‘E chi è degno di fare filosofia deve esercitarsi praticamente tanto più di chi ha di mira la medicina o qualche altra simile arte, quanto più la filosofia è più importante e più difficile da espletare di ogni altro mestiere. Infatti, coloro che hanno di mira le altre arti pervengono all’apprendimento di esse con animi non in precedenza rovinati, né col bagaglio di nozioni contrarie a quelle che stanno per imparare. Invece, coloro che mettono mano alla filosofia perseguono la virtù con alle spalle un lungo periodo di corruzione dell’animo e infarciti di vizi; sicché, per questo motivo, hanno bisogno di molto più esercizio pratico’.
Musonio Rufo ‘Diatribe’ VI,23,17-VI,24,8
Brevi cenni sulla vita di Musonio Rufo
Gaio Musonio Rufo nacque in Etruria, a Volsinii (l’odierna Bolsena), nell’anno 30 d.C. circa. Apparteneva dunque alla generazione che succede a quella di Seneca e che precede quella di Epitteto. Personaggio di rango equestre, le numerose testimonianze storiche che abbiamo su di lui sono concordi nel ricordarlo come uno dei più importanti caposcuola dello Stoicismo romano, e nel rinoscergli una fama ben più grande di quella che la moderna ignoranza a suo riguardo lascerebbe supporre. Intorno al 65 d.C., con l’accusa di avere partecipato alla cosiddetta ‘Congiura dei Pisoni’, fu esiliato da Nerone a Giaro, una piccola isola delle Cicladi. Scampò invece la cacciata da Roma cui nel 71 d.C. Vespasiano condannò tutti i filosofi. Qualche anno dopo dovette però subire una seconda condanna all’esilio, poiché sappiamo che egli fu richiamato a Roma dall’imperatore Tito. La sua coerenza di Stoico lo portò a rischiare la vita in almeno due occasioni nel 69 d.C.: quando in Senato accusò, e riuscì a far condannare, Egnazio Celere per avere testimoniato il falso contro Barea Sorano; e quando cercò, ricevendone scherno, ingiurie e minacce, di scongiurare la guerra civile parlando dei beni della pace e dei mali della guerra alle truppe di Vitellio e di Vespasiano che stavano per scontrarsi sul campo di battaglia. Morì intorno al 100 d.C.
Epitteto, che fu il suo allievo più famoso, lo cita spesso con grandissimo rispetto ed ammirazione. Ed altrettanto fanno, nelle loro opere, due autori cristiani di primo piano come Clemente Alessandrino ed Origene.
Il testo greco delle ‘Diatribe’ di Musonio Rufo
Fedele all’esempio di Socrate, anche Musonio Rufo non si preoccupò di tramandare i propri insegnamenti. Ad assumersi questo compito fu uno dei suoi tanti discepoli, di nome Lucio, che li mise per iscritto in lingua greca, in anni forse successivi alla morte di Musonio, dando loro la forma di ‘Diatribe’. Questa redazione di Lucio, anche se soltanto in parte, è giunta fino a noi grazie alle numerose citazioni che di essa fece Stobeo nella sua opera.
Le somiglianze e le differenze tra le ‘Diatribe’ di Musonio e quelle di Epitteto sono evidenti. In entrambi i casi il compito fu assolto da un discepolo: Lucio per Musonio ed Arriano per Epitteto. Ma mentre il testo greco di Arriano è la fedele registrazione di un parlato dal vivo, quello di Lucio è un riassunto retoricamente costruito.
Il testo greco delle ‘Diatribe’ di Musonio che ho usato per la mia presente traduzione italiana è quello contenuto nell’edizione critica preparata da O. Hense per le edizioni Teubner e pubblicata per la prima volta a Lipsia nel 1905.
Le traduzioni italiane delle ‘Diatribe’ di Musonio Rufo
A mia conoscenza, le traduzioni in italiano dell’opera di Musonio erano finora soltanto due. La prima è quella di R. Laurenti: ‘C. Musonio Rufo, Diatribe e i frammenti minori’ Roma, 1967. Si tratta di una traduzione di difficile reperimento e che non ho ancora avuto modo di consultare. La seconda è la pregevole traduzione curata da I. Ramelli: Musonio Rufo ‘Diatribe, frammenti e testimonianze’, Bompiani 2001.
Com’è mia abitudine, per la traduzione mi sono valso anche del pur succinto Indice di ‘Memorabilia’ contenuto nelle pag. 146-148 dell’edizione critica di O. Hense. La numerazione tra parentesi quadra che si trova nel testo tradotto si riferisce al numero della Diatriba, alla pagina e alla riga del testo greco in edizione critica. Nell’edizione che qui presento, io ho tradotto dal greco anche una ‘Lettera a Pancratide’ che, se pur certamente non attribuibile a Musonio, O. Hense ha comunque giudicato di dover inserire nell’edizione critica. Credo che questa mia sia la prima traduzione in italiano di tale lettera. I Frammenti XLIX, L, LI e LII sono in latino e pertanto non sono stati da me tradotti. Essi contengono però due citazioni in greco che invece ho regolarmente tradotto.
Musonio Rufo filosofo: un modesto maestro per un allievo geniale
Epitteto, accennando in un passo [III,23,29] del III libro delle ‘Diatribe’ alle lezioni del suo maestro Musonio Rufo, riferisce che egli sapeva parlare in modo tale che ciascuno degli allievi lì seduti credeva che qualche delatore lo avesse preventivamente edotto dei vizi di ciascuno dei presenti: a tal punto egli riusciva a mettere il dito nella piaga; a tal punto poneva davanti agli occhi di ciascun allievo i suoi mali.
Io non metto in discussione la testimonianza di Epitteto e quindi l’indubbia capacità di Musonio di far vibrare le coscienze e di risonare persuasivo; capacità che Musonio mostra nel trattare coraggiosamente argomenti delicati e poco approfonditi da altri Stoici. Basti fare riferimento alla sua attenzione per la questione -che smargina chiaramente sul tema della giustezza o meno della schiavitù e dell’ubbidienza assoluta alle leggi dello Stato- se sia necessario che i figli ubbidiscano ai genitori in ogni caso; se bisogni educare in modo simile i figli e le figlie; se anche le donne debbano praticare la filosofia; se l’esilio sia un male oppure no; se chi è filosofo debba intentare un processo contro chi l’ha oltraggiato; se il matrimonio sia un intralcio alla vita filosofica; e così via. Ma anche a questioni soltanto apparentemente triviali come il vitto, l’abitazione, le suppellettili della casa e il taglio dei capelli. D’altra parte, egli è però assolutamente categorico nel condannare come innaturale l’omosessualità, ogni forma di sessualità non finalizzata alla procreazione e l’aborto.
Quello che io metto in discussione, dati i miei criteri e i miei parametri di riferimento, è se si possa davvero considerare Musonio Rufo un maestro. Sono troppe le volte in cui, nel corso della traduzione, sono giunto alla seguente conclusione: “Va bene. A supporto della sua argomentazione Musonio non fa ricorso alla rivelazione scritta di qualche testo ‘sacro’ o allo ‘ipse dixit’ di qualche autorità filosofica. Ma fin dove arriva la sua vista? Egli indica che una cosa va fatta in un certo modo, ma mostra sistematicamente di non possedere gli strumenti per rispondere al perché egli la proponga a quel modo e al come essa vada inserita in un contesto di riferimento. Così operando egli riduce lo Stoicismo ad un semplice ‘modello culturale’ e tradisce la sua natura di ‘filosofo’. Se Dione Crisostomo fa ai miei occhi la figura del difensore dello Stoicismo nell’equivalente antico dei moderni ‘talk-show’, Musonio diventa l’interprete del ruolo del bonario, sensato ed anche parecchio burbero curato di campagna che fa la sua solenne predica Stoica domenicale”.
A questo punto mi chiedo come Musonio possa ignorare o trascurare troppo spesso queste testuali parole di Crisippo -conservateci da Plutarco in SVF II, 937- che egli doveva certamente conoscere: “Poiché l’economia del cosmo procede in questo modo, è necessario che noi si stia come stiamo; tanto se per condizione personale siamo ammalati, o siamo storpi, oppure siamo diventati dei grammatici o dei musici. E in armonia con questo discorso, diremo cose similari tanto della nostra virtù quanto del nostro vizio; tanto circa l’insieme delle nostre arti quanto della nostra imperizia nelle arti. Infatti nulla può stare, neppure nel suo minimo particolare, altrimenti che in armonia con la natura universale e con la sua ragione”.
Crisippo concede dunque piena ed incondizionata libertà di azione alla malvagità e al vizio, considerandoli non soltanto necessari e in armonia col destino, ma anche un prodotto in armonia con la ragione divina e la perfezione della natura, come è ulteriormente visibile in queste sue parole: “Poiché la comune natura s’estende a tutte le realtà, qualunque cosa di qualunque genere accade nel cosmo e in una qualunque delle sue parti, bisognerà che sia in armonia con tale natura e, per conseguenza immediata, con la sua ragione; a causa del fatto che nulla potrà ostacolare dall’esterno l’economia del cosmo, né alcuna delle sue parti avrà modo di muoversi o starà altrimenti che in armonia con la natura a tutti comune”. Quali sono, dunque, gli stati e i movimenti delle parti? È manifesto che ‘stati’ sono, oltre alla virtù, i vizi e gli stati morbosi come l’avidità di denaro, la brama di piaceri e quella della fama, la viltà e l’ingiustizia; che ‘movimenti’ sono anche a buon diritto gli adulteri, i furti, i tradimenti, gli omicidi e il parricidio. Ebbene, Crisippo crede che nessuno di questi sia né poco né tanto contrario alla ragione, alla legge, alla giustizia e alla Prònoia di Zeus, mentre Musonio viene a farci la paternale con accorati appelli alla bontà, al perdono, all’amore reciproco e all’austerità? Ci spieghi da dove gli vengono.
Perché Musonio non possa farlo, è evidente. Gli mancano ancora le riflessioni sulla ‘Natura’ e sulla ‘Natura delle cose’, sulla ‘Proairesi’, sulla ‘Diairesi’, sulla ‘Antidiaresi’ e sulla ‘Controdiaresi’, su ciò che è ‘Proairetico’ e su ciò che è ‘Aproairetico’. Tutte conquiste che invece saranno, appena dopo qualche decennio, il formidabile ed eternamente valido risultato della riflessione del suo allievo più geniale, il cui nome era Epitteto.
MUSONIO RUFO
DIATRIBE
DIATRIBA I [1,1]
PER UNA SINGOLA QUESTIONE FILOSOFICA
NON C’È BISOGNO DI MOLTE DIMOSTRAZIONI
Una volta il discorso cadde [I,1,5] sulle dimostrazioni che è d’uopo i giovani ascoltino dalla bocca dei filosofi per giungere ad un’apprensione certa di ciò che stanno imparando; e Musonio affermava che non conviene andare in cerca, su ogni singola questione, di molte dimostrazioni, bensì di dimostrazioni efficaci ed evidenti. Infatti, diceva, degno di lode non è il medico [I,1,10] che somministra ai malati molte medicine, ma quello che giova al malato con le poche medicine che gli somministra in modo ragionato. Similmente, degno di lode non è il filosofo che insegna ai suoi uditori utilizzando molte dimostrazioni, bensì quello che con poche dimostrazioni li conduce esattamente a ciò che vuole loro insegnare. Per parte sua l’uditore, quanto più comprendonio [I,1,15] avrà, tanto meno abbisognerà di dimostrazioni e tanto più in fretta sarà d’accordo sul punto capitale, posto che sia sano, del ragionamento. Chiunque, invece, [I,2,1] su tutto ha bisogno di una dimostrazione, anche laddove la questione è chiara; oppure vuole dimostrare a se stesso con molte argomentazioni ciò che può invece essere dimostrato con poche, è un uditore del tutto fuori posto e tardo di comprendonio. Gli Dei, com’è verosimile, non hanno bisogno di dimostrazione alcuna, [I,2,5] poiché per loro nessuna questione è priva di chiarezza o dubbia, dato che sono queste ultime le sole questioni che hanno bisogno di dimostrazioni. Gli uomini, invece, devono necessariamente cercare di scoprire ciò che non è chiaro né immediatamente conosciuto, attraverso ciò ch’è appariscente e manifesto: il che è appunto opera della dimostrazione. Per esempio: [I,2,10] che il piacere fisico non sia un bene non sembra essere immediatamente riconosciuto, dal momento che il piacere ci chiama a testimoni nei fatti che esso è un bene. Se però uno fa suo il conosciuto assunto che ogni bene è da scegliersi, e poi aggiunge ad esso l’altro conosciuto assunto, ossia che alcuni piaceri fisici non sono da scegliersi: [I,2,15] ecco che noi dimostriamo -grazie al passaggio da assunti conosciuti a ciò ch’è sconosciuto- che il piacere fisico non è un bene. Ed ancora: che il dolore fisico non sia un male non appare immediatamente persuasivo. Al contrario, sembra più persuasivo l’opposto, ossia che il dolore fisico è un male. Ma se si pone l’assunto evidente: che ogni male è da fuggirsi; [I,2,20] e poi s’assomma ad esso un altro assunto evidente, ossia che molti dolori fisici non sono da fuggirsi: ecco che se ne conclude che il dolore fisico non è un male. Assodato che la dimostrazione è una cosa del genere, poiché alcuni uomini sono più acuti ed altri più ottusi, [I,3,1] poiché alcuni sono stati educati a costumi migliori ed altri a costumi peggiori; quelli peggiori per costumi o per natura potrebbero avere bisogno, per accogliere questi giudizi ed esserne modellati, d’un maggior numero di dimostrazioni [I,3,5] e d’una trattazione più ampia delle questioni. Proprio come io credo avvenga per i corpi in cattivo stato i quali, quando si intende star bene, hanno bisogno di moltissima cura. I giovani che sono invece di buona natura e quelli che hanno avuto un’educazione migliore, più facilmente e più velocemente sarebbero d’accordo con quanto è esposto rettamente, pur se attraverso poche dimostrazioni; [I,3,10] e gli si conformerebbero nella pratica. Che così stiano le cose lo riconosceremmo facilmente se pensassimo a degli adolescenti o giovanotti, uno dei quali allevato nel lusso più sfrenato, dal corpo effeminato, con l’animo infiacchito da abitudini che conducono alla mollezza, [I,3,15] che si mostra, per di più, indolente e che è per natura tardo di comprendonio. L’altro, invece, è un giovanotto tirato su, in un certo senso, spartanamente, abituato a non vivere nel lusso, ben esercitato alla fortezza d’animo e pronto a prestare ascolto a quanto è detto rettamente. Di poi supponiamo che questi due giovanotti stiano ascoltando un filosofo il quale parla di morte, di dolore fisico, di povertà di denaro [I,3,20] e di faccende simili come di cose che non sono mali; e poi ancora di vita, di piacere fisico, di ricchezza di denaro e di faccende similari come di cose che non sono beni. Entrambi accoglieranno forse in modo similare i discorsi del filosofo, e ciascuno dei due ubbidirebbe similarmente ai discorsi che sente fare? [I,3,25] Non è neppure il caso di dirlo; [I,4,1] giacché uno, il più indolente, probabilmente annuirebbe a stento, con lentezza, mosso da miriadi di ragionamenti come da una leva a lui esterna; mentre l’altro accoglierà ciò che sente dire con velocità e prontezza, in quanto ragionamenti che gli sono familiari e convenienti, senza avere bisogno di molte dimostrazioni [I,4,5] né d’una trattazione più ampia delle questioni. Non era di questo genere anche il famoso ragazzo spartano che domandò al filosofo Cleante se la fatica è un bene? In questo modo egli si mostrò dotato di buona natura e ben cresciuto in vista della virtù, tanto da ritenere la fatica più prossima alla natura del bene [I,4,10] che a quella del male. Chi infatti ammette che la fatica non è un male, cerca di sapere se essa sia per caso un bene. Laonde Cleante, preso da ammirazione per il ragazzo, gli disse:
‘sei di buon sangue, ragazzo mio, visto come parli!’
Una persona del genere [I,4,15] non sarebbe forse facilmente convinta a non temere la povertà di denaro né la morte né alcun’altra delle cose che sono reputate paurose; [I,5,1] e a non inseguire, a loro volta, la ricchezza di denaro o la vita o il piacere fisico? Ora, per tornare all’inizio del discorso, ribadisco che chi insegna non deve cercare di esporre a coloro che stanno imparando tutta la moltitudine di ragionamenti e di [I,5,5] dimostrazioni del filosofo; bensì deve parlare su ciascuna questione in modo opportuno, penetrare e colpire l’intelletto di chi lo ascolta, formulare argomentazioni convincenti e non facili da capovolgere, e soprattutto deve tenere per mano gli ascoltatori procurando se stesso come esempio vivente di chi, mentre parla degli argomenti più importanti e proficui, [I,5,10] effettua azioni coerenti alle parole che dice. Per parte sua, chi impara deve fare ben bene attenzione a quel che sente dire e considerare se non gli sia sfuggito d’avere accettato qualche affermazione falsa; senza cercare, per Zeus, di ascoltare molte dimostrazioni bensì dimostrazioni evidenti; [I,5,15] e deve inoltre mettere in pratica nella vita le esortazioni della cui verità sia intimamente convinto. [I,6,1] Solamente in questo modo uno trarrà infatti giovamento dalla filosofia: se cioè procurerà di effettuare azioni consone ai discorsi che egli abbia accettato di considerare sani.
