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STOICORUM VETERUM FRAGMENTA LIBRO III

Tutti i frammenti greci e latini

SVF III, 1

Nuovamente tradotti da Franco Scalenghe

Diogene Laerzio VII, 84. <Gli Stoici> [III,3,1] dividono la parte Etica della filosofia in diversi ambiti: quello dell’impulso, quello dei beni e dei mali, delle passioni, della virtù, del sommo bene, del primo valore, delle azioni, delle esortazioni e dissuasioni doverose. [III,3,5] Così la suddividono i seguaci di Crisippo, di Archedemo, di Zenone di Tarso, di Apollodoro, di Diogene, di Antipatro e di Posidonio. Zenone di Cizio e Cleante, in quanto filosofi più antichi, discernettero circa queste faccende in modo più semplice. Costoro però divisero dal resto [III,3,10] sia la Logica che la Fisica.

ETHICA I.

Sul sommo bene

§ 1. Il sommo bene secondo gli Stoici

 Frammenti n. 2-19

SVF III, 2

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 46 W. [III,3,15] Gli Stoici dicono a mo’ di definizione: “Il sommo bene è ciò a motivo del quale tutte le azioni sono doverosamente effettuate, ed esso invece si effettua a motivo di null’altro”. Ed anche in quel modo: “Ciò in grazia di cui tutto il resto; esso, invece, a motivo di null’altro”. E di nuovo: “Ciò a cui tutte le azioni effettuate nella vita fanno doverosamente riferimento, mentre [III,3,20] esso non fa riferimento ad altro”.

SVF III, 3

Stobeo ‘Eclogae’ II, 76, 16 W. I seguaci di questa scuola filosofica parlano del ‘sommo bene’ in tre modi. Infatti, il sommo bene, per consuetudine filologica, si dice bene finale; come quando essi dicono che ‘sommo bene’ è l’ammissibilità con la ragione. Ma chiamano anche ‘sommo bene’ lo ‘scopo’; per esempio, quando, in riferimento al predicato che gli è accanto, parlano di vita ammissibile con la ragione. [III,3,25] In un terzo significato, poi, chiamano ‘sommo bene’ l’estremo dei desiderabili, cui tutto il resto fa riferimento.

SVF III, 4

[1] Diogene Laerzio VII, 87. A sua volta, come afferma Crisippo nel primo libro ‘Sui sommi beni’, il vivere secondo virtù è pari al vivere secondo perizia di ciò che avviene per natura, giacché le nostre [III,3,30] nature sono parti della natura del cosmo. Perciò ‘sommo bene’ diventa il vivere in modo conseguente alla natura delle cose, [III,4,1] cioè in accordo con la nostra propria natura e quella dell’intero cosmo; nulla attivando di ciò che la legge comune suole vietare: legge la quale è retta ragione che tutto pervade e che è identica a Zeus, guida e capo del governo delle cose. Proprio in questo consiste [III,4,5] la virtù e la serenità di vita dell’uomo felice, qualora egli tutto effettui in armonia col demone interiore che è in ciascuno di noi e con il piano di chi governa il cosmo.

[2] VII, 89. Per natura delle cose alla quale bisogna vivere in modo conseguente, Crisippo intende sia quella comune alle cose tutte, sia quella peculiarmente umana.

SVF III, 5

‘Commento a Lucano’ Libro II, 380 p. 73 Us. In questi versi <Lucano> [III,4,10] dichiara che Catone fu uno Stoico. Secondo Crisippo il fine di questa filosofia è quello di vivere in modo armonia con la natura delle cose.

SVF III, 6

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 14, p. 703 Pott. A partire di qui gli Stoici hanno chiamato [III,4,15] ‘fine’ della filosofia il vivere in modo conseguente alla natura.

SVF III, 7

Filone Alessandrino ‘De plantat. Noe’ 49, II, p. 143, 20 Wendl. Avere la potenza di vivere in modo conseguente alla natura è quello che i primi tra i filosofi hanno chiamato piena realizzazione della felicità.

SVF III, 8

Filone Alessandrino ‘De migrat. Abrah.’ 128, II, p. 293, 4 Wendl. E questo è il ‘fine’ cantato da coloro che hanno praticato la migliore filosofia: vivere in modo conseguente [III,4,20] alla natura.

SVF III, 9

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 482 Pott. A partire di qui, anche gli Stoici nutrirono il giudizio che il ‘sommo bene’ è ‘vivere in modo conseguente alla natura’; e però cambiarono il nome ‘Dio’ in quello di ‘natura’ in modo non confacente, dacché la natura pertiene anche ai vegetali […] e ai minerali.

SVF III, 10

Filone Alessandrino ‘De Moyse’ III, II, Mang. p. 158. [III,4,25] .…prendendo di mira il culmine della felicità e il ‘sommo bene’ verso il quale è necessario muovere celermente e riferire tutte le azioni, avendo a bersaglio, come nel tiro con l’arco, lo scopo della vita.

SVF III, 11

Cicerone ‘De finibus’ III, 23. Come le membra che ci sono state date [III,4,30] appaiono funzionali ad un certo tipo di vita, così l’impulso dell’animo, che i Greci chiamano ὁρμή, risulta esserci stato dato non per un genere di vita qualsiasi ma per un certo modo di vivere; e lo stesso dicasi per la ragione e per la perfetta ragione. Come non si affida all’attore una parte qualsiasi ma una ben precisa, né al danzatore l’esecuzione di una movenza qualsiasi ma di una ben precisa, così si deve condurre un genere di vita ben determinato e non uno a casaccio: quel genere che chiamiamo [III,4,35] conveniente e consentaneo. Noi riteniamo che la saggezza sia simile non all’arte del nocchiero o alla medicina, ma piuttosto, come ho appena detto, alla recitazione dell’attore e alla danza, giacché la virtù ha il proprio fine incorporato in se stessa, ossia è la pratica dell’arte di se stessa, e non cerca la propria perfezione fuori di sé. Tuttavia, la saggezza differisce anche da queste arti, giacché la perfezione in esse non incorpora [III,4,40] la totalità delle parti di cui ciascuna consta, mentre le azioni rette, che gli Stoici chiamano κατορθώματα, contengono in sé tutte le numerose virtù. Soltanto la saggezza è interamente conclusa in se stessa. […] La saggezza infatti include la magnanimità e la giustizia, [III,5,1] sicché si giudica superiore a tutti gli accidenti umani.

SVF III, 12

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 6, p. 450 M. Non accontentandosi di questo, Posidonio attacca i seguaci [III,5,5] di Crisippo in maniera ancor più evidente e veemente per non avere rettamente spiegato il ‘sommo bene’. Il suo discorso è questo: “… una volta messo da parte ciò, alcuni riducono il ‘vivere in modo ammissibile con la ragione’ al fare tutto il fattibile per conseguire le cose primarie secondo natura, e lo assimilano all’esporsi come scopo il piacere della carne o l’assenza di fastidi o qualcos’altro del genere. In questa enunciazione è palese una contraddizione, e nulla che abbia relazione col bello [III,5,10] e col felicitante. Le cose primarie secondo natura, infatti, sono di necessità concomitanti al ‘sommo bene’, ma non sono il ‘sommo bene’. Una volta che si abbia invece un retto discernimento del sommo bene, allora è possibile utilizzarlo per fare a fette le aporie che i sofisti avanzano. Non certo con definizioni del tipo ‘vivere secondo perizia delle cose che avvengono per natura intesa nel suo complesso’, che equivale a dire ‘vivere in modo ammissibile con la ragione’, dal momento che questa formulazione ha invece [III,5,15] per intento, in misura non piccola, l’ottenimento di cose indifferenti.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ II, 76, 3 W. Infatti Cleante, dopo avere accettato per primo la definizione scelta da Zenone, le addizionò ‘alla natura’ e così la restituì: “ ‘Sommo bene’ è il vivere in modo ammissibile con la ragione e la natura”. Al che Crisippo, deciso a renderla più chiara, tirò fuori questa formulazione: “Vivere [III,5,20] secondo perizia di ciò che avviene per natura delle cose”.

SVF III, 13

Cicerone ‘De finibus’ IV, 14. Avendo i filosofi precedenti detto, e fra costoro in modo esplicito da Polemone, che il sommo bene è ‘vivere secondo natura’, gli Stoici affermano che queste parole possono significare tre cose. La prima è: ‘Vivere con la piena conoscenza delle cose che accadono in natura’. Questo essi dicono che sia il sommo bene per Zenone, [III,5,25] il quale dichiara quello che hai detto tu: ‘Vivere in modo conveniente alla natura’. La seconda equivale a dire: ‘Vivere effettuando tutti o la maggior parte degli atti solo relativamente doverosi’. Il primo significato è diverso dal secondo, in quanto il primo parla di azione retta, quella che tu chiamavi κατόρθωμα, e compete al solo saggio. Il secondo significato invece si riferisce non a quello perfetto ma ad ogni atto doveroso imperfetto, che quindi può essere effettuato anche da molti stolti. [III,5,30] La terza è: ‘Vivere fruendo di tutte o del massimo numero di cose che sono secondo natura’. Questo non è legato soltanto al nostro modo di agire, ma si compie nell’unione di quel genere di vita che è virtuoso e delle cose che sono secondo natura ma non sono in nostro potere. Ora, il sommo bene che risulta dalla terza definizione e la vita che si [III,5,35] ispira al sommo bene, poiché si coniuga con la virtù, attiene solo al sapiente: e questo bene estremo, come vediamo scritto dagli stessi Stoici, è stato stabilito come tale da Senocrate e da Aristotele.

SVF III, 14

Cicerone ‘De finibus’ II, 34. Nel caso di tutti i filosofi citati, il sommo bene è la conseguenza logica delle premesse da cui essi muovono: per Aristippo [III,5,40] è il puro e semplice piacere; per gli Stoici è la consentaneità con la natura, intendendo con ciò il vivere secondo virtù una vita moralmente integra, ossia con piena intelligenza del corso naturale delle cose, scegliendo per sé quelle che sono secondo natura e rifiutando quelle contro natura. [III,6,1] Dunque ci sono tre sommi beni che non hanno a che fare con l’integrità morale […] e poi c’è un sommo bene semplice, quello teorizzato da Zenone, interamente basato sull’integrità morale.

SVF III, 15

Cicerone ‘De finibus’ III, 31. Rimane soltanto la possibilità che il sommo bene consista nel vivere con piena conoscenza del corso naturale delle cose, [III,6,5] scegliendo per sé quelle che sono conformi a natura e rifiutando quelle contro natura: cioè vivere in modo conveniente e congruente con la natura.

SVF III, 16

Stobeo ‘Eclogae’ II, 77, 16 W. Dicono che il ‘sommo bene’ sia l’essere felici e che questo è ciò per cui tutto si effettua, mentre l’essere felici è effettuato in vista di null’altro. Esso consiste nel vivere secondo virtù, nel vivere in modo ammissibile con la ragione ed anche, il che è lo stesso, nel vivere secondo la natura delle cose. [III,6,10] Zenone definì la felicità in questo modo: felicità è il sereno fluire dell’esistenza. Anche Cleante usa questa definizione nelle sue compilazioni. La usa anche Crisippo, e lo fanno tutti i loro successori, dicendo che la felicità è non altro che una vita felice, seppure affermino che la felicità è esposta come ‘scopo’, [III,6,15] mentre centrare la felicità è il ‘fine’, il che appunto è lo stesso che essere felici. E’ dunque da ciò manifesto che ‘vivere secondo la natura delle cose’, ‘vivere da bello’, ‘vivere bene’ e, ancora, ‘ciò ch’è dabbene’, e poi, ‘la virtù e quanto partecipa della virtù’, sono termini equivalenti. Insomma, tutto quanto è buono è anche bello, e similmente tutto quanto è brutto è anche male. Pertanto il sommo bene stoico si può parificare ad una vita secondo virtù.

SVF III, 17

[1] Michele di Efeso ‘In Aristot. Eth. Nicom.’ p. 598, 20 Heylb. [III,6,20] Che sia possibile far partecipare della felicità anche gli animali privi di ragione, stando alle concezioni circa la felicità degli altri filosofi, Epicurei e successivamente pure Stoici, […] lo si potrebbe riscontrare dalla seguente argomentazione. […] Se, secondo gli Stoici, il vivere bene è passarsela secondo natura; e se [III,6,25] il vivere bene, sia per gli Stoici che per Epicuro, è essere felici, allora il passarsela secondo natura è essere felici. Ma invero è proprio degli animali privi di ragione il passarsela secondo natura dal momento della generazione a quello della morte: dunque agli animali privi di ragione è dato essere felici.

[2] p. 599, 6 Heylb. Per contro, se per gli Stoici essere felici è l’estremo [III,6,30] dei desideri naturali, venuta al quale la natura ha il suo ‘ciò per cui’ e il suo ‘sommo bene’, centrato il quale essa non brama nulla di più eccetto il rattenere per sé questo bene familiare e non perderlo, allora questo esiste anche nel caso degli esseri privi di ragione e pertanto anche gli animali privi di ragione partecipano della felicità.

SVF III, 18

Cicerone ‘De finibus’ III, 22. A questo punto bisogna innanzitutto eliminare un errore, facendo sì che non ci sia chi stimi che i sommi beni sono due. [III,6,35] Se uno si proponesse di colpire un bersaglio, che noi possiamo equiparare al sommo bene, con un giavellotto od una freccia, costui farebbe tutto quel che può per colpirlo; ed anche noi come lui dobbiamo fare ogni sforzo per raggiungere il nostro fine. Tuttavia, sebbene egli faccia di tutto per realizzare il suo proposito ultimo, che equivale per noi al raggiungimento del sommo bene nella vita, [III,6,40] il colpire il bersaglio è qualcosa che egli può solo scegliere ma non pretendere di ottenere.

SVF III, 19

Alessandro d’Afrodisia ‘Quaestiones’ II, 16, p. 61, 1 Bruns. Se si dicesse che ‘fine’ delle arti stocastiche è quello di fare tutto quanto è in loro potere per centrare lo scopo proposto, come mai esse non centrano il fine loro proprio [III,7,1] in modo simile alle arti non-stocastiche? È proprio per il fatto di non centrare il fine in modo simile che le arti stocastiche paiono differire da quelle non-stocastiche. [III,7,5] Secondo alcuni, per i quali il loro fine è quello di centrare lo scopo proposto, allora esse differirebbero per il modo di centrarlo. Secondo altri invece, per i quali esse hanno il fine detto in precedenza, pur se centrassero similmente il fine, esse differirebbero però per non avere lo stesso fine. Ora, nelle arti non-stocastiche è necessario che il risultato s’accompagni all’applicazione delle regole dell’arte e che il fallimento dello scopo proposto consegua ad uno sbaglio di procedura, in quanto non avvenuta a regola d’arte. Il loro fine, infatti, è quello di centrare lo scopo proposto e, nel loro caso, [III,7,10] il fare tutto quanto è in loro potere per centrare lo scopo proposto è la stessa cosa che centrarlo giacché, ciò facendo, realizzano quanto è in loro potere. Nelle arti stocastiche, invece, il risultato non s’accompagna affatto all’applicazione delle regole dell’arte, perché per centrarlo c’è bisogno di molte cose che non dipendono solo da quell’arte. Per di più, le regole stesse dell’arte sono non ben definite né [III,7,15] sono produttive dei medesimi risultati, per il fatto di non applicarsi dappertutto a casi omogenei, dato che tutte o alcune cose possono avere conseguenze diverse dalle aspettative. Le arti stocastiche, pertanto, non hanno come fine quello di centrare lo scopo proposto ma quello di ottemperare alle regole dell’arte.

§ 2. Critica ai sommi beni di altri filosofi

Frammenti n. 20-28

SVF III, 20

Cicerone ‘De finibus’ IV, 28. Esponendo le differenze tra gli [III,7,20] animali, Crisippo dice che alcuni eccellono per doti del corpo, altri per doti dell’animo, parecchi sia per l’una che per l’altra cosa; e in seguito discute di cosa costituisca il sommo bene per ciascun genere di animali. Dopo avere collocato l’uomo nel genere di animali che eccellono per le doti dell’animo, egli definisce però il sommo bene dell’uomo in un modo tale [III,7,25] che ad eccellere non è più l’animo umano, bensì che l’uomo si riduce a nient’altro che il suo animo.

SVF III, 21

[1] Cicerone ‘Academica’ II, 138. È attestato che secondo Crisippo, il quale ritaglia e scarta un gran numero di definizioni del sommo bene, le tesi difendibili in proposito sono soltanto tre. Il sommo bene è l’integrità morale, oppure è il piacere, oppure è una combinazione dei due. Quanti affermano che il sommo bene è l’assenza d’ogni affanno, [III,7,30] evitano l’odioso nome ‘piacere’, ma nei fatti gli girano soltanto intorno; e lo stesso fanno quanti congiungessero l’assenza d’ogni affanno all’integrità morale o quanti sommassero a questa i beni naturali primari. Ecco in che modo si riducono a tre le posizioni che a suo avviso sono difendibili.                   

[2] II, 140. In fin dei conti resta in lizza soltanto [III,7,35] la coppia ‘piacere’ contro ‘integrità morale’. A quanto ne so in proposito, per Crisippo non ci fu gran lotta. Se rincorri il piacere crollano molte cose, e soprattutto la comunanza col genere umano, le relazioni [III,8,1] che prescindono dal denaro, l’amicizia, la giustizia e le restanti virtù, nessuna delle quali può esistere se non sarà gratuita; giacché ciò che spinto all’azione dal compenso di un piacere non è virtù, ma una fallace imitazione e simulazione di virtù.

SVF III, 22

Cicerone ‘De finibus’ II, 44. Messe così da parte le dottrine degli altri filosofi, [III,8,5] rimane aperto soltanto più il contrasto, non fra me e Torquato, ma fra la virtù e il piacere. Un uomo acuto e diligente come Crisippo non sottovaluta affatto questo contrasto, anzi reputa che in tutta la questione del sommo bene, la rivalità tra virtù e piacere rappresenti la discriminante fondamentale.

SVF III, 23

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1040c. [III,8,10] Per contro, dopo avere rimarcato nei libri ‘Sulla giustizia’ che, per quanti valutano il piacere della carne un ‘bene’ ma non il ‘fine’ è ancora fattibile salvaguardare la giustizia, e una volta posto ciò, <Crisippo> ha detto testualmente: “Forse, una volta lasciato il piacere della carne nel novero di ciò ch’è ‘bene’ ma non è il ‘fine’, poiché anche il bello è una delle cose che possono essere scelte per se stesse, potremmo salvaguardare [III,8,15] la giustizia, lasciando il bello e il giusto nel novero di ciò ch’è ‘bene maggiore’ del piacere della carne”.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1070d. Nei libri ‘Sulla giustizia’ <Crisippo> non crede che si possa salvaguardare la giustizia se si suggerisse che il piacere della carne è il ‘fine’, mentre crede che ciò sia possibile se si suggerisse che esso è non il fine ma semplicemente un ‘bene’. E non credo [III,8,20] che tu abbia bisogno di udirmi esporre le sue parole, dal momento che il terzo dei suoi libri ‘Sulla giustizia’ è dovunque disponibile.

SVF III, 24

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1040e. E per non tralasciare giustificazione alcuna alle sue polemiche, scrivendo contro Aristotele a proposito di giustizia, <Crisippo> dice: “Egli parla non rettamente quando afferma che, se il piacere della carne è il fine, la giustizia è abolita e che ciascuna delle altre virtù è abolita insieme con la giustizia. Giacché la giustizia è in verità [III,8,25] abolita da coloro che ritengono il piacere della carne il fine, ma nulla impedisce che le altre virtù continuino a sussistere e siano pur sempre beni e virtù, anche se non scelti per se stessi”. Le chiama poi ciascuna per nome. Ma la miglior cosa è riprendere le sue parole: [III,8,30] “Se, dice <Crisippo>, secondo siffatto ragionamento il piacere della carne si palesa essere un fine, io però non reputo che ciò abbracci tutte queste implicazioni. Perciò bisogna dire che nessuna delle virtù è scelta per se stessa né alcun vizio per se stesso fuggito, ma che tutte queste cose vanno riferite allo scopo soggiacente. Tuttavia nulla impedirà che, [III,8,35] per loro, virilità, saggezza, padronanza di sé, fortezza e le virtù simili a queste continuino ad essere dei beni e che gli opposti siano fuggiti”.

SVF III, 25

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1070d. Nessuno ignora che di due [III,9,1] beni: il ‘fine’ e ‘ciò che mira al fine’; il maggiore e più perfetto è il ‘fine’. Anche Crisippo riconosce questa differenza, come è manifesto nel terzo libro ‘Sui beni’, quando egli dissente dall’opinione di coloro che ritengono essere la scienza il ‘fine’.

SVF III, 26

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1071f. [III,9,5] Tu vedi, infatti, che anche Crisippo caccia Aristone in questo vicolo cieco, dal momento che i fatti non ci permettono di pensare la ‘indifferenza’ verso ciò ch’è né bene né male, se noi non abbiamo già pensato in precedenza cosa è bene e cosa è male. In tal modo, se è impossibile avere la cognizione di ‘indifferenza’ senza avere prima avuto la cognizione di ciò ch’è ‘bene’, [III,9,10] l’indifferenza appare preesistere a se stessa, ma allora essa soltanto e null’altro è ‘bene’.

SVF III, 27

Cicerone ‘De finibus’ IV, 68. Quando si afferma che l’integrità morale è l’unico bene, si toglie valore alla cura della salute, alla diligente gestione del patrimonio familiare, all’amministrazione dello Stato, alla ordinata condotta degli affari, agli atti doverosi per la vita; col risultato di dover fare poi a meno anche di quell’integrità morale nella quale soltanto [III,9,15] voi volete che tutto sia contenuto. Sono queste le acute critiche che Crisippo dirige contro Aristone.

SVF III, 28

Galeno ‘De animi peccat. dignosc.’ 4, V, p. 77 K. La falsa concezione del ‘fine’ di ciascuna vita è dunque all’origine di molti errori, e i singoli errori [III,9,20] germogliano da questa come da una radice. Ma si può, anche senza fallire nell’opinione circa il fine della vita, fallire in qualche singola cosa per mancanza di comprensione delle conseguenze.

§ 3. Soltanto il ‘bello’ è ‘buono’

Frammenti n. 29-37

SVF III, 29

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1039c. E nel libro ‘Sul bello’, [III,9,25] per dimostrare che soltanto il bello è buono, <Crisippo> ha usato questi argomenti: “Il buono è scelto, ciò ch’è scelto è gradito, ciò ch’è gradito è lodevole, ciò ch’è lodevole è bello”. E di nuovo: “Il buono è rallegrante, ciò ch’è rallegrante è solenne, ciò ch’è solenne è bello”.

SVF III, 30

Diogene Laerzio VII, 101. <Gli Stoici> affermano che soltanto il bello è buono, [III,9,30] secondo quanto dice Ecatone nel terzo libro ‘Sui beni’ e Crisippo nei libri ‘Sul bello’; e che questo è la virtù e quanto partecipa della virtù. Al che è pari l’affermazione che tutto ciò ch’è buono è bello e che ‘bene’ e ‘bello’ sono termini equivalenti, perché uno è pari all’altro. Infatti, dacché è bene è bello; ma è bello, dunque è bene.

SVF III, 31

Filone Alessandrino ‘De posteritate Caini.’ 133, II, p. 29, 7 Wendl. [III,9,35] [.…] il giudizio stoico che soltanto il bello è bene.

SVF III, 32

Alessandro d’Afrodisia ‘Quaestiones’ I, 14, p. 26 Bruns. Secondo i predetti <Stoici>, che nessun bene venga agli uomini [III,10,1] da parte degli dei, è manifesto da quanto segue. Il bello è in nostro esclusivo potere; ciò ch’è in nostro esclusivo potere lo acquisiamo da noi stessi; ciò che acquisiamo da noi stessi non promana da nessun altro; dunque il bello non ci promana da nessun altro, e se non ci promana da nessun altro non [III,10,5] ci promana neppure dagli dei. Ma invero il bene e il bello sono la stessa cosa per coloro che ritengono il bello un bene; e dunque dagli dei non promana agli uomini neppure bene alcuno.

SVF III, 33

Filone Alessandrino ‘Quod deterius potiori insid. soleat’ 7, I, p. 259, 25 Wendl. Essendo alla ricerca del sapere più con gli occhi alla politica che alla verità, <Giuseppe> [III,10,10] riunisce e riconduce ad unità i tre generi di beni – quelli esterni, quelli del corpo e quelli dell’animo – le cui nature sono interamente avulse le une dalle altre. E lo fa perché intende mettere in luce che ciascun bene ha bisogno di ciascun altro e tutti di tutti; e che il bene realmente integro e completo è quello composto dalla loro aggregazione, mentre i componenti dai quali questo bene è formato sono soltanto parti o elementi del bene, ma non beni perfetti. Come appunto né fuoco né terra né alcuno [III,10,15] dei quattro elementi dei quali risulta fabbricato il tutto, è il cosmo; il quale è invece il risultato della riunione e della mescolanza degli elementi in un tutto unitario; allo stesso modo la felicità non può essere rintracciata singolarmente né nei beni esterni né in quelli del corpo né in quelli dell’animo di per se stessi ma, giacché ciascuno dei detti beni ha il ruolo di parte o di elemento, dall’aggregazione di tutti loro. [III,10,20] È affinché disimpari e apprenda questa opinione che <Giuseppe> viene inviato presso uomini i quali legittimano come bene soltanto il bello, il quale è proprio dell’animo in quanto animo; uomini convinti che quelli chiamati esterni e del corpo siano soltanto sovrappiù ma non siano in verità dei beni.

SVF III, 34

Cicerone ‘De finibus’ III, 28. Io chiedo chi possa [III,10,25] gloriarsi di una vita miserabile e non beata. Quindi ci si può gloriare soltanto di una vita beata. Il che fa sì che una vita beata sia degna (per dir così) di gloria, e che ciò non possa di diritto spettare che ad una vita moralmente integra. Così accade che una vita di integrità morale sia una vita beata. E poiché colui cui spettano di diritto delle lodi ha doti insigni che lo segnalano per decoro e gloria e gli permettono di essere di diritto chiamato beato per la grandiosità dei suoi meriti; [III,10,30] si dirà rettissimamente la stessa cosa della vita un tale uomo. Così se una vita felice ha per suo contrassegno l’integrità morale, allora l’integrità morale va considerata quale unico bene.

SVF III, 35

Cicerone ‘De finibus’ III, 29. E che? Chi può negare che non potrà mai nascere un uomo d’animo saldo, tenace, generoso, quello che chiamiamo un grand’uomo, [III,10,35] se prima non si stabilirà che il dolore non è un male? Infatti, come chi pone la morte nel novero dei mali non può fare a meno di temerla, così nessuno mai può trascurare o disprezzare ciò che ha decretato essere un male. Ciò posto […] si assume che chi è d’animo grande e coraggioso [III,10,40] disdegna e non tiene in alcun conto le vicende che toccano solo l’esteriorità dell’uomo. E se così è, se ne deduce che nulla è male se non ciò ch’è moralmente deforme.

SVF III, 36

Cicerone ‘De finibus’ III, 29. Quest’uomo d’alto sentire, eccelso, magnanimo, fortissimo, che si giudica superiore a tutte le vicissitudini umane [III,11,1] non può certo mancare di fiducia in se stesso, nella sua vita passata e futura; e deve certo avere di sé un buon giudizio, una volta stabilito che al saggio non può accadere alcun male. Dal che si capisce pure che l’unico bene è l’integrità morale, e che una vita beata e una vita moralmente integra, cioè virtuosa, sono la stessa cosa.

SVF III, 37

[1] Cicerone ‘De finibus’ III, 27. Ciò ch’è bene è lodevole; [III,11,5] ma ciò ch’è lodevole è sempre moralmente integro; dunque ciò ch’è bene è anche moralmente integro. […] È assurdo che ci sia un bene che non sia anche da richiedersi; o che sia da richiedersi ciò che non è piacevole; o, se è piacevole, che non sia anche appetibile; e dunque anche degno di approvazione; ma allora è anche lodevole; e pure moralmente integro. [III,11,10] Ecco dunque che ciò ch’è bene è anche moralmente integro.

[2] IV, 50. Quello è appunto un sorite, ossia il ragionamento che voi reputate il più fallace di tutti: ‘ciò ch’è bene è da scegliersi; ciò ch’è da scegliersi è da richiedersi; ciò ch’è da richiedersi è degno di lode’ e così via per gradi.

[3] ‘Tusculanae disputationes’ V, 43. Ogni bene, allieta; ma ciò che allieta merito credito e stima; ciò che è tale è glorioso; [III,11,15] se davvero è glorioso è lodevole; ciò ch’è lodevole è senz’altro moralmente integro; dunque, il bene è l’integrità morale.

[4] V, 45. Qualunque cosa sia il bene, esso è da richiedersi; ciò ch’è da richiedersi è certo degno di approvazione; ciò che tu davvero approvi, devi tenerlo per cosa grata e bene accetta; dunque, deve essere considerato anche cosa degna. [III,11,20] Se è così, necessariamente esso è degno di lode; dunque, ogni bene è degno di lode. Ne deriva che quanto è moralmente integro è il solo bene.

§ 4. La virtù va ricercata per se stessa

Frammenti n. 38-48

SVF III, 38

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 99. Sì, ma anche quanti opinano che soltanto il bello sia [III,11,25] bene legittimano come dimostrato che, per natura, esso sia scelto anche dagli animali privi di ragione. Giacché noi vediamo, essi dicono, che alcuni animali di razza, come il toro e i galli, pur senza prospettiva alcuna di diletto e piacere combattono fino alla morte. E coloro tra gli uomini che danno tutto se stessi fino alla propria distruzione per amor di patria o dei genitori o dei figli forse [III,11,30] non lo farebbero mai, non essendovi speranza alcuna di piacere dopo la morte, se ciò ch’è dabbene non attraesse naturalmente costoro e sempre ogni creatura di razza alla scelta di se stesso.

[2] XI, 101. Li si può infatti udire affermare che è soltanto la disposizione saggia dell’animo a ravvisare la virtù, mentre la stoltezza [III,11,35] lo rende cieco a questa diagnosi. Ragion per cui sia il gallo che il toro, non partecipando della disposizione saggia, non sarebbero in grado di ravvisare né il bello né il buono.

SVF III, 39

Diogene Laerzio VII, 89. La virtù è una disposizione dell’animo ammissibile con la ragione, ed essa è scelta per se stessa, non a causa di qualche paura o speranza o cosa esteriore. Nella virtù, in quanto è animo fatto [III,11,40] per l’ammissibilità dell’intera la vita con la ragione, consiste la felicità.

SVF III, 40

Diogene Laerzio VII, 127. La virtù è scelta per se stessa; e dunque noi ci vergogniamo del male che facciamo, come se sapessimo che soltanto il bello è bene.

SVF III, 41

Cicerone ‘De finibus’ III, 36. Tutto ciò che è moralmente integro [III,12,1] è di per sé da richiedersi […] ed a questo principio gli Stoici si attengono strettamente. […] Per lo stesso motivo le azioni moralmente deformi vanno di per sé rifuggite. […] E quando diciamo che la stoltezza, la codardia, l’ingiustizia e l’intemperanza vanno rifuggite per gli effetti che hanno, [III,12,5] non lo diciamo per il gusto di contraddire il discorso di prima, ossia che soltanto ciò ch’è moralmente deforme è male, ma perché quegli effetti non attengono a danni fisici ma alle azioni moralmente deformi che nascono dai vizi (preferisco chiamare vizi e non malvagità ciò che i Greci designano con il termine κακίας ).

SVF III, 42

Cicerone ‘De legibus’ I, 40. Se dovesse essere la pena [III,12,10] e non la natura a tenere gli uomini lontani dall’ingiustizia, tolta la paura delle punizioni quale preoccupazione angustierebbe più gli empi? Non è mai esistito un delinquente che non neghi d’aver commesso il crimine, o che non inventi una qualche giusta causa del proprio misfatto, o che non cerchi una difesa del proprio crimine in qualche diritto naturale. Se a ciò [III,12,15] osano appellarsi gli empi, con quanta più cura vi si applicheranno gli onesti? Se è la pena e la paura del castigo, e non la turpitudine degli atti in sé a fare da deterrente ad una vita di ingiustizia e di crimini, allora nessun uomo è ingiusto ed i malfattori sono piuttosto da ritenersi degli incauti. Inoltre, se noi siamo mossi ad essere uomini dabbene non dall’integrità morale di per sé ma da un qualche vantaggio o tornaconto, siamo furbi e non buoni. Nascosto dalle tenebre, cosa farà chi non teme altri che il testimone e [III,12,20] il giudice? Cosa farà incontrando in un luogo deserto un uomo indifeso, solo, e che può essere spogliato del molto oro che ha con sé? Invece, il nostro giusto per natura, da uomo dabbene qual è, parlerà con lui, lo assisterà e gli farà da guida. Chi non fa nulla per gli altri e tutto riduce al proprio comodo, voi vedete, io credo, come agirà. [III,12,25] E se pure negherà che gli toglierà la vita a gli porterà via l’oro, non lo negherà mai perché giudichi tali atti turpi per natura, ma perché avrà paura che la cosa sia risaputa, cioè perché non gliene venga un male.

SVF III, 43

Cicerone ‘De legibus’ I, 48. Se ne conclude […] che il diritto e l’integrità morale sono da richiedersi di per sé. D’altra parte tutti gli uomini dabbene amano [III,12,30] l’equità e il diritto in quanto tali, e non è da uomo dabbene commettere l’errore di prediligere ciò che non va di per sé prediletto. Il diritto va dunque richiesto e coltivato di per sé; e se è così per il diritto così è anche per la giustizia; e come la giustizia anche le restanti virtù vanno coltivate di per sé. E che? La liberalità è gratuita o mercenaria? Se uno fa il bene senza l’attesa d’un premio, essa è gratuita; se ne ottiene una mercede essa è venale. Senza dubbio l’uomo liberale e benefico esegue atti doverosi e non [III,12,35] atti interessati. La giustizia nulla richiede in premio e non ha prezzo: dunque essa è da richiedersi di per sé. […] Dov’è la santità dell’amicizia se, come si dice, l’amico non è amato di tutto cuore in quanto tale? E se l’amicizia va coltivata di per sé, anche la solidarietà umana, l’uguaglianza e la giustizia vanno richieste [III,12,40] di per sé.

SVF III, 44

Cicerone ‘De finibus’ V, 20. In verità per gli Stoici l’integrità morale, la sola cosa che sia da richiedersi per se stessa nonché l’unico bene, consiste nel fare tutto il possibile per raggiungere le cose secondo natura quand’anche non si riesca a conseguirle.

SVF III, 45

Servio ‘In Aeneidem’ I, 604. ‘La mente ha autocoscienza del giusto’. [III,13,1] Secondo gli Stoici, i quali dicono che la virtù è premio a se stessa, anche senza altri premi.

SVF III, 46

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 8, p. 594 Pott. Se, malgrado il parere contrario di alcuni, taluni ‘indifferenti’ [III,13,5] hanno davvero ottenuto in sorte un pregio tale da sembrare degni di scelta; molto più sarà da legittimare come oggetto di contesa la virtù, senza riguardo ad altro che a ciò che può essere effettuato bene, sia che così sembri sia che così non sembri ad altri.

SVF III, 47

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 12. Gli Stoici […] negano che qualcuno possa essere reso felice se non dalla virtù. Pertanto il premio della virtù è una vita felice, [III,13,10] se la virtù, com’è stato detto rettamente, fa felice la vita. Dunque la virtù non è, come essi dicono, da richiedersi di per se stessa.

SVF III, 48

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ V, 17. Quando discutono della virtù, pur capendo che essa trabocca di tribolazioni e miserie, [III,13,15] tuttavia dicono che essa è da richiedersi di per se stessa.

§ 5. Per una vita beata è sufficiente la virtù

Frammenti n. 49-67

SVF III, 49

Diogene Laerzio VII, 127. Secondo quanto dicono Zenone, Crisippo nel primo libro ‘Sulle virtù’ ed Ecatone nel secondo libro ‘Sui beni’, la virtù è autosufficiente per la felicità. [III,13,20] Se infatti, si dice, la magnanimità è autosufficiente per farci elevare al di sopra di tutto, ed essa è soltanto una parte della virtù; anche la virtù sarà autosufficiente per la felicità, essendo capace di spregiare quelle che sembrano seccature.

SVF III, 50

Porfirione ‘Ad Horat. carm.’ III, 2, 17. Queste sono dottrine degli Stoici, i quali dicono che la virtù da sola è sufficiente per una vita beata.

SVF III, 51

Cicerone ‘De finibus’ I, 61. Questa è una verità che noi Epicurei [III,13,25] dimostriamo molto meglio degli Stoici. Essi infatti negano che esista altro bene all’infuori di quella non so che ombra che chiamano integrità morale: nome certo splendido per una cosa priva di sostanza; e sostengono che la virtù fondata su questa integrità morale non ha bisogno di alcun piacere e basta a se stessa per una vita beata.

SVF III, 52

Proclo ‘In Platonis Timaeum’ p. 61 B. Schn. [III,13,30] Gli Stoici affermano che il virtuoso non ha affatto bisogno della fortuna, ma Platone non parla così.

SVF III, 53

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046d. Se dunque <Crisippo> ritenesse, come Epicuro, la saggezza un bene produttivo della felicità, [III,13,35] <non si contraddirebbe, e invece egli si contraddice> giacché la saggezza, secondo lui, è non altra cosa dalla felicità ma la felicità stessa.

SVF III, 54

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1061f. I nostri uomini <Stoici> non dicono [III,14,1] soltanto questo ma affermano inoltre: “L’aggiunta del tempo non accresce il bene, e se uno sarà saggio anche per un solo istante in nulla resterà indietro, quanto a felicità, rispetto a chi eternamente usa virtù ed in essa beatamente vive”.

[2] ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046c. [III,14,5] In molti luoghi Crisippo ha detto che per il fatto di esserlo per molto tempo noi non siamo più felici, bensì che lo siamo ugualmente e tanto quanto coloro che partecipano della felicità per un istante.

[3] Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 98, 17 W. E perciò gli uomini virtuosi sono sempre assolutamente felici e gli insipienti, invece, infelici. La felicità dei primi [III,14,10] non differisce dalla felicità divina né, dice Crisippo, quella momentanea differisce dalla felicità di Zeus. Né la felicità di Zeus è preferibile o più bella o più solenne di quella degli uomini sapienti.

[4] Temistio ‘Orationes’ VIII, p. 101d. Crisippo pare mostrarsi uomo financo [III,14,15] a parole, quando dice che per un uomo virtuoso un giorno solo e perfino un’ora sola valgono quanto molte annate.

SVF III, 55

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1042a. In ogni suo libro di Fisica e di Etica <Crisippo> dichiara che essenza dell’infelicità è il vizio, e scrivendone sostiene energicamente che vivere nel vizio è la stessa cosa che [III,14,20] vivere infelicemente.

SVF III, 56

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ XVIII, 1, 4. In tale occasione, lo Stoico sosteneva che la vita dell’uomo può essere resa beata unicamente dalla virtù dell’animo e resa invece sommamente misera unicamente dal vizio, pur se mancassero alla virtù ed assistessero il vizio tutti quelli che sono chiamati beni corporali ed esteriori. [III,14,25] […] A questo punto lo Stoico ribatteva <al Peripatetico> di stupirsi che egli ponesse le due cose su piani diversi e che, siccome vizio e virtù sono due contrari e la vita beata e quella misera altrettanto, egli non serbasse inalterata la potenza della natura in entrambi i casi e quindi reputasse che a rendere una vita misera basta il solo vizio e invece dicesse che a rendere la vita beata non basta la sola virtù. [III,14,30] Aggiungeva poi che egli dissentiva e non conveniva con lui in questo: <il Peripatetico> confessa che la vita a nessun patto può essere resa felice se mancasse la sola virtù, e però poi nega l’esistenza di una vita felice in presenza della sola virtù; dando così alla virtù assente l’onore che essa merita, ma negandoglielo quando essa lo richiede ed è presente.

SVF III, 57

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 166, 21 Bruns. [III,14,35] Inoltre è scorretto dire: “Se noi vediamo bene a motivo dello stato di eccellenza di ciò grazie a cui vediamo e se noi udiamo bene a motivo dello stato di eccellenza di ciò grazie a cui udiamo; allora, per questo, noi viviamo bene a motivo dello stato di eccellenza di ciò grazie a cui viviamo, sicché la felicità sarebbe lo stato di eccellenza dell’animo poiché noi viviamo grazie all’animo”. Non è davvero per questo…

SVF III, 58

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXV, 2. Chi è saggio [III,14,40] è anche temperante, e chi è temperante è anche costante. Chi è costante è imperturbabile. Chi è imperturbabile [III,15,1] è al riparo dall’afflizione. Chi è al riparo dall’afflizione è beato: pertanto l’uomo saggio è beato e per una vita beata è sufficiente la saggezza.

[2] Chi è forte non ha timore. Chi non ha timore è al riparo dall’afflizione. Chi è al riparo dall’afflizione è beato.

SVF III, 59

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ V, 48. In verità quale uomo virtuoso [III,15,5] non riferisce tutto quel che fa e pensa a ciò ch’è degno di lode? Egli tutto riferisce al fine di vivere una vita beata; dunque, la vita beata è degna di lode, ma nulla privo di virtù è degno di lode; dunque, la vita beata è fatta di virtù. Alla stessa conclusione si giunge anche in questo modo. Nulla degno di credito o di cui gloriarsi c’è in una vita meschina, né in una vita [III,15,10] né meschina né beata; c’è però in qualche vita qualcosa degno di credito, di cui gloriarsi, degno di stima. […] Se è così, la vita beata è quella di cui gloriarsi, quella degna di credito e di stima; dunque, null’altro è degno di credito e di stima. Ciò posto, tu capisci cosa ne consegua. [III,15,15] Certo, se la vita beata non si identifica con la vita moralmente integra, è necessario che ci sia qualcos’altro che è meglio per una vita beata. Ma <gli Stoici> diranno certamente che l’integrità morale è questo meglio. Così esisterà qualcosa di meglio per la vita beata. Cosa si può dire di più perverso?

SVF III, 60

Cicerone ‘De finibus’ III, 43. Neppure è consentaneo […] che sia più beato chi possiede in maggior numero quei beni corporei che si stimano di gran valore. […] [III,15,20] Dato che si è stabilito che neppure l’abbondanza di quelli che noi stimiamo beni autentici basta a fare la vita più beata o più da richiedersi o di maggior valore, non c’è dubbio che ancora meno abbia a che vedere con la vita beata la moltitudine dei beni del corpo. Effettivamente, se sono da richiedersisia la salute sia la sapienza, e l’unione delle due sia da richiedersi più della sola sapienza, tuttavia, [III,15,25] se ambedue sono degne di stima, non è detto che l’unione delle due valga di più della sapienza presa separatamente. Noi infatti, pur giudicando la salute degna di stima, non la annoveriamo tra i beni, poiché non riteniamo il suo pregio tale da farla anteporre alla virtù. […] Come il lume [III,15,30] di una lucerna sbiadisce e s’attenua alla luce del sole; come si perdono una goccia di miele nell’immensità dell’Egeo; l’aggiunta di un teruncio alle ricchezze di Creso; un unico passo sulla via che porta da qui all’India: così una volta che il sommo bene sia quello che dicono gli Stoici, ogni valore delle cose corporee si oscura, si annulla e necessariamente svanisce al confronto [III,15,35] con lo splendore e la grandiosità della virtù.

SVF III, 61

Cicerone ‘De finibus’ IV, 30. A me sembra che gli Stoici scherzino quando dicono che, se alla vita vissuta virtuosamente s’aggiungessero un’ampolla o una strigile, il saggio sceglierebbe certo la vita con l’aggiunta di questi oggetti; [III,15,40] ben sapendo tuttavia che non sarebbe per ciò solo più beato.

SVF III, 62

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 211, 9. Così si potrebbe mostrare che ciascuna di quelle entità che i filosofi più recenti chiamano ‘indifferenti promossi’ è un possibile oggetto di scelta ed è un bene; giacché ciascuna di esse, se addizionata alla virtù, rende il complesso preferibile al saggio. La vita secondo virtù, infatti, è preferibile quando fosse associata a [III,15,45] salute, prosperità e buona reputazione, in quanto le cose che sono possibile oggetto di scelta e di fuga si determinano in base a ciò che il saggio sceglie o fugge.

SVF III, 63

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 161, 26 Bruns. [III,16,1] Le sensazioni stesse, se hanno il rango di entità necessarie affinché l’uomo sia uomo e non cooperano oltre alle attività della virtù, potrebbero avere il ruolo logico di ‘ciò senza di cui’. Se invece, in aggiunta ad essere necessarie all’uomo, [III,16,5] cooperano anche alle azioni e la virtù le sfrutta per le sue proprie attività (la rappresentazione è infatti crepidine delle azioni secondo virtù), allora esse non hanno, in rapporto alle attività virtuose, il ruolo logico di ‘ciò senza di cui’ come lo hanno il cielo, la terra, lo spazio e il tempo. Infatti, se noi ci attiveremo per operare secondo virtù qualunque sia il modo in cui stanno le sensazioni, o assentiremo anche alle [III,16,10] false rappresentazioni originate da siffatte sensazioni ed effettueremo quanto a ciò consegue (e come potrebbe questa essere attività da virtuoso?); oppure, se sospenderemo il giudizio e non daremo il nostro assenso, non effettueremo più nulla in funzione di esse e non ci attiveremo più per nulla.

SVF III, 64

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 160, 3 Bruns. Pertanto la virtù è non autosufficiente per la felicità, giacché o essa ha a che fare con la selezione [III,16,15] di ciò ch’è piacevole al modo di Epicuro, oppure con la selezione di ciò ch’è secondo natura, come reputano gli Stoici. […] Ma l’attività virtuosa è improduttiva di ciò ch’è secondo natura. E se tale attività ha a che fare con cose soggiacenti delle quali essa è improduttiva, allora la virtù è non autosufficiente nelle attività che le sono attinenti, giacché ha bisogno anche di entità esterne sulle quali estrinsecare la propria attività. E neppure, [III,16,20] come dicono, queste entità hanno il ruolo logico di ‘ciò senza di cui’, ma sono moventi della virtù e cause del praticarla attivamente. La virtù, infatti, le ha di mira come gli artisti hanno di mira il materiale ch’è loro proprio. Per questo si dice che le loro azioni sarebbero abolite se questi materiali non si tirassero addosso e non ne smuovessero, con le loro differenze, le virtù.

SVF III, 65

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 162, 32 Bruns. [III,16,25] Inoltre, se i comuni concetti circa la felicità la pongono nell’autosufficienza di vita (essi infatti prefigurano felice chi è senza bisogni) e concepiscono la felicità come l’estremo dei desiderabili (ma chiamano anche felicità il vivere secondo natura e la vita secondo natura; e oltre a ciò dicono che la felicità è [III,16,30] vivere bene, passar bene la vita e la buona vita); se, insomma, siffatta è la prefigurazione della felicità, allora la virtù è di per sé non sufficiente per questo, e dunque non potrebbe essere di per sé sufficiente per la felicità.

SVF III, 66

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 159, 33 Bruns. Se ogni arte fa qualcosa che è altro da se stessa e non se stessa, e la virtù è, secondo loro, [III,16,35] produttiva di felicità, allora la felicità sarebbe altro dalla virtù.

SVF III, 67

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 173, 11 W. Per chi afferma che la virtù è autosufficiente per la felicità consegue che il suicidio è non ragionevole e che né la salute né alcun’altra cosa può essere scelta al di fuori della virtù. Ciò dato, se qualcuna di queste affermazioni fosse inficiata, risulterebbe anche inficiato l’essere la virtù [III,16,40] autosufficiente per la felicità.

[III,17,1] ETHICA II.

Sui beni e sui mali

Frammenti n. 68-71

SVF III, 68

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1035c. Per contro, nelle sue ‘Questioni di Fisica’ <Crisippo dice>: “Non vi è altro né più appropriato modo [III,17,5] per affrontare il discorso sui beni e sui mali, sulle virtù e sulla felicità, che quello di prendere le mosse dalla natura delle cose e dal governo del cosmo”. E poi prosegue: “Giacché a questi bisogna collegare il discorso sui beni e sui mali non essendovi per essi altro fondamento né riferimento migliore, e non essendo [III,17,10] la teoria fisica da assumersi a motivo d’altro che per la separazione dei beni e dei mali”.

SVF III, 69

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1041e. Del ragionamento sui beni e sui mali che egli stesso introduce e valuta, <Crisippo> dice: “È perfettamente in armonia con la vita e quello che meglio si rifà alle prolessi innate”. [III,17,15] Così egli ha affermato nel terzo libro dei ‘Discorsi esortativi’.

SVF III, 70

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 57, 19 W. Delle cose che sono alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti. Beni sono cose di questo genere: saggezza, temperanza, giustizia, virilità e tutto ciò ch’è virtù o partecipa della virtù. Mali sono cose di questo genere: stoltezza, intemperanza, ingiustizia, viltà e tutto ciò ch’è vizio o [III,17,20] partecipa del vizio. Indifferenti sono cose di questo genere: vita, morte, reputazione, discredito, piacere fisico, dolore fisico, ricchezza di denaro, povertà di denaro, salute, malattia, e le cose simili a queste.

SVF III, 71

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 3. I seguaci dell’antica Accademia, i Peripatetici ed anche gli Stoici sogliono discriminare tra le cose che sono ed affermare che alcune di esse sono ‘beni’, altre ‘mali’ ed altre ancora cose frammezzo a queste, che essi chiamano [III,17,25] anche ‘indifferenti’.

§ 1. La nozione di bene

Frammenti n. 72-79

SVF III, 72

Cicerone ‘De finibus’ III, 33. Siccome i concetti delle cose si formano negli animi per esperienza, per collegamento, per somiglianza o per analogia, il concetto di bene si forma in noi in questo quarto ed ultimo modo, [III,18,1] giacché l’animo risale ad esso per via analogica, partendo dalle cose che sono secondo natura. Questo ‘bene’ è assoluto e non è una questione di grado, giacché il bene è riconosciuto e definito tale per caratteristiche sue proprie e non per comparazione con altre cose. Come il miele, per quanto sia dolcissimo, è di un dolce suo proprio non comparabile ad altri sapori dolci, [III,18,5] così il bene di cui parliamo è di pregio superlativo, ma tale pregio vale per qualità e non per quantità. Infatti il semplice valore, quello che i Greci chiamano ἀξία, non entra nel novero dei beni né dei mali, e per quanto lo si accresca continua a fare parte del suo genere. [III,18,10] Dunque il valore della virtù è tutt’altra cosa, essendo questione di genere, non di quantità.

SVF III, 73

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 3. Vi erano poi quelli dell’avviso che il bene è ciò che si sceglie per se stesso. Alcuni dicono così: ‘Bene è quanto soccorre per la felicità’. Altri: ‘Ciò ch’è completivo della felicità’. E la [III,18,15] felicità, come esplicitarono i seguaci di Zenone, di Cleante e di Crisippo, è il sereno fluire dell’esistenza.

SVF III, 74

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 69, 17 W. <Gli Stoici> affermano che il bene può essere espresso in più modi. Il primo, che ha rango come di fonte, può essere esplicitato così: [III,18,20] ‘Ciò da cui (esso, infatti, è primieramente causa) o per via di cui avviene di trarre giovamento’. Il secondo: ‘Ciò secondo cui avviene di trarre giovamento’. In un senso più comune ed esteso anche ai modi predetti: ‘Ciò ch’è tale da giovare’. Similmente essi affermano che anche il male può essere delineato in analogia col bene. ‘Ciò da cui o per via di cui avviene di essere danneggiati’. ‘Ciò secondo cui avviene di essere danneggiati’. E più genericamente [III,18,25] di questi: ‘Ciò ch’è tale da recare danno’.

SVF III, 75

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 22. Gli Stoici attenendosi ai concetti, come dire, comuni definiscono il bene in questo modo: ‘Bene è giovamento o non altro da giovamento’; e chiamano ‘giovamento’ la virtù e l’azione virtuosa, e ‘non altro da giovamento’ l’uomo virtuoso e l’amico. [III,18,30] Infatti, poiché istituisce l’egemonico in un certo modo di essere e poiché l’azione virtuosa è un’attività secondo virtù, la virtù è senza altre mediazioni ‘giovamento’. L’uomo virtuoso e l’amico, a loro volta, essendo anch’essi dei beni potrebbero essere chiamati né ‘giovamento’ né ‘non altro da giovamento’ per un motivo di questo genere. I seguaci degli Stoici, infatti, dicono che le parti sono né lo stesso degli interi né eterogenee agli interi. [III,18,35] Per esempio, la mano né è essa sola l’uomo intero, poiché la mano non è l’uomo intero, ma neppure è eterogenea all’intero, poiché l’uomo non è pensato come uomo nella sua interezza se non dotato di mano. Poiché dunque la virtù è parte sia dell’uomo virtuoso che dell’amico e le parti sono né identiche agli interi né altre dagli interi, si dice che l’uomo virtuoso e l’amico siano ‘non altro da giovamento’. Sicché [III,18,40] ogni bene è incluso nella definizione, sia che il ‘giovamento’ capiti per via diretta, sia che si tratti di ‘non altro da giovamento’. Da cui, per conseguenza, essi dicono che il bene può essere designato in tre modi e delineano ciascuno dei significati, di nuovo, secondo la sua peculiare accezione. In un primo senso essi affermano infatti che si dice bene ‘ciò per via di cui’ o ‘ciò da cui’ si può trarre giovamento, e questo era appunto il bene assolutamente originario e la virtù; poiché [III,19,1] da questa, come da un a fonte, scaturisce per natura ogni giovamento. In un altro senso essi chiamano bene ‘ciò secondo cui avviene di trarre giovamento’; e in questo modo saranno dette beni non soltanto le virtù ma anche le azioni secondo virtù, se appunto avviene di trarre giovamento anche in relazione ad esse. Nel terzo ed ultimo senso si dice [III,19,5] bene ‘ciò ch’è tale da giovare’, e questa esplicitazione include sia le virtù che le azioni virtuose, gli amici e gli uomini virtuosi, gli dei e i démoni virtuosi.

[2] XI, 30. Gli Stoici dispongono che nell’appellazione del ‘bene’ il secondo significato sia inclusivo del primo e che [III,19,10] il terzo abbracci i due precedenti.

[3] XI, 33. <Alcuni obiettano> che se davvero il bene è ‘ciò da cui si può trarre giovamento’, allora si deve dire che soltanto la generica virtù è bene e che ciascuna specifica virtù cade fuori dalla definizione. […] Per controbattere questa incolpazione <gli Stoici> dicono questo: “Qualora noi si affermi che [III,19,15] ‘bene è ciò da cui avviene di trarre giovamento’ diciamo questo intendendolo equivalente ad affermare che ‘bene è ciò da cui avviene di trarre giovamento in qualcuno dei casi della vita’. In questo modo ciascuna specifica virtù diventerà un bene, senza apportare genericamente il giovare ma procurando giovamento in qualcuno dei casi della vita: per esempio, una, come appunto la saggezza, l’essere saggi; un’altra, come [III,19,20] appunto la temperanza, l’essere temperanti.

SVF III, 76

Diogene Laerzio VII, 94. Il bene è, in generale, un qualche pro; e, in particolare, è lo stesso o non altro da giovamento. Onde la virtù stessa e il bene che di essa partecipa si possono chiamare in triplice modo: il bene [III,19,25] ‘da cui avviene di trarre giovamento’; quello ‘secondo cui avviene’, come nel caso dell’azione secondo virtù; quello ‘per via di cui’, come nel caso del virtuoso che partecipa della virtù. Un’altra particolare definizione che <gli Stoici> danno del bene è: ‘la perfezione secondo natura dell’animale logico in quanto logico’. Affermano poi che la virtù è tale che di essa partecipano sia le azioni virtuose che gli uomini virtuosi, e che ne risultano gioia, [III,19,30] letizia e cose similari. Allo stesso modo parlano dei mali. Mali sono la stoltezza, la viltà, l’ingiustizia e cose similari. Del male partecipano sia le azioni viziose sia gli individui insipienti e da esso risultano scoraggiamento, malanimo e cose simili.

SVF III, 77

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 40. Il ‘male’, infatti, è l’opposto del ‘bene’. [III,19,35] Il che significa che il ‘male’ è ‘danno’ oppure ‘non d’altro genere del danno’. Dire ‘danno’ è come dire ‘vizio’ e ‘azione insipiente’. Dire ‘non d’altro genere del danno’, è proprio come dire ‘persona insipiente’ e ‘nemico personale’.

SVF III, 78

Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 8, Vol. II, p. 226, 24 K. Se si dicesse ‘danno’ un moto o una quiete secondo il vizio, allora è manifesto che [III,19,40] nessun danno sfiorerebbe i sapienti.

SVF III, 79

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 90. […] della stoltezza, che i seguaci della Stoa affermano essere il solo male.

§ 2. Quale sia il bene

Frammenti n. 80-94

SVF III, 80

Simplicio ‘In Aristot. Phys.’ p. 1167, 21 Diels. È infatti possibile chiedere che la premessa mostri di per se stessa ciò che di per sé è non manifesto. Questo capita o senza altre mediazioni e allorché si valuti con chiarezza quello che abbiamo davanti, come facciamo noi dicendo [III,20,5] che certi beni non rendono gli uomini subito virtuosi: per esempio, le facoltà, le quali possono essere utilizzate bene o male. Infatti una facoltà buona sia per una cosa che per il suo contrario, non fa virtuoso se non colui che la usa bene. Gli Stoici, invece, levano questo di mezzo e dicono che ‘tutto ciò ch’è bene rende virtuosi’ e lo prendono come premessa.

SVF III, 81

Seneca ‘Epistulae morales’ XLV, 10. (L’uomo stolto) giudica necessarie cose [III,20,10] che in gran parte sono assolutamente superflue e che, quand’anche non fossero tali, non hanno alcuna capacità di renderlo beato e fortunato. Se una cosa è necessaria non per questo è subito buona; altrimenti degradiamo il bene, dando questo nome al pane, alla polenta e ad altre cose senza le quali ci è impossibile vivere. Ciò che è buono è in ogni caso necessario, ma [III,20,15] ciò che è necessario non sempre è buono, dato che certe cose sono necessarie pur essendo vilissime.

SVF III, 82

Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 62, Vol. II, p. 278, 15 K. Se Celso ha precisato il concetto di utile ed ha visto che utile è principalmente la virtù e l’azione secondo virtù…

SVF III, 83

Diogene Laerzio VII, 100. <Gli Stoici> [III,20,20] chiamano bello il perfetto bene perché ha tutti i numeri che la natura a questo fine ricerca o perché è perfettamente proporzionato. Quattro sono le specie del bello: ciò ch’è giusto, virile, composto, scientifico; giacché è sotto queste forme che si portano a compimento le azioni belle. Analogamente anche del brutto vi sono quattro specie: ciò ch’è ingiusto, [III,20,25] vile, scomposto, stolto. Essi chiamano poi bello unicamente il bene che rende lodevoli coloro che l’hanno, oppure il bene degno di lode. In altro senso bello è la buona attitudine naturale per la propria opera; altrimenti, ancora, è ciò che ornamenta, come quando diciamo che solo il sapiente è buono e bello.

SVF III, 84

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CVI, 2. Tu sai che è mia intenzione [III,20,30] abbracciare tutta la filosofia morale e risolvere tutte le questioni ad essa pertinenti. Per questo sono stato indeciso se farti attendere finché venisse il momento opportuno per questa trattazione, oppure darti soddisfazione al di fuori di ogni ordine. Mi è parso più gentile non far attendere ulteriormente chi viene da così lontano. Pertanto stralcerò tale trattazione dall’ordine delle questioni, e se ve ne saranno altre dello stesso genere te ne scriverò senza bisogno che tu me lo richieda. Tu mi domandi di quali questioni si tratti? Si tratta di materia che tanto più è bene conoscere quanto più la sua conoscenza ci reca giovamento; [III,20,35] come la questione che tu poni: il bene è un corpo? Il bene ha un effetto e difatti reca giovamento. Ora, ciò che ha un effetto è un corpo. Il bene mette in moto l’animo e in un certo senso gli dà forma e lo mantiene, il che è proprio di un corpo. I beni di un corpo sono corpi, dunque anche quelli dell’animo lo sono. Pertanto anche l’animo è corpo. [III,20,40] Necessariamente il bene dell’uomo è corpo, perché l’uomo stesso è corporeo. Io sto mentendo se dico che ciò che lo nutre, lo tiene in salute e lo risana non è corpo. Dunque anche il suo bene è corpo. Tanto per inserire nel discorso un argomento da te non richiesto, non dubiterai, io penso, che siano corporee anche emozioni come l’ira, l’amore e la tristezza; [III,21,1] e se ne dubiti, guarda come alterino le nostre sembianze, facciano corrugare la fronte e distendere il volto, ci facciano arrossire o impallidire. Allora, effetti così evidenti su un corpo, che altro credi possa causarli se non un corpo? E se le emozioni sono corpi, lo sono anche le malattie dell’animo come l’avarizia, la crudeltà, i vizi incalliti ed ormai non più correggibili, [III,21,5] e quindi anche la malvagità in tutte le sue forme: la malignità, l’invidia, la superbia; e saranno corpi anche i beni, in primo luogo perché sono il contrario dei mali e poi perché te ne offriranno gli stessi indizi. Non vedi quanto vigore dà allo sguardo la fortezza? E quale acutezza dà la saggezza? Quale modestia e quale pacatezza il ritegno? Quale serenità la letizia? Quanto rigore la severità? [III,21,10] Quanta indulgenza la mitezza? Dunque sono corpi quelli che cambiano colore e forma ai corpi, che esercitano il loro potere su di essi. Ebbene, ogni virtù che ho citato è un bene, e anche tutte le conseguenze che seguono ad esse sono tali. Puoi dubitare che sia corpo ciò che è suscettibile di contatto? […] Tutte le realtà che ho menzionato non cambierebbero un corpo se non venissero a contatto con esso: dunque sono corpi. Inoltre anche quelle realtà che hanno la forza di impellere, costringere, trattenere e determinare sono corpi. [III,21,15] Ebbene, forse che la paura non trattiene, o che l’audacia non impelle, o che il coraggio non stimola e non dà slancio? Non è forse vero che la moderazione ci frena e ci trattiene, e che la gioia ci risolleva mentre la tristezza ci deprime? E poi, ogni nostra azione è sotto il dominio o del vizio o della virtù: [III,21,20] quello che ha il dominio su un corpo è corpo e, parimenti, è corpo quello che ha effetto su un corpo. Il bene del corpo è corporeo. Il bene dell’uomo è anche il bene di un corpo: e dunque è corporeo.

[2] Plutarco ‘De superstitione’ p. 165a. Per contro, alcuni credono che la virtù e il vizio siano corpi.

[3] Tertulliano ‘De anima’ cp. 6. Gli Stoici affermano giustamente [III,21,25] che anche le arti sono corpi.

SVF III, 85

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1042e-f. Crisippo ammette che beni e mali siano del tutto differenti; e ciò è necessario <se i mali rendono subito estremamente infelici coloro ai quali si presentano mentre i beni, invece, li rendono felici al massimo grado>. Inoltre egli afferma che beni e mali sono entità sensibili, scrivendo nel primo dei due libri [III,21,30] ‘Sul sommo bene’: “Che beni e mali siano entità sensibili è possibile affermarlo anche sulla base di queste considerazioni. Non soltanto, infatti, le passioni sono entità sensibili nelle loro specie, come l’afflizione, la paura e cose similari; ma è possibile accorgersi anche della ruberia, dell’adulterio e cose simili; e, in generale, accorgersi della stoltezza, della viltà e di altri non pochi vizi; e non soltanto della gioia, dei benefici [III,21,35] e di molte altre azioni rette, ma anche della saggezza, della virilità e delle restanti virtù”.

[2] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1062c. Secondo gli Stoici, infatti, esso non è per natura impercepibile; e Crisippo afferma in termini precisi nei [III,21,40] libri ‘Sul sommo bene’ che il bene è un’entità sensibile e, com’egli crede, lo dimostra anche.

SVF III, 86

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 69, 11 W. <Gli Stoici affermano che> tutti i beni sono giovevoli, profittevoli, utili, vantaggiosi, virtuosi, confacenti, [III,22,1] belli ed appropriati. Al contrario i mali sono tutti dannosi, incomodi, sconvenienti, svantaggiosi, infausti, non confacenti, vergognosi ed inappropriati.

SVF III, 87

Diogene Laerzio VII, 98. Ogni bene è utile, è un dovere, è vantaggioso, proficuo, profittevole, bello, giovevole, sceglibile e [III,22,5] giusto. Utile perché porta cose tali che, quando avvengono, noi ne traiamo giovamento. È un dovere perché fa stare uniti in ciò che bisogna. Vantaggioso perché compensa le spese per esso affrontate, così da superare in giovamento ciò che si scambia nella sua trattazione. Proficuo perché procura l’utilità del giovamento. Profittevole perché rende questa utilità lodevole. Bello perché è ben proporzionato [III,22,10] al proprio uso. Giovevole perché è tale da giovare. Sceglibile perché è tale che la sua scelta è ragionevole. Giusto perché è in armonia con la legge e produttivo di socialità.

SVF III, 88

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 72, 19 W. Ogni bene è scelto giacché vi è in esso del gradito, del valutato positivamente, del lodato. Ogni male, invece, è fuggito. [III,22,15] Infatti il bene, in quanto muove una scelta ragionevole, è scelto; in quanto giunge alla scelta senza sospetti, è gradito; <in quanto…valutato>; e, poi, in quanto lo si concepirebbe a ragion veduta essere una delle cose che discendono della virtù, lodato.

SVF III, 89

Stobeo ‘Eclogae’ II, 78, 7. <Gli Stoici> affermano che vi è differenza tra lo ‘astrattamente scelto’ e [III,22,20] il ‘da scegliersi concretamente’. ‘Astrattamente scelto’ è ogni bene; ‘da scegliersi concretamente’ è ogni giovamento, il quale è chiaramente risaputo essere connesso al bene. Perciò noi scegliamo il ‘da scegliersi concretamente’: per esempio, l’essere saggi, che è chiaramente risaputo essere connesso alla saggezza. Non scegliamo invece lo ‘astrattamente scelto’, ma semmai scegliamo di possederlo. Similmente, tutti i beni sono astratte possibilità di ‘reggere gli eventi’ e di ‘mantenersi fedeli alla ragione’ ed il discorso è analogo per le altre virtù, [III,22,25] se pure non le si nomina una per una. Tutti i giovamenti, a loro volta, sono pratica concreta di ‘reggere gli eventi’ e di ‘mantenersi fedeli alla ragione’. E lo stesso discorso vale per le altre condizioni attinenti ai vizi.

SVF III, 90

Stobeo ‘Eclogae’ II, 98, 7 W. Similmente essi dicono che tutti i beni sono astratte possibilità di ‘reggere gli eventi’ e di ‘mantenersi fedeli alla ragione’ ed il discorso è analogo per le altre virtù, se pure non le si nomina una per una. Tutti i giovamenti, a loro volta, sono dovere concreto di ‘reggere gli eventi’ e di ‘mantenersi fedeli alla ragione’, e così via. [III,22,30] Allo stesso modo concepiscono che vi sia differenza tra lo ‘astrattamente trattato con cautela’ e il ‘da trattarsi con cautela concretamente’; tra gli eventi ‘astrattamente impossibili da reggere’ e quelli ‘da non reggersi concretamente’. Lo stesso discorso vale per le altre condizioni attinenti ai vizi.

SVF III, 91

Stobeo ‘Eclogae’ II, 97, 15 W. Essi affermano che come differiscono lo ‘astrattamente scelto’ e il ‘da scegliersi concretamente’, così differiscono lo ‘astrattamente desiderato’ e il ‘da desiderarsi concretamente’; il ‘deciso in astratto’ e il ‘deciso [III,22,35] in concreto’; lo ‘astrattamente approvato’ e il ‘da approvarsi concretamente’. I beni sono ‘astrattamente scelti’, ‘decisi in astratto’, ‘astrattamente desiderati’, ‘astrattamente approvati’, mentre i giovamenti sono ‘da scegliersi concretamente’, ‘da decidersi in concreto’, ‘da desiderarsi concretamente’ e ‘da approvarsi concretamente’, essendo predicati connessi ai beni. Ed essi dicono che noi scegliamo il ‘da scegliersi concretamente’, decidiamo il ‘da decidersi in concreto’ e desideriamo il ‘da desiderarsi concretamente’. Le scelte, i desideri, [III,22,40] e le decisioni razionali sono tali dei predicati, come pure gli impulsi; tuttavia noi scegliamo, decidiamo e similmente desideriamo di possedere i beni, e perciò i beni sono anche ‘scelti concretamente’, ‘decisi nel concreto’ e ‘desiderati concretamente’. Noi, infatti, scegliamo di possedere la saggezza e la temperanza [III,23,1] e non, per Zeus, l’essere saggi e temperanti quando questi siano dei predicati incorporei.

SVF III, 92

Diogene Laerzio VII, 101. <Gli Stoici> reputano che tutti i beni siano pari, che ogni bene sia sceglibile in sommo grado e che esso non sia suscettibile né di attenuazione né di intensificazione.

SVF III, 93

Cicerone ‘De finibus’ III, 69. Affinché si conservi la socialità, la solidarietà, [III,23,5] la relazione dell’uomo con l’uomo che prescinde dal denaro, gli Stoici vollero che fossero comuni i profitti e le perdite, quelli che i Greci chiamano ὠφελήματα e βλάμματα: di essi i primi giovano, le seconde danneggiano; e li definirono non soltanto comuni ma anche pari. Invece le opportunità e le difficoltà che i Greci chiamano εὐχρηστήματα e δυσχρηστήματα [III,23,10] li vollero sì comuni, ma non pari. Infatti le realtà che giovano e che danneggiano sono o beni o mali e sono quindi necessariamente pari; invece le opportunità e gli difficoltà sono del genere che noi chiamiamo del promosso e del ricusato e possono essere non pari. [III,23,15] E se diciamo comuni i profitti e le perdite, le azioni rette e quelle malvage tali non sono.

SVF III, 94

Stobeo ‘Eclogae’ II, 95, 3 W. I beni sono comuni anche in un altro modo, giacché <gli Stoici> legittimano in ogni caso l’idea che chi reca giovamento a chiunque sia tragga per sé, da ciò stesso, pari giovamento; e che nessun insipiente né riceva né rechi giovamento. Recare giovamento, infatti, è trovarsi in postura virtuosa e ricevere giovamento è muoversi [III,23,20] secondo virtù.

§ 3. I tipi di bene

Frammenti n. 95-116

SVF III, 95

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 58, 5 W. Dei beni alcuni sono virtù, altri no. Dunque la saggezza, la temperanza, <la giustizia>, la virilità <la magnanimità, la vigoria e potenza d’animo> sono virtù. Invece la gioia, [III,23,25] la letizia, il coraggio, la decisione razionale e le cose similari non sono virtù. Delle virtù alcune sono scienza ed arte di qualcosa, altre no. Saggezza, temperanza, giustizia e virilità sono scienza ed arte di certe cose. Invece magnanimità, vigoria e potenza d’animo sono né scienza né arte di qualcosa. Analogamente anche dei mali alcuni sono [III,23,30] vizi, altri no. Stoltezza, ingiustizia, viltà, piccineria, impotenza d’animo sono vizi. Invece afflizione, paura e le cose similari non sono vizi. Dei vizi alcuni sono ignoranza e imperizia per certe cose, altri no. Stoltezza, impudenza, ingiustizia e viltà sono ignoranza e imperizia per certe cose. Piccineria, impotenza d’animo, [III,23,35] <debolezza> sono né ignoranza né imperizia per certe cose.

SVF III, 96

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 59. I seguaci della Stoa affermano anch’essi che capita di incontrare tre generi di beni, ma non li classificano allo stesso modo. Dei beni, infatti, alcuni sono beni attinenti all’animo; alcuni sono esterni; alcuni non attengono né all’animo né agli oggetti esterni, poiché essi estirpano dal novero dei beni il genere di beni attinenti al corpo in quanto li dichiarano non beni. Essi dicono che i [III,23,40] beni attinenti all’animo sono le virtù e le azioni virtuose. Beni esterni sono l’amico, l’uomo virtuoso, i figlioli e i genitori virtuosi, e cose simili. Bene attinente né agli oggetti esterni né all’animo è [III,24,1] l’uomo virtuoso stesso nei confronti di se stesso, giacché egli non può essere né un bene esterno a se stesso né un bene attinente all’animo, dal momento che consiste di animo e di corpo.

SVF III, 97

Stobeo ‘Eclogae’ II, 70, 8 W. Dei beni alcuni attengono all’animo, alcuni sono esterni, alcuni non attengono né all’animo né agli oggetti esterni. Beni attinenti all’animo sono [III,24,5] la virtù, le sue abituali posture virtuose e, in generale, le attività lodevoli. Beni esterni sono gli amici, i conoscenti e cose similari. Beni attinenti né all’animo né esterni sono i virtuosi e, in generale, i dotati di virtù. Similmente, anche dei mali alcuni attengono all’animo, alcuni sono esterni, alcuni non attengono né all’animo né agli oggetti esterni. Mali attinenti all’animo sono i vizi insieme con le sue abituali posture [III,24,10] depravate e, in generale, le attività denigrabili. Mali esterni sono i nemici personali di tutte le specie. Mali attinenti né all’animo né esterni sono gli insipienti e tutti coloro che sono affetti dai vizi.

SVF III, 97a

Diogene Laerzio VII, 95. Inoltre, dei beni alcuni attengono all’animo, alcuni sono esterni, alcuni non attengono né all’animo né agli oggetti esterni. Beni attinenti all’animo sono le [III,24,15] virtù e le azioni secondo virtù. Beni esterni sono l’avere una patria virtuosa, un amico virtuoso e la loro felicità. Bene né esterno né attinente all’animo è l’essere l’uomo per se stesso virtuoso e felice. All’opposto, anche dei mali, quelli che attengono all’animo sono i vizi e le azioni viziose. Mali esterni sono l’avere una patria stolta, un amico stolto e la [III,24,20] loro infelicità. Male né esterno né attinente all’animo è l’essere l’individuo per se stesso insipiente ed infelice.

SVF III, 98

Stobeo ‘Eclogae’ II, 94, 21 W. Dell’amicizia si parla in triplice modo. Il primo modo è quello che trae motivo dal comune giovamento e in relazione al quale gli amici si dicono tali. Ebbene <gli Stoici> affermano che questa amicizia non rientra nel novero dei beni poiché, secondo loro, non si dà [III,24,25] bene alcuno da parti disparate. Essi poi affermano essere nel novero dei beni attinenti agli oggetti esterni quella che viene chiamata amicizia nel secondo significato, ossia la generica relazione amichevole verso il prossimo. Dichiarano infine essere nel novero dei beni attinenti all’animo l’amicizia per qualcuno in persona, conforme alla quale uno è amico del prossimo.

SVF III, 99

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXIV, 22. Infatti, tra i beni voi annoverate dei figli devoti, una patria ben governata [III,24,30] e dei buoni genitori.

SVF III, 100

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CII, 3. Io mi sforzavo di provare una tesi cara a quelli della nostra Scuola, e cioè che la rinomanza che tocca ad uno dopo la morte è un bene.

[2] La rinomanza è l’opinione favorevole dei galantuomini.

[3] La rinomanza è la lode resa dai galantuomini ad un galantuomo.

SVF III, 101

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 74, 15 W. Inoltre, [III,24,35] dei beni alcuni sono pretti, ad esempio la scienza; altri sono misti, ad esempio: buona figliolanza, buona vecchiaia, buona vita. Buona figliolanza è un uso virtuoso di figlioli che vivono secondo natura. Buona vecchiaia è un uso virtuoso della vecchiaia trascorsa secondo natura; e similmente <si può dire della> buona vita.

SVF III, 102

Diogene Laerzio VII, 98. Genericamente intesi, dei beni sono beni misti [III,24,40] la buona figliolanza e la buona vecchiaia; la scienza, invece, è un bene schietto. Le virtù sono <beni> sempre presenti; non sempre presenti sono invece, per esempio, la gioia o una passeggiata filosofica.

SVF III, 103

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 68, 24 W. Inoltre, dei beni alcuni sono propri di tutti i saggi e lo sono sempre, mentre altri no. Virtù, saggia sensazione, [III,25,1] saggio impulso e beni simili sono propri di tutti i saggi e in ogni occasione. Invece gioia, letizia, una saggia passeggiata filosofica sono propri né di tutti i saggi né appartengono loro sempre. Lo stesso discorso vale per i mali, alcuni dei quali sono propri di tutti gli stolti e lo sono sempre, mentre altri no. Dunque [III,25,5] ogni vizio, stolta sensazione, stolto impulso e cose similari sono proprie di tutti gli stolti e lo sono sempre. Invece afflizione, paura, una stolta risposta non sono proprie di tutti gli stolti né in ogni occasione.

SVF III, 104

Stobeo ‘Eclogae’ II, 70, 21 W. Dei beni attinenti all’animo alcuni sono disposizioni, alcuni sono posture abituali e non disposizioni, alcuni sono né posture abituali [III,25,10] né disposizioni. Sono disposizioni d’animo tutte le virtù. Soltanto posture abituali e non disposizioni d’animo sono le occupazioni, come la mantica e cose similari. Né posture abituali né disposizioni d’animo sono le attività virtuose, per esempio, l’esercizio della saggezza, l’impossessarsi della temperanza e cose similari. Similmente, anche dei mali attinenti all’animo alcuni sono disposizioni, alcuni sono posture abituali e non disposizioni, alcuni sono né [III,25,15] posture abituali né disposizioni d’animo. Sono disposizioni d’animo tutti i vizi. Soltanto posture abituali le proclività, per esempio, quella all’invidia, quella all’afflizione e simili; e, ancora, gli stati morbosi e le infermità morali, per esempio, l’amore del denaro, l’avvinazzarsi e cose similari. Né posture abituali né disposizioni dell’animo sono le attività viziose, per esempio, la demenzialità, l’iniquità e cose a queste similari.

SVF III, 105

Diogene Laerzio VII, 98. Inoltre, [III,25,20] dei beni attinenti all’animo alcuni sono posture abituali, alcuni sono disposizioni, alcuni né posture abituali né disposizioni. Disposizioni d’animo sono le virtù, posture abituali sono le occupazioni, né posture abituali né disposizioni dell’animo sono le attività.

SVF III, 106

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 71, 15 W. Dei beni alcuni sono finali, [III,25,25] alcuni sono fattitivi, alcuni sono entrambe le cose. Dunque, l’uomo saggio e l’amico sono beni solo fattitivi. Invece gioia, letizia, coraggio, una saggia passeggiata filosofica sono beni finali. Tutte le virtù sono beni sia finali che fattitivi giacché sono generative e completive della felicità, essendone parte. Analogamente, [III,25,30] dei mali alcuni sono fattivi di infelicità, alcuni sono finali, alcuni sono entrambe le cose. Dunque, l’uomo stolto e il nemico personale sono mali solo fattitivi. Afflizione, paura, ruberia, una domanda stolta e simili sono mali solo finali. I vizi sono mali sia fattitivi che finali, giacché sono generativi e completivi dell’infelicità, essendone parte.

SVF III, 107

Diogene Laerzio VII, 96. Inoltre, [III,25,35] dei beni alcuni sono finali, alcuni sono fattitivi, alcuni sono finali e fattitivi. Dunque l’amico ed i giovamenti che da lui provengono sono beni fattitivi. Coraggio, elevatezza d’animo, libertà, diletto, letizia, dominio sull’afflizione e ogni azione virtuosa sono beni finali. Le virtù sono beni [III,25,40] fattitivi e finali giacché, in quanto hanno come risultato la felicità, sono beni fattitivi; in quanto ne sono completivi, così da esserne parte, sono beni finali. [III,26,1] Similmente, anche dei mali alcuni sono finali, alcuni sono fattitivi, alcuni sono entrambe le cose. Il nemico personale e i danni che da lui derivano sono mali fattitivi. Sgomento, servilismo, servitù, insoddisfazione, scoraggiamento, corruccio e ogni azione viziosa sono mali finali. [III,26,5] I vizi sono mali sia fattitivi che finali dacché, in quanto hanno come risultato l’infelicità, sono mali fattitivi e in quanto ne sono completivi, così da esserne parte, sono mali finali.

SVF III, 108

Cicerone ‘De finibus’ III, 55. Successivamente <gli Stoici> suddividono i beni in questo modo: beni finali (chiamo così quelli che i Greci chiamano τελικά); beni fattitivi, in greco ποιητικά; beni sia finali che fattitivi. [III,26,10] Beni finali sono soltanto le azioni moralmente integre; unico bene fattitivo è l’amico; bene sia finale che fattitivo è, a loro parere, solo la saggezza. Infatti la saggezza, in quanto ‘azione conveniente’ rientra nel genere dei beni finali; e in quanto induce ad effettuare azioni moralmente integre, si può chiamare [III,26,15] bene fattitivo.

SVF III, 109

Stobeo ‘Eclogae’ II, 72, 14 W. Inoltre, dei beni alcuni sono scelti per se stessi, alcuni sono fattitivi. Pertanto, quanti ricadono nell’ambito di una scelta ragionevole a motivo di null’altro, sono scelti per se stessi. Quanti, invece, lo sono come preparatori di certi altri beni, sono detti fattitivi.

SVF III, 110

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VI, 12, p. 789 Pott. Ora, [III,26,20] l’individuo di natura malvagia, una volta divenuto soggetto ad aberrare per via di un vizio, si ritrova ad essere un insipiente che ha il vizio che si è scelto volontariamente. Ed essendo soggetto ad aberrare, sbaglia anche nelle azioni; mentre, al contrario, l’uomo virtuoso agisce rettamente. Perciò chiamiamo beni non soltanto le virtù ma anche le belle azioni. Dei beni, poi, sappiamo che alcuni sono scelti per se stessi, [III,26,25] come il conoscimento; oltre il quale non diamo la caccia ad altro, quand’esso sia presente o soltanto che sia presente. Alcuni beni, invece, <sono scelti> in vista di altri…

SVF III, 111

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 73, 1 W. Dei beni, alcuni sono beni di moto; alcuni, invece, sono beni di quiete. Di moto sono beni quali la gioia, la letizia, la conversazione morigerata. Di quiete sono invece beni quali la disciplinata tranquillità, la permanenza in una condizione di [III,26,30] assenza di sconcerto, l’attenzione virile. Dei beni di quiete alcuni, per esempio, le virtù, sono anche di postura abituale dell’animo; alcuni, invece, sono soltanto di quiete, come quelli detti. Beni di postura abituale dell’animo sono non soltanto le virtù ma anche le arti, che nell’uomo virtuoso ad opera della virtù diventano altro e divengono immutabili come se fossero virtù. <Gli Stoici> dicono anche che nel novero dei beni di postura abituale rientrano pure [III,26,35] quelle che si chiamano occupazioni, per esempio, l’amore per le Muse, per la letteratura, per la geometria e cose similari. Giacché passa attraverso queste arti una certa strada la quale è capace di farci selezionare cose appropriate alla virtù e di farcele riferire al sommo bene della vita.

SVF III, 112

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 74, 16 W. Inoltre, dei beni alcuni sono beni di per sé, alcuni sono invece modalità di relazione. Beni di per sé sono la scienza, [III,26,40]la pratica della giustizia e simili. Relativi sono invece onori, benevolenza, amicizia, armonia. La scienza è apprensione certa e sicura la cui immutabilità è a prova di ragionamento. In un altro senso, la scienza è l’insieme di conoscenze scientifiche del genere della logica particolare che alberga nel virtuoso. In un altro senso ancora, essa è l’insieme di tecniche [III,27,1] scientifiche che trae da sé la propria saldezza, come vale per le virtù. In altro senso, la scienza è una postura ricettiva delle rappresentazioni, la cui immutabilità è a prova di ragionamento e che <gli Stoici> dicono consistere nel tono e nella potenza dell’animo. L’amicizia è comunanza di vita. L’armonia è somiglianza di giudizi circa le vicende della vita. Dell’amicizia, inoltre, la familiarità è amicizia tra [III,27,5] persone che si conoscono; la consuetudine, amicizia tra amici consueti; la compagnia, amicizia per scelta, come fosse tra pari età; l’accoglienza ospitale, amicizia per i forestieri. Vi è anche un’amicizia per consanguineità, che è quella tra congeneri; e un’amicizia erotica, che viene dalla passione amorosa. Il dominio sull’afflizione e la disciplina sono identiche alla temperanza; mente e buonsenso alla saggezza; la postura generosa e liberale dell’animo alla probità. Queste cose [III,27,10] furono così denominate dalla loro modalità di relazione, il che è doveroso osservare anche circa le altre virtù.

SVF III, 113

Stobeo ‘Eclogae’ II, 77, 6. Dei beni alcuni sono necessari per la felicità, altri no. Necessarie sono tutte le virtù e le attività che le utilizzano. Non necessarie sono la gioia, la letizia, occupazioni e mestieri. Similarmente anche dei mali, alcuni sono necessari come mali generativi d’infelicità, altri sono non necessari. Necessari sono tutti i vizi e le attività che ne discendono. [III,27,15]Non necessarie sono tutte le passioni, le infermità e gli stati a queste similari.

SVF III, 114

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 7, p. 853 Pott. Alcuni beni, dunque, sono beni in sé e per sé; altre cose, invece, partecipano dei beni, come [III,27,20] diciamo che ne partecipano le belle azioni. Certo, senza l’esistenza delle cose intermedie che ricoprono il ruolo di materiale, non sussistono azioni né buone né cattive; dico, per esempio, la vita, la salute e altre cose necessarie o circostanziali.

SVF III, 115

Seneca ‘Epistulae morales’ LXVI, 5. Il primo giorno il quesito era questo: come possono i beni essere equivalenti se sono legati a tre condizioni diverse? Alcuni di questi, secondo i nostri amici, sono beni primari: come la gioia, [III,27,25] la pace, la prosperità della patria. Altri sono beni legati ad una seconda condizione, e sono quelli che si manifestano nelle avversità, come la sopportazione delle torture e l’autocontrollo in una grave malattia. Il primo tipo di beni è senz’altro desiderabile, il secondo solo in caso di necessità. Esistono anche beni legati ad una terza condizione: come un portamento modesto, un volto che esprime onestà e decoro, e un modo di fare che si addice all’uomo per bene. [III,27,30]

SVF III, 116

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 177, I, p. 152, 14 Wendl. A <Giacobbe> è gradito che sia [III,27,35] ‘Colui che è’ in persona a dargli i beni cardinali, e che invece siano gli angeli e le sue parole a dargli i beni secondari. E beni secondari sono quanti includono lo scampo dai mali.

ETHICA III.

Sugli indifferenti

§ 1. La nozione di indifferente

Frammenti n. 117-123

SVF III, 117

[1] Diogene Laerzio VII, 102. Delle cose che sono, <gli Stoici> dicono che alcune [III,28,5] sono beni, alcune sono mali e alcune sono né beni né mali. [Beni sono, dunque, le virtù: saggezza, giustizia, virilità, temperanza, eccetera. Mali sono gli opposti: stoltezza, ingiustizia, eccetera.] Né bene né male sono tutte quelle cose che né giovano né danneggiano; per esempio, vita, salute, piacere fisico, avvenenza, potenza del corpo, ricchezza di denaro, celebrità, nobiltà di stirpe; e i loro opposti: morte, malattia, dolore fisico, laidezza, debolezza, povertà di denaro, discredito, umili origini e le cose a queste similari; secondo quanto affermano Ecatone nel settimo libro ‘Sul sommo bene’, Apollodoro ne [III,28,10] ‘L’etica’, e Crisippo. Questi, infatti, sono non beni ma ‘indifferenti’ appartenenti alla specie delle cose ‘promosse’. Giacché come è proprio del caldo il riscaldare e non il raffreddare, così è proprio del bene il giovare e non il danneggiare. La ricchezza di denaro e la salute non giovano più di quanto danneggiano e pertanto né la ricchezza di denaro né la salute sono beni. Essi inoltre affermano che ciò di cui è possibile un uso buono o cattivo[III,28,15] non è un bene. E siccome della ricchezza di denaro e della salute è possibile fare un uso buono o cattivo, ecco che né la ricchezza di denaro né la salute sono beni.

[2] Diogene Laerzio VII, 104. Giovare è muoversi secondo virtù o trovarsi in postura virtuosa. Danneggiare è muoversi secondo vizio o trovarsi in postura viziosa.

SVF III, 118

Stobeo ‘Eclogae’ II, 79, 1 W. Gli Stoici chiamano ‘indifferenti’ le cose che stanno frammezzo [III,28,20] ai beni e ai mali ed affermano che l’indifferente può essere pensato in due modi. Secondo un modo, ‘indifferente’ è ciò ch’è né bene né male, né scelto né fuggito. Secondo un altro modo, ‘indifferente’ è ciò ch’è motore né di impulso né di repulsione. In questo senso alcune cose sono anche dette ‘definitivamente indifferenti’: per esempio, l’avere in testa un numero pari o dispari di capelli, oppure il porgere il dito così o cosà, oppure il [III,28,25] levare di mezzo qualche intralcio, un fuscello o del fogliame. Nel primo senso, bisogna dire che si chiamano indifferenti le cose che stanno frammezzo alla virtù e al vizio […] non tuttavia per una loro selezione ed un loro scarto, giacché alcune di esse hanno un valore che le fa selezionare, altre un disvalore che le fa scartare, ma perché non conferiscono alcunché alla vita felice.

SVF III, 119

Diogene Laerzio VII, 104. Le cose sono dette ‘indifferenti’ in un duplice senso. Nel primo, [III,28,30] si chiamano indifferenti le cose che non cooperano né alla felicità né all’infelicità, com’è il caso della ricchezza di denaro, della reputazione, della salute, della potenza del corpo e simili. Infatti è fattibile essere felici anche senza queste cose, [III,29,1] essendo la qualità dell’uso di esse ad arrecare felicità oppure infelicità. Diversamente, si chiamano ‘indifferenti’ le cose che sono motori né di impulso né di repulsione, com’è il caso per l’avere in testa un numero pari o dispari di capelli, oppure per il protendere o serrare il dito. Non è questo il senso in cui sono dette indifferenti le cose menzionate per prime [III,29,5] giacché quelle sono motori di impulso e di repulsione, e ciò fa sì che alcune di esse siano selezionate positivamente ed altre scartate; mentre queste altre sono neutrali rispetto allo sceglierle o al fuggirle.

SVF III, 120

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXII, 15. Ma anche tra le cose che chiamiamo indifferenti o medie, caro Lucilio, vi sono grandi differenze. Ad esempio, la morte non è un indifferente paragonabile all’avere un numero [III,29,10] pari o dispari di capelli.

SVF III, 121

Stobeo ‘Eclogae’ II, 82, 5. Inoltre, essi dicono che degli ‘indifferenti’ alcuni sono motori di impulso, alcuni di repulsione, alcuni né di impulso né di repulsione. Motori di impulso, dunque, sono proprio quegli ‘indifferenti’ che dicevamo essere secondo natura; e di repulsione, invece, tutti quelli contro natura; né di impulso né di repulsione quelli che sono né secondo né contro natura, come l’avere i capelli [III,29,15] in numero pari o dispari.

SVF III, 122

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 59. Gli Stoici affermano che la salute non è un bene ma un ‘indifferente’ e credono che dell’indifferente si possa parlare in tre modi. Il primo modo è quello di applicare il termine ‘indifferente’ a ciò verso cui si provano né impulso né repulsione; per esempio, l’essere le stelle o i capelli [III,29,20] sulla testa in numero pari o dispari. Il secondo modo è quello di applicarlo a ciò verso cui si provano impulso e repulsione, ma non più verso questo che verso quest’altro. Per esempio, qualora ci sia bisogno, tra due dracme indistinguibili per conio e brillantezza, di scegliere per noi una delle due; giacché vi è allora in noi un impulso per una, ma non più per questa che per quella. Nel terzo ed ultimo modo, essi chiamano ‘indifferente’ ciò che soccorre né per la [III,29,25] felicità né per l’infelicità. In accordo con questo significato essi dicono che la salute, la malattia, tutto quanto è corporale e la maggior parte degli oggetti esterni si trovano ad essere ‘indifferenti’, avendo essi per intento né la felicità né l’infelicità. Infatti, ciò di cui è possibile fare un uso buono o cattivo, ecco, questo sarebbe un ‘indifferente’. E siccome sempre si fa della virtù un uso buono, del vizio un uso cattivo, e invece è possibile fare della salute e [III,29,30] delle cose concernenti il corpo un uso ora buono ora cattivo, esse sarebbero perciò indifferenti. Inoltre essi affermano che degli ‘indifferenti’ alcuni sono promossi, alcuni sono ricusati, alcuni sono né promossi né ricusati. Promossi sono quegli indifferenti che hanno sufficiente valore, ricusati quelli che hanno sufficiente disvalore, né promossi né ricusati indifferenti come, per esempio, protendere o [III,29,35] ripiegare il dito e tutto ciò ch’è a questo similare. Sono posizionati tra gli ‘indifferenti’ promossi: la salute, la potenza del corpo, l’avvenenza, la ricchezza di denaro, la reputazione e quanto a ciò somiglia. Sono invece posizionati tra gli ‘indifferenti’ ricusati: la malattia, la povertà di denaro, le sofferenze e le cose analoghe. Così dicono gli Stoici.

SVF III, 123

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1048c. [III,29,40] E nella dimostrazione <gli Stoici> rendono ancora più appariscente l’opposizione. Essi affermano, infatti, che ciò di cui è possibile fare un uso buono o cattivo è né un bene né un male. Tutti i dissennati fanno cattivo uso della ricchezza di denaro, della salute, della vigoria del corpo: perciò nessuna di queste cose è un bene.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1070a. <Gli Stoici> [III,30,1] denominano le medesime cose, cose che possono essere prese se offerte e che possono essere non scelte; appropriate e non beni; futili ma profittevoli; cose che sono nulla in relazione a noi ma sono fondamenti di quanto è doveroso.

 [III,30,5] § 2. Valore, disvalore, éstimo

Frammenti n. 124-126

SVF III, 124

Stobeo ‘Eclogae’ II, 83, 10. Tutti gli indifferenti secondo natura hanno un valore e tutti gli indifferenti contro natura hanno un disvalore. Il valore è inteso in tre modi: l’éstimo è il prezzo di un oggetto di per sé; il contraccambio è il prezzo stabilito da un perito valutatore; e terzo, cui Antipatro dà l’appellativo di ‘selettivo’, valore è ciò per cui, [III,30,10] date delle faccende, noi scegliamo queste qua invece di quelle là: per esempio, la salute invece della malattia; la vita invece della morte; la ricchezza di denaro invece della povertà di denaro. In tre modi analoghi <gli Stoici> affermato che vada chiamato il disvalore, con significati contrapposti a quelli citati prima per il valore.

SVF III, 125

Stobeo ‘Eclogae’ II, 84, 4 W. Diogene <di Babilonia> afferma che [III,30,15] l’éstimo è determinazione di quanto qualcosa sia secondo natura o di quanto procuri un’utilità alla natura. Il termine di ‘valutato’ non deve qui essere assunto nel significato, come si dice, di ‘cose valutate’ ma inteso nel significato in cui diciamo essere ‘perito valutatore’ colui che valuta le cose, e dunque Diogene dice che tale individuo è perito valutatore del contraccambio. E questi sono i due modi di parlare del valore secondo i quali noi diciamo che qualche cosa è promossa per il suo valore. <Diogene> dice che il terzo modo è quello per cui [III,30,20] affermiamo che qualcosa ha gran pregio e valore, il che non accade per le cose indifferenti ma soltanto per quelle virtuose. Egli afferma anche che talora noi usiamo il nome ‘valore’ al posto di ‘ciò che spetta’; com’è assunto nella definizione della giustizia. Qualora infatti la si dica essere costumanza di assegnare ‘a ciascuno secondo il suo valore’ è come dire: assegnare ‘a ciascuno ciò che gli spetta’.

