso deve dunque essere suddiviso in punti capitali principali, quelli dei quali si dice che ‘cadono a proposito’, e poi devono essere adattate a ciascuno le strutture argomentative appropriate, imitando gli arcieri valenti i quali, postisi innanzi un bersaglio, provano a scagliare contro di esso tutte le loro frecce. Infatti il punto capitale assomiglia al bersaglio e la struttura argomentativa alle frecce. In questo modo il miglior vestimento di tutti, il discorso, viene contessuto [III,74,40] armoniosamente.

[2] 84, p. 237, 2. La virtù, infatti, è l’intero e l’uno ed essa si dettaglia in forme specifiche contigue che sono la saggezza, la temperanza, la giustizia e la virilità; affinché noi, dopo averne conosciuto le differenze, deliberatamente ne reggiamo il culto, sia intera che nelle sue parti.

[III,75,1] § 9. Le virtù sono esseri animati

Frammenti n. 305-307

SVF III, 305

Stobeo ‘Eclogae’ II, 64, 18 W. Essi affermano che le virtù sono numerose, inseparabili una dall’altra e che sono identiche, nella loro realtà sostanziale, alla parte dominante o egemonico dell’animo; ragion per cui affermano che ogni virtù è ‘corpo’ e così [III,75,5] va chiamata, dal momento che l’intelletto e l’animo sono ‘corpo’. Infatti essi ritengono che l’animo sia lo pneuma fervido che è connaturato in noi.

SVF III, 306

Stobeo ‘Eclogae’ II, 65, 1 W. Essi vogliono che il nostro animo sia una creatura vivente, giacché esso possiede vita e sensazioni; e che soprattutto lo sia la sua parte dominante, o egemonico, che si chiama anche intelletto. Ritengono perciò che ogni virtù sia una creatura vivente [III,75,10] dacché, nella sostanza, è identica all’intelletto. E in armonia con ciò essi affermano anche che ‘saggezza’ è la ‘pratica attiva della saggezza’. Per loro, infatti, parlare così è parlare in modo conseguente.

SVF III, 307

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CXIII, 1. Tu chiedi la mia opinione sulla questione che i nostri agitano, cioè se la giustizia, la fortezza, la saggezza e le altre virtù siano animali. Carissimo Lucilio, con queste sottigliezze abbiamo l’aria di cimentare la nostra mente in vane questioni e di sprecare il tempo in discorsi per nulla proficui. [III,75,15] Però farò quel che desideri e ti esporrò il punto di vista dei nostri filosofi […] Ti dirò dunque quali siano le opinioni che hanno fatto dibattere gli antichi ovvero quelle che gli antichi hanno dibattuto. Risulta che l’animo sia un animale, perché è esso a far sì che che noi siamo animali, ed anzi proprio da esso gli animali traggono il loro nome. La virtù inoltre altro non è che l’animo in una certa disposizione: dunque anch’essa è un animale. [III,75,20] La virtù inoltre ci fa fare qualcosa, e nulla può essere fatto senza un impulso. E se ha un impulso, il che è caratteristico soltanto degli animali, è un animale. Ma, dice uno: “Se la virtù è un animale, questa a sua volta ha una virtù”. E perché la virtù non dovrebbe avere il possesso di se stessa? Come il saggio fa ogni cosa con virtù, così la virtù fa tutto con se stessa. Ma, dice: “Quindi tutte le arti sono animali e lo è pure tutto ciò che pensiamo e abbracciamo con la mente. [III,75,25] Ne consegue che molte migliaia di animali abitino nel poco spazio del nostro petto, e noi singoli saremmo molti animali, o avremmo in noi molti animali”. Ti chiedi cosa rispondere a questa obiezione? Si risponde così: “Ognuna di queste cose è un animale; eppure in noi non ci saranno molti animali”. Perché mai? Te lo spiegherò se mi favorirai con la tua sottigliezza e la tua attenzione. Ogni singolo animale deve avere una singola sostanza; [III,75,30] tutti questi animali abitano un solo animo, che è il mio; pertanto possono essere singoli animali ma non possono essere molti animi. Io, ad esempio, sono sia animale sia uomo, eppure non dirai certo che sono doppio. Perché? Perché per essere due bisogna essere separati, cioè uno distaccato dall’altro. Tutto quello che è molteplice in una unità, cade sotto l’unità di natura e pertanto è uno. [III,75,35] Anche il mio animo è un animale e io pure lo sono: e tuttavia non siamo due esseri. Come mai? Perché l’animo è una parte di me. Dunque qualcosa sarà numerato a parte, quando starà per sé; ma finché è membro di un altro essere non potrà venir considerato separato da questo. Perché? Perché per essere un’altra cosa, una realtà deve essere padrona di sé, completa e compiuta in se stessa.

[2] 24. Ma dice: “Le virtù non sono molti animali [III,75,40] e tuttavia sono animali. Come infatti uno stesso uomo è poeta e retore e tuttavia è uno, così queste virtù sono animali ma non sono molti animali”.

ETHICA VI.

Sul diritto e la legge

§ 1. Il diritto è naturale

Frammenti n. 308-313

SVF III, 308

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 128. Ciò ch’è giusto è giusto per natura e [III,76,5] non per convenzione, come va detto anche per la legge e per la retta ragione, secondo quanto afferma Crisippo nel libro ‘Sul bello’.

SVF III, 309

Cicerone ‘De finibus’ III, 71. Il diritto, quello che così può essere detto e denominato, è diritto naturale. Al saggio è alieno non soltanto il commettere ingiustizia contro qualcuno, ma anche solamente il nuocere; e non è corretto consociarsi per delinquere con amici o benefattori. [III,76,10] Fonti autorevolissime sostengono che mai l’equità può essere disgiunta dall’utile, e che ogni atto equo e giusto è un atto moralmente integro, e viceversa che qualunque atto moralmente integro sarà anche giusto ed equo.

SVF III, 310

Proclo ‘In Platonis Alcibiad.’ p. 318 Creuzer. L’intero [III,76,15] sillogismo che struttura la dimostrazione che il giusto è utile procede così: ogni cosa giusta è bella, e ogni cosa bella è un bene; dunque ogni cosa giusta è un bene. Ma il bene è identico all’utile, dunque ogni cosa giusta è utile. Il bene dell’animo, infatti, non esiste in altro che nella virtù, [III,76,20] e lo stesso vale per il bello. Ma poiché ogni bene si demarca in armonia con la virtù e il bello è identico al bene, allora entrambi questi sono giusti. Pertanto l’uomo temperante e virile è anche giusto, per la implicazione reciproca delle virtù; e vivere contro giustizia è essere né temperanti né comportarsi virilmente ma defraudarsi della giustizia, giacché la medesima forma [III,76,25] di vita esiste a partire da tutte le virtù.

SVF III, 311

Cicerone ‘De legibus’ I, 44. È la natura ad operare la distinzione non solo tra il giusto e l’ingiusto ma anche, e senza eccezione alcuna, tra il moralmente integro e il moralmente deforme; e siccome è una intelligenza comune a tutti gli uomini quella che ci rende note le cose e le sbozza nei nostri animi, si pongono le azioni moralmente integre nella virtù e quelle turpi nei vizi. È da dementi stimare che tale distinzione sia questione di opinioni [III,76,30] e non sia invece fissata dalla natura. Anche quella che si chiama virtù, si scusi l’abuso del termine, di una pianta o di un cavallo non dipendono certo dall’opinione ma dalla natura. [III,77,1] Se è così, anche il moralmente integro e il moralmente deforme sono da ritenersi distinti per natura. Infatti, se la virtù nel suo insieme fosse questione di opinioni, dovrebbero esserlo anche le sue parti; ma chi giudicherà qualcuno prudente e, per così dire, sagace non dal suo modo di vivere abituale ma da qualcosa di esteriore? La virtù è perfetta ragione, [III,77,5] il che è certo un fatto naturale; dunque lo è anche ogni forma di integrità morale.

SVF III, 312

Cicerone ‘De legibus’ I, 45. Come il vero e il falso, il conseguente e il contrario si giudicano di per sé e non da qualcos’altro, così è la natura ad operare la distinzione tra il costante e continuo uso della ragione nella vita, che è la virtù; e l’incostanza, che è il vizio. [III,77,10] […] Non facciamo la stessa cosa per le doti dei giovani? Le doti naturali, le virtù e i vizi che da esse scaturiscono saranno giudicate diversamente? Se non diversamente, non sarà necessario riferire alla natura anche il moralmente integro e il moralmente deforme? Se il bene è lodevole, necessariamente deve avere in sé qualcosa che sia degno di lode, giacché il bene è tale per natura e non è questione di opinioni. Altrimenti, anche gli uomini felici sarebbero tali per opinione. Ma si può dire una cosa più stolta? [III,77,15] Perciò, poiché il bene e il male sono distinti per natura, ed anzi sono essi stessi pulsioni naturali primarie, anche il moralmente integro e il moralmente deforme vanno giudicati con lo stesso metodo e riferiti alla natura.

SVF III, 313

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1040a. Nei libri ‘Sulla giustizia’ [III,77,20] scritti proprio contro Platone, al principio <Crisippo> salta subito al discorso sugli dei e afferma: “Cefalo aberra quando fa della paura degli dei un deterrente contro l’ingiustizia. Un simile ragionamento è facile da screditare e induce, al contrario, molte distrazioni e persuasività che pongono obiezioni al discorso sui [III,77,25] castighi divini, in quanto essi non sarebbero differenti dalle storielle di Acco e di Alfito, ossia le storielle con le quali le donne reprimono i bambini dalle impertinenze”. Dopo avere così schernito i libri di Platone, in altri <Crisippo> loda di nuovo e proferisce molte volte queste parole di Euripide:

‘Ma essi esistono, anche se qualcuno a parole li deride;

[III,77,30] Zeus e gli dei, che han gli occhi sulle passioni umane’.

§ 2. Sulla legge eterna e sulle leggi dei singoli Stati

Frammenti n. 314-326

SVF III, 314

Marciano ‘Institut.’ I, p. 11, 25 Mommsen. <Il libro> ‘Sulla legge’ <di Crisippo comincia con queste parole>: “La legge è sovrana di tutte le cose [III,77,35] divine e umane. Essa deve essere patrocinatrice del bello e del brutto, comandando e dominando così da essere canone del giusto e dell’ingiusto, imperativa alle creature per natura politiche di ciò che deve essere fatto e proibitiva di ciò che deve essere non fatto”.

SVF III, 315

Cicerone ‘De legibus’ I, 18. Pertanto agli uomini [III,78,1] più dotti sembrò opportuno prendere le mosse dalla legge; e direi che operarono rettamente giacché la legge, come essi la definiscono, è la ragione suprema insita nella natura e che comanda le cose da farsi e proibisce le contrarie. Proprio questa ragione, saldamente impiantata nella mente dell’uomo, è la legge. [III,78,5] Così essi stimano che la legge si identifichi con la saggezza, e che la sua potenza naturale consista nel comandare di operare rettamente e nel vietare di delinquere. Essi pensano anche che il suo nome in Greco significhi ‘attribuire a ciascuno il dovuto’. […] <Se è così> la trattazione del diritto va dedotta dalla legge, poiché questa legge è ad un tempo potenza naturale, mente e ragione del saggio, regola del giusto e dell’ingiusto. […] Essa è nata prima di tutti i secoli, prima di ogni legge scritta, [III,78,10] e prima della costituzione di qualunque Stato.

SVF III, 316

Cicerone ‘De legibus’ II, 8. La legge non è un’escogitazione dell’ingegno umano né il frutto di un plebiscito di popolo, ma qualcosa di eterno che regge l’universo mondo con la saggezza dei suoi comandi e delle sue proibizioni. Pertanto <quei saggi> dicevano che la legge [III,78,15] è la mente prima ed ultima del dio la cui ragione costringe o vieta ogni cosa. Ne consegue che la legge che gli dei diedero al genere umano è rettamente lodata, giacché essa è la ragione e la mente del saggio atta a comandare e a distogliere. […] Le ordinanze e i divieti dei popoli hanno il potere di chiamare ad operare rettamente e di tenere gli uomini lontani dai crimini, ma la potenza <della legge> non solo precede nel tempo l’esistenza dei popoli e delle città, [III,78,20] ma è identica alla potenza di quel dio che protegge e governa il cielo e la terra. La mente divina senza ragione non può esistere, né la ragione divina può mancare della potenza di sancire ciò ch’è retto e ciò ch’è malvagio. […] Perciò la legge vera e primaria, atta a ordinare e a vietare è la retta ragione del sommo Giove.

SVF III, 317

Cicerone ‘De legibus’ I, 33. Certo il diritto sarebbe [III,78,25] equamente rispettato da tutti se, com’è naturale, gli uomini giudicassero, per dirla col poeta, che ‘nulla che sia umano mi è alieno’. A coloro cui natura diede la ragione, diede anche la retta ragione, e dunque pure la legge che è appunto la retta ragione nel comandare e nel vietare. E se la natura diede loro la legge, diede anche il diritto. [III,78,30] Ma tutti hanno ricevuto la ragione; dunque a tutti è stato dato il diritto. Rettamente Socrate soleva esecrare chi per primo aveva disgiunto l’utile dal diritto naturale: questa, si lamentava, è l’origine di tutti i mali.

SVF III, 318

Cicerone ‘De legibus’ II, 11. Che ogni legge che davvero meriti tale nome sia degna di lode, essi lo insegnano usando pressappoco questi argomenti. È [III,78,35] senza dubbio provato che le leggi sono state inventate per la salvezza dei cittadini, la sicurezza degli Stati e la vita tranquilla e beata degli uomini. Coloro che per primi sancirono tali norme, spiegarono ai popoli che le scrivevano e proponevano affinché, una volta accettate e adottate, rendessero possibile una vita onesta e felice; e tali norme, una volta scritte ed approvate, furono evidentemente chiamate leggi. Da ciò si comprende anche [III,78,40] che quanti prescrissero ai popoli norme ingiuste e dannose, poiché tradirono ciò che avevano assicurato e promesso, tutto fecero tranne che delle leggi. Chiedo dunque, […] come sogliono fare <i filosofi>: se c’è un certa cosa la cui mancanza in uno Stato ci obbliga a considerare quest’ultimo inesistente, dobbiamo noi considerare quella certa cosa un bene? [III,79,1] -Certo fra i massimi beni- -E se in uno Stato manca la legge non lo si deve forse considerare inesistente?- -Non può dirsi altrimenti- -Dunque è necessario considerare la legge tra i sommi beni-

SVF III, 319

Cicerone ‘De legibus’ I, 42. È sommamente stolto [III,79,5] stimare giusto tutto ciò che è sancito nelle leggi e nelle istituzioni dei popoli. Lo sarebbero anche le leggi dei tiranni? […] Unico è infatti il diritto che lega insieme la società umana, ed unica è la legge che l’ha costituita: cioè l’uso della retta ragione nel comandare e nel vietare. [III,79,10] Chi l’ignora è ingiusto, sia essa scritta da qualche parte, sia che non lo sia.

SVF III, 320

Cicerone ‘De legibus’ I, 42. Se giustizia è ottemperare alle leggi scritte e alle istituzioni dei popoli, e se, come essi dicono, tutto va commisurato all’utile; ignorerà e infrangerà le leggi, non appena potrà, chiunque ritenga che il farlo gli è fruttuoso. Così accade che non esiste affatto giustizia se essa non esiste per natura, [III,79,15] e se la giustizia basata sull’utile è dall’utile stesso sradicata.

SVF III, 321

Cicerone ‘De legibus’ I, 43. Se il diritto fosse costituito dalle ordinanze dei popoli, dai decreti dei principi e dalle sentenze dei giudici; allora, se approvati con voti o plebisciti di massa, sarebbero un diritto il latrocinio, l’adulterio e la produzione di testamenti falsi. [III,79,20] Se il potere delle sentenze e delle ordinanze degli stolti è tanto grande che la natura delle cose è capovolta dai loro voti, perché essi non sanciscono che va ritenuto buono e salutare quanto è cattivo e pernicioso? Se la legge potesse trasformare l’ingiustizia in giustizia, non potrebbe anche volgere il male in bene? La verità è invece che noi non possiamo distinguere la buona legge dalla cattiva [III,79,25] se non in base a una norma di natura.

SVF III, 322

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ I, 108. Perché badare alle opinioni dei singoli, quando ci è dato di osservare le varie illusioni dei popoli? Gli Egiziani imbalsamano i morti e li tengono in casa. I Persiani li seppelliscono dopo averli cosparsi di cera, affinché i corpi rimangano integri il più a lungo possibile. È costume dei Magi non inumare [III,79,30] i morti se non dopo che essi siano stati dilaniati da bestie feroci. In Ircania la plebe nutre dei cani per uso pubblico, mentre gli ottimati li allevano per uso domestico, e sappiamo trattarsi di cani di razza eccellente, al fine di essere poi sbranati da questi cani, giacché per loro questa è la migliore delle sepolture. Crisippo, curioso com’è di ogni tradizione, raccoglie moltissimi altri esempi del genere, [III,79,35] ma alcuni sono così lugubri che fa paura riferirli.

SVF III, 323

[1] Filone Alessandrino ‘De Ioseph.’ II, Mang. p. 46. La costituzione politica dei vari popoli è un’appendice alla natura, la quale è investita, invece, di validità universale. Questo cosmo è infatti una megalopoli che utilizza una sola costituzione e una sola legge. [III,79,40] Legge che è la ragione insita nella natura ed è imperativa di ciò che deve essere fatto e proibitiva di ciò deve essere non fatto. Ma gli Stati locali sono [III,80,1] innumerevoli ed utilizzano costituzioni politiche differenti e leggi non identiche, giacché popoli diversi si sono trovati ed addizionati usanze e leggi diverse. […] Causa di ciò è l’assenza di mescolamento e la mancanza di relazioni sociali non soltanto dei Greci verso i Barbari e dei Barbari verso i Greci ma anche, [III,80,5] in particolare, degli uni e degli altri verso i propri consimili. Dopo di che, essi sembrano accagionare di ciò quanto causa non è: stagioni sfavorevoli, sterilità dei frutti, improduttività del terreno, la posizione lungo il mare o nell’entroterra, la posizione su un’isola o sulla terraferma, o cause simili a queste. Passano invece sotto silenzio la verità, che è l’interesse al guadagno e la diffidenza reciproca per cui, non accontentandosi degli statuti della natura, attribuiscono il nome di legge a ciò ch’è giudicato [III,80,10] di comune utilità da gruppi di persone che la pensano allo stesso modo. Sicché le costituzioni politiche particolari sono verosimilmente piuttosto delle appendici alla singola costituzione della natura, e le leggi dei singoli Stati sono appendici alla retta ragione della natura.

[2] p. 47. Lo casa è uno Stato compresso in piccole dimensioni e l’economia domestica è una costituzione politica in scala ridotta, così come lo Stato è una grande casa e la costituzione politica una sorta di [III,80,15] economia domestica collettiva. Tutto ciò mostra chiaramente che amministrare una casa è la stessa cosa che amministrare uno Stato, anche se cambiano il numero e la dimensione dei loro oggetti.

SVF III, 324

Diogeniano presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ VI, p. 264b. <Crisippo>, in quale senso affermi che tutte le leggi vigenti e tutte le costituzioni politiche sono aberranti?

SVF III, 325

Cicerone ‘De re publica’ III, 33. La vera legge [III,80,20] è la retta ragione congruente con la natura, valida per tutti, costante, sempiterna, che chiama all’atto doveroso coi suoi comandi e distoglie dal crimine coi suoi divieti. Questa legge impone i propri comandi o divieti agli uomini giusti non invano, pur non avendo il potere di mutare l’animo degli ingiusti col comando o col divieto. È però impossibile opporsi a questa legge, né derogare da essa in parte, [III,80,25] e tanto meno abrogarla tutta; né possiamo sciogliercene per decreto del Senato o del popolo; né dobbiamo cercare qualcuno che ce la spieghi o interpreti; né tale legge sarà una a Roma e un’altra ad Atene, una oggi e un’altra domani; ma una sola legge eterna e immutabile accomunerà per sempre tutte le nazioni, e la divinità sola sarà il comune maestro e sovrano di tutti, [III,80,30] quale ideatrice, elaboratrice e presentatrice di questa legge. E chi non le ubbidirà fuggirà da se stesso, e spregiando la natura stessa dell’uomo, per questa sola ragione sconterà gravissime pene pur se riuscisse a sottrarsi a quelli che sono comunemente reputati supplizi.

SVF III, 326

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1035c. Ascolta cosa afferma Crisippo nel terzo libro ‘Sugli dei’:

“Non è dato trovare altro principio né altra genesi [III,80,35] della giustizia se non quella che viene da Zeus e dalla natura delle cose; giacché è qui che tutto ciò deve avere il suo fondamento, se intendiamo dire qualcosa sul bene e sul male”.

§ 3. Sullo Stato

Frammenti n. 327-332

SVF III, 327

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 26, p. 642 Pott. [III,80,40] Gli Stoici affermano che il cielo è uno Stato in senso proprio, mentre quelli che sono qui sulla terra sono non Stati. Si chiamano così, ma non lo sono. [Il cielo] è lo Stato virtuoso e il [III,81,1] popolo civilizzato è un insieme e una moltitudine di uomini governati da leggi.

SVF III, 328

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 103, 9 W. Essi affermano che ogni insipiente è un esule, in quanto si defrauda della legge e della cittadinanza spettantegli per natura. [III,81,5] Come abbiamo già detto, la legge è cosa virtuosa e similmente lo è lo Stato. Circa il fatto che lo Stato sia cosa virtuosa, Cleante ha argomentato a sufficienza con un discorso del genere: se lo Stato è una struttura abitativa rifugiandosi nella quale è possibile fare ed ottenere giustizia, non è lo Stato una cosa virtuosa? Ma lo Stato è proprio una cosa del genere, dunque lo Stato è una cosa virtuosa. [III,81,10] Si può parlare dello Stato in tre modi: come struttura abitativa, come insieme di uomini e, terzo, secondo l’uno e l’altro modo. Si può parlare dello Stato come cosa virtuosa in due significati: come insieme di uomini e, con riferimento a coloro che vi sono stanziati, nell’uno e nell’altro modo insieme.

SVF III, 329

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XXXVI, 20. [III,81,15] Essi affermano che lo Stato è una moltitudine di uomini dimoranti nello stesso luogo e governata dalla legge.

SVF III, 330

Filone Alessandrino ‘De septen. et fest. dieb.’ p. 284, II, Mang. In complesso, la costituzione politica è ineccepibile anche grazie a leggi le quali spiegano che soltanto il bello è buono.

SVF III, 331

Dione Crisostomo ‘Orationes’ III, 43. [III,81,20] Si chiama ‘comando’ il ‘governo degli uomini conforme alla legge’ e il ‘provvedere agli uomini secondo la legge’.

SVF III, 332

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 420 Pott. Per la qual via alcuni [.…] dicevano che la legge è retta ragione imperativa di ciò che deve essere fatto e proibitiva [III,81,25] di ciò deve essere non fatto.

[.…] La costituzione politica [….] è del buon cibo per la società degli uomini.

L’equità giudiziaria [….] è la scienza correttiva, per via di giustizia, delle aberrazioni commesse. Sulla stessa linea dell’equità giudiziaria è l’attività giudiziaria penale, [III,81,30] la quale è scienza della misura nelle pene da infliggere, essendo la pena una correzione dell’animo

[….] I filosofi proclamano re, legislatore, stratega, giusto, sacrosanto, caro agli dei, soltanto il sapiente

[.…] proprio come noi chiamiamo pastorizia l’arte di provvedere alle pecore [.…] così diremo [III,81,35] che l’arte legislativa è l’arte di dare una struttura alla virtù degli uomini, ravvivando al possibile il bene che è in loro, dal momento che essa è soprintendente e tutrice dell’umana mandria.

§ 4. Sull’unione tra gli dei e gli uomini

Frammenti n. 333-339

SVF III, 333

Cicerone ‘De finibus’ III, 64. <Gli Stoici> sono dell’avviso che il mondo sia retto dal potere degli dei, che esso sia come la città e lo Stato degli uomini e degli dei, e che ciascuno di noi [III,81,40] sia parte di tale mondo. Da ciò naturalmente consegue che noi anteponiamo l’utilità comune alla nostra. Come infatti le leggi antepongono la sicurezza di tutti a quella dei singoli, così l’uomo buono e saggio, ossequiente alle leggi e conscio dei suoi doveri civili, [III,82,1] dà maggiore peso all’utilità di tutti che a quella di uno solo o alla sua. Ed è altrettanto disprezzabile chi tradisce la patria di chi trascura l’interesse o la sicurezza pubblica, a vantaggio del proprio interesse e della propria sicurezza. Perciò accade che sia da lodare chi affronta la morte per lo Stato, [III,82,5] e che la patria debba esserci più cara di noi stessi.

SVF III, 334

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XXXVI, 23. Giacché è d’uopo chiamare felice allo stato puro unicamente questa costituzione politica e questo Stato, ossia la società che lega gli dei gli uni agli altri. Se poi si vorranno abbracciare in essa tutti quanti gli esseri dotati di ragione, allora si terrà conto anche della società degli uomini con gli dei, contando però gli uomini come ragazzi dei quali si dice [III,82,10] che partecipano dello Stato insieme con gli adulti. I ragazzi, infatti, sono per natura cittadini ma non pensano né operano da cittadini e neppure sono accomunati agli adulti dalla legge, della quale non hanno alcuna comprensione.

SVF III, 335

Dione Crisostomo ‘Orationes’ I, 42. Posso dunque ben parlare del governo dell’intero cosmo il quale, tutto quanto felice e [III,82,15] sapiente, sempre percorre l’eternità infinita, costantemente, in cicli infiniti, con buona fortuna e consimile divino potere e Prònoia; e che con un comando giustissimo ed ottimo procura che noi siamo simili a lui, in armonia con la comune natura sua e nostra, adorni d’un solo statuto e d’una sola legge e partecipi della medesima costituzione. Colui che onora questa costituzione, la custodisce [III,82,20] e nulla effettua di contrario ad essa si conforma alla legge, è caro agli dei, composto; mentre chi invece, per quanto sta a lui, la manda sossopra, la viola e la ignora è un individuo senza legge, scomposto, tanto se è chiamato persona comune quanto se occupa delle cariche.

SVF III, 336

Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 3, I, p. 1, 11 Wendl. L’uomo che si conforma alla legge è subito anche un uomo cosmopolita, che aggiusta le proprie [III,82,25] azioni al piano della natura, in armonia con la quale tutto quanto il cosmo è governato.

SVF III, 337

[1] Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 142, I, p. 50, 2 Wendl. Se chiamiamo quel capostipite non soltanto primo uomo ma anche unico cittadino del mondo, non diremo affatto una falsità, giacché il cosmo era per lui casa e Stato.

[2] 143 Dacché ogni Stato ben ordinato possiede una costituzione politica, ne derivò che il cittadino del mondo utilizzasse [III,82,30] necessariamente la costituzione della quale si serve anche tutto quanto il cosmo. Questa costituzione è la retta ragione insita nella natura, costituzione che, con termine più appropriato, ha nome di ‘Statuto’, poiché è la legge divina in armonia con la quale le cose convenienti e spettanti furono assegnate a ciascuno. Di questo Stato e di questa costituzione bisognava che alcuni fossero cittadini prima dell’uomo, e costoro potrebbero essere chiamati giustamente ‘cittadini del grande Stato’. […] [III,82,35] E costoro chi altri potrebbero essere stati se non le nature razionali e divine, alcune incorporee e intelligibili, mentre altre sono non prive di corpo ed alle quali è avvenuto di essere gli astri?

SVF III, 338

Cicerone ‘De re publica’ I, 19. Ritieni tu che non riguardi le nostre case sapere quel che si fa e capita in quella casa che è racchiusa non tra le pareti che noi costruiamo, ma è questo intero mondo che gli dei ci hanno dato quale domicilio e patria [III,82,40] comune con loro?

SVF III, 339

Cicerone ‘De legibus’ I, 22. Questo animale preveggente, sagace, di ingegno multiforme, acuto, dotato di memoria, ricco di ragione e di buon senso che chiamiamo uomo, è stato generato e posto dalla suprema divinità in una condizione di assoluto privilegio. Infatti, egli è il solo tra tanti generi e nature di esseri animati ad essere partecipe della ragione e del pensiero, [III,83,1] mentre tutti gli altri ne sono privi. Cosa c’è di più divino della ragione, non dico nell’uomo ma in nel cielo e sulla terra intera? E la ragione, quando sia maturata e giunta a perfezione, rettamente si chiama saggezza. Pertanto, poiché nulla esiste che sia migliore della ragione, e poiché essa è la stessa nell’uomo e in dio, è la ragione la primaria comunanza tra l’uomo e dio. [III,83,5] Ma coloro che condividono la ragione hanno in comune anche la retta ragione; e poiché la retta ragione è la legge, noi uomini dobbiamo reputarci soci per legge degli dei. Inoltre, quanti hanno comunanza di legge hanno anche in comune il diritto; e coloro che hanno queste cose in comune sono da ritenersi appartenenti alla stessa città. E se essi obbediscono [III,83,10] alle stesse autorità e agli stessi poteri, ciò risulta ancora più vero. Ma essi in effetti obbediscono a questa celeste costituzione, alla mente divina e a un dio dotato di sovrano potere; sicché tutto questo universo mondo è da ritenersi sola città comune agli uomini e agli dei. E siccome, a ragione di un motivo di cui si tratterà a suo luogo, nella città lo stato di famiglia è contrassegnato dai vincoli di parentela, ciò avviene in modo ancor più splendido e più privilegiato nella natura delle cose, [III,83,15] per il fatto che uomini e dei sono congiunti da vincoli di parentela ed appartengono a una stessa gente.

§ 5. Sull’unione tra gli uomini

Frammenti n. 340-348

SVF III, 340

Cicerone ‘De finibus’ III, 62. <Gli Stoici> ritengono che in proposito sia pertinente capire che l’amore dei genitori per i figli è un fatto naturale; e che è prendendo le mosse da tale pulsione primaria che noi perseguiamo poi l’associazione del genere umano in comunità. [III,83,20] La prima cosa che si deve capire deriva dalla semplice conformazione di certe parti dei corpi, le quali già da sole dimostrano che la natura aveva il piano razionale di procreare; e non sarebbe stato congruente che il suo piano fosse quello di procreare senza però curarsi di far sì che i figli generati fossero accuditi dai genitori. La forza della natura si può scorgere in atto già nelle bestie feroci, ed osservando le loro fatiche nel partorire e nell’allevare i nati ci sembra di ascoltare la voce stessa della natura. [III,83,25] E come è manifesto che noi per natura aborriamo il dolore, così è evidente che la natura ci ha dato l’impulso ad amare coloro che abbiamo generato. È da questo impulso che nasce la comune inclinazione naturale degli uomini ad associarsi con altri uomini; giacché per il semplice fatto di essere uomo, l’uomo [III,83,30] non può vedere l’altro uomo come un alieno.

SVF III, 341

Cicerone ‘De finibus’ III, 64. Quantunque vadano ritenute inumane e scellerate le parole di quanti dichiarano che nulla importa loro se, dopo la loro morte, avviene la conflagrazione universale (cosa che si suole esprimere con un popolare verso greco); [III,83,35] è certamente vero che dobbiamo preoccuparci anche delle generazioni future in quanto tali. Da questa disposizione d’animo sono nati i testamenti e le raccomandazioni dei morenti.

SVF III, 342

Cicerone ‘De finibus’ III, 65. Dal fatto che nessuno voglia vivere in completa solitudine neppur avendo a disposizione un’infinita abbondanza di piaceri, si capisce facilmente che noi siamo nati per vivere entro legami di parentela e sociali con altri uomini III,83,40] ed in naturale comunità con essi. Noi abbiamo il naturale impulso a voler essere utili a quanti più uomini possibile, specialmente [III,84,1] insegnando e tramandando regole di saggezza. Perciò è difficile trovare uno che sappia qualcosa e non lo comunichi ad altri; e quindi noi siamo propensi non soltanto ad apprendere ma anche ad insegnare. E come la natura ha dato ai tori l’inclinazione a combattere contro i leoni [III,84,5] con grande forza ed aggressività per difendere i vitelli, così quanti ne hanno i mezzi e possono farlo, come sappiamo di Ercole e di Libero, sono spinti dalla natura a curarsi della salvezza del genere umano. […] E come noi utilizziamo le membra prima di avere imparato in vista di quale utilità le abbiamo, così noi ci troviamo congiunti e consociati per natura nella società civile. Se così [III,84,10] non fosse non ci sarebbe posto alcuno per la giustizia e la bontà.

SVF III, 343

Cicerone ‘De legibus’ I, 28. Nulla è certo più importante del comprendere pienamente che noi siamo nati per la giustizia, e che il diritto si fonda non sulle opinioni umane ma sulla natura. Ciò ti sarà chiaro non appena considerassi con la dovuta attenzione le relazioni sociali e di parentela che gli uomini hanno tra di loro. [III,84,15] Non c’è una cosa che somigli tanto ad un’altra, che le sia tanto pari, quanto noi uomini ci somigliamo tutti l’un l’altro. Se le cattive abitudini e le false opinioni non distorcessero gli animi deboli e non li piegassero dovunque vogliono, nessuno sarebbe tanto simile a se stesso quanto ciascun uomo è simile ad ogni altro. Pertanto, qualunque sia la definizione di ‘uomo’, essa vale per tutti gli uomini; il che prova a sufficienza [III,84,20] che nel genere umano non vi è dissomiglianza alcuna, giacché se essa ci fosse, un’unica definizione non si applicherebbe alla totalità degli uomini. Infatti la ragione, per la quale soltanto siamo superiori alle bestie, e grazie alla quale siamo capaci di congetturare, argomentare, refutare, discutere, compiere qualcosa, trarre conclusioni, è senz’altro comune a noi tutti e, per quanto differente per conoscenze, è pari per tutti quanto a capacità di apprendere. Con i sensi noi cogliamo sempre le medesime [III,84,25] cose; e le cose che stimolano i sensi, li stimolano allo stesso modi in tutti gli uomini. Gli stimoli che quindi si imprimono negli animi, e dei quali parlai in precedenza, quali abbozzi di comprensione intelligente, si imprimono in tutti in modo simile; e poi il discorso, interprete della mente, pur discrepante nelle parole è però congruente nei significati che esprime. Non c’è nessuno di nessun popolo che, ottenuta la guida della ragione, [III,84,30] non possa pervenire alla virtù.

SVF III, 344

Cicerone ‘De legibus’ I, 43. Se le fondamenta della giustizia non saranno nella natura, tutte le virtù spariranno. Dove potranno esistere la liberalità, la carità di patria, la pietà per gli dei, il meritare benemerenze da qualcuno, la riconoscenza? Tutte queste cose nascono dal fatto che noi per natura siamo propensi a prediligere gli uomini, il che è il fondamento del diritto. [III,84,35] Spariranno non soltanto il rispetto per gli uomini ma anche le cerimonie religiose in onore degli dei, che reputo da conservarsi non per paura ma per il vincolo che lega l’uomo a dio.

SVF III, 345

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ V, 17. Mancando tutti gli animali di saggezza, noi vediamo che è la natura a provvedere alla loro appropriazione di sé. [III,84,40] Dunque essi nuocciono agli altri per giovare a se stessi, visto che non sanno perché nuocere sia un male. L’uomo invece, avendo scienza del bene e del male, si astiene dal nuocere pur se a proprio svantaggio, cosa che un animale irrazionale non può fare, sicché l’innocenza è annoverata tra le massime virtù umane. Da ciò appare chiaro perché sia sapientissimo chi preferisce il perire [III,85,1] al fare del male, e compia così un dovere che lo distingue dai bruti.

SVF III, 346

Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 50, Vol. II, p. 265, 22 K. La socialità non è stata circoscritta ed espunta dagli uomini, anche i più rozzi, [III,85,5] come lo è stata dagli animali privi di ragione; ma il nostro Fattore ci ha fatti parimenti socievoli verso tutti gli uomini.

SVF III, 347

Proclo ‘In Platonis Alcibiad.’ VIII, p. 64 Cousin. Gli Stoici sono senz’altro invisi a tutte le azioni del genere in quanto azioni depravate. Secondo loro, infatti, non è possibile ingannare giustamente, né secondo giustizia violentare né [III,85,10] espropriare; ma ciascuna di queste azioni proviene da una postura perversa dell’animo e chi le compie è un ingiusto. Gli antichi filosofi, invece, consideravano tutte queste azioni come azioni intermedie…

SVF III, 348

Cicerone ‘De finibus’ III, 70. <Gli Stoici> ritengono che l’amicizia vada praticata perché fa parte del genere delle cose utili. Alcuni dicono che nell’amicizia il saggio tiene alle ragioni dell’amico tanto quanto alle proprie; altri che tiene più alle proprie che a quelle all’amico. [III,85,15] Tuttavia anche questi ultimi asseriscono che togliere qualcosa a qualcuno per appropriarsene è contrario a quella giustizia per la quale evidentemente siamo nati. Comunque in nessun modo si approva l’idea […] che una giusta causa o un’amicizia vadano acquisite o approvate in vista di un guadagno, giacché il guadagno potrà indebolirle o pervertirle. Infatti giustizia ed amicizia potranno [III,85,20] esistere solo se ricercate di per se stesse.

§ 6. Sulla nobiltà di stirpe e sulla libertà

Frammenti n. 349-366

SVF III, 349

Seneca ‘De beneficiis’ III, XXVIII, 1. Noi originiamo tutti dalla stessa sorgente ed abbiamo tutti la stessa origine. Nessuno di noi è più nobile di un altro, se non colui che ha più retto ingegno e più attitudine a bene operare. […] Il cosmo è l’unico padre di tutti noi e sempre qui, [III,85,25] a questa prima origine si risale, attraverso ascendenti illustri od oscuri.

SVF III, 350

[1] Pseudo-Plutarco ‘De nobilitate’ cp. 12. Nel libro ‘Sulle virtù’, Crisippo chiama la nobiltà di stirpe “Scoria e feccia di sbarbatura della parità di condizione” ed afferma che pertanto non fa alcuna differenza da quale padre tu sia per caso nato, se da un uomo [III,85,30] di nobile stirpe oppure no.

[2] cp. 13. Ritorno di nuovo a Crisippo il quale, contro la nobiltà di stirpe, scrive che le parole che seguono sono opera del più intelligente dei poeti:

‘Che io o qualche altro Acheo, legatolo, conduca in catene’

Di nuovo <Crisippo> latra raccontando le malefatte dei nati [III,85,35] da nobile stirpe, come sono messe in mostra dallo stesso poeta, allorquando Efesto colse Ares ed Afrodite in flagrante adulterio:

‘Come la figlia di Zeus, Afrodite, me che son zoppo,

disprezza sempre, e invece ama Ares crudele’

Altrimenti abbattete la Stoa: [III,85,40] se siete infatti dell’avviso che tutte le aberrazioni siano pari, perché sorvegliate con più precisione quelle di chi è di nobile stirpe? Voi affermate che non [III,86,1] fa differenza se è un popolano e se è un re ad abusare di una figlia; eppure chiacchierate un sacco contro la vanità, la cialtroneria, gli amori, gli accoppiamenti illeciti, la crudeltà delle persone di nobile stirpe; li chiamate smaniosi di cause legali, immemori dei benefici ricevuti e, qualora abbiano subito un’ingiustizia, acerbissimi nella rappresaglia.

[3] cp. 16. [III,86,5] Ma dacché Crisippo battaglia contro di noi col suo amato Euripide, orsù, proferiamo proprio le parole che quell’araldo della nobiltà di stirpe cantava su di essa. Così Euripide […] sulla nobiltà di stirpe […]

Ma queste non sono parole di un uomo che s’azzuffa e abbatte la nobiltà di stirpe, [III,86,10] piuttosto di chi la loda e la sublima…

SVF III, 351

Seneca ‘De beneficiis’ III, XXII, 1. Secondo Crisippo il servo è un mercenario a vita. E come il mercenario dà un beneficio quando rende un servigio straordinario che va oltre il compito assegnatogli, così il servo, quando per affetto verso il padrone fa più di quello che la sua condizione prevede [III,86,15] ed osa imprese più nobili di quelle che farebbero onore perfino ad un uomo di nascita più fortunata, e così facendo supera le aspettative del padrone, allora tra le mura di casa ci si ritrova un beneficio.

SVF III, 352

[1] Filone Alessandrino ‘De septen. et fest. dieb.’ p. 283, II, Mang. Nessun uomo è servo per decreto di natura.

[2]p. 291 [III,86,20] I padroni si comportano con gli schiavi comprati con denaro non come con gente serva per natura ma come con gente assoldata.

SVF III, 353

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VI, p. 267b. Come scrive nel secondo libro ‘Sulla concordia’, Crisippo afferma che vi è differenza tra un servo comprato con denaro e un servo nato in casa, a causa del fatto che i liberti sono ancora in condizione servile mentre invece i servi nati in casa non vengono [III,86,25] scorporati dal patrimonio, giacché “il servo nato in casa” – egli dice – “è un servo incorporato nel patrimonio domestico”.

SVF III, 354

Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ III, p. 288 Pott. La vera indole nobile, la quale si riscontra per natura nella bellezza dell’anima, non contraddistingue il servo, non a causa della compravendita ma a causa dell’intelligenza servile.

SVF III, 355

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. [III,86,30] Soltanto il sapiente è libero, mentre gli insipienti sono servi. Infatti la libertà è potestà di autodeterminazione pratica, mentre la servitù è privazione di essa. Vi è poi un’altra servitù, ossia quella che consiste nella subordinazione; ed una terza, consistente nell’essere patrimonio di qualcuno ed a lui subordinato. A questa si contrappone il dispotismo, che è anch’esso cosa da insipienti.

SVF III, 356

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XIV, 16. [III,86,35] In una parola, non è lecito effettuare azioni viziose, mentre è d’uopo affermare che è conveniente e lecito effettuare quelle giuste, utili e virtuose. Dunque per nessuno è senza perdita il fare azioni viziose e sconvenienti. A tutti è però similmente accordata la possibilità di fare il contrario, e coloro che effettuano queste azioni trascorrono la vita senza perdita alcuna, [III,86,40] mentre coloro che effettuano le azioni vietate sono puniti. A te sembra che quanti effettuano le azioni lecite siano diversi da coloro che hanno scienza di esse, e che quanti effettuano le azioni contrarie siano diversi dagli ignoranti? Pertanto tutto ciò che [III,87,1] gli uomini saggi rettamente decidono di effettuare è loro lecito. Invece tutto ciò che le persone stolte decidono, non è lecito a chi mette mano ad effettuarlo. Cosicché è necessario che i saggi siano uomini liberi e che sia loro lecito fare ciò che dispongono, mentre è invece necessario che i dissennati siano individui servi e che facciano proprio ciò ch’è loro non lecito. Dunque è d’uopo [III,87,5] anche chiamare la libertà scienza delle cose che è accordato effettuare e di quelle che è impedito effettuare; e chiamare la servitù ignoranza delle cose lecite e di quelle illecite.

SVF III, 357

[1] Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 450, 23 Mang. Del fatto che il compimento di servizi non sia indizio di servitù, fanno fede evidentissima le guerre. Allora ci è infatti dato vedere tutti i soldati lavorare manualmente di persona, non soltanto trasportando [III,87,10] gli armamenti ma anche, carichi al modo delle bestie da soma, tutto ciò ch’è loro di uso necessario, in quanto escono per l’approvvigionamento dell’acqua, di legna da ardere e di foraggio per il bestiame. [.…] Vi è poi una certa guerra anche in tempo di pace, che è non da meno di quelle combattute con le armi. È la guerra che il discredito, la povertà e la terribile scarsità del necessario ci forgiano contro. Sotto la sua violenza si è costretti a mettere mano ai lavori più servili come [III,87,15] zappare, faticare alla coltivazione della terra, occuparsi in lavori artigianali, mettersi risolutamente al servizio di qualcuno per poterci mantenere in vita….

[2] p. 451, 2. Così i ragazzi tollerano di essere comandati dal padre e dalla madre, e i discepoli tollerano ciò che i maestri impongono loro di fare, giacché nessuno è servo volontariamente. I genitori, poi, non sfoggeranno mai un tale colmo di odio per i figli, e [III,87,20] costringeranno eventualmente i loro ragazzi a reggere soltanto quei servizi che non sono simboli di servitù.

SVF III, 358

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 451, 9 Mang. Se qualcuno, quando vede della gente venduta a buon mercato dai commercianti di schiavi, crede che essi siano perciò stesso servi, si sbaglia di grosso. La vendita, infatti, non dichiara [III,87,25] signore l’acquirente e servo l’acquistato, dacché anche dei padri hanno pagato il riscatto dei figli e i figli molte volte hanno pagato quello dei padri, o perché sequestrati nel corso di una rapina o perché erano diventati prigionieri di guerra. [.…] Alcuni poi, se vogliamo eccedere in senso contrario, rigirarono completamente la faccenda e diventarono padroni dei loro acquirenti, invece che servi.

SVF III, 359

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 451, 47 Mang. [III,87,30] Oltre a ciò, chi non direbbe che gli amici di Dio sono uomini liberi? Se ai compagni dei re, i quali ne sono delegati e ne condividono l’imperio, merita riconoscere non soltanto libertà ma anche potere, bisogna augurare la servitù agli amici degli dei dell’Olimpo i quali, divenuti per la loro devozione [III,87,35] amanti di Dio ed essendone ricambiati di pari benevolenza, secondo una sentenza vera sono, come dicono i poeti, sovrani universali e re dei re?

SVF III, 360

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 452, 22 Mang. Quindi come gli Stati sotto oligarchie o tirannidi [III,87,40] soggiacciono alla servitù, poiché hanno despoti aspri e gravosi che li sottomettono e li padroneggiano, mentre invece gli Stati che usano le leggi come soprintendenti e patrocinatori sono liberi; così pure tra gli uomini, coloro presso i quali l’ira, la smania, qualche altra passione o anche un vizio insidioso sono padroni assoluti, sono affatto servi, mentre invece quanti vivono secondo la legge sono liberi. La legge che non è falsa è la retta ragione, la quale non [III,87,45] è modellata dal tale o dal talaltro mortale, peritura su scartoffie o inanimata su steli inanimate, [III,88,1] ma fu modellata imperitura dalla natura immortale nell’intelletto immortale. Perciò ci si stupirà dell’ambliopia di coloro che non notano l’abbacinante specificità dei fatti ed affermano che per la libertà dei grandissimi popoli Ateniese e Spartano sono più che sufficienti le leggi di Solone [III,88,5] e di Licurgo, le quali dominano e comandano sui cittadini che loro ubbidiscono; mentre invece, nel caso degli uomini sapienti, affermano che la retta ragione, la quale è fonte per le altre leggi, non è sufficiente a far partecipi della libertà coloro che le danno retta in tutto, qualunque cosa essa ingiunga o proibisca.

SVF III, 361

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 452, 46 Mang. Oltre [III,88,10] a quanto già detto, quindi, fa evidentissima fede della libertà l’eguale diritto di parola che tutti i virtuosi praticano tra di loro. Onde affermano che parla filosoficamente il famoso trimetro:

‘I servi, per natura non hanno a che fare con le leggi’

e ancora

[III,88,15] ‘Sei per natura servo, non hai a che fare con la ragione’

Pertanto, come la competenza musicale rende partecipi tutti coloro che si occupano di musica di un eguale diritto di parola nelle questioni di quest’arte, e lo stesso vale per i grammatici e per i geometri in fatto di grammatica e di geometria; altrettanto fa la legge che inerisce alla vita nei riguardi di coloro che sono esperti delle cose della vita. Tutti i virtuosi sono esperti delle faccende della vita, dal momento che lo sono [III,88,20] di quelle che accadono in generale in natura. Alcuni di essi sono liberi; ma allora lo sono anche quanti partecipano con costoro di un eguale diritto di parola. Dunque nessun virtuoso è servo, ma tutti sono uomini liberi. Muovendo dallo stesso punto di partenza rimarrà anche dimostrato che lo stolto è un individuo servo. Infatti, come la norma in fatto di musica non concede un eguale diritto di parola agli inesperti nei confronti degli esperti in essa, né la norma in fatto di grammatica la concede [III,88,25] agli inesperti di grammatica nei confronti degli esperti in essa né, in complesso, la norma di un’arte a chi è profano dell’arte nei confronti di chi ne è un esperto; così neppure la legge inerente alla vita fa partecipi di un eguale diritto di parola gli inesperti delle cose della vita nei confronti di coloro che ne sono esperti. Un eguale diritto di parola è invece concesso dalla legge a tutti coloro che sono liberi. Ma vi sono dei virtuosi che sono liberi, e i viziosi sono inesperti delle cose della vita mentre i virtuosi ne sono espertissimi. Dunque non vi sono dei viziosi liberi, [III,88,30] ma tutti sono servi.

SVF III, 362

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 454, 12 Mang. Quindi s’afferma non senza scopo che chi fa tutto saggiamente, fa tutto bene. Colui che fa tutto bene, fa tutto rettamente. Colui che fa tutto rettamente lo fa anche impeccabilmente, irreprensibilmente, inappuntabilmente, senz’obbligo di rendiconto e ineccepibilmente; cosicché avrà [III,88,35] la potestà di compiere tutto e di vivere come decide. Colui al quale questo è possibile, sarebbe un uomo libero. Ma l’individuo virtuoso fa tutto saggiamente, dunque egli è il solo ad essere libero.

SVF III, 363

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 454, 31 Mang. Colui che non è fattibile costringere o impedire ebbene, quello sarebbe un individuo non servo. Ora, non è possibile costringere o impedire l’uomo virtuoso; [III,88,40] dunque il virtuoso è non servo, poiché manifestamente egli è né costretto né impedito. Impedito, infatti, è chi non fa centro nelle cose che desidera; ma il sapiente desidera le cose che promanano dalla virtù, e centrare questo obiettivo non è per natura impossibile. Se poi davvero è costretto, è manifesto che fa qualcosa suo malgrado. Le azioni umane o promanano da virtù e sono azioni rette, oppure promanano [III,88,45] dal vizio e sono aberrazioni, oppure sono azioni intermedie ed indifferenti. Le azioni virtuose non [III,89,1] sono prodotto di violenza, ed egli le compie tutte quante – giacché per lui sono quelle sceglibili- di buon grado. Quelle invece viziose, in quanto possono essere fuggite, egli neppure si sogna di effettuarle. Né è verosimile che egli effettui suo malgrado le azioni indifferenti, verso le quali il suo intelletto è in equilibrio come su una bilancia, avendo imparato a non cedere loro come se avessero forza attrattiva né ad essere malcontento di loro come se meritasse di distogliersene. [III,89,5] E’ da ciò manifesto che il virtuoso nulla fa suo malgrado e che neppure è costretto. Se invece fosse servo, sarebbe costretto. Pertanto l’individuo virtuoso è libero.

SVF III, 364

Filone Alessandrino ‘De posteritate Caini.’ 138, II, p. 30, 17 Wendl. Questa è l’acquisizione teorica assolutamente fondamentale, ossia che soltanto il sapiente è libero e comanda, anche se avrà miriadi di padroni del suo corpo.

SVF III, 365

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XV, 31. [III,89,10] Sicché chi sarà bennato per la virtù, costui conviene che sia chiamato di nobile natura. […] Ma non è proprio possibile che uno sia di nobile natura e non sia di nobile indole, né che sia di nobile indole e non sia un uomo libero. Sicché è anche del tutto necessario che la persona ignobile sia serva.

SVF III, 366

Stobeo ‘Eclogae’ II, 107, 14 W. [III,89,15] Circa l’individuo con natura di purosangue e d’indole nobile, i seguaci di questa Scuola furono portati ad affermare che tutti i sapienti sono tali, mentre altri filosofi lo negarono. Alcuni credono, infatti, che purosangue per la virtù non si nasca soltanto ma che alcuni siano tali per averlo strutturato con l’esercizio, e portarono a dimostrazione di ciò quel detto proverbiale:

[III,89,20] ‘L’esercizio cronico si istituisce a natura’.

E concepirono la stessa cosa circa l’indole nobile, sicché la natura di purosangue è definita genericamente come una postura dell’animo, o naturale o strutturata dall’esercizio, appropriata alla virtù; oppure una postura dell’animo per la quale alcuni sono più facilmente suscettibili alla virtù. A sua volta l’indole nobile è una postura dell’animo, o ingenita o strutturata dall’esercizio, appropriata alla virtù.

[III,89,25] § 7. Che la comunità di legge non pertiene agli animali bruti

Frammenti n. 367-376

SVF III, 367

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 129. Inoltre ha il loro beneplacito il dire che noi non abbiamo alcun obbligo di giustizia verso gli altri animali, a causa della dissomiglianza tra noi e loro, secondo quanto afferma Crisippo nel primo libro ‘Sulla giustizia’.

SVF III, 368 [III,89,30]

[1] Origene ‘Contra Celsum’ IV, 81, Vol. I, p. 351, 7 K. In queste sue valutazioni <Celso, che ha esaltato la solerzia delle formiche e delle api> non ha visto in cosa differiscono le realizzazioni della ragione e del raziocinio da quelle che originano da una natura priva di ragione e da una mera struttura della cui causa nessuna ragione inerente agli agenti si fa carico, dal momento che essi neppure l’hanno […][III,89,35] Presso gli uomini sussistono città nelle quali si praticano molte arti e che sono dotate di una costituzione di leggi. Inoltre tra gli uomini vi sono regimi politici, cariche pubbliche e governi, sia quelli così chiamati in senso proprio in quanto costumi e attività di valore, sia quelli chiamati così in senso più improprio in quanto tendono ad imitarli per quanto possibile. Guardando infatti a quelli, i legislatori accorti [III,89,40] raccomandano i migliori regimi politici, cariche pubbliche e governi; nessuno dei quali è dato di trovare tra le creature prive di ragione.

[2] p. 352, 4. [III,90,1] Merita ammirazione la divina natura, la quale ha esteso perfino alle creature prive di ragione qualcosa che è una sorta di imitazione delle creature razionali.

SVF III, 369

Cicerone ‘De finibus’ III, 63. Tra le parti del corpo umano, alcune sono nate per sé, come gli occhi e le orecchie; mentre altre aiutano la funzione di altre parti, [III,90,5] come le gambe e le mani. Così alcune bestie di grandi dimensioni sono nate solo per sé, <mentre per altre non è così>. L’animale detto ‘pinna’ vive stabilmente in una grande conchiglia in compagnia di un altro animaletto chiamato ‘pinnotero’ il quale fa la guardia alla pinna. Il pinnotero, infatti, nuota fuori dalla conchiglia e poi vi rientra per segnalare alla pinna un pericolo, sicché essa richiude la conchiglia e lo serra dentro. Anche fra le formiche, le api e le cicogne si trovano esemplari che fanno talora qualcosa a vantaggio degli altri. Certo fra noi uomini questo vincolo [III,90,10] è più forte, dato che per natura siamo atti a formare ceti, associazioni e Stati.

SVF III, 370

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 130. I Pitagorici toppavano quando ammonivano ciò, <ossia che vi è società tra noi uomini e le creature prive di ragione>. Giacché, se pur esiste uno pneuma che pervade noi e loro, non per ciò stesso [III,90,15] vi è un obbligo di giustizia da parte nostra verso le creature prive di ragione. Guarda, infatti, che un certo pneuma bazzica anche i sassi e i vegetali e quindi noi siamo unificati ad essi, ma noi non abbiamo alcun obbligo di giustizia verso i vegetali ed i sassi, né commettiamo un’ingiustizia quando tagliamo o seghiamo tali corpi. Perché dunque gli Stoici affermano che esiste un intreccio di giustizia degli uomini [III,90,20] fra di loro e con gli dei? Non è in quanto lo pneuma si spinge attraverso tutti gli esseri che si possa salvaguardare un obbligo di giustizia da parte nostra verso le creature prive di ragione; ma è dacché noi abbiamo una ragione che si prolunga negli altri uomini e negli dei, ragione della quale le creature che ne sono prive non partecipano, che esse non avrebbero alcuna possibilità di avere un obbligo di giustizia verso di noi.

SVF III, 371

Cicerone ‘De finibus’ III, 67. Mentre reputano che tra uomini ed uomini esistano precisi vincoli giuridici, <gli Stoici> dicono che non esistano [III,90,25] affatto tra uomini ed animali. Crisippo sostiene fermamente la tesi che tutti gli altri esseri sono nati per servire uomini e dei; e questi ultimi, invece, per convivere in solidale comunanza; sicché gli uomini possono utilizzare le bestie a proprio vantaggio senza per questo commettere ingiustizia alcuna. La natura umana è tale che fra il singolo uomo e il genere umano vige il diritto civile [III,90,30] e che chi lo rispetta sarà giusto, mentre chi lo elude sarà ingiusto. Come si può rettamente dire che, quando si è teatro, appartiene a ciascuno il posto egli occupa, pur essendo il teatro in comune; così avviene in una città o nel mondo: che essi siano entità comuni non contrasta col diritto che ciascuno ha di possederne una parte.

SVF III, 372

Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 73, I, p. 24, 21 Wendl. Degli esseri che esistono, [III,90,35] alcuni partecipano né della virtù né del vizio, come i vegetali e gli animali privi di ragione; gli uni perché non hanno un animo e sono governati da una natura che non usa le rappresentazioni, gli altri perché mente e ragione sono state loro recise. Mente e ragione sarebbero come la casa del vizio e della virtù, dentro le quali questi per natura campano. Altri esseri, a loro volta, sono accomunati soltanto alla virtù e non partecipano di alcun vizio, come gli astri. Gli astri, infatti, sono e si chiamano animali [III,90,40] e animali cognitivi. [.…] Altri esseri sono di natura mista, come l’uomo, il quale è compatibile [….] con la virtù e col vizio.

SVF III, 373

Plutarco ‘Terr. an. aquat. animal. sint callid.’ p. 963f. I ragionamenti [III,91,1] degli Stoici e dei Peripatetici tendono a conclusioni del tutto opposte, al punto che la giustizia non ha alcuna possibilità di genesi e diventa una cosa integralmente inconsistente e insussistente, se tutti gli animali hanno parte nella ragione. Giacché diventa necessario o che noi commettiamo ingiustizia non risparmiandoli [III,91,5] oppure, non utilizzandoli, il vivere ci diventa impossibile e impraticabile; e in un certo modo vivremo la vita delle bestie, una volta abbandonate le utilità che ce ne provengono.

SVF III, 374

Plutarco ‘De esu carnium’ p. 999f. Non è da Stoici questa gara circa il mangiare carne. Cos’è questo gran tono diretto alla pancia ed alle carni arrosto? Perché, [III,91,10] calunniando di effeminatezza il piacere fisico come né un bene né principale né appropriato, essi si sono tanto industriati ad interessarsene? Eppure, dal momento che scacciano dai conviti l’anguilla e i manicaretti, sarebbe per loro conseguente essere ancora più malcontenti del sangue e delle carni. Ora invece, come se filosofassero per il libro delle spese giornaliere, essi eliminano il dispendio per ciò che nei pranzi è improficuo e superfluo, ma non schivano ciò che nella varietà delle portate è selvaggio [III,91,15] e sanguinolento. “Sì, essi dicono, ma noi non abbiamo alcun obbligo di giustizia verso gli animali privi di ragione”. Ma allora neanche verso l’anguilla, si potrebbe dire, e neppure verso le prelibatezze esotiche. Trattenetevi anche dalle carni, se intendete scacciare da ogni dove ciò ch’è né proficuo né necessario nel piacere fisico.

SVF III, 375

Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 46, I, p. 220, 19 Wendl. [III,91,20] La creatura irrazionale è, per natura, di due specie. La creatura che vive contro la ragione che opera la scelta [proairesi], creatura che alcuni chiamano ‘lo stolto’; e la creatura che vive in condizione di recisione della ragione, come è il caso degli animali privi di ragione.

SVF III, 376

‘Anecdota Paris.’ I, p. 244 Cramer. Gli Epicurei ed alcuni Stoici successivi fanno partecipi della felicità anche gli [III,91,25] animali privi di ragione.

ETHICA VII.

Sulle passioni

§ 1. La nozione di passione e le definizioni delle singole passioni

Frammenti n. 377-420

SVF III, 377

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 460 Pott. Se l’impulso è pulsione dell’intelletto [III,92,5] su qualcosa o lontano da qualcosa, allora la passione è un impulso eccessivo o che si stende oltre il ragionevole, oppure un impulso portatosi fuori controllo e che disobbedisce alla ragione. Dunque, in armonia con la loro disobbedienza alla ragione, le passioni sono moti dell’animo contrari alla natura [delle cose].

SVF III, 378

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 88, 6 W. Siccome la passione è una specie di [III,92,10] impulso, parliamo di seguito delle passioni.

[2] 10. <Gli Stoici> affermano che la passione è un impulso eccessivo e disobbediente alla ragione che opera la scelta [proairesi], oppure un moto dell’animo contrario alla natura delle cose, e che tutte le passioni ineriscono all’egemonico dell’animo. Perciò ogni sua palpitazione è una passione e, viceversa, ogni sua passione è una palpitazione. Dovendosi concepire della passione qualcosa di simile, alcune passioni sono però [III,92,15] primarie ed originarie, mentre altre fanno poi riferimento a queste. Primarie per genere sono queste quattro passioni: la smania, la paura, l’afflizione e l’ebbrezza. Smania e paura precedono le altre, in quanto sono anticipazioni: la smania, di quello che appare essere un bene; la paura, di quello che appare essere un male. Sopravvengono poi a queste l’ebbrezza e l’afflizione. L’ebbrezza, qualora si centrino le cose per le quali smaniavamo o si riesca a fuggir via da quelle delle quali [III,92,20] avevamo paura; l’afflizione qualora non si centrino le cose per le quali smaniavamo o si incappi in quelle delle quali avevamo paura. Dacché essi affermano che tutte le passioni dell’animo sono opinioni e che per essi l’opinione è sinonimo di concezione debole, quanto è immediato e senza riserva è sinonimo di contrizione o esaltazione emotiva irrazionale.

SVF III, 379

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 22. Dicono che fonte di ogni passione sia l’intemperanza, la quale è una diserzione [III,92,25] dalla retta ragione. La mente, in questo caso, è così avversa alle prescrizioni della ragione da diventare del tutto impotente a reggere e contenere gli impulsi dell’animo. Come la temperanza tiene a freno gli impulsi, li fa obbedire alla retta ragione e salvaguarda i meditati giudizi della mente; così la sua nemica, l’intemperanza, infiamma, [III,92,30] perturba ed esaspera ogni stato d’animo, e genera afflizioni, paure e ogni sorta di passione.

SVF III, 380

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 14. Stimano che ogni passione nasca da un giudizio e da una opinione. [III,93,1] Perciò ne forniscono la definizione più precisa, affinché si capisca non solo quanto le passioni siano viziose, ma anche quanto siano in nostro potere. […] Dicono che quei giudizi e quelle opinioni che ho detto causare le passioni non contengono solo le passioni ma anche ciò che origina dalle passioni. [III,93,5] Così l’afflizione provoca quasi un morso di dolore, la paura un ripiegamento dell’animo e la fuga, la letizia una profusa ilarità, la libidine una brama sfrenata. Vogliono anche che quella inclusa in tutte le definizioni precedenti, ossia l’opinione, consista in un assenso debole.

SVF III, 381

Cicerone ‘De finibus’ III, 35. Le passioni dell’animo […] che i Greci chiamano πάθη, [III,93,10] pur con numerose suddivisioni, sono soltanto di quattro generi: l’afflizione, la paura, la libidine e quella passione che gli Stoici chiamano ἡδονή, ossia piacere, con un termine che va bene tanto per il corpo che per l’animo, […] quasi un trasporto dell’animo che si esalta. Le passioni non sono mosse da alcuna potenza naturale e sono tutte opinioni e giudizi inconsistenti. [III,93,15] Il saggio pertanto ne è sempre esente.

SVF III, 382

Temistio ‘Paraphr. in Aristot. De anima’ III, 5, p. 197 Sp. I seguaci di Zenone non fanno male a proporre che le passioni dell’animo umano siano pervertimenti della ragione e determinazioni aberranti di ragione.

SVF III, 383

Proclo ‘In Platonis Alcibiad.’ III, p. 159 Cousin. Tali passioni non sono [III,93,20] soltanto smosse negli uomini dai giudizi, come affermano gli Stoici; ma è anche il contrario, ossia è a causa di tali passioni che gli uomini mutano desideri e opinioni.

SVF III, 384

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 449c. Forzati dall’evidenza dei fatti, gli Stoici affermano che “non ogni [III,93,25] determinazione è una passione, ma quella determinazione che mette in moto un impulso violento ed eccessivo”, ammettendo che la parte che in noi determina e la parte che in noi patisce sono diverse, come sono diverse la parte che muove e la parte che è mossa. Crisippo stesso, in molti libri, quando definisce la fortezza e la padronanza di sé come posture dell’animo ossequenti alla ragione che opera la scelta [proairesi], è manifestamente costretto dall’evidenza dei fatti ad [III,93,30] ammettere che in noi la parte che segue ubbidendo oppure, al contrario, che combatte non ubbidendo, è diversa dalla parte alla quale segue.

SVF III, 385

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 24. Ogni causa delle passioni è un’opinione: dunque non soltanto dell’afflizione ma anche delle altre passioni, che sono di quattro generi con numerose sottospecie. Poiché ogni passione è un moto dell’animo [III,93,35] destituito di ragione, o che la rifiuta, o che non le obbedisce, e poiché è un moto sollecitato in due direzioni opposte dall’opinione o di un bene o di un male, esistono quattro passioni simmetricamente distribuite. Due derivano dall’opinione di un bene: una è l’ebbrezza sfrenata, cioè una letizia esaltata derivante dall’opinione della presenza di un qualche gran bene; l’altra, che può essere rettamente chiamata cupidigia o libidine, è una brama smisurata e non ottemperante alla ragione di un grande [III,93,40] bene futuro. Questi due generi di passione, l’ebbrezza sfrenata e la libidine, turbano l’animo proponendogli l’opinione di un bene, così come gli altri due, la paura e l’afflizione, proponendogli l’opinione di un male. La paura infatti è l’opinione dell’incombere di un gran male futuro, mentre l’afflizione è l’opinione di un gran male presente o anche l’opinione viva di un male tale che sembra corretto angustiarsi, [III,94,1] il che equivale a dire che chi si duole opina opportuno il dolersi.

SVF III, 386

[1] Aspasio in ‘Aristot. Eth. Nicom.’ p. 44, 12 Heylbut. Gli Stoici credettero che la passione fosse un impulso veemente o un impulso irrazionale, e la [III,94,5] considerarono come l’opposto della retta ragione.

[2] p. 45, 16. Gli Stoici affermavano che, per genere, le passioni sono: ebbrezza ed afflizione, paura e smania. Essi dicevano che le passioni nascono a causa della concezione di un bene e di un male. Qualora, infatti, l’animo si muova come verso dei beni presenti si ha l’ebbrezza. Qualora, invece, si muova come verso dei mali presenti si ha [III,94,10] l’afflizione. A sua volta, qualora si muova verso dei supposti beni si ha la smania, la quale è desiderio di qualcosa che appare un bene. Da cose che invece sono supposte essere dei mali, essi dicevano che la passione derivante è la paura.

[3] Anonimo in ‘Aristot. Eth. Nicom.’ p. 180, 14 Heylbut. Siffatta è l’afflizione, che gli Stoici, invece di afflizione, chiamano [III,94,15] ‘contrizione’.

SVF III, 387

Servio ‘In Aeneidem’ VI, 733. Varrone e tutti i filosofi dicono che le passioni sono quattro, due per dei beni opinati e due per dei mali opinati. Infatti affliggersi ed avere paura sono due opinioni sui mali, una sui presenti e una sui futuri; mentre esaltarsi e smaniare di ottenere sono opinioni sui beni, in un caso [III,94,20] sui presenti e nell’altro sui futuri.

SVF III, 388

Filone Alessandrino ‘De fortitudine’ II, p. 419 Mang. Quattro sono le passioni dell’animo. Due riguardano il bene, stante o futuro: l’ebbrezza e la smania. Due riguardano il male, presente o supposto: l’afflizione e la paura.

SVF III, 389

Stobeo ‘Eclogae’ II, 89, 4 W. [III,94,25] Nella definizione della passione, i termini ‘irrazionale’ e ‘contro natura’ non vanno intesi in senso comune, ma il termine ‘irrazionale’ va inteso come equivalente a ‘disobbediente alla ragione’. Ogni passione, infatti, è coattiva, poiché noi sappiamo che spesso, pur vedendo che fare una data cosa è non utile, coloro che sono nel mezzo delle passioni, portati fuori controllo dalla loro veemenza come da un cavallo imbizzarrito, sono condotti [III,94,30] a farla. Cosa con la quale alcuni di loro sono spesso d’accordo, quando recitano il noto verso:

‘io ho intelligenza della cosa, ma la natura mi fa violenza’

dove ‘intelligenza’ significa il discernimento e il conoscimento delle cose rette. Nella delineazione della passione, poi, il termine ‘contro natura’ è preso [III,94,35] nel significato di ‘qualcosa che avviene in contrasto con la ragione che è retta e in armonia con la natura delle cose’. Ora, tutti coloro che si trovano nel mezzo delle passioni si distolgono dalla ragione in un modo non similare a quello di coloro che si sono ingannati su una cosa qualsiasi, ma in un modo peculiare. Infatti, coloro che si sono ingannati, per dire, sugli atomi come principi, una volta istruiti sul fatto che tali non sono si distornano da quella determinazione. Invece coloro che si trovano nel mezzo delle passioni, pur se imparassero, pur se istruiti in senso contrario, ossia [III,94,40] che non bisogna affliggersi o avere paura o lasciarsi andare interamente alle passioni dell’animo, non se ne distornano comunque ma si lasciano condurre dalle passioni, fino ad essere padroneggiati dalla loro tirannia.

SVF III, 390

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 450c. Nei libri ‘Sull’inammissibilità’, Crisippo afferma: “L’ira è cieca, [III,95,1] spesse volte non permette di vedere cose luminose e spesse volte si para innanzi alle cose già da noi afferrate”. Poco più avanti dice: “Le passioni che ci sopravvengono sbattono fuori le nostre contezze e le cose ci appaiono come diversamente, spingendoci violentemente alle azioni opposte”.

[III,95,5] Di poi utilizza come testimone Menandro, quando dice:

‘Oh, sciagurato me! In quale parte del mio corpo

era finito in quel tempo il mio senno

quando sceglievo questo e non quello?’

[III,95,10] Poi di nuovo Crisippo prosegue dicendo: “Pur bisognando che chi ha la natura di creatura logica utilizzi in ciascuna attività la ragione e che da questa si lasci pilotare, noi spesse volte ce ne distogliamo ed utilizziamo un’altra pulsione più violenta”.

SVF III, 391

Andronico ‘De passionibus’ 1 (p. 11 Kreuttner) La passione è un moto dell’animo [III,95,15] irrazionale e contro la natura delle cose od un impulso eccessivo […] Le passioni più generali sono quattro: afflizione, paura, smania, ebbrezza. L’afflizione è un’irrazionale contrizione od opinione immediata e senza riserva della presenza di un male per il quale si crede che ci si debba contrire. La paura è un’avversione irrazionale od una fuga da qualcosa che si suppone essere terribile. La smania è un desiderio [III,95,20] irrazionale od un inseguimento di qualcosa che si suppone essere un bene. L’ebbrezza è un’esaltazione irrazionale od un’opinione immediata e senza riserva della presenza di un bene per il quale si crede che ci si debba esaltare.

SVF III, 392

Filone Alessandrino ‘De Moyse’ III, II, Mang. p. 156. <E se qualcosa di vergognoso si palesasse nella sua mente provenendo> da una passione irrazionale: o un’ebbrezza che la esalta e la porta in cielo contro natura; oppure, per contro, [III,95,25] un’afflizione che la fa contrire e la demolisce; o una paura che distoglie e inclina l’impulso che è sulla retta via; o una smania che trascina a cose che sono non presenti e che la tende con violenza <ecco, affinché egli possa curarla> […] Giacché l’avvenenza del corpo sta nella simmetria delle parti, nel bel colorito e nella carnosità […] mentre la bellezza dell’intelletto sta nell’armonia dei giudizi e nella sinfonia delle virtù.

SVF III, 393

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 14. L’afflizione è l’opinione viva [III,95,30] di un male presente, per il quale sembra corretto che l’animo sia abbattuto e contrito; la letizia è l’opinione viva di un bene presente per il quale sembra corretto esaltarsi; la paura è l’opinione di un male incombente che appare intollerabile; la libidine è l’opinione di un bene futuro che si ritiene utile sia in [III,95,35] atto e presente.

SVF III, 394

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 90, 7 W. Essi affermano che la smania è un desiderio disobbediente alla ragione. Causa della smania è opinare che ci sia apportato un bene grazie alla cui presenza noi ci disimpegneremo ottimamente. Questa opinione possiede la disordinata capacità di muoverci nell’immediato e senza riserva a credere che esso sia effettivamente desiderabile. La paura è un’avversione disobbediente [III,95,40] alla ragione. Causa della paura è l’opinare che ci sia apportato un male. Questa opinione possiede la capacità di muoverci nell’immediato e senza riserva a credere che esso sia effettivamente da fuggire. L’afflizione è una contrizione dell’animo disobbediente alla ragione. Causa dell’afflizione è l’opinare la presenza, nell’immediato e senza riserva, di un male per il quale è doveroso contrirsi. L’ebbrezza è un’esaltazione [III,96,1] dell’animo disobbediente alla ragione. Causa dell’ebbrezza è l’opinare la presenza, nell’immediato e senza riserva, di un bene per il quale è doveroso esaltarsi. Sotto la smania sono raggruppate le seguenti passioni: ira e le sue specie (rancore, bile, sdegno, risentimento, amarezze d’animo e passioni del genere), [III,96,5] passioni amorose veementi, brame, bramosie, edonismo, cupidigia, amor di celebrità e simili. Sotto l’ebbrezza sono raggruppate: il godimento per i mali altrui, gratificazioni, stregonerie e simili. Sotto la paura sono raggruppate: trepidazioni, ansie, sbigottimento, vergogne, turbamenti, superstizioni, timore e tremori. Sotto l’afflizione sono raggruppate: invidia, livore, gelosia, commiserazione, lutto, tristezza, [III,96,10] assillo, cruccio, doglia, noia.

[2] 92, 18. Alcune di queste passioni palesano ciò su cui nascono; per esempio, la commiserazione, l’invidia, il godimento per i mali altrui, la vergogna. Altre, invece, palesano la particolarità del movimento concitato; per esempio, la doglia e il tremore.

SVF III, 395

Stobeo ‘Eclogae’ II, 91, 10 W. L’ira è dunque smania di [III,96,15] vendicarsi di chi ci pare aver commesso ingiustizia contro di noi in modo non convenevole. Il rancore è ira al suo inizio. La bile è ira che gonfia. Lo sdegno è ira inveterata, riposta o messa da parte. Il risentimento è ira che spia il momento opportuno per la vendetta. L’amarezza d’animo è ira che erompe immediatamente. Il trasporto amoroso è il progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza. La brama è smania, per passione amorosa, di chi è assente. La bramosia è smania [III,96,20] di conversare con l’amico assente. L’edonismo è smania di ebbrezze. La cupidigia è smania di ricchezza di denaro. L’amor di celebrità è smania di fama.

SVF III, 396

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 113. La smania è un desiderio irrazionale sotto la quale sono posizionate anche queste passioni: frustrazione, odio, litigiosità, ira, passione amorosa, sdegno e rancore. La frustrazione è una smania che ha fallito ed è come separata [III,96,25] dal suo oggetto, eppure vi tende invano ed è ambasciata. L’odio è una smania progressiva e durevole che a qualcuno capiti un male. La litigiosità è smania di togliere di torno chi ci circonda. L’ira è smania di vendetta su chi ci pare aver commesso ingiustizia contro di noi in modo non convenevole. La passione amorosa è una smania che non coinvolge i virtuosi, giacché quello dei virtuosi è il progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza. [III,96,30] Lo sdegno è un’ira inveterata e risentita che spia (l’occasione della vendetta), come palesano questi versi:

‘Se pure quel giorno dovrà digerire la bile,

ma anche dopo conserva il risentimento, fino a che lo soddisfi’.

Il rancore è ira al suo inizio.

SVF III, 397

Andronico ‘De passionibus’ 4 (p. 16 Kreuttner). [III,96,35] Le 27 specie della smania. L’ira è smania di vendetta su chi ci pare aver commesso ingiustizia contro di noi. Il rancore è ira al suo inizio. La bile è ira che gonfia. [III,96,40] L’amarezza d’animo è ira che erompe immediatamente. Lo sdegno è ira inveterata riposta. Il risentimento è ira che spia il momento opportuno per la vendetta. La passione amorosa è smania di un accoppiamento carnale. [III,97,1] Altra passione amorosa è la smania di amicizia. Altro è il trasporto amoroso, che <gli Stoici> chiamano progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza. La bramosia è smania di conversare con l’amico assente. [III,97,5] La brama è smania, per passione amorosa, dell’assente. L’ostilità è animosità che spia e maltratta. L’animosità è smania che a qualcuno capiti un male del quale è anche colpevole. L’incostanza è smania che si sazia in fretta. L’occhieggiamento è rapidità nel guardare ciò che si brama. [III,97,10] La frustrazione è smania insoddisfatta. La tracotanza è una smania rude. La rissosità è smania di schierarsi contro qualcuno per fargli del male. Lo struggimento è smania che è stata resa schiava. L’edonismo è smania senza misura di ebbrezze. [III,97,15] L’avarizia è smania senza misura di denaro. Il culto degli onori è smania senza misura per le onorificenze. Il culto della vita è smania irrazionale di vita. Il culto del corpo è smania di floridezza corporale oltre il dovuto. La voracità è smania senza misura di cibi. [III,97,20] L’avvinazzamento è smania insaziata per il vino. La lascivia è smania senza misura di rapporti sessuali.

SVF III, 398

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 21. Definiscono così le passioni che sono sottospecie della libidine. L’ira è libidine di punire chi si ritiene ci abbia leso ingiuriandoci; l’escandescenza è ira sul nascere e appena apparsa, quella che in Greco si dice θύμωσις; l’odio è ira inveterata; [III,97,25] l’inimicizia è ira che spia l’attimo per vendicarsi; la discordia è ira acerbissima, covata nell’animo e nel cuore; l’indigenza è libidine insaziabile; lo struggimento è libidine di vivere con chi non è presente. Essi poi precisano che la libidine è dei predicati, che i dialettici chiamano κατηγορήματα, di una o più cose come [III,97,30] possedere ricchezze, ottenere onori; e l’indigenza è libidine di cose come onori e ricchezze.

SVF III, 399

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 239. Chi afferma che il trasporto amoroso “è un progetto di stringere amicizia”, intende al tempo stesso “con dei giovani in fiore” anche se non lo propala [III,97,35] esplicitamente; giacché nessuno prova trasporto amoroso per dei vecchi e per chi non è nel fior degli anni.

SVF III, 400

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 114. L’ebbrezza è un’esaltazione irrazionale per qualcosa che pare sceglibile. Sotto di essa sono posizionati la malia, il godimento per i mali altrui, la delizia e l’effusione di sperma. La malia è ebbrezza che affattura attraverso le orecchie. Il godimento per i mali altrui è ebbrezza per le altrui disgrazie. La delizia è, come una svolta, un’esortazione dell’animo [III,97,40] al rilassamento. L’effusione di sperma è dissoluzione di virtù.

SVF III, 401

Andronico ‘De passionibus’ 5 (p. 19 Kreuttner) Le cinque specie dell’ebbrezza. La gratificazione è ebbrezza per beni inattesi. La delizia è ebbrezza per via di vista o di udito. [III,98,1] La malia è ebbrezza che affattura attraverso l’udito oppure che nasce da un discorso, da una musica o da un inganno. Il godimento per i mali altrui è ebbrezza per le sfortune del prossimo. La stregoneria è ebbrezza per inganno o attraverso magia.

SVF III, 402

Stobeo ‘Eclogae’ II, 91, 20 W. [III,98,5] Il godimento per i mali altrui è ebbrezza per le altrui disgrazie. La gratificazione è ebbrezza per cose inattese. La stregoneria è ebbrezza per inganno attraverso la vista.

SVF III, 403

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 20. Essi descrivono le forme dell’ebbrezza in questo modo. La malevolenza è ebbrezza per il male altrui anche senza un vantaggio per sé. Il diletto è l’ebbrezza che prova l’animo allettato dalla soavità di quel che ode. [III,98,10] Il diletto non è soltanto delle orecchie, ma anche degli occhi, del tatto, dell’odorato e del gusto, le cui ebbrezze sono tutte dello stesso genere e imbevono l’animo come colandogli dentro. La iattanza è ebbrezza sfrenata che si esprime con insolenza.

SVF III, 404

Cicerone ‘De finibus’ II, 13. Ma la differenza è questa: [III,98,15] che la parola ‘piacere’ può riferirsi sia al ‘fisico’ che al ‘mentale’. Gli Stoici reputano che quello mentale sia una cosa viziosa, e lo definiscono così: ‘ebbrezza dell’animo che opina senza ragione di star fruendo di un grande bene’.

SVF III, 405

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 491 Pott. [III,98,20] In generale, infatti, il piacere come passione è non necessario, essendo il piacere conseguenza di alcuni bisogni naturali come l’aver fame, la sete, il freddo e il sesso. Se pertanto fosse possibile bere o cibarsi o fare figli senza piacere, non ci sarebbe alcun altro bisogno di esso; giacché nessun’altra nostra attività né disposizione e neppure parte è piacere; ma esso entra nella nostra vita per essere ministro, come si dice che [III,98,25] il sale lo sia per la digestione del cibo. Invece il piacere, una volta oppostosi alle redini ed assoggettata la casa, per prima cosa genera in chi gli è grato la smania, che è una mira ed un desiderio irrazionale.

SVF III, 406

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 246, I, p. 167, 23 W. [III,98,30] L’ebbrezza è un’esaltazione irrazionale dell’animo. Questa maledetta da se stessa sopravviene al vizioso ma a nessun virtuoso.

SVF III, 407

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 112. La paura è supposizione di un male, e alla paura si riconducono anche queste passioni: il tremore, la trepidazione, la vergogna, lo sbigottimento, il turbamento, [III,98,35] l’ansia. Il tremore è paura che infonde timore. La vergogna è paura del discredito. La trepidazione è paura per un’attività futura. Lo sbigottimento è paura originata dalla rappresentazione di una faccenda insolita. Il turbamento è paura con affannamento della voce. L’ansia è paura per una faccenda dubbia.

SVF III, 408

Stobeo ‘Eclogae’ II, 92 W. La trepidazione è paura per un’attività futura. [III,98,40] L’ansia è paura di cadere in errore e, altrimenti, paura della sconfitta. Lo sbigottimento è paura originata da una rappresentazione insolita. La vergogna è paura del discredito. Il turbamento è paura che incalza con affanno di voce. La superstizione è paura degli dei e dei démoni. Il timore è paura di qualcosa di terribile. Il tremore è paura originata dalla ragione.

SVF III, 409

Andronico ‘De passionibus’ 3 (p. 15 Kreuttner). [III,98,45] Le 13 specie della paura. La trepidazione è paura per un’attività futura. [III,99,1] La vergogna è paura del discredito. Il tremore è paura di ciò che si guarda con sospetto. Il timore è paura che paralizza. Lo sbigottimento è paura a motivo della rappresentazione insolita di qualcosa di terribile. [III,99,5] Lo sgomento è paura originata da una rappresentazione più grande di noi. [La viltà è il ritirarsi da ciò che appare doveroso fare, a causa della rappresentazione di qualcosa di terribile]. La pavidità è vuota paura. L’ansia è paura di cadere in errore o paura della sconfitta o una paura che infonde speranze contrarie a quelle delle quali abbiamo un veemente desiderio. [III,99,10] L’esitazione è trepidazione nel fare qualcosa di già vagliato. L’orrore è paura di qualcosa di concettualizzato. Il turbamento è paura che sollecita affannosamente la voce. La superstizione è paura dei démoni [o esagerazione degli onori agli dei]

SVF III, 410

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 19. Questa è la loro definizione [III,99,15] delle passioni subordinate alla paura. La pigrizia è paura di una successiva fatica. […] Il terrore è paura che sconvolge, per cui alla vergogna segue il rossore; al terrore il pallore, il tremore e lo stridore di denti. Il timore è paura di un male che si approssima. Lo spavento è paura che fa perdere la testa. […] La costernazione è paura che segue ed accompagna lo spavento. Lo sbigottimento [III,99,20] è paura che ci strappa via i pensieri; la pavidità è paura permanente.

SVF III, 411

[1] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 446 Pott. Sì, essi dicono, la paura è un’avversione irrazionale ed è una passione. […] Ma se sofisteggiano sulle parole, allora che i filosofi chiamino pure ‘cautela’ la paura della legge, che è un’avversione ragionevole. [III,99,25] Non fuor di modo Critolao di Faselide chiamava costoro dei fabbricaparole.

[2] p. 448 Pott. Lo sbigottimento è dunque paura originata da una rappresentazione insolita o in seguito ad una rappresentazione imprevista […] e una notizia. Paura in quanto fatto avvenuto o presente o una meraviglia strabiliante.

[3] p. 450 Pott. La superstizione è dunque una passione, poiché è paura dei démoni.

SVF III, 412

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 110. [III,99,30] Dalle falsità sopravviene il pervertimento dell’intelletto, dal quale germinano molte passioni e cause di indisposizione. Secondo Zenone, la passione è un moto dell’animo irrazionale e contro natura o un impulso eccessivo. Secondo quanto affermano Ecatone [nel secondo libro ‘Sulle passioni’] e Zenone nel libro ‘Sulle Passioni’, le passioni supreme sono di quattro generi: afflizione, paura, [III,99,35] smania, ebbrezza.

[2] 111. L’afflizione è una contrizione irrazionale e le sue specie sono: la commiserazione, l’invidia, il livore, la gelosia, la tristezza, la molestia, il cruccio, la doglia, il subbuglio interiore. La commiserazione è afflizione per chi soffre un male immeritatamente. L’invidia è afflizione per i beni altrui. Il livore è afflizione perché un altro ha ciò che uno [III,99,40] smania di avere. La gelosia è afflizione perché un altro si trova ad avere ciò che comunque uno pure ha. La tristezza è afflizione che appesantisce. La molestia è afflizione che angustia ed appresta tribolazioni. Il cruccio è afflizione che permane o s’intensifica, [III,100,1] originata da certi dibattiti interiori. La doglia è afflizione dolorosa. Il subbuglio interiore è afflizione irrazionale che ci introna ed impedisce di notare le cose presenti.

SVF III, 413

Stobeo ‘Eclogae’ II, 92, 7 W. L’invidia è afflizione per i beni altrui. Il livore è afflizione perché un altro ha fatto centro, e noi no, in cose per le quali smaniamo. [III,100,5] Si chiama altrimenti livore anche lo stimare beato qualcuno da parte di chi invece è bisognoso e, ancora diversamente, l’imitazione di chi è come più forte di noi. La gelosia è afflizione perché anche un altro fa centro nelle cose per le quali noi smaniavamo. La commiserazione è afflizione per chi soffre un male immeritatamente. Il lutto è afflizione per una morte prematura. La tristezza è afflizione che appesantisce. L’assillo è afflizione che ci ammutolisce. Il cruccio è afflizione dovuta ad un dibattito interiore. [III,100,10] La doglia è afflizione penetrante che ci trascina al fondo. La noia è afflizione con irrequietezza.

SVF III, 414

Andronico ‘De passionibus’ 2 (p. 12 Kreuttner) Le 25 specie dell’afflizione. [III,100,15] La commiserazione è afflizione per i mali di un altro, quando egli li patisca immeritatamente. L’invidia è afflizione per i beni altrui [o afflizione per il felice successo delle persone capaci]. Il livore è afflizione perché un altro centra le cose per cui noi smaniamo, o afflizione perché altri hanno qualcosa che noi non abbiamo. [III,100,20] La gelosia è afflizione perché anche altri hanno quello che abbiamo noi. Lo scoraggiamento è afflizione per qualcosa di insoluto o difficile da rimuovere. Il guaio è afflizione per mali che ci chiudono ogni strada. La tristezza è afflizione che appesantisce. [III,100,25] L’assillo è afflizione che ci ammutolisce. La convulsione è un’afflizione veemente. Il lutto è afflizione per una fine prematura. La scontentezza è afflizione derivante da pensieri contrastanti. La seccatura è afflizione che angustia o che non dà via d’uscita. [III,100,30] La doglia è afflizione penetrante ed acuta. Il cruccio è afflizione originata dal risultato di un ragionamento. Il rimorso è afflizione per aberrazioni effettuate in quanto avvenute per mezzo nostro. Il subbuglio interiore è afflizione che impedisce di intravedere il futuro. [III,100,35] Lo scoramento è afflizione di chi non ha speranza di centrare le cose per le quali smania. La noia è afflizione con irrequietezza. La nemesi è l’afflizione che tocca a coloro che si sono esaltati contro il conveniente. L’insofferenza è afflizione per l’incertezza sul come utilizzare le circostanze presenti. Il gemito è il lamento di chi è trascinato dall’afflizione. [III,100,40] Lo sconforto è afflizione che appesantisce e non lascia sollevare il capo. La lamentazione è il lacrimare dell’afflitto che accenna al peggio. La preoccupazione è il pensiero dell’afflitto. Il compianto è afflizione per i mali altrui.

SVF III, 415

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 17. Danno poi queste definizioni. [III,101,1] L’invidia è afflizione per dei casi fortunati altrui che non danneggiano l’invidioso, giacché se uno si dolesse dei casi fortunati altrui che gli recano danno, non lo si direbbe rettamente invidioso. […] Il termine ‘emulazione’ ha un duplice significato, uno positivo e un altro negativo. [III,101,5] Anche l’imitazione della virtù, infatti, si chiama emulazione, ma siccome essa è degna di lode, non la utilizziamo qui in questo senso. L’emulazione è afflizione qualora un altro ottenga, mentre noi no, ciò che desideriamo ardentemente. La gelosia, come qui voglio tradurre il greco ζηλοτυπία, è afflizione perché ciò che uno ha desiderato ardentemente solo per sé è in possesso anche di un altro. La misericordia è afflizione per le tribolazioni di chi soffre a torto; [III,101,10] giacché nessuno prova misericordia per la punizione di un parricida o di un traditore. L’angoscia è afflizione che opprime; il lutto è afflizione causata dalla morte prematura di chi ci sia stato caro; la mestizia è afflizione che fa lacrimare; la tribolazione è afflizione affannosa; la sofferenza è afflizione tormentosa; la lamentazione è afflizione accompagnata da ululati; la preoccupazione è afflizione per dei pensieri; la molestia [III,101,15] è afflizione permanente; il patimento è afflizione accompagnata da sofferenza fisica; la disperazione è afflizione senza speranza alcuna di miglioramento.

SVF III, 416

[1] Nemesio ‘De nat. hom.’ cp. 19-21, P. G. XL, col. 688-692. Quattro sono le specie dell’afflizione: l’assillo, la tristezza, l’invidia, [III,101,20] la commiserazione. L’assillo è afflizione che ammutolisce. La tristezza è afflizione che appesantisce. L’invidia è afflizione per i beni altrui. La commiserazione è afflizione per i mali altrui. Ogni afflizione è un male per sua stessa natura, giacché se anche il virtuoso s’affliggerà per la rovina di uomini probi o dei figli o per la devastazione dello Stato, non lo farà in prima istanza né di proposito, ma secondo le difficili circostanze. [III,101,25] In questi frangenti, colui che conosce la natura delle cose sarà capace di dominare la passione, estraniandosi integralmente dalle cose di qui e rannodandosi alla divinità. Il virtuoso, in tali frangenti, sa moderare le passioni e non ne è né superato né prigioniero, ma piuttosto ne è padrone…

[2] cp. 20. La paura si suddivide in sei specie: la trepidazione, il pudore, la vergogna, [III,101,30] lo sgomento, l’ansia e lo sbigottimento. La trepidazione è paura per un’attività futura. Lo sgomento è paura originata da una rappresentazione di grande potenza. Lo sbigottimento è paura originata da una rappresentazione insolita. L’ansia è paura di cadere in errore, cioè di un insuccesso, giacché noi siamo in ansia quando abbiamo paura di fallire in qualche azione. Il pudore è paura di una supposta denigrazione, ma questa è una passione nobilissima. La vergogna [III,101,35] è paura per qualche brutta azione effettuata, e neppure questa lascia senza speranza di salvezza. Pudore e vergogna differiscono in questo, che chi si vergogna per le azioni effettuate affonda in essa; mentre chi prova pudore ha paura di incappare nel discredito. Facendo un cattivo uso dei nomi, gli antichi spesse volte chiamano il pudore vergogna. La paura nasce per il raffreddamento dello pneuma caldo che concorre [III,101,40] tutto al cuore e alla parte dominante dell’animo; proprio come il popolo, quando ha paura, si rifugia presso i comandanti in carica. Strumento dell’afflizione è la bocca dello stomaco, giacché è questa che, nelle afflizioni, s’accorge del loro morso. Come afferma Galeno nel terzo libro de ‘La dimostrazione’ […]

[3] cp. 21. Il rancore è un ribollimento del sangue intorno al cuore, originato dall’esalazione [III,101,45] della bile o per un suo intorbidamento. Per questo la collera si chiama anche bile. Si dà anche il caso che il rancore sia un desiderio di controvendetta, giacché quando noi subiamo un’ingiustizia o riteniamo di averla subita, serbiamo rancore ed a volte nasce in noi una passione che è un misto di smania e rancore.

Tre sono le specie di rancore: l’ira, che si chiama anche collera o bile, lo sdegno e il risentimento. Infatti il rancore, quando è al suo inizio e si mette in moto, si chiama ira [III,102,1] o collera o bile. Lo sdegno è collera condotta ad inveterarsi. È detto infatti così dal suo ‘permanere’ e dall’essere stato trasmesso alla memoria. Il risentimento è ira che spia il momento opportuno per la vendetta. È detto infatti così dal suo ‘giacere’. Il rancore è una guardia del corpo del pensiero, giacché qualora il pensiero giudichi giusto [III,102,5] fremere per qualche evento allora, se entrambi mantengono il proprio ruolo naturale, subentra una scarica di rancore.

SVF III, 417

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 52. Resta da considerare la dottrina dei Cirenaici, i quali ritengono che l’afflizione esista solo nel caso di un evento inatteso. Qui il fatto di rilievo, come già dissi di sapere, è che anche secondo Crisippo il colpo [III,102,10] che arriva all’improvviso ferisce di più.

SVF III, 418

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046b. Nel secondo libro ‘Sul bene’, spiegando che l’invidia “è afflizione per i beni altrui, propria di coloro che vogliono svilire chi hanno dintorno per farsi eminenti loro”, <Crisippo> rannoda all’invidia [III,102,15] il godimento per i mali altrui: “… e congiunto costantemente all’invidia nasce il godimento per i mali altrui, proprio di coloro che vogliono, per motivi simili, che chi hanno dintorno sia svilito; mentre la commiserazione nasce invece quando essi sono sviati secondo altre pulsioni naturali”.

SVF III, 419

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 83. La ragione di tutte le afflizioni è una sola, pur se con nomi diversi. Infatti, sono forme di afflizione [III,102,20] l’essere invidiosi, emulare, essere gelosi, provare misericordia, angosciarsi, essere in lutto, essere mesti, essere tribolati, soffrire, lamentarsi, preoccuparsi, provare molestia, patire, disperarsi. Di tutte queste afflizioni gli Stoici danno una definizione, e i termini che ho menzionato designano stati particolari e quindi non significano, come sembrerebbe, le medesime cose ma cose in parte differenti.

SVF III, 420

Galeno ‘Hipp. de humor.’ I, XVI, p. 174 K. [III,102,25] Anche il rancore e lo scoraggiamento sono passioni dell’animo. Il rancore e l’ira differiscono dallo scoraggiamento e dall’afflizione per il modo di attivarsi. Infatti, nell’ira e nel rancore il calore innaturato in essi si protende all’esterno e allora nasce e s’accresce la collera. Invece nell’afflizione e nello scoraggiamento l’umore freddo e [III,102,30] quello ricco di flegma si raccolgono insieme, e di qui essi hanno origine.

§ 2. Predisposizione, stato morboso, infermità

Frammenti n. 421-430

SVF III, 421

Stobeo ‘Eclogae’ II, 93, 1 W. La predisposizione è una proclività alla passione o a qualche opera contraria alla natura delle cose: per esempio, all’afflizione, all’iracondia, all’invidiosità, [III,102,35] alla biliosità e simili. La predisposizione è diretta anche verso altre opere contro la natura delle cose: per esempio, ruberie, adulteri e oltraggi; ed è secondo queste opere che gli autori sono chiamati ladri, adulteri e oltraggiatori. La stato morboso è un’opinione smaniosa già scorsa fino a diventare una postura incallita dell’animo e per la quale si concepiscono come altamente sceglibili cose che invece non sono tali, come nel caso della filoginia, dell’amore per il vino e per il denaro. Ci sono anche stati morbosi [III,102,40] opposti a questi e che nascono per ripugnanza: per esempio, [III,103,1] la misoginia, la ripugnanza per il vino e la misantropia. Gli stati morbosi accompagnati da debolezza si chiamano infermità.

SVF III, 422

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 115. Come si parla di infermità del corpo, per esempio, della podagra e dell’artrite; così pure sono infermità dell’animo l’amore della celebrità, [III,103,5] l’edonismo e similari. Infatti l’infermità è una morbosità accompagnata da debolezza, e la morbosità è presuntuosa ma fortissima certezza che qualcosa ci appare sceglibile. E come si parla di predisposizioni nel caso del corpo, per esempio, al catarro e alla diarrea; così pure nel caso dell’animo vi sono delle proclività, per esempio, all’invidia, alla commiserazione, alla rissosità e similari.

SVF III, 423

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 27. Come alcuni sono più proclivi [III,103,10] di altri a certi morbi (e perciò diciamo certuni soggetti ai raffreddori o alle coliche, non perché li abbiano in atto ma perché li hanno spesso), così alcuni sono più proclivi alla paura ed altri ad altre passioni. Perciò in certi casi parliamo di ‘ansia’, donde il termine ‘ansiosi’; in altri casi di ‘iracondia’, che è cosa diversa dall’ira, in quanto un conto è essere ‘iracondi’ e un altro essere adirati, così com’è diversa l’ansia dell’angoscia. [III,103,15] Infatti quanti provano qualche volta angoscia non sono tutti ansiosi, né quanti sono ansiosi provano sempre angoscia; e la stessa differenza corre tra una sbornia e l’abitudine di ubriacarsi, o tra un donnaiolo e un innamorato.

SVF III, 424

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 23. Al modo in cui, quando il sangue è corrotto e vi è sovrabbondanza di pituita o di bile, insorgono nel corpo morbi e malattie, così lo scontro di malvagie opinioni in contraddizione fra loro spoglia l’animo della salute e lo conturba morbosamente. [III,103,20] Dalle passioni sono prodotti dapprima gli stati morbosi che essi chiamano νοσήματα, e quelli ad essi contrari caratterizzati da una anormale repulsione e da un fastidio per certe cose; e poi le affezioni che gli Stoici chiamano ἀρρωστήματα [III,103,25] con le opposte e contrarie disaffezioni. Al riguardo gli Stoici, e soprattutto Crisippo, sono fin troppo meticolosi nel raffrontare i morbi del corpo e quelli dell’animo. Tralasciato dunque questo argomento inessenziale, passiamo a trattare la sostanza delle cose. Finché varie opinioni si scontrano fra loro in torbida confusione, ben s’intende che la passione non s’acquieta; e che quando tale concitato fervore [III,103,30] dell’animo sia ormai inveterato e si sia insediato fin nelle vene e nelle midolla, allora si manifestano lo stato morboso e l’affezione insieme con le repulsioni contrarie a tali morbi ed affezioni. I malesseri di cui parlo differiscono tra di loro concettualmente, ma nei fatti sono connessi poiché hanno origine dalla libidine e dalla letizia. [III,103,35] Infatti, se si ha una brama ardente del denaro e non si applica di continuo ad essa, quale Socratica medicina, la ragione che sani tale cupidigia, quel male penetra nelle vene e si insedia nei visceri. Ecco che si manifestano lo stato morboso e l’affezione, che col passare del tempo non possono più essere sradicate; e il nome di questo morbo è ‘avarizia’. Allo stesso modo nascono gli altri morbi come la ‘cupidigia di fama’; la, per dir così, ‘passione per le donne’, quella che i Greci [III,103,40] chiamano φιλογυνία, e gli ulteriori stati morbosi ed affezioni. Essi reputano che le passioni [III,104,1] contrarie a queste provengano dalla paura: come ‘l’odio per le donne’, quale appare nel ‘Misogino’ di Atilio, o ‘l’odio per l’intero genere umano’, del quale abbiamo un esempio in Timone detto il misantropo, o ‘l’inospitalià’. Ebbene tutte queste affezioni [III,104,5] dell’animo nascono da una certa paura delle cose che si rifuggono e si odiano.

SVF III, 425

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 29. Come ci sono morbi, affezioni e vizi del corpo, così ci sono dell’animo. Essi chiamano ‘morbo’ un qualunque malessere corporale; ‘affezione’ uno stato morboso che debilita; e c’è ‘vizio’ quando si ha discordanza tra le parti del corpo [III,104,10] e quindi ne conseguono irregolarità, distorsioni e deformità delle membra. Pertanto, i due stati, intendo morbo e affezione, originano dallo sconquasso e dalla perturbazione della salute di parti qualunque del corpo, mentre il vizio si vede di per sé anche in un corpo sano. Nel caso dell’animo possiamo separare morbo da affezione soltanto in teoria, mentre la viziosità è lo stato o la disposizione di un animo che in ogni momento della vita è incostante [III,104,15] e in contraddizione con se stesso. Così avviene che in un caso il malessere delle opinioni procuri morbi ed affezioni, in un altro incostanza e contraddittorietà. Non tutti i vizi hanno pari grado di contraddizione: ad esempio, la disposizione di quanti non sono lontani dalla saggezza è certo incoerente finché essi rimangono insipienti, ma non è distorta o malvagia. [III,104,20] Inoltre morbi ed affezioni sono parti della viziosità, ma è discutibile se ne siano parti le passioni. I vizi infatti sono disposizioni permanenti, le passioni invece vanno e vengono, e quindi non potrebbero essere parti di disposizioni permanenti.

SVF III, 426

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 31. La differenza fra animo e corpo sta in ciò, che gli animi valenti non possono essere [III,104,25] preda di morbi come possono esserlo invece i corpi. Tuttavia, le offese al corpo possono accadere senza sua colpa, mentre le offese all’animo invece no, giacché tutti i morbi e le passioni dell’animo derivano dal disprezzo della ragione e pertanto esse esistono soltanto negli uomini. Le bestie, infatti, fanno qualcosa di simile [III,104,30] ma non cadono nelle passioni.

SVF III, 427

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 26. Definiscono affezione dell’animo la presunzione spasmodica, persistente e radicata a fondo, che quanto è da non richiedersi sia invece da richiedersi ad ogni costo. L’affezione che nasce invece dalla repulsione a qualcosa è definita come opinione spasmodica, persistente e radicata a fondo, che sia da rifuggire qualcosa che invece [III,104,35] non è da rifuggire. Questa presunzione coincide col giudizio di sapere ciò che invece non si sa. All’affezione sono soggetti degli stati quali l’avarizia, l’ambizione, la passione per le donne, la pervicacia, la golosità, la passione per il vino, la ghiottoneria e altre simili. Avarizia è la presunzione spasmodica, persistente e radicata a fondo che il denaro sia da richiedersi più d’ogni altra cosa, e simile è la definizione [III,104,40] delle restanti affezioni di quel genere. Le definizioni delle repulsioni sono del tipo che l’inospitalità è l’opinione spasmodica, persistente e radicata a fondo che l’ospite sia assolutamente da rifuggire. In modo simile si definisce l’odio per le donne, come quello di Ippolito; [III,104,45] e l’odio per il genere umano, come quello di Timone.

SVF III, 428

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXV, 11. Per farla breve: [III,105,1] l’affezione è un giudizio ostinatamente erroneo, per il quale si ritiene che sia assolutamente da richiedersi ciò che è tale solo in minima misura. Se preferisci si può ricorrere a quest’altra definizione: un’aspirazione eccessiva a ciò che è oggettivamente poco appetibile oppure per niente appetibile; oppure un esagerato apprezzamento [III,105,5] di ciò che vale poco o nulla.

SVF III, 429

Galeno ‘De locis affectis’ I, 3, VIII, p. 32 K. I moti sono di due generi: di cambiamento e di normale corso. Qualora il cambiamento pervenga ad una condizione stabile allora si chiama ‘stato morboso’, ed è una condizione manifestamente diversa dalla naturale. Facendo però cattivo uso delle parole a volte noi chiamiamo [III,105,10] ‘passione’ anche una simile condizione.

SVF III, 430

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 32. Si reputa che le affezioni e i morbi dell’animo siano più difficili da estirpare di quelle viziosità gravissime che sono il contrario delle virtù. Infatti, tali viziosità possono essere eliminate pur permanendo i morbi, giacché questi ultimi non si risanano con la stessa velocità con cui quelli si eliminano.

[III,105,15] § 3. Sui tre affetti positivi

Frammenti n. 431-442

SVF III, 431

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 115. <Gli Stoici> affermano esservi anche tre affetti positivi: la gioia, la cautela e la decisione razionale. Essi dicono che la gioia è l’opposto dell’ebbrezza, essendo un’esaltazione ragionevole; che la cautela è l’opposto della paura, poiché è un’avversione ragionevole e, infatti, il sapiente non avrà paura ma sarà cauto. Opposta [III,105,20] alla smania è poi la decisione razionale, che è un desiderio ragionevole. Proprio come dalle passioni primarie discendono altre passioni, allo stesso modo anche dagli affetti positivi primari discendono altri affetti positivi. Dalla decisione razionale discendono la benevolenza, la benignità, l’ossequio e l’amorevolezza. Dalla cautela discendono il rispetto di sé e degli altri e la continenza rituale. Dalla gioia discendono il diletto, la letizia e il buonumore.

SVF III, 432 [III,105,25]

Andronico ‘De passionibus’ 6 (p. 20 Kreuttner). Le tre specie di affetto positivo. La decisione razionale è desiderio ragionevole. La gioia è esaltazione ragionevole. La cautela è avversione ragionevole. [III,105,30] Le quattro specie di decisione razionale. La benevolenza è decisione razionale di beni per un altro in quanto altro. La benignità è benevolenza persistente. L’ossequio è benevolenza ininterrotta. L’amorevolezza … [III,105,35] Le tre specie di gioia. Il diletto è gioia che si confà ai giovamenti che si hanno. La letizia è gioia che accompagna le opere del virtuoso. Il buonumore è gioia legata al modo di vivere o all’assenza di ricercatezza in tutto. Le due specie di cautela. [III,105,40] Il rispetto di sé e degli altri è cautela che ci fa evitare una retta denigrazione. La continenza rituale è cautela per evitare aberrazioni nel rapporto con gli dei.

SVF III, 433

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 466 Pott. [III,106,1] <Gli Stoici> esplicitano che la gioia è un’esaltazione ragionevole; che giubilare è rallegrarsi per dei beni; che la commiserazione è afflizione per chi soffre un male immeritatamente. I moti di questo genere sono rivolgimenti e passioni dell’animo.

SVF III, 434 [III,106,5]

Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ II, p. 96 Ald. L’ebbrezza, la gioia, la letizia e la delizia hanno lo stesso oggetto e lo stesso significato. Prodico provò a subordinare a ciascuno di questi nomi un significato suo proprio; come fecero anche gli Stoici, chiamando gioia l’esaltazione ragionevole ed ebbrezza l’esaltazione irrazionale, [III,106,10] delizia l’ebbrezza che si prova attraverso l’udito e letizia quella che si prova attraverso i discorsi. Questa è opera da legislatori, che però non dicono nulla di sano.

SVF III, 435

Seneca ‘Epistulae morales’ LIX, 1. Noi crediamo che l’ebbrezza sia cosa viziosa […] So bene che stando al significato ufficiale del termine, l’ebbrezza è cosa infame, e che la gioia tocca unicamente al saggio; essa è infatti uno slancio dell’animo che confida [III,106,15] nella bontà e verità dei propri possessi. […] Alla gioia poi è connessa la stabilità e il non trasformarsi mai nel suo contrario.

SVF III, 436

Filone Alessandrino ‘De migrat. Abrah.’ 156, II, p. 299, 3 Wendl. Anche i coreuti della virtù hanno l’abitudine di sospirare e di piangere; o perché, essendo per natura socievoli e filantropi, si rammaricano dei guai degli stolti; oppure [III,106,20] per il gaudio. Il gaudio, infatti, nasce qualora dei beni neppure supposti, tutti insieme repentinamente ci piovano addosso fino a straripare. È da ciò che mi sembra derivare il detto poetico:

‘piangeva ridendo’

Infatti la gioia, che è il migliore degli affetti positivi, quando incoglie l’animo insperata, lo fa [III,106,25] più grande di quant’era prima, sicché il corpo, data la sua mole, non ha più spazio per esso e così, oppresso e compresso, fa stillare le gocce che noi usiamo chiamare lacrime.

SVF III, 437

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VI, 15. Vediamo ora cosa facciano coloro che tagliano alla radice i vizi. Poiché essi comprendono che le quattro disposizioni passionali che essi reputano nascere dalle opinioni sui beni e sui mali e la cui [III,106,30] estirpazione stimano debba risanare l’animo e renderlo saggio, sono connaturate e senza di esse nulla si potrebbe muovere né fare, al loro posto e funzione ne sostituiscono altre. Alla cupidigia sfrenata sostituiscono la volontà, come se non fosse molto meglio desiderare ardentemente un bene che volerlo; alla letizia sfrenata sostituiscono la gioia e alla paura la cautela. Ma la regola venne meno [III,106,35] nella sostituzione del quarto nome, e così eliminarono del tutto l’afflizione e quindi la dolorosa mestizia dell’animo. […] Ma reputiamo, come essi vogliono, che gli affetti positivi siano diversi dalle passioni. Non potranno però negare che una volontà pervicace e perpetua è cupidigia sfrenata; che una gioia [III,106,40] smodata è letizia sfrenata; e che una cautela eccessiva è paura. […] In questo modo però essi approdano senza nemmeno accorgersene, alle conclusioni cui i Peripatetici pervengono per via di ragione: ossia che i vizi, non potendo essere eliminati, debbano essere moderati.

SVF III, 438

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 12. Per natura tutti perseguono quanto appare essere bene e rifuggono dal suo contrario. [III,106,45] Perciò non appena appare una cosa qualunque che abbia le sembianze di un bene, la natura stessa impelle a possederlo. [III,107,1] Quando questo presa di possesso avviene all’insegna della moderazione e della prudenza, si ha quella forma di impulso che gli Stoici chiamano βούλησις e che noi chiamiamo ‘volontà’. Essi reputano che la volontà si trovi soltanto nel saggio e la definiscono così: volontà è il desiderare con ragione. Invece la volontà che è avversa alla ragione ed è spasmodica, è libidine o cupidigia sfrenata, [III,107,5] ed è la volontà che si trova in tutti gli stolti. Inoltre, quando siamo soddisfatti di trovarci in possesso di un qualche bene, possiamo esserlo in due modi. Se l’animo si muove secondo ragione placidamente e con equilibrio, allora questo stato si chiama ‘gioia’; se invece l’animo esulta senza motivo e in modo esagerato, allora tale stato può essere chiamato letizia sfrenata o eccessiva, che essi definiscono così: un’esaltazione dell’animo senza ragione. E poiché noi per natura appetiamo i beni [III,107,10] e rifiutiamo i mali, il rifiuto dei mali che avviene con ragione si chiama ‘cautela’, la quale è propria solamente del saggio. Quando invece il rifiuto dei mali avviene senza ragione, per miserabile e abietta pusillanimità, si chiama paura: sicché la paura è cautela avversa alla ragione. La presenza di un male non altera infatti la disposizione del saggio, e invece causa l’afflizione degli stolti, che così si dispongono dinanzi ai mali presunti, si perdono d’animo [III,107,15] e si rannicchiano senza ottemperare alla ragione. Pertanto la prima definizione dell’afflizione è: la contrazione di un animo avverso alla ragione. Sono dunque quattro le passioni, e tre gli affetti positivi, poiché all’afflizione non si contrappone alcuna affetto positivo.

SVF III, 439

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 449a. [III,107,20] Su questi temi <gli Stoici> capitolano di fronte all’evidenza e chiamano ‘provare pudore’ il vergognarsi, ‘rallegrarsi’ il godere nella carne e ‘cautele’ le paure. Se si chiamano le medesime passioni con i primi nomi quando s’addiziona loro il ragionamento e con i secondi nomi quando invece esse lo combattono e gli [III,107,25] fanno violenza, allora nessuno metterebbe in causa questo modo eufemistico di parlare. Ma qualora, contestati dalle lacrime, dai tremiti e dai mutamenti di colore, invece che di afflizione e di paura essi parlino di certe ‘compunzioni’ e di certi ‘trasalimenti’, e vezzeggino le smanie chiamandole ‘slanci’; allora essi sembrano, da sofisti e non da filosofi, escogitare giustificativi e scappatoie dai fatti attraverso i nomi. Eppure essi chiamano ‘affetti positivi’ e non ‘assenze di passioni’, quelle loro gioie, [III,107,30] decisioni razionali e cautele e utilizzano, in questo caso rettamente, i nomi.

SVF III, 440

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 4 (140), p. 354 M. Crisippo, poiché non conviene nel ritenere sinonimi il vergognarsi e il provare pudore, né il godere nella carne e il rallegrarsi, nelle sue compilazioni sollecita (Platone) ad essere preciso in tutto, [III,107,35] finanche nei nomi.

SVF III, 441

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 7 (173), p. 468 M. Non fa differenza se tu dici ‘andarsene’ o ‘fuggire’, come pure non fa differenza dire ‘volere’ o ‘desiderare’ o ‘pretendere’ o ‘avere in ossequio’ o ‘smaniare’. La diairesi di nomi del genere non reca alcun guadagno alla presente [III,107,40] analisi ma, al contrario, è intempestiva e dalla ricerca sui fatti conduce alla controversia sui nomi. Perciò alcuni macchinano a bella posta di recalcitrare davanti a ciascun nome [III,108,1] in modo da portare a termine un bel nulla. Se tu dicessi che chi ‘ha sete’ è uno ‘che desidera una bevanda’, essi non converrebbero nell’uso del verbo ‘desiderare’, giacché affermano che il desiderio è cosa virtuosa e che c’è solo nel sapiente, e dunque che il desiderio è un impulso ragionevole del saggio che s’appaga di qualcosa quanto è d’uopo. Se tu dicessi ‘che smania per una bevanda’, essi non converrebbero neppure in questo caso nel chiamarlo così. [III,108,5] Ad avere sete, infatti, sono non soltanto gli insipienti ma anche gli uomini virtuosi, mentre la smania è cosa da insipienti e s’ingenera soltanto in essi, essendo un desiderio che propende ossessivamente ad ottenere ciò cui è diretto. Se poi uno desse una definizione non così lunga, e dicesse che c’è un desiderio irrazionale, si rimprovererà solennissimamente molte volte [III,108,10] al poveruomo di litigare non soltanto sulla scienza dei fatti ma anche sull’uso di miriadi di nomi. Tali erano, senza fallo, anche non pochi degli antichi filosofi, come afferma lo stesso Platone, i quali utilizzavano nomi con significati nuovi e mutati.

[III,108,15]

SVF III, 442

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 18, p. 617 Pott. Gli uomini valenti in queste cose distinguono il desiderio dalla smania. Essi posizionano la smania a livello delle ebbrezze e dell’impudenza, poiché essa è irrazionale. Il desiderio, invece, essi lo posizionano a livello delle necessità di natura, [III,108,20] dato che esiste come moto ragionevole.

§ 4. Le passioni vanno estirpate, non moderate

Frammenti n. 443-455

SVF III, 443

Seneca ‘Epistulae morales’ CXVI, 1. Ci si è spesso chiesti se sia meglio avere passioni moderate o non averne alcuna. I nostri Stoici le rigettano, mentre i Peripatetici suggeriscono di moderarle.

SVF III, 444

[1] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VI, 14. Gli Stoici eliminano [III,108,25] dall’uomo tutte le disposizioni passionali i cui impulsi mettono in agitazione l’animo: la cupidigia, la letizia sfrenata, la paura e la dolorosa mestizia. Di queste, le prime due originano dai beni presenti e futuri; le altre due dai mali. Allo stesso modo, come ho già detto, chiamano queste quattro passioni stati morbosi non congeniti per natura ma suscitati da opinioni malvage, e pertanto ritengono che essi possano essere estirpati alla radice se si eliminano le false opinioni [III,108,30] sui beni e sui mali. Se infatti il saggio riterrà nulla essere bene e nulla male, non arderà di cupidigia o di letizia frenata, né atterrirà di paura o sarà contrito ed afflitto.

[2] ‘De ira dei’ cp. 17. Gli Stoici non videro il discrimine esistente tra il bene e il male. Infatti c’è un’ira giusta e una ingiusta; [III,108,35] e non trovando un rimedio a questo fatto vollero sradicarla del tutto. Che bisogno c’è dell’ira, essi chiedono, quando i peccati possono essere corretti abolendo questa passione?

SVF III, 445

Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ I, 13, p. 158 Pott. Tutto ciò ch’è [III,108,40] contrario alla retta ragione è aberrazione. E dunque i filosofi sollecitano di definire più o meno così le passioni più generali. La smania è un desiderio disobbediente alla ragione. La paura è un’avversione disobbediente alla ragione. L’ebbrezza è un’esaltazione dell’animo disobbediente alla ragione.

SVF III, 446

Filone Alessandrino ‘De spec. legibus’ IV, 79, V, p. 227, 5 Cohn. [III,109,1] Ogni passione è riprensibile, dacché sono riprovevoli ogni impulso senza misura ed eccessivo, ed ogni moto dell’animo irrazionale e contro natura.

SVF III, 447

Girolamo ‘Epist. 133 ad Ctesiphontem’ 1. … i veleni […] che sgorgarono dalla fonte dei filosofi e in special modo da quella di Pitagora [III,109,5] e di Zenone, il primo degli Stoici. Quelle che i Greci denominano πάθη e che noi possiamo chiamare passioni: ossia l’afflizione, l’esaltazione, la speranza e la paura. Di queste, due riguardano il presente e due il futuro; ed essi asseriscono che le passioni possono essere estirpate dalle menti; così che nell’uomo, grazie alla meditazione e all’assiduo esercizio delle virtù, non abbia più sede fibra o radice [III,109,10] alcuna dei vizi.

SVF III, 448

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 117. Gli Stoici affermano che il sapiente è capace di dominare le passioni in quanto non è soggetto a cadervi. Ma c’è anche un’altra persona insensibile ossia l’insipiente, quando se ne parla come pari a qualcosa di duro e di impossibile da ammorbidire.

SVF III, 449

Porfirione ‘In Horat. Sat.’ II, 4, 1. Fu un certo Cazio Epicureo [III,109,15] a scrivere quattro libri sulla natura delle cose e sul sommo bene. Sotto quel nome, come nella prossima satira irride gli Stoici, in questa <Orazio> irride gli Epicurei, i quali dicono che il sommo bene è il piacere fisico delle cose moralmente integre. Gli Stoici, invece, di questa libidine della gola e del corpo fanno un crimine e pensano che il sommo bene sia l’assenza di sconcerto dell’animo, cioè l’avere né paure né desideri. [III,109,20] Per questo Varrone sostiene che fra di loro c’è una guerra di parole.

SVF III, 450

[1] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VI, 10. In proposito non vi sono precetti <Stoici> giacché tali filosofi, prigionieri di un falso modello di virtù, soppressero la misericordia dell’uomo per l’uomo, e volendo sanare i vizi, invece li aggravarono. [III,109,25] Benché infatti ripetano continuamente che la comunione dell’umana società va salvaguardata, essi se ne dissociano chiaramente col rigore della loro disumana virtù.

[2] VI, 11. A quanti reputano che il piegarsi e il commiserare non siano atti del saggio, io domando: se un uomo tra le grinfie di una belva implora l’aiuto di un uomo armato, reputano essi che vada soccorso oppure no? [III,109,30] Non sono certo tanto impudenti da negare che bisogna dargli l’aiuto richiesto e che l’umanità esige. Così se qualcuno è avvolto dalle fiamme, è sepolto da un crollo, sta per annegare in mare o per essere travolto da un fiume, reputeranno che è da uomini il non aiutare? Se lo reputeranno, proprio loro non sono uomini, giacché nessuno è immune da pericoli di tal genere. [III,109,35] Essi certo diranno che è da uomo e da uomo virtuoso salvare chi sta per morire. Se dunque in casi del genere, che mettono in pericolo la vita dell’uomo, essi concedono che il soccorrere sia un atto di umanità; che ragione c’è di reputare che non vada soccorso chi ha fame, sete o freddo? Questi casi sono per natura pari a quei casi fortuiti e richiedono la stessa umanità; eppure essi li distinguono perché misurano [III,109,40] tutto non per quel che è davvero ma in base all’utilità immediata.

SVF III, 451

Origene ‘Selecta in Ezechielem’ 8, P. G. XIII, col 800. Commiserazione, […] che gli uomini valenti in queste cose definiscono essere afflizione per una disfatta del prossimo. Essi affermano anche che un medico o un giudice non devono praticare [III,109,45] questa commiserazione; affinché poi, confusi dall’afflizione che li induce così a commiserare, non siano intralciati nell’espletare l’opera di medico o di giudice in modo utile a chi aspetta una cura o attende giustizia.

SVF III, 452

[1] Seneca ‘De clementia’ II, IV, 4. A questo punto [III,110,1] è pertinente chiedere cosa sia la misericordia. I più, infatti, la lodano come una virtù, e chiamano misericordioso l’uomo buono. Ma essa è invece un vizio dell’animo.

[2] V, 2. Io so che i non intenditori parlano male della scuola Stoica [III,110,5] per la sua eccessiva durezza, il suo scarsissimo interesse a dare buoni consigli ai principi e ai re, e le rinfacciano di negare al saggio la misericordia e il perdono. […] La misericordia è un malessere dell’animo alla vista delle miserie del prossimo, oppure è una tristezza contratta dai mali altrui, [III,110,10] quando siano ritenuti immeritati. Ma il malessere non trova posto nell’uomo saggio.

SVF III, 453

Seneca ‘De clementia’ II, VII, 1. Fissiamo ora il carattere del perdono, e così impareremo che esso non deve essere concesso dal sapiente. Il perdono è la remissione di una pena meritata. Coloro che si interessano specialmente di questo problema rendono ampiamente ragione del perché il saggio non deve concederlo. Io, [III,110,15] per dire la mia brevemente, parlerò citando un’opinione altrui. Si perdona chi doveva essere punito; ma il saggio nulla fa che non deve fare, né trascura alcuna delle cose che deve fare; pertanto, non condona la pena che deve essere scontata. Ma ciò che tu vuoi raggiungere col perdono, lui te lo otterrà seguendo una via moralmente più onesta: il saggio infatti non infierisce, ma si prende cura e corregge.

SVF III, 454

Origene ‘Comm. in Matth.’ X, p. 395 Klostermann. [III,110,20] Se pure è perfetto l’uomo che ha tutte le virtù e non effettua più alcuna azione viziosa […] come potrebbe diventare di botto capace di dominare l’ira se gli capita di essere predisposto all’ira? Come può essere capace di dominare l’afflizione e superiore a qualunque accidente in grado di provocarla? Come sarà interamente fuori dalla paura [III,110,25] dei dolori o della morte o delle cose che un animo ancora più imperfetto può temere? In che modo […] sarà al riparo da ogni smania? […] e quella che si chiama ebbrezza, la quale è un’esaltazione irrazionale dell’animo ed è una passione, […] come potrebbe tenersi lontano dall’esaltarsi irragionevolmente?

SVF III, 455

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1070e. Ma Crisippo ammette [III,110,30] che vi sono certe paure, afflizioni, inganni i quali ci danneggiano ma che non ci rendono peggiori. Leggi a caso il primo dei libri scritti da lui contro Platone ‘Sulla giustizia’ giacché, anche per altri motivi, merita investigare lì la speciosità dell’uomo la quale schiettamente non ha riguardo per i fatti e per i giudizi, sia propri [III,110,35] che altrui.

§ 5. I quattro libri di Crisippo ‘Sulle passioni’, nei quali si dimostra che le passioni sono determinazioni dell’egemonico

Frammenti n. 456-490

SVF III, 456

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 111. Gli Stoici reputano che le passioni siano determinazioni, secondo quanto afferma Crisippo nel libro ‘Sulle passioni’. L’amore per il denaro, infatti, [III,110,40] è concezione che il denaro sia una cosa bella; e che lo siano l’ubriachezza e l’impudenza e similmente le altre passioni.

SVF III, 457

Galeno ‘De locis affectis’ III, 1, ed. Bas. III, 270 K., VIII, 138. [III,111,1] Dicevo che considerazioni siffatte sono in un certo modo ancora più logiche. Davvero logiche sono, infatti, quelle che vanno al di là dell’utilità e stringono la natura delle cose quale essa è nella sua propria essenza. Così anche [III,111,5] il filosofo Crisippo scrisse un libro terapeutico delle passioni dell’animo, libro del quale noi molto ci serviamo per la loro cura; mentre altri tre contengono ricerche logiche.

SVF III, 458

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 6 (171), p. 549 M. E proprio questo è contingente decifrarlo anche dai libri che scrisse Crisippo ‘Sulle passioni’. [III,111,10] Pur essendo infatti i 4 libri da lui scritti sulle passioni così voluminosi che ciascuno è il doppio dei nostri, tuttavia in due interi di essi noi non abbiamo potuto appurare il suo vero parere sulle passioni.

SVF III, 459

[1] Plutarco ‘De virtute morali’ p. 441c. Tutti costoro <ossia gli Stoici Aristone, Zenone, Crisippo> in comune ipotizzano che la virtù sia una disposizione durevole [III,111,15] dell’egemonico dell’animo e una facoltà originata dalla ragione, o piuttosto che essa stessa sia la ragione in quanto ammessa come tale, ben salda ed immutabile. Essi legittimano anche l’idea che la parte passionale e irrazionale non sia distinta dalla parte razionale per una differenza di natura ma che sia la stessa identica parte dell’animo, che chiamano appunto ‘intelletto’ o [III,111,20] ‘egemonico’, la quale si rigira e muta completamente nel caso delle passioni e delle trasformazioni di postura o di disposizione d’animo, diventando sia vizio che virtù senza avere però in sé nulla d’irrazionale. E inoltre che si dica ‘irrazionale’ qualora, per l’eccedere dell’impulso divenuto così potente da farla da padrone, essa sia portata fuori controllo verso qualcosa di assurdo e in contrasto con la ragione che sceglie. La passione, infatti, è [III,111,25] ragione malvagia e impudente, originata da una determinazione insipiente e sbagliata cui s’aggiungono veemenza e vigoria.

[2] p. 446f. Taluni affermano che passione non è altro da ragione, e che non vi è differenza e conflitto intestino tra le due ma soltanto rivolgimento dell’unica e sola ragione nei suoi due aspetti; rivolgimento che ci sfugge a causa dell’acutezza e della rapidità della trasformazione. [III,111,30] Noi perciò non notiamo che stessa ed identica è la facoltà dell’animo grazie alla quale per natura smaniamo e ci pentiamo, ci adiriamo e temiamo, siamo portati al brutto dall’ebbrezza e mentre questa ci trascina ci riprendiamo nuovamente da essa. Infatti smania, ira, paura e tutti i sentimenti siffatti sono opinioni e determinazioni malvagie le quali non coinvolgono soltanto una certa parte dell’animo ma sono propensioni, cedimenti, assensi e impulsi dell’intero [III,111,35] egemonico e, nel complesso, attività volubili in un breve arco di tempo; proprio come le scorrerie dei ragazzi hanno del furente, del veemente, che però è malsicuro a causa della loro debolezza ed è non ben saldo.

SVF III, 460 [III,112,1]

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 6 (168), p. 448 M. “Il causativo delle passioni, cioè dell’operare in modo inammissibile con la natura (delle cose) e della vita infelice, sta proprio nel non accompagnarsi in tutto al demone che è in lui stesso, cui è congenere e che ha natura simile alla ragione che governa il cosmo intero; evitando nel contempo di portarsi verso la parte peggiore e animalesca (dell’animo). [III,112,5] I seguaci di Crisippo trascurano invece ciò, e in questi libri non migliorano la nostra conoscenza della causa delle passioni, né opinano rettamente in quelli sulla felicità e sull’ammissibilità con la natura delle cose. Essi infatti non vedono che il primo requisito per la felicità è di non lasciarsi guidare in nessun caso dalla parte irrazionale, infelice e atea [III,112,10] dell’animo”. Con queste parole Posidonio palesemente insegna quanto grandemente aberrino i seguaci di Crisippo, non soltanto nei ragionamenti circa le passioni ma anche in quelli circa il sommo bene; giacché il ‘vivere in modo ammissibile con la natura (delle cose)’ non è vivere come dicono loro ma come insegna Platone.

SVF III, 461

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 1 (135), p. 334 M. Ora, [III,112,15] stando al suo primo libro ‘Sull’animo’, Crisippo non obietta all’affermazione che vi siano una facoltà concupiscente o irascibile dell’animo, anzi ci istruisce a fondo sulle loro patologie ed assegna loro un unico posto nel nostro corpo. Stando invece a tutti i suoi libri ‘Sulle passioni’, sia i tre nei quali si esaminano le ricerche logiche a loro riguardo e altresì secondo [III,112,20] il ‘Terapeutico’, libro che alcuni registrano come ‘Etico’, Crisippo non si trova più a riconoscere simili affermazioni ma scrive alcune cose come per prestarsi ad una duplice interpretazione, mentre ne scrive altre come se ritenesse che non esiste più alcuna facoltà né concupiscente né irascibile dell’animo. Stando alla spiegazione che dà delle definizioni della passione, Crisippo palesa l’esistenza nell’animo di una causa irrazionale delle passioni, [III,112,25] come dimostrerò fra poco commentando il suo dire. Invece in quel che segue, dove ricerca se le passioni siano determinazioni oppure sopravvengano a seguito di determinazioni, egli si discosta in modo lampante dall’opinione di Platone, lui che neppure all’inizio, quando si trattava della diairesi del problema, aveva ritenuto quell’opinione degna di essere menzionata. Eppure questo è proprio ciò di cui uno potrebbe incolparlo in prima istanza, ossia di essere in difetto per scarsezza di [III,112,30] diairesi. Difatti una passione come quella amorosa o è una determinazione o sopravviene a seguito di determinazioni oppure è un moto espressivo della facoltà concupiscente. Così pure la bile o è una determinazione o è una passione irrazionale che s’accompagna a questa determinazione oppure è un moto veemente della facoltà irascibile. Crisippo invece, poiché non dà spazio in questo modo alla tripartizione del problema, mette mano [III,112,35] al discorso provando a dimostrare che sarebbe meglio concepire le passioni come determinazioni, e non come cose che sopravvengono a seguito di determinazioni, dimenticandosi così di ciò che ha scritto nel primo libro ‘Sull’animo’, e cioè che la passione amorosa è un moto della facoltà concupiscente e che la bile lo è di quella irascibile dell’animo.

[2] V, 1 (155), p. 405 M. [III,113,1] Nel primo libro ‘Sulle passioni’ Crisippo prova a dimostrare che le passioni sono delle determinazioni della parte raziocinante dell’animo; mentre Zenone legittimava invece l’idea che le passioni siano non le determinazioni come tali ma le contrizioni e le effusioni, le esaltazioni e le depressioni [III,113,5] dell’animo che sopravvengono ad esse.

[3] V, 7 (175), p. 477 M. Ma anche secondo le compilazioni <di Crisippo> ‘Sulle passioni’, sia le tre contenenti le ricerche logiche, sia quella che ne prescinde e fu da lui scritta a parte e registrata come ‘Terapeutico’ o ‘Etico’.

[4] Galeno ‘De propr. anim. affect. cur.’ 1, V, p. 3 K. [III,113,10] Compilazioni intese alla cura delle passioni dell’animo sono state scritte da Crisippo e da molti altri filosofi.

SVF III, 462

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 2 (136), p. 338 M. Non soltanto a questo proposito <Crisippo> litiga palesemente con se stesso, ma egli lo fa anche allorché, scrivendo sulle definizioni della passione, è dell’avviso che essa sia [III,113,15] un moto dell’animo irrazionale e contro la natura delle cose ed un impulso eccessivo e quindi, spiegando cosa sia irrazionale, è dell’avviso che si dica tale ciò che prescinde da ragione e da determinazione, ed assume come esempio di impulso eccessivo coloro che corrono a perdifiato. Entrambe queste affermazioni contraddicono il giudizio che le passioni siano determinazioni. Intenderemo ciò nel modo più evidente trascrivendo le sue stesse parole. [III,113,20] Una delle due citazioni è questa: “Bisogna in primo luogo avere ben ponderato il fatto che la creatura logica è per natura seguace della ragione ed opera in armonia con essa come sua guida. Tuttavia essa procede spesso anche diversamente, portandosi su qualcosa o lontano da qualcosa in quanto sospinta per lo più in un modo che è disobbediente alla ragione. [III,113,25] Entrambe le definizioni della passione tengono conto di questa pulsione, ossia del moto contro la natura delle cose così irrazionalmente sorto e dell’eccesso negli impulsi. Il termine ‘irrazionale’ va qui preso nel senso di disobbediente alla ragione e ad essa ostile, ed è a partire da questa pulsione che noi diciamo abitualmente di qualcuno che è sospinto a comportarsi irrazionalmente e senza determinazione logica. [III,113,30] Inoltre noi segnaliamo questi comportamenti come irrazionali non se la creatura logica procede in modo sbagliato o trascura qualcosa di ragionevole ma piuttosto se sottoscrive quella pulsione, dal momento che ella non è nata per muoversi, quanto all’animo, in questo modo ma in accordo con la ragione”. La prima delle due citazioni delle parole di Crisippo che spiegano le definizioni [III,113,35] della passione finisce qui. Ed ecco la restante citazione, nella quale egli spiega la seconda definizione e che è scritta di seguito alla precedente nel primo libro della sua compilazione ‘Sulle passioni’. [III,114,1] “Nel caso della passione si è parlato anche di eccesso dell’impulso, in quanto negli uomini si oltrepassa anche la ben regolata proporzione naturale degli impulsi. Ciò potrebbe diventare più comprensibile attraverso questi esempi. Quando si cammina il movimento [III,114,5] delle gambe non eccede l’impulso ad avanzare ma gli si appariglia bene, cosicché il moto può arrestarsi, qualora lo si voglia, oppure si può mutare strada. Una cosa del genere non vale invece più per l’impulso quando si corre, poiché allora il movimento delle gambe eccede l’impulso ad avanzare cosicché si è portati fuori controllo, e chi ha cominciato a mutare strada non può farlo subito in modo così facilmente controllabile. Credo che avvenga qualcosa di similare [III,114,10] anche nel caso degli impulsi, poiché essi possono oltrepassare quella proporzione che è in armonia con la ragione e quindi, qualora si impella a qualcosa, non essere obbedienti alla ragione. Insomma, a proposito della corsa si potrebbe parlare di un suo eccesso rispetto all’impulso ad avanzare; e, nel caso dell’impulso, di un suo eccesso rispetto alla ragione. La ben regolata proporzione dell’impulso naturale è infatti quella in armonia con la ragione, fino a tanto e finché [III,114,15] la ragione lo ritenga giusto. Proprio perciò la trasgressione contro la ragione operata in questo modo si dice essere impulso eccessivo e moto irrazionale dell’animo contrario alla natura delle cose”. Queste sono le parole di Crisippo.

[2] IV, 5 (144), p. 365 M. [III,114,20] Benché conosca perfettamente i due significati della voce ‘irrazionale’, poiché decide di evidenziare nella definizione della passione soltanto uno dei due, quello di ‘senza determinazione’; Crisippo fece bene a non lasciarsi dietro alcuna ambiguità e ad evidenziare egli stesso [III,114,25] che l’impulso passionale è un impulso irrazionale in quanto è distolto dalla ragione, le disobbedisce e nasce senza previa determinazione. E dunque attraverso l’affermazione che la passione è un distoglimento dalla ragione, Crisippo escluse gli esseri inanimati e gli animali privi di ragione da ogni moto passionale irrazionale […] e proprio da siffatte considerazioni si mostra come la passione umana non possa ingenerarsi né in un essere inanimato né in un animale privo di ragione. [III,114,30] Una volta scritto che il moto passionale nasce prescindendo da ragione e determinazione, e una volta rannodate di seguito a ciò le parole “non se la creatura logica procede in modo sbagliato o trascura qualcosa di ragionevole” e “in un modo che è distolto dalla ragione ed è disobbediente ad essa”, <Crisippo> contraddistingue assai debitamente le passioni dagli errori. Gli errori, infatti, sono determinazioni [III,114,35] viziate, ragione che mente sul vero e che sbaglia. La passione, invece, è un moto dell’animo disobbediente alla ragione.

[3] IV, 3 (139), p. 349 M. [III,115,1] <Crisippo va criticato soprattutto> perché non mise assolutamente mano a riconciliarsi con le affermazioni degli antichi filosofi e perché litiga con se stesso, dal momento che ora legittima l’idea che le passioni nascano senza ragione e senza previa determinazione, ora è dell’avviso che le passioni non soltanto s’accompagnino a delle determinazioni ma che siano esse stesse determinazioni. [III,115,5] Ora, il fatto che la passione non trovi il minimo appiglio in una determinazione è proprio l’esatto opposto dell’essere essa una determinazione; a meno che, per Zeus, volendo correre in soccorso <di Crisippo> uno non affermasse che il sostantivo ‘determinazione’ ha più di un significato e, nella spiegazione della definizione di ‘passione’, dicesse che determinazione significa ‘circospezione’; di modo che dire ‘senza determinazione’ equivalga a dire ‘senza circospezione’ e che, laddove invece ha detto che le passioni sono determinazioni, [III,115,10] si chiamassero determinazioni gli impulsi e gli assensi. Ma se pure si accogliesse ciò, allora la passione sarà un assenso eccessivo e Posidonio domanderà nuovamente a Crisippo, oltre all’avere egli commesso un madornale errore nell’insegnarlo, la causa di questa eccessività. Se infatti la validità del giudizio consiste proprio in questo, ossia nel dirimere i casi di [III,115,15] omonimia e nel mostrare secondo quale significato le passioni nascono senza determinazione e secondo quale significato esse sono determinazioni, e se Crisippo non lo ha fatto in nessuno dei 4 libri che ha scritto ‘Sulle passioni’, come si potrebbe non biasimarlo giustamente?

[4] IV, 4 (140), p. 353 M. Dacché si afferma [III,115,20] che le passioni nascono in un modo che è distolto dalla ragione e disobbediente ad essa, è assurdo non ricercare alcun’altra facoltà dell’animo la quale, muovendosi appunto in modo disobbediente alla ragione, faccia nascere le passioni. Crisippo invece ritiene che non esista una facoltà del genere di quella che taluni filosofi designano come concupiscente e irascibile, e che l’intero [III,115,25] egemonico degli uomini sia razionale.

SVF III, 463

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 2 (135), p. 336 M. Allo stesso modo nelle definizioni delle passioni generali che espone per prime, <Crisippo> si discosta completamente dal parere degli antichi filosofi e definisce l’afflizione ‘opinione immediata e senza riserva della presenza di un male’; [III,115,30] la paura ‘supposizione di un male’ e l’ebbrezza ‘opinione immediata e senza riserva della presenza di un bene’. Senza altre mediazioni egli ricorda, in queste definizioni, soltanto la parte raziocinante dell’animo e omette di ricordare quella concupiscente e quella irascibile, giacché egli legittima l’idea che l’opinione e la supposizione sussistano soltanto nella parte raziocinante. Tuttavia nella definizione [III,115,35] della smania, che egli dice essere un ‘desiderio irrazionale’, quanto all’espressione che usa, egli s’appiglia in un certo modo alla facoltà irrazionale dell’animo, ma poi se ne discosta anche qui nella spiegazione che dà dell’espressione, se appunto anche il desiderio, che egli assume nella definizione, fa parte della facoltà logica dell’animo e viene da lui definito ‘impulso logico verso qualcosa appagante quanto è d’uopo’. In queste definizioni, [III,116,1] insomma, egli crede che nelle passioni ci siano impulsi, opinioni, determinazioni; e alcune delle cose che scrive di seguito sono più conseguenti con le dottrine di Epicuro e di Zenone che con i suoi propri giudizi. Infatti, nel definire l’afflizione, dice che essa è ‘rimpicciolimento per qualcosa da fuggirsi che ci pare essere presente’; e che [III,116,5] l’ebbrezza è ‘esaltazione per qualcosa che ci pare sceglibile’. I rimpicciolimenti e le esaltazioni, le contrizioni e le effusioni (talvolta si ricorda anche di queste) sono infatti patemi della facoltà irrazionale dell’animo i quali sopravvengono alle opinioni. Ma che l’essenza delle passioni sia di questo genere, lo concepiscono Epicuro e Zenone, non lui. E ciò che [III,116,10] arriva a stupirmi di Crisippo è il fatto che egli non sia preciso nella professione di un insegnamento che è logico ed insieme preciso.

SVF III, 464

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 4 (139), p. 351 M. Pur avendo io ancora miriadi di cose da dire sul fatto che <Crisippo> non si preoccupi di contraddirsi, precisazioni che forse successivamente, se potessi prendermi quest’agio più a lungo, [III,116,15] metterei tutte insieme in una sola trattazione, tuttavia le ometterò e ricorderò soltanto quelle attinenti agli obiettivi presenti. Dunque, nel primo libro ‘Sulle passioni’, nel definire la smania egli afferma che essa è un desiderio irrazionale e poi, nel sesto libro delle ‘Definizioni per genere’, nel definire a sua volta il desiderio stesso afferma che esso è un impulso logico verso qualcosa appagante quanto è d’uopo. [III,116,20] Così definisce il desiderio anche nei libri ‘Sull’impulso’.

[2] V, 1, p. 407 M. L’incapacità di custodire intatte le ipotesi avanzate e lo scrivere invece cose contrarie ad esse, è proprio di individui non allenati nel ragionamento; e tale si trova ad essere il più che stupefacente Crisippo in moltissimi trattati. Ma del resto, [III,116,25] un’altra volta.

SVF III, 465

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 2 (156), p. 407 M. Non soltanto gli antichi filosofi ma anche Crisippo ammettono che la passione sia un moto dell’animo irrazionale e contrario alla natura (delle cose). E che questo moto non si ingeneri nell’animo dei virtuosi viene ammesso da [III,116,30] entrambi. Quale invece sia l’animo degli insipienti in relazione alle passioni e prima dell’insorgere della passione, essi non lo spiegano in modo simile. Crisippo afferma infatti che l’animo di costoro si trova in uno stato analogo a quello dei corpi idonei a cadere nelle febbri o nella diarrea o in qualcos’altro del genere per un pretesto spicciolo e casuale. [III,116,35]

[2] p. 411 M. Ancor più assurdamente (di Posidonio), Crisippo conviene nell’idea che la malattia dell’animo non assomigli a quella di chi è affetto da malattie periodiche, come le febbri terzane e quartane, e scrive così: [III,117,1] “Bisogna dunque sottintendere che la malattia dell’animo sia del tutto simile a quella condizione febbrile del corpo per la quale insorgono, non periodicamente ma disordinatamente, febbri e brividi indipendenti dalla nostra disposizione fisica e per il sopravvenire di piccole cause”. [III,117,5] Non so poi sulla base di quale opinione <Crisippo> affermi che quanti hanno facilità di ammalarsi sono già ammalati e che invece quanti sono già ammalati non lo sono interamente.

<In seguito Galeno paragona> quanti piangono per un lutto o sono preda della passione amorosa o dell’invidia <ai malati di febbri terzane e quartane> e invece considera coloro nei quali non v’è lutto né sono presenti accenni di smania [III,117,10] o di rancore pressoché uguali alle persone in salute, giacché taluni di costoro però vanno facilmente soggetti alle malattie, taluni no.

[3] p. 419, 8 M. E nel primo dei libri di Logica fa rassomigliare <l’animo vizioso> ad una salute precaria e [III,117,15] cagionevole.

SVF III, 466

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 7 (152), p. 394 M. Nel secondo libro ‘Sulle passioni’, anche Crisippo testimonia che negli uomini le passioni s’ammorbidiscono col passare del tempo, pur permanendo in essi l’opinione che è loro accaduto un male, e scrive così: [III,117,20] “Si potrebbero anche fare ricerche sul modo in cui avviene l’attenuazione dell’afflizione: se per spostamento di una certa opinione oppure, se tutte le opinioni restano tali, per quale causa ciò avvenga”. (A p. 455, 2 M. si esplicita la causa per la quale Crisippo, nel secondo libro ‘Sulle passioni’, ha ammesso di essere incerto al riguardo) [III,117,25] e poi in aggiunta afferma: “Io reputo che l’opinione di un male in quanto male presente, perduri; e che però col passare del tempo la contrizione trovi sollievo e che lo trovi pure, come credo, l’impulso alla contrizione. Ma se anche capita che l’opinione perduri, le azioni successive non le daranno retta, a causa del sopravvenire di una disposizione d’animo [III,117,30] di qualità diversa, la quale non tiene razionalmente conto di ciò ch’è avvenuto. È così, infatti, che chi singhiozza smette di singhiozzare e che chi vuole trattenersi dal singhiozzare singhiozza, qualora gli oggetti che ha davanti, siano essi reali oppure no, producano simili rappresentazioni. È ragionevole pertanto pensare che, al modo in cui cessano lamenti funebri e singhiozzi, questo genere di cose [III,117,35] capiti anche a proposito di quelle faccende che all’inizio emozionano di più, come dissi avvenire a proposito delle cose che suscitano il riso e di quelle simili a queste”. Lo stesso Crisippo ammette dunque che col tempo, pur perdurando l’opinione, [III,118,1] le passioni cessano; anche se afferma che è difficile comprendere per quale causa ciò avvenga. Poi di seguito scrive di altri eventi similari circa i quali professa manifestamente di non conoscere la causa. […] E tu […] credi una questione risolta [III,118,5] se ammetterai di ignorarne la causa? Eppure il tema che unifica l’intero Trattato delle ricerche logiche e terapeutico delle passioni è null’altro che lo scovare le cause per cui esse nascono e per cui cessano. Giacché così, credo, si potrebbe impedire la loro genesi e farle cessare quando nascono, essendo ragionevole pensare, [III,118,10] credo ancora, che insieme con la sparizione delle loro cause scompaiano anche simultaneamente la loro genesi e la loro sussistenza. Ma su queste cose, stando al libro ‘Sulle passioni’, tu sei in imbarazzo e non sai scriverci qualcosa ponendo mente alla quale noi potremo impedire il sorgere di ciascuna passione e guarire quella che sia insorta.

[III,118,15] [Posidonio contesta le affermazioni di Crisippo]

SVF III, 467

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 7 (152), p. 397 M. Ed a questo fine (ossia di mostrare che le passioni nascono dal rancore e dalla smania) <Posidonio> sfrutta come testimone lo stesso Crisippo il quale, nel secondo libro ‘Sulle passioni’, [III,118,20] scrive pressappoco così: “Quanto all’afflizione, alcuni paiono distornarsene come se ne fossero sazi, e queste sono appunto le parole di Omero su Achille che piange il lutto di Patroclo:

‘Ma quando fu satollo di singhiozzare e di rotolarsi’

e

[III,118,25] ‘A lui pervenne bramosia dai precordi e dalle membra’

ed ebbe l’impulso di chiamare a sé Priamo, per fargli riscontrare l’irrazionalità dell’afflizione”. Poi di seguito aggiunge questo: “Ragion per cui, col passare a questo modo del tempo [III,118,30] sopra le vicende e attenuandosi l’infiammazione passionale, non si dovrebbe perdere la speranza che la ragione, intrudendosi e come prendendo spazio, faccia riscontrare l’irrazionalità della passione”. In questi passi Crisippo ammette in modo evidente che l’infiammazione passionale, pur permanendo la concezione e [III,118,35] l’opinione, s’attenui col passare del tempo; che gli uomini si sazino dei moti passionali e, poiché la passione prende una certa pausa e s’acquieta, che la ragione riesca a prevalere. Queste cose sono vere, anche se alcune altre contraddicono le sue ipotesi, come le affermazioni di questo tenore: [III,119,1] “Si dicono anche parole del genere circa la trasformazione delle passioni:

‘Del frigido pianto si è in fretta satolli’

e parole del genere rivolte a ciò che conduce all’afflizione:

[III,119,5] ‘Com’è dilettoso per chi ha cattiva sorte

singhiozzare e prorompere in lamenti sulla sorte’

e poi ancora di seguito:

‘Così disse; e in tutti fece insorgere bramosia di pianto’

ed anche

[III,119,10] ‘Ridesta il medesimo pianto, riprendi il canto che fa versare molte lacrime’.

È senza fallo possibile mettere assieme, traendole dai poeti, anche moltissime altre testimonianze del fatto che gli uomini si saziano di afflizione, di lacrime, di singhiozzi, di lamenti, di vittorie, di onori e di tutte le cose del genere, dalle quali non è arduo dedurre [III,119,15] la causa per cui col tempo le passioni cessano e la ragione padroneggia gli impulsi. Infatti, come la parte passionale dell’animo prende di mira certi appropriati oggetti di desiderio, altrettanto essa, una volta centratili, se ne sazia; e con ciò s’arresta il loro moto, quello che padroneggiava l’impulso dell’animale e lo conduceva a proprio piacimento a ciò che lo fuorviava. [III,119,20]

SVF III, 468

[1] Plutarco ‘De virtute morali’ p. 449d. Una volta poste come pari tutte le aberrazioni e tutti gli errori, se pure per altri versi gli Stoici travisano la verità e non è questo il momento opportuno per oppugnare i loro argomenti, nel caso però delle passioni essi paiono recalcitrare accuratamente davanti all’evidenza e alla ragione. Secondo loro, infatti, [III,119,25] ogni passione è un errore, e chiunque è preda dell’afflizione, della paura e della smania, aberra. Eppure sono grandi, nel più e nel meno, le differenze visibili tra le passioni. […] Cercando di eludere queste difficoltà e altre del genere, essi affermano che l’intensificazione e la veemenza delle passioni non nasce dalla [III,119,30] determinazione, nella quale consiste l’elemento soggetto ad aberrare; ma che sono i morsi, le contrizioni e le effusioni ad accogliere il più e il meno dalla parte irrazionale dell’animo.

[2] p. 450b. Da ciò si deve concludere che anche gli Stoici convengono che la parte irrazionale dell’animo sia diversa dalla parte che determina; parte irrazionale in accordo con la quale essi affermano che la [III,119,35] passione diventi più veemente e più grande. Essi litigano sul nome e sul verbo, ma concedono il punto a quanti dichiarano che la parte passionale e irrazionale differisce da quella raziocinante e giudicante.

SVF III, 469

Galeno ‘De morib. anim.’ Ed. Bas. 1, 351, K., p. 820. Per [III,120,1] questo motivo Posidonio, stando al suo trattato ‘Sulle passioni’, pensa cose del tutto opposte a Crisippo; e nel libro ‘Sulla differenza delle virtù’ biasima molte delle affermazioni fatte da Crisippo nelle sue ricerche logiche sulle passioni, e ancora di più quelle contenute nei libri sulle differenze delle virtù.

SVF III, 470

Filodemo ‘De ira’ col. 1, (p. 17 Gomp.) [III,120,5] …E dunque soleva rimproverare soltanto coloro che denigrano o [calunniano] e che non fanno nient’altro, come Bione nel libro ‘Sull’ira’ e Crisippo nel libro ‘Terapeutico’ sulle passioni, anche se questo si collocava in posizione moderata.

SVF III, 471

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 2 (158), p. 413 M. Ma [III,120,10] come gli Stoici affermano anche adesso, qualcuno di loro forse dirà che, per Zeus, non c’è la stessa analogia tra animo e corpo in relazione a passioni e stati morbosi e alla salute. <Eppure, osserva Galeno, Crisippo stesso ha istituito questa analogia tra corpo e animo> Perché altrimenti, nel libro ‘Etico’ sulle passioni, Crisippo scrive queste cose qui? “Non [III,120,15] è da dirsi che mentre c’è un’arte, che designiamo medica, per il corpo malato, non vi sia un’arte anche per l’animo malato; né questa, in particolare, dev’essere da meno di quella in fatto di teoria e di terapia. Perciò, com’è doveroso per il medico dei corpi essere ben addentrato, [III,120,20] come si usa dire, nelle loro patologie e nell’appropriata terapia per ciascuna di esse; così spetta anche al medico dell’animo essere ben addentrato in entrambi questi campi e al suo meglio in ciascuno di essi. Grazie all’analogia in proposito che abbiamo evidenziato all’inizio, ci si potrebbe ben rendere conto che le cose stanno proprio così, giacché allo stretto parallelismo al riguardo farà riscontro, [III,120,25] come credo, la somiglianza delle terapie ed anche la reciproca analogia dei mezzi di cura”. Credo dunque ormai manifesta la volontà <di Crisippo> di vedere una certa analogia tra fenomeni dell’animo e fenomeni del corpo, non soltanto attraverso le parole appena riportate ma anche attraverso quelle che egli scrive di seguito [III,120,30] in questi termini: “Come, nel caso del corpo, si è spettatori di potenza e di debolezza, di eutonia e di atonia e, inoltre, di salute e di malattia, di benessere e di malessere”, e di tutte quante le altre affezioni, infermità e stati morbosi che egli cataloga di seguito a questi, “allo [III,120,35] stesso modo, dice, qualcosa di analogo a tutto ciò sussiste ed ha un nome anche nell’animo razionale”. Poi di seguito in aggiunta dice: “Come io credo, da siffatta analogia e somiglianza è nata anche la sinonimia tra di loro; giacché anche nel caso dell’animo noi diciamo che alcuni sono potenti e [III,121,1] deboli, che sono eutonici e atoni, che sono ammalati e in salute. E così, in un certo senso, si parla della passione e della cosiddetta infermità dell’animo e delle affezioni similari”. <Galeno afferma che con queste parole Crisippo ha stabilito l’analogia che intercorre tra le sinonime condizioni del corpo e dell’animo> [III,121,5] “<Crisippo> afferma appunto che questi stati sono sinonimi giacché il loro nome e la loro ragione sono gli stessi”. […] Da queste parole è manifesto che l’obiettivo di Crisippo è quello di spiegare a fondo questa analogia e di montarle la guardia. Se poi, dopo avere messo mano a farlo, egli non centra [III,121,10] il suo proposito, non ci si deve distornare dalla somiglianza ma lagnarsi del suo modo di insegnarla, in quanto non vero. Nondimeno, ciò gli capita anche in tutto il discorso che c’è di seguito a questo nel libro ‘Etico’ sulle passioni. Egli scrive dunque così: “Perciò il discorso è stato promosso in modo giusto da Zenone. La malattia [III,121,15] dell’animo è infatti del tutto simile all’indisposizione del corpo, giacché la malattia del corpo è la non ben regolata proporzione dei suoi umori caldo e freddo, secco ed umido”. E dopo poco: “La salute del corpo è una buona mescolanza e regolata proporzione degli umori [III,121,20] suddetti”. E di nuovo di seguito: “Io credo, infatti, che il benessere del corpo sia la migliore possibile buona mescolanza degli umori citati”. E di nuovo di seguito: [III,121,25] “Queste cose si dicono anche, non a sproposito, per il corpo; poiché la ben regolata o non ben regolata proporzione degli umori caldi e freddi, umidi e secchi, significa salute o malattia; mentre la loro ben regolata o non ben regolata proporzione nell’apparato neuromuscolare significa potenza o debolezza, eutonia o atonia; e la loro ben regolata o non ben regolata proporzione nelle membra significa avvenenza o laidezza”. [III,121,30] <Nel seguito, Galeno cerca di dimostrare che Crisippo non è stato in grado di precisare> di quali parti la ben regolata proporzione sia la salute dell’animo, e la non ben regolata proporzione la malattia.

SVF III, 471a

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 2 (160), p. 420 M. Di seguito alle parole che di lui poco avanti citavo, egli poi scrive: [III,121,35] “Perciò, in modo analogo, un animo si dirà bello o brutto a seconda della ben regolata e non ben regolata proporzione di quelle tali parti”. […] Ma non potendo dire quali siano questi pezzi dell’animo, poiché ha posto salute e malattia, bellezza e bruttezza dell’animo in un pezzo soltanto di esso, quello raziocinante; ecco che Crisippo è costretto ad intricare [III,122,1] il discorso e a rammentare le sue attività come parti. Di seguito a quanto citavo egli scrive dunque così: “Vi sono parti dell’animo costitutive della ragione che ha sede in esso e della sua disposizione logica. E l’animo è bello o brutto [III,122,5] a seconda che il suo pezzo egemonico sia atteggiato in un modo oppure in un altro in armonia con le appropriate partizioni”. Se tu, o caro Crisippo, avessi in aggiunta postillato quali siano queste ‘appropriate partizioni’, ci avresti tolto d’impiccio. Ma ciò non l’hai postillato né qui né in alcun altro dei tuoi libri; come se non stesse qui [III,122,10] l’intera validità della tua trattazione ‘Sulle passioni’. Tu invece ti ritiri all’istante dall’insegnarcelo e tiri per le lunghe il discorso su temi che non ti convengono, mentre avresti dovuto persistere e mostrare quali mai siano i pezzi dell’animo raziocinante.

SVF III, 472 [III,122,15]

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 3 (161), p. 425 M. <Crisippo non ha potuto dimostrare l’analogia che egli giudica esistere tra condizioni del corpo e condizioni dell’animo> anche perché confonde insieme la salute dell’animo e la bellezza. Nel caso del corpo, infatti, egli le ha definite con precisione, col porre la salute nella ben regolata proporzione degli umori elementari e la bellezza, invece, nella ben regolata proporzione dei suoi pezzi. Ciò egli ha chiaramente [III,122,20] manifestato nel passo scritto poco innanzi, nel quale dice che la salute del corpo consiste nella ben regolata proporzione del caldo e del freddo, del secco e dell’umido, i quali sono manifestamente gli umori elementari del corpo; mentre invece legittima l’idea che la bellezza del corpo consista nella ben regolata proporzione non degli umori elementari ma dei suoi pezzi.

[2] p. 427 M. [III,122,25] Crisippo ha affermato che l’animo diventa bello o brutto in armonia con le appropriate partizioni della ragione. Ma ha omesso di dirci come esso diverrebbe un animo in salute oppure malato perché, io credo, egli ha confuso insieme entrambi, (bellezza e salute, bruttezza e malattia) e non è stato capace di prendere su di essi una posizione precisa e definitiva.

SVF III, 473

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 6 (147), p. 376 M. [III,122,30] Il fatto che Crisippo stesso ammetta non solo una o due volte ma innumerevoli volte, che causa delle passioni negli animi umani è una facoltà diversa dalla ragione, è per noi contingente decifrarlo dai passi nei quali egli [III,123,1] accagiona l’atonia e la debolezza dell’animo di quanto è effettuato non rettamente. E le chiama così, proprio come chiama i loro opposti uno ‘eutonia’ e l’altro ‘potenza’. Egli infatti riferisce tutto quanto gli uomini effettuano non rettamente, in parte ad una determinazione depravata e in parte [III,123,5] all’atonia e alla debolezza dell’animo; come pure spiega che di quanto essi operano rettamente è causa la retta determinazione a seguito dell’eutonia. Ma di queste operazioni, come la determinazione è opera della facoltà logica, così l’eutonia è vigoria e virtù di una facoltà diversa da quella logica, che Crisippo stesso chiama ‘tono’. Ed egli afferma possibile che noi a volte ci distorniamo [III,123,10] dalle azioni che riconosciamo essere rette poiché il tono dell’animo ha ceduto o non sta del tutto al gioco e non è al servizio delle ingiunzioni della ragione; mostrando con evidenza, con siffatte parole, di cos’è capace la passione. Ora trascriverò un suo passo istruttivo in proposito. [III,123,15] È un passo dal libro ‘Etico’ sulle passioni: “Inoltre è forse in questo senso che il tono del corpo si chiama ‘atonia’ od ‘eutonia’ a seconda dello stato del nostro apparato neuromuscolare, ossia nel senso che noi risultiamo capaci o incapaci delle opere che mediante esso si realizzano. Così pure si chiama tono quello dell’animo, il quale può risultare eutonico od atono”. [III,123,20] E di seguito: “Come nella corsa, nell’aggrapparsi a qualcosa e in attività similari che si compiono grazie al nostro apparato neuromuscolare, esistono una condizione di efficienza e una di inefficienza, qualora l’apparato neuromuscolare sia in stato di rilassatezza e di attenuazione del tono; così qualcosa di simile all’apparato neuromuscolare esiste anche nel caso dell’animo, [III,123,25] ed in riferimento a ciò noi diciamo, in senso metaforico, che alcuni animi sono ‘senza nerbo’ mentre altri ‘hanno nerbo’ ”. Poi di seguito, spiegando proprio questo, scrive: “Uno si distorna dalla virtù per il sopravvenire di eventi spaventosi; un altro, davanti ad un guadagno o una perdita è fiaccato e s’arrende; un altro ancora lo è per altre [III,123,30] non poche cose del genere. Ciascuna di esse, infatti, ci conturba e ci asservisce poiché, arrendendoci ad esse, siamo pronti a tradire amici e città, e a darci a molte azioni indecenti, essendosi fiaccata in noi la pulsione alle azioni opposte. È così che Menelao è stato messo in scena da Euripide: sguainata la lama, [III,123,35] egli s’avventa su Elena con l’intento di levarla di mezzo, ma guardandola è sbalordito dalla sua avvenenza e, incapace ormai di padroneggiare la lama, la getta via. E il rimbrotto in persona gli dice così:

[III,124,1] ‘Tu come ne vedesti il seno, gettata via la spada

accogliesti il bacio, carezzando la cagna traditrice’ ”.

[2] p. 380 M. Onde in aggiunta Crisippo dirà: “Perciò di tutti gli insipienti che per molte cause agiscono così da rinnegati [III,124,5] e in modo così arrendevole, si potrebbe dire che agiscono sempre debolmente e viziosamente”. <Galeno accenna poi all’inciso ‘per molte cause’ e si duole che Crisippo non le abbia precisate>… giacché se uno vi ponesse mente, nulla troverebbe così pertinente al trattato ‘Sulle passioni’ e soprattutto [III,124,10] al ‘Terapeutico’, libro nel quale Crisippo ha scritto queste cose, quanto il conoscere tutte le cause per le quali coloro che effettuano qualcosa sotto l’influsso della passione si discostano dalle loro determinazioni originarie. Egli invece è talmente lontano dall’ammaestrarci con precisione su tutte quante che neppure ha ben chiarito quella ora menzionata.

[3]<Galeno attesta poi che Crisippo citava in questo libro dei versi di Euripide su Medea> [III,124,15] Medea, preda appunto della violenza del rancore. E proprio circa Medea non so come Crisippo non s’accorga che a suo proprio danno sta ricordando i versi di Euripide:

‘E capisco sì che mali sto per fare,

ma il rancore è più forte delle mie risoluzioni’.

[III,124,20]

SVF III, 474

[1] Origene ‘Contra Celsum’ I, 64, Vol. I, p. 117, 16 K. Alle cose dette io addizionerei ancora questo: ossia che, nel libro ‘Terapeutico’ sulle passioni, Crisippo prova a [III,124,25] calmare le passioni presenti nell’animo degli uomini, senza arrogarsi di conoscere quale sia il dogma della verità; e prova a curare coloro che sono stati in precedenza conquistati dalle passioni, seguendo gli indirizzi delle differenti scuole filosofiche. Egli afferma che qualora il piacere sia considerato il sommo bene, si devono curare le passioni così, secondo i dettami di questa scuola; e che qualora si creda nell’esistenza di tre generi di beni, nondimeno è secondo i dettami di questa scuola che si devono allontanare [III,124,30] dalle passioni coloro che sono in esse impigliati.

[2] VIII, 51, II, p. 266, 18 K. E io credo che Crisippo, nel libro ‘Terapeutico’ sulle passioni, abbia fatto per gli uomini qualcosa ben più utile di Celso; poiché ha voluto curare le passioni in quanto elementi che incalzano e disturbano l’animo umano, in primo luogo con quelli che [III,124,35] a suo parere sono ragionamenti sani, e poi in secondo e in terzo luogo anche sulla scorta di dottrine filosofiche che egli pur non gradisce. Egli infatti afferma: “Anche se esistessero tre generi di beni, si deve mettere in atto una terapia delle passioni così, secondo i dettami di questa scuola filosofica. Chi è disturbato dalle passioni, nel momento della loro infiammazione [III,125,1] non sta infatti ad ingerirsi nel giudizio filosofico che lo ha conquistato a suo tempo; perché non vada così sprecata, in un’intempestiva insistenza sul sovvertimento dei giudizi che hanno in precedenza conquistato l’animo, la terapia che invece può trovare spazio”. E afferma poi che: “Anche se l’ebbrezza fosse il [III,125,5] bene e colui che è padroneggiato dalla passione pensasse questo, nondimeno gli si deve andare in aiuto ed additargli che ogni passione è inammissibile con la natura delle cose anche per coloro i quali pongono il sommo bene nell’ebbrezza”.

SVF III, 475

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 6 (149), p. 383 M. Ma Crisippo [III,125,10] non s’accorge della contraddittorietà presente in questi discorsi e scrive miriadi di altre cose simili, come qualora dica: “È, io credo, comunissima questa pulsione irrazionale e capace di distogliere la ragione. È per questo fatto che noi diciamo che alcuni sono trasportati dal rancore”. [III,125,15] E di nuovo: “Perciò verso coloro che sono in preda alle passioni ci comportiamo come verso dei forsennati, e discorriamo con loro come con degli alienati che sono né in casa propria né in sé”. E di seguito, di nuovo spiegando ciò: [III,125,20] “L’alienazione e la dipartita da se stessi non nasce da altro che dal distoglimento della ragione, come dicemmo prima”. ‘Essere trasportati dal rancore’, ‘essere dei forsennati’, ‘essere né in casa propria né in sé’ e tutte quante le espressioni siffatte, testimoniano che le passioni sono determinazioni e che sussistono nella facoltà logica dell’animo. [III,125,25] Come anche le parole di questo genere: “Perciò è possibile udire accenti di questo genere dagli amanti, e altrimenti da coloro che smaniano con veemenza, e da coloro che sono in preda all’ira: che essi vogliono gratificare l’empito del cuore; di lasciarli stare tanto se ciò è meglio tanto se non lo è; di non dire loro nulla; che comunque [III,125,30] devono farlo, sia se sbagliano sia se la cosa è per loro sconveniente”. E anche queste affermazioni di Crisippo […] Simili a quelle scritte in precedenza sono anche le affermazioni di Crisippo del seguente tenore: [III,125,35] “Soprattutto tali pulsioni gli amati sollecitano che gli amanti abbiano nei loro riguardi, e che essi siano disposti nel modo più sconsiderato possibile senza darsi alcun pensiero della logica, che siano pure trasgressivi della ragione che li ammonisce e anzi che non abbiano affatto la pazienza di ascoltare qualcosa del genere”. [III,126,1] Tutte le affermazioni di questo genere rendono una testimonianza favorevole all’opinione degli antichi, come pure queste che le seguono: “Essi sono talmente lontani dalla ragione, così da poter ascoltare o prestare attenzione a qualcosa del genere, che non è fuori di luogo [III,126,5] intendere riferiti a loro dei versi di questa fatta:

‘Cipride non osteggiata s’affievolisce,

ma se messa alle strette ama intensificarsi’

e

‘L’amore osteggiato preme di più’ ”.

[III,126,10] Anche queste parole e quelle che le seguono testimoniano a favore dell’antico giudizio sulla genesi delle passioni. Le parole sono queste: “Essi considerano la ragione un censore intempestivo che non perdona gli innamorati, e la rifiutano come fosse un individuo che sembra osteggiarli in un momento inopportuno, quando invece perfino gli dei [III,126,15] paiono accordar loro di spergiurare”. E poi di seguito dice: “Perciò tanto più avrebbero la potestà di fare il resto seguendo la loro smania”.

SVF III, 476

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 4 (141), p. 356 M. [III,126,20] Il termine ‘irrazionale’ si applica o alla privazione o al deterioramento della ragione. Un terzo o addirittura, per Zeus, un suo quarto significato, come pretendono i seguaci di Crisippo e che è quello che essi professano di spiegare, non c’è nell’usanza dei Greci. Lo rende manifesto lo stesso Crisippo in questo passo: [III,126,25] “Perciò non è fuori luogo l’affermazione di alcuni che la passione sia un moto dell’animo contro la natura delle cose; come nel caso della paura, della smania e simili. Tutti questi moti e queste condizioni, infatti, sono disobbedienti alla ragione e distolti da essa. Per questo noi diciamo che costoro si comportano irrazionalmente, [III,126,30] non nel senso che si comportino male nel dialogare, cosa che invece si direbbe dell’opporsi al dialogare a ragion veduta, ma per il loro distoglimento dalla ragione”. [2] p. 358 M. Ora se noi utilizziamo la ragione anche quando siamo mossi dalla passione, allora Crisippo, nel primo libro ‘Sulle passioni’, [III,126,35] non ha parlato rettamente quando ha detto: “Non si comporta in modo sbagliato e trascurando in qualcosa la ragione, ma distornandosene e disobbedendole”; e di nuovo, nel libro ‘Terapeutico’ sulle passioni, quando ha ripetuto proprio le parole che ho trascritto [III,127,1] nel passo poco innanzi, nel quale era dell’avviso che quello che diceva essere ‘irrazionale’ non fosse l’opposto di ‘con l’uso della ragione’. […] E dunque aggiungendo afferma: “Ad esempio, sono sregolate quelle condizioni in cui è come se non vi fosse padronanza di sé ma si fosse portati fuori controllo, proprio nel modo in cui coloro che corrono tonicamente [III,127,5] si portano oltre il traguardo e non sono in grado di padroneggiare siffatto movimento. Coloro invece che si muovono tenendo la ragione come guida e con la barra del timone su di essa, padroneggiano questo movimento, qualunque sia, ed i relativi impulsi”. […] [III,127,10] “Essi padroneggiano i movimenti e i relativi impulsi, così che possono [III,127,15] ubbidire alla ragione, qualora essa lo indichi, similarmente a coloro che passeggiano”. E non bastandogli queste parole, aggiunge: “Perciò i moti a questo modo irrazionali sono chiamati ‘passioni’ e si dicono essere contro la natura delle cose, in quanto disancorano la ragionevolezza”.

[3] 5 (143), p. 364 M. [III,127,20] Tuttavia non soltanto altri filosofi ma lo stesso Crisippo, nelle sue compilazioni ‘Sulle passioni’, non si àncora saldamente ad alcuna opinione e ondeggia come in una tempesta. Egli afferma, infatti, che le passioni nascono senza intervento alcuno della ragione e poi, all’opposto, afferma che sono manifestazioni della sola facoltà logica; di modo che, per questo motivo, non sussistono [III,127,25] nelle creature prive di ragione. Quindi che esse nascono prescindendo da una determinazione e poi, all’opposto, che sono determinazioni. E gli capita anche di essere dell’avviso che i moti passionali nascano a casaccio, il che equivale a dire, se si indagasse con precisione l’avverbio, ‘senza causa’. Di seguito ai passi che ho scritto poco innanzi, Crisippo afferma: [III,127,30] “Appropriatamente si annovera nel genere delle passioni la palpitazione dell’animo, per questo suo essere agitato e trasportato a casaccio”.

[4] V, 1, (156), p. 407 M. Alcuni degli altri Stoici, siccome affermano che le passioni sono manifestazioni della facoltà logica, sono giunti a tal punto di litigiosità da convenire che le creature prive di ragione non partecipano delle passioni, [III,127,35] e la maggior parte di essi a convenire che non ne partecipano neppure i bambini, cioè che anche questi non sono ancora creature razionali.

SVF III, 477

[1] Origene ‘Comm. in Matth.’ III, p. 551, Delarue. Ciò ch’è stato detto dei piaceri sessuali riguardo ai bambini, potrebbe [III,128,1] essere detto anche delle restanti passioni, infermità e stati morbosi dell’animo, nelle quali ai bambini è toccato per natura di non cadere in quanto non hanno ancora completato lo sviluppo della ragione […] Il convertito è come un bambino e qualcuno che ha preso razionalmente una postura dell’animo [III,128,5] non suscettibile di afflizione.

[2] p. 592. Per essere precisi, è dunque stato dimostrato anche da altri che i bambini, non avendo ancora completato lo sviluppo della ragione, non cadono in nessuna passione. E se non cadono in nessuna passione, manifestamente non cadono neppure nella paura. E se pure nasce nei bambini qualcosa di analogo alle passioni, questi moti sono dei barlumi molto in fretta disapprestati [III,128,10] e curati. […] I bambini, comunque, non sperimentano la paura che sperimentano gli insipienti; e gli specialisti delle passioni e dei loro nomi affermano che la paura è qualcos’altro. Un esempio è rappresentato dalla facilità dei bambini a dimenticare le offese quando essi, proprio nel momento delle lacrime, in un istante mutano d’avviso e ridono e rigiocano [III,128,15] con coloro che essi ritengono averli afflitti o spaventati, pur senza che alcuno abbia in verità fatto questo.

SVF III, 478

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 6 (149), p. 386 M. Proprio quando rammenta il verso di Menandro

‘Pur avendo la mente in mio potere, mi sono dato alla botte’

anche qui <Crisippo> cita palesemente una dichiarazione [III,128,20] che testimonia in favore dell’opinione degli antichi. Come quando, spiegando cosa significa ‘essere né in casa propria né in sé’ dice questo: “Quanti si adirano così tanto sono appropriatamente chiamati persone fuori controllo; in modo similare a quei corridori che si spingono eccessivamente avanti oltre il traguardo: questi perché eccedono l’impulso nel correre, [III,128,25] quelli perché vanno contro la propria ragione. Coloro che padroneggiano così poco i propri movimenti, infatti, non si direbbero persone che si muovano in armonia con se stesse ma in armonia con una qualche altra forza esterna ad esse”. Anche qui <Crisippo> ammette l’esistenza di una certa forza movente gli impulsi di coloro che sono preda delle passioni, e lo riconosce molto rettamente; salvo affermare che questa forza è [III,128,30] esterna ad essi, quando invece dovrebbe dire che essa è insita negli esseri umani […] Crisippo, io credo, non s’accorge di strutturare ciò attraverso esempi del genere. Egli cita, dunque, il dialogo tra Ercole ed Admeto scritto da Euripide e che suona così:

[III,128,35] ‘Che profitto trarresti dal voler gemere sempre?’

Questo dice Eracle e Admeto risponde:

‘Lo riconosco anch’io, ma un certo amore mi fa uscire di senno’

È infatti manifesto che l’amore, essendo una passione della facoltà concupiscente e non di quella razionale, fa uscir di senno l’animo intero e conduce l’uomo [III,129,1] ad azioni opposte a quelle che aveva determinato all’inizio. Cita anche le parole di Achille a Priamo:

‘Sopporta, dunque, e non gemere senza posa nel cuore:

nulla otterrai piangendo il figlio,

[III,129,5] non lo farai rivivere, potrai piuttosto patire altri mali’

Crisippo afferma che Achille dice questo (sono le sue testuali parole) “dialogando con Priamo; ma Achille non poche volte, nel corso degli eventi, si ritrae da queste sue stesse determinazioni e non si padroneggia perché è vinto dalle passioni”. [III,129,10] E pertanto anche in questo caso, il ‘ritrarsi dalle determinazioni’ e il ‘non essere padrone di se stesso’ e ‘l’essere a volte in casa propria e a volte il non esserlo’ e tutte quante le affermazioni del genere, sono ammissibili con quanto ci appare evidente e con l’opinione degli antichi sulle passioni e le facoltà dell’animo, ma non certo con le ipotesi di Crisippo. [III,129,15] Nel libro ‘Sulle passioni’ egli poi dice queste cose in modo simile: “Ciò che appunto in noi è frenetico e alienato e disobbediente alla ragione, nondimeno è riconducibile al piacere”. E di nuovo: “A tal punto noi ci ritraiamo da noi stessi, andiamo fuori di noi e siamo perfettamente [III,129,20] accecati nei nostri difetti che a volte, avendo a portata di mano una spugna o della lana, li solleviamo in alto e li scagliamo come se potessimo mediante di essi portare a termine chissà che cosa. E se ci capitasse di avere a portata di mano un coltello o qualcos’altro lo avremmo utilizzato in modo similare”. [III,129,25] E di seguito: “Molte volte per una cecità del genere noi mordiamo le chiavi e percuotiamo le porte quando non s’aprono in fretta. E se incespichiamo su dei sassi, per vendetta li facciamo a pezzi e li scagliamo da qualche [III,129,30] parte, soggiungendo a tutto ciò le frasi più assurde”. E allo stesso modo si esprime in quel che segue: “Da questi esempi ci si potrebbe fare un concetto dell’irragionevolezza delle passioni e di come in tali momenti noi siamo ciechi e diventiamo altri da coloro che prima [III,129,35] ragionavano”. In complesso, se uno ora selezionasse e trascrivesse tutto quanto egli dice e che è in contraddizione coi giudizi da lui posti a fondamento del suo libro ‘Sulle passioni’, mentre è invece ammissibile con quanto ci appare evidente e con l’opinione di Platone, la lunghezza del libro diventerebbe smisurata. Il suo scritto è infatti [III,130,1] pieno di passi in cui egli parla di ‘ritrarsi dalle determinazioni prese razionalmente in precedenza’ a motivo del rancore o della smania o del piacere o di qualcosa del genere.

SVF III, 479

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 5 (144), p. 366 M. [III,130,5] <Galeno riferisce che Crisippo accenna al moto passionale come ad un moto> privo di misura e, come lui è solito dire, un moto fuori controllo. […] Nel libro ‘Terapeutico’ sulle passioni il passo suona così: “La passione si dice appropriatamente essere un impulso eccessivo; come se, in riferimento ai moti fuori controllo, si parlasse di un [III,130,10] moto eccessivo; l’eccesso nel quale nasce dal distoglimento della ragione e supera quanto, senza questo eccesso, ci salverebbe. Una volta che l’impulso abbia oltrepassato la ragione e si porti ossessivamente contro di essa, appropriatamente lo si direbbe eccessivo, e per via di ciò contro la natura delle cose ed irrazionale come noi lo [III,130,15] delineiamo”.

SVF III, 480

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 5 (144), p. 368 M. Dianzi ho citato il passo tratto dal primo libro ‘Sulle passioni’ in cui <Crisippo> afferma che le passioni nascono all’infuori della determinazione. E che egli sia della medesima [III,130,20] opinione anche nel suo libro ‘Terapeutico’, che è registrato anche come ‘Etico’, è possibile apprenderlo da questo passo: “Il motivo per cui le passioni si chiamano infermità non sta nel determinare che queste cose siano beni ma nell’esservi piombati sopra con maggior forza di quanto la natura richieda”. <Se qualcuno avesse frainteso,> [III,130,25] il punto di vista di Crisippo sarà appalesato da quanto segue: “Donde si dice non irragionevolmente che alcuni ‘vanno pazzi per le donne’ e ‘vanno pazzi per gli uccelli’ ”. […] Ma, per Zeus, forse qualcuno potrebbe dire che il ‘pazzesco’ non nasce a causa di una facoltà irrazionale ma dall’avere noi estrovertito più di quanto convenga sia [III,130,30] la determinazione che l’opinione, il che è come dire che le infermità nascono nell’animo non banalmente per avere concepito falsi giudizi su delle cose come beni o come mali, ma per il legittimarle come il massimo dei beni o dei mali. Infermità non è, infatti, l’opinione che la ricchezza di denaro sia un bene, ma il legittimarla come il sommo dei beni [III,130,35] e il concepirsi indegno di vivere da parte chi ne sia privo. Giacché in ciò consistono l’avarizia e l’amore per il denaro, i quali sono infermità dell’animo. Ma a chi è di questo avviso Posidonio obietta e dice più o meno così: “Le cose dette da Crisippo […]

SVF III, 481 [III,131,1]

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 7, p. 391 M. <Posidonio> afferma che questa definizione di Ate, come anche molte altre definizioni delle passioni formulate da Zenone e messe per iscritto da Crisippo, confuta chiaramente il punto di vista di quest’ultimo, il quale afferma che l’afflizione è ‘opinione immediata [III,131,5] e senza riserva che un male ci è presente’. Parlando a volte in modo più spiccio, <Crisippo e i suoi seguaci> proferiscono la definizione all’incirca così: ‘l’afflizione è opinione immediata e senza riserva della presenza di un male’ e dicono che ‘immediata’ significa ‘recente nel tempo’. Posidonio, a questo punto, li sollecita allora a spiegare la causa per cui l’opinione del male, quando è immediata, fa restringere [III,131,10] l’animo e suscita l’afflizione; mentre invece, col passare del tempo, o non lo fa affatto più o comunque non in maniera simile. Eppure, se le dottrine di Crisippo sono vere, non ci sarebbe bisogno di interporre quell’ ‘immediata’ nella definizione. Secondo il suo punto di vista, infatti, si dovrebbe dire che l’afflizione è piuttosto opinione, come lui stesso è solito nominarla, di un male grande o non reggibile o defatigante. [III,131,15] A questo riguardo l’obiezione di Posidonio a Crisippo è duplice. In riferimento a questa seconda definizione, gli rimemora dei saggi e di coloro che fanno profitto. I primi, infatti, si concepiscono attorniati dai massimi beni ed i secondi dai massimi mali, eppure né gli uni né gli altri sono per questo preda della passione. In riferimento [III,131,20] alla prima definizione, poi, domanda quale sia la causa per cui non è l’opinione della presenza di un male a suscitare l’afflizione ma soltanto l’opinione immediata…

SVF III, 482

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 7, p. 392 M. E dice perché tutto ciò che di inusitato e strano ci incoglie di botto, ci fa fuoriuscire e ritrarre dalle antiche determinazioni; e invece, quanto al muoverci in preda alla passione, tutto ciò che di usitato, consuetudinario, [III,131,25] cronico ci incoglie, o non ci fa ritrarre affatto dalle antiche determinazioni o certamente ce ne fa ritrarre per poco. Afferma perciò che bisogna familiarizzarsi a trattare le faccende non ancora presenti come se fossero presenti; e per Posidonio il termine ‘familiarizzarsi’ vuole significare qualcosa come plasmare e modellare in anticipo in noi stessi la faccenda prima che essa avvenga nel futuro, e farsene [III,131,30] in breve un costume come se essa fosse già avvenuta. A tal proposito, perciò, egli ha assunto l’esempio di Anassagora il quale, ad uno che gli annunciava la morte del figlio, senza affatto scomporsi disse: ‘Sapevo di averlo generato mortale’. Anche Euripide fa suo questo pensiero e fa dire a Teseo:

‘Avendo imparato ciò da un uomo saggio,

[III,131,35] io volgevo la mente a preoccupazioni e guai;

io, esule dalla mia patria, proponendo a me stesso in sorte

morti premature ed altre vie funeste;

[III,132,1] così che se sperimentassi qualcuna

delle sventure che opinavo, le nuove,

incogliendomi, non mi mordessero l’animo’.

Ed afferma che dicono così anche questi versi:

‘Se questo fosse il primo giorno delle mie sventure

[III,132,5] e se già a lungo non avessi viaggiato nei dolori,

sarebbe verosimile che io mi dibattessi

come un puledro appena aggiogato e che or ora ha morso il freno.

Invece ormai sono frollo e affranto dai mali’.

E talora cita questi:

[III,132,10] ‘Il tempo lungo l’ammorbidirà; ora, però,

il male è ancora fresco’.

SVF III, 483

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 9. Quando discutono delle passioni dell’animo, Crisippo e gli Stoici si preoccupano soprattutto di identificarle e di definirle. Parlano invece pochissimo del modo in cui l’animo vada curato così da non essere [III,132,15] alla mercé delle burrasche.

SVF III, 484

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 63. Io ho fatto quello che Crisippo vieta: cioè applicare un medicamento a recenti tumescenze dell’animo.

SVF III, 485

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 61. Quanti sono a pezzi e non riescono a sostenersi per il peso dell’afflizione, vanno sorretti in ogni modo. [III,132,20] Per questo Crisippo reputa che l’afflizione sia stata chiamata λύπη, in quanto è quasi una ‘dissoluzione’ di tutto l’uomo.

SVF III, 486

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 75. Crisippo invece ritiene che nel consolare qualcuno sia di capitale importanza togliere al sofferente l’opinione di stare eseguendo un atto doveroso, [III,132,25] giusto e dovuto.

SVF III, 487

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 59. In proposito Carneade, come vedo che scrive il nostro Antioco, soleva rimproverare Crisippo di tessere le lodi di questi versi di Euripide:

‘Non c’è mortale che il dolore non tocchi

e la malattia. [III,132,30] Molti devono seppellire i figli

e generarne altri. La morte è la fine per tutti,

e ciò causa vane angosce al genere umano.

La terra va resa alla terra, e la vita di tutti

va falciata come le messi. Così impone la necessità’.

Carneade negava [III,132,35] a questo genere di discorsi ogni efficacia nel sollevare dall’angoscia.

SVF III, 488                                                                          

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 62. Questa è la ragione per cui, come ho già detto, tutti i filosofi conoscono un unico metodo di cura, che consiste nel dire che quanto perturba l’animo è nulla e nel parlare invece della passione in sé. [III,133,1] Anzitutto nel caso della cupidigia, siccome si tratta soltanto di levarla di mezzo, non bisogna chiedersi se ciò verso cui la libidine è diretta sia un bene oppure no, ma è la libidine in sé che va tolta di mezzo. Dunque, tanto se il sommo bene è l’integrità morale, tanto se è l’ebbrezza, tanto se è l’unione di entrambe, [III,133,5] tanto se è l’insieme dei famosi tre generi di beni, e pur anche quando si tratta di un impulso spasmodico per la virtù stessa, ebbene l’identico discorso è da applicarsi in tutti i casi citati quale deterrente.

SVF III, 489

Olimpiodoro ‘In Platon. Alcibiad.’ II, p. 54, Creuzer. Si deve sapere che i modi della catarsi sono tre: quello Pitagorico, quello Socratico e quello Peripatetico [III,133,10] oppure Stoico. Quello Stoico medica gli opposti attraverso gli opposti, aggiungendo al rancore contro il male la smania per il bene e così mitiga la catarsi, oppure la smania per il bene al rancore contro il male e così rinvigorisce la catarsi e ci conduce verso mete più virili, proprio come si fa con le verghe incurvate. Chi infatti vuole raddrizzarli li curva in senso opposto, affinché grazie al piegamento in senso opposto essi [III,133,15] risultino diritti. In un modo del genere essi si occupavano di infondere armonia nell’animo.

SVF III, 490

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 17, p. 893 Pott. [1] La terapia della presunzione, come di ogni passione, è triplice: apprendimento della sua causa; apprendimento del modo in cui estirpare tale causa; e, terzo, l’esercizio pratico e un costume dell’anima teso a [III,133,20] poter conseguire di giudicare rettamente le determinazioni prese. [E poco dopo] Dopo che uno abbia violato la ragione […] se uno si sente debilitato per il subitaneo sopravvenire di una rappresentazione, bisogna fare in modo di avere a portata di mano le rappresentazioni razionali. Se invece, vinto da un’abitudine precedente, è diventato, come dice la Scrittura, uno dei tanti; allora bisogna far cessare del tutto quell’abitudine [III,133,25] ed allenare l’anima a contestarla. Se poi sembra che alcuni trascinino con sé giudizi contraddittori, bisogna eliminarli.

ETHICA VIII.

Sulle azioni

§ 1. Sugli atti doverosi intermedi

Frammenti n. 491-499

SVF III, 491

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1069e. <Crisippo> dice: “Da dove, dunque, [III,134,5] comincerò? E quale principio di ciò ch’è doveroso e quale materiale della virtù prendere, se tralascio la natura delle cose e ciò ch’è secondo la natura delle cose?”

SVF III, 492

‘Commento a Lucano’ p. 74 Us. … sugli atti doverosi chiarisce: sono gli atti conseguenti agli istinti naturali primari con i quali l’uomo nasce. Da ciò <Cicerone> [III,134,10] deduce che l’uomo è l’unico animale sociale, per natura incline non soltanto a sé ma anche alla relazione con tutti gli uomini.

SVF III, 493

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 107. Inoltre essi affermano che ‘doveroso’ è ciò che quando sia effettuato ha una giustificazione ragionevole: per esempio, ciò che consegue all’essere in vita e che pertiene anche a vegetali e ad animali, giacché anche per questi sono contemplati atti doverosi. Il ‘doveroso’ [III,134,15] è stato denominato così da Zenone per primo, questa denominazione essendo stata derivata dall’espressione ‘incombere ad alcuni’, ed è un’operazione appropriata alle strutture naturali.

SVF III, 494

Stobeo ‘Eclogae’ II, 85, 13 W. Al discorso su ciò ch’è promosso segue la discussione su ciò ch’è doveroso. Il doveroso è definito così: [III,134,20] ‘Ciò che consegue al fatto di essere in vita e che, quando effettuato, ha una giustificazione ragionevole’. In modo opposto si definisce ciò ch’è non doveroso. Questa definizione pertiene anche alle creature sprovviste di ragione, giacché esse pure hanno attività conseguenti alla loro natura. Ma per esse si rende così: ‘Ciò che consegue al fatto di essere in vita’. Essi sostengono poi che delle azioni doverose alcune sono perfette, e queste si chiamano appunto azioni rette. Queste [III,134,25] azioni rette sono le operazioni conformi a virtù, come l’essere saggi e il praticare la giustizia. Sono azioni non rette quelle che non hanno tali caratteristiche, ed esse neppure sono designate come perfettamente doverose, ma come azioni intermedie: per esempio, sposarsi, il fare ambascerie, il dialogare e cose simili.

SVF III, 495

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 108. Delle operazioni che si effettuano obbedendo all’impulso, alcuni sono [III,134,30] atti doverosi, altri sono contrari a ciò ch’è doveroso e altri ancora sono né doverosi né contrari al doveroso. Atti doverosi sono pertanto tutti quegli atti che la ragione [III,135,1] sceglie di fare: come onorare i genitori, fratelli, patria, compiacere gli amici. Atti contrari al doveroso sono tutti quelli che la ragione non sceglie, come atti del tipo: trascurare i genitori, non preoccuparsi dei fratelli, non condisporre con gli amici, disdegnare la patria e similari. Atti né doverosi né [III,135,5] contrari al doveroso sono tutti quegli atti che la ragione né sceglie né vieta di fare: per esempio, levare di mezzo un fuscello, tenere in mano uno stilo o uno strigile e atti simili a questi.

SVF III, 496

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 109. Alcuni atti sono doverosi indipendentemente dalle circostanze, altri invece sono circostanziali. Indipendenti dalle circostanze sono questi: essere solleciti della propria salute, degli organi di senso e simili. Dipendenti dalle circostanze sono: [III,135,10] lo storpiarsi e lo sperperare il proprio patrimonio. Analogo è il discorso per gli atti contrari al doveroso. Degli atti doverosi, inoltre, alcuni sono doverosi sempre, altri non sempre. Atti sempre doverosi sono il vivere secondo virtù; mentre non sempre doverosi sono il domandare, il rispondere, il passeggiare e simili. Lo stesso discorso vale per gli atti contrari al doveroso. [III,135,15] Vi è qualcosa di doveroso anche tra gli atti intermedi, come l’ubbidienza dei bambini ai pedagoghi.

SVF III, 497

Cicerone ‘De finibus’ III, 22. Siccome quelli che ho definito atti doverosi scaturiscono da pulsioni naturali primarie, per poter dire rettamente che tutti gli atti doverosi sono riconducibili al soddisfacimento di pulsioni naturali, è necessario far risalire quegli atti a queste pulsioni; senza perciò affermare che questi atti siano il sommo bene, [III,135,20] giacché l’azione moralmente integra non inerisce agli atti naturali istintivi, dato che essa ne è una conseguenza che, come ho detto, nasce successivamente. È l’azione moralmente integra ad essere pienamente conforme a natura, ed essa ci esorta a richiederla con molto maggior forza di quanto non facciano tutte le pulsioni che l’hanno preceduta.

SVF III, 498

Cicerone ‘De finibus’ III, 58. Noi <Stoici> sosteniamo che l’unico bene è l’integrità morale; e tuttavia, pur senza includerlo tra i beni o i mali, riteniamo che sia consentaneo effettuare un atto doveroso. Tra gli atti che sono né bene né male qualcuno [III,135,25] è infatti lodevole, e se è lodevole è tale che se ne può dare una spiegazione razionale; ma dell’atto doveroso si può dare una spiegazione razionale in senso lodevole, e dunque è atto doveroso ciò che è fatto in modo tale che della sua effettuazione si possa dare razionalmente una spiegazione lodevole. Da ciò si capisce che l’atto doveroso è un atto intermedio che non trova posto né fra i beni né fra i loro contrari. Ma se tra le entità che sono né virtù né vizi esiste qualcosa che pure è di qualche utilità, [III,135,30] esso non deve essere rifiutato. Appartiene a questo genere di atti intermedi anche l’azione che la ragione ci richiede ed esige che noi compiamo; ma ciò che noi attuiamo secondo ragione lo chiamiamo atto doveroso, sicché l’atto doveroso è del genere di cose che sono né beni né i loro contrari .II,135,35] Inoltre è perspicuo che anche il sapiente effettua di questi atti intermedi, e se li compie li giudica doverosi. E siccome il saggio non sbaglia mai quando giudica, l’atto doveroso rientrerà tra gli atti intermedi. Alla stessa conclusione si giunge anche seguendo quest’altro ragionamento. [III,135,40] Poiché noi constatiamo che esiste qualcosa che chiamiamo azione retta, la quale è un atto doveroso perfetto, esisterà altresì un’azione imperfetta. Ad esempio, se ‘restituire un deposito secondo giustizia’ è azione retta, ‘restituire un deposito’ sarà un atto doveroso; giacché è l’aggiunta di quel ‘secondo giustizia’ [III,136,1] che fa l’azione retta, mentre il restituire il deposito senza questa aggiunta rientra nella sfera degli atti doverosi. Poiché è indubbio che tra le cose che chiamiamo intermedie, ce ne sono alcune che meritano di essere assunte ed altre invece rifiutate, qualsiasi cosa stia in questi termini o meriti queste denominazioni, rientra nell’ambito degli atti doverosi. Dal che si capisce, poiché tutti per natura amano se stessi, [III,136,5] perché sia l’insipiente che il saggio sceglieranno le cose secondo natura e rigetteranno le contrarie. Accade così che l’atto doveroso sia comune sia al saggio che allo stolto; e ciò fa sì che l’atto doveroso rientri tra gli atti che chiamiamo intermedi.