DIATRIBA II
<SENZA TITOLO>
[II,6,5] Tutti noi, e non uno sì e un altro no -diceva <Musonio>- siamo nati per vivere al riparo dalle aberrazioni e bene. Gran prova di ciò è il fatto che i legislatori ingiungono in identico modo a tutti gli uomini quel che è d’uopo fare e vietano quel che è d’uopo non fare, non eccettuando alcuno di coloro che disubbidiscono [II,6,10] o che aberrano, così che costui resti impunito: si tratti di un giovane o di un anziano, di un individuo robusto o di uno debole, insomma chiunque sia. Eppure, se qualche elemento della virtù ci fosse estrinseco e noi nulla avessimo per natura a che vedere con esso; come nessuno pretende, [II,6,15] nelle opere che hanno a che fare con le altre arti, d’essere al riparo dall’errore se prima non ha imparato quell’arte; così pure nelle opere della vita nessuno dovrebbe pretendere d’essere al riparo dalle aberrazioni se prima non avesse imparato la virtù, dal momento che soltanto la virtù fa sì che non si aberri nella vita. Ora, nella cura dei malati nessuno sollecita [II,7,1] che sia al riparo dall’errore altra persona che il medico; nell’uso della lira altra persona che il musicista, e nell’uso dei timoni nessun altro che il pilota. Nel caso della vita, invece, gli uomini sollecitano che ad essere al riparo dalle aberrazioni sia non soltanto il filosofo -il quale [II,7,5] pare sia il solo ad avere sollecitudine per la virtù- ma che lo siano similmente tutti gli esseri umani, anche quelli che per la virtù mai hanno avuto sollecitudine alcuna. È dunque manifesto che null’altro è causa di ciò se non il fatto che l’uomo è nato per la virtù. E invero gran prova che noi siamo nati per perseguire la virtù è anche quello: ossia il fatto che tutti gli uomini disquisiscono [II,7,10] di se stessi come di individui che hanno la virtù e che sono buoni. Nessuno dei più, infatti, quando gli sia domandato se per caso è stolto o saggio, ammetterà di essere stolto. Né quando gli sia domandato, a sua volta, se per caso è ingiusto o giusto, dirà che è ingiusto. Similmente, qualora uno gli domandi [II,7,15] se è temperante oppure impudente, ognuno risponde alla domanda affermando di essere temperante. Insomma, se uno gli domandasse se è buono oppure cattivo, egli direbbe di essere buono; e lo affermerebbe pur se non sapesse dire chi è stato il suo maestro di bontà, né gli capita d’aver fatto apprendimento alcuno della virtù o esercizio pratico di essa. [II,7,20] Ciò di null’altro è prova se non del fatto che nell’animo dell’uomo [II,8,1] esiste una base fondamentale e naturale che lo indirizza all’eccellenza morale, e che in ciascuno di noi è insito un seme di virtù. E poiché a noi conviene in ogni caso stare al mondo come uomini dabbene, alcuni di noi s’ingannano credendo di esserlo davvero, mentre altri si vergognano di ammettere di non esserlo. [II,8,5] Peraltro perché, per gli Dei, se uno non ha imparato le lettere o la musica o gli esercizi che si praticano in palestra, neppure afferma di conoscerli né si arroga il vanto di possedere queste arti, non avendo modo di dire qual è il maestro che frequentava; e invece ognuno garantisce d’avere la virtù? Perché nessuna di quelle arti ha per natura [II,8,10] a che vedere con l’uomo, né alcuno viene in vita avendone già le basi fondamentali…
DIATRIBA III
CHE ANCHE LE DONNE DEVONO PRATICARE LA FILOSOFIA
[III,8,15] Poiché qualcuno cercò di sapere da lui se anche le donne devono filosofare, <Musonio> iniziò a un dipresso così ad insegnare che anche le donne devono praticare la filosofia. Le donne, diceva, [III,9,1] hanno ricevuto da parte degli Dei la stessa identica ragione degli uomini: quella ragione della quale ci serviamo gli uni nei confronti degli altri e grazie alla quale pensiamo a ciascuna faccenda, determinando se è un bene o un male, se è una cosa bella o brutta. [III,9,5] La femmina e il maschio hanno similmente le stesse sensazioni: vedere, udire, odorare e le altre. Sia l’uno che l’altra hanno similmente le stesse parti del corpo, e nessuno dei due ne ha più dell’altro. Inoltre, il desiderio della virtù e la naturale disposizione ad appropriarsi di essa non nasce soltanto negli uomini ma anche nelle donne; [III,9,10] giacché le donne non meno degli uomini sono nate per dare il loro beneplacito alle opere belle e giuste e per vilipendere quelle opposte. Stando così le cose, perché mai agli uomini si converrebbe il ricercare e il considerare il modo di vivere bene, il che è appunto il filosofare, [III,9,15] e invece ciò non si converrebbe alle donne? È forse che agli uomini si conviene d’essere virtuosi ed alle donne no? Consideriamo pure, una per una, ciascuna delle opere che si confanno alla donna che intende essere virtuosa, ed apparirà evidente [III,10,1] che ciascuna di queste opere promana alla donna proprio dalla filosofia. Innanzitutto la donna deve essere una buona amministratrice della casa, un’abile calcolatrice di ciò che è utile ad essa, ed essere atta a comandare i domestici. Ebbene, io affermo che soprattutto queste sono le doti della donna che pratica la filosofia. [III,10,5] E se ciascuna di queste doti fa parte della vita, la filosofia altro non è che la scienza del vivere; ed il filosofo, come soleva dire Socrate, considera continuamente:
‘cosa di cattivo e di buono è capitato in casa’
[III,10,10] La donna, poi, deve anche essere temperante: quale colei che si conserva pura dai rapporti sessuali contrari alla legge e pura dalla non padronanza di sé nel caso degli altri piaceri fisici, quale colei che non è serva delle smanie, non è litigiosa, non è spendacciona, non è civettuola. Queste sono le opere della donna temperante. [III,10,15] Oltre a queste, altre sue opere sono: saper dominare l’ira, non lasciarsi dominare dall’afflizione ed essere superiore ad ogni passione. Questi sono gli esercizi che la ragione filosofica dà l’ordine di fare, ed a me sembra che chi impara a farli diventerebbe una persona ordinata e disciplinatissima, uomo o donna che sia. E dunque? Le cose stanno così: [III,11,1] la donna che pratica la filosofia non sarebbe forse una persona giusta, un’irreprensibile socia di vita, una buona cooperatrice di concordia, una sollecita tutrice del marito e dei figli, una creatura per ogni verso monda dalla sete di guadagno e dallo spirito di soperchieria? [III,11,5] Quale creatura, più di colei che pratica la filosofia, potrebbe diventare una donna del genere? Giacché, per l’appunto, è assolutamente necessario che ella -se davvero fosse filosofa- ritenga il commettere un’ingiustizia cosa peggiore, in quanto più vergognosa, del subirla; che concepisca il comportarsi con moderazione una cosa migliore del fare una soperchieria e, inoltre, l’aver cari i figli più del vivere. [III,11,10] Quale donna sarebbe più giusta di colei che si comporta così? E invero si conviene che la donna ben educata sia anche più virile di quella non educata, e la filosofa della donna qualunque; poiché la prima non tollera un’azione vergognosa per paura della morte o per titubanza dinanzi al dolore fisico, né s’inchina davanti a qualcuno [III,11,15] perché costui è di nobile stirpe o una persona potente o uno ricco di denaro o anche, per Zeus, perché è un tiranno. C’è in lei avvezzamento a pensare in grande, a ritenere che la morte non è un male e che la vita non è un bene; e, allo stesso modo, a non evitare il dolore fisico né ad inseguire ad ogni costo le occasioni per scansare le fatiche. [III,11,20] Onde è verosimile che questa donna lavori manualmente e che sfacchini, che sia capace di nutrire al seno i figli che ha partorito, di servire [III,12,1] il marito con le proprie mani e, insomma, di fare senza alcuna titubanza quelle che taluni ritengono opere servili. Una donna siffatta non sarebbe di gran pro a colui che l’ha sposata, un fattore di buon ordine tra i congiunti e un esempio di probità per le conoscenti? [III,12,5] Ma per Zeus, dicono alcuni, è necessario che le donne che s’accostano ai filosofi siano quanto mai vantone e sfrontate; visto che, tralasciata la cura della casa, s’aggirano qua e là in compagnia degli uomini, fanno le sofiste e risolvono sillogismi [III,12,10] mentre dovrebbero invece starsene sedute in casa a filare la lana. Quanto a me, io non solleciterei né le donne che abbracciano la filosofia né gli uomini a tralasciare le opere che loro convengono, per dedicarsi unicamente ai ragionamenti filosofici; e affermo piuttosto che tutti quanti i ragionamenti che essi maneggiano, devono maneggiarli in funzione delle opere che loro convengono. [III,12,15] Infatti, come un ragionamento medico non è d’alcun pro qualora non porti un corpo umano alla salute; così pure, se un filosofo fa o insegna un certo ragionamento, tale ragionamento non è d’alcun pro se non porta un animo umano alla virtù. Innanzitutto è dunque d’uopo considerare il ragionamento a seguire il quale noi sollecitiamo le donne che abbracciano la filosofia. [III,12,20] Può forse renderle sfrontate, il ragionamento che dichiara il rispetto di sé e degli altri essere il sommo bene? Può forse abituarle a vivere in modo più protervo, il ragionamento che mostra loro la via della massima morigeratezza? Può insegnare loro a non essere temperanti, il ragionamento che dimostra come l’impudenza sia l’estremo dei mali? Può esortarle a non amministrare bene la casa, il ragionamento [III,13,1] che fa loro riscontrare come la buona amministrazione sia una virtù? Inoltre il ragionamento dei filosofi invita la donna ad essere affettuosa e a lavorare manualmente.
DIATRIBA IV
[13,5] SE BISOGNA EDUCARE IN MODO SIMILARE LE FIGLIE E I FIGLI
Quando una volta il discorso cadde sulla questione se si debba dare la stessa educazione ai figli e alle figlie, <Musonio> affermava che [IV,13,10] i cavalieri e i cacciatori educano assieme i cavalli e assieme i cani, senza fare alcuna differenza tra maschi e femmine. Così le cagne imparano a cacciare in un modo del tutto similare a quello dei cani; ed è dato vedere che qualora si voglia che compiano bene le opere equestri, le cavalle ricevono un insegnamento [IV,13,15] non diverso da quello dei cavalli. Quanto agli uomini, può tuttavia darsi che ci debba essere nell’educazione e nell’allevamento dei maschi qualcosa di particolare rispetto alle femmine; [IV,14,1] come se ad entrambi, uomo e donna, dovessero spettare non le medesime virtù similarmente; oppure come se fosse loro possibile pervenire al raggiungimento delle stesse virtù non attraverso la medesima educazione bensì attraverso educazioni diverse. Ora, che le virtù dell’uomo[IV,14,5] non siano diverse da quelle della donna è però cosa facile da imparare. Per esempio: l’uomo deve essere assennato, ma lo deve essere anche la donna; se no di che pro sarebbero un uomo stolto o una donna stolta? E poi: nessuno dei due deve vivere meno secondo giustizia dell’altro; infatti l’uomo, se ingiusto, non sarebbe un buon cittadino; e la donna [IV,14,10] non amministrerebbe bene la casa se non la amministrasse al modo giusto; e se è ingiusta al riguardo commetterà un’ingiustizia nei confronti del marito, come si racconta di Erifile. Quindi è bene che la moglie sia temperante, com’è bene che lo sia il marito; e le leggi puniscono appunto parimenti l’adultero e l’adultera. [IV,14,15] I casi di ghiottoneria, di ubriachezza e di altri vizi similari, essendo impudenze che svergognano grandemente [IV,15,1] coloro che vi rimangono impigliati, mostrano poi chiaramente che la temperanza è assolutamente necessaria ad ogni essere umano, sia femmina che maschio; giacché è soltanto attraverso di essa che noi sfuggiamo l’intemperanza, e in nessun altro modo. A questo punto qualcuno potrebbe forse dire che però la virilità [IV,15,5] conviene soltanto ai maschi. Ma le cose non stanno affatto così, giacché bisogna che anche la donna -la migliore, ben s’intende- sia virile e monda d’ogni viltà, così da non essere piegata né dal dolore fisico né dalla paura. Se no, come potrà ancora essere temperante qualora uno possa costringerla con la violenza, [IV,15,10] o facendole paura o infliggendole dei dolori fisici, a sopportare cose vergognose? Dunque bisogna che anche le donne siano pronte a difendersi se non intendono mostrarsi, per Zeus, peggiori delle galline e delle femmine di altri uccelli, le quali combattono accanitamente in difesa dei pulcini con animali molto più grandi di loro. Come dunque potrebbero [IV,15,15] le donne non avere bisogno di virilità? Che poi le donne abbiano a che fare anche con azioni di lotta armata lo rese manifesto la stirpe delle Amazzoni, le quali sterminarono con le armi molti popoli; sicché se qualcosa a questo fine manca alle altre donne è piuttosto la mancanza di esercizio che l’esserne per natura incapaci. Se le virtù dell’uomo e della donna sono le stesse, [IV,16,1] è allora del tutto necessario che convengano ad entrambi identico allevamento ed identica educazione. Infatti la sollecitudine che si prodiga rettamente per qualunque animale o vegetale, di necessità infonde in esso la virtù che gli s’addice. Se un uomo e una donna avessero similmente bisogno di saper suonare il flauto [IV,16,5] e se ciò fosse necessario sia all’uno che all’altra per riuscire a vivere, noi insegneremmo ad entrambi parimenti l’arte auletica; e la stessa cosa faremmo se dovessero sia l’uno che l’altra suonare la cetra. Ora, quanto alla virtù che s’addice all’essere umano, [IV,16,10] se bisogna che entrambi diventino virtuosi e che siano similmente capaci d’essere assennati, d’essere temperanti, di partecipare della virilità e della giustizia uno non meno dell’altra: non educheremo noi in modo simile l’uno e l’altra, e non insegneremo parimenti ad entrambi l’arte grazie alla quale l’essere umano può diventare virtuoso? Certo che bisogna fare [IV,16,15] così e non altrimenti. ‘E dunque?’ -dice forse qualcuno- ‘tu solleciti che gli uomini imparino l’arte di filare la lana similarmente alle donne, e che le donne prendano parte agli esercizi ginnici similmente agli uomini?’ Io non solleciterò affatto questo. Poiché nel genere umano [IV,16,20] esiste una natura fisicamente più robusta, che è quella dei maschi; ed una fisicamente più debole, che è quella delle femmine; io affermo invece [IV,17,1] che bisogna assegnare all’una e all’altra le opere che maggiormente le si adattano, affidando le più pesanti agli individui più robusti e le più leggere agli individui più deboli. Per questo motivo l’arte di filare la lana, come pure la cura della casa, si confarebbe più [IV,17,5] alle donne che agli uomini; mentre viceversa la ginnastica, come pure la vita fuori casa, si confarebbe più agli uomini che alle donne. Talora, tuttavia, anche degli uomini possono porre verosimilmente mano ad opere più leggere e ritenute da donna; e delle donne, a loro volta, fare lavori più duri e che si ritengono [IV,17,10] convenire maggiormente agli uomini, qualora così impongano le necessità del corpo o del bisogno o del momento. In un certo senso, infatti, tutte le opere umane sono da farsi in comune e sono comuni dell’uomo e della donna; e nulla è necessariamente appannaggio esclusivo dell’uno o dell’altra. Talune [IV,17,15] di esse, tuttavia, sono più idonee ad una natura ed altre all’altra: ragion per cui alcune si chiamano opere maschili ed altre opere femminili. Quante hanno però riferimento alla virtù si può rettamente affermare che s’addicano parimenti sia ad una natura che all’altra, se appunto noi affermiamo che le virtù s’addicono non meno agli [IV,17,20] uni che alle altre. Laonde io credo che bisogna verosimilmente educare in modo similare sia la femmina che il maschio in tutte quante le opere che conducono alla virtù. A cominciare dall’infanzia bisogna dunque subito insegnar loro che questo è bene e che questo è male, che una stessa cosa è male per entrambi, [IV,18,1] che questo è giovevole, che questo è dannoso, che questo qui si deve fare e che questo qui non si deve fare. Da questi insegnamenti promana saggezza alle fanciulle e similmente ai fanciulli che li apprendono, senza differenza alcuna fra gli uni e le altre. Di poi bisogna [IV,18,5] infondere in essi un’intensa ripulsa per ogni faccenda vergognosa, e una volta ingeneratisi questi moti, necessariamente l’uomo e la donna sono individui temperanti. Invero chi è educato rettamente -chiunque sia, maschio o femmina- deve abituarsi a sopportare il dolore fisico, abituarsi a non avere paura della morte, abituarsi a non avvilirsi [IV,18,10] davanti a nessuna sventura: tutte abitudini grazie alle quali si può acquisire la virtù della virilità. E della virilità è stato poc’anzi mostrato che anche le donne hanno parte. Inoltre il rifuggire l’avidità di guadagno; l’avere in onore l’imparzialità; essendo un uomo, il voler fare del bene e non del male agli altri uomini: [IV,18,15] ecco, questa è la lezione più bella e quella che realizza la giustizia in coloro che la imparano. Perché bisogna che sia soltanto l’uomo ad imparare queste cose? Infatti, per Zeus, se è confacente che le donne siano persone giuste, allora bisogna che entrambi abbiano imparato le medesime cose, che sono quelle in assoluto più importanti e più grandi. Giacché se uno conoscerà qualche minuzia attinente un certo virtuoso [IV,19,1] e l’altra no; oppure, al contrario, se una la conoscerà e l’altro no: ciò non dimostra che l’educazione dell’uno è stata diversa da quella dell’altra. È solo circa gli insegnamenti in assoluto più grandi che non bisogna che uno impari cose diverse dall’altro, bensì le stesse. Se poi uno mi domanda [IV,19,5] quale scienza soprintende a questa educazione, gli dirò che come nessun uomo potrebbe essere educato rettamente senza filosofia, così neppure potrebbe esserlo una donna. Io non voglio dire che, se faranno vita filosofica come donne, [IV,19,10] bisogna che in esse si congiungano nitidezza e straordinaria valentia di discorso: giacché io non lodo affatto ciò neppure negli uomini. Voglio invece dire che le donne devono acquisire bontà di carattere ed eccellenza morale del modo di vita, poiché la filosofia è il mestiere pratico dell’eccellenza morale e null’altro.
DIATRIBA V [19,15]
SE SIA PIÙ POTENTE L’ABITUDINE PRATICA O LA CONOSCENZA TEORICA
Un’altra volta ci accadde di ricercare se per l’acquisizione della virtù [V,20,1] sia più efficace l’abitudine pratica o la conoscenza teorica; e se quest’ultima insegni rettamente ciò che si deve fare, mentre la prima sia propria di quanti sono abituati ad agire in armonia con tale conoscenza. Musonio reputava che ad essere più efficace fosse l’abitudine pratica, e parlando a sostegno di questa sua opinione [V,20,5] interrogò così uno dei presenti. Dati due medici, uno dei quali bravo a parlare e specialmente a parlare dell’arte medica in modo quanto mai esperto, ma del tutto privo di esperienza nella cura di pazienti; ed un altro non bravo a parlare ma abituato a curare secondo i dettami della medicina: la presenza di quale dei due, diceva, [V,20,10] sceglieresti per te se fossi ammalato? E quello rispose: il medico abituato a curare. E Musonio: e quindi? Dati due uomini, uno dei quali ha navigato molte volte ed ha già pilotato un buon numero di navi, ed un altro che ha navigato poche volte e non ha mai fatto il pilota; [V,20,15] se quello che non ha mai fatto il pilota fosse però bravissimo a parlare del modo in cui è d’uopo pilotare una nave, mentre l’altro fosse del tutto carente e debole al riguardo: di quale dei due piloti ti serviresti per navigare? [V,21,1] E l’interrogato rispose: di quello che è già stato pilota molte volte. Di nuovo Musonio disse: dati due musicisti, uno dei quali ha scienza della teoria musicale e ne sa parlare con grande persuasività, ma che è incapace di cantare o di suonare la cetra oppure la lira; [V,21,5] mentre un altro vale di meno nella teoria musicale ma sa suonare bene la cetra, la lira e sa anche cantare: a quale dei due affideresti l’esecuzione di un’opera musicale o quale dei due vorresti che diventasse maestro di musica di un ragazzo che non la conosce? E quello rispose: [V,21,10] il musicista bravo nella pratica musicale. Dunque, disse Musonio, in questo campo le faccende stanno in questo modo. E circa la temperanza o la padronanza di sé, piuttosto che capaci di dire quel che è d’uopo fare, non è molto meglio diventare padroni di sé e temperanti in tutto ciò che effettuiamo? Anche in proposito il giovanotto conveniva che saper parlare bene della temperanza [V,21,15] vale meno ed è più frivolo dell’essere temperante nei fatti. Laonde Musonio, rannodandosi alle precedenti considerazioni, disse: in questi casi avere dunque la conoscenza teorica di ciascuna faccenda, come potrebbe essere cosa migliore dell’abitudine pratica ad effettuare tali faccende [V,21,20] secondo la guida della conoscenza teorica? Giacché l’abitudine pratica ci conduce alla capacità di effettuare una faccenda, mentre la conoscenza teorica di essa ci conduce alla capacità di parlarne. La conoscenza teorica coopera certo all’azione poiché insegna come essa debba essere effettuata e, in ordine cronologico, viene prima dell’abitudine pratica. Infatti non è possibile che un’azione moralmente buona [V,21,25] diventi abituale, se non grazie alla conoscenza teorica della sua bontà; e tuttavia [V,22,1] potenzialmente l’abitudine pratica vince per importanza la conoscenza teorica perché è più dominante di questa nel condurre l’uomo all’azione.
DIATRIBA VI
SULL’ESERCIZIO PRATICO [22,5]
Musonio incitava sempre con empito i sodali all’esercizio pratico, utilizzando discorsi come i seguenti. La virtù, diceva, non è una scienza soltanto teoretica ma anche concretamente operante, al modo della medicina e della musica. Come, dunque, nel caso del medico e del musicista bisogna [VI,22,10] non soltanto aver appreso i principi generali ciascuno della propria arte, ma anche allenarsi ad effettuare le opere corrispondenti a quei principi generali; così pure l’uomo che dispone di essere virtuoso [VI,23,1] deve non soltanto imparare tutte quelle nozioni che portano alla virtù, ma anche allenarsi in armonia con esse, mosso dall’ambizione di farsi onore e dalla laboriosità. Come potrebbe una persona diventare temperante se sapesse soltanto che bisogna non lasciarsi vincere dai piaceri fisici, [VI,23,5] ma non è affatto allenata a tener loro testa? Come potrebbe qualcuno diventare giusto, dopo avere sì imparato che bisogna aver cara l’equità ma senza essersi esercitato a fuggire lo spirito di soperchieria? Come potremmo acquisire la virilità, avendo sì capito che non sono paurose le cose che i più reputano terribili, [VI,23,10] e però se non ci siamo esercitati a restare senza paura di fronte ad esse? Come potremmo diventare uomini saggi dopo avere sì riconosciuto che veramente alcune cose sono beni e altre sono mali, e però senza esserci allenati a spregiare quelli che sembrano beni ma tali non sono? Perciò all’apprendimento delle nozioni che convengono a ciascuna virtù [VI,23,15] deve assolutamente seguire l’esercizio pratico, se davvero s’intende che proprio quell’apprendimento ci divenga di qualche pro. E chi è degno di fare filosofia deve esercitarsi praticamente tanto più di chi ha di mira la medicina o qualche altra simile arte, quanto più la filosofia è più importante e più difficile da espletare [VI,24,1] di ogni altro mestiere. Infatti, coloro che hanno di mira le altre arti pervengono all’apprendimento di esse con animi non in precedenza rovinati, né col bagaglio di nozioni contrarie a quelle che stanno per imparare. Invece, coloro che mettono mano alla filosofia [VI,24,5] perseguono la virtù con alle spalle un lungo periodo di corruzione dell’animo e infarciti di vizi; sicché, per questo motivo, hanno bisogno di molto più esercizio pratico. Come e in che modo, dunque, bisogna fare questi esercizi pratici? Poiché è avvenuto che l’uomo non sia soltanto animo né soltanto corpo [VI,24,10] bensì una composizione di questi due elementi, è necessario che chi si esercita praticamente abbia sollecitudine per entrambi; e maggiormente, come merita, per il componente migliore, cioè per l’animo. Ma anche per l’altro, se appunto nessuna parte dell’uomo dovrà risultare carente. Pertanto anche il corpo [VI,25,1] del filosofo deve essere stato ben preparato a svolgere i lavori che del corpo sono propri, giacché le virtù spesso fanno necessariamente uso di quest’organo per effettuare le azioni della vita. Degli esercizi pratici, dunque, uno sarebbe rettamente proprio dell’animo soltanto, [VI,25,5] mentre un altro lo sarebbe in comune di animo e di corpo. L’esercizio pratico comune ad entrambi sarà quello di abituarci ai rigori invernali e alle calure estive, alla sete e alla fame, alla frugalità del cibo e alla durezza del giaciglio, ad astenerci da cose piacevoli e a reggere quelle dolorose. Attraverso questi esercizi ed altri del genere, [VI,25,10] il corpo s’irrobustisce e diventa resistente alle sofferenze, solido, proficuo per qualunque lavoro; mentre l’animo, grazie all’allenamento a reggere le fatiche s’irrobustisce in vista della virilità, e grazie all’astinenza dalle cose piacevoli in vista della temperanza. L’esercizio pratico peculiare dell’animo è, in primo luogo, [VI,25,15] quello di far sì che siano a portata di mano le dimostrazioni circa quelli che sembrano essere beni e che invece beni non sono; le dimostrazioni circa quelli che sembrano essere mali e che invece mali non sono; quello di abituarsi a riconoscere i veri beni [VI,26,1] e a distinguerli da quelli che veri beni non sono. Di poi bisogna studiare a non fuggire alcuno dei mali apparenti e a non inseguire alcuno dei beni apparenti; a scansare con qualunque accorgimento i mali veri, [VI,26,5] e ad andare dietro in qualunque modo ai veri beni. Dunque s’è detto così, per sommi capi, quale sia ciascuno dei due modi dell’esercizio pratico. Nondimeno proverò a dire anche partitamente come si devono fare entrambi, senza distinguere e senza separare gli esercizi pratici comuni ad animo e corpo da quelli [VI,26,10] propri del solo animo, ma trattando indistintamente quelli di entrambe le parti. Capita a tutti noi, peraltro certamente a quanti di noi hanno partecipato a conversazioni filosofiche, d’avere quindi sentito parlare di questi argomenti e d’avere concepito il giudizio che il dolore fisico, la morte, la povertà di denaro e qualunque altra cosa che sia lontana dal vizio [VI,26,15] sono nient’affatto un male; e che, a loro volta, sono nient’affatto un bene la ricchezza di denaro, la vita, il piacere fisico o qualcun’altra delle cose che non partecipano della virtù. Ma ugualmente, nonostante l’aver noi concepito questi giudizi, a causa della corruzione dell’animo intervenuta in noi già a partire dalla fanciullezza e [VI,27,1] delle cattive consuetudini conseguenti a simile corruzione, quando ci si appressa un dolore fisico noi riteniamo che ci appressi un male, mentre quando ci si presenta un piacere fisico riteniamo che ci si presenti un bene; siamo presi dal raccapriccio dinanzi alla morte come dinanzi all’estrema delle sventure, [VI,27,5] mentre ossequiamo la vita come se fosse il sommo dei beni; quando sborsiamo del denaro ci affliggiamo come se subissimo un danno, mentre quando invece ne incassiamo ci rallegriamo come se ciò ci recasse un giovamento. Similarmente, nella maggior parte degli altri casi noi non ci comportiamo nei fatti in modo conseguente alle rette concezioni, [VI,27,10] e seguiamo invece le cattive abitudini. Poiché affermo che in proposito le cose stanno così, bisogna che chi si esercita praticamente faccia in modo che abbiano il sopravvento in lui: il non esultare per un piacere fisico e il non scansare il dolore fisico; il non essere attaccato ai piaceri della vita e il non temere la morte; e, nel caso del denaro, [VI,27,15] il non anteporre l’incassarne allo spenderne.