SVF III, 126

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 105. [III,30,25] Degli indifferenti, <gli Stoici> chiamano alcuni promossi e alcuni ricusati. Promossi sono gli indifferenti che hanno valore; ricusati sono quelli che hanno disvalore. Essi chiamano ‘valore’ ciò ch’è di conferimento, e questo è il requisito di ogni bene, alla vita ammissibile con la ragione. Chiamano inoltre ‘valore’ anche ciò che conferisce una qualche facoltà o [III,30,30] utilità intermedia in vista della vita in armonia con la natura delle cose; come dire quelle che la ricchezza di denaro e la salute forniscono alla vita in armonia con la natura delle cose. Infine per essi è ‘valore’ il contraccambio stabilito da un perito valutatore, ossia il valore definito da un esperto di queste faccende, come quando si dice che del grano si scambia per dell’orzo più una mula.

[III,31,1] § 3. Indifferenti promossi e indifferenti ricusati

Frammenti n. 127-139

SVF III, 127

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 106. Promossi sono dunque gli ‘indifferenti’ che hanno un valore. Per esempio, nell’ambito dell’animo: doti naturali da purosangue, arte, profitto morale e simili. Nell’ambito del corpo: vita, salute, vigoria, benessere, integrità fisica, avvenenza. [III,31,5] Nell’ambito degli oggetti esterni: ricchezza di denaro, reputazione, nobiltà di stirpe e simili. Sono invece ‘indifferenti’ ricusati, nell’ambito dell’animo: bastardaggine, imperizia e simili. Nell’ambito del corpo: morte, malattia, debolezza, malessere, storpiatura, laidezza e simili. Nell’ambito degli oggetti esterni: povertà di denaro, discredito, umili origini e similari. Né promossi né ricusati sono gli ‘indifferenti’ che non appartengono né agli uni né agli altri.

SVF III, 128

Stobeo ‘Eclogae’ II, 84, 18. Degli [III,31,10] indifferenti dotati di valore, alcuni ne hanno molto, altri poco. Similmente, degli indifferenti che hanno disvalore, alcuni ne hanno molto, altri poco. Ora, gli indifferenti dotati di molto valore sono detti ‘promossi’, mentre quelli aventi molto disvalore sono detti ‘ricusati’; e fu Zenone per primo a porre alle faccende in questione questi nomi. <Gli Stoici> chiamano ‘promosso’ [III,31,15] quell’indifferente che selezioniamo per noi secondo un ragionamento di prima istanza. Un discorso simile vale per l’indifferente ‘ricusato’ e gli esempi sono, per analogia, gli stessi. Invece nessuno dei beni è un ‘promosso’, giacché i beni hanno il massimo valore. L’indifferente ‘promosso’, pur essendo una faccenda di secondo rango e valore, s’approssima in qualche modo alla natura dei beni. A corte, infatti, [III,31,20] il re non appartiene ai ‘promossi’, mentre lo sono quelli posizionati dopo di lui. Gli indifferenti si dicono dunque ‘promossi’ non perché conferiscano qualcosa in vista della felicità o cooperino ad essa, ma perché necessariamente noi li selezioniamo a scapito degli indifferenti ‘ricusati’.

SVF III, 129

Cicerone ‘De finibus’ III, 50. Dopo avere provato a sufficienza che l’unico bene è l’integrità morale e l’unico male la deformità morale, [III,31,25] <gli Stoici> vollero che ci fosse una qualche differenza fra le cose che comunque non hanno alcun valore al fine di una vita beata o misera, e stabilirono così che alcune di esse sono preferibili, altre non preferibili e altre neutre. Quelle preferibili: come la salute, l’integrità dei sensi, l’assenza di dolore, la fama, la ricchezza di denaro e cose simili, mostrano di avere in se stesse una causa intrinseca [III,31,30] che le fa anteporre ad altre che non la possiedono. Quelle non preferibili: come il dolore, la malattia, la perdita dei sensi, la povertà di denaro, l’infamia hanno in se stesse, seppure non tutte, una causa intrinseca che le fa respingere. [III,31,35] Da qui nacque la distinzione introdotta da Zenone tra προηγμένον (promosso) e ἀποπροηγμένον (ricusato).

SVF III, 130

Cicerone ‘De finibus’ III, 53. Poiché noi sosteniamo che tutto quanto è bene occupa il primo posto, necessariamente è né un bene né un male ciò che denominiamo ‘promosso’ o precipuo, e che definiamo quale un ‘indifferente di valore mediocre’. […] Del resto era inevitabile [III,32,1] che fra le cose intermedie rientrassero anche cose che sono secondo natura e cose contro natura; e una volta rientratevi, questa classe di cose doveva necessariamente contenere cose ‘preferibili’ ad altre; e, ciò posto, ce ne dovevano per forza essere delle ‘promosse’. […] Per rendere il tutto più chiaro, gli Stoici fanno questo esempio. Se poniamo, dicono, che il fine ultimo [III,32,5] sia, tanto per dire, che il dado ‘resti diritto’, quando si getta il dado ed esso assume la ‘posizione giusta’ che precede quella che vogliamo, possiamo considerare tale posizione quale una posizione ‘promossa’ in relazione al fine che vogliamo raggiungere, mentre sarà il contrario se il dado gettato non assume la posizione giusta. Tuttavia, come la posizione del dado che chiamiamo ‘promossa’ non è costitutiva della finale ‘restare diritto’, così le cose ‘promosse’ sono sì passaggi in vista di un fine, ma non sono [III,32,10] costitutivi della sua intrinseca natura.

SVF III, 131

Stobeo ‘Eclogae’ II, 75, 1 W. <Gli Stoici> affermano che vi è differenza tra ‘ciò ch’è possibile oggetto di scelta’ e ‘ciò che può essere preso, se offerto’. Infatti, ‘ciò ch’è possibile oggetto di scelta’ è motore di un impulso avente il suo fine in se medesimo, mentre ‘ciò che può essere preso, se offerto’ è ciò che selezioniamo per noi razionalmente. Di quanto differisce ‘ciò ch’è possibile oggetto di scelta’ da ‘ciò che può essere preso, se offerto’, di tanto differisce ‘ciò che può essere scelto di per sé’ da ‘ciò che può di per sé essere preso, se offerto’ e, in generale, il bene [III,32,15] da ciò che ha un valore.

SVF III, 132

Cicerone ‘De finibus’ IV, 39. Gli Stoici vogliono che l’impulso naturale, che chiamano ὁρμή, l’atto doveroso e la stessa virtù siano cose secondo natura. Ma quando vogliono pervenire al sommo bene, essi sorvolano su tutto ciò e ci lasciano con due compiti [III,32,20] da svolgere invece di uno solo: cose da assumere e cose da richiedersi, invece di includere entrambi i compiti nel raggiungimento dell’unico fine.

SVF III, 133

Stobeo ‘Eclogae’ II, 80, 14 W. Inoltre, alcuni degli indifferenti hanno più valore, altri meno; alcuni sono ‘di per sé’, altri sono ‘fattitivi’; alcuni sono ‘promossi’, altri sono ‘ricusati’ e altri ancora non fanno parte né degli uni né degli altri. Promossi [III,32,25] sono quegli indifferenti che hanno molto valore, per quanto possano averlo gli indifferenti. Ricusati sono, similmente, quegli indifferenti che hanno molto disvalore. Né promossi né ricusati sono quegli indifferenti che hanno né molto valore né molto disvalore.

SVF III, 134

Cicerone ‘De finibus’ III, 56. Le cose che chiamiamo promosse, in parte sono promosse di per se stesse, in parte per gli effetti che producono, [III,32,30] e in parte per entrambe le ragioni. Per se stesse: come un certo atteggiamento della bocca e del volto, un modo di stare o di muoversi tali che in essi c’è qualcosa da promuoversi e qualcosa da ricusarsi; per gli effetti che producono: come il denaro; per entrambe le ragioni: come l’integrità dei sensi e la buona salute.

SVF III, 135

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 107. Degli indifferenti promossi, alcuni [III,32,35] sono promossi di per sé, alcuni a motivo d’altro e alcuni sia di per sé che a motivo d’altro. Promossi di per sé sono: doti naturali da purosangue, capacità di profitto morale e simili. Promossi a motivo d’altro: ricchezza di denaro, nobiltà di stirpe e simili. Promossi di per sé e a motivo d’altro: potenza del corpo, vigoria dei sensi, integrità fisica. <E sono promossi> di per sé perché sono indifferenti secondo natura, e <promossi> a motivo d’altro perché procacciano non poche utilità. Similmente stanno le cose, secondo il ragionamento opposto, per gli indifferenti ricusati.

SVF III, 136

Stobeo ‘Eclogae’ II, 80, 22. [III,32,40] Degli indifferenti promossi alcuni attengono all’animo, alcuni al corpo ed alcuni agli oggetti esterni. Quelli attinenti all’animo sono di questo genere: doti naturali da purosangue, capacità di profitto morale, memoria, acutezza d’intelletto, una costumanza per la quale si è capaci di persistere [III,33,1] negli atti doverosi, e quante arti possono maggiormente cooperare per una vita in armonia con la natura delle cose. Indifferenti promossi attinenti al corpo sono: salute, vigoria dei sensi e le doti a queste similari. Indifferenti promossi attinenti agli oggetti esterni sono: genitori, figlioli, un patrimonio proporzionato, l’accoglienza da parte degli uomini. [III,33,5] Degli indifferenti ricusati, quelli attinenti all’animo sono gli opposti dei predetti indifferenti promossi. Similmente, gli indifferenti ricusati attinenti al corpo e agli oggetti esterni sono i contrapposti dei predetti indifferenti promossi attinenti al corpo e agli oggetti esterni. Indifferenti né promossi né ricusati che attengono all’animo sono: rappresentazione, assenso e quant’altro è di questo genere. Indifferenti né promossi né ricusati che attengono al corpo sono: il candore [III,33,10] della pelle, il colore scuro o chiaro degli occhi, ogni piacere ed ogni dolore fisico e altro di questo genere. Indifferenti né promossi né ricusati che attengono agli oggetti esterni sono tutte quante le cose di poco conto e per nulla proficue che hanno un’utilità insignificante. Siccome l’animo è dominante sul corpo circa il vivere [III,33,15] secondo la natura delle cose, <gli Stoici> affermano che gli indifferenti promossi perché secondo natura e attinenti all’animo hanno maggior valore di quelli attinenti al corpo ed agli oggetti esterni. Per esempio, in vista della virtù le doti naturali da purosangue dell’animo sovrastano per importanza le doti naturali da purosangue del corpo, e similmente si può dire degli altri indifferenti.

SVF III, 137

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1048a. Nel [III,33,20] primo libro ‘Sui beni’, in un certo modo <Crisippo> ne conviene e concede il punto a coloro che vogliono chiamare ‘beni’ gli ‘indifferenti promossi’ e ‘mali’ i loro opposti, con queste parole: “Se uno vuole, in conformità a siffatte diversificazioni linguistiche, chiamare ‘bene’ un ‘indifferente promosso’ e chiamare ‘male’ un ‘indifferente ricusato’, una volta che abbia portato la faccenda su questo terreno e non vada altrimenti errando,<può procedere> [III,33,25] a patto di non cadere in errore nei significati e, per il resto, di avere di mira la consuetudine in fatto di terminologia”.

SVF III, 138

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1047e. Ma Crisippo ha reso la faccenda ancora più intricata. Talora, infatti, dice: “Sono pazzi coloro che tengono in nessun conto [III,33,30] la ricchezza di denaro, la salute, l’assenza di dolore, l’interezza e l’integrità del corpo e non s’attengono a siffatti obiettivi”. Talaltra, citando il verso di Esiodo

‘Lavora, Perse, prosapia divina’

ha esclamato che è pazzia ammonire l’opposto

[III,33,35] ‘Non lavorare, Perse, prosapia divina’.

SVF III, 139

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1041e. Nel primo libro <dei ‘Discorsi esortativi’, Crisippo> dice: “Questo ragionamento estirpa dall’uomo tutto il resto, come se esso [III,34,1] fosse nulla in relazione a noi e non cooperasse affatto alla felicità”.

[2] p. 1048a. Così, dopo avere avvicinato in questo passo l’indifferente promosso al bene ed averli mescolati insieme, in altri luoghi dice [III,34,5] di nuovo: “Questi indifferenti promossi sono assolutamente nulla in relazione a noi, e anzi la ragione ci spicca e ci distoglie da tutte le cose di questo genere”. Questo, infatti, ha scritto nel primo libro dei ‘Discorsi esortativi’.

[3] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1060e. Se, come ha scritto Crisippo [III,34,10] nel primo libro dei ‘Discorsi esortativi’, soltanto nel vivere secondo virtù consiste il vivere felicemente; allora “tutto il resto”, egli dice, “è nulla per noi e non coopera al raggiungimento di questo scopo”.

§ 4. Indifferenti secondo natura e indifferenti contro natura

Frammenti n. 140-146

SVF III, 140

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 79, 18 W. Inoltre alcuni indifferenti sono secondo natura, altri [III,34,15] contro natura e altri ancora né contro natura né secondo natura. Secondo natura sono indifferenti di questo genere: salute, potenza del corpo, integrità degli organi di senso e cose similari. Contro natura sono indifferenti di questo genere: malattia, debolezza, una storpiatura e cose del genere. Né contro natura né secondo natura: una condizione d’animo e di corpo per la quale l’animo è ricettivo delle rappresentazioni false; il corpo è ricettivo di [III,34,20] ferite e storpiature, e cose simili. Gli Stoici affermano che il discorso a questo riguardo va fatto a partire dalla definizione di cos’è primariamente secondo natura e di cos’è primariamente contro natura, giacché i termini ‘differente’ e ‘indifferente’ valgono per quel che si dice in relazione a qualcosa. Pertanto, essi dicono, quando noi affermiamo che le cose attinenti al corpo e gli oggetti esterni sono indifferenti, intendiamo dire che esse sono indifferenti riguardo al vivere decorosamente, nel quale consiste il vivere felicemente; e non intendiamo dire,[III,34,25] per Zeus, che esse siano indifferenti riguardo all’essere secondo natura o riguardo al nostro impulso ed alla nostra repulsione verso di esse.

SVF III, 141

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 82, 11 W. Degli indifferenti secondo natura, alcuni sono secondo natura ‘primariamente’; alcuni sono secondo natura ‘per partecipazione’. ‘Primariamente’ secondo natura sono gli stati di moto o di quiete che si verificano in conformità alle ragioni seminali. Per esempio: integrità fisica, salute, sensazione (intendo dire l’apprensione certa) e [III,34,30] la potenza del corpo. Sono invece secondo natura ‘per partecipazione’ tutte quelle cose che partecipano degli stati di moto o di quiete in conformità alle ragioni seminali. Per esempio: una mano integra, corpo sano e sensazioni non storpiate. Similmente si può dire, secondo un discorso analogo, per gli indifferenti che sono contro natura.

SVF III, 142

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 82, 20 W. Tutte le cose secondo natura sono, se offerte, prendibili; e tutte le cose contro natura, anche se offerte, sono da non prendersi. Delle cose secondo natura [III,34,35] alcune, se offerte, sono ‘prendibili di per sé’; altre invece, se offerte, sono ‘prendibili a motivo d’altre’. Se offerte, sono ‘prendibili di per sé’ tutte quelle cose che sono motori di impulso verso se stesse come scopi o verso l’attenersi ad esse. Per esempio: salute, vigoria dei sensi, assenza di dolore e avvenenza del corpo. Se offerte, sono invece ‘prendibili a motivo d’altre’ e dunque ‘fattitive’, tutte quelle cose secondo natura che [III,35,1] sono motori di impulso in un modo riconducibile ad altre e non a se stesse come scopi. Per esempio: ricchezza di denaro, reputazione e cose simili a queste. Similarmente, anche delle cose contro natura alcune sono, se offerte, da non prendersi di per sé; mentre alcune, se offerte, sono tali per essere fattitive di cose che sono di per sé da non prendersi.

SVF III, 143

Cicerone ‘De finibus’ III, 20. Gli Stoici chiamano ‘preferibile’ […] ciò che è esso stesso secondo natura oppure che fa sì che qualcosa sia degno d’essere scelto [III,35,5] poiché dotato di valore, che essi chiamano ἀξία, e di contro chiamano ‘non preferibile’ ciò che è l’opposto di quanto detto.

SVF III, 144

Epitteto ‘Diatribe’ I, 4, 27-29. Giacché se uno dovesse essere ingannato per imparare che degli oggetti esterni ed aproairetici nessuno è per noi, io disporrei [III,35,10] questo inganno, grazie al quale potrei poi io vivere con serenità e dominio dello sconcerto, <e voi vedervi quel che volete>. Che cosa ci procura dunque Crisippo? Egli dice: “Affinché tu riconosca che non è falso ciò da cui nascono serenità e dominio sulle passioni, prendi tutti i miei libri e riconoscerai come sia vero ed in armonia con la natura delle cose quanto mi fa capace di dominare le passioni”.

SVF III, 145

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 167, 13 Bruns. Inoltre, [III,35,15] le cose appropriate, promosse, profittevoli, dotate di valore, perché hanno queste denominazioni se non cooperano affatto alla felicità? Ogni indifferente promosso è stato promosso in vista di qualcosa e per il fatto di essere portatore ad un obiettivo piuttosto che ad un altro. Per questo si dice anche che è stato promosso in vista del sommo bene, ed è manifesto che la loro promozione coopera alla felicità. Se poi non coopera alla felicità [III,35,20] ma alla vita secondo natura, allora merita chiedere <agli Stoici> se la vita secondo natura sia un bene oppure non sia un bene, ma anch’essa una cosa appropriata e promossa oppure allotria e ricusata o una cosa che assolutamente non propende né verso questo né verso quello. Ma a queste domande non è possibile avere risposta. Certo essi diranno che non è un male. Se, dunque, è un bene [.…] non sarà un bene soltanto [III,35,25] il bello, ma tale sarà anche la vita secondo natura.

SVF III, 146

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1060c. <Gli Stoici> legittimano come ‘indifferenti’ cose che sono secondo natura, e ritengono salute, benessere, avvenenza, potenza del corpo cose che possono essere non scelte; ed essere né giovevoli, né vantaggiose, né completive della nostra perfezione secondo natura. E ritengono che anche gli opposti come [III,35,30] storpiature, sofferenze, laidezze, malattie possono essere non fuggiti ed essere non dannosi. Tutte cose delle quali proprio loro dicono che verso le une la natura ci estrania e verso le altre la natura ci imparenta. E la cosa più grande è che la natura ci estrania e ci imparenta ad esse a tal punto che coloro i quali non centrano ciò cui la natura ci imparenta e incappano in ciò da cui la natura ci estrania, escono fuori dalla vita a ragion veduta e rinunciano ad essa.

§ 5. Sul retto modo di valutare ciascun indifferente

Frammenti n. 147-168

SVF III, 147

Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ I, p. 43 Ald. [III,35,35] [….] E se la salute è un bene oppure se non lo è, come dice Crisippo.

SVF III, 148

Pseudo-Plutarco ‘De nobilitate’ cp. 17. Ma tralasciamo Crisippo, il quale non una volta sola è in opposizione con se stesso, come nel primo libro [III,36,1] ‘Sui beni’ e in quello ‘Sulla retorica’; dove non lotta contro chi pone la salute nel novero dei beni; e in quello ‘Sulle cose che possono essere scelte per se stesse’, dove non priva della taccia di pazzia coloro che spregiano queste cose.

SVF III, 149

Teodoreto ‘Graec. affect. cur.’ XI, 15, p. 395 Canivet. Invece gli Stoici si votarono, di rimando, ad opinioni opposte [III,36,5] a queste, giacché definirono ‘sommo bene’ il vivere in modo conseguente alla natura e sostennero che l’animo non riceve giovamento né danno dal corpo, poiché la salute non costringe con violenza l’animo che così non decide alla virtù; né la malattia tira l’animo in basso, al vizio, contro la sua intelligenza. Dicevano perciò che salute e malattia sono cose ‘indifferenti’. Essi avevano poi un parere davvero audace, quando affermavano che identica è la virtù [III,36,10] dell’uomo e quella di Dio.

SVF III, 150

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 5, p. 572 Pott. Merita poi stupore l’opinione degli Stoici, i quali dicevano che l’animo non è disposto dal corpo né verso il vizio ad opera della malattia, né verso la virtù ad opera della salute. Essi affermavano, invece, che entrambe queste cose sono ‘indifferenti’.

SVF III, 151

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXVII, 12. Ciò che è bene fa uomini buoni. [III,36,15] Infatti anche nell’arte musicale il buon pezzo fa il musicista. Invece gli eventi fortuiti non fanno il galantuomo: dunque non sono beni.

[2] 15. Ciò che tocca all’uomo più spregevole e vizioso non è certo un bene. L’opulenza tocca anche a lenoni e lanisti: [III,36,20] dunque non è un bene.

[3] 22. Un bene non nasce da un male. La ricchezza di denaro nasce anche dall’avarizia. Dunque, la ricchezza di denaro non è un bene.

[4] 28. Ciò che, mentre vogliamo conseguirlo, ci fa incappare in molti mali, non è un bene. Ma noi, mentre vogliamo conseguire la ricchezza di denaro, incappiamo in molti mali. [III,36,25] Dunque, quella ricchezza non è un bene.

SVF III, 152

Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ II, p. 107 Ald. Se così stanno le cose, bene reputerebbero gli Stoici quando dicono: “Ciò che accade attraverso un male non può essere un bene. La ricchezza di denaro proviene anche dal lenocinio, che è un male. Pertanto la ricchezza di denaro non è un bene”.

SVF III, 153

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1043e. [III,36,30] Eppure <Crisippo> sovente loda questi versi fino a diventare molesto:

‘Peraltro di che han bisogno i mortali salvo queste due cose sole:

del grano di Demetra e dell’acqua da bere?’

E nei libri ‘Sulla natura’ afferma: “Quand’anche il sapiente perdesse le più grandi [III,36,35] sostanze, reputerebbe d’avere buttato via una dracma”.

[2] p. 1048b. E nel terzo libro ‘Sulla natura’ <Crisippo> dice che certi regnanti e certe persone ricche di denaro sono chiamate beate, come se si chiamassero beati coloro che usano pitali d’oro e frange dorate. Per il virtuoso, invece, [III,36,40] perdere le sostanze è come perdere una dracma; e l’ammalarsi è come un intoppo.

[3] ‘De communibus notitiis’ p. 1069c. […] delle cose futili e [III,37,1] indifferenti. Giacché siffatti sono gli indifferenti secondo natura e ancor più gli oggetti esterni; se appunto <gli Stoici> paragonano la più grande ricchezza di denaro a frange dorate e pitali d’oro e, quando loro capiti, per Zeus, a fiaschette.

SVF III, 154

Cicerone ‘De finibus’ III, 17. La maggior parte degli Stoici ritiene [III,37,5] che il piacere non sia da porsi fra le pulsioni naturali primarie.

SVF III, 155

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 73. Per esempio, Epicuro afferma che il piacere della carne è un bene; chi dice “Possa io essere pazzo piuttosto che godere nella carne” afferma che è un male; gli Stoici che è un indifferente e un non promosso; Cleante nega che esso sia secondo natura, al modo che non è secondo natura una [III,37,10] spazzola, e che abbia valore nella vita; Archedemo che è secondo natura come i peli sotto l’ascella, e che non ha valore; Panezio che c’è qualche piacere della carne secondo natura e qualche altro contro natura.

SVF III, 156

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 103. Che il piacere della carne non sia un bene, lo affermano anche Ecatone nel libro ‘Sui beni’ e Crisippo nei libri ‘Sul [III,37,15] piacere fisico’. Vi sono, infatti, anche piaceri della carne vergognosi, e nulla di vergognoso è un bene.

SVF III, 157

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1040d. Nei libri contro Platone (ad esempio ‘La giustizia’), mentre lo accusa di far mostra di lasciare la salute nel novero dei beni, <Crisippo> afferma: “Non soltanto la giustizia, ma sono abolite anche la magnanimità, [III,37,20] la temperanza e tutte le altre virtù se lasceremo nel novero dei beni il piacere della carne o la salute o qualunque altra cosa non bella”.

SVF III, 158

Cicerone ‘De finibus’ I, 39. Ad Atene, come sentivo raccontare da mio padre quand’era in vena di irridere con garbata arguzia gli Stoici, c’è nel Ceramico una statua di Crisippo seduto e con una mano protesa. [III,37,25] Sul significato di quella mano protesa, mio padre si dilettava ad avere con Crisippo questa discussioncella: “La tua mano, atteggiata com’è ora, desidera forse qualcosa? No, nulla. Ma se il piacere fosse un bene, lo desidererebbe? Credo di sì. Dunque il piacere non è un bene”. […] Circa la prima risposta, caro Crisippo, sono d’accordo con te [III,37,30] che la mano protesa non desidera nulla. Ma <poiché, come dice Epicuro, bene è non il piacere ma l’assenza di dolore> non sono d’accordo con la tua seconda risposta: cioè che se il piacere fosse un bene sarebbe da desiderarsi.

SVF III, 159

Cicerone ‘De finibus’ III, 57. Circa la buona fama, (ciò che essi chiamano εὐδοξία, mi sembra più esatto tradurlo con ‘buona fama’ che con ‘gloria’) Crisippo e Diogene <di Babilonia> dicevano che per la buona fama non varrebbe la pena di muovere neppure un dito [III,37,35] se non per il vantaggio che se ne trae: e su questo punto sono assolutamente d’accordo. Invece i loro successori, incapaci di fare fronte agli attacchi di Carneade, dissero che quella che io ho chiamato buona fama sia un ‘indifferente promosso’ e quindi da assumersi come tale.

SVF III, 160

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CII, 5. [III,38,1] Le obiezioni che i dialettici muovono contro questa opinione [ossia che la rinomanza dopo la morte sia un bene] dovevano essere tenute distinte, e quindi furono messe da parte. Ora, poiché tu vuoi che si discuta di tutto, le esporrò tutte e poi le esaminerò una per una. [III,38,5] Tuttavia se non farò una premessa, sarà impossibile capire le mie confutazioni. E in che cosa consiste questa premessa? Alcuni corpi, come l’essere umano, sono continui. Altri invece sono composti: ad esempio una nave, una casa, insomma tutto ciò che risulta dalla composizione di parti diverse unite insieme. Altri corpi ancora sono fatti di parti distinte e i loro componenti restano separati, come ad esempio un esercito, un popolo, il Senato. [III,38,10] Ora, gli elementi di questi corpi coesistono in virtù di una legge o di una funzione, mentre per natura essi sono singoli e individui. Qual è il seguito di questa premessa? Noi reputiamo che nessun bene sia costituito di parti distinte. [III,38,15] Infatti un solo bene deve essere contenuto e sorretto da un solo pneuma: unico il bene, unica la parte egemone. Questo, basterebbe volerlo, si dimostrerebbe da sé. Ora, però, è necessario darlo per scontato, perché le nostre armi sono usate dai dialettici contro di noi. Essi dicono: “Voi sostenete che nessun bene deriva da elementi distinti. Eppure proprio la rinomanza è l’opinione favorevole dei galantuomini. [III,38,20] Ora, come la fama non si riduce alle parole di apprezzamento di un solo uomo, né l’infamia alla disistima di uno solo, così neppure la rinomanza può consistere nel favore di un unico virtuoso: perché ci sia rinomanza c’è bisogno del consenso di parecchi uomini eccellenti e per bene. Pertanto, siccome deriva dal giudizio di più persone, e quindi di elementi distinti, essa non è un bene. Inoltre, si aggiunge, la rinomanza è la lode resa dai galantuomini ad un galantuomo. Essa ha la forma di un discorso, [III,38,25] e il discorso è un suono dotato di significato. Ora, quest’ultimo, quand’anche provenga da uomini virtuosi, non è un bene […] Dunque la rinomanza non è un bene. Infine, diteci se essa è un bene per chi loda o per chi è lodato: se dite che è un bene per chi è lodato, dite una cosa ridicola, come se sosteneste che la buona salute di un altro è un mio bene. Ma lodare chi ne è degno è un’azione onorevole, sicché la lode è un bene di chi loda, [III,38,30] ossia di chi agisce, non nostro cioè di noi che riceviamo la lode. E questa era la questione in discussione”.

[2] 20. A questi cavillatori risponderemo abbondantemente. Ma il nostro scopo non deve essere quello di perderci in argute disquisizioni [III,38,35] e intanto trascinare la filosofia dall’alto della sua maestà in queste miserie. Non è forse assai meglio seguire una via libera e dritta piuttosto che crearsi vie tortuose da ripercorrere fra mille difficoltà? Dispute siffatte non sono altro che giochi di gente che abilmente cerca di trarsi in inganno.

SVF III, 161

Scolia ad Platonis ‘Leges’, I, 625a Greene [III,38,40] Anche gli Stoici platonizzano quando affermano che ‘gloria’ è ciò che giustamente sopravviene ai virtuosi, mentre ‘fama’ è la reputazione che sopravviene ai non virtuosi.

SVF III, 162

‘Commento a Lucano’ Libro II, 240 p. 66 Us. ‘Temendo per tutti, sicuro di sé’. Così secondo gli Stoici, i quali dicono che la vita [III,38,45] vale meno dell’onore e che è bello spendere per la gloria ogni tua dote naturale. Così Virgilio: ‘vogliono dare la vita in cambio dell’onore’.

SVF III, 163

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 503 Pott. [III,39,1] Inoltre, per gli Stoici il matrimonio e l’allevamento dei bambini sono degli ‘indifferenti’.

SVF III, 164

Teodoreto ‘Graec. affect. cur.’ XII, 75, p. 440 Canivet. Gli Stoici percorsero una via mediana, giacché coniugarono il matrimonio e la [III,39,5] generazione di bambini agli ‘indifferenti’.

SVF III, 165

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘Quaestiones’ IV, 1, p. 119, 23 Bruns. Come mai non è incongruente del pari affermare che noi siamo imparentati dalla natura al vivere ed a fare ogni cosa in vista della nostra salvezza, e del pari non affermare che la natura ci imparenta a quel bene?

[2] p. 118, 23 Bruns. [III,39,10] “Se navigare bene è un bene e navigare male è un male, allora navigare è né un bene né un male. E se vivere bene è un bene e vivere male è un male, allora vivere è né un bene né un male”. (O non è vero che le forze di proposizioni contrapposte non differiscono e si equivalgono?)

SVF III, 166

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXV, 30. Ciò che è male, nuoce. [III,39,15] Ciò che nuoce ci rende peggiori. Il dolore e la povertà non ci rendono peggiori: dunque non sono mali.

SVF III, 167

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1039e-f. In questi stessi libri (i ‘Discorsi esortativi’) una volta, facendo le lodi di [III,39,20]Antistene, <Crisippo> mostra che bisogna acquisire per sé o una buona mente o un cappio; e cita il verso di Tirteo:

‘Sospingersi ai confini della virtù prima che della morte’.

Un’altra volta, rettificando Teognide, afferma che non si dovrebbe dire:

‘Per fuggire la povertà di denaro è d’uopo’

[III,39,25] ma piuttosto:

‘Per fuggire il vizio è d’uopo anche gettarsi nei profondi

abissi del mare e da rupi scoscese, o Cirno’.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1069d. E quindi <gli Stoici> ritengono Teognide [III,39,30] una persona infame e piccina piccina perché afferma:

‘Per fuggire la povertà di denaro è d’uopo anche gettarsi

nello smisurato mare e da rupi scoscese, o Cirno’

e fa così il codardo davanti alla povertà di denaro, che è invece un ‘indifferente’.

SVF III, 168

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ XII, 5, 4. “Se l’asprezza del dolore”, disse quello, “ è tale da costringere l’uomo a gemere contro la propria volontà, […] perché gli [III,39,35] Stoici chiamano il dolore un indifferente e non un male? E poi perché lo Stoico può essere costretto, o il dolore può costringerlo, a qualcosa, se gli Stoici dicono che il dolore non costringe affatto e che il saggio non può essere costretto?

ETHICA IV.

Sull’impulso e sulla selezione

§ 1. La nozione di impulso

Frammenti n. 169-177

SVF III, 169

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 86, 17 W. <Gli Stoici> affermano che motore dell’impulso altro non è che [III,40,5] una rappresentazione impulsiva e senza riflessione di quanto è doveroso, e che l’impulso è pulsione dell’animo a qualcosa, secondo il genere. Di esso, in specifico, dicono che si conosce sia l’impulso che nasce nelle creature logiche che quello che nasce nelle creature prive di ragione, alle quali non sono stati dati nomi distinti giacché il desiderio non è un impulso logico, ma una specie di impulso logico. Si [III,40,10] definirebbe invece convenientemente l’impulso logico dicendo che è pulsione dell’intelletto a qualcosa di pratico. A questo impulso si contrappone la repulsione, in quanto pulsione dell’intelletto che si distoglie da qualcosa di pratico. In particolare <gli Stoici> chiamano impulso anche l’impeto, che è una specie di impulso pratico; e affermano che l’impeto è pulsione dell’intelletto a qualcosa di futuro. Sicché, finora, si può parlare dell’impulso in quattro sensi e in due della repulsione. Se s’addiziona anche [III,40,15] l’abituale postura impulsiva dell’animo, che in particolare essi chiamano anche impulso, e grazie alla quale ci avviene di impellere, i sensi diventano cinque.

[2] Seneca ‘Epistulae morales’ CXIII, 18. Ogni animale razionale nulla fa se prima non sollecitato dalla rappresentazione di qualcosa. Di poi ha un impulso a cui, infine, conferma il suo assenso. Ora spiego cos’è l’assenso: devo camminare; ebbene cammino, [III,40,20] dopo essermi prospettato questa decisione e dopo averla approvata.

SVF III, 170

Origene ‘Comm. in Matth.’ III, p. 446, Delarue. Il che è avvenuto anche in altri casi, come hanno osservato gli esperti nell’apposizione di molti nomi. Essi affermano anche che ‘impulso’ è il genere supremo di specie, come nel caso di repulsione e impulso; e dicono che il termine di specie è omonimo [III,40,25] a quello di genere perché il significato di impulso è assunto per distinzione, contrapposta a quello di repulsione.

SVF III, 171

Stobeo ‘Eclogae’ II, 88, 1 W. Tutti gli impulsi sono assensi, e gli impulsi pratici includono anche il movente. Ora, di altro sono gli assensi, verso altro muovono gli impulsi. Gli assensi sono assensi a degli assiomi, mentre gli [III,40,30] impulsi muovono verso dei predicati ossia cose in qualche modo incluse negli assiomi, ai quali vanno gli assensi.

SVF III, 172

Galeno ‘De animi peccat. dignosc.’ 1, V, 58 K. [III,41,1] Inizio ordunque dal migliore dei principi […] che cosa si chiama ‘errore’, ragionando sopra ciò dopo avere mostrato come tutti i Greci siano soliti utilizzare questo termine. Essi infatti lo utilizzano alcune volte per indicare cose che avvengono non esattamente secondo le determinazioni prese, così che il termine riguarda soltanto la parte [III,41,5]logica dell’animo; altre volte lo utilizzano invece genericamente, così che esso coinvolge anche la facoltà irrazionale dell’animo […segue una grande lacuna nel testo…] <Cosa sia> l’assenso ad un errore è concordemente ammesso da tutti; [III,41,10]su cosa sia, invece, assenso debole non è così; giacché ad alcuni sembra meglio che all’assenso debole spetti un posto intermedio tra la virtù e il vizio. Costoro chiamano debole l’assenso qualora non si sia ancora noi stessi persuasi che questa certa opinione sia vera com’è vero, per fare un esempio a caso, che abbiamo cinque dita per mano e che due per due fa quattro. E forse, circa i veri errori di una persona anziana che [III,41,15] per la vita intera ha avuto agio di studiare, troverai proprio l’assentire debolmente a qualcuna di quelle cose che hanno invece una dimostrazione scientifica. Poiché è indubbio che la scienza del geometra circa gli asserti mostrati veri dagli ‘Elementi’ di Euclide è tale quale è certo il sapere dei più che due per due fa quattro […] Se, pertanto, qualcosa sarà un poco in disputa e l’assenso, al quale alcuni danno il nome di apprensione certa, a questi asserti non sarà saldo, allora si potrebbe convenire che questo è ‘errore’, come manifestamente [III,41,20] lo sarebbe quello di un geometra. Sono dunque consistentemente depravate le opinioni ed è falso, precipitoso o debole, l’assenso di colui che nel corso della vita aberra circa beni e mali, circa conoscimento, patrimonio ed esilio. Se noi infatti assentiremo ad una falsa opinione sui beni e sui mali, il pericolo a questo riguardo è non piccolo e [III,41,25] grandissimo è l’errore.

SVF III, 173

Stobeo ‘Eclogae’ II, 87, 14 W. Esistono più specie di impulso pratico, tra le quali anche queste: proposito, progetto, preparazione, intrapresa, scelta, proairesi, decisione razionale, volizione. Essi dicono dunque che proposito sia [III,41,30] la segnalazione di una realizzazione. Progetto, l’impulso di un impulso. Preparazione, l’azione di un’azione. Intrapresa, l’impulso a qualcosa che è già sotto mano. Scelta, la decisione dopo raffronto. Proairesi, la scelta di una scelta. Decisione razionale, il desiderio ragionevole. Volizione, la decisione intimamente deliberata.

SVF III, 174

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1045e. Nel [III,41,35] sesto libro ‘Sul doveroso’, dopo avere affermato che: “Vi sono faccende che non meritano davvero molta trattazione né attenzione”, <Crisippo> crede che noi si debba lasciarci andare all’inclinazione come capita dell’intelletto, affidando la scelta in merito alla sorte, e dice: “Per esempio, se di coloro che valutano queste certe due dracme alcuni dicessero che buona è questa e altri invece dicessero che buona è quella, e se [III,41,40] bisognasse prendere una delle due; allora, tralasciando di [III,42,1] ricercare oltre, noi prenderemo quella che capita affidando la scelta alla sorte secondo una ragione non evidente, anche a rischio di prendere proprio la dracma cattiva”.

SVF III, 175

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1037f. E [III,42,5] l’impulso, secondo <Crisippo> è la ragione dell’uomo in quanto imperativa del fare, come ha scritto in ‘Sulla legge’. Pertanto, anche la repulsione è ragione in quanto proibitiva, e anche l’avversione lo è. La cautela, poi, è avversione ragionevole. Quindi la cautela è ragione in quanto proibitiva di qualcosa al sapiente, giacché l’essere cauti è proprio dei sapienti e non [III,42,10] degli insipienti. Se, dunque, la ragione del sapiente è una cosa e la legge è un’altra, i sapienti hanno cautela quando la ragione sia in conflitto con la legge. Se, invece, la legge è non altro che la ragione del sapiente, allora si trova che la legge stessa proibisce ai sapienti di fare ciò che essi sono cauti a fare.

SVF III, 176

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 7, p. 853 Pott. Le cose alle quali sono rivolti desideri, [III,42,15] smanie e – per dirla in complesso – i nostri impulsi, sono le stesse alle quali sono rivolte anche le nostre preghiere. Perciò nessuno smania per una bibita, ma di bere una reale bevanda; né invero si smania per un’astratta eredità, ma di ereditare in concreto; e così non per una generica conoscenza, ma di conoscere sperimentalmente; non per la retta politica, ma di governare nei fatti. Dunque ciò per cui preghiamo è ciò che domandiamo; e ciò che domandiamo è ciò per cui smaniamo. Pregare e [III,42,20] desiderare nascono dunque in consonanza, al fine di possedere materialmente i beni e i giovamenti connessi.

SVF III, 177

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1057a. Nelle polemiche contro gli Accademici, sia per Crisippo che per Antipatro la maggior disputa su cos’era? Sulla possibilità [III,42,25]di: “Effettuare un’azione o impellere a qualcosa essendovi inassenzienti; e sul fatto che raccontano favole e fanno vuote ipotesi quanti stimano che, data una rappresentazione appropriata, vi sia subito l’impulso senza che ad essa noi abbiamo ceduto il passo o abbiamo dato l’assenso”. E in appresso Crisippo dice: “La divinità infonde delle rappresentazioni fallaci, e anche il sapiente lo fa, senza che vi sia il bisogno di dare, da parte nostra, assenso o di cedere ad esse il passo, ma soltanto [III,42,30] di effettuare qualcosa o di impellere a quel che appare. Noi, invece, in quanto siamo insipienti, a causa della nostra debolezza diamo il nostro assenso a siffatte rappresentazioni”.

[2] p. 1057b. Chi, sia esso dio oppure il sapiente, non ha bisogno di assensi ma soltanto di azioni da parte di coloro ai quali dà le rappresentazioni, sa che per agire bastano le rappresentazioni e che gli assensi sono ridondanti. [III,42,35] Sicché se, pur conoscendo che ad un impulso all’azione non fa riscontro una rappresentazione senza assenso, egli instilla rappresentazioni fallaci e persuasive, è causa volontaria del comportamento precipitoso e dell’aberrare di coloro che assentono a rappresentazioni non catalettiche.

 [III,43,1] § 2. L’impulso primario e l’appropriazione primaria

Frammenti n. 178-189

SVF III, 178

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 85. <Gli Stoici> affermano che il primo impulso che la creatura ha è quello di serbarsi in vita, poiché la natura l’ha imparentata ad esso fin dal principio. Ciò è in accordo con quanto sostiene Crisippo nel primo libro ‘Sui sommi beni’ [III,43,5] quando dice che la prima cosa appropriata ad ogni creatura è la sua propria sussistenza e la consapevolezza di essa. Sarebbe infatti inverosimile che la natura rendesse la creatura estranea a se stessa, e che la natura che l’ha generata la tenesse come estranea e non come familiare. Resta quindi solo da dire che la natura organizza la creatura affinché essa s’appropri di se stessa. In questo modo, infatti, essa respinge da sé ciò che la danneggia ed ammette per sé ciò che le è appropriato. Essi, poi, dichiarano falso ciò che alcuni sostengono, ossia che [III,43,10] il primo impulso degli animali sia diretto verso il piacere della carne. Essi affermano, invece, che il piacere della carne è una risultante, se lo è, qualora la natura, dopo avere ricercato le cose acconce alla sussistenza, assapori se stessa come tale; nel qual modo gli animali sono esilarati ed i vegetali fioriscono. Essi affermano poi che la natura che governa sui vegetali non è affatto diversa da quella che governa sugli animali, quando amministra i vegetali prescindendo da impulso e [III,43,15] sensazione e quando anche in noi alcuni fenomeni avvengono in modo vegetativo. Ma poiché agli animali è sopravvenuto in più l’impulso, adoperando il quale essi procedono verso gli scopi loro appropriati, ciò ch’è secondo natura per gli animali coincide col governarsi secondo l’impulso. E dal momento che, per un più perfetto reggimento, è stata data alle creature logiche la ragione, vivere rettamente secondo ragione diventa per queste ciò ch’è secondo la natura delle cose. [III,43,20] La ragione, infatti, sopravviene in esse quale artista dell’impulso.

SVF III, 179

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038b. Dunque, come mai <Crisippo> continua ad intronarci scrivendo in ogni libro di Fisica, per Zeus, e di Etica che: “Noi ci appropriamo di noi stessi appena nati, delle parti del nostro corpo e della nostra progenie”?

SVF III, 180

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 163, 14 Bruns. [III,43,25] Infatti la natura che ci ha dato l’animo ci ha dato anche il corpo, e ci ha imparentato alla perfezione e alla struttura quale deve essere dell’uno e dell’altro. Sicché colui che è defraudato della perfezione secondo natura o dell’uno o dell’altro non potrebbe vivere secondo natura (poiché per ‘secondo natura’ si intende ‘secondo il piano della natura’); e se non è così, allora[III,43,30] neppure si può vivere felicemente.

SVF III, 181

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ XII, 5, 7. “La natura delle cose tutte, disse <C. Tullo>, la natura che ci ha generato, inculcò e fece subito crescere in noi tra le pulsioni primarie con le quali siamo nati, l’amore e l’alto pregio di sé, così che nulla fosse a noi [III,43,35] più caro e più importante di noi stessi; e stabilì che questo fosse il fondamento su cui basare la perpetuità della stirpe umana, ossia che ciascuno di noi, non appena viene alla luce, provasse innanzitutto disposizione per quelle attività che gli antichi filosofi chiamavano ‘primarie per natura’, [III,44,1] le quali consistono nel perseguire tutte le comodità corporali e nell’aborrire tutti gli incomodi. In seguito, coll’avanzare dell’età, dai propri semi si svilupparono la ragione, la riflessione nel consigliarsi, la considerazione dell’integrità morale e della vera utilità, ed una più sottile ed approfondita scelta delle comodità e degli incomodi. [III,44,5] In questo modo emerse in tutto il suo splendore la dignità del bene morale; sicché, se un incomodo estrinseco ostasse alla sua conservazione o al suo ottenimento, di questo neppure si tiene conto; e si stima che null’altro sia veramente e interamente bene se non l’integrità morale, né qualcos’altro male se non ciò ch’è moralmente deforme. Decretarono quindi che tutte le restanti cose, in quanto entità intermedie [III,44,10] moralmente né integre né deformi, sono né bene né male; e però che esse vanno distinte e divise a seconda di quanto producono e delle relazioni che hanno, e le chiamarono indifferenti promossi e indifferenti respinti. Così il piacere e il dolore fisico, pur avendo pertinenza col fine stesso di vivere felicemente, sono relegati <dagli Stoici> fra le entità intermedie [III,44,15] e giudicati né beni né mali.

SVF III, 182

Cicerone ‘De finibus’ III, 16. Gli Stoici sono convinti […] che appena un essere vivente nasce (qui sta il punto di partenza) si concilia con se stesso, s’impegna alla conservazione di sé e del proprio stato, ama le cose che lo conservano in tale condizione e scaccia lontano la morte e tutto ciò che sembra avvicinarla. [III,44,20] Prova di ciò è il fatto che i piccoli, prima ancora d’aver fatto esperienza del piacere o del dolore, impellono a quanto è per loro salutare e rifiutano le cose opposte: il che non accadrebbe se essi non amassero il proprio essere e non temessero la morte. Né d’altra parte essi potrebbero provare impulso per qualcosa se non avessero percezione di sé ed amor di sé. Da ciò si capisce che la pulsione naturale primaria proviene [III,44,25] dall’amor di sé.

SVF III, 183

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 150, 25 Bruns. Che cosa sia oggetto dell’appropriazione primaria è stato tema di ricerca per i filosofi, e non tutti sono giunti alla medesima conclusione. Anzi, la differenza di opinioni tra quanti parlano dell’argomento è, circa l’oggetto dell’appetito primario, quasi pari a quella che si registra circa l’oggetto dell’appetito supremo. Dunque gli Stoici, [III,44,30] non tutti però, affermano che oggetto di appropriazione primaria della creatura è proprio se stessa (ciascuna creatura, infatti, appena nata si imparenta a se stessa, ed anche per l’uomo è così). Altri invece, reputando di parlare con più eleganza di loro e maggiore articolazione dell’argomento, sostengono che, appena nati, noi siamo imparentati alla sussistenza e alla conservazione di noi stessi.

SVF III, 184

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CXXI, 5. [III,44,35] Ci chiedevamo se tutti gli animali avessero il senso della propria complessione. Che ce l’abbiano appare evidente soprattutto da ciò: che essi muovono le membra con disinvoltura e speditezza, proprio come se fossero stati educati a tal fine.

[2] 10. La complessione, come voi la chiamate, è la parte egemonica dell’animo, la quale si atteggia in un certo modo verso il corpo.

[3] 14. [III,44,40] Voi sostenete, disse quello, che ogni animale per prima cosa si concilia con la sua propria complessione. Ora, la complessione dell’uomo è di natura razionale, e pertanto l’uomo si concilia a se stesso non in quanto animale ma in quanto essere razionale? L’uomo insomma ha caro se stesso grazie a quella parte per cui è uomo.

SVF III, 185

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 162, 29 Bruns. Giacché [III,44,45] dire che noi siamo imparentati a più cose e che però non fa per noi differenza alcuna il modo in cui esse stanno, equivale a fare affermazioni contraddittorie.

SVF III, 186

Cicerone ‘De finibus’ III, 23. Siccome tutti gli atti doverosi [III,45,1] prendono le mosse da pulsioni naturali primarie, è necessario che anche la saggezza prenda le mosse da esse. Ma al modo in cui succede spesso che se si è raccomandati a qualcuno, si finisce per dare più importanza a colui al quale si è stati raccomandati che a colui che ci ha raccomandato; così non c’è da stupirsi se noi, [III,45,5] dapprima raccomandati alla saggezza da quelle pulsioni naturali primarie, in seguito teniamo la saggezza più cara di quelle pulsioni che ci avevano indirizzato ad essa.

SVF III, 187

Cicerone ‘De finibus’ III, 17. Appare sufficientemente chiaro il motivo per cui noi amiamo quegli impulsi primari che assumiamo dalla natura. Infatti non c’è nessuno che, potendo scegliere, [III,45,10] non preferisca avere tutte le parti del corpo atte all’uso ed integre, piuttosto che menomate e deformi.

SVF III, 188

Cicerone ‘De finibus’ III, 20. Stabilite dunque le pulsioni naturali primarie per cui le cose secondo natura sono di per sé da assumersi e le contrarie da rigettarsi, il primo atto doveroso (così traduco il termine καθῆκον) è quello di conservarsi nello stato di natura, [III,45,15] e di poi di attenersi a ciò ch’è secondo natura ed di allontanare ciò che gli è contrario. Dopo il rinvenimento di tale scelta e tale rifiuto, viene la fase della selezione degli atti doverosi e la stabilizzazione di tale scelta nel tempo. Quando questa selezione avvenga costantemente in armonia con la natura, allora nell’individuo finalmente comincia a formarsi ed a diventare cosciente la nozione di ciò che davvero si può chiamare ‘il bene’. Prima di tutto viene dunque l’apparentamento dell’uomo con le cose secondo natura; ma non appena l’uomo acquisisce [III,45,20] l’intelligenza o meglio il concetto, che gli Stoici chiamano ἔννοιαν, e vede l’ordine, anzi per dir così, la concordia degli atti da compiere, dà molta più importanza a questi che agli impulsi che prima prediligeva, li raccoglie a lume di conoscenza e di ragione e stabilisce che qui è riposto quel sommo bene dell’uomo che è da lodarsi [III,45,25] e da richiedersi di per sé; il quale sta in ciò che gli Stoici chiamano ὁμολογία. Poiché dunque in essi sta il bene al quale tutto va riferito, esso stesso è integrità morale e gli atti moralmente integri sono opera unicamente degli uomini virtuosi. E quantunque il bene sorga in un secondo tempo, tuttavia esso solo è da richiedersi per il suo valore [III,45,30] intrinseco e per il suo pregio, mentre delle pulsioni naturali primarie nessuna è da richiedersi di per se stessa.

SVF III, 189

Cicerone ‘De finibus’ III, 17. Le cognizioni delle cose, che possiamo chiamare comprensioni o percezioni oppure, se questi termini non piacciono o non si capiscono, ‘concezioni’ (quelle che i Greci chiamano καταλήψεις) devono secondo noi essere acquisite di per sé, perché in un certo senso abbracciano e contengono la verità. Questo traspare [III,45,35] nei bambini piccoli, che vediamo provare soddisfazione quando scoprono qualcosa, pur se non torna loro di alcun vantaggio, col ragionamento. Per noi <Stoici> anche le arti sono da ricercarsi di per sé, sia perché contengono elementi degni d’essere assunti, sia perché constano di cognizioni [III,45,40] e contengono in sé un elemento fatto di ragione e metodo. Siamo invece alieni al falso assenso più che ad ogni altra cosa che sia ritenuta essere contro natura.

[III,46,1] § 3. La selezione

Frammenti n. 190-196

SVF III, 190

Cicerone ‘De finibus’ III, 31. Cosa potrebbe essere più ovvio del fatto che, se non ci è dato di distinguere le cose secondo natura [III,46,5] da quelle contro natura, ogni virtù risulta abolita?

SVF III, 191

Epitteto ‘Diatribe’ II, 6, 9-10. Per questo Crisippo dice bene: “Fino a che mi sarà dubbio il seguito, io sempre mi attengo ai giudizi più purosangue per centrare quanto è secondo la natura delle cose, giacché proprio dio mi ha fatto atto a selezionarli. Se appunto sapessi che ora mi è stato destinato [III,46,10] di ammalarmi, vi impellerei addirittura. Anche il piede, infatti, se avesse buonsenso, impellerebbe ad infangarsi”.

SVF III, 192

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 163, 4 Bruns. <Gli Stoici> infatti dicono: “Per il sapiente esistono cose promosse, che hanno valore, appropriate, attraenti”. Ma anche: “Se giacesse, da una parte, la virtù insieme a queste cose; e, dall’altra, [III,46,15] la virtù da sola; il sapiente non sceglierebbe mai la virtù separata, se gli fosse possibile prenderla insieme al resto”. Ma se è così, è manifesto che il sapiente avrà bisogno di queste cose.

SVF III, 193

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 164, 7 Bruns. Se, infatti, il patrimonio di cose selezionate fosse indifferente e non avesse per intento il sommo bene, allora [III,46,20] vuoto e matto affare sarebbe la loro selezione.

SVF III, 194

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 163, 32 Bruns. Inoltre, se secondo loro queste cose cadono sotto selezione da parte della virtù e la natura assume la virtù grazie alla loro selezione in quanto a noi appropriate e della reiezione di quelle contrapposte a queste; allora si devono selezionare beni attinenti al corpo [III,46,25] ed esterni e poi non esserne anche solleciti?

[2] ‘De anima libri mantissa’ p. 164, 32 Bruns. Quanto ai beni corporali e a quelli esterni, anch’essi affermano che sono in vista della virtù, affinché essa li selezioni per sé e se li procacci.

SVF III, 195

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1071a. Se dunque le cose per natura primarie sono non beni, ed invece lo sono la loro selezione razionale e [III,46,30] la nostra presa di possesso di esse, e che ciascuno faccia tutto ciò che può per centrare le cose per natura primarie, allora bisogna che tutte le nostre azioni facciano riferimento a quello scopo che è il centrare le cose per natura primarie. Non sarebbe infatti possibile avere il fine di centrarle se noi non le tenessimo come bersaglio e non le prendessimo di mira e qualora il sommo bene fosse diverso dalle cose alle quali le nostre azioni devono fare riferimento, ossia se avessimo di mira la loro selezione e non le cose per natura primarie in quanto tali. [III,46,35] Il sommo bene, insomma, è quello di selezionare e prendere saggiamente possesso delle cose per natura primarie, mentre invece le cose per natura primarie in quanto tali e il centrarle non è il sommo bene, ma una sorta di materiale soggiacente e dotato di un valore degno di selezione. Questa, io credo, è la formulazione con la quale, parlando e scrivendo, essi mostrano la differenza.

SVF III, 196

Frontone ‘Epistulae’ (ad M. Antoninum de eloquentia) p. 143 Naber. [III,47,1] Chi dubita che il saggio si distingue dall’insipiente precipuamente per capacità di riflessione e di scelta tra le cose, e per le opinioni che ha? Ad esempio, quando si possa optare tra ricchezza e povertà, benché entrambe siano né vizio né virtù, la scelta non mancherebbe tuttavia di essere lodevole o colpevole. [III,47,5] L’atto proprio e doveroso del saggio è quello di scegliere rettamente e non anteporre o posporre una cosa all’altra a casaccio. Se mi chiederai se io brami la buona salute, se fossi filosofo ti risponderei di no. Al saggio infatti non è lecito bramare o smaniare per qualcosa[III,47,10] cui ambirebbe invano, o che gli appaia in mano alla fortuna. Se poi fosse proprio necessario scegliere uno dei due, io sceglierei il piede veloce di Achille piuttosto che il piede infermo di Filottete.

ETHICA V.

Sulla virtù

§ 1. La nozione di virtù

Frammenti n. 197-213

SVF III, 197

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 89. La virtù è una disposizione d’animo [III,48,5] ammissibile con la ragione.

[2] VII, 90. Virtù è la perfezione di una cosa qualunque in generale, per esempio, quella di una statua; e può essere ateoretica, come la salute; oppure teorematica, come la saggezza.

SVF III, 198

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 34. La virtù è una disposizione stabile e conveniente dell’animo che rende degni di lode quanti l’hanno […] In modo [III,48,10] più conciso la virtù si può chiamare retta ragione.

SVF III, 199

‘Commento a Lucano’ p. 75 Us. Non c’è qui alcuna menzione della saggezza; ma, come ho detto, il termine ‘honestum’ significa la virtù in generale, la cui definizione è questa: ‘abitudine coerente di vita’; e se egli nomina altre virtù, queste possono per analogia significare anche quella. Infatti, chi ha la virtù in generale ha anche quelle specifiche [III,48,15] e chi ha quelle specifiche ha anche la virtù in generale.

SVF III, 200

Seneca ‘Epistulae morales’ XXXI, 8. Perché la virtù sia perfetta bisogna che le si accompagnino calma interiore e un tenore di vita consono ad essa. Il che non può accadere se manca la conoscenza della natura delle cose e l’arte grazie a cui si comprendono le cose umane e divine.

SVF III, 200a

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ LXXVI, 9. [III,48,20] Cos’ha l’uomo di ottimo? La ragione. Grazie ad essa sorpassa gli animali e segue gli dei. La perfezione della ragione è dunque il bene primario, mentre tutto il resto egli lo condivide con gli animali.

[2] 10. Cos’è proprio dell’uomo? La ragione, che quando è retta e perfetta dà all’uomo la pienezza della felicità. Perciò, se ogni cosa quando realizza perfettamente il suo bene specifico, è degna di lode [III,48,25] e raggiunge il suo fine naturale, e se il bene dell’uomo è la ragione, allora una volta che questi l’abbia pienamente realizzata è degno di lode ed ha raggiunto il suo fine naturale. Questa perfetta ragione si chiama virtù ed è onestà morale. Questo è il solo bene dell’uomo, perché uno solo è il suo bene.

SVF III, 201

Anonimo ‘In Aristot. Eth. Nicom.’ p. 128, 5 Heylbut [III,48,30] Bisogna sapere che anche prima degli Stoici esisteva questa opinione, che poneva le virtù nel dominio sulle passioni.

SVF III, 202

[1] Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ I, 56, I, p. 75, 6 Wendl. Questi <alberi> sono le virtù particolari, le [III,49,1] attività in armonia con esse, le azioni rette e quelle che i filosofi chiamano azioni doverose.

[2] I, 57. Alcune arti, infatti, sono teoretiche e non pratiche; per esempio, la geometria e l’astronomia. Alcune sono invece pratiche e non teoretiche; per esempio, la falegnameria, la metallurgia e quante sono dette meccaniche. La virtù, invece, è sia [III,49,5] teoretica che pratica. Ha del teorico nel momento in cui la via che porta ad essa è la filosofia attraverso le sue tre parti: logica, etica e fisica. Ma ha anche del pratico, giacché la virtù è arte della vita nella sua interezza, vita nella quale rientrano tutte quante le azioni. E seppure la virtù ha del teorico e del pratico, essa inoltre eccelle al massimo grado sia nell’uno che nell’altro. Infatti, la teoria della virtù è [III,49,10] bellissima ed ambìti sono la sua pratica e il suo uso.

SVF III, 203

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 58A Ed. Bas. Se infatti, come esplicitano gli Stoici, una ‘potenzialità’ è l’apportatrice di più casi effettuali; per esempio, la saggezza è apportatrice del saggio passeggiare e del saggio dialogare; allora saranno potenzialità, secondo siffatta definizione, anche quelle or ora chiamate [III,49,15] ‘impotenze’; giacché anche le imperizie sono apportatrici di più cadute in errore. Se poi, secondo un altro costituto stoico, s’affermasse che una ‘potenzialità’ è l’apportatrice di più casi effettuali la quale tiene soggette a sé le attività subordinate, ecco che le s’adatta la definizione di Plotino. Infatti il vizio, che secondo la definizione degli Stoici è un’impotenza, tiene soggette a sé le attività che gli attengono. Anche[III,49,20] le arti intermedie, pur cadendo fuori dal novero delle attività dagli effetti ben saldi, sono tuttavia tali che i loro effetti possono quel che possono, sicché le impotenze di quel genere rimangono incluse nella potenzialità propria della qualità di ciascuna arte intermedia.

SVF III, 204

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 167, 4 Bruns. Dire: “Come l’auletica può [III,49,25] rettamente utilizzare qualunque data melodia, così fa la virtù con qualunque faccenda” è sano, ma bisogna distinguere ulteriormente…

SVF III, 205

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 167, 9 Bruns. Inoltre, non “perché la virtù utilizza bene qualunque faccenda”, allora “l’utilizzo di qualunque faccenda porta alla felicità”.

SVF III, 206

Proclo ‘In Platonis Timaeum’ p. 18 C. Schn. [III,49,30] La guerra mostra la grandezza della virtù più della pace, come anche i marosi e la tempesta quella dell’arte del pilota e, in complesso, ciò vale per tutte le circostanze difficili. Sicché gli Stoici sono soliti dire: “Dà una circostanza difficile e prendi l’uomo”. Infatti ciò che rimane invitto davanti alle cose che asserviscono gli altri, manifesta integralmente il valore della vita.

SVF III, 207

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 11 (p. 254 Aucher). <L’intelletto> interrogato [III,49,35] risponde: ‘La virtù non alberga soltanto in me ma anche in quel cavo e sicuro ricettalo che è il corpo, e si estende ai sensi e ai loro specifici organi. Secondo virtù io vedo, odo, odoro, gusto, tocco ed [III,49,40] eseguo gli altri movimenti secondo prudenza, castità, fortezza e giustizia’.

SVF III, 208

Stobeo ‘Eclogae’ II, 100, 15 W. <Gli Stoici> danno alla virtù molti nomi appellativi. Infatti la chiamano ‘bene’, perché ci conduce alla retta vita; ‘gradita’, perché è valutata positivamente senza sospetto alcuno; [III,50,1] ‘di gran valore’, perché ha un valore insuperabile; ‘industriosa’, giacché è degna di grande industria; ‘lodevole’, giacché la si loderebbe con ragione; ‘bella’, perché è nata per chiamare a sé coloro che la desiderano; ‘utile’, giacché ci porta cose tali che hanno per scopo il vivere bene; ‘proficua’, [III,50,5] perché nel bisogno è giovevole; ‘scelta’, giacché derivano da essa cose che è ragionevole scegliere; ‘necessaria’, perché quando è presente giova, e quando è assente non è possibile ricevere giovamento; ‘vantaggiosa’, giacché i giovamenti che si traggono da essa sono migliori della trattazione teorica che ha questi per scopo; ‘autosufficiente’, giacché è bastante a chi l’ha; ‘libera dal bisogno’, perché è lontana da ogni [III,50,10] carenza; ‘adeguata’, per essere sufficiente nell’uso e prolungarsi su ogni bisogno della vita.

SVF III, 209

Filone Alessandrino ‘Quod deterius potiori insid. soleat’ 72, I, p. 274, 30 Wendl. E dunque <i sofisti> ci intronano le orecchie dichiarando la giustizia socievole, la temperanza utile, la padronanza di sé virtuosa, [III,50,15] la religiosità giovevolissima e ogni altra virtù salutare al massimo grado e salvifica. E, al contrario, ci dettagliano l’ingiustizia senza tregua, l’intemperanza malsana, l’irreligiosità fuorilegge e ogni altro vizio dannosissimo.

SVF III, 210

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046c. Per contro, in molti luoghi <Crisippo> ha detto: “Non sarebbe doveroso porgere neppure il dito per una saggezza [III,50,20] momentanea che ci attraversa come un lampo”. Basterà citare quel che egli ha scritto in proposito nel sesto libro delle ‘Ricerche etiche’. Dopo avere rimarcato che: “Non ogni bene finisce parimenti in gioia né ogni retta azione in parole solenni”, ha inferito questo: “E infatti, se si trattasse soltanto di ottenere la saggezza per un istante o per [III,50,25] l’estremo nostro momento, allora non sarebbe doveroso neppure protendere il dito a motivo di una saggezza presente a questo modo”.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1062a. Di nuovo essi affermano: “Una virtù di breve durata non è di alcun pro. Che pro, infatti, viene a colui cui la saggezza sopravverrà mentre è sul punto di naufragare o di essere gettato in un precipizio? Che pro per Lica, se egli muterà dal vizio alla virtù nell’attimo in cui è [III,50,30] scagliato in mare da Eracle come il sasso da una fionda?”.

SVF III, 211

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038f. Quando <Crisippo> intima di non lodare qualunque azione effettuata secondo virtù, egli palesa esservi una certa differenza tra le azioni rette. Nella compilazione ‘Su Zeus’ egli dice così: “Quantunque le opere secondo virtù siano appropriate, portate ad esempio [III,50,35] ci sono anche opere di questo genere. Per esempio: virilmente protendere il dito; con padronanza di sé astenersi da una vecchia con un piede già nella fossa; senza precipitoso assenso stare a sentire fino alla fine che il tre non è il quattro. Chi pone mano a lodare ed encomiare della gente attraverso esempi del genere, non si palesa un freddurista?”

SVF III, 212

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1039a. [III,50,40] <Crisippo> ha detto cose simili a queste nel terzo libro ‘Sugli dei’. Infatti egli afferma: [III,51,1] “Inoltre io credo che le lodi per cose del genere di ‘astenersi da una vecchia che ha un piede già nella fossa’ e di ‘reggere con fortezza la puntura di una mosca’, ci estranieranno da quelle per azioni che derivano dalla virtù”.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1061a. [III,51,5] Nella compilazione ‘Su Zeus’ e nel terzo libro ‘Sugli dei’ Crisippo dice: “È una freddura, è assurdo, è improprio lodare cose del genere: ‘resse virilmente la puntura di una mosca’ e ‘con temperanza s’astenne da una vecchia con un piede già nella fossa’, come azioni derivanti dalla virtù”.

SVF III, 213

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1061c. [III,51,10] Per loro <Stoici>, infatti, fra molte apprensioni certe e ricordi di apprensioni certe, l’uomo diventato sapiente e saggio ritiene che poche lo riguardino direttamente; e senza preoccuparsi delle altre crede di avere né di meno né di più se si rammenta che l’anno scorso ebbe l’apprensione certa di Dione che starnutiva o di Teone che giocava a palla. Seppure, nell’uomo sapiente, ogni apprensione certa e ogni [III,51,15] ricordo sicuro e saldo siano anche direttamente scienza e un bene grande, anzi sommo.

§ 2. Come la virtù esista nell’uomo

Frammenti n. 214-227

SVF III, 214

‘Anecdota Graeca’ Paris I, p. 171 Cramer. Aristotele ritiene <che si diventi buoni o cattivi> per natura, abitudine e ragionamento. Senza fallo è così [III,51,20] anche per gli Stoici, giacché la virtù è un’arte. E ogni arte è un insieme di principi generali coesercitati, ragionamento in accordo coi principi generali e abitudine alla coesercitazione. Noi siamo tutti generati per la virtù, in quanto abbiamo le risorse…

SVF III, 215

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1048d. Se dunque [III,51,25] la divinità non dà agli uomini la virtù, ma il bello è libera scelta dell’uomo, <la divinità però dà ricchezza di denaro e salute sprovviste di virtù a gente che le utilizzerà non bene ma male, ossia in modo dannoso, vergognoso, sciagurato.> Eppure, se gli dei possono procurare la virtù, sono non probi se non la procurano. Se, invece, non possono rendere gli uomini virtuosi, neppure possono loro giovare, dal momento che null’altro è buono e giovevole. Non conta nulla, infatti, che essi giudichino per virtù e potenza coloro che sono divenuti virtuosi per altra via, giacché anche [III,51,30] i virtuosi giudicano gli dei per virtù e potenza. Sicché gli dei recano un giovamento non maggiore di quanto ne ricevano dagli uomini.

SVF III, 216

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VI, 9. Se la virtù va conquistata, come rettamente sostengono <gli Stoici>, in quanto consta che l’uomo sia nato per essa.

SVF III, 217

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 62Γ Ed. Bas. [III,51,35] Gli Stoici, infatti, riservarono alle arti la sola idoneità così semplicemente teorizzata. Nei confronti delle virtù, invece, dichiararono che il rimarchevole profitto prende iniziativa dalla natura, quella che i Peripatetici chiamavano ‘virtù naturale’.

SVF III, 218

Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 52, Vol. II, p. 267, 15 K. [III,51,40] Giacché non si troverebbero persone che abbiano del tutto perso i comuni concetti di bello e di brutto, di giusto e di ingiusto.

SVF III, 219

Seneca ‘Epistulae morales’ XLIX, 11. La natura [III,52,1] ci ha fatti capaci di apprendere dandoci una ragione imperfetta ma capace di perfezionamento.

SVF III, 220

Cicerone ‘De legibus’ I, 27. <È evidente che> la natura fa di per sé altri passi avanti. Essa infatti, senza alcun educatore, muovendo dalle cose i cui caratteri conobbe [III,52,5] grazie ai primi abbozzi di intelligenza, sola e senz’aiuto rafforza e perfeziona la ragione.

SVF III, 221

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 6, p. 575 Pott. Gli Stoici affermano che la conversione al divino avviene per trasformazione dell’animo, il quale muta e si orienta verso la sapienza.

SVF III, 222

Filone Alessandrino ‘Quis rer. div. heres’ 299, III, p. 68, 7 Wendl. [III,52,10] Il primo numero è quello per cui non è possibile prender concetto né di beni né di mali poiché l’animo non è ancora modellato. Il secondo è quello per cui noi usiamo le aberrazioni a profusione. Il terzo è quello in cui ci curiamo, respingendo le cose malsane ed abbandonando all’adolescenza l’acme delle passioni. Il quarto è quello in cui facciamo nostra la definitiva salute e [III,52,15] robustezza, ossia quando, una volta distoltici dai giudizi insipienti, riteniamo di mettere mano a quelli virtuosi. Prima non se ne ha la potestà.

SVF III, 223

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 91. Anche Crisippo, nel primo libro ‘Sul sommo bene’, afferma che la virtù è insegnabile [….] e che sia insegnabile è manifesto dal fatto che gli [III,52,20] insipienti diventano virtuosi.

SVF III, 224

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 3, p. 839 Pott. Infatti noi non siamo generati possedendo per natura la virtù né, una volta nati, essa ci sopravviene in seguito naturalmente, come accade per certe altre parti del corpo; dacché allora il fatto non sarebbe ancora deliberato né degno di lode. Neppure la virtù si perfeziona per la sopravveniente [III,52,25] consuetudine con le cose che avvengono, com’è invece il caso per la lingua che parliamo; anzi è piuttosto il vizio che si ingenera in questo modo. Né la conoscenza della virtù promana da qualcuna delle arti provveditrici di oggetti esterni o terapeutiche del corpo. Ma neppure dall’educazione enciclopedica…

SVF III, 225

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 336 Pott. Giacché si diventa uomini dabbene non per natura ma per apprendimento, [III,52,30] appunto come si diventa medici e piloti […] Che alcuni, rispetto ad altri, siano per natura meglio disposti alla virtù, lo mostrano alcune loro occupazioni rispetto a quelle degli altri. Ma quanto a perfezione nella virtù, neppure una di esse categorizza coloro che hanno per natura migliori disposizioni d’animo; dal momento che anche gli individui nati con peggiori disposizioni d’animo, qualora abbiano in sorte [III,52,35] l’educazione conveniente, vengono generalmente a capo della virtù; mentre, al contrario, coloro che sono nati idonei ad essa diventano viziosi per trascuratezza. A sua volta Dio ci creò per natura socievoli e giusti, donde neppur si deve dire che il giusto appare tale solo perché tale lo si pone. Bisogna invece capire che il bene della creazione si riaccende a partire dall’istruzione originaria presente nell’anima quando questa sia stata educata, con l’apprendimento, a disporre di [III,52,40] scegliere l’ottimo.

SVF III, 226

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038e. Inoltre tralascio il fatto che, nella compilazione ‘Su Zeus’, <Crisippo> afferma: “Le virtù sono suscettibili di accrescimento e di avanzare a grandi passi”. [Lo faccio] per non sembrare uno che s’abbranca ai nomi, seppure Crisippo morda amaramente, in questo genere di cose, Platone e gli altri.

SVF III, 227

Filone Alessandrino ‘De Moyse’ III, II, Mang. p. 162. [III,53,1] Così stanno le cose anche per le virtù, giacché a ciascuna di esse è avvenuto di essere principio e fine: principio, perché non deriva da altra facoltà ma germoglia da se stessa; fine, perché la vita secondo natura s’affretta verso di essa.

[III,53,5] § 3. Sul pervertimento della ragione

Frammenti n. 228-236

SVF III, 228

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 89. La creatura logica si perverte a volte per la persuasività di faccende esteriori, a volte per la [III,53,10] catechesi dei sodali; visto che la natura le dà risorse non pervertite.

SVF III, 229

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 165. Dicono inoltre che le azioni malvagie non sono volontarie, giacché ogni animo, in quanto partecipe della divinità, per impulso naturale richiede per sé sempre il bene, ed erra però talvolta nel giudizio sui beni e sui mali. Infatti, alcuni reputano quale sommo bene la voluttà, altri la ricchezza, la maggior parte di noi [III,53,15] la fama, insomma tutto meno ciò ch’è vero bene. Le cause di questo errore sono molteplici. La prima è quella che gli Stoici chiamano doppio pervertimento. Esso nasce tanto dalle cose di per sé, quanto dalle opinioni popolarmente accolte al riguardo. Senza dubbio per quanti nascono, nel momento stesso in cui escono dal grembo materno la nascita comporta un certo dolore, poiché passano da un ambiente caldo e umido [III,53,20] a quello freddo e secco dell’aria. Contro questo doloroso freddo dei neonati, a mo’ di medicina si oppone un ingegnoso rimedio delle ostetriche, consistente nel riscaldarli in un bagnetto d’acqua tiepida, così che si ricrei una somiglianza col grembo materno in un caldo covile, disteso nel quale il tenero corpicino si diletta e si calma. Perciò da entrambe le sensazioni, tanto di dolore che di diletto, sorge [III,53,25] una certa opinione naturale secondo cui tutto tutto ciò ch’è soave e dilettevole è bene, e per contro che tutto ciò che procura dolore è male e va evitato. Quando poi siano più grandicelli, essi hanno lo stesso parere sulla fame e sulla sazietà, sulle carezze e sui rabbuffi; ed anche in età matura rimangono dello stesso parere che avevano all’inizio, stimando ogni blandizie, [III,53,30] pur se inutile, un bene; e ogni cosa faticosa, pur se arreca vantaggi, un male. Di conseguenza prediligono di gran lunga la ricchezza, giacché essa è un validissimo mezzo per procurarsi sfrenati piaceri, ed abbracciano la fama credendola l’onore. In verità, ogni uomo prova un impulso naturale per la lode e l’onore, giacché l’onore è testimonianza di virtù. [III,53,35] Ma gli uomini saggi e quelli impegnati nella ricerca della saggezza, sanno bene quale sia e come vada coltivata la virtù. Invece il volgo, inesperto per ignoranza delle cose, coltiva la fama e la stima popolare credendola l’onore, e credendola davvero la virtù persegue una vita stillante piaceri sfrenati, stimando la potestà di fare ciò che vuole una sorta di superiorità regale. [III,53,40] Siccome l’uomo è per natura il re degli animali e poiché regnare s’accompagna sempre a potere, il volgo ritiene che al potere consegua la regalità; quando invece il regnare è semplicemente l’esercizio della giusta tutela, simile a quella che esercitano i genitori. Al tempo stesso, poiché chi è felice necessariamente vive come gli aggrada, il volgo reputa che anche quanti vivono nei piaceri sfrenati siano felici. [III,54,1] Questo è l’errore, io reputo, che sorgendo dalle cose di per sé possiede gli animi umani. Ci sono poi le opinioni popolarmente accolte, che all’errore suddetto aggiungono il sussurrio di voti delle madri e delle nutrici affinché al neonato tocchino ricchezza, fama e tutte le altre cose che falsamente sono ritenute beni; gli spaventi dovuti ai babau, che in tenera età fanno ancor più impressione; [III,54,5] e poi le consolazioni conseguenti e tutto il resto. La poesia che addolcisce menti già temprate ed altre magnifiche opere di scrittori ed autori, non introducono forse negli animi rozzi, accanto a voluttà e travaglio, inclinazioni al favore del volgo? E che? I pittori e gli scultori non rapiscono forse gli animi dall’industriosità alla mollezza? Ma il massimo eccitamento [III,54,10] ai vizi viene dall’unione tra corpo ed animo per cui, in base ad abbondanza e povertà, noi siamo più propensi alla libidine o all’iracondia. A questi si aggiungano i diversi casi della vita e della fortuna: la malattia, la servitù, la mancanza delle cose necessarie; tutti fatti occupati dai quali siamo trascinati dai nobili studi alle miserie della vita quotidiana e strappati alla cognizione del vero bene. [III,54,15] Ai futuri saggi serve dunque tanto l’educazione liberale e precetti conducenti all’integrità morale, quanto una cultura separata da quella del volgo, capace di vedere, approfondire e scegliere tutto ciò che porta alla saggezza. (Si confronti questo frammento con le parole del precedente frammento di Diogene Laerzio VII, 89. “La creatura logica [III,54,20] si perverte a volte per la persuasività di faccende esteriori, a volte per la catechesi dei sodali; visto che la natura le dà risorse non pervertite”.)

SVF III, 229a

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 5, p. 437 M. E in primo luogo […] metteremo mano alla trattazione del governo dei bambini. [III,54,25] Infatti, non si può affermare che i loro impulsi siano sotto la tutela della ragione (giacché non hanno ancora la ragione), né che essi non provino rancore, afflizione, godimento; che non ridano, che non rompano in alti lamenti e non sperimentino miriadi di altre passioni del genere. Anzi, le passioni sono molte di più e più veementi nei bambini che negli adulti. Queste evidenze sono invero inconseguenti con i giudizi teorici di Crisippo ed anche col giudizio che non vi sia alcuna tendenza naturale [III,54,30] all’appropriazione del piacere fisico ed all’estraniazione dal dolore fisico. […] Ci sono dunque per natura in noi questi tre tipi di appropriazione, corrispondenti a ciascuna specificità dei tre pezzi dell’animo: appropriazione del piacere fisico per via del pezzo concupiscente; appropriazione dell’essere vincenti per via del pezzo irascibile; appropriazione del bello per via del pezzo raziocinante. Epicuro osservò soltanto l’appropriazione del pezzo peggiore dell’animo [III,54,35] e Crisippo quella del pezzo migliore, poiché ha affermato che noi siamo imparentati solo al bello, che è manifestamente anche il bene. Soltanto agli antichi filosofi fu dato di osservare tutte e tre le appropriazioni. Poiché dunque ha lasciato da parte le prime due, Crisippo dirà verosimilmente di difettare di una spiegazione della genesi del vizio, non potrà citarne la causa né i modi di sussistenza, [III,54,40] e neppure potrà scovare come mai i bambini aberrino; tutte cose che ragionevolmente, io credo, anche Posidonio di lui biasima e confuta. Ma invero si vede che quand’anche un bambino sia nutrito di probe abitudini e sia convenientemente educato, comunque incappa in qualche aberrazione; e proprio questo fatto anche Crisippo lo ammette. Eppure era contingente per lui, che disdegna cose che [III,54,45] appaiono evidenti, ammettere soltanto ciò ch’è conseguente con le sue ipotesi ed essere dell’avviso che se i bambini fossero ben condotti, essi diverrebbero comunque, con il passare del tempo, uomini saggi. Ma non ha avuto l’audacia di fare questa dichiarazione smentita dall’evidenza ed ha ammesso che se anche saranno educati solo da un filosofo e non osserveranno né ascolteranno giammai un esempio di vizio, [III,55,1] ugualmente questi bambini non diventeranno di necessità filosofi. Duplice è infatti la causa del pervertimento: una è quella ingenerata dalla catechesi della maggioranza degli uomini, l’altra è ingenerata dalla stessa natura delle cose. […] se Crisippo pare ammettere, [III,55,5] non per le parole usate ma per la forza delle argomentazioni addotte, che vi sono in noi per natura un’appropriazione ed un’estraniazione verso ciascuna delle entità dette (cioè verso il piacere e il dolore fisico, verso l’onore e il disonore). Qualora infatti egli affermi che i pervertimenti circa i beni e i mali si ingenerano nei viziosi a motivo della persuasività delle rappresentazioni e della catechesi, bisogna domandargli quale sia la causa per cui [III,55,10] il piacere fisico e la sofferenza ci mettono davanti un’immagine persuasiva, l’una del bene e l’altra del male. E allo stesso modo anche perché la vittoria alle Olimpiadi e l’erezione di statue siano cose lodate e giudicate beate dai più e da noi intese come beni; e invece, circa la sconfitta e il disonore, noi ci persuadiamo prontamente che siano mali. […] Nel [III,55,15] presente il mio ragionamento si sofferma contro i seguaci di Crisippo, i quali non conoscono altro di ciò che attiene alle passioni; neppure che le mescolanze degli umori del corpo elaborano moti passionali appropriati a se stesse. […] <In proposito, poi> Crisippo in persona non soltanto nulla ha detto di decente, ma neppure ha lasciato dietro di sé a qualcuno dei seguaci risorse per il rinvenimento della verità, poiché ha posto a supporto del [III,55,20] suo ragionamento uno zoccolo di cattiva qualità.

SVF III, 229b

Cicerone ‘De legibus’ I, 47. A turbarci sono la varietà delle opinioni degli uomini e i loro dissensi; e poiché tale varietà non si riscontra nei sensi, questi noi li reputiamo per natura affidabili; mentre diciamo inventate le cose che appaiono ad alcuni in un modo, ad altri in un altro, né sempre allo stesso modo alle stesse persone. La realtà è però diversa. Infatti non c’è genitore, balia, maestro, [III,55,25] poeta, o scena teatrale capace di depravare i nostri sensi né può sviarli il consenso della moltitudine. Invece agli animi nostri sono tese ogni sorta di insidie da parte di quanti ho elencato, i quali li accolgono tenerelli ed inesperti e poi li manipolano e piegano come vogliono, attraverso quella imitatrice del bene che risiede intrecciata a fondo in ciascuno dei nostri sensi, che si chiama ebbrezza [III,55,30] ed è la madre di tutti i mali. In questo modo gli animi, corrotti dalle blandizie dell’ebbrezza, non riescono a riconoscere a sufficienza le cose che sono per natura buone in quanto carenti di questa dolce attrattiva.

SVF III, 230

Cicerone ‘De legibus’ I, 31. È insigne la somiglianza del genere umano non soltanto nelle opere rette ma anche in quelle malvagie. Tutti sono catturati dall’ebbrezza la quale, [III,55,35] pur essendo un allettamento alla turpitudine, tuttavia ha qualcosa di simile al bene naturale, giacché diletta con la sua soave leggerezza e per un errore della mente viene abbracciata come qualcosa di salutare. Preda della stessa incomprensione, noi fuggiamo la morte quasi si trattasse della dissoluzione della natura; richiediamo la vita, perché ci mantiene nello stato di quando nascemmo; riteniamo il dolore essere il peggiore dei mali, sia per la sua asprezza sia perché ci sembra che ad esso consegua lo sfascio della nostra natura; per la similitudine esistente [III,55,40] tra integrità morale e fama, ci sembrano beati quanti sono onorati e invece miseri quanti non hanno fama. Molestie, letizie, cupidigie e timori vagano similmente nella mente di tutti, e se uomini diversi hanno opinioni diverse, non per questo quanti onorano come divinità il cane e il gatto sono afflitti [III,56,1] da superstizioni diverse da quelle degli altri popoli.

SVF III, 231

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CXV, 11. I genitori hanno istillato in noi l’ammirazione per l’oro e l’argento, sicché l’avidità per essi infusaci da bambini, via via ha messo radici ed è cresciuta con noi. Quindi tutto il popolo, pur in disaccordo su altre cose, sull’oro e l’argento è d’accordo, [III,56,5] a quelli guarda e chiede per i propri figli.

[2] 12. Si aggiungono a ciò le composizioni poetiche […] nelle quali la ricchezza d’oro e d’argento è lodata quale unico pregio ed ornamento della vita.

SVF III, 232

Seneca ‘Epistulae morales’ XCIV, 53. Non c’è parola che giunga impunemente al nostro orecchio. Ci nuocciono [III,56,10] sia quanti ci augurano il bene, sia quanti ci esecrano. Infatti, le maledizioni di questi ultimi ci istillano in animo false paure; mentre l’affetto dei primi, augurandoci il bene, è cattivo maestro, giacché ci indirizza verso beni lontani, incerti e vaghi, mentre potremmo trarre la felicità da noi stessi.

SVF III, 233

Origene ‘Contra Celsum’ III, 69, Vol. I, p. 261, 12 K. [III,56,15] Noi siamo coloro che sanno bene che una sola è la natura di ogni anima logica; che sono dell’avviso che nessuna anima è stata creata malvagia dal costruttore dell’intero cosmo e che molti sono diventati viziosi per allevamento, per pervertimento, per gli echi che hanno intorno, sicché in alcuni il vizio è diventato una seconda natura.

SVF III, 234

[1] Galeno ‘De morib. anim.’ 11, IV, p. 816 K. In questo [III,56,20] mi stupisco degli Stoici, ossia del fatto che essi credano tutti gli uomini idonei all’acquisizione della virtù ma che essi siano pervertiti da coloro che non vivono bene.

[2] p. 818 K. Sciocchissimi sono poi quanti affermano che noi siamo pervertiti dal piacere della carne in quanto esso ha molto di seducente; mentre il dolore fisico sarebbe repellente e scabroso.

SVF III, 235

Galeno ‘De morib. anim.’ Ed. Bas. 1, 351, K., IV, p. 820. [III,56,25] Come affermano gli Stoici, infatti, il vizio nella sua totalità non viene nei nostri animi dall’esterno, ma la maggior parte di esso gli uomini malvagi l’hanno in loro stessi e quel che viene dall’esterno è molto meno di questo.

SVF III, 236

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 368 Pott. Né le lodi, né le [III,56,30] denigrazioni, né gli onori, né i castighi sarebbero giusti se l’anima non avesse la potestà dell’impulso e della repulsione e se il vizio fosse involontario […] Ma dacché proairesi ed impulso sono all’origine delle aberrazioni, talvolta ci padroneggia una concezione sbagliata dalla quale, che pur è ignoranza e incultura, siamo negligenti a distornarci; e verosimilmente Dio ci castiga per questo. Giacché avere la febbre è cosa involontaria, [III,56,35] ma qualora uno abbia la febbre per colpa della sua non padronanza di sé, noi accagioniamo costui. Così pure è del vizio, quando sia involontario. Uno, infatti, non sceglie il male in quanto male, ma lasciandosi trascinare dal piacere che lo circonda, e dunque concependolo un bene, lo ritiene qualcosa che può, se offerto, essere preso.

§ 4. Se la virtù possa essere persa

Frammenti n. 237-244

SVF III, 237

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 127. Per Crisippo la virtù [III,56,40] si può buttar via. Cleante, invece, sostiene che non si può buttar via. Secondo Crisippo la si può buttar via per ubriachezza e malinconia. Secondo Cleante essa non può esser buttata via a causa della saldezza delle apprensioni certe.

SVF III, 238

[1] Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 102A ed. Bas. [III,57,1] Accade che un individuo da insipiente diventi virtuoso; ma gli Stoici non concedono che accada il contrario, giacché essi dicono che la virtù non si può perdere.

[2] 102B. Contro queste affermazioni è facile ribattere come si tocchi con mano che [III,57,5] si può perdere la virtù. Teofrasto ha dato dimostrazioni sufficienti della sua mutevolezza ed Aristotele reputa che ciò che non si può perdere non sia umano. Inoltre, anche gli Stoici convengono che nei casi di malinconia, torpore, letargia, assunzione di farmaci avviene un perdimento, insieme con l’intera abituale postura logica dell’animo, proprio della virtù; pur se non [III,57,10] si introduce al suo posto il vizio, poiché s’affievolisce la saldezza dell’animo ed esso cade in quella che gli antichi chiamavano postura intermedia.

SVF III, 239

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 161, 16 Bruns. Inoltre, se è possibile che l’uomo virtuoso si trovi in stato di letargia, malinconia, obnubilamento o delirio, condizioni nelle quali è impossibile [III,57,15] svolgere attività virtuose; allora la virtù è non autosufficiente per le attività che le sono attinenti. Come si potrebbe infatti affermare, se non per partito preso, che chi delira ed ha per questo bisogno di catene e dell’aiuto degli amici, agisca in quel momento virtuosamente? Inoltre se la virtù, secondo costoro, respinge ed avversa alcuni ‘indifferenti’ mentre altri li sceglie e li seleziona, allora essa non sarebbe autosufficiente in vista della felicità. [III,57,20] Come potrebbe infatti essere felice chi si trova in condizioni che la virtù respinge?

SVF III, 240

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 22, p. 627 Pott. Costui non avrà in alcun modo una virtù che possa essere buttata via né in veglia, né in sonno, né per una rappresentazione qualunque; dacché la postura abituale dell’animo non può mai ritrarsi da se stessa, pena l’abortire come postura, sia che si chiami la conoscenza una postura, sia che la si chiami una disposizione. Per il fatto, poi, che non s’intrudono mai [III,57,25] concetti differenti, l’egemonico rimane invariato e non aggiunge alterazione alcuna alle rappresentazioni mentre sogna le immagini oniriche dei suoi moti diurni.

SVF III, 241

Teogneto comico Fr. 1, III, p. 364 Kock. Uomo, tu mi manderai in malora. Zeppo come sei di discorsetti stoici, [III,57,30] sei malato: “La ricchezza di denaro è per l’uomo una cosa allotria”. Brina! “Propria dell’uomo è la sapienza”. Ghiaccio! “Nessuno mai dopo averla ottenuta l’ha persa”. Sciagurato me! Con che razza di filosofo mi ha messo a coabitare il mio demone?

SVF III, 242

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ p. 199, 27 Bruns. Dunque non è in suo potere il non avere più la postura virtuosa dell’animo […] [III,57,35] Ma proprio delle attività che egli compie avendone costumanza, è in suo potere anche non farne qualcuna. Giacché se è del tutto ragionevole che l’uomo saggio compia attività secondo ragione e secondo saggezza, in primo luogo alcune di queste non in modo definitivo….

SVF III, 243

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046f. Ma nel [III,57,40] sesto libro delle ‘Ricerche etiche’ Crisippo afferma: “Non sempre l’uomo urbano si comporta [III,58,1] virilmente né l’insipiente si comporta vilmente così che, all’apparire di certe rappresentazioni, uno mantenga le proprie determinazioni e l’altro invece se ne distorni”. Ed afferma anche: “È plausibile che l’insipiente non sempre sia intemperante”.

SVF III, 244

[1] Filone Alessandrino ‘De sobrietate’ 34, II, p. 222, 10 Wendl. Quiete e [III,58,5] moto differiscono uno dall’altro. Il primo è immobilità, mentre il moto è pulsione. Del moto vi sono due specie: il moto traslatorio e il moto circolare. Dunque, una postura abituale è sorella della quiete, mentre invece l’attività è sorella dello stato di moto. Quanto appena detto potrebbe diventare più ovvio mediante un esempio appropriato. Un falegname, un pittore, un agricoltore, un musicista e gli altri artisti, quand’anche se ne stiano a riposo e non pratichino alcuna delle attività attinenti [III,58,10] alle loro arti, nondimeno è usanza chiamarli coi detti nomi, dacché essi si portano addosso perizia e scienza in ciascuna di esse. Ma non appena il falegname prende a lavorare il materiale ‘legno’ […] e se ciascuno degli altri artisti pone mano alle opere relative a ciò di cui ha scienza, allora di necessità sopravvengono loro altri termini imparentati con i precedenti: al ‘falegname’ quello di ‘falegname in attività’; al [III,58,15] ‘pittore’ quello di ‘pittore in attività’. E a chi tengono dunque dietro le denigrazioni e le lodi? Non forse a coloro che sono in attività e compiono delle opere? Giacché operando rettamente ne fruttano lodi; se invece operano sbagliando ne fruttano denigrazioni.

[2] 38 Il medesimo ragionamento s’adatta anche ai casi di stoltezza e, in generale, a quelli di virtù e di vizio. Innumerevoli uomini che sono diventati saggi, [III,58,20] temperanti, virili, giusti nell’animo […] non furono capaci di sfoggiare la bellezza delle visioni presenti nei loro intelletti a causa di povertà di denaro o del discredito o di qualche malattia del corpo […]. Pertanto costoro acquisirono dei beni che erano come legati e reclusi mentre altri, invece, li utilizzarono tutti in scioltezza, avendo in più una grandissima abbondanza di materiali per lo sfoggio di quella bellezza. Il saggio ebbe in più il patrocinio [III,58,25] di affari privati e pubblici, nei quali sfoggia intelligente comprensione e buon consiglio. Il temperante ebbe in più la cieca ricchezza di denaro, la quale è terribile ad esaltare e invitare alla dissolutezza, affinché si dimostrasse avveduto. Il giusto ebbe in più l’autorità grazie alla quale sarà capace di assegnare a ciascuno secondo il merito senza essere soggetto ad impedimenti. Senza queste attività le virtù ci sono sì, ma sono virtù immote e se ne stanno a riposo. [III,58,30]

§ 5. Identica è la virtù di dei e di uomini, di uomini e di donne

Frammenti n. 245-254

SVF III, 245

Cicerone ‘De legibus’ I, 25.

La virtù è la stessa nell’uomo e in dio, e non è presente in alcun’altra creatura. La virtù è null’altro che natura giunta al suo massimo grado di perfezione.

SVF III, 246

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1076a. [III,58,35] Ma secondo Crisippo non resta agli dei neppure questa superiorità: “Giacché, quanto a virtù, Zeus è non più eminente di Dione. E Zeus e Dione, poiché sono saggi, si recano l’un l’altro un giovamento simile, qualora uno dei due si imbatta nei movimenti dell’altro”.

SVF III, 247

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ p. 211, 13 Bruns. [III,59,1] Non è possibile affermare che le virtù degli uomini e degli dei siano le stesse. Né, d’altra parte, si dice la verità affermando che le perfezioni e le virtù di esseri tanto disparati per natura siano identiche. E neppure i loro ragionamenti [III,59,5] circa gli dei hanno in sé qualche ragionevolezza.

SVF III, 248

Origene ‘Contra Celsum’ VI, 48, Vol. II, p. 119, 16 K. E poi se i filosofi Stoici, dopo avere chiamato identica la virtù dell’uomo e di Dio, diranno che Dio non è [III,59,10] su tutti più felice di chi, secondo loro, è tra gli uomini sapiente, ma che pari è la felicità di entrambi, ebbene Celso non deride…

SVF III, 249

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 29, Vol. I, p. 298, 27 K. Sicché identica è la virtù dell’uomo e quella di Dio.

SVF III, 250

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 14, p. 886 Pott. Noi infatti non affermiamo, come affermano [III,59,15] gli Stoici da perfetti atei, che la virtù dell’uomo è identica a quella di Dio.

SVF III, 251

Temistio ‘Orationes’ II, p. 27c. Se, a sua volta, qualcuno dicesse che è adulazione paragonare un re ad Apollo Pizio, Crisippo e Cleante non ne converrebbero con voi; e neppure l’intera etnia filosofica degli Stoici, i quali sono dell’avviso che identiche siano la virtù e la verità [III,59,20] dell’uomo e di dio.

SVF III, 252

Proclo ‘In Platonis Timaeum’ p. 106 F. Schn. Gli Stoici hanno affermato che la virtù degli dei e degli uomini è identica, tenendosi ben lontano dall’emulare la santità di Platone e l’equilibrio di Socrate.

SVF III, 253

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 25. Se [III,59,25] la natura dell’uomo è tale che egli è capace di saggezza, allora bisogna che artigiani, contadini, donne, insomma chiunque ha fattezze umane, riceva una educazione che li renda saggi, e che si formi un popolo di saggi d’ogni lingua, condizione, sesso ed età. […] Di ciò si avvidero gli Stoici, i quali sostennero che anche le donne e gli schiavi dovevano dedicarsi alla filosofia. [III,59,30] E se ne accorse anche Epicuro, il quale invita alla filosofia gli illetterati.

SVF III, 254

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 8, p. 590 Pott. [1] Noi abbiamo ammesso che, all’interno di ciascun genere, la medesima natura sia in stato di avere anche la medesima virtù. Pertanto, poiché quanto ad umanità la natura della donna non [III,59,35] appare diversa da quella dell’uomo ma la stessa, così deve valere anche per la virtù.