SVF III, 499

Stobeo ‘Eclogae’ II, 86, 10 W. Nell’animale dotato di ragione, tutto ciò che contravviene al doveroso è un’aberrazione; mentre il perfezionamento di ciò ch’è doveroso diventa un’azione retta. [III,136,10] L’azione doverosa intermedia si parametra, allora, a quelle certe entità ‘indifferenti’, chiamate indifferenti contro natura o secondo natura, le quali sono fornite di tali caratteristiche da purosangue che se non le prendessimo per noi o se le respingessimo incessantemente non si potrebbe essere felici.

§ 2. Differenza tra le azioni rette e gli atti doverosi intermedi

Frammenti n. 500-523

SVF III, 500

Stobeo ‘Eclogae’ II, 93, 14 W. Essi affermano che l’azione retta è un’azione che [III,136,15] ha tutti i numeri dell’atto doveroso oppure […] un atto doveroso perfetto. Aberrazione è invece l’azione effettuata contro la retta ragione o l’azione in cui la creatura logica ha omesso qualcosa di doveroso.

SVF III, 501

Stobeo ‘Eclogae’ II, 96, 18 W. Essi affermano anche che delle nostre operazioni alcune sono azioni rette, altre sono aberrazioni, altre ancora sono né l’una né l’altra cosa. Sono azioni rette [III,136,20] le seguenti: essere saggi, essere temperanti, praticare la giustizia, rallegrarsi, beneficare, allietarsi, passeggiare disputando con saggezza e quant’altro si effettua secondo la retta ragione. Sono invece aberrazioni l’essere fuori di testa, essere intemperanti, commettere ingiustizia, affliggersi, avere paura, rubare e, in generale, quant’altro si effettua contro la retta ragione. Sono né azioni rette né aberrazioni [III,136,25] le seguenti: parlare, domandare, rispondere, passeggiare, mettersi in viaggio e cose similari.

SVF III, 502

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 97, 5 W. Tutte le azioni rette sono pratica della giustizia, azioni conformi alla legge, disciplinate, ben condotte, fortunate, felici, [III,136,30] tempestive, decorose. Non sono però ancora azioni sagge, giacché tali sono soltanto quelle che discendono dalla saggezza. Similmente per le altre virtù, anche se non nominate: per esempio, le azioni temperanti sono quelle che discendono dalla temperanza e le azioni giuste quelle che discendono dalla giustizia. All’opposto, invece, le aberrazioni sono azioni ingiuste, non conformi alla norma e moralmente disordinate.

SVF III, 503

Stobeo ‘Eclogae’ II, 86, 5 W. [III,136,35] Delle azioni rette, di alcune c’è bisogno, di altre no. Quelle di cui c’è bisogno sono le azioni che si possono chiamare giovevoli come, per esempio, [III,137,1] l’essere saggi e l’essere temperanti. Non c’è invece bisogno di quelle che tali non sono. Similmente, si ha la stessa trattazione a regola d’arte per le azioni contrarie al doveroso.

SVF III, 504

Cicerone ‘De finibus’ III, 32. Nelle altre arti, è dopo avere visto il risultato conclusivo e finale, quello che i Greci chiamano ἐπιγεννηματικόν, che noi giudichiamo qualcosa ‘artistico’. Quando invece parliamo di qualcosa ‘fatto con saggezza’ [III,137,5] noi rettissimamente lo definiamo tale fin da principio. Infatti, qualunque cosa effettuata dal saggio deve essere subito perfetta in ogni sua parte, dato che in essa è posto ciò che noi diciamo sia da richiedersi. Come il tradire la patria, fare violenza ai genitori, depredare i santuari, sono crimini risultanti dall’effettuazione di azioni determinate; così l’avere paura, lamentarsi, darsi preda [III,137,10] alla libidine, sono aberrazioni anche non si traducono in determinate azioni. E come queste ultime sono aberrazioni non nei loro risultati conclusivi e finali, ma subito fin dall’inizio; così le azioni originate dalla virtù sono da giudicarsi rette fin dall’intenzione e non dopo la loro effettuazione.

SVF III, 505

Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 115, p. 249, 4 Wendl. Dico questo [III,137,15] non riguardo alla virtù ma alle arti intermedie ed a tutte quelle altre attività necessarie, riguardanti la sollecitudine per il nostro corpo e la provvista di un soprappiù di oggetti esterni, nelle quali gli uomini s’affaccendano. Poiché la fatica nel perseguimento del bene e del bello perfetti è capace di per se stessa, anche qualora arrivi in ritardo al suo fine, di arrecare giovamento a coloro che la fanno. Invece quanto è fuori della virtù, qualora non raggiunga il suo traguardo, è tutto futile.

SVF III, 506

Seneca ‘De beneficiis’ I, VI, 2. Che ci sia un grande discrimine tra queste cose [III,137,20] lo puoi capire dal fatto che il beneficio è comunque un bene, mentre ciò che si compie o si dà è né un bene né un male. […] Non è beneficio ciò che si conta o che si passa di mano, così come il culto degli dèi non è nelle vittime, per quanto pingui siano o risplendenti d’oro, [III,137,25] ma nella retta e pia volontà di chi lo rende. Pertanto, i buoni sono devoti anche quando offrono un po’ di farina o una focaccetta; mente i malvagi, al contrario, non sfuggono alla loro empietà anche se inondano di sangue gli altari.

SVF III, 507

Seneca ‘De beneficiis’ II, XXXI, 1. Secondo me, fra i paradossi della scuola Stoica il meno sorprendente o incredibile è l’affermazione che chi riceve con animo riconoscente ha già restituito il beneficio. Infatti, per noi che [III,137,30] riportiamo tutto all’animo, il fare equivale al volere. E poiché la devozione, la buona fede, la giustizia, insomma, le virtù di ogni tipo sono in se stesse perfette, l’uomo può essere grato per un mero atto di volontà, anche se non gli è stato permesso di alzare la mano.

SVF III, 508

Seneca ‘De beneficiis’ III, XVIII, 2. Quel che conta è l’animo di chi fa il prestito, non la sua condizione sociale. Nessuno è escluso dalla virtù; [III,137,35] essa è aperta a tutti, ammette tutti, invita tutti: nobili, liberi, schiavi, re ed esuli. Non sceglie sulla base del casato o del censo: le basta l’uomo come tale, nudo.

SVF III, 509

Seneca ‘De beneficiis’ IV, XXI, 4. Come può essere facondo anche chi tace, forte chi ha le mani impedite o legate, e come un timoniere resta un timoniere anche sulla terraferma, giacché [III,137,40] il suo sapere è perfetto e completo pur se qualcosa gli impedisce di usarlo; così un uomo è riconoscente se vuole esserlo e non ha testimone della propria volontà altri che se stesso.

SVF III, 510

Stobeo ‘Florilegium’ 103, 22. Di Crisippo. <Crisippo> afferma: “Chi è al culmine del profitto adempie completamente tutto quanto è doveroso [III,137,45] e non omette nulla”. Egli afferma però che la vita di costui non è ancora felice, ma [III,138,1] che la felicità gli sopravviene qualora a queste azioni intermedie s’aggiungano saldezza ed abitualità, ed esse prendano una loro solidità.

SVF III, 511

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 10, p. 867 Pott. Eppure certe azioni sono effettuate [III,138,5] anche da coloro che non hanno retto conoscimento dei beni e dei mali, ma non sono effettuate secondo ragione. E’ il caso, ad esempio, della virilità. Alcuni individui sono per natura focosi ma, nutrendo questa loro dote senza vincolarla alla ragione, impellono irrazionalmente alla maggior parte delle faccende e fanno cose simili a chi è virile, così da compiere – a volte – le medesime azioni rette e, ad esempio, reggere alle torture come se niente fosse. Ma essi non muovono dalla stessa causa da cui muove chi ha retto conoscimento né si propongono il medesimo fine, [III,138,10] neppure se sacrificassero tutto il corpo. […] Ogni azione operata da chi è scienziato di beni e di mali è dunque una buona azione, mentre se è operata da chi non è scienziato di beni e di mali è una cattiva azione, anche se salvaguarderà un istituto di vita. Giacché egli non si comporta virilmente partendo da un ragionamento, né dirige la sua azione a qualcosa di proficuo che vada a terminare in una virtù o che da una virtù si svolga. E il medesimo discorso vale anche per le altre virtù.

SVF III, 512

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 210, I, p. 160, 2 Wendl. [III,138,15] Giacché anche l’insipiente può compiere taluni atti doverosi, ma non li compie a partire da una postura dell’animo doverosa. E si dà il caso che anche chi è ubriaco fradicio a volte pronunci o faccia cose da sobrio, ma non a partire da un intelletto sobrio. Anche i bambini ancora infanti effettuano e dicono molte cose da esseri razionali, ma non a partire da una postura razionale dell’animo, giacché la natura non li ha ancora educati ad essere logici. [III,138,20] Il legislatore vuole pertanto che il sapiente non paia un uomo razionale in modo saltuario, facilmente espugnabile e come per caso, ma a partire da una postura dell’animo e da una disposizione razionale.

SVF III, 513

Filone Alessandrino ‘De Cherubim’ 14, I, p. 173, 12 Wendl. Nel compiere un dovere si agisce spesso in modo indebito e si dà il caso che ciò che non è doveroso fare sia compiuto in modo debito. [III,138,25] Per esempio, qualora la restituzione di un deposito in denaro avvenga non per sana intelligenza ma o per danneggiare il ricevente o per scongiurare con l’inganno il ripudio di un credito maggiore, realizza un’opera doverosa ma in modo indebito. Il fatto, invece, che il medico, il quale ha vagliato di dover purgare o tagliare o cauterizzare per il giovamento del malato, non dica la verità al paziente affinché questi, anticipando le terribili sofferenze, non fugga la terapia [III,138,30] o non collassi e svenga di fronte alla notizia; oppure il fatto che il sapiente, temendo che col dire la verità si rafforzino le posizioni dei rivali, menta ai nemici per la salvezza della patria, sono opere non conformi a ciò ch’è doveroso ma effettuate in modo debito.

SVF III, 514

Frontone ‘Epistulae’ (ad M. Antoninum de eloquentia) p. 140 Naber. Gli atti doverosi sono di due generi e di tre specie. La prima specie è la sostanza: che l’uomo esista; la seconda è la qualità: che l’uomo sia così e cosà; [III,138,35] la terza è il risultato obiettivo: ossia che l’uomo compia lo specifico dovere in vista del quale ha eseguito i precedenti, e che consiste nell’apprendere ed esercitare la saggezza. Dico inoltre che questa terza specie è la sola coinvolta nell’attività pratica, e che è quella che dà significato al tutto. In questa suddivisione degli atti doverosi, se quello diceva il vero e se io ho memoria di quanto un tempo gli udii dire, per l’uomo che aspira alla saggezza [III,138,40] i primi sforzi sono quelli che vanno dedicati alla conservazione della vita e della salute. Pertanto far colazione, lavarsi, farsi massaggiare ed altre operazioni simili sono atti doverosi del saggio, seppure non sia alle terme che si acquista la saggezza. […] Certo il cibarsi non è un’attività pratica legata alla saggezza; ma senza la vita, che di cibo si alimenta, non possono esserci[III,138,45] né saggezza né attività intellettuale alcuna.

SVF III, 515

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VI, 14, p. 796 Pott. [III,139,1] Dunque il banale ‘salvaguardare’ fa parte degli atti intermedi, mentre invece il salvaguardare rettamente e nel debito modo è un’azione retta. Così ogni azione di chi ha retto conoscimento è un’azione retta; quella del banale fedele si potrebbe chiamare azione intermedia, non ancora realizzata secondo ragione e nemmeno secondo intendenza [III,139,5] rettificata; e, viceversa, ogni azione del pagano è aberrante, giacché le Scritture ci fanno riscontrare che doveroso è non il banale effettuare bene ma il fare azioni in vista di uno scopo e l’agire in armonia con la ragione.

SVF III, 516

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 200. [Sesto Empirico ha appena cercato di dimostrare che la saggezza non è un’arte della vita perché alla saggezza non appartiene alcuna sua peculiare opera in quanto arte] [III,139,10] Ma essi <gli Stoici> muovono contro ciò affermando che tutte le opere sono comuni a tutti gli uomini, e che però esse si contraddistinguono per il loro nascere da una disposizione artistica oppure di imperizia nell’arte. Avere sollecitudine per i genitori o altrimenti onorarli non è opera peculiare del saggio, bensì è peculiare del saggio il farlo muovendo dalla saggezza. E come il risanare è opera comune al medico ed alla persona qualunque, e invece il risanare [III,139,15] medicalmente è opera peculiare di chi è artista nell’arte medica; così l’onorare i genitori è opera comune del virtuoso e del non virtuoso, ma l’onorare i genitori muovendo dalla saggezza è peculiare del sapiente. Sicché il sapiente possiede un’arte della vita, della quale arte è peculiare l’effettuare ciascuna opera a partire dalla migliore disposizione d’animo.

[2] XI, 207. [III,139,20] Ci sono invece altri i quali legittimano l’idea che queste opere si contraddistinguano per uniformità e buon ordine. Come infatti nelle arti intermedie è peculiare dell’artista il fare qualcosa in modo ben ordinato e l’essere uniforme nei risultati, (anche una persona qualunque potrebbe a volte fare un’opera d’arte, ma ciò è raro e non avviene ognora né nella stessa forma né nello stesso modo) così essi affermano [III,139,25] che opera del saggio è l’essere uniforme nelle azioni rette, mentre dello stolto è propria l’opera opposta.

SVF III, 517

Seneca ‘Epistulae morales’ XCV, 57. Un’azione non sarà retta se non fu retta la volontà, giacché è da questa che deriva l’azione. A sua volta la volontà non sarà retta se anche la postura abituale dell’animo non sarà tale, giacché da quest’ultima deriva la volontà. [III,139,30] Inoltre la postura abituale dell’animo non potrà essere al suo meglio se l’uomo non avrà compreso la natura delle cose ed elaborato il giudizio da darsi in ciascun caso.

SVF III, 518

Filone Alessandrino ‘Quod deus sit immutabilis’ 100, II, 78, 4 Wendl. Coloro che compiono qualche altro dovere con intelligenza inassenziente e loro malgrado, violentando le loro intime deliberazioni, non compiono un’azione retta.

SVF III, 519

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ I, 93, I, p. 85, 17 Wendl. Queste tre indicazioni: precetto, divieto, istruzione e parénesi, [III,139,35] sono differenti. Il divieto concerne le aberrazioni ed è diretto contro il vizioso. Il precetto concerne le azioni rette. La parénesi è diretta a chi sta nel mezzo ed è né vizioso né virtuoso, giacché egli aberra non tanto da vietargli [III,139,40] alcune cose e neppure compie azioni rette in armonia coi precetti della retta ragione, ma ha bisogno di parénesi la quale gli insegni a rattenersi dalle opere viziose e lo sproni a prendere di mira quelle virtuose. Al perfetto sapiente […] [III,140,1] non bisogna ingiungere, far divieti o parénesi, giacché egli non ha alcun bisogno di ciò. Per l’insipiente c’è invece bisogno di precetti e divieti. Per l’infante il bisogno è di parénesi e d’insegnamento. Come il grammatico e il musicista perfetti non hanno bisogno di alcuna prescrizione circa le loro arti, così chi è invece in difetto circa i [III,140,5] principi generali è come se avesse bisogno di certe leggi contenenti precetti e divieti. E per chi ha testé incominciato ad imparare c’è bisogno di insegnamento.

SVF III, 520

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1037c. Essi affermano che l’azione retta è un’ingiunzione della legge, mentre l’aberrazione è un divieto della legge e che perciò la legge [III,140,10] vieta molte cose agli insipienti ma non ingiunge loro nulla, giacché essi non sono capaci di compiere azioni rette.

SVF III, 521

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1037e. Essi dicono che anche il medico ingiunge al discepolo che taglierà e cauterizzerà, omettendo di specificare ‘quando e quanto sia opportuno’. Anche il musicista ingiunge al discepolo di suonare la lira e di cantare, omettendo di specificare ‘nel rispetto della melodia e [III,140,15] dell’armonia’. E pertanto essi castigano coloro che fanno queste cose male e non a regola d’arte, giacché fu loro ingiunto di farlo rettamente ed essi invece non lo hanno fatto rettamente. Ebbene, quando il sapiente ingiunge ad un inserviente di dire o di effettuare qualcosa e lo castiga qualora egli lo effettui intempestivamente o in modo indebito, manifestamente gli ingiunge di fare non un’azione retta ma un’azione intermedia. E se i sapienti ingiungono agli [III,140,20] insipienti di fare azioni intermedie, cosa impedisce che anche le ingiunzioni della legge siano dello stesso genere?

SVF III, 522

Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 43, I, p. 219, 14 Wendl. Le virtù perfette sono patrimonio soltanto del saggio perfetto e genuino. Delle attività doverose, quelle intermedie s’adattano invece anche agli individui imperfetti, quelli giunti fino al ciclo propedeutico di studi.

SVF III, 523

Origene ‘Comm. in Matth.’ III, p. 494, Delarue. [III,140,25] Alla legge divina si confà il vietare ciò che origina dal vizio e l’ingiungere ciò ch’è in armonia con la virtù. Tutte le attività che per la ragione divina come tale sono indifferenti, vanno lasciate sul terreno; potendo esse diventare, grazie alla proairesi e alla ragione che è in noi, aberrazioni se male effettuate e invece azioni rette se effettuate bene.

[III,140,30] § 3. Tutte le azioni rette sono equivalenti e lo stesso vale per quelle malvagie. Inoltre non vi è nulla di intermedio tra la virtù e il vizio

Frammenti n. 524-543

SVF III, 524

Cicerone ‘De finibus’ III, 45. Come l’opportunità (così chiameremo la εὐκαιρία) non cresce col passare del tempo, giacché le occasioni propizie hanno i loro momenti; così l’attività retta (chiamo κατόρθωσις l’attività retta, [III,140,35] dato che κατόρθωμα si rende con ‘azione retta’), ciò che è conveniente fare, e da ultimo il bene stesso, giacché esso è di per sé consentaneo alla natura, non possono subire incremento. E siccome l’opportunità, nonché le altre cose che ho menzionato non aumentano col tempo, agli Stoici pare che una vita beata lunga non sia più desiderabile né più da richiedersi [III,141,1] di una breve; e lo illustrano come segue. Se il pregio di un sandalo sta nel calzare bene il piede, un gran numero di sandali non ha più pregio di pochi sandali, né sandali di misura superiore hanno più pregio di sandali di misura inferiore. Allo stesso modo, quando si tratta di cose la cui bontà si definisce per la loro convenienza ed opportunità, il più non va preferito al meno, [III,141,5] né il più lungo al più breve.

SVF III, 525

[1] Porfirio ‘Aristot. Categ.’ p. 137, 29 Busse. Essi concepivano che certe posture dell’animo e gli stati qualitativi ad esse inerenti, come le virtù e gli stati qualitativi ad esse inerenti, non fossero compatibili con un meno e con un più; mentre altre posture dell’animo e gli stati qualitativi ad esse inerenti, come tutte le arti intermedie, [III,141,10] le qualità intermedie e gli stati qualitativi ad esse inerenti, fossero invece compatibili con un’intensificazione ed un’attenuazione. Questa è l’opinione della quale sono stati gli Stoici.

[2] II, n. 393. Essi affermano che le posture dell’animo possono intensificarsi ed attenuarsi, mentre invece le sue disposizioni non sono suscettibili di intensificazione e di attenuazione.

SVF III, 526

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038c. [III,141,15] Anche se ha scritto molte cose contrarie, Crisippo manifestamente aderisce alla tesi che non vi sia un vizio od una aberrazione che sia più eminente di un altro vizio o di un’altra aberrazione e neppure una virtù od un’azione retta che sia più eminente di un’altra virtù o di un’altra azione retta. Egli lo afferma nel terzo libro ‘Sulla natura’: “Come a Zeus conviene [III,141,20] fare il solenne con sé e con la propria vita pregiandoli grandemente e, per dir così, anche essere orgoglioso, essere fiero e vantarsi di vivere una vita degna di vanto; così questo conviene a tutti gli uomini buoni, giacché essi non sono sopravanzati in nulla da Zeus”.

SVF III, 527

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 120. Ha il loro beneplacito il ritenere, stando alle affermazioni di Crisippo nel quarto libro delle [III,141,25] ‘Questioni etiche’, di Perseo e di Zenone, che tutte le aberrazioni siano pari. Se infatti non esiste una verità maggiore di un’altra né una falsità maggiore di un’altra falsità, così neppure lo è un inganno di un altro inganno né un’aberrazione di un’altra aberrazione. Coloro che sono lontani cento stadi, o uno solo, da Canopo, altrettanto non sono a Canopo; e coloro che aberrano di più o di meno, fanno azioni parimenti scorrette.

SVF III, 528

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 106, 21 W. [III,141,30] Gli Stoici affermano che tutte le aberrazioni sono non simili, ma pari. Infatti è come se esse per natura scaturissero da una certa fonte del vizio, la quale è una determinazione che è sempre la stessa in tutte le aberrazioni. Ma poiché gli oggetti di natura intermedia sui quali hanno effetto le determinazioni sono differenti per via di una causa agente dall’esterno, ecco che le aberrazioni diventano qualitativamente differenti. [III,141,35] Potresti avere una chiara immagine di quanto intendo manifestare se rifletti su questo: tutto il falso avviene che sia falso alla pari, e non vi è mendacio che sia tale più di un altro. Che sia sempre notte è falso proprio come il fatto che viva l’ippocentauro, e non si può affermare che l’una cosa sia più falsa dell’altra. Ma poiché ogni falsità è parimenti falsa, non si può dire che anche le persone mendaci siano tutte [III,141,40] parimenti mendaci. Anche nell’aberrare non vi è un più e un meno, [III,142,1] poiché ogni aberrazione si effettua attraverso un mendacio. Inoltre, se non vi è azione retta che sia più o meno retta, neppure c’è un’aberrazione che sia più o meno tale. Si tratta di entità che sono tutte perfette, e perciò nessuna di esse potrebbe differenziarsi da un’altra per difetto o per eccesso.

SVF III, 529

Stobeo ‘Eclogae’ II, 113, 18 W. [III,142,5] Siccome tutte le aberrazioni e tutte le azioni rette sono pari; anche gli stolti sono tutti parimenti stolti, avendo pari ed identica disposizione d’animo. Pur essendo le aberrazioni pari, vi sono però tra di esse delle differenze, in quanto alcune nascono da una disposizione d’animo rigida ed immedicabile, altre no. [III,142,10] Ed alcuni fra i virtuosi sono più atti di altri ad esortare e a persuadere, e inoltre più perspicaci in relazione alle azioni intermedie coinvolte, nel caso avvengano intensificazioni di tali disposizioni.

SVF III, 530

Cicerone ‘De finibus’ III, 48. Come coloro che sono immersi in acqua non possono respirare, tanto se sono immersi poco sotto la superficie dell’acqua e quasi quasi stanno per emergere, tanto se si trovano ancora in acque profonde; [III,142,15] e come il cucciolo che sta per acquistare la vista vede non più di quello appena nato; così l’uomo che ha fatto qualche passo verso lo stato virtuoso è in miseria non meno di chi non ha fatto alcun progresso. […] Ma quantunque <gli Stoici> neghino che virtù e vizi possano crescere, tuttavia essi pensano che entrambi [III,142,20] possano in un certo senso espandersi e dilatarsi.

SVF III, 531

[1] Cicerone ‘De finibus’ IV, 75. Tutti le aberrazioni sono pari. In che modo? […] Come si dice di molte cetre, che se nessuna di esse ha le corde alla giusta tensione per tenere gli accordi, tutte sono parimenti scordate; così le aberrazioni, poiché sono discrepanze <con la natura delle cose>, sono tutte parimenti in discrepanza, e dunque sono pari.

[2] IV, 76. Come si dice che il nocchiero commette [III,142,25] parimenti un crimine sia che affondi una nave carica di paglia, sia che ne affondi una carica d’oro; così commette parimenti un crimine chi picchia ingiustamente un familiare o un servo.

[3] IV, 77. Poiché essi dicono che ogni aberrazione è frutto di debolezza e di incostanza, e questi vizi sono parimente grandi in tutti gli stolti, [III,142,30] necessariamente le aberrazioni sono pari.

SVF III, 532

Cicerone ‘De finibus’ IV, 21. L’insipienza, l’ingiustizia e gli altri vizi di tutti gli uomini sono simili; tutte le aberrazioni sono pari; coloro che per doti naturali e per dottrina acquisita abbiano lungamente progredito verso la virtù, se non l’hanno conseguita pienamente, sono nella più completa miseria e non c’è differenza alcuna [III,142,35] tra la loro vita e quella dei malvagi incalliti.

SVF III, 533

Porfirione ‘In Horat. Sat.’ I, 2, 62. Seguendo l’opinione degli Stoici, <Orazio> nega che vi sia differenza tra il delitto commesso contro una matrona, contro un’ancella o contro un’adultera, giacché le colpe sono tutte pari. Gli Stoici infatti non badano alla grandezza della colpa, [III,142,40] ma alla volontà di chi la commette.

SVF III, 534

Pseudo-Acrone ‘In Horat. epist.’ I, 1, 17. Seguace degli Stoici […] che non concedono la virtù se non alla perfetta filosofia. Invece i Peripatetici e altri filosofi concedono tale onore anche ai non perfetti.

SVF III, 535

Plutarco ‘Quom. quis in virt. sent. prof.’ 2, p. 75f. [III,143,1] Coloro che non mettono i loro giudizi a filo con i fatti ma forzano i fatti, per natura inammissibili con le loro ipotesi, ad adattarvisi, infarciscono la filosofia di molte aporie; la maggiore delle quali è quella che accomuna in una sola viziosità tutti [III,143,5] gli uomini eccetto uno: l’uomo perfettamente saggio. A causa di ciò è diventato un enigma quello che si chiama ‘progresso’; ed esso sfiora da vicino l’estrema stoltezza, dal momento che sarebbe qualcosa che rende similmente infelici coloro che ha affrancato dalle passioni e dagli stati morbosi, seppur non da tutti, e coloro che non si sono ancora allontani da nessuno dei peggiori mali. Ma costoro si contestano da soli quando, nelle loro conferenze, [III,143,10] pareggiano l’ingiustizia di Aristide e quella di Falaride, la viltà di Brasida e quella di Dolone e, per Zeus, affermano che quella di Meleto non differisce per nulla dalla mancanza di intelligenza di Platone; e però nelle faccende della vita scansano e fuggono certuni come gente impossibile da addolcire e invece usano e danno fiducia ad altri come persone di gran valore nelle faccende più importanti.

SVF III, 536

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 127. [III,143,15] Ha il beneplacito <degli Stoici> l’affermazione che non vi sia alcun grado intermedio tra la virtù e il vizio; mentre i Peripatetici, invece, sostengono che tra virtù e vizio vi sono gradi di progresso. Essi, infatti, dicono che come un pezzo di legno deve essere diritto o ricurvo così <un uomo> è giusto o è ingiusto, e non più giusto né più ingiusto. E similmente accade per la altre virtù.

SVF III, 537

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘Quaestiones’ IV, 3, p. 121, 14 Bruns. [III,143,20] <Si può dimostrare> che tra la giustizia e l’ingiustizia e, in complesso, tra la virtù e il vizio vi è una postura dell’animo che chiamiamo intermedia. Se infatti, come secondo loro, la giustizia e l’ingiustizia sono disposizioni d’animo durevoli e le disposizioni d’animo durevoli sono imperdibili, allora un individuo non potrebbe da ingiusto diventare giusto; né da giusto, ingiusto.

[2] 121, 24. Se <gli Stoici> dicessero che i vizi non sono [III,143,25] disposizioni d’animo durevoli né sono imperdibili, e che nulla impedisce che degli individui passino dall’ingiustizia alla giustizia e, in complesso, dal vizio alla virtù: a partire da quale stato è avvenuta la loro trasformazione in esseri viziosi?

[3] 121, 32. Se essi dicessero che i bambini non sono ancora esseri logici e che perciò sono né giusti né ingiusti (giacché queste sono posture di un essere logico e, se queste sono tali, allora [III,143,30] anche lo stato intermedio lo è; e dunque il bambino, essendo privo di ragione, è né virtuoso né vizioso né in uno stato intermedio tra i due, come accade a tutte le creature prive di ragione); e che quando si trasformano in esseri logici non diventano ma sono direttamente viziosi, allora ammetterebbero con ciò…

SVF III, 538

Origene ‘De princip.’ III, p. 129 Delarue. In terzo luogo diranno che [III,143,35] volere il bello e rincorrere il bello è una della attività intermedie e che ciò è né virtuoso né vizioso. Contro questo giudizio bisogna asserire che se volere il bello e rincorrere il bello è un’attività intermedia, allora anche il suo opposto è un’attività intermedia…

SVF III, 539

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1063a. Sì, essi dicono, [III,143,40] ma come chi è un braccio al di sotto della superficie del mare annega non meno di chi è affondato cinquecento tese, così coloro che stanno approssimandosi alla virtù sono non meno nel vizio di coloro che ne sono ben lungi. E come i ciechi sono ciechi anche qualora siano sul punto di recuperare la vista poco dopo, così i progredenti [III,144,1] restano dissennati e depravati fino a che non apprendano la virtù.

[2] Plutarco ‘Quom. quis in virt. sent. prof.’ 1, p. 75c. Così, nel filosofare, non si deve concepire un progresso né una sensazione di progresso [III,144,5] se prima l’animo non si sgrava e monda dalla scempiaggine; e finché non si impossessi del bene puro e perfetto esso persiste nell’uso del puro male. Giacché il sapiente, che in un solo istante muta disposizione d’animo passando dal massimo grado dell’insipienza al colmo della virtù, è insieme sfuggito repentinamente ad ogni vizio, parte [III,144,10] del quale non era riuscito ad eliminare neppure nel corso di molto tempo. Eppure tu già sai che quanti fanno queste affermazioni procurano poi a se stessi molti fastidi e grandi aporie a proposito del ‘sapiente a sua insaputa’, il quale non ha ancora afferrato di essere diventato sapiente, anzi lo ignora ed è nell’incertezza che sia avvenuta, a chi poco per volta e nel corso di molto tempo ha eliminato [III,144,15] alcuni giudizi ed altri ne ha addizionato, la consegna della virtù, proprio come una marcia di congiunzione ad essa impercettibile e senza scosse. Ma se davvero la rapidità e la grandezza della trasformazione fossero tali che da pessimo al mattino uno diventa eccellentissimo la sera, o se a qualcuno capitassero per caso modalità di trasformazione per cui, addormentatosi insipiente si risvegliasse sapiente così da poter dire, [III,144,20] una volta sgravato l’animo dalle scempiaggini e dagli inganni di ieri:

‘falsi sogni, salute: non eravate proprio niente’;

chi potrebbe ignorare l’avvento in lui di una così grande differenza interiore ed assieme il fatto che a lui riluce la saggezza?

SVF III, 540

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 113 W. Essi legittimano l’idea che uno possa diventare [III,144,25] sapiente anche in un primo tempo a sua insaputa, senza desiderare qualcosa né, in complesso, trovarsi in uno di tali stati specifici del volere, perché quelli di cui abbisogna gli sono presenti senza ch’egli li abbia determinati. E affermano che simili puntualizzazioni saranno valide non soltanto nel caso della saggezza ma anche delle altre arti.

SVF III, 541

Filone Alessandrino ‘De agricultura’ 160, II, p. 127, 23 Wendl. Coloro che non [III,144,30] centrano questi obiettivi (di costante studio ed allenamento) sono dai filosofi chiamati ‘sapienti a loro insaputa’. Essi, infatti, affermano inconcepibile che coloro che si sono spinti innanzi fino alle vette della sapienza e ne hanno testé toccato per la prima volta quasi i confini, siano coscienti della loro perfezione. Giacché non possono sussistere entrambe le condizioni contemporaneamente: ossia il raggiungimento del limite e l’apprensione certa del suo raggiungimento. [III,144,35] Ma si tratta di un’ignoranza che è limitrofa alla scienza e non bandita lontano da essa, anzi vicina ad essa e come alla sua porta.

SVF III, 542

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1061f. Inoltre è contrario al concetto comune [III,145,1] che l’immutabilità e la saldezza delle determinazioni sia il massimo dei beni ma che chi si muove verso la vetta del progresso morale non abbia bisogno di ciò né gli dia importanza quando gli è presente, e che spesso egli non porge neppure un dito al fine di ottenere questa sicurezza e questa saldezza da loro legittimata come un bene grande e perfetto.

SVF III, 543

Proclo ‘In Platonis Alcibiad.’ III, p. 158 Cousin. [III,145,5] Rettamente gli Stoici sono soliti affermare che l’individuo non educato alla diairesi accagiona della propria infelicità gli altri e non se stesso; che il progredente riferisce a se stesso la causa di tutto ciò che fa o dice male; e che l’uomo educato alla diairesi non accagiona né se stesso né gli altri delle sue proprie trascuratezze. [III,145,10] …… (manca ) giacché è proprio lui primo autore del rinvenimento di ciò ch’è doveroso.

ETHICA IX.

Il sapiente e l’insipiente

Frammenti n. 544-547

SVF III, 544

Origene ‘In Evang. Ioannis’ II, 10, p. 122 Lo. Esistono presso i Greci alcuni giudizi chiamati ‘paradossi’ il maggior numero dei quali, [III,146,5] con qualche dimostrazione o apparente dimostrazione, s’appicca secondo loro al sapiente. In conformità a questi paradossi essi affermano che soltanto il sapiente è sotto ogni riguardo sacerdote, poiché soltanto il sapiente ha sotto ogni riguardo scienza del culto divino; che soltanto il sapiente è sotto ogni riguardo libero, poiché ha ottenuto dalla legge divina una potestà di autodeterminazione pratica; e definiscono la ‘potestà’ una delega legale.

SVF III, 545

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1041f. [III,146,10] Nel terzo libro ‘Sulla giustizia’ <Crisippo> ha affermato: “Perciò, a causa dell’enormità della grandezza e della bellezza (del sapiente), sembra che noi diciamo cose simili alle fittizie e non conformi all’uomo ed alla natura delle cose umane”.

SVF III, 546

Plutarco ‘Quaest. Conviv.’ I, 9, p. 626f. Teone … rivoltosi allo Stoico [III,146,15] Temistocle, era assai incerto sul perché mai Crisippo, dopo avere menzionato molte cose illogiche ed assurde, per esempio: “il pesce sotto sale diventa più dolce se bagnato con salamoia” oppure “i bioccoli di lana sono meno docili nelle mani di coloro che li dilaniano con violenza che non in quelle di coloro che li disaggregano senza scosse” e anche “chi digiuna è più tardo nel mangiare [III,146,20] di chi ha appena mangiato”, non spiegasse la causa di ciascuna di esse. Temistocle diceva che Crisippo propone accidentalmente queste cose a mo’ di esempio, poiché noi siamo facilmente ed irragionevolmente catturati da ciò ch’è verosimile e, al contrario, non prestiamo fiducia a ciò che ci appare inverosimile, e rivolgendosi a Teone: ‘A te, diceva…

SVF III, 547

Proclo ‘In Euclidem’ 35, 25, p. 397 Friedlein. [III,146,25] Anche i cultori della matematica hanno elaborato dei cosiddetti paradossi, come hanno fatto gli Stoici nei loro saggi…

§ 1. Il saggio non inganna e non si lascia ingannare

Frammenti n. 548-556

SVF III, 548

Stobeo ‘Eclogae’ II, 111, 18 W. Essi affermano che lo Stoico non concepisce [III,146,30] mai il falso e non dà assolutamente il proprio [III,147,1] assenso a qualcosa di non catalettico, poiché non si basa affatto né sull’opinione né sull’ignoranza, essendo l’ignoranza un assenso volubile e debole. Egli non concepisce nulla debolmente ma piuttosto con sicurezza e con saldezza, e anche per questo il sapiente non opina. Le opinioni sono di due tipi: il primo è l’assenso a qualcosa di non bene afferrato, il secondo è la concezione [III,147,5] debole. Queste sono disposizione d’animo estranee al sapiente e perciò la precipitazione nel dare il proprio assenso prima dell’apprensione certa s’addice all’insipiente precipitoso e non accade all’uomo di buona natura, perfetto e virtuoso. Né al sapiente sfugge di mente qualcosa, giacché la dimenticanza è indicativa della concezione di una falsa realtà. In conseguenza di ciò il sapiente non diffida di sé, giacché [III,147,10] la diffidenza è concezione di un falso; mentre il fatto che egli nutra fiducia in sé è cosa virtuosa, giacché essa è un’apprensione certa, potente e che rinsalda ciò che egli ha concepito. Anche la scienza, in modo simile, è resa immutabile dal ragionamento e perciò gli Stoici affermano che l’insipiente non ha scienza di nulla né fiducia in nulla. Dopo di che, il sapiente non si lascia prevaricare né menare pel naso né irreggimentare, e neppure imbroglia né [III,147,15] si lascia imbrogliare da un altro. Tutti questi comportamenti, infatti, includono in sé un inganno e la proposizione dell’assenso, di volta in volta, a false realtà. Nessuno dei virtuosi sbaglia strada, né casa, né scopo; e gli Stoici legittimano l’idea che il sapiente non abbia difetti né di vista né di udito e che i suoi organi di senso, in totale, non sbaglino nel cogliere qualcosa, giacché ciascuno di questi ha a che fare con i falsi [III,147,20] assensi. Essi affermano poi che il sapiente non sottintende nulla, giacché il sottinteso è assenso ad un genere di realtà non bene afferrato; e concepiscono che l’uomo assennato non si penta, perché il pentimento ha a che fare con un falso assenso, come se esso fosse stato prima accordato in modo precipitoso. Il sapiente, inoltre, non è in alcun modo mutevole, non ritratta e non inciampa, giacché tutte queste cose sono proprie [III,147,25] di quanti sono volubili nei giudizi. E questo è estraneo all’uomo assennato al quale, affermano gli Stoici similarmente a quanto detto, nulla ‘sembra’.

SVF III, 549

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. Inoltre il sapiente non opinerà, cioè non assentirà ad alcuna falsità.

SVF III, 550

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 157. Il sapiente non è uno [III,147,30] degli ‘opinanti’. Secondo loro, infatti, questo sarebbe causa della stoltezza e delle aberrazioni.

SVF III, 551

Cicerone ‘Academica’ II, 48. Specialmente perché proprio voi dite che il saggio, quand’è furioso, sospende qualunque assenso, giacché non distingue più tra le diverse rappresentazioni.

SVF III, 552

Agostino ‘Soliloquia’ I, 4, 9. P. L. XXXII, col. 873. Non esiti [III,147,35] a chiamare scienza, se mai ne hai una, la dottrina di queste cose? No, purché me lo concedano gli Stoici, i quali attribuiscono la scienza al solo sapiente. Certo, non nego di percepire queste cose, ma questa essi la concedono anche agli stolti.

SVF III, 553

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 4. Rettamente Zenone e gli Stoici [III,147,40] l’opinione: infatti, opinare di sapere ciò che non sai non è del saggio ma piuttosto del temerario e dello stolto. [III,148,1] Dunque, se nulla si può sapere, come insegna Socrate; e non bisogna opinare, come insegna Zenone, allora l’intera filosofia è soppressa.

SVF III, 554

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 111, 10. Si afferma che il sapiente non mente [III,148,5] ma dice in ogni occasione la verità, giacché il mentire non sta nel dire qualcosa di falso ma nel dire il falso in modo mendace e per ingannare chi si ha dintorno. Gli Stoici legittimano pertanto l’idea che il sapiente adopererà a volte il falso in molti modi, senza però prestarvi assenso: come strategia contro i rivali [III,148,10] o in previsione di un utile o di molti altri tipi di vantaggi di vita.

SVF III, 555

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ XII, 1, 38. In primo luogo è d’uopo che tutti mi concedano ciò che anche i rigorosissimi Stoici ammettono, ossia che il saggio dirà a volte il falso e talora per motivi triviali: così come accade con i bambini malati, ai quali raccontiamo molte bugie per il loro bene, e promettiamo molte cose che poi non faremo; [III,148,15] ed a maggior ragione per distogliere un grassatore da un omicidio o per ingannare il nemico e far salva la patria. In questo modo ciò che altrimenti va riprovato pure in uno schiavo, a volte sia invece da lodarsi nel saggio.

SVF III, 556

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 122. Inoltre i sapienti sono anche al riparo dalle aberrazioni [III,148,20] in quanto non incappano in esse.

§ 2.Il sapiente agisce sempre bene

Frammenti n. 557-566

SVF III, 557

Stobeo ‘Eclogae’ II, 65, 12 W. <Gli Stoici> affermano anche che il sapiente fa ogni cosa in armonia con tutte le virtù, giacché ogni sua azione è perfetta e dunque non mancante di virtù alcuna.

SVF III, 558

Filone Alessandrino ‘De fortitudine’ II, p. 426 Mang. [III,148,25] Sicché nulla, in ciascuna giornata del virtuoso, è lasciato isolato e aperto al passaggio delle aberrazioni, ma in tutte le sue parti ed intervalli essa è riempita di nobiltà d’animo. La virtù e il bello si giudicano non dalla quantità ma dalla qualità, laonde <gli Stoici> concepirono che un giorno solo vissuto rettamente avesse un valore uguale alla bella vita di un sapiente. […] [III,148,30] Perciò in tutti i suoi moti e in tutte le sue relazioni il virtuoso è degno di lode, dentro e fuori, ed è un politico e assieme un amministratore, poiché da amministratore mantiene retta la propria interiorità e da politico rettifica le cose esteriori per quanto sia utile.

SVF III, 559

Filone Alessandrino ‘De anim. sacrificio idon.’ II, p. 249 Mang. Allo stesso [III,148,35] modo avviene che le scarsezze nella nobiltà d’animo degli uomini virtuosi e amanti degli dei siano meglio delle azioni rette che gli insipienti compiono per caso.

SVF III, 560

Stobeo ‘Eclogae’ II, 66, 14 W. Essi affermano anche che il sapiente fa bene tutto quel che fa. Ed è manifesto, giacché al modo in cui noi diciamo che il flautista o il citaredo fanno tutto bene, intendendo con ciò la loro sottomissione alle regole dell’arte del flauto [III,148,40] o della cetra; allo stesso modo, quando diciamo che il saggio fa tutto bene, intendiamo sia quanto fa e non, per Zeus, anche quanto non fa. Il giudizio poi che il sapiente faccia tutto bene, <gli Stoici> l’hanno creduto conseguente al fatto che egli realizza tutto secondo la retta ragione e, come dire, secondo virtù, la quale è arte [III,149,1] riguardante la vita intera. In modo analogo, tutto ciò che l’insipiente fa, lo fa male e in conformità a tutti i vizi.

SVF III, 561

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 125. Il sapiente fa bene ogni cosa, così come [III,149,5] noi diciamo che Ismenia suona bene sul flauto qualunque aria per questo strumento.

SVF III, 562

Dione Crisostomo ‘Orationes’ LXXI, 5. Io dico che il filosofo non è tale da conoscere tutte le arti (giacché è arduo esercitarne anche una soltanto con precisione) ma che egli fa tutto ciò che gli capita di fare meglio degli altri uomini e che, quanto alle arti, [III,149,10] se qualche volta sarà costretto ad accostarsi a qualcosa del genere, egli non si segnalerà nell’arte in quanto tale, non essendo infatti possibile che il profano in falegnameria operi meglio di un falegname o che chi è inesperto di agricoltura appaia più esperto dell’agricoltore in qualche lavoro agricolo. Dove potrebbe allora segnalarsi il filosofo? Coll’operare o non operare in modo utile e col conoscere il quando si deve, il dove, il momento opportuno di un’opera e [III,149,15] anche la sua possibilità meglio dell’artigiano.

SVF III, 563

Stobeo ‘Eclogae’ II, 102, 20 W. L’uomo assennato fa tutto bene poiché utilizza costantemente le sue esperienze di vita in modo saggio, con padronanza di sé, con compostezza e disciplinatamente. Invece l’insipiente, dal momento che è inesperto del loro retto uso, agendo in conformità a questa disposizione d’animo fa tutto male, poiché è facile alla volubilità [III,149,20] ed intrappolato dal rimorso per ogni sua azione. Il rimorso è afflizione per cose aberranti effettuate, in quanto avvenute per nostra responsabilità; ed è una passione che dà infelicità all’animo e lo pone in guerra con se stesso. Chi prova rimorso, infatti, di quanto s’adonta per le vicende avvenute, di altrettanto freme contro di sé come loro causa. Perciò l’insipiente è in ogni caso disonorevole, in quanto persona sia indegna d’onore [III,149,25] che priva di onorevolezza. L’onore è infatti dignità di un premio, e il premio è la ricompensa di una virtù benefica. Dunque, è giusto chiamare disonorevole chi non partecipa della virtù.

SVF III, 564

Stobeo ‘Eclogae’ II, 115, 5 W. <Gli Stoici> affermano che al virtuoso nulla succede che sia contrario al suo desiderio, al suo impulso o al suo progetto, giacché egli fa tutte le cose di questo genere ‘con riserva’, e [III,149,30] nessuna delle avversità che lo incolgono è contraria alle sue prolessi.

SVF III, 565

Seneca ‘De beneficiis’ IV, XXXIV, 4. Il saggio non cambia opinione se tutto permane qual era quando prese la decisione. Egli, quindi, non conosce il rimorso, giacché non si poteva fare meglio di come si fece, né decidere meglio di come si decise. Del resto, il saggio intraprende [III,149,35] ogni azione con una certa riserva, ossia: “Se non capita nulla che lo impedisca”. Pertanto noi diciamo che a lui tutto va per il verso giusto e nulla va contro le sue previsioni, perché nel suo animo egli già mette in conto che può capitare qualcosa che vanifica i piani prestabiliti.

SVF III, 566

Filone Alessandrino ‘Quod deus sit immutabilis’ 22, II, 61, 1 Wendl. Eppure [III,149,40] alcuni sostengono che non tutti gli uomini siano ambivalenti nei loro punti di vista. Infatti, coloro che praticano la filosofia senza dolo e con purezza trovano nella scienza il sommo bene e da essa ritraggono l’essere non coinvolti nella mutevolezza delle vicende, anzi il poter porre mano a tutto quanto è loro acconcio con fermezza non oscillante e con compatta saldezza.

[III,150,1] § 3.Il sapiente è esente dai mali

Frammenti n. 567-581

SVF III, 567

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 99, 9 W. Poiché utilizza le sue esperienze di vita in ciò che effettua, il virtuoso fa tutto bene, ossia in modo saggio, con temperanza [III,150,5] e in armonia con le altre virtù; mentre l’insipiente, al contrario, fa tutto male. Inoltre il virtuoso è grande, massiccio, d’elevato sentire, potente. Grande, perché è capace di ottenere le cose proairetiche che si è proposto; massiccio, perché è cresciuto in ogni senso; d’elevato sentire, perché condivide l’altezza d’animo che spetta all’uomo nobile e sapiente; potente, perché si è procacciata la potenza che gli spetta, [III,150,10] dal momento che è invitto e senza antagonisti. Perciò egli è non costretto da alcuno né costringe alcuno, è non impedito né impedisce, non subisce violenza da alcuno né la esercita su alcuno, è non dispotico né subisce il dispotismo altrui, non maltratta alcuno né è maltrattato, non incappa nei mali <né vi fa incappare un altro>, è non ingannato e non inganna un altro, [III,150,15] è non mendace, non ignora, è non occulto a se stesso e, in generale, non concepisce il falso. È al massimo grado felice, fortunato, beato, opulento dei veri beni, pio, caro agli dei, di gran pregio, regale, dotato di capacità strategica, politico, amministratore, atto a fare denari. Gli insipienti, invece, hanno qualità tutte opposte a queste.

[2]p. 102, 20 W. (= 563, parte) [III,150,20] L’uomo assennato fa tutto bene poiché utilizza costantemente le sue esperienze di vita in modo saggio, con padronanza di sé, con compostezza e disciplinatamente. Invece l’insipiente, dal momento che è inesperto del loro retto uso, agendo in conformità a questa disposizione d’animo fa tutto male, poiché è facile alla volubilità ed intrappolato dal rimorso per ogni sua azione. Il rimorso è afflizione [III,150,25] per cose aberranti effettuate, in quanto avvenute per nostra responsabilità; ed è una passione che dà infelicità all’animo e lo pone in guerra con se stesso. Chi prova rimorso, infatti, di quanto s’adonta per le vicende avvenute, di altrettanto freme contro di sé come loro causa.

SVF III, 568

Aezio ‘Placita’ IV, 9, 17. Gli Stoici affermano che si può riconoscere in modo irrefutabile il sapiente a colpo d’occhio, dal suo solo aspetto esteriore.

SVF III, 569

Varrone ‘Saturae Menippeae’ ed. Riese p. 222. In uno stadio fatto di carta [III,150,30] combatto la mia gara funebre, come chi lottasse con l’animo, caro il mio uomo, più attratto dal pancrazio degli Stoici che da quello dei pugili.

SVF III, 570

[1] Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 14. Chi è forte ha anche fiducia in sé, […] e chi ha fiducia in sé non ha certo paura, giacché la fiducia in sé è ben diversa dalla paura. [III,150,35] Ora, chi si affligge ha anche paura, giacché le cose in presenza delle quali noi ci affliggiamo sono le stesse che temiamo quando incombano o ci vengano addosso. Così accade che fortezza ed afflizione siano cose incompatibili. È poi verosimile che chi cade in afflizione cada anche nella paura, nello scoramento e nell’avvilimento, tutte cose che inducono chi ne è preda a comportamenti servili, [III,150,40] e, se capita, a darsi per vinto; e chi ammette ciò deve necessariamente ammettere la propria vigliaccheria e codardia. Nulla di ciò cade nell’animo di un uomo forte, e dunque neppure l’afflizione. Ma nessuno è saggio se non è forte; quindi il saggio non cade mai in afflizione. Inoltre, [III,151,1] chi è forte è necessariamente anche magnanimo; chi è magnanimo è anche invitto; e chi è invitto guarda le vicende umane dall’alto in basso, valutandole non alla propria altezza. Ma nessuno può guardare dall’alto in basso cose capaci di affliggerlo; e ciò fa sì che l’uomo forte non sia mai preda dell’afflizione. [III,151,5] Tutti i saggi sono invece forti, e dunque nessun saggio cade in afflizione. Come l’occhio infiammato è incapace di svolgere bene la propria funzione, e come le altre parti del corpo o il corpo intero, se allontanati dal loro stato naturale vengono meno ai propri doveri e compiti; così l’animo in scompiglio non è atto ad eseguire il proprio compito. Ora, è compito dell’animo [III,151,10] usare rettamente la ragione; ma l’animo del saggio è sempre disposto in modo da utilizzare al meglio la ragione; esso pertanto non è mai preda della passione. Ma l’afflizione è una passione dell’animo e dunque il saggio ne sarà sempre esente.

[2] III, 18. Chi è frugale o, se preferisci, moderato e temperante, è necessariamente capace di affetti positivi; chi è capace di affetti positivi è anche quieto; [III,151,15] chi è quieto è libero dalle passioni e dunque anche dall’afflizione. Queste sono le doti proprie del saggio, e l’afflizione ne starà sempre alla larga.

SVF III, 571

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 73 (p. 302 Aucher). Il lutto non trova posto nelle persone integre, ed ogni saggezza e virtù è incorruttibile. [III,151,20] Invece si è necessariamente preda di afflizione riguardo a ciò che si può avere e però non si ha. Dobbiamo dunque prestare la massima attenzione a ciò che salvaguarda il saggio dal pianto e dal lutto. […] giacché le cose che capitano all’improvviso ed hanno il sopravvento sulla volontà dell’uomo, coartano e prostrano il pusillanime, mentre l’uomo costante riescono sì ad atterrarlo con assalti forti [III,151,25] ma non tali da finirlo, ed anzi sono duramente respinte e costrette alla ritirata da chi conserva la padronanza di sé.

SVF III, 572

Agostino ‘De vita beata’ c. 25. Dunque, io direi, nessuno nega che chi è indigente sia infelice; né ci atterrisce che certe cose siano necessarie al corpo dei saggi. Non è però il loro animo, nel quale è riposta la vita felice, ad averne bisogno. [III,151,30] Il saggio è infatti perfetto, e nessuno che sia perfetto manca di qualcosa; mentre ciò che gli appare necessario al corpo egli lo acquisirà se c’è, e se non c’è, la mancanza di queste cose non gli spezzerà l’animo. Ogni saggio è forte, e nessuno che sia forte teme alcunché. Pertanto il saggio non teme la morte o i dolori del corpo, per allontanare o evitare o differire i quali sono necessarie cose di cui egli potrebbe trovarsi carente; [III,151,35] e delle quali tuttavia, se non mancano, egli non tralascia di fare buon uso. È dunque verissimo il detto: ‘È da stolti subire ciò che puoi evitare’. Egli scanserà dunque la morte e il dolore quanto può e quanto sta bene, e se proprio non riuscisse ad evitarli non si riterrà infelice perché essi accadono, bensì perché, potendoli evitare, [III,151,40] non l’ha fatto: il che è segno manifesto di stoltezza. Non evitandoli, sarà dunque infelice non per dover sopportare tali cose ma per la propria stoltezza. Se invece, pur agendo con sollecitudine e con onestà non sarà riuscito ad evitarli, la loro prepotenza non lo farà infelice. Non meno vero è infatti anche l’altro detto dell’autore comico: ‘Poiché non può accadere quel che vuoi, cerca di volere quel che può accedere’. Come potrà mai essere infelice [III,151,45] colui al quale nulla accade contro la sua volontà? Infatti egli non può volere quel che prevede non possa accadergli; sicché il saggio vuole soltanto cose assolutamente certe, e qualunque cosa faccia [III,152,1] la fa sempre in armonia con ciò che prescrivonola virtù e la divina legge della saggezza, che a nessun patto possono essergli strappate dall’animo.

SVF III, 573

Seneca ‘De beneficiis’ II, XVIII, 4. Tante volte devo far presente che io [III,152,5] non sto parlando dei saggi, per i quali ogni dovere è un piacere, che hanno piena padronanza del proprio animo, si danno la legge che preferiscono e, una volta datasela, la osservano.

SVF III, 574

Stobeo ‘Florilegium’ 7, 21. Di Crisippo. Crisippo soleva dire che il sapiente prova sofferenza ma è non tormentato, giacché non cede [III,152,10] con l’animo. Ed egli ha, sì, dei bisogni, ma non s’aspetta nulla.

SVF III, 575

‘Commento a Lucano’ Libro IX, 569 p. 304 Us. Nessuna violenza fa vacillare il saggio, né lo spaventa la fortuna col suo dare e togliere delle cose: egli sopporterà di buon animo qualunque cosa la sorte iniqua gli riservi. Gli Stoici negano che il saggio sia affetto da mali…

SVF III, 576

[1] Minucio Felice ‘Octavius’ cp. 37. Dio mio, che bello spettacolo [III,152,15] quando il Cristiano incontra il dolore; quando non si scompone dinanzi alle minacce, ai supplizi e alle torture; quando calpesta irridendoli lo strepito della morte e l’orrore del carnefice; quando drizza la sua libertà contro re e principi e cede soltanto a dio, di cui egli è; quando da vincitore in trionfo insulta proprio colui che ha sentenziato la sua condanna. In fin dei conti vince colui [III,152,20] che ottiene ciò cui aspirava.

[2] Sen. ‘Dialoghi’ I, 2, 7. È provato che Minucio qui segue esempi Stoici.

SVF III, 577

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ V, 13. Questa la vera virtù che anche i filosofi vanno fieri, non coi fatti ma con vuote parole, di esaltare; sostenendo che nulla è tanto congruo alla serietà e costanza del saggio quanto il fatto che nessuna terribile minaccia può smuoverlo dalla parola data. [III,152,25] La vera virtù è essere di tempra tale da morire crocifisso per non tradire la propria fede, non venir meno al dovere e non macchiarsi di un’ingiustizia per paura della morte o se sottoposto a un atroce dolore.

SVF III, 578

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 110 W. <Gli Stoici> affermano anche che il sapiente è estraneo agli oltraggi. Egli, infatti, è non oltraggiato né oltraggia, poiché l’oltraggio è [III,152,30] un’ingiustizia che svergogna e danneggia; mentre il virtuoso non subisce ingiustizia né danno, seppure alcuni, agendo in questo ingiustamente, si relazionino a lui in modo proclive all’ingiustizia e all’oltraggio. Oltre a ciò dicono che l’oltraggio è non un’ingiustizia qualunque ma quella fatta per svergognare ed oltraggiare. L’uomo assennato, però, non incappa in nulla di tutto ciò ed [III,152,35] in nessun modo è svergognato, giacché egli ha in se stesso il bene e la virtù divina e perciò si è allontanato da ogni vizio e da ogni danno.

SVF III, 579

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1044a. Nessuno subisce un’ingiustizia se non subisce un danno. Donde Crisippo, dopo avere dichiarato [III,152,40] in altri luoghi che il sapiente non subisce ingiustizia, qui [nel primo libro ‘Sulle vite’] afferma che il sapiente è passibile di qualche ingiustizia.

SVF III, 580

Seneca ‘De beneficiis’ II, XXXV, 2. Alcuni assunti di noi Stoici cozzano con le idee correnti, ma poi ad esse ritornano per altra via. Noi neghiamo che il saggio possa ricevere offesa, e tuttavia chi lo percuote con un pugno sarà condannato per lesioni. [III,153,1] Neghiamo che lo stolto possegga qualcosa, eppure condanneremo per furto chi allo stolto ha sottratto qualcosa; diciamo che tutti gli uomini sono pazzi, eppure non tutti li curiamo con l’elleboro; anzi, proprio a costoro che chiamiamo pazzi diamo il diritto di voto e affidiamo l’amministrazione [III,153,5] della giustizia.

SVF III, 581

Stobeo ‘Eclogae’ II, 115, 18 W. Essi affermano che l’uomo dabbene, poiché non suscettibile di calunnia, è del tutto estraneo ad essa; sia nel senso che non ne rimane vittima, sia in quanto egli non calunnia un altro. La calunnia è una rottura tra amici apparenti per una ragione falsa. Essere calunniati e calunniare non riguarda gli [III,153,10] uomini virtuosi ma soltanto gli insipienti, e perciò coloro che sono davvero amici non sono calunniati né calunniano, mentre soltanto quelli che tali sembrano o appaiono agiscono così.

§ 4. Il sapiente è felice

Frammenti n. 582-588

SVF III, 582

Cicerone ‘De finibus’ III, 26. Siccome questo è il fine supremo: vivere in modo conveniente e congruente con la natura; ne consegue [III,153,15] necessariamente che tutti i saggi hanno sempre una vita felice, compiuta, fortunata, e priva di impedimenti, proibizioni e bisogni.

SVF III, 583

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 92 (p. 318 Aucher). L’intera vita del saggio è tutta piena di felicità, e non ne resta parte [III,153,20] alcuna nella quale possa irrompere il peccato.

SVF III, 584

Dione Crisostomo ‘Orationes’ LXIX, 4. Se l’animo loro diventerà cosciente e la loro mente buona ed essi saranno in grado di effettuare rettamente le faccende proprie e quelle altrui, ebbene è necessario che costoro vivano anche felicemente, poiché sono diventati uomini rispettosi della legge, hanno [III,153,25] centrato il buon genio e sono amici degli dei. Giacché è inverosimile che alcuni siano saggi e che siano altri ad essere esperti delle faccende umane, né che alcuni abbiano scienza delle faccende umane mentre sono altri ad avere scienza delle faccende divine, né che alcuni siano scienziati delle faccende divine mentre sono altri ad essere santi, né che alcuni siano [III,153,30] santi mentre sono altri ad essere cari agli dei, né che gli uni siano cari agli dei mentre sono gli altri ad essere felici. Neppure avviene che gli uni siano individui stolti mentre sono gli altri ad ignorare le faccende loro confacenti, né che coloro che ignorano le proprie faccende conoscano quelle divine, né che [III,153,35] coloro che hanno concezioni da insipiente circa le cose divine non siano sacrileghi. Neppure, allora, è possibile che gli individui sacrileghi siano amici degli dei, né che quanti sono non amici degli dei non abbiano cattiva sorte.

SVF III, 585

Stefano ‘Comment. in Aristot. Rhet.’ III, p. 325, 13 Rabe. Gli Stoici chiamano felice chi regge a guai [III,153,40] degni di Priamo.

SVF III, 586

[III,154,1] Gregorio Nazianzeno ‘Epist.’ 32. P. G. XXXVII, col. 72. Io lodo la baldanza e l’apertura di mente degli Stoici, i quali affermano che nessuna delle cose esterne è di impedimento alla felicità, e che l’uomo virtuoso è beato anche se il toro di Falaride lo avesse bruciato.

SVF III, 587

Stobeo ‘Eclogae’ II, 101, 5 W. [III,154,5] Gli insipienti non partecipano di alcuno dei beni, dacché bene è la virtù o quanto partecipa della virtù; e i debiti giovamenti connessi ai beni toccano soltanto ai virtuosi. Così come i debiti detrimenti connessi ai mali toccano soltanto ai viziosi. E per questo tutti [III,154,10] i virtuosi sono indenni in ambo i sensi, cioè tali da non arrecare né subire alcun danno; mentre per gli insipienti vale il contrario.

SVF III, 588

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 123. Essi sono indenni, giacché non danneggiano altri né se stessi.

§ 5.Il sapiente è ricco, bello, libero

Frammenti n. 589-603

SVF III, 589

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 100, 7 W. [III,154,15] In generale, ai virtuosi appartengono tutti i beni e agli insipienti tutti i mali. Ma non si deve legittimare l’idea che gli Stoici affermino che se esistono dei beni, quei beni appartengono ai virtuosi; e similmente riguardo ai mali. Piuttosto, che i primi hanno tanti beni da non scarseggiare affatto di essi per una vita perfettamente [III,154,20] felice; mentre i secondi hanno tanti mali da far sì che la loro sia una vita imperfetta e infelice.

SVF III, 590

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 125. Tutto è dei sapienti, giacché la legge ha dato loro una potestà definitiva al riguardo. Si afferma anche che alcune cose sono degli insipienti, ma al modo in cui noi diciamo delle cose frutto di ingiustizia che esse sono, in un certo senso, di proprietà dello Stato e, in un altro, di [III,154,25] coloro che le stanno utilizzando.

SVF III, 591

Cicerone ‘De finibus’ III, 75. Rettamente si dirà <del saggio> che tutte le cose gli appartengono, giacché egli è il solo a conoscere l’uso appropriato di tutte. Egli sarà rettamente chiamato bello, giacché i lineamenti dell’animo sono più belli di quelli del corpo; rettamente l’unico libero, giacché non si assoggetta al dominio di alcuno né obbedisce alla cupidigia; rettamente invitto, [III,154,30] com’è di colui il cui animo non può essere incatenato pur se il corpo è gettato in prigione.

SVF III, 592

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 99 (p. 323 Aucher). Non stimare che io paragoni la bellezza a quella denominata avvenenza del corpo che deriva dalla simmetria delle sue parti e dal decoro delle forme. [III,154,35] Questa appartiene anche alle meretrici, che io non chiamerei mai belle, ma al contrario persone deformi, giacché questo è il nome, se ce n’è uno, che loro si attaglia. […] Come le proprietà del corpo appaiono allo specchio, così quelle dell’animo traspaiono dall’espressione del volto. L’aspetto impudente, la testa alta, il frequente battito delle ciglia, [III,155,1] l’incedere lascivo senza mai arrossire né vergognarsi per alcuna sconcezza, è segno [III,155,5] di un’anima quanto mai deforme che dipinge e rappresenta con evidenza sul corpo le immagini nascoste del proprio vituperio. Invece colui nel quale abitassero i segni del divino visibili nella sua pratica della saggezza e dalla virtù, è bellissimo seppure per deformità d’aspetto superasse un Sileno. [III,155,10] Il bene per lui consiste infatti nel presentarsi all’accettazione di chi lo vede, rispettosamente e vestito del proprio pudore.

SVF III, 593

Stobeo ‘Eclogae’ II, 101, 14 W. Essi affermano che la vera ricchezza è il bene e la vera povertà il male; che bene è, [III,155,15] in verità, la libertà e male, in verità, la servitù; e che perciò soltanto il virtuoso è ricco e libero mentre, al contrario, l’insipiente è povero, poiché si è defraudato delle risorse per arricchirsi ed è servo per la sua disposizione d’animo a prostrarsi.

SVF III, 594

Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ II, p. 72 Ald. [III,155,20] Coloro i quali affermano che soltanto il sapiente è ricco o che soltanto lui è bello o d’indole nobile o maestro d’eloquenza, non ignorano le caratteristiche del sapiente ma le chiamano ricchezza o bellezza o indole nobile violando il modo di parlare vigente.

SVF III, 595

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ II, p. 79 Ald. [III,155,25] Da questo punto di vista si potrebbe mettere mano anche a quelli che si chiamano ‘paradossi’ stoici. Se, infatti, i più chiamo ‘ricco’ soltanto il grande proprietario ed uno non usasse questo termine in questo senso ma per indicare il sapiente e chi possiede le virtù, ebbene costui violerebbe [III,155,30] la vigente definizione nell’uso dei nomi.

[2] II, 22 Ald. Di nuovo, i più chiamano ‘fortunato’ chi ha dovizia di beni di fortuna, mentre <gli Stoici> chiamano fortunato chi possiede la virtù, il che non è un bene di fortuna. Dunque anche costoro violano il conveniente uso dei nomi.

SVF III, 596

Filone Alessandrino ‘De plantat. Noe’ 69, II, p. 147, 15 Wendl. [III,155,35] Alcuni, tenendo gli occhi sulla carenza e sul soprappiù di oggetti esterni e legittimando l’idea che nessuno di coloro che sono senza mezzi e degli squattrinati sia ricco, credettero che quanti sono dell’avviso che tutto è del virtuoso dicano paradossi.

SVF III, 597

[1] Pseudo-Acrone ‘In Horat. Sat.’ I, 3, 124. Gli Stoici dicono che il saggio è ricco anche se mendica,nobile anche se è servo, [III,155,40] bellissimo anche se è sordidissimo.

[2] Porfirione ‘In Horat. Sat.’ I, 3, 124. Inoltre gli Stoici stimano che l’uomo di perfetta saggezza abbia tutto. E Lucilio, che inclina a tale filosofia, dice: “Non avrà anche tutte queste cose: d’essere bello, ricco, libero e solo re?”

[3] Pseudo-Acrone ‘In Horat. epist.’ I, 19, 19. Gli Stoici negano[III,155,45] che chiunque, tranne il saggio, sia libero.

SVF III, 598

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 170. [III,156,1] Di rimando gli Stoici affermano che la saggezza, essendo scienza dei beni, dei mali e di ciò ch’è né bene né male, esiste in quanto arte di vita; e che soltanto quanti hanno in più la saggezza diventano belli, ricchi, sapienti. Infatti, ricco è chi possiede cose di gran valore [III,156,5] e la virtù è una cosa di gran valore: dunque, soltanto il sapiente è ricco. Inoltre, bello è chi è degno di trasporto amoroso e solo il sapiente è degno di trasporto amoroso: dunque soltanto il sapiente è bello.

SVF III, 599

Cicerone ‘Academica’ II, 136. Queste dottrine proprio non le sopporto, non perché le avversi, (infatti molte delle stravaganze Stoiche, i cosiddetti ‘paradossi’, sono figlie di Socrate), ma quando [III,156,10] mai Senocrate o Aristotele le hanno proposte? […] Avrebbero essi mai detto che solo il saggio è re, ricco e bello; che tutto, dovunque si trovi, è del saggio; che nessuno è console, pretore, imperatore e, che ne so, quinqueviro, se non il saggio; e infine che solo il saggio è cittadino ed uomo libero, mentre tutti gli stolti sono stranieri, esuli, schiavi e folli? [III,156,15] E poi che quelle scritte da Licurgo, da Solone e le nostre Dodici Tavole non sono leggi? E che non ci sono città né Stati eccetto quelli fatti di saggi?

SVF III, 600

Cicerone ‘De re publica’ I, 28. In verità chi potrebbe reputare qualcuno più ricco di colui cui nulla manca di ciò che la natura richiede; qualcuno [III,156,20] più potente di chi consegue tutto ciò che richiede; qualcuno più felice di chi si è liberato di ogni passione dell’animo; qualcuno in possesso di una fortuna più sicura di colui che possiede quei beni che, come si dice, può portar via con sé anche da un naufragio? Quale supremo comando, quale magistratura, quale regno può essere più eccellente dello stato di chi guarda dall’alto in basso i possessi umani, [III,156,25] li valuta inferiori alla saggezza ed ha l’animo sempre rivolto a null’altro che realtà sempiterne e divine?

SVF III, 601

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 114, 4 W. Soltanto l’uomo virtuoso ha buona figliolanza, non in qualcuno ma in tutti i figlioli; e infatti bisogna che chi ha buona figliolanza, avendo figlioli virtuosi, li utilizzi in quanto tali. Inoltre, soltanto il virtuoso invecchia bene e muore bene. Invecchiare bene significa tragittarsi la vecchiaia secondo virtù, e morire bene significa finire la vita [III,156,30] con una morte in armonia con la virtù.

SVF III, 602

Stobeo ‘Eclogae’ II, 114, 10 W. In rapporto all’uomo le sostanze si chiamano, in quanto cibarie, salutari o malsane, lassative o astringenti, e in modi similari. Salutari sono quelle per loro natura adatte a procacciare o a conservare la salute. Malsane quelle con proprietà opposte a queste. [III,156,35] Un discorso similare vale anche per le altre sostanze.

SVF III, 603

Filone Alessandrino ‘De sobrietate’ 56, II, p. 226, 16 Wendl. Chi ha avuto questa sorte è avanzato oltre i limiti dell’umana felicità. Lui soltanto, infatti, è di nobile stirpe in quanto ha registrato Dio come padre e, adottato da lui, è diventato suo unico figlio. Non ricco ma straricco, in quanto vive sempre nello sfarzo di quelli che sono soltanto beni, abbondanti e genuini, [III,156,40] immuni al logorio del tempo, sempre nuovi e in fiore. Non soltanto celebre ma glorioso, in quanto fruisce di una lode non imbastardita dall’adulazione ma resa salda dalla verità. Lui soltanto re, in quanto ha preso dal supremo imperatore il potere incontrastato di comando su tutto e su tutti. Lui soltanto libero, in quanto congedatosi dalla padrona più molesta, la vuota opinione.

[III,157,1] § 6. Il sapiente ha perizia delle cose divine

Frammenti n. 604-610

SVF III, 604

Stobeo ‘Eclogae’ II, 67, 20 W. <Gli Stoici> affermano anche che [III,157,5] soltanto il sapiente, e nessun insipiente, è sacerdote. Il sacerdote, infatti, deve essere esperto di leggi riguardanti i sacrifici, gli auspici, le purificazioni, l’erezione dei templi e tutte le cose siffatte. Oltre a ciò, egli abbisogna di santità, di pietà, di perizia nel culto degli dei e deve essere addentro alla natura del divino. Nulla di ciò esiste nell’insipiente, e perciò tutti [III,157,10] gli stolti sono persone empie. L’empietà, infatti, è un vizio, giacché è ignoranza del culto degli dei; mentre la pietà, come dicemmo, è scienza del culto degli dei.

SVF III, 605

Stobeo ‘Eclogae’ II, 114, 16 W. Inoltre, soltanto il virtuoso è divinatore, poiché possiede la scienza atta a diagnosticare i segni che dagli [III,157,15] dei o dai démoni sono diretti alla vita umana. Perciò anche le varie specie della mantica gli sono familiari: l’interpretazione dei sogni, l’interpretazione del volo degli uccelli, i responsi che si traggono dalle vittime sacrificali e quant’altre forme di divinazione sono a queste similari.

SVF III, 606

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 119. I virtuosi sono anche uomini divini, giacché è come se avessero un dio in loro stessi. Invece l’insipiente è [III,157,20] ateo, e la parola ‘ateo’ ha due significati: il primo è quello che si dice di ‘contrarietà’ al divino; il secondo è quello di ‘sprezzatura’ del divino. Ma questo non sempre vale per l’insipiente.

SVF III, 607

Cicerone ‘De divinatione’ II, 129. Invece i tuoi Stoici negano che qualcuno possa essere un divinatore se non è un saggio.

SVF III, 608

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 119. I virtuosi sono devoti al divino, poiché sono esperti dei rituali riguardanti gli dei, [III,157,25] e la pietà è appunto scienza del culto degli dei. Essi sacrificano davvero agli dei in stato di continenza rituale, giacché scrollano il capo dinanzi alle aberrazioni che abbiano a che fare con gli dei. Così gli dei hanno ammirazione per loro, visto che sono santi e giusti nei confronti del divino. Soltanto i saggi, poi, sono sacerdoti, giacché hanno bene esaminato quanto riguarda sacrifici, erezione dei templi, purificazioni e [III,157,30] gli altri riti attinenti agli dei.

SVF III, 609

Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 111, I, p. 247, 9 Wendl. È una festa dell’animo la letizia nelle perfette virtù […] e soltanto il sapiente, e nessun altro, festeggia una festa del genere. È infatti rarissimo trovare un animo che non abbia provato il gusto delle passioni o dei vizi.

SVF III, 610

[1] Filone Alessandrino ‘De spec. legibus’ II, 46, V, p. 98, 3 Cohn. [III,157,35] <I sapienti> fanno festa tutta la vita.

[2] II, 49, V, Cohn. Nessuno degli insipienti festeggia, neppure per brevissimo tempo.

§ 7. Il sapiente ha perizia di politica e di economia

Frammenti n. 611-624

SVF III, 611

Stobeo ‘Eclogae’ II, 94, 7 W. <Gli Stoici> affermano che il giusto è tale per natura e [III,157,40] non per convenzione. A seguito di ciò si dà che il sapiente [III,158,1] partecipi alla vita politica soprattutto in quegli Stati nei quali traspare qualche progresso verso le forme di governo perfette; che egli sia legislatore ed educatore di uomini; e che inoltre attenga ai virtuosi compilare per iscritto quelle cose che possono essere di giovamento ai lettori; come pure condiscendere al [III,158,5] matrimonio e alla generazione di figli per rispetto di sé e della patria; e anche, riguardo a quest’ultima, se sarà uno Stato moderato, reggere fatiche e morte. Accanto a questi ci sono comportamenti insipienti come l’andare a caccia del favore popolare, il sofisteggiare, il compilare scritti nocivi ai lettori: tutte cose che non potrebbero capitare ai virtuosi.

SVF III, 612

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 122. Similmente, soltanto i sapienti sono veri comandanti, uomini capaci di equità giudiziaria e [III,158,10] maestri di eloquenza. Nessuno degli insipienti, invece, lo è.

SVF III, 613

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 96 W. Essi affermano che la legge è qualcosa di virtuoso in quanto è retta ragione imperativa delle cose da fare e proibitiva di quelle da non fare. Se dunque la legge è cosa virtuosa, anche chi si conforma alla legge sarebbe tale, giacché a conformarsi alla legge è l’uomo ossequente ad essa e [III,158,15] praticante le sue ingiunzioni; mentre giurista, invece, è colui che spiega la legge. E nessuno degli insipienti si conforma alla legge né è giurista.

SVF III, 614

Stobeo ‘Eclogae’ II, 104, 4 W. Se la legge, come dicemmo, è qualcosa di virtuoso, dacché è retta ragione imperativa delle cose da fare e [III,158,20] proibitiva di quelle da non fare, essi affermano che soltanto il sapiente si conforma alla legge poiché pratica le sue ingiunzioni, ed è anche il solo in grado di spiegarla e perciò anche giurista. Per gli sciocchi, invece, vale l’opposto.

SVF III, 615

Stobeo ‘Eclogae’ II, 102, 11 W. <Gli Stoici> ripartiscono a favore dei virtuosi la soprintendenza del comando e le sue forme: la carica di re, di capo dell’esercito, [III,158,25] di capo della flotta, e le altre a queste similari. Proprio per ciò soltanto il virtuoso detiene il comando; e se egli non lo esercita per intero attivamente, lo detiene però interamente per disposizione d’animo. Soltanto il virtuoso, inoltre, è capace di obbedienza, in quanto è ossequente al comandante. Nessuno degli stolti è un uomo del genere, giacché lo stolto è incapace di comandare e di ubbidire al comando, vantone e incompetente com’è.

SVF III, 616

Cicerone ‘De finibus’ III, 68. Siccome noi vediamo che [III,158,30] l’uomo è nato per difendere e proteggere i suoi simili, è consentaneo a questa natura che il saggio voglia reggere ed amministrare lo Stato; e, per vivere da creatura naturale, prendere moglie e volere da lei dei figli.

SVF III, 617

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 122. I sapienti sono non soltanto uomini liberi [III,158,35] ma anche re, essendo la regalità un comando esente da responsabilità; comando che sussisterebbe soltanto nei sapienti, secondo quanto afferma Crisippo nel libro ‘Sull’uso magistrale dei nomi da parte di Zenone’. Egli afferma infatti che il comandante deve avere conoscenza dei beni e dei mali mentre nessuno degli insipienti, invece, ha scienza di ciò.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 108, 26 W. [III,158,40] Soltanto il sapiente, e nessuno degli insipienti, è [III,159,1] re e uomo regale. La carica di re è un comando esente da responsabilità, il comando superiore e al di sopra di tutti.

SVF III, 618

[1] Olimpiodoro ‘In Platonis Alcibiadem’ I, 55, p. 37 West. In terzo luogo, secondo i paroloni degli Stoici, il comandante, cioè chi sa [III,159,5] comandare, è l’unico comandante anche se non avesse gli strumenti della scienza del comando. E soltanto il sapiente è ricco, cioè colui che saprebbe utilizzare la ricchezza presente, anche se essa è al momento non presente.

[2] Proclo ‘In Platonis Alcibiadem’ I, 164, 165, p. 75 West. In ciò Socrate ha superato queste dottrine e la magniloquenza degli Stoici. Cos’altro è dato infatti riassumere dalle cose dette se non che soltanto il virtuoso è comandante, che è lui l’unico [III,159,10] dinasta, l’unico re, l’unico duce di tutti, che soltanto lui è libero e che tutto è dei virtuosi quanto è anche degli dei? I beni degli amici sono infatti comuni e se appunto tutti i beni sono degli dei, tutto è anche dei virtuosi. […] Infatti, come noi chiamiamo falegname non chi possiede gli strumenti del falegname [III,159,15] ma chi ne possiede l’arte; così chiamiamo comandante e re chi possiede scienza della regalità e non chi padroneggia molta gente. Strumento della regalità è il potere che appare esternamente, ma la postura dell’animo è quella che lo utilizza, e senza di essa uno non potrebbe mai essere comandante o re.

SVF III, 619

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 438 Pott. Nel primo libro [III,159,20] ‘Contro Cleofonte’, Speusippo sembra con ciò scrivere cose simili a quelle di Platone. Infatti, se la regalità è cosa virtuosa, allora soltanto il sapiente è re e comandante; e poiché la legge è retta ragione, essa è cosa virtuosa, il che pure è. I filosofi Stoici, pertanto, nutrono giudizi conseguenti a queste dottrine quando appiccano soltanto [III,159,25] al sapiente la facoltà di legislare, la ricchezza, la vera bellezza, l’indole nobile e la libertà; anche se pure loro ammettono che un tale sapiente sia difficilissimo da trovare.

SVF III, 620

Filone Alessandrino ‘De mutatione nominum’ 152, III, p. 182, 23 Wendl. Soltanto il sapiente è re. Ed effettivamente il saggio è guida degli stolti, poiché sa ciò ch’è d’uopo fare e non fare. Il temperante è guida degli impudenti, [III,159,30] poiché ha precisato a se stesso senza trascuratezza ciò che va scelto e ciò che va fuggito. L’uomo virile è guida dei vili, poiché ha imparato a fondo e chiaramente ciò che bisogna reggere e non reggere. Il giusto è guida degli ingiusti, poiché ha di mira una ben bilanciata parità nelle spartizioni.

SVF III, 621

Filone Alessandrino ‘De migrat. Abrah.’ 197, II, p. 307, 8 Wendl. Noi diciamo che la regalità è saggezza, dacché il sapiente è anche re.

SVF III, 622

Luciano ‘Vitarum auctio’ 20. [III,159,35] […] Che soltanto costui è sapiente, soltanto costui è bello, soltanto costui è giusto, virile, re, maestro d’eloquenza, ricco, legislatore.

SVF III, 623

Stobeo ‘Eclogae’ II, 95, 9 W. <Gli Stoici> affermano che soltanto il virtuoso è amministratore e buon economo, e inoltre che è capace di fare denari. La [III,159,40] capacità economica è una certa postura dell’animo teorica e pratica circa ciò ch’è utile alla casa; e l’economia è l’organizzazione delle spese e degli affari, la sollecitudine per il patrimonio e per i lavori nei campi. La capacità di fare denari è la perizia nel procacciarseli da chi bisogna e la postura dell’animo che ci fa condurre in modo ammissibile con la ragione nella loro raccolta, conservazione e spesa in vista [III,159,45] della prosperità. Alcuni hanno sostenuto che il fare denari sia un’azione intermedia; altri che essa è un’azione virtuosa. [III,160,1] Nessun insipiente, comunque, diventa un buon patrocinatore della casa, né può procurare che la casa sia ben amministrata. Soltanto l’uomo virtuoso è capace di fare denari, poiché conosce da chi, quando, come e fino a quando si devono fare denari.

SVF III, 624

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 165 (p. 372 Aucher). L’uomo solidamente saggio possiede in egual misura [III,160,5] queste due caratteristiche: è schietto e sta in casa. La schiettezza rende patente la verità della sua semplicità e la sua carenza di adulazione. […] L’altra caratteristica, ossia la cura della casa e le abitudini casalinghe, sono l’opposto della vita agreste. Schiettezza e cura della casa messe insieme fanno l’uomo ‘economico’, il quale è una sintesi in piccolo del vivere civile; giacché i modi urbani e l’economia sono virtù congiunte che non sarà inutile mostrare [III,160,10] interscambiabili. L’urbanità, infatti, è economia della città, e l’economia è urbanità della casa.

§ 8. Il saggio giova a sé e agli altri

Frammenti n. 625-636

SVF III, 625

Stobeo ‘Eclogae’ II, 93, 19 W. Essi affermano che tutti i beni dei virtuosi sono comuni, in quanto chi giova a qualcuno che ha [III,160,15] dintorno giova anche a se stesso. La concordia è scienza dei beni comuni, e perciò tutti i virtuosi sono tra di loro concordi poiché vanno d’accordo nei modi di vivere. Invece gli insipienti, poiché sono in disaccordo tra di loro, sono nemici, si maltrattano l’un l’altro e sono polemici.

SVF III, 626

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 101, 21 W. Tutti i beni [III,160,20] sono comuni ai virtuosi, mentre comuni agli insipienti sono i mali. Perciò chi giova a qualcuno giova anche a se stesso; e chi danneggia, danneggia anche se stesso. Tutti i virtuosi si giovano l’un l’altro anche se non sono affatto amici, o benevoli, o di buona reputazione, o accolti in casa, per il fatto che non si capiscono nel parlare o non dimorano nello stesso luogo. Eppure essi [III,160,25] sono disposti con benevolenza, amichevolmente, con valutazione positiva e con approvazione reciproca. Invece gli insipienti si trovano in atteggiamenti opposti a questi.

SVF III, 627

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1068f. Se mai un solo sapiente, dove che sia, stenderà un dito a motivo della sua saggezza, tutti i sapienti in giro per il mondo ne traggono giovamento.

[2] p. 1069a. Vaneggiava Aristotele, vaneggiava [III,160,30] Senocrate […] poiché ignoravano lo stupefacente giovamento col quale i sapienti si giovano l’un l’altro muovendosi secondo virtù, anche nel caso non siano insieme e capiti che non si conoscano.

SVF III, 628

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 123. Ma invero essi affermano che il virtuoso non vivrà in isolamento, giacché egli è un uomo per natura socievole ed operoso.

SVF III, 629

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ V, 17. Il saggio non opera mai a scopo di lucro, [III,160,35] giacché tiene in poco conto questi beni terreni; e non accetta passivamente che qualcuno cada in errore, giacché è dovere dell’uomo virtuoso correggere gli errori degli uomini e riportarli sulla retta via. La natura dell’uomo è infatti socievole e portata al beneficio, e soltanto in questo egli ha parentela con Dio.

SVF III, 630

Stobeo ‘Eclogae’ II, 108, 5 W. [III,160,40] Poiché il virtuoso è conversevole, garbato, atto ad esortare, cacciatore di [III,161,1] benevolenza e di amicizia attraverso la conversazione e ben adattabile, per quanto possibile, alla moltitudine degli uomini; per questo egli è anche beneamato, aggraziato, persuasivo e inoltre avvertito, sagace, tempestivo, perspicace, semplice, discreto, schietto e non artefatto. Invece l’insipiente è impigliato in tutte le qualità opposte. Essi affermano che [III,161,5] l’ironizzare è proprio degli insipienti, giacché nessun uomo libero e virtuoso fa dell’ironia. In modo simile si può parlare del fare del sarcasmo, che è ironia con irrisione di qualcuno. Essi riservano l’amicizia soltanto ai sapienti, giacché soltanto tra di questi c’è concordia sui modi di vivere; e la concordia è scienza dei beni comuni. Infatti, la vera amicizia e non il suo pseudonimo è impossibile [III,161,10] senza che esistano lealtà e saldezza d’animo. Invece tra gli insipienti, poiché essi sono sleali, d’animo non ben saldo ed hanno giudizi polemici, non esiste amicizia, ma nascono certi altri intrecci e legami tenuti insieme estrinsecamente da necessità e da opinioni. <Gli Stoici> affermano anche che l’amare caritatevolmente, l’ossequiare e l’essere amico sono propri soltanto dei virtuosi.

SVF III, 631

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 124. [III,161,15] Essi dicono anche che l’amicizia esiste soltanto tra i virtuosi, a causa della loro somiglianza. Affermano poi che l’amicizia è comunanza di modi di vita, quando noi usiamo degli amici come di noi stessi; e perciò dichiarano che l’amico è il risultato di una scelta e che è un bene avere molte amicizie. Tra gli insipienti non esiste invece amicizia e nessuno degli insipienti ha un amico.

SVF III, 632

Stobeo ‘Eclogae’ II, 115, 10 W. [III,161,20] <Il virtuoso> è anche mite, essendo la mitezza quella postura abituale dell’animo per cui i virtuosi si dispongono con mitezza a fare quanto loro spetta in ogni circostanza, e sono non portati all’ira in nessuna di esse. Il virtuoso è un uomo tranquillo e composto: la compostezza essendo scienza dei movimenti confacenti, ed essendo la tranquillità disciplina dei movimenti naturali e delle movenze di animo e di corpo. [III,161,25] Gli insipienti si trovano invece, in tutte le circostanze, in condizioni opposte a queste.

SVF III, 633

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXI, 8. Non tutti quelli che sono grati sanno cosa comporta l’essere debitori di un beneficio […] Solo il saggio conosce il valore di ogni cosa; infatti, lo stolto di cui prima parlavo, per quanto animato da buona volontà, o restituisce meno del dovuto, o lo fa fuori tempo o fuori luogo.

[2] 10. Il saggio esaminerà tra sé e sé ogni aspetto della faccenda: [III,161,30] quanto abbia ricevuto, da chi, quando, dove e in che modo. Pertanto, noi Stoici neghiamo che sappia essere riconoscente chi non è saggio, e che qualcuno sappia recare un beneficio se non è saggio.

[3] 12. Solo il saggio sa amare. Solo il saggio è amico […] Per questo diciamo [III,161,35] che solo nel saggio c’è lealtà.

SVF III, 634

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 74 (p. 303 Aucher). Chi si studia d’esser saggio non coabita né conversa con persone fatue e superficiali, pur essendo per natura ad esse congiunto, ma se ne mantiene decisamente lontano. Perciò si dice rettamente che il saggio e l’insipiente non sono soci quando navigano, né compagni di strada, [III,161,40] né concittadini, né conviventi, né concorrenti, perché il sovrano interiore dell’uno e dell’altro non concordano né convengono su alcunché.

SVF III, 635

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 121. Quanto meglio <di voi Epicurei> parlano gli Stoici! Essi infatti ritengono che il saggio sia amico del saggio anche se non lo conosce. Nulla infatti è più amabile della virtù, sicché [III,162,1] chiunque ne è seguace sarà a noi caro ovunque si trovi.

SVF III, 636

[1] Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 121, I, p. 251, 3 Wendl. Forse <il profeta> intende così presentarci un giudizio estremamente necessario, cioè che ogni sapiente è il prezzo del riscatto [III,162,5] dell’insipiente, il quale non avrebbe risorse bastanti neppure per poco tempo se il sapiente, usando misericordia e preveggenza, non si desse pensiero della di lui sopravvivenza. Proprio come il medico, quando osteggia le infermità del malato sia col mitigarle che col levarle totalmente di mezzo; a meno che la loro violenza, con decorso irrefrenabile, non superi anche l’efficacia della terapia.

[2]123, p. 251, 15. [III,162,10] Bisogna tuttavia provare a preservare in vita, per quanto possibile, anche coloro che saranno affatto rovinati dalla malvagità che è in loro; imitando in ciò i medici valenti i quali, quand’anche vedano impossibile salvaguardare la salute dei pazienti, tuttavia somministrano egualmente di buon grado la terapia, perché non sembri che a causa della loro negligenza avvenga qualcosa di contrario ai loro pareri. E se invece si palesasse un sia pur piccolo [III,162,15] seme di salute, bisogna ravvivarlo con ogni sollecitudine come un tizzone, giacché è speranza di un dilungamento e di un accrescimento di salute e di usufruire di una vita migliore e con meno passi falsi.

§ 9. L’austerità del sapiente ed altre sue doti

Frammenti n. 637-649

SVF III, 637

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 117. [III,162,20] <Gli Stoici> affermano anche che tutti i virtuosi sono uomini austeri, poiché non hanno contatti in vista di qualche ebbrezza né accettano da altri inviti in tal senso. Vi è anche un altro tipo di persone chiamato ‘austero’. Le si indica così per la loro similarità al ‘vino austero’, quello che si utilizza per la produzione di farmaci ma assolutamente non per un brindisi.

SVF III, 638

Stobeo ‘Eclogae’ II, 114, 22 W. [III,162,25] Il virtuoso è detto austero in quanto non proferisce con alcuno né ammette per sé un discorso tanto per far piacere. Dicono anche che il sapiente ‘cinizzerà’, nel senso di persistere nel cinismo se è tale; non nel senso che per essere sapiente uno debba essere iniziato al cinismo.

SVF III, 639

[1] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 7, p. 858 Pott. Costui per noi è austero: [III,162,30] l’uomo in cammino non soltanto verso l’incorruttibilità ma anche verso l’essere intentabile, nel quale in nessun modo si riscontra un animo cedevole al piacere o catturabile dall’afflizione; e se la ragione lo chiamerà, un giudice ormai inflessibile, che non gratifica le passioni e incede con stabile piede sulla via che è nato per camminare.

[2] p. 859 Pott. L’imperdibilità della virtù.

SVF III, 640

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 95, 24 W. [III,162,35] Essi affermano che l’uomo assennato non perdona nessuno, giacché perdonare qualcuno equivale anche a legittimare l’idea che chi ha aberrato non abbia aberrato per sua responsabilità, mentre invece tutti aberrano per la propria malvagità. Debitamente si dice, perciò, di non perdonare chi aberra. Essi affermano pure che l’uomo buono è non clemente con se stesso, giacché il clemente [III,162,40] cerca di schivare il meritato castigo ed è la stessa cosa l’essere clementi con se stessi, il concepire che le pene fissate dalla legge [III,163,1] per gli ingiusti sono troppo dure ed il ritenere che il legislatore assegni le pene non secondo il merito.

SVF III, 641

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 123. <I sapienti> non sono proclivi alla commiserazione e non perdonano nessuno. Infatti non lasciano cadere le pene comminate dalla legge (dacché [III,163,5] il cedere il passo, la pietà e la stessa clemenza sono debolezze di un animo che simula bontà dinanzi ai castighi), né credono che esse siano troppo dure.

SVF III, 642

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 123. Inoltre il sapiente non si stupisce di quelle che sembrano bizzarrie straordinarie: per esempio, gli antri di Caronte, le basse maree, le fonti d’acque calde, le eruzioni di fuoco.

SVF III, 643

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 109, 5 W. [III,163,10] L’uomo assennato non è un tale che si ubriachi, giacché nell’ubriachezza è insita un’aberrazione. Infatti dal vino vengono dei vaneggiamenti e invece il virtuoso non aberra in nulla, e fa perciò ogni cosa secondo virtù e la retta ragione che ne discende.

SVF III, 644

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 118. <Il virtuoso> berrà del vino ma non si ubriacherà, [III,163,15] e inoltre non uscirà di testa. Delle rappresentazioni disusate potranno incoglierlo a causa di malinconia o di vaneggiamento, non in ragione delle sue scelte ma contro la sua natura.

SVF III, 645

Cicerone ‘De finibus’ III, 68. Alcuni <Stoici> ritengono che il pensiero e la vita dei Cinici siano adatti al saggio, posto che egli si trovi in circostanze che lo richiedono. [III,163,20] Altri però lo negano.

SVF III, 646

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 117. Il sapiente è non vanitoso, giacché è parimenti indifferente a ciò che porta credito ed a ciò che porta discredito. Vi è anche un altro individuo non vanitoso ed è quello posizionato da avventato, cioè l’insipiente.

SVF III, 647

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 118. I virtuosi sono uomini autentici e si guardano bene [III,163,25] dal farsi riscontrare migliori di quel che sono attraverso quella preparazione che cela i nostri lati umili e ordinari e fa apparire quelli nobili e buoni. Essi sono anche persone non artefatte, giacché hanno tolto di torno ogni finzione nella voce e nell’aspetto.

SVF III, 648

Stobeo ‘Eclogae’ II, 116, 1 W. L’uomo virtuoso non rimanda mai nulla, [III,163,30] giacché la dilazione è la posposizione di un’attività per titubanza; e il posporre qualcosa è possibile soltanto quando la posposizione sia incensurabile. Circa il ‘rimandare’ Esiodo ha detto questo:

‘Non rimandare a domani né a dopodomani’

e

[III,163,35] ‘La persona che indugia lotta sempre con le sciagure’

poiché la dilazione ingenera l’abbandono di opere convenienti.

SVF III, 649

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 118. <Essi affermano> che i virtuosi si tengono lontani dagli affari pubblici, giacché avversano effettuare qualcosa che sia contrario a ciò ch’è doveroso.

[III,164,1] § 10. Il sapiente ama

Frammenti n. 650-653

SVF III, 650

Stobeo ‘Eclogae’ II, 115, 1 W. Essi affermano che il trasporto amoroso è il progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza di giovani in fiore. Perciò il sapiente è capace [III,164,5] di trasporto amoroso e lo proverà nei confronti di chi ne è degno per nobiltà d’indole e natura di purosangue.

SVF III, 651

Cicerone ‘De finibus’ III, 68. Essi ritengono anche che gli amori leciti non siano alieni al saggio.

SVF III, 652

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 72. Gli Stoici dicono che anche il saggio amerà e definiscono l’amore [III,164,10] come uno slancio a fare amicizia ispirato dalla visione del bello.

SVF III, 653

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 70. Veniamo ai filosofi maestri di virtù, i quali negano che l’amore sia amore del sesso, e su ciò litigano con Epicuro il quale, a mio modesto avviso, non si sbaglia di molto. [III,164,15] Infatti cos’è mai questo amore dell’amicizia?

§ 11. Il sapiente coltiva le arti

Frammenti n. 654-656

SVF III, 654

Stobeo ‘Eclogae’ II, 67, 13 W. Essi affermano che soltanto il sapiente è anche buon divinatore, poeta, maestro d’eloquenza, dialettico e critico. Non però tutte queste cose insieme, giacché alcune di esse abbisognano anche dell’assunzione [III,164,20] di certi principi teorici generali. E affermano che la mantica è la scienza teorica dei segni che dagli dei o dai démoni hanno per scopo la vita umana. Similmente si può dire per le varie specie della mantica.

SVF III, 655

Plutarco ‘De tranquillitate animi’ p. 472a. Eppure alcuni credono che gli Stoici stiano giocando, qualora li ascoltino designare il sapiente non soltanto come [III,164,25] saggio, giusto e virile ma anche maestro d’eloquenza, poeta, stratega, ricco e re.

SVF III, 656

Stobeo ‘Eclogae’ II, 109, 1 W. Essi dicono che il virtuoso è il miglior medico di se stesso; giacché, essendo solerte della propria natura, egli si fa osservatore e scienziato di ciò ch’è utile per la salute.

[III,164,30] § 12. Gli insipienti sono folli ed empi

Frammenti n. 657-670

SVF III, 657

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 432. D’altra parte, se secondo loro ogni concezione dell’insipiente è ignoranza, se soltanto il sapiente dice la verità ed ha salda scienza del vero e se il sapiente è stato finora introvabile, allora consegue di necessità che anche la verità sia introvabile, poiché capita che tanto essa [III,164,35] quanto tutto il resto siano incomprensibili e poiché noi, essendo tutti insipienti, non abbiamo un’apprensione salda e certa dell’esistente. Stando così le cose, resta il fatto che quanto gli Stoici affermano contro gli Scettici può, in contropartita, [III,165,1] essere affermato dagli Scettici contro gli Stoici. Dacché, infatti, secondo loro sia Zenone che Cleante che Crisippo e tutti gli altri di scuola Stoica sono inclusi nel numero degli insipienti, ed ogni insipiente ha per padrone l’ignoranza, consegue che Zenone ignorava del tutto se fosse lui ad essere incluso nel cosmo oppure se lui stesso avesse il cosmo incluso in sé, e se fosse [III,165,5] uomo o fosse donna; mentre Cleante non aveva conoscenza certa di essere un uomo oppure una qualche belva più complicata di Tifone. Invero, o Crisippo riconosceva come stoico questo giudizio, intendo il giudizio che ‘l’insipiente è ignorante di tutto’, oppure non aveva conoscenza certa neppure di questo. Ora, se egli ne aveva conoscenza certa, allora è falso che l’insipiente sia ignorante di tutto; giacché Crisippo, pur essendo insipiente, sapeva proprio questo, ossia [III,165,10] che l’insipiente è ignorante di tutto. E se egli non sapeva neppure di essere ignorante di tutto, come mai nutre giudizi su molte cose, disponendo l’unicità del cosmo, che esso sia governato dalla Prònoia, che la sua sostanza sia interamente commutabile e numerosissime altre? E se a qualcuno ciò è caro, sarebbe ben possibile per chi controinterroga far loro presenti le altre aporie, come essi hanno l’abitudine di fare con gli Scettici.

SVF III, 658

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 28, p. 199, 7 Bruns. [III,165,15] Quanti sono dell’avviso che noi siamo e diventiamo tali, cioè virtuosi o viziosi, per causa della ‘Necessità’, e non lasciano a noi la potestà di fare e di non fare le azioni grazie alle quali diventeremmo tali […] come non ammetteranno che l’uomo è stato generato dalla natura come il peggiore di tutti gli animali: proprio quell’uomo per il quale essi affermano [III,165,20] che tutte le altre cose sono state generate affinché portassero a compimento la sua salvezza? Se, infatti, secondo loro soltanto la virtù e il vizio sono l’una il bene e l’altro il male e nessuno degli altri animali è compatibile con nessuno dei due; se la maggior parte degli uomini sono viziosi e se, per di più, essi raccontano la storia che uno soltanto o due di loro sono diventati virtuosi, come se si trattasse di un animale bizzarro e contro natura più raro [III,165,25] della fenice tra gli Etiopi; se tutti sono viziosi e lo sono altrettanto tra di loro, sicché per nulla differiscono l’uno dall’altro; e se quanti non sono sapienti sono tutti ugualmente pazzi: come potrebbe l’uomo non essere l’animale più meschino di tutti, essendo la malvagità e la pazzia congenite in lui e sue consorti?

SVF III, 659

Seneca ‘De beneficiis’ IV, XXVII, 1. Qualcuno è chiamato timoroso [III,165,30] perché è uno stolto. Il termine stolto si attaglia ai malvagi, che sono assediati da tutti i vizi senza eccezioni e senza distinzioni; mentre in senso proprio si dice timoroso colui che per natura sobbalza al minimo rumore. Ora, lo stolto ha tutti i vizi, ma non è prono per natura a tutti: uno è propenso all’avarizia, un altro alla lussuria, un altro all’impudenza. Pertanto, errano coloro che domandano agli Stoici: “E allora Achille è timoroso?” […] [III,165,35] Noi non sosteniamo che tutti i vizi siano presenti in tutti gli uomini con la stessa forza con cui sono presenti in alcuni, ma che il malvagio e lo stolto non mancano di nessun vizio. Per noi neppure l’uomo coraggioso va esente dal timore, né riteniamo il generoso del tutto libero dall’avarizia.

SVF III, 660

Stobeo ‘Eclogae’ II, 68, 8 W. <Gli Stoici> similmente [III,165,40] affermano che gli insipienti sono non santi, giacché la santità si delinea come giustizia verso gli dei. Invece gli insipienti trascendono in molte delle giuste devozioni verso gli dei e perciò sono anche sacrileghi, impuri, non praticano l’astensione rituale dai rapporti sessuali, sono abominevoli ed esclusi dalle feste. Essi affermano infatti che il festeggiare è proprio del virtuoso, dal momento che la festa è un tempo [III,165,45] nel quale è d’uopo venire a contatto col divino per onorarlo e farne doverosa segnalazione. [III,166,1] Onde, anche chi festeggia deve avere accondisceso con santità ad un simile ruolo.

SVF III, 661

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 105 W. Ha il beneplacito <degli Stoici> l’affermazione che ogni aberrazione è un atto empio, giacché l’effettuare qualcosa contro il piano [III,166,5] della divinità è prova di empietà. Essendo gli dei imparentati alla virtù ed alle opere della virtù ed estranei al vizio ed alle opere che il vizio porta a compimento, ed essendo l’aberrazione un’operazione viziosa; si appalesa che ogni aberrazione è come tale sgradita agli dei (cioè è un atto empio) e che con ciascuna sua aberrazione l’insipiente fa qualcosa di sgradito agli dei […] [III,166,10] Inoltre, dacché tutto ciò che ogni insipiente fa lo fa viziosamente, proprio come il virtuoso lo fa invece virtuosamente; dacché chi ha un solo vizio li ha tutti e tra i vizi è prevista anche l’empietà, non quella già fissata in un’attività ma quella che è postura dell’animo opposta alla pietà, ciò ch’è effettuato secondo empietà è un atto empio e perciò ogni aberrazione è un atto empio. [III,166,15] Ha inoltre il loro beneplacito l’affermazione che ogni stolto è nemico personale degli dei. L’inimicizia personale è infatti assenza di armonia e discordia nei modi di vita, così come l’amicizia è invece armonia e concordia. Ma gli insipienti sono in disaccordo con gli dei circa i modi di vita e perciò ogni stolto è nemico personale degli dei. Inoltre, se tutti legittimano l’idea che i loro opposti siano nemici personali e [III,166,20] l’insipiente è l’opposto del virtuoso e la divinità è virtuosa, l’insipiente è nemico personale degli dei.

SVF III, 662

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1048e. E se invero Crisippo non dichiara virtuoso se stesso né alcuno dei suoi conoscenti o maestri, <gli Stoici> cosa pensano degli altri se non quello che [III,166,25] appunto affermano? Ossia che sono tutti pazzi, fuori di testa, sacrileghi, gente che vive nell’illegalità ed è giunta al culmine della cattiva sorte e d’ogni infelicità.

SVF III, 663

Stobeo ‘Eclogae’ II, 68, 18 W. <Gli Stoici> dicono inoltre che ogni insipiente è pazzo, poiché è ignorante di se stesso e delle cose sue: il che è appunto la pazzia. L’ignoranza è il vizio opposto alla saggezza; e quando l’ignoranza, atteggiandosi verso qualcosa in un certo modo, procura impulsi [III,166,30] instabili e palpitanti è pazzia. Perciò essi delineano così la pazzia: un’ignoranza palpitante.

SVF III, 664

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 124. Tutti gli stolti sono pazzi. Infatti sono individui non saggi, ed effettuano tutto secondo una pazzia che è pari alla stoltezza.

SVF III, 665

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 54. Perché? Quando gli Stoici [III,166,35] dicono che tutti gli insipienti sono pazzi, non tirano le somme di tutte queste argomentazioni? ‘Metti da partele passioni e soprattutto l’iracondia’, già queste parole ti sembreranno delle mostruosità. Essi però sostengono che quando dicono che tutti gli stolti sono pazzi, lo dicono nel senso in cui si dice che qualunque lordura è maleodorante. Ma non è sempre così. Smuovila e la sentirai maleodorante. Così l’iracondo non sempre è irato, ma tu provocalo [III,166,40] e lo vedrai furente.

SVF III, 666

Porfirione ‘In Horat. Sat.’ II, 3, 32. Poiché gli Stoici dicono che, eccettuato il saggio, tutti gli uomini sono stolti. [III,167,1]

SVF III, 667

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XI, p. 464d. Crisippo, nell’introduzione al trattato ‘Sui beni e sui mali’ afferma che i più [III,167,5] appiccano il termine ‘pazzia’ alla maggior parte delle cose, e che pertanto si parla di ‘pazzia per le donne’ e di ‘pazzia per le quaglie’. Alcuni chiamano ‘pazzi per la fama’ gli amanti della fama, come chiamano ‘pazzi per le donne’ gli amanti delle donne e ‘pazzi per gli uccelli’ gli amanti dei volatili, e questi nomi significano tutti la stessa cosa. Sicché anche il resto si può chiamare non impropriamente [III,167,10] in questo modo. Per esempio, chi ama le ghiottonerie e la buona tavola è ‘pazzo per le ghiottonerie’, chi ama il vino è ‘pazzo per il vino’, e allo stesso modo si può dire per i casi simili; ed è non improprio affermare che in essi giaccia la pazzia in quanto aberrano come dei pazzi e, ancor più, sono sconnessi dalla verità.

SVF III, 668

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1048e. [III,167,15] E se invero Crisippo non dichiara virtuoso se stesso né alcuno dei suoi conoscenti o maestri, <gli Stoici> cosa pensano degli altri se non quello che appunto affermano? Ossia che sono tutti pazzi, fuori di testa, sacrileghi, gente che vive nell’illegalità ed è giunta al culmine della cattiva sorte e d’ogni infelicità. [E poi le vicende nostre, di noi che ce la passiamo così meschinamente, [III,167,20] sarebbero governate dalla Prònoia degli dei? Se dunque gli dei, mutando avviso, volessero recarci danno, maltrattarci, pervertirci e ulteriormente stritolarci] non potrebbero disporci peggio di come stiamo adesso, come Crisippo dichiara, né la nostra vita mancare del più alto grado di vizio e di infelicità, tanto che se essa avesse la voce direbbe le parole di Eracle:

[III,167,25] ‘Trabocco di mali e non v’è più dove se ne possano mettere’

Chi potrebbe trovare delle dichiarazioni più contraddittorie circa gli dei e gli uomini di quelle di Crisippo, il quale afferma che gli dei provvedono a noi nel miglior modo possibile e che gli uomini agiscono nel peggior modo possibile?

[2] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1062f. […] e inoltre di più [III,167,30] nei fatti, quando dichiarano che i non sapienti sono tutti altrettanto viziosi, ingiusti, sleali e stolti…

[3] Diogeniano in Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ VI, p. 264b. Come mai dunque affermi che a te pare non esservi uomo, eccetto il sapiente, il quale non sia pazzo alla pari di Oreste e di Alcmeone? Tu affermi che finora sono esistiti soltanto uno o due sapienti [III,167,35] e che gli altri, per la loro stoltezza, sono stati pazzi altrettanto dei predetti? […] In primo luogo, neppure tu affermi di te stesso di essere sapiente…

SVF III, 669

Porfirione ‘In Horat. epist.’ I, 1, 82. Questi rimproveri gli Stoici muovono all’insania della gente: in primo luogo d’essere in disaccordo tra di loro, e poi di esserlo con se stessi, [III,167,40] in quanto mutano proposito da un momento all’altro.

SVF III, 670

Filone Alessandrino ‘De posteritate Caini.’ 75, II, p. 16, 22 Wendl. Tutto [III,168,1] ciò che l’insipiente provveda per sé è riprensibile, in quanto contaminato da un’intelligenza difficile da purificare. Al contrario, le azioni deliberate dei virtuosi sono tutte lodevoli.

§ 13. Gli insipienti sono infelicissimi

Frammenti n. 671-676

SVF III, 671

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 247, I, p. 168, 5 Wendl. [III,168,5] Per tutta la vita l’insipiente si serve della propria anima con doglianza, senza avere nulla che gli sia causa di gioia; di cui invece sono per natura genitrici la giustizia, la saggezza e le virtù che regnano insieme a questa.

SVF III, 672

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046b. [Nel primo libro [III,168,10] ‘Sulle azioni rette’], laddove <Crisippo> afferma che il godimento per i mali altrui è inesistente, giacché nessuno dei virtuosi si rallegra per i mali altrui, mentre nessuno degli insipienti assolutamente si rallegra.

[2] p. 1046c. In altri luoghi <egli> afferma che il godimento per i mali altrui è inesistente, così come sono inesistenti l’odio della malvagità e la vergogna per il guadagno illecito.

[3] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1068d. [III,168,15] “Ma quando capitino loro queste cose gli insipienti non ne traggono giovamento né sperimentano alcunché di positivo e neppure hanno benefattori né li trascurano”. Quindi gli insipienti non sono ingrati, e invero neppure gli uomini assennati lo sono. Dunque l’ingratitudine è inesistente, giacché questi ultimi non mancano di gratitudine quando [III,168,20] ricevano una grazia, mentre i primi non sono nati per ricevere una grazia. Ora, guarda cosa essi dicono al riguardo. <Essi dicono> che “la gratitudine pertiene agli atti intermedi, che il giovare ed il trarre giovamento è proprio dei sapienti, mentre capita anche agli insipienti di essere riconoscenti”.

SVF III, 673

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VI, 17, p. 822 Pott. Perciò molti pregi accomunano gli uomini buoni e quelli cattivi, [III,168,25] ma essi diventato giovevoli soltanto ai buoni e virtuosi.

SVF III, 674

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038a. Crisippo afferma che nulla è proficuo per gli insipienti e che l’insipiente non ha bisogno di nulla e non manca di nulla. Una volta detto questo, nel primo libro ‘Sulle azioni rette’, [III,168,30] dice poi che la proficuità e la gratitudine pertengono agli atti intermedi, nessuno dei quali è, secondo loro, proficuo; ed afferma che davvero nulla è appropriato ed acconcio all’insipiente con queste parole: “Secondo lo stesso criterio, nulla è allotrio al virtuoso e nulla è familiare [III,168,35] all’insipiente; dacché il bene appartiene al primo e il male al secondo”.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1068a. Nei libri ‘Sulle [III,169,1] azioni rette’ <Crisippo> scrive: “L’insipiente non ha bisogno di nulla e non manca di nulla. Nulla gli è proficuo, nulla gli è appropriato, nulla gli è acconcio”.

Come potrebbe dunque essere proficuo il vizio, in compagnia del quale neppure la salute è proficua, né la ricchezza di denaro né il progresso?

[3] p. 1068c. [III,169,5] Ora, quale vertigine è mai questa, per cui chi di nulla è carente ha però bisogno dei beni che possiede; mentre l’insipiente, che è carente di molte cose, di nulla ha bisogno? Questo infatti dice Crisippo, ossia che: “Gli insipienti non hanno bisogni e però sono carenti di molte cose”.

[4] Seneca ‘Epistulae morales’ IX, 14. Voglio mostrarti questa distinzione fatta da Crisippo: “Il saggio non manca di nulla; eppure, ha bisogno di molte cose. [III,169,10] Al contrario, lo stolto di nulla ha bisogno, giacché nulla sa come usare, e manca di tutto”.

SVF III, 675

‘Scholia’ in Hom. Iliad. XXIV, v. 536. ‘Per opulenza dei veri beni’: può valere ‘per saggezza’; se, appunto per gli Stoici, chi è non educato [alla diairesi] è anche indigente dei veri beni.

SVF III, 676

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 201, I, p. 157, 25 Wendl. [III,169,15] Giacché l’atleta e il servo subiscono le percosse in un modo diverso. Il servo s’arrende alle percosse prostrandosi e capitola mentre l’atleta, invece, tiene testa, contrasta attivamente e si scuote di dosso i colpi che gli sono inferti. Tu radi in modo diverso un uomo ed il vello di una pecora. Questa è considerata un soggetto soltanto passivo mentre l’uomo, invece, [III,169,20] subisce ed agisce a sua volta, prendendo la posizione più favorevole alla rasatura. Così la persona irragionevole capitola di fronte ad un altro al modo degli schiavi, e si prostra alle sofferenze come a padroni insopportabili poiché è incapace di guardarle in faccia [e non può sguainare contro di esse dei pensieri maschi e liberi]. Perciò uno stuolo infinito di esse gli si riversa addosso attraverso sensazioni dogliose. Chi invece ha scienza del bene e del male, al modo di un atleta che va animosamente contro l’avversario [III,169,25] con forza e vigoria, s’avventa contro tutte le cose dolorose per non esserne ferito ed essendo completamente indifferente a ciascuna di esse. A me sembra che egli, con giovanile ardore, potrebbe rivolgersi alla sofferenza con queste parole della tragedia:

‘Brucia, ardi le mie carni

saziati bevendo il mio nero sangue;

ma già prima gli astri andranno sottoterra

[III,169,30] e la terra salirà all’etere,

prima che da me ti corra incontro una parola d’adulazione’.

§ 14. Gli insipienti sono persone rozze ed esuli

Frammenti n. 677-681

SVF III, 677

Stobeo ‘Eclogae’ II, 103, 24 W. <Gli Stoici> affermano che ogni insipiente è anche una persona rozza. La rozzezza è infatti inesperienza delle abitudini e delle leggi di una città, [III,169,35] ed in essa l’insipiente è del tutto impigliato. L’insipiente è anche un individuo selvatico, contrario a tragittarsela secondo la legge, belluino e che reca danni. Egli è inoltre selvaggio e tirannico, disposto a fare azioni dispotiche e pure, quando ne abbranchi l’occasione, crude, violente, illegali. Egli è anche ingrato, non essendogli familiare il ripagamento di un favore né [III,170,1] la generosità, poiché nulla fa con mutualità, amichevolmente o in modo disinteressato.

SVF III, 678

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 165 (p. 371 Aucher). A ciò aggiungi che, essendo un incivile, <l’insipiente> non è un cittadino, è un fuorilegge, non [III,170,5] conosce il gusto della vita retta, è ribelle e contumace, partecipe di nulla che sia dei giusti e dei buoni, nemico della familiarità, dell’umanità, della comunità, e conduce una vita asociale.

SVF III, 679

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 1, I, p. 113, 3 Wendl. <Il Genesi> introduce il giudizio che l’insipiente è un esule. Infatti, se la città appropriata ai [III,170,10] sapienti è la virtù, chi non può partecipare di questa città è stato bandito da essa. Di essa è impossibile che faccia parte l’insipiente. Pertanto soltanto l’insipiente ne è stato bandito ed esiliato.

SVF III, 680

Filone Alessandrino ‘De gigantibus’ 67, II, p. 55, 5 Wendl. Come l’insipiente è un individuo senza casa, un apolide, uno senza delubri e un esule, così è anche un [III,170,15] disertore; mentre il virtuoso è il più saldo degli alleati.

SVF III, 681

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 76 (p. 304 Aucher). In secondo luogo <Mosè> istituì una legge del tutto naturale, che anche alcuni filosofi fecero propria. La legge statuisce che nessun insipiente sia re quand’anche soggiogasse tutta la massa della terra e del mare, e che re sia soltanto il saggio e amante di Dio, che fa a meno degli apparati militari grazie ai quali molti [III,170,20] conquistano il potere con la violenza. E come l’imperito di nautica, di medicina o di musica, salta fuori se messo alla prova del timone, della mistura dei medicamenti, del flauto e della lira (infatti nessuno di questi mezzi egli è capace di utilizzare per l’uso cui è destinato, e si dirà che essi convengono soltanto al nocchiero, al medico e al musico), così se l’ufficio di re è un’arte, l’artista è senza dubbio l’uomo virtuoso. [III,170,25] Infatti chi è imperito e ignaro di ciò che giova all’uomo, va considerato un rozzo e un selvatico, mentre va chiamato re solo a chi ha perizia e conoscenza.

§ 15. Gli insipienti non si danno pensiero della vera ragione

Frammenti n. 682-684

SVF III, 682

Stobeo ‘Eclogae’ II, 104, 10 W. L’insipiente è uno che non ama fare [III,170,30] né ascoltare ragionamenti, in primo luogo perché è impreparato all’accettazione dei retti discorsi a causa dalla capitolarda stoltezza che gli viene dal suo pervertimento, e poi perché nessuno degli insipienti può essere stato spronato né spronare alla virtù. Infatti, chi è stato spronato o sprona altri alla virtù deve essere pronto alla vita filosofica, e chi è pronto a ciò deve vivere in modo non soggetto ad intralci; ma nessuno [III,170,35] degli stolti è un individuo del genere. Giacché l’individuo pronto alla filosofia è non quello che ascolta con slancio e memorizza le frasi dei filosofi, ma colui che è pronto a trasporre in opera le prescrizioni della filosofia ed a vivere in armonia con esse. Nessuno degli insipienti è una persona del genere, essendo già stato conquistato in precedenza dai giudizi del vizio. Se, infatti, [III,170,40] un insipiente avesse potuto essere spronato, egli si sarebbe volto lontano dal vizio; ma nessuno [III,171,1] che sia dedito al vizio si è volto alla virtù, come nessun malato alla salute. Soltanto il sapiente, e nessuno degli stolti, è stato spronato ad essa e può spronarvi altri; e nessuno degli stolti vive in armonia con le prescrizioni della virtù né è amante del ragionamento, ma tutt’al più dei discorsi, fino a [III,171,5] spingersi a qualche chiacchiera superficiale e mai per rinsaldare con le opere il discorso della virtù.

SVF III, 683

Stobeo ‘Eclogae’ II, 105, 7 W. Nessun insipiente è laborioso. La laboriosità è infatti una disposizione d’animo alla elaborazione di quanto ci spetta, senza averne sospetto a causa della fatica. E nessun insipiente s’atteggia invece senza sospetto nei confronti della fatica.

SVF III, 684

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 105, 11 Wachsm. [III,171,10] Nessun insipiente dà alla virtù il rilievo che essa merita, mentre il darle rilievo è virtuoso, essendo conoscenza certa per la quale noi riteniamo di procacciarci qualcosa di rimarchevole. Ma nulla di virtuoso cade in animi insipienti, sicché nessun insipiente dà alla virtù il rilievo che essa merita. Se infatti uno stolto desse alla virtù [III,171,15] il rilievo che essa merita, la pregerebbe tanto da disfarsi del vizio. Ma ogni stolto sta in piacevole solidarietà con il proprio vizio, e non bisogna considerare ciò che il suo discorso, che è insipiente, mette in vista, ma quello che viene delle sue azioni. Ed è dalle loro azioni che gli stolti sono refutati, per non essersi spinti con bramosia ad azioni belle e virtuose bensì a godimenti senza misura e da schiavi.

ETHICA X.

Precetti sul modo di vivere

ossia

Sui singoli doveri intermedi

[III,172,5] § 1. Sul guadagno

Frammenti n. 685-689

SVF III, 685

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 188. Nel secondo libro ‘Sulle vite’ <Crisippo> ragiona sul procurarsi di che vivere e parla del modo in cui il sapiente debba provvedervi. Eppure perché egli deve provvedervi? Se infatti è per vivere, il vivere è un indifferente. Se è per il piacere che se ne trae, anche il piacere è un indifferente. Se è per la virtù, la virtù è autosufficiente [III,172,10] per la felicità. Risibili sono anche i modi per procurarsi di che vivere. Per esempio, grazie ai mezzi che provengono da un re: ma allora egli dovrà cedergli il passo. Grazie a quelli che provengono dall’amicizia: ma allora l’amicizia sarà comperabile per lucro. Grazie a quelli che provengono dalla sapienza: ma allora la sapienza è una cosa mercenaria.

SVF III, 686

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 109, 10. Tre sono i principali tipi di [III,172,15] vita del sapiente: la vita regale, la vita politica e, terzo tipo, la vita scientifica. In modo simile, tre sono anche i principali modi di fare denari: quello che deriva dall’essere re e per il quale o la persona stessa è re oppure prospera grazie ai mezzi provenienti dalla monarchia. Il secondo modo di fare denari è quello legato alla costituzione politica. Infatti egli, in armonia con il discorso precedente, si interesserà di affari cittadini, si sposerà e farà dei bambini, giacché ciò consegue [III,172,20] alla sua natura di creatura logica, socievole ed altruista. Egli dunque otterrà denari dall’attività politica e li otterrà anche dagli amici più altolocati. I seguaci dello Stoicismo si differenziarono invece uno dall’altro circa il significato da attribuire al giudizio che egli ‘vivrà la vita del sapiente’ e al giudizio che ‘prospererà grazie ai mezzi provenienti dal fare vita da sapiente’. Furono invece tra di loro d’accordo sul giudizio che il sapiente otterrà denari da coloro che educa, e che a volte prenderà una paga [III,172,25] dagli amanti del sapere. Tra di loro sorse però una controversia sul significato dei termini impiegati, in quanto alcuni dicevano che il ‘vivere la vita del sapiente’ era proprio questo, ossia il fare parte ad altre persone, dietro pagamento, dei dogmi della filosofia; mentre altri subodoravano invece in quel modo di ‘vivere la vita del sapiente’ che fosse insito qualcosa di insipiente, come se si trattasse di fare mercimonio dei ragionamenti ed [III,173,1] affermavano che non bisogna fare denari con l’educazione di gente qualunque, poiché questo modo di fare denari è troppo al di sotto del buon nome della filosofia.

SVF III, 687

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 130. Tre sono i tipi di vita: la vita teoretica, [III,173,5] la vita pratica e la vita razionale; ed essi affermano che quella da scegliersi è la terza, poiché la creatura logica è stata generata dalla natura idonea alla teoria e alla prassi.

SVF III, 688

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1047f. Nel settimo libro ‘Sul doveroso’, <Crisippo> afferma che il sapiente farà tre capriole, se per questo ottiene in cambio un talento.

SVF III, 689

Cicerone ‘De officiis’ III, 42. Con la sua usuale finezza, Crisippo [III,173,10] dice: “Nello stadio, il corridore deve impegnarsi e gareggiare al massimo delle proprie forze per vincere, ma non deve mai fare lo sgambetto o ritardare con le mani la corsa di un altro concorrente. Così nella vita non è malvagio cercare di ottenere qualcosa che ci è utile, [III,173,15] ma non si ha il diritto di sottrarlo ad un altro”.

§ 2. Sulla vita a corte

Frammenti n. 690-693

SVF III, 690

Stobeo ‘Eclogae’ II, 111, 3 W. L’uomo assennato sarà a volte re, e convivrà con un re il quale palesi buona natura ed amore per il sapere. Nel precedente discorso noi affermavamo che [III,173,20] egli può anche partecipare alla vita politica, ma non nel caso che qualcosa lo impedisca e soprattutto nel caso che ciò non sia di alcun giovamento alla sua patria, e se concepisse che ne conseguono grandi ed aspri pericoli.

SVF III, 691

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1043b-c. Ma proprio Crisippo, nel primo libro ‘Sulle vite’ dice: “Il sapiente si farà [III,173,25] deliberatamente carico del potere regale e ricaverà denari da esso. E qualora non possa regnare convivrà con un re e parteciperà alle sue campagne militari, re quali erano Idantirso lo Scita o Leucone il Pontico”. Citerò di lui anche questo passo […] in cui afferma: “Attenendoci al giudizio [III,173,30] che il sapiente parteciperà alle campagne militari e vivrà con i reali, noi esamineremo di nuovo l’argomento, dato che alcuni neppure lo sottintendono possibile quando fanno simili computi e noi lo abbiamo lasciato da parte per ragioni similari”. E poco dopo: “Non soltanto con coloro che hanno fatto progressi [III,173,35] di un certo rilievo sia nel loro sistema educativo sia acquisendo certe abitudini, come alla corte di Leucone e di Idantirso”.

[2] p. 1043e. E per fare denari, [III,174,1] Crisippo sospinge il sapiente a testa in giù fino a Panticapeo e alla desolata Scizia.

[3] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1061d. E dunque in modo simile, quando la sua salute viene meno, i suoi sensi si ottundono e le sue sostanze vanno in malora, il sapiente è non preoccupato [III,174,5] e ritiene che tutto ciò sia nulla per lui? Oppure: “Quando è ammalato paga l’onorario ai medici, e allo scopo di fare denaro naviga per raggiungere Leucone, sovrano nel Bosforo; e si mette in viaggio per recarsi presso Idantirso lo Scita”? Non è forse Crisippo ad affermare: “Delle sensazioni, ve ne sono alcune perdendo le quali il sapiente non regge più di vivere”?

SVF III, 692

Strabone ‘Geographia’ VII, 8, p. 301. [III,174,10] Coloro che vissero prima di noi [e soprattutto quelli che vissero ai tempi di Omero, erano tali ed] erano concepiti presso i Greci quali li descrive Omero. Guarda anche cosa dice Erodoto [del re degli Sciti, contro il quale Dario fece una spedizione militare, e i messaggi che egli inviò]. Vedi anche cosa dice Crisippo dei re del Bosforo, quelli della casata di Leucone.

SVF III, 693

[1]Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1043e. [III,174,15] Che il sapiente faccia questo per lavoro e per fare denari egli lo ha manifestato in precedenza, ipotizzando tre modi di fare denari che sono specialmente acconci al sapiente: quello legato all’essere re, quello legato agli amici e quello legato al vivere [III,174,20] la vita del sapiente.

[2] p. 1047f. Nei libri ‘Sulle vite’ egli afferma che il sapiente, allo scopo di fare denari, starà con i re; e che vivrà la vita del sapiente per denaro, prendendolo da alcuni discepoli in anticipo e con altri stipulando un accordo al riguardo.

[III,174,25] § 3. Sulla vita di chi gode dei diritti politici

Frammenti n. 694-700

SVF III, 694

Stobeo ‘Florilegium’ 45, 29. Di Crisippo. Crisippo, interrogato sul perché non partecipasse alla vita politica rispose: “Perché se uno vi partecipa da malvagio è sgradito agli dei; se invece vi partecipa da uomo probo è sgradito ai cittadini”.

SVF III, 695

[1] Seneca ‘De otio’ VIII, 1. Aggiungici pure, [III,174,30] sull’autorità di Crisippo, che il saggio può vivere libero da cariche pubbliche. Non auspico che il saggio subisca passivamente tale condizione, ma che la scelga. I nostri Stoici negano al saggio l’accesso a qualunque sorta di carica pubblica.

[2] ‘De tranquillitate animi’ I, 10. Senza esitare e con determinazione io seguo Zenone, Cleante e Crisippo, nessuno dei quali accedette a cariche pubbliche e tuttavia nessuno dei quali si rifiutò di indirizzarvi altre persone.

SVF III, 696

Seneca ‘Epistulae morales’ LXVIII, 2. Noi Stoici non indirizziamo l’uomo a tutte le cariche pubbliche, né per sempre né senza uno scopo preciso. D’altra parte, una volta che abbiamo assegnato al saggio una carica pubblica che è degna di lui, [III,175,1] cioè il mondo, egli stesso non è privo di una carica pubblica anche se vive appartato.

SVF III, 697

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. Come dice Crisippo nel primo libro ‘Sulle vite’, <gli Stoici> affermano che il sapiente parteciperà alla vita politica, se qualcosa non lo impedirà. E con ciò tratterrà [III,175,5] dal vizio e inciterà alla virtù.

SVF III, 698

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034b. Nel libro ‘Sulla retorica’ Crisippo, scrive così: “Il sapiente eserciterà la retorica e parteciperà alla vita politica, come se anche la ricchezza di denaro fosse un bene e tali fossero pure la fama e la salute”. E però ammette che i loro discorsi sono [III,175,10] senza sbocco e senza costrutto politico e che i loro giudizi non sono acconci né ai bisogni né alle azioni.

SVF III, 699

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1045d. Ma le cose che proprio lui a sua volta ha detto in opposizione a queste, poiché non sono ugualmente accessibili a tutti, le citerò con le sue stesse parole. Infatti, nel terzo dei libri [III,175,15] ‘Sull’amministrare la giustizia’ <Crisippo> ipotizza il caso di due corridori che taglino contemporaneamente il traguardo, ed è assai incerto su cosa sia doveroso fare al giudice arbitro. “Forse è possibile, egli dice, che il giudice arbitro dia la palma della vittoria a quello dei due che vuole, in dipendenza della rispettiva maggiore o minore consuetudine con lui, come se egli qui, in un certo modo, lo gratificasse di qualcosa di suo proprio; [III,175,20] oppure piuttosto, essendo la palma della vittoria divenuta proprietà comune di entrambi i corridori, è possibile che egli la dia, come per sorteggio, secondo una sua inclinazione casuale. Dico ‘inclinazione casuale’ per dire quella che capita quando di due dracme proposteci e simili per tutto il resto, [III,175,25] noi ne prendiamo una seguendo la nostra inclinazione”.

SVF III, 700

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 131. La miglior forma di costituzione politica è quella mista di democrazia, monarchia ed aristocrazia.

§ 4. Sulla vita di insegnante di scuola

Frammenti n. 701-704

SVF III, 701

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1043e. Mentre nel libro ‘Sulla natura’ [III,175,30] lo estolle e gonfia di lodi, qui di nuovo <Crisippo> abbatte il sapiente a livello di un lavoratore mercenario e di un sofista. Egli, infatti, richiederà e si farà anticipare il compenso dal discepolo, in alcuni casi subito all’inizio, e in altri casi dopo un certo lasso di tempo; pratica, quest’ultima, che Crisippo afferma essere più costumata, [III,176,1] e che però più sicuro è il compenso anticipato, in quanto questo campo è compatibile con comportamenti ingiusti. Egli dice così: “Gli uomini assennati si fanno pagare il compenso non da tutti allo stesso modo, ma in modo diverso da persona a persona a seconda dei casi, e senza [III,176,5] professare di farne degli uomini virtuosi, e per di più nel giro di un solo anno; ma, per quanto sta a loro, che faranno tutto ciò per il lasso di tempo concordato”. E poi prosegue: “L’uomo assennato saprà se il momento è opportuno per riscuotere il compenso subito all’entrata nella scuola, come hanno l’abitudine di fare i più, oppure di dar loro del tempo; cosa, questa, [III,176,10] maggiormente compatibile con comportamenti ingiusti, anche se sembrerebbe essere più costumata”.

SVF III, 702

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1033d. Nel quarto dei libri ‘Sulle vite’ Crisippo stesso crede che la vita da studioso non differisca per nulla dalla vita edonistica. Citerò le sue parole: [III,176,15] “A me sembra che sbaglino fin da principio quanti concepiscono che ai filosofi spetti soprattutto la vita da studioso, sottintendendo che bisogna fare ciò per passarsela in un certo modo o per un qualche altro scopo similare, e tirare avanti così la vita intera. Ma fare ciò, a vederlo chiaramente, significa passarsela ‘piacevolmente’, giacché non [III,176,20] deve sfuggirci ciò che essi sottintendono, anche se alcuni lo dicono chiaramente e non pochi altri in modo più dubbio”.

[2] p. 1033e. Questo è Crisippo, il vecchio, il filosofo, quello che loda la vita del re e la vita del politico.

SVF III, 703

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1043a. Quello ‘Sulle vite’ è un trattato [III,176,25] in 4 libri. Nel quarto, Crisippo dice che il sapiente è un uomo lontano dagli affari pubblici, che si occupa di poche cose e che si fa gli affari suoi. Questo è il testo: “Giacché io credo che il saggio sia un uomo lontano dagli affari pubblici, che si occupi di poche cose e che si faccia gli affari suoi; e similmente che siano virtuose tanto [III,176,30] l’autodeterminazione pratica quanto l’occuparsi di poche cose”.

SVF III, 704

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1043b. Affermazioni quasi simili egli ha fatto nel libro ‘Sulle cose che possono essere scelte per se stesse’, con queste parole: “Giacché in effetti la vita tranquilla appare possedere qualcosa che la rende al riparo dai pericoli e sicura, anche se pochissimi [III,176,35] sono capaci di notarlo”.

[III,177,1] § 5. Sulla semplicità del vitto

Frammenti n. 705-715


SVF III, 705

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1049a. A proposito dei galli, alcuni Pitagorici incolpano <Crisippo> di avere scritto nei libri ‘Sulla giustizia’: “Essi sono nati per uno scopo a noi proficuo, giacché [III,177,5] ci svegliano, eliminano gli scorpioni e con i loro combattimenti ci attirano, infondendoci una certa emulazione per il loro vigore. E comunque è pur necessario che divoriamo anche loro, affinché la moltitudine dei pulcini non superi il bisogno”.

SVF III, 706

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1044b. Nel libro [III,177,10] ‘La repubblica’ <Crisippo> afferma: “I cittadini nulla faranno né appresteranno in vista dell’ebbrezza”. Loda quindi Euripide per avere proferito queste parole:

‘Peraltro di che han bisogno i mortali salvo di queste due cose sole:

del grano di Demetra e dell’acqua da bere?’

Proseguendo, [III,177,15] loda poi poco dopo Diogene, il quale si masturbava sotto gli occhi di tutti e diceva agli astanti: “Magari potessi sbarazzare così il ventre dalla fame!”.

[2] Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ VI, 16, 6. Se ben ricordiamo i versi di Euripide, dei quali spessissimo si serve Crisippo [III,177,20] e nei quali si dice <che certe leccornie> sono state inventate non perché fossero necessarie alla vita ma per dissolutezza d’animo tipica di chi ha fastidio dei cibi crudi e facili da ottenere, e per malvagia lascivia di sazietà. Pensai dunque di citare questi versi di Euripide:

‘Peraltro di che han bisogno i mortali salvo di queste due cose sole:

[III,177,25] del grano di Demetra e dell’acqua da bere,

che abbiamo a disposizione e che la natura ci dà per nutrirci?

Ma a noi non basta esser sazi di loro, e per effeminatezza

andiamo in caccia della possibilità d’altri mangiarini’.

SVF III, 707

Filone Alessandrino ‘De fortitudine’ II, p. 376 Mang. Nient’affatto carente […] [III,177,30] è neppure un solo uomo che abbia come fornitore la ricchezza indistruttibile della natura: l’aria, il primo, il più necessario e costante cibo, respirata di giorno e di notte ininterrottamente; poi le fonti abbondanti […] ad uso di bevanda; poi per alimento una profusione di semenze d’ogni sorta e forme d’alberi che sempre generano la loro frutta annuale.

SVF III, 708

Ateneo ‘Deipnosophistai’ I, 18b. [III,177,35] Con l’occhio a ciò ch’è confacente, Omero ci mette innanzi gli eroi mentre banchettano con non altro che carni e mentre se le imbandiscono; giacché non gli suscita né una risata né vergogna il vederli nell’atto di preparare le vivande e di farle cuocere. Essi infatti, afferma Crisippo, affettavano la loro indipendenza dai servi e [III,178,1] si facevano belli della loro versatilità. Così Odisseo afferma di essere destro come nessun altro nello scalcare le carni e nell’ammonticchiare legna per il fuoco. Nelle ‘Preghiere’, Patroclo e Achille mettono in pronto ogni cosa, e quando Menelao celebra le nozze, lo sposo [III,178,5] Megapente fa da coppiere. Adesso invece siamo scesi così in basso che banchettiamo sdraiati.

SVF III, 709

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ III, 104b. Dunque, cari amici, se uno volge lo sguardo a queste cose, loderebbe verosimilmente il buon Crisippo, il quale vede con precisione dall’alto ‘La natura’ di Epicuro ed afferma che madrepatria della sua [III,178,10] filosofia è il trattato di gastronomia di Archestrato, questa nobile epopea che tutti i filosofi ghiottoni proclamano essere il loro Teognide.

[2] VII, 278e. Crisippo, da effettivo filosofo e uomo in tutto, afferma che è Archestrato l’autore fondamentale di riferimento per Epicuro e [III,178,15] per coloro che fanno scienza della dottrina, profonda guastatrice d’ogni cosa, dell’ebbrezza. Epicuro, infatti, non si copre la bocca ma lo dice a gran voce: “Quanto a me, io non posso proprio pensare al bene se è disgiunto dall’ebbrezza legata ai sapori e ai rapporti sessuali”. Questo sapiente crede che anche la vita dei dissoluti sarebbe [III,178,20] irredarguibile se ad essa sopravvenissero l’assenza di paura e la pacatezza.

SVF III, 709a

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, 158a. È un giudizio stoico che il sapiente farà bene ogni cosa e che condirà con saggezza anche un piatto di lenticchie. Per questo, Timone di Fliunte diceva di un tale “che non ha imparato a lessare saggiamente le lenticchie alla Zenone”, come se le lenticchie non potessero essere lessate [III,178,25] in un modo diverso dalla ricetta di Zenone, il quale diceva

“di aggiungere alle lenticchie un dodicesimo di semi di coriandolo”.

Cratete di Tebe soleva dire che

“per portare in auge un piatto diverso dalle lenticchie, non gettare tra di noi la sedizione”.

[III,178,30] Crisippo, nel libro ‘Sul bello’, introducendo alcune massime dice:

‘Non mangiare mai l’oliva quando hai l’ortica.

D’inverno, oh! oh! una zuppa di bulbi e lenticchie.

Quando il freddo agghiaccia, una zuppa di bulbi e lenticchie è pari all’ambrosia’

SVF III, 710

Gregorio Nazianzeno ‘Carmina’ I, II, 10, v. 604. [III,178,35] Per esempio, quel discorso dei carissimi Stoici, allorché un tale si rivolge alla propria carne come cianciando con un altro e dice:

‘Di che ti sono in debito, meschina pellaccia?

[III,179,1] Del mangiare? Il pane, pur datoti poveramente è tantissimo.

Del bere? Ti daremo acqua e aceto.

Ma tu non mi chiedi questo, bensì i cibi dell’effeminatezza e dei bagordi,

e il lusso delle coppe di cristallo.

[III,179,5] È anche troppo in pronto e te lo daremo, ma è un cappio!’

SVF III, 711

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 46, Ald. p. 84, 14 Wal. Sono infatti cose delle quali la dimostrazione è a un passo, cose facili, risapute, conoscibili con una breve riflessione. […] Di questo genere sono anche le cose oggetto delle ricerche degli Stoici sui comportamenti doverosi: per esempio, se sia d’uopo, quando si fa colazione in compagnia di altri [III,179,10] o del proprio padre, allungare la mano verso le porzioni più distanti qualora queste siano più grandi; oppure non fare così ma accontentarsi di quelle che si hanno accanto. Oppure se sia d’uopo che quanti ascoltano un filosofo incrocino i piedi.

SVF III, 712

[1] Filone Alessandrino ‘De plantat. Noe’ 142, II, p. 161, 18 Wendl. Molti filosofi si sono non poco industriati nell’analisi di una questione che si può [III,179,15] formulare così: il sapiente si ubriacherà? Ora, ci sono due tipi di ubriacatura. Una consiste nel bere vino puro; un’altra nel vaneggiare in preda al vino. Tra coloro che hanno messo mano alla questione proposta, alcuni hanno affermato che il sapiente non berrà troppo vino puro né vaneggerà; giacché l’una cosa è un’aberrazione, l’altra è fattiva d’aberrazione, ed entrambe sono estranee a chi compie azioni rette. Altri invece hanno dichiarato [III,179,20] che il bere vino puro si conviene anche al virtuoso, ma che il vaneggiare non gli è appropriato. Poiché la saggezza che è in lui è sufficiente per contrastare attivamente quei giudizi che mettessero mano a recargli danno e per demolire quella smania di novità che essi introducono nell’anima, costoro affermano che la saggezza è precinta di una facoltà capace di estinguere le passioni, sia quelle rinfocolate dall’estro di una fiammante passione amorosa, sia quelle rattizzate dal bollore del molto vino, e grazie a questa facoltà il virtuoso riuscirà a [III,179,25] sovrastarle. Anche tra coloro che sprofondano negli abissi di un fiume o del mare, gli inesperti di nuoto vanno incontro alla rovina mentre quanti conoscono bene la faccenda fanno in fretta a preservarsi in vita.

[2] 149. Le cose di questo genere sono dunque, per così dire, il proemio dell’analisi. Portiamo ora a termine il discorso su di essa; discorso che, com’è verosimile, è duplice. Il primo discorso struttura l’argomentazione [III,179,30] che il sapiente si ubriacherà. Il discorso opposto rinsalda l’argomentazione che il sapiente non si ubriacherà. È acconcio parlare dapprima degli argomenti che sono a favore del primo discorso, iniziando da questa constatazione: dei termini usati per designare le faccende, accade che alcuni siano omonimi e che altri siano sinonimi […]

[3] 154. [III,179,35] Gli antichi, come chiamavano ‘puro’ il vino non mischiato con acqua, così lo chiamavano anche ‘bevanda ubriacante’. Proprio questo termine è impiegato in molti luoghi delle composizioni poetiche, di modo che se si usano due sinonimi per lo stesso oggetto, ‘vino puro’ e ‘bevanda ubriacante’, anche i loro derivati verbali, ‘bere vino puro’ e ‘ubriacarsi’, non differiranno altro che per il suono che si emette. Entrambi questi verbi palesano l’uso abbondante di vino, uso dal quale il virtuoso potrebbe, per molte cause, non potersi esimere. [III,179,40] Se dire che ‘berrà vino puro’ è sinonimo di ‘si ubriacherà’, egli però non si troverà in effetti in una condizione peggiore dovuta all’ubriachezza, ma nella stessa condizione di chi ha meramente bevuto del vino puro. Abbiamo così dato una prima dimostrazione circa la ‘ubriachezza’ del sapiente. La seconda è di questo genere […]

SVF III, 713

Stobeo ‘Florilegium’ 18, 24. [III,180,1] Di Crisippo. Egli afferma che l’ubriachezza è una piccola forma di pazzia.

SVF III, 714

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1044d. Nel libro ‘La repubblica’ <Crisippo> dice che “Siamo vicini a [III,180,5] dipingere anche i cessi”. E poco dopo afferma che “Alcuni abbelliscono la campagna con rampicanti e con mirti; allevano pavoni, piccioni, pernici, per udire i loro canti, e anche usignoli”. Mi piacerebbe cercar di sapere da lui cosa pregia delle api e del miele […] se egli dà spazio a queste cose nel suo Stato, perché esclude i cittadini da quanto è delizioso [III,180,10] all’udito e alla vista?

SVF III, 715

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 123. Il sapiente approverà l’esercizio fisico per aumentare la resistenza del suo corpo.

§ 6. Sull’amore

Frammenti n. 716-722

SVF III, 716

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 129. Il sapiente proverà trasporto amoroso [III,180,15] per quei giovani i quali palesano nel loro aspetto un’attitudine da purosangue per la virtù, come affermano Zenone ne ‘La repubblica’, Crisippo nel primo libro ‘Sulle vite’ e Apollodoro ne ‘L’etica’. Il trasporto amoroso è il progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza; non un progetto di accoppiamento carnale ma di amicizia. E dunque Trasonide, [III,180,20] benché abbia in sua potestà l’amata, se ne astiene perché ne è odiato.

SVF III, 717

Stobeo ‘Eclogae’ II, 65, 15 W. <Gli Stoici> nutrono il giudizio che il sapiente, avendo qualità di accortezza e di dialettica, abbia anche quelle di convivialità e d’eroticità. L’eroticità è detta tale in duplice modo: il modo conforme a virtù, che è quello nobile; e quello in denigrazione, conforme al vizio, come quando qualcuno scada nell’erotomania. E il [III,180,25] trasporto amoroso [virtuoso è desiderio di amicizia]. Similmente si dice degno di trasporto amoroso chi è degno d’essere prediletto come amico e non chi è degno d’essere fruito carnalmente, giacché chi è degno di un trasporto amoroso conforme a virtù, questo è degno d’amore. In modo simile all’eroticità, essi assumono tra le virtù la convivialità, la quale verte intorno a ciò ch’è doveroso in un convito ed è la scienza di come debbano essere condotti i conviti e [III,180,30] di come si debba bere in compagnia. A sua volta, l’eroticità è scienza della caccia a giovani di buona natura, capace di spronare all’azione virtuosa e, in generale, scienza dell’amare bene. Perciò essi affermano che l’uomo assennato proverà trasporto amoroso. Ma il solo amare è di per sé un indifferente, dal momento che accade anche tra gli insipienti. Invece il trasporto amoroso è né una smania né una smania di qualche faccenda da insipienti, bensì il progetto di stringere amicizia [III,180,35] per il palesamento della bellezza.

SVF III, 718

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 130. <Gli stoici> dicono che il trasporto amoroso è desiderio di amicizia, come afferma anche [III,181,1] Crisippo nel libro ‘Sull’amore’, e che è non biasimevole. Essi poi definiscono la bellezza fior di virtù.

SVF III, 719

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1072f. I concetti filosofici sulla passione amorosa elaborati nell’ambito della Stoa sono contrari ai concetti di comune buonsenso e hanno tutti [III,181,5] dell’assurdo. “I giovani sono brutti poiché sono viziosi e dissennati; mentre belli sono i giovani sapienti e nessuno di quei giovani belli è oggetto di passione amorosa né è degno di passione amorosa”. Ma non è ancora questa la parte terribile, giacché essi dicono pure che: “Coloro i quali provano passione amorosa per dei giovani brutti, cessano di amarli se essi diventato belli”.

[2] p. 1072b. In primo luogo [III,181,10] non è plausibile che quello che essi chiamano e denominano ‘palesamento della bellezza’ sia ciò che trasporta all’amore, giacché nei giovani più brutti e più viziosi non potrebbe avvenire palesamento alcuno della bellezza; se appunto, come essi dicono, la depravazione del carattere infetta anche l’aspetto.

[3] p. 1072b. Essi affermano che il trasporto amoroso è caccia ad un adolescente imperfetto certo, [III,181,15] ma con una disposizione da purosangue alla virtù.

SVF III, 720

Stobeo ‘Florilegium’ 63, 31, Mein. Di Crisippo. Qualcuno diceva che il sapiente non proverà trasporto amoroso, e portava a testimoni di ciò Menedemo, Epicuro e Alessino. Al che Crisippo ribatteva: “Userò questa dimostrazione. Se Alessino l’incompetente, Epicuro l’incosciente, Menedemo […] dicono di no, allora è certo che il sapiente [III,181,20] proverà trasporto amoroso”.

SVF III, 721

‘Scholia’ in Dionys. Thrac. p. 120, 33 Hilgard. A loro volta gli Epicurei affermano che la passione amorosa è un intenso desiderio di piaceri sessuali, mentre gli Stoici affermano che il trasporto amoroso è il progetto di stringere amicizia con dei giovani per il palesarsi della bellezza. Dunque l’amore è duplice: dell’animo e del corpo.

SVF III, 722

Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ II, p. 75 Ald. [III,181,25] Ma anche il problema che ‘nessun amore è virtuoso’, in generale lo ristruttureremo in negativo dicendo che ‘non ogni amore è vizioso’; e lo discrimineremo in ‘passione amorosa’ che è, come dice Epicuro, un intenso desiderio di piaceri sessuali; e in ‘trasporto amoroso’ che è invece, come affermano gli Stoici, il progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza.

[III,181,30]

§ 7. Sull’amicizia e la riconoscenza

Frammenti n. 723-726

SVF III, 723

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 483 Pott. Ci viene insegnato che vi sono tre specie di amicizia. Di queste, la prima e anche la migliore è l’amicizia conforme a virtù, giacché un amore caritatevole che origini dalla ragione è inconcusso. La seconda e intermedia è quella per contraccambio, che è una specie socievole, [III,181,35] partecipativa e giovevole alla vita, giacché l’amicizia che deriva dalla riconoscenza è mutua. La terza ed ultima specie è quella che noi chiamiamo amicizia per consuetudine; per altri, invece, è l’amicizia secondo piacere, che è commutabile e labile.

SVF III, 724

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1039b. [III,182,1] Inoltre, nel secondo libro ‘Sull’amicizia’, insegnando che non bisogna dissolvere le amicizie in seguito ad un’aberrazione qualunque dell’amico, <Crisippo> usa queste parole: [III,182,5] “Conviene che alcune aberrazioni siano messe del tutto da parte; che alcune incontrino da parte nostra una piccola pensosità; che alcune ne incontrino una maggiore e che alcune aberrazioni siano da noi valutate come cause del tutto degne di dissoluzione dell’amicizia”. [E, quel che è più importante,] egli afferma nello stesso libro: “Inoltre noi conferiremo di più con alcuni e di meno con altri, sicché saremo maggiormente amici di alcuni e meno di altri. Se questo [III,182,10] divario dura a lungo, alcuni diventeranno degni di un certo grado di amicizia, altri di un altro grado; e alcuni saranno da noi valutati degni di un certo grado di fiducia e cose simili, altri di un altro grado”.

SVF III, 725

Seneca ‘De beneficiis’ II, XVII, 3. Voglio ricorrere ad una similitudine del nostro Crisippo, tratta dal gioco della palla. Se la palla finisce a terra, non c’è dubbio che la colpa sia di chi la lancia o di chi la riceve, ed essa mantiene la giusta traiettoria [III,182,15] solo quando passa da una mano all’altra, lanciata e ricevuta da entrambi con abilità. Ma il buon giocatore deve lanciarla in modo diverso a seconda che il suo compagno di gioco sia lontano o vicino. Lo stesso principio vale anche per il beneficio. Se questo non si adatta alla personalità di entrambi, di chi dà e di chi riceve, non lascia l’uno e non arriva all’altro come deve. Se si gioca con un compagno abile ed esperto, [III,182,20] noi lanceremo la palla con più audacia: infatti, comunque egli la riceverà una mano agile e pronta ce la rilancerà. Se invece giochiamo con un pivello e un incapace, non la lanceremo a braccio teso e con violenza, ma piuttosto piano, e gliela indirizzeremo con calma quasi nella mano. La stessa cosa va fatta con i benefici: alcuni uomini hanno bisogno di insegnamenti, per altri dobbiamo giudicare sufficiente che si sforzino, che ci provino, che mostrino buona volontà. Difatti molto spesso siamo noi [III,182,25] a rendere gli altri ingrati, o a favorire la loro ingratitudine, come se i nostri benefici fossero grandi solo quando non possiamo da loro averne il contraccambio. Siamo come i giocatori malevoli che si propongono di mettere in ridicolo il compagno anche a scapito del gioco, che non può svolgersi se non c’è cooperazione. [III,182,30]

SVF III, 726

Seneca ‘De beneficiis’ II, XXV, 3. Chi ha intenzione di essere riconoscente, pensi subito alla restituzione già nell’atto di ricevere. Crisippo dice che dev’essere come il concorrente pronto alla gara di corsa, chiuso dietro [III,182,35] le sbarre di partenza e che aspetta il momento esatto in cui si dà il via per scattare. E certo ha bisogno di grande spinta, di grande velocità per raggiungere chi gli sta innanzi.

[III,183,1] § 8. Sul matrimonio e la famiglia

Frammenti n. 727-731

SVF III, 727

[1] Girolamo ‘Adversus Iovinianum’ II, 48. Fa ridere Crisippo quando prescrive al saggio di prendere moglie per non offendere Giove Gamelio e Genetlio. Se così fosse, infatti, presso i Latini il saggio non sarebbe tenuto a prendere moglie, dato che per essi non esiste [III,183,5] un Giove protettore delle nozze.

[2] Dione Crisostomo ‘Orationes’ VII, 134. [I lenoni] non hanno vergogna di nessuno, né di uomini né di dei; né di Zeus protettore delle nascite, né di Era protettrice delle nozze.

SVF III, 728

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 131. Ha il beneplacito degli Stoici il pensiero che presso i sapienti le donne debbano essere comuni, di modo che l’uomo saggio che capita possa avere relazioni [III,183,10] con la donna saggia che capita, come affermano Zenone ne ‘La repubblica’ e Crisippo nel libro ‘Sulla repubblica’. Così saremo altrettanto affezionati ad ogni bambino a mo’ di padri, e ci toglieremo d’attorno la gelosia per l’adulterio.

SVF III, 729

Origene ‘Contra Celsum’ VII, 63, Vol. II, p. 213, 6 K. Quanti vivono secondo la filosofia di Zenone di Cizio avversano l’adulterio […] [III,183,15] giacché esso non è un’azione socievole; ed è contro la natura delle cose, per una creatura logica, rendere adultera una donna già legalmente maritata ad un altro e rovinare la famiglia di un altro uomo.

SVF III, 730

Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ II, p. 224 Pott. Se infatti, come ammettono gli Stoici, la ragione non consente al sapiente di muovere a caso neppure un dito; coloro che inseguono la sapienza [III,183,20] non debbono avere molto di più il completo dominio di quel loro pezzo che serve per l’accoppiamento sessuale?

SVF III, 731

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 120. Essi reputano che i virtuosi venereranno genitori e fratelli al secondo posto, subito dopo gli dei. Ed affermano che l’affettuosità verso i figlioli è naturale per i virtuosi, [III,183,25] mentre non lo è per gli insipienti.

§ 9. Sull’educazione dei figli e l’istruzione

Frammenti n. 732-742

SVF III, 732

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 16, Vol. I, p. 285, 23 K. Vi sono differenti, come dire, conformazioni possibili di discorso, a seconda di come questo appare a ciascuno di coloro che sono interessati a condurre altri alla scienza e in analogia alla postura dell’animo di chi vi è condotto: se si tratta di qualcuno [III,183,30] che è progredito di poco, o di chi è progredito di più, o di chi è ormai vicino alla virtù, o di chi vi è già giunto.

SVF III, 733

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 1, 15. Alcuni reputarono che ai minori di sette anni non si debba insegnare a leggere, giacché quella è l’età alla quale il loro intelletto è per la prima volta capace di apprendere e di sopportarne la fatica. […] Migliore però è l’avviso di coloro, [III,183,35] come Crisippo, i quali vogliono che a nessuna età la mente rimanga inattiva. Infatti egli giudica che anche nel triennio in cui sono affidati alle nutrici, la mente degli infanti vada da esse formata con i migliori insegnamenti possibili.

SVF III, 734

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 1, 4. Innanzitutto la lingua delle nutrici non [III,184,1] deve essere scorretta. Per Crisippo l’ideale era che fossero tutte filosofe, e comunque volle che fossero scelte le migliori possibili. Indubbiamente il primo criterio di scelta è rappresentato dai loro costumi, ma esse devono anche parlare correttamente la lingua, giacché sono loro le prime persone che il bambino sentirà parlare e tenterà [III,184,5] di imitare pronunciandone le parole.

SVF III, 735

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 10, 32. Si racconta che Pitagora calmò l’eccitazione di giovani che commettevano atti violenti in una casa perbene, comandando alla flautista di mutare il ritmo della sua musica in spondaico. Anche Crisippo attribuisce la paternità di un certo suo carme alla nutrice che ha il compito di calmare [III,184,10] i bambini.

SVF III, 736

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 3, 14. Con gli alunni, io proprio non vorrei ricorrere alle percosse; anche se ciò è generalmente accettato e Crisippo non lo disapprova.

SVF III, 737

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 11, 17. In particolare questa chironomia che, come dichiara la parola stessa, è legge a gesti, è sorta in tempi eroici, [III,184,15] è stata approvata dai più grandi uomini di Grecia e dallo stesso Socrate; è stata posta tra le virtù civili da Platone e non è stata trascurata da Crisippo, il quale l’ha inclusa nei precetti per l’educazione dei figli.

SVF III, 738

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 129. Crisippo afferma che anche [III,184,20] le nozioni enciclopediche sono proficue.

SVF III, 739

Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 78, I, p. 234, 7 Wendl. È pertanto giovevole, se pur non per ottenere il possesso della perfetta virtù ma almeno per la costituzione politica, anche il nutrirsi delle antiche e antichissime opinioni ed inseguire l’eco di remote tradizioni di opere belle che gli storici e tutta la stirpe dei poeti [III,184,25] hanno trasmesso alla memoria dei contemporanei e dei posteri.

SVF III, 740

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 10, 15. Anche i massimi esponenti della Scuola che ad alcuni appare severissima e ad altri rigorosissima, furono dell’avviso che alcuni saggi dedicheranno parte del loro impegno a questi studi <musicali>.

SVF III, 741

Origene ‘Contra Celsum’ III, 25, Vol. I, p. 221, 3 K. [III,184,30] Se pertanto la medicina dei corpi è un’arte intermedia e una faccenda appannaggio non soltanto dei virtuosi ma anche degli insipienti, arte intermedia è anche quella che pronostica gli eventi futuri, giacché chi fa pronostici non palesa sempre di essere un virtuoso.

SVF III, 742

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 96, Vol. I, p. 368, 23 K. È d’uopo [III,184,35] sapere che pronosticare gli eventi futuri non è sempre qualcosa di divino, in quanto è un’arte mediana appannaggio sia degli insipienti che dei virtuosi. Anche i medici sono in grado di fare delle prognosi sulla base dell’arte medica pur se capita che essi siano eticamente insipienti. Allo stesso modo anche i piloti, pur essendo per caso persone depravate, [III,184,40] grazie ad una certa esperienza e capacità di osservazione sanno riconoscere in anticipo certi indizi, la veemenza dei venti e i rivolgimenti dell’ambiente circostante. Certamente non per questo, se capita che siano eticamente depravati, si direbbe che essi siano persone divine.

[III,185,1] § 10. Frammenti sul Cinismo

Frammenti n. 743-756

SVF III, 743

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 45, p. 538 Delarue. Anche i Greci hanno fatto ricerche sulla natura del ‘bene’, del ‘male’ e di ciò ch’è ‘indifferente’. Quelli tra di loro che hanno fatto centro in queste indagini ripongono il ‘bene’ e il ‘male’ unicamente nella proairesi, [III,185,5] ed affermano che ‘indifferenti’ sono, di per sé, tutte le entità delle quali si è appurato che sono sprovviste di proairesi. Essi sostengono inoltre che la proairesi la quale utilizza nel modo dovuto queste entità ‘indifferenti’ può essere lodata, mentre se le utilizza in un modo non dovuto può essere denigrata. Nell’ambito delle cose indifferenti essi poi dicono che, di per sé, congiungersi sessualmente con le proprie figlie è un ‘indifferente’, anche se è d’uopo non fare una cosa del genere nelle comunità politicamente costituite. Ma a rappresentanza [III,185,10] del fatto che una cosa simile è un ‘indifferente’ essi hanno assunto, a mo’ d’ipotesi, che il sapiente e la sua unica figlia siano rimasti i soli sopravvissuti di tutto il genere umano andato in rovina. E cercano allora di capire se sarà doveroso che il padre abbia dei coiti con sua figlia affinché, sempre in questa ipotesi, non vada in malora tutto il genere umano. [III,185,15] È pertanto sano il modo in cui questi argomenti si discutono tra i Greci, e la non spregevole scuola Stoica parla per loro […]

SVF III, 744

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 188. Ne ‘La repubblica’ <Crisippo> afferma <lecito> avere dei coiti con le madri, con le figlie e con i figli. Le stesse cose egli le afferma anche nel libro ‘Sulle cose che possono essere scelte non per se stesse’, subito all’inizio.

SVF III, 745

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 192. [III,185,20] Crisippo ne ‘La repubblica’ afferma letteralmente così:

“Reputo lecite queste pratiche, che anche adesso sono abitudini non cattive di molte persone, per le quali il padre <genera prole> dalla propria figlia e il fratello dalla sorella”.

[2] ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 246. [III,185,25] Crisippo ha al riguardo lo stesso punto di vista e, ne ‘La repubblica’, afferma: “Reputo lecite queste pratiche, che anche adesso sono abitudini non cattive di molte persone, per le quali la madre fa dei figli col proprio figlio, il padre con la propria figlia e il fratello con la [III,185,30] sorella”.

[3] III, 200. E cosa vi è di stupefacente in ciò, laddove anche i filosofi Cinici e i seguaci di Zenone di Cizio, di Cleante e di Crisippo affermano che questo è un ‘indifferente’?

SVF III, 746

Epifanio ‘Adversus haereses’ III, 39 (DDG 593, 1). [III,185,35] Crisippo di Soli scrisse norme non conformi alle leggi divine, giacché disse che i figli devono congiungersi sessualmente con le madri e le figlie con i padri. Quanto al resto, fu d’accordo con Zenone di Cizio. Oltre a ciò, egli parlava [III,186,1] di antropofagia e soleva dire che fine di tutto è la sensualità.

SVF III, 747

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 188. Nel terzo libro ‘Sul giusto’, per un migliaio di righe <Crisippo> intima di divorare i morti.

[2]VII, 121. [III,186,5] […] <e che il virtuoso> in certe circostanze gusterà carne umana.

SVF III, 748

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 192. Quanto essi professano circa l’antropofagia potrebbe diventare un assaggio della loro santità circa i defunti; giacché essi non soltanto ritengono lecito mangiare [III,186,10] i morti ma mangiare le loro stesse carni, nel caso di amputazione di una parte del corpo. Nel libro ‘Sulla giustizia’ Crisippo dice questo: “Qualora una parte delle nostre membra venga amputata e sia proficua come cibo, non è il caso di sotterrarla né di scagliarla via ma di [III,186,15] consumarla, affinché divenga un’altra parte delle nostre membra”.

SVF III, 749

Plutarco ‘De esu carnium’ p. 999e. Considera quali filosofi ci addomestichino di più: quelli che intimano di mangiare figlioli, amici, padri e mogli quando muoiono oppure Pitagora ed Empedocle.

SVF III, 750

[1] Teofilo ‘Ad Autolycum’ III, 5, p. 196 Otto. [III,186,20] Siccome ne hai letti molti, cosa te ne pare dei giudizi che i libri di Zenone o di Diogene o di Cleante abbracciano; libri che insegnano il cannibalismo, che i figli lesseranno e ingeriranno le carni dei loro padri e, se uno decidesse di non farlo oppure decidesse di scaraventare via un membro di questo fiero pasto, a divorare [III,186,25] chi si rifiuta di mangiare? Oltre costoro si trova poi una voce ancora più atea, quella di Diogene; il quale insegna ai figli di offrire in sacrificio i propri genitori e poi di divorarli.

[2] 6, p. 198. Inoltre Epicuro e gli Stoici nutrono il giudizio che siano lecitamente realizzabili incesti tra fratelli e sorelle e l’omosessualità maschile; e di questi insegnamenti [III,186,30] hanno riempito le biblioteche.

SVF III, 751

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VI, 12. Non mancarono neppure coloro che fecero della sepoltura un lusso inutile, e dissero che nulla c’era di male nell’essere abbandonati insepolti. L’intero genere umano rigetta con sdegno l’empia sapienza di costoro, ed anche la rivelazione divina ordina che ciò non avvenga. In verità quei filosofi [III,186,35] non osano dire che ciò non deve essere fatto; ma che se per caso non ci fosse sepoltura, non sarebbe una disgrazia. Insomma, su questa faccenda essi fungono non tanto da consiglieri quanto da consolatori; di modo che se ciò capitasse al saggio, egli non si abbatta per questo.

SVF III, 752

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 194. Nel libro ‘Sul doveroso’ Crisippo, [III,186,40] dando delle spiegazioni circa la sepoltura dei genitori afferma espressamente: “Una volta deceduti i nostri genitori, si debbono utilizzare forme di sepoltura [III,187,1] le più modeste possibili, trattando il loro corpo come se si trattasse di un’unghia o di capelli che nulla sono per noi e non abbisognano da parte nostra di alcun pensiero né avvertenza. Perciò se dei pezzi delle loro carni sono proficui come cibo, i parenti le utilizzeranno come fanno anche delle parti [III,187,5] del loro corpo: per esempio, come spetterebbe utilizzare un piede amputato e cose similari. Se invece esse non sono utilizzabili, dopo averle sotterrate vi apporteranno sopra il tumulo sepolcrale, oppure dopo averle incenerite ne disperderanno le ceneri, oppure scagliatele ancora più lontano non se ne daranno più alcun pensiero, come se si trattasse di un’unghia o di capelli”.

SVF III, 753

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1044f. [III,187,10] Nel […] dei ‘Discorsi esortativi’, Crisippo dice che si calunnia senza ragione l’accoppiarsi con madri o sorelle o figlie, il mangiare certi cibi e il procedere verso un luogo sacro venendo da una puerpera o da un morto. Ed afferma che bisogna volgere lo sguardo alle belve, ed arguire dai loro comportamenti che nessuna cosa di quel genere [III,187,15] è assurda o contro natura. Al riguardo, infatti, sono tempestivi i paralleli con gli altri animali, per evidenziare che essi non contaminano il divino né quando s’accoppiano né quando partoriscono né quando muoiono in luoghi sacri.

SVF III, 754

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1045a. A sua volta, nel [III,187,20] quinto libro ‘Sulla natura’ <Crisippo> dice: “Esiodo fa bene a vietare di orinare nei fiumi e nelle sorgenti. E ancor più ci si deve astenere dall’orinare sugli altari o su un’effigie divina. Non è infatti un’azione ragionevole, anche se i cani, gli asini e i bambini infanti lo fanno perché non se ne danno alcun pensiero e non si rendono razionalmente conto delle cose di questo genere”.

SVF III, 755

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 201. [III,187,25] E noi vediamo che gli Stoici dicono non essere assurdo il coabitare con una prostituta o il passare la vita grazie al lavoro di una prostituta.

SVF III, 756

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 26, Vol. I, p. 295, 29 K. E quelli che vanno a puttane con indifferenza e insegnano pure che questo [III,187,30] non è affatto contrario a ciò ch’è doveroso.

§ 11. Sul trapassar di vita in armonia con la ragione

Frammenti n. 757-768

SVF III, 757

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 130. Essi affermano che il sapiente uscità fuor di vita a ragion veduta, sia a vantaggio della patria che degli amici, e anche nel caso sia vittima di [III,187,35] sofferenze lancinanti o di storpiature o di malattie incurabili.

SVF III, 758

Stobeo ‘Eclogae’ II, 110, 9 W. <Gli Stoici> affermano che il trapassar di vita [III,188,1] è a volte per molti versi doveroso per gli uomini virtuosi, mentre per gli stolti lo è la permanenza in vita anche se dovessero poi non diventare sapienti. La virtù, infatti, non rattiene in vita né il vizio ce ne fa sortire. La vita e la morte vanno parametrate [III,188,5] sulla base di ciò ch’è doveroso e di ciò che non lo è.

SVF III, 759

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1042d. Ma, essi affermano, Crisippo non crede assolutamente che la permanenza in vita vada parametrata ai beni e il trapassar di vita ai mali, bensì che esse vadano parametrate alle entità intermedie secondo natura. Perciò anche per gli uomini felici diventa a volte doveroso [III,188,10] trapassar di vita, e invece rimanere in vita per le persone infelici.

[2] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1063d. Questa, pertanto, è la legislazione vigente nella Stoa; e gli Stoici suggeriscono a molti saggi di trapassar di vita, giudicando meglio cessare di vivere mentre si è felici. Rattengono invece in vita molti insipienti, giudicando per loro doveroso che vivano essendo infelici. Eppure il sapiente è opulento dei veri beni, [III,188,15] beato, interamente felice, sicuro, al riparo dai pericoli; mentre l’insipiente è invece tanto dissennato da poter dire:

‘Trabocco di mali e non v’è più dove se ne possano mettere’

Nonostante questo, gli Stoici credono che per costoro sia doverosa la permanenza in vita e invece per quelli che lo sia il trapassar di vita. E ciò è verosimile, afferma Crisippo, giacché la vita non va [III,188,20] parametrata ai beni e ai mali ma a ciò ch’è secondo la natura delle cose ed a ciò ch’è contro la natura delle cose.

SVF III, 760

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1042a. Nel terzo libro ‘Sulla natura’ <Crisippo> rimarca: “È vantaggioso vivere da stolto piuttosto che non vivere, anche se non si dovesse mai diventare saggio”. Poi soggiunge:

“Per gli uomini i beni sono siffatti che, in un certo [III,188,25] modo, anche i mali vengono per importanza prima delle cose intermedie”.

[2] p. 1042b. Le cose cosiddette ‘intermedie’ sono, per loro, né bene né male.

[3] p. 1042c. Poiché ha deciso di appianare quest’assurdità, <Crisippo> soggiunge circa i mali: [III,188,30] “Quelli che per importanza vengono prima non sono questi ma la ragione, con la quale piuttosto spetta a noi vivere anche se saremo stolti”. Una prima volta, dunque, egli chiama ‘male’ il vizio e ciò che partecipa del vizio e null’altro. Ma il vizio ha a che fare con la ragione o, piuttosto, è la ragione che aberra […]

SVF III, 761

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1039d. Nei libri [III,188,35] ‘Sull’esortare’, prendendosela con Platone per avere detto che per chi non impara e non sa vivere conviene morire, <Crisippo> dice testualmente: [III,189,1] “Un discorso siffatto è contraddittorio e ben poco esortativo. In primo luogo, infatti, additando che per noi è molto meglio non vivere e sollecitandoci, in un certo senso, a morire, ci sprona piuttosto ad altro che al vivere la filosofia; giacché non si può [III,189,5] vivere la filosofia se non si è in vita e neppure è possibile diventare saggio se non dopo essere sopravvissuti per molto tempo nel vizio e nell’inesperienza”. Proseguendo poi afferma: “È doveroso anche per gli insipienti rimanere in vita”. E poi testualmente: “In primo luogo, la mera virtù non è un motivo perché noi si viva, così come il vizio non è un motivo perché noi si debba [III,189,10] andarcene dalla vita”.

SVF III, 762

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1064a. Anche per Eraclito e Ferecide, essi affermano, sarebbe stato doveroso, se l’avessero potuto, tralasciare virtù e saggezza pur di disfarsi dei pidocchi e dell’idropisia. E di Circe che mescesse due [III,189,15] farmaci, uno che rendeva stolti i saggi lasciando loro l’aspetto umano e un altro che trasformava gli uomini in asini saggi, ad Odisseo sarebbe convenuto bere il farmaco che rendeva stolti piuttosto che mutare forma e prendere aspetto animale pur conservando la saggezza, ed evidentemente insieme con la saggezza anche la felicità. Essi affermano poi che la saggezza stessa lo fa capire [III,189,20] e lo dice quando esorta: “Lasciami e spregiami pure dal momento che vado in malora e mi rovino prendendo l’aspetto di un asino”.

[2] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ V, 11. Cicerone dice bene: “Se tutti preferirebbero morire piuttosto che vedersi trasformati in bestie pur con mente umana, [III,189,25] quanto più misero è un corpo da uomo con un animo da bestia? A me sembra tanto più misera quanto più l’animo è superiore al corpo.

SVF III, 763

Cicerone ‘De finibus’ III, 60. Siccome tutti gli atti doverosi originano dalle pulsioni naturali primarie, non a caso si dice che ad esse fanno riferimento [III,189,30] tutti i nostri pensieri e, tra questi, anche il pensiero di uscir di vita o di rimanervi. Per colui nel quale prevalgono i pensieri secondo natura è doveroso restare in vita. Per colui invece nel quale prevalgono o prevarranno i pensieri contrari è doveroso uscir di vita. Da ciò appare che a volte è doveroso anche per il saggio uscir di vita pur essendo beato, e per lo stolto restare in vita pur essendo [III,189,35] infelice. Infatti il bene e il male […] sono qualcosa che nasce soltanto dopo che quelle pulsioni naturali primarie siano cadute, quali materiali sui quali egli pratica la sapienza, sotto il giudizio e la scelta del saggio che decide cosa sia secondo natura o contro natura. Pertanto la decisione razionale di vivere o morire deve scaturire dai giudizi e dalle scelte che ho appena detto. Il saggio non è tenuto in vita dalla virtù, [III,189,40] né chi è privo di virtù deve ambire la morte. Spesso è doveroso che il saggio si stacchi [III,190,1] dalla vita pur nel pieno della felicità, qualora possa farlo in modo opportuno. Essi infatti pensano che la vita beata, ossia la vita secondo natura, consista nel cogliere le opportunità che si presentano; e pertanto la saggezza può intimare al saggio l’abbandono di se stessa, se ciò è opportuno. Ora, siccome i vizi [III,190,5] non hanno il potere di indurre a darsi volontariamente la morte, è perspicuo che è doveroso per gli stolti restare in vita anche se infelicissimi, qualora possiedano la maggior parte di quelle cose che noi diciamo secondo natura. E dato che lo stolto, che viva o che muoia, è sempre ugualmente infelice, né un prolungamento della vita gliela rende più da fuggirsi, non a caso si dice [III,190,10] che quanti possono fruire di molte cose naturali devono restare in vita.

SVF III, 764

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 168, 1 Bruns. In generale, se la virtù da sola è sufficiente a procurarci una vita in sommo grado felice e beata, com’è possibile che per l’uomo virtuoso sia secondo ragione il trapassar di vita, dal momento che egli sta vivendo beatamente? Infatti, com’è assurdo dire che Zeus vuole morire, [III,190,15] così è assurdo che colui che vive altrettanto beatamente di Zeus trapassi ragionevolmente proprio da questa vita, quando si tenga conto che le cose corporali e quelle esterne sono ‘indifferenti’ e non fanno né aboliscono la felicità mentre la virtù, la cui presenza è la sola in grado di strutturare la vita beata e di custodirla saldamente tale, non abbandona mai il sapiente. […] Come può essere ragionevole che la virtù [III,190,20] sottoponga questa scelta al sapiente?

SVF III, 765

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 6, p. 576 Pott. Ora, anche i filosofi convengono sul fatto che sia ragionevole per il virtuoso il trapassar di vita, se qualcosa lo privasse a tal punto della possibilità di agire che non gliene avesse lasciato neppur più la speranza.

SVF III, 766

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 160, 24 Bruns. [III,190,25] Se l’attività della virtù consiste nella selezione delle cose che sono secondo natura e che le sono appropriate, e nella reiezione e nell’avversione delle cose opposte a queste; è manifesto che le cose che sono selezionate debbono essere presenti. Non sempre, infatti, queste cose sono presenti all’uomo, ed è pertanto a causa della carenza di esse che a volte l’uomo virtuoso si suicida. Il trapassar di vita, allora, non è dovuto [III,190,30] all’impossibilità di selezionare queste cose, il che è opera della virtù, ma all’assenza di cose che non dipendono da essa.

SVF III, 767

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 159, 19 Bruns. Il virtuoso potrebbe in certi casi lasciare volontariamente la vita, e una vita virtuosa, scegliendo di trapassar la vita secondo ragione.

SVF III, 768

Excerpta Philos., Anecdota Paris., IV, p. 403 Cramer. [III,190,35] Anche i filosofi Stoici […] concepirono la filosofia come studio della morte naturale. Perciò essi hanno scritto di cinque modi di trapassar di vita secondo ragione. La vita, essi affermano, somiglia ad un lungo convito al quale l’animo pare rimpinzarsi. E quanti sono i modi in cui si scioglie un convito, [III,190,40] tanti sono i modi in cui possono avvenire i trapassi di vita secondo ragione. Un convito si scioglie in cinque modi. Per un grande bisogno che ci piglia improvvisamente; per esempio, la comparsa dopo qualche tempo di un amico: per la gioia gli amici s’alzano e il convito si scioglie. Similmente, il convito si scioglie per l’irruzione di gente che impazza in baldoria o nel turpiloquio. Perché le portate sono putrefatte e insalubri. [III,191,1] Per l’insufficienza di viveri. Per ubriachezza. Anche i trapassi di vita secondo ragione avvengono dunque nei medesimi cinque modi. Per un grande bisogno che ci piglia, come quando la Pizia ingiunse ad un tizio [III,191,5] di sgozzarsi in favore della sua città poiché la rovina incombeva su di essa. […] Perché i tiranni impazzano e ci costringono ad effettuare cose vergognose o a dire dei segreti. Perché una lunga malattia impedisce all’animo di usare gran parte del corpo come strumento; ed è secondo ragione che essa ne esca fuori. È per questo che Platone non [III,191,10] approva la medicina dietetica, giacché essa lenisce gli stati morbosi e li cronicizza, ed invece approva la chirurgia e la farmacologia, delle quali si serviva il medico militare Archigene. Anche Sofocle afferma:

‘Non è da medico sapiente

intonare formule magiche dinanzi alla ferita aperta’

[III,191,15] Per povertà di denaro; e ben lo dice Teognide:

‘Per fuggire la povertà di denaro è d’uopo…’

Per vaneggiamento. Come là l’ubriachezza scioglieva il convito, così qui è possibile che uno si tolga la vita per vaneggiamento. Il vaneggiamento non è altro che un’ubriachezza naturale e l’ubriachezza non è altro che un vaneggiamento proairetico. E ciò è tutto [III,191,20] a questo proposito.

[III,192,1] Appendice I.

*Frammenti di Crisippo relativi alle opere di Omero

Frammenti n. 769-777

SVF III [App. I] 769

‘Scholia’ in Hom. Iliad. I, 129. Zoilo di Amfipoli [III,192,5] e lo stoico Crisippo credono che il poeta cada in un solecismo quando usa il verbo al plurale invece che al singolare, ed affermano che la forma ‘dòsi’ è plurale. Essi però ignorano che…

SVF III [App. I] 770

‘Scholia’ in Hom. Iliad. I, 405. … che accanto al Cronide <sedette>. Da qui viene che ciò non è detto rettamente se riferito ad Ares (Iliad. V, 906); ma Omero, come fosse uno Stoico, [III,192,10] afferma che è figlio di Poseidone.

SVF III [App. I] 771

[1] ‘Scholia’ in Hom. Iliad. VIII, 441. ‘ambomòisin’ . Crisippo la menziona come una parola sola, mentre Aristarco ne fa invece due parole distinte.

[2] ‘Etymologicum Magnum’ s.v. ‘ambomòisin’ vale ‘antì tu perì tòis bomòis’. Crisippo la menziona come una parola sola, mentre Aristarco ne fa invece due parole distinte.

SVF III [App. I] 772

‘Scholia’ in Hom. Iliad. X, 252. [III,192,15] Crisippo afferma che è come quando uno discorre di un periodo di tre giorni e dice del terzo giorno che manca ancora un giorno <alla fine di tale periodo> pur senza fare questo discorso all’alba. Così pure Odisseo, anche se erano passate più di due parti della notte, afferma che rimane ancora la terza parte, giacché se la notte è divisa in tre parti, ciascuna delle tre parti viene presa e considerata singolarmente. [III,192,20] Pur essendo dunque parziale e incompleta questa parte, essa viene però contata come terza, al modo in cui nella serie dei giorni <quello di cui si parlava prima> era il terzo. Così pure l’uomo mantiene integro l’appellativo di uomo fino ai piedi.

SVF III [App. I] 773

‘Scholia’ in Hom. Iliad. XIII, 41. Lo stoico Crisippo [III,192,25] e Dionisio il Trace, perché sia ‘auìachoi’ pronunciano questa parola con lo spirito aspro e voce rauca.

SVF III [App. I] 774

‘Scholia’ in Hom. Iliad. XV, 241. ‘amfì e gignòscon’ [….] Crisippo suggerisce di eliminare la epsilon come superflua e dice ‘amfìgnoòn antì tù antibàllon’.

SVF III [App. I] 775

‘Scholia’ in Hom. Iliad. XXII, 212. ‘méssa’ Crisippo scrive ‘rùma’ [III,192,30] giacché l’inclinarsi del giogo della bilancia si chiama ‘rùmen’

SVF III [App. I] 776

‘Scholia’ in Hom. Odyss. V, 240 [III,193,1] ‘perìkela’ : Aristarco l’intende come ‘secchi’, ‘riairsi dal sole’. Crisippo invece lo suddivideva in due parole: ‘perì’ ‘kéla’ ossia ‘oltremodo secchi’.

SVF III [App. I] 777

‘Scholia’ in Hom. Iliad. V, 2. ‘epikunéin’ (p. 361, 13 Gaisf.). E Crisippo scriverà [III,193,5] Ermes Cillenio, poiché la sua verga incanta gli occhi degli uomini […] I Feaci fanno sacrifici in suo onore la sera, come dice Omero ‘quando pensino al riposo’ non perché era apportatore di sogni ma perché causasse un piacevole sonno.

Appendice II.

*Frammenti di Crisippo relativi ai singoli libri

SVF III [App. II] IX, 2.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VII, p. 285d. [III,195,1] Nel suo libro ‘Sulle cose che possono essere scelte per se stesse’, il filosofo Crisippo afferma: “Ad Atene la gente disdegna le acciughe a causa della loro sovrabbondanza, e dice trattarsi di una pietanza da poveracci. Nelle altre città, invece, la gente va matta per le acciughe anche se sono di peggiore qualità. Inoltre, dice sempre Crisippo, qui [III,195,5] alcuni si danno un gran da fare nell’allevamento di volatili dell’Adriatico, pur se di minor pregio di quelli delle nostre parti in quanto molto più piccoli. E però quelli là, al contrario, importano i volatili allevati qui”.

SVF III [App. II] X, 2.

[III,195,10]

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 159a. <Ma Capaneo non era> come quel tale che il buon Crisippo descrive nel suo libro ‘Sulle cose che possono essere scelte non per se stesse’ dicendo così: “A tal punto certuni cadono in basso davanti al denaro, che le storie raccontano di uno che, ormai in fin di vita, morì dopo avere ingoiato non poche monete d’oro; e di un altro che, dopo averle fatte cucire [III,195,15] in un chitone ed averlo vestito, lasciò ai familiari quale sua ultima volontà quella di essere sepolto così com’era, senza cremarlo e senza accudire in alcun modo al suo corpo”.

SVF III [App. II] XII, 1.

Cicerone ‘De re publica’ III, 12. […] reperisse e preservasse, <Aristotele> invece riempì quattro libri di gran mole trattando proprio della giustizia. Certo, da Crisippo nulla di grande o di magnifico mi aspettavo, giacché egli si esprime in quel suo modo peculiare, che esamina [III,195,25] ogni cosa in base al significato delle parole e non al peso dei fatti.

SVF III [App. II] XVII, 2.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 159d. [III,196,20] Crisippo, nell’introduzione al trattato ‘Sui beni e sui mali’ afferma che un ricchissimo giovanotto proveniente dalla Ionia risiedeva ad Atene e portava indosso un manto di porpora con il lembo dorato. Quando un tale cercò di sapere da lui di che paese fosse, quello rispose che era ricco.

SVF III [App. II] XVII, 3.

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 63, Vol. I, p. 334, 15 K. [III,196,25] Il discorso di Celso sui vizi è peraltro confutato anche dai filosofi che hanno indagato sui beni e sui mali. Essi infatti riscontrano che, storicamente, le prostitute si vendevano per denaro ai clienti dapprima al di fuori delle città e [III,196,30] coprendosi i volti con delle maschere. Successivamente, per spregio riposero via le maschere; ma non essendo loro consentito dalle leggi l’ingresso in città, ne rimanevano fuori. Poi, diventata di giorno in giorno maggiore la loro perversione, ebbero l’audacia di entrare anche nelle città. E nella introduzione al trattato ‘Sui beni e sui mali’ Crisippo dice questo: “[III,196,35] Che i vizi possano diventare maggiori o minori è dato apprenderlo dal fatto che una volta c’erano i cosiddetti prostituti a doppio uso, ossia quelli capaci di fare sessualmente la parte passiva o la parte attiva nell’asservirsi alle smanie dei clienti che li frequentano; e che successivamente le autorità civiche li cacciarono via”. E di miriadi di cose malvage che hanno fatto irruzione nella vita degli uomini per il traboccare del vizio, si può ben dire che prima non esistevano. [III,196,40] Tant’è vero che le storie più antiche, seppure ci mettano al corrente di miriadi di azioni aberranti, non sanno parlare di coloro che praticano la fellatio.

SVF III [App. II] XXV, 4.

‘Scholia’ in Eurip. Andromaca v. 276, Vol. IV, p. 152 Dind. [III,197,30] Nel decimo libro delle sue ‘Ricerche etiche’ Crisippo afferma che quando Paride conteggia a quale pratica debba maggiormente attenersi tra: la pratica della guerra, la pratica amorosa, la pratica del potere regale; dà il suo assenso alle pratiche amorose, e che in questo modo è stato composto il racconto del suo verdetto.

SVF III [App. II] XXVIII, 1.                                  

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ XIV, 4. Per Ercole, con quanta vivacità ed eleganza Crisippo, nel primo libro dell’opera ‘Sul bello e sul piacere fisico’ <ad Aristocreonte>, ha dipinto con parole austere e venerande le sembianze, gli occhi e il volto della Giustizia! Egli raffigura la Giustizia, [III,198,1] e dice che i pittori e i retori più antichi erano soliti raffigurarla all’incirca in questo modo: “Ha le fattezze e il portamento di una vergine, lo sguardo acuto e che incute soggezione, occhi splendenti e penetranti, né dimessa né superba, ma con la solennità che deriva da una compunta serietà”. [III,198,5] Egli volle che da questa immagine si comprendesse che il giudice, in quanto sacerdote della giustizia, deve essere austero, irreprensibile, severo, incorruttibile, inaccessibile all’adulazione, inflessibile con i malvagi e i reprobi, con loro senza pietà, inesorabile, rigido, duro ed efficace, terrificante a ragione della potenza e maestà dalla vera giustizia che esercita. Queste sono, alla lettera, le parole che Crisippo [III,198,10] usa per descrivere la giustizia: “Si dice che <la Giustizia> sia vergine come simbolo del suo essere incorrotta, del fatto che non cede in nessun caso ai malfattori, che non ammette per sé discorsi acquiescenti, né suppliche e implorazioni, né adulazioni, né altre cose del genere. In seguito a ciò essa è raffigurata accigliata, col viso contratto, uno sguardo vibrante, [III,198,15] linceo, capace di infondere paura agli ingiusti e coraggio ai giusti. Infatti, un viso del genere è per gli uni rassicurante e per gli altri minaccioso”. Ho pensato bene di citare queste parole di Crisippo per metterle a disposizione di chi vuole considerarle e giudicarle, dato che mentre io le leggevo alcuni filosofi seguaci di dottrine meno severe dissero che questa [III,198,20] era la descrizione non della Giustizia ma della Crudeltà.

SVF III [App. II] XXVIII, 2.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 565a. Come afferma il vostro Crisippo nel quarto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’, la pratica di radersi la barba è stata escogitata ai tempi di Alessandro. Sono persuaso [III,198,25] di non essere intempestivo nel ricordarne le parole, giacché io molto mi rallegro di quell’uomo per la sua vasta cultura ed il carattere acquiescente. Il filosofo dice dunque così: “La pratica di radersi la barba è stata promossa ai tempi di Alessandro, anche se i primi cittadini non la seguivano. Il flautista Timoteo, infatti, suonava avendo una folta barba, e in Atene serbano a dovere il non antichissimo ricordo che il primo a tagliarsi la barba ebbe il soprannome [III,198,30] di ‘Tosato’ ”.

Perciò anche Alessi da qualche parte diceva:

‘Se vedi qualcuno depilato con la pece o rasato,

ebbene deve trovarsi in una o l’altra di queste due condizioni:

a me pare, infatti, che o divisi una campagna militare

nella quale compiere tutte cose opposte alla sua barba;

[III,198,35] oppure costui è incolto in qualche vizio da ricchi.

Ma per gli dei, perché mai ci affliggono i peli,

se è grazie ad essi che ciascuno di noi appare essere uomo;

a meno che tu non intenda sotto sotto effettuare qualcosa di contrario ad essi’.

“Quando Diogene vide un tale col mento rasato, gli disse: ‘Hai forse qualche motivo per incolpare [III,198,40] la natura d’averti fatto uomo e non donna?’. Quando poi vide in sella ad un cavallo un altro individuo similarmente rasato, tutto profumato e con indosso abiti confacenti a questo stato, gli disse che da tempo ricercava che animale fosse l’ippoporno, e che adesso l’aveva trovato. A Rodi c’è una legge che vieta di radersi, ma non c’è una sola persona che la prenda in parola giacché tutti si radono. A Bisanzio poi, pur se è comminata una multa al barbiere che possiede [III,198,45] un rasoio, nondimeno tutti ne fanno uso”. Queste sono le cose che ha detto l’ammirevole Crisippo.

SVF III [App. II] XXVIII, 3.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 137f. Nel quarto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ Crisippo afferma: “Le storie raccontano che non molto tempo fa ci furono ad Atene due pranzi, uno al Liceo e uno all’Accademia. [III,199,1] In quello all’Accademia, il cuciniere portò in tavola il cibo su di un piatto che era invece destinato ad un altro uso. Gli ispettori mandarono allora in tanti pezzi quel manufatto in ceramica poiché era stato introdotto nel sacrificio del vasellame estero e non cittadino, quando invece era doveroso astenersi da simili manufatti d’importazione. In quello al Liceo, invece, un cuciniere che aveva apparecchiato della carne salata come si apparecchia il pesce salato, fu frustato [III,199,5] per malvagia sofisticazione alimentare”.

SVF III [App. II] XXVIII, 4.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IX, p. 373a. Nel quinto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ il filosofo Crisippo scrive così: “Proprio come alcune persone sono inclini a ritenere gli uccelli bianchi più piacevoli al gusto di quelli neri”.

SVF III [App. II] XXVIII, 5.

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ VIII, p. 335b. Cari amici, mentre ammiro Crisippo, [III,199,10] lo scolarca della Stoa, per molti motivi, io ancor più lo lodo perché mette il tanto decantato Archestrato, autore del trattato di gastronomia, sempre allo stesso livello di Filenide, alla quale si attribuisce quell’impudica compilazione sui piaceri sessuali.

[2] p. 335d-e. Ma nel quinto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ il più che ammirevole Crisippo afferma: “Poi ci sono i libri di Filenide e [III,199,15] la ‘Gastronomia’ di Archestrato, eccitanti dell’appetito ed eccitanti al sesso. Similmente, ci sono ancelle esperte di questi tipi di movenze e di posizioni e della loro pratica”. E di nuovo: “Essi imparano a memoria le cose di questo genere e acquistano gli scritti in argomento di Filenide, di Archestrato e di consimili scrittori”. E nel settimo libro afferma: “Proprio com’è [III,199,20] possibile non imparare a memoria i libri di Filenide e la ‘Gatronomia’ di Archestrato con l’idea che essi apportino qualcosa per vivere meglio”.

SVF III [App. II] XXVIII, 6.

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ I, p. 4e. Archestrato di Siracusa o di Gela, nell’opera che secondo Crisippo s’intitola ‘Gastronomia’, ma secondo Linceo e Callimaco ‘Vita sensuale’…

[2] III, p. 104a. [III,199,25] Dunque, cari amici, se uno volge lo sguardo a queste cose, loderebbe verosimilmente il buon Crisippo, il quale vede con precisione dall’alto ‘La natura’ di Epicuro ed afferma che madrepatria della sua filosofia è il trattato di gastronomia di Archestrato, questa nobile epopea che tutti i filosofi ghiottoni proclamano essere il loro Teognide.

[3] VII, p. 278e. [III,199,30] Crisippo, da effettivo filosofo e uomo in tutto, afferma che è Archestrato l’autore fondamentale di riferimento per Epicuro e per coloro che fanno scienza della dottrina, profonda guastatrice d’ogni cosa, dell’ebbrezza.

SVF III [App. II] XXVIII, 7.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIV, p. 616a. Nel quinto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ il filosofo Crisippo scrive di Pantaleone [III,199,35] le seguenti cose: “Quando stava per morire, quel vagabondo impostore di Pantaleone ingannò entrambi i suoi due figli dicendo in privato, prima all’uno e poi all’altro, che rivelava soltanto a lui dove aveva sotterrato il proprio oro. Sicché successivamente, dopo avere in comune scavato come matti, i due si accorgessero di essere stati ingannati”.

SVF III [App. II] XXVIII, 8.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIV, p. 616b. Al nostro convito [III,199,40] non può fare difetto qualcuno amante degli scherni. Circa un tale di questo genere, di nuovo nel quinto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ Crisippo scrive: “Quando stava per essere sgozzato dal boia, un tale amante degli scherni disse di voler morire cantando come fa il cigno. E poiché il boia acconsentì, quello lo schernì”.

SVF III [App. II] XXVIII, 9.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ I, p. 9c. [III,199,45] La vivanda che molti chiamano, [III,200,1] come afferma Crisippo nell’opera ‘Sul bello e sul piacere fisico’, lastaurocaccabo, e la cui preparazione è assai complessa…

SVF III [App. II] XXVIII, 10.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ I, p. 5e. Alcune focacce presero il nome di ‘filossenie’ da questo Filosseno. Su di lui Crisippo [III,200,5] dice: “Io ho in mente un certo mangione ingordo al quale, dopo i fatti accaduti, era a tal punto decaduto il senso di rispetto per chi gli era vicino che alle terme, e sotto gli occhi di tutti, egli soleva abituare la mano ai cibi caldi ficcandola nell’acqua calda, e che faceva gargarismi con acqua calda in bocca manifestamente al fine di diventare resistente ai cibi caldi. Dicevano anche che subornasse i cucinieri a portare in tavola [III,200,10] cibi caldissimi che lui soltanto era in grado di consumare, non potendo tutti gli altri seguirne l’esempio”.

SVF III [App. II] XXVIII, 11.

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ VIII, p. 336a. Sardanapalo, sulla cui tomba era stata posta la seguente epigrafe…

[2] VIII, p. 336f. [III,200,15] L’epigrafe sulla tomba di Sardanapalo starebbe meglio’, dice Crisippo, se fosse commutata così:

“Ben sapendo che nascesti mortale, scatena le tue voglie

e deliziati di discussioni filosofiche: non c’è per te conforto alcuno nel mangiare.

Ecco, infatti io sono un cencio; io che pur mangiai e godetti a più non posso.

[III,200,20] Questo posseggo: quel che imparai, quel che cogitabondo meditai e, grazie a ciò,

quanto di prode sperimentai. Tutto il resto, pur piacevole, è stato lasciato alle spalle”.

SVF III [App. II] XXVIII, 12.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XV, p. 686f. Il più che ammirevole Crisippo afferma che gli olii odorosi prendono questo nome dal fatto di essere ottenuti dopo una lavorazione molto spossante e una fatica da matti. Gli Spartani scacciano da Sparta [III,200,25] i produttori di olii odorosi in quanto rovinano l’olio, e coloro che vi mettono a bagno le lane in quanto ne fanno sparire il biancore. E il sapiente Solone ha vietato per legge a quegli uomini di commerciare gli olii odorosi.

SVF III [App. II] XXVIII, 13.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIV, p. 659a. Gli antichi chiamavano ‘Mesone’ il cuoco loro concittadino, e chiamavano ‘Tettige’ (ovvero‘Cicala’) quello che era non concittadino. Il filosofo Crisippo [III,200,30] crede che il nome ‘Mesone’ venga dal verbo ‘masticare’, come per accennare al fatto che si tratta di un individuo incolto e che bada alla pancia. Egli ignora però che Mesone è stato un attore di commedia, nato a Megara, il quale inventò la maschera che da lui prese il nome Mesone, come afferma Aristofane di Bisanzio nel suo libro ‘Sulle maschere’.

SVF III [App. II] XXVIII, 14.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ II, p. 67c. Il filosofo Crisippo afferma che [III,200,35] il miglior aceto è l’aceto d’Egitto e quello di Cnido.

SVF III [App. II] XXVIII, 15.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ I, p. 8c. Dice Crisippo: “Non lasciarti sfuggire un banchetto in cui non c’è da pagare la quota”.