DIATRIBA VII [28,1]
CHE LA FATICA NON È DA SPREGIARE
Al fine di sottostare più facilmente e con maggiore slancio a quelle fatiche che [VII,28,5] noi si stia per affrontare in nome della virtù e della bontà d’animo, sarà proficuo aver tenuto conto dei seguenti fatti. Quante fatiche, cioè, taluni affrontano a causa di cattive smanie, com’è il caso degli amanti impudenti; quante fatiche reggono altri individui per ottenere un guadagno; quanto penino taluni quando vanno a caccia della fama. [VII,28,10] Eppure costoro reggono ogni sorta di tribolazione per loro propria scelta. Non è dunque terribile che quelli tollerino di sperimentare simili fatiche in nome di nessuno dei veri beni, e che invece noi non si sottostia prontamente a qualunque fatica in nome della bontà d’animo, per rifuggire quel male [VII,29,1] che ci guasta la vita e per acquisire quella virtù che è il provveditore di tutti i veri beni? Non è neppure il caso di dire quanto sarebbe meglio, invece di faticare [VII,29,5] per fare centro con la moglie di un altro, che uno fatichi per disciplinare come si deve le proprie smanie; invece di tribolare per i soldi, che uno si eserciti ad averne bisogno di pochi; anziché avere fastidi in nome della fama, che uno si affaccendi per non essere avido di fama; anziché ricercare [VII,29,10] il modo di fare del male a chi invidia, che uno consideri come fare per non invidiare nessuno; anziché essere servile con dei cosiddetti amici -com’è il caso degli adulatori- che uno peni per acquisire degli amici veri. In generale, poiché faticare è necessario per tutti gli uomini, [VII,29,15] sia per quelli che desiderano le cose migliori sia per quelli che smaniano per le peggiori, è del tutto assurdo che non fatichino con molto maggiore slancio coloro i quali perseguono le cose migliori, invece di coloro i quali hanno ben piccole speranze di trarre frutto dalle loro fatiche. [VII,30,1] Ora, i saltimbanchi sottostanno a prove così difficili e mettono a repentaglio la loro vita -chi facendo salti mortali sulle spade, chi camminando su funi tese ad una certa altezza, [VII,30,5] chi volando per aria come uccelli- in esercizi nei quali un passo falso significa la morte; e fanno tutto questo per una piccola ricompensa. Noi invece non tollereremo di tribolare in nome della felicità nella sua interezza? Il fine del diventare virtuosi, infatti, altro non è che quello di essere felici e di vivere beatamente per il resto dei nostri giorni. [VII,30,10] Si potrebbe anche tenere conto, per verosimiglianza, dell’esempio che ci viene da taluni animali: un esempio certamente capace di indirizzarci ad amare la fatica. Dunque le quaglie e i galli, che certo non s’intendono di virtù come l’uomo, che non sanno cosa siano il bello e il giusto né mai faticano in nome di qualcosa di siffatto, [VII,30,15] pure, quando combattono gli uni contro gli altri, [VII,31,1] sopportano storpiature e mutilazioni, e ognuno di essi si fa forza fino alla morte per non essere sconfitto dall’altro. Quanto più è allora verosimile che noi si sopporti e ci si faccia forza, dal momento che abbiamo la conoscenza certa dei beni in nome dei quali peniamo, sia per aiutare gli amici, sia per giovare alla patria, [VII,31,5] sia per combattere a difesa delle nostre mogli o dei nostri figli e -cosa somma e assolutamente principale- al fine di essere virtuosi, giusti e temperanti: il che a nessuno sopravviene senza grandi fatiche. Laonde io dico in aggiunta che colui il quale non vuole faticare [VII,31,10] quasi si autocondanna ad essere un buono a nulla, poiché i beni noi li acquisiamo tutti con fatica. Queste ed altre cose siffatte disse <Musonio> allora, risvegliando ed incitando gli astanti a non spregiare la fatica.
DIATRIBA VIII
[32,1] CHE ANCHE I RE DEVONO PRATICARE LA FILOSOFIA
Una volta entrò da lui uno dei re che venivano dalla Siria -a quel tempo, infatti, c’erano ancora [VIII,32,5] in Siria dei re sudditi dei Romani- e Musonio gli disse, tra molte altre cose, anche questo. Non credere, diceva, che il praticare la filosofia convenga a qualcun altro più che a te, e ciò non in grazia d’altro se non del fatto che ti capita d’essere re. Un re, infatti, [VIII,32,10] dev’essere capace esattamente di questo: ossia di salvaguardare e recare beneficio agli uomini. Ma colui che salvaguarda e reca beneficio è d’uopo che conosca cos’è bene e cos’è male per l’uomo, cosa gli giova e cosa gli è di danno, cosa gli è utile e cosa non gli è utile: se appunto è vero che vanno in rovina quanti incappano [VIII,32,15] nei mali, mentre si salvano quanti centrano i beni; e che quanti sollecitano per sé ciò che giova ed è utile ne traggono beneficio, mentre quanti si mettono in animo ciò ch’è inutile e dannoso ne ricavano un male. [VIII,33,1] Ora, il vagliare ciò ch’è bene e ciò ch’è male, utile e non utile, giovevole e dannoso, non è proprio d’altri che del filosofo: il quale s’affaccenda continuamente proprio su questo argomento al fine di non ignorare neppur una di queste differenze, ed ha fatto un’arte [VIII,33,5] del sapere cosa conduce alla felicità o infelicità dell’uomo. Appare perciò chiaro che il re deve essere filosofo. Invero al re s’addice, anzi è per lui una necessità, arbitrare secondo giustizia tra i sudditi, in modo che nessuno di loro abbia né di più né di meno di quanto merita; [VIII,33,10] e che quanti meritano onori oppure punizioni, li abbiano. Come potrebbe mai qualcuno fare ciò senza essere una persona giusta? E come potrebbe una persona essere giusta se non ha scienza della giustizia, di quale cosa essa sia? Dunque anche per questo motivo il re deve, di nuovo, essere filosofo: perché altrimenti, se non praticasse la filosofia, apparirebbe non essere un conoscitore [VIII,33,15] della giustizia e del giusto. È infatti impossibile negare che chi impara cos’è giusto lo saprà molto più di chi non l’ha imparato, e parimenti negare che quanti non praticano la filosofia siano incolti di tali argomenti. È ben per questo che gli uomini insorgono gli uni contro gli altri [VIII,33,20] e si fanno la guerra a vicenda in merito a cos’è giusto, giacché gli uni sono dell’avviso che più giusto sia ‘questo’, mentre gli altri vogliono che sia ‘quello’. Eppure essi non litigano [VIII,34,1] a proposito di argomenti dei quali hanno scienza: non sul bianco e sul nero, non sul caldo e sul freddo, non sul molle e sul duro: anzi su questi argomenti tutti la pensano e tutti dicono le stesse cose. Sicché anche circa le cose giuste tutti [VIII,34,5] andrebbero similarmente d’accordo, se appunto sapessero quali sono; e laddove essi non concordano appare quindi chiara la loro ignoranza. Tu pure, io reputo, non sei esente da questa ignoranza. Ragion per cui devi essere sollecito d’acquisire la conoscenza del giusto più di chiunque altro, e ciò tanto più quanto [VIII,34,10] è più vergognoso per un re che per un privato cittadino l’essere ignorante in fatto di giustizia. Bisogna inoltre che il re sia temperante lui stesso, ma faccia sì che siano temperanti anche i sudditi; al fine, per lui, di comandare con temperanza e, per essi, di ubbidire ai suoi comandi con compostezza, senza che né l’uno né gli altri vivano nella dissolutezza, [VIII,34,15] giacché la dissolutezza è qualcosa che guasta tanto chiunque comanda quanto qualunque privato cittadino. E come potrebbe essere temperante chi non si è esercitato a padroneggiare le proprie smanie; oppure, se è spudorato, come potrebbe rendere altri temperanti? Non è possibile trovare quale altra scienza, ad eccezione della filosofia, conduca alla temperanza; giacché è solo la filosofia che insegna ad essere al di sopra [VIII,34,20] del piacere fisico, che insegna ad essere al di sopra dell’avidità di guadagno, [VIII,35,1] che insegna ad aver cara la parsimonia, che insegna a rifuggire lo sperpero, che abitua ad avere rispetto di sé e degli altri, che abitua a padroneggiare la lingua, che procaccia ordine, compostezza e decoro e, in complesso, ciò ch’è confacente quando siamo sia in moto che in quiete. Ebbene, quando questi caratteri si congiungono in un uomo, [VIII,35,5] lo rendono solenne e temperante; ed anche un re nel quale essi fossero presenti sarebbe in sommo grado divino e degno di rispetto. Il dominio sulla paura, il non sbigottirsi, l’essere coraggioso sono certo opere della virilità. E come possono esserci queste qualità in un uomo altrimenti che nutrendo egli, circa la morte e il dolore fisico, la potente convinzione [VIII,35,10] che essi non sono mali? Infatti sono questi, la morte e il dolore fisico, a far andare gli uomini fuori di sé e ad impaurirli qualora questi ultimi siano persuasi che si tratta di mali, mentre è soltanto la filosofia ad insegnare che invece mali non sono. [VIII,35,15] Se pertanto i re devono acquisire la virtù della virilità, e lo devono più di qualunque altra cosa, bisogna che essi pongano ogni sollecitudine nella pratica della filosofia, dal momento che non potrebbero diventare virili in altro modo. [VIII,36,1] Ora, caratteristica da re è anche -se qualcos’altro lo è- quella di essere invitto nel ragionamento e capace di padroneggiare con i discorsi gli interlocutori avversari, come i combattenti nemici con le armi. Qualora i re [VIII,36,5] siano deboli a questo riguardo, è però necessario che essi siano spesso raggirati e sforzati ad ammettere come vere affermazioni che invece sono false: il che è opera di una stoltezza e di un’incultura estrema. Io non so cos’altro, più di questo, la filosofia sia per sua natura capace di procurare a coloro che la perseguono: intendo la capacità di sopravanzare il prossimo col ragionamento e [VIII,36,10] di distinguere le affermazioni false da quelle vere, confutando le une e rinsaldando le altre. Quando vengano a discorso con i filosofi e diano e prendano la parola, è possibile vedere che i retori, per esempio, sbattono e annaspano nell’incertezza, costretti come sono a fare affermazioni tra loro contraddittorie. [VIII,36,15] E quando si sia scoperto che i retori, cioè coloro che hanno fatto del declamare discorsi la loro opera specifica, sono più deboli dei filosofi in fatto di discorsi, cosa bisogna concepire degli altri uomini? Laonde se qualcuno che è re desidera essere forte nel ragionamento, deve assolutamente praticare la filosofia, [VIII,36,20] al fine di non temere che qualcuno possa avere il sopravvento su di lui per questa via; poiché il re deve essere, in ogni campo, privo di timore, coraggioso e invitto.
In generale, è del tutto necessario che il buon sovrano sia, a parole e nei fatti, perfettamente al riparo dalle aberrazioni; [VIII,37,1] se appunto egli deve -come reputavano gli antichi- essere legge vivente, propulsore di legalità e concordia, capace di tenere in disparte illegalità e guerra civile, emulo di Zeus e padre, come lui, di coloro sui quali governa. [VIII,37,5] E come potrebbe un re essere tale se non sfruttasse una natura eccellente, se non avesse ricevuto un’educazione superiore, se non possedesse tutte le virtù che s’addicono all’uomo? Anche nel caso ci sia una scienza diversa che guida i passi dell’umana natura verso la virtù e che insegna a praticare e perseguire le opere buone, [VIII,37,10] essa sarebbe comunque da paragonare alla filosofia e bisognerebbe determinare se essa sia migliore e bastante più della filosofia a far diventare virtuoso un re. Nel qual caso il re, volendo appunto essere un buon re, verosimilmente utilizzerebbe certo la migliore delle due. Ma se nessun’altra arte promette [VIII,37,15] la trasmissione e l’insegnamento della virtù -giacché ve ne sono alcune che trattano solo del corpo umano e degli esercizi che sono ad esso proficui, [VIII,38,1] mentre quante s’interessano dell’animo umano tutto prendono in considerazione fuorché donde potrà venirgli la saggezza- allora la filosofia è la sola arte che prende in considerazione e si preoccupa di escogitare il modo in cui l’uomo può sfuggire il vizio ed acquisire la virtù. Se così stanno le cose, [VIII,38,5] ad un re che vuole essere virtuoso cos’altro può stare più a cuore della pratica della filosofia? Meglio ancora: come e in che modo si potrebbe regnare e vivere bene senza praticare la filosofia? Quanto a me, io credo che il buon re sia per ciò stesso necessariamente un filosofo, [VIII,38,10] e che il filosofo sia per ciò stesso anche un sovrano.
Poniamo sotto osservazione innanzitutto la prima affermazione. È forse possibile che sia buon re chi non è uomo virtuoso? Non lo si può certo dire. Ma se un uomo è virtuoso, non sarebbe costui anche un filosofo? [VIII,38,15] Sì, per Zeus, visto che la filosofia è appunto il mestiere pratico dell’eccellenza morale. Dal che necessariamente si deduce che il buon re [VIII,39,1] è per ciò stesso anche filosofo. E che il filosofo, invero, sia ad ogni effetto anche un sovrano, lo si può imparare in questo modo. Caratteristica del sovrano è la capacità di sovrintendere su popoli e città, [VIII,39,5] e di meritare di comandare degli uomini. E chi più del filosofo può essere un valido patrocinatore di città o un più degno comandante di uomini? Proprio al filosofo s’addice (se è davvero filosofo) l’essere saggio, temperante, d’alto sentire, capace di discernere ciò ch’è giusto e confacente, di mettere in pratica quel che ha pensato e di farsi forza davanti agli eventi dolorosi. [VIII,39,10] Oltre a ciò egli sarebbe coraggioso, privo di timore, impavido davanti a cose che sono reputate terribili; e inoltre benefico, probo, filantropo. Chi si potrebbe trovare più idoneo o più capace di comando di un uomo siffatto? Nessuno. E se pur egli non avrà molti sottomessi che gli ubbidiscono, [VIII,39,15] non per questo egli sarebbe privato della sua qualità di sovrano; giacché basta anche comandare sugli amici che ha, sulla moglie e sui figli, o anche, per Zeus, soltanto su se stesso. Infatti il medico che ha in cura pochi pazienti, se è davvero esperto di medicina, non è da meno di quello che ne ha in cura molti. [VIII,39,20] Il musicista che insegna musica a pochi allievi, se è davvero padrone [VIII,40,1] dell’arte musicale, non è da meno di quello che la insegna a molti. Similmente il cavaliere che utilizza uno o due cavalli, quando davvero abbia scienza dell’equitazione, non è da meno di quello che ne utilizza molti. Così, chi ha soltanto uno o due persone che gli ubbidiscono è sovrano in modo similare a colui che possiede molti sudditi. [VIII,40,5] Dunque, per essere sovrano basta soltanto che abbia la perizia richiesta dalla carica regale. È per questo motivo, a me sembra, che Socrate denomina la filosofia ‘scienza politica e sovrana’ ed afferma che chi la apprende è per ciò stesso un politico.
Mentre Musonio [VIII,40,10] proferiva queste parole il re, compiaciuto di questi discorsi, ammetteva d’essergli grato per le sue parole e gli disse: “In cambio di questi discorsi chiedimi qualunque cosa vuoi e io non ti farò alcuna obiezione”. Al che Musonio rispose: “Ti chiedo di conformarti e di tener dietro a questi discorsi che vai lodando. [VIII,40,15] Farai così a me una cosa sommamente gradita e gioverai a te stesso più che in ogni altro modo”.
DIATRIBA IX
[41,1] CHE L’ESILIO NON È UN MALE
Quando un esule si rammaricava dell’esilio, Musonio lo consolava più o meno con queste parole. Quanto all’esilio -diceva- [IX,41,5] se uno non è dissennato, come potrebbe sentirsene oppresso? L’esilio è qualcosa che non ci esclude in alcun modo dall’acqua, dalla terra, dall’aria; inoltre dal sole e dagli altri astri e neppure dalla conversazione con gli uomini, giacché dovunque siamo e in qualunque modo stiamo ci è dato di partecipare della loro compagnia. [IX,41,10] E se pur ci troviamo ad essere privati di un certo pezzo di terra e della compagnia di certi uomini, che c’è di terribile in ciò? Neppure quando vivevamo in patria godevamo dell’uso di tutta la terra, né stavamo in compagnia di tutti gli uomini. Quanto agli amici, anche ora potremmo stare in loro compagnia, almeno gli amici veri e dei quali conviene far menzione, [IX,41,15] giacché sono quelli che non ci tradirebbero né ci abbandonerebbero mai; mentre da quelli che sono amici fittizi e non veri è meglio star lontani che essere in compagnia. [IX,42,1] Perché? Il cosmo non è la patria comune di tutti gli uomini, come stimava Socrate? Sicché se andrai via dal luogo in cui nascesti e fosti allevato, non devi in verità ritenere d’essere esiliato dalla patria ma soltanto d’essere stato privato [IX,42,5] della facoltà di risiedere in una certa città; e ciò soprattutto se tu stimassi di essere una persona acquiescente alla ragione. Chi è tale, infatti, non apprezza e non deprezza alcun luogo come causa di felicità o d’infelicità: pone invece l’universo in se stesso e si ritiene cittadino della città di Zeus, quella che consiste di uomini e di Dei. [IX,42,10] In armonia con queste affermazioni è anche Euripide, con i versi nei quali dice:
‘tutta l’aria è percorribile da un’aquila,
tutta la terra è patria per un uomo nobile’
Come sarebbe ben stravagante e ridicolo [IX,43,1] un individuo che si trova in patria ma, abitando in una casa diversa da quella nella quale è nato, di ciò si dolesse e rammaricasse terribilmente; così sarebbe ben verosimilmente ritenuto stolto e dissennato chiunque, abitando in una città diversa da quella nella quale gli è capitato di nascere, ritiene ciò una sciagura. [IX,43,5] Come potrebbe l’esilio essere d’ostacolo alla sollecitudine per se stessi e all’acquisizione della virtù, dal momento che a nessuno, a causa dell’esilio, è precluso l’apprendimento e l’esercizio pratico di ciò ch’è d’uopo apprendere e praticare? L’esilio potrebbe anzi cooperare a questo fine, procurando agio e potestà [IX,43,10] d’imparare ed effettuare più di prima azioni nobili e virtuose ad uomini che non sono più tratti qua e là dalla cosiddetta patria a servigi politici, né importunati dai cosiddetti amici o congeneri, i quali tutti sono abilissimi nell’intralciare e nello spiccarci dall’impulso verso le mete più nobili. [IX,43,15] Ad alcuni l’esilio è stato addirittura assolutamente utile, come accadde a Diogene, che da cittadino qualunque divenne filosofo quand’era in esilio, e anziché risiedere a Sinope passò il suo tempo in Grecia, dove [IX,44,1] si distinse tra i filosofi nella pratica della virtù. Altri, malmessi nel corpo a causa di mollezze e di vita effeminata, l’esilio li ha rinvigoriti forzandoli ad un tenore di vita più virile. Sappiamo anche di persone le quali, durante l’esilio, sono state liberate da stati morbosi cronici, [IX,44,5] com’è senza dubbio il caso di questo Lacedemone di nome Spartiatico, il quale soffriva da lungo tempo di un male ai polmoni ed era per questo motivo spesso ammalato a causa della sua vita effeminata: ebbene, quando smise la vita effeminata smise anche d’aver bisogno di cure. Si parla anche di altri mollaccioni che sono stati liberati dalla gotta, [IX,44,10] mentre in precedenza erano straziati da questa affezione, poiché l’esilio li abituò ad un tenore di vita più duro e proprio per questo li preparò a diventare sani. In questo modo [IX,44,10] l’esilio, invece di operare contro, piuttosto coopera a che noi si sia meglio disposti sia nel corpo che nell’animo. [IX,44,15]
Né esiste affatto per gli esuli il pericolo di difettare del necessario. [IX,45,1] Infatti, quanti sono pigri, privi di iniziativa, incapaci di agire virilmente, anche vivendo in patria difettano per lo più dei mezzi di sussistenza e non sanno cavarsela; mentre quanti sono d’indole nobile, faticatori, intelligenti, si trovano bene dovunque vadano e lì se la passano senza che manchi loro nulla. [IX,45,5] Ed in effetti, se non vogliamo vivere nel lusso noi non abbiamo bisogno di molte cose:
‘Peraltro di che han bisogno i mortali salvo di queste due cose sole:
del grano di Demetra e dell’acqua da bere,
che abbiamo a disposizione e che la natura ci dà per nutrirci?’