V, 14, p. 592 Pott. [2] Debbono praticare la filosofia anche le donne, in modo simile agli uomini.

§ 6. Le virtù sono numerose e di varia qualità

Frammenti n. 255-261

SVF III, 255

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 441a. Sembra che anche [III,59,40] Zenone di Cizio si lasci in un certo senso trarre a questa opinione, poiché definisce la saggezza nelle cose [III,60,1] che si devono assegnare, giustizia; quella nelle cose che si devono scegliere, temperanza; quella nelle cose che si devono reggere, virilità; e i suoi difensori sono del parere che in queste definizioni la conoscenza certa sia stata da Zenone chiamata col nome di saggezza. Crisippo invece, legittimando l’idea che se esiste una certa qualità sussista una virtù con quella peculiare qualità, senza avvedersene svegliò, per dirla [III,60,5] con Platone, “uno sciame di virtù” inconsuete e sconosciute. Infatti, come di contro al ‘virile’ c’è la ‘virilità’, di contro al ‘mite’ c’è la ‘mitezza’ e la ‘giustizia’ sta di contro al ‘giusto’; così di contro al ‘carino’ egli pose la ‘carinità’, al ‘prode’ la ‘prodità’, al ‘grande’ la ‘grandità’, al ‘bello’ la ‘bellità’; e ponendo altre siffatte [III,60,10] ‘garbatezze’, ‘affabilitezze’ e lepidezze come virtù, ha infarcito la filosofia, che non ne aveva bisogno, di molti nomi assurdi.

SVF III, 256

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ VII, 2, (208,591) M. [III,60,15] Dunque Aristone, poiché legittimava l’idea che la facoltà dell’animo sia una sola, quella con cui ragioniamo, pose anche l’esistenza di una sola virtù dell’animo: la scienza dei beni e dei mali. Qualora l’animo nostro debba scegliere i beni e fuggire i mali, Aristone chiama questa scienza temperanza. Qualora debba effettuare il bene e non effettuare il male, saggezza. Qualora debba affrontare con coraggio alcune cose [III,60,20] ed altre fuggire, la chiama virilità. Qualora distribuisca a ciascuno secondo il merito, giustizia. In una parola, l’animo è sapienza e scienza quando conosce, senza effettuarli, beni e mali. Quando invece perviene alle azioni della vita, l’animo prende i plurimi nomi sopraddetti e si chiama saggezza, temperanza, giustizia e [III,60,25] virilità. Siffatta è l’opinione di Aristone circa le virtù dell’animo. Crisippo invero mette mano, non so a che scopo, a muovere obiezioni ad Aristone, il quale custodisce intatta precisamente l’ipotesi che è comune anche a lui. Infatti quando noi conosciamo ed effettuiamo bene ogni cosa, la vita sarebbe governata secondo scienza; quando invece noi conosciamo ed effettuiamo ogni cosa male [III,60,30] ed in modo fallace, la vita sarebbe governata secondo ignoranza, proprio come Crisippo vuole. E per questo motivo la virtù diverrebbe una sola: la scienza certa; e uno solo allo stesso modo il vizio, designato anche questo col nome ora di ignoranza, ora di ascientificità. Se dunque uno sarà timoroso della morte, della povertà di denaro e della malattia come se fossero ‘mali’, quando invece bisogna farsi coraggio di fronte ad esse come di fronte a cose [III,60,35] ‘indifferenti’, allora queste lo dispongono per la sua carenza di scienza, come direbbero sia Aristone che Crisippo, ad ignorare il vero e ad avere quel vizio dell’animo chiamato viltà. Essi dicono anche che la virtù opposta alla viltà è la virilità, la quale è scienza delle cose di fronte alle quali è d’uopo essere coraggiosi o non essere coraggiosi, cioè dei beni e dei mali; beninteso quelli che tali sono per essenza, non quelli concepiti tali per [III,61,1] falsa opinione: come salute e ricchezza di denaro da un lato, malattia e povertà di denaro dall’altro. Essi affermano che nessuna di queste cose è bene o male, ma che sono tutte quante ‘indifferenti’. E quindi se uno legittima una cosa piacevole come ‘bene’ ed una cosa fastidiosa come ‘male’, e seguendo questa opinione facesse della prima la scelta [III,61,5] e rifuggisse dalla seconda, ebbene a costui manca la cultura della sostanza del bene e perciò è un impudente. Poiché, inoltre, noi scegliamo in tutte le azioni quel che ci appare bene e rifuggiamo da quello che ci appare male, e poiché abbiamo per natura questi impulsi per entrambe le cose, la filosofia, insegnandoci ciò che davvero è bene e ciò che davvero è male, ci mette al riparo dalle aberrazioni. Crisippo, [III,61,10] non so a che scopo e come un qualunque idiota di ragionamenti, pone poi mente alle differenze fonetiche e non alla sostanza delle faccende come capitano, legittimando l’idea che ciascuna delle seguenti voci: ‘il da scegliersi’, ‘il da farsi’, ‘il farsi coraggio’, ‘bene’, manifestino un significato diverso. Il loro significato non è invece diverso, ma è in tutte il medesimo, appunto quello manifestato dalla parola ‘bene’. […] Anche per Crisippo stesso con tutte [III,61,15] queste locuzioni non si dice altro che ‘bene’ e ‘male’, se appunto proprio il bene è la sola cosa da scegliersi, da farsi e per cui farsi coraggio. Così la conoscenza certa dei beni, una volta indagati differenti materiali e differenti azioni, prende più di un nome; ciascuno dei quali sottostà in relazione a qualcosa secondo materiale e secondo azione. […] [III,61,20] In questo modo nei libri ‘Sulla differenza delle virtù’ Crisippo, discostandosi dagli assunti scientifici e dimostrativi, vagabonda nei restanti tre generi; lui che, nel libro ‘Le virtù sono qualità’, s’accosta molto di più ad assunti scientifici i quali, in essenza, abbattono il ragionamento di Aristone e non si confanno davvero [III,61,25] all’ipotesi loro attinente.

SVF III, 257

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 5, p. 446 M. <Al discorso sulle passioni> fa seguito quello sulle virtù. Il difetto di questo discorso è duplice, sia che si concepiscano tutte le virtù come conoscenze certe sia che si concepiscano come facoltà. È infatti necessario che le virtù delle parti non-razionali dell’animo siano anch’esse non-razionali, e che sia logica soltanto la virtù della parte raziocinante dell’animo. Sicché a ragion veduta le virtù delle parti [III,61,30] non-razionali dell’animo sono facoltà, mentre scienza è soltanto la virtù della parte raziocinante di esso. Crisippo, invece, è grandemente in difetto non perché non abbia fatto di nessuna virtù una facoltà (un difetto del genere non è un gran difetto e noi non ci differenziamo da lui al riguardo) ma perché, dopo avere affermato che molte sono [III,61,35] le scienze e le virtù, ha affermato che una sola è la facoltà dell’animo. Non è fattibile, cioè, che molte virtù siano virtù di una sola facoltà, se è vero che non vi sono perfezioni multiple di una sola faccenda. Una sola è la perfezione di ciascuno degli esseri, e la virtù è perfezione della natura di ciascuno di essi, come egli ammette. Molto meglio, allora, Aristone di Chio; [III,62,1] il quale dichiarò che le virtù dell’animo sono non molte ma una sola, che egli chiama scienza dei beni e dei mali; e il quale non scrisse sulle passioni cose opposte alle sue proprie ipotesi, come invece ha fatto Crisippo.

SVF III, 258

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034d. Non soltanto [III,62,5] Zenone appare contraddirsi su questo argomento <se le virtù siano molte o una sola>, ma è così anche per Crisippo in quanto egli incolpa Aristone d’avere affermato che tutte le virtù sono forme di relazione di una sola virtù, e difende la causa di Zenone, il quale aveva però definito ciascuna delle virtù proprio in questo modo.

SVF III, 259

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ VII, (206,583) M. Non ci siamo [III,62,10] soltanto dilungati a contestare i loro ragionamenti interrogativi sull’egemonico dell’animo, ma pure a contestare le cose scritte da Crisippo sulle passioni dell’animo nelle tre Memorie logiche e nel ‘Terapeutico’, dopo avere anche mostrato che egli litiga con se stesso. Abbiamo menzionato anche le compilazioni di Posidonio, [III,62,15] nella quali questi loda l’antica dottrina e contesta le tesi erronee di Crisippo sulle passioni dell’animo e sulla differenza delle virtù. Crisippo, infatti, nello stesso modo in cui abolisce le passioni dell’animo, come se esistesse soltanto la parte raziocinante di esso e non anche la parte concupiscente e la parte irascibile, così pure abolisce tutte le restanti virtù ad eccezione della saggezza. Eppure anche qui, se [III,62,20] si ripercorressero col ragionamento gli scritti di Crisippo ‘Sulla differenza delle virtù’ in 4 libri e si tormentassero le tesi da lui discusse anche in un altro libro nel quale, contestando il ragionamento di Aristone, mostra che le virtù sono qualità, non ci sarebbe bisogno di uno o due ma di tre o 4 libri. C’è a questo punto, invece, solo un mio breve e [III,62,25] scientifico ragionamento che contesta Crisippo, in quanto non ambasciatore di verità e scrittore troppo prolisso. Al contrario, coloro che non hanno educazione al metodo dimostrativo e non sanno neanche lontanamente cosa esso sia, poiché pongono mente soltanto alla mole ed allo stuolo dei libri scritti da Crisippo, legittimano l’idea che in essi si trovino tutte verità. Ed effettivamente [III,62,30] nella maggior parte di essi ci sono verità, soprattutto in quel libro in cui egli mostra che le virtù sono qualità. Ma il fatto è che le affermazioni fatte in questo libro contraddicono chi ipotizza esservi una sola facoltà dell’animo, quella che ha nome di facoltà logica e critica, e chi ne abolisce la parte concupiscente e la parte irascibile, proprio quelle che Crisippo ha abolito; e questo è ciò per cui uno [III,62,35] potrebbe biasimarlo. Non lo si biasimerebbe, invece, per il fatto che la scuola di Aristone sia stata veramente abbattuta dai suoi scritti. Aristone, infatti, legittima l’idea che la virtù sia una sola, ma che sia [III,63,1] chiamata con più nomi a seconda di ciò con cui è in relazione. Crisippo mostra, quindi, che lo stuolo delle virtù e dei vizi non si genera nella relazione con qualcosa ma, invece, nelle appropriate sostanze che cambiano qualitativamente, come voleva il ragionamento degli antichi filosofi. [III,63,5] Tesi che, brevemente svolta, Crisippo ha discusso con altre parole nel libro ‘Le virtù sono qualità’, tuttavia con epicherèmi che non si confanno a chi ha proposto esservi soltanto la parte raziocinante dell’animo ed ha abolito la sua parte passionale. Come posso dunque essere io la causa della lunghezza di questi discorsi, se ora sono costretto a dimostrare che [III,63,10] Crisippo ha verosimilmente abbattuto l’opinione di Aristone utilizzando epicherèmi di un’altrui scuola?

SVF III, 260

Galeno ‘Hipp. de humor.’ II, XVI, p. 303 K. Eppure ci sono ugualmente alcuni i quali affermano che la sostanza dell’animo è una sola, e vogliono che la virtù sia perfezione della natura di ciascuno. Ma se la virtù è una faccenda del genere, una sola sarà la [III,63,15] virtù come una sola è la perfezione. In questo modo, in armonia con la parte raziocinante dell’animo, è necessario che la virtù sia scienza. E se nei nostri animi vi è proprio una parte sola, è d’uopo non ricercare molte virtù.

SVF III, 261

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 92. Panezio afferma che le virtù sono due; […][III,63,20] i seguaci di Posidonio, che sono quattro; i seguaci di Cleante e di Crisippo, che sono ancora di più.

§ 7. Sulle singole virtù

Frammenti n. 262-294

SVF III, 262

Stobeo ‘Eclogae’ II, 59, 4 W. La Saggezza è scienza di ciò che deve essere fatto, di ciò che deve non essere fatto e di ciò che deve né essere né non essere fatto; o altrimenti: la scienza dei beni, dei mali e di ciò ch’è [III,63,25] né bene né male per la natura di un animale politico. Così essi prescrivono poi di intendere le restanti virtù: temperanza è scienza delle cose che devono essere scelte, di quelle che devono essere fuggite e di quanto deve essere né scelto né fuggito; giustizia è scienza di assegnare a ciascuno secondo il merito; virilità è scienza di ciò ch’è terribile, di ciò ch’è non terribile e di ciò ch’è né l’una né l’altra cosa; stoltezza è ignoranza dei beni, dei mali e di ciò ch’è né bene né male, oppure ignoranza [III,63,30] di ciò che deve essere fatto, di ciò che deve non essere fatto e di ciò che deve né essere né non essere fatto; impudenza è ignoranza delle cose che devono essere scelte, di quelle che devono essere fuggite e di ciò che deve essere né scelto né fuggito; ingiustizia è ignoranza nell’assegnare a ciascuno secondo il merito; viltà è ignoranza di ciò ch’è terribile, di ciò ch’è non terribile e di ciò ch’è né l’una né l’altra cosa. Coloro che s’attengono a quanto detto definiscono in modo somigliante anche le altre virtù e vizi, ed in genere affermano che la virtù è [III,63,35] la disposizione di un animo in armonia con se stesso per tutta la vita.

SVF III, 263

[1] Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ I, 63, Vol. I, p. 77, 12 Wendl. Con questi <fiumi, il ‘Genesi’> vuole delineare le virtù particolari. Esse sono in numero di quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia.

[2] 65 La saggezza, in quanto delimita le cose che devono essere fatte; la [III,64,1] virilità, quelle che si devono reggere; la temperanza, quelle che devono essere scelte; la giustizia, quelle che devono essere assegnate.

[3] 67 Nell’ambito della saggezza vi sono due cotali uomini: il saggio e l’attivamente saggio […] il potenzialmente [III,64,5] saggio e l’attivamente saggio che la pratica.

[4] 68 …infatti <la virilità> è scienza delle cose che si devono reggere, di quelle che si devono non reggere e di quelle che sono né le une né le altre.

[5] 87, p. 84, 2. …Giustizia è la virtù atta ad assegnare secondo il merito e non sta né dalla parte di chi accusa né dalla parte di chi si difende [III,64,10] ma dalla parte del giudice. Sicché il giudice ha prescelto né di vincere qualcuno né di combatterlo e neppure di opporglisi ma, quando pronuncia una sentenza, arbitra il giusto. Così la giustizia, senza essere avversaria di nessuno, assegna a ciascuna faccenda il merito che le spetta.

SVF III, 264

Stobeo ‘Eclogae’ II, 60, 9 W. Delle virtù alcune sono primarie, [III,64,15] altre sono subordinate alle primarie. Le primarie sono quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia. La saggezza si occupa di quanto è doveroso, la temperanza degli impulsi dell’essere umano, la virilità della sua capacità di resistenza agli eventi, la giustizia delle sue assegnazioni. Di quelle che a queste virtù sono subordinate, alcune sono subordinate alla saggezza, [III,64,20] altre alla temperanza, altre alla virilità, altre alla giustizia. Alla saggezza sono subordinate il buon consiglio, la razionalità, la perspicacia, l’accortezza, [la sagacia], l’ingegnosità. Alla temperanza sono subordinate la disciplina, la compostezza, la pudicizia, la padronanza di sé. Alla virilità sono subordinate la fortezza, il coraggio, la magnanimità, l’ardimento, la laboriosità. Alla giustizia sono subordinate la religiosità, la probità, la socievolezza, [III,64,25] l’affabilità. Essi affermano dunque che il buon consiglio è scienza del cosa e del come effettuare utilmente quanto effettueremo; la razionalità è scienza atta a mediare e ricapitolare avvenimenti e risultati; la perspicacia è scienza atta a trovare all’istante quanto è doveroso; l’accortezza è scienza del peggio e del meglio; la sagacia è [III,64,30] scienza di centrare lo scopo in ogni circostanza; l’ingegnosità è scienza atta a trovare una via d’uscita in ogni faccenda. La disciplina è scienza del quando si deve effettuare una cosa, di cosa si deve effettuare dopo che cosa e, in generale, dell’ordine delle azioni; la compostezza è scienza dei movimenti confacenti e non confacenti; la pudicizia è scienza che ci cautela da un retto rimprovero; la padronanza di sé è scienza che ci fa non oltrepassare i limiti [III,64,35] di quanto appare essere in accordo con la retta ragione. La fortezza è scienza che ci mantiene fedeli alle rette determinazioni; il coraggio è scienza grazie alla quale sappiamo che non incapperemo in nulla di terribile; la magnanimità è scienza che fa elevare al di sopra di quanto accade per natura sia ai virtuosi che ai viziosi; l’ardimento è scienza di un animo che procura a se stesso di essere invitto; la laboriosità è scienza [III,64,40] che elabora il proponimento senza esserne impedita dalla fatica. La religiosità è scienza di accudire gli dei; la probità è scienza del fare bene; la socievolezza è scienza della parità in società; l’affabilità è scienza di intrattenere rapporti irreprensibili con chi abbiamo dintorno. Il fine di tutte queste virtù è di vivere in modo conseguente alla natura delle cose; [III,64,45] e ciascuna di esse, con le sue peculiarità, procura questo sommo bene all’uomo che la centra. [III,65,1] Giacché l’uomo ha dalla natura risorse sia per il rinvenimento di quanto è doveroso, sia per la stabilità degli impulsi, sia per delle virili pazienze, sia per delle giuste assegnazioni. E ciascuna virtù, effettuando quanto è in armonia con le altre e quanto le è proprio, ci procura un uomo capace di vivere in modo conseguente alla natura delle cose.

SVF III, 265

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 92. [III,65,5] Delle virtù, alcune sono primarie; altre sono subordinate a queste. Le virtù primarie sono le seguenti: saggezza, virilità, giustizia, temperanza. Della specie di queste sono anche la magnanimità, la padronanza di sé, la fortezza, la perspicacia, il buon consiglio. La saggezza è scienza dei beni, dei mali e di ciò ch’è né bene né male. La temperanza è scienza delle cose che devono essere scelte, [III,65,10] delle cose verso le quali si deve essere cauti e di ciò ch’è né una cosa né l’altra [….] La magnanimità è scienza o postura abituale dell’animo che fa elevare al di sopra degli avvenimenti che toccano in comune agli insipienti e ai virtuosi; la padronanza di sé è la disposizione d’animo a non oltrepassare ciò ch’è secondo retta ragione o la postura abituale di un animo invitto dai piaceri fisici; la fortezza è scienza, o postura abituale dell’animo, delle cose che devono essere mantenute, di quelle che devono non essere mantenute e di ciò ch’è né una cosa né l’altra; la perspicacia è la postura abituale dell’animo atta a trovare [III,65,15] all’istante ciò ch’è doveroso; il buon consiglio è scienza del considerare cosa e come effettuare utilmente quanto effettueremo. Analogamente, anche dei vizi alcuni sono primari; altri sono subordinati a questi. Per esempio: la stoltezza, la viltà, l’ingiustizia, l’impudenza sono vizi primari. La non padronanza di sé, l’ottusità, la malevolenza sono fra i vizi subordinati. [III,65,20] I vizi sono ignoranza di ciò di cui le virtù sono scienza.

SVF III, 266

Andronico ‘De passionibus’ p. 19, Schuchardt. La saggezza è dunque scienza dei beni, dei mali e di ciò ch’è né bene né male. La temperanza è scienza delle cose che devono essere scelte, delle cose che devono non essere scelte e delle cose che devono essere né scelte né non scelte. La giustizia è postura abituale dell’animo ad assegnare a ciascuno secondo il merito. [III,65,25] La virilità è scienza di ciò ch’è terribile, di ciò ch’è non terribile e di ciò ch’è né una cosa né l’altra.

SVF III, 267

Andronico ‘De passionibus’ p. 20, 21, Schuchardt. Il buon consiglio è scienza di ciò ch’è utile. La perspicacia è postura abituale dell’animo che trova repentinamente ciò ch’è doveroso. La previdenza è postura abituale dell’animo capace di aprirci la strada al futuro in modo che si effettui quel [III,65,30] che è d’uopo. La regalità è perizia nel comandare moltitudini senza essere tenuto a renderne conto. La capacità strategica è postura dell’animo, teorica e pratica, circa le cose che sono utili all’esercito. La capacità politica è postura dell’animo, teorica e pratica, circa le cose che sono utili alla città. [III,65,35] La capacità economica è postura dell’animo, teorica e pratica, circa le cose che sono utili alla casa. La capacità dialettica è scienza del ben dialogare. La capacità retorica è scienza del parlare forbito. La fisica è scienza dei fenomeni naturali.

SVF III, 268

[III,65,40] Andronico ‘De passionibus’ p. 27, 16, Schuchardt. Secondo Crisippo: La saggezza è scienza di quali cose bisogna fare e quali non fare. La stoltezza è ignoranza delle medesime cose; e gli stolti sono coloro che ignorano qualcuna di esse [III,66,1] o che s’abbindolano in merito. La stoltezza, infatti, è ignoranza di quali cose bisogna fare e quali non fare. Alla saggezza sono subordinate buon consiglio, razionalità, perspicacia, accortezza, sagacia e ingegnosità. [III,66,5] La razionalità è scienza atta a ricapitolare avvenimenti e risultati. La perspicacia è scienza atta a trovare all’istante quanto è doveroso. L’accortezza è scienza del peggio e del meglio. La sagacia è scienza di centrare lo scopo in ogni circostanza. [III,66,10] L’ingegnosità è scienza atta a trovare una via d’uscita in ogni faccenda.

SVF III, 269

Andronico ‘De passionibus’ p. 28, 1, Schuchardt. Secondo Crisippo, alla virilità sono subordinate fortezza, coraggio, magnanimità, ardimento e laboriosità. [III,66,15] La fortezza è scienza del perseverare nelle rette determinazioni. Il coraggio è scienza grazie alla quale sappiamo che non incapperemo <in nulla di terribile>. La magnanimità è scienza <che fa elevare al di sopra di> quanto accade per natura sia ai virtuosi che ai viziosi. L’ardimento è scienza di un animo che procura a se stesso di essere invitto. [III,66,20] La laboriosità è scienza che elabora il proponimento senza essere consumata dalla fatica.

SVF III, 270

Andronico ‘De passionibus’ p. 22, 13, Schuchardt. L’ardimento è eutonia dell’animo alla realizzazione delle proprie opere. La risolutezza è postura abituale dell’animo che ci rende maneggevoli a porre mano a ciò ch’è d’uopo ed a [III,66,25] soggiacere a ciò che la ragione sceglie. La magnanimità è postura abituale dell’animo che fa elevare al di sopra di quanto accade per natura sia ai viziosi che ai virtuosi. La maschiezza è postura abituale dell’animo che fa gli uomini autosufficienti nelle fatiche che la virtù comporta. La fortezza è scienza delle cose che possono essere mantenute, delle cose che possono essere non mantenute e di ciò ch’è né una cosa né l’altra. [III,66,30] La maestosità è postura abituale dell’animo che esalta i suoi possessori e li riempie di elevatezza di spirito.

SVF III, 271

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 136 (p. 348 Aucher). Nomi ancillari della perseveranza sono: non propensione; non inclinazione per una parte; nessuna pendenza al contrario; impenitenza; immutabilità; indifferenza; costanza; [III,66,35] saldezza sulla base; invincibilità; rettitudine e tutte le denominazioni affratellate a queste e proprie di coloro che anelano alla stabile perseveranza.

SVF III, 272

Andronico ‘De passionibus’ p. 23, 17, Schuchardt. L’austerità è postura abituale dell’animo per la quale non si conversa con altri sui piaceri fisici né s’accetta da altri una tale conversazione. [III,66,40] La padronanza di sé è postura abituale dell’animo invitto dai piaceri fisici. La parsimonia è postura abituale dell’animo che non fa ostentazione nelle spese e negli apparati. La frugalità è postura abituale dell’animo che s’accontenta di quel che c’è. La compostezza è scienza di ciò ch’è confacente nei movimenti e nelle relazioni. [III,67,1] La disciplina è perizia nell’assettamento delle azioni o saldezza nelle azioni o negli assettamenti delle azioni. L’autosufficienza è postura abituale dell’animo che s’accontenta di ciò che deve ed è atta a provvedere le cose doverose per vivere.

SVF III, 273

Andronico ‘De passionibus’ p. 25, 9, Schuchardt. [III,67,5] La liberalità è la postura dell’animo la quale fa sì che le persone si conducano in modo ammissibile con la ragione nelle cessioni e negli incassi. La probità è postura abituale dell’animo che deliberatamente opera bene. L’equità giudiziaria è scienza dei verdetti, dei castighi e dei delitti. [III,67,10] La costumatezza è deliberata giustizia. La religiosità è scienza del culto degli dei. La riconoscenza è scienza del chi e quando si deve ringraziare e del come e da chi la si deve accettare. La santità è scienza che ci rende leali e osservanti del giusto [III,67,15] verso gli dei. L’affabilità è postura abituale dell’animo a custodire il giusto negli scambi di parole. La virtù legislativa è scienza delle costituzioni politiche che si riferiscono alla società.

SVF III, 274

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 153. [III,67,20] La padronanza di sé è disposizione d’animo a non oltrepassare i limiti delle cose che avvengono secondo retta ragione, oppure virtù che fa elevare al di sopra di ciò da cui pare difficile astenersi. Giacché essi affermano che padrone di sé è non chi s’astiene da una vecchia moribonda, ma da una Laide, da una Frine o da qualcuna del genere potendo godersela, e invece se astiene. La fortezza è scienza delle cose che si devono reggere e di quelle che si devono non reggere [III,67,25] oppure virtù che fa elevare al di sopra degli eventi che paiono difficili da reggere.

[2] IX, 158. Se uno ha virilità ha scienza delle cose terribili, di quelle non terribili e di quelle intermedie.

[3] IX, 161. Se uno ha magnanimità possiede una scienza che lo solleva al di sopra degli avvenimenti.

[4] IX, 162. [III,67,30] Se uno ha saggezza ha anche scienza dei beni, dei mali e delle cose indifferenti.

[5] IX, 167. Se il divino è tutto virtù ed ha saggezza, possiede anche il buon consiglio, dato che il buon consiglio è saggezza nelle deliberazioni.

[6] IX, 174. [III,67,35] Giacché la temperanza è, nella scelta e nel rifiuto, postura abituale dell’animo a salvaguardare le determinazioni della saggezza.

SVF III, 275

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 470 Pott. Definiscono dunque la virilità come scienza delle cose terribili, di quelle non terribili e di quelle intermedie. La temperanza è postura abituale dell’animo che, nella scelta e nel rifiuto, salvaguarda [III,67,40] le determinazioni della saggezza. Connessa alla virilità è quella resistenza che essi chiamano fortezza. Essa è scienza delle cose che devono essere mantenute e di quelle che devono essere non mantenute. La magnanimità è scienza che ci solleva al di sopra degli avvenimenti. Affine alla temperanza è anche la cautela, che è un’avversione attuantesi con ragione. [E poco dopo dice] Chi possiede una virtù sola, a causa della loro implicazione reciproca, [III,67,45] le possiede tutte. Ora, la padronanza di sé è disposizione d’animo a non oltrepassare i limiti di quanto [III,68,1] appare secondo retta ragione. Padrone di sé è dunque chi tiene a freno gli impulsi contrari alla retta ragione, oppure chi si tiene a freno in modo da impellere in modo non contrario alla retta ragione.

SVF III, 276

[1] Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ II, p. 247 Pott. La sufficienza è postura dell’animo che perviene a quanto ci attiene né per difetto né per eccesso. L’autosufficienza [III,68,5] è postura dell’animo che s’accontenta di ciò che deve ed è atta a provvedere le cose che portano a compimento la vita beata.

[2] III, p. 286 La purezza è postura dell’animo che appresta un tenore di vita puro e non commisto a brutture; mentre la semplicità è postura dell’animo che elimina il superfluo.

[3] III, p. 287 [III,68,10] La facile contentatura è postura abituale dell’animo senza eccessi che accetta, non per difetto, le cose bastanti per una vita ragionevolmente sana e beata.

[4] III, p. 303 La disciplina è […] posizionata come salda capacità di espletare in bel modo le varie operazioni poste una di seguito all’altra in un’opera; e come virtù è insuperabile.

SVF III, 277

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Exodum’ II, 112 (p. 541 Aucher). Ciascuna delle quattro virtù può trovarsi in uno di questi tre stati elementari: [III,68,15] dote abituale, dote da attivare, dote attivata. È così anche per i sensi: vista, visibilità, vedere; e pure: udito, udibilità, udire. Così, quindi, c’è: conoscenza, conoscibilità, conoscere; e pure: continenza, contenimento, contenersi; fortezza, fortificazione, avere fortezza, che più comunemente si dice essere forti; [III,68,20] e similmente: giustizia, senso del giusto, avere giustizia, che si chiama anche essere giusti.

SVF III, 278

Stobeo ‘Eclogae’ II, 62, 15 W. Essi affermano che quelle appena dette sono le virtù ‘perfette’ che riguardano la vita e che sussistono a partire da principi filosofici generali. A queste ne sopravvengono poi altre, che sono non ancora arti ma certe [III,68,25] capacità promananti dall’esercizio pratico; per esempio, la salute dell’animo, la sua integrità, la sua potenza e la sua bellezza. Infatti, come la salute fisica è il risultato della buona mescolanza degli umori caldi e freddi, secchi e umidi del corpo; così anche la salute dell’animo è la buona mescolanza dei suoi giudizi. E similmente, come la potenza del corpo è un idoneo tono dell’apparato neuromuscolare, così pure la potenza dell’animo è un [III,68,30] tono idoneo nel determinare e nell’effettuare qualcosa oppure no. Come la bellezza del corpo è simmetria delle sue membra costitutive, sia reciproca che relativa all’intero; così anche la bellezza dell’animo è simmetria della ragione e delle sue parti, sia relativa all’intero che reciproca.

SVF III, 279     

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 30. Le similitudini naturali [III,68,35] tra corpo ed animo valgono sia nel male che nel bene. Le doti naturali precipue del corpo di bellezza, forza, salute, salda costituzione, velocità, valgono anche per l’animo. E come l’armonioso equilibrio instaurantesi tra le parti che costituiscono il corpo è la salute, così si dice dell’animo quando i suoi giudizi ed opinioni concordano. […] Come un’adatta conformazione [III,68,40] delle membra del corpo cui si associ un colorito soave si chiama bellezza, così pure nel caso dell’animo l’uniformità e la costanza di giudizi ed opinioni cui si associno fermezza e stabilità […] si chiama bellezza. Si parla della forza, del nerbo, dell’energia del corpo e si indicano con le stesse parole le doti dell’animo. [III,69,1] La velocità del corpo si chiama rapidità, che è lodata nel caso dell’ingegno come dote d’un animo che dà una scorsa in breve tempo a molte cose.

SVF III, 280

Stobeo ‘Eclogae’ II, 63, 6 W. <Affermano gli Stoici> che tutte le virtù, siano esse scienze [III,69,5] od arti, hanno comuni principi filosofici generali e, come si dice, medesimo fine, e perciò sono inseparabili. Chi ne ha una le ha tutte, e chi opera secondo una opera secondo tutte. Le virtù differiscono però una dall’altra per punti capitali. Così punto capitale della saggezza è, cardinalmente, conoscere i principi generali di ciò che deve essere fatto ed effettuarlo; secondariamente, conoscere i principi generali di [III,69,10] ciò che deve essere assegnato <di ciò che deve essere scelto e di ciò che deve essere retto> al fine di effettuare senza errori ciò che deve essere fatto. Punto capitale proprio della temperanza è, cardinalmente, procurare impulsi stabili e conoscerne i principi generali; secondariamente, conoscere ciò ch’è oggetto delle altre virtù, per condurci senza errori negli impulsi. In modo simile la virilità è, cardinalmente, conoscenza certa [III,69,15] di tutto ciò che deve essere retto e, secondariamente, di ciò ch’è oggetto delle altre virtù. La giustizia è, cardinalmente, considerare ciascuna cosa secondo il merito e, secondariamente, anche il resto. Ogni virtù, infatti, guarda ai punti capitali di tutte le altre ed a ciò ch’è reciprocamente subordinato. Panezio soleva dire che quanto avviene riguardo alle virtù è simile a quanto avviene quando dinnanzi a molti arcieri giacesse [III,69,20] un solo bersaglio, e questo avesse al proprio interno strisce di colore diverso. Ciascun arciere mirerebbe a centrare il bersaglio ma uno colpendo, caso mai, la striscia bianca, un altro la striscia nera, un altro ancora la striscia di qualche altro colore. Come costoro si danno quale fine supremo quello di centrare il bersaglio, seppure proponendosene il conseguimento chi in un modo [III,69,25] e chi in un altro, così tutte le virtù si danno quale fine l’essere felice –il che sta nel vivere in modo ammissibile con la natura delle cose- e ciascuna lo centra a modo suo.

SVF III, 281

Cicerone ‘De finibus’ III, 72. Alle virtù di cui si è discusso <gli Stoici> aggiungono le Dialettica e la Fisica, e le chiamano entrambe virtù. [III,69,30] La prima perché segue un metodo razionale che permette di non assentire al falso né cadere in errore di fronte ad argomentazioni capziose, così da poter tenere saldo e difendere ciò che abbiamo imparato circa il bene ed il male. Infatti, essi ritengono che senza arte dialettica chiunque potrebbe essere sviato dal vero e tratto in errore. Se in ogni circostanza la temerarietà e l’ignoranza sono vizi, rettamente si denomina [III,69,35] dunque virtù quell’arte che le toglie di mezzo.

SVF III, 282

Cicerone ‘De finibus’ III, 73. Lo stesso onore è tributato anche alla Fisica, e non a casaccio, giacché chi deciderà di vivere in armonia con la natura dovrà farlo a partire dalla conoscenza di come sia amministrato il mondo nella sua interezza. In verità nessuno può avere retti giudizi sui beni e sui mali se non ha una completa conoscenza della natura e della vita degli dei, [III,69,40] e se non sa se la natura dell’uomo s’accordi oppure no con la natura universale. Quegli antichi precetti dei saggi che comandano di ‘obbedire al tempo’, ‘seguire dio’, ‘riconoscere se stessi’, e ‘nulla di troppo’, nessuno può vedere quanta forza abbiano, e ne hanno tanta, senza conoscere la Fisica. [III,70,1] Soltanto la conoscenza della Fisica può farci comprendere quanto valga la natura per la pratica della giustizia, la difesa dell’amicizia e per la conservazione dei restanti legami che prescindono dal denaro. Inoltre, se non si capisce la natura, non si può intendere la pietà per gli dei né quanta riconoscenza ad essi debbano gli uomini.

SVF III, 283

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ p. 211, 17 Bruns. [III,70,5] Virtù dell’uomo è la saggezza; la quale, come si dice, è scienza delle cose che devono essere fatte e delle cose che devono essere non fatte.

SVF III, 284

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 158. La felicità promana dalla saggezza e la saggezza si muove tra le azioni rette e [III,70,10] l’azione retta è quella che, quando effettuata, ha una giustificazione ragionevole.

SVF III, 285

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 53. Dunque, la fortezza è una disposizione dell’animo ad ottemperare alla suprema legge nel sopportare gli eventi; oppure la capacità di conservare un giudizio saldo nelle circostanze che suscitano paura, al fine di allontanarle o evitarle; oppure la scienza di ciò che suscita paura, del suo contrario e di ciò ch’è del tutto trascurabile, [III,70,15] la quale conserva di queste cose un giudizio stabile. Più brevemente si potrebbe dare la definizione di Crisippo, giacché le definizioni precedenti erano di Sfero, che gli Stoici reputano fra i migliori nel dare definizioni. Si tratta di formulazioni tutte molto simili che esprimono, più o meno, nozioni comuni a tutti loro. Qual è dunque la definizione di Crisippo? “La fortezza”, egli dice, “è la scienza delle cose che vanno sopportate fino in fondo, oppure la disposizione dell’animo [III,70,20] che resistendo e sopportando obbedisce senza timore alla legge suprema”.

SVF III, 286

Filone Alessandrino ‘De spec. legibus’ IV, 145, V, p. 241, 19 Cohn. Coloro che sono non definitivamente senz’arte né parte sanno che la virilità è la virtù avente a che fare con quanto è terribile; e se brevemente s’accosteranno all’educazione sapranno anche che essa è scienza delle cose [III,70,25] che si devono reggere.

SVF III, 287

‘Scholia’ in Hom. Iliad. V, 2. Per i filosofi Stoici il coraggio è l’intima e sicura persuasione che non si incapperebbe in nulla di terribile; e per i Peripatetici è l’avere buona speranza che non si potrebbe incappare in nulla di terribile.

SVF III, 288

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1041b. [III,70,30] Siccome Platone afferma che l’ingiustizia, in quanto rovina dell’animo e conflitto intestino, non perde la propria forza neppure negli stessi ingiusti e mette il malvagio alle prese con se stesso, lo mette in urto con se stesso, lo rende preda dello sconcerto; Crisippo, nei libri contro Platone ‘Sulla giustizia’, gli fa colpa di ciò e dice: “È assurdo [III,70,35] affermare che si sia ingiusti con se stessi; giacché l’ingiustizia è rivolta contro altri, non contro se stessi”.

[2] p. 1041c. Nei libri contro Platone, circa il dire che l’ingiustizia è rivolta contro un’altra persona e non contro se stessi, <Crisippo> ha affermato questo: “Gli ingiusti, presi singolarmente, non constano di una pluralità di persone che [III,71,1] dicono cose opposte, mentre invece l’ingiustizia è ottenuta proprio quando una pluralità di persone fossero tra di loro così disposte. Ma nulla del genere riguarda il singolo, almeno fino a che egli è così disposto verso chi ha dintorno”.

SVF III, 289

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1041c. [III,71,5] Ma <Crisippo> si dimentica di queste cose e nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ daccapo afferma: “Qualora commetta ingiustizia contro un’altra persona, l’ingiusto è vittima di un’ingiustizia da parte di se stesso e insieme autore di un’ingiustizia contro se stesso, poiché diviene causa a se stesso d’illegalità e danneggia se stesso contro il merito”.

[2] p. 1041d. [III,71,10] Nelle ‘Dimostrazioni’, circa il fatto che l’ingiusto sia anche vittima di un’ingiustizia che egli commette contro se stesso, <Crisippo> ha proposto argomenti di questo genere: “La legge proibisce di diventare complici di un’illegalità ed il commettere ingiustizia è un’illegalità. Pertanto chi diventa complice di se stesso nell’ingiustizia che commette, opera un’illegalità verso se stesso, e colui che opera un’illegalità verso qualcuno commette anche un’ingiustizia contro di lui. [III,71,15] Dunque chi commette ingiustizia contro chiunque, commette ingiustizia anche contro se stesso”. E ancora: “L’aberrazione fa parte dei detrimenti e chiunque aberra, aberra contro di sé. Dunque chiunque aberra danneggia se stesso [III,71,20] contro il merito e, se è così, allora commette anche un’ingiustizia contro se stesso”. E pure così: “Chi si giudica danneggiato da un altro, danneggia se stesso e si danneggia contro il merito. Ma questo equivale a commettere ingiustizia. Dunque chi giudica di subire un’ingiustizia da chiunque sia, commette in ogni caso ingiustizia contro se stesso”.

SVF III, 290

Seneca ‘De clementia’ II, III, 1. Clemenza è la moderazione dell’animo quando si abbia la potestà di vendicarsi, oppure è la mitezza del superiore nei confronti dell’inferiore nel decretare una pena. Per evitare che una definizione non sia abbastanza comprensiva oppure sia tale, per così dire, da far stralciare il processo, è più sicuro offrirne diverse. Per questo la clemenza si può anche chiamare [III,71,25] una inclinazione dell’animo alla mitezza nell’esigere le pene. Però ad una tale definizione, benché vicinissima al vero, si troveranno delle obiezioni. Infatti, se diremo che la clemenza è la moderazione per la quale si concede uno sconto sulla pena equa e meritata, si obietterà che non c’è virtù che dia [III,71,30] a qualcuno meno del dovuto.

SVF III, 291

Girolamo ‘Comment. in epist. ad Galatas’ III, 5, 22. Gli Stoici definiscono così la benignità: la benignità è la virtù di essere spontaneamente ben disposti a fare il bene. La benignità non è molto diversa dalla bontà, […] e i discepoli di Zenone la definiscono così: la bontà è virtù che giova, [III,71,35] o virtù da cui sorge un’utilità, o anche virtù per se stessa, o la disposizione che è fonte di utilità.

SVF III, 292

[1] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 450 Pott. L’amore caritatevole sarebbe allora concordia nelle cose di ragione, di vita e dei suoi modi; o, per dirlo concisamente, comunanza [III,71,40] di vita; oppure un’esuberanza d’amicizia e d’affettuosità accompagnata da retta ragione nel trattamento dei compagni.

[E poco dopo]

[2] [III,72,1] Connessa all’amore caritatevole è l’ospitalità, la quale è una certa bravura nel trattamento degli stranieri.

[3] p. 451 Pott. La filantropia […] è trattamento amichevole degli uomini. [III,72,5] L’affettuosità è una certa bravura nell’affezione verso amici o parenti. L’affezione, a sua volta, è conservazione di benevolenza o di amorevolezza. L’amorevolezza è accoglimento senza riserve […] per concordia, la quale è scienza dei beni comuni.

SVF III, 293 [III,72,10]

[1] Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ I, 13, p. 159 Pott. La virtù […] è disposizione dell’animo che, grazie alla ragione, si mantiene in armonia con se stesso per tutta la vita. <Gli Stoici> esplicitano la filosofia come studio e pratica attenta della dirittura della ragione.

[2] p. 160 Pott. [III,72,15] L’azione <virtuosa> è un’attività dell’animo razionale in armonia con una determinazione urbana e civile [e il desiderio di verità], eseguita attraverso il corpo che gli è connaturato ed ausiliare. Doveroso è <ciò ch’è> conseguente al fatto di essere in vita. Infatti, la vita <virtuosa> è l’insieme delle [III,72,20] azioni razionali, cioè l’attività senza errori che scaturisce dagli insegnamenti della ragione.

SVF III, 294

Stobeo ‘Eclogae’ II, 67, 5 W. <Gli Stoici> chiamano occupazioni, e non scienze, l’amore per la musica, per la letteratura, per l’equitazione, per la caccia e, in generale, per le arti dette enciclopediche. Essi, infatti, riservano il nome di scienza alle posture [III,72,25] virtuose dell’animo e, per conseguenza, affermano che soltanto il sapiente è amante della musica, della letteratura e analogamente del resto. Delineano poi l’occupazione in questo modo: strada che attraverso un’arte, o parte di essa, conduce alle azioni secondo virtù.

§ 8. Il rapporto reciproco delle virtù

Frammenti n. 295-304

SVF III, 295

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 125. [III,72,30] Essi affermano che le virtù hanno implicazione reciproca e che chi ne ha una le ha tutte, giacché i loro principi generali sono comuni; come dicono Crisippo nel primo libro ‘Sulle virtù’, Apollodoro ne ‘La fisica secondo l’antica Stoa’ ed Ecatone nel terzo libro ‘Sulle virtù’. L’uomo al meglio di sé [III,72,35] ha infatti una conoscenza teoretica e pratica delle cose da farsi concretamente. Le cose da farsi concretamente sono anche da scegliersi concretamente, sono dovere concreto di reggere gli eventi, di giuste assegnazioni, di mantenersi fedeli alla ragione. Sicché se uno fa le cose in modo opportunamente scelto, in modo da reggere gli eventi, nel rispetto di opportune assegnazioni e così [III,73,1] da mantenersi fedele alla ragione, allora egli è saggio e insieme virile, giusto e temperante. Ciascuna virtù, inoltre, fa capo ad un proprio punto capitale. Per esempio, la virilità fa capo agli eventi che si devono reggere; la saggezza alle cose che devono essere fatte, non fatte e né fatte né non fatte. Similmente, anche le altre virtù hanno ambiti [III,73,5] loro attinenti. Alla saggezza s’accompagnano il buon consiglio e l’intelligente comprensione; alla temperanza, la disciplina e la compostezza; alla giustizia, la parità di trattamento e la costumatezza; alla virilità, l’imperturbabilità e la tenacia.

SVF III, 296

Galeno ‘Optimum medicum esse philosophum’ I, p. 61 K. È così necessario che egli <ossia il medico sapiente> possegga anche le altre virtù. [III,73,10] Tutte quante le virtù s’accompagnano infatti una all’altra ed è impossibile che chi ne acquisisce una qualunque non le abbia subito per conseguenza tutte, come se esse fossero state legate insieme da un filo.

SVF III, 297

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1041a. E nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ <Crisippo> afferma espressamente: “Ogni [III,73,15] azione retta è azione conforme alla legge e pratica della giustizia. Giacché quanto è effettuato secondo padronanza di sé o fortezza o saggezza o virilità è un’azione retta. Sicché è anche pratica della giustizia”.

SVF III, 298

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ V, 17. Infine, per chiudere la discussione, è la ragione stessa ad insegnare che lo stesso uomo non può essere giusto e stolto, né saggio e ingiusto. [III,73,20] Chi è stolto non sa cos’è giusto e cos’è bene, e quindi pecca sempre. Egli è guidato dai vizi come un prigioniero, ed è incapace di resistere ad essi poiché manca della virtù in quanto la ignora. Invece il giusto si astiene da qualunque peccato, giacché altro non può fare chi ha cognizione del bene e del male. E chi può discernere il bene dal male se non il saggio? Così accade che lo stolto [III,73,25] mai possa essere giusto, e il saggio ingiusto. […] Dunque la stoltezza è un errare nel dire e nel fare, per ignoranza di ciò ch’è buono e giusto.

SVF III, 299

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046e. Essi dicono che le virtù [III,73,30] hanno implicazione reciproca non soltanto nel senso che chi ne possiede una le possiede tutte, ma anche nel senso che chi agisce secondo una di esse agisce secondo tutte. E non è uomo perfetto chi non ha tutte le virtù, né è azione perfetta quella che non è effettuata in armonia con tutte le virtù.

SVF III, 300

Girolamo ‘Epist. 66 ad Pammachium’ 3. Gli Stoici [III,73,35] descrivono quattro virtù a tal punto collegate e coerenti tra loro, che chiunque non ne abbia una manchi di tutte: saggezza, giustizia, fortezza e temperanza.

SVF III, 301

Filone Alessandrino ‘De ebrietate’ 88, II, p. 186, 21 Wendl. È d’uopo [III,73,40] non ignorare che la sapienza, la quale è arte delle arti, pare subire un cambiamento a seconda dei differenti materiali, ma essa invero palesa il suo vero aspetto non coinvolto in mutamento alcuno soltanto a coloro che hanno la vista acuta e non si lasciano trascinare dalla massa che è sparsa intorno alla sostanza, e [III,74,1] ne vedono in profondità lo stampo sigillatovi dall’arte. Dicono che il celebre scultore Fidia prendesse del bronzo, dell’avorio, dell’oro ed altri vari materiali e ne facesse statue; e che tutte queste opere fossero marchiate da una sola e medesima arte; così che non soltanto gli esperti ma anche le persone [III,74,5] del tutto profane potevano riconoscere il creatore dalle opere da lui create. […] Proprio come la natura, nel caso dei gemelli, utilizzando il medesimo stampo spesso modella somiglianze, a parte ben poco, del tutto simili; allo stesso modo anche l’arte perfetta, che è imitazione e copia della natura, qualora assuma materiali differenti vi foggia e sigilla però in tutti la medesima idea, di modo che in questa [III,74,10] le opere create diventano massimamente congeneri, sorelle, gemelle. […] La facoltà che alberga nel sapiente sfoggia lo stesso modo di agire, giacché quando s’affaccenda intorno a ciò che riguarda l’Essere si chiama religiosità e santità, e quando s’affaccenda intorno a ciò che riguarda il cielo e i regni sub-celesti si chiama scienza naturale. Si chiama facoltà ‘meteorologica’ quando s’affaccenda intorno a ciò che riguarda i fenomeni dell’aria e quanto attiene ai suoi rivolgimenti e trasformazioni sia nelle complete [III,74,15] stagioni annuali sia, in particolare, in quelle che per natura consistono di periodi mensili e giornalieri. Quando è interessata alla rettificazione dei caratteri umani questa facoltà si chiama ‘Etica’, e di essa sono aspetti: la facoltà ‘politica’, quando tratta cose che attengono allo Stato; la facoltà ‘economica’ quando tratta cose che attengono alla sollecitudine per gli affari domestici; la facoltà ‘conviviale’ quando tratta cose che attengono ai conviti ed ai convivi. Inoltre si chiama a sua volta facoltà ‘regale’ quando attiene alla signoria sugli uomini e facoltà ‘legislativa’ quando attiene ai [III,74,20] precetti e ai divieti. Il sapiente dalle molte voci e davvero dai molti nomi ha fatto spazio in sé per tutte queste cose, e in tutte sarà visto mantenere un solo e identico aspetto.

SVF III, 302

Olimpiodoro ‘In Platon. Alcibiad.’ 214, p. 134 West. Se anche le virtù hanno implicazione reciproca, esse però [III,74,25] differiscono per qualche particolarità. Infatti la virilità non è una sola virtù, ma tutte le virtù raccolte ‘in modo virile’ e, in altro caso, ‘in modo temperante’; così come tutti gli dei sono in Zeus ‘sotto forma di Zeus’ e, in un altro caso, ‘sotto forma di Era’, poiché nessun dio è imperfetto. E come Anassagora soleva dire che tutto è in tutti anche se uno solo predomina; così diremo anche noi delle cose divine. Infatti, ogni virtù è saggezza quando sa il da farsi; ognuna è virilità, quando [III,74,30] gareggia; ognuna è temperanza, quando induce al meglio; ognuna è giustizia, perché assegna quel che conviene alle azioni fattibili.

SVF III, 303

Filone Alessandrino ‘De Moyse’ II, II, Mang. p. 135. […] Quel che suole dirsi anche delle virtù, ossia che chi ne ha una le ha tutte.

SVF III, 304

[1] Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 82, I, p. 236, 3 Wendl. [III,74,35] Il discorso deve dunque essere suddiviso in punti capitali principali, quelli dei quali si dice che ‘cadono a proposito’, e poi devono essere adattate a ciascuno le strutture argomentative appropriate, imitando gli arcieri valenti i quali, postisi innanzi un bersaglio, provano a scagliare contro di esso tutte le loro frecce. Infatti il punto capitale assomiglia al bersaglio e la struttura argomentativa alle frecce. In questo modo il miglior vestimento di tutti, il discorso, viene contessuto [III,74,40] armoniosamente.

[2] 84, p. 237, 2. La virtù, infatti, è l’intero e l’uno ed essa si dettaglia in forme specifiche contigue che sono la saggezza, la temperanza, la giustizia e la virilità; affinché noi, dopo averne conosciuto le differenze, deliberatamente ne reggiamo il culto, sia intera che nelle sue parti.

[III,75,1] § 9. Le virtù sono esseri animati

Frammenti n. 305-307

SVF III, 305

Stobeo ‘Eclogae’ II, 64, 18 W. Essi affermano che le virtù sono numerose, inseparabili una dall’altra e che sono identiche, nella loro realtà sostanziale, alla parte dominante o egemonico dell’animo; ragion per cui affermano che ogni virtù è ‘corpo’ e così [III,75,5] va chiamata, dal momento che l’intelletto e l’animo sono ‘corpo’. Infatti essi ritengono che l’animo sia lo pneuma fervido che è connaturato in noi.

SVF III, 306

Stobeo ‘Eclogae’ II, 65, 1 W. Essi vogliono che il nostro animo sia una creatura vivente, giacché esso possiede vita e sensazioni; e che soprattutto lo sia la sua parte dominante, o egemonico, che si chiama anche intelletto. Ritengono perciò che ogni virtù sia una creatura vivente [III,75,10] dacché, nella sostanza, è identica all’intelletto. E in armonia con ciò essi affermano anche che ‘saggezza’ è la ‘pratica attiva della saggezza’. Per loro, infatti, parlare così è parlare in modo conseguente.

SVF III, 307

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CXIII, 1. Tu chiedi la mia opinione sulla questione che i nostri agitano, cioè se la giustizia, la fortezza, la saggezza e le altre virtù siano animali. Carissimo Lucilio, con queste sottigliezze abbiamo l’aria di cimentare la nostra mente in vane questioni e di sprecare il tempo in discorsi per nulla proficui. [III,75,15] Però farò quel che desideri e ti esporrò il punto di vista dei nostri filosofi […] Ti dirò dunque quali siano le opinioni che hanno fatto dibattere gli antichi ovvero quelle che gli antichi hanno dibattuto. Risulta che l’animo sia un animale, perché è esso a far sì che che noi siamo animali, ed anzi proprio da esso gli animali traggono il loro nome. La virtù inoltre altro non è che l’animo in una certa disposizione: dunque anch’essa è un animale. [III,75,20] La virtù inoltre ci fa fare qualcosa, e nulla può essere fatto senza un impulso. E se ha un impulso, il che è caratteristico soltanto degli animali, è un animale. Ma, dice uno: “Se la virtù è un animale, questa a sua volta ha una virtù”. E perché la virtù non dovrebbe avere il possesso di se stessa? Come il saggio fa ogni cosa con virtù, così la virtù fa tutto con se stessa. Ma, dice: “Quindi tutte le arti sono animali e lo è pure tutto ciò che pensiamo e abbracciamo con la mente. [III,75,25] Ne consegue che molte migliaia di animali abitino nel poco spazio del nostro petto, e noi singoli saremmo molti animali, o avremmo in noi molti animali”. Ti chiedi cosa rispondere a questa obiezione? Si risponde così: “Ognuna di queste cose è un animale; eppure in noi non ci saranno molti animali”. Perché mai? Te lo spiegherò se mi favorirai con la tua sottigliezza e la tua attenzione. Ogni singolo animale deve avere una singola sostanza; [III,75,30] tutti questi animali abitano un solo animo, che è il mio; pertanto possono essere singoli animali ma non possono essere molti animi. Io, ad esempio, sono sia animale sia uomo, eppure non dirai certo che sono doppio. Perché? Perché per essere due bisogna essere separati, cioè uno distaccato dall’altro. Tutto quello che è molteplice in una unità, cade sotto l’unità di natura e pertanto è uno. [III,75,35] Anche il mio animo è un animale e io pure lo sono: e tuttavia non siamo due esseri. Come mai? Perché l’animo è una parte di me. Dunque qualcosa sarà numerato a parte, quando starà per sé; ma finché è membro di un altro essere non potrà venir considerato separato da questo. Perché? Perché per essere un’altra cosa, una realtà deve essere padrona di sé, completa e compiuta in se stessa.

[2] 24. Ma dice: “Le virtù non sono molti animali [III,75,40] e tuttavia sono animali. Come infatti uno stesso uomo è poeta e retore e tuttavia è uno, così queste virtù sono animali ma non sono molti animali”.

ETHICA VI.

Sul diritto e la legge

§ 1. Il diritto è naturale

Frammenti n. 308-313

SVF III, 308

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 128. Ciò ch’è giusto è giusto per natura e [III,76,5] non per convenzione, come va detto anche per la legge e per la retta ragione, secondo quanto afferma Crisippo nel libro ‘Sul bello’.

SVF III, 309

Cicerone ‘De finibus’ III, 71. Il diritto, quello che così può essere detto e denominato, è diritto naturale. Al saggio è alieno non soltanto il commettere ingiustizia contro qualcuno, ma anche solamente il nuocere; e non è corretto consociarsi per delinquere con amici o benefattori. [III,76,10] Fonti autorevolissime sostengono che mai l’equità può essere disgiunta dall’utile, e che ogni atto equo e giusto è un atto moralmente integro, e viceversa che qualunque atto moralmente integro sarà anche giusto ed equo.

SVF III, 310

Proclo ‘In Platonis Alcibiad.’ p. 318 Creuzer. L’intero [III,76,15] sillogismo che struttura la dimostrazione che il giusto è utile procede così: ogni cosa giusta è bella, e ogni cosa bella è un bene; dunque ogni cosa giusta è un bene. Ma il bene è identico all’utile, dunque ogni cosa giusta è utile. Il bene dell’animo, infatti, non esiste in altro che nella virtù, [III,76,20] e lo stesso vale per il bello. Ma poiché ogni bene si demarca in armonia con la virtù e il bello è identico al bene, allora entrambi questi sono giusti. Pertanto l’uomo temperante e virile è anche giusto, per la implicazione reciproca delle virtù; e vivere contro giustizia è essere né temperanti né comportarsi virilmente ma defraudarsi della giustizia, giacché la medesima forma [III,76,25] di vita esiste a partire da tutte le virtù.

SVF III, 311

Cicerone ‘De legibus’ I, 44. È la natura ad operare la distinzione non solo tra il giusto e l’ingiusto ma anche, e senza eccezione alcuna, tra il moralmente integro e il moralmente deforme; e siccome è una intelligenza comune a tutti gli uomini quella che ci rende note le cose e le sbozza nei nostri animi, si pongono le azioni moralmente integre nella virtù e quelle turpi nei vizi. È da dementi stimare che tale distinzione sia questione di opinioni [III,76,30] e non sia invece fissata dalla natura. Anche quella che si chiama virtù, si scusi l’abuso del termine, di una pianta o di un cavallo non dipendono certo dall’opinione ma dalla natura. [III,77,1] Se è così, anche il moralmente integro e il moralmente deforme sono da ritenersi distinti per natura. Infatti, se la virtù nel suo insieme fosse questione di opinioni, dovrebbero esserlo anche le sue parti; ma chi giudicherà qualcuno prudente e, per così dire, sagace non dal suo modo di vivere abituale ma da qualcosa di esteriore? La virtù è perfetta ragione, [III,77,5] il che è certo un fatto naturale; dunque lo è anche ogni forma di integrità morale.

SVF III, 312

Cicerone ‘De legibus’ I, 45. Come il vero e il falso, il conseguente e il contrario si giudicano di per sé e non da qualcos’altro, così è la natura ad operare la distinzione tra il costante e continuo uso della ragione nella vita, che è la virtù; e l’incostanza, che è il vizio. [III,77,10] […] Non facciamo la stessa cosa per le doti dei giovani? Le doti naturali, le virtù e i vizi che da esse scaturiscono saranno giudicate diversamente? Se non diversamente, non sarà necessario riferire alla natura anche il moralmente integro e il moralmente deforme? Se il bene è lodevole, necessariamente deve avere in sé qualcosa che sia degno di lode, giacché il bene è tale per natura e non è questione di opinioni. Altrimenti, anche gli uomini felici sarebbero tali per opinione. Ma si può dire una cosa più stolta? [III,77,15] Perciò, poiché il bene e il male sono distinti per natura, ed anzi sono essi stessi pulsioni naturali primarie, anche il moralmente integro e il moralmente deforme vanno giudicati con lo stesso metodo e riferiti alla natura.

SVF III, 313

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1040a. Nei libri ‘Sulla giustizia’ [III,77,20] scritti proprio contro Platone, al principio <Crisippo> salta subito al discorso sugli dei e afferma: “Cefalo aberra quando fa della paura degli dei un deterrente contro l’ingiustizia. Un simile ragionamento è facile da screditare e induce, al contrario, molte distrazioni e persuasività che pongono obiezioni al discorso sui [III,77,25] castighi divini, in quanto essi non sarebbero differenti dalle storielle di Acco e di Alfito, ossia le storielle con le quali le donne reprimono i bambini dalle impertinenze”. Dopo avere così schernito i libri di Platone, in altri <Crisippo> loda di nuovo e proferisce molte volte queste parole di Euripide:

‘Ma essi esistono, anche se qualcuno a parole li deride;

[III,77,30] Zeus e gli dei, che han gli occhi sulle passioni umane’.

§ 2. Sulla legge eterna e sulle leggi dei singoli Stati

Frammenti n. 314-326

SVF III, 314

Marciano ‘Institut.’ I, p. 11, 25 Mommsen. <Il libro> ‘Sulla legge’ <di Crisippo comincia con queste parole>: “La legge è sovrana di tutte le cose [III,77,35] divine e umane. Essa deve essere patrocinatrice del bello e del brutto, comandando e dominando così da essere canone del giusto e dell’ingiusto, imperativa alle creature per natura politiche di ciò che deve essere fatto e proibitiva di ciò che deve essere non fatto”.

SVF III, 315

Cicerone ‘De legibus’ I, 18. Pertanto agli uomini [III,78,1] più dotti sembrò opportuno prendere le mosse dalla legge; e direi che operarono rettamente giacché la legge, come essi la definiscono, è la ragione suprema insita nella natura e che comanda le cose da farsi e proibisce le contrarie. Proprio questa ragione, saldamente impiantata nella mente dell’uomo, è la legge. [III,78,5] Così essi stimano che la legge si identifichi con la saggezza, e che la sua potenza naturale consista nel comandare di operare rettamente e nel vietare di delinquere. Essi pensano anche che il suo nome in Greco significhi ‘attribuire a ciascuno il dovuto’. […] <Se è così> la trattazione del diritto va dedotta dalla legge, poiché questa legge è ad un tempo potenza naturale, mente e ragione del saggio, regola del giusto e dell’ingiusto. […] Essa è nata prima di tutti i secoli, prima di ogni legge scritta, [III,78,10] e prima della costituzione di qualunque Stato.

SVF III, 316

Cicerone ‘De legibus’ II, 8. La legge non è un’escogitazione dell’ingegno umano né il frutto di un plebiscito di popolo, ma qualcosa di eterno che regge l’universo mondo con la saggezza dei suoi comandi e delle sue proibizioni. Pertanto <quei saggi> dicevano che la legge [III,78,15] è la mente prima ed ultima del dio la cui ragione costringe o vieta ogni cosa. Ne consegue che la legge che gli dei diedero al genere umano è rettamente lodata, giacché essa è la ragione e la mente del saggio atta a comandare e a distogliere. […] Le ordinanze e i divieti dei popoli hanno il potere di chiamare ad operare rettamente e di tenere gli uomini lontani dai crimini, ma la potenza <della legge> non solo precede nel tempo l’esistenza dei popoli e delle città, [III,78,20] ma è identica alla potenza di quel dio che protegge e governa il cielo e la terra. La mente divina senza ragione non può esistere, né la ragione divina può mancare della potenza di sancire ciò ch’è retto e ciò ch’è malvagio. […] Perciò la legge vera e primaria, atta a ordinare e a vietare è la retta ragione del sommo Giove.

SVF III, 317

Cicerone ‘De legibus’ I, 33. Certo il diritto sarebbe [III,78,25] equamente rispettato da tutti se, com’è naturale, gli uomini giudicassero, per dirla col poeta, che ‘nulla che sia umano mi è alieno’. A coloro cui natura diede la ragione, diede anche la retta ragione, e dunque pure la legge che è appunto la retta ragione nel comandare e nel vietare. E se la natura diede loro la legge, diede anche il diritto. [III,78,30] Ma tutti hanno ricevuto la ragione; dunque a tutti è stato dato il diritto. Rettamente Socrate soleva esecrare chi per primo aveva disgiunto l’utile dal diritto naturale: questa, si lamentava, è l’origine di tutti i mali.

SVF III, 318

Cicerone ‘De legibus’ II, 11. Che ogni legge che davvero meriti tale nome sia degna di lode, essi lo insegnano usando pressappoco questi argomenti. È [III,78,35] senza dubbio provato che le leggi sono state inventate per la salvezza dei cittadini, la sicurezza degli Stati e la vita tranquilla e beata degli uomini. Coloro che per primi sancirono tali norme, spiegarono ai popoli che le scrivevano e proponevano affinché, una volta accettate e adottate, rendessero possibile una vita onesta e felice; e tali norme, una volta scritte ed approvate, furono evidentemente chiamate leggi. Da ciò si comprende anche [III,78,40] che quanti prescrissero ai popoli norme ingiuste e dannose, poiché tradirono ciò che avevano assicurato e promesso, tutto fecero tranne che delle leggi. Chiedo dunque, […] come sogliono fare <i filosofi>: se c’è un certa cosa la cui mancanza in uno Stato ci obbliga a considerare quest’ultimo inesistente, dobbiamo noi considerare quella certa cosa un bene? [III,79,1] -Certo fra i massimi beni- -E se in uno Stato manca la legge non lo si deve forse considerare inesistente?- -Non può dirsi altrimenti- -Dunque è necessario considerare la legge tra i sommi beni-

SVF III, 319

Cicerone ‘De legibus’ I, 42. È sommamente stolto [III,79,5] stimare giusto tutto ciò che è sancito nelle leggi e nelle istituzioni dei popoli. Lo sarebbero anche le leggi dei tiranni? […] Unico è infatti il diritto che lega insieme la società umana, ed unica è la legge che l’ha costituita: cioè l’uso della retta ragione nel comandare e nel vietare. [III,79,10] Chi l’ignora è ingiusto, sia essa scritta da qualche parte, sia che non lo sia.

SVF III, 320

Cicerone ‘De legibus’ I, 42. Se giustizia è ottemperare alle leggi scritte e alle istituzioni dei popoli, e se, come essi dicono, tutto va commisurato all’utile; ignorerà e infrangerà le leggi, non appena potrà, chiunque ritenga che il farlo gli è fruttuoso. Così accade che non esiste affatto giustizia se essa non esiste per natura, [III,79,15] e se la giustizia basata sull’utile è dall’utile stesso sradicata.

SVF III, 321

Cicerone ‘De legibus’ I, 43. Se il diritto fosse costituito dalle ordinanze dei popoli, dai decreti dei principi e dalle sentenze dei giudici; allora, se approvati con voti o plebisciti di massa, sarebbero un diritto il latrocinio, l’adulterio e la produzione di testamenti falsi. [III,79,20] Se il potere delle sentenze e delle ordinanze degli stolti è tanto grande che la natura delle cose è capovolta dai loro voti, perché essi non sanciscono che va ritenuto buono e salutare quanto è cattivo e pernicioso? Se la legge potesse trasformare l’ingiustizia in giustizia, non potrebbe anche volgere il male in bene? La verità è invece che noi non possiamo distinguere la buona legge dalla cattiva [III,79,25] se non in base a una norma di natura.

SVF III, 322

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ I, 108. Perché badare alle opinioni dei singoli, quando ci è dato di osservare le varie illusioni dei popoli? Gli Egiziani imbalsamano i morti e li tengono in casa. I Persiani li seppelliscono dopo averli cosparsi di cera, affinché i corpi rimangano integri il più a lungo possibile. È costume dei Magi non inumare [III,79,30] i morti se non dopo che essi siano stati dilaniati da bestie feroci. In Ircania la plebe nutre dei cani per uso pubblico, mentre gli ottimati li allevano per uso domestico, e sappiamo trattarsi di cani di razza eccellente, al fine di essere poi sbranati da questi cani, giacché per loro questa è la migliore delle sepolture. Crisippo, curioso com’è di ogni tradizione, raccoglie moltissimi altri esempi del genere, [III,79,35] ma alcuni sono così lugubri che fa paura riferirli.

SVF III, 323

[1] Filone Alessandrino ‘De Ioseph.’ II, Mang. p. 46. La costituzione politica dei vari popoli è un’appendice alla natura, la quale è investita, invece, di validità universale. Questo cosmo è infatti una megalopoli che utilizza una sola costituzione e una sola legge. [III,79,40] Legge che è la ragione insita nella natura ed è imperativa di ciò che deve essere fatto e proibitiva di ciò deve essere non fatto. Ma gli Stati locali sono [III,80,1] innumerevoli ed utilizzano costituzioni politiche differenti e leggi non identiche, giacché popoli diversi si sono trovati ed addizionati usanze e leggi diverse. […] Causa di ciò è l’assenza di mescolamento e la mancanza di relazioni sociali non soltanto dei Greci verso i Barbari e dei Barbari verso i Greci ma anche, [III,80,5] in particolare, degli uni e degli altri verso i propri consimili. Dopo di che, essi sembrano accagionare di ciò quanto causa non è: stagioni sfavorevoli, sterilità dei frutti, improduttività del terreno, la posizione lungo il mare o nell’entroterra, la posizione su un’isola o sulla terraferma, o cause simili a queste. Passano invece sotto silenzio la verità, che è l’interesse al guadagno e la diffidenza reciproca per cui, non accontentandosi degli statuti della natura, attribuiscono il nome di legge a ciò ch’è giudicato [III,80,10] di comune utilità da gruppi di persone che la pensano allo stesso modo. Sicché le costituzioni politiche particolari sono verosimilmente piuttosto delle appendici alla singola costituzione della natura, e le leggi dei singoli Stati sono appendici alla retta ragione della natura.

[2] p. 47. Lo casa è uno Stato compresso in piccole dimensioni e l’economia domestica è una costituzione politica in scala ridotta, così come lo Stato è una grande casa e la costituzione politica una sorta di [III,80,15] economia domestica collettiva. Tutto ciò mostra chiaramente che amministrare una casa è la stessa cosa che amministrare uno Stato, anche se cambiano il numero e la dimensione dei loro oggetti.

SVF III, 324

Diogeniano presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ VI, p. 264b. <Crisippo>, in quale senso affermi che tutte le leggi vigenti e tutte le costituzioni politiche sono aberranti?

SVF III, 325

Cicerone ‘De re publica’ III, 33. La vera legge [III,80,20] è la retta ragione congruente con la natura, valida per tutti, costante, sempiterna, che chiama all’atto doveroso coi suoi comandi e distoglie dal crimine coi suoi divieti. Questa legge impone i propri comandi o divieti agli uomini giusti non invano, pur non avendo il potere di mutare l’animo degli ingiusti col comando o col divieto. È però impossibile opporsi a questa legge, né derogare da essa in parte, [III,80,25] e tanto meno abrogarla tutta; né possiamo sciogliercene per decreto del Senato o del popolo; né dobbiamo cercare qualcuno che ce la spieghi o interpreti; né tale legge sarà una a Roma e un’altra ad Atene, una oggi e un’altra domani; ma una sola legge eterna e immutabile accomunerà per sempre tutte le nazioni, e la divinità sola sarà il comune maestro e sovrano di tutti, [III,80,30] quale ideatrice, elaboratrice e presentatrice di questa legge. E chi non le ubbidirà fuggirà da se stesso, e spregiando la natura stessa dell’uomo, per questa sola ragione sconterà gravissime pene pur se riuscisse a sottrarsi a quelli che sono comunemente reputati supplizi.

SVF III, 326

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1035c. Ascolta cosa afferma Crisippo nel terzo libro ‘Sugli dei’:

“Non è dato trovare altro principio né altra genesi [III,80,35] della giustizia se non quella che viene da Zeus e dalla natura delle cose; giacché è qui che tutto ciò deve avere il suo fondamento, se intendiamo dire qualcosa sul bene e sul male”.

§ 3. Sullo Stato

Frammenti n. 327-332

SVF III, 327

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 26, p. 642 Pott. [III,80,40] Gli Stoici affermano che il cielo è uno Stato in senso proprio, mentre quelli che sono qui sulla terra sono non Stati. Si chiamano così, ma non lo sono. [Il cielo] è lo Stato virtuoso e il [III,81,1] popolo civilizzato è un insieme e una moltitudine di uomini governati da leggi.

SVF III, 328

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 103, 9 W. Essi affermano che ogni insipiente è un esule, in quanto si defrauda della legge e della cittadinanza spettantegli per natura. [III,81,5] Come abbiamo già detto, la legge è cosa virtuosa e similmente lo è lo Stato. Circa il fatto che lo Stato sia cosa virtuosa, Cleante ha argomentato a sufficienza con un discorso del genere: se lo Stato è una struttura abitativa rifugiandosi nella quale è possibile fare ed ottenere giustizia, non è lo Stato una cosa virtuosa? Ma lo Stato è proprio una cosa del genere, dunque lo Stato è una cosa virtuosa. [III,81,10] Si può parlare dello Stato in tre modi: come struttura abitativa, come insieme di uomini e, terzo, secondo l’uno e l’altro modo. Si può parlare dello Stato come cosa virtuosa in due significati: come insieme di uomini e, con riferimento a coloro che vi sono stanziati, nell’uno e nell’altro modo insieme.

SVF III, 329

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XXXVI, 20. [III,81,15] Essi affermano che lo Stato è una moltitudine di uomini dimoranti nello stesso luogo e governata dalla legge.

SVF III, 330

Filone Alessandrino ‘De septen. et fest. dieb.’ p. 284, II, Mang. In complesso, la costituzione politica è ineccepibile anche grazie a leggi le quali spiegano che soltanto il bello è buono.

SVF III, 331

Dione Crisostomo ‘Orationes’ III, 43. [III,81,20] Si chiama ‘comando’ il ‘governo degli uomini conforme alla legge’ e il ‘provvedere agli uomini secondo la legge’.

SVF III, 332

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 420 Pott. Per la qual via alcuni [.…] dicevano che la legge è retta ragione imperativa di ciò che deve essere fatto e proibitiva [III,81,25] di ciò deve essere non fatto.

[.…] La costituzione politica [….] è del buon cibo per la società degli uomini.

L’equità giudiziaria [….] è la scienza correttiva, per via di giustizia, delle aberrazioni commesse. Sulla stessa linea dell’equità giudiziaria è l’attività giudiziaria penale, [III,81,30] la quale è scienza della misura nelle pene da infliggere, essendo la pena una correzione dell’animo

[….] I filosofi proclamano re, legislatore, stratega, giusto, sacrosanto, caro agli dei, soltanto il sapiente

[.…] proprio come noi chiamiamo pastorizia l’arte di provvedere alle pecore [.…] così diremo [III,81,35] che l’arte legislativa è l’arte di dare una struttura alla virtù degli uomini, ravvivando al possibile il bene che è in loro, dal momento che essa è soprintendente e tutrice dell’umana mandria.

§ 4. Sull’unione tra gli dei e gli uomini

Frammenti n. 333-339

SVF III, 333

Cicerone ‘De finibus’ III, 64. <Gli Stoici> sono dell’avviso che il mondo sia retto dal potere degli dei, che esso sia come la città e lo Stato degli uomini e degli dei, e che ciascuno di noi [III,81,40] sia parte di tale mondo. Da ciò naturalmente consegue che noi anteponiamo l’utilità comune alla nostra. Come infatti le leggi antepongono la sicurezza di tutti a quella dei singoli, così l’uomo buono e saggio, ossequiente alle leggi e conscio dei suoi doveri civili, [III,82,1] dà maggiore peso all’utilità di tutti che a quella di uno solo o alla sua. Ed è altrettanto disprezzabile chi tradisce la patria di chi trascura l’interesse o la sicurezza pubblica, a vantaggio del proprio interesse e della propria sicurezza. Perciò accade che sia da lodare chi affronta la morte per lo Stato, [III,82,5] e che la patria debba esserci più cara di noi stessi.

SVF III, 334

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XXXVI, 23. Giacché è d’uopo chiamare felice allo stato puro unicamente questa costituzione politica e questo Stato, ossia la società che lega gli dei gli uni agli altri. Se poi si vorranno abbracciare in essa tutti quanti gli esseri dotati di ragione, allora si terrà conto anche della società degli uomini con gli dei, contando però gli uomini come ragazzi dei quali si dice [III,82,10] che partecipano dello Stato insieme con gli adulti. I ragazzi, infatti, sono per natura cittadini ma non pensano né operano da cittadini e neppure sono accomunati agli adulti dalla legge, della quale non hanno alcuna comprensione.

SVF III, 335

Dione Crisostomo ‘Orationes’ I, 42. Posso dunque ben parlare del governo dell’intero cosmo il quale, tutto quanto felice e [III,82,15] sapiente, sempre percorre l’eternità infinita, costantemente, in cicli infiniti, con buona fortuna e consimile divino potere e Prònoia; e che con un comando giustissimo ed ottimo procura che noi siamo simili a lui, in armonia con la comune natura sua e nostra, adorni d’un solo statuto e d’una sola legge e partecipi della medesima costituzione. Colui che onora questa costituzione, la custodisce [III,82,20] e nulla effettua di contrario ad essa si conforma alla legge, è caro agli dei, composto; mentre chi invece, per quanto sta a lui, la manda sossopra, la viola e la ignora è un individuo senza legge, scomposto, tanto se è chiamato persona comune quanto se occupa delle cariche.

SVF III, 336

Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 3, I, p. 1, 11 Wendl. L’uomo che si conforma alla legge è subito anche un uomo cosmopolita, che aggiusta le proprie [III,82,25] azioni al piano della natura, in armonia con la quale tutto quanto il cosmo è governato.

SVF III, 337

[1] Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 142, I, p. 50, 2 Wendl. Se chiamiamo quel capostipite non soltanto primo uomo ma anche unico cittadino del mondo, non diremo affatto una falsità, giacché il cosmo era per lui casa e Stato.

[2] 143 Dacché ogni Stato ben ordinato possiede una costituzione politica, ne derivò che il cittadino del mondo utilizzasse [III,82,30] necessariamente la costituzione della quale si serve anche tutto quanto il cosmo. Questa costituzione è la retta ragione insita nella natura, costituzione che, con termine più appropriato, ha nome di ‘Statuto’, poiché è la legge divina in armonia con la quale le cose convenienti e spettanti furono assegnate a ciascuno. Di questo Stato e di questa costituzione bisognava che alcuni fossero cittadini prima dell’uomo, e costoro potrebbero essere chiamati giustamente ‘cittadini del grande Stato’. […] [III,82,35] E costoro chi altri potrebbero essere stati se non le nature razionali e divine, alcune incorporee e intelligibili, mentre altre sono non prive di corpo ed alle quali è avvenuto di essere gli astri?

SVF III, 338

Cicerone ‘De re publica’ I, 19. Ritieni tu che non riguardi le nostre case sapere quel che si fa e capita in quella casa che è racchiusa non tra le pareti che noi costruiamo, ma è questo intero mondo che gli dei ci hanno dato quale domicilio e patria [III,82,40] comune con loro?

SVF III, 339

Cicerone ‘De legibus’ I, 22. Questo animale preveggente, sagace, di ingegno multiforme, acuto, dotato di memoria, ricco di ragione e di buon senso che chiamiamo uomo, è stato generato e posto dalla suprema divinità in una condizione di assoluto privilegio. Infatti, egli è il solo tra tanti generi e nature di esseri animati ad essere partecipe della ragione e del pensiero, [III,83,1] mentre tutti gli altri ne sono privi. Cosa c’è di più divino della ragione, non dico nell’uomo ma in nel cielo e sulla terra intera? E la ragione, quando sia maturata e giunta a perfezione, rettamente si chiama saggezza. Pertanto, poiché nulla esiste che sia migliore della ragione, e poiché essa è la stessa nell’uomo e in dio, è la ragione la primaria comunanza tra l’uomo e dio. [III,83,5] Ma coloro che condividono la ragione hanno in comune anche la retta ragione; e poiché la retta ragione è la legge, noi uomini dobbiamo reputarci soci per legge degli dei. Inoltre, quanti hanno comunanza di legge hanno anche in comune il diritto; e coloro che hanno queste cose in comune sono da ritenersi appartenenti alla stessa città. E se essi obbediscono [III,83,10] alle stesse autorità e agli stessi poteri, ciò risulta ancora più vero. Ma essi in effetti obbediscono a questa celeste costituzione, alla mente divina e a un dio dotato di sovrano potere; sicché tutto questo universo mondo è da ritenersi sola città comune agli uomini e agli dei. E siccome, a ragione di un motivo di cui si tratterà a suo luogo, nella città lo stato di famiglia è contrassegnato dai vincoli di parentela, ciò avviene in modo ancor più splendido e più privilegiato nella natura delle cose, [III,83,15] per il fatto che uomini e dei sono congiunti da vincoli di parentela ed appartengono a una stessa gente.

§ 5. Sull’unione tra gli uomini

Frammenti n. 340-348

SVF III, 340

Cicerone ‘De finibus’ III, 62. <Gli Stoici> ritengono che in proposito sia pertinente capire che l’amore dei genitori per i figli è un fatto naturale; e che è prendendo le mosse da tale pulsione primaria che noi perseguiamo poi l’associazione del genere umano in comunità. [III,83,20] La prima cosa che si deve capire deriva dalla semplice conformazione di certe parti dei corpi, le quali già da sole dimostrano che la natura aveva il piano razionale di procreare; e non sarebbe stato congruente che il suo piano fosse quello di procreare senza però curarsi di far sì che i figli generati fossero accuditi dai genitori. La forza della natura si può scorgere in atto già nelle bestie feroci, ed osservando le loro fatiche nel partorire e nell’allevare i nati ci sembra di ascoltare la voce stessa della natura. [III,83,25] E come è manifesto che noi per natura aborriamo il dolore, così è evidente che la natura ci ha dato l’impulso ad amare coloro che abbiamo generato. È da questo impulso che nasce la comune inclinazione naturale degli uomini ad associarsi con altri uomini; giacché per il semplice fatto di essere uomo, l’uomo [III,83,30] non può vedere l’altro uomo come un alieno.

SVF III, 341

Cicerone ‘De finibus’ III, 64. Quantunque vadano ritenute inumane e scellerate le parole di quanti dichiarano che nulla importa loro se, dopo la loro morte, avviene la conflagrazione universale (cosa che si suole esprimere con un popolare verso greco); [III,83,35] è certamente vero che dobbiamo preoccuparci anche delle generazioni future in quanto tali. Da questa disposizione d’animo sono nati i testamenti e le raccomandazioni dei morenti.

SVF III, 342

Cicerone ‘De finibus’ III, 65. Dal fatto che nessuno voglia vivere in completa solitudine neppur avendo a disposizione un’infinita abbondanza di piaceri, si capisce facilmente che noi siamo nati per vivere entro legami di parentela e sociali con altri uomini III,83,40] ed in naturale comunità con essi. Noi abbiamo il naturale impulso a voler essere utili a quanti più uomini possibile, specialmente [III,84,1] insegnando e tramandando regole di saggezza. Perciò è difficile trovare uno che sappia qualcosa e non lo comunichi ad altri; e quindi noi siamo propensi non soltanto ad apprendere ma anche ad insegnare. E come la natura ha dato ai tori l’inclinazione a combattere contro i leoni [III,84,5] con grande forza ed aggressività per difendere i vitelli, così quanti ne hanno i mezzi e possono farlo, come sappiamo di Ercole e di Libero, sono spinti dalla natura a curarsi della salvezza del genere umano. […] E come noi utilizziamo le membra prima di avere imparato in vista di quale utilità le abbiamo, così noi ci troviamo congiunti e consociati per natura nella società civile. Se così [III,84,10] non fosse non ci sarebbe posto alcuno per la giustizia e la bontà.

SVF III, 343

Cicerone ‘De legibus’ I, 28. Nulla è certo più importante del comprendere pienamente che noi siamo nati per la giustizia, e che il diritto si fonda non sulle opinioni umane ma sulla natura. Ciò ti sarà chiaro non appena considerassi con la dovuta attenzione le relazioni sociali e di parentela che gli uomini hanno tra di loro. [III,84,15] Non c’è una cosa che somigli tanto ad un’altra, che le sia tanto pari, quanto noi uomini ci somigliamo tutti l’un l’altro. Se le cattive abitudini e le false opinioni non distorcessero gli animi deboli e non li piegassero dovunque vogliono, nessuno sarebbe tanto simile a se stesso quanto ciascun uomo è simile ad ogni altro. Pertanto, qualunque sia la definizione di ‘uomo’, essa vale per tutti gli uomini; il che prova a sufficienza [III,84,20] che nel genere umano non vi è dissomiglianza alcuna, giacché se essa ci fosse, un’unica definizione non si applicherebbe alla totalità degli uomini. Infatti la ragione, per la quale soltanto siamo superiori alle bestie, e grazie alla quale siamo capaci di congetturare, argomentare, refutare, discutere, compiere qualcosa, trarre conclusioni, è senz’altro comune a noi tutti e, per quanto differente per conoscenze, è pari per tutti quanto a capacità di apprendere. Con i sensi noi cogliamo sempre le medesime [III,84,25] cose; e le cose che stimolano i sensi, li stimolano allo stesso modi in tutti gli uomini. Gli stimoli che quindi si imprimono negli animi, e dei quali parlai in precedenza, quali abbozzi di comprensione intelligente, si imprimono in tutti in modo simile; e poi il discorso, interprete della mente, pur discrepante nelle parole è però congruente nei significati che esprime. Non c’è nessuno di nessun popolo che, ottenuta la guida della ragione, [III,84,30] non possa pervenire alla virtù.

SVF III, 344

Cicerone ‘De legibus’ I, 43. Se le fondamenta della giustizia non saranno nella natura, tutte le virtù spariranno. Dove potranno esistere la liberalità, la carità di patria, la pietà per gli dei, il meritare benemerenze da qualcuno, la riconoscenza? Tutte queste cose nascono dal fatto che noi per natura siamo propensi a prediligere gli uomini, il che è il fondamento del diritto. [III,84,35] Spariranno non soltanto il rispetto per gli uomini ma anche le cerimonie religiose in onore degli dei, che reputo da conservarsi non per paura ma per il vincolo che lega l’uomo a dio.

SVF III, 345

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ V, 17. Mancando tutti gli animali di saggezza, noi vediamo che è la natura a provvedere alla loro appropriazione di sé. [III,84,40] Dunque essi nuocciono agli altri per giovare a se stessi, visto che non sanno perché nuocere sia un male. L’uomo invece, avendo scienza del bene e del male, si astiene dal nuocere pur se a proprio svantaggio, cosa che un animale irrazionale non può fare, sicché l’innocenza è annoverata tra le massime virtù umane. Da ciò appare chiaro perché sia sapientissimo chi preferisce il perire [III,85,1] al fare del male, e compia così un dovere che lo distingue dai bruti.

SVF III, 346

Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 50, Vol. II, p. 265, 22 K. La socialità non è stata circoscritta ed espunta dagli uomini, anche i più rozzi, [III,85,5] come lo è stata dagli animali privi di ragione; ma il nostro Fattore ci ha fatti parimenti socievoli verso tutti gli uomini.

SVF III, 347

Proclo ‘In Platonis Alcibiad.’ VIII, p. 64 Cousin. Gli Stoici sono senz’altro invisi a tutte le azioni del genere in quanto azioni depravate. Secondo loro, infatti, non è possibile ingannare giustamente, né secondo giustizia violentare né [III,85,10] espropriare; ma ciascuna di queste azioni proviene da una postura perversa dell’animo e chi le compie è un ingiusto. Gli antichi filosofi, invece, consideravano tutte queste azioni come azioni intermedie…

SVF III, 348

Cicerone ‘De finibus’ III, 70. <Gli Stoici> ritengono che l’amicizia vada praticata perché fa parte del genere delle cose utili. Alcuni dicono che nell’amicizia il saggio tiene alle ragioni dell’amico tanto quanto alle proprie; altri che tiene più alle proprie che a quelle all’amico. [III,85,15] Tuttavia anche questi ultimi asseriscono che togliere qualcosa a qualcuno per appropriarsene è contrario a quella giustizia per la quale evidentemente siamo nati. Comunque in nessun modo si approva l’idea […] che una giusta causa o un’amicizia vadano acquisite o approvate in vista di un guadagno, giacché il guadagno potrà indebolirle o pervertirle. Infatti giustizia ed amicizia potranno [III,85,20] esistere solo se ricercate di per se stesse.

§ 6. Sulla nobiltà di stirpe e sulla libertà

Frammenti n. 349-366

SVF III, 349

Seneca ‘De beneficiis’ III, XXVIII, 1. Noi originiamo tutti dalla stessa sorgente ed abbiamo tutti la stessa origine. Nessuno di noi è più nobile di un altro, se non colui che ha più retto ingegno e più attitudine a bene operare. […] Il cosmo è l’unico padre di tutti noi e sempre qui, [III,85,25] a questa prima origine si risale, attraverso ascendenti illustri od oscuri.

SVF III, 350

[1] Pseudo-Plutarco ‘De nobilitate’ cp. 12. Nel libro ‘Sulle virtù’, Crisippo chiama la nobiltà di stirpe “Scoria e feccia di sbarbatura della parità di condizione” ed afferma che pertanto non fa alcuna differenza da quale padre tu sia per caso nato, se da un uomo [III,85,30] di nobile stirpe oppure no.

[2] cp. 13. Ritorno di nuovo a Crisippo il quale, contro la nobiltà di stirpe, scrive che le parole che seguono sono opera del più intelligente dei poeti:

‘Che io o qualche altro Acheo, legatolo, conduca in catene’

Di nuovo <Crisippo> latra raccontando le malefatte dei nati [III,85,35] da nobile stirpe, come sono messe in mostra dallo stesso poeta, allorquando Efesto colse Ares ed Afrodite in flagrante adulterio:

‘Come la figlia di Zeus, Afrodite, me che son zoppo,

disprezza sempre, e invece ama Ares crudele’

Altrimenti abbattete la Stoa: [III,85,40] se siete infatti dell’avviso che tutte le aberrazioni siano pari, perché sorvegliate con più precisione quelle di chi è di nobile stirpe? Voi affermate che non [III,86,1] fa differenza se è un popolano e se è un re ad abusare di una figlia; eppure chiacchierate un sacco contro la vanità, la cialtroneria, gli amori, gli accoppiamenti illeciti, la crudeltà delle persone di nobile stirpe; li chiamate smaniosi di cause legali, immemori dei benefici ricevuti e, qualora abbiano subito un’ingiustizia, acerbissimi nella rappresaglia.

[3] cp. 16. [III,86,5] Ma dacché Crisippo battaglia contro di noi col suo amato Euripide, orsù, proferiamo proprio le parole che quell’araldo della nobiltà di stirpe cantava su di essa. Così Euripide […] sulla nobiltà di stirpe […]

Ma queste non sono parole di un uomo che s’azzuffa e abbatte la nobiltà di stirpe, [III,86,10] piuttosto di chi la loda e la sublima…

SVF III, 351

Seneca ‘De beneficiis’ III, XXII, 1. Secondo Crisippo il servo è un mercenario a vita. E come il mercenario dà un beneficio quando rende un servigio straordinario che va oltre il compito assegnatogli, così il servo, quando per affetto verso il padrone fa più di quello che la sua condizione prevede [III,86,15] ed osa imprese più nobili di quelle che farebbero onore perfino ad un uomo di nascita più fortunata, e così facendo supera le aspettative del padrone, allora tra le mura di casa ci si ritrova un beneficio.

SVF III, 352

[1] Filone Alessandrino ‘De septen. et fest. dieb.’ p. 283, II, Mang. Nessun uomo è servo per decreto di natura.

[2]p. 291 [III,86,20] I padroni si comportano con gli schiavi comprati con denaro non come con gente serva per natura ma come con gente assoldata.

SVF III, 353

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VI, p. 267b. Come scrive nel secondo libro ‘Sulla concordia’, Crisippo afferma che vi è differenza tra un servo comprato con denaro e un servo nato in casa, a causa del fatto che i liberti sono ancora in condizione servile mentre invece i servi nati in casa non vengono [III,86,25] scorporati dal patrimonio, giacché “il servo nato in casa” – egli dice – “è un servo incorporato nel patrimonio domestico”.

SVF III, 354

Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ III, p. 288 Pott. La vera indole nobile, la quale si riscontra per natura nella bellezza dell’anima, non contraddistingue il servo, non a causa della compravendita ma a causa dell’intelligenza servile.

SVF III, 355

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. [III,86,30] Soltanto il sapiente è libero, mentre gli insipienti sono servi. Infatti la libertà è potestà di autodeterminazione pratica, mentre la servitù è privazione di essa. Vi è poi un’altra servitù, ossia quella che consiste nella subordinazione; ed una terza, consistente nell’essere patrimonio di qualcuno ed a lui subordinato. A questa si contrappone il dispotismo, che è anch’esso cosa da insipienti.

SVF III, 356

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XIV, 16. [III,86,35] In una parola, non è lecito effettuare azioni viziose, mentre è d’uopo affermare che è conveniente e lecito effettuare quelle giuste, utili e virtuose. Dunque per nessuno è senza perdita il fare azioni viziose e sconvenienti. A tutti è però similmente accordata la possibilità di fare il contrario, e coloro che effettuano queste azioni trascorrono la vita senza perdita alcuna, [III,86,40] mentre coloro che effettuano le azioni vietate sono puniti. A te sembra che quanti effettuano le azioni lecite siano diversi da coloro che hanno scienza di esse, e che quanti effettuano le azioni contrarie siano diversi dagli ignoranti? Pertanto tutto ciò che [III,87,1] gli uomini saggi rettamente decidono di effettuare è loro lecito. Invece tutto ciò che le persone stolte decidono, non è lecito a chi mette mano ad effettuarlo. Cosicché è necessario che i saggi siano uomini liberi e che sia loro lecito fare ciò che dispongono, mentre è invece necessario che i dissennati siano individui servi e che facciano proprio ciò ch’è loro non lecito. Dunque è d’uopo [III,87,5] anche chiamare la libertà scienza delle cose che è accordato effettuare e di quelle che è impedito effettuare; e chiamare la servitù ignoranza delle cose lecite e di quelle illecite.

SVF III, 357

[1] Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 450, 23 Mang. Del fatto che il compimento di servizi non sia indizio di servitù, fanno fede evidentissima le guerre. Allora ci è infatti dato vedere tutti i soldati lavorare manualmente di persona, non soltanto trasportando [III,87,10] gli armamenti ma anche, carichi al modo delle bestie da soma, tutto ciò ch’è loro di uso necessario, in quanto escono per l’approvvigionamento dell’acqua, di legna da ardere e di foraggio per il bestiame. [.…] Vi è poi una certa guerra anche in tempo di pace, che è non da meno di quelle combattute con le armi. È la guerra che il discredito, la povertà e la terribile scarsità del necessario ci forgiano contro. Sotto la sua violenza si è costretti a mettere mano ai lavori più servili come [III,87,15] zappare, faticare alla coltivazione della terra, occuparsi in lavori artigianali, mettersi risolutamente al servizio di qualcuno per poterci mantenere in vita….

[2] p. 451, 2. Così i ragazzi tollerano di essere comandati dal padre e dalla madre, e i discepoli tollerano ciò che i maestri impongono loro di fare, giacché nessuno è servo volontariamente. I genitori, poi, non sfoggeranno mai un tale colmo di odio per i figli, e [III,87,20] costringeranno eventualmente i loro ragazzi a reggere soltanto quei servizi che non sono simboli di servitù.

SVF III, 358

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 451, 9 Mang. Se qualcuno, quando vede della gente venduta a buon mercato dai commercianti di schiavi, crede che essi siano perciò stesso servi, si sbaglia di grosso. La vendita, infatti, non dichiara [III,87,25] signore l’acquirente e servo l’acquistato, dacché anche dei padri hanno pagato il riscatto dei figli e i figli molte volte hanno pagato quello dei padri, o perché sequestrati nel corso di una rapina o perché erano diventati prigionieri di guerra. [.…] Alcuni poi, se vogliamo eccedere in senso contrario, rigirarono completamente la faccenda e diventarono padroni dei loro acquirenti, invece che servi.

SVF III, 359

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 451, 47 Mang. [III,87,30] Oltre a ciò, chi non direbbe che gli amici di Dio sono uomini liberi? Se ai compagni dei re, i quali ne sono delegati e ne condividono l’imperio, merita riconoscere non soltanto libertà ma anche potere, bisogna augurare la servitù agli amici degli dei dell’Olimpo i quali, divenuti per la loro devozione [III,87,35] amanti di Dio ed essendone ricambiati di pari benevolenza, secondo una sentenza vera sono, come dicono i poeti, sovrani universali e re dei re?

SVF III, 360

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 452, 22 Mang. Quindi come gli Stati sotto oligarchie o tirannidi [III,87,40] soggiacciono alla servitù, poiché hanno despoti aspri e gravosi che li sottomettono e li padroneggiano, mentre invece gli Stati che usano le leggi come soprintendenti e patrocinatori sono liberi; così pure tra gli uomini, coloro presso i quali l’ira, la smania, qualche altra passione o anche un vizio insidioso sono padroni assoluti, sono affatto servi, mentre invece quanti vivono secondo la legge sono liberi. La legge che non è falsa è la retta ragione, la quale non [III,87,45] è modellata dal tale o dal talaltro mortale, peritura su scartoffie o inanimata su steli inanimate, [III,88,1] ma fu modellata imperitura dalla natura immortale nell’intelletto immortale. Perciò ci si stupirà dell’ambliopia di coloro che non notano l’abbacinante specificità dei fatti ed affermano che per la libertà dei grandissimi popoli Ateniese e Spartano sono più che sufficienti le leggi di Solone [III,88,5] e di Licurgo, le quali dominano e comandano sui cittadini che loro ubbidiscono; mentre invece, nel caso degli uomini sapienti, affermano che la retta ragione, la quale è fonte per le altre leggi, non è sufficiente a far partecipi della libertà coloro che le danno retta in tutto, qualunque cosa essa ingiunga o proibisca.