SVF III [App. II] XL, 1.

Epitteto ‘Diatribe’ I, 4, 14. [III,201,30] “Prendi il trattato <di Crisippo> ‘Sull’impulso’ e riconosci come l’ho letto!”

SVF III [App. II] XLV, 1.

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 1. [III,202,5] <Apollonio di Tiro afferma di Zenone> che era allampanato, piuttosto alto, di colorito bruno; per cui qualcuno lo chiamava ‘clematide egizia’, come dice Crisippo nel primo libro dei ‘Proverbi’.

SVF III [App. II] XLV, 2.

‘Scholia’ Pind. Isthm. II, 17. “Soldi, soldi, o uomo!” Questo detto è ascritto da taluni ai proverbi, ma si tratta di un apoftegma di Aristodemo, [III,202,10] come afferma Crisippo nel suo libro ‘Sui proverbi’. Pindaro non cita per nome questo Aristodemo, come se fosse manifesto chi è che lo dice; e ne segnala soltanto la patria, che è Argo.

SVF III [App. II] XLV, 3.

Diogeniano ‘Paroemiographus’ I, 62, p. 10. ‘Capra di Sciro’: Crisippo afferma che il proverbio è stato applicato a coloro che ‘rovesciano’ i favori che ricevono, [III,202,15] giacché spesso la capra ‘rovescia’ i recipienti.

SVF III [App. II] XLV, 4.

Zenobio ‘Paroemiographus’ V, 32. ‘Tu non navighi di notte’: è applicato a coloro che fanno qualcosa senza esattezza. Per chi è in alto mare la navigazione notturna è infatti più esatta di quella diurna, grazie alle segnalazioni fornite dalle stelle. Crisippo invece elimina il ‘non’ e [III,202,20] dichiara ‘tu navighi di notte’.

SVF III [App. II] XLV, 5.

[Plut] Prov. Alex. I, 3. ‘Retrocedere’: Crisippo applica questo proverbio a coloro che procedono di male in peggio negli affari, poiché vanno sempre indietro. Sofocle ricorda quest’espressione.

SVF III [App. II] XLV, 6.

Zenobio ‘Paroemiographus’ III, 40. ‘Il pestello cresce’: Crisippo lo dice [III,202,25] di coloro che non crescono, ma il proverbio parla anche di quelli che restano piccoli. Il pestello è infatti piccolo e tondeggiante.

SVF III [App. II] XLV, 7.

Plutarco ‘Vita Arati’ I, 1. C’è un antico proverbio, o Policrate, che il filosofo Crisippo ci dispone innanzi non al modo in cui è, io reputo temendo il suo contenuto malaugurante, ma come lui crede che sia meglio:

[III,202,30] ‘chi loderà un padre, se non dei figli felici?’

Ma Dionisodoro di Trezene lo contesta e gli contrappone il proverbio nella sua forma vera, che è questa:

‘chi loderà un padre, se non dei figli infelici?’

SVF III [App. II] XLV, 8.

Suida s.v. ‘Kérkopes’: [III,202,35] il proverbio dice ‘fare la scimmia’, che Crisippo afferma essere una metafora tratta dagli animali che scodinzolano.

SVF III [App. II] XLVII, 6.

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 34. Che la ‘Repubblica’ sia di Zenone lo afferma anche Crisippo nella sua ‘Repubblica’.

SVF III [App. II] LVII, 1.

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 116, 11 W. Crisippo ha disquisito su tutti i tipi di giudizi paradossali anche in molti altri libri: in quello [III,204,25] ‘Sui giudizi’; nella ‘Delineazione della dottrina etica’ e in molte altre compilazioni particolari.

DISCEPOLI E SUCCESSORI DI CRISIPPO

1. Zenone di Tarso [III,209,1]

Frammenti n. 1-5

SVF III [ZT], 1

[1] Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 13, 8. Zenone di Cizio, il capostipite della scuola dei filosofi Stoici, nacque filosoficamente da Cratete. A Zenone successe Cleante; a Cleante successe [III,209,5] Crisippo; a Crisippo successe l’altro Zenone, e poi via via gli altri. Si dice che tutti costoro furono in special modo solleciti della concretezza di vita e dell’esercizio della dialettica.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 35. Il quinto <a chiamarsi> Zenone fu un discepolo di Crisippo, il quale scrisse pochi libri [III,209,10] ma lasciò dietro di sé moltissimi discepoli.

[3] ‘Suida’ s.v. Zenone di Tarso, ma secondo alcuni di Sidone, figlio di Dioscoride. Filosofo, discepolo e successore di Crisippo di Tarso, il filosofo Stoico.

SVF III [ZT], 2

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XLVIII. […][III,209,15] cinque <libri> contro Geronimo e circa le tesi di […] Della sua cerchia furono Diogene di Seleucia sul Tigri, figlio di Artemidoro; che assunse la guida della scuola dopo Zenone <di Tarso>. Archedemo di Tarso […]

[III,209,20]

SVF III [ZT], 3

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 41. Altri affermano che queste [logica, fisica, etica] sono parti non del della ragione insita nel cosmo ma [III,209,25] della filosofia in quanto tale, come fa Zenone di Tarso.

SVF III [ZT], 4

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 84. <Gli Stoici> dividono la parte Etica <della filosofia> […] così la suddividono i seguaci di Crisippo […] e Zenone di Tarso.

SVF III [ZT], 5

Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 18, 2. [III,209,30] Si dice che Zenone di Tarso, discepolo e successore di Crisippo alla guida della scuola, a proposito della conflagrazione universale sospendesse il suo giudizio.

2. Diogene di Babilonia [III,210,1]

Frammenti n. 1-15

SVF III [DB], 1

Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 3 (Dox. Gr. p. 600). Diogene di Babilonia, dopo essere stato uditore di Crisippo, fu maestro di Antipatro.

SVF III [DB], 2

[1] Strabone ‘Geographia’ XVI, p. 743. [III,210,5] Anticamente Babilonia era una metropoli dell’Assiria; ora invece si chiama Seleucia, quella sul Tigri. […] Come noi chiamiamo la regione ‘Babilonia’, così pure chiamiamo ‘Babilonesi’ gli uomini di là; non cioè dal nome della città ma dal nome della regione. Meno li chiamiamo col nome della città, Seleucia, benché essi di là provengano, com’è il caso [III,210,10] del filosofo Stoico Diogene.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VI, 81. Quarto col nome Diogene fu lo Stoico, originario di Seleucia ma chiamato ‘di Babilonia’ per vicinato.

SVF III [DB], 3

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XLVIII. Della sua cerchia furono [III,210,15] Diogene di Seleucia sul Tigri, figlio di Artemidoro; che assunse la guida della scuola dopo Zenone <di Tarso>.

SVF III [DB], 4

Luciano ‘Macrobìoi’ 20. Diogene di Seleucia sul Tigri, filosofo Stoico <che visse> ottantotto anni.

SVF III [DB], 5

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1033d-e. Chi più di Crisippo, [III,210,20] di Cleante, di Diogene, di Zenone e di Antipatro giunse alla tarda vecchiaia facendo questo tipo di vita dedicata allo studio? Loro che si lasciarono dietro le loro patrie senza incolparle di nulla ma per passarsela in tranquillità ad oziare ed erudirsi <nell’Odeon> o allo Zostere?

SVF III [DB], 6

Cicerone ‘Cato maior’ 23. La vecchiaia ha forse costretto al silenzio e ad abbandonare i loro studi personaggi come [III,210,25] Zenone, Cleante e quel Diogene Stoico che voi vedeste a Roma? In tutti costoro l’applicazione agli studi non fu tutt’uno con la loro vita?

SVF III [DB], 7

Plutarco ‘Vita Catonis’ XXII. Quando <Catone> era ormai vecchio vennero da Atene a Roma, quali ambasciatori, Carneade [III,210,30] l’Accademico e Diogene lo Stoico col loro seguito. Essi avevano [III,211,1] lo scopo di ottenere l’annullamento di una sentenza di condanna del popolo di Atene al pagamento di una multa di cinquecento talenti, multa cui esso era stato condannato in contumacia su accusa dei cittadini di Oropo e sentenza di condanna dei cittadini di Sicione. E subito i giovanotti più aperti alle discussioni filosofiche si gettavano su quegli uomini, si stringevano loro intorno ascoltandoli [III,211,5] con ammirazione.

SVF III [DB], 8

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ VI, 14, 8. Si nota la stessa tripartita varietà nei tre filosofi che gli Ateniesi inviarono al Senato romano per ottenere la cancellazione della multa loro comminata per il sacco della città di Oropo, e che assommava a circa cinquecento talenti. Questi filosofi erano l’Accademico Carneade, lo Stoico Diogene [III,211,10] e il Peripatetico Critolao. Introdotti nel Senato, essi si valsero come interprete del senatore C. Acilio. Prima, però, per mettersi in mostra, ciascuno di essi separatamente tenne delle conferenze alla presenza di un gran pubblico. Rutilio e Polibio asseriscono che tutti e tre i filosofi furono ammirati, ciascuno per il suo genere di eloquenza: “Carneade”, essi dicono, “parlava con trascinante veemenza; Critolao usava espressioni eleganti e ben tornite; [III,211,15] Diogene aveva un linguaggio sobrio e conciso”.

SVF III [DB], 9

Cicerone ‘Academica’ II, 137. Ho letto presso Clitomaco che quando Carneade e Diogene lo Stoico furono al Campidoglio in Senato, A. Albino, uomo di fine cultura che era pretore al tempo del consolato di P. Scipione e M. Marcello, disse scherzando a Carneade: “Io [III,211,20] a te sembro non un vero pretore, visto che non sono saggio, né questa pare a te una città con dei cittadini”. E quello gli rispose: “È a questo Stoico che non lo sembri”.

SVF III [DB], 10

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 5. Quando <Lelio e Scipione> erano ancora adolescenti, so che lo Stoico Diogene e l’Accademico Carneade furono mandati dagli Ateniesi quali ambasciatori in Senato. [III,211,25] Questi però, non avendo alcuna esperienza della vita politica, essendo l’uno di Cirene e l’altro di Babilonia, non sarebbero mai stati sottratti ai loro studi né eletti a quel compito se a quel tempo non ci fossero stati capi politici che apprezzavano lo studio della filosofia.

SVF III [DB], 11

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. LI. [III,211,30] […] di Alessandria nella Troade; Panezio di Rodi, figlio di Nicagora; Mnesarco di Atene, figlio di Onesimo; Dardano di Atene, figlio di Andromaco; Apollodoro di Seleucia sul Tigri; Boeto di Sidone […]

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 30. Lo Stoico Zenodoto, discepolo [III,211,35] di Diogene.

[3] Ps. Scimno v. 10.

‘Uno dei genuini filologi Attici,

stato auditore di Diogene lo Stoico

[III,212,1] e condiscepolo per molto tempo di Aristarco;

il quale coordinò, a partire dalla conquista di Troia,

una cronografia che giunge fino ai giorni nostri’.

SVF III [DB], 12

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. LI. […] figlio della figlia, che fu anche [III,212,5] Areopagita; Apollonide di Smirne; Crisermo di Alessandria d’Egitto; Dionisio di Cirene, che era un ottimo studioso di geometria e che scrisse contro il retore Demetrio […]

SVF III [DB], 13

Cicerone ‘Academica’ II, 98. Quando capitava una cosa del genere, Carneade soleva per scherzo dire: “Se la mia conclusione regge, vi tengo in pugno; [III,212,10] se non regge, Diogene mi deve una mina”. Carneade infatti aveva appreso la dialettica da quello Stoico e ad una mina era il compenso dei dialettici.

SVF III [DB], 14

Cicerone ‘De finibus’ II, 24. Il famoso Lelio, da giovinetto, era stato auditore di Diogene Stoico e poi anche di Panezio.

SVF III [DB], 15

Cicerone ‘De finibus’ I, 6. Del resto quale aspetto [III,212,15] dello Stoicismo è stato trascurato da Crisippo? E tuttavia leggiamo Diogene, Antipatro.

FRAMMENTI

Frammento n. 16

SVF III [DB], 16

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 39. La ragione insita nel cosmo è, secondo filosofia, tripartita. Una sua parte, infatti, è qualcosa di fisico, un’altra di etico e un’altra [III,212,20] di logico. Così per primo la suddivise Zenone di Cizio […] e Diogene di Babilonia.

I. LOGICA

Frammenti n. 17-26

SVF III [DB], 17

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 55. La voce è aria percossa o l’oggetto sensibile percepito propriamente dall’udito, come afferma Diogene [III,212,25] di Babilonia nella sua opera ‘Sulla voce’. La voce di un animale è aria percossa per impulso; mentre quella dell’uomo è articolata e, come afferma Diogene, scaturisce dall’intelletto, il quale giunge a perfezione all’età di quattordici anni.

SVF III [DB], 18

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 55. Secondo gli Stoici [III,212,30] la voce è corpo, come affermano Archedemo […] Diogene e Antipatro […]. Infatti, tutto ciò che fa un’azione è corpo; e la voce fa un’azione quando s’avvicina da chi parla a chi ascolta.

SVF III [DB], 19

Simplicio ‘In Aristot. Phys.’ p. 426, 1 Diels. Sono in errore [III,213,1] quanti assumono, come Diogene di Babilonia, che la voce sia aria percossa; giacché in questo modo la voce sarà un corpo, seppure del genere dell’aria; e però quello che ha sperimentato l’azione, cioè l’aria percossa, essi lo assumono al posto dell’affezione, che è la percossa dell’aria.

SVF III [DB], 20

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 56. [III,213,5] Per gli Stoici, come afferma Diogene, ‘parola’ è una voce espressa con lettere dell’alfabeto: per esempio, ‘giorno’; ‘discorso’ è una voce dotata di significato e che scaturisce dall’intelletto: per esempio, ‘è giorno’; ‘dialetto’ [III,213,10] è una parola che è stata coniata da una delle etnie greche, oppure una parola di un certa zona, cioè varia secondo il dialetto: per esempio, in Attica <il mare> è ‘thalatta’ <e non ‘thalassa’>, mentre in Ionia <il giorno> è ‘imeri’ <e non ‘imera’>. Elementi della parola sono le ventiquattro lettere dell’alfabeto. Quella dell’alfabeto si dice ‘lettera’ in triplice senso: in quanto elemento, in quanto carattere scritto [III,213,15] dell’elemento, in quanto nome dello stesso: per esempio, ‘alfa’. Sette delle lettere sono vocali: alfa, epsilon, eta, iota, omicron, ipsilon, omega. Sei sono lettere mute: beta, gamma, delta, pi, cappa, tau. Vi è differenza tra ‘voce’ e ‘parola’, in quanto la ‘voce’ è semplice suono mentre ‘parola’ è soltanto ciò ch’è articolato in lettere. [III,213,20] Vi è differenza anche tra ‘parola’ e ‘discorso’, in quanto il discorso è sempre dotato di significato. Mentre la parola è anche priva di significato, come la parola ‘blìtiri’ ; il discorso, invece, non è mai insignificante. Vi è differenza anche tra ‘dire’ e ‘proferire’, in quanto si proferiscono le voci, ma si dicono i fatti; almeno quelli, caso mai, che sono esprimibili.

SVF III [DB], 21

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 57. Come afferma [III,213,25] Diogene nel la sua opera ‘Sulla voce’ e come afferma anche Crisippo, le parti del discorso sono cinque: nome, appellativo, verbo, congiunzione, articolo.

SVF III [DB], 22

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 58. Secondo Diogene, ‘appellativo’ è quella parte del discorso che significa una qualità comune: per esempio, ‘essere umano’, ‘cavallo’; ‘nome’ [III,213,30] è la parte del discorso che manifesta una qualità propria: per esempio, ‘Diogene’, ‘Socrate’; ‘verbo’ è la parte del discorso che significa, secondo Diogene, un predicato non composto ad altro oppure, secondo alcuni, un elemento indeclinabile del discorso significante qualcosa che può essere coordinato ad uno o più soggetti: per esempio, ‘scrivo’, ‘dico’; ‘congiunzione’ [III,214,1] è una parte indeclinabile del discorso che ne collega le parti; ‘articolo’ è un elemento declinabile del discorso che contraddistingue i generi dei nomi e i loro numeri: così, ‘o’, ‘i’, ‘to’, ‘oi’, ‘ai’, ‘ta’.

SVF III [DB], 23

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 62. [III,214,5] L’ ‘ambiguità’ si ha quando una parola può significare in modo esprimibile, principale e in armonia con l’usanza, due o più fatti; sicché noi possiamo aspettarci contemporaneamente più significati della spessa parola: per esempio, ‘auletrìs péptoke’. Infatti, la stessa parola <auletrìs> può significare ‘il cortile per tre volte <è caduto>’ oppure ‘la flautista [III,214,10] <è caduta>’.

SVF III [DB], 24

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 59. Le eccellenze del discorso sono cinque: ellenismo, chiarezza, concisione, confacenza, strutturazione formale. L’ellenismo è il modo d’esprimersi esente da errori in una consuetudine di scrittura artisticamente sorvegliata e non avventata; la chiarezza [III,214,15] è l’elocuzione che espone il pensiero in modo comprensibile; la concisione è l’elocuzione che include solo le parole strettamente necessarie alla presentazione del fatto; la confacenza è l’elocuzione attinente al fatto; la strutturazione formale è l’elocuzione che rifugge l’idiotismo. Il barbarismo [III,214,20] è, tra i difetti, l’elocuzione contraria alle usanze degli scrittori greci di chiara fama. Il solecismo è il discorso coordinato in modo non consono.

SVF III [DB], 25

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 60. Il ‘genere’ è la sintesi di più concettualizzazioni inscindibili una dall’altra: per esempio, ‘animale’. Infatti questo ‘genere’ [III,214,25] abbraccia tutte le specie particolari di animali. La ‘concettualizzazione’ è una produzione fantasmatica dell’intelletto, la quale è né un ‘qualcosa’ né una ‘qualità’, ma è come se fosse un ‘qualcosa’ e una ‘qualità’, al modo per cui nasce l’impressione di un cavallo anche se il cavallo non c’è. La ‘specie’ è ciò ch’è incluso nel genere, come l’essere umano [III,214,30] è incluso nel genere animale. Genere in senso generalissimo è ciò che, essendo genere, non ha però genere sopra di sé: come ‘l’essere’. Specie in senso specificissimo è ciò che, essendo specie, non ha però specie sotto di sé: come, per esempio, ‘Socrate’. [III,215,1] ‘Diairesi’ è il taglio di un genere nelle specie contigue: per esempio, ‘degli animali alcuni sono razionali, altri bruti’. ‘Antidiairesi’ è il taglio di un genere in una specie attraverso il suo opposto, come se ne fosse una negazione: per esempio, ‘degli esseri alcuni sono buoni, [III,215,5] altri non buoni’. ‘Subdiairesi’ è la diairesi di una diairesi: per esempio, ‘degli esseri alcuni sono buoni, altri non buoni; degli esseri non buoni alcuni sono cattivi, altri sono indifferenti’. ‘Partizione’ è l’assegnamento di un genere in ambiti diversi, come dice Crini: [III,215,10] per esempio, ‘Dei beni alcuni sono beni dell’animo, altri sono beni del corpo’.

SVF III [DB], 26

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 71. Delle proposizioni non semplici, come affermano Crisippo nelle ‘Definizioni dialettiche’ e Diogene nella sua opera ‘L’arte della dialettica’, la proposizione ipotetica è quella che sussiste per la presenza della congiunzione ipotetica ‘se’. Questa congiunzione [III,215,15] preannuncia che al primo enunciato ne segue un secondo: per esempio, ‘Se è giorno, c’è luce’.

II. FISICA

Frammenti n. 27-37

SVF III [DB], 27

Filone Alessandrino ‘De incorrupt. mundi’ 15, p. 248 Bern. […] si dice che [III,215,20] Diogene sottoscrivesse il giudizio della conflagrazione universale quand’era giovane, mentre quando fu più avanti negli anni, poiché inclinò al dubbio, sospese il suo giudizio in proposito.

SVF III [DB], 28

Aezio ‘Placita’ II, 32, 4 (Dox. Gr. p. 364). Il grande anno: per Eraclito era di diciottomila anni solari; per Diogene lo Stoico era di trecentosessantacinque volte più grande [III,215,25] del grande anno di Eraclito.

SVF III [DB], 29

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 5, p. 201 M. Il ragionamento di Zenone, ammirato dagli Stoici e che Diogene di Babilonia scrisse proprio all’inizio del suo libro ‘Sull’egemonico dell’animo’ […] potrai intenderlo con maggiore evidenza quando te l’abbia trascritto, [III,215,30] giacché è questo. “La voce si fa spazio attraverso la gola. Se essa si facesse spazio dal cervello non si farebbe spazio attraverso la gola. Ora, donde si fa spazio il discorso, di là pure si fa spazio la voce. Ma il discorso si fa spazio dall’intelletto, sicché l’intelletto non è nel cervello”. Diogene prospetta esattamente lo stesso ragionamento, non con le stesse parole ma in questo modo: “Donde scaturisce [III,215,35] la voce, scaturisce anche la voce articolata; e pertanto anche la voce articolata dotata di significato scaturisce di là. Ora, la voce articolata dotata di significato è il discorso. Quindi il discorso scaturisce là donde scaturisce anche la voce. La voce però non scaturisce da alcun luogo della testa, [III,216,1] bensì è sotto gli occhi di tutti che essa scaturisce piuttosto da regioni al di sotto della testa, ed infatti è patente che essa passa attraverso la trachea. Dunque il discorso non scaturisce dalla testa ma piuttosto al di sotto di essa. Tuttavia è anche vero che il discorso scaturisce dall’intelletto. Alcuni, anzi, nel definire [III,216,5] il discorso affermano che esso è voce dotata di significato scaturente dall’intelletto; ed è d’altra parte plausibile che il discorso scaturisca dopo essere stato reso significante e come modellato in rilievo dai concetti presenti nell’intelletto, e che quindi si distenda nel tempo a seconda dell’atto del pensare e dell’attività del parlare. Dunque l’intelletto non è nella testa ma nelle regioni [III,216,10] più in basso, e forse in special modo intorno al cuore”. Il ragionamento di Diogene è di questo genere ed è, al contrario di quello di Zenone, tirato per le lunghe; tanto che se quello scarseggiava di alcuni enunciati necessari, questo ne ha in eccesso.

SVF III [DB], 30

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 8, p. 246 M. Pertanto [III,216,15] nessuno di questi ragionamenti ha potenza persuasiva, neppure qualora Diogene dica: “L’egemonico si trova in quell’organo che primo fra tutti attinge per sé nutrimento e pneuma, ma l’organo che primo fra tutti attinge per sé nutrimento e pneuma è il cuore”. […] Allo stesso modo egli ha utilizzato ragionamenti suoi, dal momento che afferma: “Il motore dei movimenti secondo proairesi dell’uomo [III,216,20] è una certa esalazione dell’animo; ma ogni esalazione è riconducibile ad un nutrimento, sicché il motore primo dei nostri movimenti secondo proairesi e ciò che ci nutre sono necessariamente una sola ed identica cosa”. Qualora Diogene scriva questo, cioè che sostanza dell’animo è un’esalazione proveniente sia dal cibo che dal pneuma, noi al momento nulla diremo in disaccordo [III,216,25] con lui, per non affliggere del tutto il buon uomo. […] Ma poi si dimentica lui stesso dei suoi propri giudizi ed afferma che l’animo è sangue, come concepirono Empedocle e Crizia. Se avesse invece seguito Cleante, Crisippo e Zenone, i quali affermavano che l’animo trae nutrimento dal sangue ma che la sua sostanza è pneuma, come [III,216,30] potrebbe ancora sostenere che nutrimento e motore dell’animo sono la stessa cosa, visto appunto che è il sangue a nutrire l’animo ma è lo pneuma a farlo muovere?

SVF III [DB], 31

Aezio ‘Placita’ I, 7, 17 (Dox. Gr. p. 3). Diogene, Cleante ed Enopide dichiararono che la divinità è l’animo del cosmo.

SVF III [DB], 32

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 133. Zenone soleva prospettare questo [III,216,35] ragionamento: “Ragionevolmente si onorerebbero gli dei; ma quelli che sono non dei si onorerebbero irragionevolmente; dunque gli dei esistono”. Allineandosi a questo ragionamento, alcuni affermano: “Ragionevolmente si onorerebbero i sapienti; ma quelli che sono non sapienti si onorerebbero irragionevolmente; dunque i sapienti esistono”. Il che non aveva il beneplacito degli Stoici, poiché il loro ‘sapiente’ è rimasto fino ad oggi introvabile. [III,217,1] Replicando alla giustapposizione dei due ragionamenti, Diogene di Babilonia afferma che il secondo assunto del ragionamento di Zenone è potenzialmente di questa fatta: “ma quelli che sono per natura inesistenti si onorerebbero irragionevolmente”. Se si accetta questo assunto è infatti manifesto che gli dei sono per natura esistenti; e, se è così, allora gli dei esistono già adesso. [III,217,5] Se infatti essi sono mai esistiti una volta, esistono anche ora; come gli atomi, che se c’erano in passato, ci sono tuttora. Secondo il concetto che ne abbiamo, corpi del genere sono infatti imperituri e ingenerati, e perciò il ragionamento ne dedurrà una conclusione logica conseguente. I sapienti, dunque, esistono già ora ma non perché essi debbano essere per natura esistenti.

SVF III [DB], 33

Filodemo ‘De pietate’ p. 82 Gomp. Diogene [III,217,10] di Babilonia nel suo libro ‘Su Atena’ scrive che il cosmo è identico a Zeus o che include Zeus come l’uomo include l’animo. Scrive anche che Apollo è il sole e Artemide la luna e che, oltre ad essere cosa impossibile, è da bambini affermare l’esistenza di dei antropomorfi. Inoltre, la parte di Zeus che pertiene [III,217,15] al mare è Poseidone; quella che pertiene all’aria è Era, come dice anche Platone, sicché spesso per dire ‘aria’ uno dice ‘Era’; e la parte che pertiene all’etere è Atena: questo per dire la parte ‘dalla testa’ e anche ‘Zeus maschio, Zeus femmina’. Alcuni Stoici sono dell’avviso che l’egemonico sia nella testa, giacché esso è saggezza [III,217,20] e perciò si chiama anche Metis. Crisippo sostiene invece che l’egemonico è nel petto e che di là è nata Atena, la quale è saggezza. Egli sostiene anche che si dice nata ‘dalla testa’ perché la voce è escreta dalla testa e ‘ad opera di Efesto’ perché la saggezza diventa arte; e che Atena dovrebbe chiamarsi Atrena, Tritonide e [III,217,25] Tritogenia in quanto la saggezza consiste di tre discorsi razionali: quelli che concernono le realtà fisiche, le realtà etiche e le realtà logiche. Crisippo apparenta poi alla saggezza gli altri appellativi e attributi di Atena in un modo davvero splendido come l’oro.

SVF III [DB], 34

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 41. In seguito, Diogene di Babilonia, nel libro che scrisse su Minerva prende le distanze dal mito [III,217,30] e trasforma la nascita della vergine da Giove in un processo naturale.

SVF III [DB], 35

Cicerone ‘De divinatione’ I, 6. […] Testi che in seguito il discepolo <di Crisippo> Diogene di Babilonia rese pubblici [III,217,35] in un unico libro.

SVF III [DB], 36

Cicerone ‘De divinatione’ II, 90. Diogene lo Stoico concede che i Caldei possano predire non più in là della natura di qualcuno ed a cosa in futuro sarà adatto, ma nega recisamente che essi possano conoscere tutto il resto che dichiarano di sapere. In effetti l’aspetto di due gemelli può essere simile, [III,218,1] ma la loro vita e il loro destino possono essere diversissimi. Procle ed Euristene, re di Sparta, erano fratelli gemelli, eppure non vissero lo stesso numero di anni. Procle morì un anno prima, eppure le sue imprese furono molto più gloriose di quelle del fratello. Io invece nego che i Caldei [III,218,5] possano conoscere anche le cose che l’ottimo Diogene, per una sorta di collusione, concede loro di sapere.

SVF III [DB], 37

Cicerone ‘De divinatione’ I, 84. Questo è il ragionamento usato da Crisippo, da Diogene e da Antipatro.

III. ETICA

Frammenti n. 38-53

SVF III [DB], 38

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 84. [III,218,10] <Gli Stoici> dividono la parte Etica della filosofia […] Così la suddividono i seguaci di Crisippo […] e Diogene.

SVF III [DB], 39

Epitteto ‘Diatribe’ II, 19, 13. Delle cose, alcune sono beni; altre mali; altre indifferenti. Beni sono dunque le virtù e [III,218,15] quanto di esse partecipa; mali i vizi e quanto del vizio partecipa; indifferenti sono le cose che stanno frammezzo a queste: ricchezza di denaro, salute del corpo, vita, morte, piacere e dolore fisico”. “Donde lo sai?” “Lo dice Ellanico nei suoi ‘Fatti d’Egitto’ ”. Che differenza fa dire questo o che lo dice Diogene nella sua ‘Etica’ o Crisippo o Cleante?

SVF III [DB], 40

Cicerone ‘De finibus’ III, 33. Del bene si dà anche [III,218,20] una definizione. Le definizioni <degli Stoici> differiscono non poco, e però sono tutte convergenti. Io concordo con quella di Diogene, che definisce il bene come ‘ciò che è per natura assoluto’. E bene egli chiama anche il moto o stato giovevole (traduco così ὠφέλημα) [III,218,25] derivante dall’assoluto per natura.

SVF III [DB], 41

Cicerone ‘De finibus’ III, 49. Diogene ritiene che la ricchezza <di denaro> non abbia soltanto il potere di condurre al piacere e alla buona salute, ma che sia decisiva per il loro mantenimento. Essa non ha però questo potere nel caso della virtù o di altre arti, alle quali essa può indirizzare ma al cui mantenimento non è decisiva. [III,218,30] Così se il piacere e la buona salute fossero beni, anche la ricchezza lo sarebbe; ma se la saggezza è un bene, non ne consegue che si dica così della ricchezza. Ciò che non è un bene non può essere decisivo per il mantenimento di ciò che è bene; e perciò, dato che la cognizione e la comprensione delle cose dalle quali traggono origine le arti, [III,218,35] sono i moventi dell’impulso all’arte, e visto che la ricchezza non è un bene, nessuna ricchezza è decisiva per il mantenimento di un’arte. Se pur concedessimo che ciò vale per le arti, per la virtù non varrebbe però lo stesso ragionamento, poiché questa, a differenza delle arti, ha bisogno del massimo [III,219,1] impegno ed esercizio; e poi perché la virtù implica la stabilità, la fermezza e la costanza di tutta una vita, cosa che non vediamo nelle arti.

SVF III [DB], 42                         

Cicerone ‘De finibus’ III, 57. Circa la buona fama, (ciò che essi chiamano εὐδοξία, mi sembra più esatto tradurlo con ‘buona fama’ che con ‘gloria’) Crisippo e Diogene <di Babilonia> dicevano che per la buona fama non varrebbe la pena [III,219,5] di muovere neppure un dito se non per il vantaggio che se ne trae.

SVF III [DB], 43

Epifanio ‘Adversus haeres.’ III, 40 (Dox. Gr. p. 593). Diogene di Babilonia soleva dire che tutto quanto trae la sua origine dal piacere.

SVF III [DB], 44

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 75, 11 W. Zenone così esplicitò [III,219,10] il sommo bene: “Vivere in modo ammissibile <con la ragione>” […] I suoi successori, dopo averla articolata più minutamente enunciavano la definizione così […] e Diogene così: “Operare razionalmente nella selezione e nel rigetto delle cose naturali”.

SVF III [DB], 45

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 88. Diogene afferma [III,219,15] espressamente che il sommo bene è operare razionalmente nella selezione delle cose naturali.

SVF III [DB], 46

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 497 Pott. Diogene di Babilonia concepiva che il sommo bene stia nell’operare razionalmente nella selezione delle cose naturali.

SVF III [DB], 47

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 84, 4 W. Diogene <di Babilonia> afferma che l’éstimo è [III,219,20] determinazione di quanto qualcosa sia secondo natura o di quanto procuri un’utilità alla natura. Il termine di ‘valutato’ non deve qui essere assunto nel significato, come si dice, di ‘cose valutate’ ma inteso nel significato in cui diciamo essere ‘perito valutatore’ colui che valuta le cose, e dunque Diogene dice che tale individuo è perito valutatore del contraccambio. E questi sono i due modi di parlare del valore secondo i quali noi diciamo che qualche cosa è promossa per il suo valore. [III,219,25] <Diogene> dice che il terzo modo è quello per cui affermiamo che qualcosa ha gran pregio e valore, il che non accade per le cose indifferenti ma soltanto per quelle virtuose. Egli afferma anche che talora noi usiamo il nome ‘valore’ al posto di ‘ciò che spetta’; com’è assunto nella definizione della giustizia. Qualora infatti la si dica essere costumanza di assegnare ‘a ciascuno secondo il suo valore’ è come dire: assegnare [III,219,30] ‘a ciascuno ciò che gli spetta’.

SVF III [DB], 48

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 64, 13 W. Diogene afferma che le cose chiamate ‘scelte di per sé’, sono tali in duplice senso: in un senso, si tratta delle cose scelte in vista di un fine, come sono quelle assegnate a questo gruppo nel corso della predetta diairesi; in un altro, si tratta di tutte le cose che hanno in se stesse la causa dell’essere scelte, il che vale per ogni bene.

SVF III [DB], 49

Cicerone ‘De officiis’ III, 50. Come ho detto prima, [III,219,35] capitano spesso situazioni nelle quali l’utile appare in contrasto con l’integrità morale, sicché si deve esaminare bene [III,220,1] se tale contrasto ci sia davvero, oppure se le due cose possano andare d’accordo. […] In casi del genere, Diogene di Babilonia, Stoico di grande levatura e serietà, suole vedere le cose in un modo e Antipatro in un altro […] Per Antipatro bisogna dire apertamente tutto, [III,220,5] affinché nulla di ciò che il venditore sa resti ignoto al compratore. Per Diogene, invece, è opportuno che il venditore dica i difetti della merce per quanto è previsto dal diritto civile, e per il resto agisca senza sotterfugi per vendere, e vendere al meglio. ‘Ho trasportato qui la merce, l’ho esposta, la vendo a un prezzo non maggiore di quello degli altri, forse anzi inferiore, perché ne ho maggior copia. Chi subisce un’ingiustizia?’ Dall’altra parte Antipatro fa valere le sue ragioni […] [III,220,10] Al che Diogene risponderà forse così: ‘Una cosa è nascondere, un’altra è tacere. Seppure te lo taccia, io adesso non ti sto nascondendo quale sia la natura degli dei o il sommo bene, cose la cui conoscenza ti sarebbe molto più utile di quella del prezzo del grano. Insomma non è necessario che io ti dica tutto ciò che ti è utile sentire’. ‘Invece’, direbbe l’altro, ‘è necessario, se solo ti ricordi che fra gli uomini esiste per natura un vincolo sociale’. [III,220,15] ‘Lo ricordo eccome’, direbbe l’altro, ‘ma questo vincolo sociale è forse tale che nessuno possiede nulla? Giacché, se è così, uno non deve vendere qualcosa ma donarlo’. […] E Diogene di rimando: ‘Ti ha forse costretto lui a comprare, lui che neppure ti ha esortato a farlo? Lui ha solo messo in vendita ciò che non gli interessava più possedere, e tu hai comprato ciò che ti interessava possedere. [III,220,20] Se coloro che mettono in vendita come bella e ben edificata una villa, non sono ritenuti colpevoli anche se tale villa è né bella né edificata ad arte, ancor meno saranno colpevoli coloro che neppure hanno tessuto le lodi di una casa. Laddove l’acquirente ha tutto il tempo di giudicare, quale frode del venditore può mai esserci? Se non si deve prestare ascolto a tutto ciò che è detto, reputi che si debba prestare ascolto a ciò che detto non è? Cosa c’è [III,220,25] di più stolto del comportamento di un venditore che espone i difetti della sua merce? Cosa c’è di più assurdo del comportamento di un banditore che per ordine del padrone annuncia: ‘Vendo una casa malsana?’

SVF III [DB], 50

Seneca ‘De ira’ III, XXXVIII, 1. Qualcuno ti ha coperto di contumelie? C’è forse una contumelia più grave di quella rivolta a Diogene, il filosofo Stoico, a cui, proprio mentre trattava dell’ira, un giovane protervo sputò addosso? [III,220,30] Ma egli sopportò la cosa senza scomporsi e con saggezza, dicendo: “Non mi adiro, ma mi chiedo se sia il caso di adirarsi”.

SVF III [DB], 51

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 1, 8. I pedagoghi, ancor di più <delle nutrici>, debbono essere eruditissimi […] o coscienti di non esserlo affatto. […] Un loro errore reca non poco danno morale, visto che Leonide, il pedagogo di Alessandro, [III,220,35] come racconta Diogene di Babilonia, instillò in lui certi vizi che da quel periodo di educazione infantile egli non perse più, neppure da adulto e sommo re.

SVF III [DB], 52

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 168e. Diogene di Babilonia, nei suoi libri [III,220,40] ‘Sulla nobiltà di stirpe’ afferma: “Non c’era un solo Ateniese che non odiasse Foco, il figlio di Focione; e chiunque, quando lo incontrasse, gli diceva: ‘O disonore [III,221,1] della famiglia!’. Aveva infatti dilapidato tutto il patrimonio paterno in dissolutezze e, dopo aver fatto questo, s’era messo ad adulare chi controllava la collina di Munichia; cosa per la quale era sferzato dai sarcasmi di tutti. Una volta che si raccoglievano i donativi, venne anche lui in assemblea e disse: ‘Offro anch’io un donativo’; al che gli Ateniesi all’unisono [III,221,5] gridarono a gran voce: ‘Sì, all’impudenza!’. Foco era anche un amante del bere. Una volta aveva vinto nella corsa dei cavalli alle Panatenee e suo padre ne riceveva a banchetto i compagni. Quando si riunirono per il pranzo, l’apparato era sontuoso ed a chi entrava erano forniti dei bacili per il lavaggio dei piedi, pieni di vino aromatizzato. Quando suo padre li vide chiamò Foco e gli disse: ‘Non farai smettere al tuo compagno [III,221,10] di rovinare la tua vittoria?’ ”.

SVF III [DB], 53

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XII, p. 526c. Nel quindicesimo libro delle sue ‘Storie’, Teopompo afferma che mille uomini di Colofone erano in grado di aggirarsi per la città portando stole tinte di porpora, la quale era allora merce assai rara anche per i re ed era ricercatissima, giacché il suo valore era equivalente al suo peso in argento. Perciò [III,221,15] appunto, a causa di un siffatto andazzo finirono nella tirannide e nella guerra civile, e andarono in rovina insieme alla loro patria. Le stesse cose ha raccontato di loro anche Diogene di Babilonia nel primo libro delle sue ‘Leggi’.

Resti del libro ‘Sulla Musica’

Frammenti n. 54-90

SVF III [DB], 54

Filodemo ‘De musica’ p. 5 Kemke. In poche delle [III,221,20] musiche dominanti c’è lo studio di melodie ispirate alle virtù, giacché è necessario che esse vadano dietro a faccende, e cose simili, di minor conto della virtù. E ne deriva […]

SVF III [DB], 55

Filodemo ‘De musica’ p. 6 Kemke. […] che tutti designano le sue melodie, alcune eleganti, temperanti e virili; altre vili, impudenti [III,221,25] e interamente vergognose, come se la musica apportasse con sé le disposizioni di questo genere, quando invece esse forse neppure apparirebbero se in verità non ci fossero già <in chi ascolta>. Né certo qualcosa può apparire più medicinale se innanzitutto non è medicinale, né qualcosa apparire più ippico se innanzitutto non è ippico.

SVF III [DB], 56

Filodemo ‘De musica’ p. 7 Kemke. Se si ammette che di per se stessa [III,221,30] l’intelligente comprensione dell’armonia e del ritmo sia proficua per l’educazione. […] E che farà la postura abituale più armoniosa e più ritmica. E se qualcuno ricerca se la musica gli porterà certe [III,222,1] virtù o quali, egli mette avanti Damone […] il musico, il quale crede cose quasi simili quando dice conveniente che il fanciullo canti e suoni la cetra, non soltanto …

SVF III [DB], 57

Filodemo ‘De musica’ p. 8 Kemke. È proprio dell’arte ginnica [III,222,5] far muovere il corpo e farlo stare fermo in modo elegante e proficuo, rendendo così discrezionali le sensazioni legate a queste azioni. La vista apprende dall’arte pittorica a ben giudicare molte delle cose visibili; mentre la musica sembra avere una parte meno necessaria …

SVF III [DB], 58

Filodemo ‘De musica’ p. 8 Kemke. [III,222,10] … stati passionali come l’ira, l’ebbrezza e l’afflizione nei quali ci imbattiamo comunemente, dacché le cause delle attinenti disposizioni le abbiamo in noi e non ci vengono dal di fuori. Anche la musica è una delle esperienze comuni, giacché tutti i Greci ed anche i barbari [III,222,15] l’utilizzano e, per così dire, a tutte le età. Infatti, ancor prima di possedere ragionamento e intelligente comprensione, la facoltà musicale s’accende nell’animo di qualunque fanciullo …

SVF III [DB], 59

Filodemo ‘De musica’ p. 9 Kemke. … dai legislatori che tutti si servano di essa <musica> e che nessuno vi apporti delle innovazioni, mentre la disposizione [III,222,20] che oggi va per la maggiore si distorna da essa. E se si paragonano i vari modi del ditirambo, il modo di Pindaro e quello di Filosseno, si troverà che è grande la differenza dei caratteri che si danno a vedere ma che identico è il discorso; e <ciò vale anche per> gli altri modi qualunque siano.

SVF III [DB], 60

Filodemo ‘De musica’ p. 10 Kemke. [III,222,25] … tempo, avendo incominciato gli abitanti di Mantinea, di Sparta e di Pellene. Presso costoro per primi e in special modo, si ebbe infatti la più scrupolosa sollecitudine per questo tipo di occupazioni e per l’altra musica […] … quando s’abbia un siffatto sistema educativo e si sia ragunata [III,222,30] da più parti molta e nobile industria così che sia strettamente imparentato alla natura e l’abbracci, esso non lascia più spazio a coloro che gli oppongono che non ci sarà ciò che lo accetta, a motivo dei caratteri e delle posizioni …

SVF III [DB], 61

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 11 Kemke. … ammettere [III,222,35] insieme a lui che per alcune cose c’è bisogno di una sensazione spontanea, per altre c’è bisogno di una conoscenza scientifica. Gli oggetti caldi e freddi richiedono la sensazione spontanea, ciò ch’è acconcio e ciò che non è acconcio la conoscenza scientifica; la quale è diversa ma è a quest’altra [III,223,1] connessa e ne ha, per di più, la comprensione. È attraverso la conoscenza scientifica che noi accogliamo il piacevole che segue dappresso ciascun oggetto sensibilmente percepito, il piacevole o lo spiacevole, giacché essa non è per tutti la stessa. Laddove infatti due sensazioni si mescolino, esse possono essere in armonia circa il loro oggetto: per esempio, qualcosa di aspro [III,223,5] ed amaro; ma possono evidentemente essere in disarmonia circa il piacevole o lo spiacevole che ne conseguono.

[2] Lib. IV, p. 62 Kemke. … e poi … l’afferrare le qualità degli oggetti di cui si occupano e l’afferrare il piacevole e [III,223,10] il seccante che da essi provengono, avviene ad opera di facoltà diverse in relazione alla sensazione: la prima ad opera della sensazione spontanea, la seconda ad opera della conoscenza scientifica. La qualità di qualcosa è infatti determinata da una facoltà che è di per sé spontanea e irrazionale, mentre la relazione che quel qualcosa ha con noi, e che è piuttosto determinata dalla conoscenza scientifica, non contraddice l’evidenza e non è mendace sulle cose più a portata di mano? La cosa che egli afferma essere evidente è che la conoscenza scientifica è stata assunta per essere in armonia con la ragione e con quanto di simile è in armonia con la ragione. [III,223,15] Infatti, non è vero che le sensazioni similari per disposizione siano in accordo sul fatto che un oggetto è aspro e però in disarmonia se l’oggetto è fastidioso oppure delizioso, ma danno lo stesso identico verdetto. A fronte però di certe predisposizioni è fattibile che su questi oggetti avvengano sensazioni immediate diverse, ma nel caso degli uditi [III,223,20] non vi è assolutamente differenza alcuna e tutti gli uditi fanno appercezioni simili di melodie simili e ne prendono piaceri similari; di modo che, quanto all’armonico e al cromatico, gli uditi differiscono non per la sensazione immediata, che è irrazionale, ma per le opinioni che se ne fanno gli ascoltatori. Infatti alcuni di questi, in quanto se ne sentono mossi, sono dell’avviso che una musica sia solenne, [III,223,25] nobile, schietta, pura e che un’altra invece sia priva di virilità, importuna, non libera. Altri poi … e altri ancora … Cose analoghe accadono anche per i ritmi e le composizioni musicali; ed è manifesto che la musica, anche se in generale si trova congiunta ad essa una straordinaria varietà di forme, non farà mai in alcun caso palesamenti di carattere etico né muoverà [III,223,30] altrimenti gli uditi di altre persone dalle loro disposizioni, in quanto gli uditi sono istituiti immutabili. Per questo, il musico che ricerca quell’intelligente comprensione che gli permetterà di vagliare quali sensazioni potranno essere indotte nell’ascoltatore e come, sta cercando la scienza di ciò che non esiste, e trasmette invano ai posteri i suoi sforzi a questo fine.

SVF III [DB], 62

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 12 Kemke. [III,223,35] … giacché la musica può svegliare un animo immoto e calmo, e condurlo ad una disposizione tale da poter essere per natura mosso [III,224,1] dalla melodia conveniente. Non tutti saranno però mossi in modo simile dalla stessa melodia; ed essa o lo muove al contrario, cioè da una condizione di agitazione e di trasporto ad una che ammansisce e ricostituisce l’animo alla calma; oppure lo smuove e lo distoglie da un impulso per dirigerlo verso un altro; oppure ancora conduce la sua esistente disposizione [III,224,5] ad un aumento o ad un decremento.

[2] Lib. IV, p. 65 Kemke. Peraltro, nessuna composizione musicale in quanto tale, dal momento che è qualcosa di irrazionale, sveglia l’animo dal suo stato di immobilità e di calma conducendolo ad una disposizione eticamente secondo natura, né da una disposizione di agitazione e di trasporto ad una che ammansisce e ricostituisce l’animo alla calma; [III,224,10] né è capace di distoglierlo da un impulso per dirigerlo verso un altro e neppure di condurre la disposizione esistente ad un aumento o ad una diminuzione.

SVF III [DB], 63

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 12 Kemke. … in generale … ogni musica … se qualcosa di imitativo …

[2] Lib. IV, p. 65 Kemke. … la musica non ha qualcosa di imitativo, come [III,224,15] sognano alcuni, né, come sogna costui, ha in sé i modelli dei caratteri umani e non dà a vedere con ogni evidenza tutte queste qualità dei caratteri: il maestoso e il miserabile, il mascolino e il non virile, il composto e lo sfrontato, più di quanto faccia l’arte culinaria. Perciò i suoni non sono di per sé dissonanti, neppure [III,224,20] nel mescolarsi tra di loro; né è possibile creare mediante le armonie disposizioni opposte le une alle altre per quanto attiene alle sensazioni immediate relative all’udito. Ciò che egli poi dice contro … movimento, lo vedremo in altro luogo.

SVF III [DB], 64

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 12 Kemke. Nel terzo libro egli ha parlato [III,224,25] più a lungo e soprattutto del carattere divino della musica, non in modo dimostrativo ma storico ed esegetico. Basterà compendiare la ricapitolazione. Egli afferma che la musica seria e secondo la legge è stata composta in primo luogo a motivo dell’onore cui siamo tenuti verso la divinità e, in secondo luogo, per l’educazione dei liberi cittadini. Che essa sia stata composta per onorare [III,224,30] ‘la divinità’ (to thèion), lo significano anche i nomi: ‘vedere uno spettacolo’ (theorèin), ‘spettatore’ (theatès), ‘teatro’ (thèatron).

[2] Lib. IV, p. 66 Kemke. Circa l’onore del divino attraverso le musiche è stato detto a sufficienza anche in precedenza […] Perciò egli neppure conclude che la musica sia proficua ai privati ma [III,224,35] semmai allo Stato. E proficua allo Stato, neppure ogni forma di essa; né quanto a volte s’ascolta sotto forme variamente ornate, ma nella forma più disadorna; e non da tutti i Greci ma soltanto da alcuni, in taluni tempi adatti e oggi anche attraverso uomini assoldati a questo scopo. […] [III,225,1] Ma anche anticamente la maggior parte delle offerte in onore degli dei dell’Olimpo non era di canti lirici e di accompagnamenti musicali, né del vedere uno spettacolo o dell’essere spettatore o del teatro; e anzi si potrebbe affermare che ‘vedere uno spettacolo’ (theorèin), ‘spettatore’ (theatès), ‘teatro’ (thèatron) sono stati chiamati così dal ‘correre’ (thèin), [III,225,5] giacché nessuno di essi ha a che vedere con il divino (thèion) più che con il correre (thèin). E si può concludere che gli spettacoli sono stati adottati a motivo dell’onore da rendere agli dei; ma non la musica, che è cosa riguardante l’udito; e che piuttosto gli spettacoli sono così designati dal vedere con gli occhi e comprendere con l’intelletto.

SVF III [DB], 65

Filodemo ‘De musica’ p. 67 Kemke. Si è già parlato quanto basta [III,225,10] circa l’educazione attraverso la musica. Circa gli encomi noi vogliamo dire questo: ossia che essi nacquero dai poemi, ma non da quelli in relazione con la musica che è stata ora indagata. Per i matrimoni si assumono cuochi e pasticcieri; ma sono i poemi, e non la musica, quelli che procurano [III,225,15] negli imenei l’utilità di cui lui parla. La primizia di questo genere di poemi è un componimento breve e nacque presso alcuni poeti, non tutti, e poeti sposati, non anche presso gli altri; ammettendo che lo sposarsi si possa davvero chiamare semplicemente un bene. […] invero la passione erotica non è sacrosanta, ma […] anche da costui è detta essere portatrice di sconcerto. Le cose [III,225,20] che egli dice avvenire non sono portate a compimento grazie alla musica ma ad opera dei poemi, e la passione amorosa non è aiutata dalla musica o dalla poesia ma è fatta ardere nella maggior parte dei casi da moltissimi fattori. E le cose che costui dice avvenire nelle relazioni amorose trovano riscontro sia nell’una che nell’altra, tanto quando il discorso è sospeso che in tutti gli altri casi. Quanto ai lamenti funebri, essi sono [III,225,25] poemi a tutti i quali è avvenuto di non medicare l’afflizione e qualche volta di alleviarla, ma molte volte di intensificarla. Invero gli scrittori di lamenti funebri fanno a gara per ottenere questo effetto, e da questi poemi non seguono affetti positivi e decoro, in quanto provocano all’eccesso opposto; e la musica non è compatibile [III,225,30] con questo carattere.

SVF III [DB], 66

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 14 Kemke. … le cadenze, quella attinente alle attività guerresche e quella attinente alle attività ginniche e atletiche, anticamente di più, ora di meno. Nel caso delle attività guerresche anche adesso [III,225,35] la maggior parte dei Greci usa le cadenze suonate dalla tromba, ma alcuni usano anche quella suonata dai flauti. Nel caso degli esercizi atletici, se ne dà segno con la tromba suonando di solito una qualunque cadenza guerresca. Nel caso delle gare di pentathlon, per il salto e la doppia corsa, la cadenza è stata fatta per flauto; e per la pantomima [III,226,1] del pugilato a vuoto si suona col flauto l’omonima melodia. Egli afferma poi che gli Argivi impiegano il flauto anche nel caso della lotta.

[2] Lib. IV, p. 69 Kemke. É stato già scritto a sufficienza anche circa la cooperazione della musica nelle guerre [….] il genere [III,226,5] degli esercizi atletici non è invece trattato accuratamente, e noi intendiamo fare ricerche sulla sua proficuità per ciascuno…

SVF III [DB], 67

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 14 Kemke. La musica è stata introdotta anche nelle danze corali delle gimnopedie e [III,226,10] in queste azioni drammatiche in armi; ed è musica tragica, satirica, comica. La migliore tra queste è la tragica … delle altre due … la satirica.

[2] Lib. IV, p. 70 Kemke. Anche perché, una volta tolta la danza dai drammi, nulla abbiamo in meno, dal momento che essa per nulla coopera [III,226,15] alla bellezza e nobiltà del dramma. E se, per continuare, dei poemi furono composti per le donne, io sono così lontano dal ritenere che dalla musica possa promanare qualcosa di proficuo in direzione della nobiltà di natura, della temperanza e della disciplina, da essere affatto persuaso che il suo insegnamento sia malsicuro e sospetto, in quanto offre molte risorse all’impudenza [III,226,20] e all’indisciplina bacchica; cose che richiamerò alla memoria procedendo nel discorso.

SVF III [DB], 68

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 15 Kemke. … i responsi oracolari… degli argomenti appropriati… il principale…<è che> la composizione musicale è per natura motore ed eccitante all’azione. E quando si favoleggia che Orfeo intenerisce le pietre, egli non muove le pietre ma assiste coloro che faticano a muoverle. [III,226,25] E perciò Tolomeo intima ad Ismenia di suonare sul flauto una musica cadenzata per coloro che non riescono a tirare in mare le navi.

[2] Lib. IV, p. 70 Kemke. Ora, passando ad altro, dico che degli argomenti messi insieme da Diogene il principale è che la composizione musicale sia sempre motore ed eccitante all’azione. Se egli afferma che le composizioni musicali sono state introdotte nel mondo [III,226,30] dalla Prònoia in grazia di questa loro capacità, non è ora il momento opportuno per appurarlo; e se invece noi designiamo il fuoco come qualcosa per natura caustico in quanto ha una natura caustica, ed egli è del parere che sia così anche per la composizione musicale, allora sì, per Zeus, egli mente alla grande. […] Sembra che ad una supposizione così insulsa abbia attirato l’aggiunta di alcuni strumenti musicali ai rematori sulle navi, agli antichi [III,226,35] mietitori, ai vignaioli che lavorano il vino ed a molti altri che compiono lavori faticosi; cosa che costui scrive Tolomeo abbia fatto con coloro che tirano in mare le navi. […] E se pure non dessimo retta al mito secondo cui Orfeo inteneriva persino i sassi e gli alberi per l’eminenza del suo [III,227,1] ben intonato canto, come anche ora siamo soliti dire per iperbole; e invece che assistente ai flautisti delle triremi, come fa il nostro Stoico, lo facessimo analogamente assistente agli edificatori di case; ebbene lo diremo per questo motivo e non a causa [III,227,5] dei vaneggiamenti di costui.

SVF III [DB], 69

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 15 Kemke. … <la musica> non dispone in un certo modo soltanto gli animi ma anche i corpi. Dunque quando un ragazzo suona il flauto eseguendo un’aria musicale, il suo viso…

[2] Lib. IV, p. 72 Kemke. È un’amenità affermare che la musica disponga in un certo modo non soltanto gli animi [III,227,10] ma anche i corpi, come se li tendesse fortemente […] perciò bisognerebbe che egli, dopo avere mostrato che il corpo è già stato disposto prima in un certo modo, all’espressione ‘non soltanto il corpo’ aggiungesse l’espressione più paradossale dicendo ‘dispone in un certo modo anche l’animo’. Ciò nonostante è degno di meraviglia il modo in cui, secondo quanto dice, egli spiega l’espressione ‘anche i corpi’. [III,227,15] Infatti <secondo lui è la musica> a muovere e disporre il viso dei cantanti al modo di chi è atteggiato per l’attività del canto, e dunque è la musica a muovere il corpo, se appunto l’atteggiamento del viso è la musica a produrlo.

SVF III [DB], 70

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 73 Kemke. … che il pittore [III,227,20] centrò la rassomiglianza con l’oggetto che imitava quando risuonò il canto del citaredo. Il centrare questa rassomiglianza non è opera della musica ma piuttosto un successo dell’animo, com’è il caso di coloro che tirano in mare le navi. Questo infatti palesa che essi hanno tratto dalla musica potenza fisica, il che è un fatto somatico. Sicché gli esempi dovrebbero essere integrati aggiungendo che attraverso il pittore la musica muove l’animo, mentre [III,227,25] attraverso coloro che tirano in mare le navi muove i corpi. Altrimenti uno potrebbe molto piacevolmente indagare perché, al sopraggiungere del canto, il pittore dipinse l’oggetto con quella rassomiglianza della quale era incapace in precedenza. Infatti non riteneva certo che la musica ci renda artisti più abili, oppure sarebbe beato di questa intelligente comprensione.

SVF III [DB], 71

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 74 Kemke. A questi [III,227,30] portenti egli aggiunge poi altri prodigi, dicendo che è più atto a muovere l’intelletto razionale il poema cantato che non il mero poema senza canto, e che soltanto … il poema di Cresso, pur non essendo privo di armonia, appare molto più solenne quando gli s’aggiunga la musica; mentre gli inni che si cantano ad Efeso e quelli che si cantano in coro a Sparta non fanno [III,227,35] più un effetto simile una volta che si levi via la musica. Egli ritiene che questo sarebbe bastante a dimostrare che la musica è più atta a muovere certi effetti, senza contare che qualcuno potrà facilmente dirgli che la musica non fa nulla di speciale in vista [III,228,1] della solennità e del palesamento della razionalità se non unicamente addizionare la delizia dell’udito; e qualcun altro dirgli che è a causa del compreso valore degli dei e degli uomini e non a causa della musica che si palesa la riconciliazione con la razionalità; e qualcun altro ancora che forse accade anche questo, [III,228,5] ossia che la comprensione del poema è compromessa dal fatto di essere cantato.

SVF III [DB], 72

[1] Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 75 Kemke. Che un individuo comune ed ineducato creda prova della profittevolezza della musica il suo essere stata tenuta in onore dagli antichi, è perdonabile; ma per una persona educata, [III,228,10] e per di più un filosofo, sarebbe una grande onta. Peraltro … la mantica è stimata dagli Stoici degna d’onore, come miriadi di altre attività che non apprestano bene alcuno; e talune attività di inaudita malvagità e che non sono degne d’onore da parte della filosofia sono state da loro predicate […] Al contrario, degna del massimo onore è la musica, finanche [III,228,15] quella dei conviti. Per chi ritiene che i più siano sempre pazzi e che sia assolutamente impossibile rifuggire dai loro giudizi è doveroso rifiutare la musica, ma questo è non meno doveroso per coloro che quei giudizi rifuggono, a causa della trascuratezza dei posteri al riguardo.

[2] p. 76, 25. … che la musica è stata chiamata così dalle ‘Muse’, alle quali essi riferiscono [III,228,20] ogni forma di educazione e di arte […] e per tutti è necessario prendere …

SVF III [DB], 73

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 76 Kemke. … qualcosa dei poeti … che la musica del bàrbito attutisce gli empiti del cuore; e dicono che essa è ‘voce’ e ‘dolce frutto’ di quando si beve vino nel dopopasto. Questo per dire come [III,228,25] alcune melodie risveglino e tendano l’intelletto alla conversazione ed alla condotta a ciò acconcia.

SVF III [DB], 74

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 77 Kemke. Che quindi la musica sia assunta dagli antichi nel sistema educativo dei fanciulli per abbozzare in essi le virtù, con l’eccezione forse della pietà, è un discorso già fatto. [III,228,30] Circa questa musica, conferita a seconda della specie musicale, noi avremmo ascoltato con piacere da lui quali concezioni abbozzi. Ma io rivolgo la mia ricerca alla musica per gli uomini adulti, e al modo in cui essa agisce allora, come testimoniano i poeti comici. Costoro infatti non sbeffeggiano soltanto l’essere musicalmente istruito e l’essere stato virilmente educato, mentre escludono tutti gli altri dal voto per alzata di mano. [III,228,35] Delle quali cose, l’una può avvenire; mentre l’altra, ossia l’esclusione dal voto, non essendoci mai dei fanciulli e dei giovani a votare, non può mai essere chiamata principalmente così, visto che essi hanno solo un abbozzo della loro futura virtù di uomini. Che cosa bisogna dunque dire del fatto che un filosofo legittimi come dimostrazioni le esternazioni dei buffoni ritenendoli più degni di fede di se stesso? […] Allora è giusto che [III,229,1] siano stati condannati e che siano diventati malvagi i filosofi di allora e tutti gli altri che i poeti comici castigarono.

SVF III [DB], 75

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 78 Kemke. Lasciando dunque alle spalle quanto detto circa la temperanza e la virilità, [III,229,5] che è un discorso già fatto, passiamo a quanto egli dice dell’amore. In primo luogo è oltremodo ridicolo il legittimare l’esistenza di una virtù amorosa quando il desiderio erotico è invece un gran male e quando tutti i Greci lo pensano tale. In secondo luogo il reputare che i canti cooperino alla retta condotta dell’amore, quando il canto sta tutto e soltanto nella [III,229,10] qualità della voce; e quando l’amore sta tutto nel discorso che insegna la matteria, la dannosità, l’isaziabilità di quella passione che per natura coopera a soffiare sul fuoco e ad esacerbare fino alla demenza […] e da non vedere quante risorse ha dato all’indisciplina e all’impudenza…

[III,229,15]

SVF III [DB], 76

[1] Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, Col. XIII, p. 79 Kemke. … (vari spezzoni intraducibili) … vuole collegare l’amore e Timoteo, a motivo di…

[2] Col. XIV. [III,229,20] … melodie appropriate alle persone per bene e melodie appropriate alle etere non sono possibili per natura e sono tali soltanto per vuote convenzioni. Né costui ha evidenziato esemplari di melodie del genere, ma semmai di pensieri del genere. Senza fornire prova alcuna egli ha infatti tirato in ballo anche la musica, ma non ha dimostrato che Ibico ed Anacreonte e simili poeti rovinino i giovani con la musica bensì, se questo è il caso, attraverso i pensieri espressi nei loro canti; [III,229,25] giacché tutti costoro pronunciavano le parole che usava Saffo e con queste, semmai, facevano di loro dei rammolliti. Poiché il canto è conseguente alla qualità della voce… non può essere… similmente non grazie ai canti ma alle parole e ai pensieri ci si può rendere graditi agli amati, se essi lo consentono. Noi ammetteremo che Aristofane dimostri che gli antichi, come altri d’età precedente, [III,229,30] usano la voce molle e gli occhi per sedursi, ma non i canti. E se egli dicesse che usano i canti, lo manderemmo alla malora. Infatti questi canti non provocano, per quanto sta ad essi, né a ciò che egli tiene invece per indubitabile, né gli uomini e le donne ad accoppiamenti vergognosi, né i giovani nel fior degli anni a fare la parte della femmina. E costui non ha additato, [III,229,35] né i poeti comici additarono, qualcosa del genere nel caso dei canti di Agatone e di Democrito, ma soltanto per le parole che dicono. Neppure Nicandro… fa riscontrare ciò… ma semmai andava errando…

[3] p. 16 Kemke. [III,230,1] … e <questi canti> non provocano né gli uomini e le donne ad accoppiamenti vergognosi, né i giovani nel fior degli anni a fare la parte della femmina… quello che i poeti comici accusano Agatone <di fare>… e Democrito. Nicandro che mostra [III,230,5] di insegnare nei fatti… ma anche…

SVF III [DB], 77

[1] Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 80 Kemke. Invero la musica non può consolare le disfatte amorose. Qualcosa del genere è affare del solo discorso, ma essa ci rende incuranti distraendoci; come fanno i piaceri sessuali e l’ubriachezza. Se egli sceglie di parlare prima dei poemi, conceda che Filosseno, se alludeva [III,230,10] a questo, non mente del tutto, e che neppure Menandro mente quando dice che la musica è per molti un malvagio fomite, per i moventi che sa dare.

[2] p. 16. …ma la musica è capace di consolare le disfatte amorose.

SVF III [DB], 78

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 16 Kemke. [III,230,15] … egli dice che la musica contribuisce in modo conveniente alla virtù amorosa e che una delle Muse si chiama Erato…

[2] Lib. IV, p. 81. Tuttavia io chiedo come mai egli ha detto manifesto e chiamato ‘Erato’ il contributo che la musica, che da lei prende peculiarmente nome, dà alla virtù amorosa, [III,230,20] a preferenza del contributo della poesia oppure, ancora meglio, di quello della filosofia. Pure tutte queste attività sono state infatti dedicate alle Muse… sottoporre, ma non l’azzuffarsi con la passione.

SVF III [DB], 79

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 16 Kemke. … egli è del parere che la musica cooperi anche alla virtù conviviale. Infatti dell’amore e in generale [III,230,25] delle faccende d’amore… (29) … né essere trovato altro svago ed altra educazione più appropriata ad individui liberi che quella di cantare, suonare la cetra e danzare. Altrimenti non s’affetterebbe che il vino provoca:

‘a cantare anche l’uomo più saggio,

e lo fa ridere mollemente e danzare’

E fa [III,230,30] questo…

[2] Lib. IV, p. 81 Kemke. Ma dacché la musica non appare cooperare alla virtù amorosa, è manifesto che essa neppure coopera a quella che egli afferma essere attinente a questa, ossia alla virtù conviviale e, comunemente, dei conviti. Io ritengo che quella chiamata virtù conviviale, non quella [III,230,35] fittiziamente plasmata da costoro, non sia un aspetto della saggezza; che non riguardi i saggi e che, nei conviti, non ponga rimedio a quelle manifestazioni amorose turbolente, sgradevoli e sediziose che ci sono tra i presenti. Tuttavia i poemi di Omero sono lì a significare come si conviene che la musica è appropriata ai conviti. Perciò, una volta concesso che nei conviti [III,231,1] bisogna svagarsi e giocare, non concederò che vi sia per le persone libere altro svago e gioco più appropriato del fatto che uno canti, un altro suoni la cetra e un altro danzi né altre manifestazioni migliori di quelle accompagnate dalla musica cantata, non [III,231,5] da quella dei flauti. Non ammetterò invece che il vino provochi di necessità anche i saggi a fare qualunque cosa, come dice…

[3] col. XVII. … condursi nel canto non in modo stonato ma ben intonato.

SVF III [DB], 80

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 83 Kemke. Egli, come se l’avesse appreso da un oracolo, ha affermato pure questo, ossia che anche le persone comuni scodinzolano di gioia [III,231,10] per il legame di parentela che esiste tra la musica e i conviti, e che esse assumono dei declamatori per i conviti così da non far mancare in essi Omero, Esiodo e gli altri facitori di versi e di canti. Siano pure migliori i conviti che utilizzano le opere di questi poeti; ma allora come mai questi conviti utilizzano meglio la musica se invece vi introducono i facitori di versi e non i musicisti? [III,231,15] E se per il resto della vita, a partire almeno da un certo momento se non proprio per quasi tutta la vita, come ha scritto costui, accettassimo che i musicisti ci apprestino modi assai vari di passarcela nei conviti, pure diremo che la varietà nasce molto di più da eventi ad essi connessi che non dalla musica di per sé…

SVF III [DB], 81

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 17 Kemke. [III,231,20] … peculiarmente il cattivare l’animo… presso quei poeti lirici che hanno proficuamente amato la musica. Non fa male Camaleonte quando segnala che i poeti comici alludono a qualcosa del genere quando parlano dei caratteri usando appellativi legati agli amori e una volta… verso tutti, la peculiare identità di questi.

[2] Lib. IV, p. 83 Kemke. [III,231,25] … scriverebbe che la cattivazione dell’animo peculiarmente… presso i poeti lirici; e diremo che quasi tutti i colori dei pensieri e della musica hanno incontrato un’attenta riflessione da parte di Cameleonte…

SVF III [DB], 82

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 17 Kemke. La musica ha anche qualcosa di [III,231,30] attinente all’amicizia, siccome fu mostrato che tende all’amore e trova ragione nello scopo di questo. Inoltre è fatta anche per i conviti ed il loro scopo, che appare essere nuovamente una festevole amabilità. E se tende verso questa, tende anche all’amicizia. In altro modo si può dire che placa ed esilara l’animo.

[2] Lib. IV, p. 84 Kemke. [III,231,35] Invece noi diciamo nuovamente che siccome non troviamo nella musica alcuna proficuità per l’amore, essa neppure potrebbe relazionarsi familiarmente con l’amicizia.

[3] Col. XVIII. Una volta concesso che la musica è acconcia ai conviti, [III,232,1] dato che noi non poniamo quale unico loro fine una festevole amabilità, ma anche altri fini, come ad esempio il piacere; non ammetteremo che la musica sia proficua alla festevole amabilità, e dunque neppure all’amicizia […] né la musica placa ed esilara gli animi, ma lo fanno i pensieri che s’intrecciano in essi.

[4] Lib. IV, p. 85 Kemke. [III,232,5] Ma quand’anche la musica placasse e rendesse allegri, come fanno la voluttuosa fruizione di bevande, di cibi, ed ogni piacere, noi non concederemmo che essa sia causa di amicizia e di concordia, né che noi ci apriamo all’allegria soprattutto ad opera della musica e non di altre cose.

SVF III [DB], 83

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 85 Kemke. [III,232,10] Non ci riescono accetti gli Spartani quando testimoniano ai mentecatti che una volta ebbero in responso dall’oracolo di Delfi di mandare a chiamare Taleta; e che, una volta giunto lui, la fecero finita con le loro divergenze. Se testimoniano questo, essi vanno soltanto dietro ad altri che hanno inventato antiche storie fittizie e che erano musicisti. Altri, infatti, replicano polemicamente [III,232,15] mostrando che Taleta cialtroneggiava sull’episodio attraverso una tavoletta votiva, se egli davvero la dedicò con l’iscrizione che costoro dicono.

SVF III [DB], 84

[1] Filodemo ‘De musica’, p. 18 Kemke. [III,232,20] … e Terpandro, secondo una profezia … cantando nelle mense pubbliche comuni fece cessare ogni sommossa tra gli Spartani.

[2] Lib. IV, p. 85 Kemke. Neppure ci persuade la storia che Terpandro sia stato chiamato secondo una profezia a sedare una guerra civile. Ed anche se [III,232,25] moltissimi musicomani sono d’accordo su questo, Diogene di Babilonia è quasi il solo a far cantare Terpandro nelle mense pubbliche comuni. Invero converrebbe che i filosofi delineassero in quale modo delle composizioni musicali che nulla hanno a che fare con la ragione possano far cessare delle differenze basate sulla ragione, persuadendoci in questo modo che anche le musiche di Taleta e di Terpandro hanno fatto cessare le guerre civili tra gli Spartani.

[III,232,30]

SVF III [DB], 85

[1] Filodemo ‘De musica’, p. 18 Kemke. Di Stesicoro la storia racconta che i cittadini si erano già schierati a battaglia gli uni contro gli altri quando egli si pose in mezzo a loro, cantò un richiamo alla concordia e, così riconciliati grazie alla musica, li restituì alla calma. Né Pindaro [III,232,35] ha scritto:

‘uno che porta il bel tempo nella comunità dei cittadini’

per qualche altro motivo; e ciò vale anche per il canto di Sofocle negli ‘Epigoni’.

[2] Lib. IV, p. 87 Kemke. Ma anche la storia che si riferisce a Stesicoro non è raccontata con precisione, e non sappiamo se la lirica di Pindaro fece cessare le divergenze. […] Circa il canto tratto dagli ‘Epigoni’ noi sottoscriviamo un’altra interpretazione [III,233,1] non meno persuasiva. Ed anche se la pensiamo come costui, il canto deve essere lasciato con il significato datogli da Sofocle.

SVF III [DB], 86

[1] Filodemo ‘De musica’, p. 19 Kemke. … disporre ordinatamente le composizioni musicali in modo che esse non solo abbiano in comune qualcosa di attinente all’onore per gli dei, [III,233,5] ma siano una diversa dall’altra in relazione alle differenze delle singole divinità.

[2] Lib. IV, p. 88 Kemke. … sicché cambiamo discorso e parliamo di ciò che egli scrive circa la pietà religiosa. Ora, se noi crederemo che la musica attenga alla pietà religiosa in grazia del fatto che la divinità è onorata attraverso la musica dalla maggior parte degli uomini, allora crederemo che la stessa cosa sia vera anche per l’arte culinaria […] Conseguirebbe [III,233,10] inoltre ai giudizi di questo filosofo che la musica non ha alcuna attinenza con la pietà religiosa, dal momento che attraverso di essa neppure una sola divinità viene onorata in quanto, secondo gli Stoici, i più degli uomini sono nemici personali degli dei, sono dei dissennati che non si sono mai aggirati neanche in sogno tra gli onori veri da rendere agli dei possenti […] E che se Pindaro riteneva così quando affermava di fare un ditirambo per offrire un sacrificio agli dei, allora ritiene così [III,233,15] anche il poeta comico quando dispone ordinatamente le composizioni musicali attinenti a ciascuno degli dei […] a meno che Diogene non sia convinto che ciascuna differente divinità ammette per sé delle composizioni musicali differenti e che a ciascuna si confà la propria particolare.

SVF III [DB], 87

[1] Filodemo ‘De musica’, p. 19 Kemke. Egli dice che la musica è profittevole per l’intelligente comprensione della realtà e che nella scienza dell’armonia vi sono molte definizioni, suddivisioni, [III,233,20] dimostrazioni; e in un altro senso … una certa teoria …

[2] Lib. IV, p. 89 Kemke. Perché stupirsi degli altri giudizi di costui? Egli crede che la musica sia profittevole per l’intelligente comprensione della realtà per il fatto che nella teoria musicale esistono molte definizioni, suddivisioni e dimostrazioni; così come crede che i musicisti [III,233,25] suddivisero e definirono qualcosa di questi argomenti teorici unicamente, perché sbagliato se fatto altrimenti, al modo in cui si raggiunge una conclusione discutendo dialetticamente, dal momento che le loro esecuzioni in pubblico non sono fatte senza intelligenza ed in modo risibile […] E se dice che dalla saggezza viene l’intelligente comprensione, non riuscirà a dimostrare che le conoscenze dei musicisti cooperino ad essa più di quanto non vi cooperino le [III,233,30] conoscenze esatte degli altri…

SVF III [DB], 88

[1] Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 90 Kemke. Quando dice che i musicofili posseggono una conoscenza teorica similare a quella critica, egli non soltanto ignora quanto la loro teoria critica lasci a desiderare nella conoscenza di ciò ch’è confacente e non confacente, di ciò ch’è bello e di ciò ch’è brutto in fatto di composizioni musicali e di ritmi; [III,233,35] ma anche che, se qualcosa del genere fosse vero, egli verrebbe a togliere la determinazione su tutto ciò ai filosofi. E se fosse dell’avviso che la musica è dotata di qualcosa di similare, egli ignora pure, per Zeus, che concederebbe il verdetto critico non più ai filosofi ma ai cosiddetti ‘critici’ musicali. E se scrivesse che la musica è analoga alla poesia quanto ad imitazione e quanto al resto dell’invenzione, [III,234,1] non sarebbe però riuscito a dimostrare il punto per quanto riguarda l’imitazione; né, circa l’invenzione, sarebbe riuscito a dimostrare che ciò valga per la musica più che per le altre arti. Tuttavia, quanto all’essere composta e all’essere eseguita, la musica sia pure similare alla poesia e alla grammatica. Cosa bisogna infatti pregiare…

[2] p. 92. [III,234,5] Tuttavia Diogene afferma che se noi capiamo a fondo gli scritti di Eraclide sulla composizione musicale confacente e non confacente, sui caratteri maschi e su quelli rammolliti, sugli accompagnamenti musicali acconci e non acconci ai personaggi sottostanti, la critica musicale non sarà più ritenuta di gran lunga sconnessa dalla filosofia, giacché la musica e l’arte richiesta nel lavorarla [III,234,10] sono proficue per moltissime cose che hanno a che fare con la vita e ci dispongono in un modo che è attinente alla maggioranza delle virtù, o meglio ancora a tutte. Essendo queste cose pubblicate nel terzo libro degli ‘Appunti’ <di Eraclide> […] insieme a cose congeneri dette da altri […] noi abbiamo additato di quanti vaneggiamenti esse traboccano.

[3] Filodemo ‘De musica’, p. 19 Kemke. … chi capisce a fondo alcune [III,234,15] delle cose dette <negli scritti di Eraclide> sulla composizione musicale confacente e non confacente, sui caratteri maschi e su quelli rammolliti, sugli accompagnamenti musicali acconci e non acconci ai personaggi sottostanti, tutte cose che ammissibilmente non sono lontanissime dal filosofare […][III,234,20] è sotto gli occhi di tutti che la musica è proficua per tutti gli aspetti della vita e che l’arte richiesta nel lavorarla può disporci in un modo che è attinente alla maggioranza delle virtù; anzi, egli reputa, a tutte.

SVF III [DB], 89

Filodemo ‘De musica’, p. 20 Kemke. Dai fatti citati negli scritti di Dicearco, uno potrebbe prendere quanti argomenti vuole [III,234,25] a favore dell’ipotesi che egli presenta, ossia che gli antichi ritenevano che il cantore fosse anche un saggio, come è manifesto nel caso del cantore che fu lasciato <da Agamennone> presso Clitemnestra … dicono riconoscere … chi ascoltasse queste cose … i più concordano … sul fatto che, oltre alle sua altre capacità, la composizione musicale ha anche quella di far cessare guerre civili e sommosse, come [III,234,30] appare nel caso di esseri umani e di animali che si rabboniscono. Perciò Archiloco dice:

‘qualunque cos’è ammaliata dai canti’.

Presso i Carii, qualora nasca del trambusto nelle assemblee, alcuni cominciano ad intonare canti dolcissimi, poi il canto si propaga ad altri e infine a tutti quanti; e così si discioglie l’oggetto della contesa. Poi…

SVF III [DB], 90

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 105 Kemke. [III,234,35] Nessuna divinità fu inventrice della musica né trasmise la musica agli uomini, ma essi la impararono gradualmente come prima abbiamo esplicato. Nessuna persona dotata di pietà religiosa [III,235,1] legittima l’identificazione di Ermes con la ragione, di Atena con la saggezza e delle discipline scientifiche alle quali si viene educati con le Muse. Se la ragione o il ragionamento ci ha arrecato la musica, non per questo essa è proficua; giacché ragione e ragionamento ci hanno anche arrecato cose pessime. E se essi sollecitano di rinchiudere nella musica la ragione, la saggezza e le discipline scientifiche alle quali si viene educati, [III,235,5] ne dicano i motivi.

Frammenti ‘Sulla Retorica’

Frammenti n. 91-126

SVF III [DB], 91

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 329 Sudhaus. <Egli afferma che la retorica> può lodare il regime di vita che vogliamo; e poi al contrario, se così ci sembri, l’identico regime di vita denigrare. Sicché il discorso può persuadere chi vuole stare in salute [III,235,10] che i regimi di vita di cui parliamo noi sono salutari, o almeno più salutari di altri. Un’arte siffatta, egli dice, che lavora a favore di chi fa ricerche in campo medico non sarebbe improficua; anche se nulla conferirebbe alla stare in salute.

SVF III [DB], 92

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 329 Sudhaus. Se al retore [III,235,15] ben poco s’addicono gli obiettivi che appaiono conformi ad un’opinione veritiera, sarebbe però insulso contrapporre che gli s’addicono quelli conformi ad opinioni degne di un matto o quelli privi di relazione con cose di per sé evidenti, e pensare che di queste i retori sono completamente a corto. Ma nel trattare il suo obiettivo il retore non sembra applicare il canone preso dalla musica. Gli obiettivi della musica, infatti, non sarebbero [III,235,20] più frivoli di quelli per cui il retore farebbe i suoi ragionamenti, ma questi della musica sono di facile comprensione per tutti…

SVF III [DB], 93

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 332 Sudhaus. … se stessi e … pronti ad imparare non persuadono, ma tutto il loro studio è dedicato alle folle e ai tribunali. Laonde nessuno è sollecito [III,235,25] di cosa dirà a se stesso, né di cosa dirà ad un amico intimo, ad un figlio, ad una moglie. E qualora il processo duri cinque mesi studiano e fanno ogni sforzo per essere persuasivi. Quello, poi, che per vanagloria sta per spendere un talento per soddisfare manie depravate; e dopo di ciò perde pure se stesso o la dote della moglie o del figlio…

SVF III [DB], 94

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 333 Sudhaus. [III,235,30] … come il retore che intende persuadere gli Spartani ad attendere il nemico a Maratona. Quando gli fu domandato: “Che argomento hai al riguardo?” rispose: “I nemici conquisteranno il controllo delle gole ed espugneranno le piazzeforti”. “Sei dunque andato a Maratona?” gli chiese uno, e lui rispose “No”. “Ma hai notizie accurate [III,235,35] di questo luogo?”. Poiché quello fece segno di no col capo, uno disse: “Che argomento hai dunque al riguardo, se non sai neppure se gli Spartani sono là?”. Di questa fatta sono i consiglieri [III,236,1] reputati valenti nelle città, ed essi parlano in modo simile a costui.

SVF III [DB], 95

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 333 Sudhaus. I retori in parte professano che formeranno uomini politici proficui per la città e [III,236,5] per gli amici, in parte parlano in difesa della loro arte affermando che essa non è frivola ma che sono i suoi utilizzatori ad usarla in modo frivolo. Sicché è possibile che pur diventati quali devono essere, ossia proficui per la città e per gli amici, tuttavia essi si comportino da retori scriteriati…

[2] p. 334. Nelle città, qualche individuo malvagio [III,236,10] utilizza talora l’arte retorica a casaccio. Ma una volta diventati retori quali si deve, ossia proficui per la città e per gli amici, non è fattibile utilizzare in modo scriteriato coloro che proprio essi retori hanno rettificato, né è fattibile che retori scriteriati, malvagi e venali siano proficui per la città e per gli amici.

SVF III [DB], 96

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 337 Sudhaus. … [III,236,15] e avvocato. In primo luogo, pertanto, si dovrebbe fare attenzione a non eliminare nei più giovani la brama di retorica, ma far sì che essa si intensifichi attraverso le accuse. E quand’anche in pubblico dicano qualcos’altro, essi però ammirano una facoltà così concreta, come quella che si racconta fosse di [III,236,20] Autolico e persone simili.

SVF III [DB], 97

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 344 Sudhaus. […] A coloro che hanno la tempra del filosofo sarebbe ridicolo intimare di andar dietro a ciò cui vanno dietro gli scribacchini, i danzatori, i gabellieri, quelli che vendono il fior degli anni loro. E se intimò di non dare spazio alle parole ma di pretendere [III,236,25] dei risultati, egli rende l’esito ancora più incerto, non essendo dell’avviso che dalle persone comuni …

SVF III [DB], 98

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 344 Sudhaus. […] è che i retori hanno detto l’uno contro l’altro le cose che egli cita; e riterrà segno dell’essere i filosofi persone assolutamente malvagie [III,236,30] gli scritti dell’uno contro l’altro, ancor più in quanto ad alcuni di essi non è sgradito in certi casi il dire pure il falso…

SVF III [DB], 99

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 345 Sudhaus. Né l’arte dei medici sarà stata mostrata inadatta a produrre la salute per il fatto che essi sono vinti da dei profani, dei quali è stato riferito che abbiano scoperto un farmaco capace di curare [III,236,35] uno stato morboso, farmaco che invece i medici ignorano. Non spesso dei distinti retori sono vinti, alla prova dei fatti, da dei profani; e non troppo spesso, ma spesso, [III,237,1] bisogna proprio che stiano zitti, a meno che perdano la voce per una malattia somatica o restino a bocca spalancata a causa di qualche e mozione.

[2] p. 343. … altri retori un poco più cautamente professano la prima opinione, [III,237,5] e pur dopo avere messo per iscritto cose di questo genere non soltanto sono vinti alla prova dei fatti ma sono spesso zittiti dai profani. Nulla è così convincente come la verità e la salda e non erronea perizia dei fatti.

[3] p. 346. … [III,237,10] la salda e non erronea perizia è il contrario non di quella dei retori, ma di quello che professano Diogene e i suoi simili circa il fatto che soltanto il sapiente che sa contraddire è retore. Alcuni hanno infatti … la verità di ciascuno dei retori proficui per la città secondo la storia della…

SVF III [DB], 100

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 346 Sudhaus. […][III,237,15] è opera di Filone il materiale che Demetrio Falereo mise in ordine nel libro ‘Sulla retorica’ e forse sono di Filone le altre sue opere, e anche quelle che riguardano un diverso Filone. Se, infatti, chi sa più di coloro che sanno … meno di coloro che sanno è privato del lavoro a causa del fallimento … [III,237,20] il sapiente del tutto inesperto di cose politiche e il retore cha ha avuto il sommo della perizia … e che può …

SVF III [DB], 101

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 347 Sudhaus. […] che quelli in errore sono più di quelli non nell’errore, e che sono ingannati dalle parole di Diogene e [III,237,25] di gente a lui più o meno similare, e porta in primo piano ciò ch’è atto a far sì che i retori non errino … per lo più persuadere …

SVF III [DB], 102

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 348 Sudhaus. … che i grandi retori del passato hanno vissuto conformemente ad un’intelligente comprensione della politica [III,237,30] ed hanno prodotto la formazione di un importante sistema educativo confacente alla vita nelle città; giacché i retori di oggi …

[2] Col. LIII, 9. S’imbattono nella folla senza imparare mai nulla… né dopo essere diventati famosi per la loro perizia, né giungono alle cariche pubbliche provenendo da qualcosa di ben fatto ma da … [III,237,35] chiacchiere.

[3] Col. LIV. … ed a questo similari, che nulla imparano. [III,238,1] Giacché bisogna avere esperienza e giungere alle cariche pubbliche dopo avere fatto qualcosa di eccellente, e anche tenere in disparte quanti sono privi di perfetta virtù e sono incapaci di dirigere le città. Ma la storia…

SVF III [DB], 103

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 350 Sudhaus. L’affermazione che quanti [III,238,5] hanno cominciato con l’essere capaci di tacere, com’è il caso di Senocrate, siano assolutamente gli unici a saper anche parlare, giacché entrambe le cose sono proprie della stessa persona, facendo attenzione a cosa lo crederemo se non al fatto che Senocrate così si spiegò davanti ad Antipatro e ai membri del Consiglio, come <Demetrio> Falereo racconta nel suo libro ‘Sulla retorica’?

SVF III [DB], 104

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 350 extr. Sudhaus. [III,238,10] … che i più insigni tra i retori operosi in politica, per via della loro palese cooperazione con i filosofi, sono stati da questi guidati, com’è il caso di Pericle, di alcuni altri capi e di Demostene; e che una cosa del genere non è un’offesa, per esempio, se si accostano Alcibiade e [III,238,15] Crizia a Socrate. Quello dei retori è infatti lo stesso materiale <dei filosofi>.

SVF III [DB], 105

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 351 Sudhaus. … non sembra con le armi. Quanto ad esse, nulla che sia stato escogitato e che sia di buona natura si porta verso l’inganno, mentre invece [III,238,20] l’avviamento dei retori alla loro arte ha tutti i suoi principi generali tesi all’inganno; e secondo Eraclito il retore è il capostipite degli abbindolatori.

[2] p. 354, Col. LXII. Quanto ad esse, nulla che sia stato escogitato e che sia di buona natura si porta verso l’inganno, mentre invece l’avviamento dei retori alla loro arte ha tutti i suoi principi generali tesi all’inganno; e secondo Eraclito il retore è il capostipite degli abbindolatori. [III,238,25] Com’è possibile affermare, senza mostrare in dettaglio tutti quei principi generali, che essi tendono all’inganno piuttosto che semplicemente al nulla? Oppure chi potrebbe sostenere per prima cosa ciò, sulla base di quanto sarà detto ed è affermato da parte loro…

[3] p. 355, Col. LXIII. Forse essi probabilmente danno così [III,238,30] a taluni qualche risorsa per ingannare chi li ascolta. “Ma per Zeus, qualcuno dirà, questo, ossia il dare risorse per l’inganno, non è avvenuto con le armi in mano”. Dunque, io affermerò, sarebbe d’uopo dire che questo è avvenuto grazie ai principi generali della retorica, o piuttosto di alcuni, ma che non è vero che tutti i principi generali e l’avviamento alla retorica tendono a questo.

SVF III [DB], 106

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 352 Sudhaus. [III,238,35] Perciò Aristofane li fa rassomigliare ai cinedi.

[2] Col. LIX. Poiché cita … di autori particolarmente degni di fede nello scrivere fedelmente la storia, non di qualcuno ignobile e privo di titoli. Non soltanto [III,239,1] irritavano Alessandro ma anche suo padre … poeta comico … verso i retori … memore delle parole blasfeme; laonde, afferma, non male…

[3] Col. LX. … [III,239,5] ciò nonostante non ci studieremo di sfrondare tutte queste argomentazioni, anche se a causa loro pure noi siamo costretti a dire all’incirca le stesse cose. Chi, infatti, non resterebbe sgomento davanti alla capziosità [III,239,10] di Diogene, che risulta più convincente, secondo loro, del Polo messo in scena da Platone…

[4] Col. LXI. … a sua volta, affermare che quanto è stato detto è simile al dire che nulla impedisce di conoscere il metodo grazie al quale i retori fanno apparire le cose smesse come nuove e il metodo con cui tagliare le borse, non però per usarli [III,239,15] a danno degli uomini ma quando ce ne sia bisogno, è la stessa cosa che non avere nulla da replicare. È infatti possibile usarli contro… e contro…

[5] Col. LXIX, p. 359. Essi proveranno a mostrare che le affermazioni fatte ai danni di Demostene e di Licurgo circa l’affare di Arpalo sono false; [III,239,20] che quanto scrive uno degli storiografi più degni di fede è quello che lui afferma di dire, e si dilungheranno quindi a mostrare che si tratta della cosa assolutamente più equivoca, astiosa e al limite della spudoratezza. Verosimilmente rinnegheranno di avere irritato Alessandro, e molto prima suo padre…

SVF III [DB], 107

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 355 Sudhaus. Invero [III,239,25] un individuo potrebbe avere un soprappiù di oggetti esterni, potenza del corpo, avvenenza e miriadi di altre qualità di cui fare menzione, le quali danno ad alcuni un movente per commettere ingiustizie contro gli uomini, e che però sono tenute in onore in grazia del giovamento che procurano ai più e sono dette cose buone anche da Diogene. Se dunque colui che è effettivamente retore è capace di affrontare la contesa e di tacere…

[2] Col. LXV. [III,239,30] Per questa via qualcuno sarà in grado di dire che gli Stoici, se non tutti i filosofi, possono essere visti come retori e mostrare invece che certi retori sono non filosofi. Anche se costui, paventando puerilmente di essere in futuro sospettato o di andare incontro a critiche, ha applicato questa riserva: “salvo che uno non sia da meno della natura appropriata” … gli [III,239,35] uomini e i discorsi che si fan godere da se stessi…

SVF III [DB], 108

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 357 Sudhaus. … come quando a Sparta se ne accagionava l’apparizione dei retori. Ma molti [III,240,1] malvagi misfatti sono in ogni modo responsabilità degli uomini ed io tralascio il fatto che si avrebbe modo di dimostrare come delle dette calamità siano stati causa e concausa individui che avevano preso impulso dalla filosofia. Invece diventeranno ricchi se diranno che sono i retori ad avere inventato il modo di cambiare le tirannidi in democrazie, i nemici in custodi, [III,240,5] e i maggiori guai in salvezza.

[2] Col. LXVII. … <come è vero che> il genere dei tiranni germogliò in Atene, dove nacquero più retori che tutt’insieme in tutta quanta la terra abitata; similmente può essere vero, per Zeus, che i retori non hanno fatto volgere nessuna città dalla democrazia alla tirannide. Taccio sul fatto che [III,240,10] le cause che … delineò, avverrà che siano comuni a tutte le folle…

SVF III [DB], 109

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 358 Sudhaus. Se Eschine non avesse rimproverato gli Ateniesi perché non impedivano a Demostene, che aveva mandata a picco la Grecia, di dirigerla come quei nocchieri che fanno rovesciare le navi, [III,240,15] diranno poi male che Diogene afferma che “gli Ateniesi non utilizzano i loro stessi retori”.

SVF III [DB], 110

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 359 Sudhaus. Atene ha bandito e condannato a morte dei retori. Se però talune città vietarono loro l’ingresso e non soltanto di svolgere attività politica, [III,240,20] molte grandi città continuarono ad utilizzarli come consiglieri. D’altra parte non tutti i retori, come afferma costui, sono dei millantatori il cui mestiere permanente è l’ardire; giacché, tra di essi, alcuni sono operatori di male mentre altri persuadono, in qualche modo, a cose buone.

SVF III [DB], 111

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 202 Sudhaus. Degli uomini [III,240,25] colmi d’ogni virtù, quali voi affermate dover essere i politici, nessuno, neppure Focione parrebbe potersi chiamare così, lui che pur si diceva fosse salvatore del popolo con i suoi discorsi. Ma secondo Diogene neppure lui sarebbe colmo d’ogni virtù.

SVF III [DB], 112

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 203 Sudhaus. …. qualora vengano all’attività politica non in grazia del bene operare … [III,240,30] come se facesse dei discorsi nell’isolamento dei deserti della Scizia, così scrive … siano pretermesse le altre considerazioni, dal momento che abbiamo spiegato in precedenza la ragione per cui non è in grazia del bene operare che bisogna venire all’attività politica … quello pensato dagli Stoici non ci fu, non c’è e non ci sarà [III,240,35] mai…

SVF III [DB], 113

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 204 Sudhaus. … dopo di che egli ha aggiunto qualcosa di davvero incredibile: “È manifesto che <i retori> non partecipano di siffatte conoscenze scientifiche, non vi spendono tempo né denaro, non reggono [III,241,1] l’impegno richiesto da esse e non si pongono mai al disotto di coloro che fanno professione di conoscenze del genere ”.

SVF III [DB], 114

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 207 Sudhaus. È proprio di persone che trovano gratificazione nell’amarezza e nella capziosità essere dell’avviso che i retori appaiono gente che ha passato la vita [III,241,5] a far processare altri e a subire processi. Che dei retori insigni abbiano a volte fatto processare altri e abbiano essi stessi subito processi lo abbiamo già assunto come vero, e del resto la vita del politico suole comportare sia il subire che l’effettuare cose del genere…

SVF III [DB], 115

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 208 Sudhaus. [III,241,10] Se il solo Diogene ha riferito che nessuno dei retori va preso per un uomo d’azione, che essi parlano tutto il tempo per ingraziarsi il popolo perorando la concessione di posti gratuiti agli spettacoli o la spartizione in qualche altro modo di fondi pubblici; allora forse sono meglio informati coloro che nulla hanno mai riferito dei fatti che riguardano [III,241,15] i retori. Che taluni retori siano stati persone del genere e che però molti abbiano anche dato consigli pratici, che abbiano avuto un intelletto particolarmente forte, che si siano interessati di affari cittadini con molta libertà di parola, che abbiano guerreggiato contro coloro che peroravano la distribuzione dei fondi pubblici, noi opineremmo che le storie ce lo testimonino.

SVF III [DB], 116

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 209 Sudhaus. [III,241,20] Di seguito a queste parole egli dice: “Bisogna che il politico sia all’altezza di ricoprire le cariche pubbliche, cosa che il retore non è capace di fare”.

[2] Col. VII, 7. Il politico, nel significato più proprio della parola, non è però colui che estende la sua funzione fino a quella di chi è capace di comandare l’esercito [III,241,25] o la flotta.

SVF III [DB], 117

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 210 Sudhaus. Inoltre egli afferma in modo risibile: “La retorica non può vantare diritti su ogni politico … sul dare consigli in privato e alle città … il sapiente occupa tutte quante le cariche [III,241,30] della città … non solo … se la saggezza … non solo è buon dialettico, grammatico, poeta e retore, ma il virtuoso è diventato capace di operare perfettamente con metodo in tutte le arti ed anche in vista dell’utile delle città; e dunque non è soltanto concittadino degli Ateniesi e degli Spartani, [III,241,35] giacché una politica e una legge degli stolti non esiste. Invece, nel sistema formato da dei e da sapienti si dice che il saggio sia re, [III,242,1] stratega delle forze per terra e per mare, tesoriere, esattore, e che sappia amministrare a modo le altre cariche pubbliche, dal momento che il politico deve per necessità avere scienza anche di queste cose”.

SVF III [DB], 118

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 214 Sudhaus. [III,242,5] Della retorica, alcuni tagliano via la parte deliberativa, altri quella giudiziaria, altri quella esperta delle cariche pubbliche; come accade per la medicina, per la pittura e per le altre arti. E poiché i seguaci di Demostene e di Demade si sono prodigati sulla forma deliberativa e giudiziaria [III,242,10] della retorica, è verosimile che dagli Ateniesi non sia data loro fiducia per la parte della quale non ebbero perizia.

SVF III [DB], 119

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 216 Sudhaus. La retorica coopera al ben fare ambascerie. “Gli Spartani, egli afferma, pur dileggiando la retorica, in occasione di abboccamenti diplomatici [III,242,15] sanno ottenere tutti i risultati che vogliono”. In primo luogo uno non concederà che gli Spartani sappiano ottenere tutti i risultati che vogliono in occasione di abboccamenti diplomatici e poi dirà che non sanno ben fare ambascerie; e che non le sanno ben fare per questo motivo, ossia perché non sono stati solleciti di studiare la retorica, il che è proprio ciò che Diogene, parlando a vanvera, mette in giro. E se uno [III,242,20] conviene sul fatto che gli Spartani, nelle ambascerie, centrano i loro scopi, come può costui dimostrare che essi siano così inesperti di retorica da dileggiarla?…

SVF III [DB], 120

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 218 Sudhaus. Se per questo motivo egli afferma che la politica non è affatto retorica, [III,242,25] dal momento che alcuni che sono non-retori sono però buoni ambasciatori; come mai ha poi tirato fuori che la retorica non sia anche politica?

SVF III [DB], 121

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 218 Sudhaus. “Ma, per Zeus, in quanto amanti della retorica gli Ateniesi s’offendono per le circonlocuzioni che cozzano contro l’arte e la dottrina della retorica”. [III,242,30] Ora, è ridicolo dire che gli Ateniesi s’offendono per queste cose…

SVF III [DB], 122

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 220 Sudhaus. Ma vi sono filosofi che hanno l’abitudine di dire soltanto chiacchiere, come capita a te ed a Critolao. Ascolta uno che parla chiaro: “La perizia dei retori politici, [III,242,35] il cui punto principale sta nel mirare alla tempestività, insegna molte volte a distendersi in lunghi discorsi, molte volte a dire solo qualche parola e molte volte a neppure aprire bocca”. Dunque, chi elimina <dalla politica> gli insegnamenti trasmessi soprattutto dalla scienza e dalla perizia della retorica, [III,243,1] a causa del fatto che alcuni falliscono il bersaglio, è una persona ridicola…

SVF III [DB], 123

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 220, 25 Sudhaus. “Ma se essi possono sciogliere i conflitti tra le città e farle diventare alleate, come mai non sono capaci di far riconciliare [III,243,5] una moglie che alterca col marito o un amante con l’amato, e come … amicizia? La perizia richiesta per rappacificare una persona con un’altra e le folle, è identica a quella necessaria per accordare una lira con un’altra e molte lire tra di loro”.

SVF III [DB], 124

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 224 Sudhaus. [III,243,10] “Ma per Zeus, egli dice, non si ricorda uno solo di costoro che abbia fatto un’ambasceria utile alla patria”.

[2] p. 225. “Non uno di costoro, egli dice, è passato alla storia come buon cittadino”.

[3] Col. XX. [III,243,15] … oratore politico di un cittadino … io dirò che non soltanto dei retori ma anche non pochi degli abitanti in città, digiuni di filosofia, sono diventati uomini politici. Tutti gli stolti, infatti, sono individui meschini, neppure uno di essi è probo, coltivato, amante della patria, né possiede le altre virtù popolarmente conosciute, per non parlare delle virtù perfette. [III,243,20] Qualora siffatte virtù siano state fornite o dalla natura o dal sistema educativo, insieme a ciò sarà dato che alcuni possono diventare oratori politici anche se digiuni di filosofia. Sicché come non sarà oratore politico un retore digiuno di filosofia?

SVF III [DB], 125

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 226 Sudhaus. “Laonde [III,243,25] noi diciamo che il retore senza filosofia non s’applicherà bene all’utile della patria, pur se avrà perizia” […] Tuttavia Pericle, che egli afferma essere stato il più intollerabile dei retori, poiché ascoltò le lezioni di Anassagora e di alcuni altri, è da lui equiparato ai filosofi, filosofi per nulla Stoici ma che avevano opinioni opposte [III,243,30] sulla natura del tutto. Per Diogene, soltanto la scuola Stoica fa buoni cittadini…

SVF III [DB], 126

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 228 Sudhaus. … di Zenone, di Cleante, di Crisippo e di tutti quelli come loro. Ma non è d’uopo andar oltre dietro ai discorsi di Diogene, giacché egli non pare scrivere qualcosa di esatto né…

[III,244,1] 3. Antipatro di Tarso

Frammenti n. 1-15

SVF III [AT], 1

Strabone ‘Geographia’ XIV, p. 674. Uomini che sono nati a Tarso. Degli Stoici: Antipatro, Archedemo, Nestore e i due Atenodoro…

SVF III [AT], 2

Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 3 (Dox. Gr. p. 600). [III,244,5] Diogene di Babilonia, dopo essere stato uditore di Crisippo, fu maestro di Antipatro. Posidonio fu poi discepolo di Antipatro.

SVF III [AT], 3

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ V, 107. In verità quanto differisce l’esilio […] da una perpetua peregrinazione? Nell’esilio consumarono i loro migliori anni filosofi nobilissimi come […] Zenone, Cleante, [III,244,10] Crisippo, Antipatro […] che una volta emigrati non fecero mai più ritorno in patria.

SVF III [AT], 4

Cicerone ‘Academica’ I, apud Nonium p. 65, 11. Perché Antipatro lotta ai ferri corti contro Carneade in tanti volumi?

SVF III [AT], 5

Plutarco ‘De garrulitate’ p. 514d. Lo Stoico Antipatro, [III,244,15] come sembra, non potendo né volendo venire ad uno scontro con Carneade, il quale portava attacchi di grande violenza contro la Stoa, per il fatto di scrivere e riempire interi libri di repliche polemiche contro di lui fu soprannominato ‘penna urlante’.

SVF III [AT], 6

[1] Strabone ‘Geografia’ XIV, p. 679. […] ricorda il filosofo Antipatro, [III,244,20] nativo di Tarso.

[2] Cicerone ‘Academica’ II, 143. Perché? E due principi della dialettica, Antipatro e Archedemo, insuperabili opinionisti, non dissentono su molte questioni?

[3] Numenio presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XIV, 8, 10. Ogni pensamento di Carneade, [III,244,25] e mai un qualunque pensamento diverso, aveva la meglio; giacché coloro contro i quali egli polemizzava gli erano molto inferiori per capacità oratoria. Dunque il suo contemporaneo Antipatro, intenzionato com’era a lottare scrivendo qualcosa contro i ragionamenti di Carneade che gli erano riportati quotidianamente, non li rese però mai pubblici, né nel corso di diatribe né discorrendo nei portici; e mai aprì bocca per dire, [III,244,30] né alcuno mai udì da lui in proposito, si racconta, una sola sillaba. Egli andava invece stendendo delle repliche scritte e, preso un angolino, lasciò dietro di sé libri scritti per i posteri; libri che, se adesso sono inefficaci, ancor di più lo erano allora contro un uomo, cioè Carneade, che alle persone di quel tempo apparve immensamente grande [III,245,1] e che godette di tale fama. Eppure ugualmente anche Antipatro, quando si rimescolava agli altri sulla spinta della Stoica ambizione per gli onori, con i suoi compagni in segreto ammetteva la verità e dichiarava quello che anche chiunque altro avrebbe dichiarato.

SVF III [AT], 7

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ IV, 64. [III,245,5] Quando Carneade apprese che Antipatro era morto dopo avere bevuto del veleno, se ne sentì incitato ad una intrepido commiato dalla vita e disse: “Datelo anche a me”. Ma quando gli chiesero: “Che cosa?”, rispose: “Vino con miele”.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ IV, 52, 19, p. 1078 Hense. Quando Antipatro, ormai vecchio, si suicidò, [III,245,10] Carneade mescé due calici, uno di cicuta e uno di vino con miele. E mentre diceva agli altri Stoici di fare un brindisi con quello di cicuta tracannò quello di vino con miele, prendendosi gioco della premura di coloro che s’eclissano deliberatamente dalla vita.

SVF III [AT], 8

Cicerone ‘De finibus’ I, 6. Del resto quale aspetto dello Stoicismo è stato trascurato da Crisippo? E tuttavia leggiamo Diogene, [III,245,15] Antipatro.

SVF III [AT], 9

[1] Epitteto ‘Diatribe’ III, 2, 13. … se hai letto Crisippo od Antipatro. Se poi hai letto anche Archedemo, allora hai proprio tutto!

[2] III, 21, 7. “Eppure vi commenterò i testi di Crisippo come nessuno; dissolverò l’elocuzione in formule purissime addizionando in qualche dove anche [III,245,20] la profusione di Antipatro e di Archedemo”.

SVF III [AT], 10

Epitteto ‘Diatribe’ II, 17, 40. Se no, non saremo vicino a profittarne neppure se discuteremo tutte le Introduzioni e tutti i Trattati di Crisippo dopo quelli di Antipatro e di Archedemo.

SVF III [AT], 11

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. LIII. …. è stato discepolo e fu successore [III,245,25] di Antipatro a capo della scuola… Dardano, figlio di Andromaco, ateniese; e questo… Apollodoro di Atene…

[III,245,30]

SVF III [AT], 12

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. LX. …. E capace com’era di pensare con la propria testa grazie ad una grande attitudine a ciò, non si determinava mai a qualcosa senza averla prima posta al vaglio di Antipatro. Così facendo, fino alla fine non venne meno al discepolato. Col tempo, a causa della vecchiaia, Antipatro non faceva più scuola…

SVF III [AT], 13

Plutarco ‘Vita Tib. Gracchi’ VIII. [III,245,35] Ad incitarlo erano il retore Diofane ed il filosofo Blossio. Di questi, Diofane <era esule da Mitilene>, mentre Blossio era un italiano, nativo di Cuma, [III,246,1] divenuto intimo amico di Antipatro di Tarso a Roma, e da lui onorato con la dedica di vari scritti filosofici.

SVF III [AT], 14

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ V, p. 186c. Una volta che organizzò un convito, il filosofo Antipatro dispose per norma che i partecipanti discorressero di questioni filosofiche aperte.

[2] p. 186a. [III,246,5] In città vi sono circoli filosofici che si richiamano a molti filosofi diversi, e si chiamano ‘circolo dei seguaci di Diogene’, ‘circolo dei seguaci di Antipatro’, ‘circolo dei seguaci di Panezio’.

SVF III [AT], 15

[1] Plutarco ‘De tranq. animi’ p. 469e. Quando fu in fin di vita, passando in rassegna i beni che gli erano capitati non omise [III,246,10] la buona navigazione che aveva fatto dalla Cilicia ad Atene.

[2] ‘Vita Marii’ XLVI. In modo simile, per Zeus, si racconta che quando Antipatro di Tarso fu in fin di vita, passando in rassegna le contingenze beate che gli erano capitate, non dimenticò la buona navigazione dalla sua patria ad Atene, come se riservasse grande gratitudine ad ogni donazione della fortuna amica della probità e la [III,246,15] salvaguardasse nella memoria fino alla fine; memoria della quale nulla è per l’uomo cassaforte più sicura di beni.

*FRAMMENTI DI LOGICA

Frammenti n. 16-31

SVF III [AT], 16

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 55. Secondo gli Stoici la voce è corpo, come affermano Archedemo […] Diogene [III,246,20] e Antipatro […]. Infatti, tutto ciò che fa un’azione è corpo; e la voce fa un’azione quando s’avvicina da chi parla a chi ascolta.

SVF III [AT], 17

Varrone ‘De lingua latina’ VI, 1. In questo libro parlerò di vocaboli indicanti i tempi, designanti azioni o che si dicono di determinati momenti, come ‘siede’, ‘cammina’, ‘parlano’; e se si aggiungerà qualcosa di genere diverso, [III,246,25] ci atterremo alla parentela fra le parole piuttosto che alle critiche cavillose di chi ascolta. Devo queste conoscenze in buona parte a Crisippo e ad Antipatro, e ad altri che se pur inferiori per acume erano loro superiori per cultura letteraria: fra questi Aristofane e Apollodoro. Tutti costoro scrivono che le parole subiscono una declinazione nella quale alcune assumono lettere in più, altre le perdono, [III,246,30] e altre ancora le mutano.

SVF III [AT], 18

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 54. Essi affermano che criterio della verità è la rappresentazione catalettica, cioè quella del realmente esistente, come dicono Crisippo […], Antipatro e Apollodoro.

SVF III [AT], 19

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1057a. [III,246,35] Nelle polemiche contro gli Accademici, sia per Crisippo che per Antipatro la maggior disputa era sulla possibilità di effettuare un’azione o di impellere a qualcosa essendovi inassenzienti; e sul fatto che raccontano favole e fanno vuote ipotesi quanti stimano che, data una rappresentazione [III,247,1] appropriata, vi sia subito l’impulso senza che ad essa noi abbiamo ceduto il passo o abbiamo dato l’assenso.

SVF III [AT], 20

Cicerone ‘Academica’ II, 17. Alcuni filosofi, e di non piccolo calibro, reputavano che si dovesse non fare affatto ciò che noi ora ci accingiamo a fare per confutare gli Accademici, [III,247,5] giacché non ha senso discutere con quanti ritengono che nulla sia dimostrabile. Essi perciò riprovavano lo Stoico Antipatro, il quale aveva speso in ciò molte energie, ed affermavano che non era necessario definire cosa fossero la cognizione o la percezione, o (se vogliamo una traduzione letterale) l’apprensione certa, quella che <gli Stoici> chiamano κατάληψις; giacché quanti volessero [III,247,10] persuadere altri che esiste qualcosa che può essere percepito ed appreso con certezza, agirebbero da ignoranti.

SVF III [AT], 21

[1] Cicerone ‘Academica’ II, 28. Da ciò è nata la richiesta di Ortensio, ossia che voi <Accademici> diciate che dal saggio almeno questo è percepito: che nulla può essere percepito. Eppure ad Antipatro che formulava questa stessa richiesta, [III,247,15] dicendo a chi affermava che nulla può essere percepito, che era necessario riconoscesse almeno di percepire quel che affermava; Carneade si opponeva con più acume.

[2] II, 109. Tu ti riferisci ad una argomentazione molto usata e spesso confutata, non però al modo di Antipatro ma, come dici, in modo più stringente. Infatti si rimprovera Antipatro per avere detto che chi sostiene che nulla può essere compreso, [III,247,20] possa comprendere almeno quel che dice. Il che ad Antioco pareva grossolano e in sé contraddittorio.

SVF III [AT], 22

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 57. Le parti del discorso sono cinque […] : nome, appellativo, verbo, congiunzione, articolo. [III,247,25] Nei suoi libri ‘Sull’elocuzione e sui detti’ Antipatro appone anche una parte ‘media’.

SVF III [AT], 23

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 60. La definizione, come afferma Antipatro nel primo libro ‘Sulle definizioni’, è un discorso enunciato in modo esattamente corrispondente all’analisi. […] [III,247,30] La delineazione è un discorso che introduce sommariamente alla faccenda in oggetto, oppure un discorso che porta in sé ed esprime in modo semplificato la facoltà propria della definizione.

SVF III [AT], 24

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 42, 27 Wal. Quanti dicono che la definizione è un discorso enunciato in conformità ad un’analisi fatta in modo puntuale; che l’analisi è il dispiegamento per punti capitali del definito; che ‘in modo puntuale’ significa [III,247,35] né superare la misura né esserne carente; alla fin fine non farebbero nulla di diverso dal ripetere che la definizione è la ‘restituzione delle proprietà dell’oggetto’.

SVF III [AT], 25

Cicerone ‘Academica’ II, 143.

Anche su ciò che i dialettici insegnano quali nozioni elementari: per esempio, come occorra giudicare la verità o la falsità di qualcosa [III,248,1] con un nesso del tipo: ‘Se è giorno, c’è luce’, quante dispute! Diodoro la pensa in un modo, Filone in un altro, Crisippo in un altro ancora. E dunque? Crisippo non dissente dal suo maestro Cleante su molte questioni? E due principi della dialettica, [III,248,5] Antipatro e Archedemo, insuperabili opinionisti, non dissentono su molte questioni?

SVF III [AT], 26

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 8, 16 Wal. I sillogismi che i filosofi della cerchia di Antipatro chiamano monolemmatici non sono sillogismi ma argomentazioni ellittiche, come i seguenti: ‘è giorno, dunque [III,248,10] c’è luce’ e ‘respiri, dunque vivi’.

[2] Pseudo-Apuleio ‘De interpretatione’ 272 (p. 9, 6 Goldb.) Da un’unica constatazione non può derivare un’argomentazione complessa, pur se Antipatro lo Stoico, contro il parere di tutti, ritiene argomento completo il seguente: ‘Vedi, dunque vivi’.

SVF III [AT], 27

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 17-18, 11 Wal. [III,248,15] Non sono sillogismi quelli chiamati monolemmatici dai filosofi più recenti. Quelli chiamati monolemmatici sembrano a volte essere sillogismi perché viene loro tacitamente addizionata la premessa maggiore, in quanto conosciuta dagli ascoltatori. Il ‘respiri, dunque vivi’ sembra essere un sillogismo, ma soltanto perché l’ascoltatore [III,248,20] addiziona da sé, in quanto la conosce, la premessa maggiore, ossia ‘chiunque respira, vive’.

SVF III [AT], 28

[1] Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ II, 167. Se l’esistenza di sillogismi monolemmatici non ha il beneplacito di alcuni filosofi, costoro non sono più degni di fede di Antipatro, il quale non rifiuta i sillogismi del genere.

[2] ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 443. [III,248,25] Infatti Antipatro, uno degli uomini più notori della scuola Stoica, affermava che possono sussistere anche i sillogismi monolemmatici.

SVF III [AT], 29

Epitteto ‘Diatribe’ II, 19, 9. [III,248,30] <“Ne ha scritto in modo stupefacente Crisippo nel primo libro su ‘I Possibili’. Anche Cleante ha scritto peculiarmente su questo argomento, e pure Archedemo.> Ne ha scritto anche Antipatro, non soltanto nei libri ‘Sui Possibili’ ma anche peculiarmente in quelli ‘Sul Dominatore’.

SVF III [AT], 30

Epitteto ‘Diatribe’ II, 19, 2. Orbene uno [III,248,35] serberà, delle coppie di proposizioni, questa: (c) possibile è quanto non è né sarà vero, e (b) l’impossibile non consegue al possibile, ma non tutto quanto veramente è avvenuto è necessario, come appunto sembra sostenere la scuola di Cleante, che Antipatro a lungo difese.

SVF III [AT], 31

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 3, p. 182 M. Ora, [III,249,1] è possibile imbattersi in molti sillogismi accuratamente elaborati, come quelli che si scompongono analiticamente in due o tre proposizioni ipotetiche, e come quelli a conclusione indifferente o alcuni altri del genere, che sfruttano la prima o la seconda premessa. Come pure, senza dubbio, si dà il caso di altri filosofi, i quali scompongono analiticamente i sillogismi in una terza o [III,249,5] quarta premessa. Tuttavia, come scrisse Antipatro, si ha la possibilità di scomporre analiticamente altrimenti e in modo più conciso la maggior parte di questi sillogismi.

*FRAMMENTI DI FISICA

Frammenti n. 32-50

SVF III [AT], 32

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 150. Per loro la sostanza è corpo ed è finita, secondo quanto afferma Antipatro nel secondo libro ‘Sulla sostanza’.

SVF III [AT], 33

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1051e. [III,249,10] Nel suo libro ‘Sugli dei’ Antipatro di Tarso scrive testualmente questo: “Come preliminare al discorso nel suo insieme, faremo brevemente un rendiconto dell’evidenza che abbiamo del concetto di divinità. Noi abbiamo cognizione della divinità come di un essere vivente beato, imperituro, beneficente verso gli uomini. Di poi, spiegando dall’inizio ciascuno di questi attributi dice [III,249,15] così: e tutti li ritengono imperituri”.

SVF III [AT], 34

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1052b. A queste affermazioni <di Crisippo> voglio inoltre paragonare alcune piccole asserzioni tra quelle fatte da Antipatro: “Quanti dispogliano gli dei dell’attributo di essere beneficenti verso gli uomini, confliggono in parte col pre-concetto che noi abbiamo di essi; per la stessa ragione per cui confliggono quanti legittimano l’idea che essi [III,249,20] partecipino di generazione e d’estinzione”.

SVF III [AT], 35

Aezio ‘Placita’ I, 27, 6 (Dox. Gr. p. 322). Lo Stoico Antipatro dichiarava che la divinità è il destino.

SVF III [AT], 36

Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVII, 36. Conosciamo varie spiegazioni dell’appellativo ‘Licio’ di Apollo. Lo Stoico Antipatro scrive che Apollo è chiamato ‘Licio’ perché tutte le cose brillano (leukaìnesthai) quando il sole [III,249,25] le illumina.

SVF III [AT], 37

Cicerone ‘De divinatione’ I, 6. […] Testi che in seguito il discepolo <di Crisippo> Diogene di Babilonia rese pubblici [III,217,35] in un unico libro, e Antipatro in due libri.

SVF III [AT], 38

Cicerone ‘De divinatione’ I, 123. Moltissime delle cose divinate da Socrate furono raccolte da Antipatro; ma le tralascerò. [III,249,30] […] Però la cosa più straordinaria e quasi divina di quel filosofo fu che egli disse, pur essendo condannato del tutto iniquamente, che moriva con animo assolutamente tranquillo, giacché né quando usciva di casa né quando saliva la tribuna per difendersi, il dio gli aveva dato alcun segno di un male incombente, [III,249,35] come faceva d’abitudine.

SVF III [AT], 39

Cicerone ‘De divinatione’ II, 35. Non mi vergogno di te ma di Crisippo, di Antipatro e di Posidonio, i quali sostengono le stesse cose [III,250,1] che sostieni tu, ossia che nella scelta della vittima sacrificale ci guida una certa sensibilità divina e diffusa in tutto il mondo. E ancor più assurdo è ciò che tu hai preso da loro ed essi hanno detto, e cioè che quando uno vuole immolare una vittima, avviene una mutazione in aumento o in diminuzione [III,250,5] delle interiora, giacché tutto ubbidisce alla volontà degli dei.

SVF III [AT], 40

Cicerone ‘De divinatione’ I, 84. Questo è il ragionamento usato da Crisippo, da Diogene e da Antipatro.

SVF III [AT], 41

Cicerone ‘De divinatione’ I, 39. Veniamo ai sogni. Disquisendo di essi, Crisippo, che ne raccolse molti banali, [III,250,10] fa quel che fa Antipatro e li spiega usando il metodo interpretativo di Antifonte. L’opera mette certo in luce l’acume dell’interprete, ma gli conveniva usare esempi più seri.

SVF III [AT], 42

Cicerone ‘De divinatione’ II, 144. Le congetture degli stessi interpreti [III,250,15] dei sogni non rendono forse evidente la scaltra ingegnosità dei loro autori nel raggirare gli altri, piuttosto che la forza e il consenso ad esse della natura? Un corridore che aveva in animo di partire per Olimpia, sognò d’esservi portato su di una quadriga. La mattina, eccolo dall’interprete dei sogni. E quello gli fa: “Vincerai; giacché questo sogno indica la velocità e la forza dei cavalli”. Più tardi il corridore si reca da Antifonte, il quale gli dice: “Sarai per forza sconfitto. Non vedi che [III,250,20] ne hai davanti altri quattro nella corsa?” Ecco un altro corridore -di questi e di altri sogni sono pieni il libro di Crisippo e quello di Antipatro- ma torno al corridore.

SVF III [AT], 43

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 140. Il cosmo è uno solo, finito e di figura sferica; giacché siffatta figura è la più acconcia [III,250,25] al movimento, secondo quanto affermano Posidonio […] e i seguaci di Antipatro nei libri ‘Sul cosmo’.

SVF III [AT], 44

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 148. Zenone afferma che sostanza della divinità sono il cosmo nella sua interezza e il cielo, e in modo simile anche Crisippo […]. E Antipatro nel settimo libro ‘Sul cosmo’ afferma che la sostanza della divinità [III,250,30] è simile ad aria.

SVF III [AT], 45

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 142. Della genesi e della rovina del cosmo parlano Zenone […] e Antipatro nel decimo libro ‘Sul cosmo’.

SVF III [AT], 46

Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVII, 57. Questa è la spiegazione naturale dell’uccisione del drago, come la descrive Antipatro lo Stoico. [III,250,35] L’esalazione della terra ancora umida, passando ad altezze sempre superiori con impeto diverso e, una volta riscaldata, ricadendo su se stessa ad altezze inferiori in forma di serpente mortifero, [III,251,1] appestava ogni cosa con violenza mefitica. Questo serpente non si genera da altro che da calore e umidità, ed appariva coprire il sole stesso di una densa caligine, oscurandone in certa misura la luce. Ma il sole col divino fervore dei suoi raggi, come con un fitto lancio di dardi, lo fiaccò, lo essiccò, lo mise a morte e così diede origine al mito [III,251,5] del drago ucciso da Apollo.

SVF III [AT], 47

Plutarco ‘De sollertia animalium’ p. 962f. Non capisco come mai Antipatro, quando incolpava gli asini e le pecore di negligenza nella pulizia, abbia passato sotto silenzio le linci e le rondini…

SVF III [AT], 48

Plutarco ‘Aetia Physica’ 38, VI, p. 400 Bernardakis. [III,251,10] Perché le lupe partoriscono ad un certo punto dell’anno tutte nello spazio di dodici giorni? Antipatro nel libro ‘Sugli animali’ asserisce che le lupe sgravano quando cadono i fiori degli alberi ghiandiferi. Alle lupe che mangiano tali fiori si apre allora l’utero, ma quando essi non sono in abbondanza il feto muore nel corpo della madre e non può venire alla luce. [III,251,15] Pertanto le regioni povere di ghiande e di querce non sono devastate dai lupi.

SVF III [AT], 49

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 157. Zenone di Cizio e Antipatro [III,251,20] nel libri ‘Sull’animo’ […] affermano che l’animo è pneuma caloroso. È grazie a questo che noi siamo creature spiranti ed è da questo che noi siamo mossi.

SVF III [AT], 50

‘Scholia’ in Hom. Iliad. XI, 115.

‘e strappa loro il tenero cuore’

Così Aristotele e il medico Antipatro affermano che l’animo cresce insieme al corpo e poi diminuisce insieme con esso. [III,251,25] Questa affermazione mosse gli Stoici e Antipatro nel secondo libro ‘Sull’animo’, a dire che l’animo cresce insieme al corpo e poi diminuisce insieme con esso.

FRAMMENTI MORALI

Frammenti n. 51-67

SVF III [AT], 51

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 84. <Gli Stoici> dividono [III,251,30] la parte Etica della filosofia […] e così la suddividono i seguaci di Crisippo […] e Antipatro.

SVF III [AT], 52

Stobeo ‘Eclogae’ II, 83, 10 W. Tutti gli indifferenti secondo natura hanno un valore e tutti gli indifferenti contro natura hanno un disvalore. Il valore è inteso in tre modi: l’éstimo è il prezzo di un oggetto di per sé; il contraccambio è il prezzo stabilito da un perito valutatore; e terzo, [III,251,35] cui Antipatro dà l’appellativo di ‘selettivo’, valore è ciò per cui, date delle faccende, noi scegliamo queste qua invece di quelle là: per esempio, la salute invece della malattia; la vita invece della morte; la ricchezza di denaro invece della povertà di denaro. In tre modi analoghi <gli Stoici> affermato che vada chiamato il disvalore, [III,252,1] con significati contrapposti a quelli citati prima per il valore.

SVF III [AT], 53

Seneca ‘Epistulae morales’ XCII, 5. Alcuni però giudicano che anche il sommo bene sia suscettibile di aumento, giacché esso non è nella sua pienezza finché delle circostanze fortuite gli sono contrarie. Anche Antipatro, che è tra i massimi rappresentanti di questa scuola, [III,252,5] afferma di dare un certo peso, pur se piuttosto limitato, ai beni esterni. Tu vedi però quale assurdità sia il non accontentarsi della luce del giorno se non le si aggiunge una qualche fiammella.

SVF III [AT], 54

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXVII, 38. “Dai mali non risulta il bene; ma da molte povertà risulta la ricchezza; dunque la ricchezza non è un bene”. I nostri Stoici non condividono questa argomentazione, mentre i Peripatetici [III,252,10] la formulano e la risolvono. Posidonio ci riferisce come questo sofisma, trattato in tutte le scuole di dialettica, sia stato così confutato da Antipatro: “La povertà è definita non per il possesso di qualcosa ma per la sua mancanza: gli antichi dicevano ‘per deprivazione’ e κατὰ στέρησιν dicono i Greci; vale a dire non esprime quel che uno ha, ma quel che uno non ha. In questo senso, da molti vuoti non viene alcun pieno, e per fare una ricchezza ci vogliono molti beni, non molte indigenze. [III,252,15] Tu concepisci la povertà, diceva Antipatro, in un senso improprio: povertà non significa possesso di poche cose, ma mancanza di molte, e cioè si definisce non da ciò che si ha ma da ciò che manca”. Certo esprimerei con più facilità ciò che voglio dire se ci fosse una parola latina che significa ἀνυπαρξία (ossia insussistenza), che è [III,252,20] la qualità assegnata da Antipatro alla povertà.

SVF III [AT], 55

Cicerone ‘De finibus’ III, 57. Invece i loro successori, incapaci di fare fronte agli attacchi di Carneade, dissero che quella che io ho chiamato buona fama sia un ‘indifferente promosso’ e quindi da assumersi come tale, e cioè che sia buona cosa [III,252,25] per un uomo nobile e ben educato voler godere di un buon nome presso i parenti, i vicini, i galantuomini, e ciò per il valore in sé della cosa e non per alcun vantaggio. Dicono inoltre che come noi vorremmo che si provvedesse ai nostri figli, anche a quelli che eventualmente nascano dopo la nostra morte, per il loro bene; così dovremmo provvedere alla nostra fama postuma di per sé ed a parte ogni vantaggio.

SVF III [AT], 56

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ Vol. II, p. 705 Pott. [III,252,30] Lo Stoico Antipatro ha compilato 3 libri dal titolo ‘Per Platone soltanto il bello è buono’, nei quali dimostra che secondo Platone la virtù è autosufficiente per la felicità, e nei quali cita anche molti altri giudizi di Platone che sono in armonia con quelli degli Stoici.

SVF III [AT], 57

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 75, 11W. [III,252,35] Zenone così esplicitò il sommo bene: “Vivere in modo ammissibile <con la ragione>” […] I suoi successori, dopo averla articolata più minutamente enunciavano la definizione così […] e Antipatro così: “Vivere selezionando per noi le cose secondo natura e scartando quelle contro natura”. Spesso egli la esplicitava anche così: “Fare continuamente ed [III,253,1] inviolabilmente tutto quanto dipende da noi per centrare le cose che sono per natura di prima istanza”.

SVF III [AT], 58

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ Vol. II, p. 497 Pott. Antipatro, [III,253,5] uno della cerchia dei discepoli di Diogene di Babilonia, concepisce che il sommo bene giaccia nel selezionare per noi, continuamente ed inviolabilmente, le cose che sono secondo natura e nello scartare quelle che sono contro natura.

SVF III [AT], 59

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1072c-f. <Gli Stoici> pongono la sostanza del bene nella selezione razionale delle cose che sono secondo natura; e una selezione non è razionale [III,253,10] se non avviene in vista di un qualche fine, <come è già stato detto in precedenza>. Qual è dunque questo fine? Null’altro, essi affermano, che l’operare razionalmente nella selezione delle cose che sono secondo natura. […] La selezione razionale dovrebbe essere selezione di beni che sono giovevoli e che cooperano verso il fine; giacché come può essere razionale il selezionare per sé cose né utili né onorevoli e, in complesso, neppure oggetto di scelta? Sia dunque concesso trattarsi, [III,253,15] come essi dicono, di una selezione razionale delle cose dotate di valore in vista dell’essere felici. Guarda allora come il loro ragionamento giunga così al suo punto capitale bellissimo e solenne. Infatti, come sembra, secondo loro ‘fine’ diventa l’operare razionalmente nella selezione delle cose che hanno valore al fine di operare razionalmente. […] Infatti i nostri uomini affermano che il bene e la felicità non hanno, [III,253,20] e non si può pensare che abbiano, altra sostanza che questa tanto onorata razionalità nella selezione delle cose dotate di valore. Tuttavia vi sono alcuni i quali credono che questa obiezione sia rivolta contro il solo Antipatro e non contro tutta la scuola Stoica; in quanto Antipatro, sotto la pressione di Carneade, si sarebbe squagliato in queste ragioni speciose.

SVF III [AT], 60

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 92. Panezio afferma che le virtù sono due; […][III,253,25] i seguaci di Posidonio, che sono quattro; i seguaci di Cleante, di Crisippo e di Antipatro che sono ancora di più.

SVF III [AT], 61

Cicerone ‘De officiis’ III, 50. Capitano spesso situazioni […] nelle quali l’utile appare in contrasto con l’integrità morale, sicché si deve esaminare bene se tale contrasto ci sia davvero, oppure se le due cose possano andare d’accordo. […][III,253,30] In casi del genere, Diogene di Babilonia, Stoico di grande levatura e serietà, suole vedere le cose in un modo e Antipatro, suo discepolo ed uomo di ingegno acutissimo, in un altro. Per Antipatro bisogna dire apertamente tutto, affinché nulla di ciò che il venditore sa resti ignoto al compratore. […] Dall’altra parte Antipatro fa valere le sue ragioni: ‘Che dici? Tu che devi dare consigli agli uomini e servire alla società umana, [III,253,35] che hai questa legge innata alla quale devi ubbidire, e queste pulsioni naturali primarie cui devi dar seguito affinché il tuo utile sia l’utile comune e viceversa l’utile comune sia anche il tuo, celerai agli uomini le risorse che hanno ed in quale abbondanza le abbiano? […] ‘Cos’altro è il non mostrare la via a chi si è smarrito, atto che ad Atene [III,253,40] è sancito con la pubblica esecrazione, se non accettare che un compratore agisca sconsideratamente ed incorra per errore in una gravissima frode? È molto peggio che il non mostragli la strada, [III,254,1] giacché significa indurre scientemente in errore un’altra persona.

SVF III [AT], 62

Stobeo ‘Florilegium’ LXX, 13. Dal libro di Antipatro ‘Sulla convivenza con una donna’. [III,254,5] In primo luogo è d’uopo non fare il fidanzamento a casaccio ma dopo attenta riflessione, senza volgere lo sguardo alla fortuna economica, alla nobiltà di stirpe che gonfia di boria, né ad alcuna di quelle esteriorità che lasciano a bocca aperta e neppure, per Zeus, all’avvenenza; giacché questa soprattutto procaccia un’altezzosa arroganza ed un carattere dispotico. Bisogna invece dapprima indagare il carattere e il modo di vita del genitore: se cioè egli sia un individuo che gode dei diritti politici, [III,254,10] non importuno, costumato, e poi ancora, temperante e giusto, e inoltre disinteressato alle bagattelle; come pure indagare le orme e le altre tracce che ci informano circa l’acquisire amici di quale natura egli abbia bisogno. In secondo luogo bisogna fare indagini sulla madre, dalla quale la futura sposa è allevata e sul cui modo di vita per lo più essa si modella. Dopo di ciò bisogna indagare se i genitori abbiano educato [III,254,15] la figlia in modo conseguente ai loro costumi e non siano invece stati vinti e inclinati lontano da ciò ch’è utile dalla troppa affettuosità. Questo può essere stato indagato in svariati modi: attraverso i servi e le persone libere sia dentro che fuori della casa; attraverso i vicini ed altre persone che hanno accesso alla famiglia; attraverso amici che hanno con questa dei rapporti conviviali o d’altro tipo; attraverso cuochi, pasticcieri, [III,254,20] rammendatrici ed altri artigiani e artigiane. Infatti individui di questo genere si introducono in casa anche troppo speditamente, si dà loro fiducia e prendono in mano faccende delicate e che sono al di sopra del loro valore.

SVF III [AT], 63

Stobeo ‘Florilegium’ LXVII, 25. Dal libro di Antipatro ‘Sul matrimonio’. [III,254,25] Il giovane d’indole nobile, ardimentoso, e insieme mansueto e che gode dei diritti politici, conosce con chiarezza che una casa, una vita, non possono diventare perfette altrimenti che con una donna e dei figlioli; giacché è imperfetta quella casa, come quella città, che sia formata da sole donne, oppure meramente da uomini; e pertanto al modo in cui non sono buoni il gregge senza prole e la mandria che non ha dovizia di progenie, [III,254,30] molto di più ciò vale per una città o per una casa. Una volta capito questo, il giovane d’indole nobile, non appena inizia naturalmente a godere dei diritti politici, deve collaborare a rendere più grande la sua patria. Infatti le città non potrebbero salvaguardarsi in altro modo, se gli ottimi per natura tra i cittadini, figli di uomini generosi, quando i padri appassiscono e cadono giù come fanno le foglie di un bell’albero, giunta [III,255,1] la loro stagione non si sposassero, per lasciare dietro di sé alla patria, quasi generosi germogli, dei successori; per farla sempre verdeggiare e per custodirne sempiterno il fiore; mai facilmente portata, per quanto è in loro potere, alle inimicizie private; centrando così il bersaglio di difendere [III,255,5] ed aiutare la patria sia in vita che in morte. Questi giovani legittimano tra i più necessari e primari doveri quello di coniugarsi e s’affrettano a realizzare tutto quanto spetta alla natura, e soprattutto quanto è congiunto alla salvezza e all’accrescimento della patria, ma ancor di più all’onore per gli dei. Se, infatti, il genere umano s’eclissa, chi sacrificherà agli dei? Qualche lupo o il genere ‘dei leoni [III,255,10] uccisori di tori’? È anche avvenuto che chi non ha provato ad avere una sposa legittima e dei figlioli non conosca il sapore del più vero e genuino affetto. Infatti le altre amicizie o affettuosità somigliano alle misture per accostamento, come quelle di legumi, o di qualcos’altro di similare; mentre invece l’affetto di marito [III,255,15] e moglie somiglia alle mescolanze totali, come quella del vino con l’acqua, quando il vino, standole sopra, si mischia interamente con essa; giacché soltanto i coniugi accomunano non solo le sostanze, i figlioli – la cosa più cara per tutti gli uomini – e gli animi, ma anche i corpi. Tale comunanza è verosimilmente straordinaria anche sotto un altro aspetto. Infatti le altre comunanze hanno diverse opportunità per volgere altrove lo sguardo, [III,255,20] mentre

‘queste invece guardano di necessità ad un animo solo’

cioè all’animo del marito (giacché così si pone accanto a quello di un padre l’animo di una madre non scriteriata), per fare del marito l’unico scopo e fine della vita e per piacer a lui, mentre ciascuno dei due genitori trova di buon grado lo spazio per tributare all’altro la primizia dell’affetto, la moglie al marito e il marito alla moglie. [III,255,25] Non da inesperto della convivenza con una donna, dopo avere volto lo sguardo a queste cose ed avere risposto in un canto la sua misoginia nello scrivere, anche Euripide ha detto:

‘una moglie, infatti, nelle malattie e nei mali

per un coniuge è la cosa più dolce; se ben amministri la casa,

[III,255,30] quando mitiga l’ira e l’animo sgombra

dallo scoraggiamento; e dolce è anche la seduzione degli amici’

Capita che la faccenda abbia anche qualcosa di eroico. Oggi in talune città, in aggiunta alla stante fiacchezza di costumi, all’anarchia, all’inclinazione al degrado e alla pigrizia, lo sposarsi sembra essere una delle cose più infeste. [III,255,35] La vita da scapolo, che offre potestà per l’impudenza e la voluttuosa fruizione di svariati piaceri ignobili e di breve momento, è ritenuta pari ad una vita divina; mentre [III,256,1] l’ingresso in casa da parte di una moglie è invece ritenuto equivalente all’introduzione in città di un corpo di guardia. La vita con una moglie sembra a taluni apparire difficile perché essi non sanno comandare il piacere ma ne sono servi. Alcuni sono stati catturati dall’avvenenza esteriore, alcuni dalla dote; a seguito [III,256,5] delle quali cose sono pronti ad assecondare deliberatamente la donna e non invece ad insegnarle quanto è doveroso circa l’amministrazione e l’arricchimento della casa; né per quale fine loro due siano convenuti insieme; né ad infonderle buone opinioni circa gli dei, la pietà e la superstizione; né a farle riscontrare la perniciosità della mollezza e la sgraziataggine dei piaceri; né ad abituarla ad avere lo sguardo teso alla vita che ha dinanzi [III,256,10] ed a tener conto del futuro tutto con retta intelligenza, senza essere a sua volta ciecamente e sconsideratamente speranzosa che se il marito lo deciderà essa possa ottenere tutte le cose per cui smania; né ad occuparsi soltanto delle cose del momento, ma ad esaminare anch’essa il donde, il come, il se più salutarmene e e il se più utilmente di tutte le faccende. Giacché se uno fosse capace di mettere in pratica questi insegnamenti [III,256,15] e gli altri precetti ben teorizzati e professati dai filosofi, la donna sposata sembrerebbe essere uno dei pesi più piacevoli e più leggeri. La situazione infatti è del tutto simile alla condizione di chi avesse una sola mano e ne aggiungesse un’altra presa da qualche dove; oppure, avendo un piede solo ne acquisisse un altro dall’altra parte. Infatti, come costui potrebbe incedere, [III,256,20] approssimarsi e recarsi dove vuole, così colui che introduce in casa una moglie riceverebbe più facilmente quei servizi che sono salutari e utili per la vita. Dunque invece di due occhi i coniugi hanno l’uso di quattro, invece di due mani ne hanno altrettante in più con le quali eventualmente effettuare assieme e con maggiore facilità ciò ch’è opera delle mani. Perciò se due mani fossero stanche e malate, le altre due potrebbero a loro volta averne cura [III,256,25] e il totale, che è diventato due invece di uno, potrebbe avere miglior successo nella vita. Perciò chi ritiene che l’introduzione in casa di una moglie appesantisca di molto la vita e la renda torpida sperimenta, io credo, quel che sperimenta chi vietasse di avere più di un piede affinché noi non si debba trascinarcene dietro molti nel caso ci tocchi di camminare assai, oppure biasimasse chi possiede più di una mano perché, [III,256,30] dovendo effettuare qualcosa, ne sarebbe intralciato dal loro maggior numero. Ragionando allo stesso modo, si può dire che se una persona potesse aggiungere a sé un altro se stesso (e non fa differenza se questa persona è femmina o maschio) certo potrebbe effettuare tutte le operazioni in modo più svelto e più agevole. Per l’uomo amante del bene e che dispone di avere agio per i ragionamenti filosofici o per le opere della politica o per entrambe queste cose, [III,257,1] questo è un punto inamovibile; giacché quanto più egli rimane distolto dall’amministrazione della casa tanto più deve prendere con sé colei che gli succederà nel governo di essa e che gli permetterà di non essere distratto dalle comuni necessità della vita. Il poeta comico non compendia male tutto ciò:

[III,257,5] ‘è uno studioso: credo debba sposarsi

chi è solerte e capace di amministrare grandi folle’

e ribadisce

‘ma ancor più chi è trascurato e smania d’aver agio di studiare,

[III,257,10] per poter passeggiare senza paura avendo chi amministra per lui’.

SVF III [AT], 64

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VIII, p. 346c. Antipatro di Tarso, lo Stoico, nel quanto libro ‘Sulla superstizione’ afferma che da parte di alcuni si racconta che Gatis, la regina dei Siri, era una mangiona così ingorda di pesce da far proclamare che nessuno era autorizzato a mangiare pesce eccetto Gatis. E dice poi che i più, [III,257,15] per ignoranza, chiamavano lei Atargatis e si astenevano dal mangiare pesci.

SVF III [AT], 65

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 643f. Di quelle focacce di cui abbiamo ritrascritto i nomi, noi te ne faremo parte, e non come della focaccia mandata da Alcibiade a Socrate. Infatti, quando Santippe la trattò con derisione Socrate [III,257,20] le disse: “Dunque tu non ne avrai neppure una fetta!” (Questa storia è raccontata da Antipatro nel primo libro ‘Sull’ira’). Io invece, essendo un amante delle focacce non avrei permesso che quella divina focaccia fosse trattata con tale insolenza.

SVF III [AT], 66

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034a. Tuttavia Antipatro, nel suo libro sulle differenze tra Cleante e Crisippo, riferisce che [III,257,25] Zenone e Cleante non vollero diventare Ateniesi per non sembrare ingiusti verso la loro patria.

SVF III [AT], 67

Filodemo ‘Sui filosofi’ Col. VII. … attraverso le insormontabili difficoltà della politica… [III,257,30] lo mette in campo come d’accordo; e Antipatro, nel suo libro sulle Scuole filosofiche, si ricorda della ‘Repubblica’ di Zenone e dell’opinione che Diogene [III,257,35] mise in campo nella sua ‘Repubblica’, sbalordito dalla sua capacità di dominio sulle passioni… [III,258,1] alcuni sostengono però che non si tratta della ‘Repubblica’ di Diogene di Sinope … ma di qualcun altro

[III,258,5] 3a. Sosigene

Frammento n. 1

SVF III [So], 1

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 216 Bruns. Dei successori di Crisippo alcuni sono d’accordo con lui, altri invece, avendo in seguito potuto sentir parlare delle opinioni di Aristotele, fanno proprie molte delle cose dette da questo a proposito della mescolanza; e uno di costoro è [III,258,10] Sosigene, compagno di Antipatro. Non potendo tuttavia essere completamente d’accordo con Aristotele a causa della loro discrepanza su altri punti, in molti casi essi si trovano a dire cose contraddittorie.

3b. Eraclide di Tarso

Frammento n. 1

SVF III [ET], 1

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. Eraclide di Tarso, discepolo di Antipatro [III,258,15] di Tarso, e Atenodoro affermano che le aberrazioni non sono tutte pari.

[III,259,1] 4. Apollodoro di Seleucia

Frammenti n. 1-18

SVF III [AS], 1

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 39. [III,259,5] <Gli Stoici affermano che> la ragione insita nel cosmo è, secondo filosofia, tripartita. Una sua parte, infatti, è qualcosa di fisico, un’altra di etico e un’altra di logico. Così per primo la suddivise Zenone di Cizio […] e Apollodoro l’Efillo nel primo libro delle ‘Introduzioni ai principi’ […]. Apollodoro chiama queste parti ‘ambiti’.

SVF III [AS], 2

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 41. [III,259,10] Apollodoro posiziona l’Etica per seconda.

SVF III [AS], 3

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 54. Essi affermano che criterio della verità è la rappresentazione catalettica, cioè quella del realmente esistente, come dicono Crisippo […], Antipatro e [III,259,15] Apollodoro.

SVF III [AS], 4

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 150. Per loro la sostanza è corpo ed è finita, secondo quanto afferma […] e Apollodoro nella ‘Fisica’. La sostanza è anche passibile di mutamento, come lo stesso Apollodoro afferma. Se, infatti, fosse non coinvolta in mutamento alcuno, da essa non nascerebbero le cose che ne nascono. Da qui Apollodoro trae lo spunto per affermare che la divisione della sostanza è una divisione [III,259,20] all’infinito.

SVF III [AS], 5

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 140. Del vuoto parla Crisippo nella sua opera ‘Sul vuoto’ e nel primo libro di quella ‘Sulle Scienze fisiche’, […] e Apollodoro.

SVF III [AS], 6

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 135. Come afferma Apollodoro [III,259,25] nella ‘Fisica’, ‘corpo’ è ciò che ha tre dimensioni: lunghezza, larghezza e profondità. Questo si chiama anche corpo solido. La ‘superficie’ è il limite di un corpo, ossia ciò che ha lunghezza e larghezza ma non profondità. […] La linea è il limite di una superficie, ossia ciò che ha lunghezza senza larghezza o soltanto lunghezza. Il punto è il limite di una linea, ed è il segno più piccolo.

SVF III [AS], 7

Stobeo ‘Eclogae’ I, 19, 5, p. 166 W. (Ario Didimo ‘Dox. Gr.’ p. 460). [III,260,1] Nel trattato ‘La Fisica’, Apollodoro afferma che il moto è cangiamento di luogo o di atteggiamento, in tutto o in parte. Lo stato di quiete è continuità di luogo o di atteggiamento e il permanere tale. I generi [III,260,5] primari di moto sono due: il rettilineo e il circolare. Di questi moti vi sono più specie. Locali sono molti moti che avvengono nello stesso luogo, per esempio: camminare o correre senza uscir fuori dallo stesso spazio; e insieme il muoversi in linea retta od obliqua o avanti o indietro o [III,260,10] a destra o a sinistra o in cerchio o velocemente o lentamente, come capita a coloro che si trovano su una nave oppure in condizioni simili. Inoltre, come dicevamo che d’ogni corpo la parte è un corpo, d’ogni superficie una superficie, d’ogni linea una linea, d’ogni spazio uno spazio e d’ogni tempo un tempo; così, secondo la stessa analogia, bisogna dire che d’ogni moto [III,260,15] la parte è un moto e d’ogni stato di quiete uno stato di quiete.

SVF III [AS], 8

Stobeo ‘Eclogae’ I, 8, 42, p. 105 W. (Ario Didimo ‘Dox. Gr.’ p. 461). Nel trattato ‘La Fisica’, Apollodoro così definisce il tempo: “Il tempo è una dimensione del moto del cosmo. Il tempo è infinito così come si dice infinita la serie [III,260,20] dei numeri. Del tempo si hanno, infatti, il passato, l’istante presente e il futuro. In una connotazione più larga diciamo anche che la serie infinita del tempo è presente, come quando parliamo dell’annata in corso; e si dice che la serie infinita del tempo esiste sebbene nessuna delle sue parti esista davvero se considerata in modo puntuale”.

SVF III [AS], 9

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 143. L’universo, come afferma Apollodoro, [III,260,25] si chiama ‘cosmo’ e, in un altro modo, si chiama così l’insieme formato dal cosmo e dal vuoto a lui esterno. Pertanto il cosmo è finito, mentre il vuoto è infinito.

SVF III [AS], 10

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 142. Che il cosmo sia una creatura vivente, razionale, animata e cognitiva […] lo afferma Apollodoro nella ‘Fisica’. […][III,260,30] creatura vivente nel senso che è una sostanza animata capace di sensazioni.

SVF III [AS], 11

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 143. Che il cosmo è uno lo affermano Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo e Apollodoro nella ‘Fisica’.

SVF III [AS], 12

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 157. [III,260,35] Noi vediamo quando la luce che sta frammezzo all’organo visivo e all’oggetto della visione si stende in forma conica, secondo quanto affermano Crisippo […] [III,261,1] e Apollodoro. Si forma così un cono d’aria che ha il suo vertice nell’organo visivo e la sua base nell’oggetto visto. Dunque l’aria così stesa annuncia l’oggetto osservato come mediante un bastoncello.

SVF III [AS], 13

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 84. <Gli Stoici> dividono la parte Etica della filosofia [III,261,5] in diversi ambiti. […] Così la suddividono i seguaci di Crisippo […] e di Apollodoro.

SVF III [AS], 14

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 102. Né bene né male sono tutte quelle cose che né giovano né danneggiano; per esempio, vita, salute, piacere fisico, avvenenza, potenza del corpo, ricchezza di denaro, celebrità, nobiltà di stirpe; e i loro opposti: morte, malattia, dolore fisico, laidezza, debolezza, [III,261,10] povertà di denaro, discredito, umili origini e le cose a queste similari; secondo quanto affermano Ecatone […], Apollodoro ne ‘L’etica’, e Crisippo.

SVF III [AS], 15

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 125. Essi affermano che le virtù hanno implicazione reciproca e che chi ne ha una le ha tutte, giacché i loro principi generali [III,261,15] sono comuni; come dicono Crisippo […] e Apollodoro ne ‘La fisica secondo l’antica Stoa’.

SVF III [AS], 16

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 118. Il sapiente non sarà davvero preda dell’afflizione, a causa del fatto che l’afflizione è una contrizione irrazionale dell’animo, come afferma Apollodoro nella sua ‘Etica’.

SVF III [AS], 17

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. [III,261,20] L’uomo che s’industria di essere virtuoso cinizzerà, giacché il cinismo è una via spiccia verso la virtù, come afferma Apollodoro nella sua ‘Etica’.

SVF III [AS], 18

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 120. Il sapiente proverà trasporto amoroso per quei giovani i quali palesano nel loro aspetto un’attitudine da purosangue per la virtù, come affermano [III,261,25] Zenone […], Crisippo […] e Apollodoro ne ‘L’etica’.

[III,262,1] 5. Archedemo di Tarso

Frammenti n. 1-22

SVF III [ArT], 1

Strabone ‘Geographia’ XIV, p. 674. Uomini che sono nati a Tarso. Degli Stoici: Antipatro, Archedemo e Nestore…

SVF III [ArT], 2

Plutarco ‘De exilio’ p. 605b. [III,262,5] Archedemo si trasferì da Atene nella terra dei Parti e, in Babilonia, lasciò a succedergli una scuola Stoica.

SVF III [ArT], 3

[1] Epitteto ‘Diatribe’ II, 17, 40. Se no, non saremo vicino a profittarne neppure se discuteremo tutte le Introduzioni e tutti i Trattati di Crisippo dopo quelli di Antipatro e di Archedemo.

[2] II, 4, 11. [III,262,10] “Ma io sono un erudito e capisco Archedemo!” Capendo quindi Archedemo sii un adultero, un individuo sleale, invece che uomo sii un lupo o una scimmia. Giacché cosa lo impedisce?

SVF III [ArT], 4

[1] Epitteto ‘Diatribe’ III, 2, 13. …se sei uno che ha letto Crisippo od Antipatro. Se poi hai letto anche Archedemo, allora hai proprio tutto!

[2] III, 21, 7. [III,262,15] “Eppure vi commenterò i testi di Crisippo come nessuno; dissolverò l’elocuzione in formule purissime addizionando in qualche dove anche la profusione di Antipatro e di Archedemo”.

SVF III [ArT], 5

Diogene Laerzio VII, 40. Altri invece posizionano per prima la logica, per seconda la fisica e per terza l’etica. Tra questi vi è […] anche [III,262,20] Archedemo.

SVF III [ArT], 6

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 55. Secondo gli Stoici la voce è corpo, come afferma Archedemo nel libro ‘Sulla voce’ […]. Infatti, tutto ciò che fa un’azione è corpo; e la voce fa un’azione quando s’avvicina da chi parla a chi ascolta.

SVF III [ArT], 7

Demetrio ‘De elocutione’ 34, Vol. III, p. 269, 19 Spengel. [III,262,25] Aristotele definisce così il membro di un periodo: “Membro di un periodo è una qualunque parte di esso”. E poi aggiunge: “C’è anche un periodo semplice”. […] Archedemo, componendo insieme la definizione di Aristotele e l’aggiunta alla definizione, in modo più chiaro e più perfetto lo definì così: “Membro di un periodo [III,262,30] è: o un periodo semplice oppure una parte di un periodo composto”.

SVF III [ArT], 8

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, p. 332 Sylb., Vol. II, p. 930 Pott. ‘Divenire’ ed ’essere tagliato’, ciò insomma di cui sono causativi degli atti, [III,263,1] sono degli incorporei. Per la qual ragione, tali atti sono causativi dei predicati o, come dicono alcuni, degli esprimibili (Cleante e Archedemo chiamano infatti ‘esprimibili’ i predicati); oppure, ancora meglio, alcuni saranno chiamati causativi di predicati: per esempio, dello ‘è tagliato’, il quale è una flessione dello ‘essere tagliato’; altri saranno invece chiamati causativi di proposizioni, come: [III,263,5] ‘diventa una nave’ che è a sua volta una flessione di ‘diventare una nave’.

SVF III [ArT], 9

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 68. Delle proposizioni, alcune sono semplici mentre altre sono non semplici, come affermano i seguaci di Crisippo, di Archedemo […]. Semplici sono quelle che consistono di una proposizione univoca: per esempio, ‘È giorno’. Non semplici [III,263,10] sono gli enunciati che consistono di una proposizione equivoca o di più proposizioni. Di un’unica proposizione equivoca: per esempio, ‘Se è giorno’. Di più proposizioni: per esempio, ‘Se è giorno, c’è luce’.

SVF III [ArT], 10

Epitteto ‘Diatribe’ II, 19, 9. <“Ne ha scritto in modo stupefacente Crisippo nel primo libro su ‘I Possibili’> Anche Cleante ha scritto peculiarmente [III,263,15] su questo argomento, e pure Archedemo.

SVF III [ArT], 11                       

[1] Quintiliano ‘Institutio oratoria’ III, 6, 31. Alcuni ammisero due tipi di stato processuale. Archedemo parlava di stato processuale congetturale e finitivo, mentre escludeva quello qualitativo, perché stimava che quest’ultimo riguardasse questioni come: ‘Cos’è iniquo? Cos’è ingiusto? Cos’è disobbedire?’, che egli definisce una mescolanza dei due stati precedenti.

[2] III, 6, 33. Come, ad esempio, [III,263,20] Archedemo esclude lo stato processuale qualitativo.

SVF III [ArT], 12

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 134. <Gli Stoici> ritengono che i fondamenti del cosmo nella sua interezza siano due: quello che fa l’azione e quello che la sperimenta. Quello che sperimenta l’azione è la sostanza senza qualità, il materiale. Quello che fa l’azione è la ragione insita nel materiale, ossia la divinità. Poiché questa ragione sempiterna è connaturata a qualunque materiale, è essa a fabbricare tutte e singole le cose esistenti. A porre questo [III,263,25] principio sono Zenone […] e Archedemo nel suo libro ‘Sugli elementi’.

SVF III [ArT], 13

Siriano ‘In Aristot. Metaph.’ p. 105, 23 segg. Kroll. Le forme ideali non erano riportate da parte di questi uomini divini all’uso abituale dei nomi, come successivamente credettero Crisippo, [III,263,30] Archedemo e la maggior parte degli Stoici.

SVF III [ArT], 14

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1081e. Quando Archedemo dice che ‘l’ora presente’ è una giuntura e commessura del tempo trascorso e del tempo a venire, pare sfuggirgli che egli sta in questo modo abolendo il tempo intero. Se, infatti, l’ora presente non è un tempo ma il limite del tempo <passato e futuro> e se [III,263,35] ogni pezzetto del tempo è tal quale l’ora presente, il tempo nella sua interezza appare non avere parti ma risolversi al tutto in limiti, commessure e giunture.

SVF III [ArT], 15

Aezio ‘Placita’ II, 4, 17 (Dox. Gr. p. 332). [III,264,1] Archedemo dichiarava che l’egemonico del cosmo è nella terra.

SVF III [ArT], 16

[1] Simplicio ‘In Aristot. De caelo’ p. 512, 28 Heibg. È anche possibile plausibilmente strutturare l’ipotesi che al centro del cosmo vi sia il fuoco [III,264,5] e non la terra…

[2] p. 513, 7. Di questa opinione è stato Archedemo, un filosofo più recente di Aristotele.

SVF III [ArT], 17

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CXXI, 1. Vedo che avrai da ridire quando ti avrò presentato il problemino del giorno su cui ci siamo già intrattenuti piuttosto a lungo. Esclamerai ancora una volta: “Che cosa c’entra questo con la morale?” Ma […] ti trovo io gente con cui litigare: [III,264,10] Posidonio e Archedemo; loro sì che accetteranno d’essere trascinati in giudizio!

[2] 5. Ci chiedevamo se tutti gli animali avessero il senso della propria complessione.

SVF III [ArT], 18

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 84. <Gli Stoici> dividono la parte Etica della filosofia […] e così la suddividono [III,264,15] i seguaci di Crisippo e di Archedemo …

SVF III [ArT], 19

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 88. [dopo varie definizioni del sommo bene] … per Archedemo <il sommo bene è> vivere realizzando tutte le cose doverose.

SVF III [ArT], 20

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 75, 11W. Zenone così esplicitò il sommo bene: “Vivere in modo ammissibile <con la ragione>” […] I suoi successori, dopo averla articolata più minutamente [III,264,20] enunciavano la definizione così […] e Archedemo: “Vivere realizzando tutte le cose doverose”.

SVF III [ArT], 21

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, 21, p. 179 Sylb., Vol. I, p. 497 Pott. A sua volta Archedemo spiegava così il sommo bene: “Sommo bene è il vivere selezionando per sé le cose più grandi e principalissime secondo natura, che sono anche quelle oltre le quali è impossibile andare”.

SVF III [ArT], 22

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 73. [III,264,25] Archedemo <afferma che il piacere fisico> è secondo natura come i peli sotto l’ascella, e che non ha valore.

[III,265,1] 6. Boeto di Sidone

Frammenti n. 1-11

SVF III [BS], 1

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 54. Boeto ammette più criteri <di verità>: mente, sensazione, desiderio e scienza.

SVF III [BS], 2

Aezio ‘Placita’ I, 7, 25 (Dox. Gr. p. 303, 15). Boeto dichiarò [III,265,5] che la divinità è l’etere.

SVF III [BS], 3

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 148. Nella sua opera ‘Sulla natura’, Boeto sostiene che la sostanza della divinità è la sfera delle stelle fisse.

SVF III [BS], 4

[1] Cicerone ‘De divinatione’ I, 13. Chi può a portare alla luce le cause dei presentimenti? Eppure vedo che lo Stoico Boeto ha tentato di farlo, [III,265,10] e si è spinto fino a spiegare la ragione dei fenomeni celesti e marini.

[2] II, 47. Hanno cercato di indagare le cause dei pronostici sia Boeto di Sidone, che tu hai nominato, sia anche il nostro Posidonio.

SVF III [BS], 5

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 149. [III,265,15] Crisippo […], Posidonio[…], Zenone, Boeto nel primo libro ‘Sul destino’ affermano che tutto avviene in armonia col destino […].

SVF III [BS], 6

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 143. Boeto afferma che il cosmo non è una creatura vivente.

SVF III [BS], 7

Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 15, p. 248 Bern. p. 24, 20 Cum. [III,265,20] Boeto di Sidone e Panezio, uomini solidamente formati nelle dottrine Stoiche, in quanto ispirati da Dio si lasciarono alle spalle le conflagrazioni universali e le palingenesi e disertarono armi e bagagli in favore di una dottrina più santa, ossia quella dell’essere il cosmo imperituro.

16. [III,265,25] I seguaci di Boeto hanno utilizzato le dimostrazioni più plausibili, che esporremo subito. Se il cosmo, essi affermano, fosse generato e perituro, qualcosa nascerebbe dal nulla, il che sembra essere del tutto assurdo anche agli Stoici. Perché? Perché non è possibile trovare alcuna causa agente di estinzione, né interna né esterna, la quale faccia sparire il cosmo. Fuori del cosmo non v’è nulla [III,265,30] se non forse il vuoto, dato che integralmente tutti gli elementi trovano il loro posto nel cosmo. Dentro il cosmo, poi, non v’è alcuno stato morboso che potrebbe diventare causa di dissoluzione [III,266,1] per una divinità di tale enorme grandezza. E se il cosmo perisce senza una causa è manifesto che la genesi della sua estinzione sarà originata dal nulla: cosa questa, che l’intelletto non accetterà mai. Essi affermano anche che i modi generici di estinzione sono tre: quello per divisione, quello per sparizione della qualità prevalente, quello [III,266,5] per fusione di qualità componenti. Le cose formate da entità disparate come un gregge di capre, una mandria di buoi, i cori, gli eserciti o, ancora, i corpi compattati da elementi rannodati, si sciolgono per rottura o per divisione delle parti. Per sparizione della qualità prevalente si dissolve, per esempio, la cera quando sia modellata in una figura diversa; oppure quando sia così ammorbidita da non prestarsi più ad accogliere l’impronta di una forma diversa. Per fusione di qualità componenti, come nel caso del tetrafarmaco preparato dei medici; [III,266,10] ossia quando le proprietà dei componenti che sono messi insieme spariscono, a favore della genesi di un unico particolare prodotto risultante. In quale di questi modi merita dire che il cosmo perisce? Nel modo per divisione? Ma il cosmo non è formato da entità disparate, così che le sue parti possano essere disperse; né da elementi rannodati, così che i loro legami possano essere dissolti; né è unitario allo stesso modo in cui lo sono i nostri corpi. Infatti questi ultimi sono [III,266,15] intrinsecamente caduchi ed in potere di miriadi d’agenti che li danneggiano, mentre invece il cosmo è invitto poiché tiene assoggettata a sé ogni cosa con un grande sovrappiù di potenza. Per sparizione definitiva della qualità? Ma questo è inconcepibile, giacché pure secondo coloro che scelgono la tesi opposta, la qualità di essere il ‘buon ordine del cosmo’, sebbene bloccata in una sostanza in quantità minore, che è quella di Zeus, permane anche nel corso della conflagrazione universale. [III,266,20] Per fusione di qualità componenti? Suvvia! Giacché allora bisognerà di nuovo accettare che l’estinzione del cosmo sia estinzione nel nulla. In grazia della genesi di quale particolare prodotto risultante? Se ciascun elemento sparisse parzialmente, una parte di esso potrebbe trasformarsi in qualcos’altro; ma poiché gli elementi sono fatti sparire tutti quanti e tutt’insieme nella fusione delle qualità componenti, sarebbe necessario sottintendere che avviene l’impossibile. [III,266,25] Oltre a ciò, essi affermano, se ci fosse la conflagrazione universale che cosa effettuerebbe la divinità in quel lasso di tempo? Non effettuerebbe proprio nulla? Ma ciò è inverosimile. Adesso, infatti, la divinità riguarda ciascuna cosa e tutto essa tiene sotto la sua tutela come fa chi è genuinamente padre; e, se bisogna dire la verità, al modo di un auriga e di un pilota tiene le redini e il timone del tutto, prestando assistenza al sole, alla luna, [III,266,30] agli altri corpi celesti erranti e non-erranti e inoltre all’aria ed alle ulteriori parti del cosmo, mentre nel contempo compie quanto serve alla sua sopravvivenza ed al suo intemerato governo secondo la retta ragione. Ma una volta che tutto sia sparito, Dio avrà una vita che non è più vita, per la sua straordinaria inerzia ed inazione. Cosa potrebbe essere più assurdo di questo? Sono titubante a dire ciò che non è lecito dire: [III,266,35] che ne seguirà per Dio la morte, data la sua immobilità. Infatti, se tu fai sparire il suo essere sempre in movimento, avrai fatto del tutto sparire anche l’anima. Ora, per coloro che hanno opinioni contrarie alle nostre, [III,267,1] l’animo del cosmo è la divinità.

SVF III [BS], 8

Aezio ‘Placita’ II, 31, 5 (Dox. Gr. p. 363, 12). Boeto è dell’idea che l’immagine che abbiamo dell’aperto cielo sia una nostra rappresentazione e non la sua [III,267,5] realtà sostanziale.

SVF III [BS], 9

Aezio ‘Placita’ III, 2, 7 (Dox. Gr. p. 367, 5). Boeto è dell’idea che le comete siano una nostra rappresentazione di una massa d’aria infuocata.

SVF III [BS], 10

Macrobio ‘In somnium Scipionis’ I, 14, 19. Platone disse che l’animo è sostanza che muove se stessa […] il Peripatetico Critolao che consta di quintessenza [III,267,10] […] Boeto di aria e fuoco.

SVF III [BS], 11

Simplicio ‘In Aristot. De anima’ p. 247, 24 Hayd. Affinché noi non crediamo, come crede invece Boeto, che l’animo in quanto principio animatore sia di per sé immortale, e che sia però incapace di reggere l’appressamento della morte; sicché quando la morte s’appressa al vivente, l’animo se ne ritrae e perisce.

[III,268,1] 7. APPENDICE

Stoici di età incerta

7a. Basilide

Frammento n. 1

SVF III [Ba], 1

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 258. [III,268,5] Noi vediamo dunque come vi siano alcuni che hanno fatto sparire l’esistenza degli esprimibili. E non si tratta soltanto di filosofi eterodossi, per esempio, gli Epicurei, ma anche di Stoici come i seguaci di Basilide, i quali reputarono che non esista alcun incorporeo.

[III,268,10] 7b. Eudromo

Frammenti n. 1-2

SVF III [Eu], 1

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 39. <Gli Stoici affermano che> la ragione insita nel cosmo è, secondo filosofia, tripartita. Una sua parte, infatti, è qualcosa di fisico, un’altra di etico e un’altra di logico. Così per primo la suddivise Zenone di Cizio […] ed Eudromo nell’opera ‘Principi elementari di Etica’ […].[III,268,15] Apollodoro chiama queste parti ‘ambiti’, Crisippo ed Eudromo le chiamano ‘specie’.

SVF III [Eu], 2

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 40. Altri invece posizionano per prima la logica, per seconda la fisica e per terza l’etica. Tra questi vi è […] anche Eudromo.

7c. Crini

Frammenti n. 1-5

SVF III [Cr], 1

Epitteto ‘Diatribe’ III, 2, 15. [III,268,20] Ora parti e leggi Archedemo: e se poi un topolino cadrà giù e farà rumore, tu muori. Giacché ti rimane una morte siffatta a quella di… -chi era mai quello?- di Crini. Anche lui faceva gran pregio di capire Archedemo.

SVF III [Cr], 2

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 62. ‘Partizione’ è l’assegnamento di un genere in ambiti diversi, [III,268,25] come dice Crini: per esempio, ‘Dei beni alcuni sono beni dell’animo, altri sono beni del corpo’.

SVF III [Cr], 3

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 68. Delle proposizioni di un ragionamento, alcune sono semplici mentre altre sono non semplici, come affermano i seguaci di Crisippo […] e Crini.

SVF III [Cr], 4

[1] Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 71. [III,269,1] In un enunciato che consta di una proposizione iniziale e di una finale, la proposizione causale-temporale, come afferma Crini nella sua ‘Arte dialettica’, è quella introdotta dalla congiunzione ‘poiché’: per esempio, ‘Poiché è giorno, c’è luce’. La congiunzione [III,269,5] preannuncia che alla prima proposizione segue la seconda e che la prima regge la seconda.

[2] VII, 74. Enunciato causale-temporale vero è quello che comincia con una proposizione vera e conclude in modo conseguente: per esempio, ‘Poiché è giorno, c’è il sole sulla terra’. Enunciato causale-temporale falso è invece quello che comincia con una proposizione falsa oppure che conclude in modo inconseguente: [III,269,10] per esempio, ‘Poiché è notte, Dione passeggia’ qualora ciò sia detto mentre è pieno giorno.

SVF III [Cr], 5

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 76. Il ‘ragionamento’, come affermano i seguaci di Crini, consiste di un assunto o premessa maggiore, di un assunto aggiuntivo o premessa minore e di una conclusione logica: per esempio, questo, ‘Se è giorno, c’è luce; [III,269,15] ma è giorno; dunque c’è luce’. L’assunto o premessa maggiore è: ‘Se è giorno, c’è luce’. L’assunto aggiuntivo o premessa minore è: ‘Ma è giorno’. La conclusione logica è: ‘Dunque c’è luce’. La ‘figura tropica’ è quella che si direbbe un ragionamento schematico: per esempio, questo, ‘Se si dà il primo, si dà il secondo; ma si dà il primo, dunque si dà il secondo’. Il ‘ragionamento tropico’ è la sintesi di ragionamento e di figura tropica: per esempio, ‘Se [III,269,20] Platone vive, Platone respira; ma si dà il primo, dunque si dà il secondo’. Il ragionamento tropico fu introdotto nelle trattazioni di ragionamenti molto lunghi per non dover più enunciare la premessa minore e la conclusione in tutta la loro lunghezza, ma per poter inferire concisamente: ‘Si dà il primo, dunque si dà il secondo’.

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MUSONIO RUFO

‘E chi è degno di fare filosofia deve esercitarsi praticamente tanto più di chi ha di mira la medicina o qualche altra simile arte, quanto più la filosofia è più importante e più difficile da espletare di ogni altro mestiere. Infatti, coloro che hanno di mira le altre arti pervengono all’apprendimento di esse con animi non in precedenza rovinati, né col bagaglio di nozioni contrarie a quelle che stanno per imparare. Invece, coloro che mettono mano alla filosofia perseguono la virtù con alle spalle un lungo periodo di corruzione dell’animo e infarciti di vizi; sicché, per questo motivo, hanno bisogno di molto più esercizio pratico’.

Musonio Rufo ‘Diatribe’ VI,23,17-VI,24,8

Brevi cenni sulla vita di Musonio Rufo

Gaio Musonio Rufo nacque in Etruria, a Volsinii (l’odierna Bolsena), nell’anno 30 d.C. circa. Apparteneva dunque alla generazione che succede a quella di Seneca e che precede quella di Epitteto. Personaggio di rango equestre, le numerose testimonianze storiche che abbiamo su di lui sono concordi nel ricordarlo come uno dei più importanti caposcuola dello Stoicismo romano, e nel rinoscergli una fama ben più grande di quella che la moderna ignoranza a suo riguardo lascerebbe supporre. Intorno al 65 d.C., con l’accusa di avere partecipato alla cosiddetta ‘Congiura dei Pisoni’, fu esiliato da Nerone a Giaro, una piccola isola delle Cicladi. Scampò invece la cacciata da Roma cui nel 71 d.C. Vespasiano condannò tutti i filosofi. Qualche anno dopo dovette però subire una seconda condanna all’esilio, poiché sappiamo che egli fu richiamato a Roma dall’imperatore Tito. La sua coerenza di Stoico lo portò a rischiare la vita in almeno due occasioni nel 69 d.C.: quando in Senato accusò, e riuscì a far condannare, Egnazio Celere per avere testimoniato il falso contro Barea Sorano; e quando cercò, ricevendone scherno, ingiurie e minacce, di scongiurare la guerra civile parlando dei beni della pace e dei mali della guerra alle truppe di Vitellio e di Vespasiano che stavano per scontrarsi sul campo di battaglia. Morì intorno al 100 d.C.
Epitteto, che fu il suo allievo più famoso, lo cita spesso con grandissimo rispetto ed ammirazione. Ed altrettanto fanno, nelle loro opere, due autori cristiani di primo piano come Clemente Alessandrino ed Origene.

Il testo greco delle ‘Diatribe’ di Musonio Rufo

Fedele all’esempio di Socrate, anche Musonio Rufo non si preoccupò di tramandare i propri insegnamenti. Ad assumersi questo compito fu uno dei suoi tanti discepoli, di nome Lucio, che li mise per iscritto in lingua greca, in anni forse successivi alla morte di Musonio, dando loro la forma di ‘Diatribe’. Questa redazione di Lucio, anche se soltanto in parte, è giunta fino a noi grazie alle numerose citazioni che di essa fece Stobeo nella sua opera. 
Le somiglianze e le differenze tra le ‘Diatribe’ di Musonio e quelle di Epitteto sono evidenti. In entrambi i casi il compito fu assolto da un discepolo: Lucio per Musonio ed Arriano per Epitteto. Ma mentre il testo greco di Arriano è la fedele registrazione di un parlato dal vivo, quello di Lucio è un riassunto retoricamente costruito.
Il testo greco delle ‘Diatribe’ di Musonio che ho usato per la mia presente traduzione italiana è quello contenuto nell’edizione critica preparata da O. Hense per le edizioni Teubner e pubblicata per la prima volta a Lipsia nel 1905.

Le traduzioni italiane delle ‘Diatribe’ di Musonio Rufo

A mia conoscenza, le traduzioni in italiano dell’opera di Musonio erano finora soltanto due. La prima è quella di R. Laurenti: ‘C. Musonio Rufo, Diatribe e i frammenti minori’ Roma, 1967. Si tratta di una traduzione di difficile reperimento e che non ho ancora avuto modo di consultare. La seconda è la pregevole traduzione curata da I. Ramelli: Musonio Rufo ‘Diatribe, frammenti e testimonianze’, Bompiani 2001. 
Com’è mia abitudine, per la traduzione mi sono valso anche del pur succinto Indice di ‘Memorabilia’ contenuto nelle pag. 146-148 dell’edizione critica di O. Hense. La numerazione tra parentesi quadra che si trova nel testo tradotto si riferisce al numero della Diatriba, alla pagina e alla riga del testo greco in edizione critica. Nell’edizione che qui presento, io ho tradotto dal greco anche una ‘Lettera a Pancratide’ che, se pur certamente non attribuibile a Musonio, O. Hense ha comunque giudicato di dover inserire nell’edizione critica. Credo che questa mia sia la prima traduzione in italiano di tale lettera. I Frammenti XLIX, L, LI e LII sono in latino e pertanto non sono stati da me tradotti. Essi contengono però due citazioni in greco che invece ho regolarmente tradotto.

Musonio Rufo filosofo: un modesto maestro per un allievo geniale

Epitteto, accennando in un passo [III,23,29] del III libro delle ‘Diatribe’ alle lezioni del suo maestro Musonio Rufo, riferisce che egli sapeva parlare in modo tale che ciascuno degli allievi lì seduti credeva che qualche delatore lo avesse preventivamente edotto dei vizi di ciascuno dei presenti: a tal punto egli riusciva a mettere il dito nella piaga; a tal punto poneva davanti agli occhi di ciascun allievo i suoi mali.

Io non metto in discussione la testimonianza di Epitteto e quindi l’indubbia capacità di Musonio di far vibrare le coscienze e di risonare persuasivo; capacità che Musonio mostra nel trattare coraggiosamente argomenti delicati e poco approfonditi da altri Stoici. Basti fare riferimento alla sua attenzione per la questione -che smargina chiaramente sul tema della giustezza o meno della schiavitù e dell’ubbidienza assoluta alle leggi dello Stato- se sia necessario che i figli ubbidiscano ai genitori in ogni caso; se bisogni educare in modo simile i figli e le figlie; se anche le donne debbano praticare la filosofia; se l’esilio sia un male oppure no; se chi è filosofo debba intentare un processo contro chi l’ha oltraggiato; se il matrimonio sia un intralcio alla vita filosofica; e così via. Ma anche a questioni soltanto apparentemente triviali come il vitto, l’abitazione, le suppellettili della casa e il taglio dei capelli. D’altra parte, egli è però assolutamente categorico nel condannare come innaturale l’omosessualità, ogni forma di sessualità non finalizzata alla procreazione e l’aborto.

Quello che io metto in discussione, dati i miei criteri e i miei parametri di riferimento, è se si possa davvero considerare Musonio Rufo un maestro. Sono troppe le volte in cui, nel corso della traduzione, sono giunto alla seguente conclusione: “Va bene. A supporto della sua argomentazione Musonio non fa ricorso alla rivelazione scritta di qualche testo ‘sacro’ o allo ‘ipse dixit’ di qualche autorità filosofica. Ma fin dove arriva la sua vista? Egli indica che una cosa va fatta in un certo modo, ma mostra sistematicamente di non possedere gli strumenti per rispondere al perché egli la proponga a quel modo e al come essa vada inserita in un contesto di riferimento. Così operando egli riduce lo Stoicismo ad un semplice ‘modello culturale’ e tradisce la sua natura di ‘filosofo’. Se Dione Crisostomo fa ai miei occhi la figura del difensore dello Stoicismo nell’equivalente antico dei moderni ‘talk-show’, Musonio diventa l’interprete del ruolo del bonario, sensato ed anche parecchio burbero curato di campagna che fa la sua solenne predica Stoica domenicale”. 

A questo punto mi chiedo come Musonio possa ignorare o trascurare troppo spesso queste testuali parole di Crisippo -conservateci da Plutarco in SVF II, 937- che egli doveva certamente conoscere: “Poiché l’economia del cosmo procede in questo modo, è necessario che noi si stia come stiamo; tanto se per condizione personale siamo ammalati, o siamo storpi, oppure siamo diventati dei grammatici o dei musici. E in armonia con questo discorso, diremo cose similari tanto della nostra virtù quanto del nostro vizio; tanto circa l’insieme delle nostre arti quanto della nostra imperizia nelle arti. Infatti nulla può stare, neppure nel suo minimo particolare, altrimenti che in armonia con la natura universale e con la sua ragione”. 
Crisippo concede dunque piena ed incondizionata libertà di azione alla malvagità e al vizio, considerandoli non soltanto necessari e in armonia col destino, ma anche un prodotto in armonia con la ragione divina e la perfezione della natura, come è ulteriormente visibile in queste sue parole: “Poiché la comune natura s’estende a tutte le realtà, qualunque cosa di qualunque genere accade nel cosmo e in una qualunque delle sue parti, bisognerà che sia in armonia con tale natura e, per conseguenza immediata, con la sua ragione; a causa del fatto che nulla potrà ostacolare dall’esterno l’economia del cosmo, né alcuna delle sue parti avrà modo di muoversi o starà altrimenti che in armonia con la natura a tutti comune”. Quali sono, dunque, gli stati e i movimenti delle parti? È manifesto che ‘stati’ sono, oltre alla virtù, i vizi e gli stati morbosi come l’avidità di denaro, la brama di piaceri e quella della fama, la viltà e l’ingiustizia; che ‘movimenti’ sono anche a buon diritto gli adulteri, i furti, i tradimenti, gli omicidi e il parricidio. Ebbene, Crisippo crede che nessuno di questi sia né poco né tanto contrario alla ragione, alla legge, alla giustizia e alla Prònoia di Zeus, mentre Musonio viene a farci la paternale con accorati appelli alla bontà, al perdono, all’amore reciproco e all’austerità? Ci spieghi da dove gli vengono. 

Perché Musonio non possa farlo, è evidente. Gli mancano ancora le riflessioni sulla ‘Natura’ e sulla ‘Natura delle cose’, sulla ‘Proairesi’, sulla ‘Diairesi’, sulla ‘Antidiaresi’ e sulla ‘Controdiaresi’, su ciò che è ‘Proairetico’ e su ciò che è ‘Aproairetico’. Tutte conquiste che invece saranno, appena dopo qualche decennio, il formidabile ed eternamente valido risultato della riflessione del suo allievo più geniale, il cui nome era Epitteto. 

MUSONIO RUFO

DIATRIBE

DIATRIBA I [1,1]

PER UNA SINGOLA QUESTIONE FILOSOFICA 
NON C’È BISOGNO DI MOLTE DIMOSTRAZIONI

Una volta il discorso cadde [I,1,5] sulle dimostrazioni che è d’uopo i giovani ascoltino dalla bocca dei filosofi per giungere ad un’apprensione certa di ciò che stanno imparando; e Musonio affermava che non conviene andare in cerca, su ogni singola questione, di molte dimostrazioni, bensì di dimostrazioni efficaci ed evidenti. Infatti, diceva, degno di lode non è il medico [I,1,10] che somministra ai malati molte medicine, ma quello che giova al malato con le poche medicine che gli somministra in modo ragionato. Similmente, degno di lode non è il filosofo che insegna ai suoi uditori utilizzando molte dimostrazioni, bensì quello che con poche dimostrazioni li conduce esattamente a ciò che vuole loro insegnare. Per parte sua l’uditore, quanto più comprendonio [I,1,15] avrà, tanto meno abbisognerà di dimostrazioni e tanto più in fretta sarà d’accordo sul punto capitale, posto che sia sano, del ragionamento. Chiunque, invece, [I,2,1] su tutto ha bisogno di una dimostrazione, anche laddove la questione è chiara; oppure vuole dimostrare a se stesso con molte argomentazioni ciò che può invece essere dimostrato con poche, è un uditore del tutto fuori posto e tardo di comprendonio. Gli Dei, com’è verosimile, non hanno bisogno di dimostrazione alcuna, [I,2,5] poiché per loro nessuna questione è priva di chiarezza o dubbia, dato che sono queste ultime le sole questioni che hanno bisogno di dimostrazioni. Gli uomini, invece, devono necessariamente cercare di scoprire ciò che non è chiaro né immediatamente conosciuto, attraverso ciò ch’è appariscente e manifesto: il che è appunto opera della dimostrazione. Per esempio: [I,2,10] che il piacere fisico non sia un bene non sembra essere immediatamente riconosciuto, dal momento che il piacere ci chiama a testimoni nei fatti che esso è un bene. Se però uno fa suo il conosciuto assunto che ogni bene è da scegliersi, e poi aggiunge ad esso l’altro conosciuto assunto, ossia che alcuni piaceri fisici non sono da scegliersi: [I,2,15] ecco che noi dimostriamo -grazie al passaggio da assunti conosciuti a ciò ch’è sconosciuto- che il piacere fisico non è un bene. Ed ancora: che il dolore fisico non sia un male non appare immediatamente persuasivo. Al contrario, sembra più persuasivo l’opposto, ossia che il dolore fisico è un male. Ma se si pone l’assunto evidente: che ogni male è da fuggirsi; [I,2,20] e poi s’assomma ad esso un altro assunto evidente, ossia che molti dolori fisici non sono da fuggirsi: ecco che se ne conclude che il dolore fisico non è un male. Assodato che la dimostrazione è una cosa del genere, poiché alcuni uomini sono più acuti ed altri più ottusi, [I,3,1] poiché alcuni sono stati educati a costumi migliori ed altri a costumi peggiori; quelli peggiori per costumi o per natura potrebbero avere bisogno, per accogliere questi giudizi ed esserne modellati, d’un maggior numero di dimostrazioni [I,3,5] e d’una trattazione più ampia delle questioni. Proprio come io credo avvenga per i corpi in cattivo stato i quali, quando si intende star bene, hanno bisogno di moltissima cura. I giovani che sono invece di buona natura e quelli che hanno avuto un’educazione migliore, più facilmente e più velocemente sarebbero d’accordo con quanto è esposto rettamente, pur se attraverso poche dimostrazioni; [I,3,10] e gli si conformerebbero nella pratica. Che così stiano le cose lo riconosceremmo facilmente se pensassimo a degli adolescenti o giovanotti, uno dei quali allevato nel lusso più sfrenato, dal corpo effeminato, con l’animo infiacchito da abitudini che conducono alla mollezza, [I,3,15] che si mostra, per di più, indolente e che è per natura tardo di comprendonio. L’altro, invece, è un giovanotto tirato su, in un certo senso, spartanamente, abituato a non vivere nel lusso, ben esercitato alla fortezza d’animo e pronto a prestare ascolto a quanto è detto rettamente. Di poi supponiamo che questi due giovanotti stiano ascoltando un filosofo il quale parla di morte, di dolore fisico, di povertà di denaro [I,3,20] e di faccende simili come di cose che non sono mali; e poi ancora di vita, di piacere fisico, di ricchezza di denaro e di faccende similari come di cose che non sono beni. Entrambi accoglieranno forse in modo similare i discorsi del filosofo, e ciascuno dei due ubbidirebbe similarmente ai discorsi che sente fare? [I,3,25] Non è neppure il caso di dirlo; [I,4,1] giacché uno, il più indolente, probabilmente annuirebbe a stento, con lentezza, mosso da miriadi di ragionamenti come da una leva a lui esterna; mentre l’altro accoglierà ciò che sente dire con velocità e prontezza, in quanto ragionamenti che gli sono familiari e convenienti, senza avere bisogno di molte dimostrazioni [I,4,5] né d’una trattazione più ampia delle questioni. Non era di questo genere anche il famoso ragazzo spartano che domandò al filosofo Cleante se la fatica è un bene? In questo modo egli si mostrò dotato di buona natura e ben cresciuto in vista della virtù, tanto da ritenere la fatica più prossima alla natura del bene [I,4,10] che a quella del male. Chi infatti ammette che la fatica non è un male, cerca di sapere se essa sia per caso un bene. Laonde Cleante, preso da ammirazione per il ragazzo, gli disse:

‘sei di buon sangue, ragazzo mio, visto come parli!’

Una persona del genere [I,4,15] non sarebbe forse facilmente convinta a non temere la povertà di denaro né la morte né alcun’altra delle cose che sono reputate paurose; [I,5,1] e a non inseguire, a loro volta, la ricchezza di denaro o la vita o il piacere fisico? Ora, per tornare all’inizio del discorso, ribadisco che chi insegna non deve cercare di esporre a coloro che stanno imparando tutta la moltitudine di ragionamenti e di [I,5,5] dimostrazioni del filosofo; bensì deve parlare su ciascuna questione in modo opportuno, penetrare e colpire l’intelletto di chi lo ascolta, formulare argomentazioni convincenti e non facili da capovolgere, e soprattutto deve tenere per mano gli ascoltatori procurando se stesso come esempio vivente di chi, mentre parla degli argomenti più importanti e proficui, [I,5,10] effettua azioni coerenti alle parole che dice. Per parte sua, chi impara deve fare ben bene attenzione a quel che sente dire e considerare se non gli sia sfuggito d’avere accettato qualche affermazione falsa; senza cercare, per Zeus, di ascoltare molte dimostrazioni bensì dimostrazioni evidenti; [I,5,15] e deve inoltre mettere in pratica nella vita le esortazioni della cui verità sia intimamente convinto. [I,6,1] Solamente in questo modo uno trarrà infatti giovamento dalla filosofia: se cioè procurerà di effettuare azioni consone ai discorsi che egli abbia accettato di considerare sani.

DIATRIBA II

<SENZA TITOLO>

[II,6,5] Tutti noi, e non uno sì e un altro no -diceva <Musonio>- siamo nati per vivere al riparo dalle aberrazioni e bene. Gran prova di ciò è il fatto che i legislatori ingiungono in identico modo a tutti gli uomini quel che è d’uopo fare e vietano quel che è d’uopo non fare, non eccettuando alcuno di coloro che disubbidiscono [II,6,10] o che aberrano, così che costui resti impunito: si tratti di un giovane o di un anziano, di un individuo robusto o di uno debole, insomma chiunque sia. Eppure, se qualche elemento della virtù ci fosse estrinseco e noi nulla avessimo per natura a che vedere con esso; come nessuno pretende, [II,6,15] nelle opere che hanno a che fare con le altre arti, d’essere al riparo dall’errore se prima non ha imparato quell’arte; così pure nelle opere della vita nessuno dovrebbe pretendere d’essere al riparo dalle aberrazioni se prima non avesse imparato la virtù, dal momento che soltanto la virtù fa sì che non si aberri nella vita. Ora, nella cura dei malati nessuno sollecita [II,7,1] che sia al riparo dall’errore altra persona che il medico; nell’uso della lira altra persona che il musicista, e nell’uso dei timoni nessun altro che il pilota. Nel caso della vita, invece, gli uomini sollecitano che ad essere al riparo dalle aberrazioni sia non soltanto il filosofo -il quale [II,7,5] pare sia il solo ad avere sollecitudine per la virtù- ma che lo siano similmente tutti gli esseri umani, anche quelli che per la virtù mai hanno avuto sollecitudine alcuna. È dunque manifesto che null’altro è causa di ciò se non il fatto che l’uomo è nato per la virtù. E invero gran prova che noi siamo nati per perseguire la virtù è anche quello: ossia il fatto che tutti gli uomini disquisiscono [II,7,10] di se stessi come di individui che hanno la virtù e che sono buoni. Nessuno dei più, infatti, quando gli sia domandato se per caso è stolto o saggio, ammetterà di essere stolto. Né quando gli sia domandato, a sua volta, se per caso è ingiusto o giusto, dirà che è ingiusto. Similmente, qualora uno gli domandi [II,7,15] se è temperante oppure impudente, ognuno risponde alla domanda affermando di essere temperante. Insomma, se uno gli domandasse se è buono oppure cattivo, egli direbbe di essere buono; e lo affermerebbe pur se non sapesse dire chi è stato il suo maestro di bontà, né gli capita d’aver fatto apprendimento alcuno della virtù o esercizio pratico di essa. [II,7,20] Ciò di null’altro è prova se non del fatto che nell’animo dell’uomo [II,8,1] esiste una base fondamentale e naturale che lo indirizza all’eccellenza morale, e che in ciascuno di noi è insito un seme di virtù. E poiché a noi conviene in ogni caso stare al mondo come uomini dabbene, alcuni di noi s’ingannano credendo di esserlo davvero, mentre altri si vergognano di ammettere di non esserlo. [II,8,5] Peraltro perché, per gli Dei, se uno non ha imparato le lettere o la musica o gli esercizi che si praticano in palestra, neppure afferma di conoscerli né si arroga il vanto di possedere queste arti, non avendo modo di dire qual è il maestro che frequentava; e invece ognuno garantisce d’avere la virtù? Perché nessuna di quelle arti ha per natura [II,8,10] a che vedere con l’uomo, né alcuno viene in vita avendone già le basi fondamentali…

DIATRIBA III

CHE ANCHE LE DONNE DEVONO PRATICARE LA FILOSOFIA

[III,8,15] Poiché qualcuno cercò di sapere da lui se anche le donne devono filosofare, <Musonio> iniziò a un dipresso così ad insegnare che anche le donne devono praticare la filosofia. Le donne, diceva, [III,9,1] hanno ricevuto da parte degli Dei la stessa identica ragione degli uomini: quella ragione della quale ci serviamo gli uni nei confronti degli altri e grazie alla quale pensiamo a ciascuna faccenda, determinando se è un bene o un male, se è una cosa bella o brutta. [III,9,5] La femmina e il maschio hanno similmente le stesse sensazioni: vedere, udire, odorare e le altre. Sia l’uno che l’altra hanno similmente le stesse parti del corpo, e nessuno dei due ne ha più dell’altro. Inoltre, il desiderio della virtù e la naturale disposizione ad appropriarsi di essa non nasce soltanto negli uomini ma anche nelle donne; [III,9,10] giacché le donne non meno degli uomini sono nate per dare il loro beneplacito alle opere belle e giuste e per vilipendere quelle opposte. Stando così le cose, perché mai agli uomini si converrebbe il ricercare e il considerare il modo di vivere bene, il che è appunto il filosofare, [III,9,15] e invece ciò non si converrebbe alle donne? È forse che agli uomini si conviene d’essere virtuosi ed alle donne no? Consideriamo pure, una per una, ciascuna delle opere che si confanno alla donna che intende essere virtuosa, ed apparirà evidente [III,10,1] che ciascuna di queste opere promana alla donna proprio dalla filosofia. Innanzitutto la donna deve essere una buona amministratrice della casa, un’abile calcolatrice di ciò che è utile ad essa, ed essere atta a comandare i domestici. Ebbene, io affermo che soprattutto queste sono le doti della donna che pratica la filosofia. [III,10,5] E se ciascuna di queste doti fa parte della vita, la filosofia altro non è che la scienza del vivere; ed il filosofo, come soleva dire Socrate, considera continuamente:

‘cosa di cattivo e di buono è capitato in casa’

[III,10,10] La donna, poi, deve anche essere temperante: quale colei che si conserva pura dai rapporti sessuali contrari alla legge e pura dalla non padronanza di sé nel caso degli altri piaceri fisici, quale colei che non è serva delle smanie, non è litigiosa, non è spendacciona, non è civettuola. Queste sono le opere della donna temperante. [III,10,15] Oltre a queste, altre sue opere sono: saper dominare l’ira, non lasciarsi dominare dall’afflizione ed essere superiore ad ogni passione. Questi sono gli esercizi che la ragione filosofica dà l’ordine di fare, ed a me sembra che chi impara a farli diventerebbe una persona ordinata e disciplinatissima, uomo o donna che sia. E dunque? Le cose stanno così: [III,11,1] la donna che pratica la filosofia non sarebbe forse una persona giusta, un’irreprensibile socia di vita, una buona cooperatrice di concordia, una sollecita tutrice del marito e dei figli, una creatura per ogni verso monda dalla sete di guadagno e dallo spirito di soperchieria? [III,11,5] Quale creatura, più di colei che pratica la filosofia, potrebbe diventare una donna del genere? Giacché, per l’appunto, è assolutamente necessario che ella -se davvero fosse filosofa- ritenga il commettere un’ingiustizia cosa peggiore, in quanto più vergognosa, del subirla; che concepisca il comportarsi con moderazione una cosa migliore del fare una soperchieria e, inoltre, l’aver cari i figli più del vivere. [III,11,10] Quale donna sarebbe più giusta di colei che si comporta così? E invero si conviene che la donna ben educata sia anche più virile di quella non educata, e la filosofa della donna qualunque; poiché la prima non tollera un’azione vergognosa per paura della morte o per titubanza dinanzi al dolore fisico, né s’inchina davanti a qualcuno [III,11,15] perché costui è di nobile stirpe o una persona potente o uno ricco di denaro o anche, per Zeus, perché è un tiranno. C’è in lei avvezzamento a pensare in grande, a ritenere che la morte non è un male e che la vita non è un bene; e, allo stesso modo, a non evitare il dolore fisico né ad inseguire ad ogni costo le occasioni per scansare le fatiche. [III,11,20] Onde è verosimile che questa donna lavori manualmente e che sfacchini, che sia capace di nutrire al seno i figli che ha partorito, di servire [III,12,1] il marito con le proprie mani e, insomma, di fare senza alcuna titubanza quelle che taluni ritengono opere servili. Una donna siffatta non sarebbe di gran pro a colui che l’ha sposata, un fattore di buon ordine tra i congiunti e un esempio di probità per le conoscenti? [III,12,5] Ma per Zeus, dicono alcuni, è necessario che le donne che s’accostano ai filosofi siano quanto mai vantone e sfrontate; visto che, tralasciata la cura della casa, s’aggirano qua e là in compagnia degli uomini, fanno le sofiste e risolvono sillogismi [III,12,10] mentre dovrebbero invece starsene sedute in casa a filare la lana. Quanto a me, io non solleciterei né le donne che abbracciano la filosofia né gli uomini a tralasciare le opere che loro convengono, per dedicarsi unicamente ai ragionamenti filosofici; e affermo piuttosto che tutti quanti i ragionamenti che essi maneggiano, devono maneggiarli in funzione delle opere che loro convengono. [III,12,15] Infatti, come un ragionamento medico non è d’alcun pro qualora non porti un corpo umano alla salute; così pure, se un filosofo fa o insegna un certo ragionamento, tale ragionamento non è d’alcun pro se non porta un animo umano alla virtù. Innanzitutto è dunque d’uopo considerare il ragionamento a seguire il quale noi sollecitiamo le donne che abbracciano la filosofia. [III,12,20] Può forse renderle sfrontate, il ragionamento che dichiara il rispetto di sé e degli altri essere il sommo bene? Può forse abituarle a vivere in modo più protervo, il ragionamento che mostra loro la via della massima morigeratezza? Può insegnare loro a non essere temperanti, il ragionamento che dimostra come l’impudenza sia l’estremo dei mali? Può esortarle a non amministrare bene la casa, il ragionamento [III,13,1] che fa loro riscontrare come la buona amministrazione sia una virtù? Inoltre il ragionamento dei filosofi invita la donna ad essere affettuosa e a lavorare manualmente.