Io dico che degli uomini degni di menzione [IX,45,10] quand’anche si trovino fuor di patria, non soltanto hanno abbondanza delle cose più necessarie per vivere, [IX,46,1] ma spesso riusciranno a procacciarsi anche molte ricchezze. Ad esempio Odisseo, pur versando -per così dire- in condizioni ben più meschine d’ogni altro esule, poiché era solo, nudo e naufrago [IX,46,5]; quando tuttavia giunse presso gente a lui sconosciuta, i Feaci, poté arricchirsi abbondantemente. Temistocle, dopo essere fuggito dalla patria giunse presso gente non soltanto non amica ma nemica e barbara, i Persiani, e ne ottenne [IX,46,10] in dono tre città: Miunte, Magnesia e Lampsaco, così che poté vivere a loro spese. Dione di Siracusa, privato dal tiranno Dionisio di tutte le sue sostanze, quando fu bandito dalla patria si procurò in esilio tale abbondanza di denaro da mantenere un esercito mercenario, con il quale venne [IX,46,15] in Sicilia e la liberò da quel tiranno. Chi, dunque, se è sano di mente e guarda a questi esempi, può ancora concepire l’esilio come causa della mancanza di mezzi per tutti gli esuli? [IX,47,1] E non è affatto necessario avere una cattiva opinione degli esuli sulla base del semplice esilio, poiché è a tutti noto che molti processi sono celebrati male, che molte persone sono cacciate fuori dalla patria ingiustamente, e che già diversi uomini, [IX,47,5] pur essendo virtuosi, furono scacciati dai loro concittadini: come Aristide il giusto da Atene; Ermodoro da Efeso, a proposito del quale Eraclito, da quando quello andò in esilio, soleva incitare fermamente gli Efesini ad impiccarsi da giovani. Taluni esiliati divennero anche celeberrimi: come Diogene di Sinope; [IX,47,10] come lo spartano Clearco, il quale partecipò alla spedizione militare contro Artaserse; e come molti altri dei quali, volendo, si potrebbe parlare. Come può dunque essere causa di cattiva opinione l’esilio, nel corso del quale alcuni uomini sono diventati più celebri di quanto non fossero prima? [IX,47,15] Sì, per Zeus, ma Euripide dice che gli esuli [IX,48,1] sono privati della libertà, dacché lo sono della libertà di parola. Infatti egli fa chiedere da Giocasta al figlio Polinice cos’è che un esule sopporta più di malanimo; ed egli le risponde [IX,48,5] che:
‘Una è la somma: non ha libertà di parola’
A sua volta Giocasta dice a Polinice:
‘Questo che hai detto è proprio di un servo: non dire quel che pensa’
Io però direi ad Euripide: ‘Caro Euripide, [IX,48,10] tu concepisci rettamente che è da servi non dire quel che si pensa quando ci sia bisogno di dirlo. Ma non sempre, non ovunque, non con chiunque bisogna dire ciò che pensiamo. A me sembra che tu non abbia detto bene ciò che hai detto, ossia che la libertà di parola non appartiene agli esuli, dal momento che tu intendi per libertà di parola il non tacere quel che ad uno capita di pensare. [IX,48,15] Ma non sono gli esuli che si peritano di dire ciò che pensano, bensì quanti temono che dalle parole che proferiscono provengano loro dolore o morte o punizioni o qualcos’altro del genere. Questo timore, per Zeus, non è l’esilio a produrlo. Infatti il timore di eventi reputati terribili c’è anche in molti uomini che si trovano in patria, [IX,48,20] o meglio ancora nella maggior parte di essi. Di fronte a tutti questi eventi l’uomo virile mostra coraggio quand’è in esilio non meno di quand’è in patria; e perciò, quando gli capita d’essere esule, dice coraggiosamente ciò che pensa [IX,49,1] non più di quando non sia in esilio. Questo è quel che si potrebbe dire ad Euripide. Tu poi, caro compagno, dimmi: quando Diogene era esule ad Atene o quando fu venduto dai pirati e venne a Corinto, [IX,49,5] ci fu forse allora qualche altro cittadino di Atene o di Corinto che dimostrasse maggiore libertà di parola di Diogene? E allora? Tra tutti gli uomini di quel tempo, c’era qualcun altro più libero di Diogene? Lui che comandava Xeniade, il suo compratore, come un padrone comanda un servo? Ma perché bisogna parlare di antiche vicende? [IX,49,10] Non ti pare che io sia un esule? Ebbene, sono forse io stato privato della libertà di parola? Mi è forse stata sottratta la potestà di dire quel che penso? Mi hai mai visto, tu o un altro, rannicchiarmi per timore davanti a qualcuno? O ritenere che le mie faccende vanno peggio adesso di prima? E neppure, per Zeus, [IX,49,15] potresti affermare d’avermi visto preda dell’afflizione o dello scoramento a causa dell’esilio. [IX,50,1] Infatti, se qualcuno ci ha sottratto la patria non ci ha però sottratto il potere di sopportare l’esilio.
Posso anche dirti i ragionamenti di cui mi servo con me stesso così da non adontarmi [IX,50,5] per l’esilio. A me sembra che l’esilio non defraudi affatto l’uomo -lo mostravo testé- neppure di quelli che i più legittimano come beni. E se pure esso ci defraudasse di qualcuno di essi oppure di tutti, non ci defrauda certo di quelli che sono i veri beni. Infatti, [IX,50,10] all’esule in quanto tale non è impedito di conservare per sé virilità e giustizia, né temperanza o saggezza, né qualunque altra virtù. Quando siano presenti, queste virtù sono per natura in grado di adornare l’uomo, di giovargli, di mostrarlo lodevole e degno di gloria. Quando siano assenti, invece, di recargli danno e vergogna, mostrandolo vizioso e indegno. [IX,50,15] Stando così le cose, se tu qui presente sei buono e possiedi le virtù, l’esilio non può recarti danno né farti servo nell’animo, poiché sono in te presenti le doti in grado di giovarti e farti esaltare al massimo grado. [IX,51,1] Ma se per caso sei cattivo, a danneggiarti è il vizio, non l’esilio. Perciò, piuttosto che da quelli dell’esilio sono i lacci del vizio quelli da cui devi affrettarti ad essere slegato. Queste erano le cose che io dicevo sempre a me stesso e che ora dico anche a te. [IX,51,5] Tu pertanto, se avrai senno non riterrai che terribile sia l’esilio -altri, infatti, lo sopportano agevolmente- bensì il vizio: vizio che quando c’è, chiunque l’abbia è un meschino. Infatti, delle due l’una: è necessario che tu sia in esilio o giustamente oppure ingiustamente. Se lo sei giustamente, [IX,51,10] come può mai essere retto o conveniente adontarsi per delle decisioni giuste? Se lo sei ingiustamente, questo può essere un male per coloro che ci hanno scacciato, non un male per noi: se, per Zeus, il commettere un’ingiustizia è cosa sommamente in odio alla divinità, il che è appunto ciò che è accaduto a quelli. Invece il subire un’ingiustizia [IX,51,15] -che è quanto accaduto a noi- è stato concepito sia dagli Dei che dagli uomini acquiescenti alla ragione, una cosa degna di soccorso e non di odio.
DIATRIBA X [52,1]
SE IL FILOSOFO INTENTERÀ CONTRO QUALCUNO UN PROCESSO PER OLTRAGGIO
[X,52,5] <Musonio> soleva dire che egli non avrebbe mai intentato contro qualcuno un processo per oltraggio, e che non avrebbe consigliato di fare ciò a qualcun altro di coloro che sono degni di filosofare. Nessuna delle offese che alcuni subiscono e ritengono un oltraggio è, infatti, un oltraggio o una vergogna per coloro che le subiscono: per esempio, essere ingiuriati, essere percossi, essere oggetto di sputi, tutte offese tra le quali la più infesta sono le percosse. [X,52,10] Che le percosse non abbiano in sé nulla di vergognoso o di oltraggioso, lo rendono manifesto i figli degli Spartani, figli che sono frustati in pubblico e che proprio di questo [X,53,1] vanno fieri. Ora, se il filosofo non fosse capace di spregiare le percosse e l’ingiuria, di che pro ci sarebbe: proprio lui che deve mostrarsi capace di spregiare anche la morte? “Ma, per Zeus, il pensamento di chi compie offese simili è terribile, giacché egli mira a prendere qualcuno a frustate schernendolo [X,53,5] e legittima ciò come un modo per oltraggiarlo o ingiuriarlo o fargli qualcosa di siffatto. Tant’è vero che Demostene crede che alcuni oltraggiano già soltanto con lo sguardo, che offese siffatte sono insopportabili e che gli uomini vanno fuori di sé, o per un verso o per un altro, a causa di simili offese”. Detto ciò, coloro che ignorano cosa sono in verità [X,53,10] il bello e il brutto, e che stanno a bocca aperta al cospetto della fama; ritengono anch’essi d’essere oltraggiati se uno volge loro uno sguardo più fisso del solito oppure li deride o percuote o ingiuria. Invece l’uomo di buon senso e accorto, [X,54,1] quale deve essere il filosofo, da nessuna di queste offese è sconcertato né crede che il subirle è una vergogna; ma piuttosto che una vergogna è il farle. In cosa aberra, infatti, chi subisce tali offese? Piuttosto è chi aberra a coprirsi subito di vergogna; [X,54,5] mentre chi subisce l’offesa, siccome non aberra in quanto semplicemente la subisce, neppure incorre in alcunché di vergognoso. Laonde l’uomo accorto non si spingerebbe ad intentare processi né a sporgere querele, perché neppure reputerebbe d’essere oltraggiato. È infatti da pusillanime il fremere e l’esacerbarsi per faccende siffatte. [X,54,10] Egli invece sopporterà l’accaduto con mitezza e con calma, giacché questo è ciò che si confà a chi decide d’essere magnanimo. Socrate era appunto manifestamente così disposto; lui che, ingiuriato pubblicamente da Aristofane, non solo non ne fremette ma anzi, incontrandolo, soleva chiedergli se avesse deciso di servirsi di lui [X,54,15] per qualche altro scopo del genere. Però il famoso Socrate, se non fremeva per le ingiurie [X,55,1] quando ne era oggetto in pieno teatro, probabilmente si esasperava quando veniva ingiuriato in presenza di poca gente! A sua volta il buon Focione, quando sua moglie fu coperta di fango da un tale, tanto s’astenne dall’incolpare chi l’aveva coperta di fango che quando quel tale, preso dal timore, [X,55,5] venne da lui e lo sollecitò a perdonalo affermando di ignorare che colei che aveva coperto di contumelie era sua moglie, gli disse: “Ma mia moglie nulla ha subito da te: forse l’ha subito qualcun’altra; sicché neppure è d’uopo che tu ti scusi con me”. Potrei anche parlare [X,55,10] di molti altri uomini messi alla prova di un oltraggio: gli uni coperti di contumelie da qualcuno con la lingua, altri con le mani e fisicamente maltrattati. Ebbene, si tratta di uomini i quali mostrano di non essersi difesi da chi li copriva di contumelie né di avere cercato vendetta in qualche altro modo, ma d’avere sopportato l’ingiustizia altrui con ogni mitezza. [X,55,15] Infatti, prendere in considerazione il modo per restituire il morso a chi ci morde e [X,56,1] per rendere male per male a chi l’ha fatto per primo, è davvero cosa non da uomo ma da belva; da creatura incapace di tener conto del fatto che la maggior parte delle azioni aberranti è cagionata negli uomini dall’ignoranza e dall’incultura, e che colui al quale viene insegnato [X,56,5] ad allontanarsi da queste, subito cessa di aberrare. Invece, accogliere gli errori altrui senza selvatichezza e non essere implacabile con coloro che ci coprono di contumelie bensì causa per essi di buona speranza, è proprio di una creatura mansueta e filantropa. Non è molto meglio, allora, che il filosofo si mostri degno [X,56,10] di perdonare chi lo coprisse di contumelie, invece di reputare meglio per sé il difendersi intentando un processo ed incolpando qualcuno; adottando così un comportamento in verità indecente, giacché effettua azioni inconseguenti ai suoi discorsi? Egli, infatti, da una parte dice che l’uomo virtuoso mai potrebbe subire ingiustizia da un individuo cattivo; [X,57,1] però dall’altra accusa di avere subito un’ingiustizia da uomini cattivi, proprio lui che legittima se stesso come virtuoso.
DIATRIBA XI
[57,5] QUAL È LA FONTE DI ENTRATE CHE S’ADDICE AL FILOSOFO
C’è anche un’altra fonte di entrate non peggiore di questa, e che probabilmente potrebbe anche essere ritenuta migliore, non senza ragione, per un uomo fisicamente robusto: ed è quella che viene dalla terra, sia essa di proprietà oppure no. Coltivando un terreno altrui, sia pubblico che privato, [XI,57,10] molti possono nutrire non soltanto se stessi ma anche i figli e le mogli; e taluni, grazie a questa attività, arrivano a cavarsela più che bene, essendo dei lavoratori laboriosi e dei faticatori. La terra, infatti, ricambia splendidamente e in modo giustissimo coloro che hanno sollecitudine per essa, poiché restituisce moltiplicato [XI,57,15] molte volte ciò che riceve, e procura a chi vuol faticare abbondanza di tutto il necessario [XI,58,1] per vivere, facendo ciò con loro decoro e non con loro disdoro. Non c’è uomo, a meno che non sia uno smidollato e un rammollito, il quale direbbe che una qualunque delle [XI,58,5] attività agricole è vergognosa o sconcia per una persona dabbene. Infatti, come può essere cosa non buona il piantare? O l’arare? O il lavorare nella vigna, seminare, mietere, trebbiare? Tutte queste non sono opere da uomo libero e confacenti a persone per bene? E invero la pastorizia, come non era un motivo di vergogna per Esiodo [XI,58,10] né gli impediva di essere caro agli Dei e cultore delle Muse, così non lo impedirebbe a nessun altro. A me, poi, la pastorizia è la più gradita di tutte le attività campestri, perché procura all’animo moltissimo agio per lavorare intellettualmente e ricercare su quanto attiene all’educazione. Infatti, tutte quante le opere dei campi [XI,58,15] che mettono in grande tensione e fanno piegare il corpo, costringono l’animo a concentrarsi su di esse soltanto o ad essere intento soprattutto ai bisogni del corpo. Invece tutte quante le opere che accordano al corpo la possibilità di non essere messo troppo in tensione, non escludono all’animo la possibilità di eleggersi l’esame di qualcuna delle questioni [XI,58,20] più importanti e, da riflessioni di questo genere, di diventare da se stesso più saggio: il che è quanto [XI,59,1] ha di mira ogni filosofo. È soprattutto per questo che io prediligo la pastorizia. E se poi uno vive da filosofo e insieme coltiva la terra, io non paragonerei a questa nessun’altra vita, né preferirei per me un altro modo di provvedermi delle entrate. Come potrebbe essere non secondo natura il ricavare sostentamento dalla terra, [XI,59,5] che è nostra nutrice e madre, più che da qualcos’altro? Vivere su un podere come potrebbe non essere cosa da uomini ben più del risiedere in una città, come fanno i sofisti? Come potrebbe non essere più sano un regime di vita all’aria aperta invece di una vita all’ombra?
“Cosa dici? Il procacciarsi industriosamente da sé stessi le cose necessarie è più degno di un uomo libero [XI,59,10] che non il prenderle da altri?” Il non abbisognare di un altro per soddisfare le proprie necessità appare molto più dignitoso che il bisognarne. Pertanto il vivere d’agricoltura -certo con il pensiero fisso alla assoluta rettitudine- è così bello, felicitante e caro agli Dei che la divinità proclamò sapiente Musone di Chene [XI,59,15] e designò felice Aglao di Psophis, entrambi i quali menavano vita campestre, facevano lavori manuali e si [XI,60,1] tenevano lontani dalla vita urbana. Non è dunque una degna ambizione quella di cercare di imitarli e l’aspirare a lavorare industriosamente la terra? “E allora? Non è ben strano -potrebbe dire a questo punto qualcuno- che un uomo il quale educa dei giovani [XI,60,5] ed è capace di spingerli fino alla filosofia, lavori la terra e fatichi fisicamente in modo similare ai campagnoli?” Sì: questo fatto sarebbe realmente ben strano se lavorare la terra impedisse di vivere filosoficamente o di giovare ad altri in vista del raggiungimento della vita filosofica. A me sembra, invece, che i giovani ricavino maggiore giovamento non dallo stare in città [XI,60,10] insieme al maestro e neppure dall’ascolto delle sue conversazioni, bensì dal vederlo lavorare in un podere di campagna e così mostrare nei fatti quel che il discorso filosofico ci fa capire, ossia che è d’uopo faticare e penare fisicamente [XI,60,15] piuttosto che avere bisogno di un altro che ci nutra. Cosa impedisce all’allievo, anche mentre lavora, di ascoltare il maestro mentre dice qualcosa sulla temperanza o sulla giustizia o sulla fortezza? Per coloro che faranno buona filosofia non c’è davvero bisogno di molti discorsi; [XI,60,20] e i giovani non devono affatto apprendere questa folla di dottrine filosofiche di cui vediamo andar boriosi i sofisti, [XI,61,1] giacché queste sono cognizioni in realtà capaci soltanto di far sciupare ad un uomo la propria vita. Imparare le conoscenze più necessarie e più proficue non è certo impossibile anche se si è impegnati in lavori agricoli, soprattutto se non si sarà continuamente impegnati in essi ma si faranno [XI,61,5] delle pause. Io so per certo che pochi vorranno imparare la filosofia a questo modo: e però allora è meglio che la maggior parte dei giovani che dicono di voler fare filosofia -tutta gente di cattiva lega e individui rammolliti, a causa del cui avvicinamento alla filosofia essa si riempie di brutture- neppure si avvicino al filosofo. [XI,61,10] Non vi è infatti alcun vero amante della filosofia che non vorrebbe vivere su un podere in compagnia di un uomo virtuoso, anche se il terreno fosse per caso aspro e inadatto alla coltivazione; giacché sta per fruire di grandi benefici da questo modo di impiegare il suo tempo, grazie allo stare con il maestro notte e giorno; [XI,61,15] al tenersi lontano dai mali cittadini che sono d’intralcio alla vita filosofica; all’impossibilità di fare di nascosto qualcosa di bene o di male, il che è di grandissimo pro per coloro che si vanno educando; mentre è di gran pro anche l’essere sorvegliato da un uomo virtuoso quando si mangia, si beve o si dorme. [XI,61,20] Questi eventi, che accadrebbero necessariamente nel caso di una convivenza in campagna, [XI,62,1] li loda anche Teognide nei versi in cui afferma:
‘Tu bevi e mangia insieme a loro, sta seduto in mezzo a loro,
cerca di piacere a coloro dei quali grande è il potere’
Il poeta intende proprio dire [XI,62,5] che ad avere un grande potere di giovare alle persone sono gli uomini virtuosi e nessun altro -se uno mangia e beve con loro, e sta seduto in mezzo a loro- e lo ha reso manifesto con queste parole:
‘Dai virtuosi imparerai azioni virtuose; ma se ai viziosi
[XI,62,10] ti mescolerai, perderai anche il senno che hai’
Dunque non si dica che la coltivazione della terra è un intralcio [XI,63,1] ad imparare o ad insegnare quel che è d’uopo. Non sembra che sia così, soprattutto se chi impara starà per la maggior parte del tempo con chi insegna, e chi insegna abbia a portata di mano chi impara. Essendo la faccenda di questo genere, la fonte di entrate che massimamente si confà al filosofo [XI,63,5] è quella rappresentata dall’agricoltura.