SVF III, 361

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 452, 46 Mang. Oltre [III,88,10] a quanto già detto, quindi, fa evidentissima fede della libertà l’eguale diritto di parola che tutti i virtuosi praticano tra di loro. Onde affermano che parla filosoficamente il famoso trimetro:

‘I servi, per natura non hanno a che fare con le leggi’

e ancora

[III,88,15] ‘Sei per natura servo, non hai a che fare con la ragione’

Pertanto, come la competenza musicale rende partecipi tutti coloro che si occupano di musica di un eguale diritto di parola nelle questioni di quest’arte, e lo stesso vale per i grammatici e per i geometri in fatto di grammatica e di geometria; altrettanto fa la legge che inerisce alla vita nei riguardi di coloro che sono esperti delle cose della vita. Tutti i virtuosi sono esperti delle faccende della vita, dal momento che lo sono [III,88,20] di quelle che accadono in generale in natura. Alcuni di essi sono liberi; ma allora lo sono anche quanti partecipano con costoro di un eguale diritto di parola. Dunque nessun virtuoso è servo, ma tutti sono uomini liberi. Muovendo dallo stesso punto di partenza rimarrà anche dimostrato che lo stolto è un individuo servo. Infatti, come la norma in fatto di musica non concede un eguale diritto di parola agli inesperti nei confronti degli esperti in essa, né la norma in fatto di grammatica la concede [III,88,25] agli inesperti di grammatica nei confronti degli esperti in essa né, in complesso, la norma di un’arte a chi è profano dell’arte nei confronti di chi ne è un esperto; così neppure la legge inerente alla vita fa partecipi di un eguale diritto di parola gli inesperti delle cose della vita nei confronti di coloro che ne sono esperti. Un eguale diritto di parola è invece concesso dalla legge a tutti coloro che sono liberi. Ma vi sono dei virtuosi che sono liberi, e i viziosi sono inesperti delle cose della vita mentre i virtuosi ne sono espertissimi. Dunque non vi sono dei viziosi liberi, [III,88,30] ma tutti sono servi.

SVF III, 362

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 454, 12 Mang. Quindi s’afferma non senza scopo che chi fa tutto saggiamente, fa tutto bene. Colui che fa tutto bene, fa tutto rettamente. Colui che fa tutto rettamente lo fa anche impeccabilmente, irreprensibilmente, inappuntabilmente, senz’obbligo di rendiconto e ineccepibilmente; cosicché avrà [III,88,35] la potestà di compiere tutto e di vivere come decide. Colui al quale questo è possibile, sarebbe un uomo libero. Ma l’individuo virtuoso fa tutto saggiamente, dunque egli è il solo ad essere libero.

SVF III, 363

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 454, 31 Mang. Colui che non è fattibile costringere o impedire ebbene, quello sarebbe un individuo non servo. Ora, non è possibile costringere o impedire l’uomo virtuoso; [III,88,40] dunque il virtuoso è non servo, poiché manifestamente egli è né costretto né impedito. Impedito, infatti, è chi non fa centro nelle cose che desidera; ma il sapiente desidera le cose che promanano dalla virtù, e centrare questo obiettivo non è per natura impossibile. Se poi davvero è costretto, è manifesto che fa qualcosa suo malgrado. Le azioni umane o promanano da virtù e sono azioni rette, oppure promanano [III,88,45] dal vizio e sono aberrazioni, oppure sono azioni intermedie ed indifferenti. Le azioni virtuose non [III,89,1] sono prodotto di violenza, ed egli le compie tutte quante – giacché per lui sono quelle sceglibili- di buon grado. Quelle invece viziose, in quanto possono essere fuggite, egli neppure si sogna di effettuarle. Né è verosimile che egli effettui suo malgrado le azioni indifferenti, verso le quali il suo intelletto è in equilibrio come su una bilancia, avendo imparato a non cedere loro come se avessero forza attrattiva né ad essere malcontento di loro come se meritasse di distogliersene. [III,89,5] E’ da ciò manifesto che il virtuoso nulla fa suo malgrado e che neppure è costretto. Se invece fosse servo, sarebbe costretto. Pertanto l’individuo virtuoso è libero.

SVF III, 364

Filone Alessandrino ‘De posteritate Caini.’ 138, II, p. 30, 17 Wendl. Questa è l’acquisizione teorica assolutamente fondamentale, ossia che soltanto il sapiente è libero e comanda, anche se avrà miriadi di padroni del suo corpo.

SVF III, 365

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XV, 31. [III,89,10] Sicché chi sarà bennato per la virtù, costui conviene che sia chiamato di nobile natura. […] Ma non è proprio possibile che uno sia di nobile natura e non sia di nobile indole, né che sia di nobile indole e non sia un uomo libero. Sicché è anche del tutto necessario che la persona ignobile sia serva.

SVF III, 366

Stobeo ‘Eclogae’ II, 107, 14 W. [III,89,15] Circa l’individuo con natura di purosangue e d’indole nobile, i seguaci di questa Scuola furono portati ad affermare che tutti i sapienti sono tali, mentre altri filosofi lo negarono. Alcuni credono, infatti, che purosangue per la virtù non si nasca soltanto ma che alcuni siano tali per averlo strutturato con l’esercizio, e portarono a dimostrazione di ciò quel detto proverbiale:

[III,89,20] ‘L’esercizio cronico si istituisce a natura’.

E concepirono la stessa cosa circa l’indole nobile, sicché la natura di purosangue è definita genericamente come una postura dell’animo, o naturale o strutturata dall’esercizio, appropriata alla virtù; oppure una postura dell’animo per la quale alcuni sono più facilmente suscettibili alla virtù. A sua volta l’indole nobile è una postura dell’animo, o ingenita o strutturata dall’esercizio, appropriata alla virtù.

[III,89,25] § 7. Che la comunità di legge non pertiene agli animali bruti

Frammenti n. 367-376

SVF III, 367

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 129. Inoltre ha il loro beneplacito il dire che noi non abbiamo alcun obbligo di giustizia verso gli altri animali, a causa della dissomiglianza tra noi e loro, secondo quanto afferma Crisippo nel primo libro ‘Sulla giustizia’.

SVF III, 368 [III,89,30]

[1] Origene ‘Contra Celsum’ IV, 81, Vol. I, p. 351, 7 K. In queste sue valutazioni <Celso, che ha esaltato la solerzia delle formiche e delle api> non ha visto in cosa differiscono le realizzazioni della ragione e del raziocinio da quelle che originano da una natura priva di ragione e da una mera struttura della cui causa nessuna ragione inerente agli agenti si fa carico, dal momento che essi neppure l’hanno […][III,89,35] Presso gli uomini sussistono città nelle quali si praticano molte arti e che sono dotate di una costituzione di leggi. Inoltre tra gli uomini vi sono regimi politici, cariche pubbliche e governi, sia quelli così chiamati in senso proprio in quanto costumi e attività di valore, sia quelli chiamati così in senso più improprio in quanto tendono ad imitarli per quanto possibile. Guardando infatti a quelli, i legislatori accorti [III,89,40] raccomandano i migliori regimi politici, cariche pubbliche e governi; nessuno dei quali è dato di trovare tra le creature prive di ragione.

[2] p. 352, 4. [III,90,1] Merita ammirazione la divina natura, la quale ha esteso perfino alle creature prive di ragione qualcosa che è una sorta di imitazione delle creature razionali.

SVF III, 369

Cicerone ‘De finibus’ III, 63. Tra le parti del corpo umano, alcune sono nate per sé, come gli occhi e le orecchie; mentre altre aiutano la funzione di altre parti, [III,90,5] come le gambe e le mani. Così alcune bestie di grandi dimensioni sono nate solo per sé, <mentre per altre non è così>. L’animale detto ‘pinna’ vive stabilmente in una grande conchiglia in compagnia di un altro animaletto chiamato ‘pinnotero’ il quale fa la guardia alla pinna. Il pinnotero, infatti, nuota fuori dalla conchiglia e poi vi rientra per segnalare alla pinna un pericolo, sicché essa richiude la conchiglia e lo serra dentro. Anche fra le formiche, le api e le cicogne si trovano esemplari che fanno talora qualcosa a vantaggio degli altri. Certo fra noi uomini questo vincolo [III,90,10] è più forte, dato che per natura siamo atti a formare ceti, associazioni e Stati.

SVF III, 370

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 130. I Pitagorici toppavano quando ammonivano ciò, <ossia che vi è società tra noi uomini e le creature prive di ragione>. Giacché, se pur esiste uno pneuma che pervade noi e loro, non per ciò stesso [III,90,15] vi è un obbligo di giustizia da parte nostra verso le creature prive di ragione. Guarda, infatti, che un certo pneuma bazzica anche i sassi e i vegetali e quindi noi siamo unificati ad essi, ma noi non abbiamo alcun obbligo di giustizia verso i vegetali ed i sassi, né commettiamo un’ingiustizia quando tagliamo o seghiamo tali corpi. Perché dunque gli Stoici affermano che esiste un intreccio di giustizia degli uomini [III,90,20] fra di loro e con gli dei? Non è in quanto lo pneuma si spinge attraverso tutti gli esseri che si possa salvaguardare un obbligo di giustizia da parte nostra verso le creature prive di ragione; ma è dacché noi abbiamo una ragione che si prolunga negli altri uomini e negli dei, ragione della quale le creature che ne sono prive non partecipano, che esse non avrebbero alcuna possibilità di avere un obbligo di giustizia verso di noi.

SVF III, 371

Cicerone ‘De finibus’ III, 67. Mentre reputano che tra uomini ed uomini esistano precisi vincoli giuridici, <gli Stoici> dicono che non esistano [III,90,25] affatto tra uomini ed animali. Crisippo sostiene fermamente la tesi che tutti gli altri esseri sono nati per servire uomini e dei; e questi ultimi, invece, per convivere in solidale comunanza; sicché gli uomini possono utilizzare le bestie a proprio vantaggio senza per questo commettere ingiustizia alcuna. La natura umana è tale che fra il singolo uomo e il genere umano vige il diritto civile [III,90,30] e che chi lo rispetta sarà giusto, mentre chi lo elude sarà ingiusto. Come si può rettamente dire che, quando si è teatro, appartiene a ciascuno il posto egli occupa, pur essendo il teatro in comune; così avviene in una città o nel mondo: che essi siano entità comuni non contrasta col diritto che ciascuno ha di possederne una parte.

SVF III, 372

Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 73, I, p. 24, 21 Wendl. Degli esseri che esistono, [III,90,35] alcuni partecipano né della virtù né del vizio, come i vegetali e gli animali privi di ragione; gli uni perché non hanno un animo e sono governati da una natura che non usa le rappresentazioni, gli altri perché mente e ragione sono state loro recise. Mente e ragione sarebbero come la casa del vizio e della virtù, dentro le quali questi per natura campano. Altri esseri, a loro volta, sono accomunati soltanto alla virtù e non partecipano di alcun vizio, come gli astri. Gli astri, infatti, sono e si chiamano animali [III,90,40] e animali cognitivi. [.…] Altri esseri sono di natura mista, come l’uomo, il quale è compatibile [….] con la virtù e col vizio.

SVF III, 373

Plutarco ‘Terr. an. aquat. animal. sint callid.’ p. 963f. I ragionamenti [III,91,1] degli Stoici e dei Peripatetici tendono a conclusioni del tutto opposte, al punto che la giustizia non ha alcuna possibilità di genesi e diventa una cosa integralmente inconsistente e insussistente, se tutti gli animali hanno parte nella ragione. Giacché diventa necessario o che noi commettiamo ingiustizia non risparmiandoli [III,91,5] oppure, non utilizzandoli, il vivere ci diventa impossibile e impraticabile; e in un certo modo vivremo la vita delle bestie, una volta abbandonate le utilità che ce ne provengono.

SVF III, 374

Plutarco ‘De esu carnium’ p. 999f. Non è da Stoici questa gara circa il mangiare carne. Cos’è questo gran tono diretto alla pancia ed alle carni arrosto? Perché, [III,91,10] calunniando di effeminatezza il piacere fisico come né un bene né principale né appropriato, essi si sono tanto industriati ad interessarsene? Eppure, dal momento che scacciano dai conviti l’anguilla e i manicaretti, sarebbe per loro conseguente essere ancora più malcontenti del sangue e delle carni. Ora invece, come se filosofassero per il libro delle spese giornaliere, essi eliminano il dispendio per ciò che nei pranzi è improficuo e superfluo, ma non schivano ciò che nella varietà delle portate è selvaggio [III,91,15] e sanguinolento. “Sì, essi dicono, ma noi non abbiamo alcun obbligo di giustizia verso gli animali privi di ragione”. Ma allora neanche verso l’anguilla, si potrebbe dire, e neppure verso le prelibatezze esotiche. Trattenetevi anche dalle carni, se intendete scacciare da ogni dove ciò ch’è né proficuo né necessario nel piacere fisico.

SVF III, 375

Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 46, I, p. 220, 19 Wendl. [III,91,20] La creatura irrazionale è, per natura, di due specie. La creatura che vive contro la ragione che opera la scelta [proairesi], creatura che alcuni chiamano ‘lo stolto’; e la creatura che vive in condizione di recisione della ragione, come è il caso degli animali privi di ragione.

SVF III, 376

‘Anecdota Paris.’ I, p. 244 Cramer. Gli Epicurei ed alcuni Stoici successivi fanno partecipi della felicità anche gli [III,91,25] animali privi di ragione.

ETHICA VII.

Sulle passioni

§ 1. La nozione di passione e le definizioni delle singole passioni

Frammenti n. 377-420

SVF III, 377

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 460 Pott. Se l’impulso è pulsione dell’intelletto [III,92,5] su qualcosa o lontano da qualcosa, allora la passione è un impulso eccessivo o che si stende oltre il ragionevole, oppure un impulso portatosi fuori controllo e che disobbedisce alla ragione. Dunque, in armonia con la loro disobbedienza alla ragione, le passioni sono moti dell’animo contrari alla natura [delle cose].

SVF III, 378

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 88, 6 W. Siccome la passione è una specie di [III,92,10] impulso, parliamo di seguito delle passioni.

[2] 10. <Gli Stoici> affermano che la passione è un impulso eccessivo e disobbediente alla ragione che opera la scelta [proairesi], oppure un moto dell’animo contrario alla natura delle cose, e che tutte le passioni ineriscono all’egemonico dell’animo. Perciò ogni sua palpitazione è una passione e, viceversa, ogni sua passione è una palpitazione. Dovendosi concepire della passione qualcosa di simile, alcune passioni sono però [III,92,15] primarie ed originarie, mentre altre fanno poi riferimento a queste. Primarie per genere sono queste quattro passioni: la smania, la paura, l’afflizione e l’ebbrezza. Smania e paura precedono le altre, in quanto sono anticipazioni: la smania, di quello che appare essere un bene; la paura, di quello che appare essere un male. Sopravvengono poi a queste l’ebbrezza e l’afflizione. L’ebbrezza, qualora si centrino le cose per le quali smaniavamo o si riesca a fuggir via da quelle delle quali [III,92,20] avevamo paura; l’afflizione qualora non si centrino le cose per le quali smaniavamo o si incappi in quelle delle quali avevamo paura. Dacché essi affermano che tutte le passioni dell’animo sono opinioni e che per essi l’opinione è sinonimo di concezione debole, quanto è immediato e senza riserva è sinonimo di contrizione o esaltazione emotiva irrazionale.

SVF III, 379

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 22. Dicono che fonte di ogni passione sia l’intemperanza, la quale è una diserzione [III,92,25] dalla retta ragione. La mente, in questo caso, è così avversa alle prescrizioni della ragione da diventare del tutto impotente a reggere e contenere gli impulsi dell’animo. Come la temperanza tiene a freno gli impulsi, li fa obbedire alla retta ragione e salvaguarda i meditati giudizi della mente; così la sua nemica, l’intemperanza, infiamma, [III,92,30] perturba ed esaspera ogni stato d’animo, e genera afflizioni, paure e ogni sorta di passione.

SVF III, 380

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 14. Stimano che ogni passione nasca da un giudizio e da una opinione. [III,93,1] Perciò ne forniscono la definizione più precisa, affinché si capisca non solo quanto le passioni siano viziose, ma anche quanto siano in nostro potere. […] Dicono che quei giudizi e quelle opinioni che ho detto causare le passioni non contengono solo le passioni ma anche ciò che origina dalle passioni. [III,93,5] Così l’afflizione provoca quasi un morso di dolore, la paura un ripiegamento dell’animo e la fuga, la letizia una profusa ilarità, la libidine una brama sfrenata. Vogliono anche che quella inclusa in tutte le definizioni precedenti, ossia l’opinione, consista in un assenso debole.

SVF III, 381

Cicerone ‘De finibus’ III, 35. Le passioni dell’animo […] che i Greci chiamano πάθη, [III,93,10] pur con numerose suddivisioni, sono soltanto di quattro generi: l’afflizione, la paura, la libidine e quella passione che gli Stoici chiamano ἡδονή, ossia piacere, con un termine che va bene tanto per il corpo che per l’animo, […] quasi un trasporto dell’animo che si esalta. Le passioni non sono mosse da alcuna potenza naturale e sono tutte opinioni e giudizi inconsistenti. [III,93,15] Il saggio pertanto ne è sempre esente.

SVF III, 382

Temistio ‘Paraphr. in Aristot. De anima’ III, 5, p. 197 Sp. I seguaci di Zenone non fanno male a proporre che le passioni dell’animo umano siano pervertimenti della ragione e determinazioni aberranti di ragione.

SVF III, 383

Proclo ‘In Platonis Alcibiad.’ III, p. 159 Cousin. Tali passioni non sono [III,93,20] soltanto smosse negli uomini dai giudizi, come affermano gli Stoici; ma è anche il contrario, ossia è a causa di tali passioni che gli uomini mutano desideri e opinioni.

SVF III, 384

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 449c. Forzati dall’evidenza dei fatti, gli Stoici affermano che “non ogni [III,93,25] determinazione è una passione, ma quella determinazione che mette in moto un impulso violento ed eccessivo”, ammettendo che la parte che in noi determina e la parte che in noi patisce sono diverse, come sono diverse la parte che muove e la parte che è mossa. Crisippo stesso, in molti libri, quando definisce la fortezza e la padronanza di sé come posture dell’animo ossequenti alla ragione che opera la scelta [proairesi], è manifestamente costretto dall’evidenza dei fatti ad [III,93,30] ammettere che in noi la parte che segue ubbidendo oppure, al contrario, che combatte non ubbidendo, è diversa dalla parte alla quale segue.

SVF III, 385

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 24. Ogni causa delle passioni è un’opinione: dunque non soltanto dell’afflizione ma anche delle altre passioni, che sono di quattro generi con numerose sottospecie. Poiché ogni passione è un moto dell’animo [III,93,35] destituito di ragione, o che la rifiuta, o che non le obbedisce, e poiché è un moto sollecitato in due direzioni opposte dall’opinione o di un bene o di un male, esistono quattro passioni simmetricamente distribuite. Due derivano dall’opinione di un bene: una è l’ebbrezza sfrenata, cioè una letizia esaltata derivante dall’opinione della presenza di un qualche gran bene; l’altra, che può essere rettamente chiamata cupidigia o libidine, è una brama smisurata e non ottemperante alla ragione di un grande [III,93,40] bene futuro. Questi due generi di passione, l’ebbrezza sfrenata e la libidine, turbano l’animo proponendogli l’opinione di un bene, così come gli altri due, la paura e l’afflizione, proponendogli l’opinione di un male. La paura infatti è l’opinione dell’incombere di un gran male futuro, mentre l’afflizione è l’opinione di un gran male presente o anche l’opinione viva di un male tale che sembra corretto angustiarsi, [III,94,1] il che equivale a dire che chi si duole opina opportuno il dolersi.

SVF III, 386

[1] Aspasio in ‘Aristot. Eth. Nicom.’ p. 44, 12 Heylbut. Gli Stoici credettero che la passione fosse un impulso veemente o un impulso irrazionale, e la [III,94,5] considerarono come l’opposto della retta ragione.

[2] p. 45, 16. Gli Stoici affermavano che, per genere, le passioni sono: ebbrezza ed afflizione, paura e smania. Essi dicevano che le passioni nascono a causa della concezione di un bene e di un male. Qualora, infatti, l’animo si muova come verso dei beni presenti si ha l’ebbrezza. Qualora, invece, si muova come verso dei mali presenti si ha [III,94,10] l’afflizione. A sua volta, qualora si muova verso dei supposti beni si ha la smania, la quale è desiderio di qualcosa che appare un bene. Da cose che invece sono supposte essere dei mali, essi dicevano che la passione derivante è la paura.

[3] Anonimo in ‘Aristot. Eth. Nicom.’ p. 180, 14 Heylbut. Siffatta è l’afflizione, che gli Stoici, invece di afflizione, chiamano [III,94,15] ‘contrizione’.

SVF III, 387

Servio ‘In Aeneidem’ VI, 733. Varrone e tutti i filosofi dicono che le passioni sono quattro, due per dei beni opinati e due per dei mali opinati. Infatti affliggersi ed avere paura sono due opinioni sui mali, una sui presenti e una sui futuri; mentre esaltarsi e smaniare di ottenere sono opinioni sui beni, in un caso [III,94,20] sui presenti e nell’altro sui futuri.

SVF III, 388

Filone Alessandrino ‘De fortitudine’ II, p. 419 Mang. Quattro sono le passioni dell’animo. Due riguardano il bene, stante o futuro: l’ebbrezza e la smania. Due riguardano il male, presente o supposto: l’afflizione e la paura.

SVF III, 389

Stobeo ‘Eclogae’ II, 89, 4 W. [III,94,25] Nella definizione della passione, i termini ‘irrazionale’ e ‘contro natura’ non vanno intesi in senso comune, ma il termine ‘irrazionale’ va inteso come equivalente a ‘disobbediente alla ragione’. Ogni passione, infatti, è coattiva, poiché noi sappiamo che spesso, pur vedendo che fare una data cosa è non utile, coloro che sono nel mezzo delle passioni, portati fuori controllo dalla loro veemenza come da un cavallo imbizzarrito, sono condotti [III,94,30] a farla. Cosa con la quale alcuni di loro sono spesso d’accordo, quando recitano il noto verso:

‘io ho intelligenza della cosa, ma la natura mi fa violenza’

dove ‘intelligenza’ significa il discernimento e il conoscimento delle cose rette. Nella delineazione della passione, poi, il termine ‘contro natura’ è preso [III,94,35] nel significato di ‘qualcosa che avviene in contrasto con la ragione che è retta e in armonia con la natura delle cose’. Ora, tutti coloro che si trovano nel mezzo delle passioni si distolgono dalla ragione in un modo non similare a quello di coloro che si sono ingannati su una cosa qualsiasi, ma in un modo peculiare. Infatti, coloro che si sono ingannati, per dire, sugli atomi come principi, una volta istruiti sul fatto che tali non sono si distornano da quella determinazione. Invece coloro che si trovano nel mezzo delle passioni, pur se imparassero, pur se istruiti in senso contrario, ossia [III,94,40] che non bisogna affliggersi o avere paura o lasciarsi andare interamente alle passioni dell’animo, non se ne distornano comunque ma si lasciano condurre dalle passioni, fino ad essere padroneggiati dalla loro tirannia.

SVF III, 390

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 450c. Nei libri ‘Sull’inammissibilità’, Crisippo afferma: “L’ira è cieca, [III,95,1] spesse volte non permette di vedere cose luminose e spesse volte si para innanzi alle cose già da noi afferrate”. Poco più avanti dice: “Le passioni che ci sopravvengono sbattono fuori le nostre contezze e le cose ci appaiono come diversamente, spingendoci violentemente alle azioni opposte”.

[III,95,5] Di poi utilizza come testimone Menandro, quando dice:

‘Oh, sciagurato me! In quale parte del mio corpo

era finito in quel tempo il mio senno

quando sceglievo questo e non quello?’

[III,95,10] Poi di nuovo Crisippo prosegue dicendo: “Pur bisognando che chi ha la natura di creatura logica utilizzi in ciascuna attività la ragione e che da questa si lasci pilotare, noi spesse volte ce ne distogliamo ed utilizziamo un’altra pulsione più violenta”.

SVF III, 391

Andronico ‘De passionibus’ 1 (p. 11 Kreuttner) La passione è un moto dell’animo [III,95,15] irrazionale e contro la natura delle cose od un impulso eccessivo […] Le passioni più generali sono quattro: afflizione, paura, smania, ebbrezza. L’afflizione è un’irrazionale contrizione od opinione immediata e senza riserva della presenza di un male per il quale si crede che ci si debba contrire. La paura è un’avversione irrazionale od una fuga da qualcosa che si suppone essere terribile. La smania è un desiderio [III,95,20] irrazionale od un inseguimento di qualcosa che si suppone essere un bene. L’ebbrezza è un’esaltazione irrazionale od un’opinione immediata e senza riserva della presenza di un bene per il quale si crede che ci si debba esaltare.

SVF III, 392

Filone Alessandrino ‘De Moyse’ III, II, Mang. p. 156. <E se qualcosa di vergognoso si palesasse nella sua mente provenendo> da una passione irrazionale: o un’ebbrezza che la esalta e la porta in cielo contro natura; oppure, per contro, [III,95,25] un’afflizione che la fa contrire e la demolisce; o una paura che distoglie e inclina l’impulso che è sulla retta via; o una smania che trascina a cose che sono non presenti e che la tende con violenza <ecco, affinché egli possa curarla> […] Giacché l’avvenenza del corpo sta nella simmetria delle parti, nel bel colorito e nella carnosità […] mentre la bellezza dell’intelletto sta nell’armonia dei giudizi e nella sinfonia delle virtù.

SVF III, 393

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 14. L’afflizione è l’opinione viva [III,95,30] di un male presente, per il quale sembra corretto che l’animo sia abbattuto e contrito; la letizia è l’opinione viva di un bene presente per il quale sembra corretto esaltarsi; la paura è l’opinione di un male incombente che appare intollerabile; la libidine è l’opinione di un bene futuro che si ritiene utile sia in [III,95,35] atto e presente.

SVF III, 394

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 90, 7 W. Essi affermano che la smania è un desiderio disobbediente alla ragione. Causa della smania è opinare che ci sia apportato un bene grazie alla cui presenza noi ci disimpegneremo ottimamente. Questa opinione possiede la disordinata capacità di muoverci nell’immediato e senza riserva a credere che esso sia effettivamente desiderabile. La paura è un’avversione disobbediente [III,95,40] alla ragione. Causa della paura è l’opinare che ci sia apportato un male. Questa opinione possiede la capacità di muoverci nell’immediato e senza riserva a credere che esso sia effettivamente da fuggire. L’afflizione è una contrizione dell’animo disobbediente alla ragione. Causa dell’afflizione è l’opinare la presenza, nell’immediato e senza riserva, di un male per il quale è doveroso contrirsi. L’ebbrezza è un’esaltazione [III,96,1] dell’animo disobbediente alla ragione. Causa dell’ebbrezza è l’opinare la presenza, nell’immediato e senza riserva, di un bene per il quale è doveroso esaltarsi. Sotto la smania sono raggruppate le seguenti passioni: ira e le sue specie (rancore, bile, sdegno, risentimento, amarezze d’animo e passioni del genere), [III,96,5] passioni amorose veementi, brame, bramosie, edonismo, cupidigia, amor di celebrità e simili. Sotto l’ebbrezza sono raggruppate: il godimento per i mali altrui, gratificazioni, stregonerie e simili. Sotto la paura sono raggruppate: trepidazioni, ansie, sbigottimento, vergogne, turbamenti, superstizioni, timore e tremori. Sotto l’afflizione sono raggruppate: invidia, livore, gelosia, commiserazione, lutto, tristezza, [III,96,10] assillo, cruccio, doglia, noia.

[2] 92, 18. Alcune di queste passioni palesano ciò su cui nascono; per esempio, la commiserazione, l’invidia, il godimento per i mali altrui, la vergogna. Altre, invece, palesano la particolarità del movimento concitato; per esempio, la doglia e il tremore.

SVF III, 395

Stobeo ‘Eclogae’ II, 91, 10 W. L’ira è dunque smania di [III,96,15] vendicarsi di chi ci pare aver commesso ingiustizia contro di noi in modo non convenevole. Il rancore è ira al suo inizio. La bile è ira che gonfia. Lo sdegno è ira inveterata, riposta o messa da parte. Il risentimento è ira che spia il momento opportuno per la vendetta. L’amarezza d’animo è ira che erompe immediatamente. Il trasporto amoroso è il progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza. La brama è smania, per passione amorosa, di chi è assente. La bramosia è smania [III,96,20] di conversare con l’amico assente. L’edonismo è smania di ebbrezze. La cupidigia è smania di ricchezza di denaro. L’amor di celebrità è smania di fama.

SVF III, 396

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 113. La smania è un desiderio irrazionale sotto la quale sono posizionate anche queste passioni: frustrazione, odio, litigiosità, ira, passione amorosa, sdegno e rancore. La frustrazione è una smania che ha fallito ed è come separata [III,96,25] dal suo oggetto, eppure vi tende invano ed è ambasciata. L’odio è una smania progressiva e durevole che a qualcuno capiti un male. La litigiosità è smania di togliere di torno chi ci circonda. L’ira è smania di vendetta su chi ci pare aver commesso ingiustizia contro di noi in modo non convenevole. La passione amorosa è una smania che non coinvolge i virtuosi, giacché quello dei virtuosi è il progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza. [III,96,30] Lo sdegno è un’ira inveterata e risentita che spia (l’occasione della vendetta), come palesano questi versi:

‘Se pure quel giorno dovrà digerire la bile,

ma anche dopo conserva il risentimento, fino a che lo soddisfi’.

Il rancore è ira al suo inizio.

SVF III, 397

Andronico ‘De passionibus’ 4 (p. 16 Kreuttner). [III,96,35] Le 27 specie della smania. L’ira è smania di vendetta su chi ci pare aver commesso ingiustizia contro di noi. Il rancore è ira al suo inizio. La bile è ira che gonfia. [III,96,40] L’amarezza d’animo è ira che erompe immediatamente. Lo sdegno è ira inveterata riposta. Il risentimento è ira che spia il momento opportuno per la vendetta. La passione amorosa è smania di un accoppiamento carnale. [III,97,1] Altra passione amorosa è la smania di amicizia. Altro è il trasporto amoroso, che <gli Stoici> chiamano progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza. La bramosia è smania di conversare con l’amico assente. [III,97,5] La brama è smania, per passione amorosa, dell’assente. L’ostilità è animosità che spia e maltratta. L’animosità è smania che a qualcuno capiti un male del quale è anche colpevole. L’incostanza è smania che si sazia in fretta. L’occhieggiamento è rapidità nel guardare ciò che si brama. [III,97,10] La frustrazione è smania insoddisfatta. La tracotanza è una smania rude. La rissosità è smania di schierarsi contro qualcuno per fargli del male. Lo struggimento è smania che è stata resa schiava. L’edonismo è smania senza misura di ebbrezze. [III,97,15] L’avarizia è smania senza misura di denaro. Il culto degli onori è smania senza misura per le onorificenze. Il culto della vita è smania irrazionale di vita. Il culto del corpo è smania di floridezza corporale oltre il dovuto. La voracità è smania senza misura di cibi. [III,97,20] L’avvinazzamento è smania insaziata per il vino. La lascivia è smania senza misura di rapporti sessuali.

SVF III, 398

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 21. Definiscono così le passioni che sono sottospecie della libidine. L’ira è libidine di punire chi si ritiene ci abbia leso ingiuriandoci; l’escandescenza è ira sul nascere e appena apparsa, quella che in Greco si dice θύμωσις; l’odio è ira inveterata; [III,97,25] l’inimicizia è ira che spia l’attimo per vendicarsi; la discordia è ira acerbissima, covata nell’animo e nel cuore; l’indigenza è libidine insaziabile; lo struggimento è libidine di vivere con chi non è presente. Essi poi precisano che la libidine è dei predicati, che i dialettici chiamano κατηγορήματα, di una o più cose come [III,97,30] possedere ricchezze, ottenere onori; e l’indigenza è libidine di cose come onori e ricchezze.

SVF III, 399

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 239. Chi afferma che il trasporto amoroso “è un progetto di stringere amicizia”, intende al tempo stesso “con dei giovani in fiore” anche se non lo propala [III,97,35] esplicitamente; giacché nessuno prova trasporto amoroso per dei vecchi e per chi non è nel fior degli anni.

SVF III, 400

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 114. L’ebbrezza è un’esaltazione irrazionale per qualcosa che pare sceglibile. Sotto di essa sono posizionati la malia, il godimento per i mali altrui, la delizia e l’effusione di sperma. La malia è ebbrezza che affattura attraverso le orecchie. Il godimento per i mali altrui è ebbrezza per le altrui disgrazie. La delizia è, come una svolta, un’esortazione dell’animo [III,97,40] al rilassamento. L’effusione di sperma è dissoluzione di virtù.

SVF III, 401

Andronico ‘De passionibus’ 5 (p. 19 Kreuttner) Le cinque specie dell’ebbrezza. La gratificazione è ebbrezza per beni inattesi. La delizia è ebbrezza per via di vista o di udito. [III,98,1] La malia è ebbrezza che affattura attraverso l’udito oppure che nasce da un discorso, da una musica o da un inganno. Il godimento per i mali altrui è ebbrezza per le sfortune del prossimo. La stregoneria è ebbrezza per inganno o attraverso magia.

SVF III, 402

Stobeo ‘Eclogae’ II, 91, 20 W. [III,98,5] Il godimento per i mali altrui è ebbrezza per le altrui disgrazie. La gratificazione è ebbrezza per cose inattese. La stregoneria è ebbrezza per inganno attraverso la vista.

SVF III, 403

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 20. Essi descrivono le forme dell’ebbrezza in questo modo. La malevolenza è ebbrezza per il male altrui anche senza un vantaggio per sé. Il diletto è l’ebbrezza che prova l’animo allettato dalla soavità di quel che ode. [III,98,10] Il diletto non è soltanto delle orecchie, ma anche degli occhi, del tatto, dell’odorato e del gusto, le cui ebbrezze sono tutte dello stesso genere e imbevono l’animo come colandogli dentro. La iattanza è ebbrezza sfrenata che si esprime con insolenza.

SVF III, 404

Cicerone ‘De finibus’ II, 13. Ma la differenza è questa: [III,98,15] che la parola ‘piacere’ può riferirsi sia al ‘fisico’ che al ‘mentale’. Gli Stoici reputano che quello mentale sia una cosa viziosa, e lo definiscono così: ‘ebbrezza dell’animo che opina senza ragione di star fruendo di un grande bene’.

SVF III, 405

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 491 Pott. [III,98,20] In generale, infatti, il piacere come passione è non necessario, essendo il piacere conseguenza di alcuni bisogni naturali come l’aver fame, la sete, il freddo e il sesso. Se pertanto fosse possibile bere o cibarsi o fare figli senza piacere, non ci sarebbe alcun altro bisogno di esso; giacché nessun’altra nostra attività né disposizione e neppure parte è piacere; ma esso entra nella nostra vita per essere ministro, come si dice che [III,98,25] il sale lo sia per la digestione del cibo. Invece il piacere, una volta oppostosi alle redini ed assoggettata la casa, per prima cosa genera in chi gli è grato la smania, che è una mira ed un desiderio irrazionale.

SVF III, 406

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 246, I, p. 167, 23 W. [III,98,30] L’ebbrezza è un’esaltazione irrazionale dell’animo. Questa maledetta da se stessa sopravviene al vizioso ma a nessun virtuoso.

SVF III, 407

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 112. La paura è supposizione di un male, e alla paura si riconducono anche queste passioni: il tremore, la trepidazione, la vergogna, lo sbigottimento, il turbamento, [III,98,35] l’ansia. Il tremore è paura che infonde timore. La vergogna è paura del discredito. La trepidazione è paura per un’attività futura. Lo sbigottimento è paura originata dalla rappresentazione di una faccenda insolita. Il turbamento è paura con affannamento della voce. L’ansia è paura per una faccenda dubbia.

SVF III, 408

Stobeo ‘Eclogae’ II, 92 W. La trepidazione è paura per un’attività futura. [III,98,40] L’ansia è paura di cadere in errore e, altrimenti, paura della sconfitta. Lo sbigottimento è paura originata da una rappresentazione insolita. La vergogna è paura del discredito. Il turbamento è paura che incalza con affanno di voce. La superstizione è paura degli dei e dei démoni. Il timore è paura di qualcosa di terribile. Il tremore è paura originata dalla ragione.

SVF III, 409

Andronico ‘De passionibus’ 3 (p. 15 Kreuttner). [III,98,45] Le 13 specie della paura. La trepidazione è paura per un’attività futura. [III,99,1] La vergogna è paura del discredito. Il tremore è paura di ciò che si guarda con sospetto. Il timore è paura che paralizza. Lo sbigottimento è paura a motivo della rappresentazione insolita di qualcosa di terribile. [III,99,5] Lo sgomento è paura originata da una rappresentazione più grande di noi. [La viltà è il ritirarsi da ciò che appare doveroso fare, a causa della rappresentazione di qualcosa di terribile]. La pavidità è vuota paura. L’ansia è paura di cadere in errore o paura della sconfitta o una paura che infonde speranze contrarie a quelle delle quali abbiamo un veemente desiderio. [III,99,10] L’esitazione è trepidazione nel fare qualcosa di già vagliato. L’orrore è paura di qualcosa di concettualizzato. Il turbamento è paura che sollecita affannosamente la voce. La superstizione è paura dei démoni [o esagerazione degli onori agli dei]

SVF III, 410

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 19. Questa è la loro definizione [III,99,15] delle passioni subordinate alla paura. La pigrizia è paura di una successiva fatica. […] Il terrore è paura che sconvolge, per cui alla vergogna segue il rossore; al terrore il pallore, il tremore e lo stridore di denti. Il timore è paura di un male che si approssima. Lo spavento è paura che fa perdere la testa. […] La costernazione è paura che segue ed accompagna lo spavento. Lo sbigottimento [III,99,20] è paura che ci strappa via i pensieri; la pavidità è paura permanente.

SVF III, 411

[1] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 446 Pott. Sì, essi dicono, la paura è un’avversione irrazionale ed è una passione. […] Ma se sofisteggiano sulle parole, allora che i filosofi chiamino pure ‘cautela’ la paura della legge, che è un’avversione ragionevole. [III,99,25] Non fuor di modo Critolao di Faselide chiamava costoro dei fabbricaparole.

[2] p. 448 Pott. Lo sbigottimento è dunque paura originata da una rappresentazione insolita o in seguito ad una rappresentazione imprevista […] e una notizia. Paura in quanto fatto avvenuto o presente o una meraviglia strabiliante.

[3] p. 450 Pott. La superstizione è dunque una passione, poiché è paura dei démoni.

SVF III, 412

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 110. [III,99,30] Dalle falsità sopravviene il pervertimento dell’intelletto, dal quale germinano molte passioni e cause di indisposizione. Secondo Zenone, la passione è un moto dell’animo irrazionale e contro natura o un impulso eccessivo. Secondo quanto affermano Ecatone [nel secondo libro ‘Sulle passioni’] e Zenone nel libro ‘Sulle Passioni’, le passioni supreme sono di quattro generi: afflizione, paura, [III,99,35] smania, ebbrezza.

[2] 111. L’afflizione è una contrizione irrazionale e le sue specie sono: la commiserazione, l’invidia, il livore, la gelosia, la tristezza, la molestia, il cruccio, la doglia, il subbuglio interiore. La commiserazione è afflizione per chi soffre un male immeritatamente. L’invidia è afflizione per i beni altrui. Il livore è afflizione perché un altro ha ciò che uno [III,99,40] smania di avere. La gelosia è afflizione perché un altro si trova ad avere ciò che comunque uno pure ha. La tristezza è afflizione che appesantisce. La molestia è afflizione che angustia ed appresta tribolazioni. Il cruccio è afflizione che permane o s’intensifica, [III,100,1] originata da certi dibattiti interiori. La doglia è afflizione dolorosa. Il subbuglio interiore è afflizione irrazionale che ci introna ed impedisce di notare le cose presenti.

SVF III, 413

Stobeo ‘Eclogae’ II, 92, 7 W. L’invidia è afflizione per i beni altrui. Il livore è afflizione perché un altro ha fatto centro, e noi no, in cose per le quali smaniamo. [III,100,5] Si chiama altrimenti livore anche lo stimare beato qualcuno da parte di chi invece è bisognoso e, ancora diversamente, l’imitazione di chi è come più forte di noi. La gelosia è afflizione perché anche un altro fa centro nelle cose per le quali noi smaniavamo. La commiserazione è afflizione per chi soffre un male immeritatamente. Il lutto è afflizione per una morte prematura. La tristezza è afflizione che appesantisce. L’assillo è afflizione che ci ammutolisce. Il cruccio è afflizione dovuta ad un dibattito interiore. [III,100,10] La doglia è afflizione penetrante che ci trascina al fondo. La noia è afflizione con irrequietezza.

SVF III, 414

Andronico ‘De passionibus’ 2 (p. 12 Kreuttner) Le 25 specie dell’afflizione. [III,100,15] La commiserazione è afflizione per i mali di un altro, quando egli li patisca immeritatamente. L’invidia è afflizione per i beni altrui [o afflizione per il felice successo delle persone capaci]. Il livore è afflizione perché un altro centra le cose per cui noi smaniamo, o afflizione perché altri hanno qualcosa che noi non abbiamo. [III,100,20] La gelosia è afflizione perché anche altri hanno quello che abbiamo noi. Lo scoraggiamento è afflizione per qualcosa di insoluto o difficile da rimuovere. Il guaio è afflizione per mali che ci chiudono ogni strada. La tristezza è afflizione che appesantisce. [III,100,25] L’assillo è afflizione che ci ammutolisce. La convulsione è un’afflizione veemente. Il lutto è afflizione per una fine prematura. La scontentezza è afflizione derivante da pensieri contrastanti. La seccatura è afflizione che angustia o che non dà via d’uscita. [III,100,30] La doglia è afflizione penetrante ed acuta. Il cruccio è afflizione originata dal risultato di un ragionamento. Il rimorso è afflizione per aberrazioni effettuate in quanto avvenute per mezzo nostro. Il subbuglio interiore è afflizione che impedisce di intravedere il futuro. [III,100,35] Lo scoramento è afflizione di chi non ha speranza di centrare le cose per le quali smania. La noia è afflizione con irrequietezza. La nemesi è l’afflizione che tocca a coloro che si sono esaltati contro il conveniente. L’insofferenza è afflizione per l’incertezza sul come utilizzare le circostanze presenti. Il gemito è il lamento di chi è trascinato dall’afflizione. [III,100,40] Lo sconforto è afflizione che appesantisce e non lascia sollevare il capo. La lamentazione è il lacrimare dell’afflitto che accenna al peggio. La preoccupazione è il pensiero dell’afflitto. Il compianto è afflizione per i mali altrui.

SVF III, 415

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 17. Danno poi queste definizioni. [III,101,1] L’invidia è afflizione per dei casi fortunati altrui che non danneggiano l’invidioso, giacché se uno si dolesse dei casi fortunati altrui che gli recano danno, non lo si direbbe rettamente invidioso. […] Il termine ‘emulazione’ ha un duplice significato, uno positivo e un altro negativo. [III,101,5] Anche l’imitazione della virtù, infatti, si chiama emulazione, ma siccome essa è degna di lode, non la utilizziamo qui in questo senso. L’emulazione è afflizione qualora un altro ottenga, mentre noi no, ciò che desideriamo ardentemente. La gelosia, come qui voglio tradurre il greco ζηλοτυπία, è afflizione perché ciò che uno ha desiderato ardentemente solo per sé è in possesso anche di un altro. La misericordia è afflizione per le tribolazioni di chi soffre a torto; [III,101,10] giacché nessuno prova misericordia per la punizione di un parricida o di un traditore. L’angoscia è afflizione che opprime; il lutto è afflizione causata dalla morte prematura di chi ci sia stato caro; la mestizia è afflizione che fa lacrimare; la tribolazione è afflizione affannosa; la sofferenza è afflizione tormentosa; la lamentazione è afflizione accompagnata da ululati; la preoccupazione è afflizione per dei pensieri; la molestia [III,101,15] è afflizione permanente; il patimento è afflizione accompagnata da sofferenza fisica; la disperazione è afflizione senza speranza alcuna di miglioramento.

SVF III, 416

[1] Nemesio ‘De nat. hom.’ cp. 19-21, P. G. XL, col. 688-692. Quattro sono le specie dell’afflizione: l’assillo, la tristezza, l’invidia, [III,101,20] la commiserazione. L’assillo è afflizione che ammutolisce. La tristezza è afflizione che appesantisce. L’invidia è afflizione per i beni altrui. La commiserazione è afflizione per i mali altrui. Ogni afflizione è un male per sua stessa natura, giacché se anche il virtuoso s’affliggerà per la rovina di uomini probi o dei figli o per la devastazione dello Stato, non lo farà in prima istanza né di proposito, ma secondo le difficili circostanze. [III,101,25] In questi frangenti, colui che conosce la natura delle cose sarà capace di dominare la passione, estraniandosi integralmente dalle cose di qui e rannodandosi alla divinità. Il virtuoso, in tali frangenti, sa moderare le passioni e non ne è né superato né prigioniero, ma piuttosto ne è padrone…

[2] cp. 20. La paura si suddivide in sei specie: la trepidazione, il pudore, la vergogna, [III,101,30] lo sgomento, l’ansia e lo sbigottimento. La trepidazione è paura per un’attività futura. Lo sgomento è paura originata da una rappresentazione di grande potenza. Lo sbigottimento è paura originata da una rappresentazione insolita. L’ansia è paura di cadere in errore, cioè di un insuccesso, giacché noi siamo in ansia quando abbiamo paura di fallire in qualche azione. Il pudore è paura di una supposta denigrazione, ma questa è una passione nobilissima. La vergogna [III,101,35] è paura per qualche brutta azione effettuata, e neppure questa lascia senza speranza di salvezza. Pudore e vergogna differiscono in questo, che chi si vergogna per le azioni effettuate affonda in essa; mentre chi prova pudore ha paura di incappare nel discredito. Facendo un cattivo uso dei nomi, gli antichi spesse volte chiamano il pudore vergogna. La paura nasce per il raffreddamento dello pneuma caldo che concorre [III,101,40] tutto al cuore e alla parte dominante dell’animo; proprio come il popolo, quando ha paura, si rifugia presso i comandanti in carica. Strumento dell’afflizione è la bocca dello stomaco, giacché è questa che, nelle afflizioni, s’accorge del loro morso. Come afferma Galeno nel terzo libro de ‘La dimostrazione’ […]

[3] cp. 21. Il rancore è un ribollimento del sangue intorno al cuore, originato dall’esalazione [III,101,45] della bile o per un suo intorbidamento. Per questo la collera si chiama anche bile. Si dà anche il caso che il rancore sia un desiderio di controvendetta, giacché quando noi subiamo un’ingiustizia o riteniamo di averla subita, serbiamo rancore ed a volte nasce in noi una passione che è un misto di smania e rancore.

Tre sono le specie di rancore: l’ira, che si chiama anche collera o bile, lo sdegno e il risentimento. Infatti il rancore, quando è al suo inizio e si mette in moto, si chiama ira [III,102,1] o collera o bile. Lo sdegno è collera condotta ad inveterarsi. È detto infatti così dal suo ‘permanere’ e dall’essere stato trasmesso alla memoria. Il risentimento è ira che spia il momento opportuno per la vendetta. È detto infatti così dal suo ‘giacere’. Il rancore è una guardia del corpo del pensiero, giacché qualora il pensiero giudichi giusto [III,102,5] fremere per qualche evento allora, se entrambi mantengono il proprio ruolo naturale, subentra una scarica di rancore.

SVF III, 417

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 52. Resta da considerare la dottrina dei Cirenaici, i quali ritengono che l’afflizione esista solo nel caso di un evento inatteso. Qui il fatto di rilievo, come già dissi di sapere, è che anche secondo Crisippo il colpo [III,102,10] che arriva all’improvviso ferisce di più.

SVF III, 418

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046b. Nel secondo libro ‘Sul bene’, spiegando che l’invidia “è afflizione per i beni altrui, propria di coloro che vogliono svilire chi hanno dintorno per farsi eminenti loro”, <Crisippo> rannoda all’invidia [III,102,15] il godimento per i mali altrui: “… e congiunto costantemente all’invidia nasce il godimento per i mali altrui, proprio di coloro che vogliono, per motivi simili, che chi hanno dintorno sia svilito; mentre la commiserazione nasce invece quando essi sono sviati secondo altre pulsioni naturali”.

SVF III, 419

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 83. La ragione di tutte le afflizioni è una sola, pur se con nomi diversi. Infatti, sono forme di afflizione [III,102,20] l’essere invidiosi, emulare, essere gelosi, provare misericordia, angosciarsi, essere in lutto, essere mesti, essere tribolati, soffrire, lamentarsi, preoccuparsi, provare molestia, patire, disperarsi. Di tutte queste afflizioni gli Stoici danno una definizione, e i termini che ho menzionato designano stati particolari e quindi non significano, come sembrerebbe, le medesime cose ma cose in parte differenti.

SVF III, 420

Galeno ‘Hipp. de humor.’ I, XVI, p. 174 K. [III,102,25] Anche il rancore e lo scoraggiamento sono passioni dell’animo. Il rancore e l’ira differiscono dallo scoraggiamento e dall’afflizione per il modo di attivarsi. Infatti, nell’ira e nel rancore il calore innaturato in essi si protende all’esterno e allora nasce e s’accresce la collera. Invece nell’afflizione e nello scoraggiamento l’umore freddo e [III,102,30] quello ricco di flegma si raccolgono insieme, e di qui essi hanno origine.

§ 2. Predisposizione, stato morboso, infermità

Frammenti n. 421-430

SVF III, 421

Stobeo ‘Eclogae’ II, 93, 1 W. La predisposizione è una proclività alla passione o a qualche opera contraria alla natura delle cose: per esempio, all’afflizione, all’iracondia, all’invidiosità, [III,102,35] alla biliosità e simili. La predisposizione è diretta anche verso altre opere contro la natura delle cose: per esempio, ruberie, adulteri e oltraggi; ed è secondo queste opere che gli autori sono chiamati ladri, adulteri e oltraggiatori. La stato morboso è un’opinione smaniosa già scorsa fino a diventare una postura incallita dell’animo e per la quale si concepiscono come altamente sceglibili cose che invece non sono tali, come nel caso della filoginia, dell’amore per il vino e per il denaro. Ci sono anche stati morbosi [III,102,40] opposti a questi e che nascono per ripugnanza: per esempio, [III,103,1] la misoginia, la ripugnanza per il vino e la misantropia. Gli stati morbosi accompagnati da debolezza si chiamano infermità.

SVF III, 422

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 115. Come si parla di infermità del corpo, per esempio, della podagra e dell’artrite; così pure sono infermità dell’animo l’amore della celebrità, [III,103,5] l’edonismo e similari. Infatti l’infermità è una morbosità accompagnata da debolezza, e la morbosità è presuntuosa ma fortissima certezza che qualcosa ci appare sceglibile. E come si parla di predisposizioni nel caso del corpo, per esempio, al catarro e alla diarrea; così pure nel caso dell’animo vi sono delle proclività, per esempio, all’invidia, alla commiserazione, alla rissosità e similari.

SVF III, 423

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 27. Come alcuni sono più proclivi [III,103,10] di altri a certi morbi (e perciò diciamo certuni soggetti ai raffreddori o alle coliche, non perché li abbiano in atto ma perché li hanno spesso), così alcuni sono più proclivi alla paura ed altri ad altre passioni. Perciò in certi casi parliamo di ‘ansia’, donde il termine ‘ansiosi’; in altri casi di ‘iracondia’, che è cosa diversa dall’ira, in quanto un conto è essere ‘iracondi’ e un altro essere adirati, così com’è diversa l’ansia dell’angoscia. [III,103,15] Infatti quanti provano qualche volta angoscia non sono tutti ansiosi, né quanti sono ansiosi provano sempre angoscia; e la stessa differenza corre tra una sbornia e l’abitudine di ubriacarsi, o tra un donnaiolo e un innamorato.

SVF III, 424

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 23. Al modo in cui, quando il sangue è corrotto e vi è sovrabbondanza di pituita o di bile, insorgono nel corpo morbi e malattie, così lo scontro di malvagie opinioni in contraddizione fra loro spoglia l’animo della salute e lo conturba morbosamente. [III,103,20] Dalle passioni sono prodotti dapprima gli stati morbosi che essi chiamano νοσήματα, e quelli ad essi contrari caratterizzati da una anormale repulsione e da un fastidio per certe cose; e poi le affezioni che gli Stoici chiamano ἀρρωστήματα [III,103,25] con le opposte e contrarie disaffezioni. Al riguardo gli Stoici, e soprattutto Crisippo, sono fin troppo meticolosi nel raffrontare i morbi del corpo e quelli dell’animo. Tralasciato dunque questo argomento inessenziale, passiamo a trattare la sostanza delle cose. Finché varie opinioni si scontrano fra loro in torbida confusione, ben s’intende che la passione non s’acquieta; e che quando tale concitato fervore [III,103,30] dell’animo sia ormai inveterato e si sia insediato fin nelle vene e nelle midolla, allora si manifestano lo stato morboso e l’affezione insieme con le repulsioni contrarie a tali morbi ed affezioni. I malesseri di cui parlo differiscono tra di loro concettualmente, ma nei fatti sono connessi poiché hanno origine dalla libidine e dalla letizia. [III,103,35] Infatti, se si ha una brama ardente del denaro e non si applica di continuo ad essa, quale Socratica medicina, la ragione che sani tale cupidigia, quel male penetra nelle vene e si insedia nei visceri. Ecco che si manifestano lo stato morboso e l’affezione, che col passare del tempo non possono più essere sradicate; e il nome di questo morbo è ‘avarizia’. Allo stesso modo nascono gli altri morbi come la ‘cupidigia di fama’; la, per dir così, ‘passione per le donne’, quella che i Greci [III,103,40] chiamano φιλογυνία, e gli ulteriori stati morbosi ed affezioni. Essi reputano che le passioni [III,104,1] contrarie a queste provengano dalla paura: come ‘l’odio per le donne’, quale appare nel ‘Misogino’ di Atilio, o ‘l’odio per l’intero genere umano’, del quale abbiamo un esempio in Timone detto il misantropo, o ‘l’inospitalià’. Ebbene tutte queste affezioni [III,104,5] dell’animo nascono da una certa paura delle cose che si rifuggono e si odiano.

SVF III, 425

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 29. Come ci sono morbi, affezioni e vizi del corpo, così ci sono dell’animo. Essi chiamano ‘morbo’ un qualunque malessere corporale; ‘affezione’ uno stato morboso che debilita; e c’è ‘vizio’ quando si ha discordanza tra le parti del corpo [III,104,10] e quindi ne conseguono irregolarità, distorsioni e deformità delle membra. Pertanto, i due stati, intendo morbo e affezione, originano dallo sconquasso e dalla perturbazione della salute di parti qualunque del corpo, mentre il vizio si vede di per sé anche in un corpo sano. Nel caso dell’animo possiamo separare morbo da affezione soltanto in teoria, mentre la viziosità è lo stato o la disposizione di un animo che in ogni momento della vita è incostante [III,104,15] e in contraddizione con se stesso. Così avviene che in un caso il malessere delle opinioni procuri morbi ed affezioni, in un altro incostanza e contraddittorietà. Non tutti i vizi hanno pari grado di contraddizione: ad esempio, la disposizione di quanti non sono lontani dalla saggezza è certo incoerente finché essi rimangono insipienti, ma non è distorta o malvagia. [III,104,20] Inoltre morbi ed affezioni sono parti della viziosità, ma è discutibile se ne siano parti le passioni. I vizi infatti sono disposizioni permanenti, le passioni invece vanno e vengono, e quindi non potrebbero essere parti di disposizioni permanenti.

SVF III, 426

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 31. La differenza fra animo e corpo sta in ciò, che gli animi valenti non possono essere [III,104,25] preda di morbi come possono esserlo invece i corpi. Tuttavia, le offese al corpo possono accadere senza sua colpa, mentre le offese all’animo invece no, giacché tutti i morbi e le passioni dell’animo derivano dal disprezzo della ragione e pertanto esse esistono soltanto negli uomini. Le bestie, infatti, fanno qualcosa di simile [III,104,30] ma non cadono nelle passioni.

SVF III, 427

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 26. Definiscono affezione dell’animo la presunzione spasmodica, persistente e radicata a fondo, che quanto è da non richiedersi sia invece da richiedersi ad ogni costo. L’affezione che nasce invece dalla repulsione a qualcosa è definita come opinione spasmodica, persistente e radicata a fondo, che sia da rifuggire qualcosa che invece [III,104,35] non è da rifuggire. Questa presunzione coincide col giudizio di sapere ciò che invece non si sa. All’affezione sono soggetti degli stati quali l’avarizia, l’ambizione, la passione per le donne, la pervicacia, la golosità, la passione per il vino, la ghiottoneria e altre simili. Avarizia è la presunzione spasmodica, persistente e radicata a fondo che il denaro sia da richiedersi più d’ogni altra cosa, e simile è la definizione [III,104,40] delle restanti affezioni di quel genere. Le definizioni delle repulsioni sono del tipo che l’inospitalità è l’opinione spasmodica, persistente e radicata a fondo che l’ospite sia assolutamente da rifuggire. In modo simile si definisce l’odio per le donne, come quello di Ippolito; [III,104,45] e l’odio per il genere umano, come quello di Timone.

SVF III, 428

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXV, 11. Per farla breve: [III,105,1] l’affezione è un giudizio ostinatamente erroneo, per il quale si ritiene che sia assolutamente da richiedersi ciò che è tale solo in minima misura. Se preferisci si può ricorrere a quest’altra definizione: un’aspirazione eccessiva a ciò che è oggettivamente poco appetibile oppure per niente appetibile; oppure un esagerato apprezzamento [III,105,5] di ciò che vale poco o nulla.

SVF III, 429

Galeno ‘De locis affectis’ I, 3, VIII, p. 32 K. I moti sono di due generi: di cambiamento e di normale corso. Qualora il cambiamento pervenga ad una condizione stabile allora si chiama ‘stato morboso’, ed è una condizione manifestamente diversa dalla naturale. Facendo però cattivo uso delle parole a volte noi chiamiamo [III,105,10] ‘passione’ anche una simile condizione.

SVF III, 430

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 32. Si reputa che le affezioni e i morbi dell’animo siano più difficili da estirpare di quelle viziosità gravissime che sono il contrario delle virtù. Infatti, tali viziosità possono essere eliminate pur permanendo i morbi, giacché questi ultimi non si risanano con la stessa velocità con cui quelli si eliminano.

[III,105,15] § 3. Sui tre affetti positivi

Frammenti n. 431-442

SVF III, 431

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 115. <Gli Stoici> affermano esservi anche tre affetti positivi: la gioia, la cautela e la decisione razionale. Essi dicono che la gioia è l’opposto dell’ebbrezza, essendo un’esaltazione ragionevole; che la cautela è l’opposto della paura, poiché è un’avversione ragionevole e, infatti, il sapiente non avrà paura ma sarà cauto. Opposta [III,105,20] alla smania è poi la decisione razionale, che è un desiderio ragionevole. Proprio come dalle passioni primarie discendono altre passioni, allo stesso modo anche dagli affetti positivi primari discendono altri affetti positivi. Dalla decisione razionale discendono la benevolenza, la benignità, l’ossequio e l’amorevolezza. Dalla cautela discendono il rispetto di sé e degli altri e la continenza rituale. Dalla gioia discendono il diletto, la letizia e il buonumore.

SVF III, 432 [III,105,25]

Andronico ‘De passionibus’ 6 (p. 20 Kreuttner). Le tre specie di affetto positivo. La decisione razionale è desiderio ragionevole. La gioia è esaltazione ragionevole. La cautela è avversione ragionevole. [III,105,30] Le quattro specie di decisione razionale. La benevolenza è decisione razionale di beni per un altro in quanto altro. La benignità è benevolenza persistente. L’ossequio è benevolenza ininterrotta. L’amorevolezza … [III,105,35] Le tre specie di gioia. Il diletto è gioia che si confà ai giovamenti che si hanno. La letizia è gioia che accompagna le opere del virtuoso. Il buonumore è gioia legata al modo di vivere o all’assenza di ricercatezza in tutto. Le due specie di cautela. [III,105,40] Il rispetto di sé e degli altri è cautela che ci fa evitare una retta denigrazione. La continenza rituale è cautela per evitare aberrazioni nel rapporto con gli dei.

SVF III, 433

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 466 Pott. [III,106,1] <Gli Stoici> esplicitano che la gioia è un’esaltazione ragionevole; che giubilare è rallegrarsi per dei beni; che la commiserazione è afflizione per chi soffre un male immeritatamente. I moti di questo genere sono rivolgimenti e passioni dell’animo.

SVF III, 434 [III,106,5]

Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ II, p. 96 Ald. L’ebbrezza, la gioia, la letizia e la delizia hanno lo stesso oggetto e lo stesso significato. Prodico provò a subordinare a ciascuno di questi nomi un significato suo proprio; come fecero anche gli Stoici, chiamando gioia l’esaltazione ragionevole ed ebbrezza l’esaltazione irrazionale, [III,106,10] delizia l’ebbrezza che si prova attraverso l’udito e letizia quella che si prova attraverso i discorsi. Questa è opera da legislatori, che però non dicono nulla di sano.

SVF III, 435

Seneca ‘Epistulae morales’ LIX, 1. Noi crediamo che l’ebbrezza sia cosa viziosa […] So bene che stando al significato ufficiale del termine, l’ebbrezza è cosa infame, e che la gioia tocca unicamente al saggio; essa è infatti uno slancio dell’animo che confida [III,106,15] nella bontà e verità dei propri possessi. […] Alla gioia poi è connessa la stabilità e il non trasformarsi mai nel suo contrario.

SVF III, 436

Filone Alessandrino ‘De migrat. Abrah.’ 156, II, p. 299, 3 Wendl. Anche i coreuti della virtù hanno l’abitudine di sospirare e di piangere; o perché, essendo per natura socievoli e filantropi, si rammaricano dei guai degli stolti; oppure [III,106,20] per il gaudio. Il gaudio, infatti, nasce qualora dei beni neppure supposti, tutti insieme repentinamente ci piovano addosso fino a straripare. È da ciò che mi sembra derivare il detto poetico:

‘piangeva ridendo’

Infatti la gioia, che è il migliore degli affetti positivi, quando incoglie l’animo insperata, lo fa [III,106,25] più grande di quant’era prima, sicché il corpo, data la sua mole, non ha più spazio per esso e così, oppresso e compresso, fa stillare le gocce che noi usiamo chiamare lacrime.

SVF III, 437

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VI, 15. Vediamo ora cosa facciano coloro che tagliano alla radice i vizi. Poiché essi comprendono che le quattro disposizioni passionali che essi reputano nascere dalle opinioni sui beni e sui mali e la cui [III,106,30] estirpazione stimano debba risanare l’animo e renderlo saggio, sono connaturate e senza di esse nulla si potrebbe muovere né fare, al loro posto e funzione ne sostituiscono altre. Alla cupidigia sfrenata sostituiscono la volontà, come se non fosse molto meglio desiderare ardentemente un bene che volerlo; alla letizia sfrenata sostituiscono la gioia e alla paura la cautela. Ma la regola venne meno [III,106,35] nella sostituzione del quarto nome, e così eliminarono del tutto l’afflizione e quindi la dolorosa mestizia dell’animo. […] Ma reputiamo, come essi vogliono, che gli affetti positivi siano diversi dalle passioni. Non potranno però negare che una volontà pervicace e perpetua è cupidigia sfrenata; che una gioia [III,106,40] smodata è letizia sfrenata; e che una cautela eccessiva è paura. […] In questo modo però essi approdano senza nemmeno accorgersene, alle conclusioni cui i Peripatetici pervengono per via di ragione: ossia che i vizi, non potendo essere eliminati, debbano essere moderati.

SVF III, 438

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 12. Per natura tutti perseguono quanto appare essere bene e rifuggono dal suo contrario. [III,106,45] Perciò non appena appare una cosa qualunque che abbia le sembianze di un bene, la natura stessa impelle a possederlo. [III,107,1] Quando questo presa di possesso avviene all’insegna della moderazione e della prudenza, si ha quella forma di impulso che gli Stoici chiamano βούλησις e che noi chiamiamo ‘volontà’. Essi reputano che la volontà si trovi soltanto nel saggio e la definiscono così: volontà è il desiderare con ragione. Invece la volontà che è avversa alla ragione ed è spasmodica, è libidine o cupidigia sfrenata, [III,107,5] ed è la volontà che si trova in tutti gli stolti. Inoltre, quando siamo soddisfatti di trovarci in possesso di un qualche bene, possiamo esserlo in due modi. Se l’animo si muove secondo ragione placidamente e con equilibrio, allora questo stato si chiama ‘gioia’; se invece l’animo esulta senza motivo e in modo esagerato, allora tale stato può essere chiamato letizia sfrenata o eccessiva, che essi definiscono così: un’esaltazione dell’animo senza ragione. E poiché noi per natura appetiamo i beni [III,107,10] e rifiutiamo i mali, il rifiuto dei mali che avviene con ragione si chiama ‘cautela’, la quale è propria solamente del saggio. Quando invece il rifiuto dei mali avviene senza ragione, per miserabile e abietta pusillanimità, si chiama paura: sicché la paura è cautela avversa alla ragione. La presenza di un male non altera infatti la disposizione del saggio, e invece causa l’afflizione degli stolti, che così si dispongono dinanzi ai mali presunti, si perdono d’animo [III,107,15] e si rannicchiano senza ottemperare alla ragione. Pertanto la prima definizione dell’afflizione è: la contrazione di un animo avverso alla ragione. Sono dunque quattro le passioni, e tre gli affetti positivi, poiché all’afflizione non si contrappone alcuna affetto positivo.

SVF III, 439

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 449a. [III,107,20] Su questi temi <gli Stoici> capitolano di fronte all’evidenza e chiamano ‘provare pudore’ il vergognarsi, ‘rallegrarsi’ il godere nella carne e ‘cautele’ le paure. Se si chiamano le medesime passioni con i primi nomi quando s’addiziona loro il ragionamento e con i secondi nomi quando invece esse lo combattono e gli [III,107,25] fanno violenza, allora nessuno metterebbe in causa questo modo eufemistico di parlare. Ma qualora, contestati dalle lacrime, dai tremiti e dai mutamenti di colore, invece che di afflizione e di paura essi parlino di certe ‘compunzioni’ e di certi ‘trasalimenti’, e vezzeggino le smanie chiamandole ‘slanci’; allora essi sembrano, da sofisti e non da filosofi, escogitare giustificativi e scappatoie dai fatti attraverso i nomi. Eppure essi chiamano ‘affetti positivi’ e non ‘assenze di passioni’, quelle loro gioie, [III,107,30] decisioni razionali e cautele e utilizzano, in questo caso rettamente, i nomi.

SVF III, 440

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 4 (140), p. 354 M. Crisippo, poiché non conviene nel ritenere sinonimi il vergognarsi e il provare pudore, né il godere nella carne e il rallegrarsi, nelle sue compilazioni sollecita (Platone) ad essere preciso in tutto, [III,107,35] finanche nei nomi.

SVF III, 441

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 7 (173), p. 468 M. Non fa differenza se tu dici ‘andarsene’ o ‘fuggire’, come pure non fa differenza dire ‘volere’ o ‘desiderare’ o ‘pretendere’ o ‘avere in ossequio’ o ‘smaniare’. La diairesi di nomi del genere non reca alcun guadagno alla presente [III,107,40] analisi ma, al contrario, è intempestiva e dalla ricerca sui fatti conduce alla controversia sui nomi. Perciò alcuni macchinano a bella posta di recalcitrare davanti a ciascun nome [III,108,1] in modo da portare a termine un bel nulla. Se tu dicessi che chi ‘ha sete’ è uno ‘che desidera una bevanda’, essi non converrebbero nell’uso del verbo ‘desiderare’, giacché affermano che il desiderio è cosa virtuosa e che c’è solo nel sapiente, e dunque che il desiderio è un impulso ragionevole del saggio che s’appaga di qualcosa quanto è d’uopo. Se tu dicessi ‘che smania per una bevanda’, essi non converrebbero neppure in questo caso nel chiamarlo così. [III,108,5] Ad avere sete, infatti, sono non soltanto gli insipienti ma anche gli uomini virtuosi, mentre la smania è cosa da insipienti e s’ingenera soltanto in essi, essendo un desiderio che propende ossessivamente ad ottenere ciò cui è diretto. Se poi uno desse una definizione non così lunga, e dicesse che c’è un desiderio irrazionale, si rimprovererà solennissimamente molte volte [III,108,10] al poveruomo di litigare non soltanto sulla scienza dei fatti ma anche sull’uso di miriadi di nomi. Tali erano, senza fallo, anche non pochi degli antichi filosofi, come afferma lo stesso Platone, i quali utilizzavano nomi con significati nuovi e mutati.

[III,108,15]

SVF III, 442

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 18, p. 617 Pott. Gli uomini valenti in queste cose distinguono il desiderio dalla smania. Essi posizionano la smania a livello delle ebbrezze e dell’impudenza, poiché essa è irrazionale. Il desiderio, invece, essi lo posizionano a livello delle necessità di natura, [III,108,20] dato che esiste come moto ragionevole.

§ 4. Le passioni vanno estirpate, non moderate

Frammenti n. 443-455

SVF III, 443

Seneca ‘Epistulae morales’ CXVI, 1. Ci si è spesso chiesti se sia meglio avere passioni moderate o non averne alcuna. I nostri Stoici le rigettano, mentre i Peripatetici suggeriscono di moderarle.

SVF III, 444

[1] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VI, 14. Gli Stoici eliminano [III,108,25] dall’uomo tutte le disposizioni passionali i cui impulsi mettono in agitazione l’animo: la cupidigia, la letizia sfrenata, la paura e la dolorosa mestizia. Di queste, le prime due originano dai beni presenti e futuri; le altre due dai mali. Allo stesso modo, come ho già detto, chiamano queste quattro passioni stati morbosi non congeniti per natura ma suscitati da opinioni malvage, e pertanto ritengono che essi possano essere estirpati alla radice se si eliminano le false opinioni [III,108,30] sui beni e sui mali. Se infatti il saggio riterrà nulla essere bene e nulla male, non arderà di cupidigia o di letizia frenata, né atterrirà di paura o sarà contrito ed afflitto.

[2] ‘De ira dei’ cp. 17. Gli Stoici non videro il discrimine esistente tra il bene e il male. Infatti c’è un’ira giusta e una ingiusta; [III,108,35] e non trovando un rimedio a questo fatto vollero sradicarla del tutto. Che bisogno c’è dell’ira, essi chiedono, quando i peccati possono essere corretti abolendo questa passione?

SVF III, 445

Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ I, 13, p. 158 Pott. Tutto ciò ch’è [III,108,40] contrario alla retta ragione è aberrazione. E dunque i filosofi sollecitano di definire più o meno così le passioni più generali. La smania è un desiderio disobbediente alla ragione. La paura è un’avversione disobbediente alla ragione. L’ebbrezza è un’esaltazione dell’animo disobbediente alla ragione.

SVF III, 446

Filone Alessandrino ‘De spec. legibus’ IV, 79, V, p. 227, 5 Cohn. [III,109,1] Ogni passione è riprensibile, dacché sono riprovevoli ogni impulso senza misura ed eccessivo, ed ogni moto dell’animo irrazionale e contro natura.

SVF III, 447

Girolamo ‘Epist. 133 ad Ctesiphontem’ 1. … i veleni […] che sgorgarono dalla fonte dei filosofi e in special modo da quella di Pitagora [III,109,5] e di Zenone, il primo degli Stoici. Quelle che i Greci denominano πάθη e che noi possiamo chiamare passioni: ossia l’afflizione, l’esaltazione, la speranza e la paura. Di queste, due riguardano il presente e due il futuro; ed essi asseriscono che le passioni possono essere estirpate dalle menti; così che nell’uomo, grazie alla meditazione e all’assiduo esercizio delle virtù, non abbia più sede fibra o radice [III,109,10] alcuna dei vizi.

SVF III, 448

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 117. Gli Stoici affermano che il sapiente è capace di dominare le passioni in quanto non è soggetto a cadervi. Ma c’è anche un’altra persona insensibile ossia l’insipiente, quando se ne parla come pari a qualcosa di duro e di impossibile da ammorbidire.

SVF III, 449

Porfirione ‘In Horat. Sat.’ II, 4, 1. Fu un certo Cazio Epicureo [III,109,15] a scrivere quattro libri sulla natura delle cose e sul sommo bene. Sotto quel nome, come nella prossima satira irride gli Stoici, in questa <Orazio> irride gli Epicurei, i quali dicono che il sommo bene è il piacere fisico delle cose moralmente integre. Gli Stoici, invece, di questa libidine della gola e del corpo fanno un crimine e pensano che il sommo bene sia l’assenza di sconcerto dell’animo, cioè l’avere né paure né desideri. [III,109,20] Per questo Varrone sostiene che fra di loro c’è una guerra di parole.

SVF III, 450

[1] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VI, 10. In proposito non vi sono precetti <Stoici> giacché tali filosofi, prigionieri di un falso modello di virtù, soppressero la misericordia dell’uomo per l’uomo, e volendo sanare i vizi, invece li aggravarono. [III,109,25] Benché infatti ripetano continuamente che la comunione dell’umana società va salvaguardata, essi se ne dissociano chiaramente col rigore della loro disumana virtù.

[2] VI, 11. A quanti reputano che il piegarsi e il commiserare non siano atti del saggio, io domando: se un uomo tra le grinfie di una belva implora l’aiuto di un uomo armato, reputano essi che vada soccorso oppure no? [III,109,30] Non sono certo tanto impudenti da negare che bisogna dargli l’aiuto richiesto e che l’umanità esige. Così se qualcuno è avvolto dalle fiamme, è sepolto da un crollo, sta per annegare in mare o per essere travolto da un fiume, reputeranno che è da uomini il non aiutare? Se lo reputeranno, proprio loro non sono uomini, giacché nessuno è immune da pericoli di tal genere. [III,109,35] Essi certo diranno che è da uomo e da uomo virtuoso salvare chi sta per morire. Se dunque in casi del genere, che mettono in pericolo la vita dell’uomo, essi concedono che il soccorrere sia un atto di umanità; che ragione c’è di reputare che non vada soccorso chi ha fame, sete o freddo? Questi casi sono per natura pari a quei casi fortuiti e richiedono la stessa umanità; eppure essi li distinguono perché misurano [III,109,40] tutto non per quel che è davvero ma in base all’utilità immediata.

SVF III, 451

Origene ‘Selecta in Ezechielem’ 8, P. G. XIII, col 800. Commiserazione, […] che gli uomini valenti in queste cose definiscono essere afflizione per una disfatta del prossimo. Essi affermano anche che un medico o un giudice non devono praticare [III,109,45] questa commiserazione; affinché poi, confusi dall’afflizione che li induce così a commiserare, non siano intralciati nell’espletare l’opera di medico o di giudice in modo utile a chi aspetta una cura o attende giustizia.

SVF III, 452

[1] Seneca ‘De clementia’ II, IV, 4. A questo punto [III,110,1] è pertinente chiedere cosa sia la misericordia. I più, infatti, la lodano come una virtù, e chiamano misericordioso l’uomo buono. Ma essa è invece un vizio dell’animo.

[2] V, 2. Io so che i non intenditori parlano male della scuola Stoica [III,110,5] per la sua eccessiva durezza, il suo scarsissimo interesse a dare buoni consigli ai principi e ai re, e le rinfacciano di negare al saggio la misericordia e il perdono. […] La misericordia è un malessere dell’animo alla vista delle miserie del prossimo, oppure è una tristezza contratta dai mali altrui, [III,110,10] quando siano ritenuti immeritati. Ma il malessere non trova posto nell’uomo saggio.

SVF III, 453

Seneca ‘De clementia’ II, VII, 1. Fissiamo ora il carattere del perdono, e così impareremo che esso non deve essere concesso dal sapiente. Il perdono è la remissione di una pena meritata. Coloro che si interessano specialmente di questo problema rendono ampiamente ragione del perché il saggio non deve concederlo. Io, [III,110,15] per dire la mia brevemente, parlerò citando un’opinione altrui. Si perdona chi doveva essere punito; ma il saggio nulla fa che non deve fare, né trascura alcuna delle cose che deve fare; pertanto, non condona la pena che deve essere scontata. Ma ciò che tu vuoi raggiungere col perdono, lui te lo otterrà seguendo una via moralmente più onesta: il saggio infatti non infierisce, ma si prende cura e corregge.

SVF III, 454

Origene ‘Comm. in Matth.’ X, p. 395 Klostermann. [III,110,20] Se pure è perfetto l’uomo che ha tutte le virtù e non effettua più alcuna azione viziosa […] come potrebbe diventare di botto capace di dominare l’ira se gli capita di essere predisposto all’ira? Come può essere capace di dominare l’afflizione e superiore a qualunque accidente in grado di provocarla? Come sarà interamente fuori dalla paura [III,110,25] dei dolori o della morte o delle cose che un animo ancora più imperfetto può temere? In che modo […] sarà al riparo da ogni smania? […] e quella che si chiama ebbrezza, la quale è un’esaltazione irrazionale dell’animo ed è una passione, […] come potrebbe tenersi lontano dall’esaltarsi irragionevolmente?

SVF III, 455

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1070e. Ma Crisippo ammette [III,110,30] che vi sono certe paure, afflizioni, inganni i quali ci danneggiano ma che non ci rendono peggiori. Leggi a caso il primo dei libri scritti da lui contro Platone ‘Sulla giustizia’ giacché, anche per altri motivi, merita investigare lì la speciosità dell’uomo la quale schiettamente non ha riguardo per i fatti e per i giudizi, sia propri [III,110,35] che altrui.

§ 5. I quattro libri di Crisippo ‘Sulle passioni’, nei quali si dimostra che le passioni sono determinazioni dell’egemonico

Frammenti n. 456-490

SVF III, 456

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 111. Gli Stoici reputano che le passioni siano determinazioni, secondo quanto afferma Crisippo nel libro ‘Sulle passioni’. L’amore per il denaro, infatti, [III,110,40] è concezione che il denaro sia una cosa bella; e che lo siano l’ubriachezza e l’impudenza e similmente le altre passioni.

SVF III, 457

Galeno ‘De locis affectis’ III, 1, ed. Bas. III, 270 K., VIII, 138. [III,111,1] Dicevo che considerazioni siffatte sono in un certo modo ancora più logiche. Davvero logiche sono, infatti, quelle che vanno al di là dell’utilità e stringono la natura delle cose quale essa è nella sua propria essenza. Così anche [III,111,5] il filosofo Crisippo scrisse un libro terapeutico delle passioni dell’animo, libro del quale noi molto ci serviamo per la loro cura; mentre altri tre contengono ricerche logiche.

SVF III, 458

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 6 (171), p. 549 M. E proprio questo è contingente decifrarlo anche dai libri che scrisse Crisippo ‘Sulle passioni’. [III,111,10] Pur essendo infatti i 4 libri da lui scritti sulle passioni così voluminosi che ciascuno è il doppio dei nostri, tuttavia in due interi di essi noi non abbiamo potuto appurare il suo vero parere sulle passioni.

SVF III, 459

[1] Plutarco ‘De virtute morali’ p. 441c. Tutti costoro <ossia gli Stoici Aristone, Zenone, Crisippo> in comune ipotizzano che la virtù sia una disposizione durevole [III,111,15] dell’egemonico dell’animo e una facoltà originata dalla ragione, o piuttosto che essa stessa sia la ragione in quanto ammessa come tale, ben salda ed immutabile. Essi legittimano anche l’idea che la parte passionale e irrazionale non sia distinta dalla parte razionale per una differenza di natura ma che sia la stessa identica parte dell’animo, che chiamano appunto ‘intelletto’ o [III,111,20] ‘egemonico’, la quale si rigira e muta completamente nel caso delle passioni e delle trasformazioni di postura o di disposizione d’animo, diventando sia vizio che virtù senza avere però in sé nulla d’irrazionale. E inoltre che si dica ‘irrazionale’ qualora, per l’eccedere dell’impulso divenuto così potente da farla da padrone, essa sia portata fuori controllo verso qualcosa di assurdo e in contrasto con la ragione che sceglie. La passione, infatti, è [III,111,25] ragione malvagia e impudente, originata da una determinazione insipiente e sbagliata cui s’aggiungono veemenza e vigoria.

[2] p. 446f. Taluni affermano che passione non è altro da ragione, e che non vi è differenza e conflitto intestino tra le due ma soltanto rivolgimento dell’unica e sola ragione nei suoi due aspetti; rivolgimento che ci sfugge a causa dell’acutezza e della rapidità della trasformazione. [III,111,30] Noi perciò non notiamo che stessa ed identica è la facoltà dell’animo grazie alla quale per natura smaniamo e ci pentiamo, ci adiriamo e temiamo, siamo portati al brutto dall’ebbrezza e mentre questa ci trascina ci riprendiamo nuovamente da essa. Infatti smania, ira, paura e tutti i sentimenti siffatti sono opinioni e determinazioni malvagie le quali non coinvolgono soltanto una certa parte dell’animo ma sono propensioni, cedimenti, assensi e impulsi dell’intero [III,111,35] egemonico e, nel complesso, attività volubili in un breve arco di tempo; proprio come le scorrerie dei ragazzi hanno del furente, del veemente, che però è malsicuro a causa della loro debolezza ed è non ben saldo.

SVF III, 460 [III,112,1]

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 6 (168), p. 448 M. “Il causativo delle passioni, cioè dell’operare in modo inammissibile con la natura (delle cose) e della vita infelice, sta proprio nel non accompagnarsi in tutto al demone che è in lui stesso, cui è congenere e che ha natura simile alla ragione che governa il cosmo intero; evitando nel contempo di portarsi verso la parte peggiore e animalesca (dell’animo). [III,112,5] I seguaci di Crisippo trascurano invece ciò, e in questi libri non migliorano la nostra conoscenza della causa delle passioni, né opinano rettamente in quelli sulla felicità e sull’ammissibilità con la natura delle cose. Essi infatti non vedono che il primo requisito per la felicità è di non lasciarsi guidare in nessun caso dalla parte irrazionale, infelice e atea [III,112,10] dell’animo”. Con queste parole Posidonio palesemente insegna quanto grandemente aberrino i seguaci di Crisippo, non soltanto nei ragionamenti circa le passioni ma anche in quelli circa il sommo bene; giacché il ‘vivere in modo ammissibile con la natura (delle cose)’ non è vivere come dicono loro ma come insegna Platone.

SVF III, 461

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 1 (135), p. 334 M. Ora, [III,112,15] stando al suo primo libro ‘Sull’animo’, Crisippo non obietta all’affermazione che vi siano una facoltà concupiscente o irascibile dell’animo, anzi ci istruisce a fondo sulle loro patologie ed assegna loro un unico posto nel nostro corpo. Stando invece a tutti i suoi libri ‘Sulle passioni’, sia i tre nei quali si esaminano le ricerche logiche a loro riguardo e altresì secondo [III,112,20] il ‘Terapeutico’, libro che alcuni registrano come ‘Etico’, Crisippo non si trova più a riconoscere simili affermazioni ma scrive alcune cose come per prestarsi ad una duplice interpretazione, mentre ne scrive altre come se ritenesse che non esiste più alcuna facoltà né concupiscente né irascibile dell’animo. Stando alla spiegazione che dà delle definizioni della passione, Crisippo palesa l’esistenza nell’animo di una causa irrazionale delle passioni, [III,112,25] come dimostrerò fra poco commentando il suo dire. Invece in quel che segue, dove ricerca se le passioni siano determinazioni oppure sopravvengano a seguito di determinazioni, egli si discosta in modo lampante dall’opinione di Platone, lui che neppure all’inizio, quando si trattava della diairesi del problema, aveva ritenuto quell’opinione degna di essere menzionata. Eppure questo è proprio ciò di cui uno potrebbe incolparlo in prima istanza, ossia di essere in difetto per scarsezza di [III,112,30] diairesi. Difatti una passione come quella amorosa o è una determinazione o sopravviene a seguito di determinazioni oppure è un moto espressivo della facoltà concupiscente. Così pure la bile o è una determinazione o è una passione irrazionale che s’accompagna a questa determinazione oppure è un moto veemente della facoltà irascibile. Crisippo invece, poiché non dà spazio in questo modo alla tripartizione del problema, mette mano [III,112,35] al discorso provando a dimostrare che sarebbe meglio concepire le passioni come determinazioni, e non come cose che sopravvengono a seguito di determinazioni, dimenticandosi così di ciò che ha scritto nel primo libro ‘Sull’animo’, e cioè che la passione amorosa è un moto della facoltà concupiscente e che la bile lo è di quella irascibile dell’animo.

[2] V, 1 (155), p. 405 M. [III,113,1] Nel primo libro ‘Sulle passioni’ Crisippo prova a dimostrare che le passioni sono delle determinazioni della parte raziocinante dell’animo; mentre Zenone legittimava invece l’idea che le passioni siano non le determinazioni come tali ma le contrizioni e le effusioni, le esaltazioni e le depressioni [III,113,5] dell’animo che sopravvengono ad esse.

[3] V, 7 (175), p. 477 M. Ma anche secondo le compilazioni <di Crisippo> ‘Sulle passioni’, sia le tre contenenti le ricerche logiche, sia quella che ne prescinde e fu da lui scritta a parte e registrata come ‘Terapeutico’ o ‘Etico’.

[4] Galeno ‘De propr. anim. affect. cur.’ 1, V, p. 3 K. [III,113,10] Compilazioni intese alla cura delle passioni dell’animo sono state scritte da Crisippo e da molti altri filosofi.

SVF III, 462

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 2 (136), p. 338 M. Non soltanto a questo proposito <Crisippo> litiga palesemente con se stesso, ma egli lo fa anche allorché, scrivendo sulle definizioni della passione, è dell’avviso che essa sia [III,113,15] un moto dell’animo irrazionale e contro la natura delle cose ed un impulso eccessivo e quindi, spiegando cosa sia irrazionale, è dell’avviso che si dica tale ciò che prescinde da ragione e da determinazione, ed assume come esempio di impulso eccessivo coloro che corrono a perdifiato. Entrambe queste affermazioni contraddicono il giudizio che le passioni siano determinazioni. Intenderemo ciò nel modo più evidente trascrivendo le sue stesse parole. [III,113,20] Una delle due citazioni è questa: “Bisogna in primo luogo avere ben ponderato il fatto che la creatura logica è per natura seguace della ragione ed opera in armonia con essa come sua guida. Tuttavia essa procede spesso anche diversamente, portandosi su qualcosa o lontano da qualcosa in quanto sospinta per lo più in un modo che è disobbediente alla ragione. [III,113,25] Entrambe le definizioni della passione tengono conto di questa pulsione, ossia del moto contro la natura delle cose così irrazionalmente sorto e dell’eccesso negli impulsi. Il termine ‘irrazionale’ va qui preso nel senso di disobbediente alla ragione e ad essa ostile, ed è a partire da questa pulsione che noi diciamo abitualmente di qualcuno che è sospinto a comportarsi irrazionalmente e senza determinazione logica. [III,113,30] Inoltre noi segnaliamo questi comportamenti come irrazionali non se la creatura logica procede in modo sbagliato o trascura qualcosa di ragionevole ma piuttosto se sottoscrive quella pulsione, dal momento che ella non è nata per muoversi, quanto all’animo, in questo modo ma in accordo con la ragione”. La prima delle due citazioni delle parole di Crisippo che spiegano le definizioni [III,113,35] della passione finisce qui. Ed ecco la restante citazione, nella quale egli spiega la seconda definizione e che è scritta di seguito alla precedente nel primo libro della sua compilazione ‘Sulle passioni’. [III,114,1] “Nel caso della passione si è parlato anche di eccesso dell’impulso, in quanto negli uomini si oltrepassa anche la ben regolata proporzione naturale degli impulsi. Ciò potrebbe diventare più comprensibile attraverso questi esempi. Quando si cammina il movimento [III,114,5] delle gambe non eccede l’impulso ad avanzare ma gli si appariglia bene, cosicché il moto può arrestarsi, qualora lo si voglia, oppure si può mutare strada. Una cosa del genere non vale invece più per l’impulso quando si corre, poiché allora il movimento delle gambe eccede l’impulso ad avanzare cosicché si è portati fuori controllo, e chi ha cominciato a mutare strada non può farlo subito in modo così facilmente controllabile. Credo che avvenga qualcosa di similare [III,114,10] anche nel caso degli impulsi, poiché essi possono oltrepassare quella proporzione che è in armonia con la ragione e quindi, qualora si impella a qualcosa, non essere obbedienti alla ragione. Insomma, a proposito della corsa si potrebbe parlare di un suo eccesso rispetto all’impulso ad avanzare; e, nel caso dell’impulso, di un suo eccesso rispetto alla ragione. La ben regolata proporzione dell’impulso naturale è infatti quella in armonia con la ragione, fino a tanto e finché [III,114,15] la ragione lo ritenga giusto. Proprio perciò la trasgressione contro la ragione operata in questo modo si dice essere impulso eccessivo e moto irrazionale dell’animo contrario alla natura delle cose”. Queste sono le parole di Crisippo.

[2] IV, 5 (144), p. 365 M. [III,114,20] Benché conosca perfettamente i due significati della voce ‘irrazionale’, poiché decide di evidenziare nella definizione della passione soltanto uno dei due, quello di ‘senza determinazione’; Crisippo fece bene a non lasciarsi dietro alcuna ambiguità e ad evidenziare egli stesso [III,114,25] che l’impulso passionale è un impulso irrazionale in quanto è distolto dalla ragione, le disobbedisce e nasce senza previa determinazione. E dunque attraverso l’affermazione che la passione è un distoglimento dalla ragione, Crisippo escluse gli esseri inanimati e gli animali privi di ragione da ogni moto passionale irrazionale […] e proprio da siffatte considerazioni si mostra come la passione umana non possa ingenerarsi né in un essere inanimato né in un animale privo di ragione. [III,114,30] Una volta scritto che il moto passionale nasce prescindendo da ragione e determinazione, e una volta rannodate di seguito a ciò le parole “non se la creatura logica procede in modo sbagliato o trascura qualcosa di ragionevole” e “in un modo che è distolto dalla ragione ed è disobbediente ad essa”, <Crisippo> contraddistingue assai debitamente le passioni dagli errori. Gli errori, infatti, sono determinazioni [III,114,35] viziate, ragione che mente sul vero e che sbaglia. La passione, invece, è un moto dell’animo disobbediente alla ragione.

[3] IV, 3 (139), p. 349 M. [III,115,1] <Crisippo va criticato soprattutto> perché non mise assolutamente mano a riconciliarsi con le affermazioni degli antichi filosofi e perché litiga con se stesso, dal momento che ora legittima l’idea che le passioni nascano senza ragione e senza previa determinazione, ora è dell’avviso che le passioni non soltanto s’accompagnino a delle determinazioni ma che siano esse stesse determinazioni. [III,115,5] Ora, il fatto che la passione non trovi il minimo appiglio in una determinazione è proprio l’esatto opposto dell’essere essa una determinazione; a meno che, per Zeus, volendo correre in soccorso <di Crisippo> uno non affermasse che il sostantivo ‘determinazione’ ha più di un significato e, nella spiegazione della definizione di ‘passione’, dicesse che determinazione significa ‘circospezione’; di modo che dire ‘senza determinazione’ equivalga a dire ‘senza circospezione’ e che, laddove invece ha detto che le passioni sono determinazioni, [III,115,10] si chiamassero determinazioni gli impulsi e gli assensi. Ma se pure si accogliesse ciò, allora la passione sarà un assenso eccessivo e Posidonio domanderà nuovamente a Crisippo, oltre all’avere egli commesso un madornale errore nell’insegnarlo, la causa di questa eccessività. Se infatti la validità del giudizio consiste proprio in questo, ossia nel dirimere i casi di [III,115,15] omonimia e nel mostrare secondo quale significato le passioni nascono senza determinazione e secondo quale significato esse sono determinazioni, e se Crisippo non lo ha fatto in nessuno dei 4 libri che ha scritto ‘Sulle passioni’, come si potrebbe non biasimarlo giustamente?

[4] IV, 4 (140), p. 353 M. Dacché si afferma [III,115,20] che le passioni nascono in un modo che è distolto dalla ragione e disobbediente ad essa, è assurdo non ricercare alcun’altra facoltà dell’animo la quale, muovendosi appunto in modo disobbediente alla ragione, faccia nascere le passioni. Crisippo invece ritiene che non esista una facoltà del genere di quella che taluni filosofi designano come concupiscente e irascibile, e che l’intero [III,115,25] egemonico degli uomini sia razionale.

SVF III, 463

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 2 (135), p. 336 M. Allo stesso modo nelle definizioni delle passioni generali che espone per prime, <Crisippo> si discosta completamente dal parere degli antichi filosofi e definisce l’afflizione ‘opinione immediata e senza riserva della presenza di un male’; [III,115,30] la paura ‘supposizione di un male’ e l’ebbrezza ‘opinione immediata e senza riserva della presenza di un bene’. Senza altre mediazioni egli ricorda, in queste definizioni, soltanto la parte raziocinante dell’animo e omette di ricordare quella concupiscente e quella irascibile, giacché egli legittima l’idea che l’opinione e la supposizione sussistano soltanto nella parte raziocinante. Tuttavia nella definizione [III,115,35] della smania, che egli dice essere un ‘desiderio irrazionale’, quanto all’espressione che usa, egli s’appiglia in un certo modo alla facoltà irrazionale dell’animo, ma poi se ne discosta anche qui nella spiegazione che dà dell’espressione, se appunto anche il desiderio, che egli assume nella definizione, fa parte della facoltà logica dell’animo e viene da lui definito ‘impulso logico verso qualcosa appagante quanto è d’uopo’. In queste definizioni, [III,116,1] insomma, egli crede che nelle passioni ci siano impulsi, opinioni, determinazioni; e alcune delle cose che scrive di seguito sono più conseguenti con le dottrine di Epicuro e di Zenone che con i suoi propri giudizi. Infatti, nel definire l’afflizione, dice che essa è ‘rimpicciolimento per qualcosa da fuggirsi che ci pare essere presente’; e che [III,116,5] l’ebbrezza è ‘esaltazione per qualcosa che ci pare sceglibile’. I rimpicciolimenti e le esaltazioni, le contrizioni e le effusioni (talvolta si ricorda anche di queste) sono infatti patemi della facoltà irrazionale dell’animo i quali sopravvengono alle opinioni. Ma che l’essenza delle passioni sia di questo genere, lo concepiscono Epicuro e Zenone, non lui. E ciò che [III,116,10] arriva a stupirmi di Crisippo è il fatto che egli non sia preciso nella professione di un insegnamento che è logico ed insieme preciso.

SVF III, 464

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 4 (139), p. 351 M. Pur avendo io ancora miriadi di cose da dire sul fatto che <Crisippo> non si preoccupi di contraddirsi, precisazioni che forse successivamente, se potessi prendermi quest’agio più a lungo, [III,116,15] metterei tutte insieme in una sola trattazione, tuttavia le ometterò e ricorderò soltanto quelle attinenti agli obiettivi presenti. Dunque, nel primo libro ‘Sulle passioni’, nel definire la smania egli afferma che essa è un desiderio irrazionale e poi, nel sesto libro delle ‘Definizioni per genere’, nel definire a sua volta il desiderio stesso afferma che esso è un impulso logico verso qualcosa appagante quanto è d’uopo. [III,116,20] Così definisce il desiderio anche nei libri ‘Sull’impulso’.

[2] V, 1, p. 407 M. L’incapacità di custodire intatte le ipotesi avanzate e lo scrivere invece cose contrarie ad esse, è proprio di individui non allenati nel ragionamento; e tale si trova ad essere il più che stupefacente Crisippo in moltissimi trattati. Ma del resto, [III,116,25] un’altra volta.