DIATRIBA IV

[13,5] SE BISOGNA EDUCARE IN MODO SIMILARE LE FIGLIE E I FIGLI

Quando una volta il discorso cadde sulla questione se si debba dare la stessa educazione ai figli e alle figlie, <Musonio> affermava che [IV,13,10] i cavalieri e i cacciatori educano assieme i cavalli e assieme i cani, senza fare alcuna differenza tra maschi e femmine. Così le cagne imparano a cacciare in un modo del tutto similare a quello dei cani; ed è dato vedere che qualora si voglia che compiano bene le opere equestri, le cavalle ricevono un insegnamento [IV,13,15] non diverso da quello dei cavalli. Quanto agli uomini, può tuttavia darsi che ci debba essere nell’educazione e nell’allevamento dei maschi qualcosa di particolare rispetto alle femmine; [IV,14,1] come se ad entrambi, uomo e donna, dovessero spettare non le medesime virtù similarmente; oppure come se fosse loro possibile pervenire al raggiungimento delle stesse virtù non attraverso la medesima educazione bensì attraverso educazioni diverse. Ora, che le virtù dell’uomo[IV,14,5] non siano diverse da quelle della donna è però cosa facile da imparare. Per esempio: l’uomo deve essere assennato, ma lo deve essere anche la donna; se no di che pro sarebbero un uomo stolto o una donna stolta? E poi: nessuno dei due deve vivere meno secondo giustizia dell’altro; infatti l’uomo, se ingiusto, non sarebbe un buon cittadino; e la donna [IV,14,10] non amministrerebbe bene la casa se non la amministrasse al modo giusto; e se è ingiusta al riguardo commetterà un’ingiustizia nei confronti del marito, come si racconta di Erifile. Quindi è bene che la moglie sia temperante, com’è bene che lo sia il marito; e le leggi puniscono appunto parimenti l’adultero e l’adultera. [IV,14,15] I casi di ghiottoneria, di ubriachezza e di altri vizi similari, essendo impudenze che svergognano grandemente [IV,15,1] coloro che vi rimangono impigliati, mostrano poi chiaramente che la temperanza è assolutamente necessaria ad ogni essere umano, sia femmina che maschio; giacché è soltanto attraverso di essa che noi sfuggiamo l’intemperanza, e in nessun altro modo. A questo punto qualcuno potrebbe forse dire che però la virilità [IV,15,5] conviene soltanto ai maschi. Ma le cose non stanno affatto così, giacché bisogna che anche la donna -la migliore, ben s’intende- sia virile e monda d’ogni viltà, così da non essere piegata né dal dolore fisico né dalla paura. Se no, come potrà ancora essere temperante qualora uno possa costringerla con la violenza, [IV,15,10] o facendole paura o infliggendole dei dolori fisici, a sopportare cose vergognose? Dunque bisogna che anche le donne siano pronte a difendersi se non intendono mostrarsi, per Zeus, peggiori delle galline e delle femmine di altri uccelli, le quali combattono accanitamente in difesa dei pulcini con animali molto più grandi di loro. Come dunque potrebbero [IV,15,15] le donne non avere bisogno di virilità? Che poi le donne abbiano a che fare anche con azioni di lotta armata lo rese manifesto la stirpe delle Amazzoni, le quali sterminarono con le armi molti popoli; sicché se qualcosa a questo fine manca alle altre donne è piuttosto la mancanza di esercizio che l’esserne per natura incapaci. Se le virtù dell’uomo e della donna sono le stesse, [IV,16,1] è allora del tutto necessario che convengano ad entrambi identico allevamento ed identica educazione. Infatti la sollecitudine che si prodiga rettamente per qualunque animale o vegetale, di necessità infonde in esso la virtù che gli s’addice. Se un uomo e una donna avessero similmente bisogno di saper suonare il flauto [IV,16,5] e se ciò fosse necessario sia all’uno che all’altra per riuscire a vivere, noi insegneremmo ad entrambi parimenti l’arte auletica; e la stessa cosa faremmo se dovessero sia l’uno che l’altra suonare la cetra. Ora, quanto alla virtù che s’addice all’essere umano, [IV,16,10] se bisogna che entrambi diventino virtuosi e che siano similmente capaci d’essere assennati, d’essere temperanti, di partecipare della virilità e della giustizia uno non meno dell’altra: non educheremo noi in modo simile l’uno e l’altra, e non insegneremo parimenti ad entrambi l’arte grazie alla quale l’essere umano può diventare virtuoso? Certo che bisogna fare [IV,16,15] così e non altrimenti. ‘E dunque?’ -dice forse qualcuno- ‘tu solleciti che gli uomini imparino l’arte di filare la lana similarmente alle donne, e che le donne prendano parte agli esercizi ginnici similmente agli uomini?’ Io non solleciterò affatto questo. Poiché nel genere umano [IV,16,20] esiste una natura fisicamente più robusta, che è quella dei maschi; ed una fisicamente più debole, che è quella delle femmine; io affermo invece [IV,17,1] che bisogna assegnare all’una e all’altra le opere che maggiormente le si adattano, affidando le più pesanti agli individui più robusti e le più leggere agli individui più deboli. Per questo motivo l’arte di filare la lana, come pure la cura della casa, si confarebbe più [IV,17,5] alle donne che agli uomini; mentre viceversa la ginnastica, come pure la vita fuori casa, si confarebbe più agli uomini che alle donne. Talora, tuttavia, anche degli uomini possono porre verosimilmente mano ad opere più leggere e ritenute da donna; e delle donne, a loro volta, fare lavori più duri e che si ritengono [IV,17,10] convenire maggiormente agli uomini, qualora così impongano le necessità del corpo o del bisogno o del momento. In un certo senso, infatti, tutte le opere umane sono da farsi in comune e sono comuni dell’uomo e della donna; e nulla è necessariamente appannaggio esclusivo dell’uno o dell’altra. Talune [IV,17,15] di esse, tuttavia, sono più idonee ad una natura ed altre all’altra: ragion per cui alcune si chiamano opere maschili ed altre opere femminili. Quante hanno però riferimento alla virtù si può rettamente affermare che s’addicano parimenti sia ad una natura che all’altra, se appunto noi affermiamo che le virtù s’addicono non meno agli [IV,17,20] uni che alle altre. Laonde io credo che bisogna verosimilmente educare in modo similare sia la femmina che il maschio in tutte quante le opere che conducono alla virtù. A cominciare dall’infanzia bisogna dunque subito insegnar loro che questo è bene e che questo è male, che una stessa cosa è male per entrambi, [IV,18,1] che questo è giovevole, che questo è dannoso, che questo qui si deve fare e che questo qui non si deve fare. Da questi insegnamenti promana saggezza alle fanciulle e similmente ai fanciulli che li apprendono, senza differenza alcuna fra gli uni e le altre. Di poi bisogna [IV,18,5] infondere in essi un’intensa ripulsa per ogni faccenda vergognosa, e una volta ingeneratisi questi moti, necessariamente l’uomo e la donna sono individui temperanti. Invero chi è educato rettamente -chiunque sia, maschio o femmina- deve abituarsi a sopportare il dolore fisico, abituarsi a non avere paura della morte, abituarsi a non avvilirsi [IV,18,10] davanti a nessuna sventura: tutte abitudini grazie alle quali si può acquisire la virtù della virilità. E della virilità è stato poc’anzi mostrato che anche le donne hanno parte. Inoltre il rifuggire l’avidità di guadagno; l’avere in onore l’imparzialità; essendo un uomo, il voler fare del bene e non del male agli altri uomini: [IV,18,15] ecco, questa è la lezione più bella e quella che realizza la giustizia in coloro che la imparano. Perché bisogna che sia soltanto l’uomo ad imparare queste cose? Infatti, per Zeus, se è confacente che le donne siano persone giuste, allora bisogna che entrambi abbiano imparato le medesime cose, che sono quelle in assoluto più importanti e più grandi. Giacché se uno conoscerà qualche minuzia attinente un certo virtuoso [IV,19,1] e l’altra no; oppure, al contrario, se una la conoscerà e l’altro no: ciò non dimostra che l’educazione dell’uno è stata diversa da quella dell’altra. È solo circa gli insegnamenti in assoluto più grandi che non bisogna che uno impari cose diverse dall’altro, bensì le stesse. Se poi uno mi domanda [IV,19,5] quale scienza soprintende a questa educazione, gli dirò che come nessun uomo potrebbe essere educato rettamente senza filosofia, così neppure potrebbe esserlo una donna. Io non voglio dire che, se faranno vita filosofica come donne, [IV,19,10] bisogna che in esse si congiungano nitidezza e straordinaria valentia di discorso: giacché io non lodo affatto ciò neppure negli uomini. Voglio invece dire che le donne devono acquisire bontà di carattere ed eccellenza morale del modo di vita, poiché la filosofia è il mestiere pratico dell’eccellenza morale e null’altro.

DIATRIBA V [19,15]

SE SIA PIÙ POTENTE L’ABITUDINE PRATICA O LA CONOSCENZA TEORICA

Un’altra volta ci accadde di ricercare se per l’acquisizione della virtù [V,20,1] sia più efficace l’abitudine pratica o la conoscenza teorica; e se quest’ultima insegni rettamente ciò che si deve fare, mentre la prima sia propria di quanti sono abituati ad agire in armonia con tale conoscenza. Musonio reputava che ad essere più efficace fosse l’abitudine pratica, e parlando a sostegno di questa sua opinione [V,20,5] interrogò così uno dei presenti. Dati due medici, uno dei quali bravo a parlare e specialmente a parlare dell’arte medica in modo quanto mai esperto, ma del tutto privo di esperienza nella cura di pazienti; ed un altro non bravo a parlare ma abituato a curare secondo i dettami della medicina: la presenza di quale dei due, diceva, [V,20,10] sceglieresti per te se fossi ammalato? E quello rispose: il medico abituato a curare. E Musonio: e quindi? Dati due uomini, uno dei quali ha navigato molte volte ed ha già pilotato un buon numero di navi, ed un altro che ha navigato poche volte e non ha mai fatto il pilota; [V,20,15] se quello che non ha mai fatto il pilota fosse però bravissimo a parlare del modo in cui è d’uopo pilotare una nave, mentre l’altro fosse del tutto carente e debole al riguardo: di quale dei due piloti ti serviresti per navigare? [V,21,1] E l’interrogato rispose: di quello che è già stato pilota molte volte. Di nuovo Musonio disse: dati due musicisti, uno dei quali ha scienza della teoria musicale e ne sa parlare con grande persuasività, ma che è incapace di cantare o di suonare la cetra oppure la lira; [V,21,5] mentre un altro vale di meno nella teoria musicale ma sa suonare bene la cetra, la lira e sa anche cantare: a quale dei due affideresti l’esecuzione di un’opera musicale o quale dei due vorresti che diventasse maestro di musica di un ragazzo che non la conosce? E quello rispose: [V,21,10] il musicista bravo nella pratica musicale. Dunque, disse Musonio, in questo campo le faccende stanno in questo modo. E circa la temperanza o la padronanza di sé, piuttosto che capaci di dire quel che è d’uopo fare, non è molto meglio diventare padroni di sé e temperanti in tutto ciò che effettuiamo? Anche in proposito il giovanotto conveniva che saper parlare bene della temperanza [V,21,15] vale meno ed è più frivolo dell’essere temperante nei fatti. Laonde Musonio, rannodandosi alle precedenti considerazioni, disse: in questi casi avere dunque la conoscenza teorica di ciascuna faccenda, come potrebbe essere cosa migliore dell’abitudine pratica ad effettuare tali faccende [V,21,20] secondo la guida della conoscenza teorica? Giacché l’abitudine pratica ci conduce alla capacità di effettuare una faccenda, mentre la conoscenza teorica di essa ci conduce alla capacità di parlarne. La conoscenza teorica coopera certo all’azione poiché insegna come essa debba essere effettuata e, in ordine cronologico, viene prima dell’abitudine pratica. Infatti non è possibile che un’azione moralmente buona [V,21,25] diventi abituale, se non grazie alla conoscenza teorica della sua bontà; e tuttavia [V,22,1] potenzialmente l’abitudine pratica vince per importanza la conoscenza teorica perché è più dominante di questa nel condurre l’uomo all’azione.

DIATRIBA VI

SULL’ESERCIZIO PRATICO [22,5]

Musonio incitava sempre con empito i sodali all’esercizio pratico, utilizzando discorsi come i seguenti. La virtù, diceva, non è una scienza soltanto teoretica ma anche concretamente operante, al modo della medicina e della musica. Come, dunque, nel caso del medico e del musicista bisogna [VI,22,10] non soltanto aver appreso i principi generali ciascuno della propria arte, ma anche allenarsi ad effettuare le opere corrispondenti a quei principi generali; così pure l’uomo che dispone di essere virtuoso [VI,23,1] deve non soltanto imparare tutte quelle nozioni che portano alla virtù, ma anche allenarsi in armonia con esse, mosso dall’ambizione di farsi onore e dalla laboriosità. Come potrebbe una persona diventare temperante se sapesse soltanto che bisogna non lasciarsi vincere dai piaceri fisici, [VI,23,5] ma non è affatto allenata a tener loro testa? Come potrebbe qualcuno diventare giusto, dopo avere sì imparato che bisogna aver cara l’equità ma senza essersi esercitato a fuggire lo spirito di soperchieria? Come potremmo acquisire la virilità, avendo sì capito che non sono paurose le cose che i più reputano terribili, [VI,23,10] e però se non ci siamo esercitati a restare senza paura di fronte ad esse? Come potremmo diventare uomini saggi dopo avere sì riconosciuto che veramente alcune cose sono beni e altre sono mali, e però senza esserci allenati a spregiare quelli che sembrano beni ma tali non sono? Perciò all’apprendimento delle nozioni che convengono a ciascuna virtù [VI,23,15] deve assolutamente seguire l’esercizio pratico, se davvero s’intende che proprio quell’apprendimento ci divenga di qualche pro. E chi è degno di fare filosofia deve esercitarsi praticamente tanto più di chi ha di mira la medicina o qualche altra simile arte, quanto più la filosofia è più importante e più difficile da espletare [VI,24,1] di ogni altro mestiere. Infatti, coloro che hanno di mira le altre arti pervengono all’apprendimento di esse con animi non in precedenza rovinati, né col bagaglio di nozioni contrarie a quelle che stanno per imparare. Invece, coloro che mettono mano alla filosofia [VI,24,5] perseguono la virtù con alle spalle un lungo periodo di corruzione dell’animo e infarciti di vizi; sicché, per questo motivo, hanno bisogno di molto più esercizio pratico. Come e in che modo, dunque, bisogna fare questi esercizi pratici? Poiché è avvenuto che l’uomo non sia soltanto animo né soltanto corpo [VI,24,10] bensì una composizione di questi due elementi, è necessario che chi si esercita praticamente abbia sollecitudine per entrambi; e maggiormente, come merita, per il componente migliore, cioè per l’animo. Ma anche per l’altro, se appunto nessuna parte dell’uomo dovrà risultare carente. Pertanto anche il corpo [VI,25,1] del filosofo deve essere stato ben preparato a svolgere i lavori che del corpo sono propri, giacché le virtù spesso fanno necessariamente uso di quest’organo per effettuare le azioni della vita. Degli esercizi pratici, dunque, uno sarebbe rettamente proprio dell’animo soltanto, [VI,25,5] mentre un altro lo sarebbe in comune di animo e di corpo. L’esercizio pratico comune ad entrambi sarà quello di abituarci ai rigori invernali e alle calure estive, alla sete e alla fame, alla frugalità del cibo e alla durezza del giaciglio, ad astenerci da cose piacevoli e a reggere quelle dolorose. Attraverso questi esercizi ed altri del genere, [VI,25,10] il corpo s’irrobustisce e diventa resistente alle sofferenze, solido, proficuo per qualunque lavoro; mentre l’animo, grazie all’allenamento a reggere le fatiche s’irrobustisce in vista della virilità, e grazie all’astinenza dalle cose piacevoli in vista della temperanza. L’esercizio pratico peculiare dell’animo è, in primo luogo, [VI,25,15] quello di far sì che siano a portata di mano le dimostrazioni circa quelli che sembrano essere beni e che invece beni non sono; le dimostrazioni circa quelli che sembrano essere mali e che invece mali non sono; quello di abituarsi a riconoscere i veri beni [VI,26,1] e a distinguerli da quelli che veri beni non sono. Di poi bisogna studiare a non fuggire alcuno dei mali apparenti e a non inseguire alcuno dei beni apparenti; a scansare con qualunque accorgimento i mali veri, [VI,26,5] e ad andare dietro in qualunque modo ai veri beni. Dunque s’è detto così, per sommi capi, quale sia ciascuno dei due modi dell’esercizio pratico. Nondimeno proverò a dire anche partitamente come si devono fare entrambi, senza distinguere e senza separare gli esercizi pratici comuni ad animo e corpo da quelli [VI,26,10] propri del solo animo, ma trattando indistintamente quelli di entrambe le parti. Capita a tutti noi, peraltro certamente a quanti di noi hanno partecipato a conversazioni filosofiche, d’avere quindi sentito parlare di questi argomenti e d’avere concepito il giudizio che il dolore fisico, la morte, la povertà di denaro e qualunque altra cosa che sia lontana dal vizio [VI,26,15] sono nient’affatto un male; e che, a loro volta, sono nient’affatto un bene la ricchezza di denaro, la vita, il piacere fisico o qualcun’altra delle cose che non partecipano della virtù. Ma ugualmente, nonostante l’aver noi concepito questi giudizi, a causa della corruzione dell’animo intervenuta in noi già a partire dalla fanciullezza e [VI,27,1] delle cattive consuetudini conseguenti a simile corruzione, quando ci si appressa un dolore fisico noi riteniamo che ci appressi un male, mentre quando ci si presenta un piacere fisico riteniamo che ci si presenti un bene; siamo presi dal raccapriccio dinanzi alla morte come dinanzi all’estrema delle sventure, [VI,27,5] mentre ossequiamo la vita come se fosse il sommo dei beni; quando sborsiamo del denaro ci affliggiamo come se subissimo un danno, mentre quando invece ne incassiamo ci rallegriamo come se ciò ci recasse un giovamento. Similarmente, nella maggior parte degli altri casi noi non ci comportiamo nei fatti in modo conseguente alle rette concezioni, [VI,27,10] e seguiamo invece le cattive abitudini. Poiché affermo che in proposito le cose stanno così, bisogna che chi si esercita praticamente faccia in modo che abbiano il sopravvento in lui: il non esultare per un piacere fisico e il non scansare il dolore fisico; il non essere attaccato ai piaceri della vita e il non temere la morte; e, nel caso del denaro, [VI,27,15] il non anteporre l’incassarne allo spenderne.

DIATRIBA VII [28,1]

CHE LA FATICA NON È DA SPREGIARE

Al fine di sottostare più facilmente e con maggiore slancio a quelle fatiche che [VII,28,5] noi si stia per affrontare in nome della virtù e della bontà d’animo, sarà proficuo aver tenuto conto dei seguenti fatti. Quante fatiche, cioè, taluni affrontano a causa di cattive smanie, com’è il caso degli amanti impudenti; quante fatiche reggono altri individui per ottenere un guadagno; quanto penino taluni quando vanno a caccia della fama. [VII,28,10] Eppure costoro reggono ogni sorta di tribolazione per loro propria scelta. Non è dunque terribile che quelli tollerino di sperimentare simili fatiche in nome di nessuno dei veri beni, e che invece noi non si sottostia prontamente a qualunque fatica in nome della bontà d’animo, per rifuggire quel male [VII,29,1] che ci guasta la vita e per acquisire quella virtù che è il provveditore di tutti i veri beni? Non è neppure il caso di dire quanto sarebbe meglio, invece di faticare [VII,29,5] per fare centro con la moglie di un altro, che uno fatichi per disciplinare come si deve le proprie smanie; invece di tribolare per i soldi, che uno si eserciti ad averne bisogno di pochi; anziché avere fastidi in nome della fama, che uno si affaccendi per non essere avido di fama; anziché ricercare [VII,29,10] il modo di fare del male a chi invidia, che uno consideri come fare per non invidiare nessuno; anziché essere servile con dei cosiddetti amici -com’è il caso degli adulatori- che uno peni per acquisire degli amici veri. In generale, poiché faticare è necessario per tutti gli uomini, [VII,29,15] sia per quelli che desiderano le cose migliori sia per quelli che smaniano per le peggiori, è del tutto assurdo che non fatichino con molto maggiore slancio coloro i quali perseguono le cose migliori, invece di coloro i quali hanno ben piccole speranze di trarre frutto dalle loro fatiche. [VII,30,1] Ora, i saltimbanchi sottostanno a prove così difficili e mettono a repentaglio la loro vita -chi facendo salti mortali sulle spade, chi camminando su funi tese ad una certa altezza, [VII,30,5] chi volando per aria come uccelli- in esercizi nei quali un passo falso significa la morte; e fanno tutto questo per una piccola ricompensa. Noi invece non tollereremo di tribolare in nome della felicità nella sua interezza? Il fine del diventare virtuosi, infatti, altro non è che quello di essere felici e di vivere beatamente per il resto dei nostri giorni. [VII,30,10] Si potrebbe anche tenere conto, per verosimiglianza, dell’esempio che ci viene da taluni animali: un esempio certamente capace di indirizzarci ad amare la fatica. Dunque le quaglie e i galli, che certo non s’intendono di virtù come l’uomo, che non sanno cosa siano il bello e il giusto né mai faticano in nome di qualcosa di siffatto, [VII,30,15] pure, quando combattono gli uni contro gli altri, [VII,31,1] sopportano storpiature e mutilazioni, e ognuno di essi si fa forza fino alla morte per non essere sconfitto dall’altro. Quanto più è allora verosimile che noi si sopporti e ci si faccia forza, dal momento che abbiamo la conoscenza certa dei beni in nome dei quali peniamo, sia per aiutare gli amici, sia per giovare alla patria, [VII,31,5] sia per combattere a difesa delle nostre mogli o dei nostri figli e -cosa somma e assolutamente principale- al fine di essere virtuosi, giusti e temperanti: il che a nessuno sopravviene senza grandi fatiche. Laonde io dico in aggiunta che colui il quale non vuole faticare [VII,31,10] quasi si autocondanna ad essere un buono a nulla, poiché i beni noi li acquisiamo tutti con fatica. Queste ed altre cose siffatte disse <Musonio> allora, risvegliando ed incitando gli astanti a non spregiare la fatica.

DIATRIBA VIII

[32,1] CHE ANCHE I RE DEVONO PRATICARE LA FILOSOFIA

Una volta entrò da lui uno dei re che venivano dalla Siria -a quel tempo, infatti, c’erano ancora [VIII,32,5] in Siria dei re sudditi dei Romani- e Musonio gli disse, tra molte altre cose, anche questo. Non credere, diceva, che il praticare la filosofia convenga a qualcun altro più che a te, e ciò non in grazia d’altro se non del fatto che ti capita d’essere re. Un re, infatti, [VIII,32,10] dev’essere capace esattamente di questo: ossia di salvaguardare e recare beneficio agli uomini. Ma colui che salvaguarda e reca beneficio è d’uopo che conosca cos’è bene e cos’è male per l’uomo, cosa gli giova e cosa gli è di danno, cosa gli è utile e cosa non gli è utile: se appunto è vero che vanno in rovina quanti incappano [VIII,32,15] nei mali, mentre si salvano quanti centrano i beni; e che quanti sollecitano per sé ciò che giova ed è utile ne traggono beneficio, mentre quanti si mettono in animo ciò ch’è inutile e dannoso ne ricavano un male. [VIII,33,1] Ora, il vagliare ciò ch’è bene e ciò ch’è male, utile e non utile, giovevole e dannoso, non è proprio d’altri che del filosofo: il quale s’affaccenda continuamente proprio su questo argomento al fine di non ignorare neppur una di queste differenze, ed ha fatto un’arte [VIII,33,5] del sapere cosa conduce alla felicità o infelicità dell’uomo. Appare perciò chiaro che il re deve essere filosofo. Invero al re s’addice, anzi è per lui una necessità, arbitrare secondo giustizia tra i sudditi, in modo che nessuno di loro abbia né di più né di meno di quanto merita; [VIII,33,10] e che quanti meritano onori oppure punizioni, li abbiano. Come potrebbe mai qualcuno fare ciò senza essere una persona giusta? E come potrebbe una persona essere giusta se non ha scienza della giustizia, di quale cosa essa sia? Dunque anche per questo motivo il re deve, di nuovo, essere filosofo: perché altrimenti, se non praticasse la filosofia, apparirebbe non essere un conoscitore [VIII,33,15] della giustizia e del giusto. È infatti impossibile negare che chi impara cos’è giusto lo saprà molto più di chi non l’ha imparato, e parimenti negare che quanti non praticano la filosofia siano incolti di tali argomenti. È ben per questo che gli uomini insorgono gli uni contro gli altri [VIII,33,20] e si fanno la guerra a vicenda in merito a cos’è giusto, giacché gli uni sono dell’avviso che più giusto sia ‘questo’, mentre gli altri vogliono che sia ‘quello’. Eppure essi non litigano [VIII,34,1] a proposito di argomenti dei quali hanno scienza: non sul bianco e sul nero, non sul caldo e sul freddo, non sul molle e sul duro: anzi su questi argomenti tutti la pensano e tutti dicono le stesse cose. Sicché anche circa le cose giuste tutti [VIII,34,5] andrebbero similarmente d’accordo, se appunto sapessero quali sono; e laddove essi non concordano appare quindi chiara la loro ignoranza. Tu pure, io reputo, non sei esente da questa ignoranza. Ragion per cui devi essere sollecito d’acquisire la conoscenza del giusto più di chiunque altro, e ciò tanto più quanto [VIII,34,10] è più vergognoso per un re che per un privato cittadino l’essere ignorante in fatto di giustizia. Bisogna inoltre che il re sia temperante lui stesso, ma faccia sì che siano temperanti anche i sudditi; al fine, per lui, di comandare con temperanza e, per essi, di ubbidire ai suoi comandi con compostezza, senza che né l’uno né gli altri vivano nella dissolutezza, [VIII,34,15] giacché la dissolutezza è qualcosa che guasta tanto chiunque comanda quanto qualunque privato cittadino. E come potrebbe essere temperante chi non si è esercitato a padroneggiare le proprie smanie; oppure, se è spudorato, come potrebbe rendere altri temperanti? Non è possibile trovare quale altra scienza, ad eccezione della filosofia, conduca alla temperanza; giacché è solo la filosofia che insegna ad essere al di sopra [VIII,34,20] del piacere fisico, che insegna ad essere al di sopra dell’avidità di guadagno, [VIII,35,1] che insegna ad aver cara la parsimonia, che insegna a rifuggire lo sperpero, che abitua ad avere rispetto di sé e degli altri, che abitua a padroneggiare la lingua, che procaccia ordine, compostezza e decoro e, in complesso, ciò ch’è confacente quando siamo sia in moto che in quiete. Ebbene, quando questi caratteri si congiungono in un uomo, [VIII,35,5] lo rendono solenne e temperante; ed anche un re nel quale essi fossero presenti sarebbe in sommo grado divino e degno di rispetto. Il dominio sulla paura, il non sbigottirsi, l’essere coraggioso sono certo opere della virilità. E come possono esserci queste qualità in un uomo altrimenti che nutrendo egli, circa la morte e il dolore fisico, la potente convinzione [VIII,35,10] che essi non sono mali? Infatti sono questi, la morte e il dolore fisico, a far andare gli uomini fuori di sé e ad impaurirli qualora questi ultimi siano persuasi che si tratta di mali, mentre è soltanto la filosofia ad insegnare che invece mali non sono. [VIII,35,15] Se pertanto i re devono acquisire la virtù della virilità, e lo devono più di qualunque altra cosa, bisogna che essi pongano ogni sollecitudine nella pratica della filosofia, dal momento che non potrebbero diventare virili in altro modo. [VIII,36,1] Ora, caratteristica da re è anche -se qualcos’altro lo è- quella di essere invitto nel ragionamento e capace di padroneggiare con i discorsi gli interlocutori avversari, come i combattenti nemici con le armi. Qualora i re [VIII,36,5] siano deboli a questo riguardo, è però necessario che essi siano spesso raggirati e sforzati ad ammettere come vere affermazioni che invece sono false: il che è opera di una stoltezza e di un’incultura estrema. Io non so cos’altro, più di questo, la filosofia sia per sua natura capace di procurare a coloro che la perseguono: intendo la capacità di sopravanzare il prossimo col ragionamento e [VIII,36,10] di distinguere le affermazioni false da quelle vere, confutando le une e rinsaldando le altre. Quando vengano a discorso con i filosofi e diano e prendano la parola, è possibile vedere che i retori, per esempio, sbattono e annaspano nell’incertezza, costretti come sono a fare affermazioni tra loro contraddittorie. [VIII,36,15] E quando si sia scoperto che i retori, cioè coloro che hanno fatto del declamare discorsi la loro opera specifica, sono più deboli dei filosofi in fatto di discorsi, cosa bisogna concepire degli altri uomini? Laonde se qualcuno che è re desidera essere forte nel ragionamento, deve assolutamente praticare la filosofia, [VIII,36,20] al fine di non temere che qualcuno possa avere il sopravvento su di lui per questa via; poiché il re deve essere, in ogni campo, privo di timore, coraggioso e invitto.
In generale, è del tutto necessario che il buon sovrano sia, a parole e nei fatti, perfettamente al riparo dalle aberrazioni; [VIII,37,1] se appunto egli deve -come reputavano gli antichi- essere legge vivente, propulsore di legalità e concordia, capace di tenere in disparte illegalità e guerra civile, emulo di Zeus e padre, come lui, di coloro sui quali governa. [VIII,37,5] E come potrebbe un re essere tale se non sfruttasse una natura eccellente, se non avesse ricevuto un’educazione superiore, se non possedesse tutte le virtù che s’addicono all’uomo? Anche nel caso ci sia una scienza diversa che guida i passi dell’umana natura verso la virtù e che insegna a praticare e perseguire le opere buone, [VIII,37,10] essa sarebbe comunque da paragonare alla filosofia e bisognerebbe determinare se essa sia migliore e bastante più della filosofia a far diventare virtuoso un re. Nel qual caso il re, volendo appunto essere un buon re, verosimilmente utilizzerebbe certo la migliore delle due. Ma se nessun’altra arte promette [VIII,37,15] la trasmissione e l’insegnamento della virtù -giacché ve ne sono alcune che trattano solo del corpo umano e degli esercizi che sono ad esso proficui, [VIII,38,1] mentre quante s’interessano dell’animo umano tutto prendono in considerazione fuorché donde potrà venirgli la saggezza- allora la filosofia è la sola arte che prende in considerazione e si preoccupa di escogitare il modo in cui l’uomo può sfuggire il vizio ed acquisire la virtù. Se così stanno le cose, [VIII,38,5] ad un re che vuole essere virtuoso cos’altro può stare più a cuore della pratica della filosofia? Meglio ancora: come e in che modo si potrebbe regnare e vivere bene senza praticare la filosofia? Quanto a me, io credo che il buon re sia per ciò stesso necessariamente un filosofo, [VIII,38,10] e che il filosofo sia per ciò stesso anche un sovrano.
Poniamo sotto osservazione innanzitutto la prima affermazione. È forse possibile che sia buon re chi non è uomo virtuoso? Non lo si può certo dire. Ma se un uomo è virtuoso, non sarebbe costui anche un filosofo? [VIII,38,15] Sì, per Zeus, visto che la filosofia è appunto il mestiere pratico dell’eccellenza morale. Dal che necessariamente si deduce che il buon re [VIII,39,1] è per ciò stesso anche filosofo. E che il filosofo, invero, sia ad ogni effetto anche un sovrano, lo si può imparare in questo modo. Caratteristica del sovrano è la capacità di sovrintendere su popoli e città, [VIII,39,5] e di meritare di comandare degli uomini. E chi più del filosofo può essere un valido patrocinatore di città o un più degno comandante di uomini? Proprio al filosofo s’addice (se è davvero filosofo) l’essere saggio, temperante, d’alto sentire, capace di discernere ciò ch’è giusto e confacente, di mettere in pratica quel che ha pensato e di farsi forza davanti agli eventi dolorosi. [VIII,39,10] Oltre a ciò egli sarebbe coraggioso, privo di timore, impavido davanti a cose che sono reputate terribili; e inoltre benefico, probo, filantropo. Chi si potrebbe trovare più idoneo o più capace di comando di un uomo siffatto? Nessuno. E se pur egli non avrà molti sottomessi che gli ubbidiscono, [VIII,39,15] non per questo egli sarebbe privato della sua qualità di sovrano; giacché basta anche comandare sugli amici che ha, sulla moglie e sui figli, o anche, per Zeus, soltanto su se stesso. Infatti il medico che ha in cura pochi pazienti, se è davvero esperto di medicina, non è da meno di quello che ne ha in cura molti. [VIII,39,20] Il musicista che insegna musica a pochi allievi, se è davvero padrone [VIII,40,1] dell’arte musicale, non è da meno di quello che la insegna a molti. Similmente il cavaliere che utilizza uno o due cavalli, quando davvero abbia scienza dell’equitazione, non è da meno di quello che ne utilizza molti. Così, chi ha soltanto uno o due persone che gli ubbidiscono è sovrano in modo similare a colui che possiede molti sudditi. [VIII,40,5] Dunque, per essere sovrano basta soltanto che abbia la perizia richiesta dalla carica regale. È per questo motivo, a me sembra, che Socrate denomina la filosofia ‘scienza politica e sovrana’ ed afferma che chi la apprende è per ciò stesso un politico. 
Mentre Musonio [VIII,40,10] proferiva queste parole il re, compiaciuto di questi discorsi, ammetteva d’essergli grato per le sue parole e gli disse: “In cambio di questi discorsi chiedimi qualunque cosa vuoi e io non ti farò alcuna obiezione”. Al che Musonio rispose: “Ti chiedo di conformarti e di tener dietro a questi discorsi che vai lodando. [VIII,40,15] Farai così a me una cosa sommamente gradita e gioverai a te stesso più che in ogni altro modo”.

DIATRIBA IX

[41,1] CHE L’ESILIO NON È UN MALE

Quando un esule si rammaricava dell’esilio, Musonio lo consolava più o meno con queste parole. Quanto all’esilio -diceva- [IX,41,5] se uno non è dissennato, come potrebbe sentirsene oppresso? L’esilio è qualcosa che non ci esclude in alcun modo dall’acqua, dalla terra, dall’aria; inoltre dal sole e dagli altri astri e neppure dalla conversazione con gli uomini, giacché dovunque siamo e in qualunque modo stiamo ci è dato di partecipare della loro compagnia. [IX,41,10] E se pur ci troviamo ad essere privati di un certo pezzo di terra e della compagnia di certi uomini, che c’è di terribile in ciò? Neppure quando vivevamo in patria godevamo dell’uso di tutta la terra, né stavamo in compagnia di tutti gli uomini. Quanto agli amici, anche ora potremmo stare in loro compagnia, almeno gli amici veri e dei quali conviene far menzione, [IX,41,15] giacché sono quelli che non ci tradirebbero né ci abbandonerebbero mai; mentre da quelli che sono amici fittizi e non veri è meglio star lontani che essere in compagnia. [IX,42,1] Perché? Il cosmo non è la patria comune di tutti gli uomini, come stimava Socrate? Sicché se andrai via dal luogo in cui nascesti e fosti allevato, non devi in verità ritenere d’essere esiliato dalla patria ma soltanto d’essere stato privato [IX,42,5] della facoltà di risiedere in una certa città; e ciò soprattutto se tu stimassi di essere una persona acquiescente alla ragione. Chi è tale, infatti, non apprezza e non deprezza alcun luogo come causa di felicità o d’infelicità: pone invece l’universo in se stesso e si ritiene cittadino della città di Zeus, quella che consiste di uomini e di Dei. [IX,42,10] In armonia con queste affermazioni è anche Euripide, con i versi nei quali dice:

‘tutta l’aria è percorribile da un’aquila,
tutta la terra è patria per un uomo nobile’

Come sarebbe ben stravagante e ridicolo [IX,43,1] un individuo che si trova in patria ma, abitando in una casa diversa da quella nella quale è nato, di ciò si dolesse e rammaricasse terribilmente; così sarebbe ben verosimilmente ritenuto stolto e dissennato chiunque, abitando in una città diversa da quella nella quale gli è capitato di nascere, ritiene ciò una sciagura. [IX,43,5] Come potrebbe l’esilio essere d’ostacolo alla sollecitudine per se stessi e all’acquisizione della virtù, dal momento che a nessuno, a causa dell’esilio, è precluso l’apprendimento e l’esercizio pratico di ciò ch’è d’uopo apprendere e praticare? L’esilio potrebbe anzi cooperare a questo fine, procurando agio e potestà [IX,43,10] d’imparare ed effettuare più di prima azioni nobili e virtuose ad uomini che non sono più tratti qua e là dalla cosiddetta patria a servigi politici, né importunati dai cosiddetti amici o congeneri, i quali tutti sono abilissimi nell’intralciare e nello spiccarci dall’impulso verso le mete più nobili. [IX,43,15] Ad alcuni l’esilio è stato addirittura assolutamente utile, come accadde a Diogene, che da cittadino qualunque divenne filosofo quand’era in esilio, e anziché risiedere a Sinope passò il suo tempo in Grecia, dove [IX,44,1] si distinse tra i filosofi nella pratica della virtù. Altri, malmessi nel corpo a causa di mollezze e di vita effeminata, l’esilio li ha rinvigoriti forzandoli ad un tenore di vita più virile. Sappiamo anche di persone le quali, durante l’esilio, sono state liberate da stati morbosi cronici, [IX,44,5] com’è senza dubbio il caso di questo Lacedemone di nome Spartiatico, il quale soffriva da lungo tempo di un male ai polmoni ed era per questo motivo spesso ammalato a causa della sua vita effeminata: ebbene, quando smise la vita effeminata smise anche d’aver bisogno di cure. Si parla anche di altri mollaccioni che sono stati liberati dalla gotta, [IX,44,10] mentre in precedenza erano straziati da questa affezione, poiché l’esilio li abituò ad un tenore di vita più duro e proprio per questo li preparò a diventare sani. In questo modo [IX,44,10] l’esilio, invece di operare contro, piuttosto coopera a che noi si sia meglio disposti sia nel corpo che nell’animo. [IX,44,15]
Né esiste affatto per gli esuli il pericolo di difettare del necessario. [IX,45,1] Infatti, quanti sono pigri, privi di iniziativa, incapaci di agire virilmente, anche vivendo in patria difettano per lo più dei mezzi di sussistenza e non sanno cavarsela; mentre quanti sono d’indole nobile, faticatori, intelligenti, si trovano bene dovunque vadano e lì se la passano senza che manchi loro nulla. [IX,45,5] Ed in effetti, se non vogliamo vivere nel lusso noi non abbiamo bisogno di molte cose:

‘Peraltro di che han bisogno i mortali salvo di queste due cose sole:
del grano di Demetra e dell’acqua da bere,
che abbiamo a disposizione e che la natura ci dà per nutrirci?’

Io dico che degli uomini degni di menzione [IX,45,10] quand’anche si trovino fuor di patria, non soltanto hanno abbondanza delle cose più necessarie per vivere, [IX,46,1] ma spesso riusciranno a procacciarsi anche molte ricchezze. Ad esempio Odisseo, pur versando -per così dire- in condizioni ben più meschine d’ogni altro esule, poiché era solo, nudo e naufrago [IX,46,5]; quando tuttavia giunse presso gente a lui sconosciuta, i Feaci, poté arricchirsi abbondantemente. Temistocle, dopo essere fuggito dalla patria giunse presso gente non soltanto non amica ma nemica e barbara, i Persiani, e ne ottenne [IX,46,10] in dono tre città: Miunte, Magnesia e Lampsaco, così che poté vivere a loro spese. Dione di Siracusa, privato dal tiranno Dionisio di tutte le sue sostanze, quando fu bandito dalla patria si procurò in esilio tale abbondanza di denaro da mantenere un esercito mercenario, con il quale venne [IX,46,15] in Sicilia e la liberò da quel tiranno. Chi, dunque, se è sano di mente e guarda a questi esempi, può ancora concepire l’esilio come causa della mancanza di mezzi per tutti gli esuli? [IX,47,1] E non è affatto necessario avere una cattiva opinione degli esuli sulla base del semplice esilio, poiché è a tutti noto che molti processi sono celebrati male, che molte persone sono cacciate fuori dalla patria ingiustamente, e che già diversi uomini, [IX,47,5] pur essendo virtuosi, furono scacciati dai loro concittadini: come Aristide il giusto da Atene; Ermodoro da Efeso, a proposito del quale Eraclito, da quando quello andò in esilio, soleva incitare fermamente gli Efesini ad impiccarsi da giovani. Taluni esiliati divennero anche celeberrimi: come Diogene di Sinope; [IX,47,10] come lo spartano Clearco, il quale partecipò alla spedizione militare contro Artaserse; e come molti altri dei quali, volendo, si potrebbe parlare. Come può dunque essere causa di cattiva opinione l’esilio, nel corso del quale alcuni uomini sono diventati più celebri di quanto non fossero prima? [IX,47,15] Sì, per Zeus, ma Euripide dice che gli esuli [IX,48,1] sono privati della libertà, dacché lo sono della libertà di parola. Infatti egli fa chiedere da Giocasta al figlio Polinice cos’è che un esule sopporta più di malanimo; ed egli le risponde [IX,48,5] che:

‘Una è la somma: non ha libertà di parola’

A sua volta Giocasta dice a Polinice:

‘Questo che hai detto è proprio di un servo: non dire quel che pensa’

Io però direi ad Euripide: ‘Caro Euripide, [IX,48,10] tu concepisci rettamente che è da servi non dire quel che si pensa quando ci sia bisogno di dirlo. Ma non sempre, non ovunque, non con chiunque bisogna dire ciò che pensiamo. A me sembra che tu non abbia detto bene ciò che hai detto, ossia che la libertà di parola non appartiene agli esuli, dal momento che tu intendi per libertà di parola il non tacere quel che ad uno capita di pensare. [IX,48,15] Ma non sono gli esuli che si peritano di dire ciò che pensano, bensì quanti temono che dalle parole che proferiscono provengano loro dolore o morte o punizioni o qualcos’altro del genere. Questo timore, per Zeus, non è l’esilio a produrlo. Infatti il timore di eventi reputati terribili c’è anche in molti uomini che si trovano in patria, [IX,48,20] o meglio ancora nella maggior parte di essi. Di fronte a tutti questi eventi l’uomo virile mostra coraggio quand’è in esilio non meno di quand’è in patria; e perciò, quando gli capita d’essere esule, dice coraggiosamente ciò che pensa [IX,49,1] non più di quando non sia in esilio. Questo è quel che si potrebbe dire ad Euripide. Tu poi, caro compagno, dimmi: quando Diogene era esule ad Atene o quando fu venduto dai pirati e venne a Corinto, [IX,49,5] ci fu forse allora qualche altro cittadino di Atene o di Corinto che dimostrasse maggiore libertà di parola di Diogene? E allora? Tra tutti gli uomini di quel tempo, c’era qualcun altro più libero di Diogene? Lui che comandava Xeniade, il suo compratore, come un padrone comanda un servo? Ma perché bisogna parlare di antiche vicende? [IX,49,10] Non ti pare che io sia un esule? Ebbene, sono forse io stato privato della libertà di parola? Mi è forse stata sottratta la potestà di dire quel che penso? Mi hai mai visto, tu o un altro, rannicchiarmi per timore davanti a qualcuno? O ritenere che le mie faccende vanno peggio adesso di prima? E neppure, per Zeus, [IX,49,15] potresti affermare d’avermi visto preda dell’afflizione o dello scoramento a causa dell’esilio. [IX,50,1] Infatti, se qualcuno ci ha sottratto la patria non ci ha però sottratto il potere di sopportare l’esilio.
Posso anche dirti i ragionamenti di cui mi servo con me stesso così da non adontarmi [IX,50,5] per l’esilio. A me sembra che l’esilio non defraudi affatto l’uomo -lo mostravo testé- neppure di quelli che i più legittimano come beni. E se pure esso ci defraudasse di qualcuno di essi oppure di tutti, non ci defrauda certo di quelli che sono i veri beni. Infatti, [IX,50,10] all’esule in quanto tale non è impedito di conservare per sé virilità e giustizia, né temperanza o saggezza, né qualunque altra virtù. Quando siano presenti, queste virtù sono per natura in grado di adornare l’uomo, di giovargli, di mostrarlo lodevole e degno di gloria. Quando siano assenti, invece, di recargli danno e vergogna, mostrandolo vizioso e indegno. [IX,50,15] Stando così le cose, se tu qui presente sei buono e possiedi le virtù, l’esilio non può recarti danno né farti servo nell’animo, poiché sono in te presenti le doti in grado di giovarti e farti esaltare al massimo grado. [IX,51,1] Ma se per caso sei cattivo, a danneggiarti è il vizio, non l’esilio. Perciò, piuttosto che da quelli dell’esilio sono i lacci del vizio quelli da cui devi affrettarti ad essere slegato. Queste erano le cose che io dicevo sempre a me stesso e che ora dico anche a te. [IX,51,5] Tu pertanto, se avrai senno non riterrai che terribile sia l’esilio -altri, infatti, lo sopportano agevolmente- bensì il vizio: vizio che quando c’è, chiunque l’abbia è un meschino. Infatti, delle due l’una: è necessario che tu sia in esilio o giustamente oppure ingiustamente. Se lo sei giustamente, [IX,51,10] come può mai essere retto o conveniente adontarsi per delle decisioni giuste? Se lo sei ingiustamente, questo può essere un male per coloro che ci hanno scacciato, non un male per noi: se, per Zeus, il commettere un’ingiustizia è cosa sommamente in odio alla divinità, il che è appunto ciò che è accaduto a quelli. Invece il subire un’ingiustizia [IX,51,15] -che è quanto accaduto a noi- è stato concepito sia dagli Dei che dagli uomini acquiescenti alla ragione, una cosa degna di soccorso e non di odio.

DIATRIBA X [52,1]

SE IL FILOSOFO INTENTERÀ CONTRO QUALCUNO UN PROCESSO PER OLTRAGGIO

[X,52,5] <Musonio> soleva dire che egli non avrebbe mai intentato contro qualcuno un processo per oltraggio, e che non avrebbe consigliato di fare ciò a qualcun altro di coloro che sono degni di filosofare. Nessuna delle offese che alcuni subiscono e ritengono un oltraggio è, infatti, un oltraggio o una vergogna per coloro che le subiscono: per esempio, essere ingiuriati, essere percossi, essere oggetto di sputi, tutte offese tra le quali la più infesta sono le percosse. [X,52,10] Che le percosse non abbiano in sé nulla di vergognoso o di oltraggioso, lo rendono manifesto i figli degli Spartani, figli che sono frustati in pubblico e che proprio di questo [X,53,1] vanno fieri. Ora, se il filosofo non fosse capace di spregiare le percosse e l’ingiuria, di che pro ci sarebbe: proprio lui che deve mostrarsi capace di spregiare anche la morte? “Ma, per Zeus, il pensamento di chi compie offese simili è terribile, giacché egli mira a prendere qualcuno a frustate schernendolo [X,53,5] e legittima ciò come un modo per oltraggiarlo o ingiuriarlo o fargli qualcosa di siffatto. Tant’è vero che Demostene crede che alcuni oltraggiano già soltanto con lo sguardo, che offese siffatte sono insopportabili e che gli uomini vanno fuori di sé, o per un verso o per un altro, a causa di simili offese”. Detto ciò, coloro che ignorano cosa sono in verità [X,53,10] il bello e il brutto, e che stanno a bocca aperta al cospetto della fama; ritengono anch’essi d’essere oltraggiati se uno volge loro uno sguardo più fisso del solito oppure li deride o percuote o ingiuria. Invece l’uomo di buon senso e accorto, [X,54,1] quale deve essere il filosofo, da nessuna di queste offese è sconcertato né crede che il subirle è una vergogna; ma piuttosto che una vergogna è il farle. In cosa aberra, infatti, chi subisce tali offese? Piuttosto è chi aberra a coprirsi subito di vergogna; [X,54,5] mentre chi subisce l’offesa, siccome non aberra in quanto semplicemente la subisce, neppure incorre in alcunché di vergognoso. Laonde l’uomo accorto non si spingerebbe ad intentare processi né a sporgere querele, perché neppure reputerebbe d’essere oltraggiato. È infatti da pusillanime il fremere e l’esacerbarsi per faccende siffatte. [X,54,10] Egli invece sopporterà l’accaduto con mitezza e con calma, giacché questo è ciò che si confà a chi decide d’essere magnanimo. Socrate era appunto manifestamente così disposto; lui che, ingiuriato pubblicamente da Aristofane, non solo non ne fremette ma anzi, incontrandolo, soleva chiedergli se avesse deciso di servirsi di lui [X,54,15] per qualche altro scopo del genere. Però il famoso Socrate, se non fremeva per le ingiurie [X,55,1] quando ne era oggetto in pieno teatro, probabilmente si esasperava quando veniva ingiuriato in presenza di poca gente! A sua volta il buon Focione, quando sua moglie fu coperta di fango da un tale, tanto s’astenne dall’incolpare chi l’aveva coperta di fango che quando quel tale, preso dal timore, [X,55,5] venne da lui e lo sollecitò a perdonalo affermando di ignorare che colei che aveva coperto di contumelie era sua moglie, gli disse: “Ma mia moglie nulla ha subito da te: forse l’ha subito qualcun’altra; sicché neppure è d’uopo che tu ti scusi con me”. Potrei anche parlare [X,55,10] di molti altri uomini messi alla prova di un oltraggio: gli uni coperti di contumelie da qualcuno con la lingua, altri con le mani e fisicamente maltrattati. Ebbene, si tratta di uomini i quali mostrano di non essersi difesi da chi li copriva di contumelie né di avere cercato vendetta in qualche altro modo, ma d’avere sopportato l’ingiustizia altrui con ogni mitezza. [X,55,15] Infatti, prendere in considerazione il modo per restituire il morso a chi ci morde e [X,56,1] per rendere male per male a chi l’ha fatto per primo, è davvero cosa non da uomo ma da belva; da creatura incapace di tener conto del fatto che la maggior parte delle azioni aberranti è cagionata negli uomini dall’ignoranza e dall’incultura, e che colui al quale viene insegnato [X,56,5] ad allontanarsi da queste, subito cessa di aberrare. Invece, accogliere gli errori altrui senza selvatichezza e non essere implacabile con coloro che ci coprono di contumelie bensì causa per essi di buona speranza, è proprio di una creatura mansueta e filantropa. Non è molto meglio, allora, che il filosofo si mostri degno [X,56,10] di perdonare chi lo coprisse di contumelie, invece di reputare meglio per sé il difendersi intentando un processo ed incolpando qualcuno; adottando così un comportamento in verità indecente, giacché effettua azioni inconseguenti ai suoi discorsi? Egli, infatti, da una parte dice che l’uomo virtuoso mai potrebbe subire ingiustizia da un individuo cattivo; [X,57,1] però dall’altra accusa di avere subito un’ingiustizia da uomini cattivi, proprio lui che legittima se stesso come virtuoso.

DIATRIBA XI

[57,5] QUAL È LA FONTE DI ENTRATE CHE S’ADDICE AL FILOSOFO

C’è anche un’altra fonte di entrate non peggiore di questa, e che probabilmente potrebbe anche essere ritenuta migliore, non senza ragione, per un uomo fisicamente robusto: ed è quella che viene dalla terra, sia essa di proprietà oppure no. Coltivando un terreno altrui, sia pubblico che privato, [XI,57,10] molti possono nutrire non soltanto se stessi ma anche i figli e le mogli; e taluni, grazie a questa attività, arrivano a cavarsela più che bene, essendo dei lavoratori laboriosi e dei faticatori. La terra, infatti, ricambia splendidamente e in modo giustissimo coloro che hanno sollecitudine per essa, poiché restituisce moltiplicato [XI,57,15] molte volte ciò che riceve, e procura a chi vuol faticare abbondanza di tutto il necessario [XI,58,1] per vivere, facendo ciò con loro decoro e non con loro disdoro. Non c’è uomo, a meno che non sia uno smidollato e un rammollito, il quale direbbe che una qualunque delle [XI,58,5] attività agricole è vergognosa o sconcia per una persona dabbene. Infatti, come può essere cosa non buona il piantare? O l’arare? O il lavorare nella vigna, seminare, mietere, trebbiare? Tutte queste non sono opere da uomo libero e confacenti a persone per bene? E invero la pastorizia, come non era un motivo di vergogna per Esiodo [XI,58,10] né gli impediva di essere caro agli Dei e cultore delle Muse, così non lo impedirebbe a nessun altro. A me, poi, la pastorizia è la più gradita di tutte le attività campestri, perché procura all’animo moltissimo agio per lavorare intellettualmente e ricercare su quanto attiene all’educazione. Infatti, tutte quante le opere dei campi [XI,58,15] che mettono in grande tensione e fanno piegare il corpo, costringono l’animo a concentrarsi su di esse soltanto o ad essere intento soprattutto ai bisogni del corpo. Invece tutte quante le opere che accordano al corpo la possibilità di non essere messo troppo in tensione, non escludono all’animo la possibilità di eleggersi l’esame di qualcuna delle questioni [XI,58,20] più importanti e, da riflessioni di questo genere, di diventare da se stesso più saggio: il che è quanto [XI,59,1] ha di mira ogni filosofo. È soprattutto per questo che io prediligo la pastorizia. E se poi uno vive da filosofo e insieme coltiva la terra, io non paragonerei a questa nessun’altra vita, né preferirei per me un altro modo di provvedermi delle entrate. Come potrebbe essere non secondo natura il ricavare sostentamento dalla terra, [XI,59,5] che è nostra nutrice e madre, più che da qualcos’altro? Vivere su un podere come potrebbe non essere cosa da uomini ben più del risiedere in una città, come fanno i sofisti? Come potrebbe non essere più sano un regime di vita all’aria aperta invece di una vita all’ombra? 
“Cosa dici? Il procacciarsi industriosamente da sé stessi le cose necessarie è più degno di un uomo libero [XI,59,10] che non il prenderle da altri?” Il non abbisognare di un altro per soddisfare le proprie necessità appare molto più dignitoso che il bisognarne. Pertanto il vivere d’agricoltura -certo con il pensiero fisso alla assoluta rettitudine- è così bello, felicitante e caro agli Dei che la divinità proclamò sapiente Musone di Chene [XI,59,15] e designò felice Aglao di Psophis, entrambi i quali menavano vita campestre, facevano lavori manuali e si [XI,60,1] tenevano lontani dalla vita urbana. Non è dunque una degna ambizione quella di cercare di imitarli e l’aspirare a lavorare industriosamente la terra? “E allora? Non è ben strano -potrebbe dire a questo punto qualcuno- che un uomo il quale educa dei giovani [XI,60,5] ed è capace di spingerli fino alla filosofia, lavori la terra e fatichi fisicamente in modo similare ai campagnoli?” Sì: questo fatto sarebbe realmente ben strano se lavorare la terra impedisse di vivere filosoficamente o di giovare ad altri in vista del raggiungimento della vita filosofica. A me sembra, invece, che i giovani ricavino maggiore giovamento non dallo stare in città [XI,60,10] insieme al maestro e neppure dall’ascolto delle sue conversazioni, bensì dal vederlo lavorare in un podere di campagna e così mostrare nei fatti quel che il discorso filosofico ci fa capire, ossia che è d’uopo faticare e penare fisicamente [XI,60,15] piuttosto che avere bisogno di un altro che ci nutra. Cosa impedisce all’allievo, anche mentre lavora, di ascoltare il maestro mentre dice qualcosa sulla temperanza o sulla giustizia o sulla fortezza? Per coloro che faranno buona filosofia non c’è davvero bisogno di molti discorsi; [XI,60,20] e i giovani non devono affatto apprendere questa folla di dottrine filosofiche di cui vediamo andar boriosi i sofisti, [XI,61,1] giacché queste sono cognizioni in realtà capaci soltanto di far sciupare ad un uomo la propria vita. Imparare le conoscenze più necessarie e più proficue non è certo impossibile anche se si è impegnati in lavori agricoli, soprattutto se non si sarà continuamente impegnati in essi ma si faranno [XI,61,5] delle pause. Io so per certo che pochi vorranno imparare la filosofia a questo modo: e però allora è meglio che la maggior parte dei giovani che dicono di voler fare filosofia -tutta gente di cattiva lega e individui rammolliti, a causa del cui avvicinamento alla filosofia essa si riempie di brutture- neppure si avvicino al filosofo. [XI,61,10] Non vi è infatti alcun vero amante della filosofia che non vorrebbe vivere su un podere in compagnia di un uomo virtuoso, anche se il terreno fosse per caso aspro e inadatto alla coltivazione; giacché sta per fruire di grandi benefici da questo modo di impiegare il suo tempo, grazie allo stare con il maestro notte e giorno; [XI,61,15] al tenersi lontano dai mali cittadini che sono d’intralcio alla vita filosofica; all’impossibilità di fare di nascosto qualcosa di bene o di male, il che è di grandissimo pro per coloro che si vanno educando; mentre è di gran pro anche l’essere sorvegliato da un uomo virtuoso quando si mangia, si beve o si dorme. [XI,61,20] Questi eventi, che accadrebbero necessariamente nel caso di una convivenza in campagna, [XI,62,1] li loda anche Teognide nei versi in cui afferma:

‘Tu bevi e mangia insieme a loro, sta seduto in mezzo a loro,
cerca di piacere a coloro dei quali grande è il potere’

Il poeta intende proprio dire [XI,62,5] che ad avere un grande potere di giovare alle persone sono gli uomini virtuosi e nessun altro -se uno mangia e beve con loro, e sta seduto in mezzo a loro- e lo ha reso manifesto con queste parole:

‘Dai virtuosi imparerai azioni virtuose; ma se ai viziosi
[XI,62,10] ti mescolerai, perderai anche il senno che hai’

Dunque non si dica che la coltivazione della terra è un intralcio [XI,63,1] ad imparare o ad insegnare quel che è d’uopo. Non sembra che sia così, soprattutto se chi impara starà per la maggior parte del tempo con chi insegna, e chi insegna abbia a portata di mano chi impara. Essendo la faccenda di questo genere, la fonte di entrate che massimamente si confà al filosofo [XI,63,5] è quella rappresentata dall’agricoltura.

DIATRIBA XII

SUL PIACERE VENEREO

Una parte nient’affatto minore [XII,63,10] della dissolutezza sta anche nei piaceri venerei, giacché i dissoluti hanno bisogno di svariate relazioni amorose, non soltanto legittime ma anche illegittime e non soltanto con femmine ma anche con maschi. I dissoluti, infatti, vanno a caccia ora di questo e ora di quest’altro amato, non s’accontentano delle relazioni a loro disposizione [XII,63,15] ma prendono di mira quelle fuori dall’ordinario e ricercano attivamente congiungimenti carnali vergognosi: tutte cose che rappresentano per un uomo grandi capi d’accusa. È pertanto d’uopo che quanti non sono dei dissoluti o dei viziosi [XII,64,1] ritengano giusti soltanto i piaceri venerei goduti all’interno del matrimonio e che sono finalizzati alla generazione di prole, poiché questi sono anche legittimi; e che ritengano invece ingiusti e illegittimi quelli miranti al mero piacere fisico, anche se goduti all’interno del matrimonio. Degli altri congiungimenti carnali, [XII,64,5] quelli adulterini sono sommamente illegittimi; né più accettabili di questi sono quelli di maschi con maschi, poiché un simile atto temerario è contro natura. Inoltre i rapporti sessuali, pur non adulterini, con delle femmine, se sono privi di legittimità ed effettuati per sfrenata incontinenza, sono anch’essi tutti quanti vergognosi. Pertanto, l’uomo temperante [XII,64,10] resisterebbe all’idea di accostarsi sessualmente ad un’etera, ad una donna libera al di fuori del matrimonio ed anche, per Zeus, ad una sua propria ancella. L’illiceità e la sconvenienza di questi rapporti sessuali sono motivo di laidezza e di onta grave per coloro che di essi vanno in cerca. Sicché nessuno, [XII,64,15] fosse pure una persona capace di non arrossire quasi mai, è disposto ad avere rapporti del genere alla luce del sole; e coloro che trovano questa audacia, quelli almeno che non sono completamente privi di ritegno, la trovano occultandosi e praticandoli di nascosto. E tuttavia proprio il provare [XII,65,1] a tenere nascosti gli atti che uno effettua, è caratteristico di chi ammette di stare aberrando. “Sì, per Zeus -dice qualcuno- ma chi ha dei rapporti sessuali con un’etera oppure, per Zeus, con una donna nubile, non commette un’ingiustizia contro qualcuno, come invece commette l’adultero contro il marito della donna da lui sedotta: [XII,65,5] il primo, infatti, non fa perdere a nessuno la speranza di avere dei figli”. Io, piuttosto, persisto nel dire che chiunque aberra commette per ciò stesso anche un’ingiustizia, se pur contro nessuno del prossimo, contro se stesso; mostrandosi apertamente peggiore e più disonorevole. Chi aberra, infatti, è in quanto aberra [XII,65,10] che è peggiore e più disonorevole. Lasciamo pur stare, per ora, l’ingiustizia. È però assolutamente inevitabile [XII,66,1] che a chi si lascia vincere da turpi piaceri fisici e si rallegra nell’insudiciarsi come le scrofe, sia congiunta una sfrenata incontinenza. Non meno che tale è chi s’accosta sessualmente alla propria schiava: azione che alcuni ritengono invece assolutamente incolpevole, perché ogni padrone [XII,66,5] reputa di avere il potere assoluto di fare ciò che vuole del proprio schiavo. In risposta a ciò il mio ragionamento è semplice. Infatti, se qualcuno reputa né vergognoso né assurdo che un padrone s’accosti sessualmente alla propria schiava, soprattutto se ella per caso è vedova; ebbene costui faccia un po’ conto di quale [XII,66,10] gli si appaleserebbe la faccenda se una padrona s’accostasse sessualmente ad uno schiavo. Non parrebbe infatti intollerabile che gradisse il rapporto sessuale con uno schiavo non soltanto una donna legalmente maritata, ma che facesse ciò anche una donna nubile? Eppure nessuno sarà di certo del parere che gli uomini siano peggiori delle donne né meno capaci di esse di [XII,66,15] regolare come si deve le loro smanie, né che quanto a senno gli uni siano più potenti e le altre più deboli, né quelli che comandano di quelle che sono comandate. Conviene infatti che gli uomini siano molto migliori delle donne se appunto si ritengono degni di capeggiarle. Qualora invece essi si mostrino più deboli delle donne allora essi sarebbero anche….peggiori. [XII,66,20] Sul fatto poi che l’accostamento sessuale di un padrone ad una schiava sia opera della non padronanza di sé [XII,67,1] e di null’altro, c’è ancora qualcosa da dire? È cosa ovvia.

DIATRIBA XIIIa

QUAL È IL PUNTO CAPITALE DEL MATRIMONIO [67,5]

La comunanza di vita e la generazione di figli è il punto capitale del matrimonio. <Musonio> soleva infatti dire che sposo e sposa debbono arrivare a congiungersi l’un l’altro in modo tale che, mentre vivono uno per l’altro, nel contempo fanno e ritengono [XIIIa,67,10] tutte le loro cose comuni e nessuna propria, neppure il corpo stesso. [XIIIa,68,1] Gran fatto è la generazione dell’essere umano, generazione che di questo legame di coppia è il risultato. Ma tale fatto non è ancora sufficiente a caratterizzare lo sposalizio, giacché ciò potrebbe ottenersi anche senza matrimonio, tra individui che copulano al di fuori di esso, come è vero per gli animali che copulano tra di loro. [XIIIa,68,5] Bisogna invece, ad ogni costo, che vi sia nel matrimonio convivenza e tutela reciproca tra marito e moglie, sia nella salute che nella malattia e in qualunque altro momento. Pertanto, ciascuno dei due giungerà al matrimonio avendo di mira tale tutela reciproca tanto quanto ha di mira la generazione di figli. Quando, dunque, questa tutela è perfetta e [XIIIa,68,10] coloro che stanno insieme, facendo a gara nel vincersi in ciò l’un l’altro, se la prestano a vicenda perfettamente: allora questo matrimonio procede come si conviene ed è degno d’emulazione, giacché siffatta comunanza è bella. Laddove, invece, ognuno dei due tiene in considerazione soltanto ciò ch’è suo e trascura l’altro; oppure, per Zeus, anche uno solo dei due si comporta così, [XIIIa,68,15] e mentre abita nella stessa casa guarda però con la mente fuori di essa, non volendo avere gli stessi scopi e le stesse aspirazioni del coniuge: allora è necessario che qui la comunanza di vita perisca, che le faccende tra coloro che abitano la stessa casa vadano malissimo e che essi, infine, si separino uno dall’altro, oppure che la loro permanenza [XIIIa,68,20] nella stessa casa risulti essere qualcosa di peggiore dell’isolamento.

DIATRIBA XIIIb

[69,1] QUAL È IL PUNTO CAPITALE DEL MATRIMONIO

È d’uopo perciò che gli sposi non tengano gli occhi sulla genealogia dell’altro, se è [XIIIb,69,5] di buona famiglia; né sui soldi, se ne possiede molti; né sul corpo, se l’ha bello. Infatti né la ricchezza di denaro, né l’avvenenza, né la nobiltà di stirpe sono per natura tali da far accrescere la comunanza di vita, come neppure la concordia; né essi operano in modo tale da migliorare la procreazione di figli. Per il matrimonio bastano [XIIIb,69,10] invece corpi sani, di conformazione media, capaci di lavoro manuale; corpi che invero sarebbero anche meno soggetti alle insidie degli individui impudenti, che lavorerebbero di più quanto alle opere corporali, e che genererebbero figli in quantità non insufficiente. Quanto agli animi, bisogna poi ritenere che i più idonei al matrimonio sono quelli che mostrano la migliore disposizione naturale alla temperanza, alla giustizia e, in complesso, alla virtù. [XIIIb,69,15] Quale matrimonio, infatti, è bello se è senza concordia? Quale comunanza di vita è buona? Come potrebbero andare d’accordo [XIIIb,70,1] persone malvagie una con l’altra? E come potrebbe un uomo virtuoso andare d’accordo con una persona malvagia? Non più di quanto un legno storto potrebbe adattarsi ad uno diritto o due legni entrambi storti adattarsi tra di loro. E giacché un legno storto è inadattabile ad un altro similmente storto, ancor più lo è [XIIIb,70,5] al suo opposto, cioè a quello diritto. Ma anche il malvagio non è amico del malvagio né va con lui d’accordo, e dunque ancora meno va d’accordo con l’uomo probo.

DIATRIBA XIV

[70,10] SE IL MATRIMONIO SIA UN INTRALCIO ALLA VITA FILOSOFICA

Siccome qualcun altro affermava che il matrimonio e la convivenza con una donna gli sembravano d’intralcio alla vita filosofica, Musonio disse che ciò non fu d’intralcio a Pitagora, né a Socrate, né a Cratete, ciascuno dei quali coabitò con una donna: [XIV,70,15] e nessuno direbbe che altri abbiano praticato la filosofia meglio di loro. [XIV,71,1] Anche se non aveva una casa, non possedeva suppellettili, era perfettamente squattrinato, Cratete egualmente si sposò. Dopo di che, non avendo un proprio tetto sotto cui ripararsi, passava il giorno e la notte in compagnia della moglie sotto i portici pubblici di Atene. [XIV,71,5] Noi invece che usciamo da una casa, e taluni pure con dei domestici al proprio servizio, abbiamo egualmente l’ardire di affermare che il matrimonio è d’intralcio alla filosofia? Invero proprio il filosofo è maestro e guida per gli uomini di tutte le opere che per natura all’uomo convengono: e secondo natura, [XIV,71,10] se mai qualcos’altro lo è, appare essere proprio lo sposarsi. Poiché in grazia di che cosa il creatore dell’uomo dapprima divise in due tipi di individui la nostra specie; poi fece loro due diversi organi sessuali, uno femminile e uno maschile; poi infuse in ciascuno dei due un potente desiderio di relazione [XIV,71,15] e di comunanza di vita con l’altro, e frammischiò in entrambi una potente brama reciproca, nel maschio per la femmina e nella femmina per il maschio? È dunque ovvio che voleva che uno stesse e convivesse con l’altro; [XIV,72,1] che essi si procurassero l’un l‘altro le cose necessarie per vivere; che facessero dei figli e insieme li allevassero, così che il nostro genere fosse sempiterno. Perché? Dimmi, non è forse conveniente che ciascuno faccia quel che fa anche il prossimo, affinché nella sua città vi siano delle famiglie, [XIV,72,5] affinché la città non sia deserta, di modo che gli affari pubblici siano in buono stato? Giacché se dici che bisogna badare soltanto ai propri affari, tu stai dichiarando che l’uomo per nulla differisce dal lupo né da alcun’altra delle belve più selvatiche, le quali sono nate per vivere di violenza e di sopraffazione, [XIV,72,10] che nulla risparmiano di ciò che possa fruttar loro qualche piacere, che sono asociali, prive di cooperazione reciproca e d’ogni sorta di giustizia. Se invece tu ammetterai che la natura umana assomiglia di più a quella dell’ape, la quale non può vivere sola e perisce se rimane solitaria, [XIV,73,1] che concorre all’opera unica e comune dei membri della sua stessa specie cooperando e collaborando con i vicini. Se ammetti, dico, che le cose stanno così, e oltre a ciò si concepiscono come vizi dell’uomo l’ingiustizia, la selvatichezza, [XIV,73,5] il non preoccuparsi del vicino che se la passa male, e invece quali virtù la filantropia, la bontà, la giustizia, l’attitudine a beneficare e tutelare il prossimo, allora a ciascuno di noi tocca preoccuparsi della propria città e fare di essa una famiglia: e legame fondante della famiglia è il matrimonio. [XIV,73,10] Sicché colui che abolisce il matrimonio tra uomini abolisce la famiglia, abolisce lo Stato, abolisce tutto quanto il genere umano. Infatti quest’ultimo non permarrebbe se non ci fosse la generazione di figli, né vi sarebbe generazione di figli senza matrimonio: intendo la generazione giusta e legittima. [XIV,73,15] È manifesto che una famiglia o uno Stato non consistono soltanto di donne né soltanto di uomini, ma della società degli uni con le altre; e che non si potrebbe trovare altra società tra uomini e donne più necessaria e più amorevole della famiglia. Quale compagno [XIV,74,1] sta così a cuore al compagno, quanto la cara moglie sta a cuore al suo sposo? Quale fratello a un fratello? Quale figlio ai genitori? Quale assente è così bramato come il marito da una moglie e la moglie da un marito? [XIV,74,5] La comparsa di chi alleggerirebbe di più l’afflizione o accrescerebbe la gioia o porrebbe rimedio a qualche guaio? Per chi è stato stabilito dalla legge che tutto è comune -corpi, animi e sostanze- se non per marito e moglie? Sicuramente tutti gli uomini ritengono che l’amore tra moglie e marito sia la più antica di tutte le forme di comunità, [XIV,74,10] e nessuna madre o padre dotati di senno è del parere d’essere più caro al proprio figlio che a colui cui è legato in matrimonio. Quanto l’amore di una moglie verso il marito primeggi su quello dei genitori verso un figlio, appare mostrarlo anche la famosa storia di Admeto. Admeto aveva ottenuto dagli Dei questa concessione, [XIV,74,15] ossia di poter vivere il doppio del tempo per lui stabilito se avesse fatto sì che qualcuno si disponesse a morire in sua vece. [XIV,75,1] Avvenne però che i suoi genitori, benché molto vecchi, non vollero morire prima di lui; mentre Alcesti, la donna da lui sposata, benché fosse giovanissima [XIV,75,5] accettò prontamente di morire al posto del marito. Che il matrimonio sia cosa grande e degna di gran cura è manifesto anche per quest’altra via. A sua tutela, infatti, vi sono degli Dei che, secondo quanto ritengono gli uomini, sono grandi. La prima è Era, ed è per questo che noi la designiamo come ‘nuziale’. Dopo di lei c’è Eros, e dopo di lui Afrodite. [XIV,75,10] Noi concepiamo che l’opera di tutti questi Dei sia quella di condurre l’uomo e la donna l’uno verso l’altro alla generazione dei figli. Dove, infatti, Eros potrebbe essere più giustamente presente che al rapporto sessuale legittimo di marito e moglie? Dove potrebbe esserlo Era? Dove Afrodite? In quale momento si potrebbero più opportunamente innalzare preghiere [XIV,75,15] a questi dei che mentre si va a nozze? Se chiamiamo qualcosa ‘afrodisiaco’, quale opera chiameremmo più convenientemente ‘afrodisiaca’ del coito della sposa con lo sposo? Perché mai, dunque, si direbbe che Dei così grandi sopravvedono e tutelano il matrimonio e la generazione dei figli, e poi che queste cose [XIV,75,20] non s’addicono all’uomo? E perché mai, se queste cose s’addicono all’uomo, non s’addicono però al filosofo? [XIV,76,1] È d’uopo o no che il filosofo sia peggiore degli altri uomini? No, non è d’uopo; anzi egli deve essere migliore, più giusto, più per bene. L’uomo che non si prende cura dello Stato di cui è cittadino è o non è peggiore e più ingiusto [XIV,76,5] di chi se ne prende cura? E chi bada soltanto al proprio interesse è o non è peggiore e più ingiusto di chi tiene nella dovuta considerazione anche gli affari pubblici? Chi sceglie per sé una vita isolata e solitaria è o non è più patriota, filantropo e socievole di chi porta avanti una famiglia, genera dei figli e fa crescere la potenza della propria città, tutte cose tipiche di chi si sposa? [XIV,76,10] È pertanto manifesto che avere ogni sollecitudine per il matrimonio e la generazione di figli è qualcosa che s’addice al filosofo. E se questo gli s’addice, giovanotto, come potrebbe essere retto il discorso che tu testé esponevi, ossia che il matrimonio è un intralcio per il filosofo? Infatti, fare filosofia appare essere null’altro [XIV,76,15] che investigare a parole e praticare nei fatti ciò che ci è confacente e ci conviene. In quell’occasione Musonio disse più o meno queste cose.

DIATRIBA XVa

[77,1] SE BISOGNA ALLEVARE TUTTI I FIGLI GENERATI

I legislatori -la cui opera è stata proprio quella di cercare e di considerare [XVa,77,5] cos’è bene e cos’è male per lo Stato e cosa giova e cosa reca danno nei pubblici affari- ebbene anche tutti costoro non hanno forse ritenuto che la cosa più utile per gli Stati sia che le famiglie dei loro cittadini si riempiano di figli e che la cosa più dannosa sia la diminuzione del loro numero? Non hanno forse concepito come svantaggiosa l’assenza o lo scarso numero di figli dei cittadini [XVa,77,10] e, al contrario, vantaggioso l’avere figli ed anzi, per Zeus, l’averne molti? Per questo motivo, infatti, proibirono alle donne l’aborto e comminarono una pena alle disobbedienti; per questo vietarono loro l’applicazione di pratiche miranti alla sterilità e alla preclusione della gravidanza; [XVa,77,15] per questo disposero, sia per l’uomo che per la donna, un premio di prolificità e stabilirono che l’assenza di figli fosse soggetta ad una multa. [XVa,78,1] Come non compiremo noi dunque qualcosa di ingiusto e di illegale, compiendo cose contrarie alle decisioni dei legislatori, uomini divini e cari agli Dei, seguire i quali è ritenuto bello ed utile? [XVa,78,5] E noi compiamo cose loro contrarie quando impediamo la nostra propria prolificità. Se dunque effettuiamo ciò come potremmo non stare peccando anche contro gli Dei patrii e contro lo Zeus protettore del genere umano? Infatti, come chi commette ingiustizia contro degli ospiti o degli amici aberra contro lo Zeus protettore degli ospiti o degli amici, così chiunque commette ingiustizia [XVa,78,10] contro il proprio genere aberra contro gli Dei patrii e contro Zeus protettore del genere umano, lo Zeus che veglia sulle aberrazioni contro i diversi generi: e chi aberra riguardo agli Dei è un empio. Che l’allevamento di molti figli sia bello e vantaggioso ben lo comprenderebbe, invero, chi tiene conto [XVa,78,15] del fatto che in città un uomo con molti figli è onorato, incute rispetto ai vicini ed ha più autorità di tutti i suoi simili, se questi non godono della sua stessa abbondanza di figli. Come infatti, io credo, un uomo con molti amici è più potente di uno che ne è privo, così chi ha molti figli è più potente di chi non ne ha [XVa,78,20] oppure ne ha pochi; e ciò tanto più quanto più un figlio è congiunto al padre da un legame ben più stretto che non un amico. [XVa,79,1] Vale anche la pena pensare a quale sorta di spettacolo sia quello di un uomo o di una donna ricchi di prole quando sono visti attorniati dai loro figli. Non si potrebbe vedere uno spettacolo così bello assistendo alla sfilata di una processione in onore degli Dei, né l’armonioso movimento di un coro [XVa,79,5] che danza in luoghi sacri sarebbe così degno d’essere ammirato quanto lo è un corteo di molti figli che avanzano in città precedendo il proprio padre o la propria madre, o conducono per mano i genitori o li circondano in qualche altro modo di affettuose attenzioni. Cosa c’è di più bello di questo spettacolo? Che cos’è più degno d’emulazione di questi genitori, per di più qualora essi siano [XVa,79,10] persone acquiescenti alla ragione? Per chi altri si potrebbe auspicare con tanto slancio l’ottenimento di beni da parte degli Dei, o chi altri si aiuterebbe per qualunque suo bisogno? [XVa,79a] Sì per Zeus -si dice- ma se io sono povero e ho scarsezza di denaro, e però ho molti figli: donde posso trarre i mezzi per allevarli tutti? Le rondini, gli usignoli, le allodole, i merli e tutti questi piccoli uccelli che hanno a disposizione molte meno risorse di te, donde traggono i mezzi per allevare i loro pulcini? A proposito di essi anche Omero dice così:

‘Come una madre porge l’imbeccata ai suoi implumi pulcini
dopo che l’ha procurata, e ciò pena è per lei’

Questi animali superano o non superano per intelligenza l’uomo? Certo diresti di no. E allora? In potenza e in vigore? Di gran lunga ancor meno in ciò. E allora? Mettono essi da parte e custodiscono il cibo?

DIATRIBA XVb

[80,1] SE BISOGNA ALLEVARE TUTTI I FIGLI GENERATI

Il fatto che a me sembra assolutamente spaventoso è che talune persone, senza avere il pretesto della povertà ma possedendo anzi [XVb,80,5] denaro in abbondanza ed essendo in alcuni casi addirittura ricche, hanno tuttavia l’ardire di non allevare i figli successivi al primo. E affinché i primogeniti abbiano maggiore abbondanza di mezzi, procacciano loro questa prosperità tramite un atto empio. Essi, infatti, fanno levare di mezzo i fratelli dei primogeniti, così che questi possano ereditare [XVb,80,10] la parte maggiore delle sostanze paterne, mal sapendo quanto sia meglio avere molti fratelli che avere molto denaro. Il denaro, infatti, sveglia i propositi insidiosi dei vicini mentre i fratelli, invece, chiudono la porta agli insidiosi. E mentre il denaro ha bisogno di soccorsi [XVb,80,15] i fratelli, invece, sono validissimi soccorritori. <La validità del soccorso prestato dai fratelli [XVb,81,1] non è neppure paragonabile a quella del soccorso che può esserci prestato da un buon amico e tanto meno a quello di persone sconosciute>. In fatto di sicurezza, quale bene si potrebbe paragonare alla benevolenza di un fratello? In fatto di imprese belle e nobili, quale socio meglio disposto si potrebbe avere di un fratello acquiescente alla ragione? [XVb,81,5] Nel caso di sventure, la comparsa di chi si bramerebbe più di quella di un fratello del genere? Io ritengo che la persona più degna d’emulazione sia quella che vive circondata da una moltitudine di fratelli concordi, e legittimo come sommamente caro agli Dei l’uomo che trae i propri beni da casa sua. [XVb,81,10] Perciò ritengo anche che ciascuno di noi debba provare a lasciare ai propri figli dei fratelli più che del denaro, se ha intenzione di lasciar loro maggiori risorse per imprese belle e nobili.

DIATRIBA XVI

[81,15] SE BISOGNA UBBIDIRE AI GENITORI IN OGNI CASO

Un giovinetto che aveva deciso di darsi alla pratica della filosofia e il cui padre però glielo impediva, pose a Musonio più o meno questa domanda: [XVI,82,1] “Musonio, è d’uopo ubbidire in ogni caso ai genitori, oppure in alcuni casi si deve non dare loro retta?” E Musonio: che ciascuno ubbidisca alla propria madre o al proprio padre a me pare una bella cosa, e io la lodo. [XVI,82,5] Osserviamo allora da vicino cos’è l’ubbidire; o meglio ancora investighiamo con cura, in primo luogo, cos’è il disubbidire e chi è il disubbidiente, e così vedremo poi meglio quale specie d’azione è l’ubbidire. Orsù, se un padre che non è un medico né un esperto di farmaci salutari e di quelli che fanno ammalare, [XVI,82,10] ingiungesse al figlio malato l’assunzione di qualcosa come rimedio giovevole mentre esso è invece dannoso e inutile, e se il malato non fosse all’oscuro che è così: orbene, se questi non fa ciò che gli è stato ingiunto, sta disubbidendo ed è un figlio disubbidiente? A me non sembra. E cosa succede se suo padre, malato proprio lui stavolta, chiedesse del vino o del cibo al momento inopportuno, [XVI,82,15] disponendosi così ad un aggravamento della malattia se ne assumesse; e se il figlio, ben cosciente di ciò, non gliene desse: disubbidisce egli forse al padre? Non lo si può dire. Ancor meno disubbidiente di questo si potrebbe chiamare quel figlio che, avendo un padre avido di guadagno, davanti alla sua intimazione di rubare [XVI,83,1] o di sottrarre dei fondi dati in deposito, non mette in opera l’ingiunzione. Credi tu che non esistano padri i quali ingiungono cose di questo genere ai propri figli? Io so di un padre così malvagio che, avendo un figlio nel fior degli anni, [XVI,83,5] vendette quel fiore. Se pertanto quell’adolescente, smerciato e mandato da suo padre incontro alla vergogna, dicesse di no e non vi andasse, diremmo noi che egli è disubbidiente o diremmo che si comporta da saggio? Non val neppure la pena di chiederlo. Effettivamente il disubbidire [XVI,83,10] e il disubbidiente rappresentano un’ingiuria e un’onta; ma il non effettuare ciò che non è d’uopo non costituisce un’onta bensì una ragione di lode. Sicché chi non mette in opera le ingiunzioni di un padre, di un comandante o, per Zeus, di un padrone i quali ingiungono di fare azioni viziose, ingiuste, vergognose: ebbene costui, come non commette un’ingiustizia così non si macchia di alcuna aberrazione. [XVI,83,15] Il solo a disubbidire è invece colui che non si preoccupa e non dà retta alle ingiunzioni buone, virtuose, utili. Dunque il disubbidiente è questo tipo di persona. Invece ubbidiente è la persona che si comporta in modo opposto a questo e ne rappresenta il contrario. Sarebbe cioè colui che presta ascolto a chi ci esorta a fare quel che conviene [XVI,83,20] e che lo esegue di buon grado. Questa è la persona ubbidiente. Onde allora si ubbidisce ai propri genitori, [XVI,84,1] quando si effettuano di buon grado le azione probe alle quali essi ci esortano. Anzi, qualora uno effettui le azioni che deve e che gli sono utili pur senza che i genitori a ciò lo esortino, ebbene io affermo che costui sta ubbidendo ai genitori. Per capire che sto parlando rettamente, considera la faccenda in questo modo. [XVI,84,5] Chi effettua le azioni volute dal padre e segue la volontà del padre ubbidisce, io credo, al padre; e segue la volontà del padre anche chi effettua ciò che si deve e che è meglio. In che modo ciò è vero? Ciò è vero perché tutti i genitori vogliono il bene dei loro figli e, volendo il loro bene, [XVI,84,10] vogliono che essi effettuino quel che si deve e che è utile. Pertanto, chiunque fa le azioni convenienti e utili fa ciò che vogliono i genitori. Sicché chi opera così ubbidisce ai genitori anche nel caso in cui i genitori non gli ordinino a parole di farlo. Dunque a chi vuole ubbidire [XVI,84,15] ai genitori in ciascuna delle sue azioni conviene considerare soltanto questo e null’altro, ossia se quel che ha intenzione di fare è un’opera bella e utile; giacché se essa è tale, con ciò stesso chi la fa sta ubbidendo ai genitori. Dunque, giovanotto, non avere il timore [XVI,84,20] di stare disubbidendo a tuo padre se, nel caso egli ti ordini di compiere un’azione sconveniente, [XVI,85,1] tu ti astieni dal compierla; oppure, se egli ti vieta di compiere un’azione conveniente, tu invece la compi. E non macchiarti di qualche aberrazione prendendo a pretesto il fatto che tuo padre ti ordina di fare qualcosa di non bello oppure ti vieta di fare qualcosa di bello e nobile. [XVI,85,5] Non c’è alcuna necessità che tu esegua ordini non buoni; e reputo che questo nemmeno tu lo ignori. Pertanto non darai retta a tuo padre in fatto di musica se lui, senza essere esperto di musica, ti ingiungerà di pizzicare le corde della lira in modo dissonante; oppure se, senza conoscere le lettere, intimerà a te [XVI,85,10] che invece le conosci, di scrivere e di leggere non al modo che hai imparato ma altrimenti; e neppure gli presterai attenzione se lui, senza saper pilotare una nave, intimerà a te, che invece sai pilotarla, di muovere il timone come non conviene fare. E dunque? La faccenda sta in questi termini: se tuo padre, che ignora cosa sia la filosofia, impedisse di praticarla a te [XVI,85,15] che invece sai e hai sentito parlare di cosa essa sia, bisognerà prestargli attenzione oppure bisognerà piuttosto fargli cambiare opinione spiegandogli perché così facendo non ti consiglia bene? A me sembra questo. Può darsi che si possa, utilizzando anche il solo ragionamento, persuadere il proprio padre a farsi della filosofia il concetto che si conviene, [XVI,85,20] certo a patto che egli non sia per natura assolutamente duro di comprendonio. Qualora però egli non fosse persuaso dal discorso e non riuscisse a seguire il ragionamento, se il figlio pratica davvero la filosofia allora saranno le opere del figlio [XVI,86,1] a trarre quel padre completamente dalla parte della filosofia. Il figlio che pratica la filosofia, infatti, sarà premurosissimo nel prestare al proprio padre ogni sorta di cure; sarà compostissimo e mitissimo; in compagnia pochissimo attaccabrighe od egoista; non precipitoso né turbolento [XVI,86,5] né iracondo. Un tale figlio sarebbe inoltre padrone di sé e della propria lingua, del proprio ventre, dei propri organi sessuali, pieno di fortezza davanti ad eventi terribili e ai dolori fisici; capacissimo di capire con la mente ciò che è bello e nobile, senza mai spingersi nelle opere oltre ciò che tale gli appare. Onde egli concederà di buon grado al padre tutte le cose piacevoli, [XVI,86,10] accollandosi al suo posto tutte quelle faticose. Chi non auspicherebbe di avere dagli Dei un figlio siffatto? E chi, avendolo, non vorrebbe bene ad un figlio grazie al quale un padre sarebbe sommamente degno d’invidia e tenuto per beato da tutte le persone benpensanti? Pertanto, giovanotto, [XVI,86,15] se pur essendo anche tu un figlio di questo genere, quale certamente sarai se pratichi davvero la filosofia, non riuscissi a trarre tuo padre dalla parte della filosofia né a persuaderlo a consentirti di fare questo e a convenirne, fa questo ragionamento: tuo padre ti impedisce di praticare la filosofia, ma il padre comune [XVI,87,1] di tutti gli uomini e degli Dei, Zeus, te lo intima e a ciò ti esorta. L’ingiunzione di Zeus e la sua legge sono che l’uomo sia giusto, probo, benefico, temperante, disinteressato, superiore al dolore fisico, superiore al piacere fisico, mondo d’ogni invidia e d’ogni intento insidioso: [XVI,87,5] per dirlo in breve, la legge di Zeus intima che l’uomo sia virtuoso. Ed essere virtuoso è la stessa cosa che essere filosofo. Se dunque con l’ubbidire ad un padre tu ti disponi ad eseguire gli ordini di un uomo, e col darti alla pratica della filosofia ti disponi invece ad eseguire gli ordini di un padre divino, cioè di Zeus, [XVI,87,10] è manifesto che tu devi darti alla pratica della filosofia piuttosto che non dartici. Ma, per Zeus, tuo padre ti rinchiuderà in casa e ti terrà chiuso a chiave al fine di impedirti di praticare la filosofia. Forse farà questo, e tuttavia non potrà precluderti di mettere in pratica la filosofia, se tu così decidi. Noi infatti non facciamo filosofia con una mano o con un piede né con qualche altra simile parte del corpo, bensì con l’animo, [XVI,87,15] ed in particolare con una piccola parte di esso: quel po’ d’animo che chiamiamo intelletto <proairesi>. La divinità eresse quest’ara nella parte più fortificata e sicura dell’animo, così che fosse invisibile e inespugnabile, esente da qualunque necessità esteriore, libero e incondizionato. E specialmente se capita all’intelletto <proairesi> d’essere buono, [XVI,88,1] tuo padre non potrà impedirti di usarlo, né di usarlo com’è d’uopo usarlo, né di dare il tuo beneplacito ai giudizi belli e di non darlo ai giudizi brutti né, a sua volta, di scegliere per te gli uni e di avversare gli altri. [XVI,88,5] Facendo ciò, tu con ciò stesso praticheresti la filosofia e non avrai affatto bisogno di avvolgerti in un mantello, né di andare in giro senza tunica, né di lasciarti crescere i capelli, né di trasgredire le mode comuni ai più. Anche questi comportamenti si confanno ai filosofi, ma la pratica della filosofia non consiste in essi, [XVI,88,10] bensì nel giudicare rettamente e nell’usare l’intelletto <proairesi> com’è d’uopo usarlo.

DIATRIBA XVII

 QUAL È IL MIGLIOR VIATICO PER LA VECCHIAIA

Un’altra volta, poiché un anziano signore gli chiese quale fosse [XVII,88,15] il miglior viatico per la vecchiaia, Musonio gli rispose: “Lo stesso che per la giovinezza: [XVII,89,1] vivere metodicamente in armonia con la natura”. Potresti capire cosa ciò significhi, soprattutto se poni mente al fatto che la natura dell’uomo non è fatta per il piacere fisico; e che neppure un cavallo, un cane o un bue, tutti animali di molto minor valore di un uomo, [XVII,89,5] sono stati fatti per il piacere fisico. Nessuno riterrebbe, infatti, che centri il proprio fine un cavallo che mangia, beve e monta sfrenatamente, senza peraltro effettuare alcuna delle opere che s’addicono ad un cavallo; o un cane che gode, come quel cavallo, di tutti i piaceri fisici e però non effettua alcuna delle opere per le quali [XVII,89,10] i cani sono reputati essere buoni; o un altro animale qualsiasi che pratica la completa astinenza quanto all’opera che gli si addice e però è satollo di piaceri fisici. Nessuno di questi modi di vivere potrebbe essere chiamato secondo natura; mentre tale è, invece, il modo di vivere che palesa al massimo grado la virtù dell’animale nelle opere in armonia con la sua propria natura. La natura di ciascun essere, infatti, guida [XVII,89,15] ciascuno all’eccellenza che gli è propria, sicché è verosimile pensare che anche l’uomo viva secondo natura non quando passa la sua vita nei piaceri fisici ma quando vive nella virtù. [XVII,90,1] Soltanto allora esisterebbe per lui un legittimo motivo per essere lodato giustamente, per avere un’alta opinione di sé, per essere pieno di buone speranze e di coraggio, alle quali necessariamente si accompagnano la letizia e una salda gioia. L’uomo è assolutamente l’unico essere terrestre fatto a imitazione di Dio e possiede virtù a quello similari, [XVII,90,5] giacché neppure tra gli Dei noi abbiamo la possibilità di supporre l’esistenza di qualcosa di migliore della saggezza e della giustizia o, ancora, della fortezza e della temperanza. Pertanto come Dio, grazie alla presenza di queste virtù, è invincibile dai piaceri fisici, invincibile dallo spirito di sopraffazione [XVII,90,10] superiore al desiderio smanioso, superiore all’invidia e alla gelosia, disinteressato, benefico e filantropo -infatti noi divisiamo Dio come un essere di questo genere -; allo stesso modo bisogna ritenere che l’uomo, il quale è un’imitazione di Dio, sia simile a lui qualora viva in armonia con la natura, e che sia giustamente invidiabile se permane in questo stato: [XVII,90,15] e che se è invidiabile è per ciò stesso felice, giacché noi non invidiamo giustamente altro che le persone felici. Invero non è impossibile che un uomo sia tale, giacché non c’è modo di divisare che queste virtù originino da qualcos’altro che non sia la natura umana stessa, [XVII,90,20] e giacché ci imbattiamo in certi uomini di qualità tali che per ciò io chiamavo divini [XVII,91,1] e simili a degli Dei. Dunque, se fin dalla prima gioventù una persona si fosse per avventura curata di darsi una retta educazione, cioè avesse appreso tutte quelle nozioni che incorporano insegnamenti virtuosi [XVII,91,5] ed avesse praticato a sufficienza le virtù conseguibili con l’esercizio, costui poi in vecchiaia, usando le risorse di cui dispone, potrebbe vivere in armonia con la natura, sopportando senza affliggersi la privazione dei piaceri fisici di gioventù, non provando afflizione per la presente debolezza del suo corpo, senza mostrarsi infastidito per lo spregio in cui è tenuto dai vicini [XVII,91,10] o per la trascuratezza mostrata nei suoi confronti da familiari ed amici, in quanto contro tutto ciò egli è in possesso, nel suo intelletto <proairesi>, di un ottimo antidoto: l’educazione che possiede. Se invece una persona avesse ricevuto un’educazione più carente e però mostrasse slancio per ciò che è migliore e più eccellente e fosse in grado di ubbidire [XVII,91,15] a precetti ben esposti, costui farebbe bene a cercare di ascoltare discorsi di natura esortativa da parte di coloro che hanno operato per sapere quali cose sono dannose e quali sono giovevoli agli uomini, il modo in cui si possono rifuggire le prime ed acquisire le seconde, e come accogliere con calma l’avvicinarsi di cose [XVII,91,20] che non sono mali ma che sembrano esserlo. Ascoltando questi discorsi ed ubbidendo loro (giacché ascoltare senza ubbidire non fa guadagno alcuno), egli disporrebbe bene la sua vecchiaia quanto al resto [XVII,92,1] e scaccerebbe da sé la paura della morte: paura che sommamente mette in agitazione ed opprime i vecchi, come se essi dimenticassero che la morte è destino di ogni mortale. Ciò che rende miserrima la vita dei vecchi è effettivamente [XVII,92,5] proprio questa paura della morte, come senza dubbio ammise anche il retore Isocrate. Raccontano infatti che Isocrate, interrogato da qualcuno sul come se la passasse, rispose che se la passava come può passarsela una persona di novant’anni la quale ritiene che l’estremo dei mali sia la morte. [XVII,92,10] E dunque quale parte poteva mai avere costui nell’educazione e nella conoscenza dei veri beni e dei veri mali, proprio lui che concepiva come male quel che è invece la necessaria conclusione della vita anche migliore? Infatti, se la vita migliore è quella dell’uomo virtuoso, anche di questa il termine è la morte. Come dunque dicevo, se uno si procacciasse in vecchiaia [XVII,92,15] questo farmaco, ossia la capacità di accogliere la morte senza paura, coraggiosamente; ebbene costui si sarebbe provvisto di una non piccola risorsa per una vita senza afflizioni e secondo natura. Questa risorsa egli la potrebbe acquisire [XVII,93,1] stando in compagnia di filosofi che siano tali non soltanto a parole ma veramente, e a patto che voglia ubbidire loro. Io affermo pertanto che il viatico più efficace per la vecchiaia, cosa che già dicevo all’inizio del discorso, è quello di vivere secondo natura effettuando le opere che è d’uopo effettuare [XVII,93,5] ed utilizzando l’intelletto <proairesi> al modo che è d’uopo utilizzarlo. In questo modo il vecchio godrebbe di un buonissimo umore e sarebbe oggetto di grandissime lodi, avendo le quali cose potrebbe vivere felicemente e con onore. Se poi uno crede che il sommo conforto per i vecchi sia la ricchezza di denaro e che essa procuri loro una vita al riparo dalle afflizioni, ebbene crede male; [XVII,93,10] giacché la ricchezza di denaro è in grado di procurare agli uomini i piaceri fisici offerti dalle cibarie, dalle bevande, dai rapporti sessuali e da altre attività simili, ma mai procurerebbe a chi la possiede il buonumore e il dominio sull’afflizione. Ce ne sono testimoni molte persone ricche di denaro, le quali si dibattono nell’afflizione e nello scoramento e si ritengono meschine e infelici. [XVII,93,15] Questa è la ragione per cui la ricchezza di denaro non potrebbe essere un buon sostegno per la vecchiaia.

DIATRIBA XVIIIa

[94,1] SUL VITTO

Musonio era solito parlare spesso del vitto e parlarne con grande empito, [XVIIIa,94,5] come di qualcosa non di poco conto o che faccia poca differenza, giacché credeva che la padronanza di sé in fatto di cibarie e di bevande fosse il principio e la base fondamentale dell’essere temperanti. In un’occasione, tralasciati altri argomenti che di volta in volta trattava, disse le cose seguenti. Com’è d’uopo preferire un vitto frugale ad uno costoso ed uno facile da procurare [XVIIIa,94,10] ad uno difficile da procurare, così pure va preferito il cibo che è congenere ed appropriato all’uomo, rispetto a quello che non lo è. Congenere ed appropriato a noi è il cibo rappresentato [XVIIIa,95,1] dai vegetali che germogliano dalla terra, tanto i cereali quanto i vegetali che, pur non essendo cereali, sono in grado di nutrire l’uomo senza recargli nocumento; ed inoltre il cibo proveniente da animali non uccisi e utili anche altrimenti. [XVIIIa,95,5] Di queste vivande le più idonee sono quelle di cui è dato servirsi immantinente senza cottura, giacché sono di prontissimo consumo: come, ad esempio, i frutti di stagione e taluni ortaggi, il latte, il cacio e il miele. Anche le vivande che hanno bisogno di cottura, siano esse cereali oppure ortaggi, non sono inidonee bensì tutte congeneri ed appropriate all’uomo. Musonio dichiarò poi che il vitto a base di carne [XVIIIa,95,10] è più da belve e più adatto agli animali selvatici. Egli soleva inoltre dire che la carne è un cibo assai pesante e che è d’intralcio al pensare e al ragionare rettamente, giacché l’esalazione che da essa emana, essendo più torbida, ottenebra l’animo. Ragion per cui coloro i quali consumano molta carne appaiono [XVIIIa,95,15] più torpidi nell’uso dell’intelletto <proairesi>. Inoltre l’uomo, siccome è il più congenere agli Dei tra tutti gli esseri terrestri, [XVIIIa,96,1] deve anche nutrirsi nel modo più simile possibile a loro. Ora, se agli Dei bastano i vapori umidi che salgono verso l’alto dalla terra e dall’acqua, si sarebbe detto che noi ci accostiamo al cibo più simile possibile a questo, [XVIIIa,96,5] che è il cibo più leggero e più puro. Così facendo anche il nostro animo risulterebbe puro e secco e, essendo tale, sarebbe sommamente nobile e sapiente, come reputa Eraclito quando afferma:

‘Fulgida luce è l’animo sommamente sapiente e nobile’

Invece, diceva Musonio, [XVIIIa,96,10] noi ci nutriamo molto peggio degli animali bruti. Questi, infatti, se pur s’avventano con veemenza sul cibo, spinti dalla smania per esso come da una sferza; tuttavia si astengono dall’elaborare in modo artificioso le loro vivande, [XVIIIa,97,1] accontentandosi di quelle che capitano e dando la caccia soltanto alla sazietà e a nient’altro. Noi, invece, divisiamo arti ed accorgimenti svariati per dare più gusto all’assunzione del cibo e per titillare maggiormente la gola. [XVIIIa,97,5] E siamo arrivati a un punto tale di ghiottoneria e d’ingordigia che, come i trattati di musica e di medicina, così alcuni hanno compilato dei trattati di cucina, i quali faranno certo aumentare il piacere del palato ma rovinano di sicuro la salute. In effetti è possibile vedere che quanti si danno agli eccessi in fatto di vivande raffinate sono molto più maldisposti di corpo, [XVIIIa,97,10] e taluni di essi sono addirittura simili a donne con le voglie. Costoro, infatti, come quelle, detestano le vivande più consuete ed hanno lo stomaco rovinato. Onde come un ferravecchio ha di continuo bisogno di tempra, [XVIIIa,97,15] così pure i loro stomaci vogliono essere continuamente temprati o dal vino puro o dall’aceto o da qualche vivanda piccante. Non era così quello spartano che, vedendo un tale cui era stato imbandito un uccelletto [XVIIIa,98,1] di quelli pingui e costosi e che per sfoggio di raffinatezza lo disdegnava affermando di non poterlo mangiare, disse: “Io invece posso mangiare anche dell’avvoltoio e dello sparviero”. Zenone di Cizio reputava di non doversi accostare ad un cibo raffinato [XVIIIa,98,5] neppure da malato, e poiché il medico che lo curava gli intimava di mangiare una colombella, se ne astenne e gli disse: “Curami come curi lo schiavo Manes”. Con ciò egli sollecitava, io credo, che nella sua cura non ci fosse alcun cibo più delicato di quello previsto per un qualunque schiavo ammalato. Se infatti questi possono essere curati [XVIIIa,98,10] senza mangiare un cibo assai dispendioso, lo potremmo anche noi, visto che un uomo virtuoso non deve in alcun caso essere più rammollito di uno schiavo. Perciò Zenone sollecitava a ragion veduta di essere molto cauti con il vitto dispendioso e di non indulgere neppure per un attimo ad un tale tenore di vita; [XVIIIa,98,15] poiché chi cede una volta potrebbe poi proseguire sempre di più su questa strada, in quanto con le bevande e le vivande i livelli di piacere possono aumentare di molto. Queste considerazioni di allora sul cibo ci parvero più nuove e originali di quelle che egli soleva fare di volta in volta.

DIATRIBA XVIIIb

[99,1] SUL VITTO

Nessuno obietterà all’affermazione che voracità e ingordigia [XVIIIb,99,5] sono cose vergognosissime. Io mi sono accorto, però, che pochissima gente prende in considerazione il modo di sfuggirle, mentre vedo che i più provano il desiderio delle vivande oggetto di tali vizi anche quando esse non ci sono, che quando esse sono disponibili non sono capaci di astenersene, e che quando se ne cibano, se ne cibano senza risparmio, sino a giungere a far danni al proprio corpo. [XVIIIb,99,10] Invero, cos’altro sarebbe la voracità se non l’assenza di padronanza di sé quanto al vitto; assenza a causa della quale gli uomini, in fatto di cibarie, preferiscono il piacevole al giovevole? A sua volta, l’ingordigia altro non è che assenza di misura nel cibarsi di companatico. Se l’assenza di misura è un male ovunque, essa però mostra fino in fondo la propria natura [XVIIIb,100,1] soprattutto in questo campo; giacché in fatto di avidità agguaglia gli ingordi non agli uomini bensì ai porci e ai cani, incapaci di agire decorosamente con le mani, con gli occhi, con la gola: [XVIIIb,100,5] fino a tal punto li manda fuori di sé la smania del piacere che essi vedono nei manicaretti. Che un simile comportamento verso il cibo sia una cosa vergognosissima, è conosciuto; giacché con esso noi ci agguagliamo agli animali stolti piuttosto che agli uomini saggi. Se dunque questo è vergognosissimo, onorevolissimo sarà invece il suo opposto: mangiare in modo ordinato e composto, sfoggiando in primo luogo qui [XVIIIb,100,10] la nostra temperanza: il che non è facile, ma richiede molta sollecitudine ed esercizio pratico. Perché questo? Perché molti sono i piaceri fisici che convincono l’uomo ad aberrare e che lo forzano a cedere loro [XVIIIb,100,15] contro il proprio utile, sicché il piacere del cibo rischia di essere il più difficile di tutti da combattere. Infatti, mentre negli altri piaceri ci intratteniamo più raramente e siamo in grado di astenerci da taluni di essi per dei mesi e per degli anni interi; questo piacere noi lo proviamo invece necessariamente ogni giorno [XVIIIb,100,20] e nella maggior parte dei casi due volte al giorno, giacché altrimenti non [XVIIIb,101,1] è dato all’uomo di rimanere in vita. Sicché quanto più spesso proviamo il piacere di un pasto, tanto più numerosi sono i pericoli insiti in esso. E invero, ad ogni somministrazione di alimenti il pericolo di aberrare non è uno solo, ma sono ben di più. [XVIIIb,101,5] Aberra chi mangia più del dovuto; aberra non meno chi è precipitoso nel mangiare; chi si insudicia più del conveniente con le pietanze; chi preferisce le vivande piacevoli al palato invece di quelle più sane e anche chi non distribuisce pari porzioni ai commensali. [XVIIIb,101,10] C’è anche un’altra aberrazione che riguarda il vitto, ed è quando lo assumiamo non al momento opportuno e così, tralasciando di compiere qualche altro atto dovuto, ci diamo al mangiare. Poiché tanto numerose, ed altre ancora, sono le aberrazioni circa il cibo, chi intende essere temperante deve purificarsi di tutte quante e non essere colpevole di alcune di esse. [XVIIIb,101,15] Si purificherebbe da esse e sarebbe al riparo da aberrazioni al riguardo, chi si esercita praticamente e si abitua a scegliere le cibarie non per trarne un godimento ma per alimentarsi, non per il piacere di solleticare la gola ma per rinvigorire il corpo. La gola è la strada di transito del cibo, [XVIIIb,101,20] non un organo fatto per il piacere, e lo stomaco ha lo stesso scopo che ha la radice per ogni vegetale. [XVIIIb,102,1] Come là la radice nutre il vegetale prendendo il nutrimento da materiali esterni, così qui lo stomaco nutre l’animale a partire dalle cibarie e dalle bevande che vi sono introdotte. E come, a sua volta, avviene che gli animali si nutrano per permanere in vita [XVIIIb,102,5] e non per provare piacere; in modo similare anche per noi il cibo è un farmaco di vita. Perciò s’addice anche a noi il mangiare per vivere e non per godere il piacere di mangiare: almeno se intendiamo conformarci all’ottimo detto di Socrate, il quale soleva affermare [XVIIIb,102,10] che la maggior parte degli uomini vive per mangiare, mentre lui mangiava per vivere. Pertanto nessun individuo acquiescente alla ragione che voglia essere un uomo solleciterà mai di essere qualcuno che assomiglia ai più; né solleciterà di vivere, come quelli, per mangiare, andando a caccia in ogni circostanza del piacere legato al cibo. Che poi Dio, il quale ha fatto l’uomo, [XVIIIb,103,1] abbia apprestato per lui cibarie e bevande perché si salvaguardasse in vita e non perché provasse piacere nel nutrirsene, lo si può apprendere soprattutto dalle considerazioni seguenti. Il cibo compie la propria opera soprattutto allorché non dà all’uomo alcun piacere, ossia al momento della sua digestione [XVIIIb,103,5] e della sua assimilazione. Eppure, il momento in cui non proviamo alcun piacere è proprio il momento in cui noi siamo nutriti e rinvigoriti dal cibo, e questo tempo è assai più lungo del tempo che impieghiamo nel mangiare. Ora, se Dio avesse escogitato per noi il cibo in vista del piacere, noi dovremmo [XVIIIb,103,10] poter godere di questo piacere ad opera del cibo per questo tempo più lungo e non per il tempo brevissimo in cui lo ingoiamo. Eppure egualmente, per vaghezza di quel tempo brevissimo in cui ne godiamo, avviene la preparazione di miriadi di pietanze [XVIIIb,104,1] e si naviga il mare fino ai suoi termini; i cuochi sono ricercati con più ardore degli agricoltori; alcuni danno dei pranzi per i quali spendono il prezzo di un terreno, e fanno tutto ciò senza che il corpo tragga in alcun modo giovamento dalla dispendiosità delle vivande. [XVIIIb,104,5] Tutt’al contrario, coloro che si nutrono di cibi più a buon mercato sono fisicamente più forti. Infatti puoi ben vedere che i domestici rispetto ai padroni, i campagnoli rispetto ai cittadini, i poveri rispetto ai ricchi, hanno per la maggior parte più vigoria, sono più capaci di sopportare la fatica, si stancano di meno nel lavoro, [XVIIIb,104,10] si ammalano più raramente, sopportano più facilmente il gelo, il calore, le veglie e tutte le cose di questo genere. E anche ammettendo che il cibo dispendioso e quello a buon mercato rinvigoriscano alla pari il corpo, egualmente il cibo da scegliersi è quello a buon mercato, perché questo è più da persone temperanti [XVIIIb,104,15] e s’addice meglio all’uomo virtuoso; come pure s’addice di più alle persone acquiescenti alla ragione il cibo facile da procurare di quello difficile da procurare, [XVIIIb,105,1] quello che non costa sforzi di quello che ne richiede, quello a pronto consumo di quello a non pronto consumo. Riassumendo, per dirla tutta sul vitto io affermo che bisogna fare scopo di esso la nostra salute e vigoria fisica, [XVIIIb,105,5] e dunque che si deve mangiare unicamente in vista di questi due fini, il cui raggiungimento non richiede alcuna spesa dispendiosa. Mangiando, bisogna poi avere ogni sollecitudine per la compostezza e la misura che si convengono, e bisogna distinguersi soprattutto nel non insudiciarsi e nel non avere fretta. 

DIATRIBA XIX

[105,10] SUL RIPARO

Questo disse Musonio sul vitto. Egli sollecitava anche di cercare per il corpo una copertura sobria, non una dispendiosa ed eccessiva. [XIX,106,1] Diceva perciò, ad esempio, che bisogna utilizzare il vestito e i calzari allo stesso modo in cui si usa un’armatura, ossia per la protezione del corpo e non per sfoggio. Come le armi migliori sono quelle più robuste e soprattutto in grado di salvare [XIX,106,5] la vita a chi le usa, non quelle vistose e lucenti; così la sopravveste femminile e i calzari più eccellenti sono quelli più proficui per il corpo, non quelli capaci di attirare gli sguardi dei dissennati. Bisogna infatti che la copertura faccia apparire ciò ch’è coperto migliore e lo faccia più robusto, [XIX,106,10] non più debole e peggiore. Dunque coloro che escogitano modi per far apparire le loro carni, ad opera dei vestiti che le ricoprono, lisce e morbide, in realtà le peggiorano; se è vero, com’è vero, che il corpo snervato e rammollito è molto peggiore di quello indurito e rotto alle fatiche. Quanti, invece, rinvigoriscono e rinforzano il corpo grazie al vestiario [XIX,106,15] sono i soli a giovare alle sue parti coperte. Per questo motivo non è affatto buona cosa abbigliare il corpo con troppi vestiti, o avvolgerlo in strette bende, [XIX,107,1] o rendere femminei mani e piedi, a meno che non siano ammalati, chiudendoli entro guanti o calzari di feltro o di stoffa. Né è bene che mani e piedi non provino mai il freddo e il caldo, anzi è d’uopo che essi siano moderatamente intirizziti dal freddo d’inverno ed esposti al sole d’estate, restando coperti il minimo possibile. [XIX,107,5] Invece d’aver bisogno di due tuniche, è preferibile indossarne sulla pelle una sola, o addirittura nessuna invece di una, ed indossare soltanto un manto. Lo stare scalzi, per chi può, è meglio che calzarsi; giacché il calzarsi [XIX,107,10] rischia d’essere quasi un legarsi i piedi; mentre l’andare scalzi concede ai piedi, quando a ciò siano esercitati, molta scioltezza e facilità di movimento. Ragion per cui è possibile vedere i corrieri muoversi per le strade senza scarpe; e, tra gli atleti, constatare che i corridori non potrebbero mantenere la rapidità dei loro movimenti [XIX,107,15] se dovessero correre calzati. 
Poiché noi facciamo anche le case a scopo di riparo, io affermo che esse pure vanno costruite per fronteggiare le necessità imposte dal bisogno, ossia per tenere lontano gli eccessi di freddo e di caldo e per essere una difesa dal sole e dai venti per chi ne ha bisogno. [XIX,108,1] In generale è d’uopo che la casa ci procuri il servizio che ci procurerebbe una caverna naturale capace di offrire un rifugio sufficiente e che sia dotata, in più di questa, di una zona di deposito idonea a custodire cibi per il consumo umano. [XIX,108,5] A che servono, allora, i cortili con peristilio? A che servono gli intonaci variopinti? E le stanze con i soffitti dorati? E la profusione di marmi: alcuni disposti a mosaico sui pavimenti, altri applicati a rivestire le pareti, alcuni addirittura trasportati da molto lontano e con grandissima spesa? [XIX,108,10] Queste cose non sono tutte superflue e non necessarie, non sono forse accessori senza i quali è possibile tanto vivere quanto stare in buona salute, e che invece creano moltissimi fastidi e costano molto denaro, col quale si potrebbero invece beneficare molti uomini tanto in pubblico che in privato? Quanto è più glorioso beneficare molte [XIX,109,1] persone invece che abitare una casa sontuosa? Quanto è più nobile e virtuoso spendere per gli uomini invece che spendere per dei legni e dei marmi? Quanto è più giovevole possedere molti amici, [XIX,109,5] il che sopravviene a chi benefica con slancio, invece che essere circondato da una grande casa? Che guadagno una persona potrebbe ricavare dalla grandezza e bellezza di una casa, tanto grande quanto quello che ricaverebbe dall’esser caro alla città e ai cittadini spendendo del suo?

DIATRIBA XX

[109,10] SULLE SUPPELLETTILI DELLA CASA

Delle suppellettili domestiche quali letti, tavoli, coperte, bicchieri e cose di questo genere, appaiono invero consonanti e congeneri alla sontuosità [XX,110,1] in fatto di case le suppellettili che oltrepassano di gran lunga il bisogno e si spingono ben oltre le necessità: i letti d’avorio, d’argento e, per Zeus, d’oro; i tavoli di un materiale similare; le coltri tinte di porpora e [XX,110,5] di altri colori difficili a procurarsi; i bicchieri d’oro e d’argento; mentre altre suppellettili fatte di pietra o di un materiale simile gareggiano per sontuosità con quelle d’argento e d’oro. Tutti questi arredi sono industriosamente ricercati, quando invece un semplice lettuccio ci procura un giaciglio [XX,110,10] non certo peggiore di un letto d’argento o d’avorio; quando una pelle di capra è più che sufficiente come coltre, sicché non c’è bisogno di quelle di porpora o purpuree; quando possiamo senza alcun danno mangiare su un tavolo di legno, e così non bramare in alcun modo quello d’argento; quando è possibile bere, per Zeus, da bicchieri d’argilla, [XX,111,1] che sono per natura capaci di spegnere la sete in modo del tutto similare a quelli d’oro, ed inoltre il vino che vi si versa non si guasta ma emana un profumo più gradevole di quello versato nei bicchieri d’oro e d’argento. In generale, le virtù e i vizi delle suppellettili [XX,111,5] potrebbero essere determinate rettamente da questi tre elementi: l’acquisto, l’uso e la conservazione. Le suppellettili che sono difficili da acquistare o non idonee ad essere utilizzate o non facili da custodire, sono peggiori. Quelle invece che acquistiamo senza difficoltà, che lodiamo nell’usarle e che custodiamo facilmente, sono migliori. [XX,111,10] Perciò le suppellettili d’argilla, di ferro e quant’altre di questo genere, sono molto migliori di quelle d’argento e d’oro, perché il loro acquisto è tanto più agevole quanto minore è il loro prezzo; perché il loro utilizzo è maggiore, giacché possiamo metterle sul fuoco facilmente e le altre invece no; e perché la loro custodia è meno impegnativa, [XX,111,15] in quanto le suppellettili di poco prezzo sono oggetto di minori insidie a paragone di quelle dispendiose. Fa parte della custodia delle suppellettili anche la loro pulitura, che richiede molto più impegno nel caso di quelle costose. Come un cavallo comprato a poco prezzo e che procura molta utilità [XX,112,1] è da preferirsi ad un altro che rende pochi servigi ed è stato acquistato a caro prezzo, così pure le suppellettili più a buon mercato e buone per molti usi sono migliori delle opposte. Perché mai, dunque, si insegue il possesso delle suppellettili rare e dispendiose [XX,112,5] invece di quelle a portata di mano e meno care? Perché i dissennati ignorano quali siano le cose belle e buone, e si industriano per quelle che sembrano tali invece che per quelle che davvero lo sono: proprio al modo in cui i pazzi prendono spesso per bianco il nero, ché la dissennatezza è la cosa più congenere di tutte alla pazzia. [XX,112,10] In effetti, tra i migliori legislatori, noi troveremmo che in primo luogo Licurgo scaccia per legge da Sparta lo sfarzo e vi introduce al suo posto la frugalità; al fine della fortezza, preferisce il tenore di vita da bisognoso a quello da sprecone; allontana il lusso come una rovinosa degenerazione e sollecita di perseguire con zelo [XX,112,15] la volontà di faticare come salvifica. Prova di queste leggi sono gli esercizi di fortezza degli efebi di Sparta, i quali si abituano a sopportare la fame e la sete, e insieme ad esse i rigori del gelo, e inoltre [XX,113,1] le percosse e altre fatiche [….] allevati in così augusti costumi, gli antichi Spartani erano, ed erano reputati, i più valorosi tra i Greci, e resero la loro povertà più degna d’emulazione della ricchezza del gran Re di Persia. [XX,113,5] Io stesso, dunque, accetterei volentieri d’ammalarmi piuttosto che di vivere nel lusso, giacché la malattia danneggia soltanto il corpo mentre la vita lussuosa rovina entrambi, animo e corpo: infondendo nel corpo debolezza ed impotenza, e nell’animo impudenza e mancanza di virilità. Il lusso, invero, [XX,113,10] è anche generatore di ingiustizia poiché genera avidità di guadagno. È infatti impossibile che chi vive nel lusso non sia uno che fa vita dispendiosa, ed è impossibile che chi fa vita dispendiosa voglia spendere poco. Se dunque uno vuole spendere molto, è impossibile che non voglia mettere mano a provvedersi di molti mezzi e, a sua volta, che chi mette mano a provvedersi di molti mezzi non sia preda dell’avidità di guadagno e non commetta delle ingiustizie: [XX,113,15] giacché da azioni giuste uno non provvederebbe per sé molti mezzi. Inoltre, chi vive nel lusso sarebbe inevitabilmente un uomo ingiusto anche per un altro verso. Infatti egli si periterebbe di sopportare le fatiche che si convengono in favore della propria città, altrimenti non potrebbe più vivere nel lusso; e quando dovesse penare in favore di amici o di parenti [XX,114,1] egli certo non reggerebbe gli eventi, perché il lusso non glielo permetterà. Invero, chi vuole essere giusto verso gli Dei a volte deve anche tribolare per causa loro, perché gli toccherà compiere dei sacrifici o partecipare a celebrazioni religiose [XX,114,5] o fare qualche altro servizio in onore degli Dei; mentre chi vive nel lusso sarà manchevole anche in queste occasioni. Perciò costui sarebbe assolutamente ingiusto verso la città, verso gli amici e verso gli Dei, dal momento che non effettua ciò che è d’uopo effettuare. Dunque il lusso va rifuggito in ogni modo poiché è causa anche d’ingiustizia.

DIATRIBA XXI

[114,10] SUL TAGLIO DEI CAPELLI

L’uomo deve tagliarsi i capelli, soleva dire Musonio, così come noi potiamo la vite, ossia al solo scopo di eliminarne la parte non proficua [….] né lo è la barba alla guancia, giacché anche questa è una sorta di protezione di cui la natura ci provvede. [XXI,114,15] Inoltre la barba è un simbolo del maschio, come lo è la cresta per il gallo e la criniera per il leone. Onde della chioma bisogna eliminare [XXI,115,1] le parti che ci danno fastidio; ma della barba, invece, nulla, giacché essa non ci dà alcun fastidio, almeno fin tanto che il corpo sia in buona salute o non patisca di una malattia tale per cui sia necessaria la rasatura dei peli delle guance. È dunque ben detto, affermava Musonio, [XXI,115,5] quanto diceva Zenone: cioè che ci si deve tagliare i capelli per la stessa ragione per cui bisogna lasciarli crescere, ossia per vivere secondo natura, affinché uno non sia rallentato né infastidito dalla chioma in nessuna attività. Infatti la natura appare essere attenta, sia nei vegetali che negli animali, più al mancante e meno al superfluo, in quanto l’eliminazione del superfluo [XXI,115,10] è molto più facile e più agevole dell’aggiunta del mancante. In entrambi i casi occorre che la razionalità umana venga in aiuto alla natura, così da riempire le lacune per quanto è capace di colmarle, e da ottenere una diminuzione ed eliminazione delle parti superflue. [XXI,115,15] Ragion per cui bisogna radersi unicamente per eliminarne gli eccessi e non per farsi belli, come invece taluni credono si debba fare. Costoro si fanno le guance lisce [XXI,116,1] ed imitano gli imberbi oppure, per Zeus, quelli che appena appena hanno un po’ di barba; o si tagliano i capelli non in modo uniforme ma acconciando in un modo il davanti del capo e in uno diverso il dietro. Questa acconciatura, che è ritenuta un ornamento, è invece francamente indecente e non differisce [XXI,116,5] per nulla dall’acconciatura delle donne. Le donne, infatti, intrecciano parte dei capelli, parte li lasciano scendere sciolti, parte li acconciano in qualche altro modo al fine di apparire più belle. Gli uomini che si tagliano così i capelli, è chiarissimo che lo fanno per la smania di apparire belli a coloro ai quali vogliono riuscire graditi, [XXI,116,10] ora eliminando del tutto alcuni capelli, altri pettinandoli in modo da riuscire il più possibile attraenti alle donne e ai ragazzi dai quali sentono il bisogno di essere lodati. Alcuni, poi, già si tagliano i capelli e si fanno lisce le guance per il semplice fatto di sentirsene appesantiti; [XXI,116,15] ma sono chiaramente svigoriti dalla mollezza e del tutto snervati gli androgini e i femminielli che tollerano di lasciarsi vedere come tali, cosa che invece andrebbe rifuggita ad ogni costo se essi fossero realmente uomini. Com’è possibile, in verità, che i capelli siano un peso per gli uomini? A meno che, per Zeus, qualcuno non affermi che [XXI,116,20] anche le penne sono un peso per gli uccelli.

FRAMMENTI MINORI

[119,1] FRAMMENTO XXII

Non può vivere bene il giorno presente chi non se lo propone come l’estremo.

FRAMMENTO XXIII

Perché esecriamo i tiranni, quando noi siamo [119,5] di gran lunga peggiori di loro? Infatti abbiamo impulsi identici ai loro, in condizioni di fortuna però non identiche. 

FRAMMENTO XXIV

Qualora ci fosse da fare una graduatoria delle cose gradevoli in base al piacere che ci danno, nulla sarebbe più piacevole della temperanza. [120,1] E qualora ci fosse da fare una graduatoria delle cose da fuggire in base al dolore che ci danno, nulla sarebbe più doloroso della non padronanza di sé.

FRAMMENTO XXV

Musonio soleva dire che il colmo della sfacciataggine è quello di ricordarsi della debolezza del nostro corpo quando si tratta di sopportare dei dolori, [120,5] e invece di scordarsene quando ci si dà ai piaceri.

FRAMMENTO XXVI

Principio del non peritarsi ad effettuare azioni indecenti è il non peritarsi [120,10] a dire cose indecenti.

FRAMMENTO XXVII

Se sceglierai di attenerti il più possibile all’utile, non essere malcontento delle circostanze difficili e pondera bene [121,1] quante cose nel corso della tua vita sono accadute non come tu volevi ma com’era utile che accadessero.

FRAMMENTO XXVIII

Ghermisci l’opportunità di morire bene quando ne hai la potestà, [121,5] affinché poco tempo dopo non ti si presenti la necessità di morire, ma tu non abbia più la potestà di morire bene. 

FRAMMENTO XXIX

Un uomo che vive com’è doveroso per l’utile di molti, non può morire [121,10] altro che morendo per l’utile di un numero ancora maggiore di persone.

FRAMMENTO XXX

Sarai degno di rispetto da parte di tutti, se comincerai tu per primo a rispettare te stesso.

FRAMMENTO XXXI

[122,1] Non vivono a lungo coloro i quali, a difesa di quel che effettuano, non sono abituati a dire ai sottoposti ‘è mio dovere’ bensì ‘è in mio potere’.

FRAMMENTO XXXII

[122,5] Non voler ordinare cosa si deve fare a coloro che ti perdonano quando tu fai quel che non si deve.

FRAMMENTO XXXIII

Bisogna provare a farsi considerare dai propri sottoposti uno che sbalordisce piuttosto che uno che incute paura: [122,10] alla sbalordimento, infatti, è connessa la solennità; alla paura, invece, la spietatezza.

FRAMMENTO XXXIV

Noi condanneremo come estrema povertà i tesori di Creso e di Cinira e [123,1] crederemo invece che ricco è soltanto chi è capace di portare con sé la libertà dal bisogno dovunque vada.

FRAMMENTO XXXV

[123,5] Poiché la morte è stata destinata similmente a tutti, sorte beata non è morire tardivamente ma morire nobilmente.

FRAMMENTO XXXVI

Invero, tra i bei precetti di Musonio che ricordiamo, ce n’è uno, o Silla, nel quale si afferma che quanti intendono salvaguardarsi uomini devono vivere sempre curandosi. [124,1] Non si tratta, credo, di curarsi come facciamo con l’elleboro, il quale per curare deve essere espulso dal corpo insieme con la pazzia, ma di far sì che la ragione si radichi ben bene nell’animo per tenere insieme e far la guardia alle nostre determinazioni. Il potere della ragione, infatti, [124,5] non assomiglia a quello dei farmaci, bensì a quello dei cibi sani, in quanto infonde, insieme alla salute, una postura buona e utile nell’animo di coloro nei quali il suo uso diventa abituale. Invece le esortazioni e le ammonizioni rivolte a chi è al culmine della passione e ne è gonfio, ottengono a stento scarsi risultati, in quanto non sono differenti da quei preparati odorosi che rianimano gli epilettici caduti in convulsioni [124,10] senza però liberarli da tali stati morbosi.

FRAMMENTO XXXVII

A Roma, il famoso Rutilio, avvicinatosi a Musonio disse: “Musonio, lo Zeus Salvatore che tu imiti ed emuli non prende denaro in prestito”. Al che Musonio rispose sorridendo: “Ma neppure lo presta a interesse”. Insomma Rutilio, proprio lui che prestava denaro a interesse, [124,15] cercava così di rinfacciare a Musonio di prenderne in prestito.

FRAMMENTO XXXVIII

Delle cose che sono, Dio pose alcune in nostro esclusivo potere, altre non in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere [125,1] è la più bella e più degna d’industria, quella appunto per cui anche lui è felice, ossia l’uso delle rappresentazioni. Giacché quando quest’uso avviene rettamente ci sono libertà, serenità, buon umore, stabilità di giudizio. Retto uso delle rappresentazioni è anche [125,5] giustizia, legge, temperanza e tutte quante le virtù. Tutto il resto Dio non fece in nostro esclusivo potere. Pertanto è d’uopo che anche noi votiamo all’unanimità con lui e, discriminando così le faccende, pretendiamo per noi ad ogni modo quanto è in nostro esclusivo potere e deleghiamo quanto non è in nostro esclusivo potere all’ordine del mondo [125,10] e che allegramente gli diamo spazio se avesse bisogno sia dei figli, sia della patria, sia del corpo, sia di qualunque altra cosa.

FRAMMENTO XXXIX

Chi di noi non ammira le parole dello spartano Licurgo? Giacché accecato ad un occhio da uno dei cittadini, ottenne in consegna il giovanotto [125,15] dal popolo perché se ne vendicasse come decideva. Ma egli da ciò si astenne ed invece, educatolo e resolo chiaramente uomo dabbene, [126,1] lo menò con sé a teatro. Agli Spartani che si stupivano “Quando lo presi,” diceva, “dalle vostre mani costui era oltraggioso e violento; ve lo restituisco acquiescente alla ragione e popolano”.

FRAMMENTO XL

[126,5]
Ma più di tutto opera della natura è l’allacciare e conciliare l’impulso alla rappresentazione del conveniente e del giovevole.

FRAMMENTO XLI

[126,10] Credere che saremo ben spregevoli per gli altri se non danneggeremo in ogni modo i principali nemici personali, è da individui estremamente ignobili e dissennati. Noi diciamo infatti che si capisce chi è ben spregevole anche dalla sua impossibilità di danneggiare; ma molto di più lo si capisce dalla sua [126,15] impossibilità di giovare.

FRAMMENTO XLII

[127,1] 
Siffatta era, è e sarà la natura dell’ordine del mondo, ed è impossibile che gli avvenimenti accadano altrimenti da come ora accadono. E non soltanto gli esseri umani e le altre creature sulla terra hanno condiviso questo rivolgimento [127,5] e trasformazione, ma lo condivide anche tutto quanto è materiale e, per Zeus, gli stessi quattro elementi si girano su e giù e mutano e la terra diventa acqua, l’acqua aria e questa di nuovo muta in etere. E medesimo è il modo della trasformazione dall’alto verso il basso. [127,10] Se uno metterà mano a far propendere la mente a queste verità ed a persuadersi ad accogliere di buon grado il necessario, vivrà una vita equilibratissima ed armoniosissima.

FRAMMENTO XLIII

Trasea era solito dire: “Voglio essere levato di mezzo oggi piuttosto che esiliato domani”. Che cosa, dunque, gli disse Rufo? [127,15] “Se tu selezioni questo per te come scelta più pesante, quale stupidaggine di selezione è mai questa? Se come la più leggera, chi te ne ha dato l’ordine? Non disponi di studiare ad accontentarti di quanto ti è stato dato?”

FRAMMENTO XLIV

[128,1] Perché siamo ancora inerti, pigri, languorosi e cerchiamo pretesti per non faticare e vegliare elaborando la nostra ragione? -Se dunque errerò in questo, avrei forse ucciso mio padre?- Schiavo! giacché dov’era qua [128,5] il padre perché lo uccidessi? Dunque, che facesti? Hai aberrato della sola aberrazione che c’era in quest’ambito. Dacché proprio questo dissi anch’io a Rufo che mi rimproverava perché non trovavo la sola omissione in un certo sillogismo. “Non è,” dico, [128,10] “quale avessi incenerito il Campidoglio”. E lui: “Schiavo!” diceva, “qua l’omissione è un Campidoglio”. O queste sole sono aberrazioni: dare alle fiamme il Campidoglio ed uccidere il padre? L’usare le proprie rappresentazioni a casaccio, da matti, come capita e non comprendere un ragionamento né una dimostrazione [128,15] né un sofisma né insomma scorgere il secondo me e non secondo me in domanda e risposta: nulla di ciò è aberrazione?

FRAMMENTO XLV

Così pure Rufo, mettendomi alla prova, soleva dire: “Ti avverrà questo [129,1] e quest’altro ad opera del padrone”. E rispondendogli io: “Cose umane”; “Perché dunque” replicava “pregare ancora quello, quando tali cose tu puoi ottenerle da te stesso?” Giacché effettivamente è superfluo e da matti [129,5] prendere da un altro quanto uno ha da se stesso.

FRAMMENTO XLVI

Non è facile spronare dei giovani rammolliti, come non lo è prendere del formaggio con un amo. Invece i purosangue, anche se li tratterrai, ancor più si attengono alla ragione. Perciò anche Rufo, il più delle volte, tratteneva ed usava questo criterio per valutare i giovani purosangue ed i bastardi. [129,10] Diceva, infatti: “Come il sasso, anche se lo butterai in alto verrà portato giù a terra in virtù della propria struttura, così anche il purosangue, quanto più uno lo spinge indietro, tanto più accenna a ciò per cui è nato”.

FRAMMENTO XLVII

Sgozzato Galba, uno diceva a Rufo: [129,15] “Ora l’ordine del mondo è governato dalla Provvidenza?”; e lui “Strutturai forse mai accessoriamente,” diceva, “a partire da Galba [130,1] che l’ordine del mondo è governato dalla Provvidenza?”

FRAMMENTO XLVIII

Rufo era solito dire: “Se avete comodità di lodarmi, allora io non sto dicendo nulla”. Perciò appunto parlava in modo che ciascuno di noi, lì seduto, [130,5] credeva di essergli stato reso inviso da qualcuno: a tal punto toccava gli avvenimenti; a tal punto poneva davanti agli occhi di ciascuno i suoi mali. 

FRAMMENTO XLIX

[130,10] [131,1] [131,5] [131,10] [131,15] [131,20]
Frammento di Aulo Gellio in latino, contenente i seguenti due versi tratti dall’Odissea:

‘Così parlò <Odisseo>; ed ecco tutti rimasero in silenzio
e furono presi da incantamento, per le grandi sale ombrose’

FRAMMENTO L

[132,1] [132,5]
Frammento di Aulo Gellio in latino, contenente questo frammento in greco: “Dunque è degno di denaro”.

FRAMMENTO LI

[133,1] [133,5] [133,10] [133,15]
Frammento di Aulo Gellio in latino, contenente questo frammento in greco: “Se effettuerai qualcosa di bello faticando, la fatica se ne va e il buono rimane. Ma se farai qualcosa di brutto provandone piacere, il piacevole se ne va e il brutto rimane”.

FRAMMENTO LII

Frammento di Aulo Gellio in latino

FRAMMENTO LIII

[134,1] Esortandomi ad avere coraggio, un tale mi esponeva queste parole di Musonio. “Volendo quel famoso filosofo” diceva “tirare su un tale in stato di ottundimento e di spossatezza, gli si rivolse dicendogli così: Cosa aspetti? Dove guardi? Starai così fino a quando Dio in persona ti si farà accanto e ti rivolgerà la parola? Taglia piuttosto via la parte morta [134,5] del tuo animo e riconoscerai la divinità!” Questo egli affermava che Musonio avesse detto.

[137,1] LETTERA A PANCRATIDE

(1) Poiché arguisco, sia dalle notizie di te che ci sono annunciate sia da quelle che tu stesso hai inviato ai tuoi figli, che circa la filosofia continui a pensare non le cose che pensano le persone qualsiasi ma ciò che è appropriato pensare; io tengo molto, [137,5] per il presente, a congratularmi con te a loro riguardo e, per il futuro, ad augurarmi che essi non inclinino in qualche altra direzione ma che, serbando fino alla fine il proposito che ora hanno di fare vita filosofica, essi possano cavarsela bene e nel contempo contraccambiare i benefici che hanno da te ricevuto. Parlando in generale, se sono due le cause [137,10] che guidano gli uomini a vivere disciplinatamente e con metodo: la perizia nella virtù e la padronanza di sé; come potremmo fare il nostro dovere verso noi stessi e verso gli altri restando preda dell’ignoranza e della non padronanza di noi? (2) Per parte nostra ci sembra allora assolutamente necessario richiedere la liberazione da questi mali, giacché noi siamo nati per vivere in modo ordinato [137,15] e decoroso, ed è a questo scopo che la ragione ci è stata data dalla natura come sovrintendente e duce. Orbene, l’affrancamento dall’ignoranza e dalla non padronanza di sé non è possibile se noi non ci affidiamo alla cura della ragione. Nel corso di questa cura la ragione, mentre sempre fa volgere l’elemento che in noi primeggia <proairesi> da un atteggiamento contro natura ad uno in armonia con la natura, di continuo s’adopra a stroncare e a cacciar fuori dall’animo le determinazioni depravate e quelle incistatevi dal pervertimento, introducendovi al loro posto delle determinazioni sane e conseguenti alla natura oppure rianimando quelle che vanno indebolendosi. [138,5] Quando queste determinazioni (3) siano ben rafforzate e stabilizzate come si conviene, esse poi ci guidano in tutte le situazioni della vita, sicché noi sempre siamo in grado di vedere quel che ci spetta fare e di effettuare azioni in armonia con determinazioni giudicate idonee. Poiché la cura dell’animo questi risultati non soltanto li preannuncia ma li procura davvero, [138,10] chi altro si potrebbe chiamare più giusto di te nel prestare aiuto ai tuoi figli? Non preferisci che essi siano felici e, come padre, non sei forse pronto ad intraprendere qualunque cosa al fine di vederli star bene? Non è a questo fine che li hai generati ed allevati? Non auspichi di continuo per loro [138,15] dagli Dei cose del genere? Poiché pretendi virtù e decoro di vita, (4) non vorresti vedere i tuoi figli ben disciplinati in fatto di cibi e di bevande; padroni degli impulsi che vengono dal ventre; capaci di utilizzare gli organi sessuali, come nel caso della generazione di figli, soltanto quando sia il momento opportuno; [138,20] in grado di accontentarsi, per riposare, di un breve sonno; abbigliati con un vestito alla buona e non artefatto, ma pulito ed acconcio a quanto è richiesto dalla natura per fare da riparo? Non vorresti che il loro sguardo e il loro modo d’incedere siano caratterizzati da rispetto di sé e degli altri [139,1] e da fierezza tali che nessuno ardisca di fare contro di loro o di dire loro alcunché di sguaiato; e che, ogni volta che lo vogliano o ne abbiano bisogno, essi possano prontamente utilizzare l’intero corpo o un suo membro qualunque allo scopo per cui è nato? (5) Non vorresti che i tuoi figli, dopo avere ben esaminato [139,5] le faccende divine e umane, siano adorni di sacrosanta pietà verso gli Dei e di sacrosanta giustizia verso gli uomini; che essi onorino la patria più dei genitori, giacché i genitori stessi vorranno questo se fossero saggi; che essi onorino i genitori più dei familiari e dei parenti; che, mentre tra i genitori assegnano il primo posto al padre, [139,10] essi ritengano empio chiedere qualcosa o biasimare patria o genitori; che ritengano invece necessario ricambiarli con una disposizione d’animo riconoscente e memore dei trascorsi benefici, giacché soltanto così possono ripagare antiche gratuità prestate loro contro la garanzia di nuove; [139,15] che siano pronti a combattere in loro difesa e, se dovessero, a morire per causa loro; che siano pronti, quando i genitori si infuriassero, a ricevere con mitezza non soltanto parolacce ma anche percosse e ferite quando siano portate dall’ira e non da una disposizione abituale, pur mettendosi in guardia non tanto a propria difesa quanto affinché i genitori non abbiano a patire qualche male [139,20] dall’essere così irosamente disposti? (6) Cosa non sopporteresti pur di essere convinto, a loro riguardo, che essi abiteranno nel corso della loro vita nella stessa casa, che una volta messisi insieme e messi in comune i loro beni, continueranno a vivere in piena concordia, come pure che praticheranno le stesse attività e godranno gli stessi svaghi? O vorresti che accadano ai tuoi figli queste cose, [140,1] e però non vorresti che essi siano superiori alla morte, al dolore, alla fama? Chi è schiavo fino in fondo di queste entità, dovunque vada è in balia, come fosse un prigioniero di guerra privo d’onore, di chi sa prevalere attraverso di esse. Non auspicheresti dunque che i tuoi figli abbiano un comportamento che per natura è molto più facile di quelli precedenti, [140,5] ma che nei nostri tempi è diventato più malagevole a causa del pervertimento che domina su questioni tanto grandi; dico, che essi non misurino ogni cosa sulla base del denaro; che essi mettano al primo posto se stessi e i genitori e i figli piuttosto che il denaro; che essi pretendano come patrimonio [140,10] soltanto quanto è necessario per i loro bisogni e per quelli dei loro familiari, che essi tengano a vile la tesaurizzazione del denaro in quanto tale e il possederne più di quanto basta, tutte cose dalle quali gli uomini, sia in privato che in pubblico, sono sviati verso mali continui e immedicabili? (7) Una volta fatti questi auspici, [140,15] non è altrettanto auspicabile che i tuoi figli siano capaci di comandare e di prendere decisioni secondo leggi e giustizia; che essi, in armonia con se stessi e con gli altri sia in ciò che effettuano che in ciò che dicono, facciano una vita che sempre sceglierà di usare i ragionamenti; che essi abbiano una ragione ben rinsaldata da una mente capace dei pensieri più nobili e tesa ad esprimerli verbalmente quando sia il momento opportuno; [140,20] che proprio la ragione comandi, quando essi intendano prendere la difesa di cose sacre: della patria, dei genitori, degli amici, della verità e delle leggi e, per dirlo in una parola sola, di chi subisce delle ingiustizie? E io credo che né tu né qualcun altro, se ragionasse bene, valuti come politico un discorso che tenda non a questo scopo ma a scopi opposti. (8) Se pertanto questi scopi sono auspicabili e preferibili, [140,25] come si potrebbe non porre come auspicabile e preferibile anche il filosofare, [141,1] grazie al quale soltanto questi risultati si realizzano? Infatti fa filosofia chi ha gran cura della limpidezza del proprio ragionamento e pratica il retto discorso; e chi ha gran cura della propria ragione ha contemporaneamente gran cura della patria, di suo padre, dei fratelli, degli amici e, per dirlo in una parola sola, di tutti. [141,5] La natura del cosmo e degli elementi che lo costituiscono, poiché ci ha strutturato capaci di conoscenza dei principi generali in quanto ci ha dato la ragione, che è comune a tutti gli esseri ma che in noi è peculiare rispetto a quella delle altre creature, in effetti ci sollecita ad emulare gli Dei come nobilissimi, supremi comandanti e come comuni nostri benefattori e genitori, [141,10] ed a ricambiarli attraverso la nostra pronta obbedienza; mentre ci sollecita a farci paladini degli uomini in modo provvido e benefico, per via degli intrecci che avvengono con essi sia in pubblico che nella sfera più privata. (9) Orbene, quando mescoliamo insieme, con legge e giustizia, l’umano e il divino, si dice che allora noi saremo disposti eminentemente secondo natura, [141,15] in quanto divenuti perfetti ed avanzati alle realtà più alte, appunto legge e giustizia, dalle quali anche le faccende divine sono guidate e per cui sono beate, giacché gli uomini sono tali a causa della rettitudine della loro ragione e di un costume di vita ad essa improntato; e si dice parimenti che noi vivremo felicemente e finiremo la vita felicemente, [141,20] come si trattasse di un’azione drammatica ben ordinata dal principio alla fine e che noi interpretano da primattori e in perfetta conformità al testo. (10) Dunque con piena fiducia, o Pancratide, non delegare soltanto a me ma incoraggia anche tu i tuoi figli a filosofare, pungolali facendo tu stesso da competitore in questa gara, e tieni pronta quella che al riguardo è la più acconcia di tutte le facoltà, ossia la libertà di parola. [141,25] Una volta fatte scelte come queste, ti sarà possibile dire a quanti hanno con voi legami di sangue che tu hai introdotto nel parentado non soltanto dei figli, ma che genere di figli! E potrai dire alla patria che le hai fornito non soltanto uomini quali che siano, ma dei cittadini come si deve! (11) [141,30] Se poi avrete in comune coraggio e drizzerete gli animi come merita, indirizzandoli alla cura di voi stessi e gli uni degli altri, [142,1] subito discuterete filosoficamente tra di voi dell’organizzazione di una gara di divino, non soltanto approntando per essa i consueti premi, che son cose che possono uscir fuori da un semplice borsello, ma anche, ed è ciò per cui la gara merita d’essere tenuta in grande onore, restando nel solco [142,5] della sacra ed antica tradizione, il che proviene soltanto da una disposizione pia e filosofica. E grazie alle buone regole della competizione, sia a voi che a tutti noi farete svolgere una gara che non eliminerà nessuna delle cose secondo natura, bensì toglierà via dagli animi soltanto quelle che sono per noi causa di [142,10] afflizione e di turbamento. (12) In questa gara di divino è necessario che chi è impreparato sia sconfitto, e bisogna che lo sconfitto precipiti nella servitù e nell’infelicità, infelicità cui a nessuno di noi è concesso di dire di no, giacché da essa siamo tenuti prigionieri quando non ubbidiamo alle leggi sempiterne, a quelle della natura e a quelle stabilite dalle legislazioni, che ingiungono a ciascuno di noi di essere disciplinato [142,15] e di vivere secondo giustizia e insieme santità. Se accogli queste considerazioni come fossero parole da padre a padre, credo che tu stesso ti sentirai meglio e che potrai assistere i tuoi figli in vista del raggiungimento delle mete più eccellenti. Ti invio i miei ossequi per la tua benevolenza verso di noi e per tutto il resto. Sappi di avere il mio affetto. [142,20] Se farete vita filosofica avrete abbondanza anche di altri amici di questo genere.

LETTERE SPURIE

APOLLONIO AL FILOSOFO MUSONIO

Salve. Giunto dove tu sei, voglio discutere con te e condividere lo stesso tetto così da esserti di qualche aiuto, se almeno non dubiti [143,1] che una volta Eracle liberò Teseo dall’Ade. Scrivi cosa vuoi tu. Sta’ bene.

MUSONIO AL FILOSOFO APOLLONIO

Salve. Per le offerte d’aiuto alle quali hai pensato ti sarà riservata lode. Ma l’uomo che sostiene la propria autodifesa e [143,5] dimostra di non essere colpevole si libera da solo. Sta’ bene.

APOLLONIO AL FILOSOFO MUSONIO

Salve. L’ateniese Socrate, non avendo voluto essere liberato dai suoi amici, si presentò in tribunale ma poi morì. [143,10] Sta’ bene.

MUSONIO AL FILOSOFO APOLLONIO

Salve. Socrate morì poiché non aveva preparato la propria autodifesa. Io invece mi difenderò. Sta’ bene.

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Traduzioni

L’ALBERO DELLA DIAIRESI LIBRO IV

Tutto

EPITTETO

nuovamente tradotto

da

FRANCO SCALENGHE

I quattro libri delle Diatribe di Epitteto sono né Dialoghi costruiti da Platone a tavolino né Orazioni scritte per sfoggio da Isocrate, ma la fedele registrazione -ad opera di Arriano- di un parlato dal vivo. Io ho cercato di conservare anche in italiano questa loro peculiarità e mi sono mantenuto molto aderente al testo greco. Chi legge lo tenga presente, e legga semplicemente con il “tempo giusto”.

LIBRO IV

Τί οὖν ἔλεγες, ὅτι ἄνθρωπός ἐστιν; μὴ γὰρ ἐκ ψιλῆς μορφῆς κρίνεται τῶν ὄντων ἕκαστον; ἐπεὶ οὕτως λέγε καὶ τὸ κήρινον μῆλον εἶναι. καὶ ὀδμὴν ἔχειν αὐτὸ δεῖ καὶ γεῦσιν: οὐκ ἀρκεῖ ἡ ἐκτὸς περιγραφή. οὐκοῦν οὐδὲ πρὸς τὸν ἄνθρωπον ἡ ῥὶς ἐξαρκεῖ καὶ οἱ ὀφθαλμοί, ἀλλ’ ἂν τὰ δόγματα ἔχῃ ἀνθρωπικά.

“Perché dunque dicevi che è un uomo? Giacché si giudica forse ciascun essere dalla mera conformazione? Dacché, così, dì che anche quella di cera è una mela. Deve anche averne la fragranza ed il gusto, non basta il connotato esteriore. Neppure naso ed occhi sono dunque bastanti a fare l’uomo, se non avrà giudizi da uomo”. (IV,5,19-20)

CAPITOLO 1 
SULLA LIBERTÀ 

Nessun insipiente è libero (1-5)

[IV,1,1] Libero è chi vive come decide, chi non è possibile costringere né impedire né violentare; colui i cui impulsi non sono soggetti ad intralci, i cui desideri vanno a segno, le cui avversioni non incappano in quanto avversano. Chi, dunque, vuole vivere aberrando? -Nessuno- [IV,1,2] Chi vuole vivere ingannandosi, essendo precipitoso, ingiusto, impudente, lagnoso sulla propria sorte, servo nell’animo? -Nessuno- [IV,1,3] Proprio nessuno degli insipienti vive come decide e, quindi, neppure è libero. [IV,1,4] Chi vuole vivere affliggendosi, avendo paura, invidiando, commiserando, desiderando e fallendo, avversando ed incappando in quanto avversa? -Neppure uno- [IV,1,5] Abbiamo dunque qualche insipiente senza afflizione, senza paura, che non incappa in quanto avversa, che non fallisce il segno? -Nessuno- Proprio nessuno, pertanto, libero.

Né nascita né posizione sociale fondano la libertà (6-10)

[IV,1,6] Se uno che è stato due volte console sentirà dire questo, se addizionerai: “Ma tu sei un sapiente, questo non riguarda te”, ti perdonerà. [IV,1,7] Se invece gli dirai la verità: “Quanto al non essere anche tu servo, non differisci per nulla da quelli che sono stati smerciati tre volte”; che altro devi supporre se non botte? [IV,1,8] “Ma come”, dice, “io sono un servo? Mio padre era libero, mia madre libera; di me nessuno ha un contratto di acquisto. Anzi sono pure senatore, sono amico di Cesare, sono stato console ed ho molti servi”. [IV,1,9] Innanzitutto, o ottimo senatore, probabilmente pure tuo padre era servo della medesima servitù, e tua madre, e tuo nonno e di seguito tutti gli avi. [IV,1,10] E se pure loro erano liberissimi, che riguardo ha questo con te? Che riguardo ha, se loro erano generosi e tu sei ignobile; se loro sapevano dominare la paura e tu invece sei un vile; se loro erano padroni di sé e tu invece sei un impudente?

Schiavo è chi ha un padrone… (11-15)

[IV,1,11] -Che c’entra questo, dice, con l’essere servo?- Fare qualcosa nostro malgrado, per costrizione, gemendo, non ti pare nulla riguardo all’essere servo? [IV,1,12] -Questo sia, dice. Ma chi può costringere me se non Cesare, che è Signore di tutti?- [IV,1,13] Dunque tu stesso ammetti di avere un padrone. Il fatto poi, come dici, che sia un padrone comune a tutti, non ti consoli. Riconosci piuttosto di essere servo di una grande casata. [IV,1,14] Anche i Nicopolitani sono soliti acclamare così: “Sì, per la fortuna di Cesare noi siamo uomini liberi!” [IV,1,15] Ugualmente, se lo reputerai, tralasciamo Cesare per il presente, ed invece dimmi: fosti mai innamorato di qualcuno? Una ragazzina, un pupattolo, un servo, un libero?

… o una padrona (16-23)

[IV,1,16] -Che c’entra questo con l’essere servo o libero?- [IV,1,17] Dall’innamorata non ti fu mai ordinato nulla che non volevi? Non adulasti mai il tuo servetto? Non gli baciasti mai i piedi? Eppure, se qualcuno ti costringesse a baciare quelli di Cesare, lo riterresti un oltraggio ed il colmo della tirannia. [IV,1,18] Cos’altro è dunque la servitù? Non partisti mai di notte per dove non volevi? A spendere quanto non volevi ? Dicesti cose mugugnando e gemendo, tollerasti d’essere ingiuriato, sbarrato fuori? [IV,1,19] Ma se ti vergogni di ammetterlo per te, vedi ciò che dice e fa Trasonide il quale, dopo avere condotto cotante campagne militari quante probabilmente neppure tu hai condotto, dapprima è uscito dall’accampamento di notte, quando Geta non ha l’audacia di uscire, mentre se vi fosse da lui costretto sarebbe uscito strepitando improperi e deprecando l’amara servitù. [IV,1,20] E poi cosa dice? *…una ragazzina da quattro soldi, dice, m’ha asservito; io, che nessuno dei nemici mai…* [IV,1,21] Sciagurato, che sei servo di una ragazzina, e di una ragazzina da quattro soldi! Perché dunque ti dici ancora libero? Perché proferisci le tue campagne militari? [IV,1,22] E poi chiede una spada e si esaspera con chi, per benevolenza, non gliela dà; e manda doni a colei che lo odia, e briga e singhiozza e di nuovo si esalta se ha passato un giorno un po’ lieto; [IV,1,23] eccetto che anche allora, come avrebbe costui per sé la libertà se non ha disimparato a smaniare od avere paura?

L’istinto: quanto più si avvicina alla libertà nel caso delle creature strutturalmente aproairetiche (24-28)

[IV,1,24] Analizza come usiamo il concetto di libertà per gli animali. [IV,1,25] Taluni chiudono in gabbia dei leoni addomesticati, poi li nutrono, li pascono, li trasferiscono con sé. Chi dirà che questo leone è libero? Quanto più mollemente se la tragitta, non è tanto più servilmente? Quale leone, se prendesse coscienza e contezza, deciderebbe di essere uno di questi leoni? [IV,1,26] Orsù, e qualora questi volatili vengano presi e siano nutriti in gabbia, cosa non sperimentano cercando di fuggir via? Taluni si rovinano di fame piuttosto di reggere un siffatto modo di tragittarsela. [IV,1,27] Quanti poi si preservano in vita, lo fanno con stento ed esasperazione, deperiscono e, in complesso, se troveranno uno spiraglio balzano via. Così tanto desiderano la naturale libertà e di essere autonomi, non soggetti ad impedimenti! [IV,1,28] Che male c’è per te qui? “Che dici? Io sono nato per volare dove voglio, per passarmela all’aria aperta, per cantare quando voglio: tu mi sottrai tutto questo e dici: ‘Che male c’è per te?’ “.

Una libertà per la quale capita di dare la vita (29-32)

[IV,1,29] Per questo diremo libere soltanto le creature che non sopportano cattura ma che, mentre sono catturate, sfuggono morendo. [IV,1,30] Così anche Diogene dice da qualche parte che il solo accorgimento per conservare la libertà è morire come se niente fosse, e scrive al re dei Persiani: “Non puoi asservire la città degli Ateniesi; non più, dice, che i pesci”. [IV,1,31] “Come? Non li prenderò?” “Se li prenderai,” dice, “ti abbandoneranno e ti spariranno appunto come i pesci. Anche di essi, quello che prenderai muore. Se gli Ateniesi presi da te moriranno, che pro ti è della preparazione alla guerra?” [IV,1,32] Questa è la voce di un uomo libero, che ha indagato la faccenda industriosamente e che, com’è verosimile, ha trovato. Ma se tu cercherai altrove da dov’è, che c’è di stupefacente se non trovi mai la Verità?

Le irresistibili storie di schiavi che non sanno di quale schiavitù siano schiavi (33-40)

[IV,1,33] Il servo auspica di essere lasciato subito libero. Perché? Reputate che smani di dare del denaro agli esattori della tassa del cinque per cento? No. Ma perché immagina di essere intralciato e di non essere sereno a causa dal non avere finora centrato ciò. [IV,1,34] “Se sarò lasciato libero,” dice, “subito tutto è serenità, non mi impensierisco di nessuno, parlo a tutti da pari e simile, procedo dove voglio, vengo onde voglio e dove voglio”. [IV,1,35] Poi viene affrancato e, non avendo di che mangiare, subito cerca chi adulare, da chi pranzare. E poi, o si prostituisce e sperimenta le cose più terribili -e se ne avrà una greppia si è imbattuto in una servitù [IV,1,36] molto più ardua della precedente- oppure, anche trovandosi nella prosperità, da individuo privo del senso del bello si è invaghito di una ragazzina, ed avendo cattiva fortuna prorompe in singhiozzi e brama la servitù. [IV,1,37] “Infatti, che male ne avevo? Un altro mi vestiva, un altro mi calzava, un altro mi nutriva, un altro mi curava quand’ero ammalato ed io gli facevo un po’ da servitore. Ora invece, sciagurato me, cosa non sperimento facendo da servo a molti invece che ad uno solo! [IV,1,38] Ugualmente però,” dice, “ se prenderò gli anelli allora sì, me la passerò serenissimamente e felicissimamente”. Innanzitutto, per prendere gli anelli di cavaliere sperimenta ciò che merita; [IV,1,39] poi, presili, di nuovo è lo stesso. E poi dice “Se condurrò una campagna militare, mi sarei allontanato da tutti i mali”. Conduce una campagna militare, sperimenta quanto sperimenta un tipo da frusta e nondimeno ne chiede una seconda ed una terza. [IV,1,40] Poi qualora sovrapponga il tocco finale e diventi senatore, allora diventa un servo che viene in adunanza, allora è servo della servitù più onorevole e più crassa.

Gli animali, in quanto creature aproairetiche, sono unicamente istintivi. L’essere umano, in quanto creatura proairetica, rimane animale istintivo quando usa o sceglie di usare la controdiairesi; e diventa libero, ossia uomo, unicamente quando impara a giocare correttamente con l’antidiairesi e ad usare con arte la diairesi. Ce lo testimoniano Cesare ed i suoi cortigiani (41-50)

[IV,1,41] Che non sia stupido, che impari ciò che diceva Socrate: ‘il “cos’è” di ciascuna cosa’, e che non adatti a casaccio i pre-concetti alle particolari sostanze! [IV,1,42] Giacché questo è il causativo per gli esseri umani di tutti i mali: l’incapacità di adattare i comuni pre-concetti ai particolari. [IV,1,43] Noi crediamo causativo chi una cosa chi un’altra. Uno che è ammalato. Nient’affatto, ma che non adatta i pre-concetti. Un altro che è un poveraccio, un altro che ha un padre od una madre esasperanti; un altro ancora che Cesare che non è benigno. Questo causativo è invece uno ed uno soltanto: il non saper adattare i pre-concetti. [IV,1,44] Peraltro, chi non ha il pre-concetto di male, che esso è dannoso, che è da fuggirsi, che bisogna disfarsene in ogni modo? [IV,1,45] Pre-concetto non contraddice pre-concetto se non qualora uno venga ad adattarlo. Cos’è dunque questo male, questa cosa dannosa e da fuggirsi? Uno dice: non essere amico di Cesare. Partì, abortì l’adattamento, si opprime, cerca quanto nulla ha a che fare coll’obiettivo: giacché centrato l’essere amico di Cesare, nondimeno non ha centrato quello che cercava. [IV,1,46] Cos’è infatti che ogni persona cerca? Stabilità di giudizi, essere felice, fare tutto come dispone, non essere impedito, non essere costretto. Qualora dunque diventi amico di Cesare, ha cessato di essere impedito, ha cessato di essere costretto, è stabile, è sereno? Da chi cercare di saperlo? Chi abbiamo più degno di fede di colui stesso che ne è diventato amico? [IV,1,47] Vieni nel mezzo e dicci quando dormivi con più dominio dello sconcerto. Ora o prima di diventare amico di Cesare? Subito senti dire: “Cessa, per gli Dei, di burlarti dell’anima mia; non sai cosa non sperimento, sciagurato me! Appena mi viene sonno ed ecco, prima uno poi l’altro vengono a dirmi: Cesare è già sveglio! Cesare viene già avanti! E poi sconcerti, e poi preoccupazioni…” [IV,1,48] Orsù, quando pranzavi con maggior compiacimento: adesso o prima? Ascolta cosa dice anche su questo. Dice che se non sarà chiamato, se ne duole; e se lo sarà, pranza come un servo alla mensa del Signore, facendo nel frattempo attenzione a non dire od a non fare qualche stupidaggine. Di cosa reputi abbia paura? Di essere frustato come un servo? E come potrebbe cavarsela così bene? Ma ha paura, come si confà ad una persona così rilevante, ad un amico di Cesare, di perderci il collo. [IV,1,49] Quando facevi il bagno con più dominio dello sconcerto? Quando ti allenavi con più agio? In totale, quale vita vorresti di più vivere? Quella di adesso o quella di allora? [IV,1,50] Posso giurare che nessuno è così insensibile o bugiardo da non prorompere in lamenti per i propri guai quanto più sarà amico di Cesare.

Ascolta cos’hanno da dire coloro che hanno cercato la Verità e l’hanno trovata: nessun infelice è libero (51-53)

[IV,1,51] -Qualora dunque non vivano come vogliono né quelli detti re né gli amici dei re, chi è ancora libero?- Cerca e troverai. Giacché la natura ti ha dato risorse per il rinvenimento della verità. [IV,1,52] E se non sei capace di trovare il seguito procedendo con queste mere risorse, ascoltalo da coloro che hanno cercato. Cosa dicono? Reputi la libertà un bene? -Il sommo- Può dunque uno che centra il sommo bene essere infelice o finire male? -No- Quanti vedrai dunque essere infelici, non essere sereni, piangere, dichiara con fiducia che non sono liberi. [IV,1,53] -Lo dichiaro- Pertanto ci siamo già ritirati dalla compravendita e da siffatto assegnamento sul patrimonio. Giacché se avessi rettamente ammesso questo, sia un grande re sia uno piccolo, sia chi è stato una volta console sia chi lo è stato due, se sarà infelice non sarà libero. -Sia-

Perfidi megaservi che portano toghe orlate di porpora, maligni microservi in ferie e sillogismi da servi (54-61)

[IV,1,54] Rispondi ancora a questo: reputi la libertà qualcosa di grande e generoso, di rimarchevole? -E come no?- E’ dunque possibile che chi centra un bene così grande e rimarchevole e generoso sia servo nell’animo? -Non è possibile- [IV,1,55] Qualora dunque tu veda qualcuno che si è prostrato davanti ad un altro o che adula contro il proprio parere, dì con fiducia che anche costui non è libero: e non soltanto se lo farà per un pranzetto, ma anche per una provincia od un consolato. E chiama microservi quanti lo fanno per piccoli fini e gli altri, come meritano, megaservi. [IV,1,56] -Sia anche questo- Reputi la libertà qualcosa di incondizionato ed autonomo? -E come no?- Dunque quando è in potere di un altro impedire o costringere qualcuno, dì con fiducia che costui non è libero. [IV,1,57] E non scrutarmi i suoi nonni e bisnonni, non cercare una compravendita; se lo sentirai dire dal di dentro e con passione “Signore!”, anche se dodici verghe lo promuoveranno, dillo servo. Se lo sentirai dire “Sciagurato me, cosa non sperimento!” dillo servo. Se insomma lo vedrai singhiozzare tutto, lagnarsi, non essere sereno: dillo un servo che porta una toga porporata. [IV,1,58] Se poi non farà nulla di ciò, non dirlo ancora libero ma decifra se i suoi giudizi sono soggetti a costrizioni, soggetti ad impedimenti, generatori di non serenità. E se lo troverai siffatto, chiamalo un servo in vacanza durante i Saturnali. Dì che il suo Signore si è messo in viaggio; ma poi giungerà e riconoscerai quel che non sperimenta! [IV,1,59] -Giungerà chi?- Chiunque avrà potestà di procacciare o sottrarre qualcuna delle cose che egli vuole. -Dunque abbiamo così tanti Signori?- Così tanti. Giacché precedenti a questi abbiamo per signori le cose, ed esse sono molte. Per questo è necessario che siano nostri Signori quanti hanno potestà su qualcuna di esse. [IV,1,60] Dacché nessuno ha paura proprio di Cesare, ma ha paura della morte, dell’esilio, della sottrazione di proprietà, della prigione, del difetto di onorificenze. Né qualcuno predilige Cesare, se Cesare non sarà uomo di gran valore, ma prediligiamo la ricchezza di denaro, il tribunato, la pretura, il consolato. Qualora prediligiamo ed odiamo ed abbiamo paura di queste cose, è necessario che quanti hanno potestà su di esse siano nostri Signori. Per questo li riveriamo come Dei. [IV,1,61] Giacché concettualizziamo così: “Quanto ha potestà del massimo giovamento è divino”. Poi subordiniamo malamente: “Costui ha potestà del massimo giovamento”. Di necessità anche quel che ne deriva è inferito malamente. 

Può forse farci liberi qualcosa che è in potere d’altri? No, non può. (62-67)

[IV,1,62] Cos’è dunque che fa l’uomo non soggetto ad impedimenti, incondizionato? Giacché non lo fa la ricchezza di denaro, non lo fanno né il consolato né la provincia né il regno, [IV,1,63] bisogna che si trovi qualcos’altro. Cos’è che fa non soggetto ad impedimenti e ad impacci nello scrivere? -La scienza dello scrivere- E nel suonare la cetra? -La scienza del suonare la cetra- Dunque anche nel vivere, la scienza del vivere. [IV,1,64] Per farla breve, hai sentito. Analizzalo anche nei particolari. E’ fattibile che non sia soggetto ad impedimenti chi prende di mira qualcuna delle cose che sono in potere d’altri? -No- E’ fattibile che costui non sia soggetto ad impacci? -No- [IV,1,65] Dunque neppure è libero. Vedi dunque: abbiamo noi nulla in nostro esclusivo potere, oppure tutto è in nostro esclusivo potere, oppure alcune cose sono in nostro esclusivo potere ed altre in potere d’altri? -Come dici?- [IV,1,66] Qualora tu voglia che il corpo sia integro, è ciò in tuo esclusivo potere o no? -Non è in mio esclusivo potere- E che sia in salute? -Neppure questo- Che sia magnifico? -Neppure questo- Che viva o che muoia? -Neppure questo- Dunque il corpo è allotrio, assoggettato a tutto quanto è più potente di lui. -Sia- [IV,1,67] Ed il fondo, è in tuo esclusivo potere averlo qualora lo voglia e per quanto tempo vuoi e quale lo vuoi? -No- Ed i servetti? -No- Le toghe? -No- La casetta? -No- I cavalli? -Nessuna di queste cose- E se vorrai che i tuoi figlioli o tua moglie o tuo fratello od i tuoi amici vivano ad ogni costo, questo è in tuo esclusivo potere? -Neppure questo- 

C’è qualcosa in nostro esclusivo potere? Sì, c’è (68-75)

[IV,1,68] Dunque nulla hai di incondizionato, che è in tuo potere soltanto o hai qualcosa di siffatto? -Non so- [IV,1,69] Vedi dunque ed analizza la faccenda così. Può forse qualcuno farti assentire al falso? -Nessuno- Dunque, nell’ambito dell’assenso non sei soggetto ad impedimenti e ad intralci. -Sia- [IV,1,70] Orsù, può qualcuno costringerti ad impellere a ciò che non vuoi? – Può. Giacché qualora mi minacci morte o catene mi costringe ad impellere- Ma se spregerai il morire o l’essere messo in catene, ti impensierisci ancora di lui? -No- [IV,1,71] Dunque è opera tua spregiare la morte oppure non tua? -Mia- Tuo è proprio anche l’impellere oppure no? -Sia mio- Ed il repellere qualcosa? Tuo anche questo. [IV,1,72] -E dunque se impellendo io a camminare, quello mi impedirà?- Cosa impedirà di te? Forse l’assenso? -No, ma il corpo- Sì, come un sasso. -Sia, ma io non cammino più- [IV,1,73] E chi ti disse “camminare è opera tua non soggetta ad impedimenti”? Giacché io dicevo non soggetto ad impedimenti soltanto l’impellere. Dove c’è bisogno del corpo e della sua cooperazione, hai sentito dire da tempo che nulla è tuo. -Sia anche questo- [IV,1,74] E può qualcuno costringerti a desiderare ciò che non vuoi? -Nessuno- Qualcuno può costringerti a proporti o progettare qualcosa o, insomma, ad usare le rappresentazioni che ti incolgono? [IV,1,75] -Neppure questo, ma quando desidero mi impedirà di centrare ciò che desidero- Se desidererai qualcuna delle cose tue e non soggette ad impedimenti, come ti impedirà? -In nessun modo- Chi dunque ti dice che chi desidera l’allotrio non è soggetto ad impedimenti?

Prova ad applicare la Verità e non spaventarti delle conseguenze (76-80)

[IV,1,76] -Dunque non devo desiderare la salute del corpo?- Assolutamente no, né null’altro di allotrio. [IV,1,77] Giacché ciò che non è in tuo esclusivo potere apprestare o serbare quando disponi, questo è allotrio. Lungi da esso non soltanto le mani ma prioritariamente il desiderio. Se no trasmettesti te stesso servo, assoggettasti il collo, qualunque sia la cosa non tua della quale ti infatuerai, qualunque delle assoggettate e mortali sia la cosa per cui ti struggi. [IV,1,78] -La mano non è mia?- E’ un tuo membro, ma per natura è argilla soggetta ad impedimenti, soggetta a costrizioni, serva di tutto quanto è più potente di lei. [IV,1,79] Ma perché ti dico “mano”? Il corpo intero devi trattarlo come un asinello oberato per quanto sarà possibile, per quanto sarà dato. E se vi sarà una requisizione ed un soldato lo abbrancherà lascialo andare, non contendere, non brontolare. Se no, dopo avere preso botte nondimeno perderai anche l’asinello. [IV,1,80] Qualora tu debba trattare così il corpo, vedi cosa avanza del resto, di quanto si appresta per il corpo. Qualora il corpo sia un asinello, il resto diventa briglie dell’asinello, basto, ferri, orzo, foraggio. Tralascia anche quello, licenzialo più in fretta e più come se niente fosse dell’asinello.

Fornito della diairesi… (81)

[IV,1,81] Preparato di questa preparazione, esercitato nell’esercizio di distinguere l’allotrio dal peculiare, quanto è soggetto ad impedimenti da quanto non lo è, a ritenere che questo è per te mentre il primo no, ad avere pensosamente qui il desiderio, qui l’avversione: hai forse ancora paura di qualcuno?

…di cosa avrai paura(82-85)

[IV,1,82] -Di nessuno- E per cosa avrai paura? Per quanto è tuo e dov’è per te la sostanza del bene e del male? E chi ha potestà su ciò? Chi può sottrartelo, chi può intralciarti? Non più che intralciare la Materia Immortale, ovvero la Pronoia. [IV,1,83] Paura per il corpo ed il patrimonio? Per l’allotrio? Per quanto nulla è per te? E cos’altro studiavi dall’inizio, se non a distinguere il tuo ed il non tuo, quanto è in tuo esclusivo potere e quanto non lo è, quanto è soggetto ad impedimenti e quanto non lo è? Per cosa venisti dai filosofi? Per essere nondimeno sfortunato ed avere cattiva fortuna? [IV,1,84] Così non saprai dominare la paura e lo sconcerto. Cos’è afflizione per te? Giacché la paura di fatti supposti diventa afflizione quando essi sono presenti. Per cosa smanierai ancora? Di ciò che è proairetico in quanto bello e presente hai un desiderio ben proporzionato e ricostituito, e di ciò che è aproairetico nulla desideri, affinché non trovi posto in te quel certo elemento irragionevole, impetuoso, urgente oltre misura. [IV,1,85] Qualora dunque tu così stia verso le cose, quale persona può ancora farti paura? Cos’ha di pauroso una persona o vista o quando parla o, in complesso, quando gli si relazioni, per un’altra persona? Non più che un cavallo per un cavallo od un cane per un cane od un’ape per un’ape. Ma sono le cose a fare paura a ciascuno di noi: e qualora uno possa procacciarle o sottrarle a qualcuno, allora egli ispira paura.

Il paragone della dissoluzione dell’acropoli che è in noi e della demolizione dell’acropoli della città (86-88)

[IV,1,86] Come si rade al suolo un’acropoli? Non con ferro né fuoco ma con giudizi. Giacché se demoliremo quella nella città, abbiamo forse buttato via anche quella della febbre, quella delle magnifiche femminucce, insomma l’acropoli che è in noi ed i tiranni che sono in noi, che abbiamo tiranni su ciascuno ogni giorno, ora gli stessi, ora altri? [IV,1,87] Di qua si deve iniziare e di qua demolire l’acropoli, espellere i tiranni: tralasciare il corpo, le sue membra, arti e facoltà, il patrimonio, la fama, cariche, onorificenze, figlioli, fratelli, amici, tutto questo ritenere allotrio. [IV,1,88] E se i tiranni saranno espulsi di qua perché, quanto a me, ancora smantellare l’acropoli? Giacché se sta ritta che mi fa? Perché ancora espellerne le guardie? E dove mi accorgo di loro? Contro altri essi hanno le verghe, i giavellotti e i pugnali. 

Io mi riconosco unico responsabile dell’acropoli che è in me, non di quella che è in città (89-90)

[IV,1,89] Io invece non fui mai impedito disponendo, né fui mai costretto non disponendo. Com’è possibile questo? Ho posto il mio impulso al seguito della Materia Immortale, ovvero della Pronoia. Essa dispone che io abbia la febbre: ed io dispongo. Dispone che impella a qualcosa: ed io dispongo. Dispone che desideri: ed io dispongo. Dispone che io centri qualcosa: ed io decido. Non dispone: non decido. [IV,1,90] Dunque dispongo di morire; dunque dispongo di essere torturato. Chi mi può ancora impedire o costringere contro il mio parere? Non più che impedire o costringere Zeus.

Il paragone del viaggiatore accorto, che sa trovare il compagno sicuro (91-98)

[IV,1,91] Così fanno anche i viaggiatori più attenti alla sicurezza. Uno ha sentito dire che la strada è infestata di rapinatori. Non ha l’audacia di lanciarsi da solo, ma attende la comitiva di un ambasciatore o di un questore o di un proconsole e, postosi al seguito, perviene oltre in sicurezza. [IV,1,92] Così fa anche, nell’ordine del mondo, il saggio. “Molti rapinatori, tiranni, tempeste, difetto di mezzi, perdimenti delle cose più care. [IV,1,93] Dove rifugiarsi? Come pervenire oltre senza essere rapinato? Attesa quale comitiva attraversare in sicurezza? [IV,1,94] Di chi porsi al seguito? Del tale ricco di denaro, del consolare? E che pro per me? Lui stesso è spogliato, mugugna, piange. E se il mio stesso compagno di comitiva mi si rigirerà contro e mi rapinerà? [IV,1,95] Che fare? Sarò amico di Cesare, ed essendo suo compagno nessuno commetterà ingiustizie contro di me. Innanzitutto, per diventarlo quanto devo durare e sperimentare, quante volte e da quanta gente essere rapinato! [IV,1,96] E se poi lo diventerò, anche Cesare è mortale. E se per qualche circostanza diventerà mio nemico personale, dov’è meglio arretrare? In un posto isolato? [IV,1,97] Orsù, là non viene la febbre? Che cosa dunque accadrà? Non è possibile trovare un compagno di viaggio sicuro, leale, potente, che non trama insidie?” [IV,1,98] Così riflette e concettualizza che se si porrà al seguito di Zeus attraverserà in sicurezza.

Il nostro solo compagno sicuro è la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, con le sue ottime leggi (99-102)

[IV,1,99] -Come dici ‘porsi al seguito’?- Affinché ciò che Zeus disporrà, anch’egli lo disponga; e ciò che quello non disporrà, neppure lui lo disponga. [IV,1,100] -Come accadrà questo?- Come altrimenti che esaminando gli impulsi ed il governo della Materia Immortale, ovvero della Pronoia? Cosa mi ha dato mio ed incondizionato? Cosa lasciò dietro per sé? Mi ha dato ciò che è proairetico, lo ha fatto in mio esclusivo potere, non soggetto ad intralci, non soggetto ad impedimenti. Ma il corpo fatto d’argilla, come poteva farlo non soggetto ad impedimenti? Subordinò dunque il patrimonio, le suppellettili, la casa, i figlioli, la moglie al ciclo regolare dell’intero. [IV,1,101] Perché, dunque, combattere la Materia Immortale, ovvero la Pronoia? Perché voglio quanto non posso disporre? Perché voglio avere ad ogni costo quanto non mi è dato? Bensì come? Come è dato e per quanto è dato. – Ma chi dà, sottrae- Perché dunque contendere? Non dico che sarò sciocco usando la violenza contro il più potente, ma ancor prima ingiusto. [IV,1,102] Venni al mondo avendolo da dove? -Me lo diede mio padre- E chi a lui? Chi ha fatto il sole, chi i frutti, chi le stagioni, chi la sessualità e la socievolezza gli uni per gli altri?

Il desiderio dell’immortalità personale non è un desiderio da uomini liberi ma da schiavi stolti (103-106)

[IV,1,103] E dopo avere preso tutto quanto da un altro, compreso te stesso, fremi e biasimi il datore, se ti sottrarrà qualcosa? [IV,1,104] Chi sei tu e per cosa sei venuto al mondo? Non è stata la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, ad introdurtici? Non ti mostrò lei la luce? Non ti ha dato dei cooperatori, delle sensazioni, la ragione? Come chi ti introdusse? Non come un essere mortale? Non per vivere sulla terra con un po’ di carne, per osservare il suo governo, far parte del suo corteo e fare festa insieme per un poco? [IV,1,105] Non vuoi dunque, sinché ti è stato dato, osservare il corteo e la sagra e poi, qualora ne sloggi, procedere riverendo e ringraziando per quanto udisti e vedesti? “No, ma volevo fare ancora festa”. [IV,1,106] Anche gli iniziati essere iniziati, probabilmente pure chi è ad Olimpia scorgere altri atleti. Ma la sagra ha un termine. Esci, allontanati da uomo grato, da rispettoso di sé e degli altri. Dà posto ad altri. Anche altri devono nascere appunto come nascesti tu e, nati, avere territorio e dimore e provviste. Se i primi non scemeranno, cosa sopravanza? Perché sei insaziato? Perché sei deficiente? Perché angusti l’ordine del mondo?

Se il tutto non fa per te: vattene! (107110)

[IV,1,107] -Sì, ma voglio che figlioli e moglie siano con me- Giacché sono tuoi? Non sono del datore? Non sono di chi ha fatto anche te? E poi non ti ritrarrai dall’allotrio? Non darai spazio al migliore? [IV,1,108] -Perché la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, mi introdusse a questo patto?- Se non fa per te, esci. Essa non ha bisogno di uno spettatore lagnoso. Ha bisogno di quelli che con lei fanno festa e danzano, affinché piuttosto battano le mani, la invochino come divinità ed inneggino alla sagra. [IV,1,109] Gli indolenti ed i vili essa li vedrà, non spiacevolmente, lasciati addietro dalla sagra; giacché, da astanti, non se la passavano come in una festa né assolvevano l’ufficio loro confacente ma si dolevano, biasimavano i loro geni, la fortuna, i sodali; incoscienti di quanto ottennero e delle facoltà stesse che hanno ricevuto per le contrarietà, della magnanimità, della generosità, della virilità, della stessa ora cercata libertà. [IV,1,110] -A quale scopo, dunque, ho ricevuto le cose aproairetiche? -Per usarle. -Fino a quando?- Finché il prestatore disporrà. -E se mi saranno necessarie?- Non struggerti per esse e non lo saranno; non dire a te stesso che sono necessarie ed esse non lo sono. 

Un ottimo esercizio quotidiano (111-113)

[IV,1,111] Questo è lo studio che bisognerebbe studiare dal mattino alla sera. Iniziando dalle cose più piccole, dalle più fragili: da una pentola, da una tazza; e poi va così innanzi alla tunichetta, ai cagnolini, ai cavallini, al fondicello; e di qua a te stesso: al corpo, alle parti del corpo, ai figlioli, alla moglie, ai fratelli. [IV,1,112] Guàrdatele attorno ovunque, scaraventale via da te. Ripulisci i giudizi, se mai ti è rimasto appiccicato qualcosa di non tuo, così che non si connaturi, così che non ti dolga quando sarà spiccato. [IV,1,113] E se ti alleni ogni giorno, come fai laggiù al ginnasio, non dire che fai filosofia (sia il nome importuno) ma che dai un emancipatore, giacché questo è davvero la libertà. 

La libertà e Diogene (114-117)

[IV,1,114] Per questa via Diogene fu liberato da Antistene, e diceva di non poter più essere asservito da nessuno. [IV,1,115] Per questo, come trattò i pirati quando fu catturato: disse mai a qualcuno di loro “Signore”? E non parlo del nome, giacché non ho paura delle parole, ma della passione da cui scaturisce la parola. [IV,1,116] Come li rimproverava perché nutrivano male i catturati! E come, quando fu smerciato: cercava forse un “Signore”? Ma un servo. E come, smerciato, si conduceva col padrone. Subito discorreva con lui che non doveva abbigliarsi così, non doveva essersi tosato così e, circa i figli, come dovevano passarsela. [IV,1,117] E che c’è di stupefacente? Giacché se quel tale avesse comperato un istruttore di ginnastica, lo avrebbe trattato da servitore o da signore in questioni di palestra? Ed allo stesso modo se avesse comperato un medico od un architetto. Così su ciascun materiale è del tutto necessario che l’esperto padroneggi l’inesperto. 

Il possesso della scienza del vivere e la libertà (118-119) 

[IV,1,118] Ed in generale se uno possiede la scienza del vivere, che altro deve se non essere lui il padrone? Chi è infatti signore su una nave? -Il pilota- Perché? -Perché chi gli disubbidisce è punito- [IV,1,119] Ma può farmi conciare? -Forse che lo può senza punizione?- Così anch’io giudicavo. E poiché non può senza punizione, per questo non ne ha la potestà. Commettere ingiustizia per nessuno è senza punizione. 

Chi non possiede la scienza del vivere ha in ciò stesso la sua punizione (120-122)

[IV,1,120] -E qual è la punizione per chi, se lo reputerà, fa incatenare il proprio servo?- Il farlo incatenare. Questo è ciò che ammetterai anche tu, se vorrai salvaguardare il giudizio che l’uomo non è una belva ma una creatura mansueta. [IV,1,121] Peraltro, quando una vite finisce male? Qualora finisca contro la propria natura. Ed un gallo? Allo stesso modo. [IV,1,122] Dunque anche un uomo. E qual è la sua natura? Mordere, tirare calci, buttare in prigione e decapitare? No, ma fare bene, cooperare, augurare del bene. Dunque allora finisce male, lo vorrai o no, qualora egli operi da scriteriato.

La felicità di Socrate e l’infelicità dei suoi accusatori e dei suoi giudici (123-127)

[IV,1,123] -Sicché Socrate non finì male?- No, ma piuttosto i giudici e gli accusatori. -Neppure Elvidio, a Roma?- No, ma chi lo fece uccidere. [IV,1,124] -Come dici?- Come anche tu dici che non finisce male il gallo vincitore, pur se a pezzi; ma lo sconfitto, pur se illeso. Né feliciti il cane che non insegue la preda e non fatica, ma qualora lo veda sudato, affannato, spezzato dalla corsa. [IV,1,125] Perché diciamo un paradosso se diciamo che male di ognuno è quanto è contrario alla sua natura? E’ un paradosso questo? Tu non lo dici per tutte le altre creature? Perché soltanto per l’uomo ti porti altrimenti? [IV,1,126] Ma poiché diciamo che la natura dell’uomo è mansueta, altruista, leale, questo non è un paradosso. -No, non lo è- [IV,1,127] -Dunque come non è danneggiato pur se viene conciato o incatenato o decapitato?- Non è così se lo sperimenta generosamente e parte traendone insieme guadagno e giovamento, mentre danneggiato è colui che sperimenta le cose più deplorevoli e vergognose; chi, invece di un uomo, è diventato lupo, vipera o vespa. 

Un riassunto memorabile (128-131)

[IV,1,128] Orsù dunque, veniamo ai punti ammessi. Libero è l’uomo non soggetto ad impedimenti, cui le faccende sono a portata di mano come decide. Invece, chi è possibile impedire o costringere od intralciare o sbattere in qualcosa suo malgrado, è servo. [IV,1,129] Chi non è soggetto ad impedimenti? Chi non prende di mira nulla di allotrio. Cos’è allotrio? Ciò che non è in nostro esclusivo potere avere o non avere od avere con certe qualità od in un certo stato. [IV,1,130] Pertanto allotrio è il corpo, allotrie sono le parti del corpo, allotrio è il patrimonio. Se dunque ti struggerai per qualcuna di queste cose come tua peculiare, pagherai il fio che merita chi prende di mira l’allotrio. [IV,1,131] Questa strada conduce alla libertà, questa sola è scampo dalla servitù: poter dire una volta con l’animo intero * Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato, là dove sono stato da voi una volta ordinato *.

Il saggio sa prendere decisioni sul bene e sul male anche a colpo d’occhio (132-134)

[IV,1,132] Ma che dici, o filosofo? Il tiranno ti chiama a dire una di quelle cose che non ti si confanno. La dici o non la dici? Dimmelo. -Lasciami analizzare- Adesso la analizzi? Quand’eri a scuola, cosa analizzavi? Non studiavi cos’è bene, cos’è male e cos’è udetero? -Analizzavo questo- [IV,1,133] Quali conclusioni gradivate? -Che il giusto ed il bello sono beni; l’ingiusto ed il brutto, mali- Forse che vivere è un bene? -No- Forse che morire è un male? -No- Forse lo è la prigione? -No- Invece un discorso ignobile e sleale, il tradimento di un amico, l’adulazione di un tiranno, cosa vi apparivano? -Mali- [IV,1,134] E dunque? Non analizzi ora, non analizzasti né hai preso consiglio allora. Quale analisi: se è doveroso che, potendolo, mi procacci i più grandi beni e non mi procacci i più grandi mali? Magnifica analisi, necessaria e bisognosa di molta deliberazione! Perché ti burli di noi, o uomo? Siffatta analisi non accade mai. 

Invece tu ondeggi e dici a scuola una cosa, fuori scuola un’altra (135-138) 

[IV,1,135] Non saresti giunto a questa riflessione, e neppure vicino ad essa, se immaginassi davvero che male è il brutto e che il resto è udetero. Ma immantinente avresti di che distinguere, come con la vista, così con l’intelletto. [IV,1,136] Quando analizzi se il nero è bianco, se il pesante è leggero? Non aderisci a quanto appare con evidenza? Dunque, come dici ora di analizzare se l’udetero sia da fuggirsi più del male? [IV,1,137] Ma non hai questi giudizi e queste cose -morte e prigione- non ti paiono udeteri bensì i sommi mali. Né quelle -un discorso ignobile e sleale, il tradimento di un amico, l’adulazione di un tiranno- mali, bensì nulla che ci riguarda. [IV,1,138] Giacché dall’inizio ti sei abituato così: “Dove sono? A scuola. Chi mi sente? Parlo con i filosofi. Ma sono uscito dalla scuola: rimuovi quei giudizi di scolari e di stupidi!”

Contraddizione tra teoria e prassi? Nient’affatto! (138-140)

Così un amico ha contro di sé la testimonianza di un filosofo; [IV,1,139] così un filosofo diventa un parassita; così uno si affitta per denaro ed in Senato qualcuno non dice il proprio parere. E dall’interno grida a squarciagola il suo giudizio, [IV,1,140] non una gelida e disgraziata concezioncella dipendente da ragionamenti avventati come da un pelo, ma una concezione potente, atta all’uso, iniziata dall’allenamento attraverso le opere. 

Uomini e vermi (141-143)

[IV,1,141] Sta in guardia, come senti dire-non dico: che morì il tuo bimbo; come reagiresti?- ma che fu versato il tuo olio, fu tracannato il vino; [IV,1,142] ché qualcuno, standoti accanto mentre sei furibondo, ti dica solo questo: “O filosofo, a scuola dici altro. Perché ci inganni? Perché dici di essere un uomo mentre sei un verme?” [IV,1,143] Vorrei stare accanto a qualcuno di loro mentre si accoppia, per vedere com’è teso e quali accenti si lascia scappare, se si ricorda del suo nome, dei discorsi che ascolta o dice, o legge.

Le servitù della gente ricca di denaro o di cariche, che sol per questo si crede libera (144-150)

[IV,1,144] -Cos’ha a che fare questo con la libertà?- Nient’altro che questo ha a che fare con la libertà, lo vogliate o no voi ricchi di denaro. [IV,1,145] -E chi te lo testimonia?- Chi altro se non voi stessi, che avete il Grande Signore e vivete al suo cenno e movimento; che venite meno se soltanto guarderà uno di voi con sguardo stringato; che accudite vecchie signore e vecchi arnesi e dite: “Non posso fare questo: non ne ho la potestà”.? [IV,1,146] Perché non ne hai la potestà? Non mi contraddicevi testé dicendo di essere libero? “Ma Aprulla mi ha impedito!” Dì dunque la verità, servo; e non svignartela dai tuoi Signori, non rinnegare, non avere l’audacia di dare un emancipatore quando hai cotanti controlli della tua servitù! [IV,1,147] Eppure si concepirebbe ancora più degno di perdono chi è costretto dalla passione amorosa a fare qualcosa contro il proprio parere ed insieme vede quel che sarebbe meglio per lui ma non ha la tensione per seguirlo, in quanto è rattenuto da qualcosa di violento ed in certo modo divino.[IV,1,148] Ma chi ti tollererebbe quando fai l’innamorato di vecchie signore e vecchi arnesi, li smocci, li risciacqui, fai loro dei doni e mentre -quando sono ammalati- li curi come un servo, insieme auspichi che muoiano e consulti i medici per sapere se sono già in fin di vita? O di nuovo qualora, per queste grandiose e solenni cariche ed onorificenze, baci le mani dei servi altrui per essere servo neppure di gente libera? [IV,1,149] E poi mi cammini dinanzi solenne, nella carica di pretore, di console. Non so come diventasti pretore, donde prendesti il consolato, chi te lo diede? [IV,1,150] Io non disporrei neppure di vivere se bisognasse vivere per l’intercessione di Felicione, tollerando il suo cipiglio e la sua servile arroganza: giacché so cos’è un servo che ha quella che sembra fortuna e se ne vanta.

Un uomo libero? Diogene (151-158)

[IV,1,151] -Ma tu, dice, sei libero?- Lo voglio sì, per gli dei; e lo auspico. Ma non posso ancora guardare in faccia i Signorionoro ancora il corpo; faccio gran conto dell’averlo integro seppure integro non l’ho. [IV,1,152] Ma posso mostrarti un uomo libero, affinché non cerchi più il paradigma. Diogene era libero. Donde questo? Non perché era nato da genitori liberi, infatti non lo era; ma perché lo era lui, perché aveva buttato via tutti i manici della servitù e non v’era come venirgli innanzi né onde prendere per asservirlo. [IV,1,153] Da tutto poteva sciogliersi facilmente, tutto gli era soltanto appiccicato. Se tu lo avessi abbrancato per il patrimonio te lo avrebbe lasciato, piuttosto di seguirti per causa sua. Se per una gamba, ti avrebbe lasciato la gamba; se per il corpo intero, l’intero corpo; familiari, amici, patria allo stesso modo. Sapeva donde e da chi li aveva ed a che patto li aveva presi. [IV,1,154] Gli avi veraci, gli dei, e la patria effettiva non li avrebbe mai disertati; né avrebbe dato spazio ad un altro per più ubbidienza e sottomissione ad essi, né un altro sarebbe morto per la patria più come se niente fosse di lui[IV,1,155] Giacché non cercava di sembrar fare qualcosa a favore dell’intero, ma ricordava che tutto quel che accade viene di là, è effettuato a favore di quella patria e tramandato dalla legge che la governa. Appunto perciò vedi cosa dice e scrive egli stesso: [IV,1,156] “Per questo,” dice, “hai la potestà, Diogene, di dialogare come decidi sia con il re dei Persianiche con Archidamo, re degli Spartani”. [IV,1,157] Perché era nato da genitori liberi? Tutti gli Ateniesi, tutti gli Spartani ed i Corinzi non potevano dialogare con quei re come volevano ma, per essere figli di servi, li temevano ed accudivano? [IV,1,158] Perché dunque, dice, ne ha la potestà? “Perché non ritengo mio il corpo, perché non ho bisogno di alcuno, perché la legge e nient’altro è tutto per me”. Questo era quanto gli permetteva di essere libero.

Un altro uomo libero? Socrate (159-166)

[IV,1,159] Ma perché non reputi che io mostro un paradigma di uomo solitario, che non ha né moglie né figlioli né patria od amici o congeneridai quali potrebbe essere piegato e distratto, prendi Socrate ed osserva uno che ha moglie e bimbi -anche se come allotrii-, patria, -quanto e come bisognerebbe averla- amici e congeneri; il quale ha subordinato tutto questo alla legge ed alla obbedienza verso la legge. [IV,1,160] Per questo, quando bisognava condurre una campagna militare, se ne andava per primo e là correva pericoli senza minimamente risparmiarsi. Quando fu mandato dai Tiranni contro Leonte, poiché lo riteneva brutto, neppure si consigliò, pur sapendo che avrebbe dovuto caso mai morire. [IV,1,161] E che differenza gli faceva? Giacché disponeva di salvare qualcos’altro: non la carne ma l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri. Questo è intangibile, insubordinabile. [IV,1,162] E poi quando doveva parlare in difesa della propria vita, si conduce forse come uno che ha figlioli e moglie? No, ma come uno che è solo. E quando doveva bere il veleno, come si conduce ? [IV,1,163] Potendo preservarsi in vita e dicendogli Critone: “Esci per i tuoi bimbi”, cosa dice Socrate? Lo riteneva un colpo di fortuna? Donde? Ma considera il decoroso, ed il resto non vede né calcola. Giacché non voleva, dice, salvare il corpo, ma quello che è accresciuto e salvato dal giusto, mentre è diminuito e mandato in malora dall’ingiusto. [IV,1,164] Socrate non si salva in modo vergognoso, lui che non fece votare benché gli Ateniesi lo intimassero, lui che disdegnò i Tiranni, lui che dialoga a quel modo su virtù ed essere uomo.[IV,1,165] Salvaguardare quest’uomo non è possibile con un’azione vergognosa; quest’uomo si salvaguarda morendo, non fuggendo. Giacché anche il buon attore si salvaguarda cessando quando deve, piuttosto che recitando fuori tempo. [IV,1,166] Dunque cosa faranno i bimbi? “Se io me ne andassi in Tessaglia, voi vi sareste presi cura di loro; se invece mi metto in viaggio per l’Ade, non vi sarà nessuno a prendersene cura?” Vedi come vezzeggia e schernisce la morte!

Cosa avremmo fatto noi al posto di Socrate? (167-169)

[IV,1,167] Se invece fossimo tu ed io, subito avremmo filosofeggiato “Bisogna difendersi dagli ingiusti alla pari” ed addizionato “Salvo, sarò di pro a molte persone; morto, a nessuno” e se proprio bisognava sgusciare per un buco, di là saremmo usciti. [IV,1,168] E come avremmo giovato a qualcuno? Dove avremmo giovato rimanendo ancora lì? E se da vivi avessimo giovato, non avremmo giovato alla gente molto di più morendo quando bisognava e come bisognava? [IV,1,169] Ora che Socrate è morto, il ricordo di quanto effettuò o disse da vivo non è meno giovevole alla gente, anzi lo è anche di più.

Alza lo sguardo a questi modelli (170-175)

[IV,1,170] Studia questo, questi giudizi, questi discorsi; tieni gli occhi a questi paradigmi se disponi di essere libero, se smani secondo il merito della faccenda. [IV,1,171] E che c’è di stupefacente se una faccenda così rilevante la comperi a costi tanto grandi e rilevanti? Per questa legittima libertà alcuni si impiccano, altri si gettano in un precipizio e talvolta città intere andarono in malora. [IV,1,172] E per la libertà verace, che non trama insidie, sicura, non restituirai alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia, quel che ha dato, quando essa lo richiederà? Come dice Platone, non studierai non soltanto a morire, ma anche ad essere torturato, andare in esilio, essere conciato ed insomma restituire l’allotrio? [IV,1,173] Sarai quindi servo tra servi anche se sarai console diecimila volte; anche se salirai sul Palatino sarai nondimeno un servo. E ti accorgerai che i filosofi dicono forse paradossi, appunto come diceva pure Cleante, ma non certo illogicità. [IV,1,174] Giacché saprai nei fatti che sono verità e che di queste cose ammirate ed oggetto di industria, pro alcuno non v’è per coloro che le centrano. Coloro che non le hanno ancora centrate si rappresentano che, divenute esse presenti, presenzieranno loro tutti i beni. E poi qualora presenti divengano, pari è la calura, l’irrequietezza è la stessa, la noia pure e pure la smania di quanto non hanno. [IV,1,175] Giacché la libertà non è apprestata dall’assolvimento di ciò per cui smaniamo ma dal disapprestamento della smania.