DIATRIBA XII
SUL PIACERE VENEREO
Una parte nient’affatto minore [XII,63,10] della dissolutezza sta anche nei piaceri venerei, giacché i dissoluti hanno bisogno di svariate relazioni amorose, non soltanto legittime ma anche illegittime e non soltanto con femmine ma anche con maschi. I dissoluti, infatti, vanno a caccia ora di questo e ora di quest’altro amato, non s’accontentano delle relazioni a loro disposizione [XII,63,15] ma prendono di mira quelle fuori dall’ordinario e ricercano attivamente congiungimenti carnali vergognosi: tutte cose che rappresentano per un uomo grandi capi d’accusa. È pertanto d’uopo che quanti non sono dei dissoluti o dei viziosi [XII,64,1] ritengano giusti soltanto i piaceri venerei goduti all’interno del matrimonio e che sono finalizzati alla generazione di prole, poiché questi sono anche legittimi; e che ritengano invece ingiusti e illegittimi quelli miranti al mero piacere fisico, anche se goduti all’interno del matrimonio. Degli altri congiungimenti carnali, [XII,64,5] quelli adulterini sono sommamente illegittimi; né più accettabili di questi sono quelli di maschi con maschi, poiché un simile atto temerario è contro natura. Inoltre i rapporti sessuali, pur non adulterini, con delle femmine, se sono privi di legittimità ed effettuati per sfrenata incontinenza, sono anch’essi tutti quanti vergognosi. Pertanto, l’uomo temperante [XII,64,10] resisterebbe all’idea di accostarsi sessualmente ad un’etera, ad una donna libera al di fuori del matrimonio ed anche, per Zeus, ad una sua propria ancella. L’illiceità e la sconvenienza di questi rapporti sessuali sono motivo di laidezza e di onta grave per coloro che di essi vanno in cerca. Sicché nessuno, [XII,64,15] fosse pure una persona capace di non arrossire quasi mai, è disposto ad avere rapporti del genere alla luce del sole; e coloro che trovano questa audacia, quelli almeno che non sono completamente privi di ritegno, la trovano occultandosi e praticandoli di nascosto. E tuttavia proprio il provare [XII,65,1] a tenere nascosti gli atti che uno effettua, è caratteristico di chi ammette di stare aberrando. “Sì, per Zeus -dice qualcuno- ma chi ha dei rapporti sessuali con un’etera oppure, per Zeus, con una donna nubile, non commette un’ingiustizia contro qualcuno, come invece commette l’adultero contro il marito della donna da lui sedotta: [XII,65,5] il primo, infatti, non fa perdere a nessuno la speranza di avere dei figli”. Io, piuttosto, persisto nel dire che chiunque aberra commette per ciò stesso anche un’ingiustizia, se pur contro nessuno del prossimo, contro se stesso; mostrandosi apertamente peggiore e più disonorevole. Chi aberra, infatti, è in quanto aberra [XII,65,10] che è peggiore e più disonorevole. Lasciamo pur stare, per ora, l’ingiustizia. È però assolutamente inevitabile [XII,66,1] che a chi si lascia vincere da turpi piaceri fisici e si rallegra nell’insudiciarsi come le scrofe, sia congiunta una sfrenata incontinenza. Non meno che tale è chi s’accosta sessualmente alla propria schiava: azione che alcuni ritengono invece assolutamente incolpevole, perché ogni padrone [XII,66,5] reputa di avere il potere assoluto di fare ciò che vuole del proprio schiavo. In risposta a ciò il mio ragionamento è semplice. Infatti, se qualcuno reputa né vergognoso né assurdo che un padrone s’accosti sessualmente alla propria schiava, soprattutto se ella per caso è vedova; ebbene costui faccia un po’ conto di quale [XII,66,10] gli si appaleserebbe la faccenda se una padrona s’accostasse sessualmente ad uno schiavo. Non parrebbe infatti intollerabile che gradisse il rapporto sessuale con uno schiavo non soltanto una donna legalmente maritata, ma che facesse ciò anche una donna nubile? Eppure nessuno sarà di certo del parere che gli uomini siano peggiori delle donne né meno capaci di esse di [XII,66,15] regolare come si deve le loro smanie, né che quanto a senno gli uni siano più potenti e le altre più deboli, né quelli che comandano di quelle che sono comandate. Conviene infatti che gli uomini siano molto migliori delle donne se appunto si ritengono degni di capeggiarle. Qualora invece essi si mostrino più deboli delle donne allora essi sarebbero anche….peggiori. [XII,66,20] Sul fatto poi che l’accostamento sessuale di un padrone ad una schiava sia opera della non padronanza di sé [XII,67,1] e di null’altro, c’è ancora qualcosa da dire? È cosa ovvia.
DIATRIBA XIIIa
QUAL È IL PUNTO CAPITALE DEL MATRIMONIO [67,5]
La comunanza di vita e la generazione di figli è il punto capitale del matrimonio. <Musonio> soleva infatti dire che sposo e sposa debbono arrivare a congiungersi l’un l’altro in modo tale che, mentre vivono uno per l’altro, nel contempo fanno e ritengono [XIIIa,67,10] tutte le loro cose comuni e nessuna propria, neppure il corpo stesso. [XIIIa,68,1] Gran fatto è la generazione dell’essere umano, generazione che di questo legame di coppia è il risultato. Ma tale fatto non è ancora sufficiente a caratterizzare lo sposalizio, giacché ciò potrebbe ottenersi anche senza matrimonio, tra individui che copulano al di fuori di esso, come è vero per gli animali che copulano tra di loro. [XIIIa,68,5] Bisogna invece, ad ogni costo, che vi sia nel matrimonio convivenza e tutela reciproca tra marito e moglie, sia nella salute che nella malattia e in qualunque altro momento. Pertanto, ciascuno dei due giungerà al matrimonio avendo di mira tale tutela reciproca tanto quanto ha di mira la generazione di figli. Quando, dunque, questa tutela è perfetta e [XIIIa,68,10] coloro che stanno insieme, facendo a gara nel vincersi in ciò l’un l’altro, se la prestano a vicenda perfettamente: allora questo matrimonio procede come si conviene ed è degno d’emulazione, giacché siffatta comunanza è bella. Laddove, invece, ognuno dei due tiene in considerazione soltanto ciò ch’è suo e trascura l’altro; oppure, per Zeus, anche uno solo dei due si comporta così, [XIIIa,68,15] e mentre abita nella stessa casa guarda però con la mente fuori di essa, non volendo avere gli stessi scopi e le stesse aspirazioni del coniuge: allora è necessario che qui la comunanza di vita perisca, che le faccende tra coloro che abitano la stessa casa vadano malissimo e che essi, infine, si separino uno dall’altro, oppure che la loro permanenza [XIIIa,68,20] nella stessa casa risulti essere qualcosa di peggiore dell’isolamento.
DIATRIBA XIIIb
[69,1] QUAL È IL PUNTO CAPITALE DEL MATRIMONIO
È d’uopo perciò che gli sposi non tengano gli occhi sulla genealogia dell’altro, se è [XIIIb,69,5] di buona famiglia; né sui soldi, se ne possiede molti; né sul corpo, se l’ha bello. Infatti né la ricchezza di denaro, né l’avvenenza, né la nobiltà di stirpe sono per natura tali da far accrescere la comunanza di vita, come neppure la concordia; né essi operano in modo tale da migliorare la procreazione di figli. Per il matrimonio bastano [XIIIb,69,10] invece corpi sani, di conformazione media, capaci di lavoro manuale; corpi che invero sarebbero anche meno soggetti alle insidie degli individui impudenti, che lavorerebbero di più quanto alle opere corporali, e che genererebbero figli in quantità non insufficiente. Quanto agli animi, bisogna poi ritenere che i più idonei al matrimonio sono quelli che mostrano la migliore disposizione naturale alla temperanza, alla giustizia e, in complesso, alla virtù. [XIIIb,69,15] Quale matrimonio, infatti, è bello se è senza concordia? Quale comunanza di vita è buona? Come potrebbero andare d’accordo [XIIIb,70,1] persone malvagie una con l’altra? E come potrebbe un uomo virtuoso andare d’accordo con una persona malvagia? Non più di quanto un legno storto potrebbe adattarsi ad uno diritto o due legni entrambi storti adattarsi tra di loro. E giacché un legno storto è inadattabile ad un altro similmente storto, ancor più lo è [XIIIb,70,5] al suo opposto, cioè a quello diritto. Ma anche il malvagio non è amico del malvagio né va con lui d’accordo, e dunque ancora meno va d’accordo con l’uomo probo.
DIATRIBA XIV
[70,10] SE IL MATRIMONIO SIA UN INTRALCIO ALLA VITA FILOSOFICA
Siccome qualcun altro affermava che il matrimonio e la convivenza con una donna gli sembravano d’intralcio alla vita filosofica, Musonio disse che ciò non fu d’intralcio a Pitagora, né a Socrate, né a Cratete, ciascuno dei quali coabitò con una donna: [XIV,70,15] e nessuno direbbe che altri abbiano praticato la filosofia meglio di loro. [XIV,71,1] Anche se non aveva una casa, non possedeva suppellettili, era perfettamente squattrinato, Cratete egualmente si sposò. Dopo di che, non avendo un proprio tetto sotto cui ripararsi, passava il giorno e la notte in compagnia della moglie sotto i portici pubblici di Atene. [XIV,71,5] Noi invece che usciamo da una casa, e taluni pure con dei domestici al proprio servizio, abbiamo egualmente l’ardire di affermare che il matrimonio è d’intralcio alla filosofia? Invero proprio il filosofo è maestro e guida per gli uomini di tutte le opere che per natura all’uomo convengono: e secondo natura, [XIV,71,10] se mai qualcos’altro lo è, appare essere proprio lo sposarsi. Poiché in grazia di che cosa il creatore dell’uomo dapprima divise in due tipi di individui la nostra specie; poi fece loro due diversi organi sessuali, uno femminile e uno maschile; poi infuse in ciascuno dei due un potente desiderio di relazione [XIV,71,15] e di comunanza di vita con l’altro, e frammischiò in entrambi una potente brama reciproca, nel maschio per la femmina e nella femmina per il maschio? È dunque ovvio che voleva che uno stesse e convivesse con l’altro; [XIV,72,1] che essi si procurassero l’un l‘altro le cose necessarie per vivere; che facessero dei figli e insieme li allevassero, così che il nostro genere fosse sempiterno. Perché? Dimmi, non è forse conveniente che ciascuno faccia quel che fa anche il prossimo, affinché nella sua città vi siano delle famiglie, [XIV,72,5] affinché la città non sia deserta, di modo che gli affari pubblici siano in buono stato? Giacché se dici che bisogna badare soltanto ai propri affari, tu stai dichiarando che l’uomo per nulla differisce dal lupo né da alcun’altra delle belve più selvatiche, le quali sono nate per vivere di violenza e di sopraffazione, [XIV,72,10] che nulla risparmiano di ciò che possa fruttar loro qualche piacere, che sono asociali, prive di cooperazione reciproca e d’ogni sorta di giustizia. Se invece tu ammetterai che la natura umana assomiglia di più a quella dell’ape, la quale non può vivere sola e perisce se rimane solitaria, [XIV,73,1] che concorre all’opera unica e comune dei membri della sua stessa specie cooperando e collaborando con i vicini. Se ammetti, dico, che le cose stanno così, e oltre a ciò si concepiscono come vizi dell’uomo l’ingiustizia, la selvatichezza, [XIV,73,5] il non preoccuparsi del vicino che se la passa male, e invece quali virtù la filantropia, la bontà, la giustizia, l’attitudine a beneficare e tutelare il prossimo, allora a ciascuno di noi tocca preoccuparsi della propria città e fare di essa una famiglia: e legame fondante della famiglia è il matrimonio. [XIV,73,10] Sicché colui che abolisce il matrimonio tra uomini abolisce la famiglia, abolisce lo Stato, abolisce tutto quanto il genere umano. Infatti quest’ultimo non permarrebbe se non ci fosse la generazione di figli, né vi sarebbe generazione di figli senza matrimonio: intendo la generazione giusta e legittima. [XIV,73,15] È manifesto che una famiglia o uno Stato non consistono soltanto di donne né soltanto di uomini, ma della società degli uni con le altre; e che non si potrebbe trovare altra società tra uomini e donne più necessaria e più amorevole della famiglia. Quale compagno [XIV,74,1] sta così a cuore al compagno, quanto la cara moglie sta a cuore al suo sposo? Quale fratello a un fratello? Quale figlio ai genitori? Quale assente è così bramato come il marito da una moglie e la moglie da un marito? [XIV,74,5] La comparsa di chi alleggerirebbe di più l’afflizione o accrescerebbe la gioia o porrebbe rimedio a qualche guaio? Per chi è stato stabilito dalla legge che tutto è comune -corpi, animi e sostanze- se non per marito e moglie? Sicuramente tutti gli uomini ritengono che l’amore tra moglie e marito sia la più antica di tutte le forme di comunità, [XIV,74,10] e nessuna madre o padre dotati di senno è del parere d’essere più caro al proprio figlio che a colui cui è legato in matrimonio. Quanto l’amore di una moglie verso il marito primeggi su quello dei genitori verso un figlio, appare mostrarlo anche la famosa storia di Admeto. Admeto aveva ottenuto dagli Dei questa concessione, [XIV,74,15] ossia di poter vivere il doppio del tempo per lui stabilito se avesse fatto sì che qualcuno si disponesse a morire in sua vece. [XIV,75,1] Avvenne però che i suoi genitori, benché molto vecchi, non vollero morire prima di lui; mentre Alcesti, la donna da lui sposata, benché fosse giovanissima [XIV,75,5] accettò prontamente di morire al posto del marito. Che il matrimonio sia cosa grande e degna di gran cura è manifesto anche per quest’altra via. A sua tutela, infatti, vi sono degli Dei che, secondo quanto ritengono gli uomini, sono grandi. La prima è Era, ed è per questo che noi la designiamo come ‘nuziale’. Dopo di lei c’è Eros, e dopo di lui Afrodite. [XIV,75,10] Noi concepiamo che l’opera di tutti questi Dei sia quella di condurre l’uomo e la donna l’uno verso l’altro alla generazione dei figli. Dove, infatti, Eros potrebbe essere più giustamente presente che al rapporto sessuale legittimo di marito e moglie? Dove potrebbe esserlo Era? Dove Afrodite? In quale momento si potrebbero più opportunamente innalzare preghiere [XIV,75,15] a questi dei che mentre si va a nozze? Se chiamiamo qualcosa ‘afrodisiaco’, quale opera chiameremmo più convenientemente ‘afrodisiaca’ del coito della sposa con lo sposo? Perché mai, dunque, si direbbe che Dei così grandi sopravvedono e tutelano il matrimonio e la generazione dei figli, e poi che queste cose [XIV,75,20] non s’addicono all’uomo? E perché mai, se queste cose s’addicono all’uomo, non s’addicono però al filosofo? [XIV,76,1] È d’uopo o no che il filosofo sia peggiore degli altri uomini? No, non è d’uopo; anzi egli deve essere migliore, più giusto, più per bene. L’uomo che non si prende cura dello Stato di cui è cittadino è o non è peggiore e più ingiusto [XIV,76,5] di chi se ne prende cura? E chi bada soltanto al proprio interesse è o non è peggiore e più ingiusto di chi tiene nella dovuta considerazione anche gli affari pubblici? Chi sceglie per sé una vita isolata e solitaria è o non è più patriota, filantropo e socievole di chi porta avanti una famiglia, genera dei figli e fa crescere la potenza della propria città, tutte cose tipiche di chi si sposa? [XIV,76,10] È pertanto manifesto che avere ogni sollecitudine per il matrimonio e la generazione di figli è qualcosa che s’addice al filosofo. E se questo gli s’addice, giovanotto, come potrebbe essere retto il discorso che tu testé esponevi, ossia che il matrimonio è un intralcio per il filosofo? Infatti, fare filosofia appare essere null’altro [XIV,76,15] che investigare a parole e praticare nei fatti ciò che ci è confacente e ci conviene. In quell’occasione Musonio disse più o meno queste cose.
DIATRIBA XVa
[77,1] SE BISOGNA ALLEVARE TUTTI I FIGLI GENERATI
I legislatori -la cui opera è stata proprio quella di cercare e di considerare [XVa,77,5] cos’è bene e cos’è male per lo Stato e cosa giova e cosa reca danno nei pubblici affari- ebbene anche tutti costoro non hanno forse ritenuto che la cosa più utile per gli Stati sia che le famiglie dei loro cittadini si riempiano di figli e che la cosa più dannosa sia la diminuzione del loro numero? Non hanno forse concepito come svantaggiosa l’assenza o lo scarso numero di figli dei cittadini [XVa,77,10] e, al contrario, vantaggioso l’avere figli ed anzi, per Zeus, l’averne molti? Per questo motivo, infatti, proibirono alle donne l’aborto e comminarono una pena alle disobbedienti; per questo vietarono loro l’applicazione di pratiche miranti alla sterilità e alla preclusione della gravidanza; [XVa,77,15] per questo disposero, sia per l’uomo che per la donna, un premio di prolificità e stabilirono che l’assenza di figli fosse soggetta ad una multa. [XVa,78,1] Come non compiremo noi dunque qualcosa di ingiusto e di illegale, compiendo cose contrarie alle decisioni dei legislatori, uomini divini e cari agli Dei, seguire i quali è ritenuto bello ed utile? [XVa,78,5] E noi compiamo cose loro contrarie quando impediamo la nostra propria prolificità. Se dunque effettuiamo ciò come potremmo non stare peccando anche contro gli Dei patrii e contro lo Zeus protettore del genere umano? Infatti, come chi commette ingiustizia contro degli ospiti o degli amici aberra contro lo Zeus protettore degli ospiti o degli amici, così chiunque commette ingiustizia [XVa,78,10] contro il proprio genere aberra contro gli Dei patrii e contro Zeus protettore del genere umano, lo Zeus che veglia sulle aberrazioni contro i diversi generi: e chi aberra riguardo agli Dei è un empio. Che l’allevamento di molti figli sia bello e vantaggioso ben lo comprenderebbe, invero, chi tiene conto [XVa,78,15] del fatto che in città un uomo con molti figli è onorato, incute rispetto ai vicini ed ha più autorità di tutti i suoi simili, se questi non godono della sua stessa abbondanza di figli. Come infatti, io credo, un uomo con molti amici è più potente di uno che ne è privo, così chi ha molti figli è più potente di chi non ne ha [XVa,78,20] oppure ne ha pochi; e ciò tanto più quanto più un figlio è congiunto al padre da un legame ben più stretto che non un amico. [XVa,79,1] Vale anche la pena pensare a quale sorta di spettacolo sia quello di un uomo o di una donna ricchi di prole quando sono visti attorniati dai loro figli. Non si potrebbe vedere uno spettacolo così bello assistendo alla sfilata di una processione in onore degli Dei, né l’armonioso movimento di un coro [XVa,79,5] che danza in luoghi sacri sarebbe così degno d’essere ammirato quanto lo è un corteo di molti figli che avanzano in città precedendo il proprio padre o la propria madre, o conducono per mano i genitori o li circondano in qualche altro modo di affettuose attenzioni. Cosa c’è di più bello di questo spettacolo? Che cos’è più degno d’emulazione di questi genitori, per di più qualora essi siano [XVa,79,10] persone acquiescenti alla ragione? Per chi altri si potrebbe auspicare con tanto slancio l’ottenimento di beni da parte degli Dei, o chi altri si aiuterebbe per qualunque suo bisogno? [XVa,79a] Sì per Zeus -si dice- ma se io sono povero e ho scarsezza di denaro, e però ho molti figli: donde posso trarre i mezzi per allevarli tutti? Le rondini, gli usignoli, le allodole, i merli e tutti questi piccoli uccelli che hanno a disposizione molte meno risorse di te, donde traggono i mezzi per allevare i loro pulcini? A proposito di essi anche Omero dice così:
‘Come una madre porge l’imbeccata ai suoi implumi pulcini
dopo che l’ha procurata, e ciò pena è per lei’
Questi animali superano o non superano per intelligenza l’uomo? Certo diresti di no. E allora? In potenza e in vigore? Di gran lunga ancor meno in ciò. E allora? Mettono essi da parte e custodiscono il cibo?
DIATRIBA XVb
[80,1] SE BISOGNA ALLEVARE TUTTI I FIGLI GENERATI
Il fatto che a me sembra assolutamente spaventoso è che talune persone, senza avere il pretesto della povertà ma possedendo anzi [XVb,80,5] denaro in abbondanza ed essendo in alcuni casi addirittura ricche, hanno tuttavia l’ardire di non allevare i figli successivi al primo. E affinché i primogeniti abbiano maggiore abbondanza di mezzi, procacciano loro questa prosperità tramite un atto empio. Essi, infatti, fanno levare di mezzo i fratelli dei primogeniti, così che questi possano ereditare [XVb,80,10] la parte maggiore delle sostanze paterne, mal sapendo quanto sia meglio avere molti fratelli che avere molto denaro. Il denaro, infatti, sveglia i propositi insidiosi dei vicini mentre i fratelli, invece, chiudono la porta agli insidiosi. E mentre il denaro ha bisogno di soccorsi [XVb,80,15] i fratelli, invece, sono validissimi soccorritori. <La validità del soccorso prestato dai fratelli [XVb,81,1] non è neppure paragonabile a quella del soccorso che può esserci prestato da un buon amico e tanto meno a quello di persone sconosciute>. In fatto di sicurezza, quale bene si potrebbe paragonare alla benevolenza di un fratello? In fatto di imprese belle e nobili, quale socio meglio disposto si potrebbe avere di un fratello acquiescente alla ragione? [XVb,81,5] Nel caso di sventure, la comparsa di chi si bramerebbe più di quella di un fratello del genere? Io ritengo che la persona più degna d’emulazione sia quella che vive circondata da una moltitudine di fratelli concordi, e legittimo come sommamente caro agli Dei l’uomo che trae i propri beni da casa sua. [XVb,81,10] Perciò ritengo anche che ciascuno di noi debba provare a lasciare ai propri figli dei fratelli più che del denaro, se ha intenzione di lasciar loro maggiori risorse per imprese belle e nobili.