SVF III, 465

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 2 (156), p. 407 M. Non soltanto gli antichi filosofi ma anche Crisippo ammettono che la passione sia un moto dell’animo irrazionale e contrario alla natura (delle cose). E che questo moto non si ingeneri nell’animo dei virtuosi viene ammesso da [III,116,30] entrambi. Quale invece sia l’animo degli insipienti in relazione alle passioni e prima dell’insorgere della passione, essi non lo spiegano in modo simile. Crisippo afferma infatti che l’animo di costoro si trova in uno stato analogo a quello dei corpi idonei a cadere nelle febbri o nella diarrea o in qualcos’altro del genere per un pretesto spicciolo e casuale. [III,116,35]

[2] p. 411 M. Ancor più assurdamente (di Posidonio), Crisippo conviene nell’idea che la malattia dell’animo non assomigli a quella di chi è affetto da malattie periodiche, come le febbri terzane e quartane, e scrive così: [III,117,1] “Bisogna dunque sottintendere che la malattia dell’animo sia del tutto simile a quella condizione febbrile del corpo per la quale insorgono, non periodicamente ma disordinatamente, febbri e brividi indipendenti dalla nostra disposizione fisica e per il sopravvenire di piccole cause”. [III,117,5] Non so poi sulla base di quale opinione <Crisippo> affermi che quanti hanno facilità di ammalarsi sono già ammalati e che invece quanti sono già ammalati non lo sono interamente.

<In seguito Galeno paragona> quanti piangono per un lutto o sono preda della passione amorosa o dell’invidia <ai malati di febbri terzane e quartane> e invece considera coloro nei quali non v’è lutto né sono presenti accenni di smania [III,117,10] o di rancore pressoché uguali alle persone in salute, giacché taluni di costoro però vanno facilmente soggetti alle malattie, taluni no.

[3] p. 419, 8 M. E nel primo dei libri di Logica fa rassomigliare <l’animo vizioso> ad una salute precaria e [III,117,15] cagionevole.

SVF III, 466

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 7 (152), p. 394 M. Nel secondo libro ‘Sulle passioni’, anche Crisippo testimonia che negli uomini le passioni s’ammorbidiscono col passare del tempo, pur permanendo in essi l’opinione che è loro accaduto un male, e scrive così: [III,117,20] “Si potrebbero anche fare ricerche sul modo in cui avviene l’attenuazione dell’afflizione: se per spostamento di una certa opinione oppure, se tutte le opinioni restano tali, per quale causa ciò avvenga”. (A p. 455, 2 M. si esplicita la causa per la quale Crisippo, nel secondo libro ‘Sulle passioni’, ha ammesso di essere incerto al riguardo) [III,117,25] e poi in aggiunta afferma: “Io reputo che l’opinione di un male in quanto male presente, perduri; e che però col passare del tempo la contrizione trovi sollievo e che lo trovi pure, come credo, l’impulso alla contrizione. Ma se anche capita che l’opinione perduri, le azioni successive non le daranno retta, a causa del sopravvenire di una disposizione d’animo [III,117,30] di qualità diversa, la quale non tiene razionalmente conto di ciò ch’è avvenuto. È così, infatti, che chi singhiozza smette di singhiozzare e che chi vuole trattenersi dal singhiozzare singhiozza, qualora gli oggetti che ha davanti, siano essi reali oppure no, producano simili rappresentazioni. È ragionevole pertanto pensare che, al modo in cui cessano lamenti funebri e singhiozzi, questo genere di cose [III,117,35] capiti anche a proposito di quelle faccende che all’inizio emozionano di più, come dissi avvenire a proposito delle cose che suscitano il riso e di quelle simili a queste”. Lo stesso Crisippo ammette dunque che col tempo, pur perdurando l’opinione, [III,118,1] le passioni cessano; anche se afferma che è difficile comprendere per quale causa ciò avvenga. Poi di seguito scrive di altri eventi similari circa i quali professa manifestamente di non conoscere la causa. […] E tu […] credi una questione risolta [III,118,5] se ammetterai di ignorarne la causa? Eppure il tema che unifica l’intero Trattato delle ricerche logiche e terapeutico delle passioni è null’altro che lo scovare le cause per cui esse nascono e per cui cessano. Giacché così, credo, si potrebbe impedire la loro genesi e farle cessare quando nascono, essendo ragionevole pensare, [III,118,10] credo ancora, che insieme con la sparizione delle loro cause scompaiano anche simultaneamente la loro genesi e la loro sussistenza. Ma su queste cose, stando al libro ‘Sulle passioni’, tu sei in imbarazzo e non sai scriverci qualcosa ponendo mente alla quale noi potremo impedire il sorgere di ciascuna passione e guarire quella che sia insorta.

[III,118,15] [Posidonio contesta le affermazioni di Crisippo]

SVF III, 467

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 7 (152), p. 397 M. Ed a questo fine (ossia di mostrare che le passioni nascono dal rancore e dalla smania) <Posidonio> sfrutta come testimone lo stesso Crisippo il quale, nel secondo libro ‘Sulle passioni’, [III,118,20] scrive pressappoco così: “Quanto all’afflizione, alcuni paiono distornarsene come se ne fossero sazi, e queste sono appunto le parole di Omero su Achille che piange il lutto di Patroclo:

‘Ma quando fu satollo di singhiozzare e di rotolarsi’

e

[III,118,25] ‘A lui pervenne bramosia dai precordi e dalle membra’

ed ebbe l’impulso di chiamare a sé Priamo, per fargli riscontrare l’irrazionalità dell’afflizione”. Poi di seguito aggiunge questo: “Ragion per cui, col passare a questo modo del tempo [III,118,30] sopra le vicende e attenuandosi l’infiammazione passionale, non si dovrebbe perdere la speranza che la ragione, intrudendosi e come prendendo spazio, faccia riscontrare l’irrazionalità della passione”. In questi passi Crisippo ammette in modo evidente che l’infiammazione passionale, pur permanendo la concezione e [III,118,35] l’opinione, s’attenui col passare del tempo; che gli uomini si sazino dei moti passionali e, poiché la passione prende una certa pausa e s’acquieta, che la ragione riesca a prevalere. Queste cose sono vere, anche se alcune altre contraddicono le sue ipotesi, come le affermazioni di questo tenore: [III,119,1] “Si dicono anche parole del genere circa la trasformazione delle passioni:

‘Del frigido pianto si è in fretta satolli’

e parole del genere rivolte a ciò che conduce all’afflizione:

[III,119,5] ‘Com’è dilettoso per chi ha cattiva sorte

singhiozzare e prorompere in lamenti sulla sorte’

e poi ancora di seguito:

‘Così disse; e in tutti fece insorgere bramosia di pianto’

ed anche

[III,119,10] ‘Ridesta il medesimo pianto, riprendi il canto che fa versare molte lacrime’.

È senza fallo possibile mettere assieme, traendole dai poeti, anche moltissime altre testimonianze del fatto che gli uomini si saziano di afflizione, di lacrime, di singhiozzi, di lamenti, di vittorie, di onori e di tutte le cose del genere, dalle quali non è arduo dedurre [III,119,15] la causa per cui col tempo le passioni cessano e la ragione padroneggia gli impulsi. Infatti, come la parte passionale dell’animo prende di mira certi appropriati oggetti di desiderio, altrettanto essa, una volta centratili, se ne sazia; e con ciò s’arresta il loro moto, quello che padroneggiava l’impulso dell’animale e lo conduceva a proprio piacimento a ciò che lo fuorviava. [III,119,20]

SVF III, 468

[1] Plutarco ‘De virtute morali’ p. 449d. Una volta poste come pari tutte le aberrazioni e tutti gli errori, se pure per altri versi gli Stoici travisano la verità e non è questo il momento opportuno per oppugnare i loro argomenti, nel caso però delle passioni essi paiono recalcitrare accuratamente davanti all’evidenza e alla ragione. Secondo loro, infatti, [III,119,25] ogni passione è un errore, e chiunque è preda dell’afflizione, della paura e della smania, aberra. Eppure sono grandi, nel più e nel meno, le differenze visibili tra le passioni. […] Cercando di eludere queste difficoltà e altre del genere, essi affermano che l’intensificazione e la veemenza delle passioni non nasce dalla [III,119,30] determinazione, nella quale consiste l’elemento soggetto ad aberrare; ma che sono i morsi, le contrizioni e le effusioni ad accogliere il più e il meno dalla parte irrazionale dell’animo.

[2] p. 450b. Da ciò si deve concludere che anche gli Stoici convengono che la parte irrazionale dell’animo sia diversa dalla parte che determina; parte irrazionale in accordo con la quale essi affermano che la [III,119,35] passione diventi più veemente e più grande. Essi litigano sul nome e sul verbo, ma concedono il punto a quanti dichiarano che la parte passionale e irrazionale differisce da quella raziocinante e giudicante.

SVF III, 469

Galeno ‘De morib. anim.’ Ed. Bas. 1, 351, K., p. 820. Per [III,120,1] questo motivo Posidonio, stando al suo trattato ‘Sulle passioni’, pensa cose del tutto opposte a Crisippo; e nel libro ‘Sulla differenza delle virtù’ biasima molte delle affermazioni fatte da Crisippo nelle sue ricerche logiche sulle passioni, e ancora di più quelle contenute nei libri sulle differenze delle virtù.

SVF III, 470

Filodemo ‘De ira’ col. 1, (p. 17 Gomp.) [III,120,5] …E dunque soleva rimproverare soltanto coloro che denigrano o [calunniano] e che non fanno nient’altro, come Bione nel libro ‘Sull’ira’ e Crisippo nel libro ‘Terapeutico’ sulle passioni, anche se questo si collocava in posizione moderata.

SVF III, 471

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 2 (158), p. 413 M. Ma [III,120,10] come gli Stoici affermano anche adesso, qualcuno di loro forse dirà che, per Zeus, non c’è la stessa analogia tra animo e corpo in relazione a passioni e stati morbosi e alla salute. <Eppure, osserva Galeno, Crisippo stesso ha istituito questa analogia tra corpo e animo> Perché altrimenti, nel libro ‘Etico’ sulle passioni, Crisippo scrive queste cose qui? “Non [III,120,15] è da dirsi che mentre c’è un’arte, che designiamo medica, per il corpo malato, non vi sia un’arte anche per l’animo malato; né questa, in particolare, dev’essere da meno di quella in fatto di teoria e di terapia. Perciò, com’è doveroso per il medico dei corpi essere ben addentrato, [III,120,20] come si usa dire, nelle loro patologie e nell’appropriata terapia per ciascuna di esse; così spetta anche al medico dell’animo essere ben addentrato in entrambi questi campi e al suo meglio in ciascuno di essi. Grazie all’analogia in proposito che abbiamo evidenziato all’inizio, ci si potrebbe ben rendere conto che le cose stanno proprio così, giacché allo stretto parallelismo al riguardo farà riscontro, [III,120,25] come credo, la somiglianza delle terapie ed anche la reciproca analogia dei mezzi di cura”. Credo dunque ormai manifesta la volontà <di Crisippo> di vedere una certa analogia tra fenomeni dell’animo e fenomeni del corpo, non soltanto attraverso le parole appena riportate ma anche attraverso quelle che egli scrive di seguito [III,120,30] in questi termini: “Come, nel caso del corpo, si è spettatori di potenza e di debolezza, di eutonia e di atonia e, inoltre, di salute e di malattia, di benessere e di malessere”, e di tutte quante le altre affezioni, infermità e stati morbosi che egli cataloga di seguito a questi, “allo [III,120,35] stesso modo, dice, qualcosa di analogo a tutto ciò sussiste ed ha un nome anche nell’animo razionale”. Poi di seguito in aggiunta dice: “Come io credo, da siffatta analogia e somiglianza è nata anche la sinonimia tra di loro; giacché anche nel caso dell’animo noi diciamo che alcuni sono potenti e [III,121,1] deboli, che sono eutonici e atoni, che sono ammalati e in salute. E così, in un certo senso, si parla della passione e della cosiddetta infermità dell’animo e delle affezioni similari”. <Galeno afferma che con queste parole Crisippo ha stabilito l’analogia che intercorre tra le sinonime condizioni del corpo e dell’animo> [III,121,5] “<Crisippo> afferma appunto che questi stati sono sinonimi giacché il loro nome e la loro ragione sono gli stessi”. […] Da queste parole è manifesto che l’obiettivo di Crisippo è quello di spiegare a fondo questa analogia e di montarle la guardia. Se poi, dopo avere messo mano a farlo, egli non centra [III,121,10] il suo proposito, non ci si deve distornare dalla somiglianza ma lagnarsi del suo modo di insegnarla, in quanto non vero. Nondimeno, ciò gli capita anche in tutto il discorso che c’è di seguito a questo nel libro ‘Etico’ sulle passioni. Egli scrive dunque così: “Perciò il discorso è stato promosso in modo giusto da Zenone. La malattia [III,121,15] dell’animo è infatti del tutto simile all’indisposizione del corpo, giacché la malattia del corpo è la non ben regolata proporzione dei suoi umori caldo e freddo, secco ed umido”. E dopo poco: “La salute del corpo è una buona mescolanza e regolata proporzione degli umori [III,121,20] suddetti”. E di nuovo di seguito: “Io credo, infatti, che il benessere del corpo sia la migliore possibile buona mescolanza degli umori citati”. E di nuovo di seguito: [III,121,25] “Queste cose si dicono anche, non a sproposito, per il corpo; poiché la ben regolata o non ben regolata proporzione degli umori caldi e freddi, umidi e secchi, significa salute o malattia; mentre la loro ben regolata o non ben regolata proporzione nell’apparato neuromuscolare significa potenza o debolezza, eutonia o atonia; e la loro ben regolata o non ben regolata proporzione nelle membra significa avvenenza o laidezza”. [III,121,30] <Nel seguito, Galeno cerca di dimostrare che Crisippo non è stato in grado di precisare> di quali parti la ben regolata proporzione sia la salute dell’animo, e la non ben regolata proporzione la malattia.

SVF III, 471a

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 2 (160), p. 420 M. Di seguito alle parole che di lui poco avanti citavo, egli poi scrive: [III,121,35] “Perciò, in modo analogo, un animo si dirà bello o brutto a seconda della ben regolata e non ben regolata proporzione di quelle tali parti”. […] Ma non potendo dire quali siano questi pezzi dell’animo, poiché ha posto salute e malattia, bellezza e bruttezza dell’animo in un pezzo soltanto di esso, quello raziocinante; ecco che Crisippo è costretto ad intricare [III,122,1] il discorso e a rammentare le sue attività come parti. Di seguito a quanto citavo egli scrive dunque così: “Vi sono parti dell’animo costitutive della ragione che ha sede in esso e della sua disposizione logica. E l’animo è bello o brutto [III,122,5] a seconda che il suo pezzo egemonico sia atteggiato in un modo oppure in un altro in armonia con le appropriate partizioni”. Se tu, o caro Crisippo, avessi in aggiunta postillato quali siano queste ‘appropriate partizioni’, ci avresti tolto d’impiccio. Ma ciò non l’hai postillato né qui né in alcun altro dei tuoi libri; come se non stesse qui [III,122,10] l’intera validità della tua trattazione ‘Sulle passioni’. Tu invece ti ritiri all’istante dall’insegnarcelo e tiri per le lunghe il discorso su temi che non ti convengono, mentre avresti dovuto persistere e mostrare quali mai siano i pezzi dell’animo raziocinante.

SVF III, 472 [III,122,15]

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 3 (161), p. 425 M. <Crisippo non ha potuto dimostrare l’analogia che egli giudica esistere tra condizioni del corpo e condizioni dell’animo> anche perché confonde insieme la salute dell’animo e la bellezza. Nel caso del corpo, infatti, egli le ha definite con precisione, col porre la salute nella ben regolata proporzione degli umori elementari e la bellezza, invece, nella ben regolata proporzione dei suoi pezzi. Ciò egli ha chiaramente [III,122,20] manifestato nel passo scritto poco innanzi, nel quale dice che la salute del corpo consiste nella ben regolata proporzione del caldo e del freddo, del secco e dell’umido, i quali sono manifestamente gli umori elementari del corpo; mentre invece legittima l’idea che la bellezza del corpo consista nella ben regolata proporzione non degli umori elementari ma dei suoi pezzi.

[2] p. 427 M. [III,122,25] Crisippo ha affermato che l’animo diventa bello o brutto in armonia con le appropriate partizioni della ragione. Ma ha omesso di dirci come esso diverrebbe un animo in salute oppure malato perché, io credo, egli ha confuso insieme entrambi, (bellezza e salute, bruttezza e malattia) e non è stato capace di prendere su di essi una posizione precisa e definitiva.

SVF III, 473

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 6 (147), p. 376 M. [III,122,30] Il fatto che Crisippo stesso ammetta non solo una o due volte ma innumerevoli volte, che causa delle passioni negli animi umani è una facoltà diversa dalla ragione, è per noi contingente decifrarlo dai passi nei quali egli [III,123,1] accagiona l’atonia e la debolezza dell’animo di quanto è effettuato non rettamente. E le chiama così, proprio come chiama i loro opposti uno ‘eutonia’ e l’altro ‘potenza’. Egli infatti riferisce tutto quanto gli uomini effettuano non rettamente, in parte ad una determinazione depravata e in parte [III,123,5] all’atonia e alla debolezza dell’animo; come pure spiega che di quanto essi operano rettamente è causa la retta determinazione a seguito dell’eutonia. Ma di queste operazioni, come la determinazione è opera della facoltà logica, così l’eutonia è vigoria e virtù di una facoltà diversa da quella logica, che Crisippo stesso chiama ‘tono’. Ed egli afferma possibile che noi a volte ci distorniamo [III,123,10] dalle azioni che riconosciamo essere rette poiché il tono dell’animo ha ceduto o non sta del tutto al gioco e non è al servizio delle ingiunzioni della ragione; mostrando con evidenza, con siffatte parole, di cos’è capace la passione. Ora trascriverò un suo passo istruttivo in proposito. [III,123,15] È un passo dal libro ‘Etico’ sulle passioni: “Inoltre è forse in questo senso che il tono del corpo si chiama ‘atonia’ od ‘eutonia’ a seconda dello stato del nostro apparato neuromuscolare, ossia nel senso che noi risultiamo capaci o incapaci delle opere che mediante esso si realizzano. Così pure si chiama tono quello dell’animo, il quale può risultare eutonico od atono”. [III,123,20] E di seguito: “Come nella corsa, nell’aggrapparsi a qualcosa e in attività similari che si compiono grazie al nostro apparato neuromuscolare, esistono una condizione di efficienza e una di inefficienza, qualora l’apparato neuromuscolare sia in stato di rilassatezza e di attenuazione del tono; così qualcosa di simile all’apparato neuromuscolare esiste anche nel caso dell’animo, [III,123,25] ed in riferimento a ciò noi diciamo, in senso metaforico, che alcuni animi sono ‘senza nerbo’ mentre altri ‘hanno nerbo’ ”. Poi di seguito, spiegando proprio questo, scrive: “Uno si distorna dalla virtù per il sopravvenire di eventi spaventosi; un altro, davanti ad un guadagno o una perdita è fiaccato e s’arrende; un altro ancora lo è per altre [III,123,30] non poche cose del genere. Ciascuna di esse, infatti, ci conturba e ci asservisce poiché, arrendendoci ad esse, siamo pronti a tradire amici e città, e a darci a molte azioni indecenti, essendosi fiaccata in noi la pulsione alle azioni opposte. È così che Menelao è stato messo in scena da Euripide: sguainata la lama, [III,123,35] egli s’avventa su Elena con l’intento di levarla di mezzo, ma guardandola è sbalordito dalla sua avvenenza e, incapace ormai di padroneggiare la lama, la getta via. E il rimbrotto in persona gli dice così:

[III,124,1] ‘Tu come ne vedesti il seno, gettata via la spada

accogliesti il bacio, carezzando la cagna traditrice’ ”.

[2] p. 380 M. Onde in aggiunta Crisippo dirà: “Perciò di tutti gli insipienti che per molte cause agiscono così da rinnegati [III,124,5] e in modo così arrendevole, si potrebbe dire che agiscono sempre debolmente e viziosamente”. <Galeno accenna poi all’inciso ‘per molte cause’ e si duole che Crisippo non le abbia precisate>… giacché se uno vi ponesse mente, nulla troverebbe così pertinente al trattato ‘Sulle passioni’ e soprattutto [III,124,10] al ‘Terapeutico’, libro nel quale Crisippo ha scritto queste cose, quanto il conoscere tutte le cause per le quali coloro che effettuano qualcosa sotto l’influsso della passione si discostano dalle loro determinazioni originarie. Egli invece è talmente lontano dall’ammaestrarci con precisione su tutte quante che neppure ha ben chiarito quella ora menzionata.

[3]<Galeno attesta poi che Crisippo citava in questo libro dei versi di Euripide su Medea> [III,124,15] Medea, preda appunto della violenza del rancore. E proprio circa Medea non so come Crisippo non s’accorga che a suo proprio danno sta ricordando i versi di Euripide:

‘E capisco sì che mali sto per fare,

ma il rancore è più forte delle mie risoluzioni’.

[III,124,20]

SVF III, 474

[1] Origene ‘Contra Celsum’ I, 64, Vol. I, p. 117, 16 K. Alle cose dette io addizionerei ancora questo: ossia che, nel libro ‘Terapeutico’ sulle passioni, Crisippo prova a [III,124,25] calmare le passioni presenti nell’animo degli uomini, senza arrogarsi di conoscere quale sia il dogma della verità; e prova a curare coloro che sono stati in precedenza conquistati dalle passioni, seguendo gli indirizzi delle differenti scuole filosofiche. Egli afferma che qualora il piacere sia considerato il sommo bene, si devono curare le passioni così, secondo i dettami di questa scuola; e che qualora si creda nell’esistenza di tre generi di beni, nondimeno è secondo i dettami di questa scuola che si devono allontanare [III,124,30] dalle passioni coloro che sono in esse impigliati.

[2] VIII, 51, II, p. 266, 18 K. E io credo che Crisippo, nel libro ‘Terapeutico’ sulle passioni, abbia fatto per gli uomini qualcosa ben più utile di Celso; poiché ha voluto curare le passioni in quanto elementi che incalzano e disturbano l’animo umano, in primo luogo con quelli che [III,124,35] a suo parere sono ragionamenti sani, e poi in secondo e in terzo luogo anche sulla scorta di dottrine filosofiche che egli pur non gradisce. Egli infatti afferma: “Anche se esistessero tre generi di beni, si deve mettere in atto una terapia delle passioni così, secondo i dettami di questa scuola filosofica. Chi è disturbato dalle passioni, nel momento della loro infiammazione [III,125,1] non sta infatti ad ingerirsi nel giudizio filosofico che lo ha conquistato a suo tempo; perché non vada così sprecata, in un’intempestiva insistenza sul sovvertimento dei giudizi che hanno in precedenza conquistato l’animo, la terapia che invece può trovare spazio”. E afferma poi che: “Anche se l’ebbrezza fosse il [III,125,5] bene e colui che è padroneggiato dalla passione pensasse questo, nondimeno gli si deve andare in aiuto ed additargli che ogni passione è inammissibile con la natura delle cose anche per coloro i quali pongono il sommo bene nell’ebbrezza”.

SVF III, 475

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 6 (149), p. 383 M. Ma Crisippo [III,125,10] non s’accorge della contraddittorietà presente in questi discorsi e scrive miriadi di altre cose simili, come qualora dica: “È, io credo, comunissima questa pulsione irrazionale e capace di distogliere la ragione. È per questo fatto che noi diciamo che alcuni sono trasportati dal rancore”. [III,125,15] E di nuovo: “Perciò verso coloro che sono in preda alle passioni ci comportiamo come verso dei forsennati, e discorriamo con loro come con degli alienati che sono né in casa propria né in sé”. E di seguito, di nuovo spiegando ciò: [III,125,20] “L’alienazione e la dipartita da se stessi non nasce da altro che dal distoglimento della ragione, come dicemmo prima”. ‘Essere trasportati dal rancore’, ‘essere dei forsennati’, ‘essere né in casa propria né in sé’ e tutte quante le espressioni siffatte, testimoniano che le passioni sono determinazioni e che sussistono nella facoltà logica dell’animo. [III,125,25] Come anche le parole di questo genere: “Perciò è possibile udire accenti di questo genere dagli amanti, e altrimenti da coloro che smaniano con veemenza, e da coloro che sono in preda all’ira: che essi vogliono gratificare l’empito del cuore; di lasciarli stare tanto se ciò è meglio tanto se non lo è; di non dire loro nulla; che comunque [III,125,30] devono farlo, sia se sbagliano sia se la cosa è per loro sconveniente”. E anche queste affermazioni di Crisippo […] Simili a quelle scritte in precedenza sono anche le affermazioni di Crisippo del seguente tenore: [III,125,35] “Soprattutto tali pulsioni gli amati sollecitano che gli amanti abbiano nei loro riguardi, e che essi siano disposti nel modo più sconsiderato possibile senza darsi alcun pensiero della logica, che siano pure trasgressivi della ragione che li ammonisce e anzi che non abbiano affatto la pazienza di ascoltare qualcosa del genere”. [III,126,1] Tutte le affermazioni di questo genere rendono una testimonianza favorevole all’opinione degli antichi, come pure queste che le seguono: “Essi sono talmente lontani dalla ragione, così da poter ascoltare o prestare attenzione a qualcosa del genere, che non è fuori di luogo [III,126,5] intendere riferiti a loro dei versi di questa fatta:

‘Cipride non osteggiata s’affievolisce,

ma se messa alle strette ama intensificarsi’

e

‘L’amore osteggiato preme di più’ ”.

[III,126,10] Anche queste parole e quelle che le seguono testimoniano a favore dell’antico giudizio sulla genesi delle passioni. Le parole sono queste: “Essi considerano la ragione un censore intempestivo che non perdona gli innamorati, e la rifiutano come fosse un individuo che sembra osteggiarli in un momento inopportuno, quando invece perfino gli dei [III,126,15] paiono accordar loro di spergiurare”. E poi di seguito dice: “Perciò tanto più avrebbero la potestà di fare il resto seguendo la loro smania”.

SVF III, 476

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 4 (141), p. 356 M. [III,126,20] Il termine ‘irrazionale’ si applica o alla privazione o al deterioramento della ragione. Un terzo o addirittura, per Zeus, un suo quarto significato, come pretendono i seguaci di Crisippo e che è quello che essi professano di spiegare, non c’è nell’usanza dei Greci. Lo rende manifesto lo stesso Crisippo in questo passo: [III,126,25] “Perciò non è fuori luogo l’affermazione di alcuni che la passione sia un moto dell’animo contro la natura delle cose; come nel caso della paura, della smania e simili. Tutti questi moti e queste condizioni, infatti, sono disobbedienti alla ragione e distolti da essa. Per questo noi diciamo che costoro si comportano irrazionalmente, [III,126,30] non nel senso che si comportino male nel dialogare, cosa che invece si direbbe dell’opporsi al dialogare a ragion veduta, ma per il loro distoglimento dalla ragione”. [2] p. 358 M. Ora se noi utilizziamo la ragione anche quando siamo mossi dalla passione, allora Crisippo, nel primo libro ‘Sulle passioni’, [III,126,35] non ha parlato rettamente quando ha detto: “Non si comporta in modo sbagliato e trascurando in qualcosa la ragione, ma distornandosene e disobbedendole”; e di nuovo, nel libro ‘Terapeutico’ sulle passioni, quando ha ripetuto proprio le parole che ho trascritto [III,127,1] nel passo poco innanzi, nel quale era dell’avviso che quello che diceva essere ‘irrazionale’ non fosse l’opposto di ‘con l’uso della ragione’. […] E dunque aggiungendo afferma: “Ad esempio, sono sregolate quelle condizioni in cui è come se non vi fosse padronanza di sé ma si fosse portati fuori controllo, proprio nel modo in cui coloro che corrono tonicamente [III,127,5] si portano oltre il traguardo e non sono in grado di padroneggiare siffatto movimento. Coloro invece che si muovono tenendo la ragione come guida e con la barra del timone su di essa, padroneggiano questo movimento, qualunque sia, ed i relativi impulsi”. […] [III,127,10] “Essi padroneggiano i movimenti e i relativi impulsi, così che possono [III,127,15] ubbidire alla ragione, qualora essa lo indichi, similarmente a coloro che passeggiano”. E non bastandogli queste parole, aggiunge: “Perciò i moti a questo modo irrazionali sono chiamati ‘passioni’ e si dicono essere contro la natura delle cose, in quanto disancorano la ragionevolezza”.

[3] 5 (143), p. 364 M. [III,127,20] Tuttavia non soltanto altri filosofi ma lo stesso Crisippo, nelle sue compilazioni ‘Sulle passioni’, non si àncora saldamente ad alcuna opinione e ondeggia come in una tempesta. Egli afferma, infatti, che le passioni nascono senza intervento alcuno della ragione e poi, all’opposto, afferma che sono manifestazioni della sola facoltà logica; di modo che, per questo motivo, non sussistono [III,127,25] nelle creature prive di ragione. Quindi che esse nascono prescindendo da una determinazione e poi, all’opposto, che sono determinazioni. E gli capita anche di essere dell’avviso che i moti passionali nascano a casaccio, il che equivale a dire, se si indagasse con precisione l’avverbio, ‘senza causa’. Di seguito ai passi che ho scritto poco innanzi, Crisippo afferma: [III,127,30] “Appropriatamente si annovera nel genere delle passioni la palpitazione dell’animo, per questo suo essere agitato e trasportato a casaccio”.

[4] V, 1, (156), p. 407 M. Alcuni degli altri Stoici, siccome affermano che le passioni sono manifestazioni della facoltà logica, sono giunti a tal punto di litigiosità da convenire che le creature prive di ragione non partecipano delle passioni, [III,127,35] e la maggior parte di essi a convenire che non ne partecipano neppure i bambini, cioè che anche questi non sono ancora creature razionali.

SVF III, 477

[1] Origene ‘Comm. in Matth.’ III, p. 551, Delarue. Ciò ch’è stato detto dei piaceri sessuali riguardo ai bambini, potrebbe [III,128,1] essere detto anche delle restanti passioni, infermità e stati morbosi dell’animo, nelle quali ai bambini è toccato per natura di non cadere in quanto non hanno ancora completato lo sviluppo della ragione […] Il convertito è come un bambino e qualcuno che ha preso razionalmente una postura dell’animo [III,128,5] non suscettibile di afflizione.

[2] p. 592. Per essere precisi, è dunque stato dimostrato anche da altri che i bambini, non avendo ancora completato lo sviluppo della ragione, non cadono in nessuna passione. E se non cadono in nessuna passione, manifestamente non cadono neppure nella paura. E se pure nasce nei bambini qualcosa di analogo alle passioni, questi moti sono dei barlumi molto in fretta disapprestati [III,128,10] e curati. […] I bambini, comunque, non sperimentano la paura che sperimentano gli insipienti; e gli specialisti delle passioni e dei loro nomi affermano che la paura è qualcos’altro. Un esempio è rappresentato dalla facilità dei bambini a dimenticare le offese quando essi, proprio nel momento delle lacrime, in un istante mutano d’avviso e ridono e rigiocano [III,128,15] con coloro che essi ritengono averli afflitti o spaventati, pur senza che alcuno abbia in verità fatto questo.

SVF III, 478

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 6 (149), p. 386 M. Proprio quando rammenta il verso di Menandro

‘Pur avendo la mente in mio potere, mi sono dato alla botte’

anche qui <Crisippo> cita palesemente una dichiarazione [III,128,20] che testimonia in favore dell’opinione degli antichi. Come quando, spiegando cosa significa ‘essere né in casa propria né in sé’ dice questo: “Quanti si adirano così tanto sono appropriatamente chiamati persone fuori controllo; in modo similare a quei corridori che si spingono eccessivamente avanti oltre il traguardo: questi perché eccedono l’impulso nel correre, [III,128,25] quelli perché vanno contro la propria ragione. Coloro che padroneggiano così poco i propri movimenti, infatti, non si direbbero persone che si muovano in armonia con se stesse ma in armonia con una qualche altra forza esterna ad esse”. Anche qui <Crisippo> ammette l’esistenza di una certa forza movente gli impulsi di coloro che sono preda delle passioni, e lo riconosce molto rettamente; salvo affermare che questa forza è [III,128,30] esterna ad essi, quando invece dovrebbe dire che essa è insita negli esseri umani […] Crisippo, io credo, non s’accorge di strutturare ciò attraverso esempi del genere. Egli cita, dunque, il dialogo tra Ercole ed Admeto scritto da Euripide e che suona così:

[III,128,35] ‘Che profitto trarresti dal voler gemere sempre?’

Questo dice Eracle e Admeto risponde:

‘Lo riconosco anch’io, ma un certo amore mi fa uscire di senno’

È infatti manifesto che l’amore, essendo una passione della facoltà concupiscente e non di quella razionale, fa uscir di senno l’animo intero e conduce l’uomo [III,129,1] ad azioni opposte a quelle che aveva determinato all’inizio. Cita anche le parole di Achille a Priamo:

‘Sopporta, dunque, e non gemere senza posa nel cuore:

nulla otterrai piangendo il figlio,

[III,129,5] non lo farai rivivere, potrai piuttosto patire altri mali’

Crisippo afferma che Achille dice questo (sono le sue testuali parole) “dialogando con Priamo; ma Achille non poche volte, nel corso degli eventi, si ritrae da queste sue stesse determinazioni e non si padroneggia perché è vinto dalle passioni”. [III,129,10] E pertanto anche in questo caso, il ‘ritrarsi dalle determinazioni’ e il ‘non essere padrone di se stesso’ e ‘l’essere a volte in casa propria e a volte il non esserlo’ e tutte quante le affermazioni del genere, sono ammissibili con quanto ci appare evidente e con l’opinione degli antichi sulle passioni e le facoltà dell’animo, ma non certo con le ipotesi di Crisippo. [III,129,15] Nel libro ‘Sulle passioni’ egli poi dice queste cose in modo simile: “Ciò che appunto in noi è frenetico e alienato e disobbediente alla ragione, nondimeno è riconducibile al piacere”. E di nuovo: “A tal punto noi ci ritraiamo da noi stessi, andiamo fuori di noi e siamo perfettamente [III,129,20] accecati nei nostri difetti che a volte, avendo a portata di mano una spugna o della lana, li solleviamo in alto e li scagliamo come se potessimo mediante di essi portare a termine chissà che cosa. E se ci capitasse di avere a portata di mano un coltello o qualcos’altro lo avremmo utilizzato in modo similare”. [III,129,25] E di seguito: “Molte volte per una cecità del genere noi mordiamo le chiavi e percuotiamo le porte quando non s’aprono in fretta. E se incespichiamo su dei sassi, per vendetta li facciamo a pezzi e li scagliamo da qualche [III,129,30] parte, soggiungendo a tutto ciò le frasi più assurde”. E allo stesso modo si esprime in quel che segue: “Da questi esempi ci si potrebbe fare un concetto dell’irragionevolezza delle passioni e di come in tali momenti noi siamo ciechi e diventiamo altri da coloro che prima [III,129,35] ragionavano”. In complesso, se uno ora selezionasse e trascrivesse tutto quanto egli dice e che è in contraddizione coi giudizi da lui posti a fondamento del suo libro ‘Sulle passioni’, mentre è invece ammissibile con quanto ci appare evidente e con l’opinione di Platone, la lunghezza del libro diventerebbe smisurata. Il suo scritto è infatti [III,130,1] pieno di passi in cui egli parla di ‘ritrarsi dalle determinazioni prese razionalmente in precedenza’ a motivo del rancore o della smania o del piacere o di qualcosa del genere.

SVF III, 479

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 5 (144), p. 366 M. [III,130,5] <Galeno riferisce che Crisippo accenna al moto passionale come ad un moto> privo di misura e, come lui è solito dire, un moto fuori controllo. […] Nel libro ‘Terapeutico’ sulle passioni il passo suona così: “La passione si dice appropriatamente essere un impulso eccessivo; come se, in riferimento ai moti fuori controllo, si parlasse di un [III,130,10] moto eccessivo; l’eccesso nel quale nasce dal distoglimento della ragione e supera quanto, senza questo eccesso, ci salverebbe. Una volta che l’impulso abbia oltrepassato la ragione e si porti ossessivamente contro di essa, appropriatamente lo si direbbe eccessivo, e per via di ciò contro la natura delle cose ed irrazionale come noi lo [III,130,15] delineiamo”.

SVF III, 480

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 5 (144), p. 368 M. Dianzi ho citato il passo tratto dal primo libro ‘Sulle passioni’ in cui <Crisippo> afferma che le passioni nascono all’infuori della determinazione. E che egli sia della medesima [III,130,20] opinione anche nel suo libro ‘Terapeutico’, che è registrato anche come ‘Etico’, è possibile apprenderlo da questo passo: “Il motivo per cui le passioni si chiamano infermità non sta nel determinare che queste cose siano beni ma nell’esservi piombati sopra con maggior forza di quanto la natura richieda”. <Se qualcuno avesse frainteso,> [III,130,25] il punto di vista di Crisippo sarà appalesato da quanto segue: “Donde si dice non irragionevolmente che alcuni ‘vanno pazzi per le donne’ e ‘vanno pazzi per gli uccelli’ ”. […] Ma, per Zeus, forse qualcuno potrebbe dire che il ‘pazzesco’ non nasce a causa di una facoltà irrazionale ma dall’avere noi estrovertito più di quanto convenga sia [III,130,30] la determinazione che l’opinione, il che è come dire che le infermità nascono nell’animo non banalmente per avere concepito falsi giudizi su delle cose come beni o come mali, ma per il legittimarle come il massimo dei beni o dei mali. Infermità non è, infatti, l’opinione che la ricchezza di denaro sia un bene, ma il legittimarla come il sommo dei beni [III,130,35] e il concepirsi indegno di vivere da parte chi ne sia privo. Giacché in ciò consistono l’avarizia e l’amore per il denaro, i quali sono infermità dell’animo. Ma a chi è di questo avviso Posidonio obietta e dice più o meno così: “Le cose dette da Crisippo […]

SVF III, 481 [III,131,1]

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 7, p. 391 M. <Posidonio> afferma che questa definizione di Ate, come anche molte altre definizioni delle passioni formulate da Zenone e messe per iscritto da Crisippo, confuta chiaramente il punto di vista di quest’ultimo, il quale afferma che l’afflizione è ‘opinione immediata [III,131,5] e senza riserva che un male ci è presente’. Parlando a volte in modo più spiccio, <Crisippo e i suoi seguaci> proferiscono la definizione all’incirca così: ‘l’afflizione è opinione immediata e senza riserva della presenza di un male’ e dicono che ‘immediata’ significa ‘recente nel tempo’. Posidonio, a questo punto, li sollecita allora a spiegare la causa per cui l’opinione del male, quando è immediata, fa restringere [III,131,10] l’animo e suscita l’afflizione; mentre invece, col passare del tempo, o non lo fa affatto più o comunque non in maniera simile. Eppure, se le dottrine di Crisippo sono vere, non ci sarebbe bisogno di interporre quell’ ‘immediata’ nella definizione. Secondo il suo punto di vista, infatti, si dovrebbe dire che l’afflizione è piuttosto opinione, come lui stesso è solito nominarla, di un male grande o non reggibile o defatigante. [III,131,15] A questo riguardo l’obiezione di Posidonio a Crisippo è duplice. In riferimento a questa seconda definizione, gli rimemora dei saggi e di coloro che fanno profitto. I primi, infatti, si concepiscono attorniati dai massimi beni ed i secondi dai massimi mali, eppure né gli uni né gli altri sono per questo preda della passione. In riferimento [III,131,20] alla prima definizione, poi, domanda quale sia la causa per cui non è l’opinione della presenza di un male a suscitare l’afflizione ma soltanto l’opinione immediata…

SVF III, 482

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 7, p. 392 M. E dice perché tutto ciò che di inusitato e strano ci incoglie di botto, ci fa fuoriuscire e ritrarre dalle antiche determinazioni; e invece, quanto al muoverci in preda alla passione, tutto ciò che di usitato, consuetudinario, [III,131,25] cronico ci incoglie, o non ci fa ritrarre affatto dalle antiche determinazioni o certamente ce ne fa ritrarre per poco. Afferma perciò che bisogna familiarizzarsi a trattare le faccende non ancora presenti come se fossero presenti; e per Posidonio il termine ‘familiarizzarsi’ vuole significare qualcosa come plasmare e modellare in anticipo in noi stessi la faccenda prima che essa avvenga nel futuro, e farsene [III,131,30] in breve un costume come se essa fosse già avvenuta. A tal proposito, perciò, egli ha assunto l’esempio di Anassagora il quale, ad uno che gli annunciava la morte del figlio, senza affatto scomporsi disse: ‘Sapevo di averlo generato mortale’. Anche Euripide fa suo questo pensiero e fa dire a Teseo:

‘Avendo imparato ciò da un uomo saggio,

[III,131,35] io volgevo la mente a preoccupazioni e guai;

io, esule dalla mia patria, proponendo a me stesso in sorte

morti premature ed altre vie funeste;

[III,132,1] così che se sperimentassi qualcuna

delle sventure che opinavo, le nuove,

incogliendomi, non mi mordessero l’animo’.

Ed afferma che dicono così anche questi versi:

‘Se questo fosse il primo giorno delle mie sventure

[III,132,5] e se già a lungo non avessi viaggiato nei dolori,

sarebbe verosimile che io mi dibattessi

come un puledro appena aggiogato e che or ora ha morso il freno.

Invece ormai sono frollo e affranto dai mali’.

E talora cita questi:

[III,132,10] ‘Il tempo lungo l’ammorbidirà; ora, però,

il male è ancora fresco’.

SVF III, 483

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 9. Quando discutono delle passioni dell’animo, Crisippo e gli Stoici si preoccupano soprattutto di identificarle e di definirle. Parlano invece pochissimo del modo in cui l’animo vada curato così da non essere [III,132,15] alla mercé delle burrasche.

SVF III, 484

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 63. Io ho fatto quello che Crisippo vieta: cioè applicare un medicamento a recenti tumescenze dell’animo.

SVF III, 485

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 61. Quanti sono a pezzi e non riescono a sostenersi per il peso dell’afflizione, vanno sorretti in ogni modo. [III,132,20] Per questo Crisippo reputa che l’afflizione sia stata chiamata λύπη, in quanto è quasi una ‘dissoluzione’ di tutto l’uomo.

SVF III, 486

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 75. Crisippo invece ritiene che nel consolare qualcuno sia di capitale importanza togliere al sofferente l’opinione di stare eseguendo un atto doveroso, [III,132,25] giusto e dovuto.

SVF III, 487

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 59. In proposito Carneade, come vedo che scrive il nostro Antioco, soleva rimproverare Crisippo di tessere le lodi di questi versi di Euripide:

‘Non c’è mortale che il dolore non tocchi

e la malattia. [III,132,30] Molti devono seppellire i figli

e generarne altri. La morte è la fine per tutti,

e ciò causa vane angosce al genere umano.

La terra va resa alla terra, e la vita di tutti

va falciata come le messi. Così impone la necessità’.

Carneade negava [III,132,35] a questo genere di discorsi ogni efficacia nel sollevare dall’angoscia.

SVF III, 488                                                                          

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 62. Questa è la ragione per cui, come ho già detto, tutti i filosofi conoscono un unico metodo di cura, che consiste nel dire che quanto perturba l’animo è nulla e nel parlare invece della passione in sé. [III,133,1] Anzitutto nel caso della cupidigia, siccome si tratta soltanto di levarla di mezzo, non bisogna chiedersi se ciò verso cui la libidine è diretta sia un bene oppure no, ma è la libidine in sé che va tolta di mezzo. Dunque, tanto se il sommo bene è l’integrità morale, tanto se è l’ebbrezza, tanto se è l’unione di entrambe, [III,133,5] tanto se è l’insieme dei famosi tre generi di beni, e pur anche quando si tratta di un impulso spasmodico per la virtù stessa, ebbene l’identico discorso è da applicarsi in tutti i casi citati quale deterrente.

SVF III, 489

Olimpiodoro ‘In Platon. Alcibiad.’ II, p. 54, Creuzer. Si deve sapere che i modi della catarsi sono tre: quello Pitagorico, quello Socratico e quello Peripatetico [III,133,10] oppure Stoico. Quello Stoico medica gli opposti attraverso gli opposti, aggiungendo al rancore contro il male la smania per il bene e così mitiga la catarsi, oppure la smania per il bene al rancore contro il male e così rinvigorisce la catarsi e ci conduce verso mete più virili, proprio come si fa con le verghe incurvate. Chi infatti vuole raddrizzarli li curva in senso opposto, affinché grazie al piegamento in senso opposto essi [III,133,15] risultino diritti. In un modo del genere essi si occupavano di infondere armonia nell’animo.

SVF III, 490

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 17, p. 893 Pott. [1] La terapia della presunzione, come di ogni passione, è triplice: apprendimento della sua causa; apprendimento del modo in cui estirpare tale causa; e, terzo, l’esercizio pratico e un costume dell’anima teso a [III,133,20] poter conseguire di giudicare rettamente le determinazioni prese. [E poco dopo] Dopo che uno abbia violato la ragione […] se uno si sente debilitato per il subitaneo sopravvenire di una rappresentazione, bisogna fare in modo di avere a portata di mano le rappresentazioni razionali. Se invece, vinto da un’abitudine precedente, è diventato, come dice la Scrittura, uno dei tanti; allora bisogna far cessare del tutto quell’abitudine [III,133,25] ed allenare l’anima a contestarla. Se poi sembra che alcuni trascinino con sé giudizi contraddittori, bisogna eliminarli.

ETHICA VIII.

Sulle azioni

§ 1. Sugli atti doverosi intermedi

Frammenti n. 491-499

SVF III, 491

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1069e. <Crisippo> dice: “Da dove, dunque, [III,134,5] comincerò? E quale principio di ciò ch’è doveroso e quale materiale della virtù prendere, se tralascio la natura delle cose e ciò ch’è secondo la natura delle cose?”

SVF III, 492

‘Commento a Lucano’ p. 74 Us. … sugli atti doverosi chiarisce: sono gli atti conseguenti agli istinti naturali primari con i quali l’uomo nasce. Da ciò <Cicerone> [III,134,10] deduce che l’uomo è l’unico animale sociale, per natura incline non soltanto a sé ma anche alla relazione con tutti gli uomini.

SVF III, 493

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 107. Inoltre essi affermano che ‘doveroso’ è ciò che quando sia effettuato ha una giustificazione ragionevole: per esempio, ciò che consegue all’essere in vita e che pertiene anche a vegetali e ad animali, giacché anche per questi sono contemplati atti doverosi. Il ‘doveroso’ [III,134,15] è stato denominato così da Zenone per primo, questa denominazione essendo stata derivata dall’espressione ‘incombere ad alcuni’, ed è un’operazione appropriata alle strutture naturali.

SVF III, 494

Stobeo ‘Eclogae’ II, 85, 13 W. Al discorso su ciò ch’è promosso segue la discussione su ciò ch’è doveroso. Il doveroso è definito così: [III,134,20] ‘Ciò che consegue al fatto di essere in vita e che, quando effettuato, ha una giustificazione ragionevole’. In modo opposto si definisce ciò ch’è non doveroso. Questa definizione pertiene anche alle creature sprovviste di ragione, giacché esse pure hanno attività conseguenti alla loro natura. Ma per esse si rende così: ‘Ciò che consegue al fatto di essere in vita’. Essi sostengono poi che delle azioni doverose alcune sono perfette, e queste si chiamano appunto azioni rette. Queste [III,134,25] azioni rette sono le operazioni conformi a virtù, come l’essere saggi e il praticare la giustizia. Sono azioni non rette quelle che non hanno tali caratteristiche, ed esse neppure sono designate come perfettamente doverose, ma come azioni intermedie: per esempio, sposarsi, il fare ambascerie, il dialogare e cose simili.

SVF III, 495

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 108. Delle operazioni che si effettuano obbedendo all’impulso, alcuni sono [III,134,30] atti doverosi, altri sono contrari a ciò ch’è doveroso e altri ancora sono né doverosi né contrari al doveroso. Atti doverosi sono pertanto tutti quegli atti che la ragione [III,135,1] sceglie di fare: come onorare i genitori, fratelli, patria, compiacere gli amici. Atti contrari al doveroso sono tutti quelli che la ragione non sceglie, come atti del tipo: trascurare i genitori, non preoccuparsi dei fratelli, non condisporre con gli amici, disdegnare la patria e similari. Atti né doverosi né [III,135,5] contrari al doveroso sono tutti quegli atti che la ragione né sceglie né vieta di fare: per esempio, levare di mezzo un fuscello, tenere in mano uno stilo o uno strigile e atti simili a questi.

SVF III, 496

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 109. Alcuni atti sono doverosi indipendentemente dalle circostanze, altri invece sono circostanziali. Indipendenti dalle circostanze sono questi: essere solleciti della propria salute, degli organi di senso e simili. Dipendenti dalle circostanze sono: [III,135,10] lo storpiarsi e lo sperperare il proprio patrimonio. Analogo è il discorso per gli atti contrari al doveroso. Degli atti doverosi, inoltre, alcuni sono doverosi sempre, altri non sempre. Atti sempre doverosi sono il vivere secondo virtù; mentre non sempre doverosi sono il domandare, il rispondere, il passeggiare e simili. Lo stesso discorso vale per gli atti contrari al doveroso. [III,135,15] Vi è qualcosa di doveroso anche tra gli atti intermedi, come l’ubbidienza dei bambini ai pedagoghi.

SVF III, 497

Cicerone ‘De finibus’ III, 22. Siccome quelli che ho definito atti doverosi scaturiscono da pulsioni naturali primarie, per poter dire rettamente che tutti gli atti doverosi sono riconducibili al soddisfacimento di pulsioni naturali, è necessario far risalire quegli atti a queste pulsioni; senza perciò affermare che questi atti siano il sommo bene, [III,135,20] giacché l’azione moralmente integra non inerisce agli atti naturali istintivi, dato che essa ne è una conseguenza che, come ho detto, nasce successivamente. È l’azione moralmente integra ad essere pienamente conforme a natura, ed essa ci esorta a richiederla con molto maggior forza di quanto non facciano tutte le pulsioni che l’hanno preceduta.

SVF III, 498

Cicerone ‘De finibus’ III, 58. Noi <Stoici> sosteniamo che l’unico bene è l’integrità morale; e tuttavia, pur senza includerlo tra i beni o i mali, riteniamo che sia consentaneo effettuare un atto doveroso. Tra gli atti che sono né bene né male qualcuno [III,135,25] è infatti lodevole, e se è lodevole è tale che se ne può dare una spiegazione razionale; ma dell’atto doveroso si può dare una spiegazione razionale in senso lodevole, e dunque è atto doveroso ciò che è fatto in modo tale che della sua effettuazione si possa dare razionalmente una spiegazione lodevole. Da ciò si capisce che l’atto doveroso è un atto intermedio che non trova posto né fra i beni né fra i loro contrari. Ma se tra le entità che sono né virtù né vizi esiste qualcosa che pure è di qualche utilità, [III,135,30] esso non deve essere rifiutato. Appartiene a questo genere di atti intermedi anche l’azione che la ragione ci richiede ed esige che noi compiamo; ma ciò che noi attuiamo secondo ragione lo chiamiamo atto doveroso, sicché l’atto doveroso è del genere di cose che sono né beni né i loro contrari .II,135,35] Inoltre è perspicuo che anche il sapiente effettua di questi atti intermedi, e se li compie li giudica doverosi. E siccome il saggio non sbaglia mai quando giudica, l’atto doveroso rientrerà tra gli atti intermedi. Alla stessa conclusione si giunge anche seguendo quest’altro ragionamento. [III,135,40] Poiché noi constatiamo che esiste qualcosa che chiamiamo azione retta, la quale è un atto doveroso perfetto, esisterà altresì un’azione imperfetta. Ad esempio, se ‘restituire un deposito secondo giustizia’ è azione retta, ‘restituire un deposito’ sarà un atto doveroso; giacché è l’aggiunta di quel ‘secondo giustizia’ [III,136,1] che fa l’azione retta, mentre il restituire il deposito senza questa aggiunta rientra nella sfera degli atti doverosi. Poiché è indubbio che tra le cose che chiamiamo intermedie, ce ne sono alcune che meritano di essere assunte ed altre invece rifiutate, qualsiasi cosa stia in questi termini o meriti queste denominazioni, rientra nell’ambito degli atti doverosi. Dal che si capisce, poiché tutti per natura amano se stessi, [III,136,5] perché sia l’insipiente che il saggio sceglieranno le cose secondo natura e rigetteranno le contrarie. Accade così che l’atto doveroso sia comune sia al saggio che allo stolto; e ciò fa sì che l’atto doveroso rientri tra gli atti che chiamiamo intermedi.

SVF III, 499

Stobeo ‘Eclogae’ II, 86, 10 W. Nell’animale dotato di ragione, tutto ciò che contravviene al doveroso è un’aberrazione; mentre il perfezionamento di ciò ch’è doveroso diventa un’azione retta. [III,136,10] L’azione doverosa intermedia si parametra, allora, a quelle certe entità ‘indifferenti’, chiamate indifferenti contro natura o secondo natura, le quali sono fornite di tali caratteristiche da purosangue che se non le prendessimo per noi o se le respingessimo incessantemente non si potrebbe essere felici.

§ 2. Differenza tra le azioni rette e gli atti doverosi intermedi

Frammenti n. 500-523

SVF III, 500

Stobeo ‘Eclogae’ II, 93, 14 W. Essi affermano che l’azione retta è un’azione che [III,136,15] ha tutti i numeri dell’atto doveroso oppure […] un atto doveroso perfetto. Aberrazione è invece l’azione effettuata contro la retta ragione o l’azione in cui la creatura logica ha omesso qualcosa di doveroso.

SVF III, 501

Stobeo ‘Eclogae’ II, 96, 18 W. Essi affermano anche che delle nostre operazioni alcune sono azioni rette, altre sono aberrazioni, altre ancora sono né l’una né l’altra cosa. Sono azioni rette [III,136,20] le seguenti: essere saggi, essere temperanti, praticare la giustizia, rallegrarsi, beneficare, allietarsi, passeggiare disputando con saggezza e quant’altro si effettua secondo la retta ragione. Sono invece aberrazioni l’essere fuori di testa, essere intemperanti, commettere ingiustizia, affliggersi, avere paura, rubare e, in generale, quant’altro si effettua contro la retta ragione. Sono né azioni rette né aberrazioni [III,136,25] le seguenti: parlare, domandare, rispondere, passeggiare, mettersi in viaggio e cose similari.

SVF III, 502

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 97, 5 W. Tutte le azioni rette sono pratica della giustizia, azioni conformi alla legge, disciplinate, ben condotte, fortunate, felici, [III,136,30] tempestive, decorose. Non sono però ancora azioni sagge, giacché tali sono soltanto quelle che discendono dalla saggezza. Similmente per le altre virtù, anche se non nominate: per esempio, le azioni temperanti sono quelle che discendono dalla temperanza e le azioni giuste quelle che discendono dalla giustizia. All’opposto, invece, le aberrazioni sono azioni ingiuste, non conformi alla norma e moralmente disordinate.

SVF III, 503

Stobeo ‘Eclogae’ II, 86, 5 W. [III,136,35] Delle azioni rette, di alcune c’è bisogno, di altre no. Quelle di cui c’è bisogno sono le azioni che si possono chiamare giovevoli come, per esempio, [III,137,1] l’essere saggi e l’essere temperanti. Non c’è invece bisogno di quelle che tali non sono. Similmente, si ha la stessa trattazione a regola d’arte per le azioni contrarie al doveroso.

SVF III, 504

Cicerone ‘De finibus’ III, 32. Nelle altre arti, è dopo avere visto il risultato conclusivo e finale, quello che i Greci chiamano ἐπιγεννηματικόν, che noi giudichiamo qualcosa ‘artistico’. Quando invece parliamo di qualcosa ‘fatto con saggezza’ [III,137,5] noi rettissimamente lo definiamo tale fin da principio. Infatti, qualunque cosa effettuata dal saggio deve essere subito perfetta in ogni sua parte, dato che in essa è posto ciò che noi diciamo sia da richiedersi. Come il tradire la patria, fare violenza ai genitori, depredare i santuari, sono crimini risultanti dall’effettuazione di azioni determinate; così l’avere paura, lamentarsi, darsi preda [III,137,10] alla libidine, sono aberrazioni anche non si traducono in determinate azioni. E come queste ultime sono aberrazioni non nei loro risultati conclusivi e finali, ma subito fin dall’inizio; così le azioni originate dalla virtù sono da giudicarsi rette fin dall’intenzione e non dopo la loro effettuazione.

SVF III, 505

Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 115, p. 249, 4 Wendl. Dico questo [III,137,15] non riguardo alla virtù ma alle arti intermedie ed a tutte quelle altre attività necessarie, riguardanti la sollecitudine per il nostro corpo e la provvista di un soprappiù di oggetti esterni, nelle quali gli uomini s’affaccendano. Poiché la fatica nel perseguimento del bene e del bello perfetti è capace di per se stessa, anche qualora arrivi in ritardo al suo fine, di arrecare giovamento a coloro che la fanno. Invece quanto è fuori della virtù, qualora non raggiunga il suo traguardo, è tutto futile.

SVF III, 506

Seneca ‘De beneficiis’ I, VI, 2. Che ci sia un grande discrimine tra queste cose [III,137,20] lo puoi capire dal fatto che il beneficio è comunque un bene, mentre ciò che si compie o si dà è né un bene né un male. […] Non è beneficio ciò che si conta o che si passa di mano, così come il culto degli dèi non è nelle vittime, per quanto pingui siano o risplendenti d’oro, [III,137,25] ma nella retta e pia volontà di chi lo rende. Pertanto, i buoni sono devoti anche quando offrono un po’ di farina o una focaccetta; mente i malvagi, al contrario, non sfuggono alla loro empietà anche se inondano di sangue gli altari.

SVF III, 507

Seneca ‘De beneficiis’ II, XXXI, 1. Secondo me, fra i paradossi della scuola Stoica il meno sorprendente o incredibile è l’affermazione che chi riceve con animo riconoscente ha già restituito il beneficio. Infatti, per noi che [III,137,30] riportiamo tutto all’animo, il fare equivale al volere. E poiché la devozione, la buona fede, la giustizia, insomma, le virtù di ogni tipo sono in se stesse perfette, l’uomo può essere grato per un mero atto di volontà, anche se non gli è stato permesso di alzare la mano.

SVF III, 508

Seneca ‘De beneficiis’ III, XVIII, 2. Quel che conta è l’animo di chi fa il prestito, non la sua condizione sociale. Nessuno è escluso dalla virtù; [III,137,35] essa è aperta a tutti, ammette tutti, invita tutti: nobili, liberi, schiavi, re ed esuli. Non sceglie sulla base del casato o del censo: le basta l’uomo come tale, nudo.

SVF III, 509

Seneca ‘De beneficiis’ IV, XXI, 4. Come può essere facondo anche chi tace, forte chi ha le mani impedite o legate, e come un timoniere resta un timoniere anche sulla terraferma, giacché [III,137,40] il suo sapere è perfetto e completo pur se qualcosa gli impedisce di usarlo; così un uomo è riconoscente se vuole esserlo e non ha testimone della propria volontà altri che se stesso.

SVF III, 510

Stobeo ‘Florilegium’ 103, 22. Di Crisippo. <Crisippo> afferma: “Chi è al culmine del profitto adempie completamente tutto quanto è doveroso [III,137,45] e non omette nulla”. Egli afferma però che la vita di costui non è ancora felice, ma [III,138,1] che la felicità gli sopravviene qualora a queste azioni intermedie s’aggiungano saldezza ed abitualità, ed esse prendano una loro solidità.

SVF III, 511

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 10, p. 867 Pott. Eppure certe azioni sono effettuate [III,138,5] anche da coloro che non hanno retto conoscimento dei beni e dei mali, ma non sono effettuate secondo ragione. E’ il caso, ad esempio, della virilità. Alcuni individui sono per natura focosi ma, nutrendo questa loro dote senza vincolarla alla ragione, impellono irrazionalmente alla maggior parte delle faccende e fanno cose simili a chi è virile, così da compiere – a volte – le medesime azioni rette e, ad esempio, reggere alle torture come se niente fosse. Ma essi non muovono dalla stessa causa da cui muove chi ha retto conoscimento né si propongono il medesimo fine, [III,138,10] neppure se sacrificassero tutto il corpo. […] Ogni azione operata da chi è scienziato di beni e di mali è dunque una buona azione, mentre se è operata da chi non è scienziato di beni e di mali è una cattiva azione, anche se salvaguarderà un istituto di vita. Giacché egli non si comporta virilmente partendo da un ragionamento, né dirige la sua azione a qualcosa di proficuo che vada a terminare in una virtù o che da una virtù si svolga. E il medesimo discorso vale anche per le altre virtù.

SVF III, 512

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 210, I, p. 160, 2 Wendl. [III,138,15] Giacché anche l’insipiente può compiere taluni atti doverosi, ma non li compie a partire da una postura dell’animo doverosa. E si dà il caso che anche chi è ubriaco fradicio a volte pronunci o faccia cose da sobrio, ma non a partire da un intelletto sobrio. Anche i bambini ancora infanti effettuano e dicono molte cose da esseri razionali, ma non a partire da una postura razionale dell’animo, giacché la natura non li ha ancora educati ad essere logici. [III,138,20] Il legislatore vuole pertanto che il sapiente non paia un uomo razionale in modo saltuario, facilmente espugnabile e come per caso, ma a partire da una postura dell’animo e da una disposizione razionale.

SVF III, 513

Filone Alessandrino ‘De Cherubim’ 14, I, p. 173, 12 Wendl. Nel compiere un dovere si agisce spesso in modo indebito e si dà il caso che ciò che non è doveroso fare sia compiuto in modo debito. [III,138,25] Per esempio, qualora la restituzione di un deposito in denaro avvenga non per sana intelligenza ma o per danneggiare il ricevente o per scongiurare con l’inganno il ripudio di un credito maggiore, realizza un’opera doverosa ma in modo indebito. Il fatto, invece, che il medico, il quale ha vagliato di dover purgare o tagliare o cauterizzare per il giovamento del malato, non dica la verità al paziente affinché questi, anticipando le terribili sofferenze, non fugga la terapia [III,138,30] o non collassi e svenga di fronte alla notizia; oppure il fatto che il sapiente, temendo che col dire la verità si rafforzino le posizioni dei rivali, menta ai nemici per la salvezza della patria, sono opere non conformi a ciò ch’è doveroso ma effettuate in modo debito.

SVF III, 514

Frontone ‘Epistulae’ (ad M. Antoninum de eloquentia) p. 140 Naber. Gli atti doverosi sono di due generi e di tre specie. La prima specie è la sostanza: che l’uomo esista; la seconda è la qualità: che l’uomo sia così e cosà; [III,138,35] la terza è il risultato obiettivo: ossia che l’uomo compia lo specifico dovere in vista del quale ha eseguito i precedenti, e che consiste nell’apprendere ed esercitare la saggezza. Dico inoltre che questa terza specie è la sola coinvolta nell’attività pratica, e che è quella che dà significato al tutto. In questa suddivisione degli atti doverosi, se quello diceva il vero e se io ho memoria di quanto un tempo gli udii dire, per l’uomo che aspira alla saggezza [III,138,40] i primi sforzi sono quelli che vanno dedicati alla conservazione della vita e della salute. Pertanto far colazione, lavarsi, farsi massaggiare ed altre operazioni simili sono atti doverosi del saggio, seppure non sia alle terme che si acquista la saggezza. […] Certo il cibarsi non è un’attività pratica legata alla saggezza; ma senza la vita, che di cibo si alimenta, non possono esserci[III,138,45] né saggezza né attività intellettuale alcuna.

SVF III, 515

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VI, 14, p. 796 Pott. [III,139,1] Dunque il banale ‘salvaguardare’ fa parte degli atti intermedi, mentre invece il salvaguardare rettamente e nel debito modo è un’azione retta. Così ogni azione di chi ha retto conoscimento è un’azione retta; quella del banale fedele si potrebbe chiamare azione intermedia, non ancora realizzata secondo ragione e nemmeno secondo intendenza [III,139,5] rettificata; e, viceversa, ogni azione del pagano è aberrante, giacché le Scritture ci fanno riscontrare che doveroso è non il banale effettuare bene ma il fare azioni in vista di uno scopo e l’agire in armonia con la ragione.

SVF III, 516

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 200. [Sesto Empirico ha appena cercato di dimostrare che la saggezza non è un’arte della vita perché alla saggezza non appartiene alcuna sua peculiare opera in quanto arte] [III,139,10] Ma essi <gli Stoici> muovono contro ciò affermando che tutte le opere sono comuni a tutti gli uomini, e che però esse si contraddistinguono per il loro nascere da una disposizione artistica oppure di imperizia nell’arte. Avere sollecitudine per i genitori o altrimenti onorarli non è opera peculiare del saggio, bensì è peculiare del saggio il farlo muovendo dalla saggezza. E come il risanare è opera comune al medico ed alla persona qualunque, e invece il risanare [III,139,15] medicalmente è opera peculiare di chi è artista nell’arte medica; così l’onorare i genitori è opera comune del virtuoso e del non virtuoso, ma l’onorare i genitori muovendo dalla saggezza è peculiare del sapiente. Sicché il sapiente possiede un’arte della vita, della quale arte è peculiare l’effettuare ciascuna opera a partire dalla migliore disposizione d’animo.

[2] XI, 207. [III,139,20] Ci sono invece altri i quali legittimano l’idea che queste opere si contraddistinguano per uniformità e buon ordine. Come infatti nelle arti intermedie è peculiare dell’artista il fare qualcosa in modo ben ordinato e l’essere uniforme nei risultati, (anche una persona qualunque potrebbe a volte fare un’opera d’arte, ma ciò è raro e non avviene ognora né nella stessa forma né nello stesso modo) così essi affermano [III,139,25] che opera del saggio è l’essere uniforme nelle azioni rette, mentre dello stolto è propria l’opera opposta.

SVF III, 517

Seneca ‘Epistulae morales’ XCV, 57. Un’azione non sarà retta se non fu retta la volontà, giacché è da questa che deriva l’azione. A sua volta la volontà non sarà retta se anche la postura abituale dell’animo non sarà tale, giacché da quest’ultima deriva la volontà. [III,139,30] Inoltre la postura abituale dell’animo non potrà essere al suo meglio se l’uomo non avrà compreso la natura delle cose ed elaborato il giudizio da darsi in ciascun caso.

SVF III, 518

Filone Alessandrino ‘Quod deus sit immutabilis’ 100, II, 78, 4 Wendl. Coloro che compiono qualche altro dovere con intelligenza inassenziente e loro malgrado, violentando le loro intime deliberazioni, non compiono un’azione retta.

SVF III, 519

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ I, 93, I, p. 85, 17 Wendl. Queste tre indicazioni: precetto, divieto, istruzione e parénesi, [III,139,35] sono differenti. Il divieto concerne le aberrazioni ed è diretto contro il vizioso. Il precetto concerne le azioni rette. La parénesi è diretta a chi sta nel mezzo ed è né vizioso né virtuoso, giacché egli aberra non tanto da vietargli [III,139,40] alcune cose e neppure compie azioni rette in armonia coi precetti della retta ragione, ma ha bisogno di parénesi la quale gli insegni a rattenersi dalle opere viziose e lo sproni a prendere di mira quelle virtuose. Al perfetto sapiente […] [III,140,1] non bisogna ingiungere, far divieti o parénesi, giacché egli non ha alcun bisogno di ciò. Per l’insipiente c’è invece bisogno di precetti e divieti. Per l’infante il bisogno è di parénesi e d’insegnamento. Come il grammatico e il musicista perfetti non hanno bisogno di alcuna prescrizione circa le loro arti, così chi è invece in difetto circa i [III,140,5] principi generali è come se avesse bisogno di certe leggi contenenti precetti e divieti. E per chi ha testé incominciato ad imparare c’è bisogno di insegnamento.

SVF III, 520

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1037c. Essi affermano che l’azione retta è un’ingiunzione della legge, mentre l’aberrazione è un divieto della legge e che perciò la legge [III,140,10] vieta molte cose agli insipienti ma non ingiunge loro nulla, giacché essi non sono capaci di compiere azioni rette.

SVF III, 521

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1037e. Essi dicono che anche il medico ingiunge al discepolo che taglierà e cauterizzerà, omettendo di specificare ‘quando e quanto sia opportuno’. Anche il musicista ingiunge al discepolo di suonare la lira e di cantare, omettendo di specificare ‘nel rispetto della melodia e [III,140,15] dell’armonia’. E pertanto essi castigano coloro che fanno queste cose male e non a regola d’arte, giacché fu loro ingiunto di farlo rettamente ed essi invece non lo hanno fatto rettamente. Ebbene, quando il sapiente ingiunge ad un inserviente di dire o di effettuare qualcosa e lo castiga qualora egli lo effettui intempestivamente o in modo indebito, manifestamente gli ingiunge di fare non un’azione retta ma un’azione intermedia. E se i sapienti ingiungono agli [III,140,20] insipienti di fare azioni intermedie, cosa impedisce che anche le ingiunzioni della legge siano dello stesso genere?

SVF III, 522

Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 43, I, p. 219, 14 Wendl. Le virtù perfette sono patrimonio soltanto del saggio perfetto e genuino. Delle attività doverose, quelle intermedie s’adattano invece anche agli individui imperfetti, quelli giunti fino al ciclo propedeutico di studi.

SVF III, 523

Origene ‘Comm. in Matth.’ III, p. 494, Delarue. [III,140,25] Alla legge divina si confà il vietare ciò che origina dal vizio e l’ingiungere ciò ch’è in armonia con la virtù. Tutte le attività che per la ragione divina come tale sono indifferenti, vanno lasciate sul terreno; potendo esse diventare, grazie alla proairesi e alla ragione che è in noi, aberrazioni se male effettuate e invece azioni rette se effettuate bene.

[III,140,30] § 3. Tutte le azioni rette sono equivalenti e lo stesso vale per quelle malvagie. Inoltre non vi è nulla di intermedio tra la virtù e il vizio

Frammenti n. 524-543

SVF III, 524

Cicerone ‘De finibus’ III, 45. Come l’opportunità (così chiameremo la εὐκαιρία) non cresce col passare del tempo, giacché le occasioni propizie hanno i loro momenti; così l’attività retta (chiamo κατόρθωσις l’attività retta, [III,140,35] dato che κατόρθωμα si rende con ‘azione retta’), ciò che è conveniente fare, e da ultimo il bene stesso, giacché esso è di per sé consentaneo alla natura, non possono subire incremento. E siccome l’opportunità, nonché le altre cose che ho menzionato non aumentano col tempo, agli Stoici pare che una vita beata lunga non sia più desiderabile né più da richiedersi [III,141,1] di una breve; e lo illustrano come segue. Se il pregio di un sandalo sta nel calzare bene il piede, un gran numero di sandali non ha più pregio di pochi sandali, né sandali di misura superiore hanno più pregio di sandali di misura inferiore. Allo stesso modo, quando si tratta di cose la cui bontà si definisce per la loro convenienza ed opportunità, il più non va preferito al meno, [III,141,5] né il più lungo al più breve.

SVF III, 525

[1] Porfirio ‘Aristot. Categ.’ p. 137, 29 Busse. Essi concepivano che certe posture dell’animo e gli stati qualitativi ad esse inerenti, come le virtù e gli stati qualitativi ad esse inerenti, non fossero compatibili con un meno e con un più; mentre altre posture dell’animo e gli stati qualitativi ad esse inerenti, come tutte le arti intermedie, [III,141,10] le qualità intermedie e gli stati qualitativi ad esse inerenti, fossero invece compatibili con un’intensificazione ed un’attenuazione. Questa è l’opinione della quale sono stati gli Stoici.

[2] II, n. 393. Essi affermano che le posture dell’animo possono intensificarsi ed attenuarsi, mentre invece le sue disposizioni non sono suscettibili di intensificazione e di attenuazione.

SVF III, 526

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038c. [III,141,15] Anche se ha scritto molte cose contrarie, Crisippo manifestamente aderisce alla tesi che non vi sia un vizio od una aberrazione che sia più eminente di un altro vizio o di un’altra aberrazione e neppure una virtù od un’azione retta che sia più eminente di un’altra virtù o di un’altra azione retta. Egli lo afferma nel terzo libro ‘Sulla natura’: “Come a Zeus conviene [III,141,20] fare il solenne con sé e con la propria vita pregiandoli grandemente e, per dir così, anche essere orgoglioso, essere fiero e vantarsi di vivere una vita degna di vanto; così questo conviene a tutti gli uomini buoni, giacché essi non sono sopravanzati in nulla da Zeus”.

SVF III, 527

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 120. Ha il loro beneplacito il ritenere, stando alle affermazioni di Crisippo nel quarto libro delle [III,141,25] ‘Questioni etiche’, di Perseo e di Zenone, che tutte le aberrazioni siano pari. Se infatti non esiste una verità maggiore di un’altra né una falsità maggiore di un’altra falsità, così neppure lo è un inganno di un altro inganno né un’aberrazione di un’altra aberrazione. Coloro che sono lontani cento stadi, o uno solo, da Canopo, altrettanto non sono a Canopo; e coloro che aberrano di più o di meno, fanno azioni parimenti scorrette.

SVF III, 528

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 106, 21 W. [III,141,30] Gli Stoici affermano che tutte le aberrazioni sono non simili, ma pari. Infatti è come se esse per natura scaturissero da una certa fonte del vizio, la quale è una determinazione che è sempre la stessa in tutte le aberrazioni. Ma poiché gli oggetti di natura intermedia sui quali hanno effetto le determinazioni sono differenti per via di una causa agente dall’esterno, ecco che le aberrazioni diventano qualitativamente differenti. [III,141,35] Potresti avere una chiara immagine di quanto intendo manifestare se rifletti su questo: tutto il falso avviene che sia falso alla pari, e non vi è mendacio che sia tale più di un altro. Che sia sempre notte è falso proprio come il fatto che viva l’ippocentauro, e non si può affermare che l’una cosa sia più falsa dell’altra. Ma poiché ogni falsità è parimenti falsa, non si può dire che anche le persone mendaci siano tutte [III,141,40] parimenti mendaci. Anche nell’aberrare non vi è un più e un meno, [III,142,1] poiché ogni aberrazione si effettua attraverso un mendacio. Inoltre, se non vi è azione retta che sia più o meno retta, neppure c’è un’aberrazione che sia più o meno tale. Si tratta di entità che sono tutte perfette, e perciò nessuna di esse potrebbe differenziarsi da un’altra per difetto o per eccesso.

SVF III, 529

Stobeo ‘Eclogae’ II, 113, 18 W. [III,142,5] Siccome tutte le aberrazioni e tutte le azioni rette sono pari; anche gli stolti sono tutti parimenti stolti, avendo pari ed identica disposizione d’animo. Pur essendo le aberrazioni pari, vi sono però tra di esse delle differenze, in quanto alcune nascono da una disposizione d’animo rigida ed immedicabile, altre no. [III,142,10] Ed alcuni fra i virtuosi sono più atti di altri ad esortare e a persuadere, e inoltre più perspicaci in relazione alle azioni intermedie coinvolte, nel caso avvengano intensificazioni di tali disposizioni.

SVF III, 530

Cicerone ‘De finibus’ III, 48. Come coloro che sono immersi in acqua non possono respirare, tanto se sono immersi poco sotto la superficie dell’acqua e quasi quasi stanno per emergere, tanto se si trovano ancora in acque profonde; [III,142,15] e come il cucciolo che sta per acquistare la vista vede non più di quello appena nato; così l’uomo che ha fatto qualche passo verso lo stato virtuoso è in miseria non meno di chi non ha fatto alcun progresso. […] Ma quantunque <gli Stoici> neghino che virtù e vizi possano crescere, tuttavia essi pensano che entrambi [III,142,20] possano in un certo senso espandersi e dilatarsi.

SVF III, 531

[1] Cicerone ‘De finibus’ IV, 75. Tutti le aberrazioni sono pari. In che modo? […] Come si dice di molte cetre, che se nessuna di esse ha le corde alla giusta tensione per tenere gli accordi, tutte sono parimenti scordate; così le aberrazioni, poiché sono discrepanze <con la natura delle cose>, sono tutte parimenti in discrepanza, e dunque sono pari.

[2] IV, 76. Come si dice che il nocchiero commette [III,142,25] parimenti un crimine sia che affondi una nave carica di paglia, sia che ne affondi una carica d’oro; così commette parimenti un crimine chi picchia ingiustamente un familiare o un servo.

[3] IV, 77. Poiché essi dicono che ogni aberrazione è frutto di debolezza e di incostanza, e questi vizi sono parimente grandi in tutti gli stolti, [III,142,30] necessariamente le aberrazioni sono pari.

SVF III, 532

Cicerone ‘De finibus’ IV, 21. L’insipienza, l’ingiustizia e gli altri vizi di tutti gli uomini sono simili; tutte le aberrazioni sono pari; coloro che per doti naturali e per dottrina acquisita abbiano lungamente progredito verso la virtù, se non l’hanno conseguita pienamente, sono nella più completa miseria e non c’è differenza alcuna [III,142,35] tra la loro vita e quella dei malvagi incalliti.

SVF III, 533

Porfirione ‘In Horat. Sat.’ I, 2, 62. Seguendo l’opinione degli Stoici, <Orazio> nega che vi sia differenza tra il delitto commesso contro una matrona, contro un’ancella o contro un’adultera, giacché le colpe sono tutte pari. Gli Stoici infatti non badano alla grandezza della colpa, [III,142,40] ma alla volontà di chi la commette.

SVF III, 534

Pseudo-Acrone ‘In Horat. epist.’ I, 1, 17. Seguace degli Stoici […] che non concedono la virtù se non alla perfetta filosofia. Invece i Peripatetici e altri filosofi concedono tale onore anche ai non perfetti.

SVF III, 535

Plutarco ‘Quom. quis in virt. sent. prof.’ 2, p. 75f. [III,143,1] Coloro che non mettono i loro giudizi a filo con i fatti ma forzano i fatti, per natura inammissibili con le loro ipotesi, ad adattarvisi, infarciscono la filosofia di molte aporie; la maggiore delle quali è quella che accomuna in una sola viziosità tutti [III,143,5] gli uomini eccetto uno: l’uomo perfettamente saggio. A causa di ciò è diventato un enigma quello che si chiama ‘progresso’; ed esso sfiora da vicino l’estrema stoltezza, dal momento che sarebbe qualcosa che rende similmente infelici coloro che ha affrancato dalle passioni e dagli stati morbosi, seppur non da tutti, e coloro che non si sono ancora allontani da nessuno dei peggiori mali. Ma costoro si contestano da soli quando, nelle loro conferenze, [III,143,10] pareggiano l’ingiustizia di Aristide e quella di Falaride, la viltà di Brasida e quella di Dolone e, per Zeus, affermano che quella di Meleto non differisce per nulla dalla mancanza di intelligenza di Platone; e però nelle faccende della vita scansano e fuggono certuni come gente impossibile da addolcire e invece usano e danno fiducia ad altri come persone di gran valore nelle faccende più importanti.

SVF III, 536

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 127. [III,143,15] Ha il beneplacito <degli Stoici> l’affermazione che non vi sia alcun grado intermedio tra la virtù e il vizio; mentre i Peripatetici, invece, sostengono che tra virtù e vizio vi sono gradi di progresso. Essi, infatti, dicono che come un pezzo di legno deve essere diritto o ricurvo così <un uomo> è giusto o è ingiusto, e non più giusto né più ingiusto. E similmente accade per la altre virtù.

SVF III, 537

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘Quaestiones’ IV, 3, p. 121, 14 Bruns. [III,143,20] <Si può dimostrare> che tra la giustizia e l’ingiustizia e, in complesso, tra la virtù e il vizio vi è una postura dell’animo che chiamiamo intermedia. Se infatti, come secondo loro, la giustizia e l’ingiustizia sono disposizioni d’animo durevoli e le disposizioni d’animo durevoli sono imperdibili, allora un individuo non potrebbe da ingiusto diventare giusto; né da giusto, ingiusto.

[2] 121, 24. Se <gli Stoici> dicessero che i vizi non sono [III,143,25] disposizioni d’animo durevoli né sono imperdibili, e che nulla impedisce che degli individui passino dall’ingiustizia alla giustizia e, in complesso, dal vizio alla virtù: a partire da quale stato è avvenuta la loro trasformazione in esseri viziosi?

[3] 121, 32. Se essi dicessero che i bambini non sono ancora esseri logici e che perciò sono né giusti né ingiusti (giacché queste sono posture di un essere logico e, se queste sono tali, allora [III,143,30] anche lo stato intermedio lo è; e dunque il bambino, essendo privo di ragione, è né virtuoso né vizioso né in uno stato intermedio tra i due, come accade a tutte le creature prive di ragione); e che quando si trasformano in esseri logici non diventano ma sono direttamente viziosi, allora ammetterebbero con ciò…

SVF III, 538

Origene ‘De princip.’ III, p. 129 Delarue. In terzo luogo diranno che [III,143,35] volere il bello e rincorrere il bello è una della attività intermedie e che ciò è né virtuoso né vizioso. Contro questo giudizio bisogna asserire che se volere il bello e rincorrere il bello è un’attività intermedia, allora anche il suo opposto è un’attività intermedia…

SVF III, 539

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1063a. Sì, essi dicono, [III,143,40] ma come chi è un braccio al di sotto della superficie del mare annega non meno di chi è affondato cinquecento tese, così coloro che stanno approssimandosi alla virtù sono non meno nel vizio di coloro che ne sono ben lungi. E come i ciechi sono ciechi anche qualora siano sul punto di recuperare la vista poco dopo, così i progredenti [III,144,1] restano dissennati e depravati fino a che non apprendano la virtù.

[2] Plutarco ‘Quom. quis in virt. sent. prof.’ 1, p. 75c. Così, nel filosofare, non si deve concepire un progresso né una sensazione di progresso [III,144,5] se prima l’animo non si sgrava e monda dalla scempiaggine; e finché non si impossessi del bene puro e perfetto esso persiste nell’uso del puro male. Giacché il sapiente, che in un solo istante muta disposizione d’animo passando dal massimo grado dell’insipienza al colmo della virtù, è insieme sfuggito repentinamente ad ogni vizio, parte [III,144,10] del quale non era riuscito ad eliminare neppure nel corso di molto tempo. Eppure tu già sai che quanti fanno queste affermazioni procurano poi a se stessi molti fastidi e grandi aporie a proposito del ‘sapiente a sua insaputa’, il quale non ha ancora afferrato di essere diventato sapiente, anzi lo ignora ed è nell’incertezza che sia avvenuta, a chi poco per volta e nel corso di molto tempo ha eliminato [III,144,15] alcuni giudizi ed altri ne ha addizionato, la consegna della virtù, proprio come una marcia di congiunzione ad essa impercettibile e senza scosse. Ma se davvero la rapidità e la grandezza della trasformazione fossero tali che da pessimo al mattino uno diventa eccellentissimo la sera, o se a qualcuno capitassero per caso modalità di trasformazione per cui, addormentatosi insipiente si risvegliasse sapiente così da poter dire, [III,144,20] una volta sgravato l’animo dalle scempiaggini e dagli inganni di ieri:

‘falsi sogni, salute: non eravate proprio niente’;

chi potrebbe ignorare l’avvento in lui di una così grande differenza interiore ed assieme il fatto che a lui riluce la saggezza?

SVF III, 540

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 113 W. Essi legittimano l’idea che uno possa diventare [III,144,25] sapiente anche in un primo tempo a sua insaputa, senza desiderare qualcosa né, in complesso, trovarsi in uno di tali stati specifici del volere, perché quelli di cui abbisogna gli sono presenti senza ch’egli li abbia determinati. E affermano che simili puntualizzazioni saranno valide non soltanto nel caso della saggezza ma anche delle altre arti.

SVF III, 541

Filone Alessandrino ‘De agricultura’ 160, II, p. 127, 23 Wendl. Coloro che non [III,144,30] centrano questi obiettivi (di costante studio ed allenamento) sono dai filosofi chiamati ‘sapienti a loro insaputa’. Essi, infatti, affermano inconcepibile che coloro che si sono spinti innanzi fino alle vette della sapienza e ne hanno testé toccato per la prima volta quasi i confini, siano coscienti della loro perfezione. Giacché non possono sussistere entrambe le condizioni contemporaneamente: ossia il raggiungimento del limite e l’apprensione certa del suo raggiungimento. [III,144,35] Ma si tratta di un’ignoranza che è limitrofa alla scienza e non bandita lontano da essa, anzi vicina ad essa e come alla sua porta.

SVF III, 542

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1061f. Inoltre è contrario al concetto comune [III,145,1] che l’immutabilità e la saldezza delle determinazioni sia il massimo dei beni ma che chi si muove verso la vetta del progresso morale non abbia bisogno di ciò né gli dia importanza quando gli è presente, e che spesso egli non porge neppure un dito al fine di ottenere questa sicurezza e questa saldezza da loro legittimata come un bene grande e perfetto.

SVF III, 543

Proclo ‘In Platonis Alcibiad.’ III, p. 158 Cousin. [III,145,5] Rettamente gli Stoici sono soliti affermare che l’individuo non educato alla diairesi accagiona della propria infelicità gli altri e non se stesso; che il progredente riferisce a se stesso la causa di tutto ciò che fa o dice male; e che l’uomo educato alla diairesi non accagiona né se stesso né gli altri delle sue proprie trascuratezze. [III,145,10] …… (manca ) giacché è proprio lui primo autore del rinvenimento di ciò ch’è doveroso.

ETHICA IX.

Il sapiente e l’insipiente

Frammenti n. 544-547

SVF III, 544

Origene ‘In Evang. Ioannis’ II, 10, p. 122 Lo. Esistono presso i Greci alcuni giudizi chiamati ‘paradossi’ il maggior numero dei quali, [III,146,5] con qualche dimostrazione o apparente dimostrazione, s’appicca secondo loro al sapiente. In conformità a questi paradossi essi affermano che soltanto il sapiente è sotto ogni riguardo sacerdote, poiché soltanto il sapiente ha sotto ogni riguardo scienza del culto divino; che soltanto il sapiente è sotto ogni riguardo libero, poiché ha ottenuto dalla legge divina una potestà di autodeterminazione pratica; e definiscono la ‘potestà’ una delega legale.

SVF III, 545

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1041f. [III,146,10] Nel terzo libro ‘Sulla giustizia’ <Crisippo> ha affermato: “Perciò, a causa dell’enormità della grandezza e della bellezza (del sapiente), sembra che noi diciamo cose simili alle fittizie e non conformi all’uomo ed alla natura delle cose umane”.

SVF III, 546

Plutarco ‘Quaest. Conviv.’ I, 9, p. 626f. Teone … rivoltosi allo Stoico [III,146,15] Temistocle, era assai incerto sul perché mai Crisippo, dopo avere menzionato molte cose illogiche ed assurde, per esempio: “il pesce sotto sale diventa più dolce se bagnato con salamoia” oppure “i bioccoli di lana sono meno docili nelle mani di coloro che li dilaniano con violenza che non in quelle di coloro che li disaggregano senza scosse” e anche “chi digiuna è più tardo nel mangiare [III,146,20] di chi ha appena mangiato”, non spiegasse la causa di ciascuna di esse. Temistocle diceva che Crisippo propone accidentalmente queste cose a mo’ di esempio, poiché noi siamo facilmente ed irragionevolmente catturati da ciò ch’è verosimile e, al contrario, non prestiamo fiducia a ciò che ci appare inverosimile, e rivolgendosi a Teone: ‘A te, diceva…

SVF III, 547

Proclo ‘In Euclidem’ 35, 25, p. 397 Friedlein. [III,146,25] Anche i cultori della matematica hanno elaborato dei cosiddetti paradossi, come hanno fatto gli Stoici nei loro saggi…

§ 1. Il saggio non inganna e non si lascia ingannare

Frammenti n. 548-556

SVF III, 548

Stobeo ‘Eclogae’ II, 111, 18 W. Essi affermano che lo Stoico non concepisce [III,146,30] mai il falso e non dà assolutamente il proprio [III,147,1] assenso a qualcosa di non catalettico, poiché non si basa affatto né sull’opinione né sull’ignoranza, essendo l’ignoranza un assenso volubile e debole. Egli non concepisce nulla debolmente ma piuttosto con sicurezza e con saldezza, e anche per questo il sapiente non opina. Le opinioni sono di due tipi: il primo è l’assenso a qualcosa di non bene afferrato, il secondo è la concezione [III,147,5] debole. Queste sono disposizione d’animo estranee al sapiente e perciò la precipitazione nel dare il proprio assenso prima dell’apprensione certa s’addice all’insipiente precipitoso e non accade all’uomo di buona natura, perfetto e virtuoso. Né al sapiente sfugge di mente qualcosa, giacché la dimenticanza è indicativa della concezione di una falsa realtà. In conseguenza di ciò il sapiente non diffida di sé, giacché [III,147,10] la diffidenza è concezione di un falso; mentre il fatto che egli nutra fiducia in sé è cosa virtuosa, giacché essa è un’apprensione certa, potente e che rinsalda ciò che egli ha concepito. Anche la scienza, in modo simile, è resa immutabile dal ragionamento e perciò gli Stoici affermano che l’insipiente non ha scienza di nulla né fiducia in nulla. Dopo di che, il sapiente non si lascia prevaricare né menare pel naso né irreggimentare, e neppure imbroglia né [III,147,15] si lascia imbrogliare da un altro. Tutti questi comportamenti, infatti, includono in sé un inganno e la proposizione dell’assenso, di volta in volta, a false realtà. Nessuno dei virtuosi sbaglia strada, né casa, né scopo; e gli Stoici legittimano l’idea che il sapiente non abbia difetti né di vista né di udito e che i suoi organi di senso, in totale, non sbaglino nel cogliere qualcosa, giacché ciascuno di questi ha a che fare con i falsi [III,147,20] assensi. Essi affermano poi che il sapiente non sottintende nulla, giacché il sottinteso è assenso ad un genere di realtà non bene afferrato; e concepiscono che l’uomo assennato non si penta, perché il pentimento ha a che fare con un falso assenso, come se esso fosse stato prima accordato in modo precipitoso. Il sapiente, inoltre, non è in alcun modo mutevole, non ritratta e non inciampa, giacché tutte queste cose sono proprie [III,147,25] di quanti sono volubili nei giudizi. E questo è estraneo all’uomo assennato al quale, affermano gli Stoici similarmente a quanto detto, nulla ‘sembra’.

SVF III, 549

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. Inoltre il sapiente non opinerà, cioè non assentirà ad alcuna falsità.

SVF III, 550

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 157. Il sapiente non è uno [III,147,30] degli ‘opinanti’. Secondo loro, infatti, questo sarebbe causa della stoltezza e delle aberrazioni.

SVF III, 551

Cicerone ‘Academica’ II, 48. Specialmente perché proprio voi dite che il saggio, quand’è furioso, sospende qualunque assenso, giacché non distingue più tra le diverse rappresentazioni.

SVF III, 552

Agostino ‘Soliloquia’ I, 4, 9. P. L. XXXII, col. 873. Non esiti [III,147,35] a chiamare scienza, se mai ne hai una, la dottrina di queste cose? No, purché me lo concedano gli Stoici, i quali attribuiscono la scienza al solo sapiente. Certo, non nego di percepire queste cose, ma questa essi la concedono anche agli stolti.

SVF III, 553

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 4. Rettamente Zenone e gli Stoici [III,147,40] l’opinione: infatti, opinare di sapere ciò che non sai non è del saggio ma piuttosto del temerario e dello stolto. [III,148,1] Dunque, se nulla si può sapere, come insegna Socrate; e non bisogna opinare, come insegna Zenone, allora l’intera filosofia è soppressa.

SVF III, 554

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 111, 10. Si afferma che il sapiente non mente [III,148,5] ma dice in ogni occasione la verità, giacché il mentire non sta nel dire qualcosa di falso ma nel dire il falso in modo mendace e per ingannare chi si ha dintorno. Gli Stoici legittimano pertanto l’idea che il sapiente adopererà a volte il falso in molti modi, senza però prestarvi assenso: come strategia contro i rivali [III,148,10] o in previsione di un utile o di molti altri tipi di vantaggi di vita.

SVF III, 555

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ XII, 1, 38. In primo luogo è d’uopo che tutti mi concedano ciò che anche i rigorosissimi Stoici ammettono, ossia che il saggio dirà a volte il falso e talora per motivi triviali: così come accade con i bambini malati, ai quali raccontiamo molte bugie per il loro bene, e promettiamo molte cose che poi non faremo; [III,148,15] ed a maggior ragione per distogliere un grassatore da un omicidio o per ingannare il nemico e far salva la patria. In questo modo ciò che altrimenti va riprovato pure in uno schiavo, a volte sia invece da lodarsi nel saggio.

SVF III, 556

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 122. Inoltre i sapienti sono anche al riparo dalle aberrazioni [III,148,20] in quanto non incappano in esse.

§ 2.Il sapiente agisce sempre bene

Frammenti n. 557-566

SVF III, 557

Stobeo ‘Eclogae’ II, 65, 12 W. <Gli Stoici> affermano anche che il sapiente fa ogni cosa in armonia con tutte le virtù, giacché ogni sua azione è perfetta e dunque non mancante di virtù alcuna.

SVF III, 558

Filone Alessandrino ‘De fortitudine’ II, p. 426 Mang. [III,148,25] Sicché nulla, in ciascuna giornata del virtuoso, è lasciato isolato e aperto al passaggio delle aberrazioni, ma in tutte le sue parti ed intervalli essa è riempita di nobiltà d’animo. La virtù e il bello si giudicano non dalla quantità ma dalla qualità, laonde <gli Stoici> concepirono che un giorno solo vissuto rettamente avesse un valore uguale alla bella vita di un sapiente. […] [III,148,30] Perciò in tutti i suoi moti e in tutte le sue relazioni il virtuoso è degno di lode, dentro e fuori, ed è un politico e assieme un amministratore, poiché da amministratore mantiene retta la propria interiorità e da politico rettifica le cose esteriori per quanto sia utile.

SVF III, 559

Filone Alessandrino ‘De anim. sacrificio idon.’ II, p. 249 Mang. Allo stesso [III,148,35] modo avviene che le scarsezze nella nobiltà d’animo degli uomini virtuosi e amanti degli dei siano meglio delle azioni rette che gli insipienti compiono per caso.

SVF III, 560

Stobeo ‘Eclogae’ II, 66, 14 W. Essi affermano anche che il sapiente fa bene tutto quel che fa. Ed è manifesto, giacché al modo in cui noi diciamo che il flautista o il citaredo fanno tutto bene, intendendo con ciò la loro sottomissione alle regole dell’arte del flauto [III,148,40] o della cetra; allo stesso modo, quando diciamo che il saggio fa tutto bene, intendiamo sia quanto fa e non, per Zeus, anche quanto non fa. Il giudizio poi che il sapiente faccia tutto bene, <gli Stoici> l’hanno creduto conseguente al fatto che egli realizza tutto secondo la retta ragione e, come dire, secondo virtù, la quale è arte [III,149,1] riguardante la vita intera. In modo analogo, tutto ciò che l’insipiente fa, lo fa male e in conformità a tutti i vizi.

SVF III, 561

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 125. Il sapiente fa bene ogni cosa, così come [III,149,5] noi diciamo che Ismenia suona bene sul flauto qualunque aria per questo strumento.

SVF III, 562

Dione Crisostomo ‘Orationes’ LXXI, 5. Io dico che il filosofo non è tale da conoscere tutte le arti (giacché è arduo esercitarne anche una soltanto con precisione) ma che egli fa tutto ciò che gli capita di fare meglio degli altri uomini e che, quanto alle arti, [III,149,10] se qualche volta sarà costretto ad accostarsi a qualcosa del genere, egli non si segnalerà nell’arte in quanto tale, non essendo infatti possibile che il profano in falegnameria operi meglio di un falegname o che chi è inesperto di agricoltura appaia più esperto dell’agricoltore in qualche lavoro agricolo. Dove potrebbe allora segnalarsi il filosofo? Coll’operare o non operare in modo utile e col conoscere il quando si deve, il dove, il momento opportuno di un’opera e [III,149,15] anche la sua possibilità meglio dell’artigiano.

