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Scritti originali

ATOPIA E IMMOBILITÀ DI SOCRATE

Trasformare l’acqua in vino

Quando ci parlano di qualcuno capace di trasformare l’acqua in vino, perché pensiamo ad un miracolo e crediamo a ciò che ci raccontano senza prima riflettere? Siamo a Cana, un villaggio della Galilea alle pendici del Monte Tabor, circa quattrocento anni dopo la mia morte, e siamo stati invitati ad un banchetto di nozze. All’improvviso serpeggia tra i tavoli la notizia che, per l’imprevidenza o più verosimilmente per la tirchieria del padrone di casa, è finito il vino. A questo punto una madre, che certo desidera continuare a bere, dice a suo figlio: “Pensaci tu”, e agli inservienti: “Fate quello che lui vi dirà”. Il figlio sulle prime si rifiuta, ma poi esegue l’ordine ricevuto e comanda ai servitori di riempire d’acqua i recipienti che prima contenevano il vino. Ci rendiamo conto di quali materiali fossero fatti questi recipienti? Ci rendiamo conto di quali fossero le tecniche di vinificazione del tempo e di quanto fosse difficile la conservazione del vino? Abbiamo sentore di quale dovesse essere il deposito di feccia presente in anfore di terracotta o di altri simili contenitori a collo stretto? Pertanto è non sorprendente che da quei recipienti riempiti d’acqua fuoriuscisse poi un liquido colorato che venne addirittura scambiato per un vino di migliore qualità, essendo meno acido e meno astringente. Qui il solo miracolo, si fa per dire, è la stolida credulità dei presenti.

Coloro che credono al miracolo della trasformazione dell’acqua in vino, perché non dovrebbero dunque essere pronti a prendere sul serio l’interpretazione corrente che è stata data della mia ‘atopia’, e provare rispetto per quanti hanno scritto su di essa migliaia di pagine che, fortunatamente, sono in pochi a conoscere? Cos’è quello che chiamano la mia ‘atopia’? Non bastava la storia del mio essere padre del ‘tutto quel che so è di non sapere nulla’ e quella del mio démone e delle voci e degli starnuti e delle visioni che mi hanno attribuito e delle quali ho già spiegato qui origine e significato. Bisognava pure aggiungere e unire strettamente ad esse la leggenda della mia ‘atopia’. E siccome anche questa è una leggenda che ha me per protagonista e che è nata quando io era ancora vivo e vegeto, ve la faccio raccontare da chi ne ha scritto tra i primi, ossia da quel ragazzo di nome Platone, che io chiamo amichevolmente ‘una mia sventura postuma’. Egli inventa la vicenda di un Simposio al quale io avrei partecipato nel 416 a. C. -quando lui aveva si e no tredici anni- in occasione di un banchetto in casa di un poeta di nome Agatone e del quale io sarei stato innamorato. Sentite cosa racconta il ragazzo: 

“Socrate camminava per via con la mente tutta concentrata su se stesso ed era così rimasto indietro. Aristodemo si fermò allora per aspettarlo, ma Socrate gli disse che andasse pure avanti. [….] Sopraggiunse allora un domestico, il quale annunciò che Socrate s’era ritirato nell’atrio della casa dei vicini, che era fermo lì e che, benché chiamato, non voleva venir via. [….] E Aristodemo disse: “No, no; lasciatelo stare. Questa è una sua abitudine: talvolta si apparta dove capita e rimane fermo lì. Sarà qui ben presto, io credo. Dunque non disturbatelo e lasciatelo stare”. [….] Infatti Socrate arrivò poco tempo dopo”. 
Platone ‘Simposio’ 174D-175C