DIATRIBA XVI
[81,15] SE BISOGNA UBBIDIRE AI GENITORI IN OGNI CASO
Un giovinetto che aveva deciso di darsi alla pratica della filosofia e il cui padre però glielo impediva, pose a Musonio più o meno questa domanda: [XVI,82,1] “Musonio, è d’uopo ubbidire in ogni caso ai genitori, oppure in alcuni casi si deve non dare loro retta?” E Musonio: che ciascuno ubbidisca alla propria madre o al proprio padre a me pare una bella cosa, e io la lodo. [XVI,82,5] Osserviamo allora da vicino cos’è l’ubbidire; o meglio ancora investighiamo con cura, in primo luogo, cos’è il disubbidire e chi è il disubbidiente, e così vedremo poi meglio quale specie d’azione è l’ubbidire. Orsù, se un padre che non è un medico né un esperto di farmaci salutari e di quelli che fanno ammalare, [XVI,82,10] ingiungesse al figlio malato l’assunzione di qualcosa come rimedio giovevole mentre esso è invece dannoso e inutile, e se il malato non fosse all’oscuro che è così: orbene, se questi non fa ciò che gli è stato ingiunto, sta disubbidendo ed è un figlio disubbidiente? A me non sembra. E cosa succede se suo padre, malato proprio lui stavolta, chiedesse del vino o del cibo al momento inopportuno, [XVI,82,15] disponendosi così ad un aggravamento della malattia se ne assumesse; e se il figlio, ben cosciente di ciò, non gliene desse: disubbidisce egli forse al padre? Non lo si può dire. Ancor meno disubbidiente di questo si potrebbe chiamare quel figlio che, avendo un padre avido di guadagno, davanti alla sua intimazione di rubare [XVI,83,1] o di sottrarre dei fondi dati in deposito, non mette in opera l’ingiunzione. Credi tu che non esistano padri i quali ingiungono cose di questo genere ai propri figli? Io so di un padre così malvagio che, avendo un figlio nel fior degli anni, [XVI,83,5] vendette quel fiore. Se pertanto quell’adolescente, smerciato e mandato da suo padre incontro alla vergogna, dicesse di no e non vi andasse, diremmo noi che egli è disubbidiente o diremmo che si comporta da saggio? Non val neppure la pena di chiederlo. Effettivamente il disubbidire [XVI,83,10] e il disubbidiente rappresentano un’ingiuria e un’onta; ma il non effettuare ciò che non è d’uopo non costituisce un’onta bensì una ragione di lode. Sicché chi non mette in opera le ingiunzioni di un padre, di un comandante o, per Zeus, di un padrone i quali ingiungono di fare azioni viziose, ingiuste, vergognose: ebbene costui, come non commette un’ingiustizia così non si macchia di alcuna aberrazione. [XVI,83,15] Il solo a disubbidire è invece colui che non si preoccupa e non dà retta alle ingiunzioni buone, virtuose, utili. Dunque il disubbidiente è questo tipo di persona. Invece ubbidiente è la persona che si comporta in modo opposto a questo e ne rappresenta il contrario. Sarebbe cioè colui che presta ascolto a chi ci esorta a fare quel che conviene [XVI,83,20] e che lo esegue di buon grado. Questa è la persona ubbidiente. Onde allora si ubbidisce ai propri genitori, [XVI,84,1] quando si effettuano di buon grado le azione probe alle quali essi ci esortano. Anzi, qualora uno effettui le azioni che deve e che gli sono utili pur senza che i genitori a ciò lo esortino, ebbene io affermo che costui sta ubbidendo ai genitori. Per capire che sto parlando rettamente, considera la faccenda in questo modo. [XVI,84,5] Chi effettua le azioni volute dal padre e segue la volontà del padre ubbidisce, io credo, al padre; e segue la volontà del padre anche chi effettua ciò che si deve e che è meglio. In che modo ciò è vero? Ciò è vero perché tutti i genitori vogliono il bene dei loro figli e, volendo il loro bene, [XVI,84,10] vogliono che essi effettuino quel che si deve e che è utile. Pertanto, chiunque fa le azioni convenienti e utili fa ciò che vogliono i genitori. Sicché chi opera così ubbidisce ai genitori anche nel caso in cui i genitori non gli ordinino a parole di farlo. Dunque a chi vuole ubbidire [XVI,84,15] ai genitori in ciascuna delle sue azioni conviene considerare soltanto questo e null’altro, ossia se quel che ha intenzione di fare è un’opera bella e utile; giacché se essa è tale, con ciò stesso chi la fa sta ubbidendo ai genitori. Dunque, giovanotto, non avere il timore [XVI,84,20] di stare disubbidendo a tuo padre se, nel caso egli ti ordini di compiere un’azione sconveniente, [XVI,85,1] tu ti astieni dal compierla; oppure, se egli ti vieta di compiere un’azione conveniente, tu invece la compi. E non macchiarti di qualche aberrazione prendendo a pretesto il fatto che tuo padre ti ordina di fare qualcosa di non bello oppure ti vieta di fare qualcosa di bello e nobile. [XVI,85,5] Non c’è alcuna necessità che tu esegua ordini non buoni; e reputo che questo nemmeno tu lo ignori. Pertanto non darai retta a tuo padre in fatto di musica se lui, senza essere esperto di musica, ti ingiungerà di pizzicare le corde della lira in modo dissonante; oppure se, senza conoscere le lettere, intimerà a te [XVI,85,10] che invece le conosci, di scrivere e di leggere non al modo che hai imparato ma altrimenti; e neppure gli presterai attenzione se lui, senza saper pilotare una nave, intimerà a te, che invece sai pilotarla, di muovere il timone come non conviene fare. E dunque? La faccenda sta in questi termini: se tuo padre, che ignora cosa sia la filosofia, impedisse di praticarla a te [XVI,85,15] che invece sai e hai sentito parlare di cosa essa sia, bisognerà prestargli attenzione oppure bisognerà piuttosto fargli cambiare opinione spiegandogli perché così facendo non ti consiglia bene? A me sembra questo. Può darsi che si possa, utilizzando anche il solo ragionamento, persuadere il proprio padre a farsi della filosofia il concetto che si conviene, [XVI,85,20] certo a patto che egli non sia per natura assolutamente duro di comprendonio. Qualora però egli non fosse persuaso dal discorso e non riuscisse a seguire il ragionamento, se il figlio pratica davvero la filosofia allora saranno le opere del figlio [XVI,86,1] a trarre quel padre completamente dalla parte della filosofia. Il figlio che pratica la filosofia, infatti, sarà premurosissimo nel prestare al proprio padre ogni sorta di cure; sarà compostissimo e mitissimo; in compagnia pochissimo attaccabrighe od egoista; non precipitoso né turbolento [XVI,86,5] né iracondo. Un tale figlio sarebbe inoltre padrone di sé e della propria lingua, del proprio ventre, dei propri organi sessuali, pieno di fortezza davanti ad eventi terribili e ai dolori fisici; capacissimo di capire con la mente ciò che è bello e nobile, senza mai spingersi nelle opere oltre ciò che tale gli appare. Onde egli concederà di buon grado al padre tutte le cose piacevoli, [XVI,86,10] accollandosi al suo posto tutte quelle faticose. Chi non auspicherebbe di avere dagli Dei un figlio siffatto? E chi, avendolo, non vorrebbe bene ad un figlio grazie al quale un padre sarebbe sommamente degno d’invidia e tenuto per beato da tutte le persone benpensanti? Pertanto, giovanotto, [XVI,86,15] se pur essendo anche tu un figlio di questo genere, quale certamente sarai se pratichi davvero la filosofia, non riuscissi a trarre tuo padre dalla parte della filosofia né a persuaderlo a consentirti di fare questo e a convenirne, fa questo ragionamento: tuo padre ti impedisce di praticare la filosofia, ma il padre comune [XVI,87,1] di tutti gli uomini e degli Dei, Zeus, te lo intima e a ciò ti esorta. L’ingiunzione di Zeus e la sua legge sono che l’uomo sia giusto, probo, benefico, temperante, disinteressato, superiore al dolore fisico, superiore al piacere fisico, mondo d’ogni invidia e d’ogni intento insidioso: [XVI,87,5] per dirlo in breve, la legge di Zeus intima che l’uomo sia virtuoso. Ed essere virtuoso è la stessa cosa che essere filosofo. Se dunque con l’ubbidire ad un padre tu ti disponi ad eseguire gli ordini di un uomo, e col darti alla pratica della filosofia ti disponi invece ad eseguire gli ordini di un padre divino, cioè di Zeus, [XVI,87,10] è manifesto che tu devi darti alla pratica della filosofia piuttosto che non dartici. Ma, per Zeus, tuo padre ti rinchiuderà in casa e ti terrà chiuso a chiave al fine di impedirti di praticare la filosofia. Forse farà questo, e tuttavia non potrà precluderti di mettere in pratica la filosofia, se tu così decidi. Noi infatti non facciamo filosofia con una mano o con un piede né con qualche altra simile parte del corpo, bensì con l’animo, [XVI,87,15] ed in particolare con una piccola parte di esso: quel po’ d’animo che chiamiamo intelletto <proairesi>. La divinità eresse quest’ara nella parte più fortificata e sicura dell’animo, così che fosse invisibile e inespugnabile, esente da qualunque necessità esteriore, libero e incondizionato. E specialmente se capita all’intelletto <proairesi> d’essere buono, [XVI,88,1] tuo padre non potrà impedirti di usarlo, né di usarlo com’è d’uopo usarlo, né di dare il tuo beneplacito ai giudizi belli e di non darlo ai giudizi brutti né, a sua volta, di scegliere per te gli uni e di avversare gli altri. [XVI,88,5] Facendo ciò, tu con ciò stesso praticheresti la filosofia e non avrai affatto bisogno di avvolgerti in un mantello, né di andare in giro senza tunica, né di lasciarti crescere i capelli, né di trasgredire le mode comuni ai più. Anche questi comportamenti si confanno ai filosofi, ma la pratica della filosofia non consiste in essi, [XVI,88,10] bensì nel giudicare rettamente e nell’usare l’intelletto <proairesi> com’è d’uopo usarlo.
DIATRIBA XVII
QUAL È IL MIGLIOR VIATICO PER LA VECCHIAIA
Un’altra volta, poiché un anziano signore gli chiese quale fosse [XVII,88,15] il miglior viatico per la vecchiaia, Musonio gli rispose: “Lo stesso che per la giovinezza: [XVII,89,1] vivere metodicamente in armonia con la natura”. Potresti capire cosa ciò significhi, soprattutto se poni mente al fatto che la natura dell’uomo non è fatta per il piacere fisico; e che neppure un cavallo, un cane o un bue, tutti animali di molto minor valore di un uomo, [XVII,89,5] sono stati fatti per il piacere fisico. Nessuno riterrebbe, infatti, che centri il proprio fine un cavallo che mangia, beve e monta sfrenatamente, senza peraltro effettuare alcuna delle opere che s’addicono ad un cavallo; o un cane che gode, come quel cavallo, di tutti i piaceri fisici e però non effettua alcuna delle opere per le quali [XVII,89,10] i cani sono reputati essere buoni; o un altro animale qualsiasi che pratica la completa astinenza quanto all’opera che gli si addice e però è satollo di piaceri fisici. Nessuno di questi modi di vivere potrebbe essere chiamato secondo natura; mentre tale è, invece, il modo di vivere che palesa al massimo grado la virtù dell’animale nelle opere in armonia con la sua propria natura. La natura di ciascun essere, infatti, guida [XVII,89,15] ciascuno all’eccellenza che gli è propria, sicché è verosimile pensare che anche l’uomo viva secondo natura non quando passa la sua vita nei piaceri fisici ma quando vive nella virtù. [XVII,90,1] Soltanto allora esisterebbe per lui un legittimo motivo per essere lodato giustamente, per avere un’alta opinione di sé, per essere pieno di buone speranze e di coraggio, alle quali necessariamente si accompagnano la letizia e una salda gioia. L’uomo è assolutamente l’unico essere terrestre fatto a imitazione di Dio e possiede virtù a quello similari, [XVII,90,5] giacché neppure tra gli Dei noi abbiamo la possibilità di supporre l’esistenza di qualcosa di migliore della saggezza e della giustizia o, ancora, della fortezza e della temperanza. Pertanto come Dio, grazie alla presenza di queste virtù, è invincibile dai piaceri fisici, invincibile dallo spirito di sopraffazione [XVII,90,10] superiore al desiderio smanioso, superiore all’invidia e alla gelosia, disinteressato, benefico e filantropo -infatti noi divisiamo Dio come un essere di questo genere -; allo stesso modo bisogna ritenere che l’uomo, il quale è un’imitazione di Dio, sia simile a lui qualora viva in armonia con la natura, e che sia giustamente invidiabile se permane in questo stato: [XVII,90,15] e che se è invidiabile è per ciò stesso felice, giacché noi non invidiamo giustamente altro che le persone felici. Invero non è impossibile che un uomo sia tale, giacché non c’è modo di divisare che queste virtù originino da qualcos’altro che non sia la natura umana stessa, [XVII,90,20] e giacché ci imbattiamo in certi uomini di qualità tali che per ciò io chiamavo divini [XVII,91,1] e simili a degli Dei. Dunque, se fin dalla prima gioventù una persona si fosse per avventura curata di darsi una retta educazione, cioè avesse appreso tutte quelle nozioni che incorporano insegnamenti virtuosi [XVII,91,5] ed avesse praticato a sufficienza le virtù conseguibili con l’esercizio, costui poi in vecchiaia, usando le risorse di cui dispone, potrebbe vivere in armonia con la natura, sopportando senza affliggersi la privazione dei piaceri fisici di gioventù, non provando afflizione per la presente debolezza del suo corpo, senza mostrarsi infastidito per lo spregio in cui è tenuto dai vicini [XVII,91,10] o per la trascuratezza mostrata nei suoi confronti da familiari ed amici, in quanto contro tutto ciò egli è in possesso, nel suo intelletto <proairesi>, di un ottimo antidoto: l’educazione che possiede. Se invece una persona avesse ricevuto un’educazione più carente e però mostrasse slancio per ciò che è migliore e più eccellente e fosse in grado di ubbidire [XVII,91,15] a precetti ben esposti, costui farebbe bene a cercare di ascoltare discorsi di natura esortativa da parte di coloro che hanno operato per sapere quali cose sono dannose e quali sono giovevoli agli uomini, il modo in cui si possono rifuggire le prime ed acquisire le seconde, e come accogliere con calma l’avvicinarsi di cose [XVII,91,20] che non sono mali ma che sembrano esserlo. Ascoltando questi discorsi ed ubbidendo loro (giacché ascoltare senza ubbidire non fa guadagno alcuno), egli disporrebbe bene la sua vecchiaia quanto al resto [XVII,92,1] e scaccerebbe da sé la paura della morte: paura che sommamente mette in agitazione ed opprime i vecchi, come se essi dimenticassero che la morte è destino di ogni mortale. Ciò che rende miserrima la vita dei vecchi è effettivamente [XVII,92,5] proprio questa paura della morte, come senza dubbio ammise anche il retore Isocrate. Raccontano infatti che Isocrate, interrogato da qualcuno sul come se la passasse, rispose che se la passava come può passarsela una persona di novant’anni la quale ritiene che l’estremo dei mali sia la morte. [XVII,92,10] E dunque quale parte poteva mai avere costui nell’educazione e nella conoscenza dei veri beni e dei veri mali, proprio lui che concepiva come male quel che è invece la necessaria conclusione della vita anche migliore? Infatti, se la vita migliore è quella dell’uomo virtuoso, anche di questa il termine è la morte. Come dunque dicevo, se uno si procacciasse in vecchiaia [XVII,92,15] questo farmaco, ossia la capacità di accogliere la morte senza paura, coraggiosamente; ebbene costui si sarebbe provvisto di una non piccola risorsa per una vita senza afflizioni e secondo natura. Questa risorsa egli la potrebbe acquisire [XVII,93,1] stando in compagnia di filosofi che siano tali non soltanto a parole ma veramente, e a patto che voglia ubbidire loro. Io affermo pertanto che il viatico più efficace per la vecchiaia, cosa che già dicevo all’inizio del discorso, è quello di vivere secondo natura effettuando le opere che è d’uopo effettuare [XVII,93,5] ed utilizzando l’intelletto <proairesi> al modo che è d’uopo utilizzarlo. In questo modo il vecchio godrebbe di un buonissimo umore e sarebbe oggetto di grandissime lodi, avendo le quali cose potrebbe vivere felicemente e con onore. Se poi uno crede che il sommo conforto per i vecchi sia la ricchezza di denaro e che essa procuri loro una vita al riparo dalle afflizioni, ebbene crede male; [XVII,93,10] giacché la ricchezza di denaro è in grado di procurare agli uomini i piaceri fisici offerti dalle cibarie, dalle bevande, dai rapporti sessuali e da altre attività simili, ma mai procurerebbe a chi la possiede il buonumore e il dominio sull’afflizione. Ce ne sono testimoni molte persone ricche di denaro, le quali si dibattono nell’afflizione e nello scoramento e si ritengono meschine e infelici. [XVII,93,15] Questa è la ragione per cui la ricchezza di denaro non potrebbe essere un buon sostegno per la vecchiaia.
DIATRIBA XVIIIa
[94,1] SUL VITTO
Musonio era solito parlare spesso del vitto e parlarne con grande empito, [XVIIIa,94,5] come di qualcosa non di poco conto o che faccia poca differenza, giacché credeva che la padronanza di sé in fatto di cibarie e di bevande fosse il principio e la base fondamentale dell’essere temperanti. In un’occasione, tralasciati altri argomenti che di volta in volta trattava, disse le cose seguenti. Com’è d’uopo preferire un vitto frugale ad uno costoso ed uno facile da procurare [XVIIIa,94,10] ad uno difficile da procurare, così pure va preferito il cibo che è congenere ed appropriato all’uomo, rispetto a quello che non lo è. Congenere ed appropriato a noi è il cibo rappresentato [XVIIIa,95,1] dai vegetali che germogliano dalla terra, tanto i cereali quanto i vegetali che, pur non essendo cereali, sono in grado di nutrire l’uomo senza recargli nocumento; ed inoltre il cibo proveniente da animali non uccisi e utili anche altrimenti. [XVIIIa,95,5] Di queste vivande le più idonee sono quelle di cui è dato servirsi immantinente senza cottura, giacché sono di prontissimo consumo: come, ad esempio, i frutti di stagione e taluni ortaggi, il latte, il cacio e il miele. Anche le vivande che hanno bisogno di cottura, siano esse cereali oppure ortaggi, non sono inidonee bensì tutte congeneri ed appropriate all’uomo. Musonio dichiarò poi che il vitto a base di carne [XVIIIa,95,10] è più da belve e più adatto agli animali selvatici. Egli soleva inoltre dire che la carne è un cibo assai pesante e che è d’intralcio al pensare e al ragionare rettamente, giacché l’esalazione che da essa emana, essendo più torbida, ottenebra l’animo. Ragion per cui coloro i quali consumano molta carne appaiono [XVIIIa,95,15] più torpidi nell’uso dell’intelletto <proairesi>. Inoltre l’uomo, siccome è il più congenere agli Dei tra tutti gli esseri terrestri, [XVIIIa,96,1] deve anche nutrirsi nel modo più simile possibile a loro. Ora, se agli Dei bastano i vapori umidi che salgono verso l’alto dalla terra e dall’acqua, si sarebbe detto che noi ci accostiamo al cibo più simile possibile a questo, [XVIIIa,96,5] che è il cibo più leggero e più puro. Così facendo anche il nostro animo risulterebbe puro e secco e, essendo tale, sarebbe sommamente nobile e sapiente, come reputa Eraclito quando afferma:
‘Fulgida luce è l’animo sommamente sapiente e nobile’
Invece, diceva Musonio, [XVIIIa,96,10] noi ci nutriamo molto peggio degli animali bruti. Questi, infatti, se pur s’avventano con veemenza sul cibo, spinti dalla smania per esso come da una sferza; tuttavia si astengono dall’elaborare in modo artificioso le loro vivande, [XVIIIa,97,1] accontentandosi di quelle che capitano e dando la caccia soltanto alla sazietà e a nient’altro. Noi, invece, divisiamo arti ed accorgimenti svariati per dare più gusto all’assunzione del cibo e per titillare maggiormente la gola. [XVIIIa,97,5] E siamo arrivati a un punto tale di ghiottoneria e d’ingordigia che, come i trattati di musica e di medicina, così alcuni hanno compilato dei trattati di cucina, i quali faranno certo aumentare il piacere del palato ma rovinano di sicuro la salute. In effetti è possibile vedere che quanti si danno agli eccessi in fatto di vivande raffinate sono molto più maldisposti di corpo, [XVIIIa,97,10] e taluni di essi sono addirittura simili a donne con le voglie. Costoro, infatti, come quelle, detestano le vivande più consuete ed hanno lo stomaco rovinato. Onde come un ferravecchio ha di continuo bisogno di tempra, [XVIIIa,97,15] così pure i loro stomaci vogliono essere continuamente temprati o dal vino puro o dall’aceto o da qualche vivanda piccante. Non era così quello spartano che, vedendo un tale cui era stato imbandito un uccelletto [XVIIIa,98,1] di quelli pingui e costosi e che per sfoggio di raffinatezza lo disdegnava affermando di non poterlo mangiare, disse: “Io invece posso mangiare anche dell’avvoltoio e dello sparviero”. Zenone di Cizio reputava di non doversi accostare ad un cibo raffinato [XVIIIa,98,5] neppure da malato, e poiché il medico che lo curava gli intimava di mangiare una colombella, se ne astenne e gli disse: “Curami come curi lo schiavo Manes”. Con ciò egli sollecitava, io credo, che nella sua cura non ci fosse alcun cibo più delicato di quello previsto per un qualunque schiavo ammalato. Se infatti questi possono essere curati [XVIIIa,98,10] senza mangiare un cibo assai dispendioso, lo potremmo anche noi, visto che un uomo virtuoso non deve in alcun caso essere più rammollito di uno schiavo. Perciò Zenone sollecitava a ragion veduta di essere molto cauti con il vitto dispendioso e di non indulgere neppure per un attimo ad un tale tenore di vita; [XVIIIa,98,15] poiché chi cede una volta potrebbe poi proseguire sempre di più su questa strada, in quanto con le bevande e le vivande i livelli di piacere possono aumentare di molto. Queste considerazioni di allora sul cibo ci parvero più nuove e originali di quelle che egli soleva fare di volta in volta.