SVF III, 563

Stobeo ‘Eclogae’ II, 102, 20 W. L’uomo assennato fa tutto bene poiché utilizza costantemente le sue esperienze di vita in modo saggio, con padronanza di sé, con compostezza e disciplinatamente. Invece l’insipiente, dal momento che è inesperto del loro retto uso, agendo in conformità a questa disposizione d’animo fa tutto male, poiché è facile alla volubilità [III,149,20] ed intrappolato dal rimorso per ogni sua azione. Il rimorso è afflizione per cose aberranti effettuate, in quanto avvenute per nostra responsabilità; ed è una passione che dà infelicità all’animo e lo pone in guerra con se stesso. Chi prova rimorso, infatti, di quanto s’adonta per le vicende avvenute, di altrettanto freme contro di sé come loro causa. Perciò l’insipiente è in ogni caso disonorevole, in quanto persona sia indegna d’onore [III,149,25] che priva di onorevolezza. L’onore è infatti dignità di un premio, e il premio è la ricompensa di una virtù benefica. Dunque, è giusto chiamare disonorevole chi non partecipa della virtù.

SVF III, 564

Stobeo ‘Eclogae’ II, 115, 5 W. <Gli Stoici> affermano che al virtuoso nulla succede che sia contrario al suo desiderio, al suo impulso o al suo progetto, giacché egli fa tutte le cose di questo genere ‘con riserva’, e [III,149,30] nessuna delle avversità che lo incolgono è contraria alle sue prolessi.

SVF III, 565

Seneca ‘De beneficiis’ IV, XXXIV, 4. Il saggio non cambia opinione se tutto permane qual era quando prese la decisione. Egli, quindi, non conosce il rimorso, giacché non si poteva fare meglio di come si fece, né decidere meglio di come si decise. Del resto, il saggio intraprende [III,149,35] ogni azione con una certa riserva, ossia: “Se non capita nulla che lo impedisca”. Pertanto noi diciamo che a lui tutto va per il verso giusto e nulla va contro le sue previsioni, perché nel suo animo egli già mette in conto che può capitare qualcosa che vanifica i piani prestabiliti.

SVF III, 566

Filone Alessandrino ‘Quod deus sit immutabilis’ 22, II, 61, 1 Wendl. Eppure [III,149,40] alcuni sostengono che non tutti gli uomini siano ambivalenti nei loro punti di vista. Infatti, coloro che praticano la filosofia senza dolo e con purezza trovano nella scienza il sommo bene e da essa ritraggono l’essere non coinvolti nella mutevolezza delle vicende, anzi il poter porre mano a tutto quanto è loro acconcio con fermezza non oscillante e con compatta saldezza.

[III,150,1] § 3.Il sapiente è esente dai mali

Frammenti n. 567-581

SVF III, 567

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 99, 9 W. Poiché utilizza le sue esperienze di vita in ciò che effettua, il virtuoso fa tutto bene, ossia in modo saggio, con temperanza [III,150,5] e in armonia con le altre virtù; mentre l’insipiente, al contrario, fa tutto male. Inoltre il virtuoso è grande, massiccio, d’elevato sentire, potente. Grande, perché è capace di ottenere le cose proairetiche che si è proposto; massiccio, perché è cresciuto in ogni senso; d’elevato sentire, perché condivide l’altezza d’animo che spetta all’uomo nobile e sapiente; potente, perché si è procacciata la potenza che gli spetta, [III,150,10] dal momento che è invitto e senza antagonisti. Perciò egli è non costretto da alcuno né costringe alcuno, è non impedito né impedisce, non subisce violenza da alcuno né la esercita su alcuno, è non dispotico né subisce il dispotismo altrui, non maltratta alcuno né è maltrattato, non incappa nei mali <né vi fa incappare un altro>, è non ingannato e non inganna un altro, [III,150,15] è non mendace, non ignora, è non occulto a se stesso e, in generale, non concepisce il falso. È al massimo grado felice, fortunato, beato, opulento dei veri beni, pio, caro agli dei, di gran pregio, regale, dotato di capacità strategica, politico, amministratore, atto a fare denari. Gli insipienti, invece, hanno qualità tutte opposte a queste.

[2]p. 102, 20 W. (= 563, parte) [III,150,20] L’uomo assennato fa tutto bene poiché utilizza costantemente le sue esperienze di vita in modo saggio, con padronanza di sé, con compostezza e disciplinatamente. Invece l’insipiente, dal momento che è inesperto del loro retto uso, agendo in conformità a questa disposizione d’animo fa tutto male, poiché è facile alla volubilità ed intrappolato dal rimorso per ogni sua azione. Il rimorso è afflizione [III,150,25] per cose aberranti effettuate, in quanto avvenute per nostra responsabilità; ed è una passione che dà infelicità all’animo e lo pone in guerra con se stesso. Chi prova rimorso, infatti, di quanto s’adonta per le vicende avvenute, di altrettanto freme contro di sé come loro causa.

SVF III, 568

Aezio ‘Placita’ IV, 9, 17. Gli Stoici affermano che si può riconoscere in modo irrefutabile il sapiente a colpo d’occhio, dal suo solo aspetto esteriore.

SVF III, 569

Varrone ‘Saturae Menippeae’ ed. Riese p. 222. In uno stadio fatto di carta [III,150,30] combatto la mia gara funebre, come chi lottasse con l’animo, caro il mio uomo, più attratto dal pancrazio degli Stoici che da quello dei pugili.

SVF III, 570

[1] Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 14. Chi è forte ha anche fiducia in sé, […] e chi ha fiducia in sé non ha certo paura, giacché la fiducia in sé è ben diversa dalla paura. [III,150,35] Ora, chi si affligge ha anche paura, giacché le cose in presenza delle quali noi ci affliggiamo sono le stesse che temiamo quando incombano o ci vengano addosso. Così accade che fortezza ed afflizione siano cose incompatibili. È poi verosimile che chi cade in afflizione cada anche nella paura, nello scoramento e nell’avvilimento, tutte cose che inducono chi ne è preda a comportamenti servili, [III,150,40] e, se capita, a darsi per vinto; e chi ammette ciò deve necessariamente ammettere la propria vigliaccheria e codardia. Nulla di ciò cade nell’animo di un uomo forte, e dunque neppure l’afflizione. Ma nessuno è saggio se non è forte; quindi il saggio non cade mai in afflizione. Inoltre, [III,151,1] chi è forte è necessariamente anche magnanimo; chi è magnanimo è anche invitto; e chi è invitto guarda le vicende umane dall’alto in basso, valutandole non alla propria altezza. Ma nessuno può guardare dall’alto in basso cose capaci di affliggerlo; e ciò fa sì che l’uomo forte non sia mai preda dell’afflizione. [III,151,5] Tutti i saggi sono invece forti, e dunque nessun saggio cade in afflizione. Come l’occhio infiammato è incapace di svolgere bene la propria funzione, e come le altre parti del corpo o il corpo intero, se allontanati dal loro stato naturale vengono meno ai propri doveri e compiti; così l’animo in scompiglio non è atto ad eseguire il proprio compito. Ora, è compito dell’animo [III,151,10] usare rettamente la ragione; ma l’animo del saggio è sempre disposto in modo da utilizzare al meglio la ragione; esso pertanto non è mai preda della passione. Ma l’afflizione è una passione dell’animo e dunque il saggio ne sarà sempre esente.

[2] III, 18. Chi è frugale o, se preferisci, moderato e temperante, è necessariamente capace di affetti positivi; chi è capace di affetti positivi è anche quieto; [III,151,15] chi è quieto è libero dalle passioni e dunque anche dall’afflizione. Queste sono le doti proprie del saggio, e l’afflizione ne starà sempre alla larga.

SVF III, 571

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 73 (p. 302 Aucher). Il lutto non trova posto nelle persone integre, ed ogni saggezza e virtù è incorruttibile. [III,151,20] Invece si è necessariamente preda di afflizione riguardo a ciò che si può avere e però non si ha. Dobbiamo dunque prestare la massima attenzione a ciò che salvaguarda il saggio dal pianto e dal lutto. […] giacché le cose che capitano all’improvviso ed hanno il sopravvento sulla volontà dell’uomo, coartano e prostrano il pusillanime, mentre l’uomo costante riescono sì ad atterrarlo con assalti forti [III,151,25] ma non tali da finirlo, ed anzi sono duramente respinte e costrette alla ritirata da chi conserva la padronanza di sé.

SVF III, 572

Agostino ‘De vita beata’ c. 25. Dunque, io direi, nessuno nega che chi è indigente sia infelice; né ci atterrisce che certe cose siano necessarie al corpo dei saggi. Non è però il loro animo, nel quale è riposta la vita felice, ad averne bisogno. [III,151,30] Il saggio è infatti perfetto, e nessuno che sia perfetto manca di qualcosa; mentre ciò che gli appare necessario al corpo egli lo acquisirà se c’è, e se non c’è, la mancanza di queste cose non gli spezzerà l’animo. Ogni saggio è forte, e nessuno che sia forte teme alcunché. Pertanto il saggio non teme la morte o i dolori del corpo, per allontanare o evitare o differire i quali sono necessarie cose di cui egli potrebbe trovarsi carente; [III,151,35] e delle quali tuttavia, se non mancano, egli non tralascia di fare buon uso. È dunque verissimo il detto: ‘È da stolti subire ciò che puoi evitare’. Egli scanserà dunque la morte e il dolore quanto può e quanto sta bene, e se proprio non riuscisse ad evitarli non si riterrà infelice perché essi accadono, bensì perché, potendoli evitare, [III,151,40] non l’ha fatto: il che è segno manifesto di stoltezza. Non evitandoli, sarà dunque infelice non per dover sopportare tali cose ma per la propria stoltezza. Se invece, pur agendo con sollecitudine e con onestà non sarà riuscito ad evitarli, la loro prepotenza non lo farà infelice. Non meno vero è infatti anche l’altro detto dell’autore comico: ‘Poiché non può accadere quel che vuoi, cerca di volere quel che può accedere’. Come potrà mai essere infelice [III,151,45] colui al quale nulla accade contro la sua volontà? Infatti egli non può volere quel che prevede non possa accadergli; sicché il saggio vuole soltanto cose assolutamente certe, e qualunque cosa faccia [III,152,1] la fa sempre in armonia con ciò che prescrivonola virtù e la divina legge della saggezza, che a nessun patto possono essergli strappate dall’animo.

SVF III, 573

Seneca ‘De beneficiis’ II, XVIII, 4. Tante volte devo far presente che io [III,152,5] non sto parlando dei saggi, per i quali ogni dovere è un piacere, che hanno piena padronanza del proprio animo, si danno la legge che preferiscono e, una volta datasela, la osservano.

SVF III, 574

Stobeo ‘Florilegium’ 7, 21. Di Crisippo. Crisippo soleva dire che il sapiente prova sofferenza ma è non tormentato, giacché non cede [III,152,10] con l’animo. Ed egli ha, sì, dei bisogni, ma non s’aspetta nulla.

SVF III, 575

‘Commento a Lucano’ Libro IX, 569 p. 304 Us. Nessuna violenza fa vacillare il saggio, né lo spaventa la fortuna col suo dare e togliere delle cose: egli sopporterà di buon animo qualunque cosa la sorte iniqua gli riservi. Gli Stoici negano che il saggio sia affetto da mali…

SVF III, 576

[1] Minucio Felice ‘Octavius’ cp. 37. Dio mio, che bello spettacolo [III,152,15] quando il Cristiano incontra il dolore; quando non si scompone dinanzi alle minacce, ai supplizi e alle torture; quando calpesta irridendoli lo strepito della morte e l’orrore del carnefice; quando drizza la sua libertà contro re e principi e cede soltanto a dio, di cui egli è; quando da vincitore in trionfo insulta proprio colui che ha sentenziato la sua condanna. In fin dei conti vince colui [III,152,20] che ottiene ciò cui aspirava.

[2] Sen. ‘Dialoghi’ I, 2, 7. È provato che Minucio qui segue esempi Stoici.

SVF III, 577

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ V, 13. Questa la vera virtù che anche i filosofi vanno fieri, non coi fatti ma con vuote parole, di esaltare; sostenendo che nulla è tanto congruo alla serietà e costanza del saggio quanto il fatto che nessuna terribile minaccia può smuoverlo dalla parola data. [III,152,25] La vera virtù è essere di tempra tale da morire crocifisso per non tradire la propria fede, non venir meno al dovere e non macchiarsi di un’ingiustizia per paura della morte o se sottoposto a un atroce dolore.

SVF III, 578

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 110 W. <Gli Stoici> affermano anche che il sapiente è estraneo agli oltraggi. Egli, infatti, è non oltraggiato né oltraggia, poiché l’oltraggio è [III,152,30] un’ingiustizia che svergogna e danneggia; mentre il virtuoso non subisce ingiustizia né danno, seppure alcuni, agendo in questo ingiustamente, si relazionino a lui in modo proclive all’ingiustizia e all’oltraggio. Oltre a ciò dicono che l’oltraggio è non un’ingiustizia qualunque ma quella fatta per svergognare ed oltraggiare. L’uomo assennato, però, non incappa in nulla di tutto ciò ed [III,152,35] in nessun modo è svergognato, giacché egli ha in se stesso il bene e la virtù divina e perciò si è allontanato da ogni vizio e da ogni danno.

SVF III, 579

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1044a. Nessuno subisce un’ingiustizia se non subisce un danno. Donde Crisippo, dopo avere dichiarato [III,152,40] in altri luoghi che il sapiente non subisce ingiustizia, qui [nel primo libro ‘Sulle vite’] afferma che il sapiente è passibile di qualche ingiustizia.

SVF III, 580

Seneca ‘De beneficiis’ II, XXXV, 2. Alcuni assunti di noi Stoici cozzano con le idee correnti, ma poi ad esse ritornano per altra via. Noi neghiamo che il saggio possa ricevere offesa, e tuttavia chi lo percuote con un pugno sarà condannato per lesioni. [III,153,1] Neghiamo che lo stolto possegga qualcosa, eppure condanneremo per furto chi allo stolto ha sottratto qualcosa; diciamo che tutti gli uomini sono pazzi, eppure non tutti li curiamo con l’elleboro; anzi, proprio a costoro che chiamiamo pazzi diamo il diritto di voto e affidiamo l’amministrazione [III,153,5] della giustizia.

SVF III, 581

Stobeo ‘Eclogae’ II, 115, 18 W. Essi affermano che l’uomo dabbene, poiché non suscettibile di calunnia, è del tutto estraneo ad essa; sia nel senso che non ne rimane vittima, sia in quanto egli non calunnia un altro. La calunnia è una rottura tra amici apparenti per una ragione falsa. Essere calunniati e calunniare non riguarda gli [III,153,10] uomini virtuosi ma soltanto gli insipienti, e perciò coloro che sono davvero amici non sono calunniati né calunniano, mentre soltanto quelli che tali sembrano o appaiono agiscono così.

§ 4. Il sapiente è felice

Frammenti n. 582-588

SVF III, 582

Cicerone ‘De finibus’ III, 26. Siccome questo è il fine supremo: vivere in modo conveniente e congruente con la natura; ne consegue [III,153,15] necessariamente che tutti i saggi hanno sempre una vita felice, compiuta, fortunata, e priva di impedimenti, proibizioni e bisogni.

SVF III, 583

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 92 (p. 318 Aucher). L’intera vita del saggio è tutta piena di felicità, e non ne resta parte [III,153,20] alcuna nella quale possa irrompere il peccato.

SVF III, 584

Dione Crisostomo ‘Orationes’ LXIX, 4. Se l’animo loro diventerà cosciente e la loro mente buona ed essi saranno in grado di effettuare rettamente le faccende proprie e quelle altrui, ebbene è necessario che costoro vivano anche felicemente, poiché sono diventati uomini rispettosi della legge, hanno [III,153,25] centrato il buon genio e sono amici degli dei. Giacché è inverosimile che alcuni siano saggi e che siano altri ad essere esperti delle faccende umane, né che alcuni abbiano scienza delle faccende umane mentre sono altri ad avere scienza delle faccende divine, né che alcuni siano scienziati delle faccende divine mentre sono altri ad essere santi, né che alcuni siano [III,153,30] santi mentre sono altri ad essere cari agli dei, né che gli uni siano cari agli dei mentre sono gli altri ad essere felici. Neppure avviene che gli uni siano individui stolti mentre sono gli altri ad ignorare le faccende loro confacenti, né che coloro che ignorano le proprie faccende conoscano quelle divine, né che [III,153,35] coloro che hanno concezioni da insipiente circa le cose divine non siano sacrileghi. Neppure, allora, è possibile che gli individui sacrileghi siano amici degli dei, né che quanti sono non amici degli dei non abbiano cattiva sorte.

SVF III, 585

Stefano ‘Comment. in Aristot. Rhet.’ III, p. 325, 13 Rabe. Gli Stoici chiamano felice chi regge a guai [III,153,40] degni di Priamo.

SVF III, 586

[III,154,1] Gregorio Nazianzeno ‘Epist.’ 32. P. G. XXXVII, col. 72. Io lodo la baldanza e l’apertura di mente degli Stoici, i quali affermano che nessuna delle cose esterne è di impedimento alla felicità, e che l’uomo virtuoso è beato anche se il toro di Falaride lo avesse bruciato.

SVF III, 587

Stobeo ‘Eclogae’ II, 101, 5 W. [III,154,5] Gli insipienti non partecipano di alcuno dei beni, dacché bene è la virtù o quanto partecipa della virtù; e i debiti giovamenti connessi ai beni toccano soltanto ai virtuosi. Così come i debiti detrimenti connessi ai mali toccano soltanto ai viziosi. E per questo tutti [III,154,10] i virtuosi sono indenni in ambo i sensi, cioè tali da non arrecare né subire alcun danno; mentre per gli insipienti vale il contrario.

SVF III, 588

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 123. Essi sono indenni, giacché non danneggiano altri né se stessi.

§ 5.Il sapiente è ricco, bello, libero

Frammenti n. 589-603

SVF III, 589

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 100, 7 W. [III,154,15] In generale, ai virtuosi appartengono tutti i beni e agli insipienti tutti i mali. Ma non si deve legittimare l’idea che gli Stoici affermino che se esistono dei beni, quei beni appartengono ai virtuosi; e similmente riguardo ai mali. Piuttosto, che i primi hanno tanti beni da non scarseggiare affatto di essi per una vita perfettamente [III,154,20] felice; mentre i secondi hanno tanti mali da far sì che la loro sia una vita imperfetta e infelice.

SVF III, 590

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 125. Tutto è dei sapienti, giacché la legge ha dato loro una potestà definitiva al riguardo. Si afferma anche che alcune cose sono degli insipienti, ma al modo in cui noi diciamo delle cose frutto di ingiustizia che esse sono, in un certo senso, di proprietà dello Stato e, in un altro, di [III,154,25] coloro che le stanno utilizzando.

SVF III, 591

Cicerone ‘De finibus’ III, 75. Rettamente si dirà <del saggio> che tutte le cose gli appartengono, giacché egli è il solo a conoscere l’uso appropriato di tutte. Egli sarà rettamente chiamato bello, giacché i lineamenti dell’animo sono più belli di quelli del corpo; rettamente l’unico libero, giacché non si assoggetta al dominio di alcuno né obbedisce alla cupidigia; rettamente invitto, [III,154,30] com’è di colui il cui animo non può essere incatenato pur se il corpo è gettato in prigione.

SVF III, 592

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 99 (p. 323 Aucher). Non stimare che io paragoni la bellezza a quella denominata avvenenza del corpo che deriva dalla simmetria delle sue parti e dal decoro delle forme. [III,154,35] Questa appartiene anche alle meretrici, che io non chiamerei mai belle, ma al contrario persone deformi, giacché questo è il nome, se ce n’è uno, che loro si attaglia. […] Come le proprietà del corpo appaiono allo specchio, così quelle dell’animo traspaiono dall’espressione del volto. L’aspetto impudente, la testa alta, il frequente battito delle ciglia, [III,155,1] l’incedere lascivo senza mai arrossire né vergognarsi per alcuna sconcezza, è segno [III,155,5] di un’anima quanto mai deforme che dipinge e rappresenta con evidenza sul corpo le immagini nascoste del proprio vituperio. Invece colui nel quale abitassero i segni del divino visibili nella sua pratica della saggezza e dalla virtù, è bellissimo seppure per deformità d’aspetto superasse un Sileno. [III,155,10] Il bene per lui consiste infatti nel presentarsi all’accettazione di chi lo vede, rispettosamente e vestito del proprio pudore.

SVF III, 593

Stobeo ‘Eclogae’ II, 101, 14 W. Essi affermano che la vera ricchezza è il bene e la vera povertà il male; che bene è, [III,155,15] in verità, la libertà e male, in verità, la servitù; e che perciò soltanto il virtuoso è ricco e libero mentre, al contrario, l’insipiente è povero, poiché si è defraudato delle risorse per arricchirsi ed è servo per la sua disposizione d’animo a prostrarsi.

SVF III, 594

Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ II, p. 72 Ald. [III,155,20] Coloro i quali affermano che soltanto il sapiente è ricco o che soltanto lui è bello o d’indole nobile o maestro d’eloquenza, non ignorano le caratteristiche del sapiente ma le chiamano ricchezza o bellezza o indole nobile violando il modo di parlare vigente.

SVF III, 595

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ II, p. 79 Ald. [III,155,25] Da questo punto di vista si potrebbe mettere mano anche a quelli che si chiamano ‘paradossi’ stoici. Se, infatti, i più chiamo ‘ricco’ soltanto il grande proprietario ed uno non usasse questo termine in questo senso ma per indicare il sapiente e chi possiede le virtù, ebbene costui violerebbe [III,155,30] la vigente definizione nell’uso dei nomi.

[2] II, 22 Ald. Di nuovo, i più chiamano ‘fortunato’ chi ha dovizia di beni di fortuna, mentre <gli Stoici> chiamano fortunato chi possiede la virtù, il che non è un bene di fortuna. Dunque anche costoro violano il conveniente uso dei nomi.

SVF III, 596

Filone Alessandrino ‘De plantat. Noe’ 69, II, p. 147, 15 Wendl. [III,155,35] Alcuni, tenendo gli occhi sulla carenza e sul soprappiù di oggetti esterni e legittimando l’idea che nessuno di coloro che sono senza mezzi e degli squattrinati sia ricco, credettero che quanti sono dell’avviso che tutto è del virtuoso dicano paradossi.

SVF III, 597

[1] Pseudo-Acrone ‘In Horat. Sat.’ I, 3, 124. Gli Stoici dicono che il saggio è ricco anche se mendica,nobile anche se è servo, [III,155,40] bellissimo anche se è sordidissimo.

[2] Porfirione ‘In Horat. Sat.’ I, 3, 124. Inoltre gli Stoici stimano che l’uomo di perfetta saggezza abbia tutto. E Lucilio, che inclina a tale filosofia, dice: “Non avrà anche tutte queste cose: d’essere bello, ricco, libero e solo re?”

[3] Pseudo-Acrone ‘In Horat. epist.’ I, 19, 19. Gli Stoici negano[III,155,45] che chiunque, tranne il saggio, sia libero.

SVF III, 598

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 170. [III,156,1] Di rimando gli Stoici affermano che la saggezza, essendo scienza dei beni, dei mali e di ciò ch’è né bene né male, esiste in quanto arte di vita; e che soltanto quanti hanno in più la saggezza diventano belli, ricchi, sapienti. Infatti, ricco è chi possiede cose di gran valore [III,156,5] e la virtù è una cosa di gran valore: dunque, soltanto il sapiente è ricco. Inoltre, bello è chi è degno di trasporto amoroso e solo il sapiente è degno di trasporto amoroso: dunque soltanto il sapiente è bello.

SVF III, 599

Cicerone ‘Academica’ II, 136. Queste dottrine proprio non le sopporto, non perché le avversi, (infatti molte delle stravaganze Stoiche, i cosiddetti ‘paradossi’, sono figlie di Socrate), ma quando [III,156,10] mai Senocrate o Aristotele le hanno proposte? […] Avrebbero essi mai detto che solo il saggio è re, ricco e bello; che tutto, dovunque si trovi, è del saggio; che nessuno è console, pretore, imperatore e, che ne so, quinqueviro, se non il saggio; e infine che solo il saggio è cittadino ed uomo libero, mentre tutti gli stolti sono stranieri, esuli, schiavi e folli? [III,156,15] E poi che quelle scritte da Licurgo, da Solone e le nostre Dodici Tavole non sono leggi? E che non ci sono città né Stati eccetto quelli fatti di saggi?

SVF III, 600

Cicerone ‘De re publica’ I, 28. In verità chi potrebbe reputare qualcuno più ricco di colui cui nulla manca di ciò che la natura richiede; qualcuno [III,156,20] più potente di chi consegue tutto ciò che richiede; qualcuno più felice di chi si è liberato di ogni passione dell’animo; qualcuno in possesso di una fortuna più sicura di colui che possiede quei beni che, come si dice, può portar via con sé anche da un naufragio? Quale supremo comando, quale magistratura, quale regno può essere più eccellente dello stato di chi guarda dall’alto in basso i possessi umani, [III,156,25] li valuta inferiori alla saggezza ed ha l’animo sempre rivolto a null’altro che realtà sempiterne e divine?

SVF III, 601

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 114, 4 W. Soltanto l’uomo virtuoso ha buona figliolanza, non in qualcuno ma in tutti i figlioli; e infatti bisogna che chi ha buona figliolanza, avendo figlioli virtuosi, li utilizzi in quanto tali. Inoltre, soltanto il virtuoso invecchia bene e muore bene. Invecchiare bene significa tragittarsi la vecchiaia secondo virtù, e morire bene significa finire la vita [III,156,30] con una morte in armonia con la virtù.

SVF III, 602

Stobeo ‘Eclogae’ II, 114, 10 W. In rapporto all’uomo le sostanze si chiamano, in quanto cibarie, salutari o malsane, lassative o astringenti, e in modi similari. Salutari sono quelle per loro natura adatte a procacciare o a conservare la salute. Malsane quelle con proprietà opposte a queste. [III,156,35] Un discorso similare vale anche per le altre sostanze.

SVF III, 603

Filone Alessandrino ‘De sobrietate’ 56, II, p. 226, 16 Wendl. Chi ha avuto questa sorte è avanzato oltre i limiti dell’umana felicità. Lui soltanto, infatti, è di nobile stirpe in quanto ha registrato Dio come padre e, adottato da lui, è diventato suo unico figlio. Non ricco ma straricco, in quanto vive sempre nello sfarzo di quelli che sono soltanto beni, abbondanti e genuini, [III,156,40] immuni al logorio del tempo, sempre nuovi e in fiore. Non soltanto celebre ma glorioso, in quanto fruisce di una lode non imbastardita dall’adulazione ma resa salda dalla verità. Lui soltanto re, in quanto ha preso dal supremo imperatore il potere incontrastato di comando su tutto e su tutti. Lui soltanto libero, in quanto congedatosi dalla padrona più molesta, la vuota opinione.

[III,157,1] § 6. Il sapiente ha perizia delle cose divine

Frammenti n. 604-610

SVF III, 604

Stobeo ‘Eclogae’ II, 67, 20 W. <Gli Stoici> affermano anche che [III,157,5] soltanto il sapiente, e nessun insipiente, è sacerdote. Il sacerdote, infatti, deve essere esperto di leggi riguardanti i sacrifici, gli auspici, le purificazioni, l’erezione dei templi e tutte le cose siffatte. Oltre a ciò, egli abbisogna di santità, di pietà, di perizia nel culto degli dei e deve essere addentro alla natura del divino. Nulla di ciò esiste nell’insipiente, e perciò tutti [III,157,10] gli stolti sono persone empie. L’empietà, infatti, è un vizio, giacché è ignoranza del culto degli dei; mentre la pietà, come dicemmo, è scienza del culto degli dei.

SVF III, 605

Stobeo ‘Eclogae’ II, 114, 16 W. Inoltre, soltanto il virtuoso è divinatore, poiché possiede la scienza atta a diagnosticare i segni che dagli [III,157,15] dei o dai démoni sono diretti alla vita umana. Perciò anche le varie specie della mantica gli sono familiari: l’interpretazione dei sogni, l’interpretazione del volo degli uccelli, i responsi che si traggono dalle vittime sacrificali e quant’altre forme di divinazione sono a queste similari.

SVF III, 606

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 119. I virtuosi sono anche uomini divini, giacché è come se avessero un dio in loro stessi. Invece l’insipiente è [III,157,20] ateo, e la parola ‘ateo’ ha due significati: il primo è quello che si dice di ‘contrarietà’ al divino; il secondo è quello di ‘sprezzatura’ del divino. Ma questo non sempre vale per l’insipiente.

SVF III, 607

Cicerone ‘De divinatione’ II, 129. Invece i tuoi Stoici negano che qualcuno possa essere un divinatore se non è un saggio.

SVF III, 608

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 119. I virtuosi sono devoti al divino, poiché sono esperti dei rituali riguardanti gli dei, [III,157,25] e la pietà è appunto scienza del culto degli dei. Essi sacrificano davvero agli dei in stato di continenza rituale, giacché scrollano il capo dinanzi alle aberrazioni che abbiano a che fare con gli dei. Così gli dei hanno ammirazione per loro, visto che sono santi e giusti nei confronti del divino. Soltanto i saggi, poi, sono sacerdoti, giacché hanno bene esaminato quanto riguarda sacrifici, erezione dei templi, purificazioni e [III,157,30] gli altri riti attinenti agli dei.

SVF III, 609

Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 111, I, p. 247, 9 Wendl. È una festa dell’animo la letizia nelle perfette virtù […] e soltanto il sapiente, e nessun altro, festeggia una festa del genere. È infatti rarissimo trovare un animo che non abbia provato il gusto delle passioni o dei vizi.

SVF III, 610

[1] Filone Alessandrino ‘De spec. legibus’ II, 46, V, p. 98, 3 Cohn. [III,157,35] <I sapienti> fanno festa tutta la vita.

[2] II, 49, V, Cohn. Nessuno degli insipienti festeggia, neppure per brevissimo tempo.

§ 7. Il sapiente ha perizia di politica e di economia

Frammenti n. 611-624

SVF III, 611

Stobeo ‘Eclogae’ II, 94, 7 W. <Gli Stoici> affermano che il giusto è tale per natura e [III,157,40] non per convenzione. A seguito di ciò si dà che il sapiente [III,158,1] partecipi alla vita politica soprattutto in quegli Stati nei quali traspare qualche progresso verso le forme di governo perfette; che egli sia legislatore ed educatore di uomini; e che inoltre attenga ai virtuosi compilare per iscritto quelle cose che possono essere di giovamento ai lettori; come pure condiscendere al [III,158,5] matrimonio e alla generazione di figli per rispetto di sé e della patria; e anche, riguardo a quest’ultima, se sarà uno Stato moderato, reggere fatiche e morte. Accanto a questi ci sono comportamenti insipienti come l’andare a caccia del favore popolare, il sofisteggiare, il compilare scritti nocivi ai lettori: tutte cose che non potrebbero capitare ai virtuosi.

SVF III, 612

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 122. Similmente, soltanto i sapienti sono veri comandanti, uomini capaci di equità giudiziaria e [III,158,10] maestri di eloquenza. Nessuno degli insipienti, invece, lo è.

SVF III, 613

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 96 W. Essi affermano che la legge è qualcosa di virtuoso in quanto è retta ragione imperativa delle cose da fare e proibitiva di quelle da non fare. Se dunque la legge è cosa virtuosa, anche chi si conforma alla legge sarebbe tale, giacché a conformarsi alla legge è l’uomo ossequente ad essa e [III,158,15] praticante le sue ingiunzioni; mentre giurista, invece, è colui che spiega la legge. E nessuno degli insipienti si conforma alla legge né è giurista.

SVF III, 614

Stobeo ‘Eclogae’ II, 104, 4 W. Se la legge, come dicemmo, è qualcosa di virtuoso, dacché è retta ragione imperativa delle cose da fare e [III,158,20] proibitiva di quelle da non fare, essi affermano che soltanto il sapiente si conforma alla legge poiché pratica le sue ingiunzioni, ed è anche il solo in grado di spiegarla e perciò anche giurista. Per gli sciocchi, invece, vale l’opposto.

SVF III, 615

Stobeo ‘Eclogae’ II, 102, 11 W. <Gli Stoici> ripartiscono a favore dei virtuosi la soprintendenza del comando e le sue forme: la carica di re, di capo dell’esercito, [III,158,25] di capo della flotta, e le altre a queste similari. Proprio per ciò soltanto il virtuoso detiene il comando; e se egli non lo esercita per intero attivamente, lo detiene però interamente per disposizione d’animo. Soltanto il virtuoso, inoltre, è capace di obbedienza, in quanto è ossequente al comandante. Nessuno degli stolti è un uomo del genere, giacché lo stolto è incapace di comandare e di ubbidire al comando, vantone e incompetente com’è.

SVF III, 616

Cicerone ‘De finibus’ III, 68. Siccome noi vediamo che [III,158,30] l’uomo è nato per difendere e proteggere i suoi simili, è consentaneo a questa natura che il saggio voglia reggere ed amministrare lo Stato; e, per vivere da creatura naturale, prendere moglie e volere da lei dei figli.

SVF III, 617

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 122. I sapienti sono non soltanto uomini liberi [III,158,35] ma anche re, essendo la regalità un comando esente da responsabilità; comando che sussisterebbe soltanto nei sapienti, secondo quanto afferma Crisippo nel libro ‘Sull’uso magistrale dei nomi da parte di Zenone’. Egli afferma infatti che il comandante deve avere conoscenza dei beni e dei mali mentre nessuno degli insipienti, invece, ha scienza di ciò.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 108, 26 W. [III,158,40] Soltanto il sapiente, e nessuno degli insipienti, è [III,159,1] re e uomo regale. La carica di re è un comando esente da responsabilità, il comando superiore e al di sopra di tutti.

SVF III, 618

[1] Olimpiodoro ‘In Platonis Alcibiadem’ I, 55, p. 37 West. In terzo luogo, secondo i paroloni degli Stoici, il comandante, cioè chi sa [III,159,5] comandare, è l’unico comandante anche se non avesse gli strumenti della scienza del comando. E soltanto il sapiente è ricco, cioè colui che saprebbe utilizzare la ricchezza presente, anche se essa è al momento non presente.

[2] Proclo ‘In Platonis Alcibiadem’ I, 164, 165, p. 75 West. In ciò Socrate ha superato queste dottrine e la magniloquenza degli Stoici. Cos’altro è dato infatti riassumere dalle cose dette se non che soltanto il virtuoso è comandante, che è lui l’unico [III,159,10] dinasta, l’unico re, l’unico duce di tutti, che soltanto lui è libero e che tutto è dei virtuosi quanto è anche degli dei? I beni degli amici sono infatti comuni e se appunto tutti i beni sono degli dei, tutto è anche dei virtuosi. […] Infatti, come noi chiamiamo falegname non chi possiede gli strumenti del falegname [III,159,15] ma chi ne possiede l’arte; così chiamiamo comandante e re chi possiede scienza della regalità e non chi padroneggia molta gente. Strumento della regalità è il potere che appare esternamente, ma la postura dell’animo è quella che lo utilizza, e senza di essa uno non potrebbe mai essere comandante o re.

SVF III, 619

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 438 Pott. Nel primo libro [III,159,20] ‘Contro Cleofonte’, Speusippo sembra con ciò scrivere cose simili a quelle di Platone. Infatti, se la regalità è cosa virtuosa, allora soltanto il sapiente è re e comandante; e poiché la legge è retta ragione, essa è cosa virtuosa, il che pure è. I filosofi Stoici, pertanto, nutrono giudizi conseguenti a queste dottrine quando appiccano soltanto [III,159,25] al sapiente la facoltà di legislare, la ricchezza, la vera bellezza, l’indole nobile e la libertà; anche se pure loro ammettono che un tale sapiente sia difficilissimo da trovare.

SVF III, 620

Filone Alessandrino ‘De mutatione nominum’ 152, III, p. 182, 23 Wendl. Soltanto il sapiente è re. Ed effettivamente il saggio è guida degli stolti, poiché sa ciò ch’è d’uopo fare e non fare. Il temperante è guida degli impudenti, [III,159,30] poiché ha precisato a se stesso senza trascuratezza ciò che va scelto e ciò che va fuggito. L’uomo virile è guida dei vili, poiché ha imparato a fondo e chiaramente ciò che bisogna reggere e non reggere. Il giusto è guida degli ingiusti, poiché ha di mira una ben bilanciata parità nelle spartizioni.

SVF III, 621

Filone Alessandrino ‘De migrat. Abrah.’ 197, II, p. 307, 8 Wendl. Noi diciamo che la regalità è saggezza, dacché il sapiente è anche re.

SVF III, 622

Luciano ‘Vitarum auctio’ 20. [III,159,35] […] Che soltanto costui è sapiente, soltanto costui è bello, soltanto costui è giusto, virile, re, maestro d’eloquenza, ricco, legislatore.

SVF III, 623

Stobeo ‘Eclogae’ II, 95, 9 W. <Gli Stoici> affermano che soltanto il virtuoso è amministratore e buon economo, e inoltre che è capace di fare denari. La [III,159,40] capacità economica è una certa postura dell’animo teorica e pratica circa ciò ch’è utile alla casa; e l’economia è l’organizzazione delle spese e degli affari, la sollecitudine per il patrimonio e per i lavori nei campi. La capacità di fare denari è la perizia nel procacciarseli da chi bisogna e la postura dell’animo che ci fa condurre in modo ammissibile con la ragione nella loro raccolta, conservazione e spesa in vista [III,159,45] della prosperità. Alcuni hanno sostenuto che il fare denari sia un’azione intermedia; altri che essa è un’azione virtuosa. [III,160,1] Nessun insipiente, comunque, diventa un buon patrocinatore della casa, né può procurare che la casa sia ben amministrata. Soltanto l’uomo virtuoso è capace di fare denari, poiché conosce da chi, quando, come e fino a quando si devono fare denari.

SVF III, 624

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 165 (p. 372 Aucher). L’uomo solidamente saggio possiede in egual misura [III,160,5] queste due caratteristiche: è schietto e sta in casa. La schiettezza rende patente la verità della sua semplicità e la sua carenza di adulazione. […] L’altra caratteristica, ossia la cura della casa e le abitudini casalinghe, sono l’opposto della vita agreste. Schiettezza e cura della casa messe insieme fanno l’uomo ‘economico’, il quale è una sintesi in piccolo del vivere civile; giacché i modi urbani e l’economia sono virtù congiunte che non sarà inutile mostrare [III,160,10] interscambiabili. L’urbanità, infatti, è economia della città, e l’economia è urbanità della casa.

§ 8. Il saggio giova a sé e agli altri

Frammenti n. 625-636

SVF III, 625

Stobeo ‘Eclogae’ II, 93, 19 W. Essi affermano che tutti i beni dei virtuosi sono comuni, in quanto chi giova a qualcuno che ha [III,160,15] dintorno giova anche a se stesso. La concordia è scienza dei beni comuni, e perciò tutti i virtuosi sono tra di loro concordi poiché vanno d’accordo nei modi di vivere. Invece gli insipienti, poiché sono in disaccordo tra di loro, sono nemici, si maltrattano l’un l’altro e sono polemici.

SVF III, 626

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 101, 21 W. Tutti i beni [III,160,20] sono comuni ai virtuosi, mentre comuni agli insipienti sono i mali. Perciò chi giova a qualcuno giova anche a se stesso; e chi danneggia, danneggia anche se stesso. Tutti i virtuosi si giovano l’un l’altro anche se non sono affatto amici, o benevoli, o di buona reputazione, o accolti in casa, per il fatto che non si capiscono nel parlare o non dimorano nello stesso luogo. Eppure essi [III,160,25] sono disposti con benevolenza, amichevolmente, con valutazione positiva e con approvazione reciproca. Invece gli insipienti si trovano in atteggiamenti opposti a questi.

SVF III, 627

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1068f. Se mai un solo sapiente, dove che sia, stenderà un dito a motivo della sua saggezza, tutti i sapienti in giro per il mondo ne traggono giovamento.

[2] p. 1069a. Vaneggiava Aristotele, vaneggiava [III,160,30] Senocrate […] poiché ignoravano lo stupefacente giovamento col quale i sapienti si giovano l’un l’altro muovendosi secondo virtù, anche nel caso non siano insieme e capiti che non si conoscano.

SVF III, 628

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 123. Ma invero essi affermano che il virtuoso non vivrà in isolamento, giacché egli è un uomo per natura socievole ed operoso.

SVF III, 629

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ V, 17. Il saggio non opera mai a scopo di lucro, [III,160,35] giacché tiene in poco conto questi beni terreni; e non accetta passivamente che qualcuno cada in errore, giacché è dovere dell’uomo virtuoso correggere gli errori degli uomini e riportarli sulla retta via. La natura dell’uomo è infatti socievole e portata al beneficio, e soltanto in questo egli ha parentela con Dio.

SVF III, 630

Stobeo ‘Eclogae’ II, 108, 5 W. [III,160,40] Poiché il virtuoso è conversevole, garbato, atto ad esortare, cacciatore di [III,161,1] benevolenza e di amicizia attraverso la conversazione e ben adattabile, per quanto possibile, alla moltitudine degli uomini; per questo egli è anche beneamato, aggraziato, persuasivo e inoltre avvertito, sagace, tempestivo, perspicace, semplice, discreto, schietto e non artefatto. Invece l’insipiente è impigliato in tutte le qualità opposte. Essi affermano che [III,161,5] l’ironizzare è proprio degli insipienti, giacché nessun uomo libero e virtuoso fa dell’ironia. In modo simile si può parlare del fare del sarcasmo, che è ironia con irrisione di qualcuno. Essi riservano l’amicizia soltanto ai sapienti, giacché soltanto tra di questi c’è concordia sui modi di vivere; e la concordia è scienza dei beni comuni. Infatti, la vera amicizia e non il suo pseudonimo è impossibile [III,161,10] senza che esistano lealtà e saldezza d’animo. Invece tra gli insipienti, poiché essi sono sleali, d’animo non ben saldo ed hanno giudizi polemici, non esiste amicizia, ma nascono certi altri intrecci e legami tenuti insieme estrinsecamente da necessità e da opinioni. <Gli Stoici> affermano anche che l’amare caritatevolmente, l’ossequiare e l’essere amico sono propri soltanto dei virtuosi.

SVF III, 631

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 124. [III,161,15] Essi dicono anche che l’amicizia esiste soltanto tra i virtuosi, a causa della loro somiglianza. Affermano poi che l’amicizia è comunanza di modi di vita, quando noi usiamo degli amici come di noi stessi; e perciò dichiarano che l’amico è il risultato di una scelta e che è un bene avere molte amicizie. Tra gli insipienti non esiste invece amicizia e nessuno degli insipienti ha un amico.

SVF III, 632

Stobeo ‘Eclogae’ II, 115, 10 W. [III,161,20] <Il virtuoso> è anche mite, essendo la mitezza quella postura abituale dell’animo per cui i virtuosi si dispongono con mitezza a fare quanto loro spetta in ogni circostanza, e sono non portati all’ira in nessuna di esse. Il virtuoso è un uomo tranquillo e composto: la compostezza essendo scienza dei movimenti confacenti, ed essendo la tranquillità disciplina dei movimenti naturali e delle movenze di animo e di corpo. [III,161,25] Gli insipienti si trovano invece, in tutte le circostanze, in condizioni opposte a queste.

SVF III, 633

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXI, 8. Non tutti quelli che sono grati sanno cosa comporta l’essere debitori di un beneficio […] Solo il saggio conosce il valore di ogni cosa; infatti, lo stolto di cui prima parlavo, per quanto animato da buona volontà, o restituisce meno del dovuto, o lo fa fuori tempo o fuori luogo.

[2] 10. Il saggio esaminerà tra sé e sé ogni aspetto della faccenda: [III,161,30] quanto abbia ricevuto, da chi, quando, dove e in che modo. Pertanto, noi Stoici neghiamo che sappia essere riconoscente chi non è saggio, e che qualcuno sappia recare un beneficio se non è saggio.

[3] 12. Solo il saggio sa amare. Solo il saggio è amico […] Per questo diciamo [III,161,35] che solo nel saggio c’è lealtà.

SVF III, 634

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 74 (p. 303 Aucher). Chi si studia d’esser saggio non coabita né conversa con persone fatue e superficiali, pur essendo per natura ad esse congiunto, ma se ne mantiene decisamente lontano. Perciò si dice rettamente che il saggio e l’insipiente non sono soci quando navigano, né compagni di strada, [III,161,40] né concittadini, né conviventi, né concorrenti, perché il sovrano interiore dell’uno e dell’altro non concordano né convengono su alcunché.

SVF III, 635

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 121. Quanto meglio <di voi Epicurei> parlano gli Stoici! Essi infatti ritengono che il saggio sia amico del saggio anche se non lo conosce. Nulla infatti è più amabile della virtù, sicché [III,162,1] chiunque ne è seguace sarà a noi caro ovunque si trovi.

SVF III, 636

[1] Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 121, I, p. 251, 3 Wendl. Forse <il profeta> intende così presentarci un giudizio estremamente necessario, cioè che ogni sapiente è il prezzo del riscatto [III,162,5] dell’insipiente, il quale non avrebbe risorse bastanti neppure per poco tempo se il sapiente, usando misericordia e preveggenza, non si desse pensiero della di lui sopravvivenza. Proprio come il medico, quando osteggia le infermità del malato sia col mitigarle che col levarle totalmente di mezzo; a meno che la loro violenza, con decorso irrefrenabile, non superi anche l’efficacia della terapia.

[2]123, p. 251, 15. [III,162,10] Bisogna tuttavia provare a preservare in vita, per quanto possibile, anche coloro che saranno affatto rovinati dalla malvagità che è in loro; imitando in ciò i medici valenti i quali, quand’anche vedano impossibile salvaguardare la salute dei pazienti, tuttavia somministrano egualmente di buon grado la terapia, perché non sembri che a causa della loro negligenza avvenga qualcosa di contrario ai loro pareri. E se invece si palesasse un sia pur piccolo [III,162,15] seme di salute, bisogna ravvivarlo con ogni sollecitudine come un tizzone, giacché è speranza di un dilungamento e di un accrescimento di salute e di usufruire di una vita migliore e con meno passi falsi.

§ 9. L’austerità del sapiente ed altre sue doti

Frammenti n. 637-649

SVF III, 637

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 117. [III,162,20] <Gli Stoici> affermano anche che tutti i virtuosi sono uomini austeri, poiché non hanno contatti in vista di qualche ebbrezza né accettano da altri inviti in tal senso. Vi è anche un altro tipo di persone chiamato ‘austero’. Le si indica così per la loro similarità al ‘vino austero’, quello che si utilizza per la produzione di farmaci ma assolutamente non per un brindisi.

SVF III, 638

Stobeo ‘Eclogae’ II, 114, 22 W. [III,162,25] Il virtuoso è detto austero in quanto non proferisce con alcuno né ammette per sé un discorso tanto per far piacere. Dicono anche che il sapiente ‘cinizzerà’, nel senso di persistere nel cinismo se è tale; non nel senso che per essere sapiente uno debba essere iniziato al cinismo.

SVF III, 639

[1] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 7, p. 858 Pott. Costui per noi è austero: [III,162,30] l’uomo in cammino non soltanto verso l’incorruttibilità ma anche verso l’essere intentabile, nel quale in nessun modo si riscontra un animo cedevole al piacere o catturabile dall’afflizione; e se la ragione lo chiamerà, un giudice ormai inflessibile, che non gratifica le passioni e incede con stabile piede sulla via che è nato per camminare.

[2] p. 859 Pott. L’imperdibilità della virtù.

SVF III, 640

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 95, 24 W. [III,162,35] Essi affermano che l’uomo assennato non perdona nessuno, giacché perdonare qualcuno equivale anche a legittimare l’idea che chi ha aberrato non abbia aberrato per sua responsabilità, mentre invece tutti aberrano per la propria malvagità. Debitamente si dice, perciò, di non perdonare chi aberra. Essi affermano pure che l’uomo buono è non clemente con se stesso, giacché il clemente [III,162,40] cerca di schivare il meritato castigo ed è la stessa cosa l’essere clementi con se stessi, il concepire che le pene fissate dalla legge [III,163,1] per gli ingiusti sono troppo dure ed il ritenere che il legislatore assegni le pene non secondo il merito.

SVF III, 641

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 123. <I sapienti> non sono proclivi alla commiserazione e non perdonano nessuno. Infatti non lasciano cadere le pene comminate dalla legge (dacché [III,163,5] il cedere il passo, la pietà e la stessa clemenza sono debolezze di un animo che simula bontà dinanzi ai castighi), né credono che esse siano troppo dure.

SVF III, 642

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 123. Inoltre il sapiente non si stupisce di quelle che sembrano bizzarrie straordinarie: per esempio, gli antri di Caronte, le basse maree, le fonti d’acque calde, le eruzioni di fuoco.

SVF III, 643

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 109, 5 W. [III,163,10] L’uomo assennato non è un tale che si ubriachi, giacché nell’ubriachezza è insita un’aberrazione. Infatti dal vino vengono dei vaneggiamenti e invece il virtuoso non aberra in nulla, e fa perciò ogni cosa secondo virtù e la retta ragione che ne discende.

SVF III, 644

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 118. <Il virtuoso> berrà del vino ma non si ubriacherà, [III,163,15] e inoltre non uscirà di testa. Delle rappresentazioni disusate potranno incoglierlo a causa di malinconia o di vaneggiamento, non in ragione delle sue scelte ma contro la sua natura.

SVF III, 645

Cicerone ‘De finibus’ III, 68. Alcuni <Stoici> ritengono che il pensiero e la vita dei Cinici siano adatti al saggio, posto che egli si trovi in circostanze che lo richiedono. [III,163,20] Altri però lo negano.

SVF III, 646

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 117. Il sapiente è non vanitoso, giacché è parimenti indifferente a ciò che porta credito ed a ciò che porta discredito. Vi è anche un altro individuo non vanitoso ed è quello posizionato da avventato, cioè l’insipiente.

SVF III, 647

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 118. I virtuosi sono uomini autentici e si guardano bene [III,163,25] dal farsi riscontrare migliori di quel che sono attraverso quella preparazione che cela i nostri lati umili e ordinari e fa apparire quelli nobili e buoni. Essi sono anche persone non artefatte, giacché hanno tolto di torno ogni finzione nella voce e nell’aspetto.

SVF III, 648

Stobeo ‘Eclogae’ II, 116, 1 W. L’uomo virtuoso non rimanda mai nulla, [III,163,30] giacché la dilazione è la posposizione di un’attività per titubanza; e il posporre qualcosa è possibile soltanto quando la posposizione sia incensurabile. Circa il ‘rimandare’ Esiodo ha detto questo:

‘Non rimandare a domani né a dopodomani’

e

[III,163,35] ‘La persona che indugia lotta sempre con le sciagure’

poiché la dilazione ingenera l’abbandono di opere convenienti.

SVF III, 649

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 118. <Essi affermano> che i virtuosi si tengono lontani dagli affari pubblici, giacché avversano effettuare qualcosa che sia contrario a ciò ch’è doveroso.

[III,164,1] § 10. Il sapiente ama

Frammenti n. 650-653

SVF III, 650

Stobeo ‘Eclogae’ II, 115, 1 W. Essi affermano che il trasporto amoroso è il progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza di giovani in fiore. Perciò il sapiente è capace [III,164,5] di trasporto amoroso e lo proverà nei confronti di chi ne è degno per nobiltà d’indole e natura di purosangue.

SVF III, 651

Cicerone ‘De finibus’ III, 68. Essi ritengono anche che gli amori leciti non siano alieni al saggio.

SVF III, 652

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 72. Gli Stoici dicono che anche il saggio amerà e definiscono l’amore [III,164,10] come uno slancio a fare amicizia ispirato dalla visione del bello.

SVF III, 653

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 70. Veniamo ai filosofi maestri di virtù, i quali negano che l’amore sia amore del sesso, e su ciò litigano con Epicuro il quale, a mio modesto avviso, non si sbaglia di molto. [III,164,15] Infatti cos’è mai questo amore dell’amicizia?

§ 11. Il sapiente coltiva le arti

Frammenti n. 654-656

SVF III, 654

Stobeo ‘Eclogae’ II, 67, 13 W. Essi affermano che soltanto il sapiente è anche buon divinatore, poeta, maestro d’eloquenza, dialettico e critico. Non però tutte queste cose insieme, giacché alcune di esse abbisognano anche dell’assunzione [III,164,20] di certi principi teorici generali. E affermano che la mantica è la scienza teorica dei segni che dagli dei o dai démoni hanno per scopo la vita umana. Similmente si può dire per le varie specie della mantica.

SVF III, 655

Plutarco ‘De tranquillitate animi’ p. 472a. Eppure alcuni credono che gli Stoici stiano giocando, qualora li ascoltino designare il sapiente non soltanto come [III,164,25] saggio, giusto e virile ma anche maestro d’eloquenza, poeta, stratega, ricco e re.

SVF III, 656

Stobeo ‘Eclogae’ II, 109, 1 W. Essi dicono che il virtuoso è il miglior medico di se stesso; giacché, essendo solerte della propria natura, egli si fa osservatore e scienziato di ciò ch’è utile per la salute.

[III,164,30] § 12. Gli insipienti sono folli ed empi

Frammenti n. 657-670

SVF III, 657

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 432. D’altra parte, se secondo loro ogni concezione dell’insipiente è ignoranza, se soltanto il sapiente dice la verità ed ha salda scienza del vero e se il sapiente è stato finora introvabile, allora consegue di necessità che anche la verità sia introvabile, poiché capita che tanto essa [III,164,35] quanto tutto il resto siano incomprensibili e poiché noi, essendo tutti insipienti, non abbiamo un’apprensione salda e certa dell’esistente. Stando così le cose, resta il fatto che quanto gli Stoici affermano contro gli Scettici può, in contropartita, [III,165,1] essere affermato dagli Scettici contro gli Stoici. Dacché, infatti, secondo loro sia Zenone che Cleante che Crisippo e tutti gli altri di scuola Stoica sono inclusi nel numero degli insipienti, ed ogni insipiente ha per padrone l’ignoranza, consegue che Zenone ignorava del tutto se fosse lui ad essere incluso nel cosmo oppure se lui stesso avesse il cosmo incluso in sé, e se fosse [III,165,5] uomo o fosse donna; mentre Cleante non aveva conoscenza certa di essere un uomo oppure una qualche belva più complicata di Tifone. Invero, o Crisippo riconosceva come stoico questo giudizio, intendo il giudizio che ‘l’insipiente è ignorante di tutto’, oppure non aveva conoscenza certa neppure di questo. Ora, se egli ne aveva conoscenza certa, allora è falso che l’insipiente sia ignorante di tutto; giacché Crisippo, pur essendo insipiente, sapeva proprio questo, ossia [III,165,10] che l’insipiente è ignorante di tutto. E se egli non sapeva neppure di essere ignorante di tutto, come mai nutre giudizi su molte cose, disponendo l’unicità del cosmo, che esso sia governato dalla Prònoia, che la sua sostanza sia interamente commutabile e numerosissime altre? E se a qualcuno ciò è caro, sarebbe ben possibile per chi controinterroga far loro presenti le altre aporie, come essi hanno l’abitudine di fare con gli Scettici.

SVF III, 658

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 28, p. 199, 7 Bruns. [III,165,15] Quanti sono dell’avviso che noi siamo e diventiamo tali, cioè virtuosi o viziosi, per causa della ‘Necessità’, e non lasciano a noi la potestà di fare e di non fare le azioni grazie alle quali diventeremmo tali […] come non ammetteranno che l’uomo è stato generato dalla natura come il peggiore di tutti gli animali: proprio quell’uomo per il quale essi affermano [III,165,20] che tutte le altre cose sono state generate affinché portassero a compimento la sua salvezza? Se, infatti, secondo loro soltanto la virtù e il vizio sono l’una il bene e l’altro il male e nessuno degli altri animali è compatibile con nessuno dei due; se la maggior parte degli uomini sono viziosi e se, per di più, essi raccontano la storia che uno soltanto o due di loro sono diventati virtuosi, come se si trattasse di un animale bizzarro e contro natura più raro [III,165,25] della fenice tra gli Etiopi; se tutti sono viziosi e lo sono altrettanto tra di loro, sicché per nulla differiscono l’uno dall’altro; e se quanti non sono sapienti sono tutti ugualmente pazzi: come potrebbe l’uomo non essere l’animale più meschino di tutti, essendo la malvagità e la pazzia congenite in lui e sue consorti?

SVF III, 659

Seneca ‘De beneficiis’ IV, XXVII, 1. Qualcuno è chiamato timoroso [III,165,30] perché è uno stolto. Il termine stolto si attaglia ai malvagi, che sono assediati da tutti i vizi senza eccezioni e senza distinzioni; mentre in senso proprio si dice timoroso colui che per natura sobbalza al minimo rumore. Ora, lo stolto ha tutti i vizi, ma non è prono per natura a tutti: uno è propenso all’avarizia, un altro alla lussuria, un altro all’impudenza. Pertanto, errano coloro che domandano agli Stoici: “E allora Achille è timoroso?” […] [III,165,35] Noi non sosteniamo che tutti i vizi siano presenti in tutti gli uomini con la stessa forza con cui sono presenti in alcuni, ma che il malvagio e lo stolto non mancano di nessun vizio. Per noi neppure l’uomo coraggioso va esente dal timore, né riteniamo il generoso del tutto libero dall’avarizia.

SVF III, 660

Stobeo ‘Eclogae’ II, 68, 8 W. <Gli Stoici> similmente [III,165,40] affermano che gli insipienti sono non santi, giacché la santità si delinea come giustizia verso gli dei. Invece gli insipienti trascendono in molte delle giuste devozioni verso gli dei e perciò sono anche sacrileghi, impuri, non praticano l’astensione rituale dai rapporti sessuali, sono abominevoli ed esclusi dalle feste. Essi affermano infatti che il festeggiare è proprio del virtuoso, dal momento che la festa è un tempo [III,165,45] nel quale è d’uopo venire a contatto col divino per onorarlo e farne doverosa segnalazione. [III,166,1] Onde, anche chi festeggia deve avere accondisceso con santità ad un simile ruolo.

SVF III, 661

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 105 W. Ha il beneplacito <degli Stoici> l’affermazione che ogni aberrazione è un atto empio, giacché l’effettuare qualcosa contro il piano [III,166,5] della divinità è prova di empietà. Essendo gli dei imparentati alla virtù ed alle opere della virtù ed estranei al vizio ed alle opere che il vizio porta a compimento, ed essendo l’aberrazione un’operazione viziosa; si appalesa che ogni aberrazione è come tale sgradita agli dei (cioè è un atto empio) e che con ciascuna sua aberrazione l’insipiente fa qualcosa di sgradito agli dei […] [III,166,10] Inoltre, dacché tutto ciò che ogni insipiente fa lo fa viziosamente, proprio come il virtuoso lo fa invece virtuosamente; dacché chi ha un solo vizio li ha tutti e tra i vizi è prevista anche l’empietà, non quella già fissata in un’attività ma quella che è postura dell’animo opposta alla pietà, ciò ch’è effettuato secondo empietà è un atto empio e perciò ogni aberrazione è un atto empio. [III,166,15] Ha inoltre il loro beneplacito l’affermazione che ogni stolto è nemico personale degli dei. L’inimicizia personale è infatti assenza di armonia e discordia nei modi di vita, così come l’amicizia è invece armonia e concordia. Ma gli insipienti sono in disaccordo con gli dei circa i modi di vita e perciò ogni stolto è nemico personale degli dei. Inoltre, se tutti legittimano l’idea che i loro opposti siano nemici personali e [III,166,20] l’insipiente è l’opposto del virtuoso e la divinità è virtuosa, l’insipiente è nemico personale degli dei.

SVF III, 662

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1048e. E se invero Crisippo non dichiara virtuoso se stesso né alcuno dei suoi conoscenti o maestri, <gli Stoici> cosa pensano degli altri se non quello che [III,166,25] appunto affermano? Ossia che sono tutti pazzi, fuori di testa, sacrileghi, gente che vive nell’illegalità ed è giunta al culmine della cattiva sorte e d’ogni infelicità.

SVF III, 663

Stobeo ‘Eclogae’ II, 68, 18 W. <Gli Stoici> dicono inoltre che ogni insipiente è pazzo, poiché è ignorante di se stesso e delle cose sue: il che è appunto la pazzia. L’ignoranza è il vizio opposto alla saggezza; e quando l’ignoranza, atteggiandosi verso qualcosa in un certo modo, procura impulsi [III,166,30] instabili e palpitanti è pazzia. Perciò essi delineano così la pazzia: un’ignoranza palpitante.

SVF III, 664

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 124. Tutti gli stolti sono pazzi. Infatti sono individui non saggi, ed effettuano tutto secondo una pazzia che è pari alla stoltezza.

SVF III, 665

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 54. Perché? Quando gli Stoici [III,166,35] dicono che tutti gli insipienti sono pazzi, non tirano le somme di tutte queste argomentazioni? ‘Metti da partele passioni e soprattutto l’iracondia’, già queste parole ti sembreranno delle mostruosità. Essi però sostengono che quando dicono che tutti gli stolti sono pazzi, lo dicono nel senso in cui si dice che qualunque lordura è maleodorante. Ma non è sempre così. Smuovila e la sentirai maleodorante. Così l’iracondo non sempre è irato, ma tu provocalo [III,166,40] e lo vedrai furente.

SVF III, 666

Porfirione ‘In Horat. Sat.’ II, 3, 32. Poiché gli Stoici dicono che, eccettuato il saggio, tutti gli uomini sono stolti. [III,167,1]

SVF III, 667

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XI, p. 464d. Crisippo, nell’introduzione al trattato ‘Sui beni e sui mali’ afferma che i più [III,167,5] appiccano il termine ‘pazzia’ alla maggior parte delle cose, e che pertanto si parla di ‘pazzia per le donne’ e di ‘pazzia per le quaglie’. Alcuni chiamano ‘pazzi per la fama’ gli amanti della fama, come chiamano ‘pazzi per le donne’ gli amanti delle donne e ‘pazzi per gli uccelli’ gli amanti dei volatili, e questi nomi significano tutti la stessa cosa. Sicché anche il resto si può chiamare non impropriamente [III,167,10] in questo modo. Per esempio, chi ama le ghiottonerie e la buona tavola è ‘pazzo per le ghiottonerie’, chi ama il vino è ‘pazzo per il vino’, e allo stesso modo si può dire per i casi simili; ed è non improprio affermare che in essi giaccia la pazzia in quanto aberrano come dei pazzi e, ancor più, sono sconnessi dalla verità.

SVF III, 668

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1048e. [III,167,15] E se invero Crisippo non dichiara virtuoso se stesso né alcuno dei suoi conoscenti o maestri, <gli Stoici> cosa pensano degli altri se non quello che appunto affermano? Ossia che sono tutti pazzi, fuori di testa, sacrileghi, gente che vive nell’illegalità ed è giunta al culmine della cattiva sorte e d’ogni infelicità. [E poi le vicende nostre, di noi che ce la passiamo così meschinamente, [III,167,20] sarebbero governate dalla Prònoia degli dei? Se dunque gli dei, mutando avviso, volessero recarci danno, maltrattarci, pervertirci e ulteriormente stritolarci] non potrebbero disporci peggio di come stiamo adesso, come Crisippo dichiara, né la nostra vita mancare del più alto grado di vizio e di infelicità, tanto che se essa avesse la voce direbbe le parole di Eracle:

[III,167,25] ‘Trabocco di mali e non v’è più dove se ne possano mettere’

Chi potrebbe trovare delle dichiarazioni più contraddittorie circa gli dei e gli uomini di quelle di Crisippo, il quale afferma che gli dei provvedono a noi nel miglior modo possibile e che gli uomini agiscono nel peggior modo possibile?

[2] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1062f. […] e inoltre di più [III,167,30] nei fatti, quando dichiarano che i non sapienti sono tutti altrettanto viziosi, ingiusti, sleali e stolti…

[3] Diogeniano in Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ VI, p. 264b. Come mai dunque affermi che a te pare non esservi uomo, eccetto il sapiente, il quale non sia pazzo alla pari di Oreste e di Alcmeone? Tu affermi che finora sono esistiti soltanto uno o due sapienti [III,167,35] e che gli altri, per la loro stoltezza, sono stati pazzi altrettanto dei predetti? […] In primo luogo, neppure tu affermi di te stesso di essere sapiente…

SVF III, 669

Porfirione ‘In Horat. epist.’ I, 1, 82. Questi rimproveri gli Stoici muovono all’insania della gente: in primo luogo d’essere in disaccordo tra di loro, e poi di esserlo con se stessi, [III,167,40] in quanto mutano proposito da un momento all’altro.

SVF III, 670

Filone Alessandrino ‘De posteritate Caini.’ 75, II, p. 16, 22 Wendl. Tutto [III,168,1] ciò che l’insipiente provveda per sé è riprensibile, in quanto contaminato da un’intelligenza difficile da purificare. Al contrario, le azioni deliberate dei virtuosi sono tutte lodevoli.

§ 13. Gli insipienti sono infelicissimi

Frammenti n. 671-676

SVF III, 671

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 247, I, p. 168, 5 Wendl. [III,168,5] Per tutta la vita l’insipiente si serve della propria anima con doglianza, senza avere nulla che gli sia causa di gioia; di cui invece sono per natura genitrici la giustizia, la saggezza e le virtù che regnano insieme a questa.

SVF III, 672

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046b. [Nel primo libro [III,168,10] ‘Sulle azioni rette’], laddove <Crisippo> afferma che il godimento per i mali altrui è inesistente, giacché nessuno dei virtuosi si rallegra per i mali altrui, mentre nessuno degli insipienti assolutamente si rallegra.

[2] p. 1046c. In altri luoghi <egli> afferma che il godimento per i mali altrui è inesistente, così come sono inesistenti l’odio della malvagità e la vergogna per il guadagno illecito.

[3] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1068d. [III,168,15] “Ma quando capitino loro queste cose gli insipienti non ne traggono giovamento né sperimentano alcunché di positivo e neppure hanno benefattori né li trascurano”. Quindi gli insipienti non sono ingrati, e invero neppure gli uomini assennati lo sono. Dunque l’ingratitudine è inesistente, giacché questi ultimi non mancano di gratitudine quando [III,168,20] ricevano una grazia, mentre i primi non sono nati per ricevere una grazia. Ora, guarda cosa essi dicono al riguardo. <Essi dicono> che “la gratitudine pertiene agli atti intermedi, che il giovare ed il trarre giovamento è proprio dei sapienti, mentre capita anche agli insipienti di essere riconoscenti”.

SVF III, 673

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VI, 17, p. 822 Pott. Perciò molti pregi accomunano gli uomini buoni e quelli cattivi, [III,168,25] ma essi diventato giovevoli soltanto ai buoni e virtuosi.

SVF III, 674

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038a. Crisippo afferma che nulla è proficuo per gli insipienti e che l’insipiente non ha bisogno di nulla e non manca di nulla. Una volta detto questo, nel primo libro ‘Sulle azioni rette’, [III,168,30] dice poi che la proficuità e la gratitudine pertengono agli atti intermedi, nessuno dei quali è, secondo loro, proficuo; ed afferma che davvero nulla è appropriato ed acconcio all’insipiente con queste parole: “Secondo lo stesso criterio, nulla è allotrio al virtuoso e nulla è familiare [III,168,35] all’insipiente; dacché il bene appartiene al primo e il male al secondo”.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1068a. Nei libri ‘Sulle [III,169,1] azioni rette’ <Crisippo> scrive: “L’insipiente non ha bisogno di nulla e non manca di nulla. Nulla gli è proficuo, nulla gli è appropriato, nulla gli è acconcio”.

Come potrebbe dunque essere proficuo il vizio, in compagnia del quale neppure la salute è proficua, né la ricchezza di denaro né il progresso?

[3] p. 1068c. [III,169,5] Ora, quale vertigine è mai questa, per cui chi di nulla è carente ha però bisogno dei beni che possiede; mentre l’insipiente, che è carente di molte cose, di nulla ha bisogno? Questo infatti dice Crisippo, ossia che: “Gli insipienti non hanno bisogni e però sono carenti di molte cose”.

[4] Seneca ‘Epistulae morales’ IX, 14. Voglio mostrarti questa distinzione fatta da Crisippo: “Il saggio non manca di nulla; eppure, ha bisogno di molte cose. [III,169,10] Al contrario, lo stolto di nulla ha bisogno, giacché nulla sa come usare, e manca di tutto”.

SVF III, 675

‘Scholia’ in Hom. Iliad. XXIV, v. 536. ‘Per opulenza dei veri beni’: può valere ‘per saggezza’; se, appunto per gli Stoici, chi è non educato [alla diairesi] è anche indigente dei veri beni.

SVF III, 676

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 201, I, p. 157, 25 Wendl. [III,169,15] Giacché l’atleta e il servo subiscono le percosse in un modo diverso. Il servo s’arrende alle percosse prostrandosi e capitola mentre l’atleta, invece, tiene testa, contrasta attivamente e si scuote di dosso i colpi che gli sono inferti. Tu radi in modo diverso un uomo ed il vello di una pecora. Questa è considerata un soggetto soltanto passivo mentre l’uomo, invece, [III,169,20] subisce ed agisce a sua volta, prendendo la posizione più favorevole alla rasatura. Così la persona irragionevole capitola di fronte ad un altro al modo degli schiavi, e si prostra alle sofferenze come a padroni insopportabili poiché è incapace di guardarle in faccia [e non può sguainare contro di esse dei pensieri maschi e liberi]. Perciò uno stuolo infinito di esse gli si riversa addosso attraverso sensazioni dogliose. Chi invece ha scienza del bene e del male, al modo di un atleta che va animosamente contro l’avversario [III,169,25] con forza e vigoria, s’avventa contro tutte le cose dolorose per non esserne ferito ed essendo completamente indifferente a ciascuna di esse. A me sembra che egli, con giovanile ardore, potrebbe rivolgersi alla sofferenza con queste parole della tragedia:

‘Brucia, ardi le mie carni

saziati bevendo il mio nero sangue;

ma già prima gli astri andranno sottoterra

[III,169,30] e la terra salirà all’etere,

prima che da me ti corra incontro una parola d’adulazione’.

§ 14. Gli insipienti sono persone rozze ed esuli

Frammenti n. 677-681

SVF III, 677

Stobeo ‘Eclogae’ II, 103, 24 W. <Gli Stoici> affermano che ogni insipiente è anche una persona rozza. La rozzezza è infatti inesperienza delle abitudini e delle leggi di una città, [III,169,35] ed in essa l’insipiente è del tutto impigliato. L’insipiente è anche un individuo selvatico, contrario a tragittarsela secondo la legge, belluino e che reca danni. Egli è inoltre selvaggio e tirannico, disposto a fare azioni dispotiche e pure, quando ne abbranchi l’occasione, crude, violente, illegali. Egli è anche ingrato, non essendogli familiare il ripagamento di un favore né [III,170,1] la generosità, poiché nulla fa con mutualità, amichevolmente o in modo disinteressato.

SVF III, 678

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 165 (p. 371 Aucher). A ciò aggiungi che, essendo un incivile, <l’insipiente> non è un cittadino, è un fuorilegge, non [III,170,5] conosce il gusto della vita retta, è ribelle e contumace, partecipe di nulla che sia dei giusti e dei buoni, nemico della familiarità, dell’umanità, della comunità, e conduce una vita asociale.

SVF III, 679

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 1, I, p. 113, 3 Wendl. <Il Genesi> introduce il giudizio che l’insipiente è un esule. Infatti, se la città appropriata ai [III,170,10] sapienti è la virtù, chi non può partecipare di questa città è stato bandito da essa. Di essa è impossibile che faccia parte l’insipiente. Pertanto soltanto l’insipiente ne è stato bandito ed esiliato.

SVF III, 680

Filone Alessandrino ‘De gigantibus’ 67, II, p. 55, 5 Wendl. Come l’insipiente è un individuo senza casa, un apolide, uno senza delubri e un esule, così è anche un [III,170,15] disertore; mentre il virtuoso è il più saldo degli alleati.

SVF III, 681

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 76 (p. 304 Aucher). In secondo luogo <Mosè> istituì una legge del tutto naturale, che anche alcuni filosofi fecero propria. La legge statuisce che nessun insipiente sia re quand’anche soggiogasse tutta la massa della terra e del mare, e che re sia soltanto il saggio e amante di Dio, che fa a meno degli apparati militari grazie ai quali molti [III,170,20] conquistano il potere con la violenza. E come l’imperito di nautica, di medicina o di musica, salta fuori se messo alla prova del timone, della mistura dei medicamenti, del flauto e della lira (infatti nessuno di questi mezzi egli è capace di utilizzare per l’uso cui è destinato, e si dirà che essi convengono soltanto al nocchiero, al medico e al musico), così se l’ufficio di re è un’arte, l’artista è senza dubbio l’uomo virtuoso. [III,170,25] Infatti chi è imperito e ignaro di ciò che giova all’uomo, va considerato un rozzo e un selvatico, mentre va chiamato re solo a chi ha perizia e conoscenza.

§ 15. Gli insipienti non si danno pensiero della vera ragione

Frammenti n. 682-684

SVF III, 682

Stobeo ‘Eclogae’ II, 104, 10 W. L’insipiente è uno che non ama fare [III,170,30] né ascoltare ragionamenti, in primo luogo perché è impreparato all’accettazione dei retti discorsi a causa dalla capitolarda stoltezza che gli viene dal suo pervertimento, e poi perché nessuno degli insipienti può essere stato spronato né spronare alla virtù. Infatti, chi è stato spronato o sprona altri alla virtù deve essere pronto alla vita filosofica, e chi è pronto a ciò deve vivere in modo non soggetto ad intralci; ma nessuno [III,170,35] degli stolti è un individuo del genere. Giacché l’individuo pronto alla filosofia è non quello che ascolta con slancio e memorizza le frasi dei filosofi, ma colui che è pronto a trasporre in opera le prescrizioni della filosofia ed a vivere in armonia con esse. Nessuno degli insipienti è una persona del genere, essendo già stato conquistato in precedenza dai giudizi del vizio. Se, infatti, [III,170,40] un insipiente avesse potuto essere spronato, egli si sarebbe volto lontano dal vizio; ma nessuno [III,171,1] che sia dedito al vizio si è volto alla virtù, come nessun malato alla salute. Soltanto il sapiente, e nessuno degli stolti, è stato spronato ad essa e può spronarvi altri; e nessuno degli stolti vive in armonia con le prescrizioni della virtù né è amante del ragionamento, ma tutt’al più dei discorsi, fino a [III,171,5] spingersi a qualche chiacchiera superficiale e mai per rinsaldare con le opere il discorso della virtù.

SVF III, 683

Stobeo ‘Eclogae’ II, 105, 7 W. Nessun insipiente è laborioso. La laboriosità è infatti una disposizione d’animo alla elaborazione di quanto ci spetta, senza averne sospetto a causa della fatica. E nessun insipiente s’atteggia invece senza sospetto nei confronti della fatica.

SVF III, 684

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 105, 11 Wachsm. [III,171,10] Nessun insipiente dà alla virtù il rilievo che essa merita, mentre il darle rilievo è virtuoso, essendo conoscenza certa per la quale noi riteniamo di procacciarci qualcosa di rimarchevole. Ma nulla di virtuoso cade in animi insipienti, sicché nessun insipiente dà alla virtù il rilievo che essa merita. Se infatti uno stolto desse alla virtù [III,171,15] il rilievo che essa merita, la pregerebbe tanto da disfarsi del vizio. Ma ogni stolto sta in piacevole solidarietà con il proprio vizio, e non bisogna considerare ciò che il suo discorso, che è insipiente, mette in vista, ma quello che viene delle sue azioni. Ed è dalle loro azioni che gli stolti sono refutati, per non essersi spinti con bramosia ad azioni belle e virtuose bensì a godimenti senza misura e da schiavi.

ETHICA X.

Precetti sul modo di vivere

ossia

Sui singoli doveri intermedi

[III,172,5] § 1. Sul guadagno

Frammenti n. 685-689

SVF III, 685

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 188. Nel secondo libro ‘Sulle vite’ <Crisippo> ragiona sul procurarsi di che vivere e parla del modo in cui il sapiente debba provvedervi. Eppure perché egli deve provvedervi? Se infatti è per vivere, il vivere è un indifferente. Se è per il piacere che se ne trae, anche il piacere è un indifferente. Se è per la virtù, la virtù è autosufficiente [III,172,10] per la felicità. Risibili sono anche i modi per procurarsi di che vivere. Per esempio, grazie ai mezzi che provengono da un re: ma allora egli dovrà cedergli il passo. Grazie a quelli che provengono dall’amicizia: ma allora l’amicizia sarà comperabile per lucro. Grazie a quelli che provengono dalla sapienza: ma allora la sapienza è una cosa mercenaria.

SVF III, 686

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 109, 10. Tre sono i principali tipi di [III,172,15] vita del sapiente: la vita regale, la vita politica e, terzo tipo, la vita scientifica. In modo simile, tre sono anche i principali modi di fare denari: quello che deriva dall’essere re e per il quale o la persona stessa è re oppure prospera grazie ai mezzi provenienti dalla monarchia. Il secondo modo di fare denari è quello legato alla costituzione politica. Infatti egli, in armonia con il discorso precedente, si interesserà di affari cittadini, si sposerà e farà dei bambini, giacché ciò consegue [III,172,20] alla sua natura di creatura logica, socievole ed altruista. Egli dunque otterrà denari dall’attività politica e li otterrà anche dagli amici più altolocati. I seguaci dello Stoicismo si differenziarono invece uno dall’altro circa il significato da attribuire al giudizio che egli ‘vivrà la vita del sapiente’ e al giudizio che ‘prospererà grazie ai mezzi provenienti dal fare vita da sapiente’. Furono invece tra di loro d’accordo sul giudizio che il sapiente otterrà denari da coloro che educa, e che a volte prenderà una paga [III,172,25] dagli amanti del sapere. Tra di loro sorse però una controversia sul significato dei termini impiegati, in quanto alcuni dicevano che il ‘vivere la vita del sapiente’ era proprio questo, ossia il fare parte ad altre persone, dietro pagamento, dei dogmi della filosofia; mentre altri subodoravano invece in quel modo di ‘vivere la vita del sapiente’ che fosse insito qualcosa di insipiente, come se si trattasse di fare mercimonio dei ragionamenti ed [III,173,1] affermavano che non bisogna fare denari con l’educazione di gente qualunque, poiché questo modo di fare denari è troppo al di sotto del buon nome della filosofia.

SVF III, 687

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 130. Tre sono i tipi di vita: la vita teoretica, [III,173,5] la vita pratica e la vita razionale; ed essi affermano che quella da scegliersi è la terza, poiché la creatura logica è stata generata dalla natura idonea alla teoria e alla prassi.

SVF III, 688

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1047f. Nel settimo libro ‘Sul doveroso’, <Crisippo> afferma che il sapiente farà tre capriole, se per questo ottiene in cambio un talento.

SVF III, 689

Cicerone ‘De officiis’ III, 42. Con la sua usuale finezza, Crisippo [III,173,10] dice: “Nello stadio, il corridore deve impegnarsi e gareggiare al massimo delle proprie forze per vincere, ma non deve mai fare lo sgambetto o ritardare con le mani la corsa di un altro concorrente. Così nella vita non è malvagio cercare di ottenere qualcosa che ci è utile, [III,173,15] ma non si ha il diritto di sottrarlo ad un altro”.

§ 2. Sulla vita a corte

Frammenti n. 690-693

SVF III, 690

Stobeo ‘Eclogae’ II, 111, 3 W. L’uomo assennato sarà a volte re, e convivrà con un re il quale palesi buona natura ed amore per il sapere. Nel precedente discorso noi affermavamo che [III,173,20] egli può anche partecipare alla vita politica, ma non nel caso che qualcosa lo impedisca e soprattutto nel caso che ciò non sia di alcun giovamento alla sua patria, e se concepisse che ne conseguono grandi ed aspri pericoli.

SVF III, 691

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1043b-c. Ma proprio Crisippo, nel primo libro ‘Sulle vite’ dice: “Il sapiente si farà [III,173,25] deliberatamente carico del potere regale e ricaverà denari da esso. E qualora non possa regnare convivrà con un re e parteciperà alle sue campagne militari, re quali erano Idantirso lo Scita o Leucone il Pontico”. Citerò di lui anche questo passo […] in cui afferma: “Attenendoci al giudizio [III,173,30] che il sapiente parteciperà alle campagne militari e vivrà con i reali, noi esamineremo di nuovo l’argomento, dato che alcuni neppure lo sottintendono possibile quando fanno simili computi e noi lo abbiamo lasciato da parte per ragioni similari”. E poco dopo: “Non soltanto con coloro che hanno fatto progressi [III,173,35] di un certo rilievo sia nel loro sistema educativo sia acquisendo certe abitudini, come alla corte di Leucone e di Idantirso”.

[2] p. 1043e. E per fare denari, [III,174,1] Crisippo sospinge il sapiente a testa in giù fino a Panticapeo e alla desolata Scizia.

[3] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1061d. E dunque in modo simile, quando la sua salute viene meno, i suoi sensi si ottundono e le sue sostanze vanno in malora, il sapiente è non preoccupato [III,174,5] e ritiene che tutto ciò sia nulla per lui? Oppure: “Quando è ammalato paga l’onorario ai medici, e allo scopo di fare denaro naviga per raggiungere Leucone, sovrano nel Bosforo; e si mette in viaggio per recarsi presso Idantirso lo Scita”? Non è forse Crisippo ad affermare: “Delle sensazioni, ve ne sono alcune perdendo le quali il sapiente non regge più di vivere”?

SVF III, 692

Strabone ‘Geographia’ VII, 8, p. 301. [III,174,10] Coloro che vissero prima di noi [e soprattutto quelli che vissero ai tempi di Omero, erano tali ed] erano concepiti presso i Greci quali li descrive Omero. Guarda anche cosa dice Erodoto [del re degli Sciti, contro il quale Dario fece una spedizione militare, e i messaggi che egli inviò]. Vedi anche cosa dice Crisippo dei re del Bosforo, quelli della casata di Leucone.

SVF III, 693

[1]Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1043e. [III,174,15] Che il sapiente faccia questo per lavoro e per fare denari egli lo ha manifestato in precedenza, ipotizzando tre modi di fare denari che sono specialmente acconci al sapiente: quello legato all’essere re, quello legato agli amici e quello legato al vivere [III,174,20] la vita del sapiente.

[2] p. 1047f. Nei libri ‘Sulle vite’ egli afferma che il sapiente, allo scopo di fare denari, starà con i re; e che vivrà la vita del sapiente per denaro, prendendolo da alcuni discepoli in anticipo e con altri stipulando un accordo al riguardo.

[III,174,25] § 3. Sulla vita di chi gode dei diritti politici

Frammenti n. 694-700

SVF III, 694

Stobeo ‘Florilegium’ 45, 29. Di Crisippo. Crisippo, interrogato sul perché non partecipasse alla vita politica rispose: “Perché se uno vi partecipa da malvagio è sgradito agli dei; se invece vi partecipa da uomo probo è sgradito ai cittadini”.

SVF III, 695

[1] Seneca ‘De otio’ VIII, 1. Aggiungici pure, [III,174,30] sull’autorità di Crisippo, che il saggio può vivere libero da cariche pubbliche. Non auspico che il saggio subisca passivamente tale condizione, ma che la scelga. I nostri Stoici negano al saggio l’accesso a qualunque sorta di carica pubblica.

[2] ‘De tranquillitate animi’ I, 10. Senza esitare e con determinazione io seguo Zenone, Cleante e Crisippo, nessuno dei quali accedette a cariche pubbliche e tuttavia nessuno dei quali si rifiutò di indirizzarvi altre persone.

SVF III, 696

Seneca ‘Epistulae morales’ LXVIII, 2. Noi Stoici non indirizziamo l’uomo a tutte le cariche pubbliche, né per sempre né senza uno scopo preciso. D’altra parte, una volta che abbiamo assegnato al saggio una carica pubblica che è degna di lui, [III,175,1] cioè il mondo, egli stesso non è privo di una carica pubblica anche se vive appartato.

SVF III, 697

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. Come dice Crisippo nel primo libro ‘Sulle vite’, <gli Stoici> affermano che il sapiente parteciperà alla vita politica, se qualcosa non lo impedirà. E con ciò tratterrà [III,175,5] dal vizio e inciterà alla virtù.

SVF III, 698

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034b. Nel libro ‘Sulla retorica’ Crisippo, scrive così: “Il sapiente eserciterà la retorica e parteciperà alla vita politica, come se anche la ricchezza di denaro fosse un bene e tali fossero pure la fama e la salute”. E però ammette che i loro discorsi sono [III,175,10] senza sbocco e senza costrutto politico e che i loro giudizi non sono acconci né ai bisogni né alle azioni.

SVF III, 699

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1045d. Ma le cose che proprio lui a sua volta ha detto in opposizione a queste, poiché non sono ugualmente accessibili a tutti, le citerò con le sue stesse parole. Infatti, nel terzo dei libri [III,175,15] ‘Sull’amministrare la giustizia’ <Crisippo> ipotizza il caso di due corridori che taglino contemporaneamente il traguardo, ed è assai incerto su cosa sia doveroso fare al giudice arbitro. “Forse è possibile, egli dice, che il giudice arbitro dia la palma della vittoria a quello dei due che vuole, in dipendenza della rispettiva maggiore o minore consuetudine con lui, come se egli qui, in un certo modo, lo gratificasse di qualcosa di suo proprio; [III,175,20] oppure piuttosto, essendo la palma della vittoria divenuta proprietà comune di entrambi i corridori, è possibile che egli la dia, come per sorteggio, secondo una sua inclinazione casuale. Dico ‘inclinazione casuale’ per dire quella che capita quando di due dracme proposteci e simili per tutto il resto, [III,175,25] noi ne prendiamo una seguendo la nostra inclinazione”.

SVF III, 700

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 131. La miglior forma di costituzione politica è quella mista di democrazia, monarchia ed aristocrazia.

§ 4. Sulla vita di insegnante di scuola

Frammenti n. 701-704

SVF III, 701

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1043e. Mentre nel libro ‘Sulla natura’ [III,175,30] lo estolle e gonfia di lodi, qui di nuovo <Crisippo> abbatte il sapiente a livello di un lavoratore mercenario e di un sofista. Egli, infatti, richiederà e si farà anticipare il compenso dal discepolo, in alcuni casi subito all’inizio, e in altri casi dopo un certo lasso di tempo; pratica, quest’ultima, che Crisippo afferma essere più costumata, [III,176,1] e che però più sicuro è il compenso anticipato, in quanto questo campo è compatibile con comportamenti ingiusti. Egli dice così: “Gli uomini assennati si fanno pagare il compenso non da tutti allo stesso modo, ma in modo diverso da persona a persona a seconda dei casi, e senza [III,176,5] professare di farne degli uomini virtuosi, e per di più nel giro di un solo anno; ma, per quanto sta a loro, che faranno tutto ciò per il lasso di tempo concordato”. E poi prosegue: “L’uomo assennato saprà se il momento è opportuno per riscuotere il compenso subito all’entrata nella scuola, come hanno l’abitudine di fare i più, oppure di dar loro del tempo; cosa, questa, [III,176,10] maggiormente compatibile con comportamenti ingiusti, anche se sembrerebbe essere più costumata”.

SVF III, 702

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1033d. Nel quarto dei libri ‘Sulle vite’ Crisippo stesso crede che la vita da studioso non differisca per nulla dalla vita edonistica. Citerò le sue parole: [III,176,15] “A me sembra che sbaglino fin da principio quanti concepiscono che ai filosofi spetti soprattutto la vita da studioso, sottintendendo che bisogna fare ciò per passarsela in un certo modo o per un qualche altro scopo similare, e tirare avanti così la vita intera. Ma fare ciò, a vederlo chiaramente, significa passarsela ‘piacevolmente’, giacché non [III,176,20] deve sfuggirci ciò che essi sottintendono, anche se alcuni lo dicono chiaramente e non pochi altri in modo più dubbio”.

[2] p. 1033e. Questo è Crisippo, il vecchio, il filosofo, quello che loda la vita del re e la vita del politico.

SVF III, 703

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1043a. Quello ‘Sulle vite’ è un trattato [III,176,25] in 4 libri. Nel quarto, Crisippo dice che il sapiente è un uomo lontano dagli affari pubblici, che si occupa di poche cose e che si fa gli affari suoi. Questo è il testo: “Giacché io credo che il saggio sia un uomo lontano dagli affari pubblici, che si occupi di poche cose e che si faccia gli affari suoi; e similmente che siano virtuose tanto [III,176,30] l’autodeterminazione pratica quanto l’occuparsi di poche cose”.

SVF III, 704

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1043b. Affermazioni quasi simili egli ha fatto nel libro ‘Sulle cose che possono essere scelte per se stesse’, con queste parole: “Giacché in effetti la vita tranquilla appare possedere qualcosa che la rende al riparo dai pericoli e sicura, anche se pochissimi [III,176,35] sono capaci di notarlo”.

[III,177,1] § 5. Sulla semplicità del vitto

Frammenti n. 705-715


SVF III, 705

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1049a. A proposito dei galli, alcuni Pitagorici incolpano <Crisippo> di avere scritto nei libri ‘Sulla giustizia’: “Essi sono nati per uno scopo a noi proficuo, giacché [III,177,5] ci svegliano, eliminano gli scorpioni e con i loro combattimenti ci attirano, infondendoci una certa emulazione per il loro vigore. E comunque è pur necessario che divoriamo anche loro, affinché la moltitudine dei pulcini non superi il bisogno”.

SVF III, 706

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1044b. Nel libro [III,177,10] ‘La repubblica’ <Crisippo> afferma: “I cittadini nulla faranno né appresteranno in vista dell’ebbrezza”. Loda quindi Euripide per avere proferito queste parole:

‘Peraltro di che han bisogno i mortali salvo di queste due cose sole:

del grano di Demetra e dell’acqua da bere?’

Proseguendo, [III,177,15] loda poi poco dopo Diogene, il quale si masturbava sotto gli occhi di tutti e diceva agli astanti: “Magari potessi sbarazzare così il ventre dalla fame!”.

[2] Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ VI, 16, 6. Se ben ricordiamo i versi di Euripide, dei quali spessissimo si serve Crisippo [III,177,20] e nei quali si dice <che certe leccornie> sono state inventate non perché fossero necessarie alla vita ma per dissolutezza d’animo tipica di chi ha fastidio dei cibi crudi e facili da ottenere, e per malvagia lascivia di sazietà. Pensai dunque di citare questi versi di Euripide:

‘Peraltro di che han bisogno i mortali salvo di queste due cose sole:

[III,177,25] del grano di Demetra e dell’acqua da bere,

che abbiamo a disposizione e che la natura ci dà per nutrirci?

Ma a noi non basta esser sazi di loro, e per effeminatezza

andiamo in caccia della possibilità d’altri mangiarini’.

SVF III, 707

Filone Alessandrino ‘De fortitudine’ II, p. 376 Mang. Nient’affatto carente […] [III,177,30] è neppure un solo uomo che abbia come fornitore la ricchezza indistruttibile della natura: l’aria, il primo, il più necessario e costante cibo, respirata di giorno e di notte ininterrottamente; poi le fonti abbondanti […] ad uso di bevanda; poi per alimento una profusione di semenze d’ogni sorta e forme d’alberi che sempre generano la loro frutta annuale.

SVF III, 708

Ateneo ‘Deipnosophistai’ I, 18b. [III,177,35] Con l’occhio a ciò ch’è confacente, Omero ci mette innanzi gli eroi mentre banchettano con non altro che carni e mentre se le imbandiscono; giacché non gli suscita né una risata né vergogna il vederli nell’atto di preparare le vivande e di farle cuocere. Essi infatti, afferma Crisippo, affettavano la loro indipendenza dai servi e [III,178,1] si facevano belli della loro versatilità. Così Odisseo afferma di essere destro come nessun altro nello scalcare le carni e nell’ammonticchiare legna per il fuoco. Nelle ‘Preghiere’, Patroclo e Achille mettono in pronto ogni cosa, e quando Menelao celebra le nozze, lo sposo [III,178,5] Megapente fa da coppiere. Adesso invece siamo scesi così in basso che banchettiamo sdraiati.

SVF III, 709

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ III, 104b. Dunque, cari amici, se uno volge lo sguardo a queste cose, loderebbe verosimilmente il buon Crisippo, il quale vede con precisione dall’alto ‘La natura’ di Epicuro ed afferma che madrepatria della sua [III,178,10] filosofia è il trattato di gastronomia di Archestrato, questa nobile epopea che tutti i filosofi ghiottoni proclamano essere il loro Teognide.

[2] VII, 278e. Crisippo, da effettivo filosofo e uomo in tutto, afferma che è Archestrato l’autore fondamentale di riferimento per Epicuro e [III,178,15] per coloro che fanno scienza della dottrina, profonda guastatrice d’ogni cosa, dell’ebbrezza. Epicuro, infatti, non si copre la bocca ma lo dice a gran voce: “Quanto a me, io non posso proprio pensare al bene se è disgiunto dall’ebbrezza legata ai sapori e ai rapporti sessuali”. Questo sapiente crede che anche la vita dei dissoluti sarebbe [III,178,20] irredarguibile se ad essa sopravvenissero l’assenza di paura e la pacatezza.

SVF III, 709a

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, 158a. È un giudizio stoico che il sapiente farà bene ogni cosa e che condirà con saggezza anche un piatto di lenticchie. Per questo, Timone di Fliunte diceva di un tale “che non ha imparato a lessare saggiamente le lenticchie alla Zenone”, come se le lenticchie non potessero essere lessate [III,178,25] in un modo diverso dalla ricetta di Zenone, il quale diceva

“di aggiungere alle lenticchie un dodicesimo di semi di coriandolo”.

Cratete di Tebe soleva dire che

“per portare in auge un piatto diverso dalle lenticchie, non gettare tra di noi la sedizione”.

[III,178,30] Crisippo, nel libro ‘Sul bello’, introducendo alcune massime dice:

‘Non mangiare mai l’oliva quando hai l’ortica.

D’inverno, oh! oh! una zuppa di bulbi e lenticchie.

Quando il freddo agghiaccia, una zuppa di bulbi e lenticchie è pari all’ambrosia’

SVF III, 710

Gregorio Nazianzeno ‘Carmina’ I, II, 10, v. 604. [III,178,35] Per esempio, quel discorso dei carissimi Stoici, allorché un tale si rivolge alla propria carne come cianciando con un altro e dice:

‘Di che ti sono in debito, meschina pellaccia?

[III,179,1] Del mangiare? Il pane, pur datoti poveramente è tantissimo.

Del bere? Ti daremo acqua e aceto.

Ma tu non mi chiedi questo, bensì i cibi dell’effeminatezza e dei bagordi,

e il lusso delle coppe di cristallo.

[III,179,5] È anche troppo in pronto e te lo daremo, ma è un cappio!’

SVF III, 711

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 46, Ald. p. 84, 14 Wal. Sono infatti cose delle quali la dimostrazione è a un passo, cose facili, risapute, conoscibili con una breve riflessione. […] Di questo genere sono anche le cose oggetto delle ricerche degli Stoici sui comportamenti doverosi: per esempio, se sia d’uopo, quando si fa colazione in compagnia di altri [III,179,10] o del proprio padre, allungare la mano verso le porzioni più distanti qualora queste siano più grandi; oppure non fare così ma accontentarsi di quelle che si hanno accanto. Oppure se sia d’uopo che quanti ascoltano un filosofo incrocino i piedi.