Platone fa i miracoli

Devo ammettere che l’evento descritto, pur non essendo vero, è comunque verosimile. Se si è in compagnia, una persona assorta in qualche pensiero ha ben il diritto di rallentare il passo. Salvo che ciò è non imputabile alla mia fantomatica ‘atopia’ bensì a disturbi alla prostata dei quali avevo cominciato a soffrire da poco e alle ricorrenti aritmie delle quali soffrivo ormai da molto tempo. Sono cose che molti di coloro che leggono possono ben ammettere di conoscere. Ma le spiegazioni semplici a volte sono leggermente meno interessanti e risultano poco filosofiche. Molto meglio fantasticare di me che nel recarmi da Agatone mi sento improvvisamente posseduto da una strana forza (ecco qua il mio ‘démone’ o una sua sottospecie) che non ha la forma di un sentimento umano, ma quella più inquietante della possessione di un Dio. Le cose d’amore, infatti, -e nel caso specifico il mio amore per Agatone- non apparterrebbero al racconto dell’anima razionale, perché in loro presenza l’anima subirebbe una dis-locazione, ecco la mia ‘atopia’, che, spostando il regime delle sue regole, indebolirebbe nell’uomo il possesso di sé. Pulsioni e desideri, irrompendo come significanti incontrollati nell’ordine dei significati statuiti, produrrebbero nel senso quel controsenso che fa ruotare i discorsi senza immobilizzarli intorno a un dispositivo ideale che l’anima ha faticosamente raggiunto come sua con-nessione razionale, e che si trova ad essere invece scon-volto ed aperto a nessi di tutt’altro genere. L’amore, infatti, porterebbe fuori dal luogo dove solitamente si svolge la vita e creerebbe uno stato di sospensione in cui spazio e tempo perdono estensione e durata. È questo la mia ‘atopia’ oppure questo è un modo di trasformare l’acqua in vino? 
Sforziamoci insieme di riflettere brevemente, cercando innanzitutto di capire il modo in cui ragiona Platone, quale sia la sua tecnica di vinificazione. Secondo lui l’anima dell’uomo è tripartita, ed è composta da una parte ‘raziocinante’ che è situata nella testa, da una parte ‘commotiva’ che è situata nel torace e da una parte ‘concupiscente’ che è situata nella zona ombelicale. Nel ‘Fedro’ lui stesso ce ne dà un’immagine notissima, paragonandola ad una biga tirata da due cavalli alati, uno bianco e uno nero, e guidata da un auriga. Il cavallo nero rappresenta la parte concupiscente dell’anima, quella che contiene gli istinti più volgari, è divina smania di cose materiali, tende verso il basso ed è riottosa ai comandi dell’auriga. Il cavallo bianco rappresenta la parte commotiva dell’anima, quella che contiene le pulsioni più nobili, è divina smania di cose celesti, tende verso l’alto ed è più ubbidiente ai comandi dell’auriga. L’auriga rappresenta la ragione, che è quella che deve dirigere il corso del carro verso l’iperuranio, ossia la sede ultra terrestre dell’unica realtà immortale che merita di essere conosciuta: quella delle idee. La dinamica dell’anima vivente, pertanto, prevede due componenti: un componente energetico, rappresentato dai cavalli alati e che è divina potenza erotica; e un componente direttivo che è logos ossia ragione. Senza eros la ragione è impotente, e senza la ragione eros è cieco. Nel Simposio, e in particolare nel discorso di Diotima, è possibile trovare accuratamente dettagliato il percorso della biga alata dalla apparente realtà terrestre alla vera realtà dell’iperuranio e viceversa. Qui la ragione rappresenta l’entità normativa assoluta e valida per tutti gli uomini, la quale è però sotto la continua minaccia di essere violata dalla irruzione dell’eroticamente divino, con tutto il seguito delle sue stragi e devastazioni. Questo è Platone, e con lui galoppano il Cristianesimo e la prevalente tradizione filosofica dell’Occidente.