DIATRIBA XVIIIb
[99,1] SUL VITTO
Nessuno obietterà all’affermazione che voracità e ingordigia [XVIIIb,99,5] sono cose vergognosissime. Io mi sono accorto, però, che pochissima gente prende in considerazione il modo di sfuggirle, mentre vedo che i più provano il desiderio delle vivande oggetto di tali vizi anche quando esse non ci sono, che quando esse sono disponibili non sono capaci di astenersene, e che quando se ne cibano, se ne cibano senza risparmio, sino a giungere a far danni al proprio corpo. [XVIIIb,99,10] Invero, cos’altro sarebbe la voracità se non l’assenza di padronanza di sé quanto al vitto; assenza a causa della quale gli uomini, in fatto di cibarie, preferiscono il piacevole al giovevole? A sua volta, l’ingordigia altro non è che assenza di misura nel cibarsi di companatico. Se l’assenza di misura è un male ovunque, essa però mostra fino in fondo la propria natura [XVIIIb,100,1] soprattutto in questo campo; giacché in fatto di avidità agguaglia gli ingordi non agli uomini bensì ai porci e ai cani, incapaci di agire decorosamente con le mani, con gli occhi, con la gola: [XVIIIb,100,5] fino a tal punto li manda fuori di sé la smania del piacere che essi vedono nei manicaretti. Che un simile comportamento verso il cibo sia una cosa vergognosissima, è conosciuto; giacché con esso noi ci agguagliamo agli animali stolti piuttosto che agli uomini saggi. Se dunque questo è vergognosissimo, onorevolissimo sarà invece il suo opposto: mangiare in modo ordinato e composto, sfoggiando in primo luogo qui [XVIIIb,100,10] la nostra temperanza: il che non è facile, ma richiede molta sollecitudine ed esercizio pratico. Perché questo? Perché molti sono i piaceri fisici che convincono l’uomo ad aberrare e che lo forzano a cedere loro [XVIIIb,100,15] contro il proprio utile, sicché il piacere del cibo rischia di essere il più difficile di tutti da combattere. Infatti, mentre negli altri piaceri ci intratteniamo più raramente e siamo in grado di astenerci da taluni di essi per dei mesi e per degli anni interi; questo piacere noi lo proviamo invece necessariamente ogni giorno [XVIIIb,100,20] e nella maggior parte dei casi due volte al giorno, giacché altrimenti non [XVIIIb,101,1] è dato all’uomo di rimanere in vita. Sicché quanto più spesso proviamo il piacere di un pasto, tanto più numerosi sono i pericoli insiti in esso. E invero, ad ogni somministrazione di alimenti il pericolo di aberrare non è uno solo, ma sono ben di più. [XVIIIb,101,5] Aberra chi mangia più del dovuto; aberra non meno chi è precipitoso nel mangiare; chi si insudicia più del conveniente con le pietanze; chi preferisce le vivande piacevoli al palato invece di quelle più sane e anche chi non distribuisce pari porzioni ai commensali. [XVIIIb,101,10] C’è anche un’altra aberrazione che riguarda il vitto, ed è quando lo assumiamo non al momento opportuno e così, tralasciando di compiere qualche altro atto dovuto, ci diamo al mangiare. Poiché tanto numerose, ed altre ancora, sono le aberrazioni circa il cibo, chi intende essere temperante deve purificarsi di tutte quante e non essere colpevole di alcune di esse. [XVIIIb,101,15] Si purificherebbe da esse e sarebbe al riparo da aberrazioni al riguardo, chi si esercita praticamente e si abitua a scegliere le cibarie non per trarne un godimento ma per alimentarsi, non per il piacere di solleticare la gola ma per rinvigorire il corpo. La gola è la strada di transito del cibo, [XVIIIb,101,20] non un organo fatto per il piacere, e lo stomaco ha lo stesso scopo che ha la radice per ogni vegetale. [XVIIIb,102,1] Come là la radice nutre il vegetale prendendo il nutrimento da materiali esterni, così qui lo stomaco nutre l’animale a partire dalle cibarie e dalle bevande che vi sono introdotte. E come, a sua volta, avviene che gli animali si nutrano per permanere in vita [XVIIIb,102,5] e non per provare piacere; in modo similare anche per noi il cibo è un farmaco di vita. Perciò s’addice anche a noi il mangiare per vivere e non per godere il piacere di mangiare: almeno se intendiamo conformarci all’ottimo detto di Socrate, il quale soleva affermare [XVIIIb,102,10] che la maggior parte degli uomini vive per mangiare, mentre lui mangiava per vivere. Pertanto nessun individuo acquiescente alla ragione che voglia essere un uomo solleciterà mai di essere qualcuno che assomiglia ai più; né solleciterà di vivere, come quelli, per mangiare, andando a caccia in ogni circostanza del piacere legato al cibo. Che poi Dio, il quale ha fatto l’uomo, [XVIIIb,103,1] abbia apprestato per lui cibarie e bevande perché si salvaguardasse in vita e non perché provasse piacere nel nutrirsene, lo si può apprendere soprattutto dalle considerazioni seguenti. Il cibo compie la propria opera soprattutto allorché non dà all’uomo alcun piacere, ossia al momento della sua digestione [XVIIIb,103,5] e della sua assimilazione. Eppure, il momento in cui non proviamo alcun piacere è proprio il momento in cui noi siamo nutriti e rinvigoriti dal cibo, e questo tempo è assai più lungo del tempo che impieghiamo nel mangiare. Ora, se Dio avesse escogitato per noi il cibo in vista del piacere, noi dovremmo [XVIIIb,103,10] poter godere di questo piacere ad opera del cibo per questo tempo più lungo e non per il tempo brevissimo in cui lo ingoiamo. Eppure egualmente, per vaghezza di quel tempo brevissimo in cui ne godiamo, avviene la preparazione di miriadi di pietanze [XVIIIb,104,1] e si naviga il mare fino ai suoi termini; i cuochi sono ricercati con più ardore degli agricoltori; alcuni danno dei pranzi per i quali spendono il prezzo di un terreno, e fanno tutto ciò senza che il corpo tragga in alcun modo giovamento dalla dispendiosità delle vivande. [XVIIIb,104,5] Tutt’al contrario, coloro che si nutrono di cibi più a buon mercato sono fisicamente più forti. Infatti puoi ben vedere che i domestici rispetto ai padroni, i campagnoli rispetto ai cittadini, i poveri rispetto ai ricchi, hanno per la maggior parte più vigoria, sono più capaci di sopportare la fatica, si stancano di meno nel lavoro, [XVIIIb,104,10] si ammalano più raramente, sopportano più facilmente il gelo, il calore, le veglie e tutte le cose di questo genere. E anche ammettendo che il cibo dispendioso e quello a buon mercato rinvigoriscano alla pari il corpo, egualmente il cibo da scegliersi è quello a buon mercato, perché questo è più da persone temperanti [XVIIIb,104,15] e s’addice meglio all’uomo virtuoso; come pure s’addice di più alle persone acquiescenti alla ragione il cibo facile da procurare di quello difficile da procurare, [XVIIIb,105,1] quello che non costa sforzi di quello che ne richiede, quello a pronto consumo di quello a non pronto consumo. Riassumendo, per dirla tutta sul vitto io affermo che bisogna fare scopo di esso la nostra salute e vigoria fisica, [XVIIIb,105,5] e dunque che si deve mangiare unicamente in vista di questi due fini, il cui raggiungimento non richiede alcuna spesa dispendiosa. Mangiando, bisogna poi avere ogni sollecitudine per la compostezza e la misura che si convengono, e bisogna distinguersi soprattutto nel non insudiciarsi e nel non avere fretta.
DIATRIBA XIX
[105,10] SUL RIPARO
Questo disse Musonio sul vitto. Egli sollecitava anche di cercare per il corpo una copertura sobria, non una dispendiosa ed eccessiva. [XIX,106,1] Diceva perciò, ad esempio, che bisogna utilizzare il vestito e i calzari allo stesso modo in cui si usa un’armatura, ossia per la protezione del corpo e non per sfoggio. Come le armi migliori sono quelle più robuste e soprattutto in grado di salvare [XIX,106,5] la vita a chi le usa, non quelle vistose e lucenti; così la sopravveste femminile e i calzari più eccellenti sono quelli più proficui per il corpo, non quelli capaci di attirare gli sguardi dei dissennati. Bisogna infatti che la copertura faccia apparire ciò ch’è coperto migliore e lo faccia più robusto, [XIX,106,10] non più debole e peggiore. Dunque coloro che escogitano modi per far apparire le loro carni, ad opera dei vestiti che le ricoprono, lisce e morbide, in realtà le peggiorano; se è vero, com’è vero, che il corpo snervato e rammollito è molto peggiore di quello indurito e rotto alle fatiche. Quanti, invece, rinvigoriscono e rinforzano il corpo grazie al vestiario [XIX,106,15] sono i soli a giovare alle sue parti coperte. Per questo motivo non è affatto buona cosa abbigliare il corpo con troppi vestiti, o avvolgerlo in strette bende, [XIX,107,1] o rendere femminei mani e piedi, a meno che non siano ammalati, chiudendoli entro guanti o calzari di feltro o di stoffa. Né è bene che mani e piedi non provino mai il freddo e il caldo, anzi è d’uopo che essi siano moderatamente intirizziti dal freddo d’inverno ed esposti al sole d’estate, restando coperti il minimo possibile. [XIX,107,5] Invece d’aver bisogno di due tuniche, è preferibile indossarne sulla pelle una sola, o addirittura nessuna invece di una, ed indossare soltanto un manto. Lo stare scalzi, per chi può, è meglio che calzarsi; giacché il calzarsi [XIX,107,10] rischia d’essere quasi un legarsi i piedi; mentre l’andare scalzi concede ai piedi, quando a ciò siano esercitati, molta scioltezza e facilità di movimento. Ragion per cui è possibile vedere i corrieri muoversi per le strade senza scarpe; e, tra gli atleti, constatare che i corridori non potrebbero mantenere la rapidità dei loro movimenti [XIX,107,15] se dovessero correre calzati.
Poiché noi facciamo anche le case a scopo di riparo, io affermo che esse pure vanno costruite per fronteggiare le necessità imposte dal bisogno, ossia per tenere lontano gli eccessi di freddo e di caldo e per essere una difesa dal sole e dai venti per chi ne ha bisogno. [XIX,108,1] In generale è d’uopo che la casa ci procuri il servizio che ci procurerebbe una caverna naturale capace di offrire un rifugio sufficiente e che sia dotata, in più di questa, di una zona di deposito idonea a custodire cibi per il consumo umano. [XIX,108,5] A che servono, allora, i cortili con peristilio? A che servono gli intonaci variopinti? E le stanze con i soffitti dorati? E la profusione di marmi: alcuni disposti a mosaico sui pavimenti, altri applicati a rivestire le pareti, alcuni addirittura trasportati da molto lontano e con grandissima spesa? [XIX,108,10] Queste cose non sono tutte superflue e non necessarie, non sono forse accessori senza i quali è possibile tanto vivere quanto stare in buona salute, e che invece creano moltissimi fastidi e costano molto denaro, col quale si potrebbero invece beneficare molti uomini tanto in pubblico che in privato? Quanto è più glorioso beneficare molte [XIX,109,1] persone invece che abitare una casa sontuosa? Quanto è più nobile e virtuoso spendere per gli uomini invece che spendere per dei legni e dei marmi? Quanto è più giovevole possedere molti amici, [XIX,109,5] il che sopravviene a chi benefica con slancio, invece che essere circondato da una grande casa? Che guadagno una persona potrebbe ricavare dalla grandezza e bellezza di una casa, tanto grande quanto quello che ricaverebbe dall’esser caro alla città e ai cittadini spendendo del suo?
DIATRIBA XX
[109,10] SULLE SUPPELLETTILI DELLA CASA
Delle suppellettili domestiche quali letti, tavoli, coperte, bicchieri e cose di questo genere, appaiono invero consonanti e congeneri alla sontuosità [XX,110,1] in fatto di case le suppellettili che oltrepassano di gran lunga il bisogno e si spingono ben oltre le necessità: i letti d’avorio, d’argento e, per Zeus, d’oro; i tavoli di un materiale similare; le coltri tinte di porpora e [XX,110,5] di altri colori difficili a procurarsi; i bicchieri d’oro e d’argento; mentre altre suppellettili fatte di pietra o di un materiale simile gareggiano per sontuosità con quelle d’argento e d’oro. Tutti questi arredi sono industriosamente ricercati, quando invece un semplice lettuccio ci procura un giaciglio [XX,110,10] non certo peggiore di un letto d’argento o d’avorio; quando una pelle di capra è più che sufficiente come coltre, sicché non c’è bisogno di quelle di porpora o purpuree; quando possiamo senza alcun danno mangiare su un tavolo di legno, e così non bramare in alcun modo quello d’argento; quando è possibile bere, per Zeus, da bicchieri d’argilla, [XX,111,1] che sono per natura capaci di spegnere la sete in modo del tutto similare a quelli d’oro, ed inoltre il vino che vi si versa non si guasta ma emana un profumo più gradevole di quello versato nei bicchieri d’oro e d’argento. In generale, le virtù e i vizi delle suppellettili [XX,111,5] potrebbero essere determinate rettamente da questi tre elementi: l’acquisto, l’uso e la conservazione. Le suppellettili che sono difficili da acquistare o non idonee ad essere utilizzate o non facili da custodire, sono peggiori. Quelle invece che acquistiamo senza difficoltà, che lodiamo nell’usarle e che custodiamo facilmente, sono migliori. [XX,111,10] Perciò le suppellettili d’argilla, di ferro e quant’altre di questo genere, sono molto migliori di quelle d’argento e d’oro, perché il loro acquisto è tanto più agevole quanto minore è il loro prezzo; perché il loro utilizzo è maggiore, giacché possiamo metterle sul fuoco facilmente e le altre invece no; e perché la loro custodia è meno impegnativa, [XX,111,15] in quanto le suppellettili di poco prezzo sono oggetto di minori insidie a paragone di quelle dispendiose. Fa parte della custodia delle suppellettili anche la loro pulitura, che richiede molto più impegno nel caso di quelle costose. Come un cavallo comprato a poco prezzo e che procura molta utilità [XX,112,1] è da preferirsi ad un altro che rende pochi servigi ed è stato acquistato a caro prezzo, così pure le suppellettili più a buon mercato e buone per molti usi sono migliori delle opposte. Perché mai, dunque, si insegue il possesso delle suppellettili rare e dispendiose [XX,112,5] invece di quelle a portata di mano e meno care? Perché i dissennati ignorano quali siano le cose belle e buone, e si industriano per quelle che sembrano tali invece che per quelle che davvero lo sono: proprio al modo in cui i pazzi prendono spesso per bianco il nero, ché la dissennatezza è la cosa più congenere di tutte alla pazzia. [XX,112,10] In effetti, tra i migliori legislatori, noi troveremmo che in primo luogo Licurgo scaccia per legge da Sparta lo sfarzo e vi introduce al suo posto la frugalità; al fine della fortezza, preferisce il tenore di vita da bisognoso a quello da sprecone; allontana il lusso come una rovinosa degenerazione e sollecita di perseguire con zelo [XX,112,15] la volontà di faticare come salvifica. Prova di queste leggi sono gli esercizi di fortezza degli efebi di Sparta, i quali si abituano a sopportare la fame e la sete, e insieme ad esse i rigori del gelo, e inoltre [XX,113,1] le percosse e altre fatiche [….] allevati in così augusti costumi, gli antichi Spartani erano, ed erano reputati, i più valorosi tra i Greci, e resero la loro povertà più degna d’emulazione della ricchezza del gran Re di Persia. [XX,113,5] Io stesso, dunque, accetterei volentieri d’ammalarmi piuttosto che di vivere nel lusso, giacché la malattia danneggia soltanto il corpo mentre la vita lussuosa rovina entrambi, animo e corpo: infondendo nel corpo debolezza ed impotenza, e nell’animo impudenza e mancanza di virilità. Il lusso, invero, [XX,113,10] è anche generatore di ingiustizia poiché genera avidità di guadagno. È infatti impossibile che chi vive nel lusso non sia uno che fa vita dispendiosa, ed è impossibile che chi fa vita dispendiosa voglia spendere poco. Se dunque uno vuole spendere molto, è impossibile che non voglia mettere mano a provvedersi di molti mezzi e, a sua volta, che chi mette mano a provvedersi di molti mezzi non sia preda dell’avidità di guadagno e non commetta delle ingiustizie: [XX,113,15] giacché da azioni giuste uno non provvederebbe per sé molti mezzi. Inoltre, chi vive nel lusso sarebbe inevitabilmente un uomo ingiusto anche per un altro verso. Infatti egli si periterebbe di sopportare le fatiche che si convengono in favore della propria città, altrimenti non potrebbe più vivere nel lusso; e quando dovesse penare in favore di amici o di parenti [XX,114,1] egli certo non reggerebbe gli eventi, perché il lusso non glielo permetterà. Invero, chi vuole essere giusto verso gli Dei a volte deve anche tribolare per causa loro, perché gli toccherà compiere dei sacrifici o partecipare a celebrazioni religiose [XX,114,5] o fare qualche altro servizio in onore degli Dei; mentre chi vive nel lusso sarà manchevole anche in queste occasioni. Perciò costui sarebbe assolutamente ingiusto verso la città, verso gli amici e verso gli Dei, dal momento che non effettua ciò che è d’uopo effettuare. Dunque il lusso va rifuggito in ogni modo poiché è causa anche d’ingiustizia.
DIATRIBA XXI
[114,10] SUL TAGLIO DEI CAPELLI
L’uomo deve tagliarsi i capelli, soleva dire Musonio, così come noi potiamo la vite, ossia al solo scopo di eliminarne la parte non proficua [….] né lo è la barba alla guancia, giacché anche questa è una sorta di protezione di cui la natura ci provvede. [XXI,114,15] Inoltre la barba è un simbolo del maschio, come lo è la cresta per il gallo e la criniera per il leone. Onde della chioma bisogna eliminare [XXI,115,1] le parti che ci danno fastidio; ma della barba, invece, nulla, giacché essa non ci dà alcun fastidio, almeno fin tanto che il corpo sia in buona salute o non patisca di una malattia tale per cui sia necessaria la rasatura dei peli delle guance. È dunque ben detto, affermava Musonio, [XXI,115,5] quanto diceva Zenone: cioè che ci si deve tagliare i capelli per la stessa ragione per cui bisogna lasciarli crescere, ossia per vivere secondo natura, affinché uno non sia rallentato né infastidito dalla chioma in nessuna attività. Infatti la natura appare essere attenta, sia nei vegetali che negli animali, più al mancante e meno al superfluo, in quanto l’eliminazione del superfluo [XXI,115,10] è molto più facile e più agevole dell’aggiunta del mancante. In entrambi i casi occorre che la razionalità umana venga in aiuto alla natura, così da riempire le lacune per quanto è capace di colmarle, e da ottenere una diminuzione ed eliminazione delle parti superflue. [XXI,115,15] Ragion per cui bisogna radersi unicamente per eliminarne gli eccessi e non per farsi belli, come invece taluni credono si debba fare. Costoro si fanno le guance lisce [XXI,116,1] ed imitano gli imberbi oppure, per Zeus, quelli che appena appena hanno un po’ di barba; o si tagliano i capelli non in modo uniforme ma acconciando in un modo il davanti del capo e in uno diverso il dietro. Questa acconciatura, che è ritenuta un ornamento, è invece francamente indecente e non differisce [XXI,116,5] per nulla dall’acconciatura delle donne. Le donne, infatti, intrecciano parte dei capelli, parte li lasciano scendere sciolti, parte li acconciano in qualche altro modo al fine di apparire più belle. Gli uomini che si tagliano così i capelli, è chiarissimo che lo fanno per la smania di apparire belli a coloro ai quali vogliono riuscire graditi, [XXI,116,10] ora eliminando del tutto alcuni capelli, altri pettinandoli in modo da riuscire il più possibile attraenti alle donne e ai ragazzi dai quali sentono il bisogno di essere lodati. Alcuni, poi, già si tagliano i capelli e si fanno lisce le guance per il semplice fatto di sentirsene appesantiti; [XXI,116,15] ma sono chiaramente svigoriti dalla mollezza e del tutto snervati gli androgini e i femminielli che tollerano di lasciarsi vedere come tali, cosa che invece andrebbe rifuggita ad ogni costo se essi fossero realmente uomini. Com’è possibile, in verità, che i capelli siano un peso per gli uomini? A meno che, per Zeus, qualcuno non affermi che [XXI,116,20] anche le penne sono un peso per gli uccelli.
FRAMMENTI MINORI
[119,1] FRAMMENTO XXII
Non può vivere bene il giorno presente chi non se lo propone come l’estremo.
FRAMMENTO XXIII
Perché esecriamo i tiranni, quando noi siamo [119,5] di gran lunga peggiori di loro? Infatti abbiamo impulsi identici ai loro, in condizioni di fortuna però non identiche.
FRAMMENTO XXIV
Qualora ci fosse da fare una graduatoria delle cose gradevoli in base al piacere che ci danno, nulla sarebbe più piacevole della temperanza. [120,1] E qualora ci fosse da fare una graduatoria delle cose da fuggire in base al dolore che ci danno, nulla sarebbe più doloroso della non padronanza di sé.
FRAMMENTO XXV
Musonio soleva dire che il colmo della sfacciataggine è quello di ricordarsi della debolezza del nostro corpo quando si tratta di sopportare dei dolori, [120,5] e invece di scordarsene quando ci si dà ai piaceri.
FRAMMENTO XXVI
Principio del non peritarsi ad effettuare azioni indecenti è il non peritarsi [120,10] a dire cose indecenti.
FRAMMENTO XXVII
Se sceglierai di attenerti il più possibile all’utile, non essere malcontento delle circostanze difficili e pondera bene [121,1] quante cose nel corso della tua vita sono accadute non come tu volevi ma com’era utile che accadessero.
FRAMMENTO XXVIII
Ghermisci l’opportunità di morire bene quando ne hai la potestà, [121,5] affinché poco tempo dopo non ti si presenti la necessità di morire, ma tu non abbia più la potestà di morire bene.