La libertà si ottiene rimuovendo la smania di ottenere quanto non è in nostro esclusivo potere, ossia vegliando per ottenere il giudizio diairetico (176-177)

[IV,1,176] Ed affinché tu sappia che questo è vero, come hai faticato per quelle, così alloga la fatica anche su queste: veglia per procacciarti il giudizio liberatorio. [IV,1,177] Accudisci un filosofo, invece di un vecchio danaroso. Fatti vedere alle sue porte. Visto, non farai l’indecente; non partirai vuoto e senza guadagno, se ci sarai venuto come si deve. Se no, almeno prova: non è vergognosa la prova.

CAPITOLO 2
SULLA COMPIACENZA

Chi viene alla mia scuola deve imparare non ad essere accomodante a tutti i costi ma a giocare razionalmente con diairesi ed antidiairesi (1-6)

[IV,2,1] Su questo terreno, prima di tutto devi fare attenzione a non rimescolarti mai con qualcuno dei precedenti intimi od amici così da condiscendere con lui alle medesime cose. Se no, perderai te stesso. [IV,2,2] Se ti si insinuerà il pensiero: “Gli apparirò maldestro e non mi tratterà più similmente a prima”, ricorda che nulla accade gratis e che non è possibile, non facendo le stesse cose, essere lo stesso di una volta. [IV,2,3] Scegli dunque se disporre di essere similmente prediletto da quelli di prima, rimanendo simile al te stesso di prima oppure, essendo migliore, di non centrare più il pari. [IV,2,4] Giacché se questo è meglio, immantinente stornati su questo e non ti distraggano altre perplessità. Nessuno che faccia il doppio gioco può fare profitto e, se hai predeterminato tutto per questo, se vuoi essere per questo solo, prodigarti per esso, tralascia tutto il resto. [IV,2,5] Se no, questa ambivalenza farà sì che tu non faccia profitto secondo il merito e che non centri più quello che centravi prima. [IV,2,6] Prima, infatti, avendo tu francamente di mira cose di nessun valore, eri piacevole ai sodali. 

Cosa scegli tra essere ubriacone ma bene accetto, o sobrio ma male accetto? (7-9)

[IV,2,7] Però non puoi differenziarti in entrambi gli aspetti, ma è necessario che per quanto ti accomuni in uno ti lasci addietro nell’altro. Se non bevi insieme a coloro con i quali bevevi, non puoi apparire loro piacevole. Scegli, dunque, se disponi di essere ubriacone e piacevole a quelli oppure sobrio ma spiacevole. Se non canti con coloro con i quali cantavi, non puoi essere similmente prediletto da loro. Dunque scegli anche qui cosa vuoi. [IV,2,8] Se essere rispettosi di sé e degli altri e composti è meglio del fatto che uno dica “piacevole persona”, tralascia il resto, disperane, distoglitene, nulla vi sia tra te ed esso. [IV,2,9] Se non gradirai questo, inclina intero all’opposto: diventa uno dei cinedi, uno degli adulteri, fa’ il seguito e centrerai quel che vuoi. E balza su a strepitare al ballerino! 

La scelta è comunque inevitabile (10)

[IV,2,10] Personaggi così differenti non si mischiano: non puoi recitare sia Tersite sia Agamennone. Se disporrai di essere Tersite devi essere gobbo e calvo. Se Agamennone, devi essere grande, magnifico ed amorevole coi subordinati.

CAPITOLO 3
COSA BISOGNA PERMUTARE CON COSA? 

Non ci perdi affatto se scambi un po’ di denaro con una bella azione (1-3) 

[IV,3,1] Qualora abbandoni qualcuno degli oggetti esterni, abbi a portata di mano il pensiero di quel che ti procacci al posto suo. E se sarà di maggior valore, non dire mai: “Sono stato punito”. [IV,3,2] Non sei stato punito se al posto di un asino ti procacci un cavallo, al posto di una pecora un bue, al posto di quattrini una bella azione, al posto di freddi discorsi una quiete quale deve essere, al posto del turpiloquio il rispetto di te e degli altri. [IV,3,3] Memore di ciò, preserverai ovunque il tuo ruolo quale devi averlo. Se no, considera che perdi tempo a casaccio e che le attenzioni che ora presti a te stesso stai per versarle fuori e sovvertirle tutte quante. 

Il passaggio dalla diairesi alla controdiairesi e viceversa non è che un piccolo distoglimento della ragione…(4-7)

[IV,3,4] C’è bisogno di poco per la perdita ed il sovvertimento di tutto: un piccolo distoglimento della ragione. [IV,3,5] Per far capovolgere il bastimento, il pilota non ha bisogno della medesima preparazione che per salvaguardarlo. Se volterà un poco di fianco al vento, va in malora. E se rallenterà un poco l’attenzione, anche suo malgrado, va in malora. [IV,3,6] Qualcosa di siffatto accade anche qua. Se sonnecchierai un poco, tutto quanto hai raccattato finora parte. [IV,3,7] Fa dunque attenzione alle rappresentazioni; vegliaci su, ché non è piccolo il tesoro serbato: è il rispetto di te e degli altri, è la lealtà, la stabilità di giudizio, è il dominio sulle passioni, sulle afflizioni, sulla paura, sullo sconcerto, insomma è la libertà.

Se tu vali più di tutto l’oro del mondo, per cosa ti venderai? (8-10)

[IV,3,8] Per cosa stai per venderle? Ravvisa quanto valgono. -Ma non centrerò qualcosa di siffatto a quel che ottiene lui!- Ma centrandolo egli, ravvisa cosa fa suo. [IV,3,9] “Io una bella compostezza, lui un tribunato. Lui una pretura, io il rispetto di me stesso e degli altri. Non gracchio dove non è confacente; non mi alzerò quando non si deve. Giacché sono libero ed amico di Zeus, per ubbidirgli di buon grado. [IV,3,10] Quanto al resto non devo pretendere nulla: non il corpo, non il patrimonio, non una carica, non la fama; insomma nulla, giacché egli decide che io non li pretenda. Se infatti così disponesse, li avrebbe fatti beni per me. Invece tali non li ha fatti: per questo non posso violare alcuna delle sue istruzioni”. 

Ed accontentati di usare razionalmente, secondo la natura delle cose, degli oggetti esterni (11-12)

[IV,3,11] Serba il tuo bene in ogni circostanza e, quanto al resto, serbalo secondo che è dato fino ad operare razionalmente con esso, ed accontentati di questo soltanto. Se no avrai cattiva fortuna, sarai sfortunato, sarai impedito, sarai intralciato. [IV,3,12] Queste sono le leggi che sono state inviate di là, queste le costituzioni. Di queste devi diventare interprete, a queste subordinato; non a quelle di Masurio e Cassio.

CAPITOLO 4
A QUANTI SI INDUSTRIANO PER PASSARSELA IN QUIETE

Smaniare per avere un qualunque oggetto esterno oppure smaniare per non averlo non fa gran differenza. In entrambi i casi mostriamo di non conoscere l’arte di usarlo rettamente per godere serenità (1-5)

[IV,4,1] Ricordati che non è soltanto la smania di cariche e della ricchezza di denaro a fare servi nell’animo e subordinati ad altri, ma anche la smania di quiete, di agio, di mettersi in viaggio, di erudizione. Insomma quale che sarà l’oggetto esterno, il suo prezzo subordina ad un altro. [IV,4,2] Dunque che differenza fa smaniare per il Senato e per non essere senatore? Che differenza fa smaniare per una carica o per non averla? Che differenza fa dire “Sto male, non ho nulla da effettuare ma sono vincolato ai libri come un cadavere”, o dire “Sto male, non ho comodità di leggere”? [IV,4,3] Giacché come ossequi e cariche sono oggetti esterni ed aproairetici, così è anche un libro. [IV,4,4] Perché vuoi leggere? Dimmelo. Se infatti ti ci rovesci perché l’animo ne è cattivato od impari qualcosa, sei freddo ed indolente. Se invece lo riferisci a ciò che si deve, che altro è questo se non la serenità? E se leggere non ti procaccia serenità, che pro di esso? [IV,4,5] -La procaccia, dice, e per questo fremo dovendolo abbandonare- E che serenità è questa che chi capita può intralciare, non dico Cesare od un amico di Cesare ma un corvo, un flautista, una febbre e trentamila altre cose? Alla serenità nulla appartiene tanto, quanto la continuità ed il non essere soggetta ad intralci.

Come smettere di conseguire sempre gli stessi insuccessi? (6-7)

[IV,4,6] Sono chiamato ora ad effettuare una certa cosa. Vi andrò ora con il proposito di fare attenzione alle misure che bisogna serbare, ossia con rispetto di me e degli altri, con sicurezza, prescindendo da desiderio ed avversione per gli oggetti esterni e, orbene, [IV,4,7] faccio attenzione alle persone, a cosa dicono, a come si muovono; e questo non con malignità né per avere di che denigrare o deridere, ma per voltarmi su me stesso, se aberro anch’io delle medesime aberrazioni. “Come cessare, dunque?” Allora anch’io aberravo; ora non più, grazie a Zeus…

Non si vive per studiare ma si studia per vivere bene (8-13)

[IV,4,8] Orsù, fatto questo e venuto a queste faccende, hai fatto opera peggiore che leggere mille righe o scriverne altrettante? Qualora mangi, ti adonti perché non leggi? Non ti accontenti di mangiare secondo quel che hai letto? Qualora faccia un bagno caldo? Qualora ti alleni? [IV,4,9] Perché dunque non sei lo stesso in ogni caso, sia qualora ti avvicini a Cesare, sia qualora ti avvicini al tale? Se serbi l’uomo che sa dominare le passioni, dominare lo spavento, l’uomo calmo; [IV,4,10] se scorgi quanto accade piuttosto che essere scorto, se non invidi quanti ti vengono anteposti, se i materiali dell’esistenza non ti sbigottiscono: che ti manca? [IV,4,11] Dei libri? Come e per cosa? Questa dei libri non è infatti una preparazione per il vivere? Ma il vivere è completato da altre cose che i libri. Come se un atleta, mentre va dentro lo stadio, singhiozzasse perché non se ne sta allenando fuori. [IV,4,12] E’ per queste gare che ti allenavi; erano per questo i manubri, la rena, i giovanotti. E adesso cerchi quelle cose quando è tempo dell’opera? [IV,4,13] Come se nell’ambito dell’assenso, riscontrandosi rappresentazioni alcune catalettiche ed altre acatalettiche, noi disponessimo non di distinguerle ma di leggere i libri “Sull’apprensione certa”.

Noi invece studiamo non per vivere bene ma tutt’al più per illustrare ad altri quanto abbiamo studiato (14-18)

[IV,4,14] Cos’è dunque il causativo di ciò? Che mai leggemmo per questo, mai scrivemmo per questo, per usare secondo la natura delle cose, nelle opere, le rappresentazioni che ci incolgono, ma ci esauriamo nell’imparare cos’è detto e nel poterlo spiegare ad un altro, nel risolvere un sillogismo, nel perlustrare un ragionamento ipotetico. [IV,4,15] Per questo laddove è l’industria, là pure è l’intralcio. Vuoi ad ogni costo quanto non è in tuo esclusivo potere? Sii quindi impedito, sii intralciato, fallisci! [IV,4,16] Se noi invece leggessimo i libri “Sull’impulso” con lo scopo, non di vedere cosa vi si dice sull’impulso ma per impellere bene; ed i libri “Sul desiderio e sull’avversione” per non fallire desiderando né, avversando, incappare in quanto avversiamo; ed i libri “Sul doveroso” affinché, memori delle relazioni sociali, nulla facciamo irragionevolmente né di contrario ad esse: [IV,4,17] ebbene, non fremeremmo quando siamo intralciati nelle letture ma ci accontenteremmo di esplicare le opere consone; e non numereremmo quel che siamo abituati a numerare finora “Oggi lessi tante righe, tante ne scrissi”, [IV,4,18] ma diremmo: “Oggi usai l’impulso com’è prescritto dai filosofi, non usai il desiderio, usai l’avversione soltanto verso ciò che è proairetico, non fui atterrito dal tale, non persi sicurezza di fronte al tale, allenai la mia capacità di tollerare l’intemperanza altrui, quella di astenermene, la cooperatività”, e così ringrazieremmo la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, per ciò per cui si deve ringraziare.

Se gli oggetti esterni non sono beni essi non sono, però, neppure mali e si possono chiamare con piena ragione “udeteri” (19-22)

[IV,4,19] Ora non sappiamo di diventare noi pure, sebbene in altro modo, simili ai più. Un altro ha paura di non occupare cariche; tu di occuparle. Assolutamente no, o uomo! [IV,4,20] Ma come deridi chi ha paura di non occupare cariche, deridi così anche te stesso. Giacché non fa differenza avere sete perché si ha la febbre oppure essere idrofobo perché ammalato di rabbia. [IV,4,21] O come potrai ancora dire con Socrate “Se così piace a Zeus, così sia”? Se Socrate smaniasse di oziare nel Liceo o nell’Accademia e di discorrere ogni giorno con i giovani, reputi che avrebbe condotto come se niente fosse tutte le campagne militari che condusse? Non si rammaricherebbe e non gemerebbe “Sciagurato me! Adesso sono qua meschino e sfortunato mentre potrei prendere il sole nel Liceo”? [IV,4,22] Era questa l’opera sua: prendere il sole? Non era invece essere sereno, non soggetto ad impedimenti, non soggetto ad impacci? E come sarebbe ancora Socrate se si rammaricasse per questo? Come scriverebbe ancora peani in prigione?

Dare un valore sbagliato qualunque, positivo o negativo, agli oggetti esterni significa mettere in moto la controdiairesi e quindi rendere serva la proairesi (23-28)

[IV,4,23] Insomma ricordati che qualunque cosa onorerai al di fuori della tua propria proairesi, mandi in malora la proairesi. E fuori non c’è soltanto una carica ma anche l’assenza di una carica, non soltanto l’impegno ma anche l’agio. [IV,4,24] “Dunque ora io tragittarmela in questo trambusto?” Perché dici trambusto? Tra molte persone. Che c’è di esasperante? Reputa di essere ad Olimpia, ritienila una sagra. Anche là uno ha strillato qualcosa ed un altro qualcos’altro, uno effettua qualcosa ed un altro qualcos’altro, uno scuote un altro, alle terme c’è folla. E chi di noi non si rallegra di questa sagra e non si duole di allontanarsene? [IV,4,25] Non diventare uno che si dispiace, uno debole di stomaco di fronte agli avvenimenti. “L’aceto è schifoso, infatti è acido”. “Il miele è schifoso, infatti sovverte il mio normale stato fisico”. “Non voglio ortaggi”. E così: “Non voglio agio, è isolamento”, “Non voglio folla, è trambusto”. [IV,4,26] Ma se le faccende così porteranno, da tragittartela da solo o con pochi, chiamalo quiete ed usa la faccenda per quel che si deve: parla con te stesso, allena le rappresentazioni, elabora i pre-concetti. [IV,4,27] Se invece ti imbatterai nella folla, dillo gara, sagra, festa, e prova a far festa con gli uomini. Quale spettacolo è più piacevole per un filantropo della vista di molti uomini? Noi vediamo con piacere mandrie di cavalli o di buoi e qualora vediamo una grande flotta diamo in gioiose effusioni: chi si infastidisce scorgendo molti uomini? [IV,4,28] “Ma mi assordano di gracchiate”. Dunque è intralciato il tuo udito. Cos’è questo per te? E’ forse intralciata anche la facoltà che usa le rappresentazioni? E chi ti impedisce di usare desiderio ed avversione, impulso e repulsione secondo la natura delle cose? Quale trambusto è sufficiente per questo?

E’ venuto il momento di entrare in gara. Non lamentartene: l’infelicità è male (29-32)

[IV,4,29] Tu ricordati soltanto dei principi universali: “Cos’è mio, cosa non è mio? Cosa mi è dato? Cosa Zeus dispone che io ora faccia, cosa non dispone?” [IV,4,30] Poco fa disponeva che tu oziassi, parlassi con te stesso, scrivessi su questi principi, che leggessi, ascoltassi, ti preparassi: avesti tempo sufficiente per questo. Ora ti dice: “Vieni ormai in gara, mostraci cosa imparasti, come ti cimentasti. Fino a quando ti allenerai da solo? E’ ormai tempo di riconoscerti, se sei un atleta degno di vittoria oppure uno di quelli che vanno in giro per la terra abitata da vinti”. [IV,4,31] Perché dunque fremi? Nessuna gara accade senza trambusto. Devono essere molti i preparatori atletici, molti quelli che strepitano, molti i soprintendenti, molti gli spettatori. [IV,4,32] -Ma io vorrei passarmela in quiete- Mugugna, quindi, e gemi come meriti. Giacché quale altra punizione per chi non è educato a diairesizzare e disubbidisce alle costituzioni della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, è maggiore di questa, cioè dell’affliggersi, piangere, invidiare, insomma del non avere fortuna ed avere cattiva fortuna? Non vuoi allontanarti da questo? 

Per ottenere la serenità, che è bene, occorre rimuovere il desiderio di quanto non è in nostro esclusivo potere (33-38)

[IV,4,33] -E come allontanarmene?- Non sentisti spesso dire che devi rimuovere definitivamente il desiderio e girare l’avversione unicamente contro ciò che è proairetico? Che devi tralasciare tutto: corpo, patrimonio, fama, libri, trambusto, cariche, assenza di cariche? Giacché dove inclinerai ecco che sei servo, sei subordinato, diventi soggetto ad impedimenti, soggetto a costrizioni, intero in potere di altri. [IV,4,34] Tieni invece a portata di mano il verso di Cleante *Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato*. Disponete a Roma? A Roma. A Giaro? A Giaro. Ad Atene? Ad Atene. In prigione? In prigione. [IV,4,35] Se una volta sola dirai: “Quando si parte per Atene?”, sei perduto. Giacché è necessario che questo desiderio, essendo imperfetto, ti faccia sfortunato; e se perfetto, vacuo; esaltato per ciò che non si deve. Di nuovo, se sarai intralciato, preda di cattiva fortuna, poiché incappi in ciò che non vuoi. [IV,4,36] Tralascia dunque tutto questo. “Atene è bella”. Ma molto più bello è essere felici, saper dominare le passioni, dominare lo sconcerto, il non giacere le tue faccende in potere di nessuno. [IV,4,37] “C’è trambusto a Roma, e si fanno gli ossequi”. Ma l’essere sereni vale tutte le difficoltà. Se dunque è tempo di queste, perché non rimuovi l’avversione ad esse? Che necessità c’è di portare some come un asino che prende legnate? [IV,4,38] Se no, vedi che devi sempre far da servo a chi può mandare ad effetto la tua assoluzione, può intralciarti in una cosa qualunque, e devi accudirlo come fosse un Genio Cattivo.

La laboriosità? Quale laboriosità? Essere laboriosi è lavorare per conservare il proprio egemonico secondo la natura delle cose: tutte le altre attività vanno definite per quello che sono veramente e quindi in modo diverso (39-48)

[IV,4,39] Una sola è la strada per la serenità (e questo giudizio ti sia a portata di mano all’alba, di giorno e di notte): la diserzione da ciò che è aproairetico, il non ritenere nostro peculiare nulla di esso, il trasmettere tutto al genio, alla ventura; il farne delegati quelli che anche Zeus ha fatto delegati; [IV,4,40] ed essere io per una sola cosa, per quanto è mio peculiare, per quanto non è soggetto ad impedimenti, e leggere riferendo la lettura a questo, e così scrivere ed ascoltare. [IV,4,41] Per questo non posso dirlo laborioso se sentirò dire di qualcuno soltanto questo, cioè che legge o scrive. E se uno addizionerà che lo fa per notti intere, ancora non lo dico se non riconoscerò il suo riferimento. Giacché neppure tu dici laborioso chi veglia per una ragazzina, ed io neppure. [IV,4,42] Ma se lo farà per la reputazione lo dico vanitoso; se per il denaro, avido di denaro, non laborioso. [IV,4,43] Se invece riferirà la fatica al proprio egemonico, per averlo e tragittarlo secondo la natura delle cose, allora soltanto lo dico laborioso. [IV,4,44] Non lodate e non denigrate mai in base ai luoghi comuni, ma in base ai giudizi. Sono infatti questi il peculiare di ciascuno e sono essi che fanno le azioni brutte o belle. [IV,4,45] Memore di questo, rallegrati del presente ed abbi caro ciò di cui è tempo. [IV,4,46] Se vedi che alcuni giudizi che imparasti ed analizzasti a fondo ti vengono incontro nelle opere, allietatene. Se hai riposto in un canto, diminuito l’essere maligno e ingiurioso, la precipitazione, il turpiloquio, l’agire con avventatezza, l’agire con negligenza; se non sei mosso dai giudizi di prima o non similmente a prima, puoi celebrare una festa ogni giorno: oggi, perché ti conducesti da virtuoso in quest’opera; domani, in un’altra. [IV,4,47] Quanta maggior cagione di un sacrificio che un consolato od una provincia! Questi beni ti vengono da te stesso e dagli dei. Ricordati chi è a dare, a chi e per cosa. [IV,4,48] Nutrito di queste meditazioni fai ancora differenza stando dove sarai felice, stando dove sarai gradito a Zeus? Da ogni dove gli uomini non hanno pari distanza da Zeus? Da ogni dove non vedono similmente gli avvenimenti?

CAPITOLO 5
AGLI INDIVIDUI RISSOSI E BELLUINI 

Socrate è sapiente in quanto sa che nessuno può essere padrone dell’egemonico di un altro (1-6)

[IV,5,1] L’uomo virtuoso non si azzuffa con un altro né permette, per quanto è in suo potere, che un altro lo faccia. [IV,5,2] La vita di Socrate si espone a noi quale paradigma, come pure delle altre cose, anche di questo. Egli non soltanto rifuggì ovunque la rissa, ma neppure permetteva che altri si azzuffassero. [IV,5,3] Vedi nel Convito di Senofonte che grandi risse ha sciolto e, di nuovo, come tollerò Trasimaco, Polo, Callicle e come tollerava la moglie, come tollerava il figlio quando questi lo confutava sofisteggiando. [IV,5,4] Giacché assai sicuramente ricordava che nessuno domina un egemonico altrui, Socrate null’altro voleva che quanto era suo peculiare. [IV,5,5] E cos’è questo? Soltanto facendo quanto è suo proprio non è sufficiente neppure un Socrate a far sì che anch’essi abbiano la loro proairesi in accordo con la natura delle cose: questo infatti è allotrio. E però Socrate è all’altezza di far sì che, mentre quelli fanno quanto è loro peculiare come reputano, egli nondimeno starà e se la tragitterà in accordo con la natura delle cose. [IV,5,6] Giacché questo è sempre l’obiettivo del virtuoso. Ottenere la carica di pretore? No; ma se gli sarà data, serbare su questo materiale il suo proprio egemonico. Sposarsi? No; ma se gli sarà dato lo sposalizio, su questo materiale serbarsi in stato di accordo con la natura delle cose.

Educarsi non significa altro che apprendere la diairesi (7)

[IV,5,7] Se invece vorrà che il figlio o la moglie non aberrino, egli vuole che l’allotrio non sia allotrio. Ed educarsi a diairesizzare è questo: imparare quanto è nostro peculiare e quanto è allotrio.

Un uomo così educato per le strade del mondo (8-9)

[IV,5,8] Dov’è ancora terreno di rissa per chi sta così? Si infatua egli forse di qualche avvenimento? Qualcosa gli appare forse una novità? Non accetta da parte degli insipienti cose ben peggiori e più esasperanti di quelle che gli succedono? E non conteggia guadagno tutto ciò che di estremo essi lasciano addietro? [IV,5,9] “Il tale ti ingiuriò!” Molte grazie a lui perché non mi colpì. “Ma ti colpì pure!” Molte grazie perché non mi ferì. “Ma ti ferì pure!” Molte grazie perché non mi uccise. 

Un insipiente per le strade del mondo (10-18) 

[IV,5,10] Quando infatti imparò, o da chi, che è una creatura mansueta, altruista, che proprio l’ingiustizia è grande danno per chi la commette? Non avendolo dunque imparato né essendone persuaso, perché non seguirà l’utile apparente? [IV,5,11] “Il vicino ha buttato dei sassi!” Dunque hai forse aberrato tu? “Ma delle cose in casa furono rotte!” Tu sei dunque una suppellettile? No, ma proairesi. [IV,5,12] Che cosa ti è dunque dato per questo? A te come lupo, mordere a tua volta e buttare altri sassi in maggior numero. Se invece cercherai cosa ti è dato come uomo, esamina la tua cassa e vedi con quali facoltà sei venuto al mondo. Forse la belluinità? Forse la rancorosità? [IV,5,13] Quando è meschino un cavallo? Qualora sia defraudato delle facoltà naturali: non qualora non possa fare cuccù, ma qualora non possa correre. [IV,5,14] Ed il cane? Qualora non possa volare? No, ma qualora non possa braccare. Non è dunque così, che ha cattiva fortuna non l’individuo che non può strozzare leoni od abbracciare statue (giacché non per questo è venuto al mondo con delle facoltà da parte della natura) ma chi ha mandato in malora la costumatezza, la lealtà? [IV,5,15] Bisognerebbe riunirsi per lamentare costui, a quanti mali è giunto e non, per Zeus, chi nasce o chi muore, ma colui al quale in vita è avvenuto di perdere quanto è suo peculiare. Non quanto è del padre: il fondicello e la casetta e l’albergo ed i servetti (giacché nessuna di queste cose è peculiare dell’uomo ma sono tutte allotrie, serve, assoggettate, date dai loro signori una volta ad uno ed una volta ad un altro) ma quanto è da uomini, gli stampi avendo i quali nell’intelletto è venuto al mondo, [IV,5,16] quelli che noi cerchiamo anche sulle monete e, se li troveremo, valutiamo le monete buone mentre se non li troveremo, le scagliamo via. [IV,5,17] “Di chi ha lo stampo questo sesterzio? Di Traiano. Porta qua. Di Nerone? Scaglialo via, è invalido, schifoso”. Così anche qua. Che stampo hanno i suoi giudizi? “Di mansuetudine, socievolezza, tolleranza dell’intemperanza altrui, altruismo”. Porta qui, lo accetto, ne faccio un cittadino; lo accetto come vicino, come compagno di navigazione. [IV,5,18] Vedi solo che non abbia lo stampo neroniano. E’ forse iracondo, sdegnoso, lagnoso sulla propria sorte? “Se gli parrà, fracassa le teste di chi gli viene incontro”.

La drammatica Verità (19-21)

[IV,5,19] Perché dunque dicevi che è un uomo? Giacché si giudica forse ciascun essere dalla mera conformazione? Dacché, così, dì che anche quella di cera è una mela. [IV,5,20] Ma deve anche averne la fragranza ed il gusto, non basta il connotato esteriore. Neppure naso ed occhi sono dunque bastanti a fare l’uomo, se non avrà giudizi da uomo. [IV,5,21] Costui non ascolta ragione, non comprende quando viene controllato: è un asino. In costui il rispetto di sé e degli altri si è necrotizzato: è improficuo, tutto piuttosto che un uomo. Costui cerca a chi tirare calci o chi mordere quando gli va incontro: sicché non è una pecora od un asino ma una qualche belva selvatica. 

Di chi vuoi tu l’approvazione? Degli esseri umani o degli uomini? (22-24)

[IV,5,22] -E dunque? Disponi che io sia spregiato?- Da chi? Da coloro che sanno? E come mi spregeranno, sapendomi mite, rispettoso di me e degli altri? Dagli ignoranti? E che t’importa? Giacché neppure a qualche altro artista importa dei non artisti. [IV,5,23] -Ma mi si aggrapperanno ancora di più!- Perché dici “a me”? Può qualcuno danneggiare la tua proairesi o impedire che essa usi le rappresentazioni che ci incolgono com’è nata per fare? -No- [IV,5,24] Perché dunque sei ancora sconcertato e vuoi sfoggiarti pauroso? Non verrai invece in mezzo a proclamare che celebri la pace con tutti gli individui, qualunque cosa essi faranno; e che deridi soprattutto quanti reputano di danneggiarti? “Questi schiavi non sanno né chi sono né dove stanno il mio bene ed il mio male: non v’è per loro processione a quanto è mio”.

Soltanto una roccaforte di retti giudizi è destinata a resistere a qualunque assedio (25-28)

[IV,5,25] Così pure gli abitanti di una città ben munita deridono gli assedianti: “Costoro, adesso, perché hanno fastidi per nulla? Le nostre mura sono sicure; abbiamo cibo per assaissimo tempo ed ogni altra preparazione”. [IV,5,26] Questo è quanto fa una città ben munita ed inespugnabile. Ed a fare tale l’animo di un uomo non sono altro che i giudizi. Giacché quale muro è così poderoso o quale corpo così adamantino o quale possesso intoglibile o quale buon nome così esente da insidie? [IV,5,27] Tutto è ovunque mortale, facile ad espugnarsi, e chi ad esso in un modo qualunque fa attenzione è del tutto necessario che sia sconcertato, abbia cattive speranze, abbia paura, pianga, abbia imperfetti i desideri, abbia le avversioni che incappano in quanto avversano. [IV,5,28] E poi non disponiamo di fare ben munita la sola sicurezza che ci è data? Né distornandoci da quanto è mortale e servo, di prodigarci per quanto non è mortale per mano altrui ed è libero per natura? Né ci ricordiamo che uno non danneggia un altro né gli giova, ma che è il giudizio su ciascuna di queste cose quello che danneggia, che produce sovvertimento, che è rissa, che è guerra civile, che è guerra? 

Se invece si considerano beni e mali non i giudizi sugli oggetti esterni bensì gli oggetti stessi… (29-32) 

[IV,5,29] Quanto ha fatto un Eteocle ed un Polinice non è altro che questo, il giudizio sulla tirannia, il giudizio sull’esilio: che uno è l’estremo dei mali, l’altro il più grande dei beni. [IV,5,30] E’ questa la natura di ogni essere: inseguire il bene, fuggire il male; ritenere un nemico, un insidioso, chi sottrae il primo e precinge dell’opposto, pur se sarà fratello, pur se figlio, pur se padre. Giacché nulla ci è più stretto congenere del bene. [IV,5,31] Orbene, se questi sono beni e mali, né un padre è amico ai figli, né fratello a fratello; ma tutto ovunque è pieno di nemici, di gente insidiosa, di sicofanti. [IV,5,32] Se invece il solo bene è la proairesi quale deve essere ed il solo male la proairesi quale non deve essere, dov’è ancora la rissa, dove l’ingiuria? Su cosa? Su cose che sono nulla in relazione a noi? Verso chi? Verso gli ignoranti, verso chi ha cattiva fortuna, verso chi si è ingannato nelle questioni più grandi?

Soltanto i retti giudizi producono amicizia, pace, giustizia (33-37)

[IV,5,33] Memore di questo, Socrate abitava a casa sua sopportando una moglie molto rude, un figlio scriteriato. Giacché era rude per cosa? -Per riversargli in testa quant’acqua voleva e spiaccicare la focaccia- E cos’è per me, se concepirò che questo non è per me? [IV,5,34] Questo è opera mia e né un tiranno mi impedirà di disporlo, né un padrone né i più impediranno uno solo, né chi è più potente il più debole. Giacché questo è stato dato a ciascuno, dalla Materia Immortale, ovvero dalla Pronoia, non soggetto ad impedimenti. [IV,5,35] Questi giudizi in una casa fanno amicizia, in una città concordia, tra le etnie pace, l’uomo grato alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia, fiducioso ovunque, trattandosi di cose allotrie, di nessun valore. [IV,5,36] Questo noi siamo bensì sufficienti a scriverlo, a leggerlo ed a lodarlo quando viene letto; ma esserne persuasi, neppur vicino [IV,5,37] Appunto perciò quanto si dice degli Spartani “A casa leoni, ad Efeso volpi” si acconcerà anche a noi: a scuola leoni, fuori volpi.

CAPITOLO 6
A QUANTI SI DOLGONO DI ESSERE COMMISERATI

Commiserati, commiseratori e commiserazione (1-2)

[IV,6,1] –Mi infastidisce, dice, essere commiserato- L’essere tu commiserato, è dunque opera tua o di coloro che commiserano? E dunque? E’ in tuo esclusivo potere il farlo cessare? -E’ in mio potere, se mostrerò loro che non merito commiserazione- [IV,6,2] Ma questo non meritare commiserazione, per te c’è già o non c’è? -Io sì, reputo che c’è. Ma costoro non commiserano per quanto, se proprio, lo meriterebbe: per le aberrazioni; bensì per la povertà di denaro, l’assenza di cariche, malattie, morti ed altre siffatte faccende- 

Due vie per sottrarsi alla commiserazione (3)

[IV,6,3] Ti sei dunque preparato a persuadere i più che proprio nulla di ciò è male e che anche al povero di denaro, a chi non occupa cariche e non ha onorificenze è possibile essere felice; oppure per sfoggiarti loro ricco di denaro ed occupato in cariche? 

Le vie del cialtrone sono infinite (4-5)

[IV,6,4] Giacché di queste alternative la seconda è da cialtrone gelido e di nessun valore. Vedi grazie a quali mezzi avverrebbe la simulazione. Bisognerà che tu prenda in prestito dei servetti, che possegga un po’ d’argenteria e che la metta in mostra sotto gli occhi di tutti, se è possibile, spesso la medesima, provando però a far sì che sfugga trattarsi della medesima; poi di splendide toghette e di tutto l’altro corteo di ornamenti. Bisognerà poi che dia a vedere di essere onorato dalle persone più notorie e che provi a pranzare da loro o, almeno, a sembrare di pranzare da loro. Quanto al corpo, infine, bisognerà che trovi qualche mala arte perché appaia più formoso e più nobile di quel che è. [IV,6,5] Questo devi escogitare, se vuoi andartene per la seconda strada sì da non essere commiserato.

La via impossibile: fare quanto neppure Zeus ha potuto fare (5-8)

La prima poi, inconcludente e lunga, è mettere mano proprio a ciò che Zeus non poté fare, ossia a persuadere tutti gli esseri umani di quali siano i beni ed i mali. [IV,6,6] Giacché questo ti è stato forse dato? Persuadere te stesso: solo questo ti è stato dato. Non hai ancora persuaso te stesso e poi ora mi metti mano a persuadere gli altri? [IV,6,7] Chi sta con te tanto tempo quanto tu con te stesso? Chi è così persuasivo nel persuaderti come tu te stesso? Chi ti tratta più benevolmente e più familiarmente che tu te stesso? [IV,6,8] Come, dunque, non ti sei ancora persuaso ad imparare? Ora non sei sottosopra? Questo è ciò su cui ti industrii: imparare così da essere senza afflizione, senza sconcerto, senza servilismo e libero? 

Se sei angustiato dall’opinione altrui su di te, credi di sapere cos’è bene e cos’è male? (9-10)

[IV,6,9] Non hai sentito dire che una sola è la strada che porta a questo: tralasciare ciò che è aproairetico e ritrarsene ed ammetterlo allotrio? [IV,6,10] Dunque che un altro concepisca qualcosa su di te, di che forma è? -Aproairetica- Pertanto è niente per te? -Niente- Ma quando sei ancora morso e sconcertato per questo, credi di essere persuaso su quanto è bene e quanto è male?

Guardati allo specchio e riconosci il tuo punto debole (11- 17)

[IV,6,11] Lasciati gli altri, non vuoi dunque diventare tu per te stesso apprendista ed insegnante? “Vedranno gli altri se per loro è vantaggioso stare e tragittarsela in maniera contraria alla natura delle cose; a me nessuno è più vicino di me stesso. [IV,6,12] Dunque cos’è questo, che ho ascoltato i ragionamenti dei filosofi ed assento loro ma, nei fatti, non sono diventato per nulla più leggero? Sono forse così bastardo? Eppure circa il resto, su quanto decisi non fui trovato troppo bastardo. Imparai in fretta le lettere, a fare il lottatore, ad usare la geometria, a risolvere sillogismi. [IV,6,13] Forse che la ragione non mi ha dunque persuaso? Eppure dall’inizio null’altro tanto valutai o scelsi, ed ora su questi argomenti leggo, questo ascolto, questo scrivo: finora non abbiamo trovato altra ragione più potente di questa. [IV,6,14] Cosa mi manca, dunque? I giudizi opposti non sono forse stati strappati? Proprio le concezioni sono forse in me non allenate, non abituate ad andare incontro ai fatti, ma arrugginiscono come un armamentario messo a giacere in un canto e non possono più acconciarmisi? [IV,6,15] Eppure nel fare il lottatore, nello scrivere o nel leggere non mi accontento di imparare, ma rigiro su e giù i sillogismi che sono porti ed altri li intreccio io ed equivoci allo stesso modo. [IV,6,16] I principi filosofici necessari prendendo impulso dai quali è possibile diventare capace di dominare l’afflizione, la paura, le passioni, diventare non soggetto ad impedimenti, libero; questi però non li alleno né studio, in accordo con questi, di uno studio conveniente. [IV,6,17] E poi mi importa di cosa gli altri diranno di me, se apparirò loro un uomo rimarchevole, se apparirò felice?” 

L’uomo che sa di bene operare non si duole di sentir parlar male di sé (18-21)

[IV,6,18] Disgraziato, non vuoi ravvisare cosa dici tu di te stesso? Chi appari a te stesso? Chi nel concepire, chi nel desiderare, chi nell’avversare; chi nell’impulso, nella preparazione, nel progetto, nelle altre opere umane? Ma ti importa se gli altri ti commiserano? [IV,6,19] -Sì; ma sono commiserato a torto!- Dunque ti duoli per questo? E chi si duole è commiserabile? -Sì- Come dunque sei ancora commiserato a torto? Giacché proprio per quanto sperimenti circa la commiserazione, ti strutturi meritevole di essere commiserato. [IV,6,20] Cosa dice dunque Antistene? Non l’hai mai sentito? “E’ da re, o Ciro, agire bene e sentire parlar male di sé”. [IV,6,21] Ho la testa sana e tutti credono che abbia mal di testa. Che m’importa? Non ho febbre e tutti sono in pena per me come se l’avessi: “Sciagurato, è tanto tempo che non smetti di avere la febbre!” Anch’io mi acciglio e dico “Sì, davvero è già molto tempo che sto male”. “Che accada cosa, dunque?” Come la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, disporrà. Ed insieme sotto sotto derido coloro che mi compatiscono.

Come posso avere retti giudizi se non mi basta essere chi sono ma pretendo anche che gli altri abbiano su di me i giudizi che dico io? (22-24)

[IV,6,22] Cosa dunque impedisce di fare similmente anche qui? Sono povero di denaro ma ho un retto giudizio sulla povertà di denaro. Dunque che m’importa se mi commiserano per la povertà di denaro? Non occupo cariche, altri invece occupano cariche. Ma ciò che bisogna avere concepito sull’occupare cariche e non occuparle io l’ho concepito. [IV,6,23] Vedranno coloro che mi commiserano; io non patisco né la fame né la sete né brividi, ma essi credono che anch’io abbia fame e sete di ciò di cui loro hanno fame e sete. Che farò con loro? Che vada in giro a proclamare e dire “Non errate, signori, io sto bene. Non mi impensierisco né per povertà di denaro né per assenza di cariche né per altro, insomma, che per retti giudizi: questi ho non soggetti ad impedimenti e non mi sono più preoccupato d’altro”? [IV,6,24] Che chiacchiere sono queste? Come posso ancora avere retti giudizi se non mi accontento di essere chi sono ma sono tutto in fibrillazione per il sembrare?

Cosa pretendi? Avere successo là dove non ti sei impegnato? (25-27)

[IV,6,25] -Ma altri centreranno di più e mi saranno anteposti- Cos’è dunque più ragionevole del fatto che chi si industria per qualcosa abbia di più in ciò per cui si industria? Si industriano per cariche, tu per giudizi; e per ricchezza di denaro, tu per l’uso delle rappresentazioni. [IV,6,26] Vedi se essi hanno più di te in ciò per cui tu ti industrii ed essi invece trascurano: se assentono di più circa le naturali misure; se desiderano e più di te non falliscono il segno; se avversano e più di te non incappano in quanto avversano; se la imbroccano di più nel progetto, nel proposito, nell’impulso; se salvaguardano il confacente come mariti, figli, genitori e poi, di seguito, secondo gli altri nomi delle relazioni umane. [IV,6,27] Se quelli occupano cariche, non vuoi dire a te stesso la verità: che tu nulla fai per questo, mentre essi tutto fanno e che è irragionevolissimo che chi ha sollecitudine per qualcosa riporti meno di chi la trascura?

La saggezza al primo posto, la politicheria al proprio posto: ecco perché chi è saggio non aspira affatto al governo del mondo (28-30)

[IV,6,28] -No, ma siccome io mi preoccupo di retti giudizi, è più ragionevole che sia io a comandare- In ciò di cui ti preoccupi, nei giudizi; ma in ciò di cui gli altri si sono preoccupati più di te, dà loro spazio. E’ come se per il fatto di avere retti giudizi tu sollecitassi, quando tiri con l’arco, di fare centro più degli arcieri o di lavorare il bronzo più dei fabbri. [IV,6,29] Tralascia dunque l’industria per i giudizi, rivolgiti a quanto vuoi acquisire e, se non ti andrà a seconda, allora singhiozza; giacché meriti di singhiozzare. [IV,6,30] Ora però dici di essere per altro, di aver sollecitudine per altro, ed i più fanno bene a dire: “Opera non si accomuna ad opera”.

La preghiera del politicante (31-33)

[IV,6,31] Uno, alzatosi all’alba, cerca chi ossequiare della casa di Cesare, a chi dire una parola ipocrita, a chi mandare un dono, come essere gradito ad un ballerino, come gratificare uno malignando su un altro. [IV,6,32] Qualora auspichi, su questo auspica. Qualora sacrifichi, per questo sacrifica. Il detto di Pitagora “Non accogliere il sonno sui molli occhi” egli lo ha sistemato qui accanto. [IV,6,33] “ ‘Dove violai’ … in fatti di adulazione? ‘Cosa feci’ … forse qualcosa da uomo libero, forse qualcosa da generoso? “ E se troverà qualcosa di siffatto si rimprovera e s’incolpa: “Ma che c’era tra te ed il dire questo? Non era contingente mentire? Lo dicono anche i filosofi che nulla impedisce di dire una falsità”. 

La riflessione e l’augurio del saggio (34-35)

[IV,6,34] Tu invece, se davvero non ti sei preoccupato d’altro che dell’uso quale deve essere delle rappresentazioni, alzatoti al mattino, subito pondera:“Cosa mi manca per saper dominare le passioni? Cosa per saper dominare lo sconcerto? Chi sono? Forse un corpo, forse degli averi, forse fama? Nulla di questo. Ma cosa? Io sono una creatura logica”. [IV,6,35] Quali dunque le richieste? Rivanga quanto hai effettuato. “ ‘Dove violai’ … in fatti di serenità? ‘Cosa feci’ … o contrario all’amicizia od asociale o scriteriato? ‘Cosa dovevo ma non fu da me compiuto’ … per questo?” 

Veri beni contro false illusioni (36-38)

[IV,6,36] Cotanta essendo dunque la differenza delle cose per cui si smania, delle opere, degli auspici, vuoi ancora avere la pari con loro su ciò per cui tu non ti industrii e quelli invece si industriano? [IV,6,37] E poi stupisci se essi ti commiserano e fremi? Quelli non fremono se tu li commiseri. Perché? Perché sono persuasi di centrare dei beni, mentre tu non sei persuaso. [IV,6,38] Per questo tu non ti accontenti dei tuoi beni ma prendi di mira i loro. Quelli invece si accontentano dei loro e non prendono di mira i tuoi. Dacché se davvero fossi persuaso che, quanto ai beni, sei tu a fare centro e loro hanno errato, neppure pondereresti cosa dicono di te.

CAPITOLO 7
DEL DOMINIO SULLA PAURA

La paura del tiranno discende da un certo giudizio sul tiranno e su di noi (1-5)

[IV,7,1] Che cosa fa pauroso il tiranno? -Le guardie del corpo, dice, i loro pugnali, il ciambellano e coloro che sbarrano fuori chi entra- [IV,7,2] Perché dunque, se a lui circondato dalle guardie del corpo appresserai un bimbo, il bimbo non ha paura? E’ perché il bimbo non si accorge di chi ha davanti? [IV,7,3] Se però uno si accorgerà delle guardie del corpo e che hanno i pugnali, ma andrà da lui proprio perché, a causa di qualche circostanza, dispone di morire e cerca di sperimentarlo per mano altrui come se niente fosse, forse che costui ha paura delle guardie del corpo? -No, giacché vuole proprio ciò per cui esse sono paurose- [IV,7,4] E se uno andrà da lui senza disporre né di morire né di vivere ad ogni costo ma secondo quel che si darà, cosa impedisce di andargli innanzi senza timore? -Nulla- [IV,7,5] Se dunque uno si terrà nei confronti del patrimonio allo stesso modo che appunto costui del corpo, ed anche nei confronti di figlioli e moglie ed insomma, se per una qualche pazzia o demenza sarà così disposto da non fare conto alcuno di avere o non avere queste cose ma, come i bimbi quando giocano con i cocci litigano per il gioco ma non si preoccupano dei cocci, così pure costui non avrà fatto conto alcuno dei materiali dell’esistenza ma sarà ossequioso del gioco che con essi si fa ed attento alla sua condotta, ebbene quale tiranno sarà ancora pauroso a costui, quali guardie del corpo, quali loro pugnali lo saranno?

Soltanto il saldo possesso della diairesi libera l’uomo e gli permette di dominare la paura (6-11)

[IV,7,6] E poi per pazzia uno può essersi così disposto al riguardo, ed i Galilei per abitudine; invece per ragionamento e per dimostrazione razionale nessuno può imparare che la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, ha fatto tutto quanto è nell’ordine del mondo, che l’ordine del mondo nella sua interezza non è soggetto ad impedimenti ed ha il proprio fine in se medesimo, mentre le sue parti sono fatte per i bisogni dell’intero? [IV,7,7] Tutte le altre creature sono state allontanate dal poter comprendere il governo della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, mentre la creatura logica ha risorse per raffrontare tutte queste cose, e che egli ne è parte e quale parte ne è e che sta bene che le parti cedano il passo all’intero. [IV,7,8] Oltre a ciò, essendo la creatura logica per natura generosa, magnanima, libera, essa vede che di quanto ha intorno qualcosa non è soggetto ad impedimenti ed è in suo esclusivo potere, mentre qualcos’altro è soggetto ad impedimenti ed è in potere d’altri. Non soggetto ad impedimenti è quanto è proairetico, soggetto ad impedimenti è ciò che è aproairetico. [IV,7,9] E per questo, se riterrà il proprio bene ed il proprio utile essere soltanto qui, nel non soggetto ad impedimenti ed in suo esclusivo potere, sarà libera, serena, felice, indenne, disinteressata, pia, riconoscente per tutto alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia, sarà una creatura che in nessun luogo si lagna di quanto accade, che non incolpa nessuno. [IV,7,10] Se invece lo riterrà essere negli oggetti esterni ed aproairetici, è necessario che questa creatura sia impedita, intralciata, sia serva di coloro che hanno potestà sugli oggetti esterni ed aproairetici, oggetti dei quali essa si è infatuata e dei quali ha paura. [IV,7,11] Ed è anche necessario che sia empia, in quanto crede di essere danneggiata dalla Materia Immortale, ovvero dalla Pronoia; che sia iniqua procacciatrice a se stessa sempre del di più; che sia serva nell’animo e tutta piccinerie.

Ecce homo (12-15)

[IV,7,12] Che cosa impedisce a chi discerne questo, di vivere leggero e docile, capace di aspettarsi con mitezza tutto quanto può avvenire e di sopportare gli accidenti già avvenuti? [IV,7,13] “Disponi per me la povertà di denaro?” Portala e riconoscerai cos’è la povertà di denaro quando centra un bell’attore. “Disponi delle cariche?” Portale. “Disponi l’assenza di cariche?” Porta. “Disponi per me dolori?” Porta anche i dolori. [IV,7,14] “Disponi il confino?” Dove partirò, là mi starà bene. Giacché anche qua io stavo bene non per il posto ma per i giudizi, i quali sono per portare via con me. Nessuno può sottrarmeli, questi soli sono miei ed intoglibili; mi basta la loro presenza dovunque sarò e qualunque cosa farò. [IV,7,15] “Ma è ormai il momento di morire!” Perché dici morire? Non canticchiare la faccenda, ma di’ le cose come stanno. “E’ ormai il momento che il materiale da cui mi riunii sia di nuovo ristabilito a quegli elementi. Che c’è di terribile? Che cosa di quanto è nell’ordine del mondo sta per andare in malora? Che cosa di nuovo, di illogico sta per nascere?

L’uomo liberato non ha potere su nessuno e nessuno ha potere su di lui (16-18)

[IV,7,16] Per questo è pauroso il tiranno? Per questo le guardie del corpo sembrano avere grandi ed aguzzi i pugnali? Questi giudizi li lascio ad altri. Io ho analizzato la faccenda da tutti i punti di vista. [IV,7,17] Nessuno ha potestà su di me. Io sono stato costituito libero dalla Materia Immortale, ovvero dalla Pronoia. Ho riconosciuto le sue istruzioni. Nessuno può più ridurmi in servitù. Ho l’emancipatore che si deve ed i giudici che si deve. [IV,7,18] “Non sono io signore del tuo corpo?” Cos’ha dunque esso a che fare con me? “Non lo sono delle tue coserelle?” Cos’hanno dunque esse a che fare con me? “Non lo sono di esilio o catene?” Io qui di nuovo mi ritraggo, in tuo favore, da tutto questo e dall’intero corpo, qualora tu voglia. Prova su di me la tua signoria e riconoscerai fino a che punto l’hai.

Assegnare alle cose il loro giusto valore e giocare senza paura finché tutto rimane un gioco. Quando però il gioco non sia più ben giocato, allora salvarsi salvando, ad ogni costo, la Verità della diairesi. (19-24)

[IV,7,19] Di chi dunque posso ancora avere paura? Dei ciambellani? Che facciano cosa? Mi sbarreranno fuori? Se troveranno che voglio entrare, sbarrino pure! -Dunque perché vieni alle porte?- Perché reputo doveroso per me partecipare al gioco, finché rimane un gioco. [IV,7,20] -Come, dunque, non sei sbarrato fuori?- Perché se uno non mi accoglierà, non dispongo di entrare ma piuttosto dispongo sempre quel che accade. Giacché ciò che Zeus dispone lo ritengo migliore di ciò che dispongo io. Lo approccerò da ministro e seguace, coimpello, condesidero, insomma condispongo. Lo sbarramento non è per me ma per chi usa la violenza. [IV,7,21] Perché non uso la violenza? Perché so che lì dentro non si distribuisce alcun bene a chi entra. E qualora senta dire che qualcuno si beatifica perché è onorato da Cesare, dico: “Che gli avviene? Forse che si distribuisce anche il giudizio quale deve essere nei confronti di una Provincia, forse anche l’usare come si deve una delega? Perché ancora irrompere? [IV,7,22] Qualcuno getta qua e là dei fichi secchi e delle noci. I bimbi li ghermiscono e si azzuffano gli uni gli altri; gli uomini no, giacché li ritengono piccola cosa. Se qualcuno getterà qua e là dei cocci, neppure i bimbi li ghermiscono. [IV,7,23] Si distribuiscono province. Se la vedranno i bimbi. Del denaro. Se la vedranno i bimbi. Una pretura, un consolato: le arraffino i bimbi; siano esclusi, siano percossi, bacino le mani di chi dà, dei servi. Per me sono fichi secchi e noci”. [IV,7,24] Che fare dunque se un fico secco, quando lui li scaglia, per caso fortuito mi verrà in grembo? Lo sollevo e lo divoro. Fino a tanto è possibile onorare anche un fico secco. Ma per inchinarmi, per capovolgere un altro o per essere da un altro capovolto, per adulare coloro che li lanciano, questo non lo meritano né un fico secco né alcun’altra di quelle cose non buone che i filosofi mi hanno convinto a non reputare beni.

Eppure tu insisti ad avere paura del tiranno perché sei come lui, perché date lo stesso valore alle stesse cose, perché credete di essere immortali e quindi siete legati dalla stessa catena magica di merda con la quale vi riconoscete e vi cibate reciprocamente (25-28) 

[IV,7,25] Mostrami i pugnali delle guardie del corpo. “Vedi quanto sono grandi e come sono aguzzi!” E cosa fanno questi grandi ed aguzzi pugnali? [IV,7,26] “Uccidono!” E la febbre cosa fa? “Nient’altro”. Ed una tegola cosa fa? “Nient’altro”. Tu vuoi dunque che io mi infatui di tutte queste cose, che le riverisca, che vada in giro servo di tutte? Non sia mai! [IV,7,27] Ma, una volta imparato che quanto nasce deve anche perire perché non si arresti e non subisca intralci l’ordine del mondo, io non faccio più differenza se a farlo sarà la febbre, una tegola od un soldato anzi, se bisogna paragonare, so che lo farà in modo più indolore e più in fretta il soldato. [IV,7,28] Qualora dunque io non abbia paura di nessuno dei modi in cui il tiranno può disporre di me e non smani per qualcosa che può procurare, perché debbo ancora ammirarlo, perché rimanerne ancora attonito? Perché ho paura delle guardie del corpo? Perché mi rallegro se mi parlerà e mi accoglierà con cortesia, ed espongo ad altri come mi parlò? 

Socrate spezza la catena magica di merda. E, con Socrate, tutti coloro che riconoscono di essere proairesi mortale (29-32)

[IV,7,29] E’ forse Socrate, è forse Diogene, così che la sua lode sia una dimostrazione di chi sono? [IV,7,30] Ho forse emulato il suo carattere? Ma vengo da lui per salvaguardare il gioco e gli faccio da servitore fino a che egli non intimi qualche scempiaggine o qualcosa di smisurato. Se mi dirà: “Parti e va da Leonte di Salamina”, gli dico: “Cerca un altro, giacché io non gioco più”. [IV,7,31] “Menalo in prigione!” Lo seguo nel gioco. “Ma ti stacca il collo!” Ed il suo persiste sempre dov’è? E quello di voi che ubbidite? “Ma sarai scagliato via insepolto!” Se io sono il cadavere, sarò scagliato via. Se invece sono altro dal cadavere, dì più elegantemente come sta la faccenda e non incutermi paura. [IV,7,32] Queste cose sono paurose per i bimbi ed i dissennati. Se poi uno che è entrato una volta a scuola da un filosofo non sa chi è, ben merita di avere paura e di adulare coloro che prima adulava, se non ha ancora imparato che non è carne né ossa né nerbo bensì quello che li usa, quello che governa e comprende le rappresentazioni.

Ma tu sei uno spregiatore delle leggi, sei un sovversivo, un asociale! Calma: di quali leggi stai parlando, di quale ordine, di quale società? Calma: vediamo dove tu sei superiore a me e dove io sono superiore a te (33-36)

[IV,7,33] -Sì, ma questi ragionamenti fanno spregiatori delle leggi- Quali ragionamenti, piuttosto, procurano alle leggi degli ubbidienti utilizzatori? Legge non è quanto è in potere di uno stupido. [IV,7,34] Ugualmente vedi come questi ragionamenti preparano a stare come si deve anche verso costoro, insegnandoci appunto a non pretendere da loro nulla di ciò in cui possano vincerci. [IV,7,35] Quanto al corpo insegnano a ritrarsene; quanto al patrimonio, a ritrarsene; e quanto ai figlioli, genitori, fratelli, di dare spazio a tutti, tralasciare tutto. Eccettuano soltanto i giudizi, che pure Zeus dispose fossero particolari di ciascuno. [IV,7,36] Quale illegalità c’è qua, quale scempiaggine? Laddove tu sei migliore e più potente di me, là mi ritraggo in tuo favore. Di nuovo, laddove io sono migliore di te, dammi spazio tu. Giacché questo è importato a me, non a te. 

Tu badi a tutto quanto è esteriore, ed in questo mi sei superiore. Io bado ai miei giudizi, ed in ciò ti sono superiore (37-41)

[IV,7,37] A te importa come abitare in marmorei palazzi e, ancora, come ti facciano da ministri ragazzi e liberti; come portare un vestito vistoso; come avere molti cani da caccia, citaredi, cantanti. [IV,7,38] Forse che io li pretendo? Ti è forse dunque importato dei giudizi? Forse della tua ragione? Sai forse di quali pezzi consiste, come sono combinati, qual è la sua articolazione, quali facoltà ha e di quale natura? [IV,7,39] Perché dunque fremi se un altro che ha studiato, in questo ha più di te? -Ma sono queste le cose più grandi!- E chi ti impedisce di rivolgerti ad esse e di esserne sollecito? Chi ha maggior disponibilità di libri, comodità, persone disposte a giovargli? [IV,7,40] Solo stornati una volta a questi studi, deputa un po’ di tempo al tuo egemonico. Analizza perché mai l’hai e da dove è venuto, l’egemonico che usa tutto il resto, che valuta tutto il resto, che seleziona e rigetta dopo selezione. [IV,7,41] Ma finché sarai rivolto agli oggetti esterni, quelli li avrai come nessuno, l’egemonico invece l’avrai quale disponi di averlo, sozzo e negletto.

CAPITOLO 8
A QUANTI FRETTOLOSAMENTE SALTANO SU AD ATTEGGIARSI A FILOSOFI

I giudizi dai quali procedono i comportamenti delle persone non sempre si desumono facilmente dalle apparenze esterne (1-9)

[IV,8,1] Non lodate e non denigrate mai qualcuno in base ai luoghi comuni, e non attestate o meno qualche arte: vi allontanerete insieme dalla precipitazione e dalla malignità. [IV,8,2] “Costui fa il bagno caldo frettolosamente”. Dunque fa male? No affatto. Ma cosa? Fa il bagno caldo frettolosamente. [IV,8,3] -Dunque tutto accade bene?- Nient’affatto! Quanto procede da retti giudizi accade bene, quanto procede da giudizi depravati accade in modo depravato. Finché non decifrerai il giudizio in base al quale uno fa ciascuna opera, tu non lodarla e non denigrarla. [IV,8,4] Ed un giudizio non si determina facilmente dall’esterno. “Costui è un falegname”. Perché? “Usa un’ascia”. E con ciò? “Costui è un musicista: infatti canta”. E con ciò? “Costui è un filosofo”. Perché? “Giacché ha un mantello ed una gran chioma”. [IV,8,5] Ed i questuanti cos’hanno? Per questo, se si vedrà uno di loro fare l’indecente subito si dice: “Ecco il filosofo, cosa fa!”. Dal fatto che faceva l’indecente, bisognerebbe invece piuttosto dire che lui non è un filosofo. [IV,8,6] Giacché se il pre-concetto e la professione di filosofo è questa: “Avere un mantello ed una gran chioma”, essi direbbero bene. Se invece è piuttosto questo: “Essere al riparo dalle aberrazioni”, perché non lo privano dell’appellativo di filosofo, dal momento che non ne adempie la professione? [IV,8,7] Così è anche nel caso delle altre arti. Qualora uno veda qualcuno che dà di scure malamente, non dice: “Che pro della falegnameria? Ecco che cattivi lavori fanno i falegnami!”, ma dice tutto l’opposto: “Costui non è un falegname, giacché dà di scure malamente”. [IV,8,8] Similmente se sentirà qualcuno cantare male non dice: “Ecco come cantano i musicisti!” ma piuttosto: “Costui non è un musicista”. [IV,8,9] Sulla filosofia soltanto sperimentano questo: qualora vedano qualcuno che fa cose in contrasto con la professionalità del filosofo, non lo privano dell’appellativo ma, ponendo che è filosofo e poi prendendo spunto proprio dall’accaduto, che fa l’indecente, applicano la conclusione non esservi pro alcuno del filosofare.

Coloro che si fanno chiamare filosofi hanno fatto guadagnare alla filosofia un pregiudizio negativo (10-11)

[IV,8,10] Cos’è dunque causativo di ciò? Che al pre-concetto di falegname, a quello di musicista ed allo stesso modo degli altri artisti, noi diamo il rango di ambasciatore, mentre al pre-concetto di filosofo no, ed in quanto si tratta di un pre-concetto confuso e disarticolato giudichiamo soltanto dall’esterno. [IV,8,11] Quale altra arte si apprende da un certo abito e da una gran chioma e non ha anche principi generali, un materiale, un fine? 

Materiale, fine e principi generali della filosofia (12-14)

[IV,8,12] Qual è dunque il materiale del filosofo? Un mantello, forse? No, ma la ragione. Qual è il fine? Forse portare un mantello? No, avere retta la ragione. Quali sono i principi generali? Forse quelli concernenti il come nasce un gran barbone od una folta chioma? No, essi sono piuttosto quelli che dice Zenone ossia riconoscere gli elementi del discorso, qual è la natura di ciascuno di essi, come si acconciano gli uni agli altri e quanto a questi è conseguente. [IV,8,13] Non vuoi dunque vedere innanzitutto se facendo l’indecente uno adempie la professione di filosofo, e così incolpare il mestiere? Ora invece, qualora tu sia temperante, in base a ciò che reputi egli faccia male dici “Vedi il filosofo!” (come se fosse confacente dire filosofo chi fa cose siffatte) e di nuovo “E’ questo un filosofo?”; mentre non dici “Vedi il falegname!” qualora riconosca qualcuno in adulterio o lo veda fare il ghiottone, né dici “Guarda il musicista!”. [IV,8,14] E così quel poco di cui ti accorgi anche tu circa la professione di filosofo, lo fai scivolare di mano e lo confondi per mancanza di studio.

Una citazione di Eufrate (15-20)

[IV,8,15] Ma anche i cosiddetti filosofi vanno in cerca della faccenda a partire dai luoghi comuni. Indossato un mantello e fatto scendere un barbone, subito dicono “Io sono un filosofo!” [IV,8,16] Ma nessuno dirà “Io sono un musicista!”, se comprerà un plettro ed una cetra; né “Io sono un fabbro!”, se si cingerà di un berrettino di feltro e di un grembiule. L’abito è acconciato all’arte, però essi prendono su il nome dall’arte, non dall’abito. [IV,8,17] Per questo diceva bene Eufrate: “A lungo provavo a filosofare di nascosto”, dice, “e questo mi era di giovamento. Giacché innanzitutto sapevo che quanto facevo di buono non lo facevo per gli spettatori ma per me stesso. Per me stesso mangiavo compostamente, avevo lo sguardo calmo, calma l’andatura: tutto per me e per dio. [IV,8,18] E poi, come gareggiavo solo, così pure solo correvo pericoli. Se compivo un’opera brutta o non confacente, non correva pericolo il nome della filosofia né danneggiavo i più aberrando come filosofo. [IV,8,19] Per questo, coloro che non sapevano il mio progetto si stupivano di come io non mi dicessi filosofo, pur trattando e vivendo con tutti i filosofi. [IV,8,20] E che male c’era ad essere riconosciuto filosofo in quel che facevo ma non da segni distintivi?”

Cosa conta il declamare di essere quando in verità non si è? Anzi, proprio il voler declamare di essere non testimonia a sfavore di chi declama? Socrate era ben alieno dal comportarsi così (20-29)

Scruta come mangio, come bevo, come dormo, come tollero l’intemperanza altrui, come mi astengo dall’intemperanza, come coopero, come uso il desiderio e l’avversione, come serbo le relazioni naturali od acquisite senza confusione e senza impacci. [IV,8,21] Giudicami di là, se puoi. Ma se sei così sordo e cieco da concepire che neppure Efesto è un magnifico fabbro se non gli vedrai il berrettino di feltro calcato in testa, che male c’è ad essere ignorato da un arbitro tanto sciocco? [IV,8,22] Così sfuggiva alla maggior parte chi Socrate fosse e venivano da lui per sollecitarlo di essere raccomandati ai filosofi. [IV,8,23] Forse che egli ne fremeva come noi e diceva: “Ma io, a te non paio un filosofo?” Invece li menava e li raccomandava accontentandosi, filosofo, del solo esserlo; rallegrandosi anche che, non sembrandolo, non ne era morso: giacché si ricordava della sua peculiare opera. [IV,8,24] Qual è l’opera del virtuoso? Avere molti apprendisti? Nient’affatto! Lo vedranno quanti per questo si industriano. Quella di precisare principi filosofici difficili? Altri se la vedranno anche su questi. [IV,8,25] Dunque dove Socrate era qualcuno e disponeva di esserlo? Dove sono danno e giovamento. “Se uno,” dice, “può danneggiarmi, io nulla faccio. Se attendo che un altro mi giovi, io nulla sono. Voglio qualcosa e non accade: io sono sfortunato”. [IV,8,26] A cotanta arena sfidava chiunque, e reputo che non si sarebbe ritratto di fronte a nessuno. Cosa reputate? Nell’annunziare e dire “Io sono siffatto”? Non sia mai! Ma nell’essere siffatto. [IV,8,27] Giacché, di nuovo, è da stupidi e da cialtroni il dire: “Io so dominare le passioni e lo sconcerto. Non ignorate, uomini, che mentre voi siete scompigliati ed in trambusto per cose di nessun valore, io soltanto mi sono allontanato da ogni sconcerto”. [IV,8,28] Così non ti basta non avere male, se non proclamerai: “Riunitevi tutti voi che soffrite di podagra, che avete mal di testa, che avete la febbre, voi zoppi, voi ciechi e vedetemi sano da ogni passione”? [IV,8,29] Questo proclama è vacuo ed importuno a meno che, come Asclepio, tu possa indicare subito come, curandosi, saranno anch’essi al riparo dalle malattie, e per questo porti a paradigma la tua salute. 

L’atteggiamento del vero Cinico (30-33)

[IV,8,30] Uno siffatto è in effetti il Cinico, degnato da Zeus di scettro e diadema, che dice: “Affinché vediate, o uomini, che cercate la felicità ed il dominio sullo sconcerto non dove sono ma dove non sono [IV,8,31] ecco, io sono stato inviato dalla Materia Immortale, ovvero dalla Pronoia, quale paradigma per voi. Non ho patrimonio né casa né moglie né figlioli e neppure una coperta né una tunica né una suppellettile: e vedete come sono in salute. Provatemi e se mi vedrete capace di dominare lo sconcerto, ascoltate da quali farmaci fui curato”. [IV,8,32] Questa sì, è già opera da filantropo, da generoso. Ma vedete di chi è opera: di Zeus o di colui che la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, giudicherà degno di questo servizio, affinché in nessun luogo metta a nudo di fronte ai più qualcosa che infirmi la sua testimonianza, quella che egli testimonia in favore della virtù e contro gli oggetti esterni *né sbiancando il colore bellissimo, né sulle guance lacrime asciugando* . [IV,8,33] E non solo questo, ma neppure bramando qualcosa o ricercando un individuo, un posto, un modo di passarsela come fanno i bimbi con la vendemmia o le ferie; adornato ovunque dal rispetto di sé e degli altri, come gli altri dalle pareti, dalle porte e dai portinai.

La lenta formazione del filosofo (34-40)

[IV,8,34] Ora invece, proprio solo mossi alla filosofia, come i deboli di stomaco verso una vivanda che dopo poco è per fare loro ribrezzo, subito si mira allo scettro, al regno. Si è fatto scendere la chioma, ha indossato un mantello, mostra la spalla nuda, si azzuffa con quanti gli vengono incontro e se vedrà uno con la penula si azzuffa con lui. [IV,8,35] O uomo, innanzitutto esercitati d’inverno. Vedi il tuo impulso, se non è quello di un debole di stomaco o di una femmina che ha le voglie. Studia innanzitutto ad essere ignorato. Chi sei, filòsofalo con te stesso per un po’ di tempo. [IV,8,36] Così nasce un frutto. Il seme deve essere sotterrato per tempo, stare nascosto, crescere poco alla volta per poi ultimare la maturazione. Ma se porterà fuori la spiga prima che germogli il ginocchio del gambo, esso è imperfetto, viene da un orto di Adone. [IV,8,37] Tu pure sei una pianticella siffatta: sei fiorito più in fretta del dovuto, l’inverno ti brucerà. [IV,8,38] Vedi cosa dicono dei semi gli agricoltori, qualora ci siano i calori anzitempo? Sono in ansia che i semi non crescano troppo rigogliosi e poi una sola gelata prenda a confutarne l’orgoglio. Vedi tu pure, o uomo! [IV,8,39] Sei cresciuto troppo orgoglioso, sei saltato su un po’ di reputazione anzitempo. Reputi di essere qualcuno, stupido tra stupidi. Congelerai, o piuttosto sei già congelato sotto, nella radice; mentre il sopra di te ancora fiorisce un poco e per questo reputi di vivere ancora e verdeggiare. [IV,8,40] Lascia che almeno noi maturiamo secondo natura. Perché ci denudi, perché ci violenti? Non possiamo ancora sopportare l’aria. Permetti alla radice di crescere e poi di prendere il primo ginocchio e poi il secondo e poi il terzo, e poi così il frutto spunterà per forza di natura, anche se io non vorrò.

Non esistono filosofi-prodigio (41-43)

[IV,8,41] Chi, divenuto gravido e ripieno di giudizi così rilevanti, non si accorge della propria preparazione e non impelle alle opere consone? [IV,8,42] Un toro non ignora la propria natura e la propria preparazione qualora si dia a vedere una belva, né attende chi lo spronerà; e neppure un cane la ignora, qualora veda qualche creatura selvatica. [IV,8,43] Io invece, se avrò la preparazione di uomo dabbene, aspetterò che tu mi prepari alle opere attinenti? Ora non l’ho ancora, fidati di me. Perché dunque vuoi che dissecchi anzitempo, come disseccasti tu?

CAPITOLO 9
A CHI S ‘ ERA MUTATO IN UNO SFACCIATO

Possedere denaro, ricoprire cariche, avere accanto femmine avvenenti ma non avere retti giudizi su tutto ciò (1-5)

[IV,9,1] Qualora veda un altro occupare una carica, contrapponi che tu hai il non bisognare di cariche. Qualora veda un altro ricco di denaro, vedi cos’hai tu in cambio di questo. [IV,9,2] Giacché se non hai nulla in cambio, sei un meschino. Se invece hai il non aver bisogno della ricchezza di denaro, riconosci che hai qualcosa di più e di molto maggior valore. [IV,9,3] Un altro ha una moglie formosa: tu il non smaniare per una moglie formosa. Reputi piccole queste cose? E quale somma non onorerebbero proprio costoro, i ricchi di denaro e coloro che occupano cariche e campano con femmine formose, per poter spregiare la ricchezza di denaro, le cariche, proprio quelle femmine delle quali sono innamorati e che centrano! [IV,9,4] Ignori qual è la sete di chi ha la febbre? Non ha nulla di simile a quella di chi è in salute. Questi, bevendo ha dismesso la sete. Quello invece, dopo un momento di appagamento ha nausea, fa dell’acqua bile, vomita, ha dolori di ventre, ha sete più energicamente. [IV,9,5] Siffatto è essere ricco di denaro smaniandone; occupare cariche smaniandone; andare a letto con una magnifica femmina smaniandone: vi si congiungono gelosia, paura di esserne defraudati, brutti discorsi, brutte rimuginazioni, opere indecenti.

E’ maggior perdita quella di un po’ di denaro o della propria dignità? (6-10)

[IV,9,6] -Ma, dice, cosa perdo?- O uomo, c’eri rispettoso di te e degli altri ed adesso non lo sei più. Non hai perso nulla? Invece di Crisippo e Zenone leggi Aristide ed Eveno: non hai perso nulla? Invece di Socrate e Diogene sei arrivato ad ammirare chi può rovinarne e convincerne il maggior numero. [IV,9,7] Magnifico vuoi essere e plasmi te stesso non essendolo. Vuoi sfoggiare un vestito splendido per far voltare le femmine e, se in qualche modo farai centro con un profumo, reputi d’essere beato. [IV,9,8] Prima neppure ponderavi una di queste cose ma dove fossero il linguaggio decoroso, l’uomo rimarchevole, un ponderare generoso. Appunto perciò dormivi da uomo, venivi avanti da uomo, portavi un vestito da uomo, enunciavi discorsi che si confanno ad un uomo dabbene. E poi mi dici: “Non persi nulla”? [IV,9,9] E così la gente non perde altro che il quattrino? Il rispetto di sé e degli altri non si perde? Il decoro non si perde? O non è essere puniti perdendo questo? [IV,9,10] Dunque tu reputi probabilmente che per queste cose non v’è più punizione. Ma c’era un tempo in cui quella soltanto computavi punizione e danno; un tempo in cui eri in ansia che qualcuno ti scrollasse da questi discorsi e queste opere.

Se cerchi beni maggiori della virtù sei perduto (11-18)

[IV,9,11] Ecco, sei stato scrollato da nessun altro che da te stesso. Azzuffati con te stesso, riconsegnati al decoro, al rispetto di te e degli altri, alla libertà. [IV,9,12] Se uno ti dicesse di me che qualcuno mi costringe a commettere adulterio, a portare siffatto vestito, a profumarmi: non saresti partito per fare fuori con le tue mani questo individuo che così abusa di me? [IV,9,13] Ora dunque non vuoi aiutare te stesso? E quant’è più facile questo aiuto! Non devi uccidere qualcuno, non devi incatenare, non devi oltraggiare, non devi avanzare verso la piazza ma parlare a te stesso, a chi ti sarà ubbidientissimo e verso cui nessuno è più persuasivo di te. [IV,9,14] Innanzitutto stigmatizza gli avvenimenti e poi, stigmatizzatili, non disperare di te e non sperimentare quanto sperimentano gli individui ignobili i quali, ceduto una volta, si danno appieno e sono strascicati come da una corrente. [IV,9,15] Impara, invece, il modo di fare degli istruttori di ginnastica. Il marmocchio è cascato. “Alzati”, dice, “e riprendi a fare il lottatore fino a che non ti potenzierai”. [IV,9,16] Sperimenta anche tu qualcosa di siffatto! Sappi infatti che nulla è più pieghevole dell’animo umano. Bisogna disporre ed è diventato, è stato corretto. Come, di nuovo, sonnecchia e andò in malora. Giacché perdita ed aiuto sono dal di dentro. [IV,9,17] -E poi che bene è per me?- E cosa cerchi maggiore di questo? Invece che sfacciato sarai rispettoso di te e degli altri; invece che scomposto, composto; invece che sleale, leale; invece che impudente, temperante. [IV,9,18] Se cerchi cose più grandi di queste, fa quel che fai: neppure uno degli dei può più salvarti.

CAPITOLO 10
QUALI COSE BISOGNA SPREGIARE ED IN QUALI DIFFERIRE?

Poiché quanto è aproairetico non è in nostro esclusivo potere, noi non possiamo non essere in perenne imbarazzo e difficoltà circa gli oggetti esterni (1-2)

[IV,10,1] Tra gli esseri umani ogni difetto di mezzi nasce circa gli oggetti esterni, è imbarazzo circa gli oggetti esterni. “Che fare? Come accadrà? Come riuscirà? Purché non vada incontro a questo, a quest’altro”. [IV,10,2] Tutte queste sono voci di gente rigirata verso ciò che è aproairetico. Chi infatti dice: “Come non assentire al falso? Come non stornarmi dal vero?” 

Parole di una madre immortale ai propri figli diletti (3-7)

[IV,10,3] Se uno sarà così purosangue da essere in ansia su questo, gli richiamerò alla memoria: “Perché sei in ansia? E’ in tuo esclusivo potere; sii sicuro. Non balzare fuori ad assentire prima di applicare il canone naturale”. [IV,10,4] Di nuovo, se sarà in ansia per il desiderio, che non sia imperfetto e fallito; [IV,10,5] e per l’avversione, che non incappi in quanto avversa; innanzitutto lo bacerò perché, tralasciando ciò per cui gli altri sono entrati in fibrillazione e le loro paure, si è preoccupato delle opere sue peculiari, del dove lui è. E poi gli dirò: [IV,10,6] “Se non vuoi desiderare in modo fallimentare né avversare in modo da incappare in quanto avversi, non desiderare nulla di allotrio e non avversare nulla di quanto non è in tuo esclusivo potere. Se no, è necessario che tu fallisca ed incappi in quanto avversi”. [IV,10,7] Qual è qua il difetto di mezzi? Dove ha posto il “Come accadrà?” ed il “Come riuscirà?” ed il “Purché non vada incontro a questo, a quest’altro”.?

Usa secondo la natura delle cose degli oggetti esterni e splendi della tua virtù (8-9)

[IV,10,8] Ora, quanto sortirà non è aproairetico? -Sì- La sostanza del bene e del male è in ciò che è proairetico? -Sì- Hai dunque la potestà di usare ogni cosa che succede secondo la natura delle cose. Può forse qualcuno impedirti? -Nessuno- [IV,10,9] Dunque non dirmi più: “Come accadrà?”. Giacché comunque accadrà tu lo porrai bene, e quanto succede sarà per te una fortuna.

Come fece Eracle (10)

[IV,10,10] Chi sarebbe Eracle se dicesse “Come far sì che non mi si diano a vedere un grosso leone, un grosso cinghiale od esseri umani belluini?” ? E che t’importa? Se si darà a vedere un grande cinghiale, ti cimenterai in un maggiore cimento; se individui cattivi, allontanerai dalla terra abitata dei cattivi.

E se morissi? Morire bene è uno stupendo momento di vita (11-13)

[IV,10,11] -E se così morirò?- Morirai da uomo dabbene, realizzando un’azione generosa. Dacché morire si deve affatto, è necessario essere trovati mentre si fa qualcosa: o si coltiva la terra o si zappa o mercanteggia o si è console o non si è digerito o si ha la diarrea. [IV,10,12] Mentre fai cosa, vuoi dunque essere trovato dalla morte? Io, per parte mia, mentre faccio qualche opera da uomo, benefica, di comune giovamento, generosa. [IV,10,13] E se non posso essere trovato mentre faccio cose così rilevanti, almeno mentre faccio quanto non è soggetto ad impedimenti, che mi è dato, mentre rettifico me stesso, mentre elaboro la facoltà che usa le rappresentazioni, mentre mi prodigo per dominare le passioni, mentre restituisco alle relazioni sociali quanto è loro attinente. Se sono così fortunato, anche mentre raccosto il terzo àmbito della filosofia, quello sulla sicurezza delle determinazioni.

La morte del saggio (14-17)

[IV,10,14] E se la morte mi piglierà occupato in questo, mi basta se potrò drizzare le mani alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia, e dire: “Le risorse che da te presi per accorgermi del tuo governo e per seguirlo, io non le trascurai. Per parte mia non ti svergognai. [IV,10,15] Ecco come ho usato le sensazioni, ecco come ho usato i pre-concetti. Ti biasimai forse mai? Forse che mi dispiacqui per qualche avvenimento o volli che accadesse altrimenti? Violai forse le relazioni sociali?[IV,10,16] Ti sono riconoscente perché mi generasti, ti sono riconoscente per quanto mi desti; ed il tempo che ebbi per usare i tuoi doni mi basta. Riprendili ed assegnami all’ufficio che disponi, giacché tutto era tuo, tu me l’hai dato”. [IV,10,17] Non basta uscire così disposti? E quale delle vite è migliore o più decorosa di quella di chi è così disposto? Quale rovescio è più felice?

Se vuoi qualcuno degli oggetti esterni, ecco che perdi te stesso perché lo devi pagare con te stesso: niente è gratis (18-19)

[IV,10,18] Perché ciò accada, non piccolo è quanto devi accogliere e non piccolo è quanto non devi fallire. Non puoi voler essere console e questo; industriarti per avere dei fondi e questo; preoccuparti dei servetti e di te stesso. [IV,10,19] Ma se vorrai qualcosa di allotrio, perdesti quanto è tuo. Questa è la natura della faccenda: nulla accade gratis. Che c’è di stupefacente? 

Tu sei disposto a leccare qualunque culo pur di ottenere delle miserabili cariche ma pensi che la felicità debba ottenersi assolutamente gratis (20-24)

[IV,10,20] Se vorrai essere console devi vegliare, correre di qua e di là, baciare le mani, marcire presso le porte altrui, dire ed effettuare molte cose non libere, mandare doni a molti e, a taluni, doni ospitali ogni giorno. E cos’è che accade? [IV,10,21] Dodici fasci di verghe, sedersi tre o quattro volte su una tribuna, dare giochi Circensi e pranzi dalle sportule. O uno mi mostri cos’è oltre questo! [IV,10,22] E dunque non vuoi spendere nulla, non fare fatica alcuna per ottenere il dominio sulle passioni, il dominio sullo sconcerto, per dormire davvero quando dormi, per essere davvero sveglio quando sei sveglio, per non avere paura di nulla, per non essere in ansia su nulla? [IV,10,23] E se, venuto a questa faccenda, qualcosa andrà in malora o sarà speso male oppure se un altro centrerà quel che dovevi centrare tu, subito sarai morso dall’avvenimento? [IV,10,24] Non contrapporrai cosa prendi in cambio di cosa, quanto in cambio di quanto? Ma vuoi prendere gratis cose così rilevanti? E come puoi? Opera ad opera.

Devi scegliere (25-26)

[IV,10,25] Non puoi avere centrati con sollecitudine gli oggetti esterni ed il tuo egemonico. Se vuoi quelli, tralascia questo. Se no non avrai né questo né quelli, essendo distratto su entrambi. [IV,10,26] Se vuoi questo, devi tralasciare quelli. L’olio sarà versato, le suppellettili andranno in malora ma io saprò dominare le passioni. In mia assenza ci sarà un incendio ed i miei libri andranno in malora, ma io userò le rappresentazioni secondo la natura delle cose.

Un porto c’è in ogni caso (27)

[IV,10,27] Ma non avrò da mangiare! Se sono così sciagurato, porto sarà il morire. Questo è di tutti il porto: la morte, questo il rifugio. Per questo nulla nella vita è arduo. Qualora lo disponga, esci e non ti affumichi.

Sta tranquillo: i tuoi beni sono al sicuro (28-30)

[IV,10,28] Perché dunque sei in ansia, perché vegli? Raffrontato dove sono il tuo bene ed il tuo male, non dici subito: “Entrambi sono in mio esclusivo potere. Nessuno può sottrarmi quello né precingermi di questo mio malgrado. [IV,10,29] Perché dunque non mi butto a russare? Quanto è mio è al sicuro! L’allotrio, se la vedrà chi lo riporterà come sarà dato da chi ne ha potestà. [IV,10,30] Chi sono io per volere che esso stia così o così? Forse che mi è stata data una sua selezione? Mi ha forse qualcuno fatto suo governante? A me basta ciò su cui ho potestà. Questo io devo approntare bellissimo. Il resto sarà come disporrà chi di lui è signore”?

Che miseria gli “eroi” senza retti giudizi! Mostrarli all’opera è lo scopo di Omero (31-36)

[IV,10,31] Con questi giudizi davanti agli occhi, uno veglia e si rivolta di qua e di là? Volendo o bramando cosa? Patroclo o Antiloco o Protesilao? Giacché quando ritenne immortale qualcuno degli amici? Quando non aveva davanti agli occhi che domani o dopodomani devono morire o lui o quello? [IV,10,32] “Sì,” dice, “ma credevo che quello mi sarebbe sopravvissuto e che avrebbe cresciuto mio figlio”. Infatti eri uno stupido e credevi cose dubbie. Perché dunque non incolpi te stesso, invece di sedere a singhiozzare come le pupattole? [IV,10,33] “Ma quello mi sistemava accanto da mangiare!” Giacché era vivo, stupido; adesso non può. Te lo sistemerà Automedonte e se anche Automedonte morrà, ne troverai un altro. [IV,10,34] Se si romperà la pentola in cui ti lessava un pezzo di carne, tu devi morire di fame perché non hai la pentola consueta? Non manderai a comprarne un’altra nuova? [IV,10,35] *Nessun altro male peggiore,* dice, *potrei soffrire* E questo per te è un male? E poi, tralasciando di strappartelo, accagioni tua madre di non averti avvisato, sicché da quel momento continui a dolerti? [IV,10,36] Cosa reputate? Omero non ha composto queste storie a bella posta affinché noi vediamo che nulla impedisce agli individui di stirpe più nobile, ai più potenti fisicamente, ai più ricchi di denaro, ai più formosi di essere, qualora non abbiano i giudizi che si deve, meschinissimi e preda di cattivissima fortuna?

CAPITOLO 11
SULLA PULIZIA

Puliti nel corpo e puri nell’animo: il senso della pulizia come istinto degli uomini e caratteristica degli dei dei quali sono padri (1-4)

[IV,11,1] Alcuni sono in disaccordo sull’essere la socievolezza insita nella natura dell’essere umano; ma ugualmente non reputo che questi stessi sarebbero in disaccordo sull’esserlo affatto il senso del pulito e, se per qualcos’altro, che anche per questo l’uomo è separato dagli animali. [IV,11,2] Qualora dunque vediamo qualche altro animale mondarsi, siamo soliti soggiungere con ammirazione “Come un uomo!”. E di nuovo, se uno incolperà qualche animale, subito siamo soliti dire come scusandolo “Appunto, non è un uomo!”. [IV,11,3] E lo crediamo qualcosa di così singolare dell’uomo, prendendolo innanzitutto dagli dei. Dacché essi sono per natura puri ed incontaminati, e di quanto gli uomini si sono approssimati ad essi secondo ragione, di tanto si attengono al puro ed al pulito. [IV,11,4] E dacché è inconcepibile che la loro sostanza sia integralmente pura perché mescolata a quel siffatto materiale, la ragione invitata al fattibile prova a farla risultare pulita.

La purezza dell’animo è nell’essere dotato di giudizi quali devono essere (5-8)

[IV,11,5] Dunque la prima e superiore purezza, e similmente impurezza, è quella dell’animo. Ma non troveresti l’impurezza dell’animo visibile come quella del corpo, poiché quale altra impurezza dell’animo troveresti se non quanto lo procura sozzo nelle sue opere? [IV,11,6] Ora, opere dell’animo sono impellere, repellere, desiderare, avversare, prepararsi, progettare, assentire. [IV,11,7] Cos’è dunque mai che procura un animo sozzo ed impuro in queste opere? Null’altro che le sue determinazioni depravate. [IV,11,8] Sicché impurezza dell’animo sono i malvagi giudizi, mentre è purificazione l’infusione di giudizi quali devono essere. Puro è l’animo che ha giudizi quali deve, giacché solo questo è senza confusione e sudiciume nelle proprie opere.

La pulizia del naso… (9)

[IV,11,9] Qualcosa di somigliante bisogna lavorare con arte anche riguardo al corpo, secondo il fattibile. Era inconcepibile che all’uomo non colassero i mocci, essendo egli una commistione siffatta. Per questo la natura fece le mani e le narici proprio come canali per emettere i fluidi. Se dunque uno li ringhiottirà, dico che non sta facendo opera da uomo. 

dei piedi… (10)

[IV,11,10] Era inconcepibile che i piedi non si infangassero o non si insudiciassero interamente, quando procedono attraverso dei braghi siffatti: per questo la natura apprestò l’acqua, per questo le mani. 

dei denti… (11)

[IV,11,11] Era inconcepibile che masticando non restasse tra i denti qualche sozzura. Per questo “Lava”, dice, “i denti”. Perché? Per essere uomo e non una belva né un maialino.

della pelle e del corpo… (12-14)

[IV,11,12] Era inconcepibile che a causa del sudore e del contatto del vestito con la pelle non sopravanzasse sul corpo qualche sozzura bisognosa di mondazione: per questo vi sono acqua, olio, mani, pannolino, strigile, nitro e, all’occorrenza, ogni altro preparato per ripulirlo. [IV,11,13] No, ma il fabbro dirugginirà il ferro ed avrà strumenti strutturati per questo; tu stesso laverai il tuo piattino, qualora stia per mangiare, se non sarai definitivamente un sozzo sporcaccione; e non laverai il tuo corpo né lo farai pulito? -Perché? dice- [IV,11,14] Di nuovo ti dirò: innanzitutto per fare opera da uomo e poi per non infastidire coloro che incontri. 

Bada almeno a non infastidire altri con il tuo sudiciume (15-18)

[IV,11,15] Qualcosa di siffatto fai anche qua, e non te ne accorgi. Ti ritieni degno di puzzare? Sia, siine degno. Ma ne sono forse degni anche coloro che ti si siedono accanto, si sdraiano con te, ti baciano? [IV,11,16] Ma partitene per qualche dove isolato di cui sei degno, e passatela da solo impuzzando te stesso! Giacché è giusto che tu fruisca da solo della tua sporcizia. Ma essendo in città, di chi ti pare proprio il condursi in modo così sconsiderato e scriteriato? [IV,11,17] Se la natura ti avesse affidato un cavallo, lo terresti sbadatamente negletto? Ora, credi che il corpo è stato posto nelle tue mani come un cavallo: lavalo, mondalo dallo smegma, fallo affinché nessuno se ne distolga, nessuno lo scansi. [IV,11,18] Chi non scansa un individuo sozzo, che puzza, la cui pelle è più lurida di chi è imbrattato di merda? Quest’odore, poi, è sovrapposto dal di fuori, mentre l’altro viene da una incuria dal di dentro e come da qualcosa di putrefatto. 

Ma Socrate si lavava poco… (19-21)

[IV,11,19] -Ma Socrate poche volte faceva un bagno caldo- Ma splendeva il suo corpo, ed era così aggraziato e piacevole che i giovani più fiorenti e di più nobile stirpe ne erano innamorati e smaniavano per giacere sul letto accanto a lui piuttosto che a quelli più formosi. Socrate aveva dunque la potestà di non fare un bagno caldo né di lavarsi con acqua fredda, se lo disponeva: eppure, anche il farlo poche volte, che potenza aveva! [IV,11,20] -Ma Aristofane dice *i pallidoni, gli scalzi, dico*- Dice anche che andava per l’aria e che rubava le toghe dalla palestra. [IV,11,21] Peraltro tutti coloro che hanno scritto su Socrate attestano tutto l’opposto, ossia che era piacevole non soltanto sentirlo parlare ma anche da vedere. E, di nuovo, su Diogene scrivono le stesse cose.

Se il filosofo è un uomo pulito attirerà molti alla filosofia (22-24)

[IV,11,22] Giacché in relazione al palesamento del corpo non si deve far scappare di spavento la gente dalla filosofia, ma si deve sfoggiare buon umore e dominio dello sconcerto, come nel resto, così pure dal corpo. [IV,11,23] “Vedete, o uomini: non ho nulla e non ho bisogno di nulla. Vedete come pur essendo senza casa, senza cittadinanza, caso mai esule e senza focolare, io me la passo più al riparo dallo sconcerto e più serenamente di tutti gli individui di buona famiglia e ricchi di denaro. E vedete anche che il mio corpo non è maltrattato dall’austero tenore di vita”. [IV,11,24] Ma se queste cose me le dirà chi ha l’abito ed il viso di un condannato, quale degli dei mi persuaderà a venire alla filosofia, se la filosofia fa appunto individui siffatti? Non sia mai! Non lo vorrei, seppure fossi per essere sapiente!

La pulizia come segnale di aspirazione al bello: Polemone va da Senocrate (25-30)

[IV,11,25] Io sì, per gli dei, voglio che il giovane che per la prima volta si muove alla filosofia venga da me con la chioma ben plasmata piuttosto che trasandato e sozzo. Giacché si ravvisa in lui una certa rappresentazione del bello, una mira al decoroso. E dove immagina che il bello sia, lì egli lavora con arte. [IV,11,26] Orbene, bisogna solo indicarglielo e dire: “Giovanotto, tu cerchi il bello e fai bene. Sappi dunque che il bello germoglia là dove hai la ragione. Cercalo là dove sono gli impulsi e le ripulse, dove sono i desideri e le avversioni. [IV,11,27] Giacché questo hai in te di singolare, mentre il corpo è per natura argilla. Perché gli fatichi intorno a casaccio? Col tempo riconoscerai, se non altro, che esso è nulla”. [IV,11,28] Se invece verrà da me imbrattato di merda, sozzo, con i mustacchi fino alle ginocchia, cos’ ho da dirgli, da quale tipo di somiglianza a qualcosa di bello posso istruirlo induttivamente alla ragione? [IV,11,29] Per cosa si industria di simile al bello, per allogarlo e dirgli: “Il bello non è qua ma là”? Vuoi che gli dica: “Il bello non è nell’imbrattarsi di merda ma nella ragione”? Giacché prende egli di mira il bello? Giacché ne ha qualche palesamento? Parti e dialoga con un maiale perché non si rotoli nel brago! [IV,11,30] E per questo i discorsi di Senocrate toccarono Polemone, come giovanotto amante del bello. Entrò infatti alla scuola di Senocrate perché aveva dei barlumi di industria per il bello, ma lo stava cercando altrove.

Quanto a pulizia, si può anche prendere esempio da certi animali (31-32)

[IV,11,31] Peraltro la natura sozzi non fece neppure gli animali che con gli esseri umani fanno vita comune. Un cavallo si rotola forse nel brago? Lo fa forse un cane di razza? Lo fanno invece il porco, le schifose papere, i vermi, i ragni, le creature bandite il più lontano possibile dalla correlazione con gli uomini. [IV,11,32] Tu, dunque, da essere umano, neppur vuoi essere una delle creature che fanno vita comune con gli umani ma piuttosto un verme od un ragno? Non farai una qualche volta un bagno caldo come vuoi, non ti risciacquerai, e se non vorrai l’acqua calda con quella fredda? Non giungerai pulito, affinché i sodali si rallegrino di te? Ma pure nei sacrari ti riunisci a noi siffatto, luoghi dove non è stato legittimato sputare né smocciarsi, tu che intero sei sputo e mocci?

Non offendere il senso altrui del pulito ed evitare ogni eccentricità e stravaganza (33-36)

[IV,11,33] E dunque? Uno sollecita che ci si abbellisca? Non sia mai! Ma che si abbellisca ciò per cui siamo nati: la ragione, i giudizi, le nostre attività; ed il corpo fino al pulito, fino al non offendere. [IV,11,34] Ma se sentirai dire che non bisogna portare lo scarlatto, parti ed imbratta di merda il tuo mantello, oppure straccialo! -Ma come faccio ad avere un magnifico mantello?- O uomo, hai l’acqua: lavalo! [IV,11,35] Ecco un giovane degno d’amore, ecco un anziano degno d’amare e di essere contraccambiato d’amore, un anziano al quale uno trasmetterà il proprio figlio affinché venga educato, dal quale delle figlie, dal quale dei giovani verranno, caso mai, affinché tenga le conferenze in un merdaio? Non sia mai! [IV,11,36] Ogni stravaganza nasce da qualche tratto umano, ma questa è vicino a non essere umana!

CAPITOLO 12
SULL ‘ ATTENZIONE

Fare attenzione ai principi generali significa non fare quanto ci viene in mente ma quanto pensiamo (1-6)

[IV,12,1] Qualora tralasci per un poco l’attenzione, non immaginare di recuperarla in caso lo voglia, ma ti sia a portata di mano che per via dell’aberrazione odierna necessariamente le tue faccende vanno peggio anche per il resto. [IV,12,2] Giacché innanzitutto si ingenera l’abitudine più esasperante di tutte, quella di non fare attenzione; e poi l’abitudine di rimandare l’attenzione. E così ti abitui a posporre sempre ad altro tempo e poi ad altro ancora l’essere sereno, l’agire con decoro, lo stare e tragittartela in accordo con la natura delle cose. [IV,12,3] Se dunque il posporre è vantaggioso, più vantaggiosa è la definitiva diserzione dall’attenzione. Ma se non è vantaggioso, perché non custodisci l’attenzione continuativa? [IV,12,4] “Oggi voglio giocare”. Cosa impedisce, dunque, di farlo con attenzione? “Cantare”. Cosa impedisce, dunque, di farlo con attenzione? Si può forse strappare una parte di vita su cui non si prolunga l’attenzione? Giacché lo farai peggio con attenzione e meglio senza attenzione? E cos’altro nella vita diventa migliore per opera di coloro che non fanno attenzione? [IV,12,5] Il falegname fa il falegname più precisamente non facendo attenzione? Il pilota che non fa attenzione pilota più sicuramente? E quale altra delle più piccole opere è realizzata meglio grazie alla disattenzione? [IV,12,6] Da che tralascerai l’intelligenza, non ti accorgi che non è più in tuo esclusivo potere richiamarla a te, al senso del decoro, al rispetto di te e degli altri, alla calma? Tu, invece, fai tutto quanto ti salta in testa, tu aderisci alle foghe.

Attenzione a possedere saldamente i principi universali nell’ambito del desiderio e dell’avversione (7-14)

[IV,12,7] -A che cosa devo dunque fare attenzione?- Innanzitutto a quei principi universali; quelli tenere a portata di mano; non dormire e non alzarsi, non bere e non mangiare, non conferire con persone sprovvisto di quelli: che nessuno è signore di una proairesi altrui e che soltanto in questa stanno il bene ed il male. [IV,12,8] Dunque nessuno è signore né di procacciarmi il bene né di precingermi del male, ma io solo ho potestà su di me a questo riguardo. [IV,12,9] Qualora questi principi siano dunque in me sicuri, cos’ho da sconcertarmi circa gli oggetti esterni? Quale tiranno sarà pauroso, quale malattia, quale povertà di denaro, quale ostacolo? [IV,12,10] -Ma non fui gradito al tale- E quello è forse un’opera mia, è forse una mia determinazione? -No- Dunque che m’importa ancora? -Ma sembra essere qualcuno!- [IV,12,11] Lo vedrà lui e coloro cui sembra; io l’ho, a chi devo essere gradito, a chi essere subordinato, a chi ubbidire: Zeus e, dopo di lui, me. [IV,12,12] Egli raccomandò me a me stesso e subordinò la mia proairesi a me soltanto, dando canoni per il suo retto uso; ai quali qualora mi conformi, nel caso dei sillogismi, non mi impensierisco per nulla di coloro che dicono qualcos’altro; nei ragionamenti equivoci non mi preoccupo di nessuno. [IV,12,13] Perché, dunque, nelle maggiori questioni, coloro che denigrano m’infastidiscono? Cos’è causativo di questo sconcerto? Null’altro se non che in questo àmbito non sono allenato. [IV,12,14] Dacché ogni scienza è spregiativa dell’ignoranza e degli ignoranti, e non soltanto le scienze ma anche le arti. Porta un qualunque calzolaio e questi deride i più circa l’opera sua; porta qui un qualunque falegname.

Attenzione a possedere saldamente i principi universali nell’ambito degli impulsi e delle repulsioni, di quanto è doveroso nelle relazioni sociali (15-18)

[IV,12,15] Innanzitutto bisogna dunque avere a portata di mano questi principi e nulla fare prescindendo da essi, ma avere l’animo teso a questo scopo: non inseguire nulla di al di fuori, nulla di allotrio ma, come costituì chi può, inseguire ad ogni costo ciò che è proairetico ed il resto come sarà dato. [IV,12,16] Oltre a ciò ricordare chi siamo e quale nome abbiamo, e provare ad aggiustare gli atti doverosi alla nostra facoltà delle relazioni sociali: [IV,12,17] quale il tempo per un cantico, quale il tempo per uno scherzo, in presenza di chi; che cosa verrà dalla faccenda; forse che i sodali spregeranno noi, forse noi loro; quando schernire e quando deridere chi, e quando essere compiacente con chi e su cosa e, orbene, nella compiacenza come serbare la propria personalità. [IV,12,18] Dove ti stornerai da qualcuno di questi principi, ecco subito la punizione, non da qualche dove dal di fuori, bensì dalla attività stessa. 

Se tu fossi convinto di ottenere così la felicità, non rinvieresti ma ti metteresti immediatamente all’opera (19-21)

[IV,12,19] E dunque? Si può ormai essere al riparo da aberrazioni? E’ inconcepibile. Però si può essere continuamente teso a non aberrare. Giacché è cara cosa se, non placando mai questa attenzione, saremo almeno esterni ad un po’ di aberrazioni. [IV,12,20] Adesso, qualora dica: “Da domani farò attenzione”, sappi che dici: “Oggi sarò sfacciato, intempestivo, servo nell’animo; sarà in potere d’altri affliggermi; oggi sarò preda dell’ira, invidierò”. [IV,12,21] Ravvisa quanti mali ti deleghi! Ma se ti sta bene domani, quanto meglio oggi! Se è utile domani, molto più oggi, affinché tu possa anche domani e non lo rimandi di nuovo a dopodomani.

CAPITOLO 13
A QUANTI PROPALANO GLI AFFARI LORO COME SE NIENTE FOSSE 

Non affidarsi al primo venuto (né al secondo, né al terzo…) (1-4)

[IV,13,1] Qualora reputiamo che qualcuno ha dialogato con noi schiettamente delle sue faccende, siamo come indotti anche noi a propalargli i nostri segreti e crediamo che essere schietti sia questo. [IV,13,2] Innanzitutto perché reputiamo iniquo avere ascoltato i fatti di chi ci sta dintorno e non fargli parte a nostra volta dei nostri. E poi perché crediamo, tacendo i nostri propri, di non procurare loro l’immagine di uomini schietti. [IV,13,3] Senza fallo, spesso si è soliti dire: “Io ti ho detto tutti i fatti miei e tu non vuoi dirmi nulla dei tuoi? Dove accade questo?” [IV,13,4] Per di più vi è il credere di poterci in sicurezza fidare di chi ci ha già affidato i fatti suoi, giacché ci viene da pensare che costui non riferirebbe mai i fatti nostri per cautelarsi che noi pure riferiamo i suoi.

Spie a Roma e dintorni (5-8)

[IV,13,5] Anche così, a Roma, i precipitosi sono presi dai soldati. Ti si è seduto accanto un soldato in abito comune ed inizia a parlar male di Cesare. Poi tu, come prendendo da lui a pegno di lealtà il fatto che ha incominciato ad ingiuriarlo, dici quanto pregi della faccenda e quindi sei menato via in catene. [IV,13,6] Noi sperimentiamo qualcosa di siffatto anche in generale. Se quello mi ha affidato in sicurezza i fatti suoi, io invece non faccio così con il primo venuto [IV,13,7] ma, dopo avere ascoltato taccio, se siffatto sarò, mentre quello esce e propala i fatti miei a tutti. Se conoscerò l’avvenimento e sarò io stesso simile a lui, volendo poi difendermi propalo i fatti suoi ed ingarbuglio e sono ingarbugliato. [IV,13,8] Se però rammenterò che uno non danneggia un altro, ma che le proprie opere danneggiano o giovano ciascuno, allora tengo ben fermo il principio di non fare qualcosa di simile a lui ed ugualmente che ho sperimentato quel che ho sperimentato a causa delle mie chiacchiere.

Trai le necessarie conseguenze dal fatto che il primo venuto è, con altissima probabilità, una botte forata, uno che usa sistematicamente la controdiairesi (9-11)

[IV,13,9] -Sì, ma dopo avere ascoltato i segreti di chi ci sta dintorno è iniquo non fargli parte a nostra volta di nulla- [IV,13,10] Ma ti ho forse pregato io di raccontarmeli, o uomo? Hai forse propalato i fatti tuoi a patto di ascoltare poi, a tua volta, i miei? [IV,13,11] Se tu sei un chiacchierone e reputi amici tutti coloro che ti vengono incontro, vuoi che anch’io diventi simile a te? Perché, se tu hai fatto bene ad affidarmi i fatti tuoi ma non è bene fidarsi di te, vuoi che sia precipitoso? 

Le due botti (12-16)

[IV,13,12] Come se io avessi una botte stagna e tu una forata, e tu venissi a commettermi il tuo vino perché lo butti nella mia botte. E poi fremi perché anch’io non ti affido il mio vino? Infatti tu hai la botte forata! [IV,13,13] Com’è dunque ancora pari ciò? Tu lo commettevi ad uno leale, rispettoso di sé e degli altri, che ritiene le proprie attività sole e nulla di quanto è esterno, dannose o giovevoli. [IV,13,14] E vuoi che io commetta a te, ad un essere umano che deprezza la propria proairesi, che vuole centrare il quattrinello o qualche carica od una promozione a corte, anche se starai per scannare i tuoi figlioli come Medea? [IV,13,15] Dov’è pari, questo? Mostrati invece a me leale, rispettoso di te e degli altri, ben saldo; mostra di avere giudizi da amico; mostra che il tuo recipiente non è forato e vedrai come io non attenderò che tu mi affidi i fatti tuoi, ma verrò io stesso a pregarti di ascoltare i miei! [IV,13,16] Chi infatti non vuole usare un magnifico recipiente, chi deprezza un consigliere benevolo e leale, chi non accoglierà allegramente colui che ha intenzione di condividere le nostre circostanze difficili come si trattasse di un fardello e che per il fatto stesso di condividerle lo alleggerisce?

Com’è possibile che chi è servo degli oggetti esterni non sia indiscreto ed inaffidabile? (17-24)

[IV,13,17] -Sì, ma io mi fido di te e tu non ti fidi di me- Innanzitutto neppure tu ti fidi di me ma sei un chiacchierone e per questo non puoi rattenere nulla. Dacché se è come dici, i fatti tuoi affidali a me solo. [IV,13,18] Ora, invece, tu ti siedi accanto a chiunque veda starsene comodo e gli dici: “Fratello, non ho nessuno più benevolo e più amico di te. Ti prego di ascoltare i fatti miei”. E questo fai con chi neppure un poco hai conosciuto! [IV,13,19] Se poi ti fidi di me, è manifesto che lo fai perché sono leale e rispettoso di me e degli altri, non perché ti riferii i fatti miei. [IV,13,20] Lascia dunque che anch’io concepisca lo stesso. Mostrami che, se uno riferirà a qualcuno i fatti propri, è leale e rispettoso di sé e degli altri. Giacché, se così fosse, io andrei in giro a dire i fatti miei a tutta la gente, se per questo fossi per essere leale e rispettoso di me e degli altri. Ma le cose non sono siffatte e, per essere leali e rispettosi di sé e degli altri, c’è bisogno di giudizi e giudizi non casuali. [IV,13,21] Se dunque vedrai qualcuno che si industria per ciò che è aproairetico e che ad esso ha subordinato la propria proairesi, sappi che questo individuo ha miriadi di persone che lo costringono, che lo impediscono. [IV,13,22] Non c’è bisogno per lui di pece o di ruota di tortura per riferire quel che sa, ma lo scrollerà, caso mai, il cennuccio di una ragazzina, il segno d’amicizia di un funzionario di Cesare, la smania per una carica, per una eredità ed altre trentamila cose simili a queste. [IV,13,23] Si deve dunque ricordare, in generale, che i segreti hanno bisogno di lealtà e di giudizi siffatti. [IV,13,24] Queste cose, ora, dov’è possibile trovarle facilmente? Oppure qualcuno mi mostri un uomo che sta così da dire: “A me importa solo di quanto è mio, di quanto non è soggetto ad impedimenti, di quanto è libero per natura. Questo, che è la sostanza del bene, io l’ho. Il resto accada come sarà dato: non faccio differenza”.

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L’ALBERO DELLA DIAIRESI LIBRO III

Tutto

EPITTETO

nuovamente tradotto

da

FRANCO SCALENGHE

I quattro libri delle Diatribe di Epitteto sono né Dialoghi costruiti da Platone a tavolino né Orazioni scritte per sfoggio da Isocrate, ma la fedele registrazione -ad opera di Arriano- di un parlato dal vivo. Io ho cercato di conservare anche in italiano questa loro peculiarità e mi sono mantenuto molto aderente al testo greco. Chi legge lo tenga presente, e legga semplicemente con il “tempo giusto”.

LIBRO III

Οον γάρ στιν ατν ατ δύνασθαι επεν “νν ο λλοι ν τας σχολας σεμνολογοσιν κα παραδοξολογεν δοκοσι, τατα γ πιτελ: κκενοι καθήμενοι τς μς ρετς ξηγονται κα περ μο ζητοσιν κα μ μνοσιν.

“Che gran cosa è poter dire a se stessi: ciò di cui gli altri parlano solennemente nelle scuole reputando di dire paradossi, io lo realizzo. Seduti, essi spiegano le mie virtù e ricercano su di me, inneggiano a me”. ( III,24,111)

CAPITOLO 1
SULL ‘ ABBELLIMENTO 

Ogni creatura ha una sua perfezione o virtù (1-5)

[III,1,1] Quando gli andò davanti un giovanotto studente di retorica, la chioma acconciata con leziosaggine e gli indumenti tutti agghindati Dimmi, diceva Epitteto, se non reputi che dei cani alcuni siano magnifici e così dei cavalli e di ciascuno degli altri animali. [III,1,2] -Lo reputo, diceva lo studente- Pertanto anche delle persone alcune sono belle ed altre brutte? -E come no?- Dunque noi, secondo lo stesso criterio, diamo a ciascuna di queste creature l’appellativo di bella del medesimo genere di bellezza oppure bella di una bellezza peculiare a ciascuna? [III,1,3] Così lo vedrai. Siccome vediamo il cane nato per una certa cosa, il cavallo per un’altra e per un’altra, caso mai, l’usignolo; in generale non sarebbe assurdo dichiarare che ciascuno è bello allorquando si trova all’eccellenza della sua natura, e dacché la natura di ciascuno è differente, reputo che ciascuno di essi è bello differentemente, o no? -Lo ammetteva- [III,1,4] Dunque quanto fa magnifico il cane fa laido il cavallo, e quanto fa magnifico il cavallo fa laido il cane, se appunto differenti sono le loro nature? –Così somiglia- [III,1,5] Giacché, credo, quanto fa magnifico un pancraziaste non fa buono un lottatore e fa ridicolissimo un corridore. Ed il magnifico per il pentatlo è, proprio costui, il più laido per la lotta? -Così è, diceva- 

E l’essere umano? Qual è la sua perfezione? Non è essere uomo? (6-7)

[III,1,6] Cosa dunque fa bello l’essere umano se non quanto fa magnifico, nel suo genere, il cane ed il cavallo? -E’ questo, diceva lo studente- Cosa, dunque, fa magnifico il cane? La presenza della virtù propria del cane. Cosa il cavallo? La presenza della virtù propria del cavallo. E l’essere umano? Non è forse la presenza della virtù propria dell’uomo? [III,1,7] Tu dunque, se disponi di essere bello, giovanotto, prodigati su questo, sulla virtù dell’uomo. -E qual è essa?- 

Non sai quale sia la virtù dell’uomo? Chi lodi quando lodi spassionatamente? Traine le conseguenze (8-9)

[III,1,8] Vedi chi lodi qualora proprio tu lodi spassionatamente qualcuno. Lodi i giusti o gli ingiusti? -I giusti- I temperanti o gli impudenti? -I temperanti- I padroni di sé oppure i non padroni di sé? -I padroni di sé- [III,1,9] Dunque, facendoti siffatto sappi che ti farai bello; ma finché trascurerai ciò, è necessario che tu sia brutto, anche se escogiterai di tutto per apparire magnifico.

Qualora tu sia venuto da me con l’animo con cui si deve andare da un filosofo, ecco i rimproveri che meriterei se non ti parlassi (10-14)

[III,1,10] Di qui in poi non so più come parlare. Giacché se dirò quel che pregio ti infastidirò e, una volta uscito, probabilmente non rientrerai. Se non parlerò, vedi quel che faccio quando tu vieni da me per trarre un giovamento ed io non ti giovo per nulla; quando tu vieni da me come da un filosofo ed io nulla ti dico da filosofo. [III,1,11] Che crudezza nei tuoi confronti l’essere sbadato a non rettificarti! Successivamente, se avrai buonsenso, a ragione mi incolperai: [III,1,12] “Scorgendomi entrare da lui siffatto, in uno stato così brutto, cosa vide in me Epitteto da non badarmi né dirmi mai verbo? Così disperò di me? [III,1,13] Non ero un giovane? Non ero atto ad ascoltare un ragionamento? Quanti altri giovani, per l’età, commettono molti sbagli siffatti? [III,1,14] Sento dire che un certo Polemone, da giovanotto impudente ebbe una eccezionale trasformazione. Sia; non credeva che io sarò un Polemone, ma poteva almeno correggermi quanto alla chioma, togliere d’intorno la mia chincaglieria, poteva farmi cessare di spelarmi; invece scorgendomi avere un abito -di chi dire?- taceva”. 

Ti parlerò, anche se so che non ti convincerò; o mi sbaglio? Farò come Apollo con Laio (15-18)

[III,1,15] Io non dico di chi è quest’abito; tu allora lo dirai qualora venga a capo di te stesso e riconoscerai qual è e chi lo affetta. [III,1,16] Se di questo mi incolperai successivamente, cosa avrò da dire in mia difesa? Sì, ma parlerò e non ubbidirà. E Laio ubbidì ad Apollo? Non partì e, ubriacatosi, disse addio all’oracolo? E dunque? Nonostante ciò Apollo non gli disse la verità? [III,1,17] Eppure io non so se tu mi ubbidirai o no, mentre Apollo sapeva precisissimamente che Laio non avrebbe ubbidito ed ugualmente parlò. [III,1,18] -Perché parlò?- Perché è Apollo. Perché dà oracoli. Perché a questo rango ha assegnato se stesso, così da essere indovino e fonte della verità e perché vengano da lui le genti di tutta la terra abitata. Perché è stato scritto davanti al suo tempio “Riconosci te stesso”, anche se nessuno lo capisce.

Farò come Socrate. Forse che Socrate riusciva a convincere tutti coloro con i quali parlava? (19-21)

[III,1,19] Socrate persuadeva ad esser solleciti di se stessi tutti coloro che avvicinava? Neppure la millesima parte. Ma ugualmente, siccome fu assegnato a questo posizionamento dal genio, come dice lui, non si eclissò più. Ma anche ai giudici, cosa dice? [III,1,20] “Se mi rilascerete,” dice, “a patto che io non effettui più quel che effettuo ora, ebbene io non lo tollererò né mi placherò; ma venendo da un giovane, da uno più anziano e insomma da chiunque sempre incontro, cercherò di sapere quel che cerco di sapere anche adesso; e soprattutto da voi, dice, cittadini, perché mi siete più vicino per genere”. [III,1,21] Sei così indiscreto, Socrate, ed impiccione? Che t’importa quel che facciamo? “Ma che dici? Essendo mio socio e congenere trascuri te stesso, procuri alla città un cattivo cittadino, ai congeneri un cattivo congenere, ai vicini un cattivo vicino?” 

Eppure doveva, perché era colui cui importa degli uomini (22)

[III,1,22] “Tu dunque chi sei?” Qui è grandioso dire: “Questo io sono, colui cui deve importare degli uomini”. Giacché un giovenco qualunque non ha l’audacia di contrastare un leone; ma se il toro verrà a contrastarlo digli, se lo reputerai: “E tu chi sei?” e “Che t’importa?” 

Perché era l’uomo fra gli esseri umani, perché era il filo rosso della toga (23)

[III,1,23] O uomo, in ogni genere germoglia qualche singolarità: tra i buoi, tra i cani, tra le api, tra i cavalli. Non dire alla singolarità: “Tu dunque cosa sei?”. Se no, prendendo voce da qualche dove ti dirà: “Io siffatto sono quale la porpora nella toga. Non sollecitarmi ad essere simile agli altri e non lagnarti della natura perché mi fece differente dagli altri”.

Dunque ti parlerò… (24)

[III,1,24] E dunque? Io siffatto? Donde? E sei tu siffatto da ascoltare la verità? Magari! Ed ugualmente, dacché fui come condannato ad avere barba canuta e mantello e tu entri da me come da un filosofo, non userò con te crudezza né disperazione ma dirò: giovanotto, chi disponi di fare bello?

…e ti dirò: riconosci chi sei. Tu sei un animale mortale, atto ad usare le rappresentazioni logicamente (25)

[III,1,25] Riconosci innanzitutto chi sei e così adornati. Sei un essere umano: cioè una creatura mortale atta ad usare le rappresentazioni logicamente. Cos’è il logicamente? Ammissibilmente con la natura delle cose e perfettamente.

Dov’è la tua specificità? Esclusivamente nell’elemento razionale. Questo e nient’altro tieni in ordine ed abbellisci (26-35)

[III,1,26] Cos’hai dunque di singolare? La creatura? No. Il mortale? No. L’usare le rappresentazioni? No. La logicità hai singolare: questa adorna ed abbellisci. Lascia la chioma a chi la plasmò come volle. [III,1,27] Orsù, quali altri appellativi hai? Sei maschio o femmina? -Maschio- Abbellisci dunque il maschio, non la femmina. Quella è nata, per natura, liscia ed effeminata. E se avrà molti peli è un mostro ed è mostrata a Roma tra i mostri. [III,1,28] La stessa mostruosità è, per un maschio, il non averne. E se per natura non li avrà è un mostro, ma se lui stesso si raderà e depilerà, che ne faremo? Dove lo mostreremo e cosa gli scriveremo davanti? “Vi mostrerò un maschio che vuole piuttosto essere femmina che maschio”. [III,1,29] Che strano spettacolo! Uno neppure si stupirà dell’insegna. Sì, per Zeus, credo che quanti si depilano fanno quel che fanno senza comprendere che proprio di questo si tratta! [III,1,30] O uomo, cos’hai da incolpare alla tua natura? Che ti generò maschio? E dunque? Dovrebbe generare tutte femmine? E che pro ti sarebbe dell’adornarti? Per chi ti adorneresti se tutti fossero femmine? [III,1,31] Ma non gradisci l’affaruccio? Fallo intero per intero: rimuovi -cos’è mai quello?- il causativo dei peli. Fatti per sempre femmina, affinché non erriamo e tu non sia per metà maschio e per metà femmina. [III,1,32] A chi vuoi essere gradito? Alle femminucce? Sii loro gradito da maschio. “Sì, ma si rallegrano dei visi lisci”. Non ti impiccherai? E se si rallegrassero dei cinedi, diventeresti un cinedo? [III,1,33] Questa è l’opera tua, per questo fosti generato, perché le femmine impudenti si rallegrino di te? [III,1,34] Che siffatto ti poniamo cittadino di Corinto, e caso mai astinomo o capo degli efebi o stratega o agonoteta? [III,1,35] Orsù, anche da sposato sei per depilarti? Per chi e per cosa? Ed avendo fatto dei marmocchi, ce li introdurrai poi agli affari cittadini depilati anch’essi? Magnifico cittadino e consigliere ed oratore! Siffatti giovani dobbiamo auspicarci che germoglino e siano allevati?

Lo farai? La natura delle cose ti ha parlato attraverso di me (36-39)

[III,1,36] No, per gli dei, giovanotto! Ma una volta ascoltati questi discorsi, partendo dì a te stesso: “Non Epitteto mi ha detto queste parole -e donde gli venivano?-, bensì attraverso di lui un qualche dio ben disposto. Ad Epitteto non sarebbe saltato in testa di dire queste cose, lui che è solito non dirle a nessuno. [III,1,37] Orsù, ubbidiamo dunque a Zeus, per non essere oggetti del suo disgusto”. No; ma se un corvo gracchiando ti significherà qualcosa, non è il corvo a significare ma Dio attraverso di lui. E se significherà qualcosa attraverso la voce di un uomo, tu farai finta che sia l’uomo a dirti questo, per ignorare la facoltà del genio che significa agli uni così ed agli altri cosà ma che, sulle questioni più grandi e dominanti, significa attraverso il messaggero più bello? [III,1,38] Che altro dice il poeta? *Giacché noi lo avvisammo mandando Ermete messaggero, uccisore di Argo, di non uccidere lui e di non volerne la sposa.* [III,1,39] Sceso, Ermete era per dire questo ad Egisto; ed a te, ora, gli dei questo dicono: *mandando Ermete messaggero, uccisore di Argo* di non stravolgere e di non ingerirti in quanto sta bene com’è, ma di lasciare il maschio maschio, la femmina femmina, il bello uomo bello, il brutto essere umano brutto. 

Tu non sei carne né capelli ma proairesi, come diceva Socrate ad Alcibiade (40-42)

[III,1,40] Perché non sei un pezzo di carne né peli ma proairesi: se avrai questa bella allora sarai bello. [III,1,41] Finora non ho l’audacia di dirti che sei brutto, giacché reputo che tutto vuoi sentir dire fuorché questo. [III,1,42] Ma vedi cosa dice Socrate al più magnifico e più giovanilmente fiorente di tutti, ad Alcibiade: “Prova dunque ad essere bello”. Che gli dice? “Plasmati la chioma e depilati le gambe?” Non sia mai! Ma: “Adorna la tua proairesi, estirpa i giudizi insipienti”. 

Intendo forse con ciò affermare che bisogna trascurare quanto non è proairesi, cioè il corpo e tutto il resto? (43-45)

[III,1,43] Il corpo dunque, come tenerlo? Com’è per natura. Ad un altro importò di questo; delegalo a lui. [III,1,44] -E dunque? Devo essere sporco?- Non sia mai! Ma chi sei e chi sei per natura, questo ripulisci: il maschio che sia pulito da maschio, la femmina da femmina, il bimbo da bimbo. [III,1,45] No; ma depiliamo anche la chioma del leone, affinché non sia sporco; e la cresta del gallo, giacché anche questo deve essere pulito! Ma da gallo, e quello da leone, ed il cane da caccia da cane da caccia.

CAPITOLO 2
IN COSA DEVE ESERCITARSI CHI FARÀ PROFITTO, E CHE NOI TRASCURIAMO LE QUESTIONI DOMINANTI

I tre campi nei quali si esercita la proairesi: desiderio ed avversione, impulso e repulsione, assenso e dissenso (1-4)

[III,2,1] Sono tre i campi in cui deve esercitarsi chi intende essere virtuoso: quello dei desideri e delle avversioni, per non fallire desiderando e, avversando, per non incappare in quanto avversa; [III,2,2] quello degli impulsi e delle repulsioni e insomma quello del doveroso, per agire con posizionamento, con razionalità, senza trascuratezza; terzo è quello del riparo dall’inganno, dalla casualità di giudizio e in complesso quello degli assensi. [III,2,3] Di questi il più dominante e soprattutto urgente è quello delle passioni: giacché la passione non nasce altrimenti che da un desiderio che fallisce o da un’avversione che incappa in quanto avversa. Questo è l’apportatore di sconcerti, trambusti, sfortune e cattive fortune; il fattore di lutti, mugugni, invidie, paure e gelosie; per cui neppure possiamo ascoltare la ragione. [III,2,4] Secondo è quello del doveroso: giacché io non devo avere il dominio che delle passioni ha una statua, ma serbare le relazioni sociali naturali ed acquisite da uomo pio, da figlio, da fratello, da padre, da cittadino.

Lo studio del terzo campo conviene soltanto a chi ha già fatto progressi nei primi due (5-10)

[III,2,5] Il terzo campo spetta a coloro che fanno già profitto e concerne la sicurezza nei primi due, affinché neppure nel sonno, neppure quando si è brilli o malinconici, una rappresentazione pervenga a sfuggire senza essere stata sottoposta ad indagine. -Questo, dice, è al di sopra delle nostre forze- [III,2,6] I filosofi di adesso, invece, tralasciando il primo ed il secondo campo si intrattengono nel terzo: ragionamenti equivoci, concludenti, ipotetici, del tipo del “Mentitore”. [III,2,7] -Giacché bisogna, dice, che si guardi dall’inganno anche su questi materiali- Chi? -L’uomo virtuoso- [III,2,8] A te dunque manca questo? Ti sei prodigato sugli altri? Sul quattrinello sei al riparo dall’inganno? Se vedrai una magnifica pupattola, tieni testa alla rappresentazione? Se il tuo vicino erediterà, non sei morso? Ora non ti manca altro che l’immutabilità? [III,2,9] Sciagurato! Proprio queste cose le impari tremando, con l’ansia che ti si spregi e cercando di sapere cosa si dice di te. [III,2,10] E se uno verrà a dirti: “Caduto il discorso su chi è il filosofo più eccelso, un astante diceva che solo filosofo è il tale,” l’animuzza tua invece che di un dito è diventata di due cubiti. Se invece un altro astante dirà: “Tutte storie! Non merita essere uditore del tale. Cosa sa, infatti? Ha le prime risorse e nulla più,” sei frastornato, sei impallidito, subito strilli: “Gli mostrerò io chi sono, che sono un grande filosofo!” 

Il semplice gesto con cui Diogene mette alla prova Demostene ci permette di decidere immediatamente se quest’ultimo diairesizza o controdiairesizza (11-12)

[III,2,11] Si ravvisa proprio da queste parole. Cosa vuoi mostrare con altre? Non sai che Diogene mostrò un certo sofista così, sporgendogli il dito medio? E poiché quello andò in furie, “Questo è il tale,” diceva Diogene, “ve lo mostrai”. [III,2,12] Giacché una persona non si mostra con un dito, come un sasso od un bastone; ma qualora uno ne mostri i giudizi, allora lo ha mostrato come persona.

Noi siamo i nostri giudizi. Mostrami dunque i tuoi giudizi e ti dirò chi sei (13-17)

[III,2,13] E scrutiamo i tuoi giudizi.Non è manifesto che tu poni nel nulla la tua proairesi e che scruti fuori a ciò che è aproairetico, a cosa dirà il tale e chi sembrerai essere, seun erudito, se uno che ha letto Crisippo od Antipatro? Se hai letto anche Archedemo, hai proprio tutto! [III,2,14] Perché hai ancora l’ansia di mostrarci chi sei? Vuoi ti dica chi ti mostrasti a noi? Un essere umano con l’animo servo, lagnoso sulla propria sorte, arcigno, vile, che tutto biasima, incolpa tutti, non ha mai quiete, frivolo: questo ci mostrasti. [III,2,15] Ora parti e leggi Archedemo: e se poi un topolino cadrà giù e farà rumore, tu muori. Giacché ti rimane una morte siffatta a quella di… -chi era mai quello?- di Crini. Anche lui faceva gran pregio di capire Archedemo. [III,2,16] Sciagurato! Non vuoi lasciare queste cose che non ti riguardano? Esse si confanno a coloro che possono impararle prescindendo dallo sconcerto, che hanno la potestà di dire: “Non mi adiro, non mi affliggo, non invidio, non sono impedito, non sono costretto. Che mi resta? Ne ho la comodità, sono quieto. [III,2,17] Vediamo come ci si deve condurre con le premesse equivoche dei ragionamenti; vediamo come uno, prendendo una ipotesi non sarà menato ad un’assurdità”.

Tu sei uno che alza la vela maestra nel mare in tempesta (18)

[III,2,18] Loro sono questi studi. Appiccare il fuoco, fare colazione e, caso mai, anche cantare e ballare si confà a coloro che si sentono bene. Mentre il bastimento sta inabissandosi, tu mi vieni invece a dispiegare le vele più alte.

CAPITOLO 3
QUAL E’ IL MATERIALE DELL’UOMO DABBENE ED IN CHE COSA CI SI DEVE SOPRATTUTTO ESERCITARE

Natura delle cose ed invarianza della natura dell’animo umano e dei suoi moti (1-4)

[III,3,1] Materiale del virtuoso è il proprio egemonico, il corpo lo è del medico e del massaggiatore, il fondo è materiale dell’agricoltore. Opera del virtuoso è usare le rappresentazioni secondo la natura delle cose. [III,3,2] Ogni animo è nato tanto per annuire al vero, dissentire dal falso, sospendere il giudizio nel dubbio, quanto per muoversi con desiderio verso il bene, con avversione verso il male e neutramente verso il né male né bene. [III,3,3] Giacché come né il banchiere né il verduriere hanno la potestà di rifiutare la moneta di Cesare, ma se la mostrerai egli deve, lo voglia o no, cederti in cambio la merce venduta; così stanno le cose anche per l’animo. [III,3,4] Appena il bene appare, subito muove l’animo verso di sé; il male, lontano da sé. L’animo non rifiuta mai la rappresentazione evidente di un bene, non più che la moneta di Cesare. Di qua è stato agganciato ogni moto e d’uomo e di dio.

Nessuno ama il prossimo, bensì il proprio bene. Ma dov’è il bene? Il bene è soltanto nella retta proairesi (5-10)

[III,3,5] Per questo il bene predetermina ogni legame di parentela. Nulla vi è tra me e mio padre, ma tra me ed il bene. “Sei così duro?” Sono così per natura. Questa moneta mi ha dato la Materia Immortale, ovvero la Pronoia. [III,3,6] Per questo, se il bene è altro dal bello e dal giusto, spariscono padre, fratello, patria e tutte le faccende. [III,3,7] Che io disdegni il mio bene perché tu l’abbia, per dare spazio a te? In cambio di cosa? “Sono tuo padre!” Ma non il bene. “Sono tuo fratello”. Ma non il bene. [III,3,8] Se però lo porremo in una retta proairesi, lo stesso serbare le relazioni diventa un bene e chi recede da certi oggetti esterni, costui centra il bene. [III,3,9] “Il padre si porta via la roba”. Ma non danneggia che sé. “Il fratello avrà il più del fondo”. Quanto ne vuole! E dunque pure di rispetto di sé e degli altri, di lealtà, di fraternità? [III,3,10] Giacché chi può espellere da questa sostanza? Neppure Zeus. Che neppure lo dispose, ma la fece in mio esclusivo potere e me la diede quale l’aveva egli stesso, non soggetta a impedimenti, non soggetta a costrizioni, non soggetta ad impacci.

Cosa accade, invece, quando il bene è posto altrove che nella retta proairesi (11-13)

[III,3,11] Qualora dunque la moneta sia diversa da persona a persona, uno la mostra e ne ha quanto viene smerciato in cambio. [III,3,12] E’ venuto nella provincia un proconsole ladro. Che moneta usa? Denaro. Mostralo e porta via quanto vuoi. E’ venuto un adultero. Che moneta usa? Pupattole. “Prendi,” dice, “la moneta e vendimi l’affaruccio”. Dà e compra. [III,3,13] Un altro si industria per dei pupattoli. Dagli la moneta e prendi quanto vuoi. Un altro ama la caccia. Dagli un magnifico cavallino od un cagnolino: pur mugugnando e gemendo, ti venderà in cambio quel che vuoi. Giacché un altro lo costringe dal di dentro, chi ha posizionato questa moneta.

Diairesi e controdiairesi in atto, giudizio per giudizio (14-19)

[III,3,14] Soprattutto per questo aspetto ci si deve allenare. Subito avanzando all’alba, chi vedrai, chi sentirai, indaga, rispondi come ad una domanda. Cosa vedesti? Un magnifico giovanotto od una magnifica ragazza? Applica il canone. E’ aproairetico o proairetico? Aproairetico: rimuovi fuori. [III,3,15] Cosa vedesti? Piangere per la fine di un figliolo? Applica il canone. La morte è aproairetica: rimuovi di mezzo. Ti venne incontro un console? Applica il canone: quale cosa è il consolato? Aproairetica o proairetica? Aproairetica: rimuovi anche questo, non è valido; buttalo via, non ti riguarda. [III,3,16] Se facessimo questo ed a questo ci esercitassimo ogni giorno, dall’alba fino a notte, qualcosa accadrebbe, per gli dei! [III,3,17] Ora invece, subito siamo presi a bocca aperta da ogni rappresentazione e soltanto a scuola, se proprio è così, ci risvegliamo un poco. E poi usciti, se vedremo qualcuno piangere diciamo: “Andò in malora!”. Se vedremo un console: “Beato lui!”. Se un confinato: “Disgraziato!”. Se uno povero di denaro: “Meschino, non ha donde mangiare!”. [III,3,18] Questi malvagi giudizi bisogna stroncare, su questo concentrarsi. Giacché cos’è singhiozzare e mugugnare? Un giudizio. Cos’è la cattiva fortuna? Un giudizio. Cos’è conflitto, cos’è divergenza, cos’è biasimo, cos’è accusa, cos’è empietà, cos’è chiacchiere? [III,3,19] Questi sono tutti giudizi e null’altro, e giudizi su ciò che è aproairetico come bene e male. Uno alloghi questi su quanto è proairetico ed io mi obbligo con lui che rimarrà stabile, comunque starà quel che lo circonda.

Il mare dall’alto (20-22)

[III,3,20] Quale un bacile d’acqua, tale è l’animo; quale il raggio di luce che incoglie l’acqua, tali sono le rappresentazioni. [III,3,21] Qualora dunque l’acqua sia smossa, sembra che anche il raggio di luce sia smosso, pur se smosso non è. [III,3,22] E qualora quindi uno sia rabbuiato, non le arti e le virtù si confondono, ma lo pneuma in cui sono: ricostituendosi questo, si ricostituiscono anche quelle.

CAPITOLO 4
A CHI IN TEATRO PARTEGGIÒ SCOMPOSTAMENTE

Prendere partito per cose che non dipendono esclusivamente da noi ci metterà necessariamente in conflitto prima con altri e poi con noi stessi (1- 5) 

[III,4,1] Quando il procuratore dell’Epiro parteggiò molto scompostamente per un attore di commedia e fu per questo pubblicamente ingiuriato, e poi in seguito gli annunciò di essere stato ingiuriato e fremeva contro gli ingiuriatori E che male, diceva Epitteto, facevano? [III,4,2] Parteggiavano anche costoro come te. Quando quello disse Così dunque si parteggia? Scorgendo te, diceva Epitteto, che li comandi, amico e procuratore di Cesare, parteggiare così, non erano anch’essi per parteggiare così? [III,4,3] Giacché se non si deve parteggiare così, non parteggiare neppure tu. Se invece si deve, perché ti esasperi se essi ti imitarono? Chi hanno da imitare i più, se non voi gente eminente? Su chi devono tenere gli occhi quando vengono a teatro se non su di voi? [III,4,4] “Vedi come il procuratore di Cesare assiste allo spettacolo. Ha strillato: quindi strillerò anch’io. E’ balzato su: balzerò su anch’io. I suoi servi seduti qua e là stanno strillando. Io non ho dei servi: strillerò quanto posso da solo per tutti”. [III,4,5] Qualora entri a teatro, devi dunque sapere che vi entri da canone e paradigma, per gli altri, del come essi devono assistere allo spettacolo. 

La passione o, come più comunemente si dice la volontà, è una patologia dell’intelletto (6-12)

[III,4,6] Perché dunque ti ingiuriavano? Perché ogni persona odia quanto lo intralcia. Quelli volevano che fosse incoronato il tale, tu un altro. Quelli intralciavano te e tu loro. Tu ti trovavi ad essere più potente; quelli facevano quel che potevano, ed ingiuriavano chi intralciava. [III,4,7] Che vuoi, dunque? Fare tu quel che vuoi e quelli neppur dire quanto vogliono? Che c’è di stupefacente? Gli agricoltori non ingiuriano Zeus, qualora siano da lui intralciati? I marinai non ingiuriano? La gente cessa mai di ingiuriare Cesare? E dunque? [III,4,8] Zeus non lo sa? Quanto detto non è annunciato a Cesare? E che cosa fa? Sa che se facesse castigare tutti gli ingiuriatori non avrebbe più su chi comandare. [III,4,9] E dunque? Entrando a teatro bisognerebbe dire questo “Orsù, facciamo che sia incoronato Sofrone”? No, ma quell’ “Orsù, facciamo di serbare, su questo materiale, la mia proairesi in accordo con la natura delle cose”. [III,4,10] Nessuno mi è più amico di me. Dunque è ridicolo che io danneggi me perché vinca uno che fa il commediante. [III,4,11] -Chi dunque dispongo che vinca?- Il vincitore; e così vincerà sempre chi dispongo io. -Ma io voglio che sia incoronato Sofrone- A casa celebra quante gare vuoi e proclamalo vincitore ai giochi Nemei, ai Pitici, agli Istmici, agli Olimpici; ma sotto gli occhi di tutti non prevaricare e non carpire quanto è comune. [III,4,12] Se no, tollera d’essere ingiuriato; giacché qualora tu faccia lo stesso che i più, ti istituisci loro pari.

CAPITOLO 5
A QUANTI SI ALLONTANANO PER MALATTIA

Malattie e malattia dell’insipienza (1-6)

[III,5,1] –Qua, dice, sono ammalato e voglio andarmene a casa- [III,5,2] Giacché a casa eri al riparo dalla malattia? Non consideri se qua fai qualcuna delle cose che portano alla rettificazione della tua proairesi? Giacché se non concludi nulla, è superfluo che tu sia venuto. [III,5,3] Vattene; sii sollecito delle faccende di casa. Se infatti il tuo egemonico non può stare in accordo con la natura delle cose, lo potrà il fondicello: accrescerai il quattrinello, assisterai il vecchio padre, ti aggirerai per la piazza, occuperai cariche. Cattivo come sei, che cosa mai del seguito non farai malamente? [III,5,4] Se invece comprendi tra te e te che butti via dei giudizi insipienti e ne apprendi altri al posto loro; che hai allogato la tua stazione da ciò che è aproairetico a ciò che è proairetico; che se dirai “Ohimè” non lo dici per colpa del padre o del fratello ma “per colpa mia” ebbene, computi ancora la malattia? [III,5,5] Non sai che malattia e morte sono tenute a pigliarci mentre qualcosa facciamo? L’agricoltore lo pigliano mentre coltiva; il navigante mentre naviga. [III,5,6] E tu vuoi essere pigliato mentre fai che cosa? Giacché devi essere pigliato mentre fai qualcosa. Se puoi essere pigliato mentre fai qualcosa di migliore di questo, fallo. 

Le parole di Epitteto morente (7-11)

[III,5,7] A me accada di essere pigliato mentre di null’altro sono sollecito che della mia proairesi, con lo scopo di saper dominare la passione, di non essere soggetto ad impedimenti, non essere soggetto a costrizioni, di essere libero. [III,5,8] Questo affettando dispongo di essere trovato, per poter dire alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia: “Violai forse le tue istruzioni? Usai forse per altri fini le risorse che mi desti? Usai forse balordamente le sensazioni, i pre-concetti? Ti incolpai forse mai? Biasimai forse il tuo governo? [III,5,9] Mi ammalai quando tu lo disponesti: anche gli altri, ma io di buon grado. Divenni povero di denaro perché tu lo disponesti, ma rallegrandomi. Non occupai cariche perché non lo disponesti: non smaniai mai per delle cariche. Mi vedesti forse per questo più cupo? Non ti venni mai innanzi col viso raggiante, pronto ai tuoi ordini, ai tuoi significati? [III,5,10] Ora disponi che io parta dalla sagra: me ne vado ed ho per te ogni grazie perché mi sollecitasti ad essere con te alla sagra, a vedere le opere tue ed a comprendere con te il tuo governo”. [III,5,11] Possa la morte pigliarmi mentre pondero queste cose, questo scrivo, questo leggo. 

Invece tu dici: “Voglio certe cure… voglio certi letti” (12-13)

[III,5,12] -Ma mia madre non stringerà la testa di me ammalato!- Vattene quindi da tua madre, giacché meriti di essere ammalato con la testa stretta da qualcuno. [III,5,13] -Ma a casa giacevo su un grazioso lettuccio- Vattene al tuo lettuccio; meriti di star bene giacendo su un lettuccio siffatto. Quindi non perdere quel che puoi fare là. 

L’esempio di Socrate (14-19)

[III,5,14] Ma Socrate che dice? “Come uno”, dice, “si rallegra di migliorare il proprio fondo, un altro il cavallo, così io mi rallegro ogni giorno comprendendo di diventare migliore”. [III,5,15] -Per cosa? Per delle elocuzioncelle?- O uomo, zitto! -Forse per i principi generali della filosofia?- Che fai? [III,5,16] -E davvero non scorgo cos’altro è ciò su cui si impegnano i filosofi- Reputi essere nulla il non incolpare mai nessuno, né dio né uomo; non biasimare nessuno; portare dentro e fuori sempre lo stesso viso? [III,5,17] Questo era quanto sapeva Socrate ed ugualmente non disse mai di sapere od insegnare qualcosa. Se qualcuno gli chiedeva elocuzioncelle o principi filosofici generali, li menava da Protagora, da Ippia. Giacché se qualcuno fosse venuto a cercare ortaggi, lo avrebbe menato dall’ortolano. [III,5,18] Chi di voi ha questo progetto? Dacché se l’aveste, sareste ammalati, soffrireste la fame, morireste con piacere. [III,5,19] Se uno di voi fu mai innamorato di una pupattola graziosa, sa che dico la verità.

CAPITOLO 6
DETTI SPARSI

Si fa profitto solamente in ciò in cui ci si impegna (1-4)

[III,6,1] Quando uno cercò di sapere come mai, pur essendosi ora maggiormente prodigato sulla logica, i maggiori profitti c’erano stati prima, [III,6,2] In cosa, diceva, ci si è prodigati ed in cosa maggiori erano allora i profitti? Giacché in ciò su cui ci si è prodigati ora, profitti in questo si troveranno anche ora. [III,6,3] Ora ci si prodiga per risolvere sillogismi, e dei profitti ci sono. Allora invece ci si prodigava per serbare l’egemonico in accordo con la natura delle cose, e dei profitti c’erano. [III,6,4] Non scambiare dunque una cosa per l’altra e non cercare, qualora ti prodighi in un campo, di profittare in un altro. Vedi se uno di noi non fa profitto, quando si dedica a fare in modo di stare e tragittarsela in accordo con la natura delle cose. Non ne troverai nessuno.

Il virtuoso è invincibile solo nella virtù (5-7)

[III,6,5] L’industrioso nella virtù è invitto, giacché non gareggia dove non è migliore. [III,6,6] “Se vuoi quel che riguarda il fondo, prendilo; prendi i domestici, prendi la carica, prendi il corpo. Ma non farai fallito il mio desiderio né la mia avversione incappare in quanto avversa”. [III,6,7] Egli si lancia soltanto in questa gara, quella intorno a ciò che è proairetico. Come dunque non è per essere invitto?

La comune mente (8)

[III,6,8] Quando uno cercò di sapere cos’è la comune mente, “Come, dice, si potrebbe chiamare udito comune l’udito atto solamente a distinguere voci, mentre quello atto a distinguere gli intervalli musicali non è più comune ma artistico, così vi sono cose che quanti non sono integralmente pervertiti vedono in virtù delle comuni risorse degli esseri umani. Siffatta condizione si chiama comune mente.

Il ragionamento è cibo per giovani di belle qualità, non per rammolliti (9-10)

[III,6,9] Non è facile spronare dei giovani rammolliti, come non lo è prendere del formaggio con un amo. Invece i purosangue, anche se li tratterrai, ancor più si attengono alla ragione. [III,6,10] Perciò anche Rufo, il più delle volte, tratteneva ed usava questo criterio per valutare i giovani purosangue ed i bastardi. Diceva, infatti: “Come il sasso, anche se lo butterai in alto verrà portato giù a terra in virtù della propria struttura, così anche il purosangue, quanto più uno lo spinge indietro, tanto più accenna a ciò per cui è nato”.

CAPITOLO 7
AL CORRETTORE DELLE CITTÀ LIBERE, CHE ERA EPICUREO

Domande ad un altissimo funzionario della città che governa il mondo: cosa vi è di più possente in relazione all’essere umano? Animo? Carne? Oggetti esterni? (1-4)

[III,7,1] Quando entrò da lui il Correttore (era un epicureo) Merita, diceva Epitteto, che noi persone comuni cerchiamo di sapere da voi filosofi -appunto come fanno coloro che vengono in una città straniera e cercano di averne notizie dai cittadini e da chi sa-, cos’è più possente nell’ordine del mondo; affinché anche noi ne andiamo in cerca per visitarlo ed osservarlo, come quelli con le opere più eccellenti nelle città. [III,7,2] Quasi nessuno obietta che tre cose concernono l’essere umano: animo, corpo, oggetti esterni. Orbene, è compito vostro rispondere quale sia la più possente. [III,7,3] Che diremo alla gente? La carne? E per questa Massimo insieme al figlio navigò in scorta, d’inverno, fino a Cassiope, per godere nella carne? [III,7,4] Ma quello lo negava dicendo: non sia mai! Non conviene parteggiare per quanto è più possente? -Conviene più di tutto- Cos’abbiamo dunque più possente della carne? -L’animo, diceva il Correttore. – I beni del più possente sono migliori di quelli del più insipiente? –Sono migliori quelli del più possente- 

Per alcuni, i retti giudizi sul nostro corpo (salute, integrità fisica, ecc…) e sugli oggetti esterni (lavoro, denaro, ecc…) sono i beni dell’animo e quindi le fonti del piacere dell’animo; così come i corrispondenti giudizi non-retti sono i mali dell’animo e le fonti del suo dispiacere. Beni e mali dell’animo sono dunque proairetici (5-7)

[III,7,5] Ed i beni dell’animo sono proairetici od aproairetici? -Proairetici- Il piacere dell’animo è dunque proairetico? -Sì, diceva l’altro- [III,7,6] E questo piacere in seguito a che cosa accade? In seguito a se stesso? Ma è impensabile; giacché deve sottostare una qualche sostanza cardinale del bene, centrando la quale godremo nell’animo. -Ammetteva anche questo- [III,7,7] Dunque in seguito a che cosa godremo questo piacere dell’animo? Se, infatti, lo godremo in seguito ai beni dell’animo, è stata trovata la sostanza del bene. Giacché non può essere altro il bene ed altro ciò per cui ci esaltiamo ragionevolmente né, se il cardinale non è un bene, che la risultante sia un bene. Affinché sia ragionevole la risultante, il cardinale deve essere un bene.

Per altri, non i retti giudizi sulla salute, sull’integrità fisica, sul lavoro, sul denaro, ecc… bensì la salute stessa, l’integrità fisica stessa, il lavoro di per sé, il denaro di per sé, oppure i loro contrari sono i beni od i mali dell’animo e quindi le fonti del suo piacere o della sua afflizione. Beni e mali dell’animo sono dunque aproairetici (8-10)

[III,7,8] Ma non c’è pericolo che voi lo diciate, se avete buonsenso; altrimenti direte cose inconseguenti con Epicuro e con gli altri vostri giudizi. [III,7,9] Orbene, ne sopravanza che il piacere dell’animo si goda in seguito alla presenza dei beni del corpo: quelli diventano di nuovo cardinali e sostanza del bene. [III,7,10] Per questo Massimo fece cosa stolta se navigò per qualcos’altro che per la carne, cioè per quanto è più possente.

Suvvia, un po’ di coerenza! Se i beni dell’animo sono aproairetici ed il denaro è un bene, perché non rubare? (11-16)

[III,7,11] E fa cosa stolta anche se, quando è giudice, si astiene da averi allotrii potendo prenderli. Ma, se lo reputerai, analizziamo soltanto come debba fare affinché ciò accada nascostamente, in sicurezza ed uno non lo riconosca. [III,7,12] Né lo stesso Epicuro dichiara male il rubare, bensì l’imbattersi in chi ci scopre; e poiché è impossibile avere malleveria di sfuggire alla scoperta, per questo dice: “Non rubate”. [III,7,13] Invece io ti dico che se accadrà in modo elegante ed occulto, sfuggiremo; e poi abbiamo a Roma amici che possono, ed amiche; inoltre i Greci sono fannulloni: nessuno avrà l’audacia di salire su per questo. [III,7,14] Perché ti astieni dal tuo peculiare bene?Questo è stolto, è sciocco. Neppure se mi dirai che te ne astieni, mi fiderò di te. [III,7,15] Giacché com’è impossibile assentire a quanto appare falso e stornarsi dal vero, così è impossibile distornarsi da quanto pare bene. La ricchezza di denaro è un bene e, quale che sia, certo il più fattivo di ebbrezze. [III,7,16] Perché non te lo procaccerai? Perché non rovineremo la moglie del vicino, se potremo sfuggire alla scoperta? E se il marito farà chiacchiere, perché non gli faremo rompere l’osso del collo? 

Beati coloro che parlano male e razzolano bene (17-18)

[III,7,17] Così è se vuoi essere un filosofo quale si deve, uno perfetto, conseguente con i tuoi giudizi. Se no, in nulla differirai da noi detti Stoici; giacché anche noi altro diciamo ed altro facciamo. [III,7,18] Noi diciamo cose belle e facciamo cose brutte; tu invece sarai stato pervertito della perversione opposta, dal momento che hai brutti giudizi e fai cose belle.

Ti offendi se faccio una piccola caricatura di Epicuropoli? (19-23)

[III,7,19] Per Zeus, la divisi tu una città di Epicurei? “Io non mi sposo”. “Io neppure: giacché non ci si deve sposare”. E neppure fare figli né interessarsi di affari cittadini. Che dunque accadrà? Donde verranno i cittadini? Chi li educherà? Chi sarà capo degli efebi, chi sarà ginnasiarca? Ed a cosa li educherà? A ciò cui erano educati gli Spartani o gli Ateniesi? [III,7,20] Prendimi un giovane e conducilo secondo i tuoi giudizi. Sono giudizi malvagi, sovvertitori di città, guastatori di case, che non si confanno alla donna. [III,7,21] Lasciali, o uomo. Tu vivi in una città imperiale: tu devi comandare; arbitrare con giustizia; astenerti dagli averi allotrii; nessuna donna deve apparirti magnifica se non la tua; magnifico nessun ragazzo, magnifica nessuna argenteria né oreficeria. [III,7,22] Cerca giudizi in armonia con questo, e prendendo impulso da essi ti asterrai con piacere da faccende così persuasive a condurre e vincere la gente. [III,7,23] Ma se, oltre la loro persuasività, noi avremo pure inventato questa certa filosofia che ad esse insieme ci spintona e le rinforza, che accadrà?

Strana città, invece, quella di Crisippopoli: qui gli uomini arrossiscono di vergogna quando non sono leali, liberi, rispettosi di sé e degli altri, e provano piacere soltanto quando lo sono (24-28)

[III,7,24] In una cesellatura cos’è più possente: l’argento o l’arte? Sostanza di una mano è la carne, ma cardinali sono le opere della mano. [III,7,25] [Ci sono tre tipi di opere doverose: opere doverose riguardo all’essere; opere doverose riguardo all’essere in un certo modo; ed opere cardinalmente tali.] Così anche dell’uomo non bisogna onorare il materiale, la carne, ma i cardinali. [III,7,26] Quali sono questi cardinali? Interessarsi di affari cittadini, sposarsi, fare figli, venerare dio, esser sollecito dei genitori; in generale, desiderare, avversare, impellere, repellere come si deve fare ciascuna di queste cose e come siamo nati per fare. [III,7,27] E come siamo nati per farlo? Da uomini liberi, generosi, rispettosi di sé e degli altri. Giacché quale altra creatura arrossisce, quale coglie la rappresentazione di vergognoso? [III,7,28] A questo subordina il piacere come ministro, come servitore, affinché ci provochi dello slancio, affinché presieda alle nostre opere secondo la natura delle cose.

Un drammatico finale (29-36)

[III,7,29] -Ma io sono ricco di denaro e di nulla ho bisogno- Perché dunque simuli ancora di essere filosofo? Ti bastano l’argenteria e l’oreficeria: che bisogno hai di giudizi? [III,7,30] -Ma sono anche arbitro dei Greci- Sai arbitrare? Che cosa ti diede questo sapere? -Cesare mi scrisse un codicillo- [III,7,31] Che te ne scriva uno, affinché arbitri in questioni di musica! E che pro per te? Ugualmente, come diventasti arbitro? Dopo avere baciato quale mano, quella di Sinforo o quella di Numenio? Dopo esserti coricato davanti alla camera da letto di chi? Dopo avere mandato doni a chi? E poi non ti accorgi che essere arbitro, di cotanto è degno quanto di Numenio? -Ma posso far buttare in prigione chi voglio- [III,7,32] Come un sasso. -Ma posso far prendere a legnate chi voglio- Come un asino. Questo non è comando d’uomini. [III,7,33] Comandaci come creature logiche, mostrandoci quanto è utile, e noi ti seguiremo. Mostra quanto non è utile e ce ne distoglieremo. [III,7,34] Strutturaci tuoi emuli, come Socrate di sé. Quello era chi le comanda come uomini, chi le ha strutturate in modo che abbiano subordinato a lei, alla ragione, il loro desiderio, l’avversione, l’impulso, la repulsione. [III,7,35] “Fa’ questo, non fare questo; se no, ti farò buttare in prigione”. Questo non è più comando di noi come creature logiche. [III,7,36] Ma: “Come Zeus costituì, questo fa’; se non lo farai sarai punito, sarai danneggiato”. Quale danno? Nessun altro se non quello di non fare quel che si deve. Manderai in malora l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, il cittadino del mondo che è in te. Non cercare altri danni più grandi di questi.

CAPITOLO 8
COME BISOGNA ALLENARSI CON LE RAPPRESENTAZIONI ?

Ciò che è aproairetico non può essere né bene né male; soltanto ciò che è proairetico può essere tale (1-5)

[III,8,1] Come ci alleniamo con le domande sofistiche, così bisognerebbe allenarsi ogni giorno anche con le rappresentazioni, [III,8,2] giacché anch’esse ci porgono delle domande. Morì il figlio del tale. Rispondi: “Aproairetico, non male”. Il padre lasciò diseredato il tale. Cosa reputi? “Aproairetico, non male”. Cesare lo condannò. “Aproairetico, non male”. [III,8,3] Fu afflitto per questo. “Proairetico, male”. Resse l’evento con generosità. “Proairetico, bene”. [III,8,4] Se ci abitueremo così, faremo profitto; giacché non assentiremo mai ad altro che laddove la rappresentazione diventa catalettica. [III,8,5] Morì il figlio. Che accadde? Morì il figlio. Null’altro? Nulla. Il bastimento andò in malora. Che accadde? Il bastimento andò in malora. Fu menato in prigione. Cos’è accaduto? Fu menato in prigione. Il che “E’ finito male” ciascuno lo addiziona di suo. 

Ma la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, fa male a fare così (6)

[III,8,6] “Ma Zeus non fa questo rettamente”. Perché? Perché ti fece capace di reggere gli eventi, magnanimo; perché sottrasse agli eventi esterni la qualità di essere mali; perché hai la potestà di essere felice anche sperimentandoli; perché aprì la porta qualora non facciano per te? O uomo, esci e non incolpare. 

I Romani e la filosofia (7)

[III,8,7] Se vorrai riconoscere come la pensano i Romani dei filosofi, ascolta. Italico, che è reputato essere un loro grandissimo filosofo, in mia presenza una volta si esasperò con i suoi come se sperimentasse le più atroci sofferenze: “Non posso,” diceva, “sopportare: mi mandate in malora, mi farete diventare siffatto,” e mostrava me.

CAPITOLO 9
AD UN ORATORE CHE SALIVA A ROMA PER UN PROCESSO

Per ogni persona causa dell’azione è un giudizio (1-3)

[III,9,1] Quando entrò da lui un tale che saliva a Roma per un processo legato alla sua carica onorifica, cercando di sapere la cagione per cui saliva e domandandogli quello la sua intelligenza della faccenda, [III,9,2] Se cerchi di sapere da me cosa effettuerai a Roma, dice Epitteto, se avrai successo o fallirai, ebbene non ho un principio generale al riguardo. Se però cerchi di sapere come andrà a finire, dico che se hai retti giudizi finirà bene; se insipienti, male. Giacché causativo del come si effettua qualcosa è il giudizio. [III,9,3] Qual è infatti il motivo per cui smaniasti di essere eletto per alzata di mano Patrocinatore dei cittadini di Cnosso? Il giudizio. Qual è il motivo per cui ora sali a Roma? Il giudizio. E d’inverno, con pericolo e spese? -Giacché è necessario- Chi ti dice questo? Il giudizio. 

Buoni giudizi fanno buone azioni, cattivi giudizi cattive azioni (4-6)

[III,9,4] Se dunque causativi di tutto sono i giudizi ed uno ha giudizi insipienti, quale sarà il causativo siffatto sarà anche il risultato. [III,9,5] Dunque tutti abbiamo giudizi sani, sia tu sia il tuo avversario? E come mai litigate? Sani sono i tuoi piuttosto che i suoi? E perché? Perché lo reputi? Anche quello lo reputa ed anche i pazzi lo reputano. [III,9,6] Questo è un malvagio criterio. Mostrami invece di avere fatto qualche esame e prestato sollecitudine ai tuoi giudizi. E poiché adesso navighi verso Roma per il fatto di essere Patrocinatore dei cittadini di Cnosso, e non ti è bastante rimanere a casa con le onorificenze che avevi, ma smani per qualcuna più grande e più notoria; ebbene, quando navigasti così in nome di un esame dei tuoi giudizi e, se ne hai qualcuno insipiente, per espellerlo? 

Nel corso della vita hai avuto cura dei tuoi giudizi? (7-11) 

[III,9,7] Davanti a chi sei venuto per questo? Per quale tempo te lo ordinasti, per quale età? Vieni ai tempi della tua vita, se ti vergogni di me, fra te e te. [III,9,8] Quando eri ragazzo indagavi i tuoi giudizi? Non fai tutto ora, come allora facevi quel che facevi ? Quando eri già adolescente e sentivi parlare degli oratori e tu stesso declamavi, cosa immaginavi ti mancasse? [III,9,9] Quando eri un giovanotto e già ti interessavi di affari cittadini, parlavi ai processi ed avevi applausi, chi ti pareva ancora esserti pari? E dove avresti tollerato di essere indagato da qualcuno perché hai giudizi malvagi? [III,9,10] Cosa vuoi dunque che ti dica? -Aiutami nella faccenda- Non ho, per questo, principi generali; e se sei venuto da me per questo, non sei venuto come da un filosofo ma come si va da un verduriere o da un calzolaio. [III,9,11] -Ma i filosofi per cos’hanno dunque dei principi generali?- Per questo: qualunque cosa succederà, per avere e tragittare il nostro egemonico in accordo con la natura delle cose. Reputi piccola cosa, questa? -No, ma grandissima- E dunque? Ha bisogno di poco tempo ed è possibile prenderla di passaggio? Se puoi, prendila!

Cosa significa incontrarsi da uomo a uomo (12-14)

[III,9,12] E poi dirai: “Conferii con Epitteto come con un sasso, come con una statua”. Giacché mi vedesti e nulla più. Da uomo a uomo conferisce, invece, chi decifra i giudizi dell’altro ed a sua volta mostra i propri. [III,9,13] Decifra i miei giudizi, mostrami i tuoi, e così dì di avere conferito con me. Controlliamoci l’un l’altro: se ho qualche giudizio cattivo, eliminalo; se l’hai tu, ponilo in mezzo. [III,9,14] Questo è conferire con un filosofo. No; ma “Siamo di passaggio e, sinché noleggiamo il bastimento, possiamo anche vedere Epitteto. Vediamo che cosa dice mai”. E poi uscendo “Epitteto era nulla; parlava una lingua piena di solecismi e barbarismi”. Per essere arbitri di cos’altro, infatti, entrate? 

La ricchezza dell’uomo (15-17)

[III,9,15] “Ma se starò dietro a queste cose,” dice, “un fondo non avrò, come neppure tu; tazze argentate non avrò, come neppure tu; non avrò del bel bestiame, come neppure tu…” [III,9,16] A ciò parimenti basta dire quel “Ma io non ne ho bisogno mentre tu, pur se molto acquisirai, hai bisogno di altro e, lo voglia o no, sei più poveraccio di me”. [III,9,17] -Di cosa ho bisogno?- Di quanto non ti è presente: di essere stabile, avere l’intelletto in accordo con la natura delle cose, non essere sconcertato. 

Giudizi di coccio e suppellettili dorate (18-21)

[III,9,18] Patrono, non patrono, che m’importa? Importa a te. Sono più ricco di te: non sono in ansia per cosa Cesare pregerà di me; non adulo nessuno per questo. Questo ho in cambio dell’argenteria e dell’oreficeria. Tu suppellettili d’oro, ma di terracotta la ragione, i giudizi, gli assensi, gli impulsi, i desideri. [III,9,19] Qualora io abbia ciò in accordo con la natura delle cose, perché non lavorerò con arte anche sulla ragione? Giacché ne ho la comodità; il mio intelletto non è distratto. Non essendo distratto, che farò? Ho qualcosa più da uomo di questo? [III,9,20] Voi, qualora nulla abbiate da fare, siete sconcertati, entrate a teatro o bighellonate. Perché il filosofo non elaborerà la propria ragione? [III,9,21] Tu la cristalleria, io il “Mentitore”. Tu le porcellane, io il “Diniegatore”. Le cose che hai, paiono a te tutte piccole; a me, le mie paiono tutte grandi. La tua smania è insaziabile, la mia è stata saziata. 

Con la mano in un vaso dal collo stretto (22)

[III,9,22] Avviene la stessa cosa ai bimbi che fanno scendere la mano in un vaso di coccio dal collo stretto e ne portano fuori fichi secchi e noci. Se empirà la mano, il bimbo non può cavarla e poi singhiozza. Lasciane un po’ e la caverai. Anche tu lascia il desiderio; non smaniare per molte cose e te la caverai.

CAPITOLO 10
COME SI DEVONO SOPPORTARE LE MALATTIE ?

Avere giudizi adeguati alle circostanze (1-4)

[III,10,1] Qualora vi sia bisogno di ciascun distinto giudizio, si deve averlo a portata di mano: per colazione, i giudizi sulla colazione; alle terme, i giudizi sulle terme; a letto, i giudizi sull’essere a letto. [III,10,2] *E non accogliere il sonno sui molli occhi prima di darsi conto di ciascuna delle opere della giornata. [III,10,3] “Dove violai..? Cosa feci..? Cosa dovevo ma non è stato compiuto..?” Iniziando da questo, prosegui; poi “Censura quanto di vile facesti e gioisci del buono”.* [III,10,4] E bisogna rattenere efficacemente queste righe, non per esercitare la voce come con “Peana Apollo!” 

Ecco la malattia e la febbre (5)

[III,10,5] Di nuovo, davanti alla febbre bisogna avere a portata di mano i giudizi per questo e non, se avremo la febbre, tralasciare e dimenticare tutto. “Se io filosoferò ancora, allora accada pure quel che vuole. Devo partire per qualche dove per prendere sollecitudine del corpo”. Se proprio pure la febbre non ci viene! 

Ecco i giudizi messi alla prova. Nel corso di questa prova alcuni si mostrano abilissimi nel trasformare in merda tutto quello che toccano, mentre alcuni riescono invece a fare anche della merda una cosa bella (6-9)

[III,10,6] E filosofare cos’è? Non è prepararsi a quanto avviene? Non comprendi dunque di dire una cosa siffatta: “Se io mi preparerò ancora a sopportare con mitezza quanto avviene, allora accada pure quel che vuole!” E’ come se uno si distornasse dal combattere nel pancrazio perché prende delle botte. [III,10,7] Ma là si ha la potestà di disciogliersi e non essere conciati mentre qua, se ci discioglieremo dal filosofare, che pro? Cosa ci si deve dunque dire davanti a ciascun evento rude? Che “Per questo mi allenavo; su questo mi esercitavo”. [III,10,8] La Materia Immortale, ovvero la Pronoia, ti dice “Dammi dimostrazione se ti cimentasti legalmente, mangiasti quanto si deve, se ti allenasti, se ascoltasti il maestro di ginnastica”. E poi ti ammoscisci proprio sull’opera? Ora è tempo di avere la febbre: che questo diventi bello! Di avere sete: abbi sete da bello! Di avere fame: abbi fame da bello! [III,10,9] Non è in tuo esclusivo potere? Chi ti impedirà? Il medico vieterà di bere, ma non può impedire di avere sete da bello. Vieterà anche di mangiare, ma non può impedire di avere fame da bello. 

Oh professore,mio professore! E tu a quali ‘alcuni’ appartieni? (10-15)

[III,10,10] -Ma non sono un erudito?- Ed a che scopo ti erudisci? Schiavo! Non è per essere sereno? Non è per essere stabile? Non è per stare e tragittartela in accordo con la natura delle cose? [III,10,11] Cosa impedisce che chi ha la febbre abbia l’egemonico in accordo con la natura delle cose? Qua è il controllo della faccenda, la valutazione di chi fa filosofia. Giacché è parte della vita anche questo, cioè la febbre, come una passeggiata, come un viaggio per mare o per terra. [III,10,12] Forse che mentre passeggi, leggi? -No- Così neppure quando hai la febbre. Ma se passeggerai da bello, hai quel che deve avere chi passeggia. Se avrai la febbre da bello, avrai quel che deve avere chi ha la febbre. [III,10,13] Cos’è avere la febbre da bello? Non biasimare né dio né uomo; non essere oppresso dagli avvenimenti; accettare bene e da bello la morte; fare quanto è ingiunto. Qualora entri il medico, non avere paura di quel che dice né, se dirà “Stai leggiadramente”, rallegrarsi oltre misura. Giacché che bene ti disse? [III,10,14] Quand’eri in salute che bene era questo per te? Né, se dirà “Stai male”, scoraggiarsi. Giacché cos’è lo stare male? Un approssimarsi alla dissoluzione dell’animo dal corpo. Che c’è di terribile? Se non ti approssimerai ora, non ti approssimerai successivamente? E l’ordine del mondo sta per essere sovvertito dalla tua morte? [III,10,15] Perché dunque aduli il medico? Perché dici “Se tu vorrai, Signore, starò bene”? Perché gli procuri un movente per dispiegare il cipiglio? Non gli restituisci il suo valore, come al calzolaio per il piede, come al falegname per la casa, così pure al medico per il corpo, per quanto non è mio, quanto è per natura cadaverico? Per chi ha la febbre è tempo di questo: se lo assolverà, ha il suo. 

Il compito del filosofo (16-17)

[III,10,16] Giacché non è opera del filosofo serbare questi oggetti esterni, né il vino né l’olio né il corpo ma cosa? Il proprio egemonico. E l’al di fuori, come trattarlo? Fino a non condursi al riguardo irragionevolmente. [III,10,17] Dov’è ancora tempo di avere paura? Dov’è ancora tempo d’ira? Dove di paura per l’allotrio, per il privo di valore? 

Io non cerco soltanto, io trovo (18-20)

[III,10,18] Giacché si devono avere a portata di mano questi due principi generali: che al di fuori della proairesi nulla vi è né di bene né di male; e che non si devono precedere le faccende ma aderirvi. [III,10,19] “Mio fratello non dovrebbe comportarsi così con me”. No; ma questo lo vedrà lui. Io invece, comunque si comporterà, userò come si deve nei suoi confronti. [III,10,20] Giacché questo è mio; quello, allotrio. Questo, nessuno può impedirlo; quello è soggetto ad impedimenti.

CAPITOLO 11
DETTI SPARSI

L’impossibilità di violare le leggi della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, e la tragica catena di controdiairesi, vizio, infelicità (1-3)

[III,11,1] Per coloro che disubbidiscono al governo della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, vi sono castighi costituiti come per legge: [III,11,2] “Chiunque riterrà bene qualcos’altro da ciò che è proairetico invidi, smani, aduli, si sconcerti. Chiunque riterrà male altro si affligga, pianga, si lamenti, abbia cattiva fortuna”. [III,11,3] Ed ugualmente così amaramente castigati, non possiamo distornarci.

Zeus riguarda tutti (4-6)

[III,11,4] Ricorda quel che dice il poeta circa l’ospite: “Straniero, non è mio costume -venga pure uno più malconcio di te- trattar male gli ospiti; tutti da parte di Zeus vengono gli stranieri ed i poveracci”. [III,11,5] Bisogna dunque avere questo a portata di mano anche per un padre: non è mio costume -venga pure uno più malconcio di te- trattar male un padre; giacché da parte di Zeus son tutti, il Paterno. [III,11,6] E per un fratello: giacché da parte di Zeus son tutti, il Parentale. E così per le altre relazioni sociali troveremo lo Zeus che le riguarda.

CAPITOLO 12
SULL ‘ ESERCIZIO PRATICO

Noi siamo abituati ad esercitare desiderio ed avversione soltanto verso ciò che è aproairetico. Se dunque intendiamo vivere felici dobbiamo cambiare abitudini (1-6)

[III,12,1] Gli esercizi pratici non devono esser fatti attraverso esibizioni contro natura e bizzarre dacché allora noi, che diciamo di fare filosofia, non differiremo in nulla dai saltimbanchi. [III,12,2] Anche camminare su una corda è difficile, e non solo difficile ma pure pericoloso. Per questo dobbiamo anche noi studiare a camminare su una corda od arrampicare una palma oppure abbracciare statue? Nient’affatto! [III,12,3] Non il prodigarsi su tutto quanto è difficile e pericoloso è idoneo per l’esercizio pratico ma solo il prodigarsi su quanto è comportato dall’obiettivo. [III,12,4] Cos’è prodigarsi sull’obiettivo? Nel desiderio e nella avversione condursi in modo non soggetto ad impedimenti. E questo cos’è? Desiderando non fallire, né avversando incappare in quanto si avversa. Anche l’esercizio pratico deve dunque propendere a questo. [III,12,5] Dacché è impossibile avere il desiderio che non fallisce il segno e l’avversione che non incappa in quanto avversa senza grande e costante esercizio, sappi che se permetterai che esso sia distolto fuori, a ciò che è aproairetico, non avrai un desiderio che va a segno né un’avversione che non incappa in quanto avversa. [III,12,6] E dacché l’abitudine è un precedente potente, essendo noi abituati ad usare desiderio ed avversione soltanto per ciò che è aproairetico, bisogna contrapporre a questa abitudine l’abitudine opposta, e dove vi è maggiore lubricità delle rappresentazioni là contrapporre la pratica dell’esercizio.

L’esercizio pratico sul desiderio e sull’avversione (7-12)

[III,12,7] Ho inclinazione per il piacere fisico: oscillerò all’opposto oltre misura, per esercizio pratico. Ho avversione per il dolore fisico: consumerò ed allenerò a questo le mie rappresentazioni, per distornare l’avversione ad ogni cosa siffatta. [III,12,8] Giacché chi è asceta? Chi studia a non usare il desiderio e ad usare l’avversione soltanto per ciò che è proairetico. E studia di più le cose disagevoli, in quanto uno deve esercitarsi di più in una cosa ed un altro in un’altra. [III,12,9] Che cosa ci fa qua l’arrampicare una palma od il portare in giro un tettuccio di pelle, un mortaio ed un pestello? [III,12,10] O uomo esercitati, se sei focoso, a tollerare d’essere ingiuriato ed a non adontarti d’essere deprezzato. E poi andrai avanti così per dire a te stesso, se qualcuno ti colpirà, “Fa conto di avere abbracciato una statua”. [III,12,11] E poi usa con raffinatezza del vino, non per berne molto (giacché pure su questo vi sono dei sinistri asceti) ma innanzitutto per essertene astenuto, come da una pupattola e da una focaccetta. E poi una volta in nome, se proprio sarà il caso, di una valutazione, ti lancerai tempestivamente a riconoscere se le rappresentazioni ti sconfiggono similmente al passato. [III,12,12] Le prime volte, però, fuggi lontano dalle più potenti. Impari è la battaglia tra una pupattola graziosa ed un giovane che inizia a fare filosofia. Pentola e pietra, si dice, non vanno d’accordo.

L’esercizio pratico sugli impulsi e sulle repulsioni (13)

[III,12,13] Dopo desiderio ed avversione, il secondo àmbito è quello dell’impulso e della repulsione: per essere obbedienti alla ragione, per non agire fuori tempo, fuori luogo o fuori di qualche altra simmetria siffatta.

L’esercizio pratico sugli assensi ed i dissensi (14-16)

[III,12,14] Terzo è quello degli assensi, quello che concerne il persuasivo e trascinante. [III,12,15] Come, infatti, Socrate diceva non da vivere una vita non sottoposta ad indagine, così non è da accettare una rappresentazione non sottoposta ad indagine, ma si deve dire: “Aspetta, lascia che veda chi sei e donde vieni”, come le sentinelle notturne dicono “Mostrami i contrassegni”. “Hai da parte della natura il segno distintivo che deve avere la rappresentazione che sarà accettata?” [III,12,16] Orbene, quanti esercizi sono appressati al corpo da coloro che lo allenano, se propenderanno in qualche modo a desiderio ed avversione, sarebbero praticabili anch’essi. Se invece tenderanno allo sfoggio, sono propri di chi ha accennato fuori di sé, di chi dà la caccia a qualcos’altro e cerca degli spettatori che dicano “Oh, che grand’uomo!”

Meglio essere che sembrare: non tendere alla lode altrui (17)

[III,12,17] Per questo Apollonio diceva bene che “qualora disponga di esercitarti per te stesso, se una volta per la calura hai sete, sorbisci una sorsata d’acqua fresca poi sputa e non dirlo a nessuno”.

CAPITOLO 13
COS’ È ISOLAMENTO E CHI È ISOLATO

Isolamento non è essere soli ma essere senza aiuto (1-8)

[III,13,1] Isolamento è la condizione di chi è senza aiuto. Giacché chi è solo non è subito anche isolato, come neppure chi è fra molta gente è non isolato. [III,13,2] Qualora dunque perdiamo un fratello, un figlio, un amico nel quale troviamo conforto, diciamo di essere rimasti isolati pur trovandoci spesso a Roma, con cotanta folla che ci viene incontro e coabitando con cotante persone e magari avendo pure uno stuolo di servi. Secondo il concetto si intende, infatti, per isolato chi è senza aiuto ed esposto a coloro che decidono di danneggiare. [III,13,3] Per questo, qualora siamo in viaggio, allora soprattutto ci diciamo isolati qualora ci imbattiamo in rapinatori. Giacché non è la vista di una persona a strappare dall’isolamento, ma quella di un uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, giovevole. [III,13,4] Dacché se basta essere solo per essere isolato, dì allora che anche Zeus, al momento della conflagrazione dell’universo, è isolato e singhiozza disperato di sé: “Sciagurato me! Non ho né Era né Atena né Apollo né, in complesso, fratello o figlio o prole o congenere”. [III,13,5] Alcuni dicono che questo fa Zeus, solo, al momento della conflagrazione dell’universo. Giacché prendendo spunto da qualcosa di naturale, ossia dal fatto che egli è per natura socievole, altruista, che con piacere si relaziona alle persone, non divisano possibile il tragittarsela da soli. [III,13,6] Nondimeno bisogna avere preparazione anche per questo, per poter bastare a se stessi, per poter essere con se stessi. [III,13,7] Come Zeus è con se stesso, si quieta in se stesso, concettualizza qual è il suo governo, è in divisamenti che gli si confanno; così anche noi dobbiamo poter parlare a noi stessi, non abbisognare d’altro, non difettare del modo di passarcela; [III,13,8] riflettere sul governo della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, sulla nostra relazione con il resto; riguardare come stavamo di fronte a quanto avveniva prima e come stiamo adesso; cosa ancora ci opprime, come anche questo sarà accudito, come sarà strappato; e se qualcosa ha bisogno di elaborazione, elaborarlo in accordo con la propria facoltà logica.

La ragione è capace di fare ben più di quel che può fare Cesare (9-10)

[III,13,9] Vedete, infatti, che Cesare sembra procurarci una pace grandiosa, che non ci sono più guerre né battaglie né grandi rapine od atti di pirateria, ma si ha la potestà di essere in viaggio ad ogni ora, di navigare da levante a ponente. [III,13,10] Ma può forse Cesare procurarci pace anche dalla febbre, anche da un naufragio, anche da un incendio o da un terremoto o da un fulmine? Orsù, e dalla passione amorosa? Non può. Dal lutto? Non può. Dall’invidia? Non può. Insomma da nulla di ciò. 

Le parole della ragione (11-17)

[III,13,11] Invece la ragione, la ragione dei filosofi promette di procurare pace anche da questo. E cosa dice? “Uomini! Se mi presterete attenzione, dove sarete, qualunque cosa farete non sarete afflitti, non sarete adirati, non sarete costretti, non sarete impediti ma ve la passerete sapendo dominare le passioni e liberi da tutto”. [III,13,12] Chi, avendo questa pace proclamata non da Cesare (giacché donde potrebbe egli proclamarla?), ma dalla Materia Immortale, ovvero dalla Pronoia, attraverso la ragione, non si accontenta, [III,13,13] qualora sia solo, di riguardarsi e ponderare? “Ora non può avvenirmi alcun male, per me non c’è rapinatore, non c’è terremoto; tutto è pieno di pace e di dominio sullo sconcerto; ogni strada, ogni città, ogni compagno di viaggio, vicino, socio sono inoffensivi. Un altro, cui ciò importa, mi procura cibo, un altro vestiti, un altro mi diede le sensazioni, un altro mi diede i pre-concetti. [III,13,14] E qualora non procuri più il necessario, significa la ritirata, apre la porta e ti dice ‘Vieni!’. Dove? A nulla di terribile, ma là onde nascesti; a quanto è amico e congenere, agli elementi. [III,13,15] Quanto v’era in te di fuoco se ne va in fuoco; quant’era di terra, in terra; quanto di pneuma in pneuma e quanto d’acqua, in acqua. Alcun Ade non v’è, non v’è Acheronte né Cocito né Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dei e geni”. [III,13,16] Se uno ha questo da ponderare; e scorge il sole, la luna, gli astri; e fruisce della terra e del mare; isolato è non più che senza aiuto. [III,13,17] “E dunque? E se uno attaccandomi solo mi sgozzerà?” Stupido! Non sgozza te, ma il tuo corpo.

E’ possibile che l’insipienza possa prevalere sulla saggezza? (18-19)

[III,13,18] Quale isolamento esiste ancora, dunque; quale difetto di mezzi? Perché ci facciamo peggiori dei bambini che, qualora siano lasciati soli, cosa fanno? Sollevano dei cocci e della cenere ed edificano qualcosa; poi lo rovesciano e di nuovo edificano altro. E così non difettano mai del modo di passarsela. [III,13,19] Io dunque, se voi navigherete, sono per sedere a singhiozzare perché sono stato abbandonato solo e così isolato? Non avrò dei cocci, della cenere? Ma essi fanno questo per stoltezza e noi dalla saggezza abbiamo cattiva fortuna?

I pericoli che una facoltà potente come la ragione rappresenta per un principiante (20-23)

[III,13,20] Ogni grande arte o facoltà è malsicura per il principiante. Si deve dunque sostenere siffatto isolamento secondo le nostre forze, così come anche altre attività sono secondo natura ma non si addicono ad un tisico. [III,13,21] Studia una volta a passartela da infermo, per poi passartela una volta da persona in salute. Digiuna, bevi acqua; una volta astieniti integralmente dal desiderio, per potere una volta desiderare anche ragionevolmente. E se ragionevolmente, qualora abbia in te qualche bene, desidererai bene. [III,13,22] No, ma vogliamo subito passarcela da sapienti e giovare agli uomini. Quale giovamento? Che fai? Giovasti a te stesso? E vuoi spronarli? Infatti ti sei spronato? Vuoi giovare loro? [III,13,23] Mostra loro su te stesso quali uomini fa la filosofia, e non chiacchierare. Mangiando giova a chi mangia con te; bevendo, a chi beve; cedendo il passo a tutti, dando spazio, tollerando. Giova loro così e non ruttare loro addosso la tua bile fredda.

CAPITOLO 14
DETTI SPARSI

Coristi e solisti (1-3)

[III,14,1] Come i cattivi cantanti non possono cantare da soli ma tra molti, così taluni non possono camminare soli. [III,14,2] O uomo, se sei qualcuno cammina anche solo, parla con te stesso e non nasconderti nel coro. [III,14,3] Sii schernito, talora; guardati attorno; scuotiti: per riconoscere chi sei.

Perché cercare di piacere agli insipienti? (4-6)

[III,14,4] Qualora uno beva acqua o faccia qualche esercizio pratico, ogni movente è buono per dire a tutti: “Io bevo acqua”. [III,14,5] Giacché per questo bevi acqua: per il bere acqua? O uomo, se ti è vantaggioso berla, bevila; se no, fai il ridicolo. [III,14,6] Se ti è utile e la bevi, tacine a coloro che si dispiacciono di siffatti uomini. E dunque? Vuoi essere gradito proprio a costoro?

Si compiono tanti tipi di azioni (7)

[III,14,7] Delle azioni che si effettuano, alcune si effettuano come cardinali, altre secondo circostanza, altre per opportunismo, altre per compiacenza, altre per istituto di vita.

Presunzione di sapere e sfiducia nella possibilità di vivere serenamente caratterizzano l’atteggiarsi controdiairetico della proairesi degli esseri umani (8-10)

[III,14,8] Strappare dalle persone queste due cose: la presunzione di sapere e la diffidenza. Presunzione di sapere è reputare di non abbisognare di nulla. Diffidenza è concepire impossibile l’essere sereni con cotanto contorno. [III,14,9] Dunque il controllo strappa la presunzione di sapere e questo innanzitutto fa Socrate. Quanto al vivere serenamente, e che non è faccenda impossibile, analizza e cerca: questa ricerca non ti danneggerà. [III,14,10] E quasi fare filosofia è questo: cercare com’è fattibile usare senza impacci di desiderio ed avversione.

La differenza tra uomo ed essere umano sta nell’atteggiamento diairetico o controdiairetico della proairesi (11-14)

[III,14,11] “Io sono migliore di te giacché mio padre è un consolare”. [III,14,12] Un altro dice “Io sono stato tribuno, tu no”. Se fossimo cavalli, diresti che “Mio padre era più veloce”, o che “Io ho molto orzo e foraggio”, o che “Ho eleganti collari”. Se dunque, mentre dici questo, ti dicessi: “Sia così, dunque corriamo”? [III,14,13] Orsù, per una persona nulla vi è di siffatto a quel che la corsa è per un cavallo e grazie a cui si riconoscerà il peggiore ed il migliore? Non vi sono forse il rispetto di sé e degli altri, la lealtà, la giustizia? [III,14,14] Mostrati migliore in questi, per essere migliore come uomo. Se mi dirai che “Tiro dei gran calci”, ti dirò anch’io che “Fai gran pregio di un’opera da asino”.

CAPITOLO 15
CHE SI DEVE VENIRE A CIASCUNA OPERA CON CIRCOSPEZIONE

Affrontare razionalmente ogni impresa, ossia pesandone antecedenti e conseguenti (1)

[III,15,1] Di ciascuna opera considera gli antecedenti ed i conseguenti e così vieni ad essa. Se no, dapprima vi sarai giunto con foga in quanto non hai ponderato nulla del seguito, ma successivamente, quando alcune conseguenze compariranno, te ne distornerai vergognosamente.

Vuoi vincere le Olimpiadi? Sappi che non è un gioco da ragazzi (2-7)

[III,15,2] “Voglio vincere le Olimpiadi”. Ma considerane gli antecedenti ed i conseguenti e, se così ti sarà vantaggioso, accostati all’opera. [III,15,3] Devi disciplinarti, mangiare a dieta, astenerti dai manicaretti, allenarti per necessità ad ore fisse, nella calura, al freddo; non bere freddo, né vino quando capita; insomma aver trasmesso te stesso al soprintendente come ad un medico; [III,15,4] e poi in gara scavarti la sabbia, slogarti a volte una mano, storcerti una caviglia, ingoiare molta rena, essere frustato e, dopo tutto questo, essere a volte vinto. [III,15,5] Ciò conteggiato, se ancora lo vorrai, vieni al cimento; se no, vedi che ti sarai condotto come i bimbi, i quali ora giocano agli atleti, ora ai gladiatori, ora trombettano e poi canticchiano qualunque cosa vedranno ed ammireranno. [III,15,6] Così tu pure ora atleta, ora gladiatore e poi filosofo e poi oratore ma con l’animo intero nulla. Come la scimmia tu imiti tutto ciò che vedrai e gradisci qualcosa di sempre diverso, mentre il consueto ti è sgradito. [III,15,7] Giacché non venisti a qualcosa dopo un’analisi né un percorso della faccenda nella sua interezza e neppure avendola saggiata, ma a casaccio e secondo una gelida smania.

Intendi essere libero, sereno, felice? Sappi che la fatica sarà grande (8-13)

[III,15,8] Così alcuni, visto un filosofo ed ascoltato qualcuno parlare come parla Eufrate (eppure, chi può parlare come lui?), vogliono anch’essi far filosofia. [III,15,9] O uomo, analizza innanzitutto cos’è la faccenda e poi anche la tua natura, cosa puoi sorreggere. Se lottatore vedi le tue spalle, le cosce, i lombi. [III,15,10] Giacché uno è nato per una cosa, un altro per qualcos’altro. Reputi che facendo questo puoi fare filosofia? Reputi di poter mangiare allo stesso modo, bere allo stesso modo, similmente adirarti, similmente dispiacerti? [III,15,11] Vegliare devi, faticare, vincere certe smanie, partire dai familiari, essere spregiato da un pupattolo, essere deriso da chi ti viene incontro, avere la meno in ogni circostanza, in cariche, in onorificenze, nei processi. [III,15,12] Ponderato con circospezione ciò, se lo reputi, vieni innanzi se disponi di permutare questo con dominio sulle passioni, libertà, dominio sullo sconcerto. Se no, non appressarti per non essere, come i bimbi, ora filosofo, successivamente gabelliere e poi oratore e poi procuratore di Cesare. [III,15,13] Questi ruoli non vanno d’accordo. Una sola persona tu devi essere, o buona o cattiva. Tu devi elaborare o il tuo egemonico o gli oggetti esterni. Essere laborioso sul di dentro o sul di fuori: questo è avere stazione di filosofo o di persona comune.

Già anticamente qualcuno aveva dei dubbi sull’affermazione che “Government work is God’s work” (14)

[III,15,14] Sgozzato Galba, uno diceva a Rufo: “Ora l’ordine del mondo è governato dalla mente della Materia Immortale, ovvero dalla Pronoia?”; e lui “Strutturai forse mai accessoriamente,” diceva, “a partire da Galba che l’ordine del mondo è governato dalla Provvidenza?”

CAPITOLO 16
CHE BISOGNA ACCONDISCENDERE CON CAUTELA ALLA COMPIACENZA

Sei tu capace di accordare un pianoforte, un violino, la tua proairesi? Se non lo sei, allora sarai costretto a suonare la musica, ad andare dietro i giudizi degli altri (1-6)

[III,16,1] Chi accondiscende frequentemente a certuni o per cianciare o per dei conviti o, insomma, per convivenza, è necessario che assomigli ad essi oppure che quelli si alloghino sulle sue posizioni. [III,16,2] Giacché se porrai un carbone spento accanto ad uno ardente, o il primo lo spegnerà oppure il secondo farà ardere il primo. [III,16,3] Essendo dunque così rilevante il pericolo, si deve accondiscendere con cautela a siffatte compiacenze con persone comuni, ricordando che è inconcepibile non fruire di fuliggine per chi si struscia a chi si è coperto di fuliggine. [III,16,4] Che farai, infatti, se ciancerà di gladiatori, di cavalli, di atleti e, quel ch’è ancora peggio, di persone: “Il tale è cattivo; il tale è buono. Questo accadde bene; questo male”? Ed ancora se schernirà, se ridicolizzerà, se malignerà? [III,16,5] Qualcuno di voi ha la preparazione che ha il citarista di prendere la lira e, appena toccate le corde, di riconoscere le disarmoniche ed acconciare lo strumento? La facoltà che aveva Socrate, così da condurre i sodali, in ogni occasione, sulla sua posizione? [III,16,6] Donde vi viene? Ma è necessario che siate voi ad essere portati in giro dalle persone comuni.

La forza delle persone sta nella saldezza dei loro giudizi: gente comune con una controdiairesi d’acciaio e presunti filosofi con una diairesi di cera (7-10)

[III,16,7] Perché dunque quelli sono più potenti di voi? Perché quelli enunciano questi schifosi discorsi da giudizi mentre voi, i raffinati discorsi, dalle labbra. Per questo sono atoni e cadaverici; ed è possibile che a chi ascolta le vostre esortazioni e sente parlare di quella disgraziata virtù blaterata su e giù, venga il ribrezzo. [III,16,8] Così le persone comuni vi vincono: giacché ovunque il giudizio è potente, il giudizio è invincibile. [III,16,9] Fino a che dunque non si figgeranno bene in voi le raffinate concezioni e non vi procaccerete una forza che dia sicurezza, vi consiglio di condiscendere con cautela alle persone comuni. Se no, se pur qualcosa vi annotate a scuola, ogni giorno fonderà come cera al sole. [III,16,10] Finché avrete le concezioni di cera, avanti dunque in qualche dove lontano dal sole. 

Chi si porta dentro vecchie abitudini e scorretti giudizi non viaggia mai, dovunque vada; anche se stesse facendo il giro del mondo (11-16)

[III,16,11] Per questo i filosofi consigliano di ritirarsi anche dalla propria patria, perché le antiche abitudini distraggono e non permettono l’inizio di altro costume, né sopportiamo che chi ci viene incontro dica: “Ecco, il tale fa filosofia; lui che era così e così”. [III,16,12] Così fanno bene i medici a mandare gli ammalati cronici in un altro territorio ed altre arie. [III,16,13] Anche voi introducete altre abitudini; figgete bene le vostre concezioni, competete con esse. [III,16,14] No; ma di qua ad uno spettacolo, ad un combattimento di gladiatori, al ginnasio coperto, al circo. E poi di là a qua e di nuovo di qua a là, i medesimi. [III,16,15] E nessuna raffinata abitudine né attenzione né pensosità su se stessi e puntuale osservazione: “Come uso le rappresentazioni che mi incolgono? Secondo la natura delle cose o contro la natura delle cose? Come rispondo loro? Come si deve o come non si deve? Soggiungo a ciò che è aproairetico che nulla è per me?” [III,16,16] Giacché se non state ancora così, fuggite le abitudini di prima, fuggite le persone comuni, se intendete iniziare una volta ad essere qualcuno.

CAPITOLO 17
SULLA MENTE DELLA MATERIA IMMORTALE, OVVERO SULLA PRONOIA

Chi è ricco di denaro e chi è ricco di lealtà: dovendo scegliere, chi preferisci? (1-5)

[III,17,1] Qualora incolpi la mente della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, impensierisciti e riconoscerai che quel che è accaduto è accaduto secondo ragione. [III,17,2] “Sì, ma l’ingiusto ha di più”. In cosa? In denaro, giacché per questo è migliore di te: lui adula, è sfacciato, veglia la notte. Che c’è di stupefacente? [III,17,3] Ma ravvisa l’altro profilo: se ha più di te nell’essere leale, rispettoso di sé e degli altri. Troverai che non l’ha: e dove sei migliore, là ti troverai ad avere di più. [III,17,4] Anch’io una volta dissi ad uno che fremeva perché Filostorgo ha buona fortuna: “Vorresti coricarti tu con Sura?” “Non sia mai”, dice, “quel giorno!” [III,17,5] Perché dunque fremi se prende qualcosa in cambio di quanto vende? Come mai beatifichi chi acquisisce quelle cose attraverso queste, contro le quali fai gli scongiuri? Che male fa la mente della Materia Immortale, ovvero la Pronoia, se dà il meglio ai migliori? Non è meglio essere rispettoso di sé e degli altri che ricco di denaro? Lo ammetteva. 

Chiamare ignorante ed ingiusta la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, perché dà sempre il meglio ai migliori è viversi come poveri quando invece si è ricchi, avendo noi da lei occhi per vedere, mani per lavorare, ragione per essere felici (6-9)

[III,17,6] Perché dunque fremi, o uomo, se hai il meglio? Ricordate dunque sempre ed abbiate a portata di mano che la legge di natura è questa: che il migliore abbia più del peggiore in ciò in cui è migliore, e non fremerete mai. [III,17,7] “Ma mia moglie usa male con me”. Bene. Se qualcuno cercherà di sapere da te cos’è questo, dì: “Mia moglie usa male con me”. “Dunque null’altro?” Nulla. [III,17,8] “Mio padre non mi dà nulla…” Che è male, questo devi addizionarglielo tu dal di dentro ed aggiungere una menzogna. [III,17,9] Per questo non si deve espellere la povertà di denaro bensì il giudizio su di essa, e così saremo sereni.

CAPITOLO 18
CHE NON SI DEVE ESSERE SCONCERTATI DI FRONTE ALLE NOTIZIE 

Quali notizie possono dare i giornali? (1)

[III,18,1] Qualora ti sia riportato qualcosa di sconcertante, abbi a portata di mano che una notizia è su di nulla di proairetico.

La diairesi in atto (2-4)

[III,18,2] Forse uno può darti la notizia che concepisti male o desiderasti male? -Nient’affatto!- Ma che uno morì. Cos’è dunque per te? Che uno parla male di te. Cos’è dunque per te? [III,18,3] Che il padre ha pronto questo e quest’altro. Contro chi? Forse contro la proairesi? E donde può? Bensì contro il corpo, contro le coserelle. Sei salvo; non è contro di te. [III,18,4] Ma l’arbitro dichiara che hai commesso una empietà. E nel caso di Socrate i giudici non lo dichiararono? E’ forse opera tua che egli lo dichiari? -No- Perché dunque t’importa ancora? 

Il fondamento dello Stoicismo (5-6)

[III,18,5] V’è un’opera di tuo padre che, se egli non assolverà, manda in malora il padre, l’uomo affettuoso, mansueto. Non cercare che egli si mandi in malora per altro che per questo. Giacché uno non aberra mai in una cosa ma è danneggiato in un’altra. [III,18,6] Di nuovo opera tua è parlare in tua difesa con stabilità di giudizio, con rispetto di te e degli altri, dominando l’ira. Se no, mandasti in malora anche tu il figlio, l’uomo rispettoso di sé e degli altri, il generoso. 

Cosa ho io a che fare con i mali degli altri? (7-9)

[III,18,7] E dunque? L’arbitro è al riparo da pericoli? No, ma anche lui corre pari pericoli. Perché dunque hai ancora paura di quanto determinerà? Che c’è fra te ed il male allotrio? [III,18,8] Male tuo è parlare male in tua difesa: solo su questo sta in guardia. Essere giudicato innocente o colpevole, com’è opera di un altro, così è il male di un altro. [III,18,9] “Il tale ti minaccia”. Me? No. “Ti denigra”. Vedrà lui come fa l’opera sua peculiare. “Sta per condannarti ingiustamente”. Meschino.

CAPITOLO 19
QUAL E’ STAZIONE DI PERSONA COMUNE E DI FILOSOFO ?

Per l’insipiente la colpa è sempre degli altri, mentre chi ha cominciato ad educarsi filosoficamente accusa se stesso (1-2)

[III,19,1] Prima differenza tra una persona comune ed un filosofo. L’uno dice: “Ahimè! Colpa del pupattolo, colpa del fratello; ahimè! colpa di mio padre”. L’altro, se mai sarà costretto a dire “Ahimè!” riflette e dice: “colpa mia”. [III,19,2] Giacché nulla di aproairetico può impedire o danneggiare la proairesi se non essa se stessa.

Soltanto la proairesi è autodeterminativa (3)

 [III,19,3] Se dunque a questo propenderemo anche noi, così da accagionare noi stessi qualora siamo fuori strada e da ricordarci che null’altro se non un giudizio è causativo di sconcerto ed instabilità, ebbene vi giuro per tutti gli dei che abbiamo fatto profitto.

Invece noi, pur cresciuti, rimaniamo bambocci e se incespichiamo continuiamo ad accusare la pietra (4-6)

[III,19,4] Ora, invece, dall’inizio siamo venuti per un’altra strada. Subito, ancora da bimbi la balia, se mai incespicammo standocene a bocca aperta, non censurava noi ma percuoteva il sasso. Ma cosa fece il sasso? Bisognerebbe che si spostasse, per la stupidaggine del tuo bimbo? [III,19,5] Di nuovo, se non troveremo da mangiare tornando dalle terme, il pedagogo non calma mai la nostra smania ma concia il cuoco. O uomo, ti istituimmo forse pedagogo del cuoco? No, ma del nostro bimbo: rettifica lui, giova a lui. [III,19,6] E così, anche cresciuti ci mostriamo bimbi. Giacché bamboccio in musica è il digiuno di musica; in grammatica il digiuno di grammatica; in vita il non educato a diairesizzare.