La ‘proairesiologia’ degli Stoici rende obsoleta la ‘psicologia’ di Platone

Dimentichiamo adesso Platone e tentiamo di costruire un nuovo e diverso modello che sia capace di rendere obsoleto il precedente. A questo fine sarà necessario abbandonare al loro destino numerosi capisaldi della filosofia classica facendo svanire, ad esempio, l’autonomia del concetto, la trascendenza delle idee e la distanza tra l’essenza dei fenomeni e la loro conoscenza sensibile. Posti allora dinanzi all’enigmaticità della realtà, alla pochezza e caducità di tutti gli oggetti materiali, ai violenti contrasti e alle guerre mortali che gli uomini conducono gli uni contro gli altri, alla volubilità delle loro idee e al sudiciume dei loro costumi, la filosofia ha ad un certo punto sancito la incomprensibilità del tutto, ha decretato la morte di Dio e le ideologie hanno fatto bancarotta. Il Nichilismo è un riassunto fedele di come sono andate le cose?
No. Alcuni filosofi non si sono spaventati di questa situazione ed hanno trovato la chiave per capire la realtà di questo mondo. E quando è avvenuto tutto ciò? Sorpresa! Tutto ciò non soltanto è già accaduto, ma è accaduto più di duemila anni fa, tra il 300 a.C. e il 200 d. C., appena qualche secolo dopo la mia morte. Gli artefici di questo verace ‘Rinascimento’ sono stati uomini come Zenone di Cizio, Crisippo di Soli, Epitteto. Sono stati infatti gli Stoici a chiedersi se, in tale tempesta e in tali tenebre, tutto ciò che esiste sia in nostro esclusivo potere, oppure nulla di ciò che esiste sia in nostro esclusivo potere, oppure se di ciò che esiste alcune cose siano in nostro esclusivo potere ed altre non lo siano. Essi hanno così potuto dimostrare empiricamente e in modo convincente che delle cose che sono, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere sono, ad esempio, giudizi, valutazioni, progetti, desideri, impulsi e così via, ed hanno chiamato queste entità ‘proairetiche’. Non sono invece in nostro esclusivo potere cose come il corpo, il denaro, la reputazione, il lavoro e così via, che vanno definite entità ‘aproairetiche’. Ed hanno altrettanto definitivamente dimostrato che questa è sempre stata, è, e sempre sarà la ‘natura delle cose’, la quale è invariante, inviolabile e valida per tutti gli uomini senza eccezione alcuna. Se la ‘diairesi’ è il giudizio che fa gli uomini capaci di distinguere in qualunque circostanza quanto è in loro esclusivo potere e quanto invece non lo è; e la ‘controdiairesi’ è il giudizio opposto, ossia quello che afferma in mio esclusivo potere quanto è non in mio esclusivo potere, oppure non essere in mio esclusivo potere quanto invece è in mio esclusivo potere: allora l’uomo entra in possesso della chiave che gli permette di trovare il giusto comportamento in ogni situazione, giacché nulla ci potrà accadere che non sia in armonia con la ‘natura’, ed è in esclusivo potere della nostra proairesi fare sì che nulla noi facciamo che sia in contrasto con la ‘natura delle cose’. Che ne è allora della tanto osannata ‘ragione’? Diccelo, Socrate, -vi sento rumoreggiare- diccelo, giacché noi siamo stati educati a considerare la ragione discorsiva come forma della verità, cittadella interiore e unico luogo garantito da ogni cedimento. Vi rispondo subito: la famosa ‘ragione’ non altro è che ‘antidiairesi’. Ascoltate. Tutti i comuni lavori manuali, come quello del falegname, del pescatore, dell’architetto o del medico possono essere definiti come opere dell’antidiairesi. Infatti, proairetica è la decisione di costruire una sedia, di uscire a pesca, di edificare una casa, di curare un ammalato, di rapinare una banca, di uccidere un uomo; ma la realizzazione di queste decisioni avviene poi sempre attraverso una serie di operazioni standard guidate da giudizi che rimangono subordinati alla decisione originaria. L’antidiairesi, cioè la ‘ragione’, può pertanto essere correttamente ed operativamente definita come l’insieme di giudizi subordinati operante su quanto è non in nostro esclusivo potere e che, in quanto complementare alla diairesi o alla controdiairesi, è competente a realizzare il progetto dell’una o dell’altra. Ciò significa che la tanto decantata ragione è strutturalmente incapace di qualunque scelta di ‘fini’ e di qualunque protocollo diverso dal puro e semplice approntamento dei ‘mezzi’ grazie ai quale giungere alla realizzazione di ciò che essa è delegata a perseguire.
L’antidiairesi, il nostro comune quotidiano lavoro, può essere allora immaginata come il tronco di un albero. Diairesi e controdiairesi sono allora come le radici dell’albero. A lavoro finito, libertà e felicità oppure schiavitù e infelicità sono i frutti che pendono dai rami dell’albero, a seconda che alla radice noi vi abbiamo posto la diairesi oppure la controdiairesi. Se gli artigiani sanno che per realizzare come si deve un lavoro qualunque occorre seguire strettamente le indicazioni della opportuna antidiairesi e non tener conto dei giudizi degli incompetenti, è stupefacente come noi invece ignoriamo che la realizzazione di noi stessi come uomini, ossia la saggezza, significa rispetto della natura delle cose, cioè mettere la diairesi alla radice dell’antidiairesi. Come si vede, il nuovo modello (che potete trovare in tutti i suoi dettagli qui e che è capace di fare da struttura naturale portante di quella che non si può più chiamare ‘psicologia’ e tanto meno ‘psicanalisi’ bensì ‘proairesiologia’) è composto non più di tre bensì di cinque elementi: ‘proairesi’, ‘natura delle cose’, ‘diairesi’, ‘controdiairesi’ e ‘antidiairesi’. Al suo centro vi sono la proairesi e la natura delle cose, le quali sono la stessa realtà semplicemente con nomi diversi: ‘Proairesi’, quando la riferiamo fisicamente ed esclusivamente al singolo uomo; ‘Natura delle cose’, quando la riferiamo all’universo inteso come insieme di cose aproairetiche cioè divine, e di cose proairetiche cioè umane. Diventa allora immediatamente chiaro che quando la proairesi dell’uomo, la quale è a quotidiano ed inevitabile contatto con tutto ciò che è divino e aproairetico: i sassi e le piante, il fango e gli animali, gli astri e gli escrementi, il cibo, il sesso, il denaro e così via; quando la proairesi, dico, concentra la propria luce e focalizza se stessa su ciò che è esclusivamente suo, vale a dire ciò che è proairetico e umano: come il cambiamento di un giudizio, la concezione di un progetto, la valutazione di un desiderio e così via, essa si de-localizza e viene a coincidere con l’universo, perdendo la località e la temporalità che caratterizzavano il suo precedente stato di relazione con l’aproairetico. Ecco spiegato cosa mi è accaduto molte volte, lo ripeto: ecco cos’era la mia atopia, associato alla quale uno stato di mia parziale o completa immobilità era casuale o comunque non qualificante, mentre esso mi veniva invece attribuito quale suo tratto caratteristico. 