FRAMMENTO XXIX
Un uomo che vive com’è doveroso per l’utile di molti, non può morire [121,10] altro che morendo per l’utile di un numero ancora maggiore di persone.
FRAMMENTO XXX
Sarai degno di rispetto da parte di tutti, se comincerai tu per primo a rispettare te stesso.
FRAMMENTO XXXI
[122,1] Non vivono a lungo coloro i quali, a difesa di quel che effettuano, non sono abituati a dire ai sottoposti ‘è mio dovere’ bensì ‘è in mio potere’.
FRAMMENTO XXXII
[122,5] Non voler ordinare cosa si deve fare a coloro che ti perdonano quando tu fai quel che non si deve.
FRAMMENTO XXXIII
Bisogna provare a farsi considerare dai propri sottoposti uno che sbalordisce piuttosto che uno che incute paura: [122,10] alla sbalordimento, infatti, è connessa la solennità; alla paura, invece, la spietatezza.
FRAMMENTO XXXIV
Noi condanneremo come estrema povertà i tesori di Creso e di Cinira e [123,1] crederemo invece che ricco è soltanto chi è capace di portare con sé la libertà dal bisogno dovunque vada.
FRAMMENTO XXXV
[123,5] Poiché la morte è stata destinata similmente a tutti, sorte beata non è morire tardivamente ma morire nobilmente.
FRAMMENTO XXXVI
Invero, tra i bei precetti di Musonio che ricordiamo, ce n’è uno, o Silla, nel quale si afferma che quanti intendono salvaguardarsi uomini devono vivere sempre curandosi. [124,1] Non si tratta, credo, di curarsi come facciamo con l’elleboro, il quale per curare deve essere espulso dal corpo insieme con la pazzia, ma di far sì che la ragione si radichi ben bene nell’animo per tenere insieme e far la guardia alle nostre determinazioni. Il potere della ragione, infatti, [124,5] non assomiglia a quello dei farmaci, bensì a quello dei cibi sani, in quanto infonde, insieme alla salute, una postura buona e utile nell’animo di coloro nei quali il suo uso diventa abituale. Invece le esortazioni e le ammonizioni rivolte a chi è al culmine della passione e ne è gonfio, ottengono a stento scarsi risultati, in quanto non sono differenti da quei preparati odorosi che rianimano gli epilettici caduti in convulsioni [124,10] senza però liberarli da tali stati morbosi.
FRAMMENTO XXXVII
A Roma, il famoso Rutilio, avvicinatosi a Musonio disse: “Musonio, lo Zeus Salvatore che tu imiti ed emuli non prende denaro in prestito”. Al che Musonio rispose sorridendo: “Ma neppure lo presta a interesse”. Insomma Rutilio, proprio lui che prestava denaro a interesse, [124,15] cercava così di rinfacciare a Musonio di prenderne in prestito.
FRAMMENTO XXXVIII
Delle cose che sono, Dio pose alcune in nostro esclusivo potere, altre non in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere [125,1] è la più bella e più degna d’industria, quella appunto per cui anche lui è felice, ossia l’uso delle rappresentazioni. Giacché quando quest’uso avviene rettamente ci sono libertà, serenità, buon umore, stabilità di giudizio. Retto uso delle rappresentazioni è anche [125,5] giustizia, legge, temperanza e tutte quante le virtù. Tutto il resto Dio non fece in nostro esclusivo potere. Pertanto è d’uopo che anche noi votiamo all’unanimità con lui e, discriminando così le faccende, pretendiamo per noi ad ogni modo quanto è in nostro esclusivo potere e deleghiamo quanto non è in nostro esclusivo potere all’ordine del mondo [125,10] e che allegramente gli diamo spazio se avesse bisogno sia dei figli, sia della patria, sia del corpo, sia di qualunque altra cosa.
FRAMMENTO XXXIX
Chi di noi non ammira le parole dello spartano Licurgo? Giacché accecato ad un occhio da uno dei cittadini, ottenne in consegna il giovanotto [125,15] dal popolo perché se ne vendicasse come decideva. Ma egli da ciò si astenne ed invece, educatolo e resolo chiaramente uomo dabbene, [126,1] lo menò con sé a teatro. Agli Spartani che si stupivano “Quando lo presi,” diceva, “dalle vostre mani costui era oltraggioso e violento; ve lo restituisco acquiescente alla ragione e popolano”.
FRAMMENTO XL
[126,5]
Ma più di tutto opera della natura è l’allacciare e conciliare l’impulso alla rappresentazione del conveniente e del giovevole.
FRAMMENTO XLI
[126,10] Credere che saremo ben spregevoli per gli altri se non danneggeremo in ogni modo i principali nemici personali, è da individui estremamente ignobili e dissennati. Noi diciamo infatti che si capisce chi è ben spregevole anche dalla sua impossibilità di danneggiare; ma molto di più lo si capisce dalla sua [126,15] impossibilità di giovare.
FRAMMENTO XLII
[127,1]
Siffatta era, è e sarà la natura dell’ordine del mondo, ed è impossibile che gli avvenimenti accadano altrimenti da come ora accadono. E non soltanto gli esseri umani e le altre creature sulla terra hanno condiviso questo rivolgimento [127,5] e trasformazione, ma lo condivide anche tutto quanto è materiale e, per Zeus, gli stessi quattro elementi si girano su e giù e mutano e la terra diventa acqua, l’acqua aria e questa di nuovo muta in etere. E medesimo è il modo della trasformazione dall’alto verso il basso. [127,10] Se uno metterà mano a far propendere la mente a queste verità ed a persuadersi ad accogliere di buon grado il necessario, vivrà una vita equilibratissima ed armoniosissima.
FRAMMENTO XLIII
Trasea era solito dire: “Voglio essere levato di mezzo oggi piuttosto che esiliato domani”. Che cosa, dunque, gli disse Rufo? [127,15] “Se tu selezioni questo per te come scelta più pesante, quale stupidaggine di selezione è mai questa? Se come la più leggera, chi te ne ha dato l’ordine? Non disponi di studiare ad accontentarti di quanto ti è stato dato?”
FRAMMENTO XLIV
[128,1] Perché siamo ancora inerti, pigri, languorosi e cerchiamo pretesti per non faticare e vegliare elaborando la nostra ragione? -Se dunque errerò in questo, avrei forse ucciso mio padre?- Schiavo! giacché dov’era qua [128,5] il padre perché lo uccidessi? Dunque, che facesti? Hai aberrato della sola aberrazione che c’era in quest’ambito. Dacché proprio questo dissi anch’io a Rufo che mi rimproverava perché non trovavo la sola omissione in un certo sillogismo. “Non è,” dico, [128,10] “quale avessi incenerito il Campidoglio”. E lui: “Schiavo!” diceva, “qua l’omissione è un Campidoglio”. O queste sole sono aberrazioni: dare alle fiamme il Campidoglio ed uccidere il padre? L’usare le proprie rappresentazioni a casaccio, da matti, come capita e non comprendere un ragionamento né una dimostrazione [128,15] né un sofisma né insomma scorgere il secondo me e non secondo me in domanda e risposta: nulla di ciò è aberrazione?
FRAMMENTO XLV
Così pure Rufo, mettendomi alla prova, soleva dire: “Ti avverrà questo [129,1] e quest’altro ad opera del padrone”. E rispondendogli io: “Cose umane”; “Perché dunque” replicava “pregare ancora quello, quando tali cose tu puoi ottenerle da te stesso?” Giacché effettivamente è superfluo e da matti [129,5] prendere da un altro quanto uno ha da se stesso.
FRAMMENTO XLVI
Non è facile spronare dei giovani rammolliti, come non lo è prendere del formaggio con un amo. Invece i purosangue, anche se li tratterrai, ancor più si attengono alla ragione. Perciò anche Rufo, il più delle volte, tratteneva ed usava questo criterio per valutare i giovani purosangue ed i bastardi. [129,10] Diceva, infatti: “Come il sasso, anche se lo butterai in alto verrà portato giù a terra in virtù della propria struttura, così anche il purosangue, quanto più uno lo spinge indietro, tanto più accenna a ciò per cui è nato”.
FRAMMENTO XLVII
Sgozzato Galba, uno diceva a Rufo: [129,15] “Ora l’ordine del mondo è governato dalla Provvidenza?”; e lui “Strutturai forse mai accessoriamente,” diceva, “a partire da Galba [130,1] che l’ordine del mondo è governato dalla Provvidenza?”
FRAMMENTO XLVIII
Rufo era solito dire: “Se avete comodità di lodarmi, allora io non sto dicendo nulla”. Perciò appunto parlava in modo che ciascuno di noi, lì seduto, [130,5] credeva di essergli stato reso inviso da qualcuno: a tal punto toccava gli avvenimenti; a tal punto poneva davanti agli occhi di ciascuno i suoi mali.
FRAMMENTO XLIX
[130,10] [131,1] [131,5] [131,10] [131,15] [131,20]
Frammento di Aulo Gellio in latino, contenente i seguenti due versi tratti dall’Odissea:
‘Così parlò <Odisseo>; ed ecco tutti rimasero in silenzio
e furono presi da incantamento, per le grandi sale ombrose’
FRAMMENTO L
[132,1] [132,5]
Frammento di Aulo Gellio in latino, contenente questo frammento in greco: “Dunque è degno di denaro”.
FRAMMENTO LI
[133,1] [133,5] [133,10] [133,15]
Frammento di Aulo Gellio in latino, contenente questo frammento in greco: “Se effettuerai qualcosa di bello faticando, la fatica se ne va e il buono rimane. Ma se farai qualcosa di brutto provandone piacere, il piacevole se ne va e il brutto rimane”.
FRAMMENTO LII
Frammento di Aulo Gellio in latino
FRAMMENTO LIII
[134,1] Esortandomi ad avere coraggio, un tale mi esponeva queste parole di Musonio. “Volendo quel famoso filosofo” diceva “tirare su un tale in stato di ottundimento e di spossatezza, gli si rivolse dicendogli così: Cosa aspetti? Dove guardi? Starai così fino a quando Dio in persona ti si farà accanto e ti rivolgerà la parola? Taglia piuttosto via la parte morta [134,5] del tuo animo e riconoscerai la divinità!” Questo egli affermava che Musonio avesse detto.
[137,1] LETTERA A PANCRATIDE
(1) Poiché arguisco, sia dalle notizie di te che ci sono annunciate sia da quelle che tu stesso hai inviato ai tuoi figli, che circa la filosofia continui a pensare non le cose che pensano le persone qualsiasi ma ciò che è appropriato pensare; io tengo molto, [137,5] per il presente, a congratularmi con te a loro riguardo e, per il futuro, ad augurarmi che essi non inclinino in qualche altra direzione ma che, serbando fino alla fine il proposito che ora hanno di fare vita filosofica, essi possano cavarsela bene e nel contempo contraccambiare i benefici che hanno da te ricevuto. Parlando in generale, se sono due le cause [137,10] che guidano gli uomini a vivere disciplinatamente e con metodo: la perizia nella virtù e la padronanza di sé; come potremmo fare il nostro dovere verso noi stessi e verso gli altri restando preda dell’ignoranza e della non padronanza di noi? (2) Per parte nostra ci sembra allora assolutamente necessario richiedere la liberazione da questi mali, giacché noi siamo nati per vivere in modo ordinato [137,15] e decoroso, ed è a questo scopo che la ragione ci è stata data dalla natura come sovrintendente e duce. Orbene, l’affrancamento dall’ignoranza e dalla non padronanza di sé non è possibile se noi non ci affidiamo alla cura della ragione. Nel corso di questa cura la ragione, mentre sempre fa volgere l’elemento che in noi primeggia <proairesi> da un atteggiamento contro natura ad uno in armonia con la natura, di continuo s’adopra a stroncare e a cacciar fuori dall’animo le determinazioni depravate e quelle incistatevi dal pervertimento, introducendovi al loro posto delle determinazioni sane e conseguenti alla natura oppure rianimando quelle che vanno indebolendosi. [138,5] Quando queste determinazioni (3) siano ben rafforzate e stabilizzate come si conviene, esse poi ci guidano in tutte le situazioni della vita, sicché noi sempre siamo in grado di vedere quel che ci spetta fare e di effettuare azioni in armonia con determinazioni giudicate idonee. Poiché la cura dell’animo questi risultati non soltanto li preannuncia ma li procura davvero, [138,10] chi altro si potrebbe chiamare più giusto di te nel prestare aiuto ai tuoi figli? Non preferisci che essi siano felici e, come padre, non sei forse pronto ad intraprendere qualunque cosa al fine di vederli star bene? Non è a questo fine che li hai generati ed allevati? Non auspichi di continuo per loro [138,15] dagli Dei cose del genere? Poiché pretendi virtù e decoro di vita, (4) non vorresti vedere i tuoi figli ben disciplinati in fatto di cibi e di bevande; padroni degli impulsi che vengono dal ventre; capaci di utilizzare gli organi sessuali, come nel caso della generazione di figli, soltanto quando sia il momento opportuno; [138,20] in grado di accontentarsi, per riposare, di un breve sonno; abbigliati con un vestito alla buona e non artefatto, ma pulito ed acconcio a quanto è richiesto dalla natura per fare da riparo? Non vorresti che il loro sguardo e il loro modo d’incedere siano caratterizzati da rispetto di sé e degli altri [139,1] e da fierezza tali che nessuno ardisca di fare contro di loro o di dire loro alcunché di sguaiato; e che, ogni volta che lo vogliano o ne abbiano bisogno, essi possano prontamente utilizzare l’intero corpo o un suo membro qualunque allo scopo per cui è nato? (5) Non vorresti che i tuoi figli, dopo avere ben esaminato [139,5] le faccende divine e umane, siano adorni di sacrosanta pietà verso gli Dei e di sacrosanta giustizia verso gli uomini; che essi onorino la patria più dei genitori, giacché i genitori stessi vorranno questo se fossero saggi; che essi onorino i genitori più dei familiari e dei parenti; che, mentre tra i genitori assegnano il primo posto al padre, [139,10] essi ritengano empio chiedere qualcosa o biasimare patria o genitori; che ritengano invece necessario ricambiarli con una disposizione d’animo riconoscente e memore dei trascorsi benefici, giacché soltanto così possono ripagare antiche gratuità prestate loro contro la garanzia di nuove; [139,15] che siano pronti a combattere in loro difesa e, se dovessero, a morire per causa loro; che siano pronti, quando i genitori si infuriassero, a ricevere con mitezza non soltanto parolacce ma anche percosse e ferite quando siano portate dall’ira e non da una disposizione abituale, pur mettendosi in guardia non tanto a propria difesa quanto affinché i genitori non abbiano a patire qualche male [139,20] dall’essere così irosamente disposti? (6) Cosa non sopporteresti pur di essere convinto, a loro riguardo, che essi abiteranno nel corso della loro vita nella stessa casa, che una volta messisi insieme e messi in comune i loro beni, continueranno a vivere in piena concordia, come pure che praticheranno le stesse attività e godranno gli stessi svaghi? O vorresti che accadano ai tuoi figli queste cose, [140,1] e però non vorresti che essi siano superiori alla morte, al dolore, alla fama? Chi è schiavo fino in fondo di queste entità, dovunque vada è in balia, come fosse un prigioniero di guerra privo d’onore, di chi sa prevalere attraverso di esse. Non auspicheresti dunque che i tuoi figli abbiano un comportamento che per natura è molto più facile di quelli precedenti, [140,5] ma che nei nostri tempi è diventato più malagevole a causa del pervertimento che domina su questioni tanto grandi; dico, che essi non misurino ogni cosa sulla base del denaro; che essi mettano al primo posto se stessi e i genitori e i figli piuttosto che il denaro; che essi pretendano come patrimonio [140,10] soltanto quanto è necessario per i loro bisogni e per quelli dei loro familiari, che essi tengano a vile la tesaurizzazione del denaro in quanto tale e il possederne più di quanto basta, tutte cose dalle quali gli uomini, sia in privato che in pubblico, sono sviati verso mali continui e immedicabili? (7) Una volta fatti questi auspici, [140,15] non è altrettanto auspicabile che i tuoi figli siano capaci di comandare e di prendere decisioni secondo leggi e giustizia; che essi, in armonia con se stessi e con gli altri sia in ciò che effettuano che in ciò che dicono, facciano una vita che sempre sceglierà di usare i ragionamenti; che essi abbiano una ragione ben rinsaldata da una mente capace dei pensieri più nobili e tesa ad esprimerli verbalmente quando sia il momento opportuno; [140,20] che proprio la ragione comandi, quando essi intendano prendere la difesa di cose sacre: della patria, dei genitori, degli amici, della verità e delle leggi e, per dirlo in una parola sola, di chi subisce delle ingiustizie? E io credo che né tu né qualcun altro, se ragionasse bene, valuti come politico un discorso che tenda non a questo scopo ma a scopi opposti. (8) Se pertanto questi scopi sono auspicabili e preferibili, [140,25] come si potrebbe non porre come auspicabile e preferibile anche il filosofare, [141,1] grazie al quale soltanto questi risultati si realizzano? Infatti fa filosofia chi ha gran cura della limpidezza del proprio ragionamento e pratica il retto discorso; e chi ha gran cura della propria ragione ha contemporaneamente gran cura della patria, di suo padre, dei fratelli, degli amici e, per dirlo in una parola sola, di tutti. [141,5] La natura del cosmo e degli elementi che lo costituiscono, poiché ci ha strutturato capaci di conoscenza dei principi generali in quanto ci ha dato la ragione, che è comune a tutti gli esseri ma che in noi è peculiare rispetto a quella delle altre creature, in effetti ci sollecita ad emulare gli Dei come nobilissimi, supremi comandanti e come comuni nostri benefattori e genitori, [141,10] ed a ricambiarli attraverso la nostra pronta obbedienza; mentre ci sollecita a farci paladini degli uomini in modo provvido e benefico, per via degli intrecci che avvengono con essi sia in pubblico che nella sfera più privata. (9) Orbene, quando mescoliamo insieme, con legge e giustizia, l’umano e il divino, si dice che allora noi saremo disposti eminentemente secondo natura, [141,15] in quanto divenuti perfetti ed avanzati alle realtà più alte, appunto legge e giustizia, dalle quali anche le faccende divine sono guidate e per cui sono beate, giacché gli uomini sono tali a causa della rettitudine della loro ragione e di un costume di vita ad essa improntato; e si dice parimenti che noi vivremo felicemente e finiremo la vita felicemente, [141,20] come si trattasse di un’azione drammatica ben ordinata dal principio alla fine e che noi interpretano da primattori e in perfetta conformità al testo. (10) Dunque con piena fiducia, o Pancratide, non delegare soltanto a me ma incoraggia anche tu i tuoi figli a filosofare, pungolali facendo tu stesso da competitore in questa gara, e tieni pronta quella che al riguardo è la più acconcia di tutte le facoltà, ossia la libertà di parola. [141,25] Una volta fatte scelte come queste, ti sarà possibile dire a quanti hanno con voi legami di sangue che tu hai introdotto nel parentado non soltanto dei figli, ma che genere di figli! E potrai dire alla patria che le hai fornito non soltanto uomini quali che siano, ma dei cittadini come si deve! (11) [141,30] Se poi avrete in comune coraggio e drizzerete gli animi come merita, indirizzandoli alla cura di voi stessi e gli uni degli altri, [142,1] subito discuterete filosoficamente tra di voi dell’organizzazione di una gara di divino, non soltanto approntando per essa i consueti premi, che son cose che possono uscir fuori da un semplice borsello, ma anche, ed è ciò per cui la gara merita d’essere tenuta in grande onore, restando nel solco [142,5] della sacra ed antica tradizione, il che proviene soltanto da una disposizione pia e filosofica. E grazie alle buone regole della competizione, sia a voi che a tutti noi farete svolgere una gara che non eliminerà nessuna delle cose secondo natura, bensì toglierà via dagli animi soltanto quelle che sono per noi causa di [142,10] afflizione e di turbamento. (12) In questa gara di divino è necessario che chi è impreparato sia sconfitto, e bisogna che lo sconfitto precipiti nella servitù e nell’infelicità, infelicità cui a nessuno di noi è concesso di dire di no, giacché da essa siamo tenuti prigionieri quando non ubbidiamo alle leggi sempiterne, a quelle della natura e a quelle stabilite dalle legislazioni, che ingiungono a ciascuno di noi di essere disciplinato [142,15] e di vivere secondo giustizia e insieme santità. Se accogli queste considerazioni come fossero parole da padre a padre, credo che tu stesso ti sentirai meglio e che potrai assistere i tuoi figli in vista del raggiungimento delle mete più eccellenti. Ti invio i miei ossequi per la tua benevolenza verso di noi e per tutto il resto. Sappi di avere il mio affetto. [142,20] Se farete vita filosofica avrete abbondanza anche di altri amici di questo genere.
LETTERE SPURIE
APOLLONIO AL FILOSOFO MUSONIO
Salve. Giunto dove tu sei, voglio discutere con te e condividere lo stesso tetto così da esserti di qualche aiuto, se almeno non dubiti [143,1] che una volta Eracle liberò Teseo dall’Ade. Scrivi cosa vuoi tu. Sta’ bene.
MUSONIO AL FILOSOFO APOLLONIO
Salve. Per le offerte d’aiuto alle quali hai pensato ti sarà riservata lode. Ma l’uomo che sostiene la propria autodifesa e [143,5] dimostra di non essere colpevole si libera da solo. Sta’ bene.
APOLLONIO AL FILOSOFO MUSONIO
Salve. L’ateniese Socrate, non avendo voluto essere liberato dai suoi amici, si presentò in tribunale ma poi morì. [143,10] Sta’ bene.
MUSONIO AL FILOSOFO APOLLONIO
Salve. Socrate morì poiché non aveva preparato la propria autodifesa. Io invece mi difenderò. Sta’ bene.