CAPITOLO 20
CHE E’ POSSIBILE TRARRE GIOVAMENTO DA TUTTI GLI OGGETTI ESTERNI

Noi ammettiamo che conoscenza ed errori logici dipendono esclusivamente da noi (1-3)

[III,20,1] Circa le rappresentazioni teoretiche, quasi tutti i filosofi riservarono il bene ed il male dentro di noi e non negli oggetti esterni. [III,20,2] Nessuno dice bene l’essere giorno e male l’essere notte; male grandissimo, invero, essere il tre quattro. [III,20,3] Ma cosa? Che la scienza è bene mentre l’inganno è male; sicché si raccomanda un bene anche circa la falsità stessa, bene essendo la conoscenza della falsità. 

Non siamo invece disposti ad ammettere che bene e male dipendano esclusivamente da noi; eppure è un errore logico affermare che la vita è bene e che la morte è male. Infatti, non la vita, ma la vita virtuosa è bene; non la vita, ma la vita viziosa è male. Non la morte, ma la morte nobile è bene; non la morte ma la morte vergognosa è male (4-7)

[III,20,4] Dovrebbe dunque essere così anche per la vita. Bene la salute del corpo, male la malattia? No, o uomo. Ma cosa? Che vivere in salute da virtuosi è bene, vivere in salute da viziosi è male. -Sicché è possibile trarre giovamento anche dalla malattia?- Per Zeus, e dalla morte non è possibile? [III,20,5] Da una storpiatura non è possibile? Reputi che Meneceo trasse piccolo giovamento quando moriva? -Dicendo siffatte parole si potesse trarre il giovamento che ne trasse lui!- Permetti, o uomo: non serbò egli il patriota, l’uomo disinteressato, leale, generoso? Sopravvivendo non mandava in malora tutto questo? [III,20,6] Non si procacciava l’opposto? Non indossava i panni del vile, dell’ignobile, dell’odiatore della patria, del pusillanime? Orsù, reputi che morendo abbia tratto piccolo giovamento? No. [III,20,7] Ed il padre di Admeto trasse grande giovamento dal vivere così ignobilmente e meschinamente? E successivamente non morì? 

Le conseguenze degli errori logici ricadono unicamente su di noi e su null’altro (8)

[III,20,8] Cessate, per gli dei, di infatuarvi dei materiali; cessate di farvi servi innanzitutto delle faccende e poi, per causa loro, anche delle persone che possono procacciarvele o sottrarvele!

Il malvagio è cattivo per se stesso ma per me è buono: allena le mie virtù (9-11)

[III,20,9] -E’ dunque possibile trarre giovamento da questo?- Da tutto. -Anche da chi ingiuria?- Che giova all’atleta il preparatore atletico? Il massimo. E pure costui diventa mio preparatore atletico: allena la mia capacità di tolleranza, il dominio sull’ira, la mitezza. [III,20,10] No; ma chi avvinghia il collo e mi rimette in ordine lombi e spalle mi giova; ed il maestro di ginnastica fa bene a dire “Solleva il pestello con entrambe le mani”, e quanto più quello è pesante tanto più io ne traggo giovamento. E se uno mi allena al dominio sull’ira non mi giova? [III,20,11] Questo è non saper trarre giovamento dagli esseri umani. Un cattivo vicino? Per lui stesso, ma per me buono: allena la mia costumatezza, l’acquiescenza alla ragione. Un cattivo padre? Per lui stesso, ma per me buono.

La bacchetta magica esiste ed io la posseggo (12-17)

[III,20,12] Questa è la bacchetta di Ermete. “Tocca ciò che vuoi,” si dice, “e sarà oro”. No, ma porta quanto disponi ed io ne farò un bene. Porta malattia, porta morte, porta difetto di mezzi di sussistenza, porta ingiuria, un processo con pene estreme; tutto questo sarà giovevole con la bacchetta di Ermete. [III,20,13] “La morte, che farai?” Che altro se non una cosa che ti adorni od attraverso cui mostrare nei fatti cos’è un uomo che comprende il piano della natura? [III,20,14] “La malattia, che farai?” Ne mostrerò la natura, spiccherò in essa, sarò stabile, sereno, non adulerò il medico, non auspicherò di morire. [III,20,15] Che altro cerchi ancora? Tutto ciò che darai io lo farò beato, felicitante, solenne, da emulare. [III,20,16] No, ma: “Guardati dall’ammalarti: è male”. Come se uno dicesse: “Guardati dal rappresentarti che tre è quattro: è male”. O uomo, male come? Se su di questo concepirò quel che si deve, come mi danneggerà? Piuttosto non mi gioverà pure? [III,20,17] Se dunque concepirò della povertà di denaro, della malattia, dell’assenza di cariche quel che si deve, non mi basta? Non sarà giovevole? Come debbo ancora cercare beni e mali negli oggetti esterni?

Questi giudizi li dimentichi a scuola o li porti a casa? (18-19)

[III,20,18] Ma cosa? Questi giudizi valgono fino a che si è qua e nessuno li porta via, a casa. Subito è guerra con il pupattolo, con i vicini, con chi schernisce, con chi deride. [III,20,19] Sia bene a Lesbio, perché ogni giorno mi confuta di non sapere nulla!

CAPITOLO 21
A QUANTI VENGONO A SAPIENTEGGIARE COME SE NIENTE FOSSE

Filosofi e pseudofilosofi, cibo e vomito, sangue e chiacchiere (1-7)

[III,21,1] Dice Epitteto che alcuni, appresi i meri principi filosofici generali, subito vogliono vomitarli come i deboli di stomaco col cibo. [III,21,2] Innanzitutto digeriscili e così poi non vomiterai. Se no, una faccenda pulita diventa effettivamente vomito, immangiabile. [III,21,3] Assimilatili, mostraci invece qualche trasformazione del tuo egemonico, come gli atleti, a seguito degli allenamenti e dell’alimentazione, ci mostrano le spalle; e coloro che appresero le arti, il risultato di ciò che impararono. [III,21,4] Il falegname non viene a dire: “Ascoltatemi discorrere di falegnameria” ma, preso in affitto, mostra di avere l’arte strutturando questa casa. [III,21,5] Fa anche tu qualcosa di siffatto: mangia da uomo, bevi da uomo, adornati, sposati, fa figli, interessati di affari cittadini; tollera l’ingiuria, sopporta un fratello scriteriato, sopporta un padre, sopporta un figlio, un vicino, un compagno di viaggio. [III,21,6] Questo mostraci, affinché vediamo che hai imparato davvero qualcosa dei filosofi. No, ma: “Venite a sentirmi parlare di chiose”. Va’, cerca qualcuno cui rutterai addosso. [III,21,7] “Eppure vi commenterò i testi di Crisippo come nessuno; dissolverò l’elocuzione in formule purissime addizionando in qualche dove anche la profusione di Antipatro e di Archedemo”.

Come puoi tu far parte ad altri di quanto non possiedi? (8-10)

[III,21,8] E poi che i giovani per questo abbandonino le patrie ed i loro genitori, per venire a sentirti spiegare delle elocuzioncelle? [III,21,9] Non si deve rincasarli capaci di tollerare l’intemperanza altrui, cooperativi, in grado di dominare le passioni, di dominare lo sconcerto; provvisti di siffatto viatico per la vita prendendo impulso dal quale potranno sopportare da virtuosi quanto accade ed anche adornarsene? [III,21,10] Donde ti viene il far parte di quanto non hai? Dall’inizio facesti forse altro dal consumarti su questo: come saranno risolti i sillogismi, come i ragionamenti equivoci, come quelli concludenti?

Quel che a te interessa veramente non è la filosofia bensì la parodia: parallelismo con i Misteri Eleusini (11-16)

[III,21,11] “Ma il tale ha una scuola; perché non averla anch’io?” Questo non accade a casaccio, schiavo, né come capita, ma si deve essere di una certa età e vita, ed avere un dio come leader. [III,21,12] No, ma nessuno salpa dal porto senza sacrificare agli Dei e pregarli d’aiuto, né gli esseri umani seminano altrimenti che invocando Demetra. Accostandosi ad un’opera così rilevante, uno le si accosterà con sicurezza senza degli dei; ed avvicinarlo sarà una fortuna per coloro che lo avvicineranno? [III,21,13] Che altro fai, o uomo, se non parodiare i misteri e dire: “Una stanza c’è ad Eleusi ed ecco anche qua. Là c’è uno ierofante, ed io farò lo ierofante. Là c’è un araldo, ed io istituirò un araldo. Là c’è un portatore di fiaccola ed io istituirò un portafiaccola. Fiaccole là, fiaccole qua. Le voci sono le stesse: questi avvenimenti in cosa differiscono da quelli?” [III,21,14] O uomo sommamente empio, non differiscono in nulla? Le stesse cose giovano anche fuori posto e fuori tempo? No. Ma dopo un sacrificio, con voti, se ci si è prima astenuti da rapporti sessuali e con l’intelligenza predisposta a pensare che si andrà innanzi a sacrari, e sacrari antichi. [III,21,15] Così diventano giovevoli i Misteri, così veniamo alla rappresentazione che tutti questi riti furono istituiti dagli antichi per l’educazione e la rettificazione della vita. [III,21,16] Tu invece li divulghi e parodi fuori tempo, fuori posto, senza vittime, senza astensione da rapporti sessuali. Non hai i vestiti che deve avere lo ierofante, non la chioma, non la benda che si deve, non la voce, non l’età, non ti sei astenuto da rapporti sessuali come lui. Hai appreso soltanto le parole e le dici. Le parole sono sacre di per se stesse?

Non tutti possono avere il ruolo di Socrate, di Diogene, di Zenone (17-19)

[III,21,17] In altro modo si deve venire a queste cose: è faccenda grandiosa, da iniziati, non data come capita né a chi capita. [III,21,18] Per prendersi sollecitudine di giovani non è bastante, caso mai, neppure essere un sapiente: ci deve essere anche qualche speditezza ed idoneità a questo. Sì, per Zeus, anche un certo fisico e, prima di tutto, che sia un dio a consigliare di rattenere questo rango. [III,21,19] Come consigliava a Socrate di avere l’ufficio di contestatore, a Diogene quello di re e di censore, a Zenone quello di insegnante e di teorico.

Se anche tu possedessi gli strumenti, li sapresti poi usare? (20-22)

[III,21,20] Tu invece apri uno studio medico avendo null’altro che farmaci, ma senza sapere dove e come questi si appongono e senza impicciartene. [III,21,21] “Ecco lui ha questi colliri, anch’io li ho”. E forse anche la capacità di usarli? Sai forse quando e come gioveranno ed a chi? [III,21,22] Perché dunque giochi a dadi nelle cose più grandi, perché fai il facilone, perché metti mano ad una faccenda che non ti conviene? Lasciala a chi può adornarsene. Non infliggere anche tu bruttezza alla filosofia attraverso te stesso e non diventare parte di coloro che ne calunniano l’opera.

Lascia stare le cose serie: non fanno per te (23-24)

[III,21,23] Ma se i principi filosofici generali ti cattivano l’animo siedi e rigirali tra te e te. Non dirti mai filosofo e non tollerarlo se lo dice qualcun altro, ma dì: “Ha errato, giacché io non desidero altrimenti da prima, né impello ad altro, né ad altro assento, né in complesso mi sono diversificato in qualcosa dalla condizione di prima nell’uso delle rappresentazioni”. [III,21,24] Pregia e dì questo di te stesso, se disponi di pregiare secondo il merito. Se no, gioca pure a dadi e fa quel che fai. Giacché questo ti si confà.

CAPITOLO 22
SUL CINISMO

Nella complessiva armonia dell’ordine del mondo c’è posto anche per il Cinico, a patto che se ne abbia la stoffa (1-8)

[III,22,1] Quando uno dei suoi conoscenti, che appariva propenso a cinizzare, cercò di sapere Che tipo deve essere chi vive da Cinico e qual è il pre-concetto della faccenda, Epitteto diceva Lo analizzeremo con agio, [III,22,2] ma intanto ho da dirti che chi progetta per sé una faccenda così rilevante prescindendo da dio, è oggetto del disgusto divino e null’altro vuole che fare l’indecente in pubblico. [III,22,3] Giacché neppure in una casa ben amministrata uno perviene a dirsi: “Devo essere io l’amministratore”. Se no il padrone, impensierendosi e vedendolo costituirsi altezzosamente, lo trascina fuori e gli taglia la lingua. [III,22,4] Così accade anche in questa grande città. Giacché c’è anche qua un padrone di casa, il costitutore di ciascuna cosa. [III,22,5] “Tu sei sole: nel corso della tua rivoluzione puoi fare l’annata e le stagioni, far crescere e nutrire i frutti, muovere e placare i venti, riscaldare in giusta proporzione i corpi degli umani. Va’, compi la tua rivoluzione e così metti in movimento tutte le cose, dalle più grandi alle più piccole. [III,22,6] Tu sei vitello: qualora si dia a vedere un leone, effettua l’opera tua; se no, mugugnerai. Tu sei toro: vieni innanzi a combattere, giacché questo ti spetta e confà e puoi fare. [III,22,7] Tu puoi capeggiare l’esercito contro Ilio: sii Agamennone. Tu puoi combattere corpo a corpo con Ettore: sii Achille. [III,22,8] Se invece Tersite pervenisse a pretendere il comando, o non lo avrebbe centrato oppure, centratolo, avrebbe fatto l’indecente tra una moltitudine di testimoni. 

L’abito non fa il Cinico (9-12)

[III,22,9] Tu delibera sulla faccenda con solerzia: non è quel che reputi. [III,22,10] “Un mantello lo porto anche ora e lo avrò pure allora; mi corico anche ora sul duro e sul duro mi coricherò anche allora; aggiungerò una piccola bisaccia ed un bastone e, andando in giro, inizierò a chiedere cose a chi mi viene incontro, ad ingiuriare. Se vedrò uno depilato col dropace, lo rimprovererò; e lo stesso farò se vedrò qualcuno con il ciuffo tutto ben plasmato o che passeggia in scarlatto”. [III,22,11] Se immagini la faccenda qualcosa di siffatto, stanne lontano. Non venire innanzi, non è per te. [III,22,12] Se, immaginandola qual è, non te ne stimi indegno, analizza a che grande faccenda metti mano.

Il Cinico non ha bisogno di nascondere nulla della propria vita (13-18)

[III,22,13] Innanzitutto, per quanto sta a te, non devi più apparire simile in nulla a quello che fai ora, e non incolpare dio né uomo. Devi rimuovere definitivamente il desiderio ed allogare l’avversione solamente su ciò che è proairetico. Non devi avere ira, sdegno, invidia, commiserazione. Non deve apparirti magnifica una pupattola, un po’ di reputazione, un pupattolo, una focaccetta. [III,22,14] Giacché devi sapere che le altre persone, qualora facciano qualcosa di siffatto, si sono messi davanti le pareti, le case, il buio ed hanno molti mezzi per nasconderlo. Ha chiuso la porta, ha collocato uno davanti alla camera da letto: “Se verrà qualcuno, dì che è fuori, è impegnato”. [III,22,15] Il Cinico, invece di tutto questo è tenuto ad essersi messo davanti il rispetto di sé e degli altri. Se no, nudo ed all’aria aperta farà l’indecente. Questo gli è casa, questo porta, questo i deputati alla camera da letto, questo il buio. [III,22,16] Né deve voler celare qualcosa di suo (se no partì, andò in malora il Cinico, l’uomo dell’aria aperta, libero; ha iniziato ad aver paura di qualcuno degli oggetti esterni, ha iniziato ad avere bisogno di qualcosa che celi) e, qualora voglia, non può. Giacché dove si celerà o come? [III,22,17] Se chi educa all’uso della diairesi, il comune pedagogo fallirà, cos’è necessario che sperimenti? [III,22,18] Chi dunque teme questo, è ancora possibile che ardisca soprintendere con l’animo intero alle altre persone? E’ inconcepibile, è impossibile.

Un programma di vita (19-22)

[III,22,19] Devi dunque, innanzitutto, fare puro il tuo egemonico e fare questo istituto di vita: [III,22,20] “Ora mio materiale è il mio intelletto, come il legno per il falegname e le pelli per il calzolaio. L’opera è il retto uso delle rappresentazioni. [III,22,21] Il corpo nulla è per me, nulla per me sono le sue parti. La morte? Venga quando vorrà, sia del corpo intero sia di qualche parte. [III,22,22] L’esilio? E dove può uno espellermi? Fuori dell’ordine del mondo non può. Dove partirò, là avrò sole, là luna, là astri, visioni in sogno, uccelli augurali, la conversazione con dei”. 

Il Cinico è un messaggero ed un esploratore (23-25)

[III,22,23] E poi così preparato, non è possibile che chi davvero è Cinico si accontenti di questo, ma deve sapere che è stato inviato da Zeus agli esseri umani come messaggero, per indicare loro che hanno errato circa beni e mali e che cercano la sostanza del bene e del male altrove da dov’è e non ponderano dov’è; [III,22,24] e che è pure un esploratore, come Diogene menato davanti a Filippo dopo la battaglia di Cheronea. Giacché effettivamente il Cinico è un esploratore di quanto è amico e quanto è nemico dell’uomo [III,22,25] e bisogna che egli, dopo averlo analizzato con precisione, venga ad annunciare la Verità non sbigottito dalla paura, così da mostrare nemici inesistenti, né in qualche altro modo sconvolto o confuso dalle rappresentazioni.

Quel che è capace di rasserenare e farci felici non si identifica né col corpo né col patrimonio né con cariche né con il potere regale (26-30)

[III,22,26] Il Cinico deve dunque caso mai drizzarsi, salire alla scena tragica e dire le parole di Socrate: “Uh, o uomini, dove vi portate? Che fate, disgraziati? Rotolate su e giù come ciechi; partite per una strada diversa dopo avere abbandonato quella giusta; cercate il rasserenante ed il felicitante altrove, dove non è; e non vi fidate di un altro che ve lo mostra. [III,22,27] Perché lo cercate fuori? Nel corpo non c’è. Se diffidate, guardate Mirone, guardate Ofellio. Nel patrimonio non c’è. Se diffidate, guardate Creso, guardate i danarosi di adesso, guardate di quanti mugugni è piena la loro vita. Nelle cariche non c’è. Se no, bisognerebbe che quanti sono stati consoli due o tre volte fossero felici: ma non lo sono. [III,22,28] Di chi ci fideremo su questo? Di voi che scorgete dal di fuori le loro faccende e che siete abbagliati dall’immaginazione, oppure di loro stessi? [III,22,29] Che cosa dicono? Ascoltateli qualora mugugnino, gemano, credano -proprio a causa dei consolati, della reputazione, della notorietà- di passarsela più meschinamente e più pericolosamente. [III,22,30] Nel regno non c’è. Se no, Nerone sarebbe stato felice, e pure Sardanapalo. 

L’esempio che ce ne danno il buon pastore, ossia l’infelice Agamennone; e le pecore, ossia gli infelici esseri umani, che si lasciano da lui comandare (30-37)

Ma neppure Agamennone era felice, pur essendo più raffinato di Sardanapalo e di Nerone. Mentre gli altri russano, lui che fa? *Dal capo si strappava i capelli a ciocche, fin dalle radici* E che dice? *Vagabondo ne vo* dice, e *Sono angosciato: il cuore mi salta fuori dal petto* . [III,22,31] Sciagurato, cosa di tuo sta male? Il patrimonio? Non sta male: sei ricco d’oro e ricco di bronzo. Il corpo? Non sta male. Che male hai dunque? Quello: che di te è stato trascurato ed annientato ciò con cui desideriamo, con cui avversiamo, con cui impelliamo e repelliamo. [III,22,32] Com’è stato trascurato? Esso ignora la sostanza del bene per cui è nato e quella del male e cos’ha peculiare e cos’è allotrio. Qualora alcunché di allotrio stia male, dice: “Ahimè, i Greci sono in pericolo!” [III,22,33] Disgraziato egemonico, e solo negletto e senza cura! “Stanno per morire, levati di mezzo dai Troiani”. E se non li uccideranno i Troiani, non morrebbero comunque? “Sì, ma non tutti in una volta”. Che differenza fa? Giacché se morire è un male, morire assieme oppure uno per volta è similmente male. Sta per accadere qualcos’altro dalla separazione di corpo ed animo? [III,22,34] “Nulla”. E se vanno in malora i Greci, per te la porta è stata chiusa? Non si ha la potestà di morire? “La si ha”. Perché dunque piangi, uah!, pur essendo re ed avendo lo scettro di Zeus? Un re non è sfortunato, non più che sfortunata la Materia Immortale, ovvero la Pronoia. [III,22,35] Cosa sei dunque? Davvero un pastore, giacché singhiozzi come i pastori qualora un lupo ghermisca qualcuna delle loro pecore. E sono pecore costoro da te comandati. [III,22,36] E perché sei venuto qui? Forse correvano pericoli il vostro desiderio, l’avversione; forse l’impulso, la repulsione? “No,” dice, “fu ghermita la femminuccia di mio fratello”. [III,22,37] Ma non è gran guadagno essere defraudati di una femminuccia adultera? “Dunque saremo spregiati dai Troiani?” E chi sono i Troiani? Dei saggi o degli stolti? Se sono saggi, perché fate loro guerra? Se sono degli stolti, che ve ne importa?

Ed ecco la Verità: serenità e felicità sono là dove c’è in noi qualcosa che è libero per natura… (38-41)

[III,22,38] “Siccome non sta in questo, in cosa sta dunque il bene? Diccelo, signor messaggero ed esploratore!” “Dove non reputate né volete cercarlo giacché, se lo disponeste, avreste trovato che è in voi e non lo deflettereste fuori, né cerchereste l’allotrio come se fosse vostro peculiare. [III,22,39] Impensieritevi di voi stessi, decifrate i pre-concetti che avete. Quale cosa vi rappresentate essere il bene? Il rasserenante, il felicitante, il non soggetto ad impacci. Orsù, non ve lo rappresentate naturalmente grande? Non ve lo rappresentate rimarchevole? Non ve lo rappresentate inoffensivo? [III,22,40] In quale materiale bisogna dunque cercare il rasserenante e non soggetto ad impacci? In quello servo o in quello libero?” “In quello libero”. “Dunque il corpo l’avete libero o servo?” “Non lo sappiamo”. “Non sapete che è servo di febbre, podagra, oftalmia, dissenteria, un tiranno, fuoco, ferro, ogni cosa più potente di lui?” [III,22,41] “Sì, è servo”. “Come può dunque ancora essere non soggetto ad intralci qualcosa che ha a che fare con il corpo? Come può essere grande o rimarchevole ciò che è per natura cadavere, è terra, è argilla? E dunque? Non avete niente di libero?” “Forse niente”. 

…ossia nella proairesi (42-44)

[III,22,42] “E chi può costringervi ad assentire a quanto appare falso?” “Nessuno”. “Chi a non assentire a quanto appare vero?” “Nessuno”. “Qua dunque vedete che vi è in voi qualcosa di libero per natura. [III,22,43] Chi di voi può desiderare od avversare, impellere o repellere, prepararsi o proporsi qualcosa senza prenderne rappresentazione di vantaggioso o di non doveroso?” “Nessuno”. “Dunque avete anche in questo qualcosa non soggetto ad impedimenti e libero. [III,22,44] Disgraziati! Questo elaborate, di questo siate solleciti; qui cercate il bene”. 

Il Cinico: un modello di uomo felice (45-50)

[III,22,45] E com’è fattibile che se la tragitti serenamente chi non ha nulla, è nudo, senza casa, senza focolare, ispido, senza un servo e senza cittadinanza? [III,22,46] Ecco, la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, ha inviato chi vi mostrerà nella pratica che è fattibile. [III,22,47] “Guardatemi: sono senza casa, senza cittadinanza, squattrinato, senza un servo; mi corico per terra; non ho moglie né bimbi né pretoriuccia, ma soltanto terra, cielo ed un solo mantellino. [III,22,48] E cosa mi manca? Non so dominare l’afflizione, non so dominare la paura, non sono libero? Quando qualcuno di voi mi vide fallire nel desiderio o, nell’avversione, incappare in quanto avverso? Quando biasimai dio od uomo, quando incolpai qualcuno? Qualcuno di voi mi vide forse accigliato? [III,22,49] Come incontro costoro di cui voi avete paura e siete infatuati? Non come schiavi? Vedendomi, chi non crede di vedere il suo re e padrone?” [III,22,50] Ecco accenti cinici, eccone lo stile, il progetto. No, ma piccola bisaccia, bastone e grandi mascelle; divorare tutto quel che darai o metterlo in serbo od ingiuriare intempestivamente chi gli viene incontro o mostrare la spalla magnifica.

La posta in gioco (51-52)

[III,22,51] Vedi come stai per porre mano ad una faccenda così rilevante? Prendi dapprima uno specchio e guarda le tue spalle, decifra i lombi, le cosce. Stai per iscriverti alle Olimpiadi, o uomo, non a qualche gelida e disgraziata garetta. [III,22,52] Non è possibile, alle Olimpiadi, solo essere vinto ed uscire ma innanzitutto si deve essere indecenti davanti all’intera terra abitata che ti scorge, e non solo agli Ateniesi, agli Spartani od ai Nicopolitani; e poi chi vi entra a casaccio deve essere conciato e, prima di essere conciato, soffrire la sete, essere accaldato, ingoiare molta rena.

L’impresa Olimpica e l’impresa Cinica (53-56)

[III,22,53] Consigliati nel modo più solerte, riconosci te stesso, interroga il genio, non mettere mano a questo prescindendo da un dio. Giacché se lo consiglierà, sappi che dispone di farti diventare grande o prendere molte botte. [III,22,54] Questo profilo assai grazioso è stato intrecciato infatti anche nell’impresa del Cinico, quand’egli deve essere conciato come un asino e, pur conciato, amare gli stessi conciatori come padre di tutti, come fratello. [III,22,55] No, ma se uno ti concerà, sta in mezzo e gracchia: “O Cesare, nella tua pace quali angherie debbo sperimentare? Conduciamoci dal proconsole!” [III,22,56] Ma per il Cinico cos’è Cesare od un proconsole od un altro, se non chi l’ha mandato giù e cui egli rende culto, ossia Zeus? Invoca egli altri che Zeus? Non è persuaso che qualunque di queste angherie sperimenterà, è la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, che lo sta allenando?

Le fatiche di Eracle e la febbre di Diogene (57-59)

[III,22,57] Eracle, allenato da Euristeo, non legittimava di essere meschino ma realizzava intrepidamente tutte le ingiunzioni. E merita di portare lo scettro di Diogene chi, cimentato ed allenato da Zeus, è per strillare e fremere? [III,22,58] Ascolta cosa dice Diogene, quando ha la febbre, ai passanti: “Teste di cazzo,” diceva, “non vi fermerete? Ve ne andate per cotanta strada ad Olimpia per vedere una battaglia di atleti della malora, e volete non vedere la battaglia tra la febbre ed un uomo?” [III,22,59] Probabilmente uno siffatto avrebbe incolpato Zeus di averlo mandato giù per usare di lui a torto, proprio lui che si abbelliva delle circostanze difficili e sollecitava di essere uno spettacolo per i passanti! Giacché incolperà per cosa? Perché agisce con decoro? Accuserà cosa? Che sfoggia più radiosa la sua virtù? 

Come può la felicità abitare i putridi giudizi di piccoli e grandi “potenti”? (60-61)

[III,22,60] Orsù, e cosa dice Diogene della povertà di denaro, della morte, del dolore? Come paragonava la sua felicità a quella del Gran Re o, piuttosto, credeva che neppure fosse paragonabile? [III,22,61] Giacché dove sono sconcerti, afflizioni, paure, desideri imperfetti, avversioni che incappano in quanto avversano, invidie, gelosie, là che passaggio vi può avere la felicità? Dove saranno giudizi schifosi, là è necessario che vi sia tutto ciò. 

Soltanto un altro Cinico può essere amico di un Cinico, come Diogene lo fu di Antistene e Cratete di Diogene (62-66)

[III,22,62] Quando il giovanotto cercò di sapere se, essendo ammalato, dovrà dare retta ad un amico che lo sollecita a venire da lui per essere curato, Dove mi darai un amico del Cinico? diceva Epitteto. [III,22,63] Giacché questo deve essere un altro Cinico, per meritare di essere numerato amico del primo. Deve essere socio di scettro e di regno e degno ministro, se è per essere degno di amicizia: come Diogene lo divenne di Antistene e Cratete di Diogene. [III,22,64] O reputi che se uno verrà innanzi a dirgli ‘Salve!’ è suo amico, e che quello lo riterrà degno di entrare da lui? [III,22,65] Sicché, se lo reputi, se rimugini qualcosa di siffatto, piuttosto cerca con lo sguardo un grazioso immondezzaio nel quale avere la febbre, che ripari da Borea per non infreddarti. [III,22,66] A me sembra che tu voglia partirtene a casa di qualcuno per essere foraggiato un po’ di tempo. Cosa c’è dunque tra te ed il mettere mano ad una faccenda così rilevante?

Il Cinico davanti al matrimonio ed alla paternità, in due città diverse (67-76)

[III,22,67] -Sposalizio e ragazzi, diceva il giovanotto, saranno assunti come cardinali dal Cinico?- Se mi darai, diceva Epitteto, una città di sapienti, probabilmente uno non giungerà facilmente a cinizzare. Giacché per chi si incaricherà di questo modo di tragittarsela? [III,22,68] Se ugualmente lo ipotizzeremo, nulla gli impedirà di sposarsi e fare figli giacché sua moglie sarà un’altra siffatta, il suocero un altro siffatto ed i bimbi saranno allevati così. [III,22,69] Ma essendo la condizione della città quale è ora, come di schieramento, non deve forse il Cinico essere senza distrazioni, intero per il ministero di Zeus, in grado di frequentare persone, non vincolato a doveri da persona comune né implicato in relazioni sociali violando le quali non salvaguarderà più il ruolo del virtuoso e serbando le quali manderà in malora il messaggero, l’esploratore ed araldo degli dei? [III,22,70] Giacché vedi che egli deve dimostrare certi servizi al suocero, esplicarne altri per gli altri congeneri della moglie e per la moglie stessa; orbene, si esclude così dal cinismo per curare ammalati, per provvedere loro. [III,22,71] Per tralasciare il resto, egli deve provvedere una cuccuma dove farà acqua calda per il bimbo, per fargli il bagno nella tinozza; della lana per la moglie che ha partorito; dell’olio, un graticcio, una tazza (e le suppellettili diventano già di più); per tralasciare, dicevo, gli altri impegni, le altre distrazioni. [III,22,72] Orbene, dove mi sarà quel re, colui che bada ai comuni interessi, *a cui son tante genti commesse e tante cure*, che deve sopravvedere gli altri, gli sposati, chi ha fatto dei figli, chi tratta bene la propria moglie e chi male, chi litiga, quale casa è stabile e quale no, andando in giro come un medico e toccando i polsi? [III,22,73] “Tu hai la febbre, tu hai mal di testa, tu hai la podagra; tu respingi il cibo, tu mangia, tu non fare bagni; tu devi essere operato, tu cauterizzato”. [III,22,74] Dov’è quest’agio per chi è avvinto a doveri da persona comune? Non deve provvedere delle toghette per i bimbi? Inviarli dal maestro di grammatica con tavolette e tabelline per scrivere ed avere pronto per loro un graticcio? Giacché non possono essere dei Cinici appena usciti dai visceri. Se no, i nati sarebbe meglio esporli che ucciderli così. [III,22,75] Considera dove riduciamo il Cinico, come lo priviamo del regno. [III,22,76] -Sì, ma Cratete si sposò- Tu mi dici di una circostanza nata dalla passione amorosa e poni una donna che era un altro Cratete. Noi invece stiamo ricercando su matrimoni comuni e di circostanza, e così cercando troviamo la faccenda, in questa condizione, non cardinale per il Cinico.

Il Cinico davanti alla socievolezza (77-82)

[III,22,77] -E come, dice il giovanotto, preserverà ancora la società?- Perdio, sono maggiori benefattori del genere umano coloro che introducono in loro vece due o tre laidi musi di marmocchi oppure quelli che fanno del loro meglio per sopravvedere tutte le persone: cosa fanno, come se la passano, di cosa sono solleciti, cosa trascurano contro il conveniente? [III,22,78] Quanti, morendo, lasciarono loro dei figlioli, giovarono ai Tebani più di Epaminonda che morì senza figlioli? E Priamo, che generò cinquanta lordure, o Danao od Eolo conferirono alla società più cose di Omero? [III,22,79] E poi una pretura o la composizione di un trattato terrà qualcuno in disparte dallo sposalizio o dalla paternità, e costui non reputerà di avere cambiato l’essere senza figlioli con nulla, ed il regno non sarà la degna contropartita del Cinico? [III,22,80] Forse non ci accorgiamo della sua grandezza e non ci rappresentiamo secondo merito il ruolo di Diogene, ma volgiamo lo sguardo ai Cinici di ora, a questi *cani della mensa, di guardia alle porte* i quali di lui nulla imitano se non proprio di diventare scorreggioni e nient’altro? [III,22,81] Dacché questi fatti non ci muoverebbero né trasaliremmo se non si sposerà o non farà dei figli. O uomo, il Cinico ha per figli tutte le persone, i maschi come figli, le femmine come figlie; e così va da tutti, tutti tutela. [III,22,82] O reputi che ingiuri chi gli viene incontro per indiscrezione? Lo fa da padre, da fratello e servitore del comune padre, di Zeus.

Il Cinico davanti a politica ed a politicheria (83-85)

[III,22,83] Se lo reputerai, cerca anche di sapere da me se si interesserà di politicheria. [III,22,84] Scodinzolone, cerchi una politica più grande di quella di cui si interessa? O un Cinico perverrà tra gli Ateniesi a parlare di entrate o rendite, lui che deve dialogare con tutte le persone, altrettanto con Ateniesi, altrettanto con Corinzi od altrettanto con Romani non su rendite né su entrate, né su pace o guerra ma su felicità ed infelicità, su buona e cattiva fortuna, su servitù e libertà? [III,22,85] Di un uomo che si interessa di una politica di tale rilievo, tu cerchi di sapere da me se si interesserà di politicheria? Cerca anche di sapere da me se occuperà cariche. Di nuovo ti dirò: stupido, quale carica è più grande di quella che occupa?

Le doti fisiche e la pulizia del Cinico (86-89)

[III,22,86] Un uomo siffatto ha tuttavia bisogno anche di un certo fisico. Dacché se avanzerà tisico, magro e pallido, la sua testimonianza non ha più simile palesamento. [III,22,87] Giacché egli deve non soltanto far riscontrare alla persona comune, sfoggiando le qualità dell’animo suo, che è fattibile essere virtuoso prescindendo da quanto essi ammirano, ma anche mostrare, attraverso il corpo, che un tenore di vita semplice, frugale ed all’aria aperta non guasta il corpo. [III,22,88] “Ecco, e di questo siamo testimoni io ed il mio corpo”. Come faceva Diogene: giacché andava in giro splendendo, ed il corpo stesso faceva voltare i più. [III,22,89] Se invece suscita commiserazione, il Cinico sembra un mendicante: tutti se ne distolgono, tutti se ne offendono. Neppure deve mostrarsi sozzo, così da far scappare di spavento la gente per questo; ma la sua stessa ispidezza deve essere pulita ed attraente.

La grazia naturale e l’acutezza di spirito del Cinico (90-92)

[III,22,90] Al Cinico deve anche essere congiunta molta grazia naturale ed acutezza (se no, diventa moccio e nient’altro) per potere prontamente e dappresso andare incontro agli accadimenti. [III,22,91] Come Diogene, a chi gli diceva “Tu sei quel Diogene che non crede esservi Dei?” “E come,” rispondeva, “legittimo te quale nemico personale degli dei?” [III,22,92] Di nuovo, ad Alessandro che gli stava accanto mentre era coricato e diceva *Tutta dormir la notte ad uom sconviensi di supremo consiglio*, ancora assonnato replicò *a cui son tante genti commesse e tante cure* .

La libertà di parola del Cinico (93-96)

[III,22,93] Ma prima di tutto l’egemonico del Cinico deve essere più puro del sole; se no, è necessariamente un giocatore d’azzardo ed un facilone chi, impigliato lui stesso in qualche vizio, rimprovererà gli altri. [III,22,94] Vedi, infatti, qual è il punto. Le guardie del corpo e le armi procuravano a questi re e tiranni, pur essendo essi cattivi, di poter rimproverare alcuni e castigare i criminali. Invece delle armi e delle guardie del corpo, la cognizione trasmette al Cinico questa potestà. [III,22,95] Qualora egli veda che ha vegliato sugli esseri umani ed ha faticato per loro; che si è coricato pulito e che il sonno lo lascia ancora più pulito; che quanto ha ponderato l’ha ponderato da amico degli dei, da servitore, da partecipe della signoria di Zeus; che ovunque gli è a portata di mano il *Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato* ed anche *Se così piace agli dei, così sia* ; [III,22,96] perché non avrà il coraggio della libertà di parola con i suoi amici, i figlioli, insomma i congeneri?

Il privilegio del Cinico (97-99)

[III,22,97] Per questo, chi è così disposto è né indiscreto né impiccione. Qualora infatti sopravveda le umane faccende, il Cinico non si impiccia di allotrio ma di fatti propri. Se no, chiama impiccione anche lo stratega, qualora sopravveda ed ispezioni i soldati, e stia in guardia e castighi chi è fuori posto. [III,22,98] Se, mentre tieni sotto l’ascella una focaccetta, rimprovererai altri ti dirò: non vuoi piuttosto partirtene in un angolino a divorare quel che hai rubato? [III,22,99] Che c’è fra te e faccende allotrie? Chi sei? Il toro sei, o l’ape regina? Mostrami i segni distintivi dell’imperio, quali essa ha di natura. Me se sei un pecchione che reclama il regno delle api, non reputi che i compari in affari cittadini abbatteranno te come le api i pecchioni?

La capacità di sopportazione del Cinico (100-102)

[III,22,100] Il Cinico deve poi avere cotanta capacità di tolleranza da sembrare ai più insensibile, di sasso. Nessuno lo ingiuria, nessuno lo percuote, nessuno lo oltraggia, ed egli ha dato il suo corpo da usare a chi vuole come decide. [III,22,101] Giacché si ricorda che di necessità il peggiore è vinto dal migliore, dove è peggiore, ed un corpo è peggiore di molti, il più debole dei più potenti. [III,22,102] Dunque il Cinico non scende mai in questa gara, dove può essere vinto; ma subito si ritrae dall’allotrio, non pretende quanto è servo. 

Il Cinico sa che non esistono ladri di proairesi (103-106)

[III,22,103] Dove invece sono proairesi ed uso delle rappresentazioni, là vedrai quanti occhi ha; tanto da farti dire che Argo, al suo confronto, era cieco. [III,22,104] Dove trovi in lui un assenso precipitoso, dove un impulso avventato, dove un desiderio fallito, dove un’avversione che incappa in quanto avversa, dove un progetto imperfetto, dove lagnanza, dove servilismo o invidia? [III,22,105] E’ qua la sua grande attenzione e sforzo; per il resto russa supino: pace completa. Un rapinatore di proairesi non c’è, non c’è tiranno di proairesi. [III,22,106] E del corpo? Sì. E di coserelle? Sì, ed anche di cariche ed onorificenze. Che gli importa di questo? Qualora dunque uno voglia incutergli paura per mezzo loro, il Cinico gli dice: “Va’, cerca dei bimbi; è a loro che le maschere fanno paura; io invece so che sono di terracotta, dal di dentro non c’è nulla”.

Dunque, giovanotto, il Cinismo non è affare per te. (107-109) 

[III,22,107] Su siffatta faccenda deliberi. Sicché se lo reputerai, perdio, posponila e vedi innanzitutto la tua preparazione. [III,22,108] Vedi cosa dice Ettore ad Andromaca: “Va’,” dice, “piuttosto a casa e tessi; alla guerra penseranno i maschi tutti ed io soprattutto”. [III,22,109] Così aveva consapevolezza della propria preparazione e dell’incapacità di lei.

CAPITOLO 23
A QUANTI LEGGONO E FANNO DISCORSI PER OSTENTAZIONE

Riconosci te stesso e diventa chi sei (1-3)

[III,23,1] Innanzitutto dì a te stesso chi disponi di essere e poi fa così quel che fai. Giacché anche in quasi tutti gli altri casi vediamo che accade così. [III,23,2] Coloro che si cimentano innanzitutto determinano chi vogliono essere e poi così fanno il seguito. Se fondista un cibo siffatto, siffatte camminate, siffatto massaggio, siffatto allenamento. Se scattista, tutto questo è diverso. Se pentatleta, ancora più diverso. [III,23,3] Troverai che è così anche nelle arti. Se falegname, avrai opere siffatte; se fabbro, siffatte. Giacché se a nulla riferiremo ciascuna delle nostre attività, la faremo a casaccio; e se la riferiremo a ciò cui non deve essere riferita, la faremo rovinosamente. 

I modelli di riferimento sono indispensabili (4-7)

[III,23,4] Orbene vi sono un riferimento comune ed uno peculiare. Il primo affinché io agisca da uomo. Cosa include questo? Non a casaccio, non con un’acquiescenza da pecora e non con una dannosità da belva. [III,23,5] Il peculiare è riferito al mestiere di ciascuno ed alla proairesi, ossia il citaredo da citaredo, il falegname da falegname, il filosofo da filosofo, l’oratore da oratore. [III,23,6] Qualora dunque tu dica: “Venite qui ad ascoltarmi leggere per voi” analizza innanzitutto di non farlo a casaccio. E se poi troverai che lo riferisci a qualcosa, analizza se è a ciò cui deve essere riferito. [III,23,7] Vuoi giovare od essere lodato? Subito senti chi dice: “Ma che cosa conta per me la lode della gente?”, e dice bene. Giacché essa neppure conta per il musicista in quanto musicista, né per lo studioso di geometria. 

Si può mai essere di giovamento ad altri senza esserlo prima stati a sé ? (8)

[III,23,8] Dunque vuoi giovare? A cosa? Dillo anche a noi, affinché anche noi corriamo alla tua sala di audizioni. Ora, può uno giovare ad altri se non ha giovato a se stesso? No. Giacché non lo è per l’arte della falegnameria chi non è falegname, né per l’arte della calzoleria chi non è calzolaio.

Dione Crisostomo: un modello di conferenziere insipiente (9-14)

[III,23,9] Vuoi dunque riconoscere se ti sei giovato? Porta i tuoi giudizi, o filosofo! Qual è la professione di un desiderio? Non fallire. Quale di un’avversione? Non incappare in quanto avversa. [III,23,10] Orsù, adempiamo quanto professano? Dimmi la verità. Se mentirai ti dirò: “L’altro giorno, essendosi i tuoi uditori riuniti un po’ freddamente e non avendoti acclamato, uscisti con la proairesi serva; [III,23,11] l’altro giorno, lodato, te ne andavi in giro dicendo a tutti ‘Cosa ti sono sembrato?’ ‘Stupefacente, signore, te lo giuro’ ‘Come dissi quel passaggio?’ ‘Quale?’ ‘Dove descrissi Pan e le Ninfe’ ‘Soprannaturalmente’ “. [III,23,12] E poi mi dici che ti conduci secondo la natura delle cose nel desiderio e nell’avversione? Va’ a persuadere un altro. [III,23,13] E l’altro giorno non lodavi il tale contro il tuo parere? Non adulavi il tale, il senatore? Vorresti che siffatti fossero i tuoi bimbi? -Non sia mai!- [III,23,14] -Perché dunque lo lodavi e circondavi di parole?- -E’ un giovanotto purosangue ed atto ad ascoltare discorsi- -Donde questo?- -Mi ammira- -Hai detto la dimostrazione-.

Disprezzato, in cuor loro, dai suoi uditori (15-18)

[III,23,15] E poi che reputi? Proprio costoro non ti spregiano a tua insaputa? Qualora un individuo che ha cognizione di non avere fatto né rimuginato nulla di buono, trovi un filosofo che dice “Gran temperamento, schietto ed integerrimo”; ebbene reputi che si dica altro da: “Costui ha un qualche bisogno di me”? [III,23,16] Oppure dimmi quale opera di gran temperamento ha sfoggiato di saper fare. Ecco, è con te da tanto tempo, ti ha ascoltato fare discorsi, ti ha ascoltato leggere. Ma si è calmato, si è impensierito di se stesso? Si è accorto in quali cattive acque è? Ha buttato via la presunzione? Cerca un insegnante? [III,23,17] – Cerca, dice- Chi gli insegnerà come si deve vivere? No, stupido. Ma come si deve esprimere: giacché per questo ammira te. Ascoltalo, cosa dice. “Questa persona scrive in modo artisticissimo, molto meglio di Dione”. [III,23,18] La faccenda è interamente altra. Dice forse: “L’uomo è un essere rispettoso di sé e degli altri; costui è leale; costui sa dominare lo sconcerto”? E se anche lo dicesse, gli avrei detto: “Siccome costui è leale, quest’essere leale cos’è?” E se non avesse che dire avrei addizionato: “Innanzitutto impara cosa dici e poi dillo”.

Che bada soltanto alla “audience” ed allo “share” (19-23)

[III,23,19] Dunque così mal disposto e stando a bocca aperta circa chi ti loderà e numerando quelli che ti ascoltano vuoi giovare ad altri? “Oggi mi ascoltarono molti di più”. “Sì, molti”. “Reputiamo cinquecento”. “Dici niente: ponili mille”. “Mai cotanti ascoltarono Dione”. “E donde cotanti per lui?” “E si accorgono con raffinatezza dei ragionamenti”. “Il meraviglioso, signore, può muovere anche un sasso”. [III,23,20] Ecco gli accenti di un filosofo, ecco la disposizione di chi gioverà agli uomini. Ecco un uomo che ha ascoltato la ragione, che ha letto gli scritti Socratici come Socratici e non come fossero di Lisia o di Isocrate. “Spesso ammirai con quali mai ragionamenti…” No: dì piuttosto “…con qual mai ragionamento…”; questo è più scorrevole di quello. [III,23,21] Giacché li avete forse letti altrimenti da come si leggono canzonette? Se davvero li leggeste come si deve, non sareste arrivati a questo ma scorgereste piuttosto: “Anito e Meleto possono farmi uccidere ma non danneggiare”; e: “Giacché io sempre sono tale da non fare attenzione ad altra mia facoltà che alla ragione, ed alla ragione che mi appaia ottima dopo attenta considerazione”. [III,23,22] Per questo chi udì mai Socrate dire: “So qualcosa e lo insegno”? Ma mandava chi là e chi altrove. Perciò appunto venivano da lui a sollecitarlo di essere raccomandati a dei filosofi e Socrate ve li menava e li raccomandava. [III,23,23] No, ma faceva avvertire dicendo: “Oggi ascoltami fare un discorso in casa di Quadrato”.

E cerca elogi (23-26)

Perché ascoltarti? Vuoi dimostrarmi che componi elegantemente i nomi? Li componi, o uomo. E che bene te ne viene? “Ma, lodami!” [III,23,24] Che cosa intendi per “lodare”? “Dimmi ‘Uah!’ e ‘Stupefacente!’“ Ecco, lo dico. Se poi la lode è qualcosa che rientra nella categoria del bene, come dicono a volte i filosofi, cos’ho da lodarti? Se l’esprimersi correttamente a parole è un bene, insegnamelo e ti loderò. [III,23,25] E dunque? Si devono ascoltare con spiacevolezza siffatte persone? Non sia mai! Io non ascolto spiacevolmente neppure un citaredo, ma forse per questo devo stare ritto a cantare suonando la cetra? Ascolta cosa dice Socrate: “Giacché non si confarebbe, o uomini, a questa età venire davanti a voi plasmando discorsi come un adolescente”. “Come un adolescente”, dice. [III,23,26] Giacché è effettivamente elegante la piccola arte di selezionare nomignoli e comporli e pervenire a leggerli o dirli da purosangue e mentre si legge esclamare: “Questi non molti possono comprenderli, ve lo giuro!”

Il filosofo non fa comizi (27-29)

[III,23,27] -Un filosofo invita ad una pubblica lettura?- Non è vero che come il sole conduce lui a se stesso il cibo, così anche il filosofo conduce lui a se stesso coloro che si gioveranno di lui? Quale medico prega affinché uno si faccia curare da lui? Eppure sento dire che ora a Roma anche i medici pregano: ai miei tempi invece erano essi pregati di curare. [III,23,28] “Ti invito a venire da me per sentirti dire che stai male, che di tutto sei sollecito fuorché di ciò di cui devi avere sollecitudine, che ignori i beni ed i mali, che sei infelice e preda di cattiva fortuna”. Invito grazioso! Eppure se il discorso del filosofo non infonderà questo, cadaverico è il discorso e chi lo fa. [III,23,29] Rufo era solito dire: “Se avete comodità di lodarmi, allora io non sto dicendo nulla”. Perciò appunto parlava in modo che ciascuno di noi, lì seduto, credeva di essergli stato reso inviso da qualcuno: a tal punto toccava gli avvenimenti; a tal punto poneva davanti agli occhi di ciascuno i suoi mali. 

La scuola del filosofo è come lo studio di un medico (30-32)

[III,23,30] La scuola del filosofo, o uomini, è uno studio medico: si deve uscirne non dopo avere goduto ma dopo avere penato. Giacché non ci venite sani ma chi con una spalla slogata, chi con un ascesso, chi con una fistola, chi con il mal di testa. [III,23,31] E poi io mi siedo e vi dico pensierini e mottetti arguti affinché, dopo avermi lodato, ve ne usciate chi portando fuori la spalla tal quale la portò dentro, chi con la testa allo stesso modo, chi con la fistola, chi con l’ascesso? [III,23,32] E’ per questo che persone più giovani di te debbono mettersi in viaggio abbandonando i loro genitori, gli amici, i congeneri e le loro coserelle; è per dirti “Uah!” mentre dici mottetti arguti? Questo faceva Socrate, questo Zenone, questo Cleante?

Lo stile di Dione Crisostomo è né protrettico né confutatorio né didascalico bensì “per ostentazione” (33-38)

[III,23,33] -E dunque? Non esiste lo stile protrettico?- Chi dice di no? Come il contestatorio, come il didascalico. Chi dunque parla qualche volta, oltre questi, di un quarto stile: lo stile “per ostentazione”? [III,23,34] Qual è infatti lo stile protrettico? Poter mostrare ad uno solo ed a molti la contraddizione in cui si rotolano, e che di tutto si preoccupano piuttosto che di quanto dispongono. Essi vogliono infatti quanto porta alla felicità, ma lo cercano altrove da dov’è. [III,23,35] Perché questo accada devono essere poste mille sedie, invitati i futuri ascoltatori, tu -con un abitino elegante od un mantellino – salire su di un palco per descrivere come morì Achille? Per gli dei, cessate di svergognare, per quanto sta in voi, magnifici nomi e magnifiche faccende. [III,23,36] Niente è più protrettico che qualora chi parla palesi agli ascoltatori che ha bisogno di loro. [III,23,37] Oppure dimmi chi, ascoltandoti leggere o fare un discorso, fu in ansia su di sé o si impensierì su se stesso o uscendo disse: “Il filosofo mi toccò bene: non devo più fare queste cose”. [III,23,38] No, ma se avrai molti applausi dice a qualcuno “Con che eleganza espresse le vicende di Serse!”, ed un altro: “No, la battaglia delle Termopili!”. E’ questo la pubblica lettura di un filosofo?

CAPITOLO 24
SUL NON DOVERCI STRUGGERE PER QUANTO NON E’ IN NOSTRO ESCLUSIVO POTERE

Le afflizioni degli altri mi sono estranee; mi interessano i loro giudizi (1-8)

[III,24,1] L’opera di un altro contro la natura delle cose non diventi un male per te. Giacché tu non sei nato per farti serva la proairesi né per avere sfortuna in compagnia ma per avervi fortuna. [III,24,2] Se uno sarà sfortunato, ricorda che è sfortunato per se stesso. Giacché la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, fece tutti gli uomini perché fossero felici, perché fossero stabili. [III,24,3] E per questo diede delle risorse, dando a ciascuno il peculiare e l’allotrio. Quanto è soggetto ad impedimenti, ad essere sottratto e costretto non è peculiare; peculiare è invece quanto non è soggetto ad impedimenti. La sostanza del bene e del male, com’era degno di chi ci tutela e regge paternamente, è nel peculiare. [III,24,4] “Ma mi sono ritirato dal tale e lui se ne duole”. E perché ritenne peculiare l’allotrio? Perché quando si rallegrava scorgendoti, non calcolava che sei mortale, che puoi metterti in viaggio? Perciò appunto paga il fio della sua propria stupidità. [III,24,5] E tu in cambio di che cosa lo fai? Perché ti singhiozzi addosso? O neppure tu studiasti queste faccende, ma come quelle femminette che non valgono nulla, stavi con tutto ciò di cui ti rallegravi come se avessi potuto starci per sempre: i posti, le persone, i trastulli? Ed ora ti siedi a singhiozzare perché non scorgi le medesime persone e non ti trastulli nei medesimi luoghi ? [III,24,6] Giacché questo meriti, di essere più meschino dei corvi e delle cornacchie che han potestà di spiccare il volo dove vogliono, edificare i nidi altrove, trapassare pelaghi senza gemere né bramare i primi. [III,24,7] -Sì, ma lo sperimentano perché sono sprovvisti di ragione- Dunque dagli dei ci è stata data una ragione di sfortuna ed infelicità, affinché siamo dei meschini e piangiamo di continuo? [III,24,8] O vuoi che tutti siano immortali, che nessuno si metta in viaggio ma che rimaniamo inradicati come vegetali? Se poi qualcuno degli intimi si metterà in viaggio, che sediamo a singhiozzare e, se verrà di nuovo, che balliamo ed applaudiamo come i bimbi?

Il cosmo è un’unica sostanza ed un’unica polis (9-12)

[III,24,9] Non ci svezzeremo ormai e non ci ricorderemo di quel che sentimmo dire dai filosofi? [III,24,10] Se proprio non lo ascoltavamo come dei ritornelli, che questo ordine del mondo è una città sola, che la sostanza da cui è stato fabbricato è una sola, che ci deve necessariamente essere un ciclo regolare ed un dar spazio gli uni agli altri; che alcune cose devono necessariamente dissolversi, altre sopravvenire, altre rimanere al medesimo posto, altre muoversi? [III,24,11] Tutto è pieno di presenze amiche, innanzitutto di dei e poi di uomini, imparentati per natura gli uni agli altri. E bisogna che alcuni presenzino gli uni agli altri, che altri si allontanino e che noi ci rallegriamo con chi sta e non ci adontiamo con chi si allontana. [III,24,12] L’uomo, oltre ad essere per natura disinteressato e spregiativo di tutto ciò che è aproairetico, ha avuto anche di non essere radicato né abbarbicato a terra, bensì di sospingersi da un posto all’altro, a volte per certi bisogni urgenti, a volte anche per la veduta in sé.

La polis di Ulisse ed Ercole, la polis dove gli uomini sanno che chi è infelice è un vizioso e che nessun uomo virtuoso ha mai cattiva fortuna (13-21)

[III,24,13] Ed era qualcosa di siffatto quel che avvenne ad Odisseo: *di molti uomini vide le rocche e la mente conobbe* ; ed ancor pria era toccato ad Eracle di andare in giro per l’intera terra abitata: * per vedere la prepotenza e l’osservanza delle leggi degli uomini*, espellendo la prima e ripulendone il mondo, mentre al suo posto vi introduceva la seconda. [III,24,14] Eppure quanti amici credi ebbe a Tebe, quanti ad Atene e quanti ne acquisì andando in giro per il mondo, lui che si sposava quando gli pareva tempo, faceva dei figli, abbandonava i ragazzi senza gemere né bramare né lasciarli come orfani? [III,24,15] Giacché sapeva che nessun uomo è orfano, ma che di tutti sempre e continuamente v’è il padre che tutela. [III,24,16] Che Zeus è padre degli uomini, non lo aveva sentito soltanto a parole, lui che lo credeva e chiamava proprio padre e che effettuava quel che effettuava tenendo gli occhi sopra di lui. Appunto perciò aveva la potestà di passarsela felicemente ovunque. [III,24,17] Invece non è mai possibile che vengano insieme felicità e brama di quanto non è presente. L’essere felice deve infatti avere tutto quel che dispone, somigliare ad uno sazio: non deve essergli congiunta sete, non fame. [III,24,18] -Ma Odisseo soffriva per la moglie e singhiozzava immobile su uno scoglio- Ma tu, per ogni cosa fai attenzione ad Omero ed alle sue storielle? Se davvero singhiozzava, che altro aveva se non cattiva fortuna? E quale uomo virtuoso ha cattiva fortuna? [III,24,19] L’intero è effettivamente mal governato se Zeus non è sollecito dei propri cittadini, così che siano simili a lui: felici. Ma è contrario alle leggi umane ed è sacrilego rimuginare questi pensieri ed Odisseo, [III,24,20] se singhiozzava e si rammaricava, non era un uomo dabbene. Giacché chi è dabbene se non sa chi è? E chi lo sa, se ha dimenticato che quanto nasce è perituro e che è impossibile per una persona stare sempre con un’altra? [III,24,21] E dunque? Prendere di mira l’impossibile è da schiavi, è sciocco, da straniero che combatte la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, come soltanto è possibile, con i propri giudizi. 

Non mi interessa l’infelicità, non mi interessano i vizi altrui; mi interessa capire l’errore che li ha generati (22-30)

[III,24,22] -Ma mia madre geme non vedendomi- E perché non imparò queste ragioni? Non dico che non si debba esser solleciti che ella non mugugni, bensì che non si deve volere ad ogni costo l’allotrio. [III,24,23] L’afflizione di un altro è cosa allotria, la mia è mia. Io dunque farò cessare ad ogni costo la mia, giacché questo è in mio esclusivo potere. L’allotrio proverò al mio meglio, ma non proverò ad ogni costo. [III,24,24] Se no, combatterò contro la Materia Immortale, ovvero contro la Pronoia, mi contrapporrò a Zeus, mi opporrò a lui riguardo all’intero. E la mercede di questa battaglia alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia, e di questa disobbedienza non la sborseranno “i figli dei figli” ma io in persona, di notte sobbalzando tra le visioni in sogno e di giorno, preda dello sconcerto, tremante dinanzi ad ogni annuncio, con il mio dominio delle passioni dipendente da missive scritte da altri. [III,24,25] Ne è giunta una da Roma. “Solo non sia qualche male!” Ma che male ti può avvenire là dove non sei? Ne è giunta una dalla Grecia. “Solo non sia qualche male!” Così qualunque posto può essere per te causativo di cattiva fortuna. [III,24,26] Non è sufficiente che tu sia sfortunato là dove sei; devi esserlo anche oltremare e per lettera? Le tue faccende sono sicure così? [III,24,27] -E dunque, se moriranno gli amici di là?- Che altro sarà se non che morirono dei mortali? Ma come, vuoi invecchiare ed insieme non vedere la morte di qualcuno di coloro per cui hai affetto? [III,24,28] Non sai che, nel tempo lungo, è necessario succedano molti e svariati avvenimenti: che la febbre deve avere la meglio su uno, un rapinatore su di un altro, un tiranno su un altro ancora? [III,24,29] Siffatto è il contesto, siffatti i sodali. Freddi e calure, cibi non ben regolati, viaggi per terra e per mare, venti e svariate circostanze uno lo fanno andare in malora, un altro confinare, un altro sbattere in un’ambasceria, un altro in una campagna militare. [III,24,30] Siediti quindi in fibrillazione per tutto questo, piangente, sfortunato, preda della cattiva sorte, dipendente da altro, anzi non da una sola cosa, non da due, ma da miriadi sopra miriadi.

Tu hai un posto sulla nave; tu hai un posto accanto a Socrate oplita (31-37)

[III,24,31] Questo sentivi dire dai filosofi, questo imparasti? Non sai che questa roba è una campagna militare? Che uno deve stare in guardia, un altro andare via per esplorare, un altro per fare guerra? Non è possibile né è meglio che tutti abbiano lo stesso ruolo. [III,24,32] Tu invece, dopo avere tralasciato di eseguire le ingiunzioni dello stratega, lo incolpi qualora ti sia ingiunto qualcosa in modo più rude, e non comprendi quale esercito, quanto a te, esibisci; e che se tutti ti imiteranno nessuno zapperà una trincea, precingerà d’una palizzata, veglierà, correrà pericoli, ma sembrerà improficuo per una campagna militare. [III,24,33] Di nuovo, se navigherai su un bastimento come marinaio, rattieni un solo rango e continua ad occuparlo. Se però bisognerà salire sull’albero maestro, non volere; se bisognerà accorrere a prua, non volere. E quale pilota ti tollererà? Non ti espellerà come una suppellettile improficua, un intralcio e null’altro, un cattivo paradigma per gli altri marinai? [III,24,34] Così anche qua. La vita di ciascuno è una campagna militare lunga e variata. Tu devi serbare il ruolo di soldato ed al cenno dello stratega effettuare ciascuna operazione [III,24,35] divinando, se possibile, quanto dispone. Giacché quello stratega e questo non sono simili né per potenza né per eccellenza di carattere. [III,24,36] Sei stato posizionato in una città imperiale e non in qualche rango miserabile, non annuale ma di senatore a vita. Non sai che uno siffatto deve dedicare poco tempo alla amministrazione dei suoi affari privati ed invece il più delle volte mettersi in viaggio per comandare od essere comandato, per servire in qualche carica o militare o di giustizia? E poi mi vuoi esser stato aggangherato ai medesimi posti ed inradicato come un vegetale? [III,24,37] -Ma è piacevole!- E chi dice di no? Anche una zuppa è piacevole, anche una magnifica femmina è piacevole. Che altro dicono coloro che fanno del piacere fisico un fine?

La giornata di un epicureo (38-39)

[III,24,38] Non ti accorgi di quali individui ti lasciasti scappare la voce? Che è quella di Epicurei e cinedi? E poi effettuando le loro opere ed avendone i giudizi, ci dici i discorsi di Zenone e di Socrate? [III,24,39] Non scaraventerai via, il più lontano possibile, l’allotrio di cui ti adorni senza che ti convenga? Che altro vuole quella gente se non dormire senza impacci e costrizioni, alzarsi, sbadigliare quietamente, sciacquarsi il viso e poi scrivere e leggere quel che vogliono, poi chiacchierare di qualcosa tra amici che lodano qualunque cosa diranno, e poi avanzare per un passeggio e dopo avere passeggiato un poco fare un bagno caldo, poi mangiare, poi coricarsi; e quale andare a letto per gente siffatta è verosimile -perché lo si direbbe?-giacché si ha la potestà di arguirlo.

Se ti arroghi il titolo di Stoico senza avere rettificato a dovere i tuoi giudizi, non vedi quale tremenda punizione stai già scontando? (40-41)

[III,24,40] Orsù, portami anche tu il tuo trastullo, quello che brami, o emulo della verità e di Socrate e di Diogene! Cosa vuoi fare ad Atene? Queste medesime cose. Forse le altre? [III,24,41] Perché dunque dici di essere Stoico? E poi, quanti fanno dichiarazioni menzognere di cittadinanza Romana sono amaramente castigati ed invece devono allontanarsi immuni quanti fanno dichiarazioni false su una faccenda ed un nome così grande e solenne? 

Chi si lamenta è perduto (42-43)

[III,24,42] Questo non è proprio possibile, ma la legge divina, potente, ineluttabile è questa che si fa pagare i massimi castighi da coloro che massimamente aberrano. [III,24,43] Che cosa dice, infatti? “Chi si arroga quanto non è per lui, sia un cialtrone, sia un vanaglorioso. Chi disubbidisce al divino governo, sia servo nell’animo, sia servo, si affligga, invidi, provi pietà e, punto capitale, abbia cattiva fortuna e si lamenti”. 

Stoico è colui che conosce i limiti delle cose e quindi sa conservarsi uomo in ogni circostanza (44-49)

[III,24,44] -E dunque? Vuoi che accudisca il tale? Che proceda alle sue porte?- Se la ragione lo sceglie in favore della patria, dei congeneri, degli amici, perché non partire? Non ti vergogni di procedere dal calzolaio qualora tu abbia bisogno di calzari, né dall’ortolano qualora abbia bisogno di lattughe, e ti vergogni di procedere alle porte dei ricchi di denaro qualora abbia bisogno di qualcosa di simile? [III,24,45] -Sì, giacché non ammiro il calzolaio- E neppure il ricco di denaro. -Neppure adulo l’ortolano- E neppure il ricco di denaro. [III,24,46] -Dunque come centrare ciò di cui ho bisogno?- Ma, ti dico io: “Parti con la certezza di centrare?” Non è soltanto per effettuare quanto ti si confà? [III,24,47] -Perché dunque procedervi ancora?- Per partire, affinché tu abbia esplicato l’opera tua di cittadino, di fratello, di amico. [III,24,48] Orbene ricorda che ti recherai da un calzolaio, da un verduriere, da uno che non ha potestà su qualcosa di grande o di solenne, anche se lo venderà a molto. Come parti per dei cespi di lattuga, che valgono un obolo, non un talento; [III,24,49] così è anche qui. La faccenda merita che si venga alle porte di qualcuno. E sia: mi ci recherò. Così pure che si dialoghi. E sia: dialogherò con lui. Ma si deve anche baciare la mano e lusingare con lodi. Suvvia! Questo vale un talento. Non è vantaggioso per me, né per la città né per gli amici, mandare in malora un buon cittadino ed amico. 

Se la virtù non basta a se stessa, che virtù è? (50-53)

[III,24,50] -Ma sembrerai non averlo fatto con foga, se non concludi niente!- Di nuovo dimenticasti perché sei venuto? Non sai che l’uomo virtuoso nulla fa per il sembrare bensì per l’averlo effettuato bene? [III,24,51] -Che pro a lui dell’effettuare cose belle?- E che pro a chi scrive il nome “Dione” com’è d’uopo scriverlo? Lo stesso scriverlo. -Dunque nessuna ricompensa?- Tu cerchi per l’uomo dabbene una ricompensa maggiore dell’effettuare cose belle e giuste? [III,24,52] Ad Olimpia nessuno cerca altro, e tu reputi che basti l’essere stato incoronato alle Olimpiadi. Essere virtuoso e felice ti pare dunque cosa così piccola e di nessun valore? [III,24,53] Per questo introdotto dagli dei in questa città, quando sei ormai tenuto ad accostarti ad opere da uomo, brami balie e mamma ed i singhiozzi di stupide femminette ti piegano e femminizzano? Così non cesserai mai di essere un infante. Non sai che chiagisce da bimbo è tanto più ridicolo quanto più è anziano? 

Tu sei i tuoi giudizi (54-57)

[III,24,54] Ad Atene, non vedevi nessuno quando bazzicavi in casa sua? –Vedevo chi decidevo- Anche qua: disponi di vedere costui e vedrai chi decidi. Solo non servilmente, non con desiderio od avversione, e quanto è tuo starà bene. [III,24,55] Questo, non è nel venire né nello stare davanti alle porte, ma è all’interno di te, nei tuoi giudizi. [III,24,56] Qualora tu abbia deprezzato gli oggetti esterni ed aproairetici e nulla di essi ritenuto tuo, tuoi invece soltanto il determinare da virtuoso, il concepire, l’impellere, il desiderare, l’avversare; dove c’è ancora posto per l’adulazione, dove per la servilità? [III,24,57] Perché brami ancora la quiete di laggiù, i luoghi consueti? Aspetta brevemente e di nuovo avrai questi come luoghi consueti. Se poi sarai così ignobile, singhiozza e gemi anche se ti allontani da questi.

Se togli valore di bene o male a ciò che è aproairetico perché ne trai la conseguenza che non potrai più mostrare sentimenti? (58-59)

[III,24,58] -Come essere, dunque, affettuoso?- Da generoso, da fortunato. Giacché la ragione non sceglierà mai che tu sia servo nell’animo né di svigorirti né che penzoli da un altro né che biasimi dio od uomo. [III,24,59] Siimi affettuoso così, con l’intenzione di serbare questo. Se invece a causa di questa affettuosità, qualunque cosa sia quel che chiami affettuosità, stai per essere servo e meschino, non è vantaggioso che tu sia affettuoso. 

Socrate non amava i suoi figli? (60-63)

[III,24,60] Cosa impedisce di amare qualcuno come un essere mortale, come uno che può mettersi in viaggio? Socrate non amava i suoi ragazzi? Ma da uomo libero, come chi ricorda che innanzitutto si deve essere amico di dei. [III,24,61] Per questo nulla violò di quanto si confà ad un uomo dabbene né parlando in sua difesa né proponendo la sanzione né, ancora antecedentemente, facendo parte del Consiglio o partecipando alle campagne militari. [III,24,62] Noi prosperiamo d’ogni sorta di pretesti per essere ignobili, alcuni accampando i figli, altri la madre, altri ancora i fratelli. [III,24,63] Invece a causa di nessuno ci conviene avere cattiva fortuna bensì buona fortuna a causa di tutti, soprattutto della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, che per questo ci ha strutturato.

E Diogene non amava nessuno? (64-66)

[III,24,64] Orsù, Diogene non amava nessuno? Lui che era così mansueto e filantropo da farsi allegramente carico di tante fatiche e disgrazie fisiche in favore della comune umanità? Ma amava come? [III,24,65] Come dovrebbe un ministro di Zeus, che tutela gli uomini ed insieme è subordinato alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia. [III,24,66] Per questo per lui soltanto ogni terra era patria, e non una terra particolare. Quando fu catturato non bramava Atene né gli intimi e gli amici di laggiù, ma divenne intimo proprio dei pirati e provava a rettificarli. Smerciato successivamente a Corinto, se la passava come antecedentemente ad Atene, e starebbe allo stesso modo anche se partisse verso i Perrebi. 

Antistene e Diogene: così nasce la libertà (67-77)

[III,24,67] Così nasce la libertà. Per questo Diogene diceva: “Da quando Antistene mi liberò, non fui mai più servo”. [III,24,68] E come lo liberò? Ascolta cosa dice: “Mi insegnò il mio ed il non mio. Il patrimonio non è mio; congeneri, familiari, amici, fama, posti consueti, trastulli: che tutto questo è allotrio. [III,24,69] ‘Cos’è dunque tuo? L’uso delle rappresentazioni’. Mi mostrò che quest’uso io l’ho non soggetto ad impedimenti, non soggetto a costrizioni; che nessuno può intralciarmi, nessuno violentarmi ad usare le rappresentazioni altrimenti da come dispongo io. [III,24,70] Chi dunque ha ancora potestà su di me? Filippo od Alessandro o Perdicca od il Gran Re? Donde verrebbe loro? Giacché chi sta per essere sconfitto da un essere umano, prioritariamente deve essere sconfitto dalle cose”. [III,24,71] Colui dunque su cui non hanno la meglio il piacere fisico, il dolore, la reputazione, la ricchezza di denaro e che può, qualora lo reputi, partire dopo avere sputato contro qualcuno l’intero corpo, ebbene costui di chi è ancora servo, a chi è stato subordinato? [III,24,72] Se Diogene se la passasse piacevolmente in Atene e fosse sconfitto da questo trastullo, le sue faccende sarebbero in potere di chiunque, ed il più potente sarebbe signore di affliggerlo. [III,24,73] Come reputi che avrebbe adulato i pirati perché lo vendessero ad un Ateniese, così da vedere il magnifico Pireo, le lunghe mura e l’Acropoli? [III,24,74] Vederle essendo tu chi, schiavo? [III,24,75] Un servo ed un servo nell’animo! E che pro per te? -No, ma libero- Mostrami, libero come. Ecco un tale qualunque ti ha abbrancato, ti sloggia dai tuoi consueti trastulli e dice: “Sei mio servo, giacché è in mio esclusivo potere impedirti di passartela come vuoi; in mio potere placarti, asservirti la proairesi. E qualora io voglia, di nuovo far sì che tu ti allieti e proceda sollevato verso Atene”. [III,24,76] Cosa dici a costui che ti riduce in servitù? Quale emancipatore gli dai? O neanche lo guardi in faccia ma, tralasciati i molti discorsi, lo supplichi di lasciarti perdere? [III,24,77] O uomo, tu te ne devi andare in prigione rallegrandoti, con celerità, prevenendo quanti ti ci menano. E poi ti periti a passartela a Roma e mi brami la Grecia? Ma qualora debba morire, anche allora sei per singhiozzarci davanti disperato, perché stai per non scorgere più Atene e non passeggerai nel Liceo?

Cosa sei venuto a fare a Nicopoli? Ad imparare sillogismi? (78-80)

[III,24,78] Per questo ti mettesti in viaggio? Per questo cercasti di conferire con qualcuno affinché ti giovasse? Quale giovamento? Per risolvere sillogismi più abitualmente o perlustrare ragionamenti ipotetici? E per questa cagione abbandonasti fratello, patria, amici, domestici? Per ritornare dopo avere imparato questo? [III,24,79] Sicché non ti eri messo in viaggio per la stabilità di giudizio, per il dominio sullo sconcerto; non, divenuto indenne, per non biasimare più nessuno, non incolpare nessuno, perché nessuno commetta ingiustizia contro di te e così tu salvaguardi senza impacci le relazioni sociali? [III,24,80] Magnifica questa mercanzia che ti apparecchiasti! Sillogismi, ragionamenti equivoci, ragionamenti ipotetici. Se ti parrà, siediti in piazza e mettiti un’insegna davanti, come i farmacisti. 

Cosa vivi a fare? Per l’affettuosità? (81-83)

[III,24,81] Non negherai di sapere anche quanto hai imparato, per non calunniare come improficui i principi generali della filosofia? Che male ti fece la filosofia? Che ingiustizia commise contro di te Crisippo perché di fatto tu confuti come improficue le sue fatiche? Non ti bastavano i mali di laggiù, quanti causativi avevi per affliggerti e piangere anche se non ti fossi messo in viaggio? Dovevi aggiungerne di più? [III,24,82] Se avrai di nuovo altri intimi ed amici, se ti struggerai per un altro territorio, avrai più causativi per mugugnare. Perché dunque vivi? Per precingerti di afflizioni una dopo l’altra, grazie alle quali essere sfortunato? [III,24,83] E poi mi chiami questo affettuosità? Quale, o uomo, affettuosità? Se l’affettuosità è un bene, non diventa causativa di alcun male. Se è un male, nulla vi è tra me ed essa. Io sono nato per i miei beni, non sono nato per i mali.

Non abbandonarti ad immaginazioni insensate né a sogni di immortalità (84-87)

[III,24,84] Qual è dunque l’esercizio pratico per questo? Innanzitutto il superiore e dominante e subito come ai portali, qualora ti strugga per qualcosa, è di dirti che si tratta di nulla di intoglibile ma di qualcosa del genere di una pentola, di una tazza di vetro, affinché qualora si rompa, ricordandolo, tu non ne sia sconcertato. [III,24,85] Così anche qua. Se bacerai il tuo bimbo, un fratello, un amico, non darti appieno alla rappresentazione e non permettere che l’effusione gioiosa avanzi quant’essa vuole ma tirala indietro, impediscila come quelli che stanno a tergo dei condottieri in trionfo e richiamano alla loro memoria che sono esseri umani. [III,24,86] Anche tu, richiamati alla memoria qualcosa di siffatto, che ami un mortale, non ami nulla di tuo. Per il presente ti è dato, non intoglibile né appieno, ma come un fico, un grappolo d’uva nella posizionata stagione dell’anno. Se lo bramerai d’inverno, sei uno stupido. [III,24,87] Così pure se bramerai il figlio o l’amico quando non ti è dato, sappi che brami un fico d’inverno. Giacché quel che l’inverno è per un fico, tale è ogni circostanza che nasce dall’intero nei confronti di quanto, in accordo con essa, viene levato di mezzo.

Tieniti saldo ai retti giudizi, che sono gli unici a giovare; e non temere di pronunciare le parole che esprimono la realtà dei fatti (88-92)

[III,24,88] Orbene, nel momento stesso in cui ti rallegri di qualcosa, mettiti davanti le rappresentazioni opposte. Mentre baci il tuo bimbo, che male c’è a dire balbettando: “Domani morirai”? Allo stesso modo, ad un amico: “Domani ti metterai in viaggio tu, od io; e non ci vedremo più l’un l’altro”? [III,24,89] -Ma queste sono parole malauguranti!”- Anche taluni ritornelli lo sono ma poiché giovano non mi impensierisco, che soltanto giovino! Tu chiami malaugurante altro da quanto significa qualche male? [III,24,90] Malaugurante è viltà; malaugurante è ignobiltà, lutto, afflizione, sfacciataggine: questi sono i nomi malauguranti. Eppure non bisogna peritarsi a pronunciare proprio questi nomi a prigione delle faccende. [III,24,91] Tu mi dici di malaugurio una parola che significa qualche faccenda naturale? Dì che è di malaugurio anche la mietitura delle spighe, giacché significa perdita delle spighe. Ma non dell’ordine del mondo. Dì che è di malaugurio anche la perdita delle foglie, il diventare secco di un fico fresco ed uva passa di un grappolo d’uva. [III,24,92] Tutte queste sono trasformazioni delle precedenti nelle altre: non perdita dunque, bensì un’amministrazione ed un governo bene posizionati.

Ecco cos’è la morte (93-94)

[III,24,93] Questo significa mettersi in viaggio, una piccola trasformazione. Questo la morte, una trasformazione più grande da quanto adesso esiste, non in quanto non esiste ma in quanto adesso non esiste. [III,24,94] -Dunque io non esisterò più?- Non esisterai, ma esisterà qualcos’altro di cui ora l’ordine del mondo ha bisogno. Giacché tu nascesti non quando lo disponesti tu ma quando l’ordine del mondo ne ebbe bisogno.

L’uomo virtuoso ha rappresentazioni chiare… (95-100)

[III,24,95] Per questo l’uomo virtuoso, memore di chi è e donde è venuto e da chi è nato, sta al mondo soltanto per questo: come assolvere il proprio rango disciplinatamente e con obbedienza alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia. [III,24,96] “Disponi che io rimanga? Rimarrò da uomo libero, generoso, come tu disponesti; giacché mi facesti non soggetto ad impedimenti in ciò ch’è mio. [III,24,97] Non hai più bisogno di me? Ben ti sia! Finora sono rimasto grazie a te e non ad altri; adesso parto ubbidendoti”. [III,24,98] “Come parti?” “Di nuovo, come tu disponesti: da libero, da tuo servitore, come chi s’è accorto delle tue ingiunzioni e dei tuoi divieti. [III,24,99] Ma finché mi trastullerò con cose tue, chi disponi che io sia? Un magistrato od un privato cittadino, un senatore od un popolano, un soldato od uno stratega, uno che educa alla diairesi od un padrone di casa? L’ufficio ed il posizionamento che mi porrai in mano, come dice Socrate, morirò diecimila volte prima di disertarli. [III,24,100] E dove disponi che io stia? A Roma, ad Atene, a Tebe, a Giaro? Solo, là ricordati di me. 

…fino al suono della ritirata (101-102)

[III,24,101] Se mi manderai là dove non è possibile tragittarsela da uomini secondo la natura delle cose, andrò via non per disubbidirti, ma perché mi avrai significato la ritirata. Non ti abbandono: non sia mai! Ma mi accorgo che non hai bisogno di me. [III,24,102] Se invece mi sarà dato di tragittarmela secondo la natura delle cose, non cercherò altro posto che quello in cui sono, né altra gente che quella con cui sto”.

Le riflessioni che dobbiamo avere a portata di mano giorno e notte (103-109)

[III,24,103] Questo sia a portata di mano giorno e notte. Questo si deve scrivere, questo leggere. Intorno a questo bisogna farsi ragionamenti fra sé e sé o dire ad un altro: “Sei in grado di aiutarmi per questo?”; e poi venire da un altro e da un altro ancora. [III,24,104] Se poi accadrà qualcosa di quel che si dice indipendente dalle nostre decisioni, subito ti alleggerirà innanzitutto il giudizio che non è un imprevisto. [III,24,105] Giacché è un grande aiuto poter dire in ogni caso: “Sapevo di averlo generato mortale”. Così dirai anche: “Sapevo di essere mortale”; “Sapevo di essere soggetto a mettermi in viaggio”; “Sapevo di essere soggetto ad espulsione”; “Sapevo di essere soggetto a prigione”. [III,24,106] E poi se ti volterai a te stesso e cercherai il territorio da cui proviene l’accidente, subito rimemorerai: “Da quello dell’aproairetico, del non mio; cos’ha dunque a che fare con me?” [III,24,107] E poi il giudizio dominante: “Chi l’ha mandato?” L’imperatore o lo stratega o la città o la legge della città. “Dammelo dunque, giacché io sempre devo ubbidire in ogni circostanza alla legge”. [III,24,108] Qualora poi l’immaginazione ti morda (giacché questo non è in tuo esclusivo potere), battagliala con la ragione, prevali su di essa, non permetterle di rafforzarsi né che si promuova a riplasmare il seguito quanto vuole e come vuole. [III,24,109] Se sarai a Giaro, non riplasmare i trastulli a Roma e quante gioiose effusioni c’erano per chi se la passa là, quante ve ne sarebbero per chi ci ritorna. Sta teso invece, come deve chi se la passa a Giaro, a passartela a Giaro da forte. E se sarai a Roma, non riplasmare i trastulli ad Atene, ma studia soltanto quelli di Roma.

Gli apparenti paradossi diventano realtà: le azioni dell’uomo virtuoso (110-114)

[III,24,110] E poi, invece di tutte le altre gioiose effusioni, introduci quella che viene dal comprendere che ubbidisci a Zeus, che non a parole ma nei fatti esegui le opere dell’uomo virtuoso. [III,24,111] Che gran cosa è poter dire a se stessi: “Ciò di cui ora gli altri parlano solennemente nelle scuole reputando di dire paradossi, io lo realizzo. Seduti, essi spiegano le mie virtù e ricercano su di me, inneggiano a me. [III,24,112] E di questo Zeus dispose di prendere proprio me a dimostrazione, per riconoscere se ha un soldato quale si deve, un cittadino quale si deve, e promuovermi testimone dell’aproairetico: ‘Vedete che a casaccio avete paura, da matti smaniate per ciò per cui smaniate. Non cercate i beni fuori di voi, cercateli in voi stessi; se no, non li troverete.’ [III,24,113] A questi patti egli ora mi conduce qui, ora manda là, mi mostra alla gente povero di denaro, senza una carica, ammalato; mi invia a Giaro, mi introduce in carcere. Non odiando; non sia mai! Chi odia il più eccelso dei propri servitori? Né trascurando, proprio lui che non trascura neppure la più piccola delle creature; ma allenandomi ed usandomi come testimone per gli altri. [III,24,114] Dopo essere stato assegnato a siffatto servizio, mi preoccupo ancora di dove sono o con chi o di cosa dicono di me? Non sto interamente teso alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia, alle sue istruzioni ed ingiunzioni?”

Vergognoso non è non avere di che mangiare, bensì avere una ragione incapace di liberarci dalla afflizione e dalla paura di non avere di che mangiare (115-118)

[III,24,115] Se tu hai sempre questo tra le mani; se ne hai fra te e te una consumata esperienza, se lo tieni a portata di mano non avrai bisogno di chi ti consoli, di chi ti rinforzi. [III,24,116] Giacché brutto non è non avere da mangiare, ma non avere la ragione che basti a farci dominare paura ed afflizione. [III,24,117] Se ti procaccerai una volta il dominio sull’afflizione e sulla paura, ci sarà ancora per te tiranno, guardia del corpo, dei Cesariani? A mordere te sarà una ordinanza; o quelli che offrono un sacrificio in Campidoglio mentre prendono presagi; te che hai preso da Zeus una carica così rilevante? [III,24,118] Solo non portarla in corteo, non cialtroneggiarci sopra ma mostrala nei fatti. E se nessuno se ne accorgerà, accontentati di stare in salute ed essere felice.

CAPITOLO 25
A QUANTI ABORTISCONO DAI PROPOSITI

E’ in palio la felicità: osa pur vincere! (1-3)

[III,25,1] Delle cose che ti proponesti all’inizio, analizza quali padroneggiasti, quali no e come, per alcune, rimemorando ti allieti, per altre ti adonti e, se possibile recupera anche quelle che ti scivolarono di mano. [III,25,2] Giacché coloro che gareggiano nella gara più grande non devono retrocedere ma anche prendere botte. [III,25,3] La gara proposta non è infatti per la vittoria nella lotta o nel pancrazio, gare in cui tanto facendo centro quanto non facendolo si ha la potestà di essere individuo di grandissimo valore o di poco valore e, per Zeus, fortunatissimo od infelicissimo; ma per la stessa buona fortuna e felicità. 

In questa gara si può e merita ritentare dopo ogni sconfitta (4-5)

[III,25,4] E dunque? Anche se qui capitoleremo, nessuno ci impedisce di gareggiare di nuovo né si deve attendere per quattro anni che venga un’altra Olimpiade ma subito, chi recupera e riacquista se stesso e si porta dentro il medesimo slancio, ha la potestà di gareggiare. E se di nuovo ti arrenderai, di nuovo ne hai la potestà. E se una volta sola vincerai, sei simile a chi non si è mai arreso. [III,25,5] Soltanto non iniziare a farlo con piacere per l’abitudine medesima e, orbene, non andare in giro come un cattivo atleta va in giro sempre vinto per il periodo tra una Olimpiade ed un’altra, simile a quaglie scappate.

Attenzione alle cattive abitudini: esse fanno perdere sensibilità alla proairesi (6-10)

[III,25,6] “Mi sconfigge la rappresentazione di una magnifica ragazzina. E dunque? L’altro giorno non ne fui sconfitto?” “Mi nasce la foga di denigrare qualcuno. E l’altro giorno non denigrai?” [III,25,7] Tu ci vai cianciando come se ne fossi uscito senza punizione, come se al medico che vieta di fare il bagno caldo uno dicesse: “Ma l’altro giorno non feci un bagno caldo?” Ed il medico dunque potrà dirgli: “Orsù, dopo aver fatto il bagno caldo cosa sperimentasti? Non avesti la febbre? Non avesti mal di testa?” [III,25,8] Anche tu l’altro giorno, denigrando qualcuno, non effettuasti opera da persona maligna, da chiacchierone? Non nutristi questa tua costumanza buttandole sopra le opere attinenti? Sconfitto dalla ragazzina partisti senza punizione? [III,25,9] Perché parli delle vicende dell’altro giorno? Bisognerebbe, io credo, che tu ti ricordassi di astenerti dalle medesime aberrazioni, come i servi dalle botte. [III,25,10] Ma il fatto non è simile: giacché nel caso dei servi è il dolore a fare il ricordo, mentre nel caso delle aberrazioni quale dolore, quale punizione fa il ricordo? Quando mai ti abituasti a fuggire dall’attivarti male?

CAPITOLO 26
A QUANTI TEMONO IL DIFETTO DI MEZZI DI SUSSISTENZA

La paura di mancare dei necessari mezzi di sussistenza: timore di un animo più meschino di quello di uno schiavo fuggiasco (1-7)

[III,26,1] Non ti vergogni di essere più vile e ignobile degli schiavi fuggiaschi? Fuggendo, come abbandonano essi i padroni? Confidando in quali fondi? In quali domestici? Rubacchiato quel poco che serve loro per i primi giorni, successivamente non si portano per terra o per mare elaborando con arte una risorsa dopo l’altra per sostentarsi? [III,26,2] E quale schiavo fuggiasco morì mai di fame? Tu invece tremi che ti manchi il necessario, e vegli la notte. [III,26,3] Disgraziato! Sei così cieco e non vedi la strada cui porta la carenza del necessario? Giacché dove porta? Dove porta anche la febbre, dove porta anche un sasso che cade addosso: alla morte. Questo non lo dicesti spesso proprio tu ai compagni; molte siffatte cose non leggesti, molte non scrivevi? Quante volte cialtroneggiasti che proprio verso il morire sei equilibrato? [III,26,4] -Sì, ma pure i miei soffriranno la fame- E dunque? Anche la loro fame porta forse altrove? La discesa non è la medesima? Le cose là sotto non sono identiche? [III,26,5] Non vuoi dunque scrutare, con coraggio di fronte ad ogni difetto di mezzi di sussistenza e ad ogni carenza, là dove debbono discendere anche i più ricchi di denaro, anche coloro che occupano le massime cariche, gli stessi re ed i tiranni mentre, caso mai, tu soffri la fame ed essi invece crepano di indigestioni ed ubriachezza? [III,26,6] Quale mendicante vedesti mai che facilmente non sia vecchio? E qualcuno non di estrema vecchiezza? Ma coi brividi di notte e di giorno, scagliati per terra, pascendosi appena del necessario, sono giunti vicino a non poter neppure morire [III,26,7] mentre tu, integro come sei, con mani e piedi, temi così la fame? Non puoi attingere e versare acqua, scrivere, fare il pedagogo, custodire una porta altrui? -Ma è vergognoso venire a questa necessità- Dunque impara innanzitutto cos’è vergognoso e così dicci di essere filosofo. Ma ora, se un altro dirà che lo sei, non tollerarlo.

Quanto è vergognoso e quanto non lo è (8-12)

[III,26,8] E’ vergognoso per te quanto non è opera tua, ciò di cui non sei causativo, che ti viene incontro accidentalmente come un mal di testa, come una febbre? Se i tuoi genitori erano poveri di denaro o se lasciarono eredi degli altri; se, mentre sono vivi, non ti sovvengono per nulla, questo è vergognoso per te? [III,26,9] Imparavi questo dai filosofi? Non sentisti mai dire che il vergognoso è denigrabile e che il denigrabile è ciò che merita di essere denigrato? E chi è denigrabile per quanto non è opera sua, per quanto lui non fece? [III,26,10] Tu dunque lo facesti un padre siffatto? O hai la potestà di rettificarlo? Questo ti è dato? E dunque? Devi tu volere quanto non è dato o vergognarti di non centrarlo? [III,26,11] Tu eri abituato così studiando filosofia, a tenere gli occhi sopra gli altri ed a non sperare nulla da te stesso? [III,26,12] Appunto perciò mugugna, gemi, mangia temendo di non avere del cibo domani e, quanto ai servetti, trema che rubino qualcosa, che fuggano, che muoiano.

La verità è che tu sei stato educato a spendere sempre le tue energie non per diventare padrone di te stesso ma per salvaguardare la tua infelicità (13-14)

[III,26,13] Vivi così e non cessare mai, tu che venisti alla filosofia soltanto di nome e che quanto a te svergognasti i suoi principi generali sfoggiandoli improficui e futili per coloro che li apprendono. Non desiderasti mai la stabilità di giudizio, il dominio sullo sconcerto, il dominio sulle passioni. Per questo non accudisti nessuno; per i sillogismi invece, molti. Non saggiasti mai a fondo, fra te e te, qualcuna di queste rappresentazioni: [III,26,14] “Posso portarla avanti o non posso? Che mi resta da fare?” Ma come se tutte le tue rappresentazioni fossero buone e sicure, ti intrattenesti nell’ultimo àmbito della filosofia, quello dell’immutabilità. Per avere immutabile che cosa? La viltà, l’ignobiltà, l’infatuazione per i ricchi di denaro, il desiderio imperfetto, l’avversione fallita. Della sicurezza di queste rappresentazioni ti preoccupavi!

Chi si dota dei soli strumenti della logica è come un portinaio a custodia di una porta che non esiste (15-20)

[III,26,15] Non si dovrebbe innanzitutto avvantaggiarsi del ragionamento e poi a questo procacciare sicurezza? E chi vedesti mai precingere un fregio ad un muretto non costruito? Chi si istituisce portinaio di una porta che non esiste? [III,26,16] Ma tu studi per poter dimostrare: che cosa? Studi a non essere disancorato da sofismi: quali? [III,26,17] Innanzitutto mostrami cos’è che serbi, cos’è che misuri o pesi; e poi sfoggia la bilancia od il medimno. [III,26,18] O fino a quando misurerai cenere? Non devi dimostrare cos’è che fa gli uomini felici, cos’è che fa loro andare a seconda le faccende come le dispongono, ciò per cui non ci si deve lagnare di nessuno, incolpare nessuno ed ubbidire al governo del tutto? [III,26,19] Questo mostrami. “Ecco, lo mostro”, dice, “ti risolverò dei sillogismi”. Ma questo è quanto misura, schiavo!, non è il misurato. [III,26,20] Per questo ora paghi il fio di quanto trascurasti: tremi, vegli, ti consigli con tutti e se non tutti saranno per gradire le risoluzioni, credi di esserti consigliato male.

La tua vita è una vita da bisognoso, da malato. In verità tu hai paura di essere sano, hai paura di una vita semplice e frugale (21-23)

[III,26,21] E poi, come reputi, hai paura della fame. Invece tu non hai paura della fame ma temi di non avere un cuoco, di non avere un altro che fa la spesa, un altro che ti calzerà, un altro che ti vestirà, altri che ti massaggeranno, altri che ti seguiranno [III,26,22] affinché alle terme, spogliato e disteso come i crocefissi, tu sia massaggiato di qua e di là ed il maestro di ginnastica assistendo dica “Spostati, dà il fianco, prendigli la testa, sistemami accanto la spalla” e poi, venendo a casa dalle terme, tu possa gracchiare “Nessuno porta da mangiare?” e poi “Rimuovi la tavola; spugnala!” [III,26,23] Di questo hai paura: di non poter vivere una vita da infermo. Peraltro, impara quella di chi è in salute, come vivono i servi, come vivono gli operai, come vivono coloro che genuinamente fanno filosofia, come visse Socrate -e lui anche con moglie e ragazzi-, come Diogene, come Cleante, il quale era uno scolaro ed insieme andava ad attingere e versare acqua. 

Tu sei la tua proairesi. Lo ricordi? (24-26)

[III,26,24] Se disporrai di avere questo, lo avrai ovunque e vivrai fiducioso. In cosa? Nella sola cosa in cui è fattibile avere fiducia, in quanto è leale, non soggetto ad impedimenti, intoglibile, cioè nella tua proairesi. [III,26,25] Perché invece hai preparato te stesso ad essere così improficuo e futile che nessuno vuole accoglierti in casa, nessuno avere sollecitudine per te? Chiunque trova una suppellettile integra e proficua scagliata fuori, la tirerà su e lo riterrà un guadagno. Trovare te, invece, nessun guadagno; anzi, chiunque lo riterrà una punizione. [III,26,26] Così non puoi procurare l’utilità né di un cane né di un gallo! Perché dunque vuoi ancora vivere essendo siffatto? 

Che uomo virtuoso sei se hai paura di morire di fame? (27-30) 

[III,26,27] Un uomo dabbene ha paura che gli manchi il cibo? Il cibo non manca ai ciechi, non manca agli zoppi. Mancherà ad un uomo dabbene? Non manca chi dà il soldo ad un soldato dabbene né ad un operaio né ad un calzolaio. E mancherà a chi è dabbene? [III,26,28] A tal punto la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, trascura i suoi felici successi, i ministri, i testimoni, coloro che soli usa come paradigmi nei confronti dei non educati a diairesizzare per mostrare che esiste, che ben governa l’intero, che non trascura le faccende umane e che per l’uomo dabbene non c’è male né in vita né in morte? [III,26,29] -E dunque qualora non procuri cibo?- Che altro significherà se non che, come un buon stratega, mi ha significato la ritirata? Ubbidisco, la seguo glorificando il leader, inneggiando alle sue opere. [III,26,30] Giacché venni quando lei lo reputò e di nuovo me ne vado quando lei lo reputa. Vivendo, questa era l’opera mia: inneggiare a Zeus, sia io per me stesso che con un altro o con molti. 

Eracle, nudo e solo, introduce nel mondo giustizia e diritto (31-32)

[III,26,31] Zeus non mi procura molto né in abbondanza, né dispone che io viva nelle effeminatezze. Ma non lo procurava neppure ad Eracle, suo figlio. E mentre un altro regnava su Argo e su Micene, egli subiva ordini, faticava, si allenava. [III,26,32] Ma Euristeo, lui, né di Argo né di Micene era re, lui che non lo era neppure di se stesso! Eracle, invece, era comandante e leader della terra tutta e del mare, purificatore da ingiustizia ed assenza di legge, introduttore di quanto è giusto e sacrosanto. E queste imprese faceva nudo e solo.

Ulisse, nudo e solo, confida nei suoi retti giudizi (33-34)

[III,26,33] E quando Odisseo fu sbalzato naufrago su una spiaggia, ebbene, il difetto di mezzi di sussistenza rese forse serva la sua proairesi, si perse forse d’animo? Come se ne andava verso le donzelle per chiedere loro il necessario -e brigarlo da un altro sembra essere la più vergognosa delle istanze-? “Come un leone nutrito sui monti”. [III,26,34] Confidando in cosa? Non nella reputazione né nella roba né nelle cariche, ma nel suo vigore ossia nei giudizi su quanto è in nostro esclusivo potere e quanto non lo è.

Sono i retti giudizi, ed essi soli, a fare gli uomini liberi (35-38)

[III,26,35] Giacché sono solo i giudizi a fare gli uomini liberi, non soggetti ad impedimenti, a far dispiegare il collo di coloro la cui proairesi è stata serva, a far guardare diritto negli occhi dei ricchi di denaro e dei tiranni. [III,26,36] Il dono del filosofo era questo e tu non uscirai fiducioso, ma tremolante per le toghette e l’argenteria? Misero! Così perdesti il tempo finora? [III,26,37] -E dunque? Se mi ammalerò?- Ti ammalerai da virtuoso. -Chi mi curerà?- La Materia Immortale, ovvero la Pronoia, gli amici. -Giacerò sul duro- Ma da uomo. -Non avrò una stanza idonea- Sarai ammalato in una inidonea. -Chi mi farà le cibarie?- Quanti le fanno anche per gli altri: sarai ammalato come Manes. -E quale il termine della malattia?- [III,26,38] Altro che la morte? Dunque ponderi che causa capitale di tutti i mali dell’essere umano, dell’ignobiltà e della viltà non è la morte ma piuttosto la paura della morte?

Libertà o morte degli uomini (39)

[III,26,39] Allenati dunque su questo; qui accennino tutti i discorsi, gli esercizi pratici, le letture e saprai che solamente così gli uomini diventano liberi.

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Traduzioni

L’ALBERO DELLA DIAIRESI Libro II

tutto

EPITTETO

nuovamente tradotto

da

FRANCO SCALENGHE

I quattro libri delle Diatribe di Epitteto sono né Dialoghi costruiti da Platone a tavolino né Orazioni scritte per sfoggio da Isocrate, ma la fedele registrazione -ad opera di Arriano- di un parlato dal vivo. Io ho cercato di conservare anche in italiano questa loro peculiarità e mi sono mantenuto molto aderente al testo greco. Chi legge lo tenga presente, e legga semplicemente con il “tempo giusto”.

LIBRO II

Μόνον κείνης τς διαιρέσεως μέμνησο, καθ’ ν διορίζεται τ σ κα ο τ σά.

“Tu soltanto ricordati di quella diairesi in armonia con la quale si definisce quanto è in tuo esclusivo potere e quanto non lo è”. (II,6,24)

CAPITOLO 1
CHE L ‘ ESSERE CORAGGIOSI NON CONTRADDICE L’ ESSERE CAUTI

Uomo è sapere l’arte di combinare coraggio e cautela: cautela nello scegliere per noi il nostro vero bene e coraggio di fronte a ciò da cui non può venirci alcun male (1-7)

[II,1,1] Ad alcuni può forse apparire paradossale quanto è sollecitato dai filosofi, ma ugualmente analizziamo al nostro meglio se è vero che si deve fare tutto con cautela ed insieme con coraggio. [II,1,2] La cautela sembra infatti come l’opposto del coraggio, e gli opposti nient’affatto coesistono. [II,1,3] Quanto a molti pare in quest’ambito paradossale, io lo reputo attenere a qualcosa di siffatto: se noi sollecitassimo di usare per le medesime cose sia cautela che coraggio, giustamente ci accagionerebbero di combinare l’incombinabile. [II,1,4] Ora invece, cos’ha di strano il detto? Se infatti è sano quanto spesso detto e spesso dimostrato, cioè che la sostanza del bene è nell’uso delle rappresentazioni ed allo stesso modo la sostanza del male, mentre ciò che è aproairetico non accoglie natura né di bene né di male, [II,1,5] quale paradosso sollecitano i filosofi se dicono: “Dove si tratta di ciò che è aproairetico, là abbi coraggio; dove si tratta di ciò che è proairetico, là sii cauto”? [II,1,6] Giacché se il male è in una proairesi cattiva, a questo riguardo soltanto merita usare cautela; e se quanto è aproairetico e non in nostro esclusivo potere è nulla in relazione a noi, verso di esso si deve usare coraggio. [II,1,7] Così saremo cauti ed insieme coraggiosi e, per Zeus, coraggiosi grazie alla cautela. Giacché essendo cauti con i mali reali, ci avverrà di essere coraggiosi con quanto male non è.

Noi invece facciamo confusione e, come i cervi per paura dei babau di piume cadono nelle reti, per sfuggire morte o esilio o cattiva reputazione ci rifugiamo nella vergogna, nella viltà, nel servilismo (8-14)

[II,1,8] Orbene, noi sperimentiamo quel che sperimentano le cerve. Quando le cerve hanno paura e fuggono le piume, dove si girano e verso cosa arretrano come sicuro? Verso le reti: e così si perdono per avere scambiato ciò di cui si deve avere paura e ciò di fronte a cui si deve avere coraggio. [II,1,9] Così anche noi, dove usiamo la paura? Di fronte a ciò che è aproairetico. Di nuovo, in cosa ci conduciamo con coraggio come se non ci fosse nulla di terribile? In ciò che è proairetico. [II,1,10] Ingannarsi od essere precipitosi o fare qualcosa di sfacciato o desiderare qualcosa con brutta smania non fa per noi differenza, se solo la imbroccheremo in ciò che è aproairetico. Dove invece ci sono morte o esilio o dolore o discredito, là c’è arretramento, là c’è agitazione. [II,1,11] Perciò com’è verosimile che accada a coloro che sbagliano nelle questioni più grandi, ciò che in noi è naturalmente coraggioso lo strutturiamo sfrontato, demenziale, protervo, sfacciato; mentre ciò che in noi è naturalmente cauto e rispettoso di sé e degli altri, lo strutturiamo vile e miserabile e pieno di paure e di sconcerti. [II,1,12] Giacché se uno allogherà la cautela là dove sono proairesi e le opere della proairesi, insieme con l’essere cauto a volere avrà anche l’avversione giacente in suo esclusivo potere. Se invece l’allogherà dov’è quanto non è in nostro esclusivo potere ed è aproairetico, avendo l’avversione rivolta a cose che sono in potere d’altri, necessariamente avrà paura, sarà instabile e sconcertato. [II,1,13] Orrenda non è la morte od il dolore ma orrendo è l’avere paura del dolore o della morte. Per questo lodiamo chi dice: “Terribile non è morire ma morire con vergogna”. [II,1,14] Bisognerebbe dunque che il coraggio fosse rigirato contro la morte e la cautela contro la paura della morte. Ora all’opposto, di fronte alla morte è fuggifuggi; di fronte al giudizio sulla morte è noncuranza, prodigalità, indifferenza.

Tanti babau per tanti esseri umani (15-16)

[II,1,15] Socrate faceva bene a chiamare questi babau. Giacché come le maschere appaiono ai bimbi, per inesperienza, terribili ed orrende; qualcosa di siffatto sperimentiamo anche noi di fronte alle faccende, per null’altro che per ciò per cui anche i bimbi lo sperimentano di fronte ai babau. [II,1,16] Cos’è infatti un bimbo? Ignoranza. Cos’è un bimbo? Incultura. Peraltro, laddove sa, egli ha quelle conoscenze non meno di noi. 

Il babau della morte (17-18)

[II,1,17] Morte cos’è? Un babau. Rigiralo e decifra. Ecco come non morde: il corpo deve essere separato dal pneuma, come separato era stato prima, o adesso o successivamente. Perché dunque fremi, se adesso? Giacché se non adesso, successivamente. [II,1,18] Perché? Affinché si concluda il ciclo regolare dell’ordine del mondo: esso ha infatti bisogno dei tempi instanti, degli avvenire e dei conclusi. 

Il babau del dolore (19-20)

[II,1,19] Dolore cos’è? Un babau. Rigiralo e decifra. La carne è smossa rudemente e poi di nuovo scorrevolmente. Se non ti sarà vantaggioso, la porta è aperta. [II,1,20] Se ti sarà vantaggioso, sopporta. Bisogna infatti che la porta sia aperta per tutte le evenienze, e non abbiamo fastidi.

Se la diairesi è la radice dell’albero e l’antidiairesi ne è il tronco, dai suoi rami pendono frutti che si chiamano libertà e felicità. Se la controdiairesi è la radice dell’albero e l’antidiairesi ne è il tronco, dai suoi rami pendono frutti che si chiamano infelicità e servitù (21-28)

[II,1,21] Qual è dunque il frutto di questi giudizi? Quello che dev’essere il più bello e il più confacente per coloro che effettivamente sono educati a diairesizzare: il dominio sullo sconcerto e sulla paura, la libertà. [II,1,22] Giacché non bisogna su questo fidarsi dei più, i quali dicono che soltanto i cittadini liberi hanno la potestà di essere educati; ma piuttosto dei filosofi, i quali dicono che soltanto gli educati a diairesizzare sono liberi. [II,1,23] -Come questo?- Così: ora, la libertà è qualcos’altro dalla potestà di tragittarcela come decidiamo? “Nient’altro”. Ditemi, o uomini: decidete di vivere aberrando? “Non lo decidiamo”. Quindi nessuno che aberri è libero. [II,1,24] Decidete di vivere avendo paura, decidete di vivere afflitti, decidete di vivere sconcertati? “Nient’affatto!” Proprio nessuno che abbia paura, sia afflitto, sia sconcertato è libero; mentre chiunque si è allontanato da afflizioni, paure e sconcerti ebbene costui, per la stessa strada, si è allontanato anche dall’essere servo. [II,1,25] Dunque come potremo ancora affidarci a voi, o carissimi legislatori, che non consentite di essere educati se non ai cittadini liberi? I filosofi infatti dicono che non consentiamo di essere liberi se non a coloro che sono stati educati a diairesizzare, cioè che è la Materia Immortale a non consentirlo. [II,1,26] -E dunque qualora uno faccia rigirare il suo servo alla presenza di un pretore, non fa niente?- La fa. -Cosa?- Fa rigirare il suo servo alla presenza di un pretore. -Null’altro?- Sì, è tenuto anche a dare il suo cinque per cento. [II,1,27] -E dunque? Chi sperimenta questo non è diventato libero?- Non più che capace di dominare lo sconcerto. [II,1,28] Peraltro tu che puoi far rigirare gli altri, non hai nessun Signore? Non hai per Signore del denaro, una pupattola, un pupattolo, un tiranno, un amico del tiranno? Perché dunque tremi quando te ne vai ad una siffatta circostanza?

Dalle parole ai fatti (29-33)

[II,1,29] Per questo dico spesso: “Studiate questo ed abbiate a portata di mano la conoscenza di ciò verso cui bisogna essere coraggiosi e di ciò verso cui bisogna disporsi con cautela, poiché di fronte a ciò che è aproairetico si deve essere coraggiosi e di fronte a ciò che è proairetico cauti”. [II,1,30] -Ma non ti ho letto i testi e non sai cosa faccio?”- [II,1,31] In cosa? In elocuzioncelle. Abbi le tue elocuzioncelle. Mostra invece come stai con desiderio ed avversione; se non fallisci quanto vuoi, se non incappi in quanto non vuoi. Quei giri di parole poi, se avrai accortezza, li rimuoverai ed in qualche modo cancellerai. [II,1,32] -E dunque? Socrate non scriveva?- E chi ha scritto cotanto? Ma in che modo? Dacché non poteva avere sempre chi controllasse i suoi giudizi od a sua volta fosse controllato, Socrate si autocontrollava ed autoindagava ed allenava sempre efficacemente qualche pre-concetto. [II,1,33] Questo scrive un filosofo. Le elocuzioncelle, i “diss’eglidiss’io” li lascia ad altri, agli incoscienti od ai beati, a coloro che ne hanno agio grazie al loro dominio sullo sconcerto od a coloro che, per stupidaggine, nulla computano del seguito.

Lo sfoggio che si confà a chi esce dalla scuola di Epitteto (34-40)

[II,1,34] Ed ora che il tempo chiama, partirai per mostrare quella roba, per leggerla e fare il frivolo? “Ecco come compongo dialoghi!” [II,1,35] No, o uomo, ma piuttosto quel: “Ecco come desiderando non fallisco. Ecco come avversando non incappo in quanto avverso. Porta morte e lo riconoscerai. Porta dolori, porta carcere, porta discredito, porta una sentenza di condanna”. [II,1,36] Questo è lo sfoggio di un giovane che è venuto dalla scuola. Il resto lascialo ad altri né su di esso nessuno senta mai una tua voce e se uno ti loderà per questo, non tollerarlo ma reputa di essere nessuno e nulla sapere. [II,1,37] Questo soltanto appari di sapere: come non fallisci e non incappi in quanto avversi. [II,1,38] Altri studino processi, altri studino problemi, altri sillogismi. Tu morire, tu essere messo in catene, torturato, confinato. [II,1,39] E tutto questo con coraggio, confidando in chi ti ci ha chiamato, in chi ti ha giudicato degno di questo rango, assegnato al quale sfoggerai cosa può un egemonico razionale schierato davanti a forze aproairetiche. [II,1,40] E così quel paradosso che si deve essere cauti ed insieme coraggiosi non apparirà più né impossibile né un paradosso, poiché si deve essere coraggiosi di fronte a ciò che è aproairetico ed invece cauti in ciò che è proairetico.

CAPITOLO 2
DEL DOMINIO SULLO SCONCERTO

Verità rassicuranti per chi deve presentarsi in tribunale (1-7)

[II,2,1] Tu che te ne vai al processo, vedi cosa vuoi serbare e dove vuoi concludere. [II,2,2] Giacché se disponi di serbare la proairesi in accordo con la natura delle cose, hai ogni sicurezza, ogni facilitazione, non hai fastidi. [II,2,3] Disponendo infatti di serbare incondizionato quanto è in tuo esclusivo potere e quanto è libero per natura e di questo accontentandoti, di cosa ti impensierisci ancora? Chi è suo Signore, chi può sottrartelo? [II,2,4] Se disponi di essere rispettoso di te e degli altri e leale, chi non te lo permetterà? Se disponi di non essere impedito né costretto, chi ti costringerà a desiderare ciò che non reputi; chi ad avversare ciò che non ti pare? [II,2,5] Però uno ti effettuerà cose che sembrano paurose. E come può far anche che tu le sperimenti con avversione? [II,2,6] Qualora dunque sia in tuo esclusivo potere desiderare ed avversare, di cosa ti impensierisci ancora? [II,2,7] Questo sia per te proemio, questo narrazione, questo argomentazione, questo vittoria, questo perorazione, questo consenso.

Rassicuranti sì, ma ad un patto: che si sappia quali sono i nostri veri beni (8-14)

[II,2,8] Per questo Socrate, a chi gli richiamava alla memoria di prepararsi per il processo diceva: “Dunque non reputi che io sia preparato a questo con tutta la mia vita?” [II,2,9] -”Quale preparazione?”- “Ho serbato” dice, “quanto è in mio esclusivo potere”. -”E come?”- “Non effettuai mai una ingiustizia, né in privato né in pubblico”. [II,2,10] Se invece vuoi serbare anche gli oggetti esterni, il corpo, le sostanziucce, il buon nome, ti dico: già immantinente fa’ tutti i preparativi possibili e, orbene, analizza sia la natura del giudice che l’avversario. [II,2,11] Se bisogna avvinghiare ginocchia, avvinghia ginocchia; se bisogna singhiozzare, singhiozza; se mugugnare, mugugna. [II,2,12] Giacché qualora tu assoggetti quanto è tuo agli oggetti esterni, d’ora innanzi sii servo e non tirarti indietro; non volere essere servo una volta ed un’altra no; [II,2,13] ma schiettamente e con l’intelletto tutto intero, o questi o quelli; o libero o servo; od uno che è stato educato a diairesizzare od uno non educatovi; o gallo generoso o ignobile; e reggi d’essere percosso fino a che morirai oppure abdica subito. Non ti accada di prendere molte botte e successivamente abdicare. [II,2,14] Se questo è brutto, già immantinente discrimina: “Dov’è natura di bene e male? Dov’è pure verità”.

Socrate lo sapeva bene (15-20)

[II,2,15] Peraltro reputi che Socrate volendo serbare gli oggetti esterni, perverrebbe a dire: “Anito e Meleto possono farmi uccidere ma non danneggiare”? [II,2,16] Era così stupido da non vedere che questa strada non porta qui ma ad altro? E dunque? E’ che Socrate non ha ragione ed aizza? [II,2,17] Come il mio Eraclito il quale, avendo a Rodi una piccola causa per un fondicello, dopo avere dimostrato ai giudici di dire il giusto, venendo alla perorazione diceva: “Ma non brigherò per voi né mi impensierisco di cosa siete per giudicare; voi più di me siete i giudicati”. E così rovesciò l’esito dell’affaruccio. [II,2,18] Che bisogno c’era? Soltanto non brigare, non addizionare “e non brigo”, a meno che non sia tempo di stuzzicare i giudici a bella posta, come per Socrate. [II,2,19] Anche tu, se prepari siffatta perorazione, perché sali su, perché dai retta? [II,2,20] Se vuoi essere crocefisso, aspetta e la croce verrà. Ma se la ragione sceglie di dare retta e persuadere per quanto sta a te, devi fare il seguito di ciò serbando tuttavia quanto è tuo peculiare.

“Fa in modo che il tuo intelletto, qualunque cosa accada, a questo si adatti”. Ricordati di questo principio universale e non mancherai mai del giusto suggerimento (21-26)

[II,2,21] Così è anche ridicolo dire: “Suggeriscimi!” Suggerirti cosa? Dì invece: “Fa che il mio intelletto, qualunque cosa succeda, a questo si acconci”. [II,2,22] Dacché quella richiesta è simile a che se un analfabeta dicesse: “Dimmi cosa scrivere, qualora mi sia messo davanti qualche nome”. [II,2,23] Se infatti dirò: “Dione”, e poi uno verrà a mettergli davanti non il nome Dione bensì Teone, che accadrà? Cosa scriverà? [II,2,24] Se invece hai studiato a scrivere, sei anche preparato a scrivere tutte le parole che vengono dettate. Se no, cosa debbo suggerirti adesso? Se la faccenda detterà qualcos’altro, cosa dirai o cosa effettuerai? [II,2,25] Ricordati dunque di questo principio universale e non difetterai di suggerimento. Se invece starai a bocca aperta davanti all’al di fuori, è necessario che tu rotoli su e giù a seconda del piano del Signore. [II,2,26] E chi è Signore? Chi ha potestà su qualcuna delle cose per cui ti industrii o che avversi.

CAPITOLO 3
A QUANTI RACCOMANDANO ALCUNI AI FILOSOFI

Diogene sapeva distinguere gli uomini dagli esseri umani e perciò non ha mai scritto una lettera di raccomandazione (1-5)

[II,3,1] Dice bene Diogene a chi sollecita di prendere da lui lettere di raccomandazione: “Che sei un essere umano” dice, “lo riconoscerà anche vedendoti. Se buono o cattivo lo riconoscerà se è esperto nel vagliare buoni e cattivi. Se invece è inesperto, non lo riconoscerà neppure se gli scriverò diecimila volte”. [II,3,2] Giacché simile è il fatto, come se una dracma sollecitasse di essere raccomandata a qualcuno per essere valutata. Se è un saggiatore di denaro, tu ti raccomanderai da sola. [II,3,3] Bisognerebbe dunque che noi avessimo anche nella vita siffatta capacità quale abbiamo col denaro, per poter io dire appunto come dice il saggiatore: “Porta la dracma che vuoi ed io la vaglierò”. [II,3,4] Sui sillogismi: “Porta quello che vuoi ed io ti distinguerò l’analitico dal non analitico”. Perché? Perché so risolvere sillogismi, perché ho la capacità che deve avere chi sa riconoscere quanto fa successo nei sillogismi. [II,3,5] E nella vita, che faccio? Ora dico che è un bene, ora che è un male. Qual è il causativo? L’opposto che nei sillogismi: incultura ed inesperienza.

CAPITOLO 4
A CHI UNA VOLTA ERA STATO PIGLIATO IN ADULTERIO

Le metamorfosi di un essere umano colto ed insipiente (1-11)

[II,4,1] Mentre diceva che L’uomo è nato per la lealtà e che chi sovverte questo sovverte la peculiarità dell’uomo, sopraggiunse uno di quei reputati eruditi, il quale una volta era stato pigliato in adulterio in città. [II,4,2] Se dunque, dice Epitteto, lasciata cadere la lealtà per la quale siamo nati, insidieremo la moglie del vicino, che facciamo? Che altro se non mandare in malora e levare di mezzo: chi? l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, il sacrosanto che siamo. [II,4,3] Solo questo? Non leviamo di mezzo il buon vicinato, l’amicizia, la città? A quale rango assegniamo noi stessi? Debbo usarti come chi, o uomo? Come vicino, come amico? Quale? Come cittadino? Cosa ti affiderò? [II,4,4] E poi se tu fossi una suppellettile così schifosa da non poter più essere usata per nulla, saresti scagliata fuori sull’immondezzaio e nessuno ti tirerebbe su di là. [II,4,5] E se da essere umano non puoi ottemperare a nessun rango da uomo, che faremo di te? Sia: non puoi avere posto di amico. Puoi averlo di servo? E chi si fiderà di te? Non vuoi dunque essere scagliato anche tu sull’immondezzaio come una suppellettile improficua, come immondizia? [II,4,6] E poi dirai: “Nessuno si impensierisce per me, per un uomo erudito!”? Giacché sei cattivo ed improficuo. Come se le vespe fremessero perché nessuno si impensierisce per loro ma tutti le fuggono e se uno potrà le colpisce ed abbatte. [II,4,7] Tu hai un pungiglione siffatto da sbattere in fastidi e doglie chi colpirai. Cosa vuoi che facciamo di te? Non c’è dove tu sia posto. [II,4,8] E dunque? Le femmine non sono comuni per natura? Lo dico anch’io. Anche il maialino è comune agli invitati; ma qualora ci siano le porzioni, se ti parrà, va a scerpare la porzione di chi ti è sdraiato accanto rubandogliela di nascosto, oppure allunga la mano e fa’ il ghiottone; e se non potrai spiccare un pezzo di carne, ingrassa le dita e leccale torno torno. Magnifico convitato e commensale socratico! [II,4,9] Orsù, ma il teatro non è comune ai cittadini? Dunque, se ti parrà, quand’essi si siano seduti, vieni ad espellere dal posto qualcuno di loro. [II,4,10] In questo senso anche le femmine sono comuni per natura. Qualora il legislatore, come l’imbanditore, le abbia spartite, non vuoi anche tu cercare la tua propria porzione ed invece carpisci l’allotria e fai il ghiottone? [II,4,11] “Ma io sono un erudito e capisco Archedemo!” Capendo quindi Archedemo sii un adultero, uno sleale, invece che uomo un lupo od una scimmia. Giacché cosa lo impedisce?

CAPITOLO 5
COME COESISTONO DISINTERESSE E SOLERZIA ?

Disinteresse per i materiali che l’esistenza ci pone innanzi ma solerzia nel loro uso, come fa il giocatore di scacchi (1-3)

[II,5,1] I materiali sono indifferenti ma il loro uso non è indifferente. [II,5,2] Dunque come si serberanno stabilità di giudizio e dominio sullo sconcerto, ed insieme il solerte e non avventato né negligente? Se uno imiterà i giocatori di dadi. [II,5,3] Le pedine sono indifferenti, i dadi sono indifferenti. Donde so qual è per cascare? Usare con solerzia ed arte quello cascato: questa è ormai l’opera mia.

La proairesi può atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente (4-5)

[II,5,4] Così pertanto, anche nella vita l’opera cardinale è quella: discrimina le faccende, sceverale e dì [II,5,5] “L’al di fuori non è in mio esclusivo potere; la proairesi è in mio esclusivo potere. Dove cercherò il bene ed il male? Dentro, in quanto è mio”. In quanto è allotrio non nominare mai né bene né male, né giovamento né danno né nient’altro di siffatto.

Sapersi muovere con successo tra diairesi ed antidiairesi significa forse usare gli oggetti esterni, quanto è altrui, insomma i normali materiali dell’esistenza casualmente e con trascuratezza o addirittura rifiutare di usarli? (6-9) 

[II,5,6] E dunque? Bisogna usare quanto è allotrio con trascuratezza? Nient’affatto! Giacché questo di nuovo è male per la proairesi e, per questa via, contro la natura delle cose. [II,5,7] Ma insieme con solerzia, poiché l’uso non è indifferente, e con stabilità di giudizio e dominio sullo sconcerto, poiché il materiale non fa differenza. [II,5,8] Giacché dov’è quanto fa differenza, là nessuno può impedirmi né costringermi. Dove mi si può impedire e costringere, il conseguimento di ciò non è in mio esclusivo potere e non è bene o male. L’uso è male o bene, ma è in mio esclusivo potere. [II,5,9] E’ difficile mischiare e combinare la solerzia di chi si strugge per i materiali e la stabilità di giudizio di chi di lor non cura, eccetto che non è impossibile. Se no, è impossibile essere felici.

Come chi naviga (10-14)

[II,5,10] Facciamo come in un viaggio per mare. Cosa mi è possibile? Selezionare il pilota, i marinai, il giorno, il momento adatto. [II,5,11] E poi si è abbattuta una tempesta. Dunque che m’importa ancora? La mia parte è stata assolta. La tempesta è ipotesi di un altro, del pilota. [II,5,12] Ma la nave affonda pure. Che ho dunque da fare? Quel che posso, questo soltanto faccio: affogo senza avere paura né strillando né incolpando Zeus ma sapendo che quanto nasce deve anche perire. [II,5,13] Giacché non sono eterno ma un uomo, una parte del tutto, come un’ora di un giorno. Instare io devo come l’ora e come un’ora trapassare. [II,5,14] Che differenza dunque mi fa come trapasso, se annegato o per febbre? Giacché per qualcosa di siffatto devo trapassare.

Come chi gioca a palla (15-17)

[II,5,15] Vedrai far questo anche ai palleggiatori esperti. Nessuno di loro litiga sull’oggetto da ghermire come di un bene o di un male, ma sul buttarlo e sull’accoglierlo. [II,5,16] Orbene stanno in questo l’euritmia, in questo l’arte, la rapidità, la costumatezza; sicché io neppure se sporgerò la veste posso prenderlo mentre lui, se io lo butterò, lo prende. [II,5,17] Se però lo accoglieremo o butteremo con sconcerto e paura, che gioco è ancora? Dove uno sarà stabile? Dove uno vedrà in esso il seguito? Uno dirà “Butta!”; un altro “Non buttare!”; un altro ancora “Non buttarlo in alto!”. Davvero questa è una rissa, non un gioco.

Come Socrate (18-20)

[II,5,18] Perciò Socrate sapeva palleggiare. Come? Giocare in tribunale. “Dimmi,” dice, “o Anito, come dici che io non legittimo Dio? Ed i geni, chi reputi essere? Non sono ragazzi di Dei od enti mischiati di uomini e Dei?” [II,5,19] Ammettendolo quello: “E chi reputi possa ritenere che esistono muli ma non asini?”, come giocando con un oggetto da ghermire. E là in mezzo qual era l’oggetto da ghermire? L’essere messo in catene, mandato in esilio, bere il veleno, essere privato della moglie, lasciarsi dietro figlioli orfani. [II,5,20] Questo era là in mezzo ciò con cui giocava, e nondimeno giocava e palleggiava con euritmia. Così avessimo anche noi, da un lato, la solerzia di un fuoriclasse nel palleggio e, dall’altro, l’indifferenza per quanto è da ghermire! 

Come il tessitore (21-22)

[II,5,21] Giacché bisogna affatto lavorare con arte qualcuno dei materiali esterni, ma non approvandolo bensì, quale che sarà, sfoggiando arte nel lavorarlo. Così anche il tessitore non fa la lana ma, quale che assumerà, su di essa lavora con arte. [II,5,22] Un altro ti dà cibo e patrimonio ma proprio queste cose possono essere sottratte, ed il corpo stesso. Orbene tu lavora il materiale che assumi.

Poiché è per ciascuno inevitabile avere a che fare con un determinato contesto concreto, bisogna imparare a muoversi con successo tra diairesi ed antidiairesi, sapendo giocare correttamente con la seconda ed usare con arte la prima. Pertanto vita, salute e ricchezza di denaro soltanto astrattamente sono “preferibili” alla morte, alla malattia ed alla povertà di denaro giacché in determinati casi concreti queste ultime diventano scelte necessarie per non fallire la nostra natura di uomini (23-29)

[II,5,23] Se poi ne uscirai incolume, mentre altri venendoti incontro ti complimenteranno perché fosti salvato; chi sa scrutare siffatte vicende ti loderà e si congratulerà se vedrà che ti sei condotto in questo frangente con decoro; ma farà l’opposto se vedrà che sei stato preservato grazie a qualche indecenza. Giacché dove rallegrarsi è ragionevole, là lo è anche il complimentarsi. [II,5,24] Come dunque si dice che alcuni degli oggetti esterni sono secondo natura ed altri contro natura? Come se noi fossimo assoluti. Dirò infatti che per il piede è secondo natura essere pulito ma, se lo prenderai come piede e non come assoluto, sarà doveroso per il piede ficcarsi anche nel fango, calpestare delle spine e, all’occorrenza, essere amputato a favore dell’intero; se no, non sarà più un piede. Si deve concepire qualcosa di siffatto anche a nostro riguardo. [II,5,25] Cosa sei? Un essere umano. Se ti consideri come assoluto, è secondo la natura vivere fino alla vecchiaia, essere ricco di denaro, stare in salute. Ma se ti consideri come uomo e parte di un certo intero, a causa di quell’intero è doveroso che tu ora sia ammalato, ora navighi e corra dei pericoli, ora difetti di mezzi di sussistenza e, all’occorrenza, muoia anzitempo. [II,5,26] Perché dunque fremi? Non sai che, come quello non sarà più piede, così neppur tu sarai più un uomo? Giacché cos’è un uomo? Parte di una città la prima, di dei ed uomini, e dopo questo di quella detta la più vicina e che è una piccola imitazione dell’intero. [II,5,27] “Dunque devo essere io giudicato ora?” Dunque ora deve essere un altro ad avere la febbre, un altro a navigare, un altro a morire, un altro ad essere stato condannato. Giacché a coloro che convivono in siffatto corpo, in questo contesto, insieme a queste creature, è impossibile non accadano contemporaneamente, ora all’uno ora all’altro, cose siffatte. [II,5,28] Opera tua è venire a dire quel che si deve, disporre questo come spetta. Poi quello dice: “Giudico che commetti ingiustizia”. [II,5,29]” Ben ti sia! Io feci la mia parte; se anche tu facesti la tua, lo vedrai tu”. Giacché pericolo c’è anche per lui, non ti sfugga.

CAPITOLO 6
SULL ‘ INDIFFERENZA

Indifferenza circa i materiali dell’esistenza, non circa il loro uso (1-2)

[II,6,1] Il periodo ipotetico è indifferente, la determinazione su di esso non è invece indifferente ma è scienza od opinione o inganno. Così il vivere è indifferente ma il suo uso non è indifferente. [II,6,2] Dunque qualora uno vi dica “Anche questo è indifferente”, non diventate trascurati e neppure, qualora uno vi preghi di essere solerti, servi nell’animo ed infatuati dei materiali. 

Riconoscere se stessi, ossia i propri limiti (3-5)

[II,6,3] Bello è sapere la propria preparazione e capacità, affinché in ciò in cui non sei preparato tu stia quieto e non frema se altri hanno in esso più di te. [II,6,4] Giacché tu solleciterai di avere di più nei sillogismi e, se essi fremeranno per questo, li consolerai: “Io li imparai, voi no”. [II,6,5] Così pure laddove c’è bisogno di una consumata esperienza, non cercare quel che da essa promana, ma dà spazio a chi ha di quello consumata esperienza ed a te basti essere stabile nei giudizi. 

Usare la diairesi nella vita di tutti i giorni e così centrare costantemente la nostra natura di uomini (6-19)

[II,6,6] “Parti ed ossequia il tale”. “Lo ossequio”. “Come?” “Senza servilismo”. “Ma fosti escluso”. “Non imparai ad entrare dalla finestra. Giacché qualora trovi la porta chiusa è necessario o che mi ritiri o che entri dalla finestra”. [II,6,7] “Parlagli anche”. “Gli parlo”. “In che modo?” “Senza servilismo”. [II,6,8] “Ma non facesti centro”. Questo sarebbe forse opera tua? No, di quello. Perché dunque pretendi quanto è allotrio? Ricordando sempre cos’è tuo e cos’è allotrio non sarai sconcertato. [II,6,9] Per questo Crisippo dice bene: “Fino a che mi sarà dubbio il seguito, io sempre mi attengo ai giudizi più purosangue per centrare quanto è secondo la natura delle cose, giacché proprio la Materia Immortale mi fece atto a selezionarli. [II,6,10] Se appunto sapessi che ora mi è stato destinato di ammalarmi, vi impellerei addirittura, giacché anche il piede, se avesse del buonsenso, impellerebbe ad infangarsi”. [II,6,11] Peraltro, per cosa nascono le spighe? Non anche per seccare? E non seccano anche per essere mietute? Esse infatti non nascono come assolute. [II,6,12] Se dunque avessero coscienza, dovrebbero auspicare di non essere mai mietute? Ma questo, di non essere mai mietute, è una maledizione per le spighe. [II,6,13] Così sappiate che anche per gli uomini è una maledizione non morire: simile a non maturare, a non essere mietuti. [II,6,14] Noi però siccome siamo gli stessi che devono essere mietuti ed insieme che comprendono di essere mietuti, per questo fremiamo. Giacché non sappiamo chi siamo, né abbiamo studiato umanità come i cavalieri studiano equitazione. [II,6,15] Crisanta stando per battere il nemico, siccome sentì il richiamo della tromba, si rattenne: tanto più favorevole reputò l’ingiunzione dello stratega che fare di testa sua. [II,6,16] Nessuno di noi invece, neppure quando la necessità chiama, dispone di darle retta con scioltezza; ma sperimentiamo quel che sperimentiamo -le chiamiamo “circostanze difficili”- singhiozzando e gemendo. [II,6,17] Quali circostanze difficili, o uomo? Se dici circostanze il contorno, tutto è circostanze. Se le chiami difficili, quale difficoltà sta nel fatto che il nato perisca? [II,6,18] Quanto fa perire è o una spada o una ruota di tortura od il mare o una tegola o un tiranno. Che t’importa per quale strada scenderai nell’Ade? Pari son tutte. [II,6,19] E se vuoi sentir dire la verità, la più spiccia è quella per cui manda il tiranno. Nessun tiranno ha mai impiegato sei mesi per sgozzare qualcuno, la febbre invece spesso anche un’annata. 

Epitaffio per il quotidiano, ostinato, pervicace rifiuto della diairesi che fonda l’immane congerie di superstizioni religiose, filosofie dello spirito, miti di redenzione e sogni di liberazione sociale dietro i quali ansimano gli esseri umani (19)

Tutto questo è rumore e rimbombo di vacui nomi.

A te basti di non perdere mai di vista la distinzione tra quanto è in tuo esclusivo potere e quanto non lo è (20-27) 

[II,6,20] “Al cospetto di Cesare, la mia testa è in pericolo!” Ed io non sono in pericolo, io che abito a Nicopoli dove ci sono cotanti terremoti? Proprio tu quando solchi l’Adriatico, che pericoli corri? Non è in pericolo la tua testa? [II,6,21] “Ma anche le mie concezioni, al cospetto di Cesare, sono in pericolo!” Le tue? Come? Chi può costringerti a concepire qualcosa che non vuoi? In pericolo per quelle di un altro? E quale pericolo corri tu che altri concepiscano delle falsità? [II,6,22] “Ma corro il pericolo di essere confinato!” Cos’è essere confinato? Essere altrove che a Roma? “Sì”. E dunque? “E se sarò mandato a Giaro?” Se farà per te partirai. Se no, hai dove partire invece che a Giaro, dove anche quello che ti manda a Giaro verrà, lo voglia o no. [II,6,23] Orbene, perché sali a Roma come a cose grandiose? Sono più piccole della tua preparazione, tanto da far dire ad un giovane purosangue: “Non meritava tanto avere ascoltato cotante lezioni, avere scritto cotanto, essere stati seduti per cotanto tempo accanto ad un vecchietto che non vale granché”. [II,6,24] Tu soltanto ricordati di quella diairesi in armonia con la quale si definisce quanto è in tuo esclusivo potere e quanto non lo è. Non pretendere mai alcunché di allotrio. [II,6,25] Tribuna e prigione sono, l’una e l’altra, un posto; la tribuna, elevato; la prigione, miserabile. Ma la proairesi può essere custodita pari, se pari disporrai di custodirla, nell’uno e nell’altro posto. [II,6,26] Ed allora saremo emuli di Socrate, qualora possiamo scrivere in prigione dei peani. [II,6,27] Ma per come stiamo finora, vedi se avremmo tollerato che in prigione un altro ci dicesse: “Vuoi che ti legga dei peani?” “Perché mi procuri dei fastidi? Non sai i mali che ho? In questi mi è possibile…?” In quali dunque? “Sto per morire”. E gli altri esseri umani saranno immortali? 

CAPITOLO 7
COME SI DEVE DIVINARE ?

La divinazione, se pur potesse prevedere gli avvenimenti, non potrebbe che ignorare totalmente il loro valore (1-8)

[II,7,1] Per il fatto di divinare intempestivamente, in molti omettiamo molte opere doverose. [II,7,2] Giacché l’indovino cosa può vedere più che morte o pericolo o malattia o, in complesso, cose siffatte? [II,7,3] Se dunque bisognerà correre pericoli per l’amico, se sarà addirittura doveroso morire per lui, dov’è ancora tempo per me di divinare? Non ho dentro l’indovino che mi ha detto la sostanza del bene e del male, che ha spiegato i segni di entrambi? [II,7,4] Che bisogno ho ancora di viscere animali o di uccelli augurali, ma tollero che quello dica: “Ti è utile”? Sa lui cos’è utile? Sa lui cos’è bene? [II,7,5] Come ha imparato i segni delle viscere animali, così ha imparato quali sono i segni del bene e del male? Giacché se sa i loro segni, sa anche quelli del bello e del brutto, del giusto e dell’ingiusto. [II,7,6] O uomo, tu dimmi quale significato mi si dà: vita o morte, povertà o ricchezza di denaro; se poi questi sono utili od inutili, sono per cercare di saperlo da te? [II,7,7] Perché non dici parola in questioni di grammatica? Dunque parli qua, dove tutti noi individui erriamo e ci contraddiciamo l’un l’altro? [II,7,8] Per questo disse bene la donna che disponeva di mandare a Gratilla, al confino, il bastimento dei rifornimenti mensili. A chi le diceva: “Domiziano li farà sottrarre”; “Dispongo,” dice, “che lui li faccia sottrarre piuttosto che io non mandarli”.

L’opportunità non della divinazione bensì di un sereno distacco dalla viltà e dalla paura (9-14)

[II,7,9] Che cosa ci conduce dunque a divinare così costantemente? La viltà, l’avere paura degli esiti. Per questo aduliamo gli indovini: “Erediterò, Signore, da mio padre?” “Vediamo; offriamo un sacrificio per questo”. “Sì, Signore, come la fortuna vuole”. Se poi dirà: “Erediterai”, lo ringraziamo come se avessimo preso l’eredità da lui. Per questo anch’essi, orbene, si burlano di noi. [II,7,10] E dunque? Bisogna venire da loro prescindendo da desiderio ed avversione, come il viaggiatore cerca di sapere da chi gli viene incontro quale di due strade porta alla meta, senza desiderare che a portarvi sia quella di destra piuttosto che quella di sinistra: giacché egli non dispone di partire per una di queste ma per quella che porta alla meta. [II,7,11] Così bisognerebbe anche venire a Zeus come ad una guida, come ci serviamo degli occhi senza pregarli di mostrarci piuttosto oggetti siffatti, ma accogliendo le rappresentazioni degli oggetti quali essi le mostrano. [II,7,12] Ora invece, tremanti stringiamo la mano dell’augure ed invocandolo come Dio brighiamo da lui: “Signore, abbi pietà: consentimi di uscirne”. [II,7,13] Schiavo! Vuoi tu altro dal meglio? E c’è qualcos’altro meglio di quanto reputa Zeus? [II,7,14] Per quanto è in tuo esclusivo potere, perché rovini l’arbitro, perché devii il consigliere?

CAPITOLO 8
QUAL È LA SOSTANZA DEL BENE ?

Anche la carne ed il fango sono sostanze di Zeus in quanto tutto è fatto degli stessi atomi, della stessa Materia Immortale. L’aurora del bene, della retta ragione spunta dalla Materia Immortale attraverso la carne dell’uomo come un arcobaleno dall’atmosfera (1-8)

[II,8,1] Zeus è giovevole, ma anche il bene è giovevole. E’ dunque verosimile che dov’è la sostanza di Zeus là sia anche quella del bene. [II,8,2] Quale sostanza di Zeus? Carne? Non sia mai! Un fondo? Non sia mai! Fama? Non sia mai! [II,8,3] Mente, scienza, retta ragione. Quindi cerca semplicemente qui la sostanza del bene. Peraltro la cerchi forse in un vegetale? No. Forse in un essere senza ragione? No. Cercandola dunque in un essere dotato di ragione, perché la cerchi ancora altrove che nel divario dagli esseri sprovvisti di ragione? [II,8,4] I vegetali neppure sono atti all’uso delle rappresentazioni. Per questo non parli di “bene” a loro proposito. [II,8,5] Il bene ha dunque bisogno dell’uso di rappresentazioni. Proprio del solo uso? Giacché se solo dell’uso, dì che anche negli altri animali vi sono beni e felicità ed infelicità. [II,8,6] Ora, tu non lo dici; e fai bene. Giacché se essi hanno, anche al massimo grado, l’uso delle rappresentazioni, non hanno però la comprensione dell’uso delle rappresentazioni. E verosimilmente: giacché sono nati servitori d’altri, non essi cardinali. [II,8,7] L’asino, dacché è nato, lo è forse come cardinale? No. Ma perché avevamo bisogno di una schiena che potesse sorreggere qualcosa. Ma, per Zeus, avevamo anche bisogno che camminasse. Per questo ha aggiunto anche l’uso delle rappresentazioni: altrimenti non potrebbe camminare. [II,8,8] Ed orbene qui in qualche modo ha cessato. Se esso avesse aggiunto all’uso delle rappresentazioni anche la comprensione del loro uso è manifesto che, per via della ragione, non ci sarebbe più stato subordinato né ci procurerebbe questi servizi, ma sarebbe a noi pari e simile.

Tutte le creature sorgono dalla stessa nobilissima Materia Immortale ed ognuna ha la propria peculiarità. Soltanto nell’uomo Zeus diventa capace di generare dei (9-14)

[II,8,9] Non vuoi dunque cercare la sostanza del bene là dove, se assente, per nessun’altra creatura vuoi parlare di bene? [II,8,10] “E dunque? Non sono anche quelle opere di Dei?” Lo sono? Ma non cardinali né parti di dei. [II,8,11] Tu invece sei cardinale, tu sei scintilla della Materia Immortale, hai in te un particolare di quella. Perché dunque ignori la tua congenericità? [II,8,12] Perché non sai donde sei venuto? Non vuoi ricordarti, qualora mangi, di chi è a mangiare e chi nutri? Qualora ti accoppii, di chi è ad accoppiarsi? Qualora conversi, qualora ti alleni, qualora dialoghi; non sai che nutri un dio, alleni un dio? Porti in giro un dio e lo ignori, sciagurato! [II,8,13] Reputi che io parli di uno argentato o dorato di fuori? Lo porti in te stesso e non ti accorgi di insudiciarlo ora con pensieri impuri ed ora con sozze azioni. [II,8,14] Alla presenza di un simulacro di Zeus non avresti l’audacia di fare quel che fai. E quando Zeus stesso è presente dal di dentro e riguarda e dà ascolto a tutto, non ti vergogni di rimuginare e fare queste cose, o incosciente della tua stessa natura ed oggetto del disgusto divino!

Divinità della Materia Immortale e Materialità della divinità (15-23)

[II,8,15] Orbene se noi mandiamo un giovane fuori della scuola per qualche faccenda, perché abbiamo paura che faccia qualcosa balordamente: che mangi balordamente, si accoppi balordamente, renda serva la sua proairesi se cinto di cenci e si esalti se di toghe eleganti? [II,8,16] Perché non sa il divino di se stesso, perché non sa con chi parte. Lo tolleriamo se dice: “Vorrei averti qui”? [II,8,17] Là non hai Zeus? [II,8,18] E poi cerchi qualcun altro quando hai quello? O lui ti dirà altro da questo? Se tu fossi il simulacro scolpito da Fidia, la sua Atena od il suo Zeus, ti saresti ricordato sia di te sia dell’artista, e se avessi coscienza proveresti a nulla fare d’indegno di chi ti strutturò e di te, ed a non apparire a chi ti guarda in un atteggiamento non confacente. [II,8,19] Ora invece che Zeus ti ha fatto, per questo trascuri quale ti mostrerai? In cosa l’artista Zeus è simile ad un artista o struttura a struttura? [II,8,20] Quale opera di un artista ha subito in se stessa le facoltà che la struttura palesa? Non è sasso o bronzo od oro od avorio? L’Atena di Fidia una volta che abbia sporto la mano ed accolto su di essa la Vittoria, sta così per l’eternità intera. Invece le opere della Materia Immortale sono opere che si muovono, spiranti, usanti le rappresentazioni, valutanti. [II,8,21] Ed essendo struttura di questo demiurgo, la svergogni? Perché? E che non soltanto ti strutturò ma anche affidò e commise te a te solo, [II,8,22] neppur di questo ti ricorderai, ma svergognerai pure la delega? Se Zeus ti avesse sistemato accanto un orfano, lo trascureresti così? [II,8,23] Egli ti ha trasmesso a te stesso e dice: “Non avevo un altro più leale di te. Custodiscimelo siffatto qual è per natura delle cose: rispettoso di sé e degli altri, leale, d’elevato sentire, capace di dominare lo spavento, le passioni, lo sconcerto”. E poi tu non lo custodisci?

Anche tu come lo Zeus di Olimpia (24-29)

[II,8,24] “Ma diranno: ‘costui donde ci ha portato un cipiglio ed un aspetto così solenne’?’“ Solenne non ancora secondo il merito. Giacché non ho ancora fiducia in quanto imparai e cui assentii. Ho ancora paura della mia debolezza. [II,8,25] Peraltro lasciatemi prendere fiducia ed allora vedrete lo sguardo che si deve e l’atteggiamento che si deve; qualora sia perfetto e splendente, allora vi mostrerò il simulacro. [II,8,26] Cosa reputate? Cipiglio? Non sia mai! Lo Zeus che è ad Olimpia ha forse le sopracciglia inarcate? No, ma ha fitto il suo sguardo quale deve essere quello di chi sta dicendo *né revocarsi, né fallir, né vana esser può cosa che il mio capo accenna*. [II,8,27] Siffatto mi mostrerò a voi: leale, rispettoso di me e degli altri, generoso, al riparo dallo sconcerto. [II,8,28] Forse anche immortale, al riparo dalla vecchiaia e dalle malattie? No, ma che muore divinamente, che è malato divinamente. Questo ho, questo posso: il resto non ho né posso. [II,8,29] Vi mostrerò il nerbo di un filosofo. Quale nerbo? Un desiderio che non fallisce il segno, un’avversione che non incappa in quanto avversa, un impulso doveroso, un proposito solerte, un assenso non precipitoso. Questo vedrete.

CAPITOLO 9
CHE NON POTENDO ADEMPIERE LA PROFESSIONE DI UOMO NOI VI AGGIUNGIAMO QUELLA DI FILOSOFO

Noi ci differenziamo da tutte le altre creature soltanto per la ragione (1-2) 

[II,9,1] Lo stesso solo adempiere la professione di uomo non è casualità . [II,9,2] Cos’è infatti un uomo? Una creatura, dice, logica, mortale. Subito nella logicità da chi ci separiamo? Dalle belve. E da quali altre? Dalle pecore e simili. 

Chi è dunque l’essere umano? L’essere umano è quella creatura mortale, razionale, che non sa muoversi con felicità tra diairesi ed antidiairesi (3-7)

[II,9,3] Vedi dunque di non fare qualcosa da belva. Se no, mandi in malora l’uomo, non ne adempi la professione. Vedi di non fare qualcosa da pecora: se no, anche così va in malora l’uomo. [II,9,4] Che cosa facciamo dunque da pecore? Qualora facciamo per la pancia, per i coglioni, a casaccio, in modo sozzo, noncurante, dove inclinammo? Alle pecore. Cosa perdemmo? La logicità. [II,9,5] Qualora facciamo rissosamente, dannosamente, rancorosamente ed impetuosamente, dove inclinammo? Alle belve. [II,9,6] Orbene alcuni di noi sono grandi belve, altri invece belvette piccole e maligne sulle quali è lecito dire: “Piuttosto mi mangi un leone!” [II,9,7] Attraverso tutto ciò la professione di uomo va in malora. 

E chi è l’uomo? L’uomo è quella creatura mortale, razionale, che sa muoversi con felicità tra diairesi ed antidiairesi, giocando correttamente con la prima ed usando con arte la seconda (8-12)

[II,9,8] Quando è salvaguardato un periodo copulativamente coordinato? Qualora adempia la sua professione; sicché la salvezza del periodo copulativamente coordinato sta nell’essere formato da una vera coordinazione di proposizioni. Quando è salvaguardata una proposizione disgiuntiva? Qualora adempia la sua professione. Quando dei flauti, quando una lira, quando un cavallo, quando un cane? [II,9,9] Che c’é dunque di stupefacente se anche l’uomo viene allo stesso modo salvaguardato ed allo stesso modo va in malora? [II,9,10] Ciascuno è salvaguardato ed accresciuto dalle opere a lui consone: il falegname da quelle di falegnameria; il grammatico da quelle di grammatica. Ma se il grammatico si abituerà a scrivere sgrammaticatamente, è necessario che l’arte sua sia annientata e vada in malora. [II,9,11] Così le opere che rispettano sé e gli altri salvaguardano l’uomo rispettoso di sé e degli altri, mentre quelle che non rispettano né sé né gli altri lo mandano in malora. Le opere leali salvaguardano l’uomo leale, mentre quelle opposte lo mandano in malora. [II,9,12] Le opere opposte, di nuovo, accrescono le creature opposte: la sfacciataggine accresce lo sfacciato; la slealtà lo sleale; l’ingiuria l’ingiurioso; l’ira, l’iracondo; gli incassi e le dazioni tra loro non consone, l’avido di denaro. 

Un conto è cibarsi del pane e del vino della diairesi ed un altro è tenerli in cassa per farne, caso mai, bella mostra con qualcuno (13-18)

[II,9,13] Per questo i filosofi prescrivono di non accontentarsi solo di imparare ma di aggiungervi studio e poi esercizio pratico. [II,9,14] Noi siamo infatti da molto tempo abituati a fare l’opposto ed abbiamo atte all’uso concezioni opposte a quelle rette. Se dunque non faremo atte all’uso anche le concezioni rette, null’altro saremo che interpreti di giudizi allotrii. [II,9,15] Chi di noi, giust’appunto, non può parlare a regola d’arte di beni e di mali? Dire che delle cose che sono alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti; che beni sono le virtù e quanto partecipa delle virtù; mali, le cose opposte; indifferenti, la ricchezza di denaro, la salute del corpo, la reputazione. [II,9,16] E poi, se mentre parliamo il rumore diverrà più grande od uno degli astanti ci deriderà, ci sbigottiamo. [II,9,17] Dov’è, o filosofo, quel che dicevi? Lo dicevi proferendolo da dove? Dalle labbra, da qui. Perché dunque insudici soccorsi altrui? Perché giochi a dadi con le cose più grandi? [II,9,18] Giacché un conto è riporre dei pani e del vino in cassa, un altro è mangiare. Quel che viene ingerito è digerito, assimilato, diventa nerbo, carne, ossa, sangue, buon colorito, buona respirazione. Quanto è messo in disparte, qualora lo voglia puoi agevolmente prendere e mostrarlo, ma da esso nessun pro per te se non fino a reputare di averlo.

Ma tu continui a farti guidare da fedi rivelate e misteriose, da superstizioni orribili, da opinioni altrui, da tutto fuorché dalla diairesi. Perché allora ti chiami Stoico e fai il filosofo quando, da essere umano, non sai diventare uomo? (19-22)

[II,9,19] Che differenza fa commentare questi principi o quelli di filosofi dell’altra opinione? Ora siediti e parla a regola d’arte dei principi di Epicuro e probabilmente parlerai a regola d’arte più efficacemente di lui. Perché dunque ti dici Stoico, perché inganni i più, perché reciti la parte di un Greco mentre sei un Giudeo? [II,9,20] Non vedi come ciascuno è detto Giudeo, com’è detto Siro, come Egizio? E qualora vediamo qualcuno fare il doppio gioco, siamo soliti dire: “Non è un Giudeo, ma lo recita”. Qualora però indossi la passione del battezzato e dello scelto, allora effettivamente è e si chiama Giudeo. [II,9,21] Così anche noi come Giudei impostori battezzati a parole ma nei fatti qualcos’altro, noi inconsentanei alla ragione, siamo lungi dall’usare i principi di cui parliamo, salvo poi esaltarci per il fatto di conoscerli. [II,9,22] Così neppur potendo adempiere la professione di uomo, aggiungiamo quella di filosofo: fardello così rilevante quale se uno che non può sollevare dieci libbre volesse sorreggere il sasso di Aiace.

CAPITOLO 10
COME DAI NOMI È POSSIBILE TROVARE QUANTO È DOVEROSO ?

Che cosa suggeriscono di fare il nome di essere umano… (1-3)

[II,10,1] Analizza chi sei. Innanzitutto un essere umano, cioè una creatura che nulla ha di più dominante della proairesi ed il resto subordinato a questa, mentre essa è inasservibile ed insubordinabile. [II,10,2] Considera dunque da quali creature sei stato separato secondo ragione: sei stato separato dalle belve; sei stato separato dalle pecore. [II,10,3] Oltre a questo sei cittadino dell’ordine del mondo e parte di esso; non una delle servitrici ma delle cardinali, giacché sei in grado di comprendere il governo della Materia Immortale ed atto ad un rendiconto del seguito. 

…di cittadino del mondo… (4-6)

[II,10,4] Qual è dunque la professione di cittadino? Non avere peculiarmente alcun utile, non deliberare su nulla come assoluto ma come farebbero la mano od il piede i quali, se avessero contezza e comprendessero la naturale struttura, non impellerebbero o desidererebbero mai altrimenti che una volta rapportatisi all’intero. [II,10,5] Per questo dicono bene i filosofi che il virtuoso, se sapesse in anticipo il futuro, coopererebbe pure ad ammalarsi, a morire, ad essere storpiato, appunto perché si accorge che questo è deputato dalla costituzione dell’intero, che l’intero è più dominante della parte e la città del cittadino. [II,10,6] Ora, poiché non conosciamo il futuro in anticipo, è doveroso che noi ci teniamo stretti ai giudizi più purosangue per una selezione, poiché per questo siamo nati.

… di figlio… (7)

[II,10,7] Dopo questo ricorda che sei figlio. Qual è la professione di questo ruolo? Ritenere tutto il suo del padre; dargli retta in tutto; non denigrarlo mai con qualcuno né dirgli od effettuargli alcunché di dannoso; ritrarsi in tutto e dare spazio cooperando al nostro meglio.

… di fratello… (8-9)

[II,10,8] Dopo questo sappi che sei anche fratello. Per questo ruolo si è tenuti a dare spazio, ad obbedienza, a parole beneauguranti, a non pretendere mai alcunché di aproairetico in contrasto con il fratello, bensì a cederlo con piacere per avere tu di più in ciò che è proairetico. [II,10,9] Giacché vedi quale vantaggio è acquisire costumatezza in cambio di un cespo di lattuga o caso mai di un sedile; quant’è l’interesse!

… di consigliere, giovane, vecchio, padre… (10-11)

[II,10,10] Dopo questi, se sei consigliere di una città, che sei un consigliere. Se giovane, che sei un giovane. Se anziano, che sei un anziano. Se padre, che sei un padre. [II,10,11] Giacché sempre ciascuno di siffatti nomi, venendo al rendiconto dà come somma le opere attinenti. 

La perdita che subisce colui che dimentica chi è (12-13)

[II,10,12] Se partendo denigrerai tuo fratello, ti dico: “Dimenticasti chi sei e che nome hai”. [II,10,13] E poi se essendo fabbro usassi balordamente il martello, ti saresti dimenticato il fabbro. E se dimenticasti il fratello ed invece di fratello diventasti nemico personale, ti parrebbe d’avere cambiato niente per niente? 

La più drammatica delle perdite non è certo quella di un po’ di quattrini bensì quella di chi non sa muoversi correttamente e con arte tra diairesi ed antidiairesi (14-23)

[II,10,14] Se invece di uomo, creatura mansueta e socievole, sei diventato una belva dannosa, insidiosa, mordace, non hai mandato in malora nulla? Bisogna che tu perda il quattrino per essere punito, e la perdita di null’altro punisce l’uomo? [II,10,15] E poi buttando via grammatica o musica, riterresti una punizione la loro perdita; e se butterai via il rispetto di te e degli altri, la moderazione, la mansuetudine, ritieni nulla la faccenda? [II,10,16] Eppure quelle si perdono per una qualche cagione estrinseca ed aproairetica, queste invece a cagion nostra. Quelle né è bello averle né è brutto perderle; queste invece non avere e perdere è brutto, è un’onta, una sfortuna. [II,10,17] Cosa manda in malora chi sperimenta quel che sperimenta un cinedo? Il maschio. E chi ne dispone? Molto altro ed anch’egli nondimeno il maschio. [II,10,18] Cosa manda in malora chi commette adulterio? L’uomo rispettoso di sé e degli altri, padrone di sé, ben regolato, il cittadino, il vicino. Cosa manda in malora chi si adira? Qualcos’altro. Chi ha paura? Qualcos’altro. [II,10,19] Nessun cattivo è senza perdita e punizione. Orbene, se cerchi la punizione nel quattrino, tutti costoro sono indenni, senza punizione e, caso mai, ne traggono giovamento e guadagno qualora attraverso qualcuna di queste opere sopravvenga loro il quattrino. [II,10,20] Vedi però che se riconduci tutto al quattrinello, neppure chi perde il naso sarà stato secondo te danneggiato. -Sì, dice, giacché il corpo è stato mutilato- [II,10,21] Orsù, e chi ha perso il fiuto stesso, non perde nulla? Dunque non v’è alcuna facoltà dell’animo che chi l’acquisisce se ne giova e chi la butta via è punito? [II,10,22] -Quale dici?- Non abbiamo alcun senso naturale di rispetto di noi e degli altri? -L’abbiamo- Chi perde questo non è punito, non è defraudato di nulla, non butta via nulla di quanto gli appartiene? [II,10,23] Non abbiamo in noi per natura qualcosa di leale, di affettuoso per natura, per natura giovevole, di naturalmente tollerante gli uni degli altri? Chiunque dunque punisce se stesso sbadatamente al riguardo, che costui sia indenne e senza punizione?

L’insipienza di rispondere all’offesa con l’offesa (24-30)

[II,10,24] E dunque? Non danneggerò chi mi danneggia? Innanzitutto vedi cos’è danno e ricordati di quanto sentisti dire dai filosofi. [II,10,25] Infatti se il bene è nella proairesi ed il male allo stesso modo nella proairesi, scruta se quel che dici non è qualcosa del genere: [II,10,26] “E dunque? Siccome quello danneggiò se stesso commettendo un’ingiustizia contro di me, io non danneggerò me stesso commettendo un’ingiustizia contro di lui?” [II,10,27] Perché dunque non ci rappresentiamo qualcosa di siffatto ed invece laddove vi sarà qualche menomazione corporale o patrimoniale, là danno; e laddove la menomazione riguarderà la proairesi, nessun danno? [II,10,28] A chi è ingannato o commette ingiustizia non viene mal di testa o mal d’occhi o la sciatica né perde il fondo. [II,10,29] E noi null’altro vogliamo che questo. Se poi avremo la proairesi rispettosa di sé e degli altri e leale oppure sfacciata e sleale, su questo non siamo neppur vicini a litigare eccetto che a scuola soltanto e finché si tratta di argomentazioni logiche. [II,10,30] Perciò appunto facciamo profitto finché si tratta di argomentazioni logiche, ed al di fuori di esse neppure il menomo.

CAPITOLO 11
QUALE INIZIO DI FILOSOFIA ?

I pre-concetti con i quali vengono al mondo gli esseri umani (1-5)

[II,11,1] Inizio di filosofia -almeno per coloro che le si accostano come si deve, ed alla sua porta- è la consapevolezza della propria debolezza ed incapacità su questioni di necessità vitale. [II,11,2] Noi siamo venuti al mondo senza avere per natura alcun concetto del triangolo rettangolo o del semitono diesis ma impariamo ciascuno di questi concetti a partire dalla ricezione di una certa istruzione tecnica, e per questo coloro che non li conoscono neppure credono di sapere. [II,11,3] Ma chi è venuto al mondo senza avere un concetto innato di bene e di male, di bello e di brutto, di confacente e di non confacente, di felicità, di conveniente, di spettante, di quanto bisogna fare e di quanto non bisogna fare? [II,11,4] Per questo tutti usiamo i nomi e proviamo ad adattare i pre-concetti alle particolari sostanze. [II,11,5] Fece bene; ha fatto debitamente, non debitamente; fu sfortunato, fu fortunato; è un ingiusto, è uno giusto. Chi di noi risparmia questi nomi? Chi di noi ne rimanda l’uso fino a che abbia imparato, come appunto fanno coloro che non sanno di linee o di intervalli musicali?

Identici pre-concetti ed opinioni che si presumono vere ma poi si contraddicono (6-12)

[II,11,6] Causativo di ciò è l’essere noi venuti al mondo come già istruiti, in questo campo, dalla natura; ma prendendo impulso da questi pre-concetti noi aggiungiamo poi ad essi la nostra presunzione. [II,11,7] -Giacché sì, per Zeus, non so io per natura cos’è il bello e cos’è il brutto? Non ne ho il concetto?- L’hai. -Non lo adatto ai particolari?- Lo adatti. [II,11,8] -Dunque non lo adatto bene?- Tutta la ricerca sta qui, e qui sopravviene la presunzione. Dopo avere infatti preso impulso da queste ammissioni, gli individui si promuovono al disaccordo a motivo dell’adattamento non consono . [II,11,9] Che se appunto essi avessero posseduto anche questo oltre a quelli, cosa impedirebbe loro di essere perfetti? [II,11,10] Ora, dacché reputi anche di adattare i pre-concetti ai particolari in modo consono, dimmi: donde prendi questo? -Perché lo reputo- Ma quest’altro qui non lo reputa, ed anch’egli crede di adattarli bene; o non lo crede? -Lo crede- [II,11,11] Potete dunque entrambi adattare in modo consono i pre-concetti in questioni sulle quali opinate cose contraddittorie? [II,11,12] -Non possiamo- Per adattarli meglio ci puoi dunque mostrare qualcosa di superiore al tuo reputare? Chi è pazzo fa qualcos’altro che quel che reputa bello? Questo criterio dunque basta anche a lui? -Non basta- Si viene dunque a qualcosa di superiore al reputare. -E cos’è?- 

Il punto di partenza della filosofia ed il suo scopo (13-18)

[II,11,13] Ecco inizio di filosofia: coscienza della contrapposizione degli esseri umani gli uni gli altri, ricerca di ciò da cui nasce la contrapposizione, disconoscimento e diffidenza nel mero reputare; poi una inchiesta su quanto si reputa, se lo si reputa rettamente; ed il rinvenimento di un canone, come trovammo la bilancia per i pesi ed il regolo per le linee rette e curve. [II,11,14] Questo è inizio di filosofia. Sta bene tutto quanto è reputato da tutti? E com’è possibile che stia bene quel che si contraddice? Dunque non tutto. [II,11,15] -Ma quanto reputiamo noi? Perché non piuttosto i Siri, perché non piuttosto gli Egizi, perché quanto pare a me piuttosto che quanto pare al tale?- Piuttosto niente. -Per essere un canone proprio non basta quanto ciascuno reputa giacché per pesi e misure non ci accontentiamo del mero palesamento, ma trovammo un canone per ciascuno di essi. [II,11,16] Qui dunque nessun canone superiore al reputare? E com’è possibile che sia inintelligibile ed introvabile ciò tra gli uomini è di più vitale necessità? [II,11,17] -Dunque c’è- E perché non lo cerchiamo e ritroviamo e ritrovatolo, orbene, usiamo inviolabilmente non sporgendo a prescindere da esso neppure il dito? [II,11,18] Giacché questo credo sia quanto, una volta trovato, allontana dalla pazzia coloro che usano il solo reputare come misura di tutto. Affinché prendendo impulso da canoni conosciuti e ben distinti possiamo, orbene, usare per i particolari dei pre-concetti bene articolati.

Un esempio: l’analisi dell’ebbrezza (19-25)

[II,11,19] Quale sostanza è caduta sotto la nostra ricerca? [II,11,20] -L’ebbrezza- Sommettila al canone, buttala sulla bilancia. Il bene deve essere siffatto da meritare fiducia ed in cui confidare? -Deve- Merita dunque aver fiducia in qualcosa di non ben saldo? -No- [II,11,21] E’ forse l’ebbrezza qualcosa di ben saldo? -No- Dunque rimuovila, buttala fuori della bilancia, bandiscila lontano dall’ufficio dei beni. [II,11,22] E se non hai la vista acuta ed una sola bilancia non ti basta, portane un’altra. Merita esaltarsi del bene? -Sì- E merita esaltarsi di un’ebbrezza presente? Guardati dal dire che merita; se no non ti riterrò più degno neppure della bilancia! [II,11,23] Così si giudicano e si pesano le faccende, quando siano pronti i canoni. [II,11,24] Fare filosofia è questo esaminare e rinsaldare i canoni. [II,11,25] Usare ormai di quelli riconosciuti, questo è opera del virtuoso.

CAPITOLO 12
SUL DIALOGARE

La dialettica: arte del dialogare rettamente per domanda e risposta (1-4)

[II,12,1] Quel che deve sapere chi impara ad usare il ragionamento è stato precisato dai filosofi della nostra scuola. Circa il suo uso conveniente siamo però perfettamente non allenati. [II,12,2] Dà a chi vuoi di noi, quale interlocutore, una persona comune e questi non trova come servirsene ma dopo averla un poco smossa, se quella gli verrà contro in modo stonato non può più maneggiarla e, orbene, o ingiuria o deride e dice: “E’ una persona comune; non è possibile servirsene”. [II,12,3] Invece la guida, qualora prenda uno che va errando, lo conduce sulla strada dovuta e non parte dopo averlo deriso o ingiuriato. [II,12,4] Anche tu mostragli la verità e vedrai che segue. Ma finché non la mostrerai, non deriderlo ma piuttosto accorgiti della tua incapacità. 

Il dialogo socratico: un modello di dialettica (5-13)

[II,12,5] Come faceva dunque Socrate? Costringeva lo stesso interlocutore a fargli da testimone, non aveva bisogno di alcun altro testimone. Appunto perciò aveva la potestà di dire: “Gli altri li lascio a spasso e come testimone mi accontento sempre dell’obiettore. Non faccio votare gli altri ma solo il mio interlocutore”.[II,12,6] Giacché poneva così evidenti i contenuti dei concetti che chiunqueprendevaconsapevolezza della contraddizione ne arretrava. [II,12,7] “Proprio chi invidia si rallegra?- Nient’affatto! Anzi, piuttosto si affligge”. Affermando l’opposto, Socrate smuoveva chi aveva dintorno. “E che? Reputi l’invidia essere afflizione per dei mali? E cos’è l’invidia di mali?”[II,12,8] E dunque gli faceva dire che l’invidia è afflizione per dei beni. “E che? Uno invidierebbe per cose che non lo riguardano?- Nient’affatto!” [II,12,9] E così dopo avere riempito ed articolato il concetto, si allontanava non dicendo: “Definiscimi l’invidia” e poi definitala : “La definisti male, giacché il definito non ha implicazione reciproca con il punto capitale”. [II,12,10] Frasi tecniche e per questo importune ed incomprensibili alle persone comuni, dalle quali noi invece non possiamo distornarci. [II,12,11] Quanto a quelle alle quali la persona comune da sola, aderendo alle proprie rappresentazioni potrebbe dare qualche spazio oppure scartare, ebbene noi nient’affatto siamo capaci di smuoverla attraverso di esse.[II,12,12] Orbene, presa consapevolezza di questa nostra incapacità, verosimilmente ci asteniamo dalla faccenda, quanti almeno di noi hanno un po’ di cautela. [II,12,13] Ma i più, avventati come sono, una volta accondisceso a qualcosa di siffatto si ingarbugliano ed ingarbugliano e, da ultimo, vanno via dopo avere ingiuriato ed essere stati ingiuriati.

Socrate dialogava, non insultava (14-16)

[II,12,14] Questo era il primo e più peculiare tratto di Socrate: non esacerbarsi mai in un ragionamento, non proferire mai alcunché di ingiurioso né di oltraggioso; ma tollerare gli ingiuriatori e far cessare la rissa. [II,12,15] Se volete riconoscere che grande facoltà aveva in questo, leggete il Convito di Senofonte e vedrete che grandi risse Socrate ha dissolto. [II,12,16] Verosimilmente per questo è stato detto da parte dei poeti con grandissima lode che: “…subito faceva abilmente cessare anche una grande disputa…”

Difficoltà di un dialogo socratico oggi (17-25)

[II,12,17] E dunque? La faccenda non è ora troppo sicura, e soprattutto a Roma. E’ manifesto infatti che chi lo fa non bisognerà che lo faccia in un angolino ma che venga innanzi ad un qualche consolare, caso mai, ricco di denaro e che cerchi di sapere da lui: “Ehi tu, sei in grado di dirmi a chi trasmettesti i tuoi cavalli?” [II,12,18] “Io certo!” “Forse a chi capita ed inesperto di ippica?” “Nient’affatto!” “E che? A chi hai affidato l’oro od il denaro od il vestito?” “Neppure questi a chi capita”. [II,12,19] “Ed hai già analizzato a chi delegare il tuo corpo affinché ne abbia sollecitudine?” “E come no?” “Anche questo, è manifesto, un esperto di ginnastica o di medicina”. [II,12,20] “Certamente!” “E per te queste cose sono le più possenti, oppure acquisisti qualcos’altro migliore di tutte?” “Quale dici?” “Dico, per Zeus, quanto le usa, valuta ciascuna di esse e consiglia”. “Dici proprio l’animo?” [II,12,21] “Rettamente concepisti! Giacché dico appunto questo!” “Per Zeus, reputo questo di gran lunga il migliore dei miei possessi!” [II,12,22]”Sei in grado di dirmi in che modo sei stato sollecito dell’animo? Giacché a casaccio e come capita non è verosimile che tu, persona così sapiente e valida in città, stia trascurando e facendo andare in malora sbadatamente quanto hai di più possente”. [II,12,23] “Nient’affatto!” “E ne sei stato sollecito tu stesso? [II,12,24] Imparando da qualcuno o trovando il modo da solo?” E qua, orbene, il pericolo è che dapprima dica: “O ottimo, e che t’importa? Sei mio Signore?” E poi se persisterai a procurare fastidio, che alzi le mani e ti dia dei cazzotti. [II,12,25] Di questa faccenda ero anch’io una volta emulo, prima di imbattermi in queste difficoltà.

CAPITOLO 13
SULL ‘ ESSERE IN ANSIA

L’ansietà è generata dall’ostinato ed illogico desiderio di quanto non dipende esclusivamente da noi: il citaredo e gli applausi (1-8) 

[II,13,1] Qualora veda un individuo in ansia, io dico: che cosa vuole mai costui? Se non volesse qualcosa che non è in suo esclusivo potere, come sarebbe ancora in ansia? [II,13,2] Per questo anche il citaredo, quando canta da solo non è in ansia; ed invece lo è quando entra in teatro, pur se avrà una voce assai buona e suonerà bene la cetra. Giacché egli non vuole soltanto cantare bene ma anche avere applausi; e questo non è più in suo esclusivo potere. [II,13,3] Orbene dove gli è congiunta scienza, lì ha fiducia. Porta qualsiasi persona comune ed egli non se ne impensierisce; ma dove non sa né ha studiato, lì è in ansia. [II,13,4] Cos’è questo? Egli non sa cos’è folla né cos’è lode di folla. Imparò a percuotere la corda più bassa e la corda più alta, ma cos’è la lode dei più e quale potere ha nella vita non sa né l’ha studiato. [II,13,5] Orbene è necessario che tremi e sia pallido. Qualora dunque io veda un citaredo che ha paura, non posso dire che non sia un citaredo ma posso dire qualcos’altro, e non una cosa sola ma molte. [II,13,6] Innanzitutto lo chiamo uno straniero e dico: questo individuo non sa della terra dov’è, ma benché vi risieda da cotanto tempo ignora le leggi della città, le sue usanze e di cosa si ha potestà e di cosa non la si ha; e neppure mai assunse un legale che gli dicesse e spiegasse quanto è legale. [II,13,7] Eppure non scrive un testamento senza sapere come bisogna scriverlo, oppure assume chi sa; né altrimenti sigilla una obbligazione o scrive una garanzia, e tuttavia usa, prescindendo da un legale, desiderio ed avversione, impulso, progetto e proposito. [II,13,8] Come, prescindendo da un legale? Non sa che vuole quanto non è dato e non vuole il necessario; e non sa né quanto è suo peculiare né quanto è allotrio. Se proprio lo sapesse, non sarebbe mai intralciato, non sarebbe mai impedito, non sarebbe in ansia. 

L’ansia è quindi generata dalla ignoranza della diairesi ed è connaturata all’uso della controdiairesi (9-13)

[II,13,9] E come potrebbe non essere così? Qualcuno ha paura per quanto non è male? -No- E che? Per dei mali che è però in suo esclusivo potere far sì che non avvengano? -Nient’affatto!- [II,13,10] Se dunque ciò che è aproairetico è né bene né male mentre tutto ciò che è proairetico è in nostro esclusivo potere e nessuno può sottrarcelo né procacciarci quel che di esso non disponiamo: dov’è ancora posto per l’ansia? [II,13,11] Siamo in ansia per il corpo, per le coserelle, sul che cosa reputerà Cesare, ma su nessuna delle cose di dentro. Forse sul non concepire il falso? -No, giacché è in mio potere- Forse sull’impellere contro natura? -Neppure su questo- [II,13,12] Qualora dunque veda uno impallidire, come il medico dal colorito diagnostica: “Costui ha mal di milza; quest’altro di fegato”; così anche tu diagnostica: “Costui ha mal di desiderio e di avversione, non fluisce sereno, soffre di infiammazione”. [II,13,13] Giacché nient’altro muta il colorito né fa tremarella, né rumore di denti, né *fa accovacciare e sedere ora su un piede ora su un altro*.

Zenone ed il re Antigono Gonata (14-15)

[II,13,14] Per questo Zenone, quando stava per incontrarsi con Antigono non era in ansia: giacché su quanto Zenone ammirava Antigono non aveva alcuna potestà, e per ciò su cui Antigono l’aveva Zenone non si impensieriva. [II,13,15] Antigono invece, quando stava per incontrarsi con Zenone era in ansia, e verosimilmente: giacché voleva essergli gradito e questo giaceva al di fuori di lui. Zenone, per contro, non voleva; giacché neppure un qualunque altro artista lo vuole nei confronti di chi non è dell’arte. 

Il possesso della diairesi fa l’uomo intrinsecamente fiducioso in se stesso (16-17)

[II,13,16] Voglio io esserti gradito? In cambio di che cosa? Giacché sai le unità di misura in base alle quali si giudica un uomo da un essere umano? Hai studiato per riconoscere cos’è un uomo dabbene e cos’è uno cattivo e come l’uno e l’altro lo diventano? [II,13,17] Perché dunque proprio tu non sei dabbene? -Come, dice, non lo sono?- Perché nessuno che sia dabbene piange né sospira, nessuno mugugna, nessuno impallidisce e trema né dice: “Come m’accoglierà? Come m’ascolterà?” 

Come il successo di uno non può mai essere il bene di un altro, così l’aberrazione di uno non può mai essere il male di un altro (18)

[II,13,18] Schiavo! come reputerà. Perché ti importa dell’allotrio? Ora, non è aberrazione sua l’accogliere male le tue parole? -E come no?- Può l’aberrazione essere di uno ed il male di un altro? -No- Perché dunque sei in ansia per l’allotrio? 

In ciò di cui si ha pratica ha senso non avere fiducia? Socrate e Diogene (19-26)

[II,13,19] -Sì; ma sono in ansia sul come gli parlerò?- Dunque non c’è potestà di parlargli come vuoi? -Ma temo di essere sbattuto fuori- [II,13,20] Stando per scrivere il nome “Dione”, temi forse di essere sbattuto fuori? -Nient’affatto!- Qual è il causativo? Non è che hai studiato a scrivere? -E come no?- E che? Stando per leggere non staresti allo stesso modo? -Allo stesso modo- Qual è il causativo? Che ogni arte ha qualcosa di potente e di fiducioso tra i suoi elementi. [II,13,21] Dunque non hai studiato a parlare? E che altro studiavi a scuola? -Sillogismi e ragionamenti equivoci- Per cosa? Non per poter dialogare espertamente? Ed espertamente non è tempestivamente, con sicurezza, con comprendonio ed ancora, senza passi falsi, senza impacci e soprattutto con fiducia? -Sì- [II,13,22] Essendo dunque un cavaliere venuto in campo aperto contro un fante, sei in ansia? Dove tu hai studiato e quello è senza studio? -Sì, ma ha la potestà di uccidermi- [II,13,23] Dì dunque la verità, o misero, e non cialtroneggiare né sollecitare di essere un filosofo e non ignorare i tuoi Signori ma, finché avrai questo manico offerto dal tuo corpo, segui chiunque è più potente. [II,13,24] Socrate invece studiava a parlare, lui che così dialoga con i tiranni, con i giudici, nel carcere. Anche Diogene aveva studiato a parlare, lui che così parla con Alessandro, con Filippo, con i pirati, con chi lo aveva comperato….(lacuna)…. [II,13,25] Lascia tutto ciò a coloro che hanno fiducia in quanto hanno studiato. [II,13,26] Tu incedi pure verso quanto è tuo e non distornartene mai. Partitene in un angolino, siediti ed intreccia sillogismi e porgili ad un altro: non c’è in te l’uomo condottiero di città.

CAPITOLO 14
A NASONE

L’apprendimento di qualunque arte è faticoso e persino sgradevole (1-6)

[II,14,1] Quando un certo romano entrò con il figlio ed udiva una lettura ‘Questo’, diceva Epitteto, ‘è il mio modo di insegnamento’ e tacque. [II,14,2] Poiché quello sollecitava di trovare il seguito ‘Qualora’, continuò Epitteto, ‘sia trasmessa, ogni arte è tediosa per la persona comune ed inesperta in essa. [II,14,3] Però i prodotti delle arti mostrano subito l’utilità per la quale sono nati e la maggior parte di essi ha anche un che di attraente ed aggraziato. [II,14,4] Presenziare e comprendere come un calzolaio impara è sgradevole, ma il calzare è proficuo ed altrimenti non spiacevole a vedersi. [II,14,5] Anche l’apprendimento di un falegname è fastidioso soprattutto per la persona comune cui capita di assistervi, mentre l’opera sfoggia l’utilità dell’arte. [II,14,6] E molto più lo si vedrà nella musica giacché, se presenzierai ad una tale lezione, questa ti apparirà la più sgradevole di tutte e tuttavia il prodotto musicale è piacevole e delizioso da ascoltare per le persone comuni.

La filosofia è l’arte di diventare uomo (7-8)

[II,14,7] E qui noi siffatta ci rappresentiamo l’opera di chi fa filosofia, che si deve conciliare la propria decisione agli avvenimenti, affinché nessuno di essi accada nostro malgrado e neppure che non accada quando invece noi disponiamo che accada. [II,14,8] Da cui promana ai qui raccomandati il non fallire nel desiderio e, nell’avversione, il non incappare in quanto si avversa; il tragittarsela senza afflizione, senza paura, senza sconcerto mentre, quanto a sé, serba con i soci le relazioni tanto naturali che acquisite di figlio, padre, fratello, cittadino, marito, moglie, vicino, compagno di viaggio, comandante, comandato.

Uomo è sapere che soltanto la Materia Immortale è, che dalla Materia nasce ogni intelligenza, che dalla intelligenza di chi è uomo nascono dei leali, liberi, benefici, disinteressati come la Materia (9-13)

[II,14,9] Qualcosa di siffatto ci rappresentiamo l’opera di chi fa filosofia. Orbene cerchiamo di seguito a ciò come questo sarà. [II,14,10] Vediamo dunque che il falegname diventa falegname imparando certe cose ed il pilota diventa pilota imparando certe cose. Non sarà che anche qua non è bastevole decidere di diventare virtuoso, ma c’è anche bisogno di imparare certe cose? Cerchiamo dunque quali siano queste cose. [II,14,11] I filosofi dicono che innanzitutto bisogna imparare questo: che vi è una Materia Immortale e che si fa mente dell’intero e che non è possibile sfuggirle non soltanto quando si opera ma anche quando si pensa o si pondera; e poi di che natura sono gli dei. [II,14,12] Giacché quali essi saranno trovati essere, chi intende essere loro gradito ed ubbidirli, necessariamente fa del suo meglio per provare ad assomigliare ad essi. [II,14,13] Se dunque la Materialità è leale, è necessario che anche questo sia leale. Se è libera, anche questo libero; se benefica, anche questo benefico; se disinteressata, anche questo disinteressato: quindi quale emulo di un dio che faccia e dica tutto il seguito.

Cominciare a non usare più il linguaggio senza comprenderne il significato (14-20) 

[II,14,14] -E donde si deve iniziare?- Se accondiscenderai, ti dirò che innanzitutto devi comprendere i nomi. -Sicché io ora non comprendo i nomi?- [II,14,15] Non lo comprendi. -E come dunque li uso?-Come gli analfabeti le voci scritte, come il bestiame le rappresentazioni: giacché altro è uso, altro è comprensione. [II,14,16] Se credi di comprendere, porta il nome che vuoi e saggiamoci per vedere se comprendiamo. [II,14,17] -Ma l’essere confutato è fastidioso per una persona già anziana e che, caso mai, ha condotto le tre campagne militari- [II,14,18] Lo so anch’io. Giacché ora tu sei ora venuto da me come chi non ha bisogno di nulla. E di cosa saresti rappresentato come carente? Sei ricco di denaro, hai figlioli, caso mai anche una moglie e molti domestici, Cesare ti conosce, possiedi molti amici a Roma, esplichi ciò che è doveroso, sai ricambiare col bene chi fa bene e fare del male a chi male fa. [II,14,19] Che ti manca? Se dunque ti mostrerò che sono le cose più necessarie e grandi per la felicità, che fino a questo momento di tutto sei stato sollecito tranne di quel che conviene, e se sovrapporrò il tocco finale: tu non sai né cos’è dio né cos’è uomo né cos’è bene né cos’è male [II,14,20] e, parimenti la più intollerabile di tutte, che sei ignorante di te stesso; come puoi tollerarmi, sostenere il controllo, stare al gioco? 

Non ritenersi oltraggiati dalla Verità (21-22)

[II,14,21] Nient’affatto! Ma subito ti allontani esasperato. Eppure, che male ti ho fatto? A meno che anche lo specchio lo faccia a chi è laido, mostrandogli qual è. A meno che anche il medico oltraggi l’ammalato qualora gli dica: “O uomo, reputi di non avere nulla ma hai la febbre; oggi digiuna, bevi acqua”; e nessuno dice: “Che terribile oltraggio!”. [II,14,22] Se però dirai a qualcuno: “I tuoi desideri soffrono di infiammazione, le tue avversioni sono da servo nell’animo, i progetti incoerenti, gli impulsi in disarmonia con la natura delle cose, le concezioni avventate e mentitrici”; subito esce a dire: “Mi oltraggiò!” 

Invitati allo spettacolo delle umane vicende: commedia? tragedia? farsa? non senso? (23-24)

[II,14,23] Siffatte sono le nostre vicende come in una sagra. Vi sono condotti per essere smerciati del bestiame e dei buoi; ed il più della gente è lì chi per comperare, chi per vendere. Pochi sono quelli venuti per lo spettacolo della sagra: come questa accade e perché; chi ha posto la sagra e per cosa. [II,14,24] Così pure qua in questa sagra: alcuni, come il bestiame, di nulla si impicciano che del foraggio. Voi quanti siete rivolti a patrimonio e fondi e domestici e certe cariche: questo non è altro che foraggio. 

Il divino sorriso con il quale la Materia Immortale, che sola tutto governa, guarda coloro che la credono inerte, amorfa, incapace di generare intelligenza (25-29)

[II,14,25] Sono invece pochi gli uomini che prendono parte alla sagra per amore dello spettacolo. “Cos’è dunque mai l’ordine del mondo, chi lo governa? Nessuno? [II,14,26] E com’è possibile che una città od una casa non possono perdurare prescindendo da chi le governi e ne abbia sollecitudine neppure per pochissimo tempo ed una struttura così grandiosa e magnifica sia amministrata così disciplinatamente a casaccio e come capita? [II,14,27] Dunque c’è chi governa. Quale governante è e come governa? E noi chi siamo che siamo nati da lui e per quale opera? Abbiamo con lui qualche intreccio e relazione, o nessuna?” [II,14,28] Questo è quanto sperimentano questi pochi e, orbene, hanno agio solo per questo: partire dopo avere visitato la sagra. [II,14,29] E dunque? Sono derisi dai più; giacché anche là gli spettatori lo sono dai mercanti. Anche il bestiame, se avesse qualche consapevolezza, deriderebbe chi è infatuato d’altro che del foraggio.

CAPITOLO 15
A QUANTI MANTENGONO RIGIDAMENTE CERTE LORO DETERMINAZIONI

Diairesizzare impropriamente può farci scambiare per giusta fermezza una nostra cieca ostinazione (1-3)

[II,15,1] Qualora alcuni sentano questi discorsi, che si deve esser saldo e che la proairesi è qualcosa di libero per natura e di non soggetto a costrizioni mentre il resto è soggetto a impedimenti, a costrizioni, è servo, allotrio; ebbene immaginano di dover mantenere inviolabilmente ogni loro determinazione. [II,15,2] Ma innanzitutto deve essere sana la determinazione. Giacché io dispongo che vi siano in un corpo delle tensioni, ma come in un corpo in salute, in cimento. [II,15,3] Se invece ti mostrerai a me con tensioni da frenetico e vi cialtroneggerai sopra, ti dirò: “O uomo, cerca chi ti curi. Queste non sono tensioni ma atonia”.

Non fraintendiamo quanto ci viene in mente con quanto pensiamo: ogni determinazione deve essere prima ben analizzata (4-12)

[II,15,4] In altro modo qualcosa di siffatto sperimentano anche nel loro animo coloro che fraintendono questi discorsi. Per esempio un mio compagno, senza cagione alcuna determinò di morire di inedia. [II,15,5] Io lo seppi quando era già al terzo giorno di astinenza e venni da lui per cercare di sapere cosa era accaduto. -Ho determinato, dice- [II,15,6] Ma ugualmente, cos’era quanto ti convinse? Giacché se determinasti rettamente, ecco che ti sediamo accanto e cooperiamo affinché tu esca; ma se determinasti senza ragione, riallogati. [II,15,7] -Si devono mantenere le determinazioni- Che fai, o uomo? Non tutte ma quelle prese rettamente. Dacché sperimentando testé che è notte, non riallogarti, se lo reputerai, ma mantienilo e dì che si devono mantenere le determinazioni! [II,15,8] Non vuoi ergere inizio e fondamento, analizzare se la determinazione è sana o non è sana e così, orbene, edificarvi sopra la giusta tensione, la sicurezza? [II,15,9] Ma se sottostaranno fondamenta schifose e fatiscenti, non vi si deve edificare e quanto più numerose e più poderose costruzioni vi sovrapporrai, tanto più in fretta saranno fatte cadere giù. [II,15,10] Senza cagione alcuna ci sloggi dal vivere una persona amica, un intimo, un cittadino della stessa città, tanto la grande che la piccola, [II,15,11] e poi, mentre lavori ad un omicidio e mandi in malora un uomo che non ha commesso alcuna ingiustizia, dici che si devono mantenere le determinazioni? [II,15,12] Se ti fosse mai in qualche modo saltato in testa di uccidermi, dovresti mantenere le determinazioni? 

Una pervicace irragionevolezza è segno di debolezza d’animo (13-20)

[II,15,13] Quello dunque a stento fu persuaso a modificare avviso. Ma è impossibile allogare certa gente di adesso. Sicché reputo di sapere ora quanto ignoravo prima, cos’è quel che si dice per consuetudine: “Lo stupido è impossibile da persuadere o spezzare”. [II,15,14] Non mi accada mai di avere amico un sapiente stupido! Nulla è più intrattabile. “Ho determinato”. Anche i pazzi; ma quanto più saldamente determinano l’inesistente, tanto più hanno bisogno di elleboro. [II,15,15] Non vuoi fare quel che fa un ammalato e pregare il medico? “Sono ammalato, signore; aiutami. Analizza cosa devo fare; mio compito è ubbidirti”. [II,15,16] Così anche qui: “Non so quel che devo fare; sono venuto per impararlo”. No, ma: “Parlami d’altro; questo l’ho determinato”. [II,15,17] Quale altro? Giacché cos’è più grande e più favorevole dell’essere persuaso che non basta l’avere determinato ed il non riallogarsi? Queste sono tensioni folli, non salutari. [II,15,18] “Voglio morire, se mi costringerai a questo”. Perché, o uomo? Che accadde? “Ho determinato”. Fui salvato dal fatto che non hai determinato di uccidere me. [II,15,19] “Non prendo denaro”. Perché? “Ho determinato”. Sappi che la tensione che ora usi per non prenderlo, nulla impedisce che un giorno ti faccia propendere senza ragione a prenderlo ed a dire di nuovo: “Ho determinato”; [II,15,20] come in un corpo ammalato e sofferente di scolo di umori, lo scolo propende ora verso questi organi ora verso quelli. Così pure un animo debole, dove inclina è dubbio; ma qualora a questa inclinazione ed a questa pulsione sia congiunta anche della tensione, allora il male diventa senza aiuto e senza cura. 

CAPITOLO 16
CHE NON STUDIAMO PER USARE I GIUDIZI SUI BENI E SUI MALI

L’oratore ed il citaredo intendono per successo l’applauso degli spettatori (1-10)

[II,16,1] Dov’è il bene? -Nella proairesi- Dov’è il male? -Nella proairesi- Dove l’udetero? -In ciò che è aproairetico- [II,16,2] E dunque? Qualcuno di noi si ricorda di questi discorsi fuori della scuola? Qualcuno studia per rispondere lui su di sé in questo modo alle faccende come alle domande: “E’ proprio giorno?” “Sì”; “E che? E’ notte?” “No”; “E che? Le stelle sono in numero pari?” “Non sono in grado di dirlo”. [II,16,3] Qualora ti risplenda davanti del denaro, hai studiato per dare la risposta dovuta che “Non è un bene”? Ti sei esercitato in queste risposte o soltanto per i sofismi? [II,16,4] Perché dunque ti stupisci se dove hai studiato là diventi migliore e dove non hai studiato là perduri lo stesso? [II,16,5] Peraltro, perché l’oratore sapendo di avere scritto bene, di avere appreso lo scritto, di portarsi dentro una voce piacevole, ugualmente è ancora in ansia? Perché non si accontenta di avere studiato. [II,16,6] Cosa vuole, dunque? Essere lodato dagli astanti. Dunque per poter declamare si è esercitato, ma non si è esercitato per lode e denigrazione. [II,16,7] Quando mai sentì da qualcuno cos’è lode, cos’è denigrazione e qual è la natura dell’una e dell’altra? Quali lodi vadano inseguite e quali denigrazioni fuggite? Quando studiò questo studio conseguente con questi discorsi? [II,16,8] Perché dunque ti stupisci ancora se dove imparò, là differisce dagli altri e dove non ha studiato, là è identico ai più? [II,16,9] Come il citaredo sa suonare la cetra, canta bene, ha una magnifica tunica lunga ed ugualmente, entrando in scena, trema: giacché questo lo sa, ma non sa cos’è folla né grida e derisione di folla. [II,16,10] E neppure sa cos’è lo stesso essere in ansia, se è opera nostra od allotria; se è possibile o non è possibile farlo cessare. Per questo, se sarà lodato esce borioso; ma se sarà deriso, quella bolla di boria è punta e si affloscia.

Certamente il successo va perseguito ad ogni costo, giacché essere uomo è avere successo. Ma quale successo? Il successo in quanto fa uomo: nella fortezza, nella magnanimità, nella virilità, ossia nel retto uso della diairesi (11-17) 

[II,16,11] Qualcosa di siffatto lo sperimentiamo anche noi. Di cosa ci infatuiamo? Degli oggetti esterni. Per cosa ci industriamo? Per gli oggetti esterni. E poi difettiamo di sapere come mai abbiamo paura o come mai siamo in ansia? [II,16,12] Cos’è dunque fattibile qualora riteniamo mali gli eventi inferiti? Non possiamo non avere paura, non possiamo non essere in ansia. [II,16,13] E poi diciamo: “Signore Iddio, come non essere in ansia?” Stupido! Non hai le mani? Non te le fece la Materia Immortale? Ora siedi ed auspica che non ti colino i mocci! Piuttosto smocciati e non incolpare! [II,16,14] E dunque? Qui nulla ti ha dato? Non ti ha dato fortezza, non ti ha dato magnanimità, non ti ha dato virilità? E con mani così rilevanti cerchi ancora chi smocci? [II,16,15] Ma questo né studiamo né di questo ci impensieriamo. Peraltro datemi uno al quale importa come fare qualcosa; che si impensierisce non di centrare qualcosa ma della propria attività. Chi passeggiando si impensierisce di questa sua attività? Chi deliberando, proprio della deliberazione e non di centrare ciò intorno a cui delibera? [II,16,16] E se lo centrerà, si è esaltato e dice: “Come deliberammo bene! Non ti dicevo, fratello, che quando noi analizziamo qualcosa è impossibile che non sortisca così?” Se invece avrà luogo altrimenti, la proairesi dello sciagurato è stata resa serva, non trova più nulla da dire sui fatti accaduti. Chi di noi per questo assunse un indovino? [II,16,17] Chi di noi si coricò in un tempio per schiarirsi su un’attività? Chi? Datemene uno solo, affinché veda colui che cerco da molto tempo, il davvero nobile d’indole e purosangue; sia giovane sia più anziano, datemelo.

A crearci difficoltà sono le nostre rappresentazioni non ben analizzate: male non è la morte ma la paura della morte (18-23)

[II,16,18] Perché dunque ci stupiamo ancora se abbiamo consumata esperienza dei materiali mentre nelle attività siamo servi nell’animo, indecenti, di nessun valore, vili, indolenti, intere sfortune? Giacché di ciò nulla ci è importato né lo studiamo. [II,16,19] Se non avessimo paura della morte o dell’esilio bensì della paura, studieremmo per non incappare in quelli che ci appaiono mali. [II,16,20] Ora a scuola siamo focosi e linguacciuti, sufficienti, se ci imbatteremo in una ricerchina su qualcuno di questi punti, per venire al seguito. Ma trascinaci all’uso e ci troverai naufraghi sciagurati. Ci incolga una rappresentazione sconcertante e riconoscerai cosa studiavamo e per cosa ci allenavamo. [II,16,21] Orbene, per mancanza di studio noi ne ammucchiamo sempre sopra qualcuna e plasmiamo le rappresentazioni sconcertanti più grandi di quel che sono. [II,16,22] Subito io, qualora navighi, se mi piego in giù verso l’abisso o guardo il pelago attorno e non vedo terra, mi ritraggo; ed immaginando, se naufragherò, di dover tracannare questo intero pelago, non mi salta in testa che me ne bastano tre boccali. Cos’è dunque a sconcertarmi? Il mare? No, ma il giudizio. [II,16,23] Di nuovo, qualora accada un terremoto io immagino che la città sta per cadermi addosso. Giacché non basta un piccolo sasso per buttarmi fuori il cervello? 

Rettificare i nostri giudizi imparando a diairesizzare (24-27)

[II,16,24] Cos’è dunque ad appesantirci e frastornarci? Cos’altro se non i giudizi? Cos’altro è se non il giudizio ad appesantire chi va via e si allontana da intimi e compagni e posti e correlazioni? [II,16,25] Qualora i bimbi singhiozzino perché la balia è partita per un poco, se prendono una focaccina se ne sono dimenticati. [II,16,26] Vuoi dunque che anche noi assomigliamo ai bimbi? No, per Zeus! Giacché io sollecito di sperimentare questo non ad opera di una focaccina ma di retti giudizi. [II,16,27] E questi quali sono? Quelli che deve avere l’uomo il quale studia il giorno intero per non struggersi per nulla di allotrio: né un compagno, né un posto, né dei ginnasi, ma neppure per il suo corpo; per ricordarsi della legge ed averla dinanzi agli occhi. 

Regola d’oro per rettificare i nostri giudizi è imparare la inviolabile legge della Materia Immortale (28) 

[II,16,28] E qual è la legge divina? Serbare ciò che è peculiare, non pretendere ciò che è allotrio ma usare quanto ci è dato e non bramare quanto non ci è dato; sottraendosi qualcosa, restituirlo con scioltezza ed immantinente, riconoscenti per il tempo dell’uso, se vuoi non chiamare la balia e la mamma. 

Ancora rettificare i nostri giudizi (29-38)

[II,16,29] Giacché che differenza fa di chi si è da meno e da cosa si penzola? Perché sei migliore di chi singhiozza per una pupattola, se piangi per un ginnasiucolo, dei portichetti, dei giovanottelli e siffatti trastulli? [II,16,30] Un altro viene a piangere perché sta per non bere più l’acqua della fonte di Dirce. E l’acqua Marcia è peggiore di quella di Dirce? “Ma quella mi era consueta”. [II,16,31] Anche questa di nuovo ti sarà consueta. E se poi ti struggerai per una cosa siffatta, singhiozza di nuovo anche per questo e cerca di fare una riga simile a quella di Euripide *I bagni termali di Nerone e l’acqua Marcia* . Ecco come nasce una tragedia, qualora le faccende che capitano si imbattano in persone stupide. [II,16,32] “Quando vedrò dunque di nuovo Atene e l’acropoli?” Sciagurato, non ti basta quanto scorgi ogni giorno? Hai qualcosa di migliore o più grande da vedere del sole, della luna, degli astri, della terra intera, del mare? [II,16,33] Se davvero comprendi chi governa l’intero e lo porti in giro dentro di te, brami ancora dei sassi ed una rocca graziosa? Dunque qualora sia per abbandonare proprio il sole e la luna, che farai? Siederai a singhiozzare come i bimbi? [II,16,34] Cosa facevi dunque a scuola, cosa ascoltavi, cosa imparavi? Perché ti davi il titolo di filosofo quando si ha la potestà di registrare la realtà vera dicendo: “Effettuai lo studio di alcune ‘Introduzioni alla filosofia’ e lessi qualche opera di Crisippo; ma del filosofo non pervenni neppure alla porta. [II,16,35] Giacché che parte ho io in questa faccenda, faccenda nella quale ebbe una parte Socrate, che visse così e che morì così? Nella quale ebbe una parte Diogene?” [II,16,36] Lo divisi tu uno di questi che singhiozza o freme perché non può più scorgere il tale né la tale, né starà ad Atene o Corinto ma, caso mai, a Susa o ad Ecbatana? [II,16,37] Giacché chi ha la potestà, qualora lo disponga, di uscire dal convito e non giocare più, costui si infastidisce ancora se rimane? Non starà al gioco finché l’animo suo ne sarà cattivato? [II,16,38] Probabilmente un uomo siffatto reggerebbe l’andata in esilio per sempre o l’esilio della morte, se vi fosse condannato.