Cosa accadde a Potidea

Nel mio caso, poi, l’origine della credenza in una stretto legame tra atopia e immobilità è allo stesso tempo curiosa, ridicola, degna di una commedia di Aristofane e segno di quanto possa essere interessante quel gioco che fanno i bambini e che si chiama passaparola. 

A Potidea, per parlare soltanto di quanto accaduto in quell’occasione, trattandosi di un assedio il mio comandante aveva assegnato a me la difesa di una certa posizione sulla cima di una collinetta, spiegandomi che si trattava di una posizione militare chiave da difendere a qualunque costo per almeno un giorno o comunque fino all’arrivo di qualcuno che mi desse il cambio. Nessuno venne a darmi il cambio prima di ventiquattro ore, io altro non feci che ubbidire agli ordini ricevuti, ed avevo altro a cui pensare che alle speculazioni filosofiche.
Diogene Laerzio lo dice bene quando racconta:

“<Socrate>partecipò anche alla spedizione militare contro Potidea: città che fu raggiunta per via di mare in quanto, a causa della guerra in corso, era impossibile arrivarvi per via di terra. Si racconta che in quest’occasione Socrate tenne per una notte intera una certa posizione <militare chiave>. Si meritò così sul campo il primo premio del valore, che egli però cedette ad Alcibiade del quale, come afferma Aristippo nel quarto libro della sua opera ‘Sulla dissolutezza degli antichi’, egli era l’amante”. 
Diogene Laerzio ‘Vite dei filosofi’ Libro II, § 23