SVF III, 712

[1] Filone Alessandrino ‘De plantat. Noe’ 142, II, p. 161, 18 Wendl. Molti filosofi si sono non poco industriati nell’analisi di una questione che si può [III,179,15] formulare così: il sapiente si ubriacherà? Ora, ci sono due tipi di ubriacatura. Una consiste nel bere vino puro; un’altra nel vaneggiare in preda al vino. Tra coloro che hanno messo mano alla questione proposta, alcuni hanno affermato che il sapiente non berrà troppo vino puro né vaneggerà; giacché l’una cosa è un’aberrazione, l’altra è fattiva d’aberrazione, ed entrambe sono estranee a chi compie azioni rette. Altri invece hanno dichiarato [III,179,20] che il bere vino puro si conviene anche al virtuoso, ma che il vaneggiare non gli è appropriato. Poiché la saggezza che è in lui è sufficiente per contrastare attivamente quei giudizi che mettessero mano a recargli danno e per demolire quella smania di novità che essi introducono nell’anima, costoro affermano che la saggezza è precinta di una facoltà capace di estinguere le passioni, sia quelle rinfocolate dall’estro di una fiammante passione amorosa, sia quelle rattizzate dal bollore del molto vino, e grazie a questa facoltà il virtuoso riuscirà a [III,179,25] sovrastarle. Anche tra coloro che sprofondano negli abissi di un fiume o del mare, gli inesperti di nuoto vanno incontro alla rovina mentre quanti conoscono bene la faccenda fanno in fretta a preservarsi in vita.

[2] 149. Le cose di questo genere sono dunque, per così dire, il proemio dell’analisi. Portiamo ora a termine il discorso su di essa; discorso che, com’è verosimile, è duplice. Il primo discorso struttura l’argomentazione [III,179,30] che il sapiente si ubriacherà. Il discorso opposto rinsalda l’argomentazione che il sapiente non si ubriacherà. È acconcio parlare dapprima degli argomenti che sono a favore del primo discorso, iniziando da questa constatazione: dei termini usati per designare le faccende, accade che alcuni siano omonimi e che altri siano sinonimi […]

[3] 154. [III,179,35] Gli antichi, come chiamavano ‘puro’ il vino non mischiato con acqua, così lo chiamavano anche ‘bevanda ubriacante’. Proprio questo termine è impiegato in molti luoghi delle composizioni poetiche, di modo che se si usano due sinonimi per lo stesso oggetto, ‘vino puro’ e ‘bevanda ubriacante’, anche i loro derivati verbali, ‘bere vino puro’ e ‘ubriacarsi’, non differiranno altro che per il suono che si emette. Entrambi questi verbi palesano l’uso abbondante di vino, uso dal quale il virtuoso potrebbe, per molte cause, non potersi esimere. [III,179,40] Se dire che ‘berrà vino puro’ è sinonimo di ‘si ubriacherà’, egli però non si troverà in effetti in una condizione peggiore dovuta all’ubriachezza, ma nella stessa condizione di chi ha meramente bevuto del vino puro. Abbiamo così dato una prima dimostrazione circa la ‘ubriachezza’ del sapiente. La seconda è di questo genere […]

SVF III, 713

Stobeo ‘Florilegium’ 18, 24. [III,180,1] Di Crisippo. Egli afferma che l’ubriachezza è una piccola forma di pazzia.

SVF III, 714

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1044d. Nel libro ‘La repubblica’ <Crisippo> dice che “Siamo vicini a [III,180,5] dipingere anche i cessi”. E poco dopo afferma che “Alcuni abbelliscono la campagna con rampicanti e con mirti; allevano pavoni, piccioni, pernici, per udire i loro canti, e anche usignoli”. Mi piacerebbe cercar di sapere da lui cosa pregia delle api e del miele […] se egli dà spazio a queste cose nel suo Stato, perché esclude i cittadini da quanto è delizioso [III,180,10] all’udito e alla vista?

SVF III, 715

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 123. Il sapiente approverà l’esercizio fisico per aumentare la resistenza del suo corpo.

§ 6. Sull’amore

Frammenti n. 716-722

SVF III, 716

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 129. Il sapiente proverà trasporto amoroso [III,180,15] per quei giovani i quali palesano nel loro aspetto un’attitudine da purosangue per la virtù, come affermano Zenone ne ‘La repubblica’, Crisippo nel primo libro ‘Sulle vite’ e Apollodoro ne ‘L’etica’. Il trasporto amoroso è il progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza; non un progetto di accoppiamento carnale ma di amicizia. E dunque Trasonide, [III,180,20] benché abbia in sua potestà l’amata, se ne astiene perché ne è odiato.

SVF III, 717

Stobeo ‘Eclogae’ II, 65, 15 W. <Gli Stoici> nutrono il giudizio che il sapiente, avendo qualità di accortezza e di dialettica, abbia anche quelle di convivialità e d’eroticità. L’eroticità è detta tale in duplice modo: il modo conforme a virtù, che è quello nobile; e quello in denigrazione, conforme al vizio, come quando qualcuno scada nell’erotomania. E il [III,180,25] trasporto amoroso [virtuoso è desiderio di amicizia]. Similmente si dice degno di trasporto amoroso chi è degno d’essere prediletto come amico e non chi è degno d’essere fruito carnalmente, giacché chi è degno di un trasporto amoroso conforme a virtù, questo è degno d’amore. In modo simile all’eroticità, essi assumono tra le virtù la convivialità, la quale verte intorno a ciò ch’è doveroso in un convito ed è la scienza di come debbano essere condotti i conviti e [III,180,30] di come si debba bere in compagnia. A sua volta, l’eroticità è scienza della caccia a giovani di buona natura, capace di spronare all’azione virtuosa e, in generale, scienza dell’amare bene. Perciò essi affermano che l’uomo assennato proverà trasporto amoroso. Ma il solo amare è di per sé un indifferente, dal momento che accade anche tra gli insipienti. Invece il trasporto amoroso è né una smania né una smania di qualche faccenda da insipienti, bensì il progetto di stringere amicizia [III,180,35] per il palesamento della bellezza.

SVF III, 718

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 130. <Gli stoici> dicono che il trasporto amoroso è desiderio di amicizia, come afferma anche [III,181,1] Crisippo nel libro ‘Sull’amore’, e che è non biasimevole. Essi poi definiscono la bellezza fior di virtù.

SVF III, 719

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1072f. I concetti filosofici sulla passione amorosa elaborati nell’ambito della Stoa sono contrari ai concetti di comune buonsenso e hanno tutti [III,181,5] dell’assurdo. “I giovani sono brutti poiché sono viziosi e dissennati; mentre belli sono i giovani sapienti e nessuno di quei giovani belli è oggetto di passione amorosa né è degno di passione amorosa”. Ma non è ancora questa la parte terribile, giacché essi dicono pure che: “Coloro i quali provano passione amorosa per dei giovani brutti, cessano di amarli se essi diventato belli”.

[2] p. 1072b. In primo luogo [III,181,10] non è plausibile che quello che essi chiamano e denominano ‘palesamento della bellezza’ sia ciò che trasporta all’amore, giacché nei giovani più brutti e più viziosi non potrebbe avvenire palesamento alcuno della bellezza; se appunto, come essi dicono, la depravazione del carattere infetta anche l’aspetto.

[3] p. 1072b. Essi affermano che il trasporto amoroso è caccia ad un adolescente imperfetto certo, [III,181,15] ma con una disposizione da purosangue alla virtù.

SVF III, 720

Stobeo ‘Florilegium’ 63, 31, Mein. Di Crisippo. Qualcuno diceva che il sapiente non proverà trasporto amoroso, e portava a testimoni di ciò Menedemo, Epicuro e Alessino. Al che Crisippo ribatteva: “Userò questa dimostrazione. Se Alessino l’incompetente, Epicuro l’incosciente, Menedemo […] dicono di no, allora è certo che il sapiente [III,181,20] proverà trasporto amoroso”.

SVF III, 721

‘Scholia’ in Dionys. Thrac. p. 120, 33 Hilgard. A loro volta gli Epicurei affermano che la passione amorosa è un intenso desiderio di piaceri sessuali, mentre gli Stoici affermano che il trasporto amoroso è il progetto di stringere amicizia con dei giovani per il palesarsi della bellezza. Dunque l’amore è duplice: dell’animo e del corpo.

SVF III, 722

Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ II, p. 75 Ald. [III,181,25] Ma anche il problema che ‘nessun amore è virtuoso’, in generale lo ristruttureremo in negativo dicendo che ‘non ogni amore è vizioso’; e lo discrimineremo in ‘passione amorosa’ che è, come dice Epicuro, un intenso desiderio di piaceri sessuali; e in ‘trasporto amoroso’ che è invece, come affermano gli Stoici, il progetto di stringere amicizia per il palesarsi della bellezza.

[III,181,30]

§ 7. Sull’amicizia e la riconoscenza

Frammenti n. 723-726

SVF III, 723

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 483 Pott. Ci viene insegnato che vi sono tre specie di amicizia. Di queste, la prima e anche la migliore è l’amicizia conforme a virtù, giacché un amore caritatevole che origini dalla ragione è inconcusso. La seconda e intermedia è quella per contraccambio, che è una specie socievole, [III,181,35] partecipativa e giovevole alla vita, giacché l’amicizia che deriva dalla riconoscenza è mutua. La terza ed ultima specie è quella che noi chiamiamo amicizia per consuetudine; per altri, invece, è l’amicizia secondo piacere, che è commutabile e labile.

SVF III, 724

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1039b. [III,182,1] Inoltre, nel secondo libro ‘Sull’amicizia’, insegnando che non bisogna dissolvere le amicizie in seguito ad un’aberrazione qualunque dell’amico, <Crisippo> usa queste parole: [III,182,5] “Conviene che alcune aberrazioni siano messe del tutto da parte; che alcune incontrino da parte nostra una piccola pensosità; che alcune ne incontrino una maggiore e che alcune aberrazioni siano da noi valutate come cause del tutto degne di dissoluzione dell’amicizia”. [E, quel che è più importante,] egli afferma nello stesso libro: “Inoltre noi conferiremo di più con alcuni e di meno con altri, sicché saremo maggiormente amici di alcuni e meno di altri. Se questo [III,182,10] divario dura a lungo, alcuni diventeranno degni di un certo grado di amicizia, altri di un altro grado; e alcuni saranno da noi valutati degni di un certo grado di fiducia e cose simili, altri di un altro grado”.

SVF III, 725

Seneca ‘De beneficiis’ II, XVII, 3. Voglio ricorrere ad una similitudine del nostro Crisippo, tratta dal gioco della palla. Se la palla finisce a terra, non c’è dubbio che la colpa sia di chi la lancia o di chi la riceve, ed essa mantiene la giusta traiettoria [III,182,15] solo quando passa da una mano all’altra, lanciata e ricevuta da entrambi con abilità. Ma il buon giocatore deve lanciarla in modo diverso a seconda che il suo compagno di gioco sia lontano o vicino. Lo stesso principio vale anche per il beneficio. Se questo non si adatta alla personalità di entrambi, di chi dà e di chi riceve, non lascia l’uno e non arriva all’altro come deve. Se si gioca con un compagno abile ed esperto, [III,182,20] noi lanceremo la palla con più audacia: infatti, comunque egli la riceverà una mano agile e pronta ce la rilancerà. Se invece giochiamo con un pivello e un incapace, non la lanceremo a braccio teso e con violenza, ma piuttosto piano, e gliela indirizzeremo con calma quasi nella mano. La stessa cosa va fatta con i benefici: alcuni uomini hanno bisogno di insegnamenti, per altri dobbiamo giudicare sufficiente che si sforzino, che ci provino, che mostrino buona volontà. Difatti molto spesso siamo noi [III,182,25] a rendere gli altri ingrati, o a favorire la loro ingratitudine, come se i nostri benefici fossero grandi solo quando non possiamo da loro averne il contraccambio. Siamo come i giocatori malevoli che si propongono di mettere in ridicolo il compagno anche a scapito del gioco, che non può svolgersi se non c’è cooperazione. [III,182,30]

SVF III, 726

Seneca ‘De beneficiis’ II, XXV, 3. Chi ha intenzione di essere riconoscente, pensi subito alla restituzione già nell’atto di ricevere. Crisippo dice che dev’essere come il concorrente pronto alla gara di corsa, chiuso dietro [III,182,35] le sbarre di partenza e che aspetta il momento esatto in cui si dà il via per scattare. E certo ha bisogno di grande spinta, di grande velocità per raggiungere chi gli sta innanzi.

[III,183,1] § 8. Sul matrimonio e la famiglia

Frammenti n. 727-731

SVF III, 727

[1] Girolamo ‘Adversus Iovinianum’ II, 48. Fa ridere Crisippo quando prescrive al saggio di prendere moglie per non offendere Giove Gamelio e Genetlio. Se così fosse, infatti, presso i Latini il saggio non sarebbe tenuto a prendere moglie, dato che per essi non esiste [III,183,5] un Giove protettore delle nozze.

[2] Dione Crisostomo ‘Orationes’ VII, 134. [I lenoni] non hanno vergogna di nessuno, né di uomini né di dei; né di Zeus protettore delle nascite, né di Era protettrice delle nozze.

SVF III, 728

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 131. Ha il beneplacito degli Stoici il pensiero che presso i sapienti le donne debbano essere comuni, di modo che l’uomo saggio che capita possa avere relazioni [III,183,10] con la donna saggia che capita, come affermano Zenone ne ‘La repubblica’ e Crisippo nel libro ‘Sulla repubblica’. Così saremo altrettanto affezionati ad ogni bambino a mo’ di padri, e ci toglieremo d’attorno la gelosia per l’adulterio.

SVF III, 729

Origene ‘Contra Celsum’ VII, 63, Vol. II, p. 213, 6 K. Quanti vivono secondo la filosofia di Zenone di Cizio avversano l’adulterio […] [III,183,15] giacché esso non è un’azione socievole; ed è contro la natura delle cose, per una creatura logica, rendere adultera una donna già legalmente maritata ad un altro e rovinare la famiglia di un altro uomo.

SVF III, 730

Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ II, p. 224 Pott. Se infatti, come ammettono gli Stoici, la ragione non consente al sapiente di muovere a caso neppure un dito; coloro che inseguono la sapienza [III,183,20] non debbono avere molto di più il completo dominio di quel loro pezzo che serve per l’accoppiamento sessuale?

SVF III, 731

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 120. Essi reputano che i virtuosi venereranno genitori e fratelli al secondo posto, subito dopo gli dei. Ed affermano che l’affettuosità verso i figlioli è naturale per i virtuosi, [III,183,25] mentre non lo è per gli insipienti.

§ 9. Sull’educazione dei figli e l’istruzione

Frammenti n. 732-742

SVF III, 732

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 16, Vol. I, p. 285, 23 K. Vi sono differenti, come dire, conformazioni possibili di discorso, a seconda di come questo appare a ciascuno di coloro che sono interessati a condurre altri alla scienza e in analogia alla postura dell’animo di chi vi è condotto: se si tratta di qualcuno [III,183,30] che è progredito di poco, o di chi è progredito di più, o di chi è ormai vicino alla virtù, o di chi vi è già giunto.

SVF III, 733

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 1, 15. Alcuni reputarono che ai minori di sette anni non si debba insegnare a leggere, giacché quella è l’età alla quale il loro intelletto è per la prima volta capace di apprendere e di sopportarne la fatica. […] Migliore però è l’avviso di coloro, [III,183,35] come Crisippo, i quali vogliono che a nessuna età la mente rimanga inattiva. Infatti egli giudica che anche nel triennio in cui sono affidati alle nutrici, la mente degli infanti vada da esse formata con i migliori insegnamenti possibili.

SVF III, 734

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 1, 4. Innanzitutto la lingua delle nutrici non [III,184,1] deve essere scorretta. Per Crisippo l’ideale era che fossero tutte filosofe, e comunque volle che fossero scelte le migliori possibili. Indubbiamente il primo criterio di scelta è rappresentato dai loro costumi, ma esse devono anche parlare correttamente la lingua, giacché sono loro le prime persone che il bambino sentirà parlare e tenterà [III,184,5] di imitare pronunciandone le parole.

SVF III, 735

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 10, 32. Si racconta che Pitagora calmò l’eccitazione di giovani che commettevano atti violenti in una casa perbene, comandando alla flautista di mutare il ritmo della sua musica in spondaico. Anche Crisippo attribuisce la paternità di un certo suo carme alla nutrice che ha il compito di calmare [III,184,10] i bambini.

SVF III, 736

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 3, 14. Con gli alunni, io proprio non vorrei ricorrere alle percosse; anche se ciò è generalmente accettato e Crisippo non lo disapprova.

SVF III, 737

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 11, 17. In particolare questa chironomia che, come dichiara la parola stessa, è legge a gesti, è sorta in tempi eroici, [III,184,15] è stata approvata dai più grandi uomini di Grecia e dallo stesso Socrate; è stata posta tra le virtù civili da Platone e non è stata trascurata da Crisippo, il quale l’ha inclusa nei precetti per l’educazione dei figli.

SVF III, 738

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 129. Crisippo afferma che anche [III,184,20] le nozioni enciclopediche sono proficue.

SVF III, 739

Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 78, I, p. 234, 7 Wendl. È pertanto giovevole, se pur non per ottenere il possesso della perfetta virtù ma almeno per la costituzione politica, anche il nutrirsi delle antiche e antichissime opinioni ed inseguire l’eco di remote tradizioni di opere belle che gli storici e tutta la stirpe dei poeti [III,184,25] hanno trasmesso alla memoria dei contemporanei e dei posteri.

SVF III, 740

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 10, 15. Anche i massimi esponenti della Scuola che ad alcuni appare severissima e ad altri rigorosissima, furono dell’avviso che alcuni saggi dedicheranno parte del loro impegno a questi studi <musicali>.

SVF III, 741

Origene ‘Contra Celsum’ III, 25, Vol. I, p. 221, 3 K. [III,184,30] Se pertanto la medicina dei corpi è un’arte intermedia e una faccenda appannaggio non soltanto dei virtuosi ma anche degli insipienti, arte intermedia è anche quella che pronostica gli eventi futuri, giacché chi fa pronostici non palesa sempre di essere un virtuoso.

SVF III, 742

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 96, Vol. I, p. 368, 23 K. È d’uopo [III,184,35] sapere che pronosticare gli eventi futuri non è sempre qualcosa di divino, in quanto è un’arte mediana appannaggio sia degli insipienti che dei virtuosi. Anche i medici sono in grado di fare delle prognosi sulla base dell’arte medica pur se capita che essi siano eticamente insipienti. Allo stesso modo anche i piloti, pur essendo per caso persone depravate, [III,184,40] grazie ad una certa esperienza e capacità di osservazione sanno riconoscere in anticipo certi indizi, la veemenza dei venti e i rivolgimenti dell’ambiente circostante. Certamente non per questo, se capita che siano eticamente depravati, si direbbe che essi siano persone divine.

[III,185,1] § 10. Frammenti sul Cinismo

Frammenti n. 743-756

SVF III, 743

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 45, p. 538 Delarue. Anche i Greci hanno fatto ricerche sulla natura del ‘bene’, del ‘male’ e di ciò ch’è ‘indifferente’. Quelli tra di loro che hanno fatto centro in queste indagini ripongono il ‘bene’ e il ‘male’ unicamente nella proairesi, [III,185,5] ed affermano che ‘indifferenti’ sono, di per sé, tutte le entità delle quali si è appurato che sono sprovviste di proairesi. Essi sostengono inoltre che la proairesi la quale utilizza nel modo dovuto queste entità ‘indifferenti’ può essere lodata, mentre se le utilizza in un modo non dovuto può essere denigrata. Nell’ambito delle cose indifferenti essi poi dicono che, di per sé, congiungersi sessualmente con le proprie figlie è un ‘indifferente’, anche se è d’uopo non fare una cosa del genere nelle comunità politicamente costituite. Ma a rappresentanza [III,185,10] del fatto che una cosa simile è un ‘indifferente’ essi hanno assunto, a mo’ d’ipotesi, che il sapiente e la sua unica figlia siano rimasti i soli sopravvissuti di tutto il genere umano andato in rovina. E cercano allora di capire se sarà doveroso che il padre abbia dei coiti con sua figlia affinché, sempre in questa ipotesi, non vada in malora tutto il genere umano. [III,185,15] È pertanto sano il modo in cui questi argomenti si discutono tra i Greci, e la non spregevole scuola Stoica parla per loro […]

SVF III, 744

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 188. Ne ‘La repubblica’ <Crisippo> afferma <lecito> avere dei coiti con le madri, con le figlie e con i figli. Le stesse cose egli le afferma anche nel libro ‘Sulle cose che possono essere scelte non per se stesse’, subito all’inizio.

SVF III, 745

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 192. [III,185,20] Crisippo ne ‘La repubblica’ afferma letteralmente così:

“Reputo lecite queste pratiche, che anche adesso sono abitudini non cattive di molte persone, per le quali il padre <genera prole> dalla propria figlia e il fratello dalla sorella”.

[2] ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 246. [III,185,25] Crisippo ha al riguardo lo stesso punto di vista e, ne ‘La repubblica’, afferma: “Reputo lecite queste pratiche, che anche adesso sono abitudini non cattive di molte persone, per le quali la madre fa dei figli col proprio figlio, il padre con la propria figlia e il fratello con la [III,185,30] sorella”.

[3] III, 200. E cosa vi è di stupefacente in ciò, laddove anche i filosofi Cinici e i seguaci di Zenone di Cizio, di Cleante e di Crisippo affermano che questo è un ‘indifferente’?

SVF III, 746

Epifanio ‘Adversus haereses’ III, 39 (DDG 593, 1). [III,185,35] Crisippo di Soli scrisse norme non conformi alle leggi divine, giacché disse che i figli devono congiungersi sessualmente con le madri e le figlie con i padri. Quanto al resto, fu d’accordo con Zenone di Cizio. Oltre a ciò, egli parlava [III,186,1] di antropofagia e soleva dire che fine di tutto è la sensualità.

SVF III, 747

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 188. Nel terzo libro ‘Sul giusto’, per un migliaio di righe <Crisippo> intima di divorare i morti.

[2]VII, 121. [III,186,5] […] <e che il virtuoso> in certe circostanze gusterà carne umana.

SVF III, 748

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 192. Quanto essi professano circa l’antropofagia potrebbe diventare un assaggio della loro santità circa i defunti; giacché essi non soltanto ritengono lecito mangiare [III,186,10] i morti ma mangiare le loro stesse carni, nel caso di amputazione di una parte del corpo. Nel libro ‘Sulla giustizia’ Crisippo dice questo: “Qualora una parte delle nostre membra venga amputata e sia proficua come cibo, non è il caso di sotterrarla né di scagliarla via ma di [III,186,15] consumarla, affinché divenga un’altra parte delle nostre membra”.

SVF III, 749

Plutarco ‘De esu carnium’ p. 999e. Considera quali filosofi ci addomestichino di più: quelli che intimano di mangiare figlioli, amici, padri e mogli quando muoiono oppure Pitagora ed Empedocle.

SVF III, 750

[1] Teofilo ‘Ad Autolycum’ III, 5, p. 196 Otto. [III,186,20] Siccome ne hai letti molti, cosa te ne pare dei giudizi che i libri di Zenone o di Diogene o di Cleante abbracciano; libri che insegnano il cannibalismo, che i figli lesseranno e ingeriranno le carni dei loro padri e, se uno decidesse di non farlo oppure decidesse di scaraventare via un membro di questo fiero pasto, a divorare [III,186,25] chi si rifiuta di mangiare? Oltre costoro si trova poi una voce ancora più atea, quella di Diogene; il quale insegna ai figli di offrire in sacrificio i propri genitori e poi di divorarli.

[2] 6, p. 198. Inoltre Epicuro e gli Stoici nutrono il giudizio che siano lecitamente realizzabili incesti tra fratelli e sorelle e l’omosessualità maschile; e di questi insegnamenti [III,186,30] hanno riempito le biblioteche.

SVF III, 751

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VI, 12. Non mancarono neppure coloro che fecero della sepoltura un lusso inutile, e dissero che nulla c’era di male nell’essere abbandonati insepolti. L’intero genere umano rigetta con sdegno l’empia sapienza di costoro, ed anche la rivelazione divina ordina che ciò non avvenga. In verità quei filosofi [III,186,35] non osano dire che ciò non deve essere fatto; ma che se per caso non ci fosse sepoltura, non sarebbe una disgrazia. Insomma, su questa faccenda essi fungono non tanto da consiglieri quanto da consolatori; di modo che se ciò capitasse al saggio, egli non si abbatta per questo.

SVF III, 752

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 194. Nel libro ‘Sul doveroso’ Crisippo, [III,186,40] dando delle spiegazioni circa la sepoltura dei genitori afferma espressamente: “Una volta deceduti i nostri genitori, si debbono utilizzare forme di sepoltura [III,187,1] le più modeste possibili, trattando il loro corpo come se si trattasse di un’unghia o di capelli che nulla sono per noi e non abbisognano da parte nostra di alcun pensiero né avvertenza. Perciò se dei pezzi delle loro carni sono proficui come cibo, i parenti le utilizzeranno come fanno anche delle parti [III,187,5] del loro corpo: per esempio, come spetterebbe utilizzare un piede amputato e cose similari. Se invece esse non sono utilizzabili, dopo averle sotterrate vi apporteranno sopra il tumulo sepolcrale, oppure dopo averle incenerite ne disperderanno le ceneri, oppure scagliatele ancora più lontano non se ne daranno più alcun pensiero, come se si trattasse di un’unghia o di capelli”.

SVF III, 753

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1044f. [III,187,10] Nel […] dei ‘Discorsi esortativi’, Crisippo dice che si calunnia senza ragione l’accoppiarsi con madri o sorelle o figlie, il mangiare certi cibi e il procedere verso un luogo sacro venendo da una puerpera o da un morto. Ed afferma che bisogna volgere lo sguardo alle belve, ed arguire dai loro comportamenti che nessuna cosa di quel genere [III,187,15] è assurda o contro natura. Al riguardo, infatti, sono tempestivi i paralleli con gli altri animali, per evidenziare che essi non contaminano il divino né quando s’accoppiano né quando partoriscono né quando muoiono in luoghi sacri.

SVF III, 754

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1045a. A sua volta, nel [III,187,20] quinto libro ‘Sulla natura’ <Crisippo> dice: “Esiodo fa bene a vietare di orinare nei fiumi e nelle sorgenti. E ancor più ci si deve astenere dall’orinare sugli altari o su un’effigie divina. Non è infatti un’azione ragionevole, anche se i cani, gli asini e i bambini infanti lo fanno perché non se ne danno alcun pensiero e non si rendono razionalmente conto delle cose di questo genere”.

SVF III, 755

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 201. [III,187,25] E noi vediamo che gli Stoici dicono non essere assurdo il coabitare con una prostituta o il passare la vita grazie al lavoro di una prostituta.

SVF III, 756

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 26, Vol. I, p. 295, 29 K. E quelli che vanno a puttane con indifferenza e insegnano pure che questo [III,187,30] non è affatto contrario a ciò ch’è doveroso.

§ 11. Sul trapassar di vita in armonia con la ragione

Frammenti n. 757-768

SVF III, 757

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 130. Essi affermano che il sapiente uscità fuor di vita a ragion veduta, sia a vantaggio della patria che degli amici, e anche nel caso sia vittima di [III,187,35] sofferenze lancinanti o di storpiature o di malattie incurabili.

SVF III, 758

Stobeo ‘Eclogae’ II, 110, 9 W. <Gli Stoici> affermano che il trapassar di vita [III,188,1] è a volte per molti versi doveroso per gli uomini virtuosi, mentre per gli stolti lo è la permanenza in vita anche se dovessero poi non diventare sapienti. La virtù, infatti, non rattiene in vita né il vizio ce ne fa sortire. La vita e la morte vanno parametrate [III,188,5] sulla base di ciò ch’è doveroso e di ciò che non lo è.

SVF III, 759

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1042d. Ma, essi affermano, Crisippo non crede assolutamente che la permanenza in vita vada parametrata ai beni e il trapassar di vita ai mali, bensì che esse vadano parametrate alle entità intermedie secondo natura. Perciò anche per gli uomini felici diventa a volte doveroso [III,188,10] trapassar di vita, e invece rimanere in vita per le persone infelici.

[2] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1063d. Questa, pertanto, è la legislazione vigente nella Stoa; e gli Stoici suggeriscono a molti saggi di trapassar di vita, giudicando meglio cessare di vivere mentre si è felici. Rattengono invece in vita molti insipienti, giudicando per loro doveroso che vivano essendo infelici. Eppure il sapiente è opulento dei veri beni, [III,188,15] beato, interamente felice, sicuro, al riparo dai pericoli; mentre l’insipiente è invece tanto dissennato da poter dire:

‘Trabocco di mali e non v’è più dove se ne possano mettere’

Nonostante questo, gli Stoici credono che per costoro sia doverosa la permanenza in vita e invece per quelli che lo sia il trapassar di vita. E ciò è verosimile, afferma Crisippo, giacché la vita non va [III,188,20] parametrata ai beni e ai mali ma a ciò ch’è secondo la natura delle cose ed a ciò ch’è contro la natura delle cose.

SVF III, 760

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1042a. Nel terzo libro ‘Sulla natura’ <Crisippo> rimarca: “È vantaggioso vivere da stolto piuttosto che non vivere, anche se non si dovesse mai diventare saggio”. Poi soggiunge:

“Per gli uomini i beni sono siffatti che, in un certo [III,188,25] modo, anche i mali vengono per importanza prima delle cose intermedie”.

[2] p. 1042b. Le cose cosiddette ‘intermedie’ sono, per loro, né bene né male.

[3] p. 1042c. Poiché ha deciso di appianare quest’assurdità, <Crisippo> soggiunge circa i mali: [III,188,30] “Quelli che per importanza vengono prima non sono questi ma la ragione, con la quale piuttosto spetta a noi vivere anche se saremo stolti”. Una prima volta, dunque, egli chiama ‘male’ il vizio e ciò che partecipa del vizio e null’altro. Ma il vizio ha a che fare con la ragione o, piuttosto, è la ragione che aberra […]

SVF III, 761

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1039d. Nei libri [III,188,35] ‘Sull’esortare’, prendendosela con Platone per avere detto che per chi non impara e non sa vivere conviene morire, <Crisippo> dice testualmente: [III,189,1] “Un discorso siffatto è contraddittorio e ben poco esortativo. In primo luogo, infatti, additando che per noi è molto meglio non vivere e sollecitandoci, in un certo senso, a morire, ci sprona piuttosto ad altro che al vivere la filosofia; giacché non si può [III,189,5] vivere la filosofia se non si è in vita e neppure è possibile diventare saggio se non dopo essere sopravvissuti per molto tempo nel vizio e nell’inesperienza”. Proseguendo poi afferma: “È doveroso anche per gli insipienti rimanere in vita”. E poi testualmente: “In primo luogo, la mera virtù non è un motivo perché noi si viva, così come il vizio non è un motivo perché noi si debba [III,189,10] andarcene dalla vita”.

SVF III, 762

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1064a. Anche per Eraclito e Ferecide, essi affermano, sarebbe stato doveroso, se l’avessero potuto, tralasciare virtù e saggezza pur di disfarsi dei pidocchi e dell’idropisia. E di Circe che mescesse due [III,189,15] farmaci, uno che rendeva stolti i saggi lasciando loro l’aspetto umano e un altro che trasformava gli uomini in asini saggi, ad Odisseo sarebbe convenuto bere il farmaco che rendeva stolti piuttosto che mutare forma e prendere aspetto animale pur conservando la saggezza, ed evidentemente insieme con la saggezza anche la felicità. Essi affermano poi che la saggezza stessa lo fa capire [III,189,20] e lo dice quando esorta: “Lasciami e spregiami pure dal momento che vado in malora e mi rovino prendendo l’aspetto di un asino”.

[2] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ V, 11. Cicerone dice bene: “Se tutti preferirebbero morire piuttosto che vedersi trasformati in bestie pur con mente umana, [III,189,25] quanto più misero è un corpo da uomo con un animo da bestia? A me sembra tanto più misera quanto più l’animo è superiore al corpo.

SVF III, 763

Cicerone ‘De finibus’ III, 60. Siccome tutti gli atti doverosi originano dalle pulsioni naturali primarie, non a caso si dice che ad esse fanno riferimento [III,189,30] tutti i nostri pensieri e, tra questi, anche il pensiero di uscir di vita o di rimanervi. Per colui nel quale prevalgono i pensieri secondo natura è doveroso restare in vita. Per colui invece nel quale prevalgono o prevarranno i pensieri contrari è doveroso uscir di vita. Da ciò appare che a volte è doveroso anche per il saggio uscir di vita pur essendo beato, e per lo stolto restare in vita pur essendo [III,189,35] infelice. Infatti il bene e il male […] sono qualcosa che nasce soltanto dopo che quelle pulsioni naturali primarie siano cadute, quali materiali sui quali egli pratica la sapienza, sotto il giudizio e la scelta del saggio che decide cosa sia secondo natura o contro natura. Pertanto la decisione razionale di vivere o morire deve scaturire dai giudizi e dalle scelte che ho appena detto. Il saggio non è tenuto in vita dalla virtù, [III,189,40] né chi è privo di virtù deve ambire la morte. Spesso è doveroso che il saggio si stacchi [III,190,1] dalla vita pur nel pieno della felicità, qualora possa farlo in modo opportuno. Essi infatti pensano che la vita beata, ossia la vita secondo natura, consista nel cogliere le opportunità che si presentano; e pertanto la saggezza può intimare al saggio l’abbandono di se stessa, se ciò è opportuno. Ora, siccome i vizi [III,190,5] non hanno il potere di indurre a darsi volontariamente la morte, è perspicuo che è doveroso per gli stolti restare in vita anche se infelicissimi, qualora possiedano la maggior parte di quelle cose che noi diciamo secondo natura. E dato che lo stolto, che viva o che muoia, è sempre ugualmente infelice, né un prolungamento della vita gliela rende più da fuggirsi, non a caso si dice [III,190,10] che quanti possono fruire di molte cose naturali devono restare in vita.

SVF III, 764

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 168, 1 Bruns. In generale, se la virtù da sola è sufficiente a procurarci una vita in sommo grado felice e beata, com’è possibile che per l’uomo virtuoso sia secondo ragione il trapassar di vita, dal momento che egli sta vivendo beatamente? Infatti, com’è assurdo dire che Zeus vuole morire, [III,190,15] così è assurdo che colui che vive altrettanto beatamente di Zeus trapassi ragionevolmente proprio da questa vita, quando si tenga conto che le cose corporali e quelle esterne sono ‘indifferenti’ e non fanno né aboliscono la felicità mentre la virtù, la cui presenza è la sola in grado di strutturare la vita beata e di custodirla saldamente tale, non abbandona mai il sapiente. […] Come può essere ragionevole che la virtù [III,190,20] sottoponga questa scelta al sapiente?

SVF III, 765

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ IV, 6, p. 576 Pott. Ora, anche i filosofi convengono sul fatto che sia ragionevole per il virtuoso il trapassar di vita, se qualcosa lo privasse a tal punto della possibilità di agire che non gliene avesse lasciato neppur più la speranza.

SVF III, 766

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 160, 24 Bruns. [III,190,25] Se l’attività della virtù consiste nella selezione delle cose che sono secondo natura e che le sono appropriate, e nella reiezione e nell’avversione delle cose opposte a queste; è manifesto che le cose che sono selezionate debbono essere presenti. Non sempre, infatti, queste cose sono presenti all’uomo, ed è pertanto a causa della carenza di esse che a volte l’uomo virtuoso si suicida. Il trapassar di vita, allora, non è dovuto [III,190,30] all’impossibilità di selezionare queste cose, il che è opera della virtù, ma all’assenza di cose che non dipendono da essa.

SVF III, 767

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 159, 19 Bruns. Il virtuoso potrebbe in certi casi lasciare volontariamente la vita, e una vita virtuosa, scegliendo di trapassar la vita secondo ragione.

SVF III, 768

Excerpta Philos., Anecdota Paris., IV, p. 403 Cramer. [III,190,35] Anche i filosofi Stoici […] concepirono la filosofia come studio della morte naturale. Perciò essi hanno scritto di cinque modi di trapassar di vita secondo ragione. La vita, essi affermano, somiglia ad un lungo convito al quale l’animo pare rimpinzarsi. E quanti sono i modi in cui si scioglie un convito, [III,190,40] tanti sono i modi in cui possono avvenire i trapassi di vita secondo ragione. Un convito si scioglie in cinque modi. Per un grande bisogno che ci piglia improvvisamente; per esempio, la comparsa dopo qualche tempo di un amico: per la gioia gli amici s’alzano e il convito si scioglie. Similmente, il convito si scioglie per l’irruzione di gente che impazza in baldoria o nel turpiloquio. Perché le portate sono putrefatte e insalubri. [III,191,1] Per l’insufficienza di viveri. Per ubriachezza. Anche i trapassi di vita secondo ragione avvengono dunque nei medesimi cinque modi. Per un grande bisogno che ci piglia, come quando la Pizia ingiunse ad un tizio [III,191,5] di sgozzarsi in favore della sua città poiché la rovina incombeva su di essa. […] Perché i tiranni impazzano e ci costringono ad effettuare cose vergognose o a dire dei segreti. Perché una lunga malattia impedisce all’animo di usare gran parte del corpo come strumento; ed è secondo ragione che essa ne esca fuori. È per questo che Platone non [III,191,10] approva la medicina dietetica, giacché essa lenisce gli stati morbosi e li cronicizza, ed invece approva la chirurgia e la farmacologia, delle quali si serviva il medico militare Archigene. Anche Sofocle afferma:

‘Non è da medico sapiente

intonare formule magiche dinanzi alla ferita aperta’

[III,191,15] Per povertà di denaro; e ben lo dice Teognide:

‘Per fuggire la povertà di denaro è d’uopo…’

Per vaneggiamento. Come là l’ubriachezza scioglieva il convito, così qui è possibile che uno si tolga la vita per vaneggiamento. Il vaneggiamento non è altro che un’ubriachezza naturale e l’ubriachezza non è altro che un vaneggiamento proairetico. E ciò è tutto [III,191,20] a questo proposito.

[III,192,1] Appendice I.

*Frammenti di Crisippo relativi alle opere di Omero

Frammenti n. 769-777

SVF III [App. I] 769

‘Scholia’ in Hom. Iliad. I, 129. Zoilo di Amfipoli [III,192,5] e lo stoico Crisippo credono che il poeta cada in un solecismo quando usa il verbo al plurale invece che al singolare, ed affermano che la forma ‘dòsi’ è plurale. Essi però ignorano che…

SVF III [App. I] 770

‘Scholia’ in Hom. Iliad. I, 405. … che accanto al Cronide <sedette>. Da qui viene che ciò non è detto rettamente se riferito ad Ares (Iliad. V, 906); ma Omero, come fosse uno Stoico, [III,192,10] afferma che è figlio di Poseidone.

SVF III [App. I] 771

[1] ‘Scholia’ in Hom. Iliad. VIII, 441. ‘ambomòisin’ . Crisippo la menziona come una parola sola, mentre Aristarco ne fa invece due parole distinte.

[2] ‘Etymologicum Magnum’ s.v. ‘ambomòisin’ vale ‘antì tu perì tòis bomòis’. Crisippo la menziona come una parola sola, mentre Aristarco ne fa invece due parole distinte.

SVF III [App. I] 772

‘Scholia’ in Hom. Iliad. X, 252. [III,192,15] Crisippo afferma che è come quando uno discorre di un periodo di tre giorni e dice del terzo giorno che manca ancora un giorno <alla fine di tale periodo> pur senza fare questo discorso all’alba. Così pure Odisseo, anche se erano passate più di due parti della notte, afferma che rimane ancora la terza parte, giacché se la notte è divisa in tre parti, ciascuna delle tre parti viene presa e considerata singolarmente. [III,192,20] Pur essendo dunque parziale e incompleta questa parte, essa viene però contata come terza, al modo in cui nella serie dei giorni <quello di cui si parlava prima> era il terzo. Così pure l’uomo mantiene integro l’appellativo di uomo fino ai piedi.

SVF III [App. I] 773

‘Scholia’ in Hom. Iliad. XIII, 41. Lo stoico Crisippo [III,192,25] e Dionisio il Trace, perché sia ‘auìachoi’ pronunciano questa parola con lo spirito aspro e voce rauca.

SVF III [App. I] 774

‘Scholia’ in Hom. Iliad. XV, 241. ‘amfì e gignòscon’ [….] Crisippo suggerisce di eliminare la epsilon come superflua e dice ‘amfìgnoòn antì tù antibàllon’.

SVF III [App. I] 775

‘Scholia’ in Hom. Iliad. XXII, 212. ‘méssa’ Crisippo scrive ‘rùma’ [III,192,30] giacché l’inclinarsi del giogo della bilancia si chiama ‘rùmen’

SVF III [App. I] 776

‘Scholia’ in Hom. Odyss. V, 240 [III,193,1] ‘perìkela’ : Aristarco l’intende come ‘secchi’, ‘riairsi dal sole’. Crisippo invece lo suddivideva in due parole: ‘perì’ ‘kéla’ ossia ‘oltremodo secchi’.

SVF III [App. I] 777

‘Scholia’ in Hom. Iliad. V, 2. ‘epikunéin’ (p. 361, 13 Gaisf.). E Crisippo scriverà [III,193,5] Ermes Cillenio, poiché la sua verga incanta gli occhi degli uomini […] I Feaci fanno sacrifici in suo onore la sera, come dice Omero ‘quando pensino al riposo’ non perché era apportatore di sogni ma perché causasse un piacevole sonno.

Appendice II.

*Frammenti di Crisippo relativi ai singoli libri

SVF III [App. II] IX, 2.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VII, p. 285d. [III,195,1] Nel suo libro ‘Sulle cose che possono essere scelte per se stesse’, il filosofo Crisippo afferma: “Ad Atene la gente disdegna le acciughe a causa della loro sovrabbondanza, e dice trattarsi di una pietanza da poveracci. Nelle altre città, invece, la gente va matta per le acciughe anche se sono di peggiore qualità. Inoltre, dice sempre Crisippo, qui [III,195,5] alcuni si danno un gran da fare nell’allevamento di volatili dell’Adriatico, pur se di minor pregio di quelli delle nostre parti in quanto molto più piccoli. E però quelli là, al contrario, importano i volatili allevati qui”.

SVF III [App. II] X, 2.

[III,195,10]

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 159a. <Ma Capaneo non era> come quel tale che il buon Crisippo descrive nel suo libro ‘Sulle cose che possono essere scelte non per se stesse’ dicendo così: “A tal punto certuni cadono in basso davanti al denaro, che le storie raccontano di uno che, ormai in fin di vita, morì dopo avere ingoiato non poche monete d’oro; e di un altro che, dopo averle fatte cucire [III,195,15] in un chitone ed averlo vestito, lasciò ai familiari quale sua ultima volontà quella di essere sepolto così com’era, senza cremarlo e senza accudire in alcun modo al suo corpo”.

SVF III [App. II] XII, 1.

Cicerone ‘De re publica’ III, 12. […] reperisse e preservasse, <Aristotele> invece riempì quattro libri di gran mole trattando proprio della giustizia. Certo, da Crisippo nulla di grande o di magnifico mi aspettavo, giacché egli si esprime in quel suo modo peculiare, che esamina [III,195,25] ogni cosa in base al significato delle parole e non al peso dei fatti.

SVF III [App. II] XVII, 2.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 159d. [III,196,20] Crisippo, nell’introduzione al trattato ‘Sui beni e sui mali’ afferma che un ricchissimo giovanotto proveniente dalla Ionia risiedeva ad Atene e portava indosso un manto di porpora con il lembo dorato. Quando un tale cercò di sapere da lui di che paese fosse, quello rispose che era ricco.

SVF III [App. II] XVII, 3.

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 63, Vol. I, p. 334, 15 K. [III,196,25] Il discorso di Celso sui vizi è peraltro confutato anche dai filosofi che hanno indagato sui beni e sui mali. Essi infatti riscontrano che, storicamente, le prostitute si vendevano per denaro ai clienti dapprima al di fuori delle città e [III,196,30] coprendosi i volti con delle maschere. Successivamente, per spregio riposero via le maschere; ma non essendo loro consentito dalle leggi l’ingresso in città, ne rimanevano fuori. Poi, diventata di giorno in giorno maggiore la loro perversione, ebbero l’audacia di entrare anche nelle città. E nella introduzione al trattato ‘Sui beni e sui mali’ Crisippo dice questo: “[III,196,35] Che i vizi possano diventare maggiori o minori è dato apprenderlo dal fatto che una volta c’erano i cosiddetti prostituti a doppio uso, ossia quelli capaci di fare sessualmente la parte passiva o la parte attiva nell’asservirsi alle smanie dei clienti che li frequentano; e che successivamente le autorità civiche li cacciarono via”. E di miriadi di cose malvage che hanno fatto irruzione nella vita degli uomini per il traboccare del vizio, si può ben dire che prima non esistevano. [III,196,40] Tant’è vero che le storie più antiche, seppure ci mettano al corrente di miriadi di azioni aberranti, non sanno parlare di coloro che praticano la fellatio.

SVF III [App. II] XXV, 4.

‘Scholia’ in Eurip. Andromaca v. 276, Vol. IV, p. 152 Dind. [III,197,30] Nel decimo libro delle sue ‘Ricerche etiche’ Crisippo afferma che quando Paride conteggia a quale pratica debba maggiormente attenersi tra: la pratica della guerra, la pratica amorosa, la pratica del potere regale; dà il suo assenso alle pratiche amorose, e che in questo modo è stato composto il racconto del suo verdetto.

SVF III [App. II] XXVIII, 1.                                  

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ XIV, 4. Per Ercole, con quanta vivacità ed eleganza Crisippo, nel primo libro dell’opera ‘Sul bello e sul piacere fisico’ <ad Aristocreonte>, ha dipinto con parole austere e venerande le sembianze, gli occhi e il volto della Giustizia! Egli raffigura la Giustizia, [III,198,1] e dice che i pittori e i retori più antichi erano soliti raffigurarla all’incirca in questo modo: “Ha le fattezze e il portamento di una vergine, lo sguardo acuto e che incute soggezione, occhi splendenti e penetranti, né dimessa né superba, ma con la solennità che deriva da una compunta serietà”. [III,198,5] Egli volle che da questa immagine si comprendesse che il giudice, in quanto sacerdote della giustizia, deve essere austero, irreprensibile, severo, incorruttibile, inaccessibile all’adulazione, inflessibile con i malvagi e i reprobi, con loro senza pietà, inesorabile, rigido, duro ed efficace, terrificante a ragione della potenza e maestà dalla vera giustizia che esercita. Queste sono, alla lettera, le parole che Crisippo [III,198,10] usa per descrivere la giustizia: “Si dice che <la Giustizia> sia vergine come simbolo del suo essere incorrotta, del fatto che non cede in nessun caso ai malfattori, che non ammette per sé discorsi acquiescenti, né suppliche e implorazioni, né adulazioni, né altre cose del genere. In seguito a ciò essa è raffigurata accigliata, col viso contratto, uno sguardo vibrante, [III,198,15] linceo, capace di infondere paura agli ingiusti e coraggio ai giusti. Infatti, un viso del genere è per gli uni rassicurante e per gli altri minaccioso”. Ho pensato bene di citare queste parole di Crisippo per metterle a disposizione di chi vuole considerarle e giudicarle, dato che mentre io le leggevo alcuni filosofi seguaci di dottrine meno severe dissero che questa [III,198,20] era la descrizione non della Giustizia ma della Crudeltà.

SVF III [App. II] XXVIII, 2.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 565a. Come afferma il vostro Crisippo nel quarto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’, la pratica di radersi la barba è stata escogitata ai tempi di Alessandro. Sono persuaso [III,198,25] di non essere intempestivo nel ricordarne le parole, giacché io molto mi rallegro di quell’uomo per la sua vasta cultura ed il carattere acquiescente. Il filosofo dice dunque così: “La pratica di radersi la barba è stata promossa ai tempi di Alessandro, anche se i primi cittadini non la seguivano. Il flautista Timoteo, infatti, suonava avendo una folta barba, e in Atene serbano a dovere il non antichissimo ricordo che il primo a tagliarsi la barba ebbe il soprannome [III,198,30] di ‘Tosato’ ”.

Perciò anche Alessi da qualche parte diceva:

‘Se vedi qualcuno depilato con la pece o rasato,

ebbene deve trovarsi in una o l’altra di queste due condizioni:

a me pare, infatti, che o divisi una campagna militare

nella quale compiere tutte cose opposte alla sua barba;

[III,198,35] oppure costui è incolto in qualche vizio da ricchi.

Ma per gli dei, perché mai ci affliggono i peli,

se è grazie ad essi che ciascuno di noi appare essere uomo;

a meno che tu non intenda sotto sotto effettuare qualcosa di contrario ad essi’.

“Quando Diogene vide un tale col mento rasato, gli disse: ‘Hai forse qualche motivo per incolpare [III,198,40] la natura d’averti fatto uomo e non donna?’. Quando poi vide in sella ad un cavallo un altro individuo similarmente rasato, tutto profumato e con indosso abiti confacenti a questo stato, gli disse che da tempo ricercava che animale fosse l’ippoporno, e che adesso l’aveva trovato. A Rodi c’è una legge che vieta di radersi, ma non c’è una sola persona che la prenda in parola giacché tutti si radono. A Bisanzio poi, pur se è comminata una multa al barbiere che possiede [III,198,45] un rasoio, nondimeno tutti ne fanno uso”. Queste sono le cose che ha detto l’ammirevole Crisippo.

SVF III [App. II] XXVIII, 3.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 137f. Nel quarto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ Crisippo afferma: “Le storie raccontano che non molto tempo fa ci furono ad Atene due pranzi, uno al Liceo e uno all’Accademia. [III,199,1] In quello all’Accademia, il cuciniere portò in tavola il cibo su di un piatto che era invece destinato ad un altro uso. Gli ispettori mandarono allora in tanti pezzi quel manufatto in ceramica poiché era stato introdotto nel sacrificio del vasellame estero e non cittadino, quando invece era doveroso astenersi da simili manufatti d’importazione. In quello al Liceo, invece, un cuciniere che aveva apparecchiato della carne salata come si apparecchia il pesce salato, fu frustato [III,199,5] per malvagia sofisticazione alimentare”.

SVF III [App. II] XXVIII, 4.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IX, p. 373a. Nel quinto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ il filosofo Crisippo scrive così: “Proprio come alcune persone sono inclini a ritenere gli uccelli bianchi più piacevoli al gusto di quelli neri”.

SVF III [App. II] XXVIII, 5.

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ VIII, p. 335b. Cari amici, mentre ammiro Crisippo, [III,199,10] lo scolarca della Stoa, per molti motivi, io ancor più lo lodo perché mette il tanto decantato Archestrato, autore del trattato di gastronomia, sempre allo stesso livello di Filenide, alla quale si attribuisce quell’impudica compilazione sui piaceri sessuali.

[2] p. 335d-e. Ma nel quinto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ il più che ammirevole Crisippo afferma: “Poi ci sono i libri di Filenide e [III,199,15] la ‘Gastronomia’ di Archestrato, eccitanti dell’appetito ed eccitanti al sesso. Similmente, ci sono ancelle esperte di questi tipi di movenze e di posizioni e della loro pratica”. E di nuovo: “Essi imparano a memoria le cose di questo genere e acquistano gli scritti in argomento di Filenide, di Archestrato e di consimili scrittori”. E nel settimo libro afferma: “Proprio com’è [III,199,20] possibile non imparare a memoria i libri di Filenide e la ‘Gatronomia’ di Archestrato con l’idea che essi apportino qualcosa per vivere meglio”.

SVF III [App. II] XXVIII, 6.

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ I, p. 4e. Archestrato di Siracusa o di Gela, nell’opera che secondo Crisippo s’intitola ‘Gastronomia’, ma secondo Linceo e Callimaco ‘Vita sensuale’…

[2] III, p. 104a. [III,199,25] Dunque, cari amici, se uno volge lo sguardo a queste cose, loderebbe verosimilmente il buon Crisippo, il quale vede con precisione dall’alto ‘La natura’ di Epicuro ed afferma che madrepatria della sua filosofia è il trattato di gastronomia di Archestrato, questa nobile epopea che tutti i filosofi ghiottoni proclamano essere il loro Teognide.

[3] VII, p. 278e. [III,199,30] Crisippo, da effettivo filosofo e uomo in tutto, afferma che è Archestrato l’autore fondamentale di riferimento per Epicuro e per coloro che fanno scienza della dottrina, profonda guastatrice d’ogni cosa, dell’ebbrezza.

SVF III [App. II] XXVIII, 7.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIV, p. 616a. Nel quinto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ il filosofo Crisippo scrive di Pantaleone [III,199,35] le seguenti cose: “Quando stava per morire, quel vagabondo impostore di Pantaleone ingannò entrambi i suoi due figli dicendo in privato, prima all’uno e poi all’altro, che rivelava soltanto a lui dove aveva sotterrato il proprio oro. Sicché successivamente, dopo avere in comune scavato come matti, i due si accorgessero di essere stati ingannati”.

SVF III [App. II] XXVIII, 8.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIV, p. 616b. Al nostro convito [III,199,40] non può fare difetto qualcuno amante degli scherni. Circa un tale di questo genere, di nuovo nel quinto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ Crisippo scrive: “Quando stava per essere sgozzato dal boia, un tale amante degli scherni disse di voler morire cantando come fa il cigno. E poiché il boia acconsentì, quello lo schernì”.

SVF III [App. II] XXVIII, 9.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ I, p. 9c. [III,199,45] La vivanda che molti chiamano, [III,200,1] come afferma Crisippo nell’opera ‘Sul bello e sul piacere fisico’, lastaurocaccabo, e la cui preparazione è assai complessa…

SVF III [App. II] XXVIII, 10.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ I, p. 5e. Alcune focacce presero il nome di ‘filossenie’ da questo Filosseno. Su di lui Crisippo [III,200,5] dice: “Io ho in mente un certo mangione ingordo al quale, dopo i fatti accaduti, era a tal punto decaduto il senso di rispetto per chi gli era vicino che alle terme, e sotto gli occhi di tutti, egli soleva abituare la mano ai cibi caldi ficcandola nell’acqua calda, e che faceva gargarismi con acqua calda in bocca manifestamente al fine di diventare resistente ai cibi caldi. Dicevano anche che subornasse i cucinieri a portare in tavola [III,200,10] cibi caldissimi che lui soltanto era in grado di consumare, non potendo tutti gli altri seguirne l’esempio”.

SVF III [App. II] XXVIII, 11.

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ VIII, p. 336a. Sardanapalo, sulla cui tomba era stata posta la seguente epigrafe…

[2] VIII, p. 336f. [III,200,15] L’epigrafe sulla tomba di Sardanapalo starebbe meglio’, dice Crisippo, se fosse commutata così:

“Ben sapendo che nascesti mortale, scatena le tue voglie

e deliziati di discussioni filosofiche: non c’è per te conforto alcuno nel mangiare.

Ecco, infatti io sono un cencio; io che pur mangiai e godetti a più non posso.

[III,200,20] Questo posseggo: quel che imparai, quel che cogitabondo meditai e, grazie a ciò,

quanto di prode sperimentai. Tutto il resto, pur piacevole, è stato lasciato alle spalle”.

SVF III [App. II] XXVIII, 12.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XV, p. 686f. Il più che ammirevole Crisippo afferma che gli olii odorosi prendono questo nome dal fatto di essere ottenuti dopo una lavorazione molto spossante e una fatica da matti. Gli Spartani scacciano da Sparta [III,200,25] i produttori di olii odorosi in quanto rovinano l’olio, e coloro che vi mettono a bagno le lane in quanto ne fanno sparire il biancore. E il sapiente Solone ha vietato per legge a quegli uomini di commerciare gli olii odorosi.

SVF III [App. II] XXVIII, 13.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIV, p. 659a. Gli antichi chiamavano ‘Mesone’ il cuoco loro concittadino, e chiamavano ‘Tettige’ (ovvero‘Cicala’) quello che era non concittadino. Il filosofo Crisippo [III,200,30] crede che il nome ‘Mesone’ venga dal verbo ‘masticare’, come per accennare al fatto che si tratta di un individuo incolto e che bada alla pancia. Egli ignora però che Mesone è stato un attore di commedia, nato a Megara, il quale inventò la maschera che da lui prese il nome Mesone, come afferma Aristofane di Bisanzio nel suo libro ‘Sulle maschere’.

SVF III [App. II] XXVIII, 14.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ II, p. 67c. Il filosofo Crisippo afferma che [III,200,35] il miglior aceto è l’aceto d’Egitto e quello di Cnido.

SVF III [App. II] XXVIII, 15.

Ateneo ‘Deipnosophistai’ I, p. 8c. Dice Crisippo: “Non lasciarti sfuggire un banchetto in cui non c’è da pagare la quota”.

SVF III [App. II] XL, 1.

Epitteto ‘Diatribe’ I, 4, 14. [III,201,30] “Prendi il trattato <di Crisippo> ‘Sull’impulso’ e riconosci come l’ho letto!”

SVF III [App. II] XLV, 1.

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 1. [III,202,5] <Apollonio di Tiro afferma di Zenone> che era allampanato, piuttosto alto, di colorito bruno; per cui qualcuno lo chiamava ‘clematide egizia’, come dice Crisippo nel primo libro dei ‘Proverbi’.

SVF III [App. II] XLV, 2.

‘Scholia’ Pind. Isthm. II, 17. “Soldi, soldi, o uomo!” Questo detto è ascritto da taluni ai proverbi, ma si tratta di un apoftegma di Aristodemo, [III,202,10] come afferma Crisippo nel suo libro ‘Sui proverbi’. Pindaro non cita per nome questo Aristodemo, come se fosse manifesto chi è che lo dice; e ne segnala soltanto la patria, che è Argo.

SVF III [App. II] XLV, 3.

Diogeniano ‘Paroemiographus’ I, 62, p. 10. ‘Capra di Sciro’: Crisippo afferma che il proverbio è stato applicato a coloro che ‘rovesciano’ i favori che ricevono, [III,202,15] giacché spesso la capra ‘rovescia’ i recipienti.

SVF III [App. II] XLV, 4.

Zenobio ‘Paroemiographus’ V, 32. ‘Tu non navighi di notte’: è applicato a coloro che fanno qualcosa senza esattezza. Per chi è in alto mare la navigazione notturna è infatti più esatta di quella diurna, grazie alle segnalazioni fornite dalle stelle. Crisippo invece elimina il ‘non’ e [III,202,20] dichiara ‘tu navighi di notte’.

SVF III [App. II] XLV, 5.

[Plut] Prov. Alex. I, 3. ‘Retrocedere’: Crisippo applica questo proverbio a coloro che procedono di male in peggio negli affari, poiché vanno sempre indietro. Sofocle ricorda quest’espressione.

SVF III [App. II] XLV, 6.

Zenobio ‘Paroemiographus’ III, 40. ‘Il pestello cresce’: Crisippo lo dice [III,202,25] di coloro che non crescono, ma il proverbio parla anche di quelli che restano piccoli. Il pestello è infatti piccolo e tondeggiante.

SVF III [App. II] XLV, 7.

Plutarco ‘Vita Arati’ I, 1. C’è un antico proverbio, o Policrate, che il filosofo Crisippo ci dispone innanzi non al modo in cui è, io reputo temendo il suo contenuto malaugurante, ma come lui crede che sia meglio:

[III,202,30] ‘chi loderà un padre, se non dei figli felici?’

Ma Dionisodoro di Trezene lo contesta e gli contrappone il proverbio nella sua forma vera, che è questa:

‘chi loderà un padre, se non dei figli infelici?’

SVF III [App. II] XLV, 8.

Suida s.v. ‘Kérkopes’: [III,202,35] il proverbio dice ‘fare la scimmia’, che Crisippo afferma essere una metafora tratta dagli animali che scodinzolano.

SVF III [App. II] XLVII, 6.

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 34. Che la ‘Repubblica’ sia di Zenone lo afferma anche Crisippo nella sua ‘Repubblica’.

SVF III [App. II] LVII, 1.

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 116, 11 W. Crisippo ha disquisito su tutti i tipi di giudizi paradossali anche in molti altri libri: in quello [III,204,25] ‘Sui giudizi’; nella ‘Delineazione della dottrina etica’ e in molte altre compilazioni particolari.

DISCEPOLI E SUCCESSORI DI CRISIPPO

1. Zenone di Tarso [III,209,1]

Frammenti n. 1-5

SVF III [ZT], 1

[1] Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 13, 8. Zenone di Cizio, il capostipite della scuola dei filosofi Stoici, nacque filosoficamente da Cratete. A Zenone successe Cleante; a Cleante successe [III,209,5] Crisippo; a Crisippo successe l’altro Zenone, e poi via via gli altri. Si dice che tutti costoro furono in special modo solleciti della concretezza di vita e dell’esercizio della dialettica.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 35. Il quinto <a chiamarsi> Zenone fu un discepolo di Crisippo, il quale scrisse pochi libri [III,209,10] ma lasciò dietro di sé moltissimi discepoli.

[3] ‘Suida’ s.v. Zenone di Tarso, ma secondo alcuni di Sidone, figlio di Dioscoride. Filosofo, discepolo e successore di Crisippo di Tarso, il filosofo Stoico.

SVF III [ZT], 2

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XLVIII. […][III,209,15] cinque <libri> contro Geronimo e circa le tesi di […] Della sua cerchia furono Diogene di Seleucia sul Tigri, figlio di Artemidoro; che assunse la guida della scuola dopo Zenone <di Tarso>. Archedemo di Tarso […]

[III,209,20]

SVF III [ZT], 3

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 41. Altri affermano che queste [logica, fisica, etica] sono parti non del della ragione insita nel cosmo ma [III,209,25] della filosofia in quanto tale, come fa Zenone di Tarso.

SVF III [ZT], 4

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 84. <Gli Stoici> dividono la parte Etica <della filosofia> […] così la suddividono i seguaci di Crisippo […] e Zenone di Tarso.

SVF III [ZT], 5

Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 18, 2. [III,209,30] Si dice che Zenone di Tarso, discepolo e successore di Crisippo alla guida della scuola, a proposito della conflagrazione universale sospendesse il suo giudizio.

2. Diogene di Babilonia [III,210,1]

Frammenti n. 1-15

SVF III [DB], 1

Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 3 (Dox. Gr. p. 600). Diogene di Babilonia, dopo essere stato uditore di Crisippo, fu maestro di Antipatro.

SVF III [DB], 2

[1] Strabone ‘Geographia’ XVI, p. 743. [III,210,5] Anticamente Babilonia era una metropoli dell’Assiria; ora invece si chiama Seleucia, quella sul Tigri. […] Come noi chiamiamo la regione ‘Babilonia’, così pure chiamiamo ‘Babilonesi’ gli uomini di là; non cioè dal nome della città ma dal nome della regione. Meno li chiamiamo col nome della città, Seleucia, benché essi di là provengano, com’è il caso [III,210,10] del filosofo Stoico Diogene.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VI, 81. Quarto col nome Diogene fu lo Stoico, originario di Seleucia ma chiamato ‘di Babilonia’ per vicinato.

SVF III [DB], 3

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XLVIII. Della sua cerchia furono [III,210,15] Diogene di Seleucia sul Tigri, figlio di Artemidoro; che assunse la guida della scuola dopo Zenone <di Tarso>.

SVF III [DB], 4

Luciano ‘Macrobìoi’ 20. Diogene di Seleucia sul Tigri, filosofo Stoico <che visse> ottantotto anni.

SVF III [DB], 5

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1033d-e. Chi più di Crisippo, [III,210,20] di Cleante, di Diogene, di Zenone e di Antipatro giunse alla tarda vecchiaia facendo questo tipo di vita dedicata allo studio? Loro che si lasciarono dietro le loro patrie senza incolparle di nulla ma per passarsela in tranquillità ad oziare ed erudirsi <nell’Odeon> o allo Zostere?

SVF III [DB], 6

Cicerone ‘Cato maior’ 23. La vecchiaia ha forse costretto al silenzio e ad abbandonare i loro studi personaggi come [III,210,25] Zenone, Cleante e quel Diogene Stoico che voi vedeste a Roma? In tutti costoro l’applicazione agli studi non fu tutt’uno con la loro vita?

SVF III [DB], 7

Plutarco ‘Vita Catonis’ XXII. Quando <Catone> era ormai vecchio vennero da Atene a Roma, quali ambasciatori, Carneade [III,210,30] l’Accademico e Diogene lo Stoico col loro seguito. Essi avevano [III,211,1] lo scopo di ottenere l’annullamento di una sentenza di condanna del popolo di Atene al pagamento di una multa di cinquecento talenti, multa cui esso era stato condannato in contumacia su accusa dei cittadini di Oropo e sentenza di condanna dei cittadini di Sicione. E subito i giovanotti più aperti alle discussioni filosofiche si gettavano su quegli uomini, si stringevano loro intorno ascoltandoli [III,211,5] con ammirazione.

SVF III [DB], 8

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ VI, 14, 8. Si nota la stessa tripartita varietà nei tre filosofi che gli Ateniesi inviarono al Senato romano per ottenere la cancellazione della multa loro comminata per il sacco della città di Oropo, e che assommava a circa cinquecento talenti. Questi filosofi erano l’Accademico Carneade, lo Stoico Diogene [III,211,10] e il Peripatetico Critolao. Introdotti nel Senato, essi si valsero come interprete del senatore C. Acilio. Prima, però, per mettersi in mostra, ciascuno di essi separatamente tenne delle conferenze alla presenza di un gran pubblico. Rutilio e Polibio asseriscono che tutti e tre i filosofi furono ammirati, ciascuno per il suo genere di eloquenza: “Carneade”, essi dicono, “parlava con trascinante veemenza; Critolao usava espressioni eleganti e ben tornite; [III,211,15] Diogene aveva un linguaggio sobrio e conciso”.

SVF III [DB], 9

Cicerone ‘Academica’ II, 137. Ho letto presso Clitomaco che quando Carneade e Diogene lo Stoico furono al Campidoglio in Senato, A. Albino, uomo di fine cultura che era pretore al tempo del consolato di P. Scipione e M. Marcello, disse scherzando a Carneade: “Io [III,211,20] a te sembro non un vero pretore, visto che non sono saggio, né questa pare a te una città con dei cittadini”. E quello gli rispose: “È a questo Stoico che non lo sembri”.

SVF III [DB], 10

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 5. Quando <Lelio e Scipione> erano ancora adolescenti, so che lo Stoico Diogene e l’Accademico Carneade furono mandati dagli Ateniesi quali ambasciatori in Senato. [III,211,25] Questi però, non avendo alcuna esperienza della vita politica, essendo l’uno di Cirene e l’altro di Babilonia, non sarebbero mai stati sottratti ai loro studi né eletti a quel compito se a quel tempo non ci fossero stati capi politici che apprezzavano lo studio della filosofia.

SVF III [DB], 11

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. LI. [III,211,30] […] di Alessandria nella Troade; Panezio di Rodi, figlio di Nicagora; Mnesarco di Atene, figlio di Onesimo; Dardano di Atene, figlio di Andromaco; Apollodoro di Seleucia sul Tigri; Boeto di Sidone […]

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 30. Lo Stoico Zenodoto, discepolo [III,211,35] di Diogene.

[3] Ps. Scimno v. 10.

‘Uno dei genuini filologi Attici,

stato auditore di Diogene lo Stoico

[III,212,1] e condiscepolo per molto tempo di Aristarco;

il quale coordinò, a partire dalla conquista di Troia,

una cronografia che giunge fino ai giorni nostri’.

SVF III [DB], 12

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. LI. […] figlio della figlia, che fu anche [III,212,5] Areopagita; Apollonide di Smirne; Crisermo di Alessandria d’Egitto; Dionisio di Cirene, che era un ottimo studioso di geometria e che scrisse contro il retore Demetrio […]

SVF III [DB], 13

Cicerone ‘Academica’ II, 98. Quando capitava una cosa del genere, Carneade soleva per scherzo dire: “Se la mia conclusione regge, vi tengo in pugno; [III,212,10] se non regge, Diogene mi deve una mina”. Carneade infatti aveva appreso la dialettica da quello Stoico e ad una mina era il compenso dei dialettici.

SVF III [DB], 14

Cicerone ‘De finibus’ II, 24. Il famoso Lelio, da giovinetto, era stato auditore di Diogene Stoico e poi anche di Panezio.

SVF III [DB], 15

Cicerone ‘De finibus’ I, 6. Del resto quale aspetto [III,212,15] dello Stoicismo è stato trascurato da Crisippo? E tuttavia leggiamo Diogene, Antipatro.

FRAMMENTI

Frammento n. 16

SVF III [DB], 16

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 39. La ragione insita nel cosmo è, secondo filosofia, tripartita. Una sua parte, infatti, è qualcosa di fisico, un’altra di etico e un’altra [III,212,20] di logico. Così per primo la suddivise Zenone di Cizio […] e Diogene di Babilonia.

I. LOGICA

Frammenti n. 17-26

SVF III [DB], 17

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 55. La voce è aria percossa o l’oggetto sensibile percepito propriamente dall’udito, come afferma Diogene [III,212,25] di Babilonia nella sua opera ‘Sulla voce’. La voce di un animale è aria percossa per impulso; mentre quella dell’uomo è articolata e, come afferma Diogene, scaturisce dall’intelletto, il quale giunge a perfezione all’età di quattordici anni.

SVF III [DB], 18

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 55. Secondo gli Stoici [III,212,30] la voce è corpo, come affermano Archedemo […] Diogene e Antipatro […]. Infatti, tutto ciò che fa un’azione è corpo; e la voce fa un’azione quando s’avvicina da chi parla a chi ascolta.

SVF III [DB], 19

Simplicio ‘In Aristot. Phys.’ p. 426, 1 Diels. Sono in errore [III,213,1] quanti assumono, come Diogene di Babilonia, che la voce sia aria percossa; giacché in questo modo la voce sarà un corpo, seppure del genere dell’aria; e però quello che ha sperimentato l’azione, cioè l’aria percossa, essi lo assumono al posto dell’affezione, che è la percossa dell’aria.

SVF III [DB], 20

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 56. [III,213,5] Per gli Stoici, come afferma Diogene, ‘parola’ è una voce espressa con lettere dell’alfabeto: per esempio, ‘giorno’; ‘discorso’ è una voce dotata di significato e che scaturisce dall’intelletto: per esempio, ‘è giorno’; ‘dialetto’ [III,213,10] è una parola che è stata coniata da una delle etnie greche, oppure una parola di un certa zona, cioè varia secondo il dialetto: per esempio, in Attica <il mare> è ‘thalatta’ <e non ‘thalassa’>, mentre in Ionia <il giorno> è ‘imeri’ <e non ‘imera’>. Elementi della parola sono le ventiquattro lettere dell’alfabeto. Quella dell’alfabeto si dice ‘lettera’ in triplice senso: in quanto elemento, in quanto carattere scritto [III,213,15] dell’elemento, in quanto nome dello stesso: per esempio, ‘alfa’. Sette delle lettere sono vocali: alfa, epsilon, eta, iota, omicron, ipsilon, omega. Sei sono lettere mute: beta, gamma, delta, pi, cappa, tau. Vi è differenza tra ‘voce’ e ‘parola’, in quanto la ‘voce’ è semplice suono mentre ‘parola’ è soltanto ciò ch’è articolato in lettere. [III,213,20] Vi è differenza anche tra ‘parola’ e ‘discorso’, in quanto il discorso è sempre dotato di significato. Mentre la parola è anche priva di significato, come la parola ‘blìtiri’ ; il discorso, invece, non è mai insignificante. Vi è differenza anche tra ‘dire’ e ‘proferire’, in quanto si proferiscono le voci, ma si dicono i fatti; almeno quelli, caso mai, che sono esprimibili.

SVF III [DB], 21

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 57. Come afferma [III,213,25] Diogene nel la sua opera ‘Sulla voce’ e come afferma anche Crisippo, le parti del discorso sono cinque: nome, appellativo, verbo, congiunzione, articolo.

SVF III [DB], 22

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 58. Secondo Diogene, ‘appellativo’ è quella parte del discorso che significa una qualità comune: per esempio, ‘essere umano’, ‘cavallo’; ‘nome’ [III,213,30] è la parte del discorso che manifesta una qualità propria: per esempio, ‘Diogene’, ‘Socrate’; ‘verbo’ è la parte del discorso che significa, secondo Diogene, un predicato non composto ad altro oppure, secondo alcuni, un elemento indeclinabile del discorso significante qualcosa che può essere coordinato ad uno o più soggetti: per esempio, ‘scrivo’, ‘dico’; ‘congiunzione’ [III,214,1] è una parte indeclinabile del discorso che ne collega le parti; ‘articolo’ è un elemento declinabile del discorso che contraddistingue i generi dei nomi e i loro numeri: così, ‘o’, ‘i’, ‘to’, ‘oi’, ‘ai’, ‘ta’.

SVF III [DB], 23

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 62. [III,214,5] L’ ‘ambiguità’ si ha quando una parola può significare in modo esprimibile, principale e in armonia con l’usanza, due o più fatti; sicché noi possiamo aspettarci contemporaneamente più significati della spessa parola: per esempio, ‘auletrìs péptoke’. Infatti, la stessa parola <auletrìs> può significare ‘il cortile per tre volte <è caduto>’ oppure ‘la flautista [III,214,10] <è caduta>’.

SVF III [DB], 24

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 59. Le eccellenze del discorso sono cinque: ellenismo, chiarezza, concisione, confacenza, strutturazione formale. L’ellenismo è il modo d’esprimersi esente da errori in una consuetudine di scrittura artisticamente sorvegliata e non avventata; la chiarezza [III,214,15] è l’elocuzione che espone il pensiero in modo comprensibile; la concisione è l’elocuzione che include solo le parole strettamente necessarie alla presentazione del fatto; la confacenza è l’elocuzione attinente al fatto; la strutturazione formale è l’elocuzione che rifugge l’idiotismo. Il barbarismo [III,214,20] è, tra i difetti, l’elocuzione contraria alle usanze degli scrittori greci di chiara fama. Il solecismo è il discorso coordinato in modo non consono.

SVF III [DB], 25

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 60. Il ‘genere’ è la sintesi di più concettualizzazioni inscindibili una dall’altra: per esempio, ‘animale’. Infatti questo ‘genere’ [III,214,25] abbraccia tutte le specie particolari di animali. La ‘concettualizzazione’ è una produzione fantasmatica dell’intelletto, la quale è né un ‘qualcosa’ né una ‘qualità’, ma è come se fosse un ‘qualcosa’ e una ‘qualità’, al modo per cui nasce l’impressione di un cavallo anche se il cavallo non c’è. La ‘specie’ è ciò ch’è incluso nel genere, come l’essere umano [III,214,30] è incluso nel genere animale. Genere in senso generalissimo è ciò che, essendo genere, non ha però genere sopra di sé: come ‘l’essere’. Specie in senso specificissimo è ciò che, essendo specie, non ha però specie sotto di sé: come, per esempio, ‘Socrate’. [III,215,1] ‘Diairesi’ è il taglio di un genere nelle specie contigue: per esempio, ‘degli animali alcuni sono razionali, altri bruti’. ‘Antidiairesi’ è il taglio di un genere in una specie attraverso il suo opposto, come se ne fosse una negazione: per esempio, ‘degli esseri alcuni sono buoni, [III,215,5] altri non buoni’. ‘Subdiairesi’ è la diairesi di una diairesi: per esempio, ‘degli esseri alcuni sono buoni, altri non buoni; degli esseri non buoni alcuni sono cattivi, altri sono indifferenti’. ‘Partizione’ è l’assegnamento di un genere in ambiti diversi, come dice Crini: [III,215,10] per esempio, ‘Dei beni alcuni sono beni dell’animo, altri sono beni del corpo’.

SVF III [DB], 26

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 71. Delle proposizioni non semplici, come affermano Crisippo nelle ‘Definizioni dialettiche’ e Diogene nella sua opera ‘L’arte della dialettica’, la proposizione ipotetica è quella che sussiste per la presenza della congiunzione ipotetica ‘se’. Questa congiunzione [III,215,15] preannuncia che al primo enunciato ne segue un secondo: per esempio, ‘Se è giorno, c’è luce’.

II. FISICA

Frammenti n. 27-37

SVF III [DB], 27

Filone Alessandrino ‘De incorrupt. mundi’ 15, p. 248 Bern. […] si dice che [III,215,20] Diogene sottoscrivesse il giudizio della conflagrazione universale quand’era giovane, mentre quando fu più avanti negli anni, poiché inclinò al dubbio, sospese il suo giudizio in proposito.

SVF III [DB], 28

Aezio ‘Placita’ II, 32, 4 (Dox. Gr. p. 364). Il grande anno: per Eraclito era di diciottomila anni solari; per Diogene lo Stoico era di trecentosessantacinque volte più grande [III,215,25] del grande anno di Eraclito.

SVF III [DB], 29

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 5, p. 201 M. Il ragionamento di Zenone, ammirato dagli Stoici e che Diogene di Babilonia scrisse proprio all’inizio del suo libro ‘Sull’egemonico dell’animo’ […] potrai intenderlo con maggiore evidenza quando te l’abbia trascritto, [III,215,30] giacché è questo. “La voce si fa spazio attraverso la gola. Se essa si facesse spazio dal cervello non si farebbe spazio attraverso la gola. Ora, donde si fa spazio il discorso, di là pure si fa spazio la voce. Ma il discorso si fa spazio dall’intelletto, sicché l’intelletto non è nel cervello”. Diogene prospetta esattamente lo stesso ragionamento, non con le stesse parole ma in questo modo: “Donde scaturisce [III,215,35] la voce, scaturisce anche la voce articolata; e pertanto anche la voce articolata dotata di significato scaturisce di là. Ora, la voce articolata dotata di significato è il discorso. Quindi il discorso scaturisce là donde scaturisce anche la voce. La voce però non scaturisce da alcun luogo della testa, [III,216,1] bensì è sotto gli occhi di tutti che essa scaturisce piuttosto da regioni al di sotto della testa, ed infatti è patente che essa passa attraverso la trachea. Dunque il discorso non scaturisce dalla testa ma piuttosto al di sotto di essa. Tuttavia è anche vero che il discorso scaturisce dall’intelletto. Alcuni, anzi, nel definire [III,216,5] il discorso affermano che esso è voce dotata di significato scaturente dall’intelletto; ed è d’altra parte plausibile che il discorso scaturisca dopo essere stato reso significante e come modellato in rilievo dai concetti presenti nell’intelletto, e che quindi si distenda nel tempo a seconda dell’atto del pensare e dell’attività del parlare. Dunque l’intelletto non è nella testa ma nelle regioni [III,216,10] più in basso, e forse in special modo intorno al cuore”. Il ragionamento di Diogene è di questo genere ed è, al contrario di quello di Zenone, tirato per le lunghe; tanto che se quello scarseggiava di alcuni enunciati necessari, questo ne ha in eccesso.

SVF III [DB], 30

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 8, p. 246 M. Pertanto [III,216,15] nessuno di questi ragionamenti ha potenza persuasiva, neppure qualora Diogene dica: “L’egemonico si trova in quell’organo che primo fra tutti attinge per sé nutrimento e pneuma, ma l’organo che primo fra tutti attinge per sé nutrimento e pneuma è il cuore”. […] Allo stesso modo egli ha utilizzato ragionamenti suoi, dal momento che afferma: “Il motore dei movimenti secondo proairesi dell’uomo [III,216,20] è una certa esalazione dell’animo; ma ogni esalazione è riconducibile ad un nutrimento, sicché il motore primo dei nostri movimenti secondo proairesi e ciò che ci nutre sono necessariamente una sola ed identica cosa”. Qualora Diogene scriva questo, cioè che sostanza dell’animo è un’esalazione proveniente sia dal cibo che dal pneuma, noi al momento nulla diremo in disaccordo [III,216,25] con lui, per non affliggere del tutto il buon uomo. […] Ma poi si dimentica lui stesso dei suoi propri giudizi ed afferma che l’animo è sangue, come concepirono Empedocle e Crizia. Se avesse invece seguito Cleante, Crisippo e Zenone, i quali affermavano che l’animo trae nutrimento dal sangue ma che la sua sostanza è pneuma, come [III,216,30] potrebbe ancora sostenere che nutrimento e motore dell’animo sono la stessa cosa, visto appunto che è il sangue a nutrire l’animo ma è lo pneuma a farlo muovere?

SVF III [DB], 31

Aezio ‘Placita’ I, 7, 17 (Dox. Gr. p. 3). Diogene, Cleante ed Enopide dichiararono che la divinità è l’animo del cosmo.

SVF III [DB], 32

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 133. Zenone soleva prospettare questo [III,216,35] ragionamento: “Ragionevolmente si onorerebbero gli dei; ma quelli che sono non dei si onorerebbero irragionevolmente; dunque gli dei esistono”. Allineandosi a questo ragionamento, alcuni affermano: “Ragionevolmente si onorerebbero i sapienti; ma quelli che sono non sapienti si onorerebbero irragionevolmente; dunque i sapienti esistono”. Il che non aveva il beneplacito degli Stoici, poiché il loro ‘sapiente’ è rimasto fino ad oggi introvabile. [III,217,1] Replicando alla giustapposizione dei due ragionamenti, Diogene di Babilonia afferma che il secondo assunto del ragionamento di Zenone è potenzialmente di questa fatta: “ma quelli che sono per natura inesistenti si onorerebbero irragionevolmente”. Se si accetta questo assunto è infatti manifesto che gli dei sono per natura esistenti; e, se è così, allora gli dei esistono già adesso. [III,217,5] Se infatti essi sono mai esistiti una volta, esistono anche ora; come gli atomi, che se c’erano in passato, ci sono tuttora. Secondo il concetto che ne abbiamo, corpi del genere sono infatti imperituri e ingenerati, e perciò il ragionamento ne dedurrà una conclusione logica conseguente. I sapienti, dunque, esistono già ora ma non perché essi debbano essere per natura esistenti.

SVF III [DB], 33

Filodemo ‘De pietate’ p. 82 Gomp. Diogene [III,217,10] di Babilonia nel suo libro ‘Su Atena’ scrive che il cosmo è identico a Zeus o che include Zeus come l’uomo include l’animo. Scrive anche che Apollo è il sole e Artemide la luna e che, oltre ad essere cosa impossibile, è da bambini affermare l’esistenza di dei antropomorfi. Inoltre, la parte di Zeus che pertiene [III,217,15] al mare è Poseidone; quella che pertiene all’aria è Era, come dice anche Platone, sicché spesso per dire ‘aria’ uno dice ‘Era’; e la parte che pertiene all’etere è Atena: questo per dire la parte ‘dalla testa’ e anche ‘Zeus maschio, Zeus femmina’. Alcuni Stoici sono dell’avviso che l’egemonico sia nella testa, giacché esso è saggezza [III,217,20] e perciò si chiama anche Metis. Crisippo sostiene invece che l’egemonico è nel petto e che di là è nata Atena, la quale è saggezza. Egli sostiene anche che si dice nata ‘dalla testa’ perché la voce è escreta dalla testa e ‘ad opera di Efesto’ perché la saggezza diventa arte; e che Atena dovrebbe chiamarsi Atrena, Tritonide e [III,217,25] Tritogenia in quanto la saggezza consiste di tre discorsi razionali: quelli che concernono le realtà fisiche, le realtà etiche e le realtà logiche. Crisippo apparenta poi alla saggezza gli altri appellativi e attributi di Atena in un modo davvero splendido come l’oro.

SVF III [DB], 34

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 41. In seguito, Diogene di Babilonia, nel libro che scrisse su Minerva prende le distanze dal mito [III,217,30] e trasforma la nascita della vergine da Giove in un processo naturale.

SVF III [DB], 35

Cicerone ‘De divinatione’ I, 6. […] Testi che in seguito il discepolo <di Crisippo> Diogene di Babilonia rese pubblici [III,217,35] in un unico libro.

SVF III [DB], 36

Cicerone ‘De divinatione’ II, 90. Diogene lo Stoico concede che i Caldei possano predire non più in là della natura di qualcuno ed a cosa in futuro sarà adatto, ma nega recisamente che essi possano conoscere tutto il resto che dichiarano di sapere. In effetti l’aspetto di due gemelli può essere simile, [III,218,1] ma la loro vita e il loro destino possono essere diversissimi. Procle ed Euristene, re di Sparta, erano fratelli gemelli, eppure non vissero lo stesso numero di anni. Procle morì un anno prima, eppure le sue imprese furono molto più gloriose di quelle del fratello. Io invece nego che i Caldei [III,218,5] possano conoscere anche le cose che l’ottimo Diogene, per una sorta di collusione, concede loro di sapere.

SVF III [DB], 37

Cicerone ‘De divinatione’ I, 84. Questo è il ragionamento usato da Crisippo, da Diogene e da Antipatro.

III. ETICA

Frammenti n. 38-53

SVF III [DB], 38

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 84. [III,218,10] <Gli Stoici> dividono la parte Etica della filosofia […] Così la suddividono i seguaci di Crisippo […] e Diogene.

SVF III [DB], 39

Epitteto ‘Diatribe’ II, 19, 13. Delle cose, alcune sono beni; altre mali; altre indifferenti. Beni sono dunque le virtù e [III,218,15] quanto di esse partecipa; mali i vizi e quanto del vizio partecipa; indifferenti sono le cose che stanno frammezzo a queste: ricchezza di denaro, salute del corpo, vita, morte, piacere e dolore fisico”. “Donde lo sai?” “Lo dice Ellanico nei suoi ‘Fatti d’Egitto’ ”. Che differenza fa dire questo o che lo dice Diogene nella sua ‘Etica’ o Crisippo o Cleante?

SVF III [DB], 40

Cicerone ‘De finibus’ III, 33. Del bene si dà anche [III,218,20] una definizione. Le definizioni <degli Stoici> differiscono non poco, e però sono tutte convergenti. Io concordo con quella di Diogene, che definisce il bene come ‘ciò che è per natura assoluto’. E bene egli chiama anche il moto o stato giovevole (traduco così ὠφέλημα) [III,218,25] derivante dall’assoluto per natura.

SVF III [DB], 41

Cicerone ‘De finibus’ III, 49. Diogene ritiene che la ricchezza <di denaro> non abbia soltanto il potere di condurre al piacere e alla buona salute, ma che sia decisiva per il loro mantenimento. Essa non ha però questo potere nel caso della virtù o di altre arti, alle quali essa può indirizzare ma al cui mantenimento non è decisiva. [III,218,30] Così se il piacere e la buona salute fossero beni, anche la ricchezza lo sarebbe; ma se la saggezza è un bene, non ne consegue che si dica così della ricchezza. Ciò che non è un bene non può essere decisivo per il mantenimento di ciò che è bene; e perciò, dato che la cognizione e la comprensione delle cose dalle quali traggono origine le arti, [III,218,35] sono i moventi dell’impulso all’arte, e visto che la ricchezza non è un bene, nessuna ricchezza è decisiva per il mantenimento di un’arte. Se pur concedessimo che ciò vale per le arti, per la virtù non varrebbe però lo stesso ragionamento, poiché questa, a differenza delle arti, ha bisogno del massimo [III,219,1] impegno ed esercizio; e poi perché la virtù implica la stabilità, la fermezza e la costanza di tutta una vita, cosa che non vediamo nelle arti.

SVF III [DB], 42                         

Cicerone ‘De finibus’ III, 57. Circa la buona fama, (ciò che essi chiamano εὐδοξία, mi sembra più esatto tradurlo con ‘buona fama’ che con ‘gloria’) Crisippo e Diogene <di Babilonia> dicevano che per la buona fama non varrebbe la pena [III,219,5] di muovere neppure un dito se non per il vantaggio che se ne trae.

SVF III [DB], 43

Epifanio ‘Adversus haeres.’ III, 40 (Dox. Gr. p. 593). Diogene di Babilonia soleva dire che tutto quanto trae la sua origine dal piacere.

SVF III [DB], 44

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 75, 11 W. Zenone così esplicitò [III,219,10] il sommo bene: “Vivere in modo ammissibile <con la ragione>” […] I suoi successori, dopo averla articolata più minutamente enunciavano la definizione così […] e Diogene così: “Operare razionalmente nella selezione e nel rigetto delle cose naturali”.

SVF III [DB], 45

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 88. Diogene afferma [III,219,15] espressamente che il sommo bene è operare razionalmente nella selezione delle cose naturali.

SVF III [DB], 46

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 497 Pott. Diogene di Babilonia concepiva che il sommo bene stia nell’operare razionalmente nella selezione delle cose naturali.

SVF III [DB], 47

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 84, 4 W. Diogene <di Babilonia> afferma che l’éstimo è [III,219,20] determinazione di quanto qualcosa sia secondo natura o di quanto procuri un’utilità alla natura. Il termine di ‘valutato’ non deve qui essere assunto nel significato, come si dice, di ‘cose valutate’ ma inteso nel significato in cui diciamo essere ‘perito valutatore’ colui che valuta le cose, e dunque Diogene dice che tale individuo è perito valutatore del contraccambio. E questi sono i due modi di parlare del valore secondo i quali noi diciamo che qualche cosa è promossa per il suo valore. [III,219,25] <Diogene> dice che il terzo modo è quello per cui affermiamo che qualcosa ha gran pregio e valore, il che non accade per le cose indifferenti ma soltanto per quelle virtuose. Egli afferma anche che talora noi usiamo il nome ‘valore’ al posto di ‘ciò che spetta’; com’è assunto nella definizione della giustizia. Qualora infatti la si dica essere costumanza di assegnare ‘a ciascuno secondo il suo valore’ è come dire: assegnare [III,219,30] ‘a ciascuno ciò che gli spetta’.

SVF III [DB], 48

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 64, 13 W. Diogene afferma che le cose chiamate ‘scelte di per sé’, sono tali in duplice senso: in un senso, si tratta delle cose scelte in vista di un fine, come sono quelle assegnate a questo gruppo nel corso della predetta diairesi; in un altro, si tratta di tutte le cose che hanno in se stesse la causa dell’essere scelte, il che vale per ogni bene.

SVF III [DB], 49

Cicerone ‘De officiis’ III, 50. Come ho detto prima, [III,219,35] capitano spesso situazioni nelle quali l’utile appare in contrasto con l’integrità morale, sicché si deve esaminare bene [III,220,1] se tale contrasto ci sia davvero, oppure se le due cose possano andare d’accordo. […] In casi del genere, Diogene di Babilonia, Stoico di grande levatura e serietà, suole vedere le cose in un modo e Antipatro in un altro […] Per Antipatro bisogna dire apertamente tutto, [III,220,5] affinché nulla di ciò che il venditore sa resti ignoto al compratore. Per Diogene, invece, è opportuno che il venditore dica i difetti della merce per quanto è previsto dal diritto civile, e per il resto agisca senza sotterfugi per vendere, e vendere al meglio. ‘Ho trasportato qui la merce, l’ho esposta, la vendo a un prezzo non maggiore di quello degli altri, forse anzi inferiore, perché ne ho maggior copia. Chi subisce un’ingiustizia?’ Dall’altra parte Antipatro fa valere le sue ragioni […] [III,220,10] Al che Diogene risponderà forse così: ‘Una cosa è nascondere, un’altra è tacere. Seppure te lo taccia, io adesso non ti sto nascondendo quale sia la natura degli dei o il sommo bene, cose la cui conoscenza ti sarebbe molto più utile di quella del prezzo del grano. Insomma non è necessario che io ti dica tutto ciò che ti è utile sentire’. ‘Invece’, direbbe l’altro, ‘è necessario, se solo ti ricordi che fra gli uomini esiste per natura un vincolo sociale’. [III,220,15] ‘Lo ricordo eccome’, direbbe l’altro, ‘ma questo vincolo sociale è forse tale che nessuno possiede nulla? Giacché, se è così, uno non deve vendere qualcosa ma donarlo’. […] E Diogene di rimando: ‘Ti ha forse costretto lui a comprare, lui che neppure ti ha esortato a farlo? Lui ha solo messo in vendita ciò che non gli interessava più possedere, e tu hai comprato ciò che ti interessava possedere. [III,220,20] Se coloro che mettono in vendita come bella e ben edificata una villa, non sono ritenuti colpevoli anche se tale villa è né bella né edificata ad arte, ancor meno saranno colpevoli coloro che neppure hanno tessuto le lodi di una casa. Laddove l’acquirente ha tutto il tempo di giudicare, quale frode del venditore può mai esserci? Se non si deve prestare ascolto a tutto ciò che è detto, reputi che si debba prestare ascolto a ciò che detto non è? Cosa c’è [III,220,25] di più stolto del comportamento di un venditore che espone i difetti della sua merce? Cosa c’è di più assurdo del comportamento di un banditore che per ordine del padrone annuncia: ‘Vendo una casa malsana?’

SVF III [DB], 50

Seneca ‘De ira’ III, XXXVIII, 1. Qualcuno ti ha coperto di contumelie? C’è forse una contumelia più grave di quella rivolta a Diogene, il filosofo Stoico, a cui, proprio mentre trattava dell’ira, un giovane protervo sputò addosso? [III,220,30] Ma egli sopportò la cosa senza scomporsi e con saggezza, dicendo: “Non mi adiro, ma mi chiedo se sia il caso di adirarsi”.

SVF III [DB], 51

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ I, 1, 8. I pedagoghi, ancor di più <delle nutrici>, debbono essere eruditissimi […] o coscienti di non esserlo affatto. […] Un loro errore reca non poco danno morale, visto che Leonide, il pedagogo di Alessandro, [III,220,35] come racconta Diogene di Babilonia, instillò in lui certi vizi che da quel periodo di educazione infantile egli non perse più, neppure da adulto e sommo re.

SVF III [DB], 52

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 168e. Diogene di Babilonia, nei suoi libri [III,220,40] ‘Sulla nobiltà di stirpe’ afferma: “Non c’era un solo Ateniese che non odiasse Foco, il figlio di Focione; e chiunque, quando lo incontrasse, gli diceva: ‘O disonore [III,221,1] della famiglia!’. Aveva infatti dilapidato tutto il patrimonio paterno in dissolutezze e, dopo aver fatto questo, s’era messo ad adulare chi controllava la collina di Munichia; cosa per la quale era sferzato dai sarcasmi di tutti. Una volta che si raccoglievano i donativi, venne anche lui in assemblea e disse: ‘Offro anch’io un donativo’; al che gli Ateniesi all’unisono [III,221,5] gridarono a gran voce: ‘Sì, all’impudenza!’. Foco era anche un amante del bere. Una volta aveva vinto nella corsa dei cavalli alle Panatenee e suo padre ne riceveva a banchetto i compagni. Quando si riunirono per il pranzo, l’apparato era sontuoso ed a chi entrava erano forniti dei bacili per il lavaggio dei piedi, pieni di vino aromatizzato. Quando suo padre li vide chiamò Foco e gli disse: ‘Non farai smettere al tuo compagno [III,221,10] di rovinare la tua vittoria?’ ”.

SVF III [DB], 53

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XII, p. 526c. Nel quindicesimo libro delle sue ‘Storie’, Teopompo afferma che mille uomini di Colofone erano in grado di aggirarsi per la città portando stole tinte di porpora, la quale era allora merce assai rara anche per i re ed era ricercatissima, giacché il suo valore era equivalente al suo peso in argento. Perciò [III,221,15] appunto, a causa di un siffatto andazzo finirono nella tirannide e nella guerra civile, e andarono in rovina insieme alla loro patria. Le stesse cose ha raccontato di loro anche Diogene di Babilonia nel primo libro delle sue ‘Leggi’.

Resti del libro ‘Sulla Musica’

Frammenti n. 54-90

SVF III [DB], 54

Filodemo ‘De musica’ p. 5 Kemke. In poche delle [III,221,20] musiche dominanti c’è lo studio di melodie ispirate alle virtù, giacché è necessario che esse vadano dietro a faccende, e cose simili, di minor conto della virtù. E ne deriva […]

SVF III [DB], 55

Filodemo ‘De musica’ p. 6 Kemke. […] che tutti designano le sue melodie, alcune eleganti, temperanti e virili; altre vili, impudenti [III,221,25] e interamente vergognose, come se la musica apportasse con sé le disposizioni di questo genere, quando invece esse forse neppure apparirebbero se in verità non ci fossero già <in chi ascolta>. Né certo qualcosa può apparire più medicinale se innanzitutto non è medicinale, né qualcosa apparire più ippico se innanzitutto non è ippico.