Svezzati, solleva il capo: cos’hai tu a che fare con i servi, i prigionieri della controdiairesi? (39-40)

[II,16,39] Non vuoi, come i bimbi, essere ormai svezzato e toccare un cibo più solido e non singhiozzare per mamme e balie, singhiozzi di vecchie? [II,16,40] “Ma allontanandomi le infastidirò”. Tu le infastidirai? Nient’affatto! Ma sarà quanto è anche per te, il giudizio. Che hai dunque da fare? Strappalo; ed il loro, se faranno bene, lo strapperanno loro; se no, mugugneranno a causa di se stesse. 

Il discorso dell’Areopago dell’uomo libero (41-43)

[II,16,41] O uomo sii demente ormai, come si dice,per la serenità, per la libertà, per la magnanimità. Drizza una volta il collo come allontanato dalla servitù; [II,16,42] abbi l’audacia di levare lo sguardo a Zeus e dire: “Orbene, usami per quanto disporrai; cointelligo con te; sono tuo pari; nulla schivo di quanto reputi; dove disponi, conduci; del vestito che disponi, cingi. Disponi che io occupi cariche, sia un privato cittadino, rimanga, vada in esilio, sia povero di denaro, sia ricco di denaro? Per tutto questo ioparlerò in tua difesa di fronte alle genti; [II,16,43] mostrerò qual è la natura di ciascuna”.

Sii l’Eracle ed il Teseo di te stesso (44-47)

[II,16,44] No, ma accovacciato dentro come un pupattolo, aspetta la mamma tua fino a che ti foraggi. Se Eracle fosse rimasto seduto accanto a quei di casa, chi sarebbe? Euristeo e non Eracle. Orsù, andando in giro per la terra abitata, quanti ebbe intimi, amici? Ma nulla di più amico della Materia Immortale: per questo fu creduto essere figlio di Zeus e lo era. E quindi ubbidendo a lui andava in giro a ripulire ingiustizia ed assenza di legge. [II,16,45] Ma non sei Eracle e non puoi ripulire i mali allotrii; e neppure Teseo, da ripulire quelli dell’Attica: ripulisci i tuoi. Di qui, dall’intelletto espelli, invece di Procuste e di Scirone, afflizione, paura, smania, invidia, il godimento per i mali altrui, l’avidità di denaro, la mollezza, la non padronanza di sé. [II,16,46] Questi non è possibile espellerli altrimenti che volgendo lo sguardo solo a Zeus, solo per lui struggendosi, consacrandosi alle sue ingiunzioni. [II,16,47] Se invece vorrai qualcos’altro, seguirai chi è più potente di te mugugnando e gemendo, cercando sempre fuori la serenità senza mai poter essere sereno. Giacché la cerchi là dove non è, tralasciando di cercare là dov’è.

CAPITOLO 17
COME BISOGNA ADATTARE I PRE-CONCETTI AI PARTICOLARI ?

Non immaginare di sapere quanto si ignora. Chi non sa adattare bene i pre-concetti di sano e di malato, studi la medicina (1-9)

[II,17,1] Qual è la prima opera di chi fa filosofia? Buttar via la presunzione: giacché è inconcepibile iniziare ad imparare quanto uno crede di sapere. [II,17,2] Tutti veniamo dai filosofi cianciando su e giù di quanto si deve fare e non fare, di quanto è bene e di quanto è male, di quanto è bello e di quanto è brutto; e su queste basi lodando e denigrando, incolpando e biasimando, decretando e discernendo su mestieri belli e mestieri brutti. [II,17,3] Per che cosa allora veniamo dai filosofi? Per imparare quanto crediamo di non sapere. E cos’è questo? I principi generali. Giacché ciò di cui cianciano i filosofi, alcuni vogliamo impararlo in quanto raffinato e sottile, altri per procacciarsene lucro. [II,17,4] Ridicolo dunque credere che uno decida di imparare certe cose ma ne impari altre o che, orbene, uno profitterà in quanto non impara. [II,17,5] Quanto inganna i più è proprio quel che ingannò anche Teopompo l’oratore, laddove egli incolpa Platone per la decisione di definire ciascun termine. [II,17,6] Che dice infatti Teopompo? “Nessuno di noi prima di te diceva ‘buono’ o ‘giusto’? Oppure li pronunciavamo senza comprendere cosa ciascuno di questi è, in modo inarticolato e vacuo?” [II,17,7] E chi ti dice, o Teopompo, che non avevamo di ciascuno di essi concetti naturali o pre-concetti? Ma non è possibile adattare i pre-concetti alle sostanze consone senza articolarli ed analizzare proprio questo, cioè quale sostanza sia da subordinarsi a ciascuno di essi. [II,17,8] Dacché dì anche ai medici una cosa del genere: “Chi di noi non chiamava qualcosa ‘salutare’ e ‘malsano’ prima che ci fosse Ippocrate? O queste voci echeggiavano a vuoto?” [II,17,9] Abbiamo infatti anche un pre-concetto di ‘salutare’, ma non possiamo adattarlo. Per questo uno dice “Respingi” ed un altro “Dà cibo”; uno dice “Salassa” ed un altro “Applica delle ventose”. Qual è il causativo? Altro dal fatto che non può adattare bene il pre-concetto di ‘salutare’ ai casi particolari? 

Chi non sa adattare bene i pre-concetti di buono o di utile, studi la filosofia (10-13)

[II,17,10] Così è anche qua, nei casi della vita. Chi di noi non ciancia di bene e di male, di utile e di inutile? Chi di noi non ha infatti un pre-concetto di ciascuno di questi? Dunque forse ben articolato e perfetto? Mostralo! [II,17,11] “Come mostrarlo?” Adattalo bene alle particolari sostanze. Ad esempio Platone subordina le delimitazioni dei concetti al pre-concetto di ‘proficuo’, tu invece a quello di ‘improficuo’. [II,17,12] E’ possibile che entrambi facciate centro? E com’è possibile? Non adatta il pre-concetto di ‘bene’, uno alla sostanza ‘ricchezza di denaro’ e l’altro no? Ed alla sostanza ‘piacere fisico’, ed alla sostanza ‘salute del corpo’? [II,17,13] In generale, se noi tutti che enunciamo i nomi abbiamo di ciascuno di questi una conoscenza non vacua e non abbiamo bisogno di alcuna sollecitudine nella articolazione dei pre-concetti, perché litighiamo, perché facciamo guerra, perché ci denigriamo l’un l’altro? 

Infatti vi è contraddizione tra il credere di saper adattare bene i pre-concetti e l’essere infelice (14-18)

[II,17,14] E che m’importa, ora, citare la contrapposizione degli individui gli uni gli altri e ricordarla? Proprio tu, se adatti bene i pre-concetti perché non sei sereno, perché sei intralciato? [II,17,15] Tralasciamo giust’appunto il secondo àmbito, quello circa gli impulsi e l’arte di lavorarli in rapporto al doveroso. Tralasciamo anche il terzo, quello circa gli assensi. [II,17,16] Ti faccio grazia di tutto ciò. Stiamo nel primo, che procura la dimostrazione quasi sensibile del non adattare bene i pre-concetti. [II,17,17] Tu ora vuoi il possibile ed il possibile a te. Perché dunque sei intralciato? Perché non sei sereno? Ora non fuggi il necessario. Perché dunque incappi in difficoltà, perché hai cattiva fortuna? Perché quando vuoi qualcosa non accade e quando non la vuoi accade? [II,17,18] Giacché questa è la più grande dimostrazione di non serenità ed infelicità. Voglio qualcosa e non accade: e cos’è più meschino di me? Non voglio qualcosa ed accade: e cos’è più meschino di me? 

La controdiairesi come dramma: Medea non vuole abbandonare l’idea di poter dominare quanto non dipende esclusivamente da lei (19-22)

[II,17,19] E Medea, incapace di reggere questi eventi, giunse ad uccidere i figlioli. Con gran temperamento davvero, quanto a questo! Giacché aveva la rappresentazione che si deve di cos’è per uno il non andargli a seconda quel che vuole. [II,17,20] “E poi così mi vendicherò su colui che fu ingiusto con me e mi oltraggiò. E che pro di chi è così mal disposto? Come accadrà? Uccido i figlioli. [II,17,21] Ma punirò anche me stessa. E che m’importa?” Questo è il decadimento di un animo che ha grande nerbo. Giacché non sapeva dove giace il fare quanto disponiamo, che questo non bisogna prenderlo dal di fuori né allogando e riacconciando le faccende. [II,17,22] Non volere il marito e nulla di quanto disponi non accade. Non volere ad ogni costo che egli coabiti con te, non voler rimanere a Corinto ed insomma non volere altro da quanto Zeus dispone. E chi ti impedirà, chi ti costringerà? Non più che Zeus.

Educarci a diairesizzare (23-28)

[II,17,23] Qualora tu abbia un leader siffatto e con lui condisponga e condesideri, perché hai ancora paura di fallire? [II,17,24] Gratifica il tuo desiderio e la tua avversione con povertà di denaro e ricchezza di denaro: fallirai, incapperai in quanto avversi. E con salute del corpo: avrai cattiva fortuna; con cariche, onorificenze, patria, amici, figli, insomma con qualcosa di aproairetico. [II,17,25] Gratificalo invece a Zeus, agli altri dei; trasmettilo ad essi; essi pilotino; sia stato posizionato con essi. [II,17,26] E dove ancora non sarai sereno? Ma se invidi, o indolente, ed hai pietà e sei geloso e tremi e non smetti un giorno solo di singhiozzare disperato di te e degli Dei, perché asserisci di essere stato educato a diairesizzare? [II,17,27] Quale educazione a diairesizzare, o uomo? Che effettuasti sillogismi, ragionamenti equivoci? Non vuoi, se possibile, disimparare tutto questo ed iniziare daccapo, dopo aver preso consapevolezza del fatto che finora neppure hai toccato la faccenda e, orbene, [II,17,28] iniziando da qua edificarvi in aggiunta il seguito: come nulla sarà contro ciò che tu disponi e, disponendolo tu, nulla non sarà?

Ecco il buon studioso di filosofia (29-33)

[II,17,29] Datemi un solo giovane che è venuto a scuola secondo questo progetto, diventato atleta di questa faccenda e che dice: “Per me, addio a tutto il resto. Basta se avrò mai la potestà di passarmela disimpacciato e non afflitto; di drizzare il collo da libero di fronte alle faccende; di levare lo sguardo al cielo da amico di Zeus che nessuna paura ha di quanto può avvenire”. [II,17,30] Qualcuno di voi lo mostri siffatto, affinché io dica: Vieni, giovanotto; vieni a quanto è tuo; ti è stato destinato di adornare la filosofia; questi possessi sono tuoi, tuoi i libri, tuoi i discorsi. [II,17,31] E poi qualora vi si sia prodigato ed abbia valicato il primo àmbito, venga di nuovo e mi dica: “Io dispongo sì di essere capace di dominare le passioni e lo sconcerto, ma dispongo anche da pio, filosofo, solerte, di sapere quanto è doveroso da parte mia verso gli dei, verso genitori, fratelli, patria, stranieri”. [II,17,32] Vieni anche al secondo àmbito: tuo è anche questo. [II,17,33] “Ma ho già sviscerato anche il secondo àmbito. Disporrei di star sicuro ed incrollabile non solo da sveglio ma anche quando dormo, sono brillo, malinconico”. Tu sei un dio, uomo; tu hai grandi progetti!

Anche voi come il cattivo studioso di filosofia? (34-38)

[II,17,34] No, ma: “Io voglio conoscere cosa dice Crisippo nei libri sul Mentitore”. Non ti impiccherai con questo progetto, sciagurato? Di che pro ti sarà? Lo leggerai tutto piangendo, e tremando ne parlerai agli altri. [II,17,35] Così fate anche voi. “Vuoi che legga per te, fratello, e tu per me?” “Scrivi, uomo, in modo stupefacente”. E: “Tu alla grande nello stile di Senofonte”; [II,17,36] “Tu in quello di Platone”; “Tu in quello di Antistene”. E poi narrativi gli uni gli altri i vostri sogni, ritornate di nuovo alle medesime cose. Desiderate allo stesso modo, allo stesso modo avversate, similmente impellete, progettate, proponete, le stesse cose auspicate, per le stesse vi industriate. [II,17,37] Né poi cercate chi vi richiami alla memoria questi discorsi ma vi adontate se sentirete parlare di questo. E poi dite: “Vecchio senza affettuosità; quando uscii non singhiozzò né disse ‘Verso quali difficili circostanze mi parti, figliolo! Se ti salverai accenderò delle lucerne!’ “ [II,17,38] Queste sono le parole dell’affettuoso? Sarà un gran bene per te che fosti salvato siffatto, e meritevole di lucerne. Giacché tu devi essere immortale ed al riparo dalle malattie! 

Accettare di non sapere e di dover imparare (39-40)

[II,17,39] Bisogna dunque venire alla ragione dopo avere buttato via questa presunzione, come dico, di reputare di sapere alcunché di proficuo; così come ci appressiamo alla geometria ed alla musica. [II,17,40] Se no, non saremo vicino a profittarne neppure se discuteremo tutte le “Introduzioni alla filosofia” e tutti i trattati di Crisippo dopo quelli di Antipatro e di Archedemo.

CAPITOLO 18
COME BISOGNA GAREGGIARE CON LE RAPPRESENTAZIONI ?

La potenza dell’abitudine (1-7)

[II,18,1] Ogni costumanza ed ogni facoltà è confermata ed accresciuta dalle opere consone: quella di camminare dal camminare, quella di correre dal correre. [II,18,2] Se vorrai essere un lettore, leggi; se uno scrittore, scrivi. Qualora per trenta giorni di seguito tu non legga ma effettui qualcos’altro, riconoscerai quel che accade. [II,18,3] Così se rimarrai a letto per dieci giorni metti mano, appena alzato, ad una camminata troppo lunga e vedrai come sono paralizzate le tue gambe. [II,18,4] In generale dunque se disporrai di fare qualcosa, falla abitualmente; e se disporrai di non farla, non farla ma abituati piuttosto ad effettuare qualcos’altro al suo posto. [II,18,5] Così è anche per i fatti dell’animo. Qualora ti adiri, riconosci che non solo ti è accaduto questo male ma anche che accrescesti l’abituale postura dell’animo tuo e che buttasti come legna secca sopra un fuoco. [II,18,6] Qualora tu sia sconfitto da qualcosa in un accoppiamento, non conteggiare questa sola sconfitta ma anche che hai nutrito ed accresciuto la non padronanza di te. [II,18,7] Giacché è impossibile che le abituali posture dell’animo e le facoltà, grazie alle opere consone, non si innaturino se prima non esistevano, ed altre si intensifichino e potenzino.

Bene è il giudizio: il denaro è né bene né male. Male è il giudizio che ci fa smaniare per esso come bene o come male. Il sorgere nell’animo delle passioni e le tracce che esse vi lasciano (8-9)

[II,18,8] I filosofi dicono che anche le affezioni, senza fallo, sotto sotto crescono così. Giacché qualora tu smani una volta per del denaro, se si appresserà alla coscienza un ragionamento che ne stima il male, la smania cessa ed il nostro egemonico si ristabilisce nello stato iniziale. [II,18,9] Ma se nulla gli appresserai per assisterlo, l’egemonico non rimonta più al medesimo stato ma, stuzzicato di nuovo dalla consona rappresentazione, si rattizza di smania più in fretta di prima. Se questo accade costantemente, orbene l’egemonico incallisce e l’affezione rinsalda la avidità di denaro. 

Lividi, piaghe e cicatrici (10-11)

[II,18,10] Chi ha la febbre e poi cessa di averla non sta similmente a prima, a meno che non si sia rimesso appieno. [II,18,11] Qualcosa di siffatto accade anche per le passioni dell’animo. In esso sono lasciate addietro delle orme e dei lividi che, quando non li si cancelli per bene, allorché si sia frustati di nuovo nei medesimi punti, non più lividi fanno ma piaghe.

Cattivi giudizi fanno cattive abitudini (12-14)

[II,18,12] Se dunque disponi di non essere iracondo, non nutrire la tua costumanza e non buttarle sopra nulla di accrescitivo. Dapprima sta quieto e conta le giornate in cui non ti adirasti. [II,18,13] “Ero solito adirarmi ogni giorno; adesso a giorni alterni, e poi ogni due, e poi ogni tre”. Se ometterai di adirarti per trenta giorni, offri un sacrificio a Zeus. Giacché la costumanza dapprima si fiacca e poi è anche definitivamente abolita. [II,18,14] “Oggi non fui afflitto, né domani, né di seguito per due o tre mesi, ma feci attenzione quando accaddero certe cose stuzzicanti”. Riconosci che ti va elegantemente.

Sciogliere una cattiva abitudine è impresa maggiore che sciogliere un sofisma (15-18)

[II,18,15] Oggi, vedendo un magnifico giovanotto od una magnifica ragazza, non mi dissi “Volesse il cielo che uno si coricasse con costei!”, e “Beato suo marito!”; giacché chi dice questo “beato” dice pure “l’adultero!”. [II,18,16] Neppure mi dipingo il seguito: lei presente e che si denuda e giace sul letto accanto. [II,18,17] Mi liscio il cocuzzolo e dico: “Bene, Epitteto, sciogliesti un raffinato sofismetto, molto più raffinato del Dominatore”. [II,18,18] E se, anche quando la femminuccia lo decide ed accenna e mi fa avvertire ed anche mi tocca e si approssima, mi asterrò e vincerò, questo è ormai un sofisma al di sopra del “Mentitore”, al di sopra del “Quiescente”. Per questo merita fare anche gran pregio di sé, non per saper prospettare interrogativamente il “Dominatore”.

Bene è il giudizio: il sesso è né bene né male. Male è il giudizio che ci fa smaniare per esso come bene o male. Come fare? (19-21)

[II,18,19] Questo dunque come accadrà? Disponi una volta di essere gradito a te stesso, disponi di apparire bello a Zeus. Smania di diventare puro con il puro te stesso e con Zeus. [II,18,20] E poi qualora ti incolga una siffatta rappresentazione vai, come dice Platone, ai sacrifici espiatori, vai supplice ai sacrari di Dei apotropaici. [II,18,21] Basta anche che ti ritiri nella compagnia di uomini virtuosi e che ti occupi di questo riscontrandoti ad essi, sia che tu abbia come modello uno dei viventi oppure uno dei morti.

Guarda Socrate… (22)

[II,18,22] Partitene da Socrate e vedilo giacere sul letto con Alcibiade e prendersi gioco del fior degli anni suoi. Pondera qual mai vittoria egli riconobbe d’avere vinto, quale Olimpiade, quale vincitore divenne della serie iniziata da Eracle! Affinché uno, per gli dei, dicendo “Salve, ammirabile uomo!”, ossequi giustamente lui e non questi schifosi pugili e pancraziasti né i loro simili, i gladiatori.

… e saprai come vincere (23-26)

[II,18,23] Contrapponendo questo vincerai la rappresentazione, non ne sarai trascinato. [II,18,24] Innanzitutto non essere rapito dalla sua acutezza ma di’ :”Aspettami un poco, rappresentazione; lasciami vedere chi sei e su che cosa, lascia che ti valuti”. [II,18,25] E d’ora innanzi non accordarle di promuoversi a dipingere il seguito. Se no, se ne va portandoti dove vorrà. Piuttosto introduci un’altra rappresentazione bella e generosa, ed espelli questa sozza. [II,18,26] Se ti abituerai ad allenarti così, vedrai che spalle ti vengono, che nerbo, che tono! Ora invece soltanto argomentazioni logiche e nulla più. 

Il vero asceta (27-32)

[II,18,27] Il vero asceta è chi si allena a siffatte rappresentazioni. [II,18,28] Fermati, sciagurato, non essere rapito! Grandiosa è la gara, divina l’opera: è per un regno, per la libertà, per la serenità, per il dominio sullo sconcerto. [II,18,29] Ricordati di Zeus, invocalo aiuto e guardiano come i naviganti i Dioscuri nella tempesta. E quale maggiore tempesta di quella di rappresentazioni potenti e capaci di sbattere fuori la ragione? E la stessa tempesta cos’altro è se non rappresentazione? [II,18,30] Dacché rimuovi la paura della morte e porta quanti tuoni e quanti lampi vuoi. Riconoscerai quanta bonaccia e magnifico tempo vi sia nell’egemonico! [II,18,31] Ma se sconfitto una volta, dirai che vincerai successivamente e poi di nuovo lo stesso: sappi che starai così male e sarai così debole da neppure riflettere successivamente che aberri, ed inizierai addirittura a provvedere giustificazioni per la faccenda. [II,18,32] Allora rinsalderai la verità del detto di Esiodo *la persona che indugia lotta sempre con le sciagure*.

CAPITOLO 19
A QUANTI DELLE DOTTRINE DEI FILOSOFI APPRENDONO SOLTANTO LA LOGICA

L’argomento ”Dominatore” e le delizie della logica (1-4)

[II,19,1] L’argomento “Dominatore”pare essere stato prospettato interrogativamente a partire da certe proposizioni moventi di questo genere, essendovi mutua contraddizione delle terze con le altre due: (a) tutto quanto veramente è avvenuto è necessario; (b) l’impossibile non consegue al possibile; (c) possibile è quanto non è né sarà vero. Notando questa contraddizione, Diodoro adoperò la persuasività delle prime due proposizioni per apporre che nulla, che non è né sarà vero, è possibile. [II,19,2] Orbene uno serberà, delle coppie di proposizioni, questa: (c) possibile è quanto non è né sarà vero, e (b) l’impossibile non consegue al possibile, ma non (a) tutto quanto veramente è avvenuto è necessario, come appunto sembra sostenere la scuola di Cleante, che Antipatro a lungo difese. [II,19,3] Altri serberanno invece le altre due proposizioni, ossia (c) possibile è quanto non è né sarà vero, e (a) tutto quanto veramente è avvenuto è necessario, ma allora l’impossibile consegue al possibile. [II,19,4] E’ inconcepibile però serbare le tre proposizioni, essendovi mutua contraddizione tra di esse.

Un certo studio di questi argomenti non favorisce affatto la virtù ma la vanità (5-10)

[II,19,5] Se dunque uno cercherà di sapere da me: “E tu, quali proposizioni serbi?”, gli risponderò che non lo so. Ho assunto una storia siffatta: che Diodoro serbava quelle; la scuola di Pantoide, credo, e quella di Cleante le altre; la scuola di Crisippo le altre ancora. [II,19,6] “Tu dunque cosa?” Io non sono venuto al mondo per saggiare la mia rappresentazione e paragonare gli enunciati e farmi un giudizio in questo campo. Per questo non differisco in nulla dal grammatico. [II,19,7] “Chi era il padre di Ettore?” “Priamo”. “Quali i fratelli?” “Alessandro e Deifobo”. “Chi era la loro madre?” “Ecuba. Ho assunto questa storia”. “Da chi?” “Da Omero. Sui medesimi, reputo, scrive anche Ellanico e forse qualcun altro siffatto”. [II,19,8] Anch’io sul Dominatore, cos’altro ho di superiore? Ma se sarò un individuo vacuo, soprattutto ad un convito sbalordirò gli astanti enumerando coloro che ne hanno scritto. [II,19,9] “Ne ha scritto in modo stupefacente Crisippo nel primo libro su “I Possibili”. Anche Cleante ha scritto peculiarmente su questo argomento, e pure Archedemo. Ne ha scritto anche Antipatro, non soltanto nei libri su “I Possibili” ma anche peculiarmente in quelli su “Il Dominatore”. [II,19,10] Non ne hai letto il trattato?” “Non l’ho letto”. “Leggilo”. Ed a che gioverà? Sarà più chiacchierone ed intempestivo di quanto sia ora. Giacché cos’altro t’è sopravvenuto dopo averlo letto? Quale giudizio ti sei fatto nel campo? Ma ci dirai di Elena e di Priamo e dell’isola di Calipso che né fu né sarà? 

Della diairesi abbiamo bisogno per vivere e per morire, non per fare bella figura (11-19)

[II,19,11] E qui padroneggiare la storia senza essersi fatti un proprio peculiare giudizio non importa granché. Sulle questioni etiche, invece, lo sperimentiamo molto più che sulla letteratura. [II,19,12] “Dimmi dei beni e dei mali”. “Ascolta: *Portandomi lontano da Ilio, un vento mi spinse tra i Ciconi.* [II,19,13] Delle cose, alcune sono beni; altre mali; altre indifferenti. Beni sono dunque le virtù e quanto di esse partecipa; mali i vizi e quanto del vizio partecipa; indifferenti sono le cose che stanno frammezzo a queste: ricchezza di denaro, salute del corpo, vita, morte, piacere, dolore”. [II,19,14] “Donde lo sai?” “Lo dice Ellanico nei suoi ‘Fatti d’Egitto’ ”. Che differenza fa dire questo o che lo dice Diogene nella sua ‘Etica’ o Crisippo o Cleante? Hai saggiato qualcuno dei loro insegnamenti e te ne sei fatto un giudizio? [II,19,15] Mostra come sei solito allenarti su un bastimento. Ti ricordi di questa diairesi qualora la vela rumoreggi e, mentre tu sbraiti, un dispettoso passeggero che ti sta accanto ti dica: “Dimmi, per gli dei, quel che dicevi l’altro giorno: forse che naufragare è un vizio, è forse qualcosa che partecipa del vizio?” [II,19,16] Sollevato un legno, non glielo scuoterai addosso? “Che c’è fra noi e te, uomo? Andiamo in malora e tu vieni a scherzare?” [II,19,17] Se Cesare ti farà convocare perché sei accusato, ti ricordi della diairesi? Se uno, mentre entri e sei pallido ed insieme tremante, verrà innanzi a dire: “Perché tremi, o uomo? Per quali faccende è la tua citazione? Forse che lì dentro Cesare dà a chi entra virtù o vizio?” [II,19,18] “Perché ti burli di me anche tu, oltre i miei mali?” “Ugualmente, o filosofo, dimmi: perché tremi? Il pericolo che corri non è morte o carcere o dolore del corpo o l’esilio od il discredito? E cos’altro? E’ forse vizio, forse qualcosa che partecipa del vizio? Tu dicevi essere cosa questo?” [II,19,19] “Che c’è fra me e te, uomo? Mi bastano i miei mali”. E dici bene. Giacché a te bastano i tuoi mali: l’ignobiltà, la viltà, la cialtroneria che cialtroneggiavi seduto a scuola. Perché ti abbellivi di giudizi allotrii? Perché ti dicevi Stoico?

Chi è Stoico? (20-28)

[II,19,20] Osservate così voi stessi in quanto solevate effettuare e troverete di quale scelta filosofica siete. Troverete la maggior parte di voi Epicurei; pochi i Peripatetici e, questi, fiacchi. [II,19,21] Dove concepite che la virtù è pari o anche migliore, di fatto, a tutto il resto? Mostratemi uno Stoico, se l’avete. [II,19,22] Dove o come? Ma miriadi che ripetono le argomentazioni logiche degli Stoici. Ma proprio costoro ripetono forse peggio quelle degli Epicurei? E quelle dei Peripatetici non le precisano similmente? [II,19,23] Chi dunque è Stoico? Come diciamo Fidiaca la statua che è stata modellata secondo l’arte di Fidia, così mostratemi qualcuno che si è modellato secondo i giudizi che enuncia. [II,19,24] Mostratemi qualcuno che è ammalato e si giudica fortunato, che corre pericoli e si giudica fortunato, che muore e si giudica fortunato, che si trova in esilio e si giudica fortunato, che ha discredito e si giudica fortunato. Mostrate: io smanio, per gli dei, di vedere uno Stoico. [II,19,25] Ma non avete da mostrarmi un uomo modellato così? Mostrate uno che così si sta modellando, uno inclinato a questo. Siate miei benefattori: non denegate ad un uomo vecchio di vedere uno spettacolo che finora io non ho visto. [II,19,26] Credete che mostrerete lo Zeus di Fidia o la Atena, una struttura d’avorio ed oro? Mostri qualcuno di voi animo di uomo disposto a cointelligere con Zeus, a non biasimare più né dio né uomo, a non fallire qualcosa, a non incappare in qualcosa, a non adirarsi, a non invidiare, a non essere geloso (ma perché usare perifrasi?), [II,19,27] che da uomo smania di diventare dio e che in questo corpo cadaverico si consiglia sulla società che ha con Zeus. [II,19,28] Mostrate. Ma non l’avete. Perché dunque vi burlate di voi stessi e truffate gli altri? E cinti di un abito allotrio passeggiate da ladri e rubavestiti di questi nomi e faccende che non vi convengono?

Lavoriamo insieme a questo grandioso progetto (29-34)

[II,19,29] Ed ora io sono chi vi educa a diairesizzare, mentre voi a ciò vi educate presso di me. Io ho questo progetto: farvi risultare non soggetti a impedimenti, non soggetti a costrizioni, non soggetti ad impacci, liberi, sereni, felici, che tengono gli occhi su Zeus in ogni circostanza, sia piccola che grande; e voi presenziate per imparare e studiare questo. [II,19,30] Perché dunque non concludete l’opera, se avete anche voi il progetto che si deve ed io la preparazione che si deve per il progetto? Cos’è che manca? [II,19,31] Qualora io veda un falegname cui giace accanto il materiale, mi aspetto l’opera. Anche qua c’è il falegname, c’è il materiale. Cosa ci manca? [II,19,32] La faccenda non è insegnabile? E’ insegnabile. Non è dunque in nostro esclusivo potere? Anzi è la sola fra tutte le altre. Né la ricchezza di denaro né la salute del corpo né la reputazione né altro insomma sono in nostro esclusivo potere, eccetto il retto uso delle rappresentazioni. Soltanto questo è per natura non soggetto a impedimenti, non soggetto ad intralci. [II,19,33] Perché dunque non concludete? Ditemi la cagione. Giacché o nasce da me o da voi o dalla natura della faccenda. La faccenda in sé è fattibile e solo in nostro esclusivo potere. Orbene la cagione sta in me o in voi o, che è più vero, in entrambi. [II,19,34] E dunque? Volete che iniziamo una volta a trasferire qui siffatto progetto? Tralasciamo quel che è stato finora. Solo iniziamo, fidatevi di me, e vedrete.

CAPITOLO 20
AGLI EPICUREI ED AGLI ACCADEMICI

Il fondamento autocontraddittorio di alcune tesi degli Accademici (1-5)

[II,20,1] Anche gli obiettori di necessità sfruttano le proposizioni sane ed evidenti; e quasi si potrebbe fare di questo la massima prova dell’essere qualcosa evidente: che sia trovato ad adoperarla, per necessità, anche l’obiettore. [II,20,2] Per esempio se qualcuno obiettasse all’esservi qualcosa di universalmente vero, è manifesto che costui è tenuto a fare la dichiarazione opposta, che nulla vi è di universalmente vero. Schiavo, ma neppur questo è vero. [II,20,3] Giacché cos’altro è questo se non che se vi è qualcosa universalmente, è falso? [II,20,4] Di nuovo, se uno perverrà a dire: “Riconosci che nulla è conoscibile, ma che tutto è inintelligibile”, od un altro: “Fidati di me e ne trarrai giovamento: per nulla ci si deve fidare di un uomo”, od un altro di nuovo: [II,20,5] “Impara da me, uomo, che imparare non è fattibile: io questo ti dico e ti insegnerò, se lo vorrai”; da chi di costoro differiscono questi -chi mai?- che si dicono Accademici? “Uomini, assentite che nessuno assente; fidatevi di noi che nessuno si fida di nessuno”.

Il fondamento autocontraddittorio sul quale Epicuro basa la negazione di una naturale socievolezza tra gli esseri umani (6-14)

[II,20,6] Così anche Epicuro, qualora voglia abolire la naturale socievolezza degli uomini gli uni per gli altri, adopera proprio quanto è abolito. [II,20,7] Che dice, infatti? “Non ingannatevi, uomini, non deviatevi, non cadete in errore: non vi è società naturale delle creature logiche le une per le altre; fidatevi di me. Coloro che dicono le altre cose vi ingannano e dicono paralogismi”. [II,20,8] Dunque che t’importa? Lascia che siamo ingannati. Ti disimpegnerai forse peggio, se tutti noi altri saremo persuasi di avere naturale società gli uni per gli altri e che la si deve in ogni modo custodire? Anzi, molto meglio e più sicuramente. [II,20,9] O uomo, perché ti preoccupi per noi, perché vegli per noi, perché accendi una lucerna, perché ti alzi dal letto, perché compili libri così rilevanti? Affinché qualcuno di noi non sia ingannato sugli dei come solleciti degli uomini o affinché qualcuno non concepisca altra sostanza del bene che il piacere fisico? [II,20,10] Giacché se le cose stanno così, buttati a dormire e fa quel che fa un verme, che è ciò di cui ti giudicasti degno: mangia e bevi e accoppiati e defeca e russa. [II,20,11] Che t’importa come gli altri concepiranno su queste questioni, se in modo sano o non sano? Che c’è fra te e noi? Giacché a te importa delle pecore, che si prestano a noi per essere tosate, munte e da ultimo fatte a pezzi? [II,20,12] Non sarebbe auspicabile che gli esseri umani, affatturati ed incantati dagli Stoici, potessero sonnecchiare e prestarsi a te ed ai tuoi simili per essere tosati e munti? [II,20,13] Invece di celarglielo, questo tu dovevi dire ai compagni epicurei e soprattutto ancor più convincerli che siamo nati per natura socievoli, che la padronanza di sé è un bene, affinché tutto fosse serbato per te. [II,20,14] Oppure si deve custodire questa società verso alcuni e non verso altri? Verso chi si deve dunque serbare? Verso coloro che contraccambiano o verso coloro che non contraccambiano? E chi più di voi non la contraccambia, di voi che avete discernuto queste dottrine?

Come tutti, anche gli Accademici usano le sensazioni, anche gli Epicurei trattano socievolmente con i propri simili. Essi trovano però più gusto nel dire che non è così, e nell’affannarsi a spiegare che anche gli altri devono vergognarsi di sentire la voce della natura (15-20)

[II,20,15] Cos’era dunque a svegliarlo dai sonni ed a costringerlo a scrivere quel che scriveva? Che altro se non quanto, negli uomini, è più potente di tutto: la natura; che lo trascina al proprio piano suo malgrado e gemente? [II,20,16] “Giacché reputi queste tesi asociali, scrivile e lasciale ad altri, veglia per causa loro e diventa proprio tu, nei fatti, l’accusatore dei tuoi stessi giudizi”. [II,20,17] E poi diciamo che Oreste, perseguitato dalle Erinni, era svegliato dal sonno; ma le Erinni e le Pene non erano più esasperate con Epicuro? Lo svegliavano mentre dormiva e non gli permettevano di stare tranquillo ma lo costringevano a divulgare i suoi mali come la pazzia ed il vino costringevano i Galli a mutilarsi. [II,20,18] Tanto potente ed invincibile è la natura umana. Giacché come può una vite non muoversi da vite, ma da olivo; od un olivo, di nuovo, non da olivo ma da vite? E’ inconcepibile, è impensabile. [II,20,19] Quindi neppure è possibile che un essere umano perda definitivamente i moti da uomo e coloro che si amputano il pene non possono però amputarsi gli slanci virili. [II,20,20] Così Epicuro si amputò di tutto quanto fa marito, padrone di casa, cittadino, amico; ma non si amputò degli slanci che fanno uomo. Giacché non poteva. Non più di quanto gli indolenti Accademici possano buttar via od accecare le loro sensazioni, seppure per questo soprattutto si industrino. 

Scossi dalla possibile fallacia delle sensazioni, gli Accademici ne decretano la totale inaffidabilità. A loro volta gli Epicurei, scossi dalla effettiva bruttezza degli Dei trascendenti adorati dagli esseri umani, decretano la inesistenza anche degli dei degli uomini (21-27)

[II,20,21] Che sfortuna! Pur prendendo dalla natura unità di misura e canoni per il riconoscimento della verità, uno non lavora con arte per addizionarvi ed elaborare quanto manca ma, tutto all’opposto, prova a strappare e mandare in malora quel po’ che ha di cognitivo della verità. [II,20,22] Che dici, o filosofo? Il pio ed il sacrosanto che cosa ti paiono? “Se vorrai, strutturerò che sono un bene”. Sì strutturalo, affinché i nostri cittadini impensierendosene onorino il divino e cessino una volta di essere pigri sulle cose più grandi. “Hai dunque le necessarie prove?” Le ho e sono riconoscente. [II,20,23] “Dacché dunque assai gradisci queste, prendi le opposte: che non vi sono dei e, se pure vi sono, che non sono solleciti degli uomini, che nulla è comune tra noi e loro, che questo pio e sacrosanto di cui parla la maggior parte degli individui è menzogna di gente cialtrona e di sofisti o, per Zeus, di legislatori tesi ad impaurire e reprimere chi commette ingiustizia.’ “ [II,20,24] Bene, o filosofo: giovasti ai nostri cittadini, riacquistasti i giovani che già propendono allo spregio delle cose divine. [II,20,25] “E dunque? Non gradisci questo? Prendi ora a spiegare come la giustizia è nulla, come il rispetto di sé e degli altri è una stupidaggine, come un padre è nulla, come il figlio è nulla”. [II,20,26] Bene, o filosofo: persisti, persuadi i giovani, affinché ci sia ancor più gente a sperimentare e parlare come te. Da questi discorsi ci crebbero le ben legificate città. Sparta nacque per questi discorsi. Licurgo, con le sue leggi ed il suo sistema di educazione, infuse negli Spartani queste persuasioni, che l’essere servi non è più brutto che bello e che l’essere liberi non è più bello che brutto. Coloro che morirono alle Termopili morirono per questi giudizi. Per quali altro discorsi gli Ateniesi abbandonarono la città? [II,20,27] E poi coloro che dicono questo si sposano, fanno dei figli, si interessano di affari cittadini, si istituiscono sacerdoti e profeti. Di chi? Di Dei che non esistono? Ed interrogano la Pizia, per cercare di sapere falsità e spiegano gli oracoli ad altri. Che grande sfacciataggine e che stregoneria!

Come curare gli Accademici dal loro scetticismo (28-31)

[II,20,28] O uomo, che fai? Proprio tu confuti te stesso ogni giorno e non vuoi tralasciare questi gelidi epicherèmi? Quando mangi, dove porti la mano? Alla bocca od all’occhio? Per fare il bagno dove ti ficchi? Quando dicesti la pentola piatto od il mestolo spiedo? [II,20,29] Se fossi servo di qualcuno di loro, io lo torturerei anche a costo di essere scuoiato da lui ogni giorno. “Pupattolo, butta olio nel bagno”. Io avrei buttato della salsa di pesce e poi partendo gliene riverserei sulla testa. “Perché questo?” “Ebbi una rappresentazione indistinguibile da quella dell’olio, similissima; sì, per la tua fortuna!” [II,20,30] “Dammi qua la tisana”. Gli avrei portato una scodella ricolma di salsa di pesce mista ad aceto. “Non chiesi la tisana?” “Sì, signore: questa è tisana”. “Questa non è salsa di pesce con aceto?” “Cosa più che tisana?” “Prendi e fiuta; prendi e gusta”. “E donde lo sai, se le sensazioni ci mentono?” [II,20,31] Se avessi avuto tre o quattro compagni di servitù concordi con me, lo avrei fatto impiccare berciando o riallogarsi. Ora, invece, ci gavazzano usando tutto quanto è dato dalla natura e però lo aboliscono a parole. 

Se di un Dio trascendente si può tranquillamente dire “Grazie di non esistere”, l’essere umano è unico responsabile della propria felicità od infelicità. La natura delle cose è invariante, le culture umane sono relative. Ogni volta che il relativismo culturale venga malinteso, i suoi effetti diventano deresponsabilizzanti ed offrono lo spazio per spacciare come religiosità da uomo, qualunque superstizione da essere umano; e per libertà qualunque sconcezza da schiavi (32-37)

[II,20,32] Uomini davvero grati, rispettosi di sé e degli altri. Se non altro mangiando pani ogni giorno, hanno l’audacia di dire: “Non sappiamo se esistono una certa Demetra o Core o Plutone”. [II,20,33] Per non dire che fruendo della notte e del giorno, delle trasformazioni dell’anno e degli astri, del mare, della terra, della cooperazione di esseri umani, da nulla di ciò neppure un poco essi sono impensieriti, ma cercano soltanto di vomitare il loro problemuccio e poi, allenato lo stomaco, di partirsene nelle terme. [II,20,34] Costoro non si sono preoccupati neppure brevemente di cosa diranno e su cosa ed a chi e che significato avranno le loro parole per chi le ascolterà: che un giovane di nobile indole, dopo avere sentito questi discorsi, sperimenti qualcosa ad opera loro o che, sperimentandolo, mandi in malora i semi della nobile indole; [II,20,35] che procuriamo ad un adultero dei moventi per perdere ogni vergogna degli avvenimenti; che uno di coloro che si appropriano indebitamente di denaro pubblico possa forse abbrancarsi, grazie a questi discorsi, a qualche ragione speciosa; che uno, il quale trascura i propri genitori, possa aggiungere, traendola da essi, una certa sfrontatezza. [II,20,36] Dunque secondo te cos’è bene o male, bello o brutto? Questo o quello? E dunque? Qualcuno obietta ancora ad uno di costoro, o dà loro ragione o torto, o prova a persuaderli di modificare avviso? [II,20,37] Per Zeus, uno spererebbe molto più di persuadere i cinedi a modificare avviso che quanti sono arrivati a cotanto di sordità e di cecità sui loro mali.

CAPITOLO 21
SULLA NOSTRA INCOERENZA CON LA NATURA DELLE COSE

Il motivo per cui noi riconosciamo soltanto alcuni nostri difetti è una prova della verità dell’intellettualismo socratico, dell’esistenza di una natura delle cose e della sua invarianza (1-7)

[II,21,1] Certi loro difetti gli esseri umani li ammettono facilmente, altri non facilmente. Nessuno dunque ammetterà di essere stolto o dissennato ma, tutto all’opposto, sentirai tutti dire: “Magari avessi tanta fortuna quanto buonsenso ho!” [II,21,2] Ammettono invece facilmente di essere timidi e dicono: “Sono troppo timido, lo ammetto; ma per il resto non mi troverai stupido”. [II,21,3] Uno non ammetterà facilmente di non essere padrone di sé, non interamente di essere ingiusto, per niente di essere invidioso od indiscreto; quanto all’essere pietosi, la maggior parte ammetterà di esserlo. [II,21,4] Cos’è causativo di ciò? Il motivo dominante è l’incoerenza con la natura delle cose e lo sconcerto nei giudizi circa beni e mali. Altri causativi sono diversi da persona a persona, e quasi tutto quanto immagineranno brutto le persone non lo ammettono per niente. [II,21,5] L’essere timidi lo immaginano di un carattere costumato, e pure l’essere pietosi. Essere sciocchi invece, definitivamente da schiavi. E stonature circa la società per niente le ammettono in sé. [II,21,6] Quanto alla maggior parte delle aberrazioni, essi sono portatissimi ad ammetterle perché immaginano che vi sia in esse qualcosa di involontario, appunto come nel timido e nel pietoso. [II,21,7] E se uno mai ammetterà di non essere padrone di sé, addiziona la passione amorosa così da essere perdonato come per un atto involontario. L’essere ingiusti, invece, lo immaginano nient’affatto involontario. V’è qualcosa di involontario anche nell’essere gelosi, secondo loro. Perciò ammettono pure questo.

L’esame di proairesi (8-10)

[II,21,8] Chi si aggira tra siffatti esseri umani così sconcertati, che a tal punto non sanno né quel che dicono né i mali che hanno o se li hanno od a fronte di che cosa li hanno o come li faranno cessare, credo meriti che costantemente rifletta: “Sono forse io pure uno di loro? [II,21,9] Che rappresentazione ho di me? Come mi uso? Forse anch’io come si usa un saggio, forse anch’io come uno padrone di sé? Forse anch’io dico di essere stato educato a fronteggiare checchessia verrà? [II,21,10] Ho la consapevolezza che deve avere chi nulla sa, di nulla sapere? Vengo dall’insegnante preparato ad ubbidirgli come ad un oracolo? Oppure anch’io, pieno di coriza, entro a scuola per imparare soltanto la storia e per capire dei libri che prima non capivo e poi, caso mai, per spiegarli ad altri?” 

Ancora l’esame di proairesi (11-14)

[II,21,11] O uomo, in casa hai fatto a pugni con il servetto, hai messo a soqquadro la casata, hai gettato nello sconcerto i vicini: e poi mi vieni a fare, da sapiente, il moderato? Siedi e giudichi come spiegai l’elocuzione, perché mai chiacchierai di quanto mi saltò in testa? [II,21,12] Sei venuto qui invidiando, con la proairesi serva perché da casa non ti viene portato nulla e, frammezzo ai discorsi che si fanno, siedi ma altro non rimugini se non come stanno le cose tra te e tuo padre o tuo fratello. [II,21,13] “Che dicono di me quelli là? Adesso credono che io faccia profitto e dicono ‘Quello verrà sapendo tutto!’ [II,21,14] Io vorrei in qualche modo ritornare dopo avere imparato tutto, ma c’è bisogno di molta fatica, nessuno mi manda nulla, a Nicopoli fare il bagno alle terme è schifoso, a casa stavo male e qua pure”.

Ma chi viene a scuola per imparare questo e non altro? (15-22)

[II,21,15] E poi dicono: “Nessuno trae giovamento dalla scuola”. Chi infatti viene a scuola, chi, con il proposito di essere curato? Chi per procurare che i suoi giudizi siano purificati; chi per consapevolizzarsi di quali giudizi ha bisogno? [II,21,16] Perché dunque vi stupite se riportate via questi stessi giudizi che a scuola portate? Infatti non venite per riporli o rettificarli o prenderne altri al posto loro. [II,21,17] Donde? Neppur vicino! Dunque scorgete piuttosto se vi accade ciò per cui venite. Voi volete cianciare sui principi generali della filosofia. E dunque? Non diventate più chiacchieroni? La scuola non vi procura del materiale per sfoggiare i principi generali? Non risolvete sillogismi e ragionamenti equivoci? Non perlustrate gli assunti del “Mentitore”, i ragionamenti ipotetici? Perché dunque fremete ancora se ciò per cui presenziate, questo prendete? [II,21,18] “Sì, ma se fosse morto il mio bimbo, o il fratello, o dovessi morire io, od essere torturato: a che mi gioveranno siffatte nozioni?” [II,21,19] Forse venisti per questo, forse è per questo che mi siedi accanto, forse è per questo che a volte accendesti la lucerna e vegliasti? O uscendo al passeggio coperto, invece di un sillogismo ti mettesti davanti qualche volta una rappresentazione e poi la perlustraste in comune? [II,21,20] Quando mai? E poi dite: “I principi generali della filosofia sono improficui”. A chi? A quanti non li usano come si deve. I colliri non sono improficui a quanti se li instillano quando e come si deve; non sono improficui gli impiastri; non sono improficui i manubri, ma improficui ad alcuni e proficui ad altri. [II,21,21] Se ora cercherai di sapere da me: “I sillogismi sono proficui?”, ti dirò che sono proficui e, se lo vorrai, ti dimostrerò come. “A me dunque, a che m’han giovato?” O uomo, tu non cercasti di sapere se sono proficui a te ma in generale. [II,21,22] Anche chi ha la dissenteria cerchi di sapere da me se l’aceto è proficuo e dirò che è proficuo. “A me dunque è proficuo?” Dirò: “No. Cerca innanzitutto di bloccare il tuo scarico, di far cicatrizzare le piaghette”. E voi, uomini, curate innanzitutto le piaghe, frenate le scariche, tranquillizzate l’intelletto, portatelo a scuola libero da distrazioni e riconoscerete che potenza ha la ragione!

CAPITOLO 22
SULL ‘ AMICIZIA

Salvo eccezioni rarissime, siamo tutti persone intelligenti e quindi sappiamo tutti amare quanto è bene. Ma vi è una certa differenza tra quanto ama una intelligenza che usa la controdiairesi -sia pur egli padre, fratello od amico-, e quanto ama una intelligenza che sa usare con arte la diairesi (1-11)

[II,22,1] Ciò su cui uno si industria, verosimilmente lo predilige. Dunque gli uomini si industriano forse sui mali? Nient’affatto! Forse su quanto non li riguarda? Neppure su questo. [II,22,2] Sopravanza quindi che essi si industriano sui soli beni; [II,22,3] e se se ne industriano, questi amano. Chi è dunque scienziato di beni è anche chi saprebbe amare. Chi invece non può distinguere i beni dai mali e l’udetero da entrambi, come potrebbe ancora costui amare? L’amare è quindi soltanto del saggio. [II,22,4] -”Ma come?”, dice, “io, pur essendo uno stolto, ugualmente amo il mio bimbo”- [II,22,5] Stupisco, per gli dei, di come hai in primo luogo ammesso di essere uno stolto. Che ti manca? Non usi la sensazione, non distingui le rappresentazioni, non fornisci al corpo i cibi idonei, un riparo, una dimora? Donde ammetti dunque di essere stolto? [II,22,6] Perché, per Zeus, spesso sei frastornato dalle rappresentazioni, sei sconcertato e la loro persuasività ti sconfigge. E concepisci le medesime cose una volta beni, poi proprio esse mali e successivamente udeteri. In complesso ti affliggi, hai paura, invidi, sei sconcertato, sei mutevole. Per questo ammetti di essere uno stolto. [II,22,7] E nel prediligere non sei mutevole? Concepisci che ricchezza di denaro, piacere fisico ed insomma le faccende stesse una volta sono beni, un’altra mali; e le medesime persone una volta buone ed un’altra cattive; le tratti una volta familiarmente ed un’altra da nemici personali; una volta lodi ed un’altra denigri. [II,22,8] -Sì, sperimento anche questo- E dunque? Chi è stato ingannato su qualcuno, reputi che gli sia amico? -Per niente!- E chi sceglie un amico con volubilità, può essergli benevolo? -Neppure costui- E chi ora ingiuria qualcuno e successivamente lo ammira? -Neppure costui- [II,22,9] E dunque? Non vedesti mai dei cagnolini scodinzolare e gli uni gli altri ruzzare, tanto da dire: “Non c’è niente di più amichevole”? Ma affinché tu veda cos’è amicizia, getta in mezzo a loro un pezzo di carne e lo riconoscerai. [II,22,10] Getta in mezzo a te ed al bimbo un fondicello e riconoscerai come il bimbo vuole sotterrarti in fretta e tu auspichi che il bimbo muoia. E poi tu, di nuovo: “Che figliolo tirai su! Da tempo vuole farmi il funerale”. [II,22,11] Getta una pupattola graziosa e se ne invaghisce chi è vecchio e chi è giovane; oppure, getta un po’ di reputazione. 

La prova che ce ne danno padre e figlio: Feres ed Admeto (11-12)

Se dovrai correre dei pericoli, avrai gli accenti del padre di Admeto: *Vuoi mirare la luce e reputi non volerlo il padre?* [II,22,12] Credi che egli non amasse il proprio bimbo quand’era piccolo e che non fosse in ansia quando aveva la febbre e che non dicesse spesso: “Magari avessi io piuttosto la febbre”? E poi quando la faccenda viene e si approssima, vedi che accenti lascia scappare! 

La prova che ce ne danno due fratelli: Eteocle e Polinice (13-14)

[II,22,13] Eteocle e Polinice non avevano la stessa madre e lo stesso padre? Non erano stati nutriti insieme, non avevano convissuto, giocato, non si erano coricati insieme e spesso l’un l’altro baciati? Sicché, credo, se uno li avesse visti avrebbe deriso i filosofi per i paradossi che dicono a proposito di amicizia. [II,22,14] Ma cadendo nel mezzo, come un pezzo di carne, la tirannia, vedi quel che dicono: *Dove starai mai davanti ai baluardi? -Perché me lo domandi?- Mi disporrò dinanzi a te per ucciderti. -Anch’io ho questa voglia- * e fanno tali auspici.

E’ sacrosanto, è assolutamente vitale che ciascuno ricerchi esclusivamente il proprio utile particolare (15-21)

[II,22,15] Giacché in generale, non ingannatevi, ogni creatura a niente è stata così imparentata come al proprio peculiare utile. Qualunque cosa le parrà dunque a questo intralciarla, sia esso fratello o padre, figliolo, innamorato, amante, essa lo odia, lo vilipende, lo maledice. [II,22,16] Giacché è nata per nulla tanto prediligere quanto il proprio utile; questo è padre, fratello, congeneri, patria e dio. [II,22,17] Qualora dunque noi reputiamo che gli Dei a questo ci intralcino, ingiuriamo anche loro, ne rovesciamo i delubri, diamo alle fiamme i templi come Alessandro, che intimò fossero dati alle fiamme quelli di Asclepio perché era morto il suo innamorato. [II,22,18] Per questo, se uno farà coincidere utile, sacrosanto, bello, e patria e genitori ed amici, tutto ciò è salvaguardato. Se invece porrà altrove l’utile ed altrove gli amici, la patria, i genitori e lo stesso giusto, tutto ciò sparisce schiacciato dal peso dell’utile. [II,22,19] Giacché dove saranno l’“io” ed “il mio”, là è necessario che propenda la creatura. Se nella carne, che là sia il dominante; se nella proairesi, che sia nella proairesi; se negli oggetti esterni, in questi. [II,22,20] Se quindi io sono là dov’è la proairesi, solamente così sarò amico e figlio e padre quale si deve. Giacché mi sarà utile serbare l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, capace di tollerare l’intemperanza altrui, di astenersi dalla propria, capace di cooperare e custodire le relazioni umane. [II,22,21] Se invece porrò me stesso altrove ed altrove il bello, si potenzia così il detto di Epicuro che dichiara il bello essere: o niente o, se proprio qualcosa, credenza.

Il problema è sapere dove davvero risieda il proprio utile particolare (22-24)

[II,22,22] A causa di questa ignoranza gli Ateniesi litigavano con gli Spartani ed i Tebani con entrambi; il gran re di Persia con la Grecia ed i Macedoni con entrambi; ed ora i Romani con i Geti e, ancor prima, i fatti di Ilio accaddero per questo. [II,22,23] Alessandro era ospite di Menelao e se uno li avesse visti darsi l’un l’altro segni di amicizia, avrebbe diffidato di chi diceva che amici non erano. Ma fu buttato in mezzo a loro un pezzettino, una femminuccia graziosa, e per lui fu guerra. [II,22,24] E adesso qualora veda amici, fratelli che sembrano concordare, non dichiarare immantinente qualcosa sulla loro amicizia neppure se giureranno o diranno che è impossibile essere allontanati gli uni dagli altri.

I giudizi che fanno una persona intelligente ed insipiente ed i giudizi che fanno un uomo intelligente e saggio (25-30)

[II,22,25] L’egemonico dell’insipiente non è leale, non è ben saldo, è spregiudicato, vinto ora da una rappresentazione ora da un’altra. [II,22,26] Tu indaga non quel che indagano gli altri, se hanno gli stessi genitori, se sono stati del pari allevati e dallo stesso pedagogo; ma solo quello: dove pongono il loro utile, se esternamente o nella proairesi. [II,22,27] Se esternamente, non dirli amici; non più che leali o ben saldi o fiduciosi in se stessi o liberi; anzi neppure uomini, se hai accortezza. [II,22,28] Giacché non è un giudizio da uomo quello che fa mordere l’un l’altro, ingiuriarsi, pigliare luoghi isolati o piazze come belve le montagne e dimostrare in tribunale modi da rapinatori. Né quello che rende non padroni di sé, adulteri, corruttori; né di quant’altre contumelie gli esseri umani si coprono vicendevolmente a causa di questo solo ed unico giudizio: il porre se stessi e quanto è loro in ciò che è aproairetico. [II,22,29] Se invece sentirai dire che questi, gli uomini, davvero credono il bene solo là dov’è proairesi, dov’è il retto uso delle rappresentazioni; non impicciarti più se sono figlio e padre o fratelli o sono andati a scuola insieme e sono compagni. Riconosciuto soltanto questo, dichiara con fiducia che sono amici, come anche che sono leali, che sono giusti. [II,22,30] Giacché dov’é amicizia altrove da lealtà, da rispetto di sé e degli altri, da dedizione al bello ed a null’altro?

La prova che ce ne danno moglie e marito: Erifile ed Anfiarao (31-33)

[II,22,31] “Ma mi ha accudito per tanto tempo e non mi amava?” Donde sai, schiavo, se ha accudito te come dà di spugna ai suoi calzari, come striglia il bestiame? Donde sai se, buttando via il bisogno che ha di te come vasetto, non ti scaglierà via come un piattino rotto? [II,22,32] “Ma è mia moglie ed abbiamo convissuto tanto tempo!” E quanto era vissuta Erifile con Anfiarao, essendo anche madre, e di molti figlioli? Ma venne in mezzo una collana. [II,22,33] Cos’è una collana? Il giudizio su cose siffatte. Quello era il belluino, ciò che fa a fette l’amicizia, che non permette che una donna sia sposa ed una madre, madre. 

Rettificare i propri giudizi belluini ed abominevoli (34-37)

[II,22,34] E chi di voi si industria o per essere lui stesso amico di qualcuno o per acquisire un amico, stronchi questi giudizi, li odi, li scacci dal suo animo. [II,22,35] Così sarà, innanzitutto, non ingiuriatore di se stesso, non in contraddizione con se stesso, non dovrà pentirsi né tormentarsi. [II,22,36] Poi sarà del tutto schietto con l’altro che gli è simile e capace di tollerare l’intemperanza del dissimile; con lui mite, mansueto, indulgente come con un ignorante, come con chi cade in errore nelle questioni più grandi. Esasperato con nessuno, in quanto conosce con precisione il detto di Platone che “Ogni animo si defrauda della verità suo malgrado”. [II,22,37] Se no, effettuerete quant’altro effettuano gli amici: berrete insieme, starete nella stessa tenda, navigherete insieme e sarete nati dagli stessi genitori. Ma pure i serpenti. Amici però né quelli né voi, finché avrete questi giudizi belluini ed abominevoli.

CAPITOLO 23
SULLA FACOLTÀ DEL DIRE

Le meraviglie di cui è capace la Materia Immortale (1-4)

[II,23,1] Chiunque leggerebbe con più piacere e più facilmente un libro scritto con lettere ben cospicue. E chiunque non ascolterebbe più facilmente discorsi significati in locuzioni insieme decorose e confacenti? [II,23,2] Proprio non è da dirsi che non esiste alcuna facoltà enunciativa: giacché questo è da individuo insieme empio e vile. Empio, perché deprezza le grazie di cui siamo oggetto da parte della Materia Immortale ed è come se abolisse la profittevolezza della facoltà visiva od uditiva o della stessa facoltà vocale. [II,23,3] A casaccio dunque Zeus ti diede gli occhi? A casaccio frammischiò ad essi uno pneuma così potente e di tale arte nel suo lavoro da foggiare, pervenendo lontano, i modelli degli oggetti visti? [II,23,4] E quale messaggero è così veloce e solerte? A casaccio fece anche l’aria interposta così attiva e vibrante che la visione può penetrare attraverso di essa come attraverso un mezzo teso? A casaccio fece la luce, senza la cui presenza non vi era pro alcuno del resto?

La meraviglia delle meraviglie: la proairesi ed il suo primato (5-15) 

[II,23,5] O uomo, non essere ingrato né immemore delle cose migliori; ma per il vedere, il sentire e, per Zeus, per lo stesso vivere e per quanto ad esso coopera, per i frutti secchi, per il vino, per l’olio ringrazia la Materia Immortale. [II,23,6] E ricorda che essa ti ha dato qualcos’altro migliore di tutto questo: quanto le userà, le valuterà, conteggerà il valore di ciascuna. [II,23,7] Cos’è infatti che dichiara per ciascuna di queste facoltà, quanto una di esse merita? Forse ciascuna facoltà lo fa da sé? Hai mai sentito la facoltà visiva dire qualcosa di se stessa? Forse quella uditiva? Esse sono invece state posizionate per essere servitrici, come ministre e serve, della facoltà atta ad usare le rappresentazioni. [II,23,8] Se cercherai di sapere quanto merita ciascuno, da chi cerchi di saperlo? Chi ti risponde? Come può dunque esserci un’altra facoltà migliore di questa, che usa anche le restanti come ministre ed in prima persona le valuta e ne dichiara il valore? [II,23,9] Quale di quelle sa chi è e quanto merita? Quale di quelle sa quando si deve usarla e quando no? Qual è la facoltà che apre e chiude gli occhi e li distoglie da ciò da cui vanno distolti e ad altro li appressa? La visiva? No, ma la proairetica. Quale serra ed apre le orecchie? [II,23,10] Grazie a quale si diventa indiscreti e ficcanaso o, di nuovo, immoti ad un discorso? Alla uditiva? Non ad altra che la facoltà proairetica. [II,23,11] E poi quand’essa vede di trovarsi con altre facoltà tutte cieche e sorde, incapaci di notare altro eccetto quelle opere per le quali sono state posizionate a farle da ministre e servitrici, mentre essa sola scorge con acutezza e vede dall’alto non solo le altre facoltà e quanto merita ciascuna, ma anche se stessa; ebbene, è la proairesi per dichiararci che qualcos’altro è più possente di lei? [II,23,12] L’occhio aperto, che altro fa se non vedere? Ma se si deve guardare la moglie di qualcuno e come, chi lo dice? La facoltà proairetica. [II,23,13] Se bisogna fidarsi delle parole dette o diffidare e, fidandosi, essere stuzzicati o no, chi lo dice? Non è la facoltà proairetica? [II,23,14] E questa facoltà espressiva e di abbellire locuzioni -se proprio è una facoltà peculiare- che altro fa, qualora il discorso si imbatta su qualcosa, che imbellettare i nomignoli e comporli come i parrucchieri la chioma? [II,23,15] Se sia meglio dire o tacere, parlare così o cosà, se questo sia confacente o non confacente, il tempo di ciascuna cosa ed il bisogno, chi altro lo dice se non la facoltà proairetica? Vuoi dunque che essa pervenga a votarsi contro?

La proairesi soltanto è autodeterminativa (16-19)

[II,23,16] “E dunque,” dice, “se così sta la faccenda, può quanto fa da ministro essere migliore di ciò cui fa da ministro: il cavallo migliore del cavaliere, il cane del cacciatore, lo strumento del citarista, i servitori del re?” Cos’è che usa? La proairesi. [II,23,17] Cos’è sollecito di tutto? La proairesi. Cosa leva interamente di mezzo l’uomo, una volta per fame, un’altra per impiccagione, un’altra giù da un precipizio? La proairesi. [II,23,18] E poi qualcosa è più potente di questo negli uomini? Com’è possibile che l’impedito lo sia di quanto non è soggetto a impedimenti? [II,23,19] Cos’è per natura capace di intralciare la facoltà visiva? La proairesi e ciò che è aproairetico. Lo stesso vale per la facoltà uditiva, ed è allo stesso modo per la facoltà espressiva. Ma cos’è per natura capace di intralciare la proairesi? Nulla di aproairetico bensì essa, quando sia pervertita, se stessa. Per questo la proairesi diventa solo vizio o sola virtù.

Epicuro gioca a fare il modesto ma la modestia non è affatto una virtù (20-22)

[II,23,20] E poi, pur essendo la proairesi una facoltà così rilevante e sovraordinata a tutto il resto, che pervenga a dirci che delle cose che sono la più possente è la carne? Neppure se la carne stessa dicesse di essere essa la cosa più possente uno l’avrebbe tollerata. [II,23,21] Ora cos’è, o Epicuro, che dichiara questo? Che compila “Sul fine”, “La fisica”, “Sul Canone”? Che ha fatto scendere la barba? Che scrive, quando moriva: “mentre conduciamo l’ultimo ed insieme beato giorno…”? [II,23,22] La carne o la proairesi? E poi ammetti di avere qualcosa di migliore di questo e non sei pazzo? Sei davvero così cieco e sordo?

Perché mai ci si dovrebbe vergognare di dire la verità sulla proairesi, sulle altre facoltà e sui loro rapporti reciproci? (23-27)

[II,23,23] E dunque? Qualcuno deprezza le altre facoltà? Non sia mai! Qualcuno dice che non vi sia alcun bisogno o promozione al di fuori della facoltà proairetica? Non sia mai! Sarebbe dissennato, empio, ingrato nei confronti della Materia Immortale. Essa restituisce a ciascuno il suo valore. [II,23,24] Giacché c’è un certo bisogno dell’asino ma non quanto del bue; c’è bisogno del cane ma non quanto del domestico; c’è bisogno del domestico ma non quanto dei cittadini; c’è anche di questi ma non quanto dei magistrati. [II,23,25] Tuttavia non bisogna deprezzare l’utilità che procurano anche le cose diverse, a causa del fatto che altre sono migliori. Anche la facoltà espressiva ha un certo valore, ma non quanto la facoltà proairetica. [II,23,26] Qualora dunque io dica questo, non si creda che io solleciti da voi che trascuriate l’espressione: giacché neppure vi sollecito a trascurare gli occhi né le orecchie né le mani né i piedi né il vestito né i calzari. [II,23,27] Ma se cercherai di sapere da me: “Delle cose che sono qual è dunque la più possente?” Che dire? La facoltà espressiva? Non posso; ma la proairetica, qualora diventi retta. 

Perché mai ci si dovrebbe vergognare di dire la verità sugli esseri umani, sugli uomini e sui loro rapporti reciproci? (28-29)

[II,23,28] Giacché questo è quanto usa anche quella e tutte le altre, piccole e grandi arti e facoltà. Quando questo ha successo, nasce l’uomo dabbene. Quando fallisce, nasce l’individuo cattivo. [II,23,29] Rispetto a questo siamo sfortunati o fortunati, ci biasimiamo l’un l’altro o ci compiacciamo; insomma questo è ciò che fa infelicità quando trascurato e felicità quando centrato con solerzia.

Ogni facoltà va coltivata secondo il suo proprio valore (30-35) 

[II,23,30] Il rimuovere la facoltà espressiva e dire che non ne esiste alcuna, davvero non è soltanto da persona ingrata verso i datori ma anche da vile. [II,23,31] Uno siffatto mi sembra aver paura che, se appunto esiste una facoltà in quest’ambito, noi possiamo non spregiarla. [II,23,32] Siffatti sono anche coloro che dicono non esservi alcun divario tra avvenenza e laidezza. E poi sarebbero similmente mossi chi vede Tersite ed Achille? Similmente chi vede Elena ed una femmina qualunque? [II,23,33] Queste sono stupidaggini e rozzezze di coloro che non sanno la natura di ciascuna cosa ma hanno paura che se uno si accorgerà della differenza, subito parta rapito e sconfitto. [II,23,34] Ma il grande è questo: riservare a ciascuna cosa la facoltà che ha e, riservatala, vedere il valore della facoltà. Decifrare poi cos’è più possente e questo perseguire in ogni circostanza, su questo industriarsi, dopo avere fatto il resto accessorio e facendo tuttavia del proprio meglio per non trascurarlo. [II,23,35] Giacché bisogna esser solleciti degli occhi, ma non come della cosa più possente; piuttosto, anche degli occhi in funzione di quanto è più possente. Perché quello non starà secondo la natura delle cose altrimenti che operando razionalmente con questi e scegliendo certi oggetti invece di altri.

Non scambiare i mezzi con i fini: la meta di Ulisse era Itaca, non erano le Sirene (36-41)

[II,23,36] Cos’è dunque che accade? E’ come se uno, mentre se ne va verso la sua patria, transitasse per un magnifico albergo e, dal momento che gradisce l’albergo, sostasse lì. [II,23,37] O uomo, dimenticasti il tuo proposito. Non eri in viaggio per questo ma attraverso questo. “Ma questo è grazioso”. E quanti altri alberghi sono graziosi, quante praterie lo sono; semplicemente come transito. [II,23,38] L’obiettivo però era quello: ritornare in patria, allontanare i familiari dal timore, fare quel che fa un cittadino, sposarsi, fare figli, occupare le legittime cariche. [II,23,39] Giacché non sei venuto per selezionarti i posti più graziosi ma per condurti da uomo in quelli in cui nascesti ed ai quali sei stato assegnato cittadino. Qualcosa di siffatto accade anche qui. [II,23,40] Dacché si deve arrivare alla perfezione attraverso il discorso e siffatta trasmissione delle conoscenze; dacché si deve purificare la propria proairesi e strutturare retta la facoltà atta ad usare le rappresentazioni; dacché la trasmissione delle conoscenze accade necessariamente attraverso principi generali ed una certa loquela e con varietà e sottigliezza di principi generali; [II,23,41] alcuni catturati da questo sostano lì, uno dalla loquela, un altro dai sillogismi, un altro dai ragionamenti equivoci, un altro ancora da qualche altro albergo siffatto; e restano a marcire come presso le Sirene.

La meta dell’uomo è la retta proairesi, non l’eloquenza (42-45)

[II,23,42] O uomo, l’obiettivo era di strutturarti ad usare secondo la natura delle cose le rappresentazioni che ti incolgono; nel desiderio non fallendo il segno; nell’avversione non incappando in quanto avversi; mai sfortunato, mai preda di cattiva fortuna, libero, non soggetto a impedimenti, non soggetto a costrizioni; conciliato al governo di Zeus, a questo governo ubbidiente, di questo governo compiacendoti; non biasimando nessuno, non accagionando nessuno, potendo dire queste righe dall’animo intero: *Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato*. [II,23,43] E poi, mentre hai questo obiettivo, poiché gradisci una elocuzioncella, poiché gradisci certi principi filosofici generali, sosti lì e prescegli di dimorarvi, dimentico di quei di casa e dici: “Queste cose sono graziose”? E chi dice che non lo siano? Ma come transito, come alberghi. [II,23,44] Giacché cosa impedisce che chi si esprime come Demostene sia sfortunato? Cosa impedisce che chi risolve sillogismi come Crisippo sia meschino, pianga, invidi, insomma sia sconcertato, sia infelice? Nulla! [II,23,45] Vedi dunque che questi erano alberghi di nessun valore ed altro era l’obiettivo. 

Chi vuole fraintendere quel che dico sui mezzi e sui fini fraintenda pure e mi metta pure tra coloro che fanno danno a chi ascolta (46-47)

[II,23,46] Qualora io dica ciò ad alcuni, essi credono che io abbatta la sollecitudine per il dire o circa i principi filosofici generali. Ma io non abbatto questa bensì lo stare esclusivo ed incessante su questi argomenti ed il porre qui le proprie speranze. [II,23,47] Se uno, facendo riscontrare questo, danneggia gli ascoltatori, ponete anche me come uno dei danneggiatori. Se scorgo che la facoltà più possente e dominante è una, non posso, per gratificarvi, dire che è un’altra.

CAPITOLO 24
AD UNO DI QUELLI CHE DA LUI NON SONO STATI DEGNATI DI RISPOSTA

Anche saper ascoltare è un’arte (1-10)

[II,24,1] Quando uno gli disse ‘Spesso venni da te smaniando di ascoltarti e tu non mi rispondesti mai. [II,24,2] Ora, se possibile, ti prego di dirmi qualcosa’ Reputi, diceva Epitteto, che come di qualcos’altro così c’è un’arte anche del parlare e che chi l’ha parlerà espertamente mentre chi non l’ha parlerà inespertamente? [II,24,3] -Lo reputo- Pertanto parlerebbe espertamente chi attraverso il parlare giovasse a se stesso e fosse capace di giovare ad altri, mentre chi piuttosto si danneggiasse e danneggiasse altri costui sarebbe inesperto di quest’arte del parlare. Troveresti che alcuni sono danneggiati mentre altri traggono giovamento. [II,24,4] E tutti gli ascoltatori traggono giovamento da quanto ascoltano, oppure troveresti che alcuni di questi traggono giovamento mentre altri sono danneggiati? -Anche per questi è così, diceva- Pertanto, anche qui, quanti ascoltano espertamente traggono giovamento, mentre quanti lo fanno inespertamente sono danneggiati? -Lo ammetteva- [II,24,5] Esiste dunque una certa perizia, come del parlare così pure dell’ascoltare? -Somiglia- [II,24,6] Se decidi, analizzalo anche così. Toccare musicalmente qualcosa, di chi lo reputi? -Del musicista- [II,24,7] E che? Strutturare come si deve la statua, di chi ti pare proprio? -Dello scultore di statue- Ed il guardarla espertamente ti pare non avere bisogno di arte alcuna? -Anche questo ne abbisogna- [II,24,8] Se dunque il parlare come si deve è proprio dell’esperto, vedi che pure l’ascoltare giovevolmente è proprio dell’esperto? [II,24,9] Ma per il presente, se decidi, tralasciamo il perfettamente ed il giovevolmente, dacché siamo entrambi lungi da qualsiasi cosa siffatta. [II,24,10] Reputo però che ognuno ammetterebbe che chi ha intenzione di sentir parlare i filosofi abbisogna di alquanta consumata esperienza di ascoltatore. O no?

Il discente deve saper stimolare il docente (11-18)

[II,24,11] Di cosa debbo dunque parlare a te? Mostralo! Di cosa puoi sentir parlare? Di beni e di mali? Di chi? Del cavallo? -No- Ma del bue? -No- [II,24,12] E dunque? Dell’uomo? -Sì- Sappiamo dunque cos’è un uomo, qual è la sua natura, qual è il concetto di uomo? Abbiamo su questo le orecchie alquanto forate? Concettualizzi cos’è natura delle cose e puoi alquanto seguirmi mentre ne parlo? [II,24,13] Userò con te la dimostrazione? Come? Lo comprendi cos’è una dimostrazione o come qualcosa si dimostra o attraverso quali operazioni? Oppure quali operazioni sono simili ad una dimostrazione ma non sono una dimostrazione? [II,24,14] Sai cos’è vero e cos’è falso? Cosa consegue a che cosa, cosa contraddice che cosa oppure è incoerente con la natura delle cose o disarmonico? Che smuova te alla filosofia? [II,24,15] Come additarti la contraddizione dei più degli esseri umani, contraddizione per la quale essi litigano sui beni e sui mali, su quanto è utile ed inutile, se non sai proprio questo, ossia cos’è contraddizione? Mostrami cosa porterò a termine dialogando con te! Smuovimene lo slancio. [II,24,16] Come l’erba consona, apparsa alla pecora ne smuove la foga a mangiare, mentre non sarà smossa se le sistemerai accanto un sasso o del pane; così vi sono in noi certi naturali slanci anche a parlare, qualora chi ascolterà ci paia qualcuno, qualora ci stuzzichi. Ma se ci giacerà accanto come un sasso o del foraggio, come può smuovere il desiderio in un uomo? [II,24,17] La vite dice forse all’agricoltore “Sii sollecito di me”? Ma palesando lei da sé che sarà di vantaggio a chi ne ha sollecitudine, provoca alla sollecitudine. [II,24,18] I bimbi persuasivi e vivaci, chi non provocano a giocare con loro, a strisciare, a balbettare? Chi si slancia a giocare o ragliare con un asino? Pur se piccolo, ugualmente un asinello è.

L’ignoranza è causa della miseria morale degli esseri umani (19-20)

[II,24,19] -Perché dunque non mi dici nulla?- Io ho da dirti solo questo, che chi ignora chi è, per che cosa è nato, in che sorta di ordine del mondo e con quali soci, e quali sono i beni ed i mali, il bello ed il brutto; che non comprende né un ragionamento né una dimostrazione né cos’è vero né cos’è falso e neppure può distinguerli; che non desidererà, non avverserà, non impellerà, non progetterà, non assentirà, non dissentirà, non sospenderà il giudizio secondo la natura delle cose: in totale andrà in giro sordo e cieco reputando di essere qualcuno, mentre è nessuno. [II,24,20] E’ ora la prima volta che questo sta così? Non sta così fin da quando esiste il genere degli umani? Da quel tempo tutte le aberrazioni e le sfortune non sono nate per questa ignoranza? 

Agamennone ed Achille (21-23)

[II,24,21] Agamennone ed Achille perché litigavano l’un l’altro? Non era perché non sapevano cos’è utile e cosa non è utile? Uno non dice che è utile restituire Criseide al padre, mentre l’altro dice che non è utile? Uno non dice che deve prendere lui il bottino di guerra di un altro, e l’altro che non deve? Non è per questo che essi dimenticarono chi erano e per cosa erano venuti? [II,24,22] Permetti, o uomo, per cosa sei venuto? Per acquisire innamorate o per fare guerra? “Per fare guerra”. A chi? Ai Troiani od ai Greci? “Ai Troiani”. Tralasciato dunque Ettore, sguaini la spada contro il tuo re? [II,24,23] E tu, o ottimo, tralasciate le opere da re *a cui son tante genti commesse e tante cure*, fai a pugni per una pupattola con il più guerresco degli alleati, con chi si deve in ogni modo trattare con riguardo e proteggere? E diventi peggiore di un elegante sommo sacerdote il quale tratta i magnifici gladiatori con ogni solerzia? Vedi quali disastri fa l’ignoranza su quanto è utile?

I doni esteriori non sono noi (24-29)

[II,24,24] “Ma sono anch’io ricco di denaro!” Forse più ricco di Agamennone? “Ma sono anche magnifico!” Forse più magnifico di Achille? “Ma ho anche un ciuffo elegante!” E quello di Achille non era più magnifico e biondo? E non lo pettinava e plasmava con eleganza? [II,24,25] “Ma sono anche potente!” Puoi forse sollevare un sasso quanto Ettore od Aiace? “Ma sono anche di nobile stirpe!” Forse di madre divina, forse di un padre prole di Zeus? Che giova ciò ad Achille qualora seduto singhiozzi per la pupattola? [II,24,26] “Ma sono un oratore!” E quello non lo era? Non scorgi come ha trattato Odisseo e Fenice, i parlatori più valenti tra i Greci; come li ha fatti ammutolire? [II,24,27] Questo solo ho da dirti, e neppur questo con foga. -Perché?- [II,24,28] Perché non mi stuzzicasti. Giacché tenendo gli occhi sopra cosa sarò stuzzicato come i cavalieri coi cavalli purosangue? Sul tuo corpo? Lo plasmi in modo laido. Sul vestito? Anche questo è effeminato. Sull’atteggiamento; sullo sguardo? Su nulla. [II,24,29] Qualora tu voglia sentir parlare un filosofo, non dirgli: “Non mi dici nulla?”. Invece mostrati soltanto capace di ascoltare e vedrai come smuoverai chi parla.

CAPITOLO 25
COM ‘ È NECESSARIA LA LOGICA ?

La logica: anche per negarne la necessità bisognerebbe farne uso (1-3)

[II,25,1] Quando uno degli astanti disse ‘Persuadimi che la logica è proficua’ Vuoi, diceva Epitteto, che te lo dimostri? -Sì- [II,25,2] Dunque devo dialogare con un ragionamento dimostrativo? Ammettendolo, Donde dunque saprai se ti raggirerò? [II,25,3] Tacendo quello, Vedi, diceva, come tu stesso ammetti che la logica è necessaria se, sprovvisto di essa, neppur questo puoi imparare: se è necessaria o non necessaria.

CAPITOLO 26
COS’ È PECULIARE DELL ‘ ABERRAZIONE ?

Volere in violazione della natura delle cose è ignorare di disporre così la propria infelicità. Ogni aberrazione dell’essere umano include una contraddizione (1-3)

[II,26,1] Ogni aberrazione include una contraddizione. Dacché chi aberra non vuole aberrare ma avere successo, è manifesto che egli non fa quanto vuole. [II,26,2] Cosa vuole infatti effettuare il ladro? Il proprio utile. E dunque se rubare non gli è utile, non fa quanto vuole. [II,26,3] La contraddizione è per natura delle cose invisa ad ogni animo razionale e finché questo non comprenderà di essere in contraddizione, nulla impedisce che faccia cose contraddittorie. Ma comprendendolo, è del tutto necessario che si distorni dalla contraddizione e la fugga; così com’è amara necessità per chi si accorge che una cosa è falsa, dissentire dalla falsità. Finché però non lo immagina, le annuirà come vero.

Chi avrà insuccesso sta facendo quel che ignora di fare (4-5)

[II,26,4] Dunque è valente ragionatore, sia nello spronare sia nel contestare, chi può additare a ciascuno la contraddizione rispetto alla quale aberra e fargli riscontrare chiaramente come non fa ciò che vuole e fa ciò che non vuole. [II,26,5] Giacché se uno mostrerà questo, egli da sé se ne ritirerà arretrando. Ma finché non lo mostri non stupirti se persiste, giacché egli lo fa prendendone la rappresentazione di un successo.

L’intellettualismo socratico (6-7)

[II,26,6] Per questo Socrate, confidando in questa facoltà, diceva: “Io sono solito non procurare alcun altro testimone di quanto dico e mi accontento sempre dell’interlocutore, lo faccio votare, lo chiamo testimone e, pur essendo uno solo, questo mi basta per tutti”. [II,26,7] Infatti sapeva da cos’è smosso un animo razionale e che propenderà similmente alla bilancia, che tu lo voglia o no. Mostra una contraddizione ad un egemonico razionale ed esso se ne distornerà; ma se non la mostrerai, incolpa te stesso piuttosto che chi non ubbidisce.

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Traduzioni

IL MANUALE DI EPITTETO

Tutto

EPITTETO

nuovamente tradotto

da FRANCO SCALENGHE

IL MANUALE DI EPITTETO

Ε μν τ σμά σού τις πέτρεπε τ παντήσαντι, γανάκτεις ν: τι δ σ τν γνώμην τν σεαυτο πιτρέπεις τ τυχόντι, να, ἐὰν λοιδορήσηταί σοι, ταραχθ κείνη κα συγχυθ, οκ ασχύν τούτου νεκα;

“Se qualcuno delegasse il tuo corpo a chi ti viene incontro, ne fremeresti. E che tu deleghi la tua intelligenza a chi capita affinché, se sarai ingiuriato, essa ne sia sconcertata e confusa: per questo non ti vergogni?” (Manuale, 28)

E1. 

Esistono cose per natura libere e cose per natura schiave. La Diairesi è il Supergiudizio che sa distinguere quanto è libero da quanto è schiavo. La Controdiairesi è il Supergiudizio che decreta schiavo quanto invece è libero, oppure decreta libero quanto invece è schiavo per natura delle cose.

[E1,1] Delle cose che sono, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere sono concezione, impulso, desiderio, avversione e, in una parola, quanto è opera nostra. Non sono in nostro esclusivo potere il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche e, in una parola, quanto non è opera nostra. [E1,2] Le cose in nostro esclusivo potere sono per natura libere, non soggette ad impedimenti, non soggette ad impacci; mentre le cose non in nostro esclusivo potere sono deboli, serve, soggette ad impedimenti, allotrie. [E1,3] Ricorda dunque che se crederai libero quanto per natura delle cose è servo, e peculiare quanto è allotrio, sarai intralciato, piangerai, sarai sconcertato, biasimerai dei ed uomini. Se invece crederai tuo solo quanto è tuo ed allotrio, com’è, l’allotrio; nessuno mai ti costringerà, nessuno ti impedirà; non biasimerai nessuno, non incolperai nessuno, non effettuerai neppure una sola cosa tuo malgrado, non avrai nemici personali, nessuno ti danneggerà giacché non sperimenterai nulla di dannoso. [E1,4] Prendendo dunque di mira cose così rilevanti, ricorda che bisogna accostarsi ad esse non equilibratamente mossi ma che si deve tralasciarne alcune definitivamente ed altre, per il presente, posporle. Se vorrai tanto queste cose quanto occupare cariche ed essere ricco di denaro, per il fatto di prendere di mira anche le precedenti non centrerai, caso mai, neppure queste; ma fallirai affatto quelle attraverso cui soltanto promanano libertà e felicità. [E1,5] Subito dunque, ad ogni rappresentazione rude studia di soggiungere che “Sei una rappresentazione e non affatto quanto appari”. Poi indagala e valutala con questi canoni che hai, ed innanzitutto e soprattutto con questo: se è di cose in nostro esclusivo potere o di cose non in nostro esclusivo potere. E se sarà di qualcuna delle cose non in nostro esclusivo potere, ti sia a portata di mano che “Nulla è per me”.

E2.

Sfortune e cattive fortune.

[E2,1] Ricorda che professione del desiderio è centrare ciò che desidera, professione dell’avversione non incappare in ciò che avversa. Chi fallisce nel desiderio è sfortunato, mentre chi nell’avversione incappa in quanto avversa ha cattiva fortuna. Se dunque, di quanto è in tuo esclusivo potere, avverserai solo il contrario alla natura delle cose, non incapperai in nulla di ciò che avversi. Ma se avverserai la malattia o la morte o la povertà di denaro, avrai cattiva fortuna. [E2,2] Rimuovi dunque l’avversione da tutto quanto non è in nostro esclusivo potere ed allogala su quanto, di ciò che è in nostro esclusivo potere, è contrario alla natura delle cose. Il desiderio, per il presente, aboliscilo definitivamente. Giacché se desidererai qualcosa di non in nostro esclusivo potere, è necessario che tu sia sfortunato, mentre nulla di quanto è in nostro esclusivo potere e sarebbe bello desiderare ti è ancora presente. Usa soltanto l’impellere ed il repellere, e tuttavia leggermente, con eccezioni e pacatamente.

E3.

La natura delle cose.

[E3,1] Per ciascuna delle cose che ti cattivano l’animo o procurano un’utilità o per le quali hai affetto, ricorda di soggiungere, iniziando dalle più spicciole, quale ne è la natura. Se avrai affetto per una pentola, soggiungi “Ho affetto per una pentola” giacché, se essa si romperà, non sarai sconcertato. Se bacerai il tuo bimbo o tua moglie, soggiungi che baci una persona; giacché morendo essa, non ne sarai sconcertato.

E4.

Proairesi: la facoltà logica degli esseri umani, la loro intelligenza, in quanto può scegliere di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente.

[E4,1] Qualora stia per accostarti ad un’opera, richiamati alla memoria qual è la natura dell’opera. Se te ne andrai per fare un bagno caldo, mettiti davanti gli avvenimenti alle terme: quelli che spruzzano, quelli che strattonano, quelli che ingiuriano, quelli che rubano. E così ti accosterai all’opera più sicuramente se subito soggiungerai: “Dispongo di fare un bagno caldo, ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose”. E fa’ allo stesso modo per ciascuna opera. Giacché così, se qualcosa diverrà un intralcio a fare un bagno caldo, avrai a portata di mano che: “Io non disponevo solo questo, ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose; e non la serberò se fremerò davanti agli avvenimenti”.

E5.

Noi siamo proairesi, ossia i nostri giudizi.

[E5,1] Sconcertano gli esseri umani non le faccende, ma i giudizi sulle faccende. Per esempio, la morte nulla è di terribile, dacché questo sarebbe parso anche a Socrate; ma il giudizio sulla morte, che sia terribile, quello è il terribile. Qualora dunque siamo intralciati o sconcertati od afflitti, non accagioniamo mai altro che noi stessi, cioè i nostri giudizi. Incolpare altri per ciò per cui lui finisce male è opera del non educato a diairesizzare. Incolpare se stessi è opera di chi ha iniziato a diairesizzare. Non incolpare né un altro né se stesso, di chi è stato educato a diairesizzare. 

E6.

Eccellenza della natura umana è null’altro che l’uso retto, ossia secondo la natura delle cose, delle rappresentazioni.

[E6,1] Non esaltarti per nessun pregio altrui. Se un cavallo dicesse esaltato: “Sono bello”, sarebbe comportabile; ma qualora tu dica esaltato: “Ho un bel cavallo”, sappi che ti esalti per la bontà di un cavallo. Cos’è dunque tuo? L’uso delle rappresentazioni. Sicché esaltati allorquando tu agisca secondo la natura delle cose nell’uso delle rappresentazioni; giacché allora ti esalterai per una qualche tua bontà.

E7.

Tutto quanto è aproairetico prima o poi deve essere restituito.

[E7,1] Appunto come, durante un viaggio per mare, quando il bastimento è all’ancora, se uscissi per rifornirti d’acqua, strada facendo raccoglierai ora una chiocciolina ora una cipollina; ma bisogna che l’intelletto sia teso al bastimento e che ti impensierisca costantemente se mai il pilota chiamerà; e se chiamerà, che tralasci tutte quelle cose per non essere sbattuto a bordo incatenato come le pecore; così pure nella vita, se invece di una cipollina e di una chiocciolina ti saranno dati una mogliettina ed un bimbo, nulla impedirà; ma se il pilota chiamerà, corri al bastimento tralasciando tutte quelle cose e senza voltarti. E se sarai vecchio, neppure allontanati troppo dal bastimento, per non eclissarti quando chiama.

E8.

Errore, vizio, infelicità.

[E8,1] Non cercare che gli avvenimenti accadano come vuoi, ma disponi gli avvenimenti come accadono e sarai sereno. 

E9.

Soltanto la proairesi è per natura libera da qualsiasi impedimento esteriore.

[E9,1] La malattia è un intralcio del corpo, non della proairesi, se la proairesi non lo disporrà. Un’azzoppatura è un intralcio di gamba, non di proairesi. E questo soggiungi per ciascun accadimento, giacché troverai che esso intralcia qualcos’altro ma non te.

E10.

Una proairesi che sa conservarsi libera in ogni situazione.

[E10,1] Per ciascuno degli eventi che ci incolgono, ricorda di voltarti a te stesso e di cercare quale facoltà hai per il suo uso. Se vedrai un magnifico giovanotto od una magnifica ragazza, troverai che la facoltà per queste cose è la padronanza di sé. Se ti si fornirà un dolore, troverai la fortezza. Se un’ingiuria, troverai la pazienza. Ed abituato così, le rappresentazioni non ti rapiranno con sé.

E11.

Tutto quanto è aproairetico prima o poi deve essere restituito 2.

[E11,1] Non dire mai di nulla “Lo persi”, ma “Lo restituii”. Il tuo bimbo morì? Fu restituito. Morì tua moglie? Fu restituita. “Il podere mi fu sottratto”. Dunque anche questo fu restituito. “Ma chi lo sottrasse è cattivo”. Che t’importa attraverso chi, colui che dà richiese? E finché ti sarà dato, siine sollecito come di cosa allotria; come i passanti dell’albergo.

E12.

Uomini, prezzi e profitto.

[E12,1] Se disponi di fare profitto, tralascia i rendiconti siffatti: “Se trascurerò i miei affari, non avrò sostentamento”; “Se non castigherò il ragazzo, sarà un malvagio”. Giacché è meglio morire di fame dopo essere diventato capace di dominare l’afflizione e la paura, piuttosto che vivere nell’abbondanza essendo preda dello sconcerto. E’ meglio che il ragazzo sia cattivo piuttosto che tu infelice. Inizia perciò dalle cose spicciole. [E12,2] E’ versato un po’ d’olio; è rubato un po’ di vino. Soggiungi: “A tanto si vende il dominio sulle passioni, a tanto il dominio sullo sconcerto”. Nulla promana gratis. Qualora chiami il ragazzo, pondera che può non darti retta, e darti retta ma non fare nulla di ciò che vuoi: ma non gli va così bene che sia in suo esclusivo potere il non essere tu preda dello sconcerto!

E13.

Questo o quello per me pari sono?

[E13,1] Se disponi di fare profitto, reggi di sembrare dissennato e sciocco riguardo agli oggetti esterni, e non decidere di sembrare uno che ha scienza di qualcosa. E se ad alcuni sembrerai essere qualcuno, diffida di te stesso. Sappi infatti che non è facile custodire la propria proairesi operante secondo la natura delle cose e gli oggetti esterni, ma se sei sollecito dell’una è del tutto necessario trascurare gli altri.

E14.

Può forse farci liberi qualcosa che è in potere d’altri?

[E14,1] Se vorrai che i tuoi figlioli e tua moglie ed i tuoi amici vivano ognora, sei sciocco; giacché vuoi che quanto non è in tuo esclusivo potere sia in tuo esclusivo potere e che l’allotrio sia tuo. Così, se vorrai che il ragazzo non aberri, sei stupido; giacché vuoi che il vizio non sia vizio ma qualcos’altro. Se però disporrai di non fallire desiderando, questo lo puoi. [E14,2] Esercita dunque questo che puoi. Signore di ciascuno è chi ha la potestà di procacciare o sottrarre delle cose che quello vuole o non vuole. Chiunque decide di essere libero non deve dunque volere né fuggire alcunché di quanto è in potere d’altri. Se no, è necessario che sia servo.

E15.

Il convito.

[E15,1] Ricorda che devi condurti come in un convito. Una portata è arrivata di fronte a te: sporgi la mano e condividi con compostezza. Perviene oltre: non rattenerla. Non è ancora giunta: non proiettare più in là il desiderio, ma attendi finché non sarà di fronte a te. Così verso figlioli, così verso moglie, così verso cariche, così verso la ricchezza di denaro: ed una volta sarai degno convitato degli dei. Se poi, pur essendoti sistemate accanto le portate, non ne prenderai ma le disdegnerai, allora non solo sarai un convitato degli dei ma comanderai pure con loro. Giacché così facendo Diogene, Eraclito ed i loro simili meritatamente erano ed erano detti divini.

E16.

L’afflizione altrui.

[E16,1] Qualora tu veda qualcuno che singhiozza in lutto, o perché si mette in viaggio un figliolo o perché ha perso le sue cose, fa attenzione non ti rapisca con sé la rappresentazione che egli si trova in cattive acque ad opera degli oggetti esterni. Ma subito ti sia a portata di mano che “Opprime costui non l’accidente (giacché non opprime un altro) ma il suo giudizio al riguardo”. Finché tuttavia si tratta di parole non peritarti, caso mai, ad essere compiacente con lui e condolerti. Fa tuttavia attenzione a non sospirare anche dal di dentro.

E17.

Sei un attore.

[E17,1] Ricorda che sei attore di un dramma quale lo disporrà il regista. Se breve, di uno breve; se lungo, di uno lungo. Se il regista disporrà che tu reciti la parte un poveraccio, lo fa affinché tu reciti anche questo da purosangue; ed ugualmente se disporrà per te la parte di uno zoppo, di un magistrato, di un privato cittadino. Giacché tuo è recitare bene il personaggio dato; selezionarlo per te è di un altro.

E18.

Il mio bene è nelle mie mani.

[E18,1] Qualora un corvo abbia gracchiato in modo non benaugurante, la rappresentazione non ti rapisca con sé ma subito fra te e te discrimina e dì: “Niente di ciò significa qualcosa per me, ma lo significa per il mio corpicino o per le mie coserelle o per la mia reputazione o per i miei figlioli o per mia moglie. Per me tutto significa buon augurio, se io lo disporrò; giacché qualunque di queste cosa succederà è in mio esclusivo potere trarne giovamento”.

E19.

Invincibili nella gara della libertà.

[E19,1] Puoi essere invincibile se non scenderai in nessuna gara in cui non è in tuo esclusivo potere vincere. [E19,2] Vedendo qualcuno anteposto a te, od un magnate o chi altrimenti ha applausi, vedi di non beatificarlo, rapito con sé dalla rappresentazione. Giacché se la sostanza del bene sarà in quanto è in nostro esclusivo potere, non hanno territorio né invidia né gelosia; e tu non vorrai essere stratega né pritano né console ma libero. Una sola è la strada che porta a questo: lo spregio di quanto non è in nostro esclusivo potere.

E20.

L’oltraggio.

[E20,1] Ricorda che non chi ti ingiuria o percuote ti oltraggia, ma è il tuo giudizio circa questi atti come oltraggiosi. Qualora, dunque, uno ti stuzzichi, sappi che la tua concezione ti ha stuzzicato. Innanzitutto prova dunque a non essere rapito con sé dalla rappresentazione, giacché una volta che otterrai tempo ed indugio, più facilmente sarai padrone di te stesso.

E21.

La morte.

[E21,1] Morte, esilio e tutto quanto appare terribile ti siano davanti agli occhi ogni giorno. Più di tutto la morte. E non rimuginerai mai qualcosa da servo nell’animo né smanierai troppo per qualcosa.

E22.

La derisione e l’ammirazione degli esseri umani.

[E22,1] Se smani per la filosofia, preparati immantinente ad essere deriso, ad essere sbeffeggiato da molti i quali diranno: “Improvvisamente ci è ritornato filosofo!” e “Questo cipiglio donde ci viene?” Tu non avere il cipiglio e attieniti a quanto ti appare ottimo come chi è stato posizionato a questo rango da Zeus. Ricorda che se manterrai i medesimi giudizi, quanti prima ti deridono costoro, successivamente, ti ammireranno; ma se sarai da loro sconfitto, aggiungerai alla prima una seconda derisione.

E23.

Sembrare ed essere.

[E23,1] Se mai ti accadrà di rigirarti fuori per la decisione di essere gradito a qualcuno, sappi che mandasti in malora il tuo istituto di vita. Accontentati dunque in ogni circostanza di essere filosofo. Se poi decidi anche di sembrarlo, apparilo a te stesso e sarà sufficiente.

E24.

Sacrificarsi per “la Causa” a costo di perdere i nostri veri beni?

[E24,1] Queste perplessità non ti opprimano: “Io vivrò senza onorificenze e non sarò nessuno da nessuna parte”. Giacché se il difetto di onorificenze è un male, tu però non puoi essere nel male a causa di un altro, non più che nella vergogna. E’ forse opera tua centrare una carica od essere invitato ad un banchetto? Nient’affatto! Com’é dunque questo ancora un difetto di onorificenze? Come non sarai nessuno da nessuna parte, tu che devi essere qualcuno nelle sole cose in tuo esclusivo potere, nelle quali hai la potestà di essere di grandissimo valore? [E24,2] Ma i tuoi amici rimarranno senza aiuto? Perché dici “senza aiuto”? Non avranno da te quattrinelli e neppure li farai cittadini romani. E chi ti disse che queste sono tra le cose in nostro esclusivo potere e non opere allotrie? Chi può dare ad un altro ciò che lui non ha? “Dunque acquisiscile,” dice, “affinché noi le abbiamo”. [E24,3] Se posso acquisirle serbando me stesso rispettoso di me e degli altri, leale, disinteressato, mostra la strada e le acquisirò. Ma se sollecitate che io perda i miei beni affinché voi vi procacciate dei non beni, vedete come siete iniqui e scriteriati. E cosa più decidete di avere? Del denaro od un amico leale e rispettoso di sé e degli altri? Soccorretemi dunque piuttosto a questo, e non sollecitatemi ad effettuare atti per cui butterò via proprio lealtà e rispetto di me e degli altri. [E24,4] “Ma la patria, per quanto è in mio potere,” dice, “sarà senza aiuto”. Di nuovo, di che tipo è questo aiuto? Non avrà grazie a te né portici né terme. E questo cos’è? Giacché neppure ha calzari grazie al fabbro né armi grazie al calzolaio. E’ sufficiente invece se ciascuno assolverà la propria opera. Se tu le strutturassi un altro cittadino leale e rispettoso di sé e degli altri, non gioveresti per nulla alla patria? “Sì”. Pertanto neppure tu saresti futile per lei. “Quale rango,” dice, “avrò dunque nella città?” Quello che potrai, custodendo insieme l’uomo leale e rispettoso di sé e degli altri. [E24,5] Ma se, deciso a giovare alla città butterai via questo, di che pro le diventeresti risultando irrispettoso e sleale?

E25.

Portaborse e leccaculi.

[E25,1] Qualcuno ti fu anteposto in un banchetto o nell’attribuzione di un appellativo o nell’essere invitato per un consiglio? Se questi sono beni, devi rallegrarti che egli li abbia centrati. Se invece sono mali, non adontarti perché non li centrasti tu. Ricorda che non puoi, non facendo le stesse cose per centrare quanto non è in nostro esclusivo potere, meritarti il pari. [E25,2] Come possono infatti avere il pari chi non bazzica le porte di qualcuno e chi le bazzica? Chi non entra nel seguito di qualcuno e chi vi entra? Chi non loda e chi loda? Sarai dunque ingiusto ed insaziato se, mentre non cedi ciò in cambio di cui quelle si smerciano, deciderai di prenderle gratis. [E25,3] A quanto si smerciano le teste di lattuga? Caso mai, un obolo. Se, dunque, ceduto l’obolo uno prenderà la lattuga e tu, non cedendo l’obolo non la prenderai, non credere di avere meno di chi la prende. Giacché come quello ha la testa di lattuga, così tu hai l’obolo che non desti. [E25,4] Allo stesso modo anche qui. Non fosti invitato al banchetto di qualcuno? Infatti non desti a chi chiama l’importo al quale vende il pranzo. E lo vende a prezzo di lodi, di assistenza lo vende. Dà dunque l’importo al quale si vende, se per te è vantaggioso. Ma se vuoi non cedere quello e pure prendere questo, sei insaziato e scempio. [E25,5] Nulla hai dunque in cambio del pranzo? Hai il non lodare costui, che non volevi; il non tollerare i suoi uscieri.

E26.

L’afflizione altrui 2.

[E26,1] E’ possibile decifrare il piano della natura da ciò per cui non differiamo gli uni dagli altri. Per esempio, qualora il bambino di un altro rompa la tazza, a portata di mano è subito il dire: “Sono cose che accadono!” Sappi dunque che, qualora fosse rotta una tua tazza, tu devi essere tale qual eri quando fu rotta quella di un altro. Così alloga questo anche a cose più grandi. E’ morto il figliolo di un altro, o la moglie. Non c’è nessuno che non direbbe: “E’ umano!” Ma qualora ne muoia uno dei propri, subito: “Ohimè! Sciagurato me!”. Sarebbe invece d’uopo ricordare cosa sperimentiamo quando lo sentiamo dire a proposito di altri.

E27.

Bene e male non esistono al di fuori della proairesi.

[E27,1] Come non si pone uno scopo per fallirlo, così neppure esiste natura di male nell’ordine del mondo.

E28.

Lo stupro dell’intelligenza.

[E28,1] Se qualcuno delegasse il tuo corpo a chi ti viene incontro, ne fremeresti. E che tu deleghi la tua intelligenza a chi capita affinché, se sarai ingiuriato, essa ne sia sconcertata e confusa: per questo non ti vergogni?

E29.

Lasciar perdere la filosofia.

[E29,1] Di ciascuna opera considera gli antecedenti ed i conseguenti e così vieni ad essa. Se no, dapprima vi sarai giunto con foga in quanto non hai ponderato nulla del seguito, ma successivamente, quando compariranno motivi di malcontento, te ne distornerai vergognosamente. [E29,2] Vuoi vincere le Olimpiadi? Anch’io, per gli dei, giacché è grazioso. Ma considera gli antecedenti ed i conseguenti e così accostati all’opera. Devi disciplinarti, cibarti a dieta, astenerti dai manicaretti, allenarti per necessità in ore fisse, nella calura, al freddo; non bere freddo, né vino come capita; insomma avere trasmesso te stesso al soprintendente come ad un medico; e poi in gara scavarti la sabbia, slogarti a volte una mano, storcerti una caviglia, ingoiare molta rena, possibilmente venire frustato e, dopo tutto ciò, essere vinto. [E29,3] Ciò esaminato, se ancora lo vorrai, vieni al cimento. Se no, ti sarai condotto come i bimbi i quali ora giocano ai lottatori, ora ai gladiatori, ora trombettano e poi canticchiano. Così tu pure ora atleta, ora gladiatore e poi oratore e poi filosofo ma con l’animo intero nulla. Come una scimmia tu imiti ogni spettacolo che vedrai e gradisci qualcosa di sempre diverso. Giacché non venisti a qualcosa dopo un’analisi né un percorso, ma a casaccio e secondo una gelida smania. [E29,4] Così alcuni, osservato un filosofo ed ascoltato qualcuno che parla come parla Eufrate (eppure, chi può parlare come lui?), vogliono anch’essi far filosofia. [E29,5] O uomo, esamina innanzitutto quella che è la faccenda e poi decifra anche la tua natura, se puoi sorreggerla. Decidi di essere un pentatleta od un lottatore? Vedi le tue braccia, le cosce, decifra i lombi. [E29,6] Giacché uno è nato per una cosa, un altro per un’altra. Reputi che facendo questo puoi mangiare allo stesso modo, bere allo stesso modo, similmente desiderare, similmente dispiacerti? Vegliare devi, faticare, partire dai familiari, essere spregiato da un pupattolo, essere deriso da chi ti viene incontro, avere la meno in ogni circostanza: in onorificenze, in cariche, nei processi, in ogni affaruccio. [E29,7] Esamina questi profili se disponi di permutare ciò con dominio sulle passioni, libertà, dominio sullo sconcerto. Se no, non appressarti per non essere, come i bimbi, ora filosofo, successivamente gabelliere e poi oratore e poi procuratore di Cesare. Questi ruoli non vanno d’accordo. Una sola persona tu devi essere, o buona o cattiva. Tu devi elaborare o il tuo egemonico o gli oggetti esterni; lavorare con arte sul di dentro o sul di fuori: questo è ricoprire il posizionamento di filosofo o di persona comune.

E30.

Le relazioni sociali.

[E30,1] Il doveroso si commisura generalmente alle relazioni sociali. E’ padre: è dettato di averne sollecitudine, dargli spazio in tutto, tollerare se ingiuria, se batte. “Ma è un cattivo padre”. Fosti forse imparentato dalla natura ad un buon padre? No, ma ad un padre. “Mio fratello commette ingiustizie”. Perciò serba il tuo posizionamento nei suoi confronti, e non considerare cosa fa lui ma cosa fai tu per avere la tua proairesi in accordo con la natura delle cose. Giacché un altro non danneggerà te, se tu non lo disporrai. E allora sarai stato danneggiato, qualora concepisca di essere danneggiato. Così dunque troverai quanto è doveroso da vicino, da cittadino, da stratega, se ti abituerai a conoscere i principi generali delle relazioni sociali.

E31.

Uomini e dei.

[E31,1] Circa la pietà per gli dei, sappi che dominante è avere di essi rette concezioni, come esistenti e governanti il tutto bene e giustamente; ed esserti assegnato l’ubbidire loro, cedere il passo ad ognuno di loro e seguirli di buon grado come realizzati dalla nostra più eccelsa intelligenza. Giacché così non biasimerai mai gli dei né li incolperai di essere trascurato. [E31,2] E questo non è tale da accadere altrimenti che rimuovendo il bene ed il male da quanto non è in nostro esclusivo potere e ponendoli soltanto in quanto è in nostro esclusivo potere. Ché se concepirai proprio qualcuna di quelle cose come bene o male è del tutto necessario, qualora fallisca ciò che vuoi ed incappi in ciò che non vuoi, che tu biasimi ed odi i causativi. [E31,3] Ogni creatura è infatti nata per fuggire e scansare quanto appare dannoso ed i suoi causativi e per andare in cerca e dare valore a quanto giova ed ai suoi causativi. Dunque è inconcepibile che chi crede di essere danneggiato si rallegri di colui dal quale reputa di essere danneggiato, come pure è impossibile rallegrarsi del danno stesso. [E31,4] Di qua viene anche che il padre è ingiuriato dal figlio qualora non lo faccia parte di quelli che il ragazzo reputa essere beni. E questo fece Eteocle e Polinice l’un l’altro nemici: credere un bene la tirannia. Per questo l’agricoltore ingiuria gli Dei, per questo il marinaio, per questo il mercante, per questo coloro che perdono le mogli ed i figlioli. Giacché dov’è l’utile, là è anche la pietà. Sicché chi è sollecito a desiderare e ad avversare come deve, nel medesimo tempo ha sollecitudine anche della pietà. [E31,5] Libare, sacrificare, offrire primizie secondo i patrii costumi in ciascun caso conviene; facendolo puramente, senza negligenza né trascuratezza e neppure con spilorceria né oltre le nostre facoltà.

E32.

La divinazione indifferente.

[E32,1] Qualora ti avvicini alla divinazione, ricorda che non sai cosa succederà ma che sei giunto per cercare di saperlo dall’indovino. Quel che è sei venuto sapendolo, se appunto sei filosofo. Giacché se è qualcosa di non in nostro esclusivo potere, è del tutto necessario che non sia né bene né male. [E32,2] Non portare dunque dall’indovino desiderio od avversione e non avvicinarti a lui tremando, ma avendo vagliato che tutto quanto succederà è indifferente e nulla per te; che quale che sarà, sarà possibile usarlo da virtuoso e che nessuno lo impedirà. Vieni dunque con fiducia agli dei come a consiglieri. Orbene qualora ti sia consigliato qualcosa, ricorda quali consiglieri assumesti e chi fraintenderai disubbidendoli. [E32,3] Vieni al divinare, come appunto sollecitava Socrate, in quei casi in cui ogni analisi ha riferimento all’esito e né dal ragionamento né da qualche altra arte si danno risorse per notare l’obiettivo della sorte. Sicché, qualora si debbano correre pericoli insieme ad un amico o con la propria patria, non divinare se li si debba correre. Giacché se l’indovino ti avviserà che le vittime sacrificali sono state infauste, è manifesto che significa morte o storpiatura di qualche parte del corpo od esilio. Ma la ragione sceglie, anche con ciò, di porsi accanto all’amico e di correre pericoli insieme con la patria. Fa’ perciò attenzione all’indovino più grande, ad Apollo Pizio, il quale fece espellere dal tempio chi non aiutò l’amico che veniva levato di mezzo.

E33.

Suggerisco.

[E33,1] Posizionati ormai un certo stile e modello, che custodirai sia quando sei solo, sia incontrando persone. [E33,2] E vi sia per lo più taciturnità o si parli il necessario e con poche parole. Raramente, e quando il momento adatto invita a dire, dì pure, ma non di quel che capita: non di combattimenti di gladiatori, non di corse dei cavalli, non di atleti, non di vivande o bevande, di trivialità e soprattutto non di persone, denigrando o lodando o paragonando. [E33,3] Se dunque ne sarai capace, con i tuoi discorsi trasporta anche quelli dei sodali al conveniente. Se poi fossi per caso preso da parte tra forestieri, taci. [E33,4] Il riso non sia molto né su molti argomenti né sia sguaiato. [E33,5] Un giuramento schivalo, se è possibile, appieno; se no, per quanto è contingente. [E33,6] Declina banchetti con gente di fuori e persone comuni. Se una volta ne sarà tempo, fa ben bene attenzione a non travalicare mai in volgarità. Sappi infatti che qualora il compagno sia sudicio, anche chi gli si struscia addosso necessariamente si insudicia, pur se fosse per caso pulito. [E33,7] Per quanto riguarda il corpo, assumi cose quali cibo, bevande, vestiario, casa, domestici, fino a soddisfare il mero bisogno; e circoscrivi tutto quanto è per reputazione od effeminatezza. [E33,8] Quanto ai piaceri sessuali prima dello sposalizio, bisogna fare del nostro meglio per essere puliti; e chi vi si accosta deve condividere quelli legali. Tuttavia non diventare grossolano né contestatorio con coloro che ne usano, e non citare sovente il fatto che tu non ne usi. [E33,9] Se qualcuno ti annuncerà che il tale sparla di te, non parlare in tua difesa contro quanto è detto, ma rispondi che “Il tale ignorava gli altri vizi che mi sono congiunti, dacché non direbbe solo di questi!” [E33,10] Andare a spettacoli non è per lo più necessario. Se una volta ne fosse tempo, non mostrare di parteggiare per altri che per te stesso, cioè disponi che accada soltanto quel che accade e che vinca solo chi vince: giacché così non sarai intralciato. Astieniti definitivamente dalle grida, dal ridacchiare di qualcuno o dal commuoverti troppo. Dopo esserti allontanato, non fare molti discorsi sull’avvenuto, se non per quanto porta alla tua rettificazione; giacché da un siffatto contegno si palesa che ammirasti lo spettacolo. [E33,11] Non andare a casaccio né facilmente a pubbliche letture. Se però ci vai, custodisciti solenne, stabile ed insieme non grossolano. [E33,12] Qualora tu stia per conferire con qualcuno, soprattutto delle reputate “Eccellenze”, mettiti davanti cosa avrebbero fatto in questo caso Socrate o Zenone, e non difetterai di usare convenientemente dell’accadimento. [E33,13] Qualora bazzichi qualche magnate, mettiti davanti che non lo troverai dentro, che sarai sbarrato fuori, che le porte ti saranno squassate contro, che non si preoccuperà di te. E se pur con ciò sarà doveroso venirci, venendo sopporta gli avvenimenti e non dire mai a te stesso: “Non meritava tanto!”; giacché questo è da persona comune e cui sono invisi gli eventi esterni. [E33,14] Nelle conversazioni tieniti lungi dal ricordare a lungo certe tue opere o, senza misura, dei pericoli corsi. Giacché come per te è piacevole ricordare i tuoi pericoli, non così è piacevole per gli altri ascoltare dei tuoi accidenti. [E33,15] Ci si tenga anche lungi dal muovere risate, giacché lubrico è il terreno che porta alla volgarità, ed insieme sufficiente ad attenuare il rispetto di chi ti è dintorno nei tuoi confronti. [E33,16] Malsicuro è anche avanzare verso il turpiloquio. Qualora dunque avvenga qualcosa di siffatto, se sarà tempestivo censura anche chi vi avanzò. Se no, proprio col tacere ed arrossire e l’accigliarti manifesta il tuo malcontento per il discorso.

E34.

La forza delle rappresentazioni.

[E34,1] Qualora la rappresentazione di qualche ebbrezza ti prenda, come appunto per le altre rappresentazioni, sta in guardia a non essere da essa rapito con sé. Che dunque la faccenda aspetti te, e tu prenditi qualche dilazione. Poi ricorda entrambi i tempi: il tempo in cui fruirai dell’ebbrezza ed il tempo in cui successivamente, dopo averne fruito, ti pentirai ed ingiurierai te stesso. Contrapponi a questo come ti rallegrerai astenendotene e come loderai te stesso. E se ti parrà tempo di accostarti all’opera, fa attenzione che non ti sconfiggano la sua gradevolezza e piacevolezza e seduzione. Ma contrapponi quanto meglio sia per te la cognizione di avere vinto questa vittoria.

E35.

Decisione.

[E35,1] Qualora tu, vagliato che una cosa è da fare, la faccia; non fuggire mai dall’essere visto effettuarla anche se i più saranno per concepire qualcosa di diverso al riguardo. Giacché se non fai rettamente, fuggi l’opera stessa. Se fai rettamente, perché hai paura di coloro che censureranno non rettamente?

E36.

Conflitto di interessi.

[E36,1] Come le asserzioni “E’ giorno” ed “E’ notte” hanno grande valore per una proposizione disgiuntiva ed invece disvalore per un periodo copulativamente coordinato, così selezionare per sé il pezzo più grande di qualcosa abbia pure valore per il corpo, ma per custodire come si deve la socievolezza in un banchetto ha disvalore. Qualora dunque mangi con un altro, ricorda di non vedere soltanto il valore per il tuo corpo delle portate che ti giacciono accanto, ma anche di custodire il rispetto verso l’imbanditore.

E37.

Sopra le righe.

[E37,1] Se interpreterai un personaggio oltre le tue facoltà, in questo fosti indecente ed omettesti di assolvere quello che potevi.

E38.

Il danno.

[E38,1] Appunto come nel camminare fai attenzione a non pestare un chiodo o non storcerti un piede, così fa’ attenzione a non danneggiare il tuo egemonico. E se staremo in guardia su questo in ciascuna opera, ci accosteremo all’opera più sicuramente.

E39.

La misura e oltre.

[E39,1] Misura del patrimonio è per ciascuno il corpo, come il piede lo è di un calzare. Se dunque a questo starai, custodirai la misura. Se invece la oltrepasserai, orbene è necessario essere portato come lungo un precipizio. Appunto come pure il calzare, se oltrepasserai il piede, diventa indorato e poi purpureo e poi trapunto. Di ciò che è una volta oltre misura non vi è infatti limite alcuno.

E40.

Signore il cui unico bene è la fica.

[E40,1] Subito dall’età di quattordici anni le femmine sono chiamate dai maschi “Signore”. Vedendo perciò che null’altro è loro congiunto se non il coricarsi coi maschi, esse iniziano ad imbellettarsi e ad avere in questo tutte le loro speranze. Merita dunque fare attenzione affinché esse si accorgano di essere onorate per null’altro che per l’apparire composte e rispettose.

E41.

Cacare e montare.

[E41,1] E’ segno di bastardaggine indugiare troppo in cose che riguardano il corpo, come allenarsi a lungo, a lungo mangiare, a lungo bere, a lungo cacare, montare. Queste cose vanno fatte come accessorie. Tutta la pensosità sia invece per l’intelligenza.

E42.

Chi è il danneggiato.

[E42,1] Qualora qualcuno ti tratti male o parli male di te, ricorda che lo fa o dice credendolo doveroso. Non è dunque possibile che egli segua quel che pare a te ma quel che pare a lui sicché, se il suo parere è cattivo, è danneggiato chi si è ingannato. Giacché se uno concepirà falso un vero periodo copulativamente coordinato, non è danneggiato il periodo copulativamente coordinato ma chi si ingannò. Prendendo dunque spunto da questo, sarai mite con chi ingiuria. Giacché ad ogni ingiuria esclama: “Lo reputò!”

E43.

I due manici della faccenda.

[E43,1] Ogni faccenda ha due manici: uno sopportabile ed un altro insopportabile. Se tuo fratello commetterà una ingiustizia, non prendere la faccenda di qui, che commette una ingiustizia (giacché questo è il suo manico insopportabile), ma piuttosto di là, che è tuo fratello, che ha fatto vita comune con te; e prenderai la faccenda dal manico sopportabile.

E44.

L’incombinabile.

[E44,1] Questi sono discorsi incombinabili: “Io sono più ricco di denaro di te, io sono dunque migliore di te”; “Io sono più facondo di te, io sono dunque migliore di te”. Discorsi combinabili sono piuttosto i seguenti: “Io sono più ricco di denaro di te, il mio patrimonio è dunque migliore del tuo”; “Io sono più facondo di te, la mia loquela è dunque migliore della tua”. Ma tu non sei davvero né patrimonio né loquela.

E45.

Realtà ed apparenza.

[E45,1] Uno fa il bagno caldo frettolosamente: non dire che lo fa male ma frettolosamente. Uno beve molto vino: non dire che beve male ma molto. Giacché prima di vagliare il giudizio, donde sai se fa male? Così non ti avverrà di pigliare rappresentazioni catalettiche di certe cose e di assentire ad altre.

E46.

Essere filosofi.

[E46,1] Non dirti in nessun luogo filosofo e, in genere, non cianciare tra le persone comuni di principi filosofici generali, ma fa’ quanto da quei principi discende. In un convito, per esempio, non dire come si deve mangiare ma mangia come si deve. Ricorda infatti che Socrate aveva così eliminato da ogni dove l’ostentazione che venivano da lui volendo essere da lui raccomandati ai filosofi; e lui ve li menava. Così tollerava di essere sottovalutato! [E46,2] E se in un ragionamento su qualche principio filosofico generale ci si imbatterà in persone comuni, in genere taci; giacché grande è il pericolo di vomitare subito ciò che non ancora digeristi. E qualora uno ti dica che nulla sai e tu non ne sia morso, allora sappi che inizi l’opera. Dacché anche le pecore non sfoggiano ai pastori quanto mangiarono portando loro il foraggio ma, digerita dentro la pastura, portano fuori lana e latte. Anche tu, quindi, non sfoggiare i principi filosofici generali alle persone comuni ma, digeritili, le opere.

E47.

L’ostentazione.

[E47,1] Qualora ti sia acconciato, quanto al corpo, a vivere con quattro soldi, non abbellirti di questo e, se berrai acqua, non cercare ogni movente per dire che bevi acqua. Se mai disporrai di esercitarti alla fatica, fallo per te e non per quelli di fuori. Non abbracciare statue, ma avendo energicamente sete tirati addosso dell’acqua fresca poi sputa, e non dirlo a nessuno.

E48.

Esseri umani ed uomini.

[E48,1] Stazione e stile da persona comune: mai suppone da se stesso giovamento o danno, ma dal di fuori. Stazione e stile da filosofo: suppone ogni giovamento e danno da se stesso. [E48,2] I segni di chi fa profitto: non denigra nessuno, non loda nessuno, non biasima nessuno, non incolpa nessuno, non dice nulla di sé come fosse qualcuno o sapesse qualcosa. Qualora sia intralciato in qualcosa od impedito, incolpa se stesso. Se uno lo loderà, deride tra sé e sé chi loda; e se sarà denigrato, non parla in sua difesa. Va in giro appunto come gli infermi, cauto a muovere, prima che prendano solidità, qualcuna delle parti in ricostituzione. [E48,3] Ha rimosso da sé ogni desiderio ed ha allogato l’avversione solo su ciò che, tra quanto è in nostro esclusivo potere, è contro la natura delle cose. Verso tutto usa l’impulso pacatamente. Se sembrerà sciocco od incolto, non se ne preoccupa. In una parola, sta in guardia verso se stesso come verso un insidioso nemico personale.

E49.

Solennità di essere filosofi oppure commentatori di filosofi.

[E49,1] Qualora uno faccia il solenne perché può capire e commentare i libri di Crisippo, fra te e te di’: “Se Crisippo non avesse scritto con poca chiarezza, costui non avrebbe nulla per cui fare il solenne”. Io cosa decido? Di decifrare la natura delle cose ed accompagnarmi a lei. Cerco dunque chi è il commentatore e, sentito dire che è Crisippo, vengo da lui. Ma non ne capisco gli scritti. Cerco dunque il commentatore di Crisippo. E fin qui non v’è ancora nulla di solenne. Qualora trovi il commentatore, avanza di usare le prescrizioni: questo solo è solenne. Se invece ammirerò il fatto in sé di commentare, che altro risulto se non un grammatico invece che un filosofo? Eccetto che invece di Omero so commentare, appunto, Crisippo. Qualora uno mi dica: “Rileggimi Crisippo”, io dunque piuttosto arrossirò, qualora non possa sfoggiare opere simili ed in armonia con i suoi discorsi.

E50.

E’ in palio la felicità.

[E50,1] A quanto è proposto mantieniti come a leggi, come fossi empio se lo violerai. E qualunque cosa uno dirà di te, non impensierirti; giacché questo non è più tuo.

E51.

Olimpia è adesso.

[E51,1] Ed a quale tempo ancora rimandi il meritarti l’ottimo ed il non violare in nulla la ragione che opera la diairesi? Hai assunto i principi filosofici generali con i quali dovevi metterti alle prese e ti sei messo alle prese. Quale insegnante dunque supponi ancora che possa giungere, per posporre a lui di fare la tua rettificazione? Non sei più un adolescente ma ormai un perfetto adulto. Se ora sarai trascurato e pigro e farai propositi dopo propositi e definirai uno dopo l’altro il giorno in cui farai attenzione a te stesso, ti sfuggirà che non fai profitto ma continuerai a vivere e morire da persona comune. [E51,2] Dunque sollecitati ormai a vivere da uomo perfetto e che fa profitto; e tutto quanto ti appare ottimo sia per te legge inviolabile. Se si appresserà qualcosa di doloroso o piacevole, che porta credito o discredito, ricorda che la gara è adesso, che le Olimpiadi sono ormai presenti, che non è più possibile rimandare e che in un solo giorno ed una sola faccenda il profitto va in malora o si salvaguarda. [E51,3] Socrate risultò così perché, di tutto quanto gli si appressava, non faceva attenzione ad altro che alla ragione. Tu, se pure non sei ancora Socrate, sei tenuto a vivere come chi decide di essere proprio Socrate.

E52.

Tre campi della filosofia.

[E52,1] Nella filosofia, il primo e più necessario àmbito è quello dell’uso dei principi generali: per esempio, non mentire. Il secondo è quello delle dimostrazioni: per esempio, donde è che non si deve mentire? Il terzo è quello che fa ben saldi ed articola questi stessi ambiti: per esempio, donde è che questo è una dimostrazione? Giacché cos’è dimostrazione, cos’è consequenzialità, cos’è contraddizione, cos’è vero, cos’è falso? [E52,2] Pertanto il terzo àmbito è necessario a causa del secondo ed il secondo a causa del primo. Il più necessario e dove ci si deve soffermare è il primo. Noi invece facciamo viceversa; giacché ci trastulliamo nel terzo àmbito ed a questo dedichiamo ogni nostra industria, mentre trascuriamo definitivamente il primo. Perciò appunto noi mentiamo, ma come si dimostra che non si deve mentire, questo l’abbiamo a portata di mano.

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L’ALBERO DELLA DIAIRESI Libro I

Tutto

EPITTETO

nuovamente tradotto

da

FRANCO SCALENGHE

I quattro libri delle Diatribe di Epitteto sono né Dialoghi costruiti da Platone a tavolino né Orazioni scritte per sfoggio da Isocrate, ma la fedele registrazione -ad opera di Arriano- di un parlato dal vivo. Io ho cercato di conservare anche in italiano questa loro peculiarità e mi sono mantenuto molto aderente al testo greco. Chi legge lo tenga presente, e legga semplicemente con il “tempo giusto”.

ARRIANO a LUCIO GELLIO salve

Io non ho ‘compilato’ i Discorsi di Epitteto così come si compilerebbero degli scritti di questo genere, e tanto meno sono stato io a renderli di pubblico dominio, visto che affermo di non averli neppure compilati. Trascrivendo una per una, per quanto mi era possibile, le parole che sentivo dalla sua viva voce, io ho semplicemente provato a preservare sotto forma di appunti, a mia futura memoria, la testimonianza del suo modo di ragionare e della sua franchezza nell’esprimersi. Com’è verosimile che sia, si tratta delle parole che un uomo potrebbe dire ad un altro uomo in un dato momento, non quelle che si metterebbero per iscritto nel caso altri ci si imbattessero successivamente. Questo essendo il carattere dei miei appunti, essi sono però, io non so come, diventati di pubblico dominio senza che io lo volessi e senza che io ne fossi a conoscenza. Quanto a me, l’apparire non all’altezza di fare il ‘compilatore’ è cosa che mi concerne ben poco; e se qualcuno giudicherà di assai scarso valore i discorsi di Epitteto è cosa che riguarda Epitteto neanche un poco, giacché anche quando li faceva, egli manifestamente null’altro aveva di mira se non lo smuovere ed indirizzare le convinzioni degli ascoltatori alle imprese più nobili. Se i presenti discorsi ottenessero questo effetto, essi avrebbero il risultato che io credo sia d’uopo abbiano i discorsi dei filosofi. Se invece così non è, sappiano tuttavia coloro che qui s’imbattono in essi, che quando Epitteto li pronunciava era inevitabile che chi gli prestava orecchio sperimentasse esattamente l’effetto che egli voleva che quello sperimentasse. Se poi i presenti discorsi di per se stessi non ottengono questo effetto, forse sono io la causa di ciò, o forse è necessario che sia così. Stammi bene.

LIBRO  I

νθρωπε, προαίρεσιν χεις κώλυτον φύσει κα νανάγκαστον. τοτο νταθα ν τος σπλάγχνοις γέγραπται.

“Uomo, tu hai una proairesi per natura non soggetta a impedimenti e non soggetta a costrizioni. Qui, nelle viscere, questo è stato scritto”.  (I,17,21)

CAPITOLO 1 

Valentino Mazzola e figlio

SU  QUANTO  E’  IN  NOSTRO  ESCLUSIVO  POTERE  E  SU  QUANTO  NON  LO  E’ 

Una facoltà che sa valutare tutte le altre arti e facoltà ed anche se stessa (1-3)

[I,1,1] Delle altre arti e facoltà, nessuna troverete conoscitiva dei principi generali di se stessa e quindi neppure atta a valutarsi positivamente o negativamente. [I,1,2] La grammatica fino a che punto possiede conoscitività di principi generali? Fino a vagliare le lettere. La musica? Fino a vagliare la melodia. [I,1,3] Conosce dunque una di esse i principi generali di se stessa? Nient’affatto. Ma quando, se scriverai qualcosa per il compagno, c’è bisogno dei segni che vanno scritti, questi li dirà la grammatica; se però si deve scrivere o no per il compagno, la grammatica non lo dirà. Anche sulle melodie, allo stesso modo la musica: essa non dirà se ora si deve cantare e suonare la cetra oppure né cantare né suonare la cetra.

L’unica facoltà autoteoretica: la facoltà logica (4)

[I,1,4] Chi dunque lo dirà? La facoltà che conosce i propri principi generali e tutto il resto. E qual è questa? La facoltà logica: giacché questa sola è stata assunta per capire se stessa -chi è, cosa può, di quanto è venuta ad essere degna- e tutte le altre.

Sa usare le rappresentazioni (5-6)

[I,1,5] Cos’altro dice che l’oro è magnifico? Giacché esso non lo dice, è manifesto: lo dice la facoltà atta ad usare le rappresentazioni. [I,1,6] Cos’altro distingue musica, grammatica, le altre arti e facoltà; valuta i loro usi ed addita i momenti adatti? Nient’altro.

E’ il nostro solo e vero possesso, come dicono gli dei figli della diairesi degli uomini (7-9)

[I,1,7] Com’era dunque degno, gli dei fecero in nostro esclusivo potere soltanto quanto di tutto è più possente e dominante: il retto uso delle rappresentazioni. Il resto, invece, è non in nostro esclusivo potere. [I,1,8] Proprio che gli dei non volevano? Io reputo che, se potessero, ci avrebbero delegato anche quello; ma non potevano affatto. [I,1,9] Giacché essendo essi sulla terra ed allacciati ad un corpo siffatto e soci siffatti, come sarebbe possibile a questo riguardo non essere intralciati dagli oggetti esterni? 

Tutto il resto non dipende da noi, come dice Zeus, ossia la Materia Immortale (10-13)

[I,1,10] Ma che dice Zeus? “Epitteto, se fosse possibile anche il corpicino tuo, le tue coserelle avrei fatto libere e non soggette ad impacci. [I,1,11] Ora invece, non ti sfugga, questo è non tuo ma argilla elegantemente impastata. [I,1,12] Dacché ciò non potevo, ti diedi una certa vostra particolarità: questa facoltà di impellere e di repellere, di desiderare e di avversare ed insomma atta ad usare le rappresentazioni, della quale essendo sollecito e nella quale ponendo quanto è tuo, non sarai mai impedito, non sarai mai intralciato, non sospirerai, non biasimerai, non adulerai alcuno. [I,1,13] E dunque? Ti paiono forse piccole queste cose?” -”Non sia mai!”- “Ti accontenti dunque di loro?” -”Lo auspico dagli dei!”-

Noi invece crediamo il contrario e ci facciamo guidare dalla controdiairesi. Controdiairesi: il supergiudizio, contrario alla diairesi, che afferma in mio esclusivo potere quanto è non in mio esclusivo potere oppure non essere in mio esclusivo potere quanto invece è in mio esclusivo potere (14-17)

[I,1,14] Ora, mentre possiamo esser solleciti di una sola cosa e ad una sola esserci aggangherati, noi vogliamo piuttosto essere solleciti di molte ed a molte esserci vincolati: al corpo, al patrimonio, ad un fratello, un amico, un figliolo, un servo. [I,1,15] Dunque in quanto vincolati a molte, siamo da esse appesantiti e tirati in basso. [I,1,16] Per questo, se sarà impossibile navigare sediamo in ambasce e sbirciamo costantemente: “Che vento soffia?” -Borea- “Che c’è fra noi e lui? Quando soffierà lo Zefiro?” -Qualora lo reputi lui, o ottimo, od Eolo. Giacché cassiere dei venti Zeus non fece te, ma Eolo- [I,1,17] “E dunque?” -Bisogna strutturare ottimamente quanto è in nostro esclusivo potere ed usare il resto secondo che è per natura- “Com’è dunque per natura?” -Come Zeus disporrà- 

Plauzio Laterano e la diairesi (18-20)

[I,1,18] “Dunque ora a me solo troncare il collo?” E dunque? Vorresti che a tutti fosse troncato il collo per averne tu consolazione? [I,1,19] Non disponi di sporgere il collo come un certo Laterano che, a Roma, Nerone intimò fosse decapitato? Giacché sporse il collo, fu colpito e dopo essere un po’ indietreggiato, poiché la botta era stata debole, lo sporse di nuovo. [I,1,20] Ma ancor prima ad Epafrodito, il liberto di Nerone che viene da lui e lo interroga sul perché dell’essersi messo in urto con l’imperatore: “Se qualcosa disporrò”, dice, “parlerò al tuo Signore”. 

Diairesi: il supergiudizio che sa distinguere quanto è in mio esclusivo potere e quanto non lo è (21-22)

[I,1,21] “Cosa bisogna dunque avere a portata di mano in casi siffatti? Che altro se non la conoscenza di cos’è mio e cosa non è mio; cos’è in mia potestà e cosa non lo è? [I,1,22] Bisogna che io muoia: forse che pure gema? Che sia messo in catene: forse che pure mi lamenti? Che sia esiliato: forse qualcuno impedisce che rida, sia di buonumore, sia sereno? 

Proairesi: la facoltà logica degli esseri umani in quanto può scegliere di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente (23-25)

[I,1,23] “Dì i segreti”. Non li dico: giacché questo è in mio esclusivo potere. “Ma ti incatenerò”. O uomo, che dici? Me? Incatenerai la mia gamba, ma la proairesi neppure Zeus può vincerla. [I,1,24] “Ti butterò in prigione”. Butterai in prigione il mio corpicino. “Ti decapiterò”. E quando mai ti dissi che solo il mio collo è non mozzabile? [I,1,25] Questo dovrebbero studiare coloro che fanno filosofia, questo scrivere ogni giorno, in questo allenarsi.

Musonio Rufo ricorda a Trasea Peto che l’antidiairesi è un insieme di giudizi subordinati. Antidiairesi: l’insieme di giudizi subordinati operanti nel mondo reale su quanto è non in nostro esclusivo potere e che, in quanto complementare alla diairesi o alla controdiairesi, è competente a realizzare il progetto dell’una o dell’altra (26-27)

[I,1,26] Trasea era solito dire: “Voglio essere levato di mezzo oggi piuttosto che esiliato domani”. [I,1,27] Che cosa, dunque, gli disse Rufo? “Se tu selezioni questo per te come scelta più pesante, quale stupidaggine di selezione è mai questa? Se come la più leggera, chi te ne ha dato la possibilità? Non disponi di studiare ad accontentarti di quanto ti è stato dato?”

Paconio Agrippino sa usare da fuoriclasse diairesi e antidiairesi (28-32)

[I,1,28] Per questo, che diceva Agrippino? “Io non divento un intralcio a me stesso”. Gli fu annunciato: “Sei giudicato in Senato”. [I,1,29] -”Buona ventura! Ma è venuta l’ora quinta (a quest’ora era solito prendere un bagno freddo dopo essersi allenato): partiamo ad allenarci”- [I,1,30] Finito l’allenamento, uno viene da lui e gli dice: “Sei stato condannato”. -”All’esilio”, dice, “o a morte?”- “All’esilio”. -”E gli averi?”- “Non ti furono sottratti”. -”Dunque partiamo e faremo colazione ad Ariccia”- [I,1,31] Questo è avere studiato ciò che bisogna studiare, avere apprestato un desiderio non soggetto a impedimenti ed una avversione che non incappa in quanto avversa. [I,1,32] Bisogna che io muoia. Se già, muoio. Se fra poco, adesso faccio colazione, poiché è venuta l’ora, e poi allora sarò morto. Come? Come conviene a chi restituisce l’allotrio.

CAPITOLO 2

Tienanmen

COME  SI  SALVAGUARDEREBBE  IN  OGNI  CIRCOSTANZA  LA  PERSONALITA’ ?

Le contraddizioni sono insopportabili, le opposizioni reali sono sopportabilissime (1-4)

[I,2,1] Per la creatura logica, insopportabile è soltanto l’irragionevole; il ragionevole invece, è sopportabile. [I,2,2] Le botte non sono insopportabili per natura. -In che modo?- Vedi come gli Spartani si frustano quando imparano che è ragionevole. [I,2,3] -Ma essere impiccati non è insopportabile?- Eppure qualora uno sperimenti che è ragionevole, parte e si impicca.[I,2,4] Insomma, se faremo attenzione troveremo che la creatura umana da nulla è così oppressa come dall’irragionevole ed a nulla, di nuovo, così trascinata come al ragionevole.

Scelte diverse a seconda del valore che si conferisce a chi si è (5-11)

[I,2,5] Un diverso ragionevole ed irragionevole, appunto come pure un diverso bene e male, ed utile e inutile incolgono persone diverse. [I,2,6] Per questo soprattutto abbiamo bisogno di educazione a diairesizzare, così da imparare a adattare il pre-concetto di ragionevole ed irragionevole alle particolari sostanze in armonia con la natura delle cose. [I,2,7] E per la determinazione di ragionevole ed irragionevole, noi non adoperiamo soltanto i valori degli oggetti esterni, ma ciascuno anche quelli della propria personalità. [I,2,8] Giacché presiedere un pitale è ragionevole per chiunque scorga soltanto che se non lo presiede prenderà botte e non prenderà cibo, mentre se lo presiede non sperimenterà alcunché di rude o fastidioso. [I,2,9] A qualcun altro, invece, non solo sembra insopportabile presiederlo, ma anche tollerare un altro che lo presiede. [I,2,10] Se dunque cercherai di sapere da me: “Che presieda il pitale, o no?”; ti dirò che prendere cibo ha maggior valore del non prenderlo ed essere conciato maggior disvalore del non essere conciato. Sicché se commisuri a questo ciò che è tuo, parti e presiedi. [I,2,11] “Ma non sarebbe da me”. Questo bisogna che lo contribuisca all’analisi tu, non io. Giacché sei tu chi sa di te: quanto ti meriti ed a quanto ti smerci. Giacché individui diversi si smerciano a prezzi diversi.

Paconio Agrippino e Annio Floro: diairesi e controdiairesi (12-16)

[I,2,12] Per questo Agrippino, a Floro che analizzava se dover scendere in spettacoli di Nerone così da officiarvi anch’egli qualcosa, diceva: “Scendi”. [I,2,13] E cercando quello di sapere: “Perché tu non scendi?”, diceva che “Io neppure mi consiglio”. [I,2,14] Giacché chi una volta accondiscende all’analisi di siffatte alternative e vota i valori degli oggetti esterni, è prossimo a coloro che si sono dimenticati della propria personalità. [I,2,15] Cosa cerchi di sapere da me? “E’ preferibile la morte o la vita?” Dico la vita. [I,2,16] “Il dolore od il piacere fisico?” Dico il piacere. “Ma se non canticchierò, mi troncheranno il collo”. Parti quindi e canticchia; io invece non canticchierò.

Il filo della tunica e la striscia di porpora (17-18)

[I,2,17] “Perché?” Perché tu ritieni di essere un filo qualunque dei molti che formano la tunica. “E dunque?” Tu dovevi preoccuparti di come essere simile agli altri individui, come neppure il filo vuole avere qualcosa di singolare rispetto agli altri fili. [I,2,18] Io invece decido di essere porpora, quel pochino di splendido e causativo dell’apparire anche il resto confacente e magnifico. Perché dunque mi dici: “Assomiglia ai più”? E come sarò ancora porpora? 

Elvidio Prisco e Vespasiano: diairesi e controdiairesi (19-24)

[I,2,19] Questo vide anche Elvidio Prisco, e vide di farlo. Avendolo Vespasiano fatto avvertire di non entrare in Senato, rispose: “E’ in tuo esclusivo potere non permettermi di essere senatore; ma finché lo sarò, bisogna che io entri”. [I,2,20] “Orsù, ma se entri” dice “taci”. “Non interpellarmi e tacerò”. “Ma bisogna che io interpelli”. “E che io dica quanto mi pare giusto”. [I,2,21] “Ma se lo dirai, ti farò uccidere”. “Quando, dunque, ti dissi che sono immortale? Tu farai la tua parte ed io la mia. Tuo è far uccidere; mio, morire senza tremare. Tuo esiliare; mio uscire senza affliggermi”. [I,2,22] Che dunque giovò Prisco, essendo uno solo? E che giova la porpora alla toga? Che altro se non che vi spicca come porpora e si espone agli altri come paradigma di ciò che è magnifico? [I,2,23] Un altro, se Cesare gli avesse detto in siffatta circostanza di non venire in Senato, avrebbe detto: “Grazie perché mi risparmi”. [I,2,24] Ad una persona siffatta, Cesare neppure avrebbe impedito di entrare, ma sapeva che o starà immobile come un vaso di coccio o parlando dirà quanto sa che Cesare vuole e che vi ammucchierà sopra ancora di più. 

Un atleta coraggioso che sa agire secondo la dignità di colui che è (25-29)

[I,2,25] In questo modo anche un certo atleta che correva pericolo di morire se non si fosse amputato il pene, quando venne da lui il fratello (era un noto filosofo) e gli disse: “Orsù, fratello, che sei per fare? Amputiamo questo membro ed avanziamo ancora verso il ginnasio?”, non resse l’evento e, fattosi forza, morì. [I,2,26] Cercando uno di sapere: come fece questo? Come atleta o come filosofo? Come uomo, diceva Epitteto: uno che uomo è stato proclamato alle Olimpiadi e vi ha gareggiato, che da uomo si è condotto in siffatto rango, non uno unto presso Batone. [I,2,27] Un altro si sarebbe fatto mozzare anche il collo, se si potesse vivere prescindendo dal collo. [I,2,28] Siffatta è la personalità, così potente per gli abituati a contribuirla da se stessi nelle analisi. [I,2,29] “Orsù dunque, Epitteto, sbarbati”. Se sarò filosofo dico: “Non mi sbarbo”. “Ma ti stacco il collo”. Se per te è meglio, staccalo.

Personalità e consapevolezza della personalità si corrispondono direttamente (30-32)

[I,2,30] Uno cercò di sapere: -Donde ci accorgeremo, dunque, ciascuno della propria personalità?- E donde il toro solo, diceva Epitteto, quando un leone attacca si accorge della propria preparazione e si è messo davanti a difesa di tutta la mandria? Non è manifesto che insieme all’avere preparazione va subito incontro la consapevolezza di ciò? [I,2,31] E quindi chiunque di noi avrà siffatta preparazione, non la ignorerà. [I,2,32] Improvvisamente però uno non nasce toro né uomo generoso, ma deve esercitarsi d’inverno, prepararsi e non sussultare a casaccio per quanto non conviene. 

Il valore della proairesi (33)

[I,2,33] Soltanto, analizza a quanto vendi la tua proairesi. Se non altro, o uomo, non venderla a poco. Il grande e singolare conviene probabilmente ad altri, a Socrate ed agli uomini siffatti-

Con doti naturali e capacità diverse ma, quanto a virtù, uomini (34-37)

[I,2,34] -Perché dunque, se siamo nati per questo, non tutti, o molti, diventano siffatti?- Giacché i cavalli diventano tutti veloci, i cani tutti da braccheggio? [I,2,35] E dunque? Siccome sono bastardo, che mi distorni per questo dalla solerzia? Non sia mai! [I,2,36] Epitteto non sarà migliore di Socrate; se no, non peggiore: questo mi è sufficiente. [I,2,37] Giacché neppure sarò Milone, ed ugualmente non trascuro il corpo. Non sarò Creso, ed ugualmente non trascuro il patrimonio. né insomma ci distorniamo dalla solerzia per qualcos’altro poiché disperiamo di raggiungervene le vette.

CAPITOLO 3

Zeus

DALL ‘ ESSERE  LA MATERIA  IMMORTALE  PADRE  DEGLI  UOMINI, COME  SI  VERREBBE  AL  SEGUITO?

La Materia Immortale è padre degli uomini e gli uomini sono padri degli dei. Zeus, ossia la divinità, non è altri che la Materia Immortale (1-2)

[I,3,1] Se uno potesse essere consentaneo come merita al giudizio che siamo nati dalla Materia Immortale cardinalmente tutti e che Zeus è padre degli uomini e degli dei, io credo non avrà rimuginato su di sé nulla di ignobile o di miserabile. [I,3,2] Se Cesare ti adotterà, nessuno sorreggerà il tuo cipiglio; e se riconoscerai di essere figlio di Zeus, non ne sarai esaltato?

E’ vero che gli uomini sono fatti di animo e di corpo: animo mortale e corpo di Materia Immortale. Come si dispongono i pochi che inclinano a giudicare la nostra congenericità a Zeus come divina e beata? (3-4)

[I,3,3] Ora noi non lo facciamo, ma siccome nella nostra generazione sono state amalgamate queste due cose: il corpo comune agli animali, il discorso e l’intelligenza comune agli dei; alcuni inclinano a questa congenericità come sfortunata e cadaverica, pochi come divina e beata. [I,3,4] Quindi siccome è necessario che chiunque usi ciascuna cosa così come la concepirà, quei pochi che credono di essere nati per la lealtà, il rispetto di sé e degli altri, la sicurezza dell’uso delle rappresentazioni non rimuginano nulla di miserabile o  di ignobile su di sé, mentre i più fanno l’opposto.

Ed i molti che inclinano a giudicare la nostra congenericità alla Materia Immortale come sfortunata e cadaverica? Zoologia degli esseri umani (5-9)

[I,3,5] “Giacché, cosa sono? Un disgraziato ometto!” e “Le misere mie carni!” [I,3,6] Misere, effettivamente; ma hai anche qualcosa di meglio delle carni. Perché dunque, lasciato quello, ti sei agglutinato a queste? [I,3,7] Noi che incliniamo a questa congenericità diventiamo simili a lupi: sleali, insidiosi e dannosi. Altri diventano simili a leoni: selvatici, belluini e selvaggi. Ma i più di noi diventano volpi e come sfortune viventi. [I,3,8] Giacché cos’altro è un essere umano ingiurioso e maligno se non una volpe, o qualcos’altro più sfortunato e miserabile? [I,3,9] Vedete dunque e fate attenzione a non riuscire una di queste sfortune.

CAPITOLO 4

Quale profitto?

SUL PROFITTO

Comincia a fare profitto chi si solleva dal desiderio ed usa l’avversione soltanto nell’ambito di quanto è proairetico (1-2)

[I,4,1] Dopo aver imparato dai filosofi che il desiderio è desiderio di beni e l’avversione è avversione ai mali; dopo avere pure imparato che serenità e dominio sulle passioni promanano all’uomo non altrimenti che da un desiderio che non fallisce ed una avversione che non incappa in quanto avversa; chi fa profitto ha rimosso appieno da sé il desiderio o lo ha posposto, ed usa l’avversione solo per ciò che è proairetico. [I,4,2] Giacché se avverserà qualcosa di aproairetico, sa che una volta vi incapperà a dispetto della sua avversione ed avrà cattiva fortuna.

La virtù promette felicità, dominio sulle passioni, serenità (3-4)

[I,4,3] Se la virtù ha questa professione di fare felicità, dominio sulle passioni e serenità; anche il profitto verso di essa è affatto profitto verso ciascuna di queste. [I,4,4] Giacché sempre ciò cui la perfezione di qualcosa condurrà una volta per tutte, ebbene il profitto è una approssimazione ad esso.

Se sai dov’è la virtù, perché la cerchi altrove? (5)

[I,4,5] Come dunque ammettiamo che la virtù è qualcosa di siffatto ma cerchiamo e sfoggiamo il profitto in altro?

La virtù consiste forse nel riempirsi la mente di pensieri filosofici? (6-9)

[I,4,6] Cos’è opera di virtù? Serenità. Chi dunque fa profitto? Chi ha letto molti trattati di Crisippo? [I,4,7] La virtù non è questo avere capito Crisippo? Giacché se è questo, il profitto non è ammissibilmente altro che capire molto di Crisippo. [I,4,8] Ora noi ammettiamo che la virtù apporta una cosa, ma esibiamo che l’approssimazione ad essa, ossia il profitto, apporta altro. [I,4,9] “Costui” dice “può già leggere Crisippo anche da sé!” Bene, sì per gli Dei, fai profitto, o uomo! E che profitto!

Il profitto va cercato là dove sono le nostre proprie azioni: desiderio ed avversione, impulso e repulsione, assenso e sospensione dell’assenso (10-12)

[I,4,10] “Perché ti burli di lui? Perché lo meni via dalla consapevolezza dei suoi mali? Non vuoi mostrargli l’opera della virtù, affinché impari dove cercare il profitto?” [I,4,11] Cercalo là, disgraziato, dov’è l’opera tua. Dov’è l’opera tua? Nel desiderio e nell’avversione, per non fallire il segno nell’uno e non incappare nell’oggetto dell’altra; negli impulsi e nelle repulsioni, per essere al riparo da aberrazioni; nella proposizione e sospensione dell’assenso, per essere al riparo dall’inganno. [I,4,12] E primi sono i primi ambiti, i più necessari. Se cercherai di non incappare in quanto avversi tremando e piangendo, come fai profitto?

Non cercare il profitto in un luogo e le azioni da compiere in un altro (13-17)

[I,4,13] Tu dunque mostrami qui il tuo profitto. Appunto come se dialogassi con un atleta: “Mostrami le spalle”, e poi quello dicesse: “Vedi i miei manubri!”. Ma vattene tu ed i manubri: io decido di vedere il risultato dei manubri. [I,4,14] “Prendi il trattato “Sull’impulso”e riconosci come l’ho letto!” “Schiavo! Non cerco questo, ma come impelli e repelli; come desideri ed avversi, come progetti, proponi e ti prepari: se in armonia con la natura delle cose od in disarmonia. [I,4,15] Se in armonia, mostramelo e ti dirò che fai profitto. Se in disarmonia, parti e non commentare soltanto i libri, ma scrivine anche tu di siffatti. [I,4,16] E che pro per te? Non sai che il libro intero vale cinque denari? E reputi che il suo commentatore meriti più di cinque denari? [I,4,17] Dunque, non cercate mai altrove l’opera ed altrove il profitto.

Il profitto nella virtù è profitto nella comprensione e nell’uso della diairesi (18-27)

[I,4,18] Dov’è dunque il profitto? Se uno di voi, distornatosi dagli oggetti esterni si è impensierito della propria proairesi per elaborarla e prodigarvisi così che risulti in armonia con la natura delle cose: elevata, libera, non soggetta a impedimenti, non soggetta ad intralci, leale, rispettosa di sé e degli altri; [I,4,19] ed ha imparato che non può essere leale né libero chi brama o fugge cose che non sono in suo esclusivo potere, ma che è necessario che sia volubile e sventoli anch’egli insieme con quelle, e che è pure necessario che abbia subordinato se stesso ad altri, cioè a coloro che le possono procacciare od impedire e [I,4,20] orbene, dal mattino, appena alzatosi questo conserva e custodisce, fa il bagno da uomo leale, mangia da uomo rispettoso di sé e degli altri, allo stesso modo prodigando i principi cardinali sul materiale che sempre gli cade accanto, come chi corre fa con i principi cardinali della corsa e chi gorgheggia con quelli del gorgheggio; [I,4,21] ebbene costui è chi fa davvero profitto, chi non si è messo in viaggio a casaccio è costui. [I,4,22] Se invece è teso ad acquisire una costumanza libresca, si prodiga per questa e per questo è espatriato, gli dico di procedere immantinente verso casa e non trascurare le cose di là; [I,4,23] giacché ciò per cui si è messo in viaggio è nulla. Vale invece studiare a strappare dalla propria vita lutti e mugugni, gli “ohimé!”e gli “sciagurato me!”, cattiva fortuna e sfortuna; [I,4,24] ed imparare cos’è morte, cos’è esilio, cos’è carcere, cos’è cicuta, per poter dire nella prigione: “Caro Critone, se così è caro agli dei così sia!”; e non quegli “Sciagurato me! Vecchio arnese! Per questo serbai la mia canizie!” [I,4,25] Chi dice questo? Reputate che vi dirò di qualcuno screditato e miserabile? Priamo non lo dice? Edipo non dice così? Ma quanti re dicono così! [I,4,26] Che altro sono le tragedie se non passioni di individui infatuatisi degli oggetti esterni, sfoggiate in tale metro? [I,4,27] Giacché se uno dovesse essere ingannato per imparare che degli oggetti esterni ed aproairetici nessuno è per noi, io disporrei questo inganno, grazie al quale sarei poi per vivere con serenità e dominio dello sconcerto, e voi vedervi quel che volete. 

Crisippo, procurandoci la Verità per vivere bene, merita almeno gli stessi onori di Trittolemo (28-32)

[I,4,28] Che ci procura dunque Crisippo? “Affinché riconosca,” dice, “che non è falso ciò da cui nasce serenità ed a cui va incontro il dominio sulle passioni, [I,4,29] prendi i miei libri e riconoscerai come sia conseguente ed in armonia con la natura delle cose quanto mi fa capace di dominare le passioni”. Che grande buona fortuna! Che grande benefattore chi mostra la strada! [I,4,30] E poi a Trittolemo tutti gli esseri umani innalzano sacrari ed altari perché ci diede i cibi coltivati; [I,4,31] ma a chi la Verità trovò e illuminò e propalò a tutti gli uomini -non quella sul vivere ma quella per vivere bene-, chi di voi per costui eresse un altare od un tempio o dedicò un simulacro o per costui riverisce Zeus? [I,4,32] Perché diede vite o frumento, per questo offriamo sacrifici; ma perché portò fuori nell’umano intelletto un frutto siffatto grazie al quale era per mostrarci la Verità sulla felicità, per questo non ringrazieremo la Materia Immortale? 

CAPITOLO 5

I baroni

AGLI  ACCADEMICI

Sclerosi multipla…(1-2)

[I,5,1] Se uno, dice Epitteto, recalcitrerà davanti ad evidenze luminosissime, non è facile trovare un discorso con il quale lo si persuaderà a modificare avviso. [I,5,2] E ciò non nasce né dalla forza di quello né dalla debolezza dell’insegnante; ma qualora venga menato a pietrificarsi, come si userà ancora il discorso con costui?

…e necròsi dell’onestà intellettuale e del senso della decenza (3-5)

[I,5,3] Le pietrificazioni sono di due tipi: una è la pietrificazione del capire, l’altra quella del senso della decenza, qualora uno sia schierato per non annuire alle evidenze e non distornarsi dalle contraddizioni. [I,5,4] Noi, i più, abbiamo paura della necròsi del corpo ed escogiteremmo di tutto per non incappare in qualcosa di siffatto, ma nulla c’importa se si necrotizza l’animo. [I,5,5] E per Zeus, proprio quanto all’animo, se uno sarà così disposto da nulla comprendere e nulla mettere insieme, noi crediamo che costui stia male. Ma se di qualcuno sarà necrotizzato il senso della decenza ed il rispetto di sé e degli altri, questo lo chiamiamo persino forza.

L’Accademico è uno che è morto, ma non lo sa (6-10) [I,5,6] Afferri di essere sveglio? “No,” dice: “giacché neppure lo afferro qualora nel sonno immagini di essere sveglio”. Dunque questa rappresentazione non differisce per nulla da quella? [I,5,7] “Per nulla”. Dialogo ancora con costui? Quale fuoco, quale ferro appressargli perché si accorga di essersi cadaverizzato? Accorgendosene dissimula: è ancora peggio del cadavere. [I,5,8] Costui non nota una contraddizione: sta male. Costui, pur notandola, non ne è smosso né fa profitto: sta ancor più meschinamente. [I,5,9] Il suo rispetto di sé e degli altri ed il senso della decenza sono stati recisi, mentre la logicità non è stata mozzata ma si è abbrutita. [I,5,10] Che io dica questa forza? Non sia mai! A meno di non dire forza anche quella secondo cui i cinedi fanno e dicono tutto quanto salta loro in testa.

CAPITOLO 6

I cristalli

SULLA  MENTE  DELLA  MATERIA  IMMORTALE, OVVERO SULLA PRONOIA

Come non esiste causa del moto rettilineo uniforme di un corpo materiale, così non esiste causa della intelligenza della Materia. L’artista è dunque la Materia stessa, la quale dice: datemi miliardi di anni e dalle nude pietre vi farò nascere uomini (1-7)

[I,6,1] Da ciascuno degli avvenimenti nell’ordine del mondo è facile encomiare la mente della Materia Immortale se uno avrà in sé queste due cose: la facoltà di notare i fatti accaduti in ciascuno ed il senso della gratitudine. [I,6,2] Se no, uno non vedrà la profittevolezza dei fatti accaduti ed un altro non ringrazierà per essi neppure se la vedrà. [I,6,3] Che pro sarebbe se la Materia Immortale avesse fatto dei colori ma non avesse fatto una facoltà atta ad osservarli? -Proprio nessuno- [I,6,4] Ed all’opposto, se avesse fatto la facoltà ma le cose siffatte da non cadere sotto la facoltà visiva: anche così che pro? -Proprio nessuno- [I,6,5] E che, se avesse fatto entrambe queste ma non avesse fatto la luce? -Neppur così pro alcuno- [I,6,6] Chi dunque acconciò questo a quello e quello a questo? Chi acconciò il pugnale al fodero ed il fodero al pugnale? Nessuno? [I,6,7] Eppure proprio dalla struttura dei prodotti realizzati siamo soliti dichiarare che qualcosa è affatto opera di un artista e non strutturata a casaccio.

Come un corpo materiale, per inerzia, si muove; così la Materia, lasciata a se stessa, produce vita e pensiero. Ragione ed intelletto promanano dunque dalla Materia, come la legge dai cittadini (8-11)

[I,6,8] Dunque ciascuna di queste opere palesa l’artista ed invece gli oggetti visibili, la visione, la luce non lo palesano? [I,6,9] Il maschile ed il femminile, la foga dell’uno e dell’altra per l’accoppiamento, la facoltà atta ad usare i pezzi per questo strutturati, neppure questo palesa l’artista? Ma per queste cose basta così. [I,6,10] E la siffatta struttura dell’intelletto secondo la quale, quando cadiamo su oggetti sensibili, non ne siamo semplicemente modellati ma estraiamo qualcosa, sottraiamo, addizioniamo, ne facciamo varie composizioni e, per Zeus, ci spostiamo da alcune ad altre che giacciono come accanto: neppure questo è sufficiente a smuovere alcuni e ad indurre a non lasciare addietro l’artista? [I,6,11] Oppure ci spieghino cos’è che fa ciascuna di queste cose, o com’è possibile che opere d’arte così stupefacenti nascano a casaccio ed automaticamente. 

Anche le creature sprovviste di ragione usano le rappresentazioni, ma solo l’uomo ha la comprensione del loro uso (12-18)

[I,6,12] E dunque? In noi soli accade questo? In noi soli, molto: ed è ciò di cui aveva singolarmente bisogno la creatura logica. Ma molto troverai comune a noi ed alle creature sprovviste di ragione. [I,6,13] Dunque anch’esse comprendono gli avvenimenti? Nient’affatto! Giacché altro è uso ed altro comprensione. Zeus aveva bisogno di quelle come creature che usano le rappresentazioni; di noi invece, come creature che ne comprendono l’uso. [I,6,14] Per questo ad esse basta mangiare, bere, riposarsi, montare e quant’altro realizza ciascuna loro necessità; mentre a noi, cui diede anche la facoltà della comprensione, questo è non più bastevole. [I,6,15] E se non lo effettueremo a modo, con posizionamento, conseguentemente alla natura ed alla struttura di ciascuno, non centreremo più il nostro fine . [I,6,16] Giacché di coloro le cui strutture sono differenti, differenti sono pure le opere ed i fini. [I,6,17] Quindi dove la struttura è atta solo all’uso, qui è bastevole usare in un modo qualunque. Dove invece è atta anche alla comprensione dell’uso, se non vi sarà congiunto l’ “a modo” non si centrerà mai il fine. [I,6,18] E dunque? La Materia Immortale struttura ciascuna di quelle creature una per essere mangiata, una per essere servitrice in agricoltura, una per portarci formaggio e chi per uno o per altri bisogni similari. Opere per le quali che bisogno c’è di comprendere le rappresentazioni e poterle distinguere?

La natura dell’uomo (19-22)

[I,6,19] L’uomo invece essa lo introdusse quale spettatore di sé e delle sue opere; e non solo spettatore ma anche loro interprete. [I,6,20] Per questo è brutto per l’uomo iniziare ed esaurirsi laddove lo fanno anche le creature sprovviste di ragione. Ma piuttosto egli deve iniziare di qua ed esaurirsi su ciò su cui si esaurì su di noi anche la natura. [I,6,21] Ed essa si esaurì su conoscenza di principi generali, comprensione dell’uso delle rappresentazioni e il tragittarsela in armonia con la natura delle cose. [I,6,22] Vedete dunque di non morire senza essere stati spettatori di ciò. 

Il viaggio ad Olimpia ed il viaggio in noi stessi alla scoperta delle nostre risorse (23-29)

[I,6,23] Voi vi mettete in viaggio per Olimpia per vedere l’opera di Fidia e ciascuno di voi crede una sfortuna morirne all’oscuro. [I,6,24] E laddove neppure c’è bisogno di mettersi in viaggio, ma dove Zeus è già e presenzia con le opere, queste non smanierete di osservarle e capirle? [I,6,25] Quindi non vi accorgerete né di chi siete, né del per che cosa siete nati, né di cos’è quest’opera alla cui visione siete stati invitati? [I,6,26] -Ma accadono cose spiacevoli ed esasperanti nella vita- E ad Olimpia non accadono? Non siete accaldati? Non state allo stretto? Non fate il bagno malamente? Non vi inzuppate, qualora piova? Non fruite di trambusto e grida ed altre cose esasperanti? [I,6,27] Ma credo che sopportate e tollerate tutto questo, contrapponendogli la rinomanza della veduta. [I,6,28] Orsù, non avete ricevuto facoltà per le quali sopporterete tutto quanto avviene? Non avete ricevuto magnanimità? Non avete ricevuto virilità? [I,6,29] Non avete ricevuto fortezza? Che importa ancora a me, se sono magnanimo, di quanto può succedere? Cosa mi frastornerà o sconcerterà o cosa apparirà doglioso? Non userò la facoltà verso ciò per cui l’ho ricevuta, ma piangerò e sospirerò su quel che succede?

I mocci al naso di Eracle (30-36)

[I,6,30] “Sì; ma mi colano i mocci”. Per cos’hai dunque le mani, schiavo! Non anche per smocciarti? [I,6,31] -Dunque è ragionevole questo nascere mocci nell’ordine del mondo?- [I,6,32] E quanto meglio che tu ti smocciassi invece di incolpare? O cosa credi che Eracle sarebbe riuscito se non fossero nati un siffatto leone, un’idra, una cerva, un cinghiale e degli esseri umani ingiusti e belluini che egli scacciò e dei quali ripulì il mondo? [I,6,33] E che farebbe se nulla di siffatto fosse nato? Non è manifesto che dormirebbe avvolto nelle coperte? Pertanto innanzitutto, sonnecchiando la vita intera in siffatta effeminatezza e quiete non sarebbe diventato Eracle; e se proprio lo fosse diventato, che pro di lui? [I,6,34] Quale l’uso delle sue braccia e del rimanente vigore e fortezza e generosità, se siffatte circostanze e materiali non lo avessero sbatacchiato ed allenato? [I,6,35] E dunque? Bisognava che questi li strutturasse lui per sé e che cercasse di introdurre da qualche dove nel suo territorio un leone, un cinghiale, un’idra? [I,6,36] Questo è stupidaggine e pazzia! Invece, una volta nati e trovati, essi furono profittevoli per mostrare ed allenare Eracle.

Come Eracle, anche noi possediamo risorse e strumenti per farci onore attraverso quello che capita (37-43)

[I,6,37] Orsù dunque anche tu, accortoti di ciò, volgi lo sguardo alle facoltà che hai e tenendovi sopra gli occhi di’ : “Porta ora, o Zeus, la circostanza che disponi: giacché ho una preparazione datami da te e risorse per adornarmi attraverso quel che succede”. [I,6,38] No; ma sedete tremanti perché alcune cose non avvengano e, per quelle che avvengono, siete rammaricati, piangenti e gementi; e poi incolpate gli Dei! [I,6,39] Giacché cos’altro è conseguente a siffatta ignobiltà se non anche l’empietà? [I,6,40] Eppure proprio Zeus non soltanto ci diede queste facoltà, per le quali sopporteremo tutto quel che succede senza essere resi servi nella proairesi né rattrappiti da esso ma, ciò ch’era da buon re e davvero da padre, ci diede ciò non soggetto a impedimenti, non soggetto a costrizioni, disimpacciato; lo fece in nostro esclusivo potere nella sua interezza, non riservandosi al riguardo alcuna potenza di impedire od intralciare. [I,6,41] Ciò avendo libero e vostro, voi non lo usate né vi accorgete di cosa avete ricevuto e da chi; [I,6,42] ma sedete piangenti e gementi. Alcuni, ciechi sul datore stesso ed irriconoscenti al benefattore; altri, sviati dall’ignobiltà a lagnanze ed incolpazioni alla Materia Immortale. [I,6,43] Eppure io ti mostrerò che hai risorse e preparazione per magnanimità e virilità; tu mostrami che moventi hai per biasimare ed incolpare.

CAPITOLO 7

Ragionamenti

SULL ‘ USO  DI  RAGIONAMENTI  EQUIVOCI,  IPOTETICI  E  SIMILI

L’industrioso nella virtù impiega la logica per trovare, in ogni àmbito, la via a quanto è doveroso (1-4)

[I,7,1] Sfugge ai più che la trattazione dei ragionamenti equivoci, ipotetici ed ancora, di quelli che si portano a termine con domande ed insomma di tutti i ragionamenti siffatti, è in rapporto al doveroso. [I,7,2] Giacché noi cerchiamo come su ogni materiale l’uomo virtuoso troverebbe la via d’uscita e la condotta in esso doverosa. [I,7,3] Dicano pertanto che l’industrioso nella virtù o non accondiscenderà a domanda e risposta o che, avendo accondisceso, non sarà sollecito di non condursi a casaccio e come capita in domanda e risposta [I,7,4] oppure, non accettando nessuna di queste due posizioni, è necessario ammettere che si deve fare un qualche esame degli ambiti nei quali domanda e risposta soprattutto si rigirano. 

Ragionare significa saper valutare e distinguere il vero, il falso, il dubbio (5-12)

[I,7,5] Giacché cosa si professa in un ragionamento? Porre il vero, rimuovere il falso, sospendere il giudizio nel dubbio. [I,7,6] Dunque basta imparare soltanto questo? -Basta, dice- Pertanto anche a chi decide di non cadere in errore nell’uso della moneta basta sentir dire che accetti le dracme valide e rifiuti le invalide? [I,7,7] -Non basta- Cosa bisogna dunque aggiungere a questo? Che altro se non la facoltà di valutare e distinguere le dracme valide ed invalide? [I,7,8] Pertanto anche in un ragionamento non basta l’enunciato, ma è necessario che esso diventi valutativo e distintivo del vero e del falso e del dubbio? [I,7,9] -E’ necessario- Oltre a ciò, cos’è prescritto in un ragionamento? Accetta quel che consegue alle proposizioni da te ben concesse. [I,7,10] Orsù, basta dunque anche qui riconoscere questo? Non basta, ma bisogna imparare come una proposizione diventa conseguente a certe altre, ed a volte una consegue ad una sola, a volte comunemente a più. [I,7,11] Non è dunque necessario che aggiunga anche questa conoscenza chi è per condursi con comprendonio in un ragionamento, dimostrerà da sé ciascun assunto, comprenderà le dimostrazioni altrui e non sarà tratto ad errare da argomentazioni sofisteggianti come dimostrative? [I,7,12] Pertanto è intervenuta tra di noi la trattazione delle argomentazioni cogenti e delle figure topiche, e l’allenamento in esse ci è parso necessario. 
 
Conclusioni false da premesse sanamente concesse (13-21)

[I,7,13] Ma certo vi sono casi in cui abbiamo sanamente concesso gli assunti e ne deriva così e così: è una falsità ma nondimeno deriva. [I,7,14] Cosa mi è dunque doveroso fare? [I,7,15] Accettare la falsità? E come esserne capace? Dire: “Diedi spazio alle ammissioni in modo non sano”? Invero neppure questo è dato. Dire che: “Non deriva da ciò cui è stato dato spazio”? Ma neppure questo è dato. [I,7,16] Che si deve dunque fare in proposito? Come non basta avere preso denaro a prestito una volta per essere ancora debitori, ma bisogna che vi sia congiunto anche il persistere del debito e che esso non è stato estinto; così non basta, per dover dare spazio all’inferito l’avere concesso gli assunti, ma bisogna persistere nel dare loro spazio. [I,7,17] Certo, se essi rimangono fino alla fine quelli ai quali fu dato spazio, è del tutto necessario che noi persistiamo nel dare spazio e che ne accettiamo le conseguenze……..(lacuna).…….. [I,7,19] giacché né per noi né secondo la nostra scuola deriva più questo inferito, siccome ci distornammo dalla concessione degli assunti. [I,7,20] Bisogna dunque visitare anche siffatti profili degli assunti e quella siffatta loro trasformazione ed equivocità per cui, proprio nella domanda o nella risposta o nella deduzione fatta od in altro siffatto momento essi, prendendo equivocità, procurano ai dissennati che non scorgono la conseguenza, un movente per sconcertarsi. [I,7,21] Per cosa? Per non condurci in questo àmbito contro il doveroso né a casaccio né confusamente. 

Ragionamenti ipotetici (22-24)

[I,7,22] E lo stesso vale per le ipotesi ed i ragionamenti ipotetici. Giacché è necessario a volte postulare una certa ipotesi come passerella al ragionamento che seguita. [I,7,23] Bisogna dare spazio ad ogni ipotesi concessa o no? E se no, a quale? [I,7,24] Chi diede spazio deve permanere appieno nella conservazione o v’è quando deve distornarsene; e si deve accettare quanto consegue e non accettare le contraddizioni?

Il saggio sa certamente trattare problemi logici (25-29)

[I,7,25] -Sì- Ma uno dice: “Farò sì che tu, dopo aver accolto una ipotesi di possibilità, sia menato ad una impossibilità”. Il saggio non accondiscenderà al confronto con costui ma fuggirà indagine e colloquio? [I,7,26] E chi altro ancora è atto ad usare il ragionamento e valente in domande e risposte e, per Zeus, al riparo dall’inganno e dai sofismi? [I,7,27] Accondiscenderà, dunque; e non si impensierirà di non condursi a casaccio e come capita in un ragionamento? E come sarà ancora tal quale lo divisiamo? [I,7,28] Ma senza un qualche siffatto allenamento e preparazione, chi è capace di custodire il seguito? [I,7,29] Questo mostrino e tutti questi principi generali sono ridondanti: erano assurdi ed inconseguenti al pre-concetto di industrioso nella virtù.

La gravità degli errori logici (30-33)

[I,7,30] Perché siamo ancora inerti, pigri, languorosi e cerchiamo pretesti per non faticare e vegliare elaborando la nostra ragione? [I,7,31] -Se dunque errerò in questo, avrei forse ucciso mio padre?- Schiavo! giacché dov’era qua il padre perché lo uccidessi? Dunque, che facesti? Hai aberrato della sola aberrazione che c’era in quest’ambito. [I,7,32] Dacché proprio questo dissi anch’io a Rufo che mi rimproverava perché non trovavo la sola omissione in un certo sillogismo. “Non è,” dico, “quale avessi incenerito il Campidoglio”. E lui: “Schiavo!” diceva, “qua l’omissione è un Campidoglio”. [I,7,33] O queste sole sono aberrazioni: dare alle fiamme il Campidoglio ed uccidere il padre? L’usare le proprie rappresentazioni a casaccio, da matti, come capita e non comprendere un ragionamento né una dimostrazione né un sofisma né insomma scorgere il secondo me e non secondo me in domanda e risposta: nulla di ciò è aberrazione?

CAPITOLO 8

Concorso di bellezza

CHE  FACOLTÀ  ED  ARTI  NON  SONO  SICURE  PER  I  NON  EDUCATI  A  DIAIRESIZZARE

Epicherèmi ed entimèmi sono ben noti ai filosofi (1-3)

[I,8,1] I modi in cui è ammissibile commutare le forme degli epicherèmi e degli entimèmi nei ragionamenti, sono tanti quanti quelli in cui è possibile commutare i termini gli uni gli altri equivalenti. [I,8,2] Porta quale esempio questo modo: se prendesti a prestito e non restituisti, mi sei debitore del denaro; non prendesti a prestito e non restituisti: non mi sei certo debitore del denaro. [I,8,3] E questo a nessuno più che al filosofo conviene fare espertamente. Giacché se l’entimèma è un sillogismo imperfetto, è manifesto che chi è stato allenato nel sillogismo perfetto sarebbe nondimeno sufficiente anche nell’ imperfetto.

Lo studio della logica è subordinato alla vita virtuosa, non il contrario. Sii dunque orgoglioso della seconda, non tanto del primo (4-10)

[I,8,4] Perché mai dunque non ci alleniamo da soli e gli uni gli altri in questo modo? [I,8,5] Perché ora, seppure non allenati su questo né da me distratti dalla sollecitudine per l’etica, ugualmente non progrediamo nell’essere uomini. [I,8,6] Cosa è dunque d’uopo supporre, se aggiungessimo anche questo impegno? Soprattutto che sopravverrebbe non soltanto un impegno distante dai più necessari ma anche un movente, e non casuale, di presunzione e vanità. [I,8,7] Giacché grande facoltà ed arte è quella di argomentare e persuadere, soprattutto se godesse di frequente allenamento e dalle locuzioni aggiungesse a sé anche una certa confacenza. [I,8,8] E poi che in generale ogni facoltà ed arte che sopravvenga ai non educati a diairesizzare ed ai deboli nell’uso della diairesi, è malsicura riguardo all’esaltarsene ed invanirne. [I,8,9] Con quale accorgimento ancora uno persuaderebbe il giovane che si differenzia in queste cose, che non deve diventare lui appendice di quelle ma quelle addizionarglisi? [I,8,10] Invece, spiaccicati tutti questi discorsi, non ci cammina egli innanzi esaltato e borioso, neppure tollerando che uno lo tocchi per richiamargli alla memoria cosa si è lasciato addietro e dove si è inclinato?

Bene dell’uomo è quella certa capacità della proairesi di muoversi con successo tra diairesi ed antidiairesi, sapendo giocare correttamente con la seconda quando è doveroso giocarci ed usare con arte la prima quando è giusto usarla. Se poi la facoltà di argomentare e persuadere o la facoltà visiva non sono il bene dell’uomo, vanno forse abolite? (11-16) [I,8,11] E dunque? Platone non era un filosofo? Ippocrate non era un medico? Vedi come si esprime Ippocrate? [I,8,12] Dunque Ippocrate non si esprime così in quanto è medico? Perché mischi faccende che concorrono altrimenti nelle medesime persone? [I,8,13] Se Platone era magnifico e potente, bisognerebbe che anch’io seduto mi prodigassi per diventare magnifico o potente; come se ciò fosse necessario alla filosofia dacché un certo filosofo era insieme magnifico e filosofo? [I,8,14] Non vuoi accorgertene e distinguere in relazione a cosa gli uomini diventano filosofi e cos’è presente in essi altrimenti? Orsù, se io fossi filosofo, bisognerebbe che voi diventaste anche zoppi? E dunque? [I,8,15] Abolisco io queste facoltà ed arti? Non sia mai! Giacché neppure abolisco la facoltà visiva. [I,8,16] Ugualmente, se cercherai di sapere da me cos’ è il bene dell’uomo, non ho altro da dirti se non che è un certo modo della proairesi.

CAPITOLO 9

Mani

DALL’ ESSERE  NOI  CONGENERI  DI  ZEUS  COME  SI  VERREBBE  AL  SEGUITO ?

Grazie alla ragione noi possiamo chiamarci figli della Materia Immortale, cittadini del mondo e padri di dei (1-6)

[I,9,1] Se è vero quel che dicono i filosofi circa la congenericità di Materia Immortale ed uomini, che altro avanza agli uomini se non la conclusione di Socrate, di non dire mai a chi cerca di sapere di che paese è: “Ateniese” o “Corinzio”; ma: “del mondo”? [I,9,2] Infatti perché dici di essere Ateniese e non solo di quell’angolino in cui fu generato ed esposto il tuo corpicino? [I,9,3] Non è manifesto che da quanto è più dominante ed include non solo proprio quell’angolino ma anche l’intera tua casata ed insomma l’onde il genere dei tuoi avi è disceso fino a te, da qualche dove di qui tu ti chiami Ateniese o Corinzio? [I,9,4] Quindi chi ha compreso il governo dell’ordine del mondo ed ha imparato che “il massimo, più dominante e più inclusivo di tutti è l’insieme di uomini e Materia Immortale e che da quella sono caduti giù i geni non soltanto di mio padre e di mio nonno ma di tutte le creature che sulla terra sono generate e germogliano, e cardinalmente delle creature logiche; [I,9,5] e che solo queste sono nate per accomunarsi a Zeus in quanto intrecciategli dalla correlazione per via della ragione”; [I,9,6] perché non si dirà cittadino del mondo? Perché non si dirà figlio di Zeus? Perché avrà paura di quanto accade tra uomini?

Ed hai paura di non avere di che mangiare? (7-9)

[I,9,7] La congenericità con Cesare o qualcun altro dei magnati a Roma è sufficiente a procurare che ce la passiamo in sicurezza, al riparo dallo spregio e da qualsivoglia timore. Ed avere Zeus come fattore, padre e tutore, non ci strapperà da afflizioni e paure? [I,9,8] -E donde mangiare, dice, se non ho nulla?- E come fanno i servi, come fanno gli schiavi fuggiaschi, confidando in cosa si allontanano dai padroni? Nei fondi o nei domestici o nell’argenteria? In nulla, ma in se stessi. Ed ugualmente il cibo non viene loro meno. [I,9,9] Invece ci bisognerà che il filosofo si metta in viaggio facendo fiducia ed appoggiandosi ad altri, che non sia sollecito di sé, che sia peggiore e più vile delle belve senza ragione ciascuna delle quali si accontenta di se stessa né difetta del cibo familiare né di tragittarsela in modo consono e secondo natura?

Dalla scoperta di essere padri di dei non concludete che quelle del corpo sono solo catene, non abusate della diairesi e non affrettate irragionevolmente la vostra dipartita da questo mondo a causa della prepotenza degli individui che non sanno giocare con felicità tra diairesi ed antidiairesi (10-17)

[I,9,10] Io credo che chi è più anziano non dovrebbe sedere qui per escogitare qualcosa affinché non siate servi nell’animo né facciate su voi stessi meditazioni servili e ignobili; [I,9,11] ma affinché qui non s’imbattano giovani siffatti i quali, riconosciuta la congenericità con gli dei e che come catene ci siamo aggangherati il corpo, il suo patrimonio e quanto per via di questo ci diviene necessario per la amministrazione e la condotta della vita, questi dispongano di scaraventare via come pesi fastidiosi ed improficui e di partirsene verso i congeneri. [I,9,12] Questa gara dovrebbe gareggiare il vostro insegnante ed educatore a diairesizzare, se dunque ne fosse uno. Voi dovreste venire a dirmi: “Epitteto, non tolleriamo più di essere stati incatenati con questo corpicino e di nutrirlo, abbeverarlo, farlo riposare, ripulirlo e poi essere compiacenti con questi e con quelli per causa sua. [I,9,13] Non sono, queste, cose indifferenti e nulla in relazione a noi? La morte è forse un male? Non siamo congeneri di Zeus e non siamo venuti di là? [I,9,14] Lasciaci partire onde siamo venuti; lascia che siamo sciolti una volta da queste catene alle quali siamo stati agganciati e che ci appesantiscono. [I,9,15] Qui ci sono rapinatori, ladri, tribunali ed i cosiddetti tiranni, i quali reputano di avere qualche potestà su di noi per via del corpo e dei suoi possessi. Lasciaci mostrare loro che non hanno potestà su alcuno”. [I,9,16] E qui io dovrei dire: “Uomini, aspettate Zeus. Qualora egli lo significhi e vi licenzi da questo servizio, allora licenziatevi a lui; ma al presente tollerate d’essere stanziati in questo rango al quale egli vi posizionò. [I,9,17] Proprio poco è questo tempo della dimora, e facile per coloro che sono così disposti. Giacché quale tiranno o quale ladro o quali tribunali sono ancora paurosi per coloro che hanno fatto poco conto del corpo e dei suoi possessi? Rimanete, non partite irragionevolmente”. 

D’altra parte, cosa temete? A ciò cui gli infelici potenti sono interessati noi non volgiamo il pensiero, ed in quanto importa a noi essi sono impotenti (18-21)

[I,9,18] Qualcosa di siffatto dovrebbe accadere da parte di chi educa a diairesizzare verso i purosangue tra i giovani. [I,9,19] Ora invece, che accade? Cadaverico è l’educatore, cadaverici siete voi. Qualora siate foraggiati oggi, sedete a singhiozzare sul domani donde mangerete. [I,9,20] Schiavo! se ne avrai, ne avrai; se non ne avrai, uscirai: la porta è aperta. Perché piangi? Dove c’è ancora posto per le lacrime? Quale movente di adulazione vi è ancora? Perché uno invidierà l’altro? Perché uno si infatuerà di grandi possidenti o di coloro che sono posizionati al potere, soprattutto se saranno potenti ed iracondi? [I,9,21] Giacché cosa ci faranno? Di quanto essi possono fare, di questo noi non ci impensieriremo; quanto importa a noi, questo essi non possono. Chi dunque comanderà ancora su un uomo così disposto? 

Socrate (22-26)

[I,9,22] Come stava Socrate al riguardo? Come altrimenti da come dovrebbe chi è persuaso di essere congenere degli dei? [I,9,23] “Se ora mi direte” dice, “ …*noi ti rilasciamo a patto che tu non faccia più i discorsi che facevi finora e non ci scombussoli più né i giovani né i vecchi*….[I,9,24] risponderò che siete ridicoli a sollecitare che, se il vostro stratega mi avesse posizionato in un certo posizionamento, io dovrei conservarlo, custodirlo e scegliere diecimila volte di morire prima di disertarlo; mentre se Zeus ha assegnato ad un certo rango e condotta, questa bisogna che la disertiamo”. [I,9,25] Questo è un uomo davvero congenere degli dei! [I,9,26] Noi dunque come visceri, come budella, come coglioni pensiamo noi stessi perché abbiamo paura, perché smaniamo; ed aduliamo coloro che possono cooperare a questo, e questi medesimi temiamo. 

Non siate ignari delle vostre ricchezze: nessun uomo è sventurato a causa di un altro (27-34)

[I,9,27] Un tale mi sollecitò a scrivere a Roma in suo favore. Costui era reputato dai più non avere avuto fortuna e, persona prima notoria e ricca di denaro, successivamente ci aveva rimesso tutto e se la passava qui. [I,9,28] Ed io scrissi, in suo favore, con servilismo. Ma lui, letta la missiva, me la restituì e diceva: “Io disponevo di essere aiutato da te, non commiserato: a me non capita alcun male”. [I,9,29] Così pure Rufo, mettendomi alla prova, soleva dire: “Ti avverrà questo e quest’altro ad opera del padrone”. [I,9,30] E rispondendogli io: “Cose umane”; “E dunque? Prego ancora quello, quando posso prendere le stesse cose da te?” [I,9,31] Giacché effettivamente è superfluo e matto prendere da un altro quanto uno ha da se stesso. [I,9,32] Avendo dunque io modo di prendere da me stesso magnanimità e generosità, che prenda da te un fondo, del denaro od una carica? Non sia mai! Non sarò così insensibile ai miei possessi! [I,9,33] Ma qualora uno sia vile e servo nell’animo, che altro è necessario in suo favore se non scrivere missive come a favore di un cadavere: “Gratificaci della carcassa del tale e di un boccale di sangue”? [I,9,34] Effettivamente uno siffatto è una carcassa ed un boccale di sangue, nulla di più. Se fosse qualcosa di più si accorgerebbe che uno non ha cattiva fortuna a causa di un altro.  

CAPITOLO 10

L’arrivista

A  QUANTI  SI  INDUSTRIANO  PER  DELLE  PROMOZIONI  A  ROMA

Lo zelo che si pone nel fare carriera, non sarebbe degno di opere migliori? (1-6)

[I,10,1] Se fossimo stati concentrati sull’opera nostra così energicamente come i senatori, a Roma, su ciò per cui si industriano, probabilmente concluderemmo qualcosa anche noi. [I,10,2] So io quali parole mi disse una persona più anziana di me che ora è Prefetto dell’Annona a Roma, quando deviò qui di ritorno dall’esilio. Inveiva contro la sua vita precedente e professava che per il seguito, imbarcatosi, non si sarebbe industriato per altro che per tragittarsela in quiete e dominio sullo sconcerto per il resto della vita: “Giacché, quant’è ancora per me il resto della vita?” [I,10,3] -Ed io gli dicevo: “Non lo farai, ma solo fiutata Roma dimenticherai tutto questo”. E se si darà pure un passaggio a corte, io dicevo che si sarebbe fatto largo rallegrandosi e ringraziando Dio- [I,10,4] “Epitteto,” diceva lui, “se troverai che io pongo un solo piede a corte, concepisci di me quel che vuoi!” [I,10,5] Or dunque, che fece? Prima di arrivare a Roma gli recapitarono delle tavolette da parte di Cesare. Lui, presane conoscenza, si scordò di tutti quei propositi e, orbene, ha accumulato una carica sopra l’altra. [I,10,6] Vorrei stargli accanto ora, per richiamargli alla memoria i discorsi che faceva quand’era di passaggio qui e dirgli: “Quanto sono più raffinato indovino di te!”

La trascuratezza che si pone nel procurarsi la saggezza, non sarebbe degna di opere peggiori? (7-13) [I,10,7] E dunque? Dico io che la creatura uomo è infingarda? Non sia mai! Ma perché noi non siamo operosi? [I,10,8] Subito io per primo, qualora venga giorno richiamo un poco alla memoria cosa devo far rileggere e poi subito mi dico: “E che m’ importa di come legge tizio? Primo è che io stia coricato”. [I,10,9] Eppure perché le faccende di quei senatori sono simili alle nostre? Se rifletterete su quanto fanno, ve ne accorgerete. Che altro fanno il giorno intero se non votare, dibattere, consigliare su un po’ di grano, su un fondicello e su siffatti profitti? [I,10,10] E’ dunque simile prendere da qualcuno una supplichetta e leggere: “Ti prego di delegarmi l’ esportazione di un po’ di grano”; oppure: “Ti prego di esaminare qual è per Crisippo il governo dell’ordine del mondo e quale rango vi ha l’animale logico; esamina anche chi sei tu e cosa sono il tuo bene ed il tuo male”. [I,10,11] Queste istanze sono simili a quelle. Hanno bisogno di simile industria. [I,10,12] Trascurare queste e quelle è brutto allo stesso modo. E dunque? Noi soli siamo pigri e sonnecchiamo? No: ma prioritariamente voi giovani. [I,10,13] Dacché anche noi vecchi, qualora vediamo dei giovani giocare ci slanciamo pure noi a giocare con loro. Se vedessi voi risvegliati e pieni di slancio, molto più mi slancerei anch’io ad industriarmi con voi.

CAPITOLO 11

Padre e figlia

SULL ‘ AFFETTUOSITA’

Non sopportando che la bimba ammalata possa morire, invece di assisterla un padre scappa e torna soltanto a guarigione avvenuta. Si è comportato naturalmente? e rettamente?(1-8)

[I,11,1] Quando si recò da lui un pubblico ufficiale, Epitteto, cercando di sapere da quello dei particolari, gli domandò se avesse anche figlioli e moglie. [I,11,2] Poiché quello lo ammise, cercò ancora di sapere: e come usufruisci dunque della faccenda? -Da meschino, rispose- E lui: in che modo? [I,11,3] Giacché non è per questo che le persone si sposano e fanno figli, per essere meschini, ma piuttosto per essere felici. [I,11,4] -Ma io, diceva l’ufficiale, sto così meschinamente quanto ai bambini che l’altro giorno, essendo la mia figlioletta ammalata e sembrando in pericolo di vita, non ressi neppure a rimanere in casa con lei ammalata e sparii fuggendo fino a che qualcuno mi riportò che stava bene- E dunque? Ti pare d’aver fatto ciò rettamente? [I,11,5]-Naturalmente, diceva- Invero tu persuadimi di questo, diceva Epitteto, ‘naturalmente’ ed io ti persuaderò che tutto quanto accade secondo la natura delle cose accade rettamente. [I,11,6] -Questo, diceva l’altro, tutti o la maggior parte dei padri lo sperimentiamo- né io ti obietto, continuava Epitteto, che così non accade; ciò su cui siamo in disaccordo è se questo accade rettamente. [I,11,7] Dacché per questo bisognerebbe allora dire che anche i tumori nascono per il bene del corpo, perché nascono; ed insomma che aberrare è secondo la natura delle cose, perché quasi tutti o la maggior parte aberriamo. [I,11,8] Tu mostrami dunque come la tua condotta è secondo la natura delle cose. -Non posso, diceva l’ufficiale; tu piuttosto mostrami come è non secondo natura e non accade rettamente-

L’incerto inizio di un discorso dialettico (9-15)

[I,11,9] E lui: se ricercassimo, diceva, sul bianco e sul nero, quale criterio chiameremmo in causa per la loro diagnosi? -La visione, diceva l’altro- E quale sul caldo e sul freddo, sul duro e sul molle? -Il tatto- [I,11,10] Pertanto, siccome siamo in disaccordo su quanto accade secondo la natura delle cose ed accade rettamente o non rettamente, quale criterio disponi che assumiamo? [I,11,11] -Non so, diceva- Invero ignorare il criterio dei colori, degli odori ed ancora dei sapori non è, caso mai, gran punizione; ma reputi piccola la punizione per chi ignora quello del bene e del male, del secondo la natura delle cose e del contro la natura delle cose per l’uomo? -La massima, dunque- [I,11,12] Orsù, dimmi: tutto quanto sembra ad alcuni magnifico e conveniente, lo sembra rettamente? Ora, è possibile che tutto quel che sembra a Giudei, a Siri, ad Egizi ed a Romani in fatto di cibo, lo sembri rettamente? -E com’è possibile?- [I,11,13] Ma, credo, se sono rette le opinioni degli Egizi è del tutto necessario che non siano rette quelle degli altri; e se stanno bene quelle dei Giudei che non stiano bene quelle degli altri. -E come no?- [I,11,14] Laddove vi è ignoranza, là vi è anche incultura ed ineducazione sul necessario. -Ne conveniva- [I,11,15] Tu dunque, diceva Epitteto, accortoti di ciò, per null’altro di restante ti industrierai né ad altro avrai l’intelligenza che, una volta decifrato il criterio di quanto è secondo la natura delle cose, a sfruttarlo per distinguere ciascuno dei casi particolari.

Affettuosità e razionalità si contraddicono? o no? (16-20) 

[I,11,16] Sul caso presente, tanto ho da aiutarti per quanto vuoi sapere. [I,11,17] Reputi l’affettuosità secondo la natura delle cose e bella? -E come no?- E che? L’affettuosità è secondo la natura delle cose e bella, e la razionalità è non bella? [I,11,18] -Nient’affatto!- Quindi la razionalità non contraddice l’affettuosità? -Non mi sembra- Se no, quando uno dei termini contraddittori è secondo la natura delle cose, è necessario che l’altro sia contro la natura delle cose? o no? [I,11,19] -E’ così, diceva- Pertanto quanto troviamo essere del pari affettuoso e del pari razionale, lo dichiariamo con fiducia retto e bello? [I,11,20] -Sia, diceva- E dunque? Non credo tu obietti se affermo che non è razionalità lasciare la bimba ammalata e, lasciatala, partire. Sopravanza che consideriamo se è affettuosità. -Consideriamo-

E scappare, in questo caso, risulta affettuoso? e razionale? (21-26)

[I,11,21] Dunque tu, siccome eri affettuosamente disposto verso la bimba, rettamente facevi a fuggire ed abbandonarla? E la madre non ha affettuosità per la bimba? [I,11,22] -Certo ha affettuosità- Pertanto bisognerebbe che anche la madre la lasciasse? o non bisognerebbe? -Non bisognerebbe- E la balia? Ha affetto per lei? -Ha affetto, diceva- Bisognerebbe dunque che anche quella la lasciasse? -Nient’affatto!- [I,11,23] Ed il pedagogo? Non ha affetto per lei? -Ha affetto- Bisognerebbe dunque che anche quello, lasciatala, partisse; e poi che la bimba rimanesse così isolata e senza aiuto a causa della molta affettuosità di voi genitori e di chi le è intorno, da morire tra le mani di chi non ha per lei affetto né tutela? -Non sia mai!- [I,11,24] Invero non è iniquo e scriteriato non accordare a coloro che similmente hanno affettuosità, quanto uno crede convenirgli perché affettuoso? [I,11,25] -E’ assurdo- Orsù, essendo ammalato, tu decideresti di avere dei congiunti, figlioli e moglie compresa, così affettuosi da essere lasciato da loro solo ed isolato? [I,11,26] -Nient’affatto!- Auspicheresti di avere dai tuoi un affetto tale da essere abbandonato sempre solo nelle malattie a causa della loro troppa affettuosità o piuttosto auspicheresti, per questo, di avere l’affettuosità dei tuoi nemici personali, se fosse possibile, così da essere da loro abbandonato? Se così è, sopravanza che quanto effettuato da te non è assolutamente più affettuoso. 

La spiegazione sta in noi, non fuori di noi (27-29)

[I,11,27] E dunque? Niente ti muoveva ed impelleva a lasciare la bimba? E com’è possibile? Ma era tal quale quel che muoveva anche a Roma un tale a coprirsi il capo mentre correva il cavallo per cui parteggiava. Una volta il cavallo inopinatamente vinse, e lui ebbe bisogno di spugnaggi per essere recuperato dallo svenimento. [I,11,28] Cos’è dunque ciò? La precisione non è, caso mai, del momento presente. Se però è sano il detto dei filosofi, è bastevole essere persuasi che non bisogna cercarlo fuori di noi, ma che uno solo e medesimo è in ogni caso il causativo del fare o non fare noi qualcosa, dire certe parole o non dirle, esaltarsi o contrirsi, fuggire qualcuno od inseguirlo. [I,11,29] Questo è stato anche ora il causativo per me e per te: per te di venire da me e di sedere adesso ad ascoltare, e per me di dire questo. Cos’è questo?

E sta nei nostri giudizi (30-33)

[I,11,30] E’ proprio altro dal fatto che lo reputammo? -Niente- E se ci fosse parso altrimenti, che altro effettueremmo se non quanto reputammo? [I,11,31] Pertanto anche per Achille questo è causativo del piangere: non la morte di Patroclo (giacché un altro non sperimenta ciò quando il compagno muore), ma che lo reputò. [I,11,32] Anche per te allora, di fuggire, proprio questo che lo reputasti; e di nuovo, se rimarrai, che lo reputasti. Ora sali a Roma perché lo reputi; se reputerai altrimenti non partirai. [I,11,33] Insomma né morte, né esilio, né dolore, né altro di siffatto sono causativi dell’effettuare o non effettuare noi qualcosa ma concezioni e giudizi.