Il ridicolo sta nel fatto che quel mio ‘tenere una certa posizione’, che è linguaggio tecnico militarmente corretto, nel corso del passaparola diventò ben presto ‘restare immobile in una certa posizione del corpo’, quasi che io fossi diventato la gru di Chichibio della quale narra Boccaccio nel Decamerone, e che se ne sta ritta e immobile sempre su una gamba sola. In questo senso, l’apoteosi del fraintendimento della mia atopica immobilità lo raggiunge Alcibiade, al quale Platone mette malignamente in bocca, sempre nel Simposio, una sorta di bollettino di guerra nel quale pare che si motivi, con il linguaggio retorico confacente a simile letteratura, l’assegnazione a me di una medaglia al valor militare. Dice infatti Alcibiade: 

“Una volta là <all’assedio di Potidea> mentr’era in servizio,

‘straordinario è quel che fece e durò il forte eroe’

e ciò val la pena di ascoltarlo. Infatti Socrate, tutto immerso nella riflessione su qualcosa fin dal primo mattino, teneva il posto assegnatogli restando in continua meditazione. Pur senza riuscire a venire a capo della faccenda, non cedeva di un palmo la posizione e continuava imperterrito nella ricerca. Giunto ormai il mezzogiorno, i commilitoni lo notavano e si dicevano l’un l’altro con stupore che Socrate stava saldo e fermo al suo posto fin dal mattino nella ponderazione di qualcosa. Giunta ormai la sera, alcuni della ‘Ionia’ che avevano finito di cenare, tiravano fuori dalle tende i loro lettucci da campo -si era allora in piena estate- e si ponevano a dormire al fresco; ma al tempo stesso provvedevano a montare turni di guardia per vedere se Socrate tenesse la propria posizione anche di notte. Cosa che egli faceva fino all’alba successiva e al sorgere del sole. Soltanto allora egli abbandonava la posizione assegnatagli e si allontanava, non prima però di avere rivolto una preghiera al sole”.
Platone ‘Simposio’ 220C-220D

Quando ne ho avuto occasione, io ho spiegato più che chiaramente il tutto:

“In verità, cittadini Ateniesi, la faccenda sta proprio in questi termini: qualora uno prenda una posizione perché la ritiene la migliore per sé, oppure perché così gli è stato ordinato di fare dal suo comandante; qui egli deve, a me sembra, rimanere saldamente a costo di qualunque pericolo, senza fare ulteriori calcoli e senza anteporre la morte o qualcos’altro al disonore e alla vergogna. Cittadini Ateniesi, quando i capi militari che voi sceglieste quali miei comandanti mi ordinarono di prendere una certa posizione sia a Potidea, sia ad Amfipoli e sia a Delio, allora io, come pure altri, tenni la posizione che mi era stato comandato di tenere e corsi dei rischi mortali. Pertanto quando fu invece il dio, come ho creduto e concepito, a comandarmi di prendere la posizione dell’uomo che vive la vita filosofica e sottopone ad un continuo esame se stesso e gli altri, avrei compiuto un’azione orribile se proprio in questo caso, per paura della morte o di qualche altra faccenda, io avessi disertato il posto assegnatomi. Questo sì sarebbe un fatto spaventoso, e allora davvero sarebbe giusto che qualcuno mi trascinasse davanti a un tribunale con l’accusa di non legittimare l’esistenza degli dei, in quanto disobbedisco all’oracolo, temo la morte e credo d’essere sapiente mentre invece non lo sono. Temere la morte, o cittadini, non altro è infatti che reputare d’essere sapiente senza esserlo, giacché equivale a reputare di sapere ciò che invece non si sa”.
Platone ‘Apologia di Socrate’ 28D-29A

Se poi qualcuno vorrà continuare a credere di poter trasformare l’acqua in vino, ebbene: buon pro gli faccia.