Dei nostri giudizi siamo padroni e responsabili noi, non le cose di fuori (34-40)

[I,11,34] Te ne persuado, o no? -Mi persuadi, diceva l’ufficiale- Quali sono i causativi in ciascun caso, tali sono anche i risultati. [I,11,35] Pertanto, qualora effettuiamo qualcosa non rettamente, da oggi in poi non accagioneremo altro che il giudizio in base al quale lo effettuammo, e quello proveremo ad estirpare e recidere più che i tumori e gli ascessi dal corpo. [I,11,36] Allo stesso modo dichiareremo ciò stesso causativo anche di quanto effettuato rettamente. [I,11,37] E non accagioneremo più né domestico, né vicino, né moglie, né figlioli quali causativi di qualche nostro male; persuasi che se non li reputeremo essere siffatti, non effettuiamo le opere conseguenti. Del reputare o non reputare siamo signori noi e non gli oggetti esterni. [I,11,38] -E’ così, diceva l’altro- Quindi da oggi null’altro sopravvedremo od indagheremo, cos’è qualcosa o come sta, né il fondo, né gli schiavi, né i cavalli od i cani, ma i giudizi. -Lo auspico, diceva- [I,11,39] Vedi dunque che devi diventare uno scolaro, questa creatura che tutti deridono, se proprio disponi di fare un esame dei tuoi giudizi. [I,11,40] Che poi questo non è affare di un’ora sola o di un giorno, lo divisi anche tu.

CAPITOLO 12

Applausi

SUL  COMPIACIMENTO

A differenza di quanto ne possano pensare, tra gli altri, Platone ed Aristotele ed a differenza di quanto affermino le orribili superstizioni su un Dio trascendente, dall’unica Materia Immortale e secondo le sue ottime leggi sono generati le stelle, i pianeti, i vegetali, gli animali, gli uomini e gli dei (1-3)

[I,12,1] A proposito di dei, vi sono alcuni i quali dicono che la Materialità neppure esiste; altri che esiste ma è inerte, trascurata e non si fa mente di nulla; [I,12,2] i terzi che esiste e si fa mente, ma dei corpi immensi e celesti e di nessuno dei corpi che sono sulla terra; per i quarti anche di quelli che sono sulla terra e degli umani, ma soltanto in comune e non anche peculiarmente di ciascuno; [I,12,3] quinti sono quelli, dei quali erano anche Ulisse e Socrate, che dicono: “né t’è veruno dei miei passi occulto”.

Usata rettamente la proairesi dell’uomo è capace di concepire di sé e della Materialità quelle rappresentazioni felicitanti, generose, liberatorie ed aderenti alla natura delle cose che si possono chiamare dei (4-7)

[I,12,4] Prioritariamente è dunque necessario avere esaminato se ciascuna di queste asserzioni è sana o è non sana. [I,12,5] Giacché se non vi sono dei, com’è un fine accompagnarsi a dei? Se esistono ma di nulla sono solleciti, anche così come sarà sano? [I,12,6] Ma certo esistendo ed essendo solleciti, se non v’è alcuna reciprocità tra loro e gli uomini e, per Zeus, anche proprio me; pure così, com’è ancora sano? [I,12,7] Dopo avere dunque esaminato tutto ciò, l’uomo virtuoso ha subordinato la propria intelligenza a chi governa l’intero, appunto come i buoni cittadini alla legge della città.

Usata scorrettamente la proairesi concepisce di sé e della Materialità quelle rappresentazioni infelici, grette, schiavizzanti ed irrispettose della natura delle cose caratteristiche, tra l’altro, dei monoteismi rivelati e degli idealismi. La liberazione dell’uomo dall’essere umano è il felice equilibrio di una proairesi che sa usare doverosamente l’antidiairesi e giustamente la diairesi senza aberrare né nell’una né nell’altra (8)

[I,12,8] Chi poi si sta educando a diairesizzare, è tenuto a venire ad educarsi con questo progetto: “Come accompagnarmi in ogni circostanza agli dei, come compiacermi del governo della Materialità, come diventare libero?”

Chi è libero; e che bisogna imparare ad essere liberi (9-16)

[I,12,9] Giacché libero è colui cui tutto accade secondo proairesi e che nessuno può impedire. [I,12,10] E dunque? Demenza è la libertà? Non sia mai! Pazzia e libertà non vengono al medesimo punto. [I,12,11] “Ma io voglio che succeda tutto quanto reputo ed in qualunque modo lo reputerò”. [I,12,12] Tu sei pazzo, vaneggi. Non sai che libertà è cosa bella e rimarchevole? Il volere come capita che accada quanto ho reputato come capita, corre pericolo non soltanto di non essere bello, ma la cosa più brutta di tutte. Come facciamo coi caratteri dell’alfabeto? [I,12,13] Decido di scrivere il nome “Dione” come voglio? No, ma mi viene insegnato a disporre che sia scritto come si deve. Che facciamo con le note musicali? Allo stesso modo. [I,12,14] Che facciamo, in generale, laddove è in gioco un’arte od una scienza? Se no, di nessun valore sarebbe l’avere scienza di qualcosa, se ciò si acconciasse alle decisioni di ciascuno. [I,12,15] Qui dunque, soltanto su quanto è massimo e sommamente dominante, sulla libertà, mi è stato accordato di volere come capita? Nient’affatto! Ma educarsi a diairesizzare è questo imparare a disporre ciascuna cosa così come accade. E come accade? Come la costituì il costitutore. [I,12,16] Costituì che vi fossero estate ed inverno, profusione e penuria, virtù e vizio e tutte le opposizioni siffatte per l’armonia dell’intero; ed a ciascuno di noi diede un corpo, delle parti del corpo, un patrimonio e dei soci.

Perché gli individui che non sanno giocare con diairesi ed antidiairesi riescono ad avere con le cose e con gli altri soltanto rapporti di dominio o di subordinazione, di sfruttamento o di ribellione e mai di razionale e gioiosa piacevolezza (17-21)

[I,12,17] Memori dunque di questa costituzione, bisogna venire ad educarsi a diairesizzare non per cambiare le premesse (giacché ciò non ci è dato né è meglio), ma perché stando le cose intorno a noi come stanno e come sono per natura, noi teniamo la nostra intelligenza conciliata agli avvenimenti. [I,12,18] E che? E’ fattibile fuggire le persone? E com’è possibile? Stando con loro, cambiarle? [I,12,19] E chi ce lo dà? Cosa dunque avanza o quale accorgimento si trova per usare con esse? Un uso siffatto per cui quelle faranno quanto loro pare e noi nondimeno staremo in accordo con la natura delle cose. [I,12,20] Ma tu sei indolente e ti dispiaci. Se sarai solo, chiami questo isolamento; se con persone, insidiose le chiami, e rapinatori. Biasimi anche i tuoi genitori e figlioli e fratelli e vicini. [I,12,21] Bisognerebbe che chi rimane solo chiamasse questo quiete e libertà, e si ritenesse simile agli dei. Stando fra molti, che lo chiamasse non folla né trambusto né spiacevolezza, ma festa e sagra, e così tutto accogliesse con compiacimento.

Qual è la punizione per chi non sa giocare con diairesi ed antidiairesi? Proprio il non saperci giocare, e lo stare come sta (22-26)

Qual è dunque il castigo per coloro che non accettano? [I,12,22] Lo stare come stanno. Uno si dispiace di essere solo? Stia in isolamento. Uno si dispiace dei genitori? Sia cattivo figlio e pianga. Si dispiace dei figlioli? Sia cattivo padre. [I,12,23] “Buttalo in prigione”. Quale prigione? Dove ora è. Giacché vi è suo malgrado, e dove uno è suo malgrado quella è per lui prigione. Per il che Socrate non era in prigione, giacché vi stava di buon grado. [I,12,24] “Dunque la mia gamba ha da essere storpiata?” Schiavo, e poi per una sola gambetta incolpi l’ordine del mondo? Non la darai all’intero? Non te ne distornerai? Non ti rallegrerai di dare spazio a chi te l’ha data? [I,12,25] Invece fremerai e ti dispiacerai delle costituzioni di Zeus; costituzioni che egli, con le Moire presenzianti e filanti la tua generazione, definì e costituì? [I,12,26] Non sai quanta parte sei rispetto all’intero? Questo, riguardo al corpo; ma quanto alla ragione, per nulla peggiore degli dei né più piccolo di loro. Giacché la grandezza della ragione non è determinata dalla lunghezza né dall’altezza, ma dai giudizi. 

Imparate a riconoscere la vostra vera ricchezza, quella per cui siete al di sopra di tutte le cose (27-35)

[I,12,27] Non vuoi dunque che il bene sia posto in qualche modo là, secondo ciò per cui sei pari agli dei? [I,12,28] “Sciagurato me, ho un padre siffatto ed una tale madre!” E dunque? Ti era dato avanzare per selezionare e dire: “Il tale venga insieme alla tale a quest’ora, affinché nasca io”? Non era dato. [I,12,29] Bisognava invece che preesistessero i tuoi genitori, così che poi fossi generato tu. [I,12,30] Da quali? Da tali quali erano. E dunque? Siffatti essendo essi, non ti si dà alcun accorgimento? Se ignorassi per cosa possiedi la facoltà visiva, avresti cattiva fortuna e saresti meschino se chiudessi gli occhi mentre ti si appressano dei colori; e poiché ignori di avere magnanimità e generosità per ciascuna di queste circostanze, non hai peggiore fortuna e non sei più meschino? [I,12,31] Ti si appressano cose consone alla facoltà che hai e tu soprattutto allora la distogli quando bisognerebbe averla aperta e mirante. [I,12,32] Non ringrazi piuttosto gli dei, poiché ti lasciarono al di sopra di quanto neppure fecero in tuo esclusivo potere e ti dichiararono responsabile soltanto di quanto è in tuo esclusivo potere? [I,12,33] Ti lasciarono non responsabile per genitori, non responsabile per fratelli, non responsabile per corpo, patrimonio, morte, vita. [I,12,34] Di cosa ti fecero dunque responsabile? Della sola cosa in tuo esclusivo potere: dell’uso quale si deve delle rappresentazioni. [I,12,35] Perché dunque ti tiri addosso ciò di cui non sei responsabile? Questo è procurarsi dei fastidi.

CAPITOLO 13

La costumatezza

COM ‘ E’  POSSIBILE  FARE  CIASCUNA  COSA  IN  MODO  GRADITO  AGLI  DEI 

Tutti siamo figli dell’unica Materia Immortale e fra di noi si comporta da dio chi sa fare del bene a se stesso mentre sa tollerare che altri facciano del male a loro stessi (1-5)

[I,13,1] Quando uno cercò di sapere com’è possibile mangiare in modo gradito agli dei; Se è possibile, diceva Epitteto, farlo con giustezza, costumatezza, e parimenti con padronanza di sé e compostezza, non è anche in modo gradito agli dei? [I,13,2] Qualora, avendo tu chiesto dell’acqua calda, il ragazzo non ti dia retta o ti dia retta ma la porti tiepida o neppure sia trovato in casa; il non esasperarsi né berciare, è non gradito agli dei? [I,13,3] -Ma come si fa a tollerare cose siffatte?- Schiavo! non tollererai tuo fratello, che ha Zeus per avo, come figlio nato dai medesimi geni e dalla stessa discendenza; [I,13,4] e se fosti assegnato a siffatto rango eminente subito ti istituirai tiranno? Non ti ricorderai cosa sei e su chi comandi? Che comandi su congeneri, fratelli per natura, discendenti di Zeus? [I,13,5] -Ma io ho il contratto del loro acquisto ed essi non hanno il mio- Vedi dove miri? Che miri a terra, al baratro, a queste disgraziate leggi di cadaveri e non miri a quelle degli dei? 

CAPITOLO 14

Stardust

CHE  IL  DIVINO  RIGUARDA  TUTTI

Ogni singolo atomo dei nostri corpi è stato sintetizzato in una stella… (1-4)

[I,14,1] Quando uno cercò di sapere come una persona potrebbe essere persuasa che ciascuna delle azioni da lui effettuate è riguardata da Zeus “Non reputi,” diceva Epitteto, “che il tutto sia unitario?” [I,14,2] -Lo reputo, diceva quello- E che? Non reputi che i fenomeni terrestri siano consentanei a quelli celesti? -Lo reputo, diceva- [I,14,3] Giacché donde così posizionatamente, appunto come per ingiunzione di Zeus, qualora egli dica ai vegetali di fiorire, fioriscono; qualora dica di germinare, germinano; qualora di portar fuori il frutto, lo portano fuori; qualora di maturarlo, lo maturano; qualora di nuovo di buttarlo via e perdere le foglie e, dopo essersi raccolti in se stessi, di rimanere quiescenti e riposarsi, rimangono quiescenti e si riposano? [I,14,4] E donde verrebbe che al crescere ed al diminuire della luna, alla processione e recessione del sole, si è spettatori di cotanto divario e trasformazione negli opposti dei fenomeni terrestri?

… e gli animi nostri stanno alla Materia Immortale come le nuvole all’atmosfera (5-6)

[I,14,5] Ma i vegetali ed i nostri corpi sono stati così avvinti all’intero e posti con esso in consentaneità, e gli animi nostri non lo saranno molto di più? [I,14,6] E se gli animi sono così avvinti e connessi alla Materia Immortale in quanto pezzi di lei e scintille, Zeus non si accorge di ogni loro movimento in quanto familiare e connaturato?

La stupefacente, divina capacità della Materia di farsi animo (7-10)

[I,14,7] Tu puoi ponderare sul divino governo, su ciascuno dei fenomeni immateriali e del pari sulle faccende umane. Puoi essere mosso da miriadi di faccende ora sensibilmente, ora intellettualmente, ora assentendo, ora da alcune dissentendo o sospendendo il giudizio. [I,14,8] Custodisci nel tuo animo cotanti modelli ricavati da molte e svariate faccende e muovendo da essi ti imbatti in divisamenti conformi ai fatti che li hanno originariamente modellati. Da miriadi di faccende preservi, una accanto l’altra, arti e ricordi. [I,14,9] E Zeus non è tale da riguardare tutto, essere compresente a tutto e da tutto avere una reciprocità? [I,14,10] Il sole è capace di illuminare una parte così rilevante del tutto e di abbandonare non illuminato quel poco che è capace di essere ricoperto dall’ombra che la terra fa; e la Materia Immortale che ha fatto il sole stesso e lo porta in giro, sole che è piccola parte di lei, parte piccola riguardo all’intero: questa Materia non può accorgersi di tutto? 

Zeus, ossia la Materia Immortale, dà a ciascuno di noi un patrimonio genico diverso (11-14)

[I,14,11] -Ma io, dice, non posso comprendere tutte queste cose insieme- Qualcuno ti dice forse che hai facoltà pari a Zeus? [I,14,12] E nondimeno egli, come delegato pose accanto a ciascuno il proprio genio e glielo trasmise da custodire: un genio insonne ed iningannabile. [I,14,13] A quale altro custode migliore e più solerte avrebbe trasmesso ciascuno di noi? Sicché, qualora chiudiate le porte e facciate buio all’interno, ricordate di non dire mai che siete soli. [I,14,14] Giacché non lo siete. Zeus è all’interno ed il vostro genio lo è. Che bisogno hanno questi di luce, per scorgere cosa fate?

Un retto giuramento (15-17)

[I,14,15] A questa Materia Immortale bisognerebbe che anche voi faceste un giuramento quale quello che i soldati fanno a Cesare. Quelli, poiché prendono il soldo, giurano di anteporre la salvezza di Cesare a tutto; voi, che siete stati degnati di cotanti e rilevanti doni, non giurerete o, dopo aver giurato, non manterrete il giuramento? [I,14,16] Cosa giurerete? Di non disubbidire mai né incolpare né lagnarvi di alcuna delle cose che da lei sono state date, né di fare o sperimentare alcunché di quanto è necessario, vostro malgrado. [I,14,17] Questo giuramento è simile a quello? Là giurano di non anteporgli un altro, qui giurate di anteporre voi stessi a tutto.

CAPITOLO 15

La filosofia

COSA  PROFESSA  LA  FILOSOFIA?

La filosofia non promette di procacciare all’uomo né amicizie né salute né celebrità, ma l’arte di vivere bene (1-5)

[I,15,1] Quando uno si consigliava sul come persuadere il fratello a non essere più esasperato con lui; [I,15,2] La filosofia non professa, diceva Epitteto, di procacciare all’uomo qualcuno degli oggetti esterni; se no si farà carico di qualcosa al di fuori del proprio peculiare materiale. Giacché come materiale del falegname è il legno e dello scultore di statue il bronzo, così materiale dell’arte della vita è per ciascuno la sua vita. [I,15,3] -Cos’è dunque quella del fratello?- Di nuovo è materiale dell’arte della vita di quello per lui, mentre per la tua è un oggetto esterno simile ad un fondo, simile alla salute del corpo, simile alla celebrità. La filosofia non professa nulla di ciò.[I,15,4] “In ogni circostanza serberò l’egemonico in stato di accordo con la natura delle cose”. -Quello di chi?- [I,15,5] “Quello di colui nel quale sono”. -Come fare, dunque, che quello non si adiri con me?- “Portamelo ed io gli parlerò; ma a te nulla ho da dire sulla sua ira”. 

Per cogliere questo frutto sono necessari tempo ed impegno (6-8)

[I,15,6] Quando chi si consigliava disse: “Questo cerco: come starei in accordo con la natura delle cose anche se quello non è riconciliato con me”; [I,15,7] Nessuna, diceva Epitteto, delle cose grandi lo diventa improvvisamente laddove non lo diventano neppure un racemo od un fico. Se ora mi dirai: “Voglio un fico”, ti risponderò: “C’è bisogno di tempo”. Lascia che dapprima fiorisca, poi fruttifichi, poi maturi. [I,15,8] Il frutto di un fico non si perfeziona improvvisamente od in un’ora, e tu vuoi acquisire in così poco tempo e come se niente fosse il frutto della intelligenza di un uomo? Non  supporlo neppure se te lo dirò io. 

CAPITOLO 16

Pirite

SULLA  MENTE  DELLA  MATERIA  IMMORTALE, OVVERO SULLA PRONOIA

Opere della intelligenza della Materia Immortale(1-5)

[I,16,1] Non stupitevi se le altre creature hanno avuto pronto quanto attiene al corpo, non soltanto cibi e bevande ma anche il giaciglio e non bisognano di calzari, di coperte, di vestiti, mentre noi abbisogniamo di tutto ciò. [I,16,2] Non sarebbe, infatti, vantaggioso avere fatto creature nate non per sé ma per servizio, bisognose d’altro. [I,16,3] Dacché vedi se sarebbe possibile preoccuparci di come vestire, calzare, cibare e dissetare non soltanto noi stessi ma anche le pecore e gli asini. [I,16,4] Come i soldati sono pronti per lo stratega calzati, vestiti ed armati; e sarebbe strano che il chiliarca dovesse andare in giro a calzare e vestire mille persone; così la natura ha fatto le creature nate per servizio pronte all’uso, preparate, che non abbisognano più d’alcuna sollecitudine. [I,16,5] E così un solo bimbo piccolo spinge avanti il gregge con una verga.

Opere della intelligenza della Materia Immortale in noi (6-14)

[I,16,6] Ora noi, mentre tralasciamo di ringraziare perché non siamo solleciti di loro di una sollecitudine pari a quella per noi, su noi stessi incolpiamo la Materia Immortale. [I,16,7] Eppure, per Zeus e per gli dei, uno solo dei fatti accaduti sarebbe bastevole a chi è rispettoso di sé e degli altri ed ha il senso della gratitudine per accorgersi della mente della Materia Immortale, ovvero della Pronoia. [I,16,8] Non penso ora alle cose grandi ma al generarsi di latte dall’erba, di formaggio dal latte e di lana dalla pelle. Chi le ha fatte o divisate? “Nessuno”, dice. Che grande insensibilità e sfacciataggine! [I,16,9] Orsù, tralasciamo le opere della natura ed osserviamone le opere accessorie. [I,16,10] Vi è qualcosa più improficuo dei peli sul mento? E dunque? Non adoperò anche questi nel modo più confacente possibile? Non distinse grazie ad essi il maschile ed il femminile? [I,16,11] Subito la natura di ciascuno di noi non strilla da lontano: “Sono un maschio; vienimi innanzi così, parlami così e non cercare altro: ecco i segni distintivi”? [I,16,12] Di nuovo per le femmine, come amalgamò nella voce qualcosa più delicato, così pure eliminò i peli dal mento. No, ma bisognerebbe che la creatura fosse abbandonata indistinguibile e che ciascuno di noi proclamasse: “Sono un maschio!” [I,16,13] E che magnifico segno distintivo, confacente e solenne! Quanto più magnifico della cresta dei galli, quanto più maestoso della criniera dei leoni! [I,16,14] Per questo bisognerebbe salvaguardare i segni distintivi di Zeus, bisognerebbe non gettarli via; non confondere, quanto a loro, i generi che sono stati ben discriminati. 

Inno alla Materia Immortale (15-21)

[I,16,15] Queste sole sono opere della mente della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, su di noi? E quale discorso è bastante similmente a lodarle o farle riscontrare? Se avessimo accortezza, che altro dovremmo fare comunemente e peculiarmente se non inneggiare alla Materialità, dirne bene e ripercorrerne le grazie? [I,16,16] Mentre zappiamo, ariamo, mangiamo, non bisognerebbe cantare l’inno alla Materia Immortale? [I,16,17] “Grande è Zeus perché ci procurò questi strumenti coi quali lavoreremo la terra; grande è Zeus che ci ha dato le mani, l’ingestione dei cibi, i visceri, di crescere a nostra insaputa, di respirare dormendo”. [I,16,18] Questo bisognerebbe inneggiare per ciascuno dei suoi doni e poi inneggiare l’inno più grande e più divino, perché ci diede la facoltà atta alla comprensione ed all’uso metodico di questi doni. E dunque? [I,16,19] Dacché i più siete ciechi, non deve esserci qualcuno ad assolvere questo ufficio ed a cantare per tutti quell’inno alla Materia Immortale? [I,16,20] Che altro posso io, vecchio zoppo, se non inneggiare a Zeus? Se fossi un usignolo farei quel che fa un usignolo; se cigno, un cigno. Ora, sono una creatura logica: bisogna che inneggi alla Materia Immortale. [I,16,21] Questa è l’opera mia. La svolgo e, per quanto mi sarà dato, non diserterò questo posizionamento. E prego anche voi a questo medesimo cantico. 

CAPITOLO 17

L’alveare

CHE  LA  LOGICA  E’  NECESSARIA

Solamente la ragione è autoteoretica (1-3)

[I,17,1] Siccome è ragionamento quanto articola ed elabora il resto, ed esso non dovrebbe rimanere disarticolato, da che cosa sarà articolato? [I,17,2] E’ manifesto che lo sarà o da se stesso o da altro. Questo o è un ragionamento o sarà qualcos’altro migliore del ragionamento, ciò che appunto è impossibile. [I,17,3] Se è un ragionamento chi, di nuovo, lo articolerà? Giacché se questo si autoarticola, anche il primo lo può. Se avremo bisogno di un altro, questo processo sarà infinito ed incessante. 

La logica è criterio e condizione del retto pensare (4-12)

[I,17,4] “Sì, ma urge piuttosto accudire…” e cose simili. Vuoi dunque sentir parlare di quelle? Ascolta. [I,17,5] Ma se mi dirai: “Non so se fai discorsi veri o falsi”; ed anche, se dirò qualcosa con accenti ambigui e mi dirai: “Punteggia…”, non ti tollererò più ma ti dirò: “Ma urge piuttosto…” [I,17,6] Per questo, credo, i filosofi preordinano la logica; appunto come preordiniamo alla misurazione del grano l’esame dell’unità di misura. [I,17,7] Se non discerneremo innanzitutto cos’è moggio né discerneremo innanzitutto cos’è bilancia, come potremo ancora misurare o pesare qualcosa? [I,17,8] Qui dunque potremo mai precisare e decifrare qualcuna delle altre cose senza avere decifrato né precisato quanto è criterio delle altre ed attraverso cui le altre si decifrano? E com’è possibile? [I,17,9] “Sì, ma il moggio è di legno ed è infruttuoso”. [I,17,10] Ma atto a misurare grano. “Anche la logica è infruttuosa”. Su questo vedremo. Se dunque uno pur concedesse questo, bastevole è il fatto che la logica è atta a distinguere e ad esaminare le altre cose e, come uno direbbe, a misurarle e pesarle. [I,17,11] Chi dice questo? Solamente Crisippo, Zenone e Cleante? [I,17,12] Antistene non lo dice? Chi ha scritto che “Inizio dell’educazione è l’esame dei nomi”? Socrate non lo dice? E di chi Senofonte scrive che iniziava dall’esame dei nomi, da cosa significa ciascuno?

Capire il piano della natura e dire grazie a chi ci aiuta a capirlo (13-19)

[I,17,13] E’ dunque questo il grande e stupefacente: capire Crisippo o commentarlo? E chi lo dice? [I,17,14] Cos’è dunque lo stupefacente? Capire il piano della natura. E dunque? Lo comprendi da te stesso? E di chi hai ancora bisogno? Giacché se è vero che tutti aberrano loro malgrado e tu hai decifrato la Verità, è necessario che tu già abbia successo. [I,17,15] Ma, per Zeus, non comprendo il piano della natura. Chi dunque me lo spiega? Dicono che è Crisippo. [I,17,16] Vengo e ricerco cosa dice questo interprete della natura. Inizio a non capire cosa dice e cerco il commentatore. “Ecco, esamina… Com’è detto bene questo, appunto come in latino!” [I,17,17] Qua, dunque, quale giustificazione ha il cipiglio del commentatore? Neppure giustamente di Crisippo stesso, se soltanto spiega il piano della natura e lui non lo segue. Quanto più ciò vale per il suo commentatore? [I,17,18] Giacché non abbiamo bisogno di Crisippo per Crisippo, ma per comprendere la natura. né abbiamo bisogno del sacrificatore per il sacrificatore, ma perché attraverso quello crediamo di capire l’avvenire e quanto è significato dagli Dei. [I,17,19] né abbiamo bisogno delle viscere per le viscere, ma perché attraverso quelle è significato qualcosa. né ammiriamo il corvo o la cornacchia, ma Zeus che significa attraverso queste creature. 

Ecco il piano della natura, ecco quanto è scritto nel DNA umano (20-29)

[I,17,20] Vengo quindi da questo interprete e sacrificatore e dico: “Esaminami le viscere, cosa mi significano”. [I,17,21] Lui le prende, le sbroglia, poi spiega: “Uomo, tu hai una proairesi per natura non soggetta a impedimenti e non soggetta a costrizioni. Qui, nelle viscere, questo è stato scritto. [I,17,22] Te lo mostrerò innanzitutto nell’ambito dell’assenso. Può forse qualcuno impedirti di annuire al vero? Neppur uno. Può forse qualcuno costringerti ad accettare il falso? Neppur uno. [I,17,23] Vedi che in questo àmbito ciò che è proairetico l’hai non soggetto a impedimenti, non soggetto a costrizioni, disimpacciato? [I,17,24] Orsù, è diverso nell’ambito del desiderio e dell’impulso? Chi può vincere un impulso se non un altro impulso? Chi un desiderio ed un’avversione se non un altro desiderio ed un’altra avversione?” [I,17,25] “Se,” qualcuno dice, “uno mi appresserà la paura della morte, mi costringe”. “Non è quanto viene appressato a costringerti, ma è che reputi meglio fare una di queste cose che morire. [I,17,26] Di nuovo dunque il tuo giudizio ti costrinse; ossia proairesi costrinse proairesi. [I,17,27] Se infatti la parte peculiare che Zeus ci diede spiccandosela, egli avesse strutturato soggetta a impedimenti o costrizioni sue o di qualcun altro, non sarebbe più Materia Immortale né sarebbe sollecita di noi nel modo dovuto. [I,17,28] Questo trovo” dice, “nelle vittime sacrificali. Questo ti significano. Se lo disporrai sei libero. Se lo disporrai non biasimerai nessuno, non incolperai nessuno, tutto sarà secondo l’intelligenza insieme tua e quella di Zeus”. [I,17,29] Per questo dono divinatorio vengo da questo sacrificatore e filosofo, non ammirando lui per la spiegazione ma quello che spiega.

CAPITOLO 18

Esasperarsi

CHE  NON  BISOGNA  ESASPERARSI  CON  CHI  ABERRA

I nostri assensi e dissensi, la concezione dei nostri desideri e dei nostri impulsi sono atti dell’intelletto, opere della proairesi (1-2)

[I,18,1] Se è vero quel che dicono i filosofi, che per tutti gli esseri umani unico è il fondamento: come appunto dell’assentire lo sperimentare che una cosa c’è; del dissentire, lo sperimentare che non c’è e, per Zeus, del sospendere il giudizio lo sperimentare ch’è dubbia; [I,18,2] così pure dell’impellere a qualcosa lo sperimentare che mi è utile; e che è inconcepibile giudicare una cosa utile e desiderarne un’altra, di giudicare una cosa doverosa ed impellere ad un’altra: perché ci esasperiamo ancora con i più?

L’errore morale è la conseguenza di un giudizio errato su quanto è esclusivamente mio e quanto non lo è (3-4)

[I,18,3] -Sono ladri, dice, e rubavestiti- Cos’è il ladri e rubavestiti? Hanno errato su beni e su mali. [I,18,4] Bisogna dunque esasperarsi con loro o commiserarli? Mostra l’errore e vedrai come si distornano dalle aberrazioni! Se però non lo scorgeranno, nulla hanno di superiore a quanto reputano.

Chi erra sui beni e sui mali ha già subito la più dannosa delle perdite (5-8)

[I,18,5] -Non bisognerebbe dunque che questo rapinatore e questo adultero fossero soppressi?- [I,18,6] Assolutamente no, ma dovresti piuttosto dire: “Non sopprimere costui, il quale ha errato e si è ingannato sulle questioni più grandi, che è cieco non quanto alla vista atta a distinguere il bianco ed il nero ma quanto all’intelligenza atta a distinguere i beni ed i mali?” [I,18,7] E se dirai così, riconoscerai com’è disumano quanto dici e che è simile a: “Dunque non sopprimere questo cieco e sordo?” [I,18,8] Giacché se il più grande danno è la perdita delle cose più grandi, ed in ciascuno la cosa più grande è la proairesi quale dev’essere e di questo uno si defrauda, perché ti esasperi ancora con lui? 

La commiserazione è contro la natura delle cose tanto quanto l’odio (9-11)

[I,18,9] O uomo, se devi disporti contro la natura delle cose circa i mali allotrii, commiseralo piuttosto che odiarlo. Lascia questa facoltà atta ad offendersi e ad odiare; [I,18,10] non portarti dentro le voci che si portano dentro i più dei denigrazionofili “…dunque questi maledetti ed abominevoli stupidi…” [I,18,11] Sia: come mai tu improvvisamente insapientisti sì da esasperarti con altri stupidi? Perché dunque ci esasperiamo? Perché siamo infatuati dei materiali che ci vengono sottratti. Peraltro non infatuarti delle tue toghe e non ti esasperi con il ladro; non infatuarti della avvenenza della moglie e non ti esasperi con l’adultero.

Chi non è giusto ma si esaspera ed è crudele con ladri, adulteri, politicanti ed altra siffatta gente in miseria di diairesi, mostra di traboccare al loro stesso modo di controdiairesi (12-14)

[I,18,12] Riconosci che”ladro” ed “adultero” non hanno posto tra le cose tue ma tra quelle allotrie e non in tuo esclusivo potere. Se le tralascerai e le riterrai da nulla, con chi ancora ti esasperi? Ma finché di questo ti infatuerai, esasperati con te stesso piuttosto che con quelli. [I,18,13] Infatti considera: tu hai magnifiche toghe, il tuo vicino non ne ha. Tu hai una finestra e vuoi asciugarle all’aperto. Quello non sa cos’è il bene dell’uomo ed immagina che sia avere magnifiche toghe, quello che immagini anche tu. [I,18,14] E poi che non venga e le rimuova? Tu mostrando una focaccia a dei ghiottoni ed ingoiandola da solo, non vuoi che la ghermiscano? Non stuzzicarli, non avere una finestra, non asciugare all’aperto le tue toghe.

La lucerna di ferro di Epitteto (15-16)

[I,18,15] Io tengo una lucerna di ferro accanto ai Lari e l’altro giorno, sentito un rumore della finestra, accorsi. Trovai ghermita via la lucerna. Calcolai che chi l’aveva rimossa aveva sperimentato qualcosa di non dissuasivo. E dunque? [I,18,16] Domani, dico, ne troverai una di terracotta. Giacché si perde quanto si ha. “Persi la mia toga”. Giacché avevi una toga. “Ho mal di testa”. Hai forse mal di corna? Perché dunque fremi? Perdite e dolori sono, infatti, di quanto è anche patrimonio.

“Riconosci te stesso” e ricorda: com’è vero che dolore e piacere fisico non sono giudizi, così è vero che la tua proairesi sempre avrà un giudizio su ciascun particolare piacere e dolore. E questo giudizio, non il dolore ed il piacere, è in tuo esclusivo potere (17-20)

[I,18,17]-”Ma il tiranno incatenerà”- Cosa? La gamba. -”Ma staccherà”- Cosa? Il collo. Cosa non incatenerà e non staccherà? La proairesi. Per questo gli antichi prescrivevano il “Riconosci te stesso”. [I,18,18] E dunque? Bisognerebbe, per gli dei, studiare sui piccoli fatti e iniziando da quelli traversare ai più grandi. [I,18,19] “Ho mal di testa”. Non dire: “Ohimè!” “Ho mal d’orecchi”. Non dire: “Ohimè!”. E non dico che non è stato dato di sospirare, ma non sospirare dal di dentro. Se il ragazzo sarà lento a portare la fascia non gracchiare, non ambasciarti, non dire: “Tutti mi odiano!” Giacché chi non odierà una persona siffatta? [I,18,20] Orbene confidando in questi giudizi cammina ritto, libero, non confidando nella stazza del corpo, come un atleta: giacché non devi essere invitto come un asino.

Chi è invitto? (21-23)

[I,18,21] Chi è dunque l’invitto? Chi nulla di aproairetico frastorna. E poi venendo a ciascuna circostanza, orbene la decifro come per un atleta. “Costui la spuntò di forza sul primo avversario assegnatogli dalla sorte. [I,18,22] E sul secondo? E se ci sarà calura? E ad Olimpia?” Anche qui allo stesso modo. Se gli metterai davanti un po’ di denaro, lo spregerà. E se una pupattola? E che sarà al buio? E se un po’ di reputazione? E se un’ingiuria? E se una lode? E se la morte? [I,18,23] Può vincere tutto ciò. [Se ci sarà calura significa: se sarà brillo, malinconico, nel sonno.] Questo è per me l’atleta invincibile.

CAPITOLO 19

Lenin giù

COME  BISOGNA  ATTEGGIARSI  VERSO  I  TIRANNI ?

Il tiranno, gonfio di controdiairesi e di boria, crede di avere il potere di dare e di togliere chissà che e di essere corteggiato per questo (1- 6)

[I,19,1] Il fatto è che se a qualcuno sarà congiunta o sembrerà essere congiunta, pur congiunta non essendo, una qualche superiorità, è del tutto necessario che costui, se non sarà educato a diairesizzare, sia borioso per causa sua. [I,19,2] Subito il tiranno dice: “Io sono il più possente di tutti”. E cosa puoi procurarmi? Puoi procacciarmi un desiderio non soggetto a impedimenti? E donde ti viene? Giacché tu l’hai? Una avversione che non incappa in quanto avversa? Tu l’hai? [I,19,3] Un impulso al riparo da aberrazioni? E dove ne hai parte? Orsù, su una nave hai fiducia in te od in chi sa? [I,19,4] E su di un carro, in chi se non in chi sa? E nelle altre arti? Allo stesso modo. Che puoi dunque? “Tutti mi accudiscono!” Giacché io pure accudisco il piattino, lo lavo, lo astergo e figgo un piolo per la fiaschetta. E dunque? Sono questi oggetti migliori di me? No, ma mi procurano un’utilità. Per questo li accudisco. E che? Non accudisco l’asino? [I,19,5] Non netto le sue zampe? Non lo striglio? Non sai che ogni uomo accudisce se stesso, e te come l’asino? Dacché chi ti accudisce come uomo? Mostra. [I,19,6] Chi vuole diventare simile a te, chi diventa tuo emulo come di Socrate? “Ma posso farti troncare il collo”. Dici bene. Avevo scordato che bisogna accudirti come febbre e colera ed ergere un altare, come a Roma c’è un altare della Febbre.

I tiranni, grandi e piccoli, sono atterriti da una cosa sola: i giudizi dell’uomo libero (7-10)

[I,19,7] Cos’è dunque a sconcertare ed atterrire i più? Il tiranno e le guardie del corpo? Donde? Non sia mai! Non è fattibile che quanto per natura è libero, sia sconcertato od impedito da qualcos’altro eccetto che da se stesso. [I,19,8] Sono invece i giudizi a sconcertarlo. Giacché qualora il tiranno dica a qualcuno “Ti farò incatenare la gamba”, chi ha avuto in onore la gamba dice “No, misericordia”; chi invece ha avuto in onore la propria proairesi dice “Se ti pare più vantaggioso, incatenala”. “Non ti impensierisci?” “Non m’impensierisco”. [I,19,9] “Io ti mostrerò che sono Signore”. “Donde tu? Me Zeus lasciò libero. O reputi che era per permettere che il proprio figlio fosse asservito? Del mio cadavere, invece, sei signore: prendilo”. [I,19,10] “Sicché qualora ti avvicini a me, non accudisci me?” “No, ma me stesso. Se poi vuoi che dica pure te, ti dico come la pentola”.

Chi si appropria di colui che l’uomo davvero è per natura, ha fatto anche l’azione più socialmente utile che si possa fare: e questo è la politica (11-15)

[I,19,11] Questo non è egoismo. Giacché così è la creatura: tutto fa per se stessa. Giacché anche il sole tutto fa per se stesso e, orbene, Zeus stesso fa così. [I,19,12] Qualora disponga di essere Pluvio, Frugifero, Padre di uomini e dei, vedi che non può centrare queste opere ed appellativi se non sarà anche di giovamento comune. [I,19,13] In generale, la Materia Immortale siffatta strutturò la natura della creatura logica in modo che non potesse centrare alcuno dei propri beni senza fornire un qualche comune giovamento. [I,19,14] Così il fare tutto per se stessi diventa non più asociale. [I,19,15] Peraltro che ti aspetti? Che uno si distorni da se stesso e dal proprio peculiare utile? E l’appropriarsi di quanto si è, come sarà ancora unico e medesimo fondamento per tutti?

I comuni e preponderanti giudizi controdiairetici di cui è obesa la loro proairesi costringono per forza di cose le masse di tiranni piccoli e grandi, a stabilire una catena magica di merda con la quale tra di loro si riconoscono e si pascono reciprocamente (16-18)

[I,19,16] E dunque? Qualora vi siano sotto giudizi d’altra specie su ciò che è aproairetico come bene e male, è del tutto necessario accudire i tiranni. [I,19,17] E magari soltanto i tiranni e non i camerieri. Come una persona diventa repentinamente pure saggia qualora Cesare la faccia capo del suo cesso! Come subito diciamo: “Felicione mi ha parlato con saggezza!” [I,19,18] Io disporrei che fosse buttato fuori dal merdaio, affinché di nuovo lo reputassi stolto.

La irresistibile carriera dello schiavo Felicione, calzolaio di Epafrodito (19-23)

[I,19,19] Epafrodito aveva un certo calzolaio, che vendette perché era improficuo. Quello poi, per un caso fortuito, fu comprato al mercato da un tale della cerchia di Cesare e divenne calzolaio di Cesare. Avessi visto come Epafrodito lo onorava: [I,19,20] “Prego, cosa effettua il buon Felicione?” [I,19,21] E poi se uno di noi cercava di sapere: “Che fa lui?”, veniva detto che: “Si consiglia con Felicione su qualcosa”. [I,19,22] Ma non lo aveva smerciato come improficuo? [I,19,23] Chi dunque lo fece improvvisamente saggio? Questo è avere in onore qualcos’altro che quanto è proairetico.

Quella di un tribuno della plebe (24-25)

[I,19,24] “E’ stato degnato di un tribunato!” Tutti quelli che gli vanno incontro si congratulano: uno gli bacia gli occhi, un altro il collo, i servi le mani. Viene a casa, trova lucerne accese. [I,19,25] Sale su al Campidoglio, offre un sacrificio. Chi dunque mai sacrificò per aver desiderato da virtuoso, per avere impulso secondo la natura delle cose? Giacché dove poniamo il bene, là pure ringraziamo gli dei. 

Un Nicopolitano alle soglie del sacerdozio di Augusto (26-29)

[I,19,26] Oggi un tale mi parlava a proposito di una carica nel collegio sacerdotale di Augusto. Gli dico: “O uomo, lascia la faccenda; dilapiderai molto per nulla”. [I,19,27] -”Ma quelli che scrivono i contratti,” dice, “scriveranno il mio nome!”- “Dunque tu presenziando a chi legge i contratti, dici: hanno scritto me! [I,19,28] E se pure ora puoi presenziare a tutti, se morirai che farai? -”Rimarrà il mio nome”- “Scrivilo su un sasso e rimarrà. Orsù, fuori di Nicopoli che ricordo sopravviverà di te?” [I,19,29] -”Ma porterò una corona d’oro!”- “Se una volta smani per una corona, prendine una di rose e cingitene: apparirai più elegante”.

CAPITOLO 20

Auto-conoscibilità di noi stessi

SU COME LA RAGIONE È CONOSCITIVA DEI PRINCIPI GENERALI DI SE STESSA

Soltanto la ragione è autoteoretica. Udetero è ciò che è né bene né male. (1-6)

[I,20,1] Ogni arte e facoltà è conoscitiva dei principi generali di certi oggetti cardinali. [I,20,2] Qualora dunque anch’essa sia conforme agli oggetti conosciuti, necessariamente diventa conoscitiva dei principi generali di se stessa. Qualora invece ne sia difforme, non può essere conoscitiva di se stessa. [I,20,3] Per esempio, l’arte della calzoleria si rivolge a pelli, ma essa è definitivamente lontana dal materiale ‘pelli’: per questo è non conoscitiva dei principi generali di se stessa. [I,20,4] La grammatica, di nuovo, si rivolge alla voce scritta. Ma è forse anch’essa ‘voce scritta’? Nient’affatto! Per questo non può essere conoscitiva di se stessa. [I,20,5] Dunque la ragione per che cosa mai è stata assunta dalla natura? Per l’uso quale si deve delle rappresentazioni. Ed essa cos’è? Un insieme di rappresentazioni d’un certo modo: così diventa per natura anche conoscitiva dei principi generali di se stessa. [I,20,6] Di nuovo, la saggezza ci è pervenuta per essere conoscitiva di cosa? Beni, mali ed udeteri. Ed essa cos’è? Un bene. La stoltezza cos’è? Un male. Vedi dunque che necessariamente essa diventa conoscitiva dei principi generali e di se stessa e dell’opposto?

Necessità di valutare e distinguere le rappresentazioni più accuratamente delle monete (7-11)

[I,20,7] Per questo, la più grande e prima opera del filosofo è valutare le rappresentazioni, distinguerle e non fornirne alcuna senza valutazione. [I,20,8] Vedete sulla moneta, dove reputiamo esservi qualcosa per noi, come abbiamo inventato anche un’arte; e quanti mezzi sfrutta il saggiatore per la valutazione della moneta: la vista, il tatto, il fiuto e per ultimo l’udito. [I,20,9] Scagliato il denario, fa attenzione al rumore e non si accontenta di farlo risuonare una volta ma, per la molta attenzione, diventa musicista. [I,20,10] Così dove crediamo che errare differisca dal non errare, qui portiamo dentro molta attenzione a distinguere quanto può trarci ad errare; [I,20,11] mentre sul nostro disgraziato egemonico dormiamo a bocca aperta, accettando scriteriatamente ogni rappresentazione: la punizione, infatti, non c’incoglie!

“Sostanza del bene è l’uso quale si deve delle rappresentazioni”: facile a dirsi, meno facile a comprendersi ed a praticarsi (12-19) [I,20,12] Qualora dunque tu disponga di riconoscere come sei sciatto circa beni e mali e diligente invece circa gli indifferenti; rifletti sul come ti atteggi di fronte all’essere accecato e come di fronte all’essere ingannato. Riconoscerai che sei lungi dall’avere sperimentato quel che si deve circa beni e mali. [I,20,13] “Ma ciò ha bisogno di molta preparazione, molta fatica e molte nozioni”. E dunque? Speri possibile apprendere la più grande arte in poco tempo? [I,20,14] Eppure la dottrina cardinale dei filosofi è anche troppo corta. Per riconoscerlo leggi Zenone e vedrai. [I,20,15] Cos’ha di lungo il dire: “Sommo bene è accompagnarsi agli dei; sostanza del bene è l’uso quale si deve delle rappresentazioni”? [I,20,16] Dimmi: “Cos’è dunque dio e cos’è rappresentazione? E cos’è natura del particolare e cos’è natura dell’intero?” [I,20,17] Già diventa una cosa lunga. Se verrà Epicuro a dire che il bene deve essere nella carne, di nuovo diventa lungo ed è necessario sentir dire cos’è in relazione a noi il cardinale, cos’è il basilare e sostanziale. Che il bene della chiocciola stia nel guscio non è verosimile, dunque è verosimile per quello dell’uomo? [I,20,18] Proprio tu cos’hai di più dominante, Epicuro? Cos’è in te che prende consiglio, esamina ciascun fatto, decreta circa la carne stessa che è cardinale? [I,20,19] E perché accendi una lucerna e fatichi per noi e scrivi libri tanto rilevanti? Affinché noi non si ignori la verità? Noi chi? Cosa siamo per te? Così il discorso diventa lungo.

CAPITOLO 21

Ammirato da chi?

A QUANTI VOGLIONO ESSERE AMMIRATI

Sull’essere ammirato da chi? (1-4)

[I,21,1] Qualora uno abbia nella vita la stazione che si deve, non sta a bocca aperta per le cose di fuori. [I,21,2] O uomo, cosa vuoi che ti accada? Io mi accontento se desidererò ed avverserò secondo la natura delle cose; se userò impulso e repulsione come sono nato per fare; e poi proposito, progetto, assenso. Perché dunque ci cammini davanti come se avessi ingoiato uno spiedo? [I,21,3] “Vorrei che quanti mi vengono incontro ammirassero e seguendomi strepitassero: Oh, che grande filosofo!” [I,21,4] Chi sono costoro dai quali vuoi essere ammirato? Non sono coloro dei quali sei solito dire che sono pazzi? E dunque? Vuoi essere ammirato dai pazzi?

CAPITOLO 22

Atena trattiene Achille dall’applicazione di un pre-concetto

SUI PRE-CONCETTI

Tutti abbiamo identici pre-concetti di bene e male. I contrasti nascono al momento della loro applicazione ai casi particolari (1-4)

[I,22,1] Pre-concetti sono comuni a tutti gli uomini, e pre-concetto non contraddice pre-concetto. Giacché chi di noi non pone che il bene è utile e da scegliersi e che si deve andarne in cerca ed inseguirlo in ogni circostanza? Chi di noi non pone che il giusto è bello e confacente? Quando nasce dunque la contrapposizione? [I,22,2] Circa l’adattamento dei pre-concetti alle particolari sostanze, [I,22,3] qualora uno dica: “Fece bene, è uno virile”, ed un altro: “No, è un demente”. Di qua nasce la contrapposizione degli individui gli uni gli altri. [I,22,4] Questa è la contrapposizione di Giudei, Siri, Egizi e Romani; non sul fatto che quanto è sacrosanto sia da anteporre a tutto e da perseguire in ogni circostanza, ma se sia sacrosanto o sacrilego mangiare del maiale. 

L’esempio del contrasto tra Agamennone ed Achille (5-8)

[I,22,5] Troverete questa contrapposizione anche tra Agamennone ed Achille. Chiamali qui in mezzo. Che dici tu, Agamennone? Non deve accadere quel che deve e sta bene? “Deve certo”. [I,22,6] E tu che dici, Achille? Non gradisci che accada quel che sta bene? “Io, certo, lo gradisco più di tutti”. Adattate dunque i pre-concetti. [I,22,7] Di qui l’inizio della contrapposizione. Uno dice: “Non è d’uopo che io restituisca Criseide al padre”. L’altro dice: “Si deve certo restituirla”. Uno dei due adatta affatto male il pre-concetto di “si deve”. [I,22,8] Di nuovo uno dice: “Pertanto, se io devo restituire Criseide, devo prendere il bottino di qualcuno di voi”. E l’altro: “Prendere la mia innamorata?” “La tua”, dice. “Dunque io solo…?” “Ed io solo che non abbia…?” Così nasce la contrapposizione.

Se i pre-concetti di bene e male sono naturali ed identici per tutti gli individui, la loro applicazione è però culturale e, più precisamente, legata all’uso della diairesi e della controdiairesi (9-16)

[I,22,9] Cos’è dunque educarsi a diairesizzare? Imparare ad adattare i naturali pre-concetti alle particolari sostanze in modo consono alla natura delle cose e, orbene, a discriminare [I,22,10] che, delle cose, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. Sono in nostro esclusivo potere la proairesi e tutte le opere della proairesi; non sono in nostro esclusivo potere il corpo, le parti del corpo, patrimoni, genitori, fratelli, figlioli, patria, insomma i soci. [I,22,11] Dove porremo dunque il bene? A quale sostanza lo adatteremo? A quella in nostro esclusivo potere? [I,22,12] -E poi non sono beni salute del corpo, integrità fisica, vita e neppure figlioli, genitori, patria?- E chi ti tollererà? [I,22,13] Alloghiamolo dunque di nuovo qua. E’ fattibile che sia felice chi subisce danno e fallisce il bene? -Non è fattibile- E che serbi verso i soci la condotta che si deve? E com’è fattibile? Giacché io sono nato per il mio utile. [I,22,14] Se mi è utile avere un fondo, mi è utile anche sottrarre quello di chi mi è dintorno; se mi è utile avere una toga, mi è utile anche rubarla alle terme. Di qua guerre, conflitti civili, tirannie, insidie. [I,22,15] E come potrò ancora esplicare quel che è doveroso esplicare verso Zeus? Giacché se sono danneggiato e sono sfortunato, egli non si impensierisce di me. E: “Cosa c’è tra me e lui, se non può aiutarmi?” E di nuovo: “Cosa c’è tra me e lui, se vuole che mi trovi nei mali in cui sono?” Orbene inizio ad odiarlo. [I,22,16] Perché dunque facciamo templi, perché facciamo simulacri a Zeus come a cattivi geni, come alla Febbre? E come può ancora essere Salvatore, Pluvio, Frugifero? Eppure se porremo in qualche modo qui la sostanza del bene, tutto questo consegue.

L’incapacità di usare la diairesi è una incapacità di massa e le masse ti deridono. Benissimo. E con ciò? E allora? (17-21)

[I,22,17] Che dunque faremo? Questa è ricerca degna di chi fa effettivamente filosofia ed è in travaglio di pensiero. Adesso vedo cos’è il bene e cos’è il male. Non sono pazzo. [I,22,18] Sì, ma se porrò il bene in qualche modo qui, in ciò che è proairetico, tutti mi derideranno. Giungerà un vecchio canuto con molti anelli d’oro il quale, dopo aver scosso la testa, dirà: “Ascoltami, figliolo: si deve anche fare filosofia, ma si deve anche avere cervello: queste sono stupidaggini. [I,22,19] Tu dai filosofi impari il sillogismo, ma cosa tu debba fare, lo sai meglio tu dei filosofi”. [I,22,20] O uomo, perché dunque mi rimproveri se lo so? Che dire a questo schiavo? [I,22,21] Se tacerò, quello bercia. Sicché si deve dire: “Perdona me come perdoni gli innamorati: non sono padrone di me, sono pazzo.”

CAPITOLO 23

Epicuro dipinto da Raffaello

AD EPICURO

Scosso dal modo in cui vede gli esseri umani allevare i figli e fare politicheria, Epicuro sembra decretare che gli uomini non avranno figli e non faranno politica (1-10)

[I,23,1] Anche Epicuro divisa che noi siamo per natura socievoli, ma una volta posto il nostro bene nel guscio non può più dire altro. [I,23,2] Giacché poi tiene assai fermo il principio che non si deve ammirare né approvare nulla di spiccato dalla sostanza del bene. E fa bene a tenerlo ben fermo. [I,23,3] Come possiamo dunque ancora essere socievoli se non abbiamo naturale affettuosità per la prole? Perché sconsigli al sapiente di allevare figlioli? [I,23,4] Perché hai paura che si imbatta in afflizioni per causa loro? Giacché a causa di Topolino, quello nutrito dentro casa tua, ti ci imbatti tu? Che dunque importa al sapiente se dentro casa un piccolo topolino gli singhiozzerà davanti disperato? [I,23,5] Invece egli sa che, una volta nato un bimbo, non è più in nostro esclusivo potere non avere per lui affetto e non preoccuparcene. [I,23,6] Per questo Epicuro dice che chi ha accortezza non si interesserà di affari cittadini: giacché sa cosa deve fare chi si interessa di affari cittadini. Peraltro se tu sei per condurti come tra mosche, cosa lo impedisce? [I,23,7] E sapendo questo, ha ugualmente l’audacia di dire: “Non tiriamo su figlioli”. Ma una pecora non abbandona la sua prole, né l’abbandona un lupo; e l’uomo invece l’abbandona? Che vuoi? [I,23,8] Che noi siamo stupidi come le pecore? Ma neppure quelle abbandonano la prole. Che siamo belluini come i lupi? [I,23,9] Ma neppure quelli l’abbandonano. Orsù, chi ti ubbidisce quando vede il suo bimbo cascato a terra che singhiozza? [I,23,10] Io credo che tua madre e tuo padre, anche se avessero divinato che eri per dire questo, non ti avrebbero esposto.

CAPITOLO 24

Giocare a scacchi con la morte

COME BISOGNA GAREGGIARE CON LE CIRCOSTANZE DIFFICILI?

Non illudiamoci di essere diversi da quello che siamo (1-2)

[I,24,1] Sono le circostanze difficili a mostrare gli uomini. Orbene, qualora ti imbatta in una circostanza difficile ricorda che Zeus, come un maestro di ginnastica, ti ha messo alle prese con un rude giovanotto. [I,24,2] -Per cosa? dice- Affinché diventi un vincitore di Olimpia: e senza sudore questo non accade. Reputo che nessuno abbia avuto una circostanza difficile migliore di quella che hai avuto tu, se disporrai di usarla come un atleta usa quel giovanotto.

Chi manderemo nel mondo come esploratore? Un vile? (3-5)

[I,24,3] Ed ora noi mandiamo esploratore a Roma proprio te. Nessuno manda come esploratore un vile perché, se solo sentirà un rumore e vedrà un’ombra da qualche parte, venga di corsa sconcertato a dire che i nemici sono già presenti. [I,24,4] Così ora anche tu, se verrai a dirci: “Paurose sono le faccende a Roma: terribile è la morte, terribile è l’esilio, terribile l’ingiuria, terribile la povertà di denaro: [I,24,5] fuggite uomini, i nemici sono presenti”; ti diremo: “Parti, divina per te stesso. Noi aberrammo solo in questo: nel mandare un esploratore siffatto”.

Un retto esploratore: Diogene (6-10)

[I,24,6] Diogene inviato esploratore prima di te, ci ha annunciato altro. Egli dice che la morte non è un male, giacché neppure è vergogna; dice che il discredito è rumore di individui pazzi. [I,24,7] E su dolore, su piacere fisico, su povertà di denaro quali parole ha detto questo esploratore! Dice che la nudità è migliore d’ogni toga porporata. Dormire sulla nuda terra, dice che è il più morbido dei giacigli. [I,24,8] E ne porta a dimostrazione il suo coraggio, l’assenza di sconcerto, la libertà e poi il corpo splendente e stringato. [I,24,9] “Nessun nemico,” dice, “è vicino; tutto trabocca pace”. Come, Diogene? “Ecco,” dice, “sono forse stato trafitto, forse ferito, ho forse fuggito qualcuno?” [I,24,10] Questo è un esploratore quale si deve! Tu invece vieni a dirci cose una diversa dall’altra. Non partirai di nuovo, per vedere con più precisione e prescindendo dalla viltà?

E’ così difficile riconoscere quanto è esclusivamente nostro e non pretendere altro? (11-15)

[I,24,11] Che fare dunque? Cosa fai qualora sbarchi da un bastimento? Rimuovi forse il timone, forse i remi? Che cosa, dunque, rimuovi? Le cose tue: la fiaschetta, la bisaccia. Anche adesso, se sarai memore di quanto è tuo, non pretenderai mai quanto è allotrio. [I,24,12] Qualcuno ti dice “Deponi il laticlavio”: ecco l’angusticlavio. “Deponi anche questo”: ecco solo la toga. “Deponi la toga”: eccomi nudo. [I,24,13] “Ma mi muovi invidia”. Prendi quindi l’intero corpo. Ho ancora paura di colui contro il quale posso scagliare il corpo? [I,24,14] Ma non mi lascerà erede. E dunque? Dimenticai che niente di questo è mio? Come, dunque, diciamo nostre queste cose? Come il graticcio nell’albergo se l’albergatore, morendo, ti lascerà i graticci. Ma se li lascerà ad un altro, li avrà quello e tu cercherai un altro giaciglio. [I,24,15] E se non lo troverai, ti coricherai per terra. Soltanto, fallo con fiducia, russando, e memore che le tragedie hanno luogo tra i ricchi di denaro, i re, i tiranni, mentre nessun povero di denaro completa una tragedia se non come coreuta.

Riconoscere quanto è esclusivamente nostro e non pretendere altro è strutturalmente impossibile per coloro che si fanno guidare dalla controdiairesi (16-20)

[I,24,16] I re iniziano dall’agiatezza: “Inghirlandate i palazzi”; e poi al terzo o quarto atto: “Ah, Citerone, perché m’accoglievi?”. [I,24,17] Schiavo! dove sono le corone, dov’è il diadema? [I,24,18] Non ti giovano a nulla le guardie del corpo? Qualora dunque ti avvicini ad uno di quelli, ricordati di questi; ricorda che vieni innanzi ad un personaggio tragico, non all’attore ma ad Edipo in persona. [I,24,19] “Beato il tale, giacché passeggia con molti!” Anch’io mi inquadro con i più e passeggio con molti! [I,24,20] Punto capitale: ricordati che la porta è aperta. Non essere più vile dei bimbi ma come quelli, qualora non gradiscano la faccenda dicono: “Non giocherò più”; anche tu, qualora siffatte ti paiano certe cose, dicendo: “Non giocherò più”, allontanati. Se però rimani, non lamentarti.

CAPITOLO 25

Ulisse e le sirene

SULLO STESSO TEMA

Non dire di non sapere cos’è esclusivamente tuo: la lealtà, l’onestà intellettuale, chi può rubartele? Quando dunque ti dai da fare attorno a quanto è non esclusivamente tuo come se invece lo fosse, ecco che perdi te stesso (1-6)

[I,25,1] Se questo è vero e noi non battiamo la fiacca né recitiamo quando diciamo che il bene ed il male dell’uomo stanno nella proairesi mentre tutto il resto è nulla in relazione a noi; perché siamo ancora sconcertati, perché abbiamo ancora paura? [I,25,2] Su quanto ci industriamo nessuno ha potestà; di ciò su cui gli altri hanno potestà, di questo non ci impensieriamo. Che fastidi abbiamo ancora? [I,25,3] -Ma dammi istruzioni!- Che istruzioni ti devo dare? Zeus non te le ha date? Non ti ha dato quanto è tuo non soggetto a impedimenti e disimpacciato e le cose non tue, invece, soggette a impedimenti ed impacciate? [I,25,4] Con quale istruzione, con quale costituzione sei dunque venuto di là? Serba quanto è tuo in ogni modo, non prendere di mira quanto è allotrio. La lealtà è tua, il rispetto di sé e degli altri è tuo: chi può sottrarti ciò? Chi altro impedirà di usarli se non tu? E tu come lo impedisci? Qualora ti industrii per quanto è non tuo, tu perdi quanto è tuo. [I,25,5] Avendo siffatti suggerimenti ed istruzioni da parte di Zeus, quali vuoi ancora da me? Sono io migliore di lui, più degno di fede? [I,25,6] Serbando queste, abbisogni di qualche altra? Non ha dato lui queste istruzioni? Porta i pre-concetti, porta le dimostrazioni dei filosofi, porta ciò che spesso sentisti dire, porta ciò che dicesti tu stesso, porta ciò che leggesti, porta ciò che studiasti.

Ma puoi, devi ed è inevitabile che tu abbia a che fare con quanto tuo non è. E finché si è attenti a non confondere i due piani ossia finché il gioco è ben giocato, che motivo hai di non giocare più? (7-13)

[I,25,7] Fino a che punto dunque sta beneserbare ciò e non sciogliere il gioco? [I,25,8] Finché uno se la tragitterà graziosamente. Alle feste di Saturno è stato sorteggiato un re, giacché si reputò di giocare a questo gioco. Il re ingiunge: “Tu bevi, tu mesci, tu canta, tu parti, tu vieni”. Do retta, affinché il gioco non sia sciolto da parte mia. [I,25,9] “Ma tu concepisci di essere in cattive acque”. Non lo concepisco; e chi mi costringerà a concepirlo? [I,25,10] Di nuovo, ci adunammo per giocare ad Agamennone ed Achille. L’assegnato al ruolo di Agamennone mi dice: “Procedi da Achille e spiccagli Briseide”. [I,25,11] Procedo. “Vieni”. Vengo. Giacché come ci conduciamo con i ragionamenti ipotetici, così si deve fare anche nei riguardi della vita. “Sia notte”. Sia. “E dunque? E’ giorno?” [I,25,12] No, giacché presi l’ipotesi che fosse notte. “Sia che tu concepisca che è notte”. Sia. “Ma concepisci anche che è notte”. [I,25,13] Non consegue all’ipotesi. Così anche qui. “Sia che tu abbia cattiva fortuna”. Sia. “Dunque sei sfortunato?” Sì. “E dunque? Sei infelice?” Sì. “Ma concepisci anche di essere in cattive acque”. Non consegue all’ipotesi, ed un altro mi impedisce di farlo.

Il gioco è non più ben giocato quando non si rispettano più le regole ossia quando, per continuarlo, tu dovessi perdere quanto è tuo (14-25)

[I,25,14] Per quanto tempo bisogna dunque dare retta a cose siffatte? Finché sarà vantaggioso, ossia finché salvaguarderò il confacente ed il consono. [I,25,15] Orbene vi sono permalosi e deboli di stomaco che dicono “Io non posso pranzare da costui per tollerarlo esporre ogni giorno come fece guerra in Misia: ‘Ti   narrai, fratello, come salii sulla cresta…; ed inizio di nuovo ad essere assediato.’“ [I,25,16] Un altro dice “Io piuttosto voglio pranzare ed ascoltarlo ciarlare quanto vuole”. [I,25,17] Tu paragona queste stime: soltanto non fare nulla da individuo appesantito od oppresso, né concependo di essere in cattive acque, giacché a questo nessuno ti costringe. [I,25,18] Uno ha fatto fumo nella stanza? Se in quantità equilibrata, rimarrò; se troppo, esco. Giacché si deve ricordare e tenere ben fermo che la porta è aperta. [I,25,19] Ma: “Non abitare a Nicopoli”. Non ci abito. “Neppure ad Atene”. Non ad Atene. “Neppure a Roma”. Non a Roma. [I,25,20] “Abita a Giaro!” Ci abito. Ma abitare a Giaro mi appare come molto fumo. Mi ritiro laddove nessuno mi impedirà di abitare, [I,25,21] giacché quella dimora è aperta a tutti. Quanto all’ultima tunichetta, cioè il corpo, superiormente a questo nessuno ha potestà alcuna su di me. [I,25,22] Per questo Demetrio disse a Nerone: “Mi minacci morte, a te la minaccia la natura delle cose”. [I,25,23] Se m’infatuerò del corpo, ho trasmesso me stesso servo. Se delle coserelle, servo. [I,25,24] Giacché subito io manifesto contro me stesso con cosa sono catturabile. Come il serpente, se contrarrà la testa dico “Percuotigli quel che protegge”; anche tu riconosci che il signore ti pesterà quanto vorrai proteggere. [I,25,25] Memore di ciò, chi ancora adulerai o di chi avrai paura?

Sappi comunque che se perdi quanto è tuo, sono stati i tuoi giudizi e non gli altri o le circostanze a ridurti in quello stato. Ti sembra un paradosso? Se ci rifletti bene vedrai che non lo è (26-33)

[I,25,26] -Ma io voglio sedere dove siedono i senatori!- Vedi che sei tu stesso a procurarti angustie, che ti opprimi? [I,25,27] -E come altrimenti vedere bene gli spettacoli nell’anfiteatro?- O uomo, non vedere spettacoli e non sarai certo oppresso. Perché hai fastidi? Oppure aspetta un poco e, condotto a termine lo spettacolo, siediti nei posti dei senatori e prendi il sole. [I,25,28] In generale ricorda che siamo noi ad opprimere noi stessi, ad angustiare noi stessi, cioè che i nostri giudizi ci opprimono ed angustiano. [I,25,29] Dacché cos’è l’essere ingiuriato? Sta accanto ad un sasso e ingiurialo. E che farai? Se dunque uno starà ad ascoltare come un sasso, che pro per chi ingiuria? Ma se chi ingiuria avrà per passerella la debolezza dell’ingiuriato, allora conclude qualcosa. [I,25,30] “Svestilo!” Perché dici ‘lo’? “Prendi la toga, svesti!” [I,25,31] “Ti ho fatto oltraggio!” Ben ti sia! Questo Socrate studiava, per questo continuava ad avere sempre una sola personalità. Noi invece tutto vogliamo esercitare e studiare piuttosto che sforzarci per essere non soggetti ad impacci e liberi. [I,25,32] “I filosofi dicono paradossi”. E nelle altre arti non ci sono paradossi? Cosa c’è di più paradossale che pungere l’occhio di qualcuno affinché veda? Se uno avesse detto questo ad una persona inesperta di medicina, costui non deriderebbe chi lo dice? [I,25,33] Che c’è dunque di stupefacente se anche in filosofia molte verità appaiono paradossali agli inesperti?

CAPITOLO 26

La legge del vivere

QUALE LA LEGGE DEL VIVERE?

Alcuni giovani studiano veramente per imparare a vivere bene… (1-7)

[I,26,1] Mentre uno leggeva i sillogismi ipotetici, diceva Epitteto: e’ legge del sillogismo ipotetico anche questa: accettare quanto consegue all’ipotesi. E prioritariamente è legge del vivere questa: effettuare quanto consegue alla natura delle cose. [I,26,2] Giacché se su ogni materiale ed in ogni circostanza noi decidiamo di serbare quanto è secondo la natura delle cose, è manifesto che si deve avere come bersaglio il non rifuggire quanto consegue ed il non accettare quanto contraddice. [I,26,3] Dunque i filosofi ci allenano dapprima nella conoscenza dei principi generali, laddove ciò è più facile; e poi ci conducono ai casi più ardui. Giacché qui nulla vi è che trascini a non seguire quanto è insegnato, mentre nei casi della vita molti sono i motivi che ce ne distraggono. [I,26,4] Dunque è ridicolo chi dice di volere innanzitutto iniziare da questi, giacché non è facile iniziare dai casi più ardui. [I,26,5] Questa giustificazione bisognerebbe portare ai genitori che fremono perché i figlioli studiano filosofia: “Dunque aberro, padre, e non so quel che mi spetta e conviene. Ma se è né imparabile né insegnabile, perché mi incolpi? Se è insegnabile, insegnamelo; e se tu non puoi, lascia che io lo impari da coloro che dicono di sapere. [I,26,6] Peraltro, che reputi? Che disponendolo io incappo nel male e fallisco il bene? Non sia mai! Cos’è dunque causativo del mio aberrare? L’ignoranza. [I,26,7] Non vuoi che riponga l’ignoranza? A chi mai l’ira insegnò l’arte di pilotare o la musica? E reputi che imparerò l’arte di vivere grazie alla tua ira?”

…mentre ad altri la filosofia serve soltanto per fare bella figura nei salotti più o meno mondani (8-12)

[I,26,8] Solo chi ha portato qui con sé siffatto progetto ha la potestà di dire questo. [I,26,9] Se invece uno legge di filosofia e viene dai filosofi soltanto perché vuole sfoggiare in un convito di sapere i sillogismi ipotetici, costui per che altro lo effettua se non perché un senatore sdraiato accanto lo ammiri? [I,26,10] Là infatti, a Roma, ci sono effettivamente i grandi cespiti ed i tesori di qua, di Nicopoli, là sembrano giocattoli. Per questo è difficile padroneggiare le proprie rappresentazioni là dove grandi sono gli scrolloni. [I,26,11] Io so di un tale che, avvinghiato alle ginocchia di Epafrodito, singhiozzava e diceva di essere un disgraziato perché non gli era avanzato nulla se non un milione e mezzo di sesterzi. [I,26,12] E dunque Epafrodito? Lo derise come state facendo voi? No, ma trasalendo dice: “Sciagurato, come dunque tacevi, come ti facevi forza?”

Importanza di capire lo stato in cui si trova l’egemonico, la parte dominante dell’animo nostro (13-18)

[I,26,13] Avendo così sconcertato chi leggeva i sillogismi ipotetici e poiché chi aveva suggerito al primo la lettura rideva, diceva Epitteto: “Tu deridi te stesso. Non facesti da preparatore atletico del giovanotto né riconoscesti se può comprendere questi sillogismi, ma lo usi come lettore”. [I,26,14] Perché dunque, diceva, ad un intelletto che non può comprendere quanto decreta un periodo copulativamente coordinato affidiamo lode, affidiamo denigrazione, affidiamo il decreto su quanto accade bene o male? E se parlerà male di qualcuno, costui si impensierisce? E se loderà qualcuno, costui si esalta? Quando non trova il seguito in faccende così piccole? [I,26,15] Questo è dunque inizio del filosofare: la sensazione di come sta il nostro proprio egemonico; giacché, dopo avere riconosciuto che è debilitato, non si vorrà più servircene per grandi cose. [I,26,16] Ora alcuni, non potendo ingoiare un boccone comprano un trattato e progettano di mangiarlo. Per questo vomitano o non digeriscono; e poi dolori di ventre e catarri e febbri. [I,26,17] Bisognerebbe che riflettessero prima sulle loro capacità!. Ma in punto di conoscenza dei principi generali, è facile confutare chi non sa; mentre in fatti di vita, uno non si presta al controllo e noi odiamo chi ci ha confutato. [I,26,18] Socrate diceva però di non vivere una vita non sottoposta ad indagine.

CAPITOLO 27

Apollo e Artemide uccidono i figli di Niobe

IN QUANTI MODI NASCONO LE RAPPRESENTAZIONI E QUALI SOCCORSI BISOGNA PREPARARE ED AVERE A PORTATA DI MANO PER ESSE ?

I rimedi da usare nel caso di rappresentazioni che ci turbino (1-6)

[I,27,1] Le rappresentazioni nascono in noi in quattro modi: giacché, (a) o delle cose ci sono e così appare; (b) o non essendoci neppure appare che ci siano; oppure (c) ci sono e non appare; oppure (d) non ci sono ed appare. [I,27,2] Orbene è opera di chi è stato educato a diairesizzare imbroccarla in tutti questi casi. Qualunque sarà la cosa che opprime, contro quella si deve appressare l’aiuto. Se ad opprimerci sono i sofismi Pirroniani ed Accademici, contro quelli appressiamo l’aiuto. [I,27,3] Se è la persuasività delle faccende per cui certe cose paiono beni non essendolo, cerchiamo là l’aiuto. Se ad opprimerci è un’abitudine, bisogna provare a ritrovare l’aiuto per essa. [I,27,4] Quale soccorso è possibile trovare contro un’abitudine? L’abitudine opposta. [I,27,5] Senti le persone comuni dire: “Sciagurato quello, morì!”; “Suo padre andò in malora, e pure la madre!”; “Fu stroncato, per di più prematuramente ed in terra straniera!”. [I,27,6] Ascolta dei discorsi opposti, spiccati da queste voci, contrapponi all’abitudine l’abitudine opposta. Ai discorsi sofistici contrapponi la logica, l’allenamento ed una consumata esperienza in essa. Per la persuasività delle faccende si devono avere i pre-concetti evidenti, lucidi, a portata di mano.

La morte e la paura della morte (7-10)

[I,27,7] Qualora la morte appaia un male, bisogna avere a portata di mano che è doveroso avversare i mali e che la morte è necessaria. [I,27,8] Giacché che fare? Dove fuggirla? Sia io Sarpedone, il figlio di Zeus, sì da dire così generosamente: “Andando via, dispongo di compiere io atti di eccelso valore oppure di procurare ad un altro il movente per compierli; se non posso avere io qualche successo, non denegherò che un altro faccia qualcosa di generoso”. Sia questo al di là di noi, ma quello non ne casca al di qua? [I,27,9] E dove fuggire la morte? Svelatemi il territorio, svelatemi le genti verso cui partire, genti alle quali la morte non si butta sopra, svelatemi la formula magica. Se non l’ho, cosa volete che faccia? Non posso sfuggire la morte, [I,27,10] ma che non rifugga l’averne paura e che muoia piangendo e tremando?

La volontà: quel certo ripetuto, ostinato, fatale atteggiamento controdiairetico della proairesi che fa nascere le passioni (10-14)

Giacché questo è il punto di generazione della passione: volere qualcosa e questo qualcosa non accadere. [I,27,11] Di conseguenza, se potrò allogare gli oggetti esterni secondo la mia decisione, li allogo. Se no, voglio accecare chi mi è d’intralcio. [I,27,12] Giacché l’uomo ha per natura di non reggere la privazione del bene e di non reggere l’incappare nel male. [I,27,13] E poi da ultimo, qualora non possa né allogare le faccende né accecare chi mi è d’intralcio, siedo e gemo ed ingiurio chi posso, Zeus e gli altri, gli Dei. Giacché se non si impensieriscono di me, che c’è fra me e loro? [I,27,14] “Sì, ma sarai empio”. E cosa mi toccherà di peggio di quanto mi tocca ora? In totale, bisogna ricordarsi che se pio ed utile non coincideranno, il pio non può essere salvaguardato in alcun caso. Non reputi urgenti questi giudizi?

Se tra una empietà utile ed una probità svantaggiosa prevale sempre l’empietà, il problema non è quello di dubitare della logica o delle sensazioni, bensì quello di rimediare all’errore che ci ha portato ad associare utilità all’atto empio e svantaggio a quello probo (15-21)

[I,27,15] Venga qua e mi venga contro un Pirroniano od un Accademico. Io, per parte mia, non ho agio per questo né posso difendere la causa della comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni. [I,27,16] Anche se avessi un affaruccio per un fondicello, avrei pregato un altro di difendere la mia causa. [I,27,17] Di cosa mi accontento dunque quanto a quest’ambito? Come nasce la sensazione, se attraverso l’intero o da una parte, parimenti non so giustificarlo ed entrambe le tesi mi sconcertano. Ma che io e te non siamo gli stessi, lo so assai precisamente. [I,27,18] Donde questo? Quando dispongo di ingoiare qualcosa, non porto mai il boccone in quel posto là ma qua; quando dispongo di prendere del pane non prendo mai una scopa, ma vengo sempre al pane come allo scopo. [I,27,19] E proprio voi che abolite le sensazioni, che altro fate? Chi di voi volendo partire per le terme, andò al mulino? [I,27,20] -E dunque? Non bisogna fare del nostro meglio per attenersi anche a questo, a serbare la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni, a serrare le fila contro gli argomenti a lei ostili?- [I,27,21] E chi obietta? Ma chi può, chi ne ha l’agio. Chi invece trema, è sconcertato, il cui cuore è spezzato dal di dentro, deve badare a qualcos’altro.

CAPITOLO 28

Cos’è grande e cos’è piccolo?

CHE NON BISOGNA ESASPERARSI CON GLI ESSERI UMANI; E COS’E’ GRANDE E COS’E’ PICCOLO IN LORO ?

L’intellettualismo socratico alla prova di Medea (1-9)

[I,28,1] Cos’è causativo dell’assentire a qualcosa? Il parere che c’è. [I,28,2] A quanto pare dunque non esserci è impossibile assentire. Perché? Perché questa è la natura dell’intelletto: annuire al vero, dispiacersi del falso, sospendere il giudizio nel dubbio. [I,28,3] Cosa ne fa fede? “Sperimenta, se puoi, che ora è notte”. Non è possibile. “Non sperimentare che è giorno”. Non è possibile. “Sperimenta o non sperimentare che le stelle sono in numero pari”. Non è possibile. [I,28,4] Qualora dunque uno assenta al falso, sappi che non disponeva di assentire al falso; giacché ogni animo si defrauda della verità suo malgrado, come dice Platone, [I,28,5] ma che reputò il falso vero. Orsù, e nelle azioni cos’abbiamo di siffatto quale qua il vero od il falso? Il doveroso ed il non doveroso, l’utile e l’inutile, il secondo me ed il non secondo me e quant’altri criteri sono simili a questi. [I,28,6] “Dunque può uno reputare che qualcosa gli è utile e non sceglierla?” Non può. [I,28,7] Come colei che dice —*E capisco sì che mali sto per fare, ma il rancore è più forte delle mie risoluzioni*— lo dice proprio per questo, perché ritiene più utile gratificare il suo rancore e vendicarsi del marito che salvare i figlioli. [I,28,8] “Sì, ma si è ingannata”. Mostrale con evidenza che si è ingannata e non lo farà; ma finché non glielo mostrerai, cos’ha da seguire se non il parere? Niente. [I,28,9] Perché dunque ti esasperi con lei, perché la disgraziata ha errato sulle questioni più grandi ed invece che essere umano è diventata una vipera? Se proprio lo si deve, perché piuttosto non la commiseri come commiseriamo i ciechi e gli zoppi e così coloro che sono stati accecati ed azzoppati nelle facoltà dominanti?

L’intellettualismo socratico alla prova di Menelao (10-13)

[I,28,10] Chiunque, pertanto, ricorda puramente questo: che per l’essere umano misura di ogni azione è il parere (orbene il parere è o buono o cattivo: se è buono, l’uomo è incensurabile; se cattivo, la persona si è punita da se stessa; giacché non può essere uno quello che ha errato ed un altro quello che è danneggiato), ebbene non sarà adirato con nessuno, non si esaspererà con nessuno, non ingiurierà nessuno, non biasimerà nessuno, non odierà, non si offenderà con nessuno. [I,28,11] Sicché anche opere tanto grandi e terribili hanno questo inizio: il parere? Questo e nient’altro. [I,28,12] L’Iliade null’altro è che rappresentazione ed uso di rappresentazioni. Parve ad Alessandro di menar via la moglie di Menelao e parve ad Elena di seguirlo. [I,28,13] Se dunque a Menelao fosse parso di sperimentare che l’essere defraudati di una moglie siffatta è un guadagno, cosa sarebbe accaduto? Non solo sarebbe andata in malora l’Iliade, ma anche l’Odissea.

Morti, stragi, stermìni di esseri umani e di formiche alla prova dell’intellettualismo socratico (14-18)

[I,28,14] Dunque, imprese così rilevanti sono dipese da una faccenda talmente piccola? Quali imprese dici così rilevanti? Guerre, conflitti civili, perdita di molti esseri umani e stermini di città? E cos’hanno di grande questi avvenimenti? [I,28,15] -Nulla?- Che ha di grande il fatto che muoiano molti buoi e molte pecore e che molte nidiate di rondini o di cicogne siano date alle fiamme e sterminate? [I,28,16] -Questi avvenimenti sono dunque simili a quelli?- Similissimi. Andarono in malora corpi di esseri umani e di buoi e di pecore. Furono dati alle fiamme ricetti di esseri umani e nidi di cicogne. [I,28,17] Che c’è di grande o terribile? Oppure mostrami in cosa differiscono, come dimora, la casa di un uomo ed il nido di una cicogna. [I,28,18] -Dunque cicogna e uomo è simile?- Che dici? Quanto al corpo similissimo; eccetto che in un caso le casette sono edificate con travi, tegole e mattoni; nell’altro con rametti ed argilla.

Dove sta, allora, la differenza tra un essere umano ed una formica? Sta nell’informazione scritta nei rispettivi DNA, e grazie alla quale la formica è creatura strutturalmente aproairetica mentre soltanto l’essere umano si trova ad essere creatura proairetica (19-21)

[I,28,19] -Dunque un uomo non differisce in nulla da una cicogna?- Non sia mai! Ma per questo non differisce. -Per cosa dunque differisce?- [I,28,20] Cerca e troverai che per altro differisce. Vedi se non è per il comprendere quanto fa, vedi se non è per la socievolezza, se non è per la lealtà, il rispetto di sé e degli altri, la sicurezza nell’uso delle rappresentazioni, il comprendonio. [I,28,21] Dov’è dunque il grande negli uomini, in bene ed in male? Là dov’è la differenza. Se questa sarà salvaguardata, permarrà ben fortificata e non rovineranno il rispetto di sé e degli altri né la lealtà né il comprendonio, allora si salva anche lui. Ma se qualcosa di queste differenze andrà in malora e cederà all’assedio, allora anche lui va in malora. 

L’annientamento dell’intellettualismo socratico, il rovesciamento dei retti giudizi della proairesi, l’incapacità di massa di usare la diairesi: ecco il vero, grandioso e terrificante disastro del genere umano (22-27)

[I,28,22] Le grandi faccende in questo stanno. Alessandro toppò alla grande quando i Greci attaccarono con le navi e devastarono Troia e quando i suoi fratelli andarono in malora? [I,28,23] Nient’affatto! Nessuno toppa per opera allotria. Ma allora venivano devastati dei nidi di cicogne. L’intoppo fu quando andò in malora l’uomo rispettoso di sé e degli altri, l’uomo leale, conscio delle regole dell’ospitalità, il cittadino del mondo. [I,28,24] Quando toppò Achille? Quando morì Patroclo? Non sia mai! Ma quando si adirava, quando singhiozzava per una pupattola, quando dimenticò che presenziava non per acquisire innamorate ma per fare guerra. [I,28,25] Questi sono gli umani intoppi, questo è l’assedio, questo è lo sterminio: quando i retti giudizi siano demoliti, qualora quelle differenze rovinino. [I,28,26] -Qualora le femmine siano dunque condotte via ed i bimbi fatti prigionieri e le persone scannate, questi non sono mali?- [I,28,27] Donde presumi in più questo? Insegnalo anche a me! -No; ma donde dici tu che non sono mali?- 

L’equilibrio del terrore tra gli esseri umani (28-33)

[I,28,28] Veniamo ai canoni, porta i pre-concetti. Per questo non ci si stupisce mai abbastanza di quel che accade. Laddove disponiamo di giudicare pesi, non giudichiamo a casaccio. [I,28,29] Laddove si tratta di linee rette e curve, non giudichiamo a casaccio. Insomma dove il riconoscere quanto è vero in un àmbito fa per noi differenza, nessuno di noi farà mai qualcosa a casaccio. [I,28,30] Ma dove c’è il primo e solo causativo dell’avere successo od aberrare, dell’essere sereni o no, sfortunati o fortunati, qua soltanto siamo avventati e precipitosi. Da nessuna parte qualcosa simile ad una bilancia, da nessuna parte qualcosa simile ad un canone, ma qualcosa mi parve e subito faccio quel che mi parve. [I,28,31] Giacché sono io migliore di Agamennone o di Achille, così che mentre quelli, seguendo i loro pareri fanno e sperimentano siffatti mali, a me invece il parere basta? [I,28,32] E quale tragedia ha altro inizio? L’Atreo di Euripide, cos’é? Il parere. L’Edipo di Sofocle, cos’è? Il parere. [I,28,33] Il Fenice? Il parere. L’Ippolito? Il parere. Dunque non farsi sollecitudine alcuna di ciò, di chi lo reputate? Come sono detti coloro che seguono in tutto il parere? -Pazzi- Noi dunque facciamo qualcos’altro?

CAPITOLO 29

La stabilità di giudizio di Socrate

SULLA STABILITA’ DI GIUDIZIO

Noi possiamo trarre beni e mali solamente da noi stessi. Essi sono infatti un certo modo di essere della proairesi (1-8)

[I,29,1] Sostanza del bene è un certo modo della proairesi; del male, un certo modo della proairesi. [I,29,2] Cosa sono dunque gli oggetti esterni? Materiali per la proairesi, sui quali rivolgendosi essa centrerà il proprio peculiare bene o male. [I,29,3] Come centrerà il bene? Se non si infatuerà dei materiali. Giacché i giudizi sui materiali, se sono retti fanno la proairesi buona; se scorretti e pervertiti, cattiva. [I,29,4] Questa legge la Materia Immortale ha posto e dice: “Se disponi qualche bene, prendilo da te stesso”. Tu dici “No, da un altro”. No, ma da te stesso. [I,29,5] Orbene, qualora il tiranno minacci e mi chiami in giudizio, io dico: “Cosa minacci?”. Se lui dirà: “Ti farò incatenare!”, io dico: “Minacci le mani ed i piedi”. [I,29,6] Se dirà: “Ti farò troncare il collo!”, dico: “Minacci il collo”. Se dirà: “Ti butterò in prigione!”, dico: “La carne intera”; e se minaccerà il confino, lo stesso. [I,29,7] -Dunque niente minaccia te?- Se sperimento che queste cose sono niente per me, niente. [I,29,8] Se invece ho paura di qualcuna di queste, esse minacciano me. Orbene, chi temo? Chi è Signore di cosa? Di quanto è in mio esclusivo potere? Ma neppur uno lo è. Di quanto è non in mio esclusivo potere? E che m’ importa di esso?

Niente può vincere la proairesi: essa sola può vincere se stessa. Dunque i re, o chi per essi, possono regnare sugli averi dei loro sudditi, ma non sui loro giudizi (9-15)

[I,29,9] -Dunque voi filosofi insegnate a spregiare i re?- Non sia mai! Chi di noi insegna a pretendere da loro ciò su cui essi hanno potestà? [I,29,10] Prendi il corpo, prendi il patrimonio, prendi la fama, prendi chi ho intorno. Se convincerò qualcuno a pretendere queste cose, effettivamente mi si incolpi. [I,29,11] “Sì, ma voglio comandare anche sui giudizi”. E chi ti ha dato questa potestà? Dove puoi vincere un giudizio allotrio? [I,29,12] “Appressandogli paura,” dice, “vincerò”. Ignori che esso vinse se stesso e non fu vinto da un altro? Nient’altro può vincere la proairesi eccetto che essa se stessa. [I,29,13] Per questo la legge di Zeus è la più possente e la più giusta: il migliore abbia sempre il sopravvento sul peggiore. [I,29,14] “Dieci sono migliori di uno”. Per cosa? Per incatenare, per uccidere, per menare dove vogliono, per sottrarre gli averi. Quindi i dieci vincono l’uno in ciò in cui sono migliori. [I,29,15] In cosa sono dunque peggiori? Se uno avrà retti giudizi, e loro no. E dunque? Possono vincere in questo? Donde? Se ci pesiamo su una bilancia, non dovrebbe il più pesante tirare in basso?

Cosa ha perso Socrate e cosa hanno vinto i suoi carnefici (16-21)

[I,29,16] -Affinché Socrate poi sperimenti quel che sperimentò ad opera degli Ateniesi?- Schiavo! perché dici “Socrate”? Dì come sta la faccenda: affinché il corpo di Socrate fosse menato via e strascicato in carcere dai più potenti; perché qualcuno desse al corpo di Socrate della cicuta ed esso venisse meno. [I,29,17] Questo ti pare stupefacente, ingiusto, per questo incolpi Zeus? Dunque nulla aveva Socrate in cambio di questo? [I,29,18] Dov’era per lui la sostanza del bene? A chi fare attenzione? A te od a lui? Cosa dice lui? “Anito e Meleto possono farmi uccidere ma non danneggiare”. E di nuovo: “Se così a Zeus è caro, così sia”. [I,29,19] Mostra che chi ha giudizi peggiori padroneggia chi è migliore nei giudizi. Non lo mostrerai e non ci andrai neppur vicino. Giacché legge della natura e di Zeus è questa: il migliore abbia sempre il sopravvento sul peggiore. In cosa? In ciò in cui è migliore. [I,29,20] Un corpo è più potente di un altro corpo; i più dell’uno; il ladro del non ladro. [I,29,21] Ed io per questo motivo persi la lucerna, perché il ladro era migliore di me nel vegliare. Ma lui a cotanto comperò una lucerna: in cambio di una lucerna divenne ladro, in cambio di una lucerna divenne sleale, in cambio di una lucerna divenne belluino. E questo reputò essere vantaggioso!

Lì dove siete migliori di me, farò come dite voi (22-27)

[I,29,22] Sia; ma uno mi ha preso per la toga e mi trascina verso la piazza e poi altri strepitano: “Filosofo, a che ti hanno giovato i giudizi? Ecco sei strascicato in carcere, ecco stanno per troncarti il collo!” [I,29,23] E quale “Introduzione alla filosofia” avrei dovuto effettuare per non essere strascicato se uno più potente mi abbrancherà per la toga? Per non essere sbattuto in carcere se dieci mi trarranno via e mi ci sbatteranno? [I,29,24] Dunque non imparai null’altro? Imparai a vedere che tutto quel che accade, se sarà aproairetico, nulla è per me. [I,29,25] -E per il caso presente non te ne giovi? Perché cerchi giovamento in altro da quanto imparasti?- [I,29,26] Orbene, seduto in prigione dico: “Costui che gracchia queste cose, né sente il significato né comprende quanto è detto né in complesso gli è importato di sapere, dei filosofi, cosa dicono o cosa fanno. Lascialo stare!” [I,29,27] “Adesso esci dalla prigione”. Se non avete più bisogno di me in prigione, esco; se l’avrete di nuovo, vi rientrerò. 

Fino a quando? Fino a quando la ragione lo sceglierà (28-29)

[I,29,28] Fino a quando? Fino a che la ragione sceglierà che io stia col corpo. Qualora non lo scelga, prendetelo e state in salute. [I,29,29] Soltanto non irragionevolmente, soltanto non per mollezza, non per un pretesto casuale. Giacché Zeus non decide di nuovo: egli ha bisogno di un siffatto ordine del mondo, di siffatti abitanti della terra. E se significherà la ritirata come a Socrate, bisogna ubbidire a chi significa come ad uno stratega.

Ad alcuni individui piace eleggersi come scopo di vita quello di cavare sangue dalle rape e di far volare gli asini (30-32)

[I,29,30] -E dunque? Si devono dire queste cose ai più?- [I,29,31] A che fine? Non basta ubbidirgli? Ai bimbi, qualora vengano applaudendo e dicano: “Oggi buoni Saturnali!”; diciamo noi: “Questi non sono beni”? Nient’affatto, ma battiamo le mani anche noi. [I,29,32] Quindi tu pure, qualora non possa persuadere qualcuno a modificare avviso, riconosci che è un bimbo e battigli le mani. Se questo non disporrai, orbene taci.

Tu invece, quando viene il momento giusto, sappilo riconoscere ed entra in campo (33-34)

[I,29,33] Di questo bisogna ricordarsi, e chi è chiamato ad una siffatta circostanza deve sapere che è venuto il tempo di dimostrare se ci siamo educati a diairesizzare. [I,29,34] Giacché un giovane che dalla scuola se ne va verso una circostanza difficile è simile a colui che ha studiato a risolvere sillogismi e che, se gliene si porgerà uno facile da sciogliere, dice: “Porgetemene piuttosto uno raffinatamente intrecciato, per allenarmi”. Anche gli atleti si dispiacciono dei giovanotti leggeri: “Non mi sorregge”, dice.

Non dire: “Devo ancora imparare…” (35-38)

[I,29,35]”Questo è un giovane purosangue”. No, ma quando il tempo chiama bisogna singhiozzare e dire: “Vorrei ancora imparare!” Cosa? Se non imparasti questo per mostrarlo nei fatti, per che cosa lo imparasti? [I,29,36] Io credo che qualcuno di coloro che siedono qui sia in travaglio di pensiero e tra sé e sé dica: “Non venirmi incontro ora una circostanza difficile quale quella cui è andato incontro costui! Consumarmi io seduto in un angolino, potendo essere incoronato ad Olimpia! Quando uno mi annunzierà una gara siffatta?” Così dovreste stare tutti voi. [I,29,37] Tra i gladiatori di Cesare ve ne sono alcuni che fremono perché nessuno li promuove né fa loro fare coppia; e pregano Dio e vengono dai delegati brigando per combattere corpo a corpo; e nessuno di voi apparirà siffatto? [I,29,38] Proprio per questo vorrei navigare e vedere cosa fa il mio atleta, come studia l’ipotesi.

Non dire: “Questa gara non mi va, ne voglio un’altra…” (39-43)

[I,29,39] “Non voglio,” dice, “un’ipotesi siffatta”. E’ in tuo esclusivo potere prendere l’ipotesi che vuoi? Ti sono stati dati un corpo siffatto, siffatti genitori, siffatti fratelli, siffatta patria, siffatto posizionamento in essa; e poi mi vieni a dire “Cambiami la premessa!” E poi non hai risorse per utilizzare i dati di fatto? [I,29,40] Tuo è porgere; mio studiare bene. No, ma “Non mettermi davanti questo tropo ma quest’altro; non farmi inferire questa inferenza ma quest’altra”. [I,29,41] Ci sarà probabilmente un tempo in cui i cantanti crederanno di essere maschere, coturni e lo strascico. O uomo, questo hai come materiale e premessa. [I,29,42] Pronuncia qualcosa, affinché sappiamo se sei un cantante od un ciarlatano: giacché il resto lo hanno entrambi in comune. [I,29,43] Per questo se uno gli sottrarrà i coturni e la maschera e lo promuoveràin scena nel suo aspetto normale, il cantante va in malora o rimane? Se avrà voce, rimane.

Uomo! Fa vedere di che Materia sei fatto! (44-49)

[I,29,44] Anche qua. “Prendi l’imperio!” Lo prendo e, presolo, mostro come si conduce un uomo che è stato educato a diairesizzare. [I,29,45] “Deponi il laticlavio ed indossando dei cenci vieni innanzi in siffatto personaggio!” E dunque? Non mi è stato dato di portarmi dentro una magnifica voce? [I,29,46] “Dunque, come sali ora sulla scena?”Come testimone chiamato da Zeus. [I,29,47] “Vieni tu, e rendimi testimonianza. Giacché tu meriti di essere promosso da me come testimone. E’ forse qualcuno degli oggetti esterni alla proairesi, bene o male? Danneggio forse qualcuno? Feci forse quanto a ciascuno giova in esclusivo potere d’altri o di lui stesso?” [I,29,48] Che testimonianza dai alla Materia Immortale? “Sono in difficoltà terribili, Signoreedho cattiva fortuna; nessuno si impensierisce per me, nessuno mi dà nulla, tutti mi denigrano e parlano male di me”. [I,29,49] Questo sei per testimoniare e per svergognare la chiamata che ti ha fatto; perché ti onorò di questo onore e ritenne degno che ti appressassi per una testimonianza così rilevante?

Il conto in cui vanno tenuti i giudizi di chi ha potere su quanto è aproairetico (50-55)

[I,29,50] Ma chi ne ha la potestà dichiarò: “Ti giudico empio e sacrilego “. Che ti è accaduto? [I,29,51] “Fui giudicato empio e sacrilego”. Nient’altro? “Niente”.E se di un periodo ipotetico colui avesse decretato e data dichiarazione “Il ‘se è giorno c’è luce’ lo giudico falso” cosa sarebbe accaduto al periodo ipotetico? Chi è qui giudicato? Chi è stato condannato? Il periodo ipotetico o chi si è ingannato su di esso? [I,29,52] Chi mai è costui che ha la potestà di dichiarare qualcosa su di te? Sa cos’è il pio o l’empio? L’ha studiato? Ha imparato? [I,29,53] Dove? Da chi? E poi un musicista non si impensierisce se colui dichiarasse che la corda più bassa è la più alta; né uno studioso di geometria se decreterà che i segmenti che dal centro incolgono la circonferenza non sono di pari lunghezza. [I,29,54] E chi davvero è stato educato a diairesizzare si impensierirà per un individuo non educatovi, il quale decreta qualcosa sul sacrosanto e sul sacrilego, sull’ingiusto e sul giusto? [I,29,55] Che ingiustizia da parte degli educati a diairesizzare! Queste cose le imparasti qui? 

Dagherrotipo di Corpo Accademico (55)

Non vuoi lasciare ad altri le argomentazioni logiche su queste questioni, ad indolenti ometti, affinché immobili in un angolino essi prendano delle paghette o brontolino che nessuno procura loro nulla; e tu invece pervenire ad usare ciò che imparasti?

Tu, invece, fa vivere la diairesi (56-58)

[I,29,56] Giacché non sono le argomentazioni logiche che ora mancano. I libri traboccano di argomentazioni logiche Stoiche. Cosa manca dunque? Chi li userà, chitestimonierà i discorsi con l’opera. [I,29,57] Interpretami questo personaggio, affinché a scuola non usiamo più paradigmi antichi ma abbiamo anche un paradigma contemporaneo. [I,29,58] Ed essere spettatore di questi esempi, di chi è? Di chi ne ha l’agio. Giacché l’essere umano è creatura cui piace essere spettatore.

Chi usa la controdiairesi ha dei padroni; chi ha dei padroni è turbato ed infelice; chi è turbato ed infelice usa la controdiairesi (59-63)

[I,29,59] Ma è brutto essere spettatori di questi esempi come gli schiavi fuggiaschi. Bello è invece sedere senza distrazioni ad ascoltare ora un cantante, ora un citaredo e non come fanno quelli. Mentre assiste e loda il cantante, insieme si guarda attorno e poi, se qualcuno pronuncerà “Signore”, subito si sono agitati, sono sconcertati. [I,29,60] Ed è brutto che anche i filosofi siano così spettatori delle opere della natura. Cos’é, infatti,“Signore”? Un uomo non è Signore di un uomo, ma lo sono morte e vita, piacere fisico e dolore. [I,29,61] Peraltro conducimi qui Cesare sprovvisto di queste armi e vedrai come sono stabile! Ma qualora egli venga con questi tuoni e lampi ed io ne abbia paura; che altro faccio se non riconoscere in lui il “Signore”, come fa lo schiavo fuggiasco? [I,29,62] Finché non avrò qualche tregua da queste minacce, anch’io assisto come uno schiavo fuggiasco a teatro: faccio il bagno, bevo, canto; ma tuttocon paura ed un senso di disgrazia. [I,29,63] Se però mi licenzierò dai padroni, cioè da ciò per cui i padroni sono paurosi, quale fastidio ho ancora, ancora quale “Signore”?

L’incapacità di massa di usare la diairesi può diventare per me motivo di turbamento? L’esempio di Socrate (64-66)

[I,29,64] E dunque? Bisogna proclamare queste verità a tutti? No, ma esserecompiacenti con le persone comuni e dire: “Costui consiglia anche a me quello che crede bene per sé stesso: lo perdono”. [I,29,65] Anche Socrate quando era per bere il veleno perdonava il carceriereche singhiozzava, e dice: “Come ci ha generosamente pianto!” [I,29,66] Gli dice forse: “Per questo licenziammo le signore”? Questo lo dice ai conoscenti, a coloro che possono sentirlo dire; con quello invece è compiacente come con un bimbo.

CAPITOLO 30

Rigore

COSA SI DEVE AVERE A PORTATA DI MANO NELLE CIRCOSTANZE DIFFICILI ?

Sei davanti ad un individuo che crede di avere potere su di te ed alla tua proairesi (1)

[I,30,1] Qualora vada davanti a qualche persona eminente, ricordati che dall’alto anche un altro scorge gli avvenimenti e che tu devi essere gradito a questo piuttosto che a quello.

L’esame di proairesi (2-5)

[I,30,2] Questo dunque cerca di sapere da te: “A scuola cosa dicevi essere esilio, prigione, catene, morte, discredito?” [I,30,3] “Io, indifferenti”. “Ed ora cosa le dici essere? Furono forse cambiate?” “No”. “Fosti cambiato tu?” “No”. “Dì dunque cos’è indifferente”. “Ciò che è aproairetico”. “Dì anche il seguito”. “Ciò che è aproairetico nulla è per me”. [I,30,4] “Dì anche quali cose reputavate beni”. “La proairesi e l’uso delle rappresentazioni quale si deve”. “E quale il fine?” “Seguirti”. [I,30,5] “Dici questo anche ora?” “Dico anche ora lo stesso”. Orbene, vattene dentro con fiducia, ricordatene, e vedrai cos’è un giovane che ha studiato ciò che si deve fra gente che non ha studiato.

Il niente di chi crede di avere potere su di te (6-7)

[I,30,6] Io sì, per gli dei, immagino che sperimenterai qualcosa di siffatto: “Perché ci prepariamo così grandemente e così tanto per il niente? [I,30,7] La potestà era questo? Questo le anticamere, i camerieri, le guardie coi pugnali? Per questo ascoltavo i molti discorsi? Erano niente, ed io mi preparavo come a grandi cose!”

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Traduzioni

Il Manuale di Epitteto

Mi auguro di fare cosa gradita e utile ai frequentatori di questo sito rendendo disponibile alla lettura la più celebre delle traduzioni italiane del ‘Manuale’ di Epitteto, ossia quella che Giacomo Leopardi redasse materialmente a Bologna circa due settimane di lavoro, tra il 22 Novembre e il 6 (o forse il 9, vi è incertezza tra le due date) Dicembre 1825.
La traduzione è preceduta da un ‘Preambolo del volgarizzatore’, che risulta essenziale per comprendere l’interpretazione leopardiana di Epitteto e, più in generale, il suo punto di vista sullo Stoicismo. 

Mi è sempre riuscito difficile darmi ragione del successo di pubblico che ha arriso a questa traduzione e del consenso del quale pare ancor oggi circondata ad opera degli ‘addetti ai lavori’. Ciò per due motivi molto semplici. 
Il primo è che Leopardi mostra di conoscere di Epitteto soltanto il Manuale e di non avere mai letto e riflettuto sui quattro libri delle ‘Diatribe’.
Il secondo è la debolezza e superficialità di pensiero di cui Leopardi dà qui prova, pur dietro lo schermo retorico del ‘so di dire qualcosa che è contrario alla estimazione universale’, e che lo chiude in un cristiano fraintendimento dello Stoicismo, da lui equiparato ad una filosofia di rassegnazione e di rinuncia.
Se Leopardi merita un posto nella Storia, cosa che io credo fermamente, non è certo per la sua traduzione di Epitteto.

Il Manuale di Epitteto
tradotto da Giacomo Leopardi

Preambolo del volgarizzatore Non poche sentenze verissime, diverse considerazioni sottili, molti precetti e ricordi sommamente utili, oltre una grata semplicità e dimestichezza del dire, fanno assai prezioso e caro questo libricciuolo. Io per verità sono di opinione che la pratica filosofica che qui s’insegna, sia, se non sola tra le altre, almeno più delle altre profittevole nell’uso della vita umana, più accomodata all’uomo, e specialmente agli animi di natura o d’abito non eroici, né molto forti, ma temperati e forniti di mediocre fortezza, o vero eziandio deboli, e però agli uomini moderni ancora più che agli antichi.
So bene che a questo mio giudizio è contraria la estimazione universale, reputandosi comunemente che l’esercizio della filosofia stoica non si confaccia, e non sia pure eziandio possibile, se non solamente agli spiriti virili e gagliardi oltre misura. Laddove in sostanza a me pare che il principio e la ragione di tale filosofia, e particolarmente di quella di Epitteto, non istieno già, come si dice, nella considerazione della forza, ma sì bene della debolezza dell’uomo; e similmente che l’uso e la utilità di detta filosofia si appartengano più propriamente a questa che a quella qualità umana.
Perocché non altro è quella tranquillità dell’animo voluta da Epitteto sopra ogni cosa, e quello stato libero da passione, e quel non darsi pensiero delle cose esterne, se non ciò che noi chiamiamo freddezza d’animo, e noncuranza, o vogliasi indifferenza. Ora la utilità di questa disposizione, e della pratica di essa nell’uso del vivere, nasce solo da questo, che l’uomo non può nella sua vita per modo alcuno né conseguir la beatitudine né schivare una continua infelicità. Che se a lui fosse possibile di pervenire a questi fini, certo non sarebbe utile, né anco ragionevole, di astenersi dal procacciarli. Ora non potendogli ottenere, è proprio degli spiriti grandi e forti l’ostinarsi nientedimeno in desiderarli e cercarli ansiosamente, il contrastare, almeno dentro se medesimi, alla necessità, e far guerra feroce e mortale al destino, come i sette a Tebe di Eschilo, e come gli altri magnanimi degli antichi tempi.
Proprio degli spiriti deboli di natura, o debilitati dall’uso dei mali e dalla cognizione della imbecillità naturale e irreparabile dei viventi, si è il cedere e conformarsi alla fortuna e al fato, il ridursi a desiderare solamente poco, e questo poco ancora rimessamente; anzi, per così dire, il perdere quasi del tutto l’abito e la facoltà, siccome di sperare, così di desiderare. E dove che quello stato di nimicizia e di guerra con un potere incomparabilmente maggior dell’umano e non mai vincibile, dall’un lato non può avere alcun frutto, e dall’altro lato è pieno di perturbazione, di travaglio, d’angoscia e di miseria gravissima e continua; per lo contrario questo altro stato di pace, e quasi di soggezione dell’animo, e di servitù tranquilla, quantunque niente abbia di generoso, è pur conforme a ragione, conveniente alla natura mortale, e libero da una grandissima parte delle molestie, degli affanni e dei dolori di che la vita nostra suole essere tribolata.
Imperocché veramente a ottenere quella miglior condizione di vita e quella sola felicità che si può ritrovare al mondo, non hanno gli uomini finalmente altra via se non questa una, di rinunciare, per così dir, la felicità, ed astenersi quanto è possibile dalla fuga del suo contrario. Ora la noncuranza delle cose di fuori, ingiunta da Epitteto e dagli altri Stoici, viene a dir questo appunto, cioè non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice. Il quale insegnamento, che è come dire di dovere amar se medesimo con quanto si possa manco di ardore e di tenerezza, si è in verità la cima e la somma, sì della filosofia di Epitteto, e si ancora di tutta la sapienza umana, in quanto ella appartiene al ben essere dello spirito di ciascuno in particolare. Ed io, che dopo molti travagli dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di così fatta pratica e tuttavia riporto una utilità incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltà di porlo medesimamente ad esecuzione.  

1. [ 1 ] Le cose sono di due maniere; alcune in potere nostro, altre no. Sono in potere nostro la opinione, il movimento dell’animo, l’appetizione, l’aversione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in potere nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri propri atti. [ 2 ] Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui. [ 3] Ricordati adunque che se tu reputerai per libere quelle cose che sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono altrui, t’interverrà di trovare quando un ostacolo quando un altro, essere afflitto, turbato, dolerti degli uomini e degli Dei. Per lo contrario se tu non istimerai proprio tuo se non quello che è tuo veramente, e se terrai che sia d’altri quello che è veramente d’altri, nessuno mai ti potrà sforzare, nessuno impedire, tu non ti dorrai di niuno, non incolperai chicchessia, non avrai nessuno inimico, niuno ti nocerà, essendo che in effetto tu non riceverai nocumento veruno. [ 4 ] Ora se tu sei desideroso di pervenire a questo sì felice stato, sappi che a ciò si richiede sforzo e concitazione d’animo non mediocre, e che di certe delle cose di fuori tu dèi lasciare il pensiero al tutto, di certe riservarlo per un altro tempo, e attendere alla cura di te medesimo sopra ogni cosa. Che se tu vorrai ad un’ora procacciare i predetti beni ed anco dignità e ricchezze, forse che tu non otterrai né pur queste, per lo studio che tu porrai dietro a quelli, ma di quelli senza alcun dubbio tu sarai privo, i quali sono pur così fatti, che solo per virtù di essi si può goder beatitudine e libertà. [ 5 ]Per tanto a ciascuna apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi ad ogni altra cosa avvezzati a dire: questa è un’apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi togli ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti che tu sai, e prima e massimamente con vedere se ella appartiene alle cose che sono in nostra facoltà o vero a quelle che non sono. Ed appartenendo a quelle che non sono, abbi apparecchiata in tuo cuore questa sentenza: ciò a me non rileva nulla. 2. [ 1 ] Sovvengati che l’intento dell’appetizione si è il conseguire ciò che ella appetisce, e l’intento dell’aversione il non incorrere in ciò che ella fugge. E colui che non ottiene quel che appetisce, è senza fortuna; colui che incorre in quel che egli schifa, ha cattiva fortuna. Ora se l’animo tuo non schiferà se non solamente, delle cose che sono in nostro potere, quelle tali che saranno contro natura, non ti avverrà d’incorrere in cosa alcuna alla quale tu abbi contrarietà. Ma se egli sarà volto a schifare i morbi, la povertà, la morte, tu avrai cattiva fortuna. [ 2 ]Astienti dunque dall’aversione rispetto a qual si sia cosa di quelle che non sono in nostro potere, e in quella vece fa di usarla rispetto alle cose che, nel numero di quelle che sono in tua facoltà, si troveranno essere contro natura. Dall’appetizione tu ti asterrai per ora in tutto. Perciocché se tu appetirai qualcuna di quelle cose che non dipendono da noi, tu non potrai fare di non essere sfortunato; e delle cose che sono in potestà dell’uomo, non ti si appartiene per ancora alcuna di quelle che sarebbono degne da desiderare. Per tanto tu non consentirai a te medesimo se non se i primi movimenti e le prime inclinazioni dell’animo ad appetire o schifare, con questo però che elle sieno lievi, condizionali e senza veruno impeto. 3. Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcuno uso, incominciando dalle più picciole. Se tu ami una pentola, dire a te stesso: io amo una pentola; perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l’animo alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o quel fanciullino, tu non abbi perciò a turbarti. 4. Qualora tu pigli a far che che sia, recati a mente la qualità di quella cotale operazione. Se tu vai, ponghiamo caso, al bagno a lavarti, recati al pensiero le cose che accaggiono nel bagno; la gente che ti spruzza, che ti sospinge, che ti rampogna, che ti ruba. E per metterti a quell’atto più sicuramente, tu dirai fra te stesso: io voglio ora lavarmi, e oltre di ciò mantenere la disposizione dell’animo mio in istato conforme a natura. E il simile per qualunque faccenda. Così se per avventura al lavarti ti sarà occorso alcuno impaccio, tu avrai pronto il modo di consolarti dicendo: io non voleva fare solamente questo, ma eziandio mantenere la disposizione dell’animo mio in grado conforme a natura. Ma io non la manterrò in cotale stato, se io mi cruccerò di questo che ora m’interviene. 5. Gli uomini sono agitati e turbati, non dalle cose, ma dalle opinioni che eglino hanno delle cose. Per modo di esempio, la morte non è punto amara; altrimenti ella sarebbe riuscita tale anche a Socrate; ma la opinione che si ha della morte, quello è l’amaro. Per tanto, quando noi siamo attraversati o turbati o afflitti, non dobbiamo però accagionare gli altri, ma sì veramente noi medesimi, cioè le nostre opinioni. Egli è da uomo non addottrinato nella filosofia l’addossare agli altri la colpa dei travagli suoi propri, da mezzo addottrinato l’addossarla a se stesso, da addottrinato il non darla né a se stesso né agli altri. 6. Guarda di non insuperbire di alcuna eccellenza o di alcun pregio altrui. Se un cavallo montando in superbia dicesse: io son bello, ciò sarebbe per avventura da comportare. Ma quando tu ti levi in superbia dicendo: io ho un bel cavallo, avverti che tu insuperbisci di un pregio che è del cavallo. Sai tu quello che è tuo? L’uso che tu fai delle apparenze delle cose. Sicché quando nell’usare di queste apparenze tu ti reggerai conforme a quello che la natura richiede, allora tu piglierai compiacenza di te medesimo a buona ragione: imperocché quello sarà un pregio tuo proprio. 7. Siccome in una navigazione, poiché il legno ha dato in terra a qualche porto, se tu esci dal legno per fare acqua, tu puoi bene ancora venir cogliendo per via qua una chiocciolina, là una radicetta, ma egli ti conviene però aver sempre il pensiero alla nave, e voltarti spesso, per intendere se il piloto ti chiama, e chiamandoti, lasciare tutte quelle cose, per non avere a esser cacciato dentro legato come si fa delle pecore; così nella vita, se in cambio di radicette o di chioccioline ti si porgerà una donnicciuola o un putto, niente vieta che tu non lo debba pigliare e godertelo. Ma se il piloto ti chiama, corri tosto alla nave senza voltarti, lasciata stare ogni cosa. E se tu sarai vecchio, non ti dilungherai dal legno gran tratto, per non avere a mancare quando il piloto ti chiami. 8. Tu non dèi cercare che le cose procedano a modo tuo, ma voler che elle vadano così come fanno, e bene starà. 9. La malattia si è un impaccio del corpo, ma non della disposizione dell’animo, solo che esso non voglia. L’esser zoppo si è impaccio della gamba, ma non della disposizione dell’animo. Il simile dirai per ogni accidente che ti sopravvenga. Imperciocché troverai che esso sarà di natura da fare impaccio a qualche altra cosa, ma non a te proprio. 10. A ciascuna cosa esteriore che ti occorra, rivolgiti sopra te stesso e cerca quale delle facoltà che tu hai, si possa adoperare verso di quella. Se tu avrai veduto un bel garzone o una bella donna, troverai che da poster usare verso di queste cose, tu hai la facoltà della continenza. Se ti occorrerà una fatica da sostenere, troverai la facoltà della tolleranza. Se una villania, la pazienza. E così accostumandoti, tu non ti lascerai trasportare dalle apparenze delle cose. 11. Non dir mai di cosa veruna: io l’ho perduta, ma bene: io l’ho restituita. Ti è morto per avventura un figliuolo? Tu l’hai renduto. Morta la tua donna? Tu l’hai renduta. Ti è stato tolto un podere? Or non è egli renduto anche questo? Ma colui che me ne ha spogliato è un ribaldo. Che fa egli a te che quegli che ti aveva dato il podere te lo abbia richiesto per via di tale o di tale altra persona? Fino a tanto poi che egli ti lascia tenere o il terreno o che che altro si sia, pigliane quel pensiero che tu prenderesti di una cosa che fosse d’altri, come fanno dell’albergo i viandanti. 12. [ 1 ] Se tu vuoi far progresso nella sapienza, lascia da parte questi cotali discorsi: se io non avrò cura della mia roba, non avrò di che vivere; se io non castigherò il mio schiavo, egli sarà pure un furfante. Meglio è morirsi di fame dopo una vita libera da travagli e timori, che vivere inquieto in grande abbondanza di ogni cosa. Meglio è che il tuo schiavo sia tristo che non tu infelice. [ 2 ] Tu incomincerai dunque dalle cose picciole. Ti si versa un poco di olio? Ti è rubato un poco di vino? Tu dirai: a tanto si vende la tranquillità dell’animo, la costanza: niente si può avere gratis. Quando chiami il tuo fante, pensa ch’egli può accadere che colui non t’oda, e che ancora udendoti, non faccia però nulla di quel che tu vuoi. Ora tu non voler tanto concedere al tuo fante, che egli abbia in sua mano di poterti turbare la quiete dell’animo. 13. Se tu vuoi far profitto, comporta pazientemente di esser tenuto pazzo e stolido per cagione delle cose di fuori. Anzi se egli ci avrà di quelli che ti stimino uomo da qualche cosa, diffidati di te medesimo. Perché tu dèi sapere che egli non si può in un medesimo tempo conservare l’animo tuo disposto e ordinato secondo natura, e provvedere alle cose esterne; ma colui che ha cura dell’una di queste parti, di necessità dèe trascurare l’altra. 14. Se tu vuoi che la moglie, i figliuoli e gli amici tuoi vivano sempre, tu sei pazzo. Perocché tu vuoi che dipenda da te quello che non è in tuo potere, e che quello che è d’altri sia tuo. Parimenti se tu vuoi che il tuo servo non commetta errore, tu sei sciocco. Perché questo è un volere che la malizia non sia malizia ma qualcos’altro. Ma se tu vuoi non desiderar cosa che poi non ti venga ottenuta, questo sì che lo puoi. Per tanto industriati di ottener questo che tu puoi. [ 2 ] Colui che ha in sua facoltà di dare o torre a una persona quel che essa vuole o non vuole, è padrone di quella cotal persona. Però chiunque ha la volontà di esser libero, faccia di non appetire né fuggir mai cosa alcuna di quelle che sono in potestà d’altri; o che altrimenti gli bisognerà in ogni modo essere schiavo. 15.Tieni a mente che tu dèi governare in tutta la vita come a un banchetto. Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane costumatamente. Passa oltre? non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar però in là collo appetito: aspetta che ella venga.. Il simile in ciò che appartiene ai figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignità; e tu sarai degno di sedere una volta a mensa cogli Dei. Che se tu non toccherai pur quello che ti sarà posto innanzi, e non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli dei a mensa, ma eziandio di regnare con esso loro. Per sì fatta guisa operando Diogene, Eraclito e gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente. 16. Quando tu vedi alcuno che pianga o per morte di alcun suo congiunto o per lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l’apparenza non ti trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso subitamente e dirai: questi è tribolato e afflitto, non dall’accaduto, poiché questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto che egli ha dell’accaduto. Ciò non ostante tu non fari difficoltà di secondare il suo dolore in parole, ed anco, se occorre, di sospirare insieme seco; ma guarda che tu non sospirassi però di cuore. 17. Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la persona di un zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentar bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro. 18. Quando un corvo gracchiando porge cattivo augurio, non ti lasciar muovere da sì fatta apparenza, ma subito distingui teco medesimo e dì: questo animale non prenuncia niuna disavventura a me proprio, ma forse a questo mio corpicino, o forse alla mia robicciuola, alla riputazioncella, ai figliuoli, alla moglie. Quanto si è a me, questo, se io voglio, è augurio buono, anzi ottimo. Imperocché io ricaverò utile dal successo, qual ch’egli sia per essere, solo che io voglia. 19. [ 1 ] Tu puoi essere invitto, e ciò è se tu non ti metterai a nessun aringo dal quale tu non abbia in tua facoltà di riuscire colla vittoria. [ 2 ] Guarda che quando tu vedi uomini onorati o potenti o come che sia riputati e osservati, l’apparenza non ti faccia forza in maniera che tu gli creda avventurosi e felici. Perciocché se la essenza del bene sta nelle cose che sono in nostra facoltà, non deono aver luogo né invidia né gelosia. E tu per la tua parte non vorrai essere né capitano di esercito, né presidente del consiglio, né console, ma libero: e a questo ci ha una sola via, che è non curarsi delle cose che non sono in nostro potere. 20. Ricordati che colui che rampogna o percuote, non offende esso, ma la opinione che si ha che questi cotali offendano. Sicché quando tu ti senti montar la collera contro uno, pensa che la tua propria immaginazione è quella che ti sprona all’ira, e non altri. Per tanto sforzati d’impedire che l’apparenza non ti trasporti in sul primo; che se tu otterrai un poco di tempo e d’indugio, più agevolmente ti verrà fatto di vincerti e di contenerti. 21. Abbi tutto il giorno dinanzi agli occhi la morte, l’esilio e tutte quelle altre cose che appaiono le più spaventevoli e da fuggire, e la morte massimamente; e mai non ti cadrà nell’animo un pensier vile, né ti nasceranno desiderii troppo accesi. 22. Vuoi tu darti a filosofare? Apparecchiati insin da ora a dovere essere schernito e deriso da molti; aspettati che la gente dica: oh, egli ci si è tramutato in filosofo a un tratto, e: che vogliono dire quelle sopracciglia aggrottate? Ora tu non aggrottare le sopracciglia, ma non lasciar però di attenerti a quello che tu estimi il migliore, perseverando, come a dire, in una ordinanza nella quale tu sii stato collocato da Dio. E sappi che se tu durerai nel tenor di vita incominciato, quei medesimi che a principio si avranno preso giuoco di te, in progresso di tempo cangiati ti ammireranno; laddove se per li motteggi ti perderai d’animo, tu ne guadagnerai le beffe e le risa doppie. 23. Se mai per volere acquistare la buona estimazione di alcuno, ti sarà intervenuto di versarti, per dir così, fuori di te medesimo, sappi che tu avrai rotto l’abito, e sarai uscito dai termini del tuo istituto di vita. Però non cercare altro mai che di essere filosofo, e sii contento e soddisfatto di questo in ogni cosa. Che se oltre ad essere, tu volessi eziandio parere, fa che tu paia filosofo a te medesimo, e tanto ti basti. 24. [ 1 ] Non istare a darti pena e sconforto dicendo fra te medesimo: io menerò una vita ignobile, e : io non sarò nulla. Perocché se la ignobiltà è un male, non puoi tu patire alcun male per cagion d’altri, più di quello che incorrere in alcuna vergogna. Ora dimmi, il pervenire a un ufficio pubblico, o l’esser chiamato a un convito, forse che sta in tuo potere?  Or come dovrà egli essere ignobile o ignominioso che tu non abbi parte in questo convito o che non pervenghi a questo ufficio?E come dì che tu non sarai nulla, quando a te non si conviene essere qualche cosa se non solamente in quello che è in tua facoltà, dove tu puoi bene essere d’assaissimo? [ 2 ] Ma gli amici non avranno da me aiuto né benefizio alcuno. Di che benefizi e di che aiuti vuoi tu intendere? Non avranno da te oro e, quanto è a te, non saranno fatti cittadini romani. Ora chi ti ha detto che queste sono cose di quelle che dipendono dal nostro arbitrio, e non cose poste in potere altrui? Chi può dare a un altro ciò che non ha egli? [ 3 ] E tu fa di acquistare, dirà qualcuno, per poter dare a noi. Se io posso acquistare, salva in me la verecondia, la fede, e l’altezza d’animo, mostratemi come si faccia, e io non mancherò. Ma se voi volete che io perda i miei propri beni perché voi dobbiate ottenere cose che non sono beni, vedete che poca equità e che indiscrezione è la vostra. Oltre che, qual vi eleggereste voi prima, tra danari e un amico fedele e ben costumato? Che non mi aiutate voi dunque piuttosto a esser tale, in cambio di volere che io faccia cose per le quali mi convenga perdere queste virtù? [ 4 ] Ma la patria non avrà da me alcun servigio. Ancora, di che servigi vuoi tu intendere? Non avrà per opera tua né bagni né portici. Oh, che maraviglia? Né anco ha calzari dal fabbro, né arme dal calzolaio. Egli basta bene che ciascheduno adempia l’ufficio suo. Dimmi, se tu istituissi e informassi alla tua patria un altro cittadino modesto e leale, non le faresti tu alcun benefizio? Certo che sì. Or come le sarai dunque inutile tu medesimo, essendo tale? [ 5 ] Ma che luogo terrò io nella patria? Quello che tu potrai, salva la modestia e la fede. Che se per voler giovare alla patria, tu perderai la fede e il pudore, che profitto le farai tu, divenuto che sarai sleale e impudente? 25. [ 1 ] Ti è egli stato anteposto di onorare il tale o il tale a un banchetto, o pur nel saluto, o nell’esser cerco di consiglio? Se questi cotali onori sono beni, egli ti debbe esser caro che colui gli abbia avuti; se mali, non ti dee dispiacere che non sieno toccati a te. Poi considera che non facendo tu per amore delle cose esterne quel medesimo che gli altri fanno, tu non puoi nel conseguimento di quelle andare al paro cogli altri. [ 2 ] Come può, per modo di esempio, colui che non frequenta le soglie dei grandi, che non gli accompagna, che non gli loda, andar del pari a coloro che fanno tutte queste cose? Egli sarebbe ingiustizia e ingordigia che non pagando tu quel prezzo a che si comperano i favori e i benefizi dei potenti e dei ricchi, tu gli volessi avere gratis. [ 3 ] A quanto si vendono le lattughe oggi? Ponghiamo caso, a un obolo. Ora facciamo che uno, spendendo un obolo, abbia tolto delle lattughe, e tu, non ispendendo, non ne abbia tolto: tu non dèi però pensare di aver punto meno che si abbia colui. Perocché se egli avrà le lattughe, e tu avrai l’obolo che non avrai speso. Il simile nel caso nostro. Tu non sei stato invitato a cena dal tale. Ma né anche hai dato a lui quello a che egli vende la sua cena. Ora egli la vende a prezzo di lodi, di osservanza, di ossequi. Paga dunque il prezzo se la mercanzia fa per te. Ma se tu vuoi non pagare il prezzo e avere la merce, questa si è ingordigia e furfanteria. Forse che in cambio della cena tu non hai nulla? Sì che tu hai ben questo, che tu non hai lodato chi non volevi, che non sei stato ad aspettarlo in sull’uscio. 26. La intenzione della natura si conosce da quelle cose dove noi non abbiamo interesse. Se il fante del vicino avrà spezzato un bicchiero o cosa tale, subito ti correrà in sulla lingua: elle sono cose che accaggiono. Ora sappi che chi spezzasse il tuo bicchiero, tu la dèi pigliare in quella medesima guisa che tu piglierai che si spezzi quello del tuo vicino. Così delle cose di maggior momento. Muore a un altro il figliuolo o la moglie? Sono casi umani. Muore il figliuolo o la moglie propria? Tosto gli oimè, gli ahi ahi. Ma egli si converrebbe avere a memoria quello che c’interviene quando il medesimo caso ci è riferito da un altro.  27. Come non si mette un bersaglio acciocché l’uomo non lo colga, così non si genera e non si ritrova al mondo la natura del male. 28. Se uno desse il tuo corpo in potestà di qualunque che gli venisse alle mani, tu te ne sdegneresti: e dando tu la tua mente in potere di chicchessia, per modo che se egli ti dirà una mala parola, quella si turbi e confonda, non ti vergogni però punto? 29. [ 1 ] Innanzi di metterti a qualsivoglia operazione, divisane teco stesso le antecedenze e le conseguenze. Altrimenti tu intraprenderai con grande animo, non pensando punto alle cose che hanno a venire; ma in progresso nascendoti qualche difficoltà e qualche vitupero, tu ti vergognerai. [ 2 ] Desideri tu diventar vincitore olimpico? E io non meno di te, per Dio; ché ella è una qualità che fa onore. Ma considera prima le antecedenze e le conseguenze, e poi mettiti all’impresa. Egli ti conviene sottoporti a una disciplina e osservare una regola; mangiare sforzatamente; astenerti dalle confetture e cotali piacevolezze; esercitare il corpo per forza a certe ore assegnate, sì al caldo come al freddo; non usare bevande fresche né vino a tuo piacimento; in fine darti tutto in mano al maestro, né più né meno come a un medico. Di poi scendere nell’aringo; a un bisogno guastarti una mano, smuoverti un tallone; ingoiare di buoni tratti di polvere; a un bisogno anche toccare delle sferzate, e poi per ultimo essere vinto. [ 3 ] Considerato che avrai tutte queste cose, se tu persevererai nel concetto di prima, datti agli esercizi dei giuochi. Ma se tu non considererai cosa alcuna innanzi, tu ti aggirerai come i bamboli, che ora fanno i lottatori, e quando gli atleti, e quando gli schermitori, poi strombazzano, poi contraffanno le tragedie. Così ancora tu: oggi schermitore, domani atleta, e quando oratore, poi filosofo, e nulla mai veramente e con tutto l’animo, ma in guisa delle scimmie tu contraffai tutto quello che tu vedi, e muti voglia a ogni tratto. Perocché tu non imprendi mai cosa alcuna consideratamente, e spiatala prima bene da ogni banda, ma così a caso e per qualche fantasia leggera. [ 4 ] Egli ci ha di quelli che veduto per avventura un filosofo, o udito dire a questo o a quello: oh, Socrate dice pur bene, e: chi è che possa favellare come faceva Socrate? Si mettono per voler filosofare ancor essi. [ 5 ] O uomo, considera prima sottilmente questo fatto del filosofare, di che sorta egli sia, e quindi fa di conoscere la tua natura, a veder se tu sei buono da comportarlo. Vuoi tu pigliare la professione di fare alla lotta o vero ai cinque giuochi? Tu hai da por mente alle tue braccia, alle cosce, ai lombi, perché una complessione è acconcia a una cosa e una a un’altra. [ 6 ] Pensi tu di potere filosofando mangiare e bere e fare lo schifo e il dilicato come al presente? Egli ti bisogna vegliare, faticare, separarti dai tuoi, essere vilipeso da un fanticello, in tutto essere inferiore agli altri, negli onori, nei magistrati, nei giudizi, in ogni coserella. [ 7 ] Considera bene queste difficoltà e questi incomodi, e vedi se egli ti pare espediente di sostenerli per avere in compenso di quelli la libertà, lo stato dell’animo senza perturbazioni, senza passioni: e non voler fare come i fanciulli, oggi filosofo, poi gabelliere, appresso oratore, indi procuratore di Cesare. Queste qualità non si accordano insieme. Egli si vuole essere una persona sola, o valente o da poco; adoperarsi intorno alla parte principale di noi medesimi, o intorno alle cose di fuori; aver cura dell’intrinseco o dell’estrinseco; che è quanto dire, esser filosofo o pure uomo comune. 30. I doveri e gli offici si misurano generalmente dalle relazioni. Il tale ti è padre? Appartientisi aver cura di lui; cedergli in ogni cosa; se ti rampogna, se ti batte, portatelo pazientemente. Ma egli è un cattivo padre. Forse che la natura ti obbliga al padre buono? Non già, ma semplicemente al padre. Il fratello ti fa egli torto? Tu non mancar però seco dell’officio tuo di fratello, e non guardare quello che si faccia egli, ma quello che abbi a far tu per procedere secondo natura. Perocché già un altro non ti può far nocumento se tu non vuoi; ben sarai tu offeso se tu stimerai che altri ti offenda. Or dunque nel predetto modo, se tu ti accostumerai di por mente alle relazioni, troverai gli offici e i doveri che ti si appartengono rispetto al vicino, al cittadino, al capitano e a qualsivoglia altro. 31. [ 1 ] La pietà verso gli Dei consiste massimamente in aver sane e rette opinioni intorno a quelli; cioè in credere che egli ci ha veramente iddii, e che questi iddii governano ogni cosa bene e con giustizia; e in assegnare a te medesimo questo ufficio e questa parte, di dovere ubbidire agl’iddii, e cedere in ogni cosa agli avvenimenti e acconciarviti di buon grado, come quelli che sono condotti dal miglior consiglio e dalla migliore volontà del mondo. Imperocché avendo queste opinioni, tu non vorrai per cosa alcuna dolerti degli Dei, né imputarli che non ti abbiano cura. [ 2 ] Or tutto questo non può altrimenti essere che se tu ti distaccherai dalle cose esterne, riponendo il bene e il male in quelle cose solamente che sono in tua potestà. Imperciocché se tu reputerai pure che alcune delle cose estrinseche sieno beni o mali, tu non potrai fare, quando tu non venghi a capo di ottener quello che avevi desiderato, o che tu incorra in quello che tu fuggivi, di non querelarti degli autori di questo effetto e di non pigliarli in odio; [ 3 ] essendo che tutti gli animali per natura fuggono e odiano quelle cose che paiono loro nocive e le cagioni di esse, siccome per lo contrario le cose riputate utili e le cagioni di quelle seguono e pregiano. Laonde egli è impossibile che uno il quale si creda ricevere nocumento, ami quella tal cosa la quale egli si penserà che gli noccia, così come è impossibile che uno ami il nocumento medesimo. [ 4 ] Di qui è che il figliuolo trascorre alle male parole contro il padre, quando costui non gli fa parte di quelli che la gente estima essere beni; e Polinice ed Eteocle per questo vennero tra loro in discordia, perocché essi reputarono essere un bene il principato. Perciò l’agricoltore, perciò il navigatore e il mercatante bestemmiano gli dei, e quelli che hanno perduto i figliuoli e le mogli bestemmiano gli dei; essendo che la pietà segue sempre l’utile. Di modo che ciascheduno che procaccia di desiderare e fuggire solamente quello che è da essere desiderato e fuggito, procaccia al tempo medesimo di esser pio. [ 5 ] Quanto si è alle libazioni, ai sacrifici, all’offerire delle primizie, queste cose si debbono fare da ciascuno, e ciò secondo le osservanze della propria terra, con purità e mondizia, e non trascuratamente né in fretta, né con soverchia strettezza né sopra quello che comportano le facoltà. 32. [ 1 ] Quando tu andrai per consultare qualche indovino, ricordati che tu non sai per verità il come sia per succedere il fatto, e vai per chiederne all’indovino, ma ben sai da altro canto la qualità del successo, se tu sei filosofo; perocché se esso è del numero di quelle cose che non dipendono dal nostro arbitrio, perciò solamente è manifesto che il medesimo non sarà né bene né male. [ 2 ] Fa dunque, andando all’indovino, di non recar teco né desiderio né aversione, e non ti accostare a quello tremando, anzi risoluto che qual sia per essere il successo, è cosa, verso di te, indifferente e che non ti fa nulla, poiché in tutti i modi tu avrai facoltà di volgerlo in tuo profitto, e ciò non ti potrà essere vietato da chicchessia. Però con animo franco e sicuro va, come dire, a consigliarti cogli Dei: e fatto questo, avuto qualche consiglio, ricordati che consigliatori sono stati i tuoi, e chi sono coloro ai quali tu manche rai di prestare orecchio se tu ti dipartirai dall’avviso che ti è stato porto. [ 3 ] Egli si vuol poi, conforme ordinava Socrate, cercare il consiglio degl’indovini in quelle occorrenze nelle quali il bene o male deliberare si riferisce totalmente alla riuscita, e dove né per ragione né per alcuna arte si hanno espedienti da conoscere il partito che si debba prendere. Di modo che se egli ti si darà occasione di doverti porre a qualche pericolo per la patria o per uno amico, tu non andrai per chiedere all’indovino se tu debba sottentrare a questo pericolo; perciocché quando pure ti fosse detto dall’indovino i segni delle vittime essere di mala qualità, manifesto è che per questa cosa ti sarebbe significata o la morte o il troncamento o vero lo storpiamento di qualche parte del corpo, o forse l’esilio; ma ragione ti mostra che ancora con tutto questo  egli si vorrebbe assistere all’amico e mettersi al pericolo per la patria; e per tanto tu obbedirai ad un maggiore indovino, io voglio dire ad Apollo Pizio, il quale scacciò dal tempio colui che era mancato di soccorso all’amico in quella che egli era messo a morte. 33. [ 1 ] Stabilisci a te stesso, come a dire, un carattere e una figura la quale tu abbi a mantenere da quindi innanzi sì praticando teco stesso e sì comunicando colle persone. [ 2 ] Tacciasi il più del tempo, o dicasi quel tanto che la necessità richiede, con brevità. Solo qualche rara volta, confortandovici il tempo e il luogo, discendasi a favellare distesamente; ma non di cotali materie trite e ordinarie, non di gladiatori o di corse di cavalli, non di atleti, non di cibi né di bevande, né di sì fatti altri particolari di che si ode a favellar tutto il dì, e sopra ogni cosa, non di persona alcun lodando o vituperando o facendo comparazioni. [ 3 ] Fa, se tu puoi, di raddrizzare e ridurre al convenevole i ragionamenti dei compagni. Se tu ti ritroverai solo tra persone aliene dalla filosofia, tienti senza far motto. [ 4 ] Poche risa, e non grandi, e non di molte materie. [ 5 ] Non prender mai giuramento, se tu potrai; se no, il più di rado che tu possa. [ 6 ] Schifa di trovarti a conviti di persone comunali e rimote dalla filosofia: e se ciò per alcuna occasione talvolta non si potrà schifare, ricorditi di star desto e attento più del consueto, che tu non trascorressi nei modi e costumi della comun gente. Imperocché sappi che di necessità, se il compagno sarà lordo,  e che tu gli praticherai dattorno, tu ti lorderai, ponghiamo che ora sii netto. [ 7 ] Le cose appartenenti al corpo, come dire il mangiare, il bere, il vestito, il tetto, la servitù, adoprinsi non più oltre che in quanto elle servono al puro uso. Tutto quel che è ad ostentazione o delizia, taglisi via. [ 8 ] Innanzi alle nozze egli si vuole astenersi dai diletti carnali quanto si può, e usandogli pure alcuna volta, non si discostare in ciò dalle leggi. Ma tu non vorrai perciò riprendere e noiar con parole coloro che gli sogliono usare, e non istarai ad ogni poco a mettere in campo che tu non usi di così fatte voluttà. [ 9 ] Chi ti riportasse che il tale o il tal altro dicesse mal di te, non pigliare a scusarti e difenderti, ma rispondi che egli si vede bene che questi non ha contezza degli altri difetti che io ho, perocché, sapendogli, ei non avrebbe tocco solamente questi. [ 10 ] A teatri non accade usar molto. Ma quando ti sarà nata occasione di trovarti in cotali luoghi, non dimostrar sollecitudine o pensiero di qualsivoglia altro che di te stesso, cioè non voler che avvenga se non quel medesimo che avverrà, né che vinca altri che quegli a cui toccherà la vittoria; perocché in tal modo non t’interverrà che il tuo desiderio abbia impedimento. Dal gridare, dal soverchio ridere sopra alcuna qual si sia persona o cosa, dal molto dimenarti e contorcerti, convienti astenere al tutto. E uscito che tu sarai di là, non andar troppo ragionando cogli altri dell’accaduto, se già non fosse di cose che potessero conferire a farti migliore. Perocché tu faresti segno che lo spettacolo ti fosse oltre modo piaciuto. [ 11 ] Non andare alla udienza di certi dicitori, anzi schifa di trovarviti  in ogni modo. Che se per ventura vi ti troverai, fa di serbare una contenenza grave e soda, e non però spiacevole né superba. [ 12 ] Accadendoti di dover venire a qualche ragionamento o pratica con chicchessia, e specialmente con alcuno di quelli che sono reputati soprastare agli altri, proponti dinanzi agli occhi quello che avrebbe fatto in tale occorrenza o Socrate o Zenone; e tu non sei per mancare del modo di portarti convenientemente in ogni caso. [ 13 ] Andando a trovare alcuno dei potenti, mettiti nell’animo che tu non sei per trovarlo a casa, ch’egli si sarà serrato dentro, che non ti sarà voluto aprir l’uscio, che colui non ti darà mente. E se con tutto questo, per non mancar dell’ufficio tuo, ti conviene andare, portati in pace in ogni cosa che t’intervenga, e non dir mai fra te stesso: egli non portava il pregio; che è un parlar da uomo ordinario e dato tutto quanto alle cose esterne. [ 14 ] Guarda bene nei cerchi e nelle compagnie, che tu non istessi a far troppe parole intorno ad azioni fatte o a pericoli sostenuti da te medesimo. Perciocché non siccome egli piace a ciascuno di raccontare i propri pericoli, così riesce dilettevole alle persone l’udir le avventure di chi favella. [ 15 ] Non istare anco a studiarti di muovere il riso; perché ciò facendo, si porta pericolo di trascorrere ai modi e alla usanza dei più; oltre che di leggeri avverrebbe che i circostanti rimetterebbono più o manco della loro riverenza verso di te.[ 16 ] Egli è medesimamente pericoloso lo entrare in ragionamenti di cose oscene: e per tanto ove ciò intervenga, se egli ci avrà luogo, tu sgriderai quel tale che sarà entrato in così fatta materia; se no, col porti a stare in silenzio e collo arrossire e fare il viso brusco, tu darai ad intendere che quel cotal favellare ti spiaccia. 34. Se tu avrai concetta l’immaginazione di alcuna voluttà, guarda che cotale impressione non ti trasporti, ma fa, per modo di dire, che la cosa aspetti, e impetra da te medesimo un poco d’indugio. Poi mettiti davanti agli occhi l’uno e l’altro tempo; quando tu ti godrai questa voluttà, e quando goduta che tu l’abbi, tu te ne pentirai e rampognerai teco medesimo; e a rincontro metti il piacere che sei per provare se tu te ne sarai astenuto, e le lodi che ne riceverai da te stesso. E se egli ti parrà tempo opportuno da venire a quel cotal fatto, poni cura di non lasciarti vincere da quella piacevolezza e da quelle lusinghe e da quel dolce della cosa, e metti a rincontro quanto ei ti saprà meglio se tu sarai consapevole a te medesimo di aver vinto tu questa così fatta vittoria. 35. Quando tu farai cosa che tu abbi considerato e giudicato di dover fare, non volerti nascondere che gli altri non ti veggano a farla, se bene il più delle persone fossero per interpretare il fatto sinistramente. Perciocché o tu fai male, ed egli si vuole anzi fuggire il fatto medesimo; o fai bene, e che timore hai tu di quelli che ti riprenderanno a torto? 36. Siccome il dire: o egli è dì o vero è notte, quanto al senso disgiuntivo, afferma e ha gran forza, ma pigliato congiuntamente, tutto al contrario; per simile il prendersi la maggior porzione della vivanda, quanto al proprio corpo, sta bene ed è molto acconcio, ma quanto a quella comunione che vuolsi osservare nei conviti, sconviene e non è a proposito. Per tanto quando tu sarai a mangiare con qualche altro, ricordati di non guardar solo a quella convenienza che avranno le vivande colla utilità e col piacere del tuo corpo, ma eziandio a quella che debbe osservarsi rispetto al convitatore. 37. Se tu prenderai a fare una persona da più che non comportano le tue forze, primieramente tu riuscirai con poco onore in questa figura, poi tu avrai lasciato indietro quella che avresti potuto sostenere compiutamente. 38. Siccome, andando per le vie, tu hai l’occhio a non calpestare un chiodo e a non ti storcere un piede, così abbi cura di non far pregiudizio alla parte principale di te medesimo. E se altrettanto osserveremo in ciascun atto, noi faremo ogni cosa più sicuramente. 39. Misura dello avere si è a ciascheduno il proprio corpo, siccome della scarpa il piede. Per tanto se tu ti conterrai dentro ai termini di quel che è richiesto alla tua persona, tu serberai la misura, ma se tu gli passerai, di necessità da quell’ora innanzi andrai senza fine precipitando come per un dirupato. Non altrimenti che nella scarpa se tu passi più avanti di quello che si appartiene all’uso del piede, la scarpa ti diventa prima dorata, appresso di porpora, poi ricamata, gioiellata. Perocché di là dalla misura non ci ha limite alcuno. 40. le donne insino dalla età di quattordici anni incominciano ad esser chiamate dagli uomini con titolo di signore. Sicchè vedendo che esse niun altro pregio hanno, ma solo sono pregiate rispetto all’usar cogli uomini carnalmente, dannosi ad acconciarsi e ornarsi, e a riporre ogni loro speranza in cotale studio. Per tanto vuolsi por cura di far che elle si avveggano di non essere avute in pregio se non se in quanto si dimostrino costumate, vereconde e caste. 41. L’essere lungamente occupato dintorno ai servigi del corpo, come a dire agli esercizi della persona, al mangiare, al bere, alle necessità naturali, alle carnalità, è segno di piccola indole. Queste cose si deono fare come per transito, e tutto lo studio di dee porre intorno alla mente. 42. Qualora alcuno o con parole o con fatti ti offende, sovvengati che egli opera o vero parla in quel cotal modo, stimando che di così fare o vero parlare gli appartenga e stia bene. Ora è di necessità che egli si governi, non conforme a quello che pare a te, ma secondo che pare a lui. Sicché se a lui pare il falso, esso si ha il danno e non altri, cioè a dire, il danno è di colui che s’inganna.  Pigliamo una verità di quelle che chiaman connesse: se uno la si crederà falsa, non la verità, ma questo tale, ingannandosi, porterà il danno. Per sì fatta guisa discorrendo, tu comporterai mansuetamente colui che ti oltraggerà; perocché ogni volta tu hai da dire: così gli è paruto che convenisse. 43. Ogni cosa ha, per maniera di dire, due manichi: a pigliarla dall’uno, ella si sopporta, dall’altro no. Se il fratello ti farà ingiuria, non pigliar la cosa per modo che tu dica: egli mi fa ingiuria, perché questo è quel manico dal quale se tu la prendi, ella non si porta; ma pigliala da quest’altra banda, e dì: mio fratello, nutrito e cresciuto meco insieme; e tu la piglierai da quel lato dal quale ella si può portare. 44. Queste cotali argomentazioni non reggono: io sono più ricco di te, dunque io sono da più di te; io sono più letterato di te, dunque io sono da più. Queste altre reggerebbero bene: io sono più ricco di te, dunque la mia roba è da più che la tua; io più letterato di te, dunque la mia dicitura val più che la tua. Ma tu non sei né roba né dicitura. 45. Uno si laverà in fretta. Non dire: ei si lava male, ma: egli si lava in fretta. Un altro berrà molto vino. Non dire: egli bee male, ma sì: egli bee molto vino. Perciocché come puoi tu sapere se quelli fanno male, innanzi che tu abbi considerata e stabilita la opinione che tu piglierai? Per tal modo non t’interverrà di ricevere una impressione, e giudicare secondo un’altra. 46. [ 1 ] Non darti mai titolo di filosofo, e tra gente comunale non volere, se non fosse alcune poche volte, entrare in ragionamenti di dottrina speculativa, ma in quella vece opera secondo cotal dottrina. A cagion di esempio, in un convito non istare a discorrere come si debba mangiare, ma sì bene mangia come si dee. Né ti esca di mente che in sì fatto modo anche Socrate rimosse da sé ogni ostentazione. Venivano a lui quando uno e quando un altro, chiedendo che ei li dovesse introdurre ora a questo ora a quel maestro di filosofia, ed esso menavagli dove volevano. Tanto ben sopportava di essere non curato e lasciato indietro. [ 2 ] Adunque, ponghiamo eziandio che tra uomini comunali il favellare cadesse per avventura sopra qualche articolo di materia speculativa, tu ti conterrai per lo più in silenzio. Perciocché altrimenti tu correresti gran rischio di gittar fuori quello che tu non avessi anco smaltito. E quando alcuno ti dirà che tu non sai nulla, e tu per udir questo non ti sentirai pungere, allora sappi che tu cominci a far frutto. Vedi tu che le pecore non portano al pastore erba per dare a vedere la quantità ch’elle hanno mangiato, ma smaltita la pastura dentro, danno di fuori la lana e il latte? E tu similmente non isciorinare in sugli occhi dei non filosofi le dottrine speculative, ma da quelle ben digerite dentro, forma estrinsecamente e dimostra a coloro le operazioni. 47. Quando tu sarai perfetto quanto all’uso e al reggimento del corpo, non voler però pavoneggiarti e far mostra di questa cosa; e se tu berrai acqua, tu non dirai ad ogni occasione: io non beo che acqua. E se alcuna volta ti vorrai esercitare alla sofferenza per amor di te stesso e non delle cose estrinseche, tu non andrai ad abbracciare le statue, ma talora che tu arderai dalla sete, piglia una boccata d’acqua fresca e sputala, e di ciò non far motto. 48. [ 1 ] Stato e contrassegno dell’uomo comune si è, né beneficio né danno aspettarsi mai da se stesso, ma sì dalle cose di fuori. Stato e contrassegno del filosofo, ogni qualsivoglia utilità o nocumento sperare o temere da se medesimo. [ 2 ] Segni che uno fa pro nella filosofia sono non parlar male di alcuno; non lodar chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellar cosa alcuna di sé come di persona di qualche peso o che s’intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputar la colpa a se stesso; lodato, ridere interiormente del lodatore; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima ch’ella sia bene assodata; [ 3 ] aver posto giù ogni appetito; ridotta l’aversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dar luogo a prime inclinazioni e primi moti dell’animo se non riposati e placidi; se sarà tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all’erta con se medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore. 49. Quando alcuno si vanterà o si terrà d’assai per sapere intendere o poter dichiarare i libri di Crisippo, dì teco stesso: se Crisippo non avesse scritto oscuro, costui non avrebbe di che gloriarsi. Ma che è poi veramente quel che io desidero? Intender la natura e seguirla. Cerco dunque chi sia quello che me la interpreti. E sentendo essere Crisippo, vo a lui. Ma non intendo il suo scrivere. Cerco dunque uno che me lo esponga. E fin qui non ci ha materia veruna di gloriarsi. Trovato lo sposistore di Crisippo, resta che io metta in pratica gli ammaestramenti ch’io ricevo. E in ciò solo consiste quel che fa onore. Ma se io invaghirò della facoltà medesima della interpretazione, che altro mi verrà fatto se non che io diverrò un grammatico anzi che un filosofo? Salvo che invece di Omero, chioserò Crisippo. Piuttosto dunque, se uno mi dirà: leggimi Crisippo, egli mi conviene arrossire, quando io non possa mostrare i fatti concordi e somiglievoli alle parole. 50. Ciascun proponimento che tu farai vuolsi osservare e mantenere come fosse una legge e un punto di religione. Che che poi si dica di te il mondo, non vi por mente, poiché questa parte non è in tuo potere. 51. [ 1 ] In che tempo dunque ti riserbi tu ad aspirare ai maggiori beni dell’uomo, e ad osservare in che che sia la regola che distingue le cose nostre e le esterne? Tu hai pur avuto i documenti che erano da meditare e quasi da conversar con essi; tu gli hai meditati e usato con esso loro: che maestro aspetti tu anco, sotto la cui disciplina tu intenda di voler dare effetto alla riforma di te stesso? Tu non sei più mica un fanciullo, ma uomo fatto. Se tu ti starai così neghittoso e a bada senza pensare, accumulando ogni giorno indugi con indugi, moltiplicando in propositi, destinando ora un termine e fra poco un altro, in capo al quale incominciare ad attendere a te medesimo; tu non te ne avvedrai che senza aver fatto un progresso al mondo, sarai pur vissuto e morto uomo del volgo. [ 2 ] Incomincia dunque insino da ora a studiar di vivere da uomo perfetto e che cresce in virtù; e tutto quello che ti parrà essere il migliore, siati in luogo di legge inviolabile. E come prima ti si farà incontro alcuna cosa dura e spiacevole o pur dilettosa e dolce, alcuna che porti seco la estimazione o la lode o vero il dispregio o il biasimo delle genti, fa ragione ch’egli sarà venuto il tempo dello aringo, e quella essere l’ora della solennità olimpica,  e non ci aver luogo indugio; e che secondo che tu sarai per durare o vero per cedere in una battaglia, tu perderai o vero conserverai lo avanzamento tuo nel bene. [ 3 ] Socrate in così fatta guisa diventò perfetto, a niente altro avendo riguardo in ciascheduna cosa che gl’incontrava, se non solamente alla ragione. Che se ben tu non sei per ancora un Socrate, tu dèi però vivere come uno il quale desideri di esser tale. 52. [ 1 ] Il primo e più necessario luogo nella filosofia si è quello delle proposizioni morali pratiche, come sarebbe, per modo di esempio, questa; che egli non si dee mentire. Il secondo è quello delle dimostrazioni; come, per esempio, provare con argomenti che non si dee mentire. Il terzo serve a confermazione e distinzione delle stesse cose, e trattatisi, ponghiamo, donde è che questa tale è dimostrazione, e che cosa è dimostrazione, che cosa sono conseguenza e ripugnanza, verità e falsità. [ 2 ] Di modo che il terzo luogo è necessario a rispetto del secondo, il secondo a rispetto del primo; ma il più necessario di tutti, e dove si dee restare, si è il primo. Ora noi facciamo il contrario; che noi soprastiamo nel terzo luogo, e in quello poniamo tutto lo studio e la industria; e del primo non abbiamo un pensiero al mondo. Sicché avviene che egli si mente ogni dì, ma il come provar che egli non si dee mentire, questo si ha in sulle dita. 53. [ 1 ] Abbiansi ad ogni occasione apparecchiate queste parole: menami o Giove, e con Giove tu o Destino, in quella qual si sia parte a che mi avete destinato; e io vi seguirò di buon cuore. Che se io non volessi, io mi renderei un tristo e un da poco, e niente meno a ogni modo vi seguirei.
[ 2 ] Ancora: chiunque sa bene accomodarsi alla necessità, tiene appresso noi grado di saggio, ed esso ha il conoscimento delle cose divine.
[ 3 ] Ancora in terzo luogo: o Critone, se così piace agli dei, così sia. [ 4 ] Anito e Melito mi possono bene uccidere, ma non già offendere.            

Il Manuale di Epitteto
tradotto da Franco Scalenghe

Ε μν τ σμά σού τις πέτρεπε τ παντήσαντι, γανάκτεις ν: τι δ σ τν γνώμην τν σεαυτο πιτρέπεις τ τυχόντι, να, ἐὰν λοιδορήσηταί σοι, ταραχθ κείνη κα συγχυθ, οκ ασχύν τούτου νεκα;

“Se qualcuno delegasse il tuo corpo a chi ti viene incontro, ne fremeresti. E che tu deleghi la tua intelligenza a chi capita affinché, se sarai ingiuriato, essa ne sia sconcertata e confusa: per questo non ti vergogni?” (Manuale, 28)

E1. 

Esistono cose per natura libere e cose per natura schiave. La Diairesi è il Supergiudizio che sa distinguere quanto è libero da quanto è schiavo. La Controdiairesi è il Supergiudizio che decreta schiavo quanto invece è libero, oppure decreta libero quanto invece è schiavo per natura delle cose.

[E1,1] Delle cose che sono, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere sono concezione, impulso, desiderio, avversione e, in una parola, quanto è opera nostra. Non sono in nostro esclusivo potere il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche e, in una parola, quanto non è opera nostra. [E1,2] Le cose in nostro esclusivo potere sono per natura libere, non soggette ad impedimenti, non soggette ad impacci; mentre le cose non in nostro esclusivo potere sono deboli, serve, soggette ad impedimenti, allotrie. [E1,3] Ricorda dunque che se crederai libero quanto per natura delle cose è servo, e peculiare quanto è allotrio, sarai intralciato, piangerai, sarai sconcertato, biasimerai dei ed uomini. Se invece crederai tuo solo quanto è tuo ed allotrio, com’è, l’allotrio; nessuno mai ti costringerà, nessuno ti impedirà; non biasimerai nessuno, non incolperai nessuno, non effettuerai neppure una sola cosa tuo malgrado, non avrai nemici personali, nessuno ti danneggerà giacché non sperimenterai nulla di dannoso. [E1,4] Prendendo dunque di mira cose così rilevanti, ricorda che bisogna accostarsi ad esse non equilibratamente mossi ma che si deve tralasciarne alcune definitivamente ed altre, per il presente, posporle. Se vorrai tanto queste cose quanto occupare cariche ed essere ricco di denaro, per il fatto di prendere di mira anche le precedenti non centrerai, caso mai, neppure queste; ma fallirai affatto quelle attraverso cui soltanto promanano libertà e felicità. [E1,5] Subito dunque, ad ogni rappresentazione rude studia di soggiungere che “Sei una rappresentazione e non affatto quanto appari”. Poi indagala e valutala con questi canoni che hai, ed innanzitutto e soprattutto con questo: se è di cose in nostro esclusivo potere o di cose non in nostro esclusivo potere. E se sarà di qualcuna delle cose non in nostro esclusivo potere, ti sia a portata di mano che “Nulla è per me”.

E2.

Sfortune e cattive fortune.

[E2,1] Ricorda che professione del desiderio è centrare ciò che desidera, professione dell’avversione non incappare in ciò che avversa. Chi fallisce nel desiderio è sfortunato, mentre chi nell’avversione incappa in quanto avversa ha cattiva fortuna. Se dunque, di quanto è in tuo esclusivo potere, avverserai solo il contrario alla natura delle cose, non incapperai in nulla di ciò che avversi. Ma se avverserai la malattia o la morte o la povertà di denaro, avrai cattiva fortuna. [E2,2] Rimuovi dunque l’avversione da tutto quanto non è in nostro esclusivo potere ed allogala su quanto, di ciò che è in nostro esclusivo potere, è contrario alla natura delle cose. Il desiderio, per il presente, aboliscilo definitivamente. Giacché se desidererai qualcosa di non in nostro esclusivo potere, è necessario che tu sia sfortunato, mentre nulla di quanto è in nostro esclusivo potere e sarebbe bello desiderare ti è ancora presente. Usa soltanto l’impellere ed il repellere, e tuttavia leggermente, con eccezioni e pacatamente.

E3.

La natura delle cose.

[E3,1] Per ciascuna delle cose che ti cattivano l’animo o procurano un’utilità o per le quali hai affetto, ricorda di soggiungere, iniziando dalle più spicciole, quale ne è la natura. Se avrai affetto per una pentola, soggiungi “Ho affetto per una pentola” giacché, se essa si romperà, non sarai sconcertato. Se bacerai il tuo bimbo o tua moglie, soggiungi che baci una persona; giacché morendo essa, non ne sarai sconcertato.

E4.

Proairesi: la facoltà logica degli esseri umani, la loro intelligenza, in quanto può scegliere di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente.

[E4,1] Qualora stia per accostarti ad un’opera, richiamati alla memoria qual è la natura dell’opera. Se te ne andrai per fare un bagno caldo, mettiti davanti gli avvenimenti alle terme: quelli che spruzzano, quelli che strattonano, quelli che ingiuriano, quelli che rubano. E così ti accosterai all’opera più sicuramente se subito soggiungerai: “Dispongo di fare un bagno caldo, ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose”. E fa’ allo stesso modo per ciascuna opera. Giacché così, se qualcosa diverrà un intralcio a fare un bagno caldo, avrai a portata di mano che: “Io non disponevo solo questo, ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose; e non la serberò se fremerò davanti agli avvenimenti”.

E5.

Noi siamo proairesi, ossia i nostri giudizi.

[E5,1] Sconcertano gli esseri umani non le faccende, ma i giudizi sulle faccende. Per esempio, la morte nulla è di terribile, dacché questo sarebbe parso anche a Socrate; ma il giudizio sulla morte, che sia terribile, quello è il terribile. Qualora dunque siamo intralciati o sconcertati od afflitti, non accagioniamo mai altro che noi stessi, cioè i nostri giudizi. Incolpare altri per ciò per cui lui finisce male è opera del non educato a diairesizzare. Incolpare se stessi è opera di chi ha iniziato a diairesizzare. Non incolpare né un altro né se stesso, di chi è stato educato a diairesizzare. 

E6.

Eccellenza della natura umana è null’altro che l’uso retto, ossia secondo la natura delle cose, delle rappresentazioni.

[E6,1] Non esaltarti per nessun pregio altrui. Se un cavallo dicesse esaltato: “Sono bello”, sarebbe comportabile; ma qualora tu dica esaltato: “Ho un bel cavallo”, sappi che ti esalti per la bontà di un cavallo. Cos’è dunque tuo? L’uso delle rappresentazioni. Sicché esaltati allorquando tu agisca secondo la natura delle cose nell’uso delle rappresentazioni; giacché allora ti esalterai per una qualche tua bontà.

E7.

Tutto quanto è aproairetico prima o poi deve essere restituito.

[E7,1] Appunto come, durante un viaggio per mare, quando il bastimento è all’ancora, se uscissi per rifornirti d’acqua, strada facendo raccoglierai ora una chiocciolina ora una cipollina; ma bisogna che l’intelletto sia teso al bastimento e che ti impensierisca costantemente se mai il pilota chiamerà; e se chiamerà, che tralasci tutte quelle cose per non essere sbattuto a bordo incatenato come le pecore; così pure nella vita, se invece di una cipollina e di una chiocciolina ti saranno dati una mogliettina ed un bimbo, nulla impedirà; ma se il pilota chiamerà, corri al bastimento tralasciando tutte quelle cose e senza voltarti. E se sarai vecchio, neppure allontanati troppo dal bastimento, per non eclissarti quando chiama.

E8.

Errore, vizio, infelicità.

[E8,1] Non cercare che gli avvenimenti accadano come vuoi, ma disponi gli avvenimenti come accadono e sarai sereno. 

E9.

Soltanto la proairesi è per natura libera da qualsiasi impedimento esteriore.

[E9,1] La malattia è un intralcio del corpo, non della proairesi, se la proairesi non lo disporrà. Un’azzoppatura è un intralcio di gamba, non di proairesi. E questo soggiungi per ciascun accadimento, giacché troverai che esso intralcia qualcos’altro ma non te.

E10.

Una proairesi che sa conservarsi libera in ogni situazione.

[E10,1] Per ciascuno degli eventi che ci incolgono, ricorda di voltarti a te stesso e di cercare quale facoltà hai per il suo uso. Se vedrai un magnifico giovanotto od una magnifica ragazza, troverai che la facoltà per queste cose è la padronanza di sé. Se ti si fornirà un dolore, troverai la fortezza. Se un’ingiuria, troverai la pazienza. Ed abituato così, le rappresentazioni non ti rapiranno con sé.

E11.

Tutto quanto è aproairetico prima o poi deve essere restituito 2.

[E11,1] Non dire mai di nulla “Lo persi”, ma “Lo restituii”. Il tuo bimbo morì? Fu restituito. Morì tua moglie? Fu restituita. “Il podere mi fu sottratto”. Dunque anche questo fu restituito. “Ma chi lo sottrasse è cattivo”. Che t’importa attraverso chi, colui che dà richiese? E finché ti sarà dato, siine sollecito come di cosa allotria; come i passanti dell’albergo.

E12.

Uomini, prezzi e profitto.

[E12,1] Se disponi di fare profitto, tralascia i rendiconti siffatti: “Se trascurerò i miei affari, non avrò sostentamento”; “Se non castigherò il ragazzo, sarà un malvagio”. Giacché è meglio morire di fame dopo essere diventato capace di dominare l’afflizione e la paura, piuttosto che vivere nell’abbondanza essendo preda dello sconcerto. E’ meglio che il ragazzo sia cattivo piuttosto che tu infelice. Inizia perciò dalle cose spicciole. [E12,2] E’ versato un po’ d’olio; è rubato un po’ di vino. Soggiungi: “A tanto si vende il dominio sulle passioni, a tanto il dominio sullo sconcerto”. Nulla promana gratis. Qualora chiami il ragazzo, pondera che può non darti retta, e darti retta ma non fare nulla di ciò che vuoi: ma non gli va così bene che sia in suo esclusivo potere il non essere tu preda dello sconcerto!

E13.

Questo o quello per me pari sono?

[E13,1] Se disponi di fare profitto, reggi di sembrare dissennato e sciocco riguardo agli oggetti esterni, e non decidere di sembrare uno che ha scienza di qualcosa. E se ad alcuni sembrerai essere qualcuno, diffida di te stesso. Sappi infatti che non è facile custodire la propria proairesi operante secondo la natura delle cose e gli oggetti esterni, ma se sei sollecito dell’una è del tutto necessario trascurare gli altri.

E14.

Può forse farci liberi qualcosa che è in potere d’altri?

[E14,1] Se vorrai che i tuoi figlioli e tua moglie ed i tuoi amici vivano ognora, sei sciocco; giacché vuoi che quanto non è in tuo esclusivo potere sia in tuo esclusivo potere e che l’allotrio sia tuo. Così, se vorrai che il ragazzo non aberri, sei stupido; giacché vuoi che il vizio non sia vizio ma qualcos’altro. Se però disporrai di non fallire desiderando, questo lo puoi. [E14,2] Esercita dunque questo che puoi. Signore di ciascuno è chi ha la potestà di procacciare o sottrarre delle cose che quello vuole o non vuole. Chiunque decide di essere libero non deve dunque volere né fuggire alcunché di quanto è in potere d’altri. Se no, è necessario che sia servo.

E15.

Il convito.

[E15,1] Ricorda che devi condurti come in un convito. Una portata è arrivata di fronte a te: sporgi la mano e condividi con compostezza. Perviene oltre: non rattenerla. Non è ancora giunta: non proiettare più in là il desiderio, ma attendi finché non sarà di fronte a te. Così verso figlioli, così verso moglie, così verso cariche, così verso la ricchezza di denaro: ed una volta sarai degno convitato degli dei. Se poi, pur essendoti sistemate accanto le portate, non ne prenderai ma le disdegnerai, allora non solo sarai un convitato degli dei ma comanderai pure con loro. Giacché così facendo Diogene, Eraclito ed i loro simili meritatamente erano ed erano detti divini.

E16.

L’afflizione altrui.

[E16,1] Qualora tu veda qualcuno che singhiozza in lutto, o perché si mette in viaggio un figliolo o perché ha perso le sue cose, fa attenzione non ti rapisca con sé la rappresentazione che egli si trova in cattive acque ad opera degli oggetti esterni. Ma subito ti sia a portata di mano che “Opprime costui non l’accidente (giacché non opprime un altro) ma il suo giudizio al riguardo”. Finché tuttavia si tratta di parole non peritarti, caso mai, ad essere compiacente con lui e condolerti. Fa tuttavia attenzione a non sospirare anche dal di dentro.

E17.

Sei un attore.

[E17,1] Ricorda che sei attore di un dramma quale lo disporrà il regista. Se breve, di uno breve; se lungo, di uno lungo. Se il regista disporrà che tu reciti la parte un poveraccio, lo fa affinché tu reciti anche questo da purosangue; ed ugualmente se disporrà per te la parte di uno zoppo, di un magistrato, di un privato cittadino. Giacché tuo è recitare bene il personaggio dato; selezionarlo per te è di un altro.

E18.

Il mio bene è nelle mie mani.

[E18,1] Qualora un corvo abbia gracchiato in modo non benaugurante, la rappresentazione non ti rapisca con sé ma subito fra te e te discrimina e dì: “Niente di ciò significa qualcosa per me, ma lo significa per il mio corpicino o per le mie coserelle o per la mia reputazione o per i miei figlioli o per mia moglie. Per me tutto significa buon augurio, se io lo disporrò; giacché qualunque di queste cosa succederà è in mio esclusivo potere trarne giovamento”.

E19.

Invincibili nella gara della libertà.

[E19,1] Puoi essere invincibile se non scenderai in nessuna gara in cui non è in tuo esclusivo potere vincere. [E19,2] Vedendo qualcuno anteposto a te, od un magnate o chi altrimenti ha applausi, vedi di non beatificarlo, rapito con sé dalla rappresentazione. Giacché se la sostanza del bene sarà in quanto è in nostro esclusivo potere, non hanno territorio né invidia né gelosia; e tu non vorrai essere stratega né pritano né console ma libero. Una sola è la strada che porta a questo: lo spregio di quanto non è in nostro esclusivo potere.

E20.

L’oltraggio.

[E20,1] Ricorda che non chi ti ingiuria o percuote ti oltraggia, ma è il tuo giudizio circa questi atti come oltraggiosi. Qualora, dunque, uno ti stuzzichi, sappi che la tua concezione ti ha stuzzicato. Innanzitutto prova dunque a non essere rapito con sé dalla rappresentazione, giacché una volta che otterrai tempo ed indugio, più facilmente sarai padrone di te stesso.

E21.

La morte.

[E21,1] Morte, esilio e tutto quanto appare terribile ti siano davanti agli occhi ogni giorno. Più di tutto la morte. E non rimuginerai mai qualcosa da servo nell’animo né smanierai troppo per qualcosa.

E22.

La derisione e l’ammirazione degli esseri umani.

[E22,1] Se smani per la filosofia, preparati immantinente ad essere deriso, ad essere sbeffeggiato da molti i quali diranno: “Improvvisamente ci è ritornato filosofo!” e “Questo cipiglio donde ci viene?” Tu non avere il cipiglio e attieniti a quanto ti appare ottimo come chi è stato posizionato a questo rango da Zeus. Ricorda che se manterrai i medesimi giudizi, quanti prima ti deridono costoro, successivamente, ti ammireranno; ma se sarai da loro sconfitto, aggiungerai alla prima una seconda derisione.

E23.

Sembrare ed essere.

[E23,1] Se mai ti accadrà di rigirarti fuori per la decisione di essere gradito a qualcuno, sappi che mandasti in malora il tuo istituto di vita. Accontentati dunque in ogni circostanza di essere filosofo. Se poi decidi anche di sembrarlo, apparilo a te stesso e sarà sufficiente.

E24.

Sacrificarsi per “la Causa” a costo di perdere i nostri veri beni?

[E24,1] Queste perplessità non ti opprimano: “Io vivrò senza onorificenze e non sarò nessuno da nessuna parte”. Giacché se il difetto di onorificenze è un male, tu però non puoi essere nel male a causa di un altro, non più che nella vergogna. E’ forse opera tua centrare una carica od essere invitato ad un banchetto? Nient’affatto! Com’é dunque questo ancora un difetto di onorificenze? Come non sarai nessuno da nessuna parte, tu che devi essere qualcuno nelle sole cose in tuo esclusivo potere, nelle quali hai la potestà di essere di grandissimo valore? [E24,2] Ma i tuoi amici rimarranno senza aiuto? Perché dici “senza aiuto”? Non avranno da te quattrinelli e neppure li farai cittadini romani. E chi ti disse che queste sono tra le cose in nostro esclusivo potere e non opere allotrie? Chi può dare ad un altro ciò che lui non ha? “Dunque acquisiscile,” dice, “affinché noi le abbiamo”. [E24,3] Se posso acquisirle serbando me stesso rispettoso di me e degli altri, leale, disinteressato, mostra la strada e le acquisirò. Ma se sollecitate che io perda i miei beni affinché voi vi procacciate dei non beni, vedete come siete iniqui e scriteriati. E cosa più decidete di avere? Del denaro od un amico leale e rispettoso di sé e degli altri? Soccorretemi dunque piuttosto a questo, e non sollecitatemi ad effettuare atti per cui butterò via proprio lealtà e rispetto di me e degli altri. [E24,4] “Ma la patria, per quanto è in mio potere,” dice, “sarà senza aiuto”. Di nuovo, di che tipo è questo aiuto? Non avrà grazie a te né portici né terme. E questo cos’è? Giacché neppure ha calzari grazie al fabbro né armi grazie al calzolaio. E’ sufficiente invece se ciascuno assolverà la propria opera. Se tu le strutturassi un altro cittadino leale e rispettoso di sé e degli altri, non gioveresti per nulla alla patria? “Sì”. Pertanto neppure tu saresti futile per lei. “Quale rango,” dice, “avrò dunque nella città?” Quello che potrai, custodendo insieme l’uomo leale e rispettoso di sé e degli altri. [E24,5] Ma se, deciso a giovare alla città butterai via questo, di che pro le diventeresti risultando irrispettoso e sleale?

E25.

Portaborse e leccaculi.

[E25,1] Qualcuno ti fu anteposto in un banchetto o nell’attribuzione di un appellativo o nell’essere invitato per un consiglio? Se questi sono beni, devi rallegrarti che egli li abbia centrati. Se invece sono mali, non adontarti perché non li centrasti tu. Ricorda che non puoi, non facendo le stesse cose per centrare quanto non è in nostro esclusivo potere, meritarti il pari. [E25,2] Come possono infatti avere il pari chi non bazzica le porte di qualcuno e chi le bazzica? Chi non entra nel seguito di qualcuno e chi vi entra? Chi non loda e chi loda? Sarai dunque ingiusto ed insaziato se, mentre non cedi ciò in cambio di cui quelle si smerciano, deciderai di prenderle gratis. [E25,3] A quanto si smerciano le teste di lattuga? Caso mai, un obolo. Se, dunque, ceduto l’obolo uno prenderà la lattuga e tu, non cedendo l’obolo non la prenderai, non credere di avere meno di chi la prende. Giacché come quello ha la testa di lattuga, così tu hai l’obolo che non desti. [E25,4] Allo stesso modo anche qui. Non fosti invitato al banchetto di qualcuno? Infatti non desti a chi chiama l’importo al quale vende il pranzo. E lo vende a prezzo di lodi, di assistenza lo vende. Dà dunque l’importo al quale si vende, se per te è vantaggioso. Ma se vuoi non cedere quello e pure prendere questo, sei insaziato e scempio. [E25,5] Nulla hai dunque in cambio del pranzo? Hai il non lodare costui, che non volevi; il non tollerare i suoi uscieri.

E26.

L’afflizione altrui 2.

[E26,1] E’ possibile decifrare il piano della natura da ciò per cui non differiamo gli uni dagli altri. Per esempio, qualora il bambino di un altro rompa la tazza, a portata di mano è subito il dire: “Sono cose che accadono!” Sappi dunque che, qualora fosse rotta una tua tazza, tu devi essere tale qual eri quando fu rotta quella di un altro. Così alloga questo anche a cose più grandi. E’ morto il figliolo di un altro, o la moglie. Non c’è nessuno che non direbbe: “E’ umano!” Ma qualora ne muoia uno dei propri, subito: “Ohimè! Sciagurato me!”. Sarebbe invece d’uopo ricordare cosa sperimentiamo quando lo sentiamo dire a proposito di altri.

E27.

Bene e male non esistono al di fuori della proairesi.

[E27,1] Come non si pone uno scopo per fallirlo, così neppure esiste natura di male nell’ordine del mondo.

E28.

Lo stupro dell’intelligenza.

[E28,1] Se qualcuno delegasse il tuo corpo a chi ti viene incontro, ne fremeresti. E che tu deleghi la tua intelligenza a chi capita affinché, se sarai ingiuriato, essa ne sia sconcertata e confusa: per questo non ti vergogni?

E29.

Lasciar perdere la filosofia.

[E29,1] Di ciascuna opera considera gli antecedenti ed i conseguenti e così vieni ad essa. Se no, dapprima vi sarai giunto con foga in quanto non hai ponderato nulla del seguito, ma successivamente, quando compariranno motivi di malcontento, te ne distornerai vergognosamente. [E29,2] Vuoi vincere le Olimpiadi? Anch’io, per gli dei, giacché è grazioso. Ma considera gli antecedenti ed i conseguenti e così accostati all’opera. Devi disciplinarti, cibarti a dieta, astenerti dai manicaretti, allenarti per necessità in ore fisse, nella calura, al freddo; non bere freddo, né vino come capita; insomma avere trasmesso te stesso al soprintendente come ad un medico; e poi in gara scavarti la sabbia, slogarti a volte una mano, storcerti una caviglia, ingoiare molta rena, possibilmente venire frustato e, dopo tutto ciò, essere vinto. [E29,3] Ciò esaminato, se ancora lo vorrai, vieni al cimento. Se no, ti sarai condotto come i bimbi i quali ora giocano ai lottatori, ora ai gladiatori, ora trombettano e poi canticchiano. Così tu pure ora atleta, ora gladiatore e poi oratore e poi filosofo ma con l’animo intero nulla. Come una scimmia tu imiti ogni spettacolo che vedrai e gradisci qualcosa di sempre diverso. Giacché non venisti a qualcosa dopo un’analisi né un percorso, ma a casaccio e secondo una gelida smania. [E29,4] Così alcuni, osservato un filosofo ed ascoltato qualcuno che parla come parla Eufrate (eppure, chi può parlare come lui?), vogliono anch’essi far filosofia. [E29,5] O uomo, esamina innanzitutto quella che è la faccenda e poi decifra anche la tua natura, se puoi sorreggerla. Decidi di essere un pentatleta od un lottatore? Vedi le tue braccia, le cosce, decifra i lombi. [E29,6] Giacché uno è nato per una cosa, un altro per un’altra. Reputi che facendo questo puoi mangiare allo stesso modo, bere allo stesso modo, similmente desiderare, similmente dispiacerti? Vegliare devi, faticare, partire dai familiari, essere spregiato da un pupattolo, essere deriso da chi ti viene incontro, avere la meno in ogni circostanza: in onorificenze, in cariche, nei processi, in ogni affaruccio. [E29,7] Esamina questi profili se disponi di permutare ciò con dominio sulle passioni, libertà, dominio sullo sconcerto. Se no, non appressarti per non essere, come i bimbi, ora filosofo, successivamente gabelliere e poi oratore e poi procuratore di Cesare. Questi ruoli non vanno d’accordo. Una sola persona tu devi essere, o buona o cattiva. Tu devi elaborare o il tuo egemonico o gli oggetti esterni; lavorare con arte sul di dentro o sul di fuori: questo è ricoprire il posizionamento di filosofo o di persona comune.

E30.

Le relazioni sociali.

[E30,1] Il doveroso si commisura generalmente alle relazioni sociali. E’ padre: è dettato di averne sollecitudine, dargli spazio in tutto, tollerare se ingiuria, se batte. “Ma è un cattivo padre”. Fosti forse imparentato dalla natura ad un buon padre? No, ma ad un padre. “Mio fratello commette ingiustizie”. Perciò serba il tuo posizionamento nei suoi confronti, e non considerare cosa fa lui ma cosa fai tu per avere la tua proairesi in accordo con la natura delle cose. Giacché un altro non danneggerà te, se tu non lo disporrai. E allora sarai stato danneggiato, qualora concepisca di essere danneggiato. Così dunque troverai quanto è doveroso da vicino, da cittadino, da stratega, se ti abituerai a conoscere i principi generali delle relazioni sociali.

E31.

Uomini e dei.

[E31,1] Circa la pietà per gli dei, sappi che dominante è avere di essi rette concezioni, come esistenti e governanti il tutto bene e giustamente; ed esserti assegnato l’ubbidire loro, cedere il passo ad ognuno di loro e seguirli di buon grado come realizzati dalla nostra più eccelsa intelligenza. Giacché così non biasimerai mai gli dei né li incolperai di essere trascurato. [E31,2] E questo non è tale da accadere altrimenti che rimuovendo il bene ed il male da quanto non è in nostro esclusivo potere e ponendoli soltanto in quanto è in nostro esclusivo potere. Ché se concepirai proprio qualcuna di quelle cose come bene o male è del tutto necessario, qualora fallisca ciò che vuoi ed incappi in ciò che non vuoi, che tu biasimi ed odi i causativi. [E31,3] Ogni creatura è infatti nata per fuggire e scansare quanto appare dannoso ed i suoi causativi e per andare in cerca e dare valore a quanto giova ed ai suoi causativi. Dunque è inconcepibile che chi crede di essere danneggiato si rallegri di colui dal quale reputa di essere danneggiato, come pure è impossibile rallegrarsi del danno stesso. [E31,4] Di qua viene anche che il padre è ingiuriato dal figlio qualora non lo faccia parte di quelli che il ragazzo reputa essere beni. E questo fece Eteocle e Polinice l’un l’altro nemici: credere un bene la tirannia. Per questo l’agricoltore ingiuria gli Dei, per questo il marinaio, per questo il mercante, per questo coloro che perdono le mogli ed i figlioli. Giacché dov’è l’utile, là è anche la pietà. Sicché chi è sollecito a desiderare e ad avversare come deve, nel medesimo tempo ha sollecitudine anche della pietà. [E31,5] Libare, sacrificare, offrire primizie secondo i patrii costumi in ciascun caso conviene; facendolo puramente, senza negligenza né trascuratezza e neppure con spilorceria né oltre le nostre facoltà.

E32.

La divinazione indifferente.

[E32,1] Qualora ti avvicini alla divinazione, ricorda che non sai cosa succederà ma che sei giunto per cercare di saperlo dall’indovino. Quel che è sei venuto sapendolo, se appunto sei filosofo. Giacché se è qualcosa di non in nostro esclusivo potere, è del tutto necessario che non sia né bene né male. [E32,2] Non portare dunque dall’indovino desiderio od avversione e non avvicinarti a lui tremando, ma avendo vagliato che tutto quanto succederà è indifferente e nulla per te; che quale che sarà, sarà possibile usarlo da virtuoso e che nessuno lo impedirà. Vieni dunque con fiducia agli dei come a consiglieri. Orbene qualora ti sia consigliato qualcosa, ricorda quali consiglieri assumesti e chi fraintenderai disubbidendoli. [E32,3] Vieni al divinare, come appunto sollecitava Socrate, in quei casi in cui ogni analisi ha riferimento all’esito e né dal ragionamento né da qualche altra arte si danno risorse per notare l’obiettivo della sorte. Sicché, qualora si debbano correre pericoli insieme ad un amico o con la propria patria, non divinare se li si debba correre. Giacché se l’indovino ti avviserà che le vittime sacrificali sono state infauste, è manifesto che significa morte o storpiatura di qualche parte del corpo od esilio. Ma la ragione sceglie, anche con ciò, di porsi accanto all’amico e di correre pericoli insieme con la patria. Fa’ perciò attenzione all’indovino più grande, ad Apollo Pizio, il quale fece espellere dal tempio chi non aiutò l’amico che veniva levato di mezzo.

E33.

Suggerisco.

[E33,1] Posizionati ormai un certo stile e modello, che custodirai sia quando sei solo, sia incontrando persone. [E33,2] E vi sia per lo più taciturnità o si parli il necessario e con poche parole. Raramente, e quando il momento adatto invita a dire, dì pure, ma non di quel che capita: non di combattimenti di gladiatori, non di corse dei cavalli, non di atleti, non di vivande o bevande, di trivialità e soprattutto non di persone, denigrando o lodando o paragonando. [E33,3] Se dunque ne sarai capace, con i tuoi discorsi trasporta anche quelli dei sodali al conveniente. Se poi fossi per caso preso da parte tra forestieri, taci. [E33,4] Il riso non sia molto né su molti argomenti né sia sguaiato. [E33,5] Un giuramento schivalo, se è possibile, appieno; se no, per quanto è contingente. [E33,6] Declina banchetti con gente di fuori e persone comuni. Se una volta ne sarà tempo, fa ben bene attenzione a non travalicare mai in volgarità. Sappi infatti che qualora il compagno sia sudicio, anche chi gli si struscia addosso necessariamente si insudicia, pur se fosse per caso pulito. [E33,7] Per quanto riguarda il corpo, assumi cose quali cibo, bevande, vestiario, casa, domestici, fino a soddisfare il mero bisogno; e circoscrivi tutto quanto è per reputazione od effeminatezza. [E33,8] Quanto ai piaceri sessuali prima dello sposalizio, bisogna fare del nostro meglio per essere puliti; e chi vi si accosta deve condividere quelli legali. Tuttavia non diventare grossolano né contestatorio con coloro che ne usano, e non citare sovente il fatto che tu non ne usi. [E33,9] Se qualcuno ti annuncerà che il tale sparla di te, non parlare in tua difesa contro quanto è detto, ma rispondi che “Il tale ignorava gli altri vizi che mi sono congiunti, dacché non direbbe solo di questi!” [E33,10] Andare a spettacoli non è per lo più necessario. Se una volta ne fosse tempo, non mostrare di parteggiare per altri che per te stesso, cioè disponi che accada soltanto quel che accade e che vinca solo chi vince: giacché così non sarai intralciato. Astieniti definitivamente dalle grida, dal ridacchiare di qualcuno o dal commuoverti troppo. Dopo esserti allontanato, non fare molti discorsi sull’avvenuto, se non per quanto porta alla tua rettificazione; giacché da un siffatto contegno si palesa che ammirasti lo spettacolo. [E33,11] Non andare a casaccio né facilmente a pubbliche letture. Se però ci vai, custodisciti solenne, stabile ed insieme non grossolano. [E33,12] Qualora tu stia per conferire con qualcuno, soprattutto delle reputate “Eccellenze”, mettiti davanti cosa avrebbero fatto in questo caso Socrate o Zenone, e non difetterai di usare convenientemente dell’accadimento. [E33,13] Qualora bazzichi qualche magnate, mettiti davanti che non lo troverai dentro, che sarai sbarrato fuori, che le porte ti saranno squassate contro, che non si preoccuperà di te. E se pur con ciò sarà doveroso venirci, venendo sopporta gli avvenimenti e non dire mai a te stesso: “Non meritava tanto!”; giacché questo è da persona comune e cui sono invisi gli eventi esterni. [E33,14] Nelle conversazioni tieniti lungi dal ricordare a lungo certe tue opere o, senza misura, dei pericoli corsi. Giacché come per te è piacevole ricordare i tuoi pericoli, non così è piacevole per gli altri ascoltare dei tuoi accidenti. [E33,15] Ci si tenga anche lungi dal muovere risate, giacché lubrico è il terreno che porta alla volgarità, ed insieme sufficiente ad attenuare il rispetto di chi ti è dintorno nei tuoi confronti. [E33,16] Malsicuro è anche avanzare verso il turpiloquio. Qualora dunque avvenga qualcosa di siffatto, se sarà tempestivo censura anche chi vi avanzò. Se no, proprio col tacere ed arrossire e l’accigliarti manifesta il tuo malcontento per il discorso.

E34.

La forza delle rappresentazioni.

[E34,1] Qualora la rappresentazione di qualche ebbrezza ti prenda, come appunto per le altre rappresentazioni, sta in guardia a non essere da essa rapito con sé. Che dunque la faccenda aspetti te, e tu prenditi qualche dilazione. Poi ricorda entrambi i tempi: il tempo in cui fruirai dell’ebbrezza ed il tempo in cui successivamente, dopo averne fruito, ti pentirai ed ingiurierai te stesso. Contrapponi a questo come ti rallegrerai astenendotene e come loderai te stesso. E se ti parrà tempo di accostarti all’opera, fa attenzione che non ti sconfiggano la sua gradevolezza e piacevolezza e seduzione. Ma contrapponi quanto meglio sia per te la cognizione di avere vinto questa vittoria.

E35.

Decisione.

[E35,1] Qualora tu, vagliato che una cosa è da fare, la faccia; non fuggire mai dall’essere visto effettuarla anche se i più saranno per concepire qualcosa di diverso al riguardo. Giacché se non fai rettamente, fuggi l’opera stessa. Se fai rettamente, perché hai paura di coloro che censureranno non rettamente?

E36.

Conflitto di interessi.

[E36,1] Come le asserzioni “E’ giorno” ed “E’ notte” hanno grande valore per una proposizione disgiuntiva ed invece disvalore per un periodo copulativamente coordinato, così selezionare per sé il pezzo più grande di qualcosa abbia pure valore per il corpo, ma per custodire come si deve la socievolezza in un banchetto ha disvalore. Qualora dunque mangi con un altro, ricorda di non vedere soltanto il valore per il tuo corpo delle portate che ti giacciono accanto, ma anche di custodire il rispetto verso l’imbanditore.

E37.

Sopra le righe.

[E37,1] Se interpreterai un personaggio oltre le tue facoltà, in questo fosti indecente ed omettesti di assolvere quello che potevi.

E38.

Il danno.

[E38,1] Appunto come nel camminare fai attenzione a non pestare un chiodo o non storcerti un piede, così fa’ attenzione a non danneggiare il tuo egemonico. E se staremo in guardia su questo in ciascuna opera, ci accosteremo all’opera più sicuramente.

E39.

La misura e oltre.

[E39,1] Misura del patrimonio è per ciascuno il corpo, come il piede lo è di un calzare. Se dunque a questo starai, custodirai la misura. Se invece la oltrepasserai, orbene è necessario essere portato come lungo un precipizio. Appunto come pure il calzare, se oltrepasserai il piede, diventa indorato e poi purpureo e poi trapunto. Di ciò che è una volta oltre misura non vi è infatti limite alcuno.

E40.

Signore il cui unico bene è la fica.

[E40,1] Subito dall’età di quattordici anni le femmine sono chiamate dai maschi “Signore”. Vedendo perciò che null’altro è loro congiunto se non il coricarsi coi maschi, esse iniziano ad imbellettarsi e ad avere in questo tutte le loro speranze. Merita dunque fare attenzione affinché esse si accorgano di essere onorate per null’altro che per l’apparire composte e rispettose.

E41.

Cacare e montare.

[E41,1] E’ segno di bastardaggine indugiare troppo in cose che riguardano il corpo, come allenarsi a lungo, a lungo mangiare, a lungo bere, a lungo cacare, montare. Queste cose vanno fatte come accessorie. Tutta la pensosità sia invece per l’intelligenza.

E42.

Chi è il danneggiato.

[E42,1] Qualora qualcuno ti tratti male o parli male di te, ricorda che lo fa o dice credendolo doveroso. Non è dunque possibile che egli segua quel che pare a te ma quel che pare a lui sicché, se il suo parere è cattivo, è danneggiato chi si è ingannato. Giacché se uno concepirà falso un vero periodo copulativamente coordinato, non è danneggiato il periodo copulativamente coordinato ma chi si ingannò. Prendendo dunque spunto da questo, sarai mite con chi ingiuria. Giacché ad ogni ingiuria esclama: “Lo reputò!”

E43.

I due manici della faccenda.

[E43,1] Ogni faccenda ha due manici: uno sopportabile ed un altro insopportabile. Se tuo fratello commetterà una ingiustizia, non prendere la faccenda di qui, che commette una ingiustizia (giacché questo è il suo manico insopportabile), ma piuttosto di là, che è tuo fratello, che ha fatto vita comune con te; e prenderai la faccenda dal manico sopportabile.

E44.

L’incombinabile.

[E44,1] Questi sono discorsi incombinabili: “Io sono più ricco di denaro di te, io sono dunque migliore di te”; “Io sono più facondo di te, io sono dunque migliore di te”. Discorsi combinabili sono piuttosto i seguenti: “Io sono più ricco di denaro di te, il mio patrimonio è dunque migliore del tuo”; “Io sono più facondo di te, la mia loquela è dunque migliore della tua”. Ma tu non sei davvero né patrimonio né loquela.

E45.

Realtà ed apparenza.

[E45,1] Uno fa il bagno caldo frettolosamente: non dire che lo fa male ma frettolosamente. Uno beve molto vino: non dire che beve male ma molto. Giacché prima di vagliare il giudizio, donde sai se fa male? Così non ti avverrà di pigliare rappresentazioni catalettiche di certe cose e di assentire ad altre.

E46.

Essere filosofi.

[E46,1] Non dirti in nessun luogo filosofo e, in genere, non cianciare tra le persone comuni di principi filosofici generali, ma fa’ quanto da quei principi discende. In un convito, per esempio, non dire come si deve mangiare ma mangia come si deve. Ricorda infatti che Socrate aveva così eliminato da ogni dove l’ostentazione che venivano da lui volendo essere da lui raccomandati ai filosofi; e lui ve li menava. Così tollerava di essere sottovalutato! [E46,2] E se in un ragionamento su qualche principio filosofico generale ci si imbatterà in persone comuni, in genere taci; giacché grande è il pericolo di vomitare subito ciò che non ancora digeristi. E qualora uno ti dica che nulla sai e tu non ne sia morso, allora sappi che inizi l’opera. Dacché anche le pecore non sfoggiano ai pastori quanto mangiarono portando loro il foraggio ma, digerita dentro la pastura, portano fuori lana e latte. Anche tu, quindi, non sfoggiare i principi filosofici generali alle persone comuni ma, digeritili, le opere.

E47.

L’ostentazione.

[E47,1] Qualora ti sia acconciato, quanto al corpo, a vivere con quattro soldi, non abbellirti di questo e, se berrai acqua, non cercare ogni movente per dire che bevi acqua. Se mai disporrai di esercitarti alla fatica, fallo per te e non per quelli di fuori. Non abbracciare statue, ma avendo energicamente sete tirati addosso dell’acqua fresca poi sputa, e non dirlo a nessuno.

E48.

Esseri umani ed uomini.

[E48,1] Stazione e stile da persona comune: mai suppone da se stesso giovamento o danno, ma dal di fuori. Stazione e stile da filosofo: suppone ogni giovamento e danno da se stesso. [E48,2] I segni di chi fa profitto: non denigra nessuno, non loda nessuno, non biasima nessuno, non incolpa nessuno, non dice nulla di sé come fosse qualcuno o sapesse qualcosa. Qualora sia intralciato in qualcosa od impedito, incolpa se stesso. Se uno lo loderà, deride tra sé e sé chi loda; e se sarà denigrato, non parla in sua difesa. Va in giro appunto come gli infermi, cauto a muovere, prima che prendano solidità, qualcuna delle parti in ricostituzione. [E48,3] Ha rimosso da sé ogni desiderio ed ha allogato l’avversione solo su ciò che, tra quanto è in nostro esclusivo potere, è contro la natura delle cose. Verso tutto usa l’impulso pacatamente. Se sembrerà sciocco od incolto, non se ne preoccupa. In una parola, sta in guardia verso se stesso come verso un insidioso nemico personale.

E49.

Solennità di essere filosofi oppure commentatori di filosofi.

[E49,1] Qualora uno faccia il solenne perché può capire e commentare i libri di Crisippo, fra te e te di’: “Se Crisippo non avesse scritto con poca chiarezza, costui non avrebbe nulla per cui fare il solenne”. Io cosa decido? Di decifrare la natura delle cose ed accompagnarmi a lei. Cerco dunque chi è il commentatore e, sentito dire che è Crisippo, vengo da lui. Ma non ne capisco gli scritti. Cerco dunque il commentatore di Crisippo. E fin qui non v’è ancora nulla di solenne. Qualora trovi il commentatore, avanza di usare le prescrizioni: questo solo è solenne. Se invece ammirerò il fatto in sé di commentare, che altro risulto se non un grammatico invece che un filosofo? Eccetto che invece di Omero so commentare, appunto, Crisippo. Qualora uno mi dica: “Rileggimi Crisippo”, io dunque piuttosto arrossirò, qualora non possa sfoggiare opere simili ed in armonia con i suoi discorsi.

E50.

E’ in palio la felicità.

[E50,1] A quanto è proposto mantieniti come a leggi, come fossi empio se lo violerai. E qualunque cosa uno dirà di te, non impensierirti; giacché questo non è più tuo.

E51.

Olimpia è adesso.

[E51,1] Ed a quale tempo ancora rimandi il meritarti l’ottimo ed il non violare in nulla la ragione che opera la diairesi? Hai assunto i principi filosofici generali con i quali dovevi metterti alle prese e ti sei messo alle prese. Quale insegnante dunque supponi ancora che possa giungere, per posporre a lui di fare la tua rettificazione? Non sei più un adolescente ma ormai un perfetto adulto. Se ora sarai trascurato e pigro e farai propositi dopo propositi e definirai uno dopo l’altro il giorno in cui farai attenzione a te stesso, ti sfuggirà che non fai profitto ma continuerai a vivere e morire da persona comune. [E51,2] Dunque sollecitati ormai a vivere da uomo perfetto e che fa profitto; e tutto quanto ti appare ottimo sia per te legge inviolabile. Se si appresserà qualcosa di doloroso o piacevole, che porta credito o discredito, ricorda che la gara è adesso, che le Olimpiadi sono ormai presenti, che non è più possibile rimandare e che in un solo giorno ed una sola faccenda il profitto va in malora o si salvaguarda. [E51,3] Socrate risultò così perché, di tutto quanto gli si appressava, non faceva attenzione ad altro che alla ragione. Tu, se pure non sei ancora Socrate, sei tenuto a vivere come chi decide di essere proprio Socrate.

E52.

Tre campi della filosofia.

[E52,1] Nella filosofia, il primo e più necessario àmbito è quello dell’uso dei principi generali: per esempio, non mentire. Il secondo è quello delle dimostrazioni: per esempio, donde è che non si deve mentire? Il terzo è quello che fa ben saldi ed articola questi stessi ambiti: per esempio, donde è che questo è una dimostrazione? Giacché cos’è dimostrazione, cos’è consequenzialità, cos’è contraddizione, cos’è vero, cos’è falso? [E52,2] Pertanto il terzo àmbito è necessario a causa del secondo ed il secondo a causa del primo. Il più necessario e dove ci si deve soffermare è il primo. Noi invece facciamo viceversa; giacché ci trastulliamo nel terzo àmbito ed a questo dedichiamo ogni nostra industria, mentre trascuriamo definitivamente il primo. Perciò appunto noi mentiamo, ma come si dimostra che non si deve mentire, questo l’abbiamo a portata di mano.