SVF III [DB], 56

Filodemo ‘De musica’ p. 7 Kemke. Se si ammette che di per se stessa [III,221,30] l’intelligente comprensione dell’armonia e del ritmo sia proficua per l’educazione. […] E che farà la postura abituale più armoniosa e più ritmica. E se qualcuno ricerca se la musica gli porterà certe [III,222,1] virtù o quali, egli mette avanti Damone […] il musico, il quale crede cose quasi simili quando dice conveniente che il fanciullo canti e suoni la cetra, non soltanto …

SVF III [DB], 57

Filodemo ‘De musica’ p. 8 Kemke. È proprio dell’arte ginnica [III,222,5] far muovere il corpo e farlo stare fermo in modo elegante e proficuo, rendendo così discrezionali le sensazioni legate a queste azioni. La vista apprende dall’arte pittorica a ben giudicare molte delle cose visibili; mentre la musica sembra avere una parte meno necessaria …

SVF III [DB], 58

Filodemo ‘De musica’ p. 8 Kemke. [III,222,10] … stati passionali come l’ira, l’ebbrezza e l’afflizione nei quali ci imbattiamo comunemente, dacché le cause delle attinenti disposizioni le abbiamo in noi e non ci vengono dal di fuori. Anche la musica è una delle esperienze comuni, giacché tutti i Greci ed anche i barbari [III,222,15] l’utilizzano e, per così dire, a tutte le età. Infatti, ancor prima di possedere ragionamento e intelligente comprensione, la facoltà musicale s’accende nell’animo di qualunque fanciullo …

SVF III [DB], 59

Filodemo ‘De musica’ p. 9 Kemke. … dai legislatori che tutti si servano di essa <musica> e che nessuno vi apporti delle innovazioni, mentre la disposizione [III,222,20] che oggi va per la maggiore si distorna da essa. E se si paragonano i vari modi del ditirambo, il modo di Pindaro e quello di Filosseno, si troverà che è grande la differenza dei caratteri che si danno a vedere ma che identico è il discorso; e <ciò vale anche per> gli altri modi qualunque siano.

SVF III [DB], 60

Filodemo ‘De musica’ p. 10 Kemke. [III,222,25] … tempo, avendo incominciato gli abitanti di Mantinea, di Sparta e di Pellene. Presso costoro per primi e in special modo, si ebbe infatti la più scrupolosa sollecitudine per questo tipo di occupazioni e per l’altra musica […] … quando s’abbia un siffatto sistema educativo e si sia ragunata [III,222,30] da più parti molta e nobile industria così che sia strettamente imparentato alla natura e l’abbracci, esso non lascia più spazio a coloro che gli oppongono che non ci sarà ciò che lo accetta, a motivo dei caratteri e delle posizioni …

SVF III [DB], 61

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 11 Kemke. … ammettere [III,222,35] insieme a lui che per alcune cose c’è bisogno di una sensazione spontanea, per altre c’è bisogno di una conoscenza scientifica. Gli oggetti caldi e freddi richiedono la sensazione spontanea, ciò ch’è acconcio e ciò che non è acconcio la conoscenza scientifica; la quale è diversa ma è a quest’altra [III,223,1] connessa e ne ha, per di più, la comprensione. È attraverso la conoscenza scientifica che noi accogliamo il piacevole che segue dappresso ciascun oggetto sensibilmente percepito, il piacevole o lo spiacevole, giacché essa non è per tutti la stessa. Laddove infatti due sensazioni si mescolino, esse possono essere in armonia circa il loro oggetto: per esempio, qualcosa di aspro [III,223,5] ed amaro; ma possono evidentemente essere in disarmonia circa il piacevole o lo spiacevole che ne conseguono.

[2] Lib. IV, p. 62 Kemke. … e poi … l’afferrare le qualità degli oggetti di cui si occupano e l’afferrare il piacevole e [III,223,10] il seccante che da essi provengono, avviene ad opera di facoltà diverse in relazione alla sensazione: la prima ad opera della sensazione spontanea, la seconda ad opera della conoscenza scientifica. La qualità di qualcosa è infatti determinata da una facoltà che è di per sé spontanea e irrazionale, mentre la relazione che quel qualcosa ha con noi, e che è piuttosto determinata dalla conoscenza scientifica, non contraddice l’evidenza e non è mendace sulle cose più a portata di mano? La cosa che egli afferma essere evidente è che la conoscenza scientifica è stata assunta per essere in armonia con la ragione e con quanto di simile è in armonia con la ragione. [III,223,15] Infatti, non è vero che le sensazioni similari per disposizione siano in accordo sul fatto che un oggetto è aspro e però in disarmonia se l’oggetto è fastidioso oppure delizioso, ma danno lo stesso identico verdetto. A fronte però di certe predisposizioni è fattibile che su questi oggetti avvengano sensazioni immediate diverse, ma nel caso degli uditi [III,223,20] non vi è assolutamente differenza alcuna e tutti gli uditi fanno appercezioni simili di melodie simili e ne prendono piaceri similari; di modo che, quanto all’armonico e al cromatico, gli uditi differiscono non per la sensazione immediata, che è irrazionale, ma per le opinioni che se ne fanno gli ascoltatori. Infatti alcuni di questi, in quanto se ne sentono mossi, sono dell’avviso che una musica sia solenne, [III,223,25] nobile, schietta, pura e che un’altra invece sia priva di virilità, importuna, non libera. Altri poi … e altri ancora … Cose analoghe accadono anche per i ritmi e le composizioni musicali; ed è manifesto che la musica, anche se in generale si trova congiunta ad essa una straordinaria varietà di forme, non farà mai in alcun caso palesamenti di carattere etico né muoverà [III,223,30] altrimenti gli uditi di altre persone dalle loro disposizioni, in quanto gli uditi sono istituiti immutabili. Per questo, il musico che ricerca quell’intelligente comprensione che gli permetterà di vagliare quali sensazioni potranno essere indotte nell’ascoltatore e come, sta cercando la scienza di ciò che non esiste, e trasmette invano ai posteri i suoi sforzi a questo fine.

SVF III [DB], 62

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 12 Kemke. [III,223,35] … giacché la musica può svegliare un animo immoto e calmo, e condurlo ad una disposizione tale da poter essere per natura mosso [III,224,1] dalla melodia conveniente. Non tutti saranno però mossi in modo simile dalla stessa melodia; ed essa o lo muove al contrario, cioè da una condizione di agitazione e di trasporto ad una che ammansisce e ricostituisce l’animo alla calma; oppure lo smuove e lo distoglie da un impulso per dirigerlo verso un altro; oppure ancora conduce la sua esistente disposizione [III,224,5] ad un aumento o ad un decremento.

[2] Lib. IV, p. 65 Kemke. Peraltro, nessuna composizione musicale in quanto tale, dal momento che è qualcosa di irrazionale, sveglia l’animo dal suo stato di immobilità e di calma conducendolo ad una disposizione eticamente secondo natura, né da una disposizione di agitazione e di trasporto ad una che ammansisce e ricostituisce l’animo alla calma; [III,224,10] né è capace di distoglierlo da un impulso per dirigerlo verso un altro e neppure di condurre la disposizione esistente ad un aumento o ad una diminuzione.

SVF III [DB], 63

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 12 Kemke. … in generale … ogni musica … se qualcosa di imitativo …

[2] Lib. IV, p. 65 Kemke. … la musica non ha qualcosa di imitativo, come [III,224,15] sognano alcuni, né, come sogna costui, ha in sé i modelli dei caratteri umani e non dà a vedere con ogni evidenza tutte queste qualità dei caratteri: il maestoso e il miserabile, il mascolino e il non virile, il composto e lo sfrontato, più di quanto faccia l’arte culinaria. Perciò i suoni non sono di per sé dissonanti, neppure [III,224,20] nel mescolarsi tra di loro; né è possibile creare mediante le armonie disposizioni opposte le une alle altre per quanto attiene alle sensazioni immediate relative all’udito. Ciò che egli poi dice contro … movimento, lo vedremo in altro luogo.

SVF III [DB], 64

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 12 Kemke. Nel terzo libro egli ha parlato [III,224,25] più a lungo e soprattutto del carattere divino della musica, non in modo dimostrativo ma storico ed esegetico. Basterà compendiare la ricapitolazione. Egli afferma che la musica seria e secondo la legge è stata composta in primo luogo a motivo dell’onore cui siamo tenuti verso la divinità e, in secondo luogo, per l’educazione dei liberi cittadini. Che essa sia stata composta per onorare [III,224,30] ‘la divinità’ (to thèion), lo significano anche i nomi: ‘vedere uno spettacolo’ (theorèin), ‘spettatore’ (theatès), ‘teatro’ (thèatron).

[2] Lib. IV, p. 66 Kemke. Circa l’onore del divino attraverso le musiche è stato detto a sufficienza anche in precedenza […] Perciò egli neppure conclude che la musica sia proficua ai privati ma [III,224,35] semmai allo Stato. E proficua allo Stato, neppure ogni forma di essa; né quanto a volte s’ascolta sotto forme variamente ornate, ma nella forma più disadorna; e non da tutti i Greci ma soltanto da alcuni, in taluni tempi adatti e oggi anche attraverso uomini assoldati a questo scopo. […] [III,225,1] Ma anche anticamente la maggior parte delle offerte in onore degli dei dell’Olimpo non era di canti lirici e di accompagnamenti musicali, né del vedere uno spettacolo o dell’essere spettatore o del teatro; e anzi si potrebbe affermare che ‘vedere uno spettacolo’ (theorèin), ‘spettatore’ (theatès), ‘teatro’ (thèatron) sono stati chiamati così dal ‘correre’ (thèin), [III,225,5] giacché nessuno di essi ha a che vedere con il divino (thèion) più che con il correre (thèin). E si può concludere che gli spettacoli sono stati adottati a motivo dell’onore da rendere agli dei; ma non la musica, che è cosa riguardante l’udito; e che piuttosto gli spettacoli sono così designati dal vedere con gli occhi e comprendere con l’intelletto.

SVF III [DB], 65

Filodemo ‘De musica’ p. 67 Kemke. Si è già parlato quanto basta [III,225,10] circa l’educazione attraverso la musica. Circa gli encomi noi vogliamo dire questo: ossia che essi nacquero dai poemi, ma non da quelli in relazione con la musica che è stata ora indagata. Per i matrimoni si assumono cuochi e pasticcieri; ma sono i poemi, e non la musica, quelli che procurano [III,225,15] negli imenei l’utilità di cui lui parla. La primizia di questo genere di poemi è un componimento breve e nacque presso alcuni poeti, non tutti, e poeti sposati, non anche presso gli altri; ammettendo che lo sposarsi si possa davvero chiamare semplicemente un bene. […] invero la passione erotica non è sacrosanta, ma […] anche da costui è detta essere portatrice di sconcerto. Le cose [III,225,20] che egli dice avvenire non sono portate a compimento grazie alla musica ma ad opera dei poemi, e la passione amorosa non è aiutata dalla musica o dalla poesia ma è fatta ardere nella maggior parte dei casi da moltissimi fattori. E le cose che costui dice avvenire nelle relazioni amorose trovano riscontro sia nell’una che nell’altra, tanto quando il discorso è sospeso che in tutti gli altri casi. Quanto ai lamenti funebri, essi sono [III,225,25] poemi a tutti i quali è avvenuto di non medicare l’afflizione e qualche volta di alleviarla, ma molte volte di intensificarla. Invero gli scrittori di lamenti funebri fanno a gara per ottenere questo effetto, e da questi poemi non seguono affetti positivi e decoro, in quanto provocano all’eccesso opposto; e la musica non è compatibile [III,225,30] con questo carattere.

SVF III [DB], 66

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 14 Kemke. … le cadenze, quella attinente alle attività guerresche e quella attinente alle attività ginniche e atletiche, anticamente di più, ora di meno. Nel caso delle attività guerresche anche adesso [III,225,35] la maggior parte dei Greci usa le cadenze suonate dalla tromba, ma alcuni usano anche quella suonata dai flauti. Nel caso degli esercizi atletici, se ne dà segno con la tromba suonando di solito una qualunque cadenza guerresca. Nel caso delle gare di pentathlon, per il salto e la doppia corsa, la cadenza è stata fatta per flauto; e per la pantomima [III,226,1] del pugilato a vuoto si suona col flauto l’omonima melodia. Egli afferma poi che gli Argivi impiegano il flauto anche nel caso della lotta.

[2] Lib. IV, p. 69 Kemke. É stato già scritto a sufficienza anche circa la cooperazione della musica nelle guerre [….] il genere [III,226,5] degli esercizi atletici non è invece trattato accuratamente, e noi intendiamo fare ricerche sulla sua proficuità per ciascuno…

SVF III [DB], 67

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 14 Kemke. La musica è stata introdotta anche nelle danze corali delle gimnopedie e [III,226,10] in queste azioni drammatiche in armi; ed è musica tragica, satirica, comica. La migliore tra queste è la tragica … delle altre due … la satirica.

[2] Lib. IV, p. 70 Kemke. Anche perché, una volta tolta la danza dai drammi, nulla abbiamo in meno, dal momento che essa per nulla coopera [III,226,15] alla bellezza e nobiltà del dramma. E se, per continuare, dei poemi furono composti per le donne, io sono così lontano dal ritenere che dalla musica possa promanare qualcosa di proficuo in direzione della nobiltà di natura, della temperanza e della disciplina, da essere affatto persuaso che il suo insegnamento sia malsicuro e sospetto, in quanto offre molte risorse all’impudenza [III,226,20] e all’indisciplina bacchica; cose che richiamerò alla memoria procedendo nel discorso.

SVF III [DB], 68

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 15 Kemke. … i responsi oracolari… degli argomenti appropriati… il principale…<è che> la composizione musicale è per natura motore ed eccitante all’azione. E quando si favoleggia che Orfeo intenerisce le pietre, egli non muove le pietre ma assiste coloro che faticano a muoverle. [III,226,25] E perciò Tolomeo intima ad Ismenia di suonare sul flauto una musica cadenzata per coloro che non riescono a tirare in mare le navi.

[2] Lib. IV, p. 70 Kemke. Ora, passando ad altro, dico che degli argomenti messi insieme da Diogene il principale è che la composizione musicale sia sempre motore ed eccitante all’azione. Se egli afferma che le composizioni musicali sono state introdotte nel mondo [III,226,30] dalla Prònoia in grazia di questa loro capacità, non è ora il momento opportuno per appurarlo; e se invece noi designiamo il fuoco come qualcosa per natura caustico in quanto ha una natura caustica, ed egli è del parere che sia così anche per la composizione musicale, allora sì, per Zeus, egli mente alla grande. […] Sembra che ad una supposizione così insulsa abbia attirato l’aggiunta di alcuni strumenti musicali ai rematori sulle navi, agli antichi [III,226,35] mietitori, ai vignaioli che lavorano il vino ed a molti altri che compiono lavori faticosi; cosa che costui scrive Tolomeo abbia fatto con coloro che tirano in mare le navi. […] E se pure non dessimo retta al mito secondo cui Orfeo inteneriva persino i sassi e gli alberi per l’eminenza del suo [III,227,1] ben intonato canto, come anche ora siamo soliti dire per iperbole; e invece che assistente ai flautisti delle triremi, come fa il nostro Stoico, lo facessimo analogamente assistente agli edificatori di case; ebbene lo diremo per questo motivo e non a causa [III,227,5] dei vaneggiamenti di costui.

SVF III [DB], 69

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 15 Kemke. … <la musica> non dispone in un certo modo soltanto gli animi ma anche i corpi. Dunque quando un ragazzo suona il flauto eseguendo un’aria musicale, il suo viso…

[2] Lib. IV, p. 72 Kemke. È un’amenità affermare che la musica disponga in un certo modo non soltanto gli animi [III,227,10] ma anche i corpi, come se li tendesse fortemente […] perciò bisognerebbe che egli, dopo avere mostrato che il corpo è già stato disposto prima in un certo modo, all’espressione ‘non soltanto il corpo’ aggiungesse l’espressione più paradossale dicendo ‘dispone in un certo modo anche l’animo’. Ciò nonostante è degno di meraviglia il modo in cui, secondo quanto dice, egli spiega l’espressione ‘anche i corpi’. [III,227,15] Infatti <secondo lui è la musica> a muovere e disporre il viso dei cantanti al modo di chi è atteggiato per l’attività del canto, e dunque è la musica a muovere il corpo, se appunto l’atteggiamento del viso è la musica a produrlo.

SVF III [DB], 70

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 73 Kemke. … che il pittore [III,227,20] centrò la rassomiglianza con l’oggetto che imitava quando risuonò il canto del citaredo. Il centrare questa rassomiglianza non è opera della musica ma piuttosto un successo dell’animo, com’è il caso di coloro che tirano in mare le navi. Questo infatti palesa che essi hanno tratto dalla musica potenza fisica, il che è un fatto somatico. Sicché gli esempi dovrebbero essere integrati aggiungendo che attraverso il pittore la musica muove l’animo, mentre [III,227,25] attraverso coloro che tirano in mare le navi muove i corpi. Altrimenti uno potrebbe molto piacevolmente indagare perché, al sopraggiungere del canto, il pittore dipinse l’oggetto con quella rassomiglianza della quale era incapace in precedenza. Infatti non riteneva certo che la musica ci renda artisti più abili, oppure sarebbe beato di questa intelligente comprensione.

SVF III [DB], 71

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 74 Kemke. A questi [III,227,30] portenti egli aggiunge poi altri prodigi, dicendo che è più atto a muovere l’intelletto razionale il poema cantato che non il mero poema senza canto, e che soltanto … il poema di Cresso, pur non essendo privo di armonia, appare molto più solenne quando gli s’aggiunga la musica; mentre gli inni che si cantano ad Efeso e quelli che si cantano in coro a Sparta non fanno [III,227,35] più un effetto simile una volta che si levi via la musica. Egli ritiene che questo sarebbe bastante a dimostrare che la musica è più atta a muovere certi effetti, senza contare che qualcuno potrà facilmente dirgli che la musica non fa nulla di speciale in vista [III,228,1] della solennità e del palesamento della razionalità se non unicamente addizionare la delizia dell’udito; e qualcun altro dirgli che è a causa del compreso valore degli dei e degli uomini e non a causa della musica che si palesa la riconciliazione con la razionalità; e qualcun altro ancora che forse accade anche questo, [III,228,5] ossia che la comprensione del poema è compromessa dal fatto di essere cantato.

SVF III [DB], 72

[1] Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 75 Kemke. Che un individuo comune ed ineducato creda prova della profittevolezza della musica il suo essere stata tenuta in onore dagli antichi, è perdonabile; ma per una persona educata, [III,228,10] e per di più un filosofo, sarebbe una grande onta. Peraltro … la mantica è stimata dagli Stoici degna d’onore, come miriadi di altre attività che non apprestano bene alcuno; e talune attività di inaudita malvagità e che non sono degne d’onore da parte della filosofia sono state da loro predicate […] Al contrario, degna del massimo onore è la musica, finanche [III,228,15] quella dei conviti. Per chi ritiene che i più siano sempre pazzi e che sia assolutamente impossibile rifuggire dai loro giudizi è doveroso rifiutare la musica, ma questo è non meno doveroso per coloro che quei giudizi rifuggono, a causa della trascuratezza dei posteri al riguardo.

[2] p. 76, 25. … che la musica è stata chiamata così dalle ‘Muse’, alle quali essi riferiscono [III,228,20] ogni forma di educazione e di arte […] e per tutti è necessario prendere …

SVF III [DB], 73

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 76 Kemke. … qualcosa dei poeti … che la musica del bàrbito attutisce gli empiti del cuore; e dicono che essa è ‘voce’ e ‘dolce frutto’ di quando si beve vino nel dopopasto. Questo per dire come [III,228,25] alcune melodie risveglino e tendano l’intelletto alla conversazione ed alla condotta a ciò acconcia.

SVF III [DB], 74

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 77 Kemke. Che quindi la musica sia assunta dagli antichi nel sistema educativo dei fanciulli per abbozzare in essi le virtù, con l’eccezione forse della pietà, è un discorso già fatto. [III,228,30] Circa questa musica, conferita a seconda della specie musicale, noi avremmo ascoltato con piacere da lui quali concezioni abbozzi. Ma io rivolgo la mia ricerca alla musica per gli uomini adulti, e al modo in cui essa agisce allora, come testimoniano i poeti comici. Costoro infatti non sbeffeggiano soltanto l’essere musicalmente istruito e l’essere stato virilmente educato, mentre escludono tutti gli altri dal voto per alzata di mano. [III,228,35] Delle quali cose, l’una può avvenire; mentre l’altra, ossia l’esclusione dal voto, non essendoci mai dei fanciulli e dei giovani a votare, non può mai essere chiamata principalmente così, visto che essi hanno solo un abbozzo della loro futura virtù di uomini. Che cosa bisogna dunque dire del fatto che un filosofo legittimi come dimostrazioni le esternazioni dei buffoni ritenendoli più degni di fede di se stesso? […] Allora è giusto che [III,229,1] siano stati condannati e che siano diventati malvagi i filosofi di allora e tutti gli altri che i poeti comici castigarono.

SVF III [DB], 75

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 78 Kemke. Lasciando dunque alle spalle quanto detto circa la temperanza e la virilità, [III,229,5] che è un discorso già fatto, passiamo a quanto egli dice dell’amore. In primo luogo è oltremodo ridicolo il legittimare l’esistenza di una virtù amorosa quando il desiderio erotico è invece un gran male e quando tutti i Greci lo pensano tale. In secondo luogo il reputare che i canti cooperino alla retta condotta dell’amore, quando il canto sta tutto e soltanto nella [III,229,10] qualità della voce; e quando l’amore sta tutto nel discorso che insegna la matteria, la dannosità, l’isaziabilità di quella passione che per natura coopera a soffiare sul fuoco e ad esacerbare fino alla demenza […] e da non vedere quante risorse ha dato all’indisciplina e all’impudenza…

[III,229,15]

SVF III [DB], 76

[1] Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, Col. XIII, p. 79 Kemke. … (vari spezzoni intraducibili) … vuole collegare l’amore e Timoteo, a motivo di…

[2] Col. XIV. [III,229,20] … melodie appropriate alle persone per bene e melodie appropriate alle etere non sono possibili per natura e sono tali soltanto per vuote convenzioni. Né costui ha evidenziato esemplari di melodie del genere, ma semmai di pensieri del genere. Senza fornire prova alcuna egli ha infatti tirato in ballo anche la musica, ma non ha dimostrato che Ibico ed Anacreonte e simili poeti rovinino i giovani con la musica bensì, se questo è il caso, attraverso i pensieri espressi nei loro canti; [III,229,25] giacché tutti costoro pronunciavano le parole che usava Saffo e con queste, semmai, facevano di loro dei rammolliti. Poiché il canto è conseguente alla qualità della voce… non può essere… similmente non grazie ai canti ma alle parole e ai pensieri ci si può rendere graditi agli amati, se essi lo consentono. Noi ammetteremo che Aristofane dimostri che gli antichi, come altri d’età precedente, [III,229,30] usano la voce molle e gli occhi per sedursi, ma non i canti. E se egli dicesse che usano i canti, lo manderemmo alla malora. Infatti questi canti non provocano, per quanto sta ad essi, né a ciò che egli tiene invece per indubitabile, né gli uomini e le donne ad accoppiamenti vergognosi, né i giovani nel fior degli anni a fare la parte della femmina. E costui non ha additato, [III,229,35] né i poeti comici additarono, qualcosa del genere nel caso dei canti di Agatone e di Democrito, ma soltanto per le parole che dicono. Neppure Nicandro… fa riscontrare ciò… ma semmai andava errando…

[3] p. 16 Kemke. [III,230,1] … e <questi canti> non provocano né gli uomini e le donne ad accoppiamenti vergognosi, né i giovani nel fior degli anni a fare la parte della femmina… quello che i poeti comici accusano Agatone <di fare>… e Democrito. Nicandro che mostra [III,230,5] di insegnare nei fatti… ma anche…

SVF III [DB], 77

[1] Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 80 Kemke. Invero la musica non può consolare le disfatte amorose. Qualcosa del genere è affare del solo discorso, ma essa ci rende incuranti distraendoci; come fanno i piaceri sessuali e l’ubriachezza. Se egli sceglie di parlare prima dei poemi, conceda che Filosseno, se alludeva [III,230,10] a questo, non mente del tutto, e che neppure Menandro mente quando dice che la musica è per molti un malvagio fomite, per i moventi che sa dare.

[2] p. 16. …ma la musica è capace di consolare le disfatte amorose.

SVF III [DB], 78

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 16 Kemke. [III,230,15] … egli dice che la musica contribuisce in modo conveniente alla virtù amorosa e che una delle Muse si chiama Erato…

[2] Lib. IV, p. 81. Tuttavia io chiedo come mai egli ha detto manifesto e chiamato ‘Erato’ il contributo che la musica, che da lei prende peculiarmente nome, dà alla virtù amorosa, [III,230,20] a preferenza del contributo della poesia oppure, ancora meglio, di quello della filosofia. Pure tutte queste attività sono state infatti dedicate alle Muse… sottoporre, ma non l’azzuffarsi con la passione.

SVF III [DB], 79

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 16 Kemke. … egli è del parere che la musica cooperi anche alla virtù conviviale. Infatti dell’amore e in generale [III,230,25] delle faccende d’amore… (29) … né essere trovato altro svago ed altra educazione più appropriata ad individui liberi che quella di cantare, suonare la cetra e danzare. Altrimenti non s’affetterebbe che il vino provoca:

‘a cantare anche l’uomo più saggio,

e lo fa ridere mollemente e danzare’

E fa [III,230,30] questo…

[2] Lib. IV, p. 81 Kemke. Ma dacché la musica non appare cooperare alla virtù amorosa, è manifesto che essa neppure coopera a quella che egli afferma essere attinente a questa, ossia alla virtù conviviale e, comunemente, dei conviti. Io ritengo che quella chiamata virtù conviviale, non quella [III,230,35] fittiziamente plasmata da costoro, non sia un aspetto della saggezza; che non riguardi i saggi e che, nei conviti, non ponga rimedio a quelle manifestazioni amorose turbolente, sgradevoli e sediziose che ci sono tra i presenti. Tuttavia i poemi di Omero sono lì a significare come si conviene che la musica è appropriata ai conviti. Perciò, una volta concesso che nei conviti [III,231,1] bisogna svagarsi e giocare, non concederò che vi sia per le persone libere altro svago e gioco più appropriato del fatto che uno canti, un altro suoni la cetra e un altro danzi né altre manifestazioni migliori di quelle accompagnate dalla musica cantata, non [III,231,5] da quella dei flauti. Non ammetterò invece che il vino provochi di necessità anche i saggi a fare qualunque cosa, come dice…

[3] col. XVII. … condursi nel canto non in modo stonato ma ben intonato.

SVF III [DB], 80

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 83 Kemke. Egli, come se l’avesse appreso da un oracolo, ha affermato pure questo, ossia che anche le persone comuni scodinzolano di gioia [III,231,10] per il legame di parentela che esiste tra la musica e i conviti, e che esse assumono dei declamatori per i conviti così da non far mancare in essi Omero, Esiodo e gli altri facitori di versi e di canti. Siano pure migliori i conviti che utilizzano le opere di questi poeti; ma allora come mai questi conviti utilizzano meglio la musica se invece vi introducono i facitori di versi e non i musicisti? [III,231,15] E se per il resto della vita, a partire almeno da un certo momento se non proprio per quasi tutta la vita, come ha scritto costui, accettassimo che i musicisti ci apprestino modi assai vari di passarcela nei conviti, pure diremo che la varietà nasce molto di più da eventi ad essi connessi che non dalla musica di per sé…

SVF III [DB], 81

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 17 Kemke. [III,231,20] … peculiarmente il cattivare l’animo… presso quei poeti lirici che hanno proficuamente amato la musica. Non fa male Camaleonte quando segnala che i poeti comici alludono a qualcosa del genere quando parlano dei caratteri usando appellativi legati agli amori e una volta… verso tutti, la peculiare identità di questi.

[2] Lib. IV, p. 83 Kemke. [III,231,25] … scriverebbe che la cattivazione dell’animo peculiarmente… presso i poeti lirici; e diremo che quasi tutti i colori dei pensieri e della musica hanno incontrato un’attenta riflessione da parte di Cameleonte…

SVF III [DB], 82

[1] Filodemo ‘De musica’ p. 17 Kemke. La musica ha anche qualcosa di [III,231,30] attinente all’amicizia, siccome fu mostrato che tende all’amore e trova ragione nello scopo di questo. Inoltre è fatta anche per i conviti ed il loro scopo, che appare essere nuovamente una festevole amabilità. E se tende verso questa, tende anche all’amicizia. In altro modo si può dire che placa ed esilara l’animo.

[2] Lib. IV, p. 84 Kemke. [III,231,35] Invece noi diciamo nuovamente che siccome non troviamo nella musica alcuna proficuità per l’amore, essa neppure potrebbe relazionarsi familiarmente con l’amicizia.

[3] Col. XVIII. Una volta concesso che la musica è acconcia ai conviti, [III,232,1] dato che noi non poniamo quale unico loro fine una festevole amabilità, ma anche altri fini, come ad esempio il piacere; non ammetteremo che la musica sia proficua alla festevole amabilità, e dunque neppure all’amicizia […] né la musica placa ed esilara gli animi, ma lo fanno i pensieri che s’intrecciano in essi.

[4] Lib. IV, p. 85 Kemke. [III,232,5] Ma quand’anche la musica placasse e rendesse allegri, come fanno la voluttuosa fruizione di bevande, di cibi, ed ogni piacere, noi non concederemmo che essa sia causa di amicizia e di concordia, né che noi ci apriamo all’allegria soprattutto ad opera della musica e non di altre cose.

SVF III [DB], 83

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 85 Kemke. [III,232,10] Non ci riescono accetti gli Spartani quando testimoniano ai mentecatti che una volta ebbero in responso dall’oracolo di Delfi di mandare a chiamare Taleta; e che, una volta giunto lui, la fecero finita con le loro divergenze. Se testimoniano questo, essi vanno soltanto dietro ad altri che hanno inventato antiche storie fittizie e che erano musicisti. Altri, infatti, replicano polemicamente [III,232,15] mostrando che Taleta cialtroneggiava sull’episodio attraverso una tavoletta votiva, se egli davvero la dedicò con l’iscrizione che costoro dicono.

SVF III [DB], 84

[1] Filodemo ‘De musica’, p. 18 Kemke. [III,232,20] … e Terpandro, secondo una profezia … cantando nelle mense pubbliche comuni fece cessare ogni sommossa tra gli Spartani.

[2] Lib. IV, p. 85 Kemke. Neppure ci persuade la storia che Terpandro sia stato chiamato secondo una profezia a sedare una guerra civile. Ed anche se [III,232,25] moltissimi musicomani sono d’accordo su questo, Diogene di Babilonia è quasi il solo a far cantare Terpandro nelle mense pubbliche comuni. Invero converrebbe che i filosofi delineassero in quale modo delle composizioni musicali che nulla hanno a che fare con la ragione possano far cessare delle differenze basate sulla ragione, persuadendoci in questo modo che anche le musiche di Taleta e di Terpandro hanno fatto cessare le guerre civili tra gli Spartani.

[III,232,30]

SVF III [DB], 85

[1] Filodemo ‘De musica’, p. 18 Kemke. Di Stesicoro la storia racconta che i cittadini si erano già schierati a battaglia gli uni contro gli altri quando egli si pose in mezzo a loro, cantò un richiamo alla concordia e, così riconciliati grazie alla musica, li restituì alla calma. Né Pindaro [III,232,35] ha scritto:

‘uno che porta il bel tempo nella comunità dei cittadini’

per qualche altro motivo; e ciò vale anche per il canto di Sofocle negli ‘Epigoni’.

[2] Lib. IV, p. 87 Kemke. Ma anche la storia che si riferisce a Stesicoro non è raccontata con precisione, e non sappiamo se la lirica di Pindaro fece cessare le divergenze. […] Circa il canto tratto dagli ‘Epigoni’ noi sottoscriviamo un’altra interpretazione [III,233,1] non meno persuasiva. Ed anche se la pensiamo come costui, il canto deve essere lasciato con il significato datogli da Sofocle.

SVF III [DB], 86

[1] Filodemo ‘De musica’, p. 19 Kemke. … disporre ordinatamente le composizioni musicali in modo che esse non solo abbiano in comune qualcosa di attinente all’onore per gli dei, [III,233,5] ma siano una diversa dall’altra in relazione alle differenze delle singole divinità.

[2] Lib. IV, p. 88 Kemke. … sicché cambiamo discorso e parliamo di ciò che egli scrive circa la pietà religiosa. Ora, se noi crederemo che la musica attenga alla pietà religiosa in grazia del fatto che la divinità è onorata attraverso la musica dalla maggior parte degli uomini, allora crederemo che la stessa cosa sia vera anche per l’arte culinaria […] Conseguirebbe [III,233,10] inoltre ai giudizi di questo filosofo che la musica non ha alcuna attinenza con la pietà religiosa, dal momento che attraverso di essa neppure una sola divinità viene onorata in quanto, secondo gli Stoici, i più degli uomini sono nemici personali degli dei, sono dei dissennati che non si sono mai aggirati neanche in sogno tra gli onori veri da rendere agli dei possenti […] E che se Pindaro riteneva così quando affermava di fare un ditirambo per offrire un sacrificio agli dei, allora ritiene così [III,233,15] anche il poeta comico quando dispone ordinatamente le composizioni musicali attinenti a ciascuno degli dei […] a meno che Diogene non sia convinto che ciascuna differente divinità ammette per sé delle composizioni musicali differenti e che a ciascuna si confà la propria particolare.

SVF III [DB], 87

[1] Filodemo ‘De musica’, p. 19 Kemke. Egli dice che la musica è profittevole per l’intelligente comprensione della realtà e che nella scienza dell’armonia vi sono molte definizioni, suddivisioni, [III,233,20] dimostrazioni; e in un altro senso … una certa teoria …

[2] Lib. IV, p. 89 Kemke. Perché stupirsi degli altri giudizi di costui? Egli crede che la musica sia profittevole per l’intelligente comprensione della realtà per il fatto che nella teoria musicale esistono molte definizioni, suddivisioni e dimostrazioni; così come crede che i musicisti [III,233,25] suddivisero e definirono qualcosa di questi argomenti teorici unicamente, perché sbagliato se fatto altrimenti, al modo in cui si raggiunge una conclusione discutendo dialetticamente, dal momento che le loro esecuzioni in pubblico non sono fatte senza intelligenza ed in modo risibile […] E se dice che dalla saggezza viene l’intelligente comprensione, non riuscirà a dimostrare che le conoscenze dei musicisti cooperino ad essa più di quanto non vi cooperino le [III,233,30] conoscenze esatte degli altri…

SVF III [DB], 88

[1] Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 90 Kemke. Quando dice che i musicofili posseggono una conoscenza teorica similare a quella critica, egli non soltanto ignora quanto la loro teoria critica lasci a desiderare nella conoscenza di ciò ch’è confacente e non confacente, di ciò ch’è bello e di ciò ch’è brutto in fatto di composizioni musicali e di ritmi; [III,233,35] ma anche che, se qualcosa del genere fosse vero, egli verrebbe a togliere la determinazione su tutto ciò ai filosofi. E se fosse dell’avviso che la musica è dotata di qualcosa di similare, egli ignora pure, per Zeus, che concederebbe il verdetto critico non più ai filosofi ma ai cosiddetti ‘critici’ musicali. E se scrivesse che la musica è analoga alla poesia quanto ad imitazione e quanto al resto dell’invenzione, [III,234,1] non sarebbe però riuscito a dimostrare il punto per quanto riguarda l’imitazione; né, circa l’invenzione, sarebbe riuscito a dimostrare che ciò valga per la musica più che per le altre arti. Tuttavia, quanto all’essere composta e all’essere eseguita, la musica sia pure similare alla poesia e alla grammatica. Cosa bisogna infatti pregiare…

[2] p. 92. [III,234,5] Tuttavia Diogene afferma che se noi capiamo a fondo gli scritti di Eraclide sulla composizione musicale confacente e non confacente, sui caratteri maschi e su quelli rammolliti, sugli accompagnamenti musicali acconci e non acconci ai personaggi sottostanti, la critica musicale non sarà più ritenuta di gran lunga sconnessa dalla filosofia, giacché la musica e l’arte richiesta nel lavorarla [III,234,10] sono proficue per moltissime cose che hanno a che fare con la vita e ci dispongono in un modo che è attinente alla maggioranza delle virtù, o meglio ancora a tutte. Essendo queste cose pubblicate nel terzo libro degli ‘Appunti’ <di Eraclide> […] insieme a cose congeneri dette da altri […] noi abbiamo additato di quanti vaneggiamenti esse traboccano.

[3] Filodemo ‘De musica’, p. 19 Kemke. … chi capisce a fondo alcune [III,234,15] delle cose dette <negli scritti di Eraclide> sulla composizione musicale confacente e non confacente, sui caratteri maschi e su quelli rammolliti, sugli accompagnamenti musicali acconci e non acconci ai personaggi sottostanti, tutte cose che ammissibilmente non sono lontanissime dal filosofare […][III,234,20] è sotto gli occhi di tutti che la musica è proficua per tutti gli aspetti della vita e che l’arte richiesta nel lavorarla può disporci in un modo che è attinente alla maggioranza delle virtù; anzi, egli reputa, a tutte.

SVF III [DB], 89

Filodemo ‘De musica’, p. 20 Kemke. Dai fatti citati negli scritti di Dicearco, uno potrebbe prendere quanti argomenti vuole [III,234,25] a favore dell’ipotesi che egli presenta, ossia che gli antichi ritenevano che il cantore fosse anche un saggio, come è manifesto nel caso del cantore che fu lasciato <da Agamennone> presso Clitemnestra … dicono riconoscere … chi ascoltasse queste cose … i più concordano … sul fatto che, oltre alle sua altre capacità, la composizione musicale ha anche quella di far cessare guerre civili e sommosse, come [III,234,30] appare nel caso di esseri umani e di animali che si rabboniscono. Perciò Archiloco dice:

‘qualunque cos’è ammaliata dai canti’.

Presso i Carii, qualora nasca del trambusto nelle assemblee, alcuni cominciano ad intonare canti dolcissimi, poi il canto si propaga ad altri e infine a tutti quanti; e così si discioglie l’oggetto della contesa. Poi…

SVF III [DB], 90

Filodemo ‘De musica’ Lib. IV, p. 105 Kemke. [III,234,35] Nessuna divinità fu inventrice della musica né trasmise la musica agli uomini, ma essi la impararono gradualmente come prima abbiamo esplicato. Nessuna persona dotata di pietà religiosa [III,235,1] legittima l’identificazione di Ermes con la ragione, di Atena con la saggezza e delle discipline scientifiche alle quali si viene educati con le Muse. Se la ragione o il ragionamento ci ha arrecato la musica, non per questo essa è proficua; giacché ragione e ragionamento ci hanno anche arrecato cose pessime. E se essi sollecitano di rinchiudere nella musica la ragione, la saggezza e le discipline scientifiche alle quali si viene educati, [III,235,5] ne dicano i motivi.

Frammenti ‘Sulla Retorica’

Frammenti n. 91-126

SVF III [DB], 91

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 329 Sudhaus. <Egli afferma che la retorica> può lodare il regime di vita che vogliamo; e poi al contrario, se così ci sembri, l’identico regime di vita denigrare. Sicché il discorso può persuadere chi vuole stare in salute [III,235,10] che i regimi di vita di cui parliamo noi sono salutari, o almeno più salutari di altri. Un’arte siffatta, egli dice, che lavora a favore di chi fa ricerche in campo medico non sarebbe improficua; anche se nulla conferirebbe alla stare in salute.

SVF III [DB], 92

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 329 Sudhaus. Se al retore [III,235,15] ben poco s’addicono gli obiettivi che appaiono conformi ad un’opinione veritiera, sarebbe però insulso contrapporre che gli s’addicono quelli conformi ad opinioni degne di un matto o quelli privi di relazione con cose di per sé evidenti, e pensare che di queste i retori sono completamente a corto. Ma nel trattare il suo obiettivo il retore non sembra applicare il canone preso dalla musica. Gli obiettivi della musica, infatti, non sarebbero [III,235,20] più frivoli di quelli per cui il retore farebbe i suoi ragionamenti, ma questi della musica sono di facile comprensione per tutti…

SVF III [DB], 93

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 332 Sudhaus. … se stessi e … pronti ad imparare non persuadono, ma tutto il loro studio è dedicato alle folle e ai tribunali. Laonde nessuno è sollecito [III,235,25] di cosa dirà a se stesso, né di cosa dirà ad un amico intimo, ad un figlio, ad una moglie. E qualora il processo duri cinque mesi studiano e fanno ogni sforzo per essere persuasivi. Quello, poi, che per vanagloria sta per spendere un talento per soddisfare manie depravate; e dopo di ciò perde pure se stesso o la dote della moglie o del figlio…

SVF III [DB], 94

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 333 Sudhaus. [III,235,30] … come il retore che intende persuadere gli Spartani ad attendere il nemico a Maratona. Quando gli fu domandato: “Che argomento hai al riguardo?” rispose: “I nemici conquisteranno il controllo delle gole ed espugneranno le piazzeforti”. “Sei dunque andato a Maratona?” gli chiese uno, e lui rispose “No”. “Ma hai notizie accurate [III,235,35] di questo luogo?”. Poiché quello fece segno di no col capo, uno disse: “Che argomento hai dunque al riguardo, se non sai neppure se gli Spartani sono là?”. Di questa fatta sono i consiglieri [III,236,1] reputati valenti nelle città, ed essi parlano in modo simile a costui.

SVF III [DB], 95

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 333 Sudhaus. I retori in parte professano che formeranno uomini politici proficui per la città e [III,236,5] per gli amici, in parte parlano in difesa della loro arte affermando che essa non è frivola ma che sono i suoi utilizzatori ad usarla in modo frivolo. Sicché è possibile che pur diventati quali devono essere, ossia proficui per la città e per gli amici, tuttavia essi si comportino da retori scriteriati…

[2] p. 334. Nelle città, qualche individuo malvagio [III,236,10] utilizza talora l’arte retorica a casaccio. Ma una volta diventati retori quali si deve, ossia proficui per la città e per gli amici, non è fattibile utilizzare in modo scriteriato coloro che proprio essi retori hanno rettificato, né è fattibile che retori scriteriati, malvagi e venali siano proficui per la città e per gli amici.

SVF III [DB], 96

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 337 Sudhaus. … [III,236,15] e avvocato. In primo luogo, pertanto, si dovrebbe fare attenzione a non eliminare nei più giovani la brama di retorica, ma far sì che essa si intensifichi attraverso le accuse. E quand’anche in pubblico dicano qualcos’altro, essi però ammirano una facoltà così concreta, come quella che si racconta fosse di [III,236,20] Autolico e persone simili.

SVF III [DB], 97

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 344 Sudhaus. […] A coloro che hanno la tempra del filosofo sarebbe ridicolo intimare di andar dietro a ciò cui vanno dietro gli scribacchini, i danzatori, i gabellieri, quelli che vendono il fior degli anni loro. E se intimò di non dare spazio alle parole ma di pretendere [III,236,25] dei risultati, egli rende l’esito ancora più incerto, non essendo dell’avviso che dalle persone comuni …

SVF III [DB], 98

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 344 Sudhaus. […] è che i retori hanno detto l’uno contro l’altro le cose che egli cita; e riterrà segno dell’essere i filosofi persone assolutamente malvagie [III,236,30] gli scritti dell’uno contro l’altro, ancor più in quanto ad alcuni di essi non è sgradito in certi casi il dire pure il falso…

SVF III [DB], 99

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 345 Sudhaus. Né l’arte dei medici sarà stata mostrata inadatta a produrre la salute per il fatto che essi sono vinti da dei profani, dei quali è stato riferito che abbiano scoperto un farmaco capace di curare [III,236,35] uno stato morboso, farmaco che invece i medici ignorano. Non spesso dei distinti retori sono vinti, alla prova dei fatti, da dei profani; e non troppo spesso, ma spesso, [III,237,1] bisogna proprio che stiano zitti, a meno che perdano la voce per una malattia somatica o restino a bocca spalancata a causa di qualche e mozione.

[2] p. 343. … altri retori un poco più cautamente professano la prima opinione, [III,237,5] e pur dopo avere messo per iscritto cose di questo genere non soltanto sono vinti alla prova dei fatti ma sono spesso zittiti dai profani. Nulla è così convincente come la verità e la salda e non erronea perizia dei fatti.

[3] p. 346. … [III,237,10] la salda e non erronea perizia è il contrario non di quella dei retori, ma di quello che professano Diogene e i suoi simili circa il fatto che soltanto il sapiente che sa contraddire è retore. Alcuni hanno infatti … la verità di ciascuno dei retori proficui per la città secondo la storia della…

SVF III [DB], 100

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 346 Sudhaus. […][III,237,15] è opera di Filone il materiale che Demetrio Falereo mise in ordine nel libro ‘Sulla retorica’ e forse sono di Filone le altre sue opere, e anche quelle che riguardano un diverso Filone. Se, infatti, chi sa più di coloro che sanno … meno di coloro che sanno è privato del lavoro a causa del fallimento … [III,237,20] il sapiente del tutto inesperto di cose politiche e il retore cha ha avuto il sommo della perizia … e che può …

SVF III [DB], 101

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 347 Sudhaus. […] che quelli in errore sono più di quelli non nell’errore, e che sono ingannati dalle parole di Diogene e [III,237,25] di gente a lui più o meno similare, e porta in primo piano ciò ch’è atto a far sì che i retori non errino … per lo più persuadere …

SVF III [DB], 102

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 348 Sudhaus. … che i grandi retori del passato hanno vissuto conformemente ad un’intelligente comprensione della politica [III,237,30] ed hanno prodotto la formazione di un importante sistema educativo confacente alla vita nelle città; giacché i retori di oggi …

[2] Col. LIII, 9. S’imbattono nella folla senza imparare mai nulla… né dopo essere diventati famosi per la loro perizia, né giungono alle cariche pubbliche provenendo da qualcosa di ben fatto ma da … [III,237,35] chiacchiere.

[3] Col. LIV. … ed a questo similari, che nulla imparano. [III,238,1] Giacché bisogna avere esperienza e giungere alle cariche pubbliche dopo avere fatto qualcosa di eccellente, e anche tenere in disparte quanti sono privi di perfetta virtù e sono incapaci di dirigere le città. Ma la storia…

SVF III [DB], 103

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 350 Sudhaus. L’affermazione che quanti [III,238,5] hanno cominciato con l’essere capaci di tacere, com’è il caso di Senocrate, siano assolutamente gli unici a saper anche parlare, giacché entrambe le cose sono proprie della stessa persona, facendo attenzione a cosa lo crederemo se non al fatto che Senocrate così si spiegò davanti ad Antipatro e ai membri del Consiglio, come <Demetrio> Falereo racconta nel suo libro ‘Sulla retorica’?

SVF III [DB], 104

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 350 extr. Sudhaus. [III,238,10] … che i più insigni tra i retori operosi in politica, per via della loro palese cooperazione con i filosofi, sono stati da questi guidati, com’è il caso di Pericle, di alcuni altri capi e di Demostene; e che una cosa del genere non è un’offesa, per esempio, se si accostano Alcibiade e [III,238,15] Crizia a Socrate. Quello dei retori è infatti lo stesso materiale <dei filosofi>.

SVF III [DB], 105

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 351 Sudhaus. … non sembra con le armi. Quanto ad esse, nulla che sia stato escogitato e che sia di buona natura si porta verso l’inganno, mentre invece [III,238,20] l’avviamento dei retori alla loro arte ha tutti i suoi principi generali tesi all’inganno; e secondo Eraclito il retore è il capostipite degli abbindolatori.

[2] p. 354, Col. LXII. Quanto ad esse, nulla che sia stato escogitato e che sia di buona natura si porta verso l’inganno, mentre invece l’avviamento dei retori alla loro arte ha tutti i suoi principi generali tesi all’inganno; e secondo Eraclito il retore è il capostipite degli abbindolatori. [III,238,25] Com’è possibile affermare, senza mostrare in dettaglio tutti quei principi generali, che essi tendono all’inganno piuttosto che semplicemente al nulla? Oppure chi potrebbe sostenere per prima cosa ciò, sulla base di quanto sarà detto ed è affermato da parte loro…

[3] p. 355, Col. LXIII. Forse essi probabilmente danno così [III,238,30] a taluni qualche risorsa per ingannare chi li ascolta. “Ma per Zeus, qualcuno dirà, questo, ossia il dare risorse per l’inganno, non è avvenuto con le armi in mano”. Dunque, io affermerò, sarebbe d’uopo dire che questo è avvenuto grazie ai principi generali della retorica, o piuttosto di alcuni, ma che non è vero che tutti i principi generali e l’avviamento alla retorica tendono a questo.

SVF III [DB], 106

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 352 Sudhaus. [III,238,35] Perciò Aristofane li fa rassomigliare ai cinedi.

[2] Col. LIX. Poiché cita … di autori particolarmente degni di fede nello scrivere fedelmente la storia, non di qualcuno ignobile e privo di titoli. Non soltanto [III,239,1] irritavano Alessandro ma anche suo padre … poeta comico … verso i retori … memore delle parole blasfeme; laonde, afferma, non male…

[3] Col. LX. … [III,239,5] ciò nonostante non ci studieremo di sfrondare tutte queste argomentazioni, anche se a causa loro pure noi siamo costretti a dire all’incirca le stesse cose. Chi, infatti, non resterebbe sgomento davanti alla capziosità [III,239,10] di Diogene, che risulta più convincente, secondo loro, del Polo messo in scena da Platone…

[4] Col. LXI. … a sua volta, affermare che quanto è stato detto è simile al dire che nulla impedisce di conoscere il metodo grazie al quale i retori fanno apparire le cose smesse come nuove e il metodo con cui tagliare le borse, non però per usarli [III,239,15] a danno degli uomini ma quando ce ne sia bisogno, è la stessa cosa che non avere nulla da replicare. È infatti possibile usarli contro… e contro…

[5] Col. LXIX, p. 359. Essi proveranno a mostrare che le affermazioni fatte ai danni di Demostene e di Licurgo circa l’affare di Arpalo sono false; [III,239,20] che quanto scrive uno degli storiografi più degni di fede è quello che lui afferma di dire, e si dilungheranno quindi a mostrare che si tratta della cosa assolutamente più equivoca, astiosa e al limite della spudoratezza. Verosimilmente rinnegheranno di avere irritato Alessandro, e molto prima suo padre…

SVF III [DB], 107

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 355 Sudhaus. Invero [III,239,25] un individuo potrebbe avere un soprappiù di oggetti esterni, potenza del corpo, avvenenza e miriadi di altre qualità di cui fare menzione, le quali danno ad alcuni un movente per commettere ingiustizie contro gli uomini, e che però sono tenute in onore in grazia del giovamento che procurano ai più e sono dette cose buone anche da Diogene. Se dunque colui che è effettivamente retore è capace di affrontare la contesa e di tacere…

[2] Col. LXV. [III,239,30] Per questa via qualcuno sarà in grado di dire che gli Stoici, se non tutti i filosofi, possono essere visti come retori e mostrare invece che certi retori sono non filosofi. Anche se costui, paventando puerilmente di essere in futuro sospettato o di andare incontro a critiche, ha applicato questa riserva: “salvo che uno non sia da meno della natura appropriata” … gli [III,239,35] uomini e i discorsi che si fan godere da se stessi…

SVF III [DB], 108

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 357 Sudhaus. … come quando a Sparta se ne accagionava l’apparizione dei retori. Ma molti [III,240,1] malvagi misfatti sono in ogni modo responsabilità degli uomini ed io tralascio il fatto che si avrebbe modo di dimostrare come delle dette calamità siano stati causa e concausa individui che avevano preso impulso dalla filosofia. Invece diventeranno ricchi se diranno che sono i retori ad avere inventato il modo di cambiare le tirannidi in democrazie, i nemici in custodi, [III,240,5] e i maggiori guai in salvezza.

[2] Col. LXVII. … <come è vero che> il genere dei tiranni germogliò in Atene, dove nacquero più retori che tutt’insieme in tutta quanta la terra abitata; similmente può essere vero, per Zeus, che i retori non hanno fatto volgere nessuna città dalla democrazia alla tirannide. Taccio sul fatto che [III,240,10] le cause che … delineò, avverrà che siano comuni a tutte le folle…

SVF III [DB], 109

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 358 Sudhaus. Se Eschine non avesse rimproverato gli Ateniesi perché non impedivano a Demostene, che aveva mandata a picco la Grecia, di dirigerla come quei nocchieri che fanno rovesciare le navi, [III,240,15] diranno poi male che Diogene afferma che “gli Ateniesi non utilizzano i loro stessi retori”.

SVF III [DB], 110

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 359 Sudhaus. Atene ha bandito e condannato a morte dei retori. Se però talune città vietarono loro l’ingresso e non soltanto di svolgere attività politica, [III,240,20] molte grandi città continuarono ad utilizzarli come consiglieri. D’altra parte non tutti i retori, come afferma costui, sono dei millantatori il cui mestiere permanente è l’ardire; giacché, tra di essi, alcuni sono operatori di male mentre altri persuadono, in qualche modo, a cose buone.

SVF III [DB], 111

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 202 Sudhaus. Degli uomini [III,240,25] colmi d’ogni virtù, quali voi affermate dover essere i politici, nessuno, neppure Focione parrebbe potersi chiamare così, lui che pur si diceva fosse salvatore del popolo con i suoi discorsi. Ma secondo Diogene neppure lui sarebbe colmo d’ogni virtù.

SVF III [DB], 112

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 203 Sudhaus. …. qualora vengano all’attività politica non in grazia del bene operare … [III,240,30] come se facesse dei discorsi nell’isolamento dei deserti della Scizia, così scrive … siano pretermesse le altre considerazioni, dal momento che abbiamo spiegato in precedenza la ragione per cui non è in grazia del bene operare che bisogna venire all’attività politica … quello pensato dagli Stoici non ci fu, non c’è e non ci sarà [III,240,35] mai…

SVF III [DB], 113

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 204 Sudhaus. … dopo di che egli ha aggiunto qualcosa di davvero incredibile: “È manifesto che <i retori> non partecipano di siffatte conoscenze scientifiche, non vi spendono tempo né denaro, non reggono [III,241,1] l’impegno richiesto da esse e non si pongono mai al disotto di coloro che fanno professione di conoscenze del genere ”.

SVF III [DB], 114

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 207 Sudhaus. È proprio di persone che trovano gratificazione nell’amarezza e nella capziosità essere dell’avviso che i retori appaiono gente che ha passato la vita [III,241,5] a far processare altri e a subire processi. Che dei retori insigni abbiano a volte fatto processare altri e abbiano essi stessi subito processi lo abbiamo già assunto come vero, e del resto la vita del politico suole comportare sia il subire che l’effettuare cose del genere…

SVF III [DB], 115

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 208 Sudhaus. [III,241,10] Se il solo Diogene ha riferito che nessuno dei retori va preso per un uomo d’azione, che essi parlano tutto il tempo per ingraziarsi il popolo perorando la concessione di posti gratuiti agli spettacoli o la spartizione in qualche altro modo di fondi pubblici; allora forse sono meglio informati coloro che nulla hanno mai riferito dei fatti che riguardano [III,241,15] i retori. Che taluni retori siano stati persone del genere e che però molti abbiano anche dato consigli pratici, che abbiano avuto un intelletto particolarmente forte, che si siano interessati di affari cittadini con molta libertà di parola, che abbiano guerreggiato contro coloro che peroravano la distribuzione dei fondi pubblici, noi opineremmo che le storie ce lo testimonino.

SVF III [DB], 116

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 209 Sudhaus. [III,241,20] Di seguito a queste parole egli dice: “Bisogna che il politico sia all’altezza di ricoprire le cariche pubbliche, cosa che il retore non è capace di fare”.

[2] Col. VII, 7. Il politico, nel significato più proprio della parola, non è però colui che estende la sua funzione fino a quella di chi è capace di comandare l’esercito [III,241,25] o la flotta.

SVF III [DB], 117

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 210 Sudhaus. Inoltre egli afferma in modo risibile: “La retorica non può vantare diritti su ogni politico … sul dare consigli in privato e alle città … il sapiente occupa tutte quante le cariche [III,241,30] della città … non solo … se la saggezza … non solo è buon dialettico, grammatico, poeta e retore, ma il virtuoso è diventato capace di operare perfettamente con metodo in tutte le arti ed anche in vista dell’utile delle città; e dunque non è soltanto concittadino degli Ateniesi e degli Spartani, [III,241,35] giacché una politica e una legge degli stolti non esiste. Invece, nel sistema formato da dei e da sapienti si dice che il saggio sia re, [III,242,1] stratega delle forze per terra e per mare, tesoriere, esattore, e che sappia amministrare a modo le altre cariche pubbliche, dal momento che il politico deve per necessità avere scienza anche di queste cose”.

SVF III [DB], 118

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 214 Sudhaus. [III,242,5] Della retorica, alcuni tagliano via la parte deliberativa, altri quella giudiziaria, altri quella esperta delle cariche pubbliche; come accade per la medicina, per la pittura e per le altre arti. E poiché i seguaci di Demostene e di Demade si sono prodigati sulla forma deliberativa e giudiziaria [III,242,10] della retorica, è verosimile che dagli Ateniesi non sia data loro fiducia per la parte della quale non ebbero perizia.

SVF III [DB], 119

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 216 Sudhaus. La retorica coopera al ben fare ambascerie. “Gli Spartani, egli afferma, pur dileggiando la retorica, in occasione di abboccamenti diplomatici [III,242,15] sanno ottenere tutti i risultati che vogliono”. In primo luogo uno non concederà che gli Spartani sappiano ottenere tutti i risultati che vogliono in occasione di abboccamenti diplomatici e poi dirà che non sanno ben fare ambascerie; e che non le sanno ben fare per questo motivo, ossia perché non sono stati solleciti di studiare la retorica, il che è proprio ciò che Diogene, parlando a vanvera, mette in giro. E se uno [III,242,20] conviene sul fatto che gli Spartani, nelle ambascerie, centrano i loro scopi, come può costui dimostrare che essi siano così inesperti di retorica da dileggiarla?…

SVF III [DB], 120

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 218 Sudhaus. Se per questo motivo egli afferma che la politica non è affatto retorica, [III,242,25] dal momento che alcuni che sono non-retori sono però buoni ambasciatori; come mai ha poi tirato fuori che la retorica non sia anche politica?

SVF III [DB], 121

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 218 Sudhaus. “Ma, per Zeus, in quanto amanti della retorica gli Ateniesi s’offendono per le circonlocuzioni che cozzano contro l’arte e la dottrina della retorica”. [III,242,30] Ora, è ridicolo dire che gli Ateniesi s’offendono per queste cose…

SVF III [DB], 122

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 220 Sudhaus. Ma vi sono filosofi che hanno l’abitudine di dire soltanto chiacchiere, come capita a te ed a Critolao. Ascolta uno che parla chiaro: “La perizia dei retori politici, [III,242,35] il cui punto principale sta nel mirare alla tempestività, insegna molte volte a distendersi in lunghi discorsi, molte volte a dire solo qualche parola e molte volte a neppure aprire bocca”. Dunque, chi elimina <dalla politica> gli insegnamenti trasmessi soprattutto dalla scienza e dalla perizia della retorica, [III,243,1] a causa del fatto che alcuni falliscono il bersaglio, è una persona ridicola…

SVF III [DB], 123

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 220, 25 Sudhaus. “Ma se essi possono sciogliere i conflitti tra le città e farle diventare alleate, come mai non sono capaci di far riconciliare [III,243,5] una moglie che alterca col marito o un amante con l’amato, e come … amicizia? La perizia richiesta per rappacificare una persona con un’altra e le folle, è identica a quella necessaria per accordare una lira con un’altra e molte lire tra di loro”.

SVF III [DB], 124

[1] Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 224 Sudhaus. [III,243,10] “Ma per Zeus, egli dice, non si ricorda uno solo di costoro che abbia fatto un’ambasceria utile alla patria”.

[2] p. 225. “Non uno di costoro, egli dice, è passato alla storia come buon cittadino”.

[3] Col. XX. [III,243,15] … oratore politico di un cittadino … io dirò che non soltanto dei retori ma anche non pochi degli abitanti in città, digiuni di filosofia, sono diventati uomini politici. Tutti gli stolti, infatti, sono individui meschini, neppure uno di essi è probo, coltivato, amante della patria, né possiede le altre virtù popolarmente conosciute, per non parlare delle virtù perfette. [III,243,20] Qualora siffatte virtù siano state fornite o dalla natura o dal sistema educativo, insieme a ciò sarà dato che alcuni possono diventare oratori politici anche se digiuni di filosofia. Sicché come non sarà oratore politico un retore digiuno di filosofia?

SVF III [DB], 125

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 226 Sudhaus. “Laonde [III,243,25] noi diciamo che il retore senza filosofia non s’applicherà bene all’utile della patria, pur se avrà perizia” […] Tuttavia Pericle, che egli afferma essere stato il più intollerabile dei retori, poiché ascoltò le lezioni di Anassagora e di alcuni altri, è da lui equiparato ai filosofi, filosofi per nulla Stoici ma che avevano opinioni opposte [III,243,30] sulla natura del tutto. Per Diogene, soltanto la scuola Stoica fa buoni cittadini…

SVF III [DB], 126

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. II, p. 228 Sudhaus. … di Zenone, di Cleante, di Crisippo e di tutti quelli come loro. Ma non è d’uopo andar oltre dietro ai discorsi di Diogene, giacché egli non pare scrivere qualcosa di esatto né…

[III,244,1] 3. Antipatro di Tarso

Frammenti n. 1-15

SVF III [AT], 1

Strabone ‘Geographia’ XIV, p. 674. Uomini che sono nati a Tarso. Degli Stoici: Antipatro, Archedemo, Nestore e i due Atenodoro…

SVF III [AT], 2

Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 3 (Dox. Gr. p. 600). [III,244,5] Diogene di Babilonia, dopo essere stato uditore di Crisippo, fu maestro di Antipatro. Posidonio fu poi discepolo di Antipatro.

SVF III [AT], 3

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ V, 107. In verità quanto differisce l’esilio […] da una perpetua peregrinazione? Nell’esilio consumarono i loro migliori anni filosofi nobilissimi come […] Zenone, Cleante, [III,244,10] Crisippo, Antipatro […] che una volta emigrati non fecero mai più ritorno in patria.

SVF III [AT], 4

Cicerone ‘Academica’ I, apud Nonium p. 65, 11. Perché Antipatro lotta ai ferri corti contro Carneade in tanti volumi?

SVF III [AT], 5

Plutarco ‘De garrulitate’ p. 514d. Lo Stoico Antipatro, [III,244,15] come sembra, non potendo né volendo venire ad uno scontro con Carneade, il quale portava attacchi di grande violenza contro la Stoa, per il fatto di scrivere e riempire interi libri di repliche polemiche contro di lui fu soprannominato ‘penna urlante’.

SVF III [AT], 6

[1] Strabone ‘Geografia’ XIV, p. 679. […] ricorda il filosofo Antipatro, [III,244,20] nativo di Tarso.

[2] Cicerone ‘Academica’ II, 143. Perché? E due principi della dialettica, Antipatro e Archedemo, insuperabili opinionisti, non dissentono su molte questioni?

[3] Numenio presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XIV, 8, 10. Ogni pensamento di Carneade, [III,244,25] e mai un qualunque pensamento diverso, aveva la meglio; giacché coloro contro i quali egli polemizzava gli erano molto inferiori per capacità oratoria. Dunque il suo contemporaneo Antipatro, intenzionato com’era a lottare scrivendo qualcosa contro i ragionamenti di Carneade che gli erano riportati quotidianamente, non li rese però mai pubblici, né nel corso di diatribe né discorrendo nei portici; e mai aprì bocca per dire, [III,244,30] né alcuno mai udì da lui in proposito, si racconta, una sola sillaba. Egli andava invece stendendo delle repliche scritte e, preso un angolino, lasciò dietro di sé libri scritti per i posteri; libri che, se adesso sono inefficaci, ancor di più lo erano allora contro un uomo, cioè Carneade, che alle persone di quel tempo apparve immensamente grande [III,245,1] e che godette di tale fama. Eppure ugualmente anche Antipatro, quando si rimescolava agli altri sulla spinta della Stoica ambizione per gli onori, con i suoi compagni in segreto ammetteva la verità e dichiarava quello che anche chiunque altro avrebbe dichiarato.

SVF III [AT], 7

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ IV, 64. [III,245,5] Quando Carneade apprese che Antipatro era morto dopo avere bevuto del veleno, se ne sentì incitato ad una intrepido commiato dalla vita e disse: “Datelo anche a me”. Ma quando gli chiesero: “Che cosa?”, rispose: “Vino con miele”.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ IV, 52, 19, p. 1078 Hense. Quando Antipatro, ormai vecchio, si suicidò, [III,245,10] Carneade mescé due calici, uno di cicuta e uno di vino con miele. E mentre diceva agli altri Stoici di fare un brindisi con quello di cicuta tracannò quello di vino con miele, prendendosi gioco della premura di coloro che s’eclissano deliberatamente dalla vita.

SVF III [AT], 8

Cicerone ‘De finibus’ I, 6. Del resto quale aspetto dello Stoicismo è stato trascurato da Crisippo? E tuttavia leggiamo Diogene, [III,245,15] Antipatro.

SVF III [AT], 9

[1] Epitteto ‘Diatribe’ III, 2, 13. … se hai letto Crisippo od Antipatro. Se poi hai letto anche Archedemo, allora hai proprio tutto!

[2] III, 21, 7. “Eppure vi commenterò i testi di Crisippo come nessuno; dissolverò l’elocuzione in formule purissime addizionando in qualche dove anche [III,245,20] la profusione di Antipatro e di Archedemo”.

SVF III [AT], 10

Epitteto ‘Diatribe’ II, 17, 40. Se no, non saremo vicino a profittarne neppure se discuteremo tutte le Introduzioni e tutti i Trattati di Crisippo dopo quelli di Antipatro e di Archedemo.

SVF III [AT], 11

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. LIII. …. è stato discepolo e fu successore [III,245,25] di Antipatro a capo della scuola… Dardano, figlio di Andromaco, ateniese; e questo… Apollodoro di Atene…

[III,245,30]

SVF III [AT], 12

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. LX. …. E capace com’era di pensare con la propria testa grazie ad una grande attitudine a ciò, non si determinava mai a qualcosa senza averla prima posta al vaglio di Antipatro. Così facendo, fino alla fine non venne meno al discepolato. Col tempo, a causa della vecchiaia, Antipatro non faceva più scuola…

SVF III [AT], 13

Plutarco ‘Vita Tib. Gracchi’ VIII. [III,245,35] Ad incitarlo erano il retore Diofane ed il filosofo Blossio. Di questi, Diofane <era esule da Mitilene>, mentre Blossio era un italiano, nativo di Cuma, [III,246,1] divenuto intimo amico di Antipatro di Tarso a Roma, e da lui onorato con la dedica di vari scritti filosofici.

SVF III [AT], 14

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ V, p. 186c. Una volta che organizzò un convito, il filosofo Antipatro dispose per norma che i partecipanti discorressero di questioni filosofiche aperte.

[2] p. 186a. [III,246,5] In città vi sono circoli filosofici che si richiamano a molti filosofi diversi, e si chiamano ‘circolo dei seguaci di Diogene’, ‘circolo dei seguaci di Antipatro’, ‘circolo dei seguaci di Panezio’.

SVF III [AT], 15

[1] Plutarco ‘De tranq. animi’ p. 469e. Quando fu in fin di vita, passando in rassegna i beni che gli erano capitati non omise [III,246,10] la buona navigazione che aveva fatto dalla Cilicia ad Atene.

[2] ‘Vita Marii’ XLVI. In modo simile, per Zeus, si racconta che quando Antipatro di Tarso fu in fin di vita, passando in rassegna le contingenze beate che gli erano capitate, non dimenticò la buona navigazione dalla sua patria ad Atene, come se riservasse grande gratitudine ad ogni donazione della fortuna amica della probità e la [III,246,15] salvaguardasse nella memoria fino alla fine; memoria della quale nulla è per l’uomo cassaforte più sicura di beni.

*FRAMMENTI DI LOGICA

Frammenti n. 16-31

SVF III [AT], 16

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 55. Secondo gli Stoici la voce è corpo, come affermano Archedemo […] Diogene [III,246,20] e Antipatro […]. Infatti, tutto ciò che fa un’azione è corpo; e la voce fa un’azione quando s’avvicina da chi parla a chi ascolta.

SVF III [AT], 17

Varrone ‘De lingua latina’ VI, 1. In questo libro parlerò di vocaboli indicanti i tempi, designanti azioni o che si dicono di determinati momenti, come ‘siede’, ‘cammina’, ‘parlano’; e se si aggiungerà qualcosa di genere diverso, [III,246,25] ci atterremo alla parentela fra le parole piuttosto che alle critiche cavillose di chi ascolta. Devo queste conoscenze in buona parte a Crisippo e ad Antipatro, e ad altri che se pur inferiori per acume erano loro superiori per cultura letteraria: fra questi Aristofane e Apollodoro. Tutti costoro scrivono che le parole subiscono una declinazione nella quale alcune assumono lettere in più, altre le perdono, [III,246,30] e altre ancora le mutano.

SVF III [AT], 18

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 54. Essi affermano che criterio della verità è la rappresentazione catalettica, cioè quella del realmente esistente, come dicono Crisippo […], Antipatro e Apollodoro.

SVF III [AT], 19

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1057a. [III,246,35] Nelle polemiche contro gli Accademici, sia per Crisippo che per Antipatro la maggior disputa era sulla possibilità di effettuare un’azione o di impellere a qualcosa essendovi inassenzienti; e sul fatto che raccontano favole e fanno vuote ipotesi quanti stimano che, data una rappresentazione [III,247,1] appropriata, vi sia subito l’impulso senza che ad essa noi abbiamo ceduto il passo o abbiamo dato l’assenso.

SVF III [AT], 20

Cicerone ‘Academica’ II, 17. Alcuni filosofi, e di non piccolo calibro, reputavano che si dovesse non fare affatto ciò che noi ora ci accingiamo a fare per confutare gli Accademici, [III,247,5] giacché non ha senso discutere con quanti ritengono che nulla sia dimostrabile. Essi perciò riprovavano lo Stoico Antipatro, il quale aveva speso in ciò molte energie, ed affermavano che non era necessario definire cosa fossero la cognizione o la percezione, o (se vogliamo una traduzione letterale) l’apprensione certa, quella che <gli Stoici> chiamano κατάληψις; giacché quanti volessero [III,247,10] persuadere altri che esiste qualcosa che può essere percepito ed appreso con certezza, agirebbero da ignoranti.

SVF III [AT], 21

[1] Cicerone ‘Academica’ II, 28. Da ciò è nata la richiesta di Ortensio, ossia che voi <Accademici> diciate che dal saggio almeno questo è percepito: che nulla può essere percepito. Eppure ad Antipatro che formulava questa stessa richiesta, [III,247,15] dicendo a chi affermava che nulla può essere percepito, che era necessario riconoscesse almeno di percepire quel che affermava; Carneade si opponeva con più acume.

[2] II, 109. Tu ti riferisci ad una argomentazione molto usata e spesso confutata, non però al modo di Antipatro ma, come dici, in modo più stringente. Infatti si rimprovera Antipatro per avere detto che chi sostiene che nulla può essere compreso, [III,247,20] possa comprendere almeno quel che dice. Il che ad Antioco pareva grossolano e in sé contraddittorio.

SVF III [AT], 22

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 57. Le parti del discorso sono cinque […] : nome, appellativo, verbo, congiunzione, articolo. [III,247,25] Nei suoi libri ‘Sull’elocuzione e sui detti’ Antipatro appone anche una parte ‘media’.

SVF III [AT], 23

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 60. La definizione, come afferma Antipatro nel primo libro ‘Sulle definizioni’, è un discorso enunciato in modo esattamente corrispondente all’analisi. […] [III,247,30] La delineazione è un discorso che introduce sommariamente alla faccenda in oggetto, oppure un discorso che porta in sé ed esprime in modo semplificato la facoltà propria della definizione.

SVF III [AT], 24

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 42, 27 Wal. Quanti dicono che la definizione è un discorso enunciato in conformità ad un’analisi fatta in modo puntuale; che l’analisi è il dispiegamento per punti capitali del definito; che ‘in modo puntuale’ significa [III,247,35] né superare la misura né esserne carente; alla fin fine non farebbero nulla di diverso dal ripetere che la definizione è la ‘restituzione delle proprietà dell’oggetto’.

SVF III [AT], 25

Cicerone ‘Academica’ II, 143.

Anche su ciò che i dialettici insegnano quali nozioni elementari: per esempio, come occorra giudicare la verità o la falsità di qualcosa [III,248,1] con un nesso del tipo: ‘Se è giorno, c’è luce’, quante dispute! Diodoro la pensa in un modo, Filone in un altro, Crisippo in un altro ancora. E dunque? Crisippo non dissente dal suo maestro Cleante su molte questioni? E due principi della dialettica, [III,248,5] Antipatro e Archedemo, insuperabili opinionisti, non dissentono su molte questioni?

SVF III [AT], 26

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 8, 16 Wal. I sillogismi che i filosofi della cerchia di Antipatro chiamano monolemmatici non sono sillogismi ma argomentazioni ellittiche, come i seguenti: ‘è giorno, dunque [III,248,10] c’è luce’ e ‘respiri, dunque vivi’.

[2] Pseudo-Apuleio ‘De interpretatione’ 272 (p. 9, 6 Goldb.) Da un’unica constatazione non può derivare un’argomentazione complessa, pur se Antipatro lo Stoico, contro il parere di tutti, ritiene argomento completo il seguente: ‘Vedi, dunque vivi’.

SVF III [AT], 27

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 17-18, 11 Wal. [III,248,15] Non sono sillogismi quelli chiamati monolemmatici dai filosofi più recenti. Quelli chiamati monolemmatici sembrano a volte essere sillogismi perché viene loro tacitamente addizionata la premessa maggiore, in quanto conosciuta dagli ascoltatori. Il ‘respiri, dunque vivi’ sembra essere un sillogismo, ma soltanto perché l’ascoltatore [III,248,20] addiziona da sé, in quanto la conosce, la premessa maggiore, ossia ‘chiunque respira, vive’.

SVF III [AT], 28

[1] Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ II, 167. Se l’esistenza di sillogismi monolemmatici non ha il beneplacito di alcuni filosofi, costoro non sono più degni di fede di Antipatro, il quale non rifiuta i sillogismi del genere.

[2] ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 443. [III,248,25] Infatti Antipatro, uno degli uomini più notori della scuola Stoica, affermava che possono sussistere anche i sillogismi monolemmatici.

SVF III [AT], 29

Epitteto ‘Diatribe’ II, 19, 9. [III,248,30] <“Ne ha scritto in modo stupefacente Crisippo nel primo libro su ‘I Possibili’. Anche Cleante ha scritto peculiarmente su questo argomento, e pure Archedemo.> Ne ha scritto anche Antipatro, non soltanto nei libri ‘Sui Possibili’ ma anche peculiarmente in quelli ‘Sul Dominatore’.

SVF III [AT], 30

Epitteto ‘Diatribe’ II, 19, 2. Orbene uno [III,248,35] serberà, delle coppie di proposizioni, questa: (c) possibile è quanto non è né sarà vero, e (b) l’impossibile non consegue al possibile, ma non tutto quanto veramente è avvenuto è necessario, come appunto sembra sostenere la scuola di Cleante, che Antipatro a lungo difese.

SVF III [AT], 31

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 3, p. 182 M. Ora, [III,249,1] è possibile imbattersi in molti sillogismi accuratamente elaborati, come quelli che si scompongono analiticamente in due o tre proposizioni ipotetiche, e come quelli a conclusione indifferente o alcuni altri del genere, che sfruttano la prima o la seconda premessa. Come pure, senza dubbio, si dà il caso di altri filosofi, i quali scompongono analiticamente i sillogismi in una terza o [III,249,5] quarta premessa. Tuttavia, come scrisse Antipatro, si ha la possibilità di scomporre analiticamente altrimenti e in modo più conciso la maggior parte di questi sillogismi.

*FRAMMENTI DI FISICA

Frammenti n. 32-50

SVF III [AT], 32

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 150. Per loro la sostanza è corpo ed è finita, secondo quanto afferma Antipatro nel secondo libro ‘Sulla sostanza’.

SVF III [AT], 33

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1051e. [III,249,10] Nel suo libro ‘Sugli dei’ Antipatro di Tarso scrive testualmente questo: “Come preliminare al discorso nel suo insieme, faremo brevemente un rendiconto dell’evidenza che abbiamo del concetto di divinità. Noi abbiamo cognizione della divinità come di un essere vivente beato, imperituro, beneficente verso gli uomini. Di poi, spiegando dall’inizio ciascuno di questi attributi dice [III,249,15] così: e tutti li ritengono imperituri”.

SVF III [AT], 34

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1052b. A queste affermazioni <di Crisippo> voglio inoltre paragonare alcune piccole asserzioni tra quelle fatte da Antipatro: “Quanti dispogliano gli dei dell’attributo di essere beneficenti verso gli uomini, confliggono in parte col pre-concetto che noi abbiamo di essi; per la stessa ragione per cui confliggono quanti legittimano l’idea che essi [III,249,20] partecipino di generazione e d’estinzione”.

SVF III [AT], 35

Aezio ‘Placita’ I, 27, 6 (Dox. Gr. p. 322). Lo Stoico Antipatro dichiarava che la divinità è il destino.

SVF III [AT], 36

Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVII, 36. Conosciamo varie spiegazioni dell’appellativo ‘Licio’ di Apollo. Lo Stoico Antipatro scrive che Apollo è chiamato ‘Licio’ perché tutte le cose brillano (leukaìnesthai) quando il sole [III,249,25] le illumina.

SVF III [AT], 37

Cicerone ‘De divinatione’ I, 6. […] Testi che in seguito il discepolo <di Crisippo> Diogene di Babilonia rese pubblici [III,217,35] in un unico libro, e Antipatro in due libri.

SVF III [AT], 38

Cicerone ‘De divinatione’ I, 123. Moltissime delle cose divinate da Socrate furono raccolte da Antipatro; ma le tralascerò. [III,249,30] […] Però la cosa più straordinaria e quasi divina di quel filosofo fu che egli disse, pur essendo condannato del tutto iniquamente, che moriva con animo assolutamente tranquillo, giacché né quando usciva di casa né quando saliva la tribuna per difendersi, il dio gli aveva dato alcun segno di un male incombente, [III,249,35] come faceva d’abitudine.

SVF III [AT], 39

Cicerone ‘De divinatione’ II, 35. Non mi vergogno di te ma di Crisippo, di Antipatro e di Posidonio, i quali sostengono le stesse cose [III,250,1] che sostieni tu, ossia che nella scelta della vittima sacrificale ci guida una certa sensibilità divina e diffusa in tutto il mondo. E ancor più assurdo è ciò che tu hai preso da loro ed essi hanno detto, e cioè che quando uno vuole immolare una vittima, avviene una mutazione in aumento o in diminuzione [III,250,5] delle interiora, giacché tutto ubbidisce alla volontà degli dei.

SVF III [AT], 40

Cicerone ‘De divinatione’ I, 84. Questo è il ragionamento usato da Crisippo, da Diogene e da Antipatro.

SVF III [AT], 41

Cicerone ‘De divinatione’ I, 39. Veniamo ai sogni. Disquisendo di essi, Crisippo, che ne raccolse molti banali, [III,250,10] fa quel che fa Antipatro e li spiega usando il metodo interpretativo di Antifonte. L’opera mette certo in luce l’acume dell’interprete, ma gli conveniva usare esempi più seri.

SVF III [AT], 42

Cicerone ‘De divinatione’ II, 144. Le congetture degli stessi interpreti [III,250,15] dei sogni non rendono forse evidente la scaltra ingegnosità dei loro autori nel raggirare gli altri, piuttosto che la forza e il consenso ad esse della natura? Un corridore che aveva in animo di partire per Olimpia, sognò d’esservi portato su di una quadriga. La mattina, eccolo dall’interprete dei sogni. E quello gli fa: “Vincerai; giacché questo sogno indica la velocità e la forza dei cavalli”. Più tardi il corridore si reca da Antifonte, il quale gli dice: “Sarai per forza sconfitto. Non vedi che [III,250,20] ne hai davanti altri quattro nella corsa?” Ecco un altro corridore -di questi e di altri sogni sono pieni il libro di Crisippo e quello di Antipatro- ma torno al corridore.

SVF III [AT], 43

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 140. Il cosmo è uno solo, finito e di figura sferica; giacché siffatta figura è la più acconcia [III,250,25] al movimento, secondo quanto affermano Posidonio […] e i seguaci di Antipatro nei libri ‘Sul cosmo’.

SVF III [AT], 44

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 148. Zenone afferma che sostanza della divinità sono il cosmo nella sua interezza e il cielo, e in modo simile anche Crisippo […]. E Antipatro nel settimo libro ‘Sul cosmo’ afferma che la sostanza della divinità [III,250,30] è simile ad aria.

SVF III [AT], 45

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 142. Della genesi e della rovina del cosmo parlano Zenone […] e Antipatro nel decimo libro ‘Sul cosmo’.

SVF III [AT], 46

Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVII, 57. Questa è la spiegazione naturale dell’uccisione del drago, come la descrive Antipatro lo Stoico. [III,250,35] L’esalazione della terra ancora umida, passando ad altezze sempre superiori con impeto diverso e, una volta riscaldata, ricadendo su se stessa ad altezze inferiori in forma di serpente mortifero, [III,251,1] appestava ogni cosa con violenza mefitica. Questo serpente non si genera da altro che da calore e umidità, ed appariva coprire il sole stesso di una densa caligine, oscurandone in certa misura la luce. Ma il sole col divino fervore dei suoi raggi, come con un fitto lancio di dardi, lo fiaccò, lo essiccò, lo mise a morte e così diede origine al mito [III,251,5] del drago ucciso da Apollo.

SVF III [AT], 47

Plutarco ‘De sollertia animalium’ p. 962f. Non capisco come mai Antipatro, quando incolpava gli asini e le pecore di negligenza nella pulizia, abbia passato sotto silenzio le linci e le rondini…

SVF III [AT], 48

Plutarco ‘Aetia Physica’ 38, VI, p. 400 Bernardakis. [III,251,10] Perché le lupe partoriscono ad un certo punto dell’anno tutte nello spazio di dodici giorni? Antipatro nel libro ‘Sugli animali’ asserisce che le lupe sgravano quando cadono i fiori degli alberi ghiandiferi. Alle lupe che mangiano tali fiori si apre allora l’utero, ma quando essi non sono in abbondanza il feto muore nel corpo della madre e non può venire alla luce. [III,251,15] Pertanto le regioni povere di ghiande e di querce non sono devastate dai lupi.

SVF III [AT], 49

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 157. Zenone di Cizio e Antipatro [III,251,20] nel libri ‘Sull’animo’ […] affermano che l’animo è pneuma caloroso. È grazie a questo che noi siamo creature spiranti ed è da questo che noi siamo mossi.

SVF III [AT], 50

‘Scholia’ in Hom. Iliad. XI, 115.

‘e strappa loro il tenero cuore’

Così Aristotele e il medico Antipatro affermano che l’animo cresce insieme al corpo e poi diminuisce insieme con esso. [III,251,25] Questa affermazione mosse gli Stoici e Antipatro nel secondo libro ‘Sull’animo’, a dire che l’animo cresce insieme al corpo e poi diminuisce insieme con esso.

FRAMMENTI MORALI

Frammenti n. 51-67

SVF III [AT], 51

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 84. <Gli Stoici> dividono [III,251,30] la parte Etica della filosofia […] e così la suddividono i seguaci di Crisippo […] e Antipatro.

SVF III [AT], 52

Stobeo ‘Eclogae’ II, 83, 10 W. Tutti gli indifferenti secondo natura hanno un valore e tutti gli indifferenti contro natura hanno un disvalore. Il valore è inteso in tre modi: l’éstimo è il prezzo di un oggetto di per sé; il contraccambio è il prezzo stabilito da un perito valutatore; e terzo, [III,251,35] cui Antipatro dà l’appellativo di ‘selettivo’, valore è ciò per cui, date delle faccende, noi scegliamo queste qua invece di quelle là: per esempio, la salute invece della malattia; la vita invece della morte; la ricchezza di denaro invece della povertà di denaro. In tre modi analoghi <gli Stoici> affermato che vada chiamato il disvalore, [III,252,1] con significati contrapposti a quelli citati prima per il valore.

SVF III [AT], 53

Seneca ‘Epistulae morales’ XCII, 5. Alcuni però giudicano che anche il sommo bene sia suscettibile di aumento, giacché esso non è nella sua pienezza finché delle circostanze fortuite gli sono contrarie. Anche Antipatro, che è tra i massimi rappresentanti di questa scuola, [III,252,5] afferma di dare un certo peso, pur se piuttosto limitato, ai beni esterni. Tu vedi però quale assurdità sia il non accontentarsi della luce del giorno se non le si aggiunge una qualche fiammella.

SVF III [AT], 54

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXVII, 38. “Dai mali non risulta il bene; ma da molte povertà risulta la ricchezza; dunque la ricchezza non è un bene”. I nostri Stoici non condividono questa argomentazione, mentre i Peripatetici [III,252,10] la formulano e la risolvono. Posidonio ci riferisce come questo sofisma, trattato in tutte le scuole di dialettica, sia stato così confutato da Antipatro: “La povertà è definita non per il possesso di qualcosa ma per la sua mancanza: gli antichi dicevano ‘per deprivazione’ e κατὰ στέρησιν dicono i Greci; vale a dire non esprime quel che uno ha, ma quel che uno non ha. In questo senso, da molti vuoti non viene alcun pieno, e per fare una ricchezza ci vogliono molti beni, non molte indigenze. [III,252,15] Tu concepisci la povertà, diceva Antipatro, in un senso improprio: povertà non significa possesso di poche cose, ma mancanza di molte, e cioè si definisce non da ciò che si ha ma da ciò che manca”. Certo esprimerei con più facilità ciò che voglio dire se ci fosse una parola latina che significa ἀνυπαρξία (ossia insussistenza), che è [III,252,20] la qualità assegnata da Antipatro alla povertà.

SVF III [AT], 55

Cicerone ‘De finibus’ III, 57. Invece i loro successori, incapaci di fare fronte agli attacchi di Carneade, dissero che quella che io ho chiamato buona fama sia un ‘indifferente promosso’ e quindi da assumersi come tale, e cioè che sia buona cosa [III,252,25] per un uomo nobile e ben educato voler godere di un buon nome presso i parenti, i vicini, i galantuomini, e ciò per il valore in sé della cosa e non per alcun vantaggio. Dicono inoltre che come noi vorremmo che si provvedesse ai nostri figli, anche a quelli che eventualmente nascano dopo la nostra morte, per il loro bene; così dovremmo provvedere alla nostra fama postuma di per sé ed a parte ogni vantaggio.

SVF III [AT], 56

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ Vol. II, p. 705 Pott. [III,252,30] Lo Stoico Antipatro ha compilato 3 libri dal titolo ‘Per Platone soltanto il bello è buono’, nei quali dimostra che secondo Platone la virtù è autosufficiente per la felicità, e nei quali cita anche molti altri giudizi di Platone che sono in armonia con quelli degli Stoici.

SVF III [AT], 57

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 75, 11W. [III,252,35] Zenone così esplicitò il sommo bene: “Vivere in modo ammissibile <con la ragione>” […] I suoi successori, dopo averla articolata più minutamente enunciavano la definizione così […] e Antipatro così: “Vivere selezionando per noi le cose secondo natura e scartando quelle contro natura”. Spesso egli la esplicitava anche così: “Fare continuamente ed [III,253,1] inviolabilmente tutto quanto dipende da noi per centrare le cose che sono per natura di prima istanza”.

SVF III [AT], 58

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ Vol. II, p. 497 Pott. Antipatro, [III,253,5] uno della cerchia dei discepoli di Diogene di Babilonia, concepisce che il sommo bene giaccia nel selezionare per noi, continuamente ed inviolabilmente, le cose che sono secondo natura e nello scartare quelle che sono contro natura.

SVF III [AT], 59

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1072c-f. <Gli Stoici> pongono la sostanza del bene nella selezione razionale delle cose che sono secondo natura; e una selezione non è razionale [III,253,10] se non avviene in vista di un qualche fine, <come è già stato detto in precedenza>. Qual è dunque questo fine? Null’altro, essi affermano, che l’operare razionalmente nella selezione delle cose che sono secondo natura. […] La selezione razionale dovrebbe essere selezione di beni che sono giovevoli e che cooperano verso il fine; giacché come può essere razionale il selezionare per sé cose né utili né onorevoli e, in complesso, neppure oggetto di scelta? Sia dunque concesso trattarsi, [III,253,15] come essi dicono, di una selezione razionale delle cose dotate di valore in vista dell’essere felici. Guarda allora come il loro ragionamento giunga così al suo punto capitale bellissimo e solenne. Infatti, come sembra, secondo loro ‘fine’ diventa l’operare razionalmente nella selezione delle cose che hanno valore al fine di operare razionalmente. […] Infatti i nostri uomini affermano che il bene e la felicità non hanno, [III,253,20] e non si può pensare che abbiano, altra sostanza che questa tanto onorata razionalità nella selezione delle cose dotate di valore. Tuttavia vi sono alcuni i quali credono che questa obiezione sia rivolta contro il solo Antipatro e non contro tutta la scuola Stoica; in quanto Antipatro, sotto la pressione di Carneade, si sarebbe squagliato in queste ragioni speciose.

SVF III [AT], 60

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 92. Panezio afferma che le virtù sono due; […][III,253,25] i seguaci di Posidonio, che sono quattro; i seguaci di Cleante, di Crisippo e di Antipatro che sono ancora di più.

SVF III [AT], 61

Cicerone ‘De officiis’ III, 50. Capitano spesso situazioni […] nelle quali l’utile appare in contrasto con l’integrità morale, sicché si deve esaminare bene se tale contrasto ci sia davvero, oppure se le due cose possano andare d’accordo. […][III,253,30] In casi del genere, Diogene di Babilonia, Stoico di grande levatura e serietà, suole vedere le cose in un modo e Antipatro, suo discepolo ed uomo di ingegno acutissimo, in un altro. Per Antipatro bisogna dire apertamente tutto, affinché nulla di ciò che il venditore sa resti ignoto al compratore. […] Dall’altra parte Antipatro fa valere le sue ragioni: ‘Che dici? Tu che devi dare consigli agli uomini e servire alla società umana, [III,253,35] che hai questa legge innata alla quale devi ubbidire, e queste pulsioni naturali primarie cui devi dar seguito affinché il tuo utile sia l’utile comune e viceversa l’utile comune sia anche il tuo, celerai agli uomini le risorse che hanno ed in quale abbondanza le abbiano? […] ‘Cos’altro è il non mostrare la via a chi si è smarrito, atto che ad Atene [III,253,40] è sancito con la pubblica esecrazione, se non accettare che un compratore agisca sconsideratamente ed incorra per errore in una gravissima frode? È molto peggio che il non mostragli la strada, [III,254,1] giacché significa indurre scientemente in errore un’altra persona.

SVF III [AT], 62

Stobeo ‘Florilegium’ LXX, 13. Dal libro di Antipatro ‘Sulla convivenza con una donna’. [III,254,5] In primo luogo è d’uopo non fare il fidanzamento a casaccio ma dopo attenta riflessione, senza volgere lo sguardo alla fortuna economica, alla nobiltà di stirpe che gonfia di boria, né ad alcuna di quelle esteriorità che lasciano a bocca aperta e neppure, per Zeus, all’avvenenza; giacché questa soprattutto procaccia un’altezzosa arroganza ed un carattere dispotico. Bisogna invece dapprima indagare il carattere e il modo di vita del genitore: se cioè egli sia un individuo che gode dei diritti politici, [III,254,10] non importuno, costumato, e poi ancora, temperante e giusto, e inoltre disinteressato alle bagattelle; come pure indagare le orme e le altre tracce che ci informano circa l’acquisire amici di quale natura egli abbia bisogno. In secondo luogo bisogna fare indagini sulla madre, dalla quale la futura sposa è allevata e sul cui modo di vita per lo più essa si modella. Dopo di ciò bisogna indagare se i genitori abbiano educato [III,254,15] la figlia in modo conseguente ai loro costumi e non siano invece stati vinti e inclinati lontano da ciò ch’è utile dalla troppa affettuosità. Questo può essere stato indagato in svariati modi: attraverso i servi e le persone libere sia dentro che fuori della casa; attraverso i vicini ed altre persone che hanno accesso alla famiglia; attraverso amici che hanno con questa dei rapporti conviviali o d’altro tipo; attraverso cuochi, pasticcieri, [III,254,20] rammendatrici ed altri artigiani e artigiane. Infatti individui di questo genere si introducono in casa anche troppo speditamente, si dà loro fiducia e prendono in mano faccende delicate e che sono al di sopra del loro valore.

SVF III [AT], 63

Stobeo ‘Florilegium’ LXVII, 25. Dal libro di Antipatro ‘Sul matrimonio’. [III,254,25] Il giovane d’indole nobile, ardimentoso, e insieme mansueto e che gode dei diritti politici, conosce con chiarezza che una casa, una vita, non possono diventare perfette altrimenti che con una donna e dei figlioli; giacché è imperfetta quella casa, come quella città, che sia formata da sole donne, oppure meramente da uomini; e pertanto al modo in cui non sono buoni il gregge senza prole e la mandria che non ha dovizia di progenie, [III,254,30] molto di più ciò vale per una città o per una casa. Una volta capito questo, il giovane d’indole nobile, non appena inizia naturalmente a godere dei diritti politici, deve collaborare a rendere più grande la sua patria. Infatti le città non potrebbero salvaguardarsi in altro modo, se gli ottimi per natura tra i cittadini, figli di uomini generosi, quando i padri appassiscono e cadono giù come fanno le foglie di un bell’albero, giunta [III,255,1] la loro stagione non si sposassero, per lasciare dietro di sé alla patria, quasi generosi germogli, dei successori; per farla sempre verdeggiare e per custodirne sempiterno il fiore; mai facilmente portata, per quanto è in loro potere, alle inimicizie private; centrando così il bersaglio di difendere [III,255,5] ed aiutare la patria sia in vita che in morte. Questi giovani legittimano tra i più necessari e primari doveri quello di coniugarsi e s’affrettano a realizzare tutto quanto spetta alla natura, e soprattutto quanto è congiunto alla salvezza e all’accrescimento della patria, ma ancor di più all’onore per gli dei. Se, infatti, il genere umano s’eclissa, chi sacrificherà agli dei? Qualche lupo o il genere ‘dei leoni [III,255,10] uccisori di tori’? È anche avvenuto che chi non ha provato ad avere una sposa legittima e dei figlioli non conosca il sapore del più vero e genuino affetto. Infatti le altre amicizie o affettuosità somigliano alle misture per accostamento, come quelle di legumi, o di qualcos’altro di similare; mentre invece l’affetto di marito [III,255,15] e moglie somiglia alle mescolanze totali, come quella del vino con l’acqua, quando il vino, standole sopra, si mischia interamente con essa; giacché soltanto i coniugi accomunano non solo le sostanze, i figlioli – la cosa più cara per tutti gli uomini – e gli animi, ma anche i corpi. Tale comunanza è verosimilmente straordinaria anche sotto un altro aspetto. Infatti le altre comunanze hanno diverse opportunità per volgere altrove lo sguardo, [III,255,20] mentre

‘queste invece guardano di necessità ad un animo solo’

cioè all’animo del marito (giacché così si pone accanto a quello di un padre l’animo di una madre non scriteriata), per fare del marito l’unico scopo e fine della vita e per piacer a lui, mentre ciascuno dei due genitori trova di buon grado lo spazio per tributare all’altro la primizia dell’affetto, la moglie al marito e il marito alla moglie. [III,255,25] Non da inesperto della convivenza con una donna, dopo avere volto lo sguardo a queste cose ed avere risposto in un canto la sua misoginia nello scrivere, anche Euripide ha detto:

‘una moglie, infatti, nelle malattie e nei mali

per un coniuge è la cosa più dolce; se ben amministri la casa,

[III,255,30] quando mitiga l’ira e l’animo sgombra

dallo scoraggiamento; e dolce è anche la seduzione degli amici’

Capita che la faccenda abbia anche qualcosa di eroico. Oggi in talune città, in aggiunta alla stante fiacchezza di costumi, all’anarchia, all’inclinazione al degrado e alla pigrizia, lo sposarsi sembra essere una delle cose più infeste. [III,255,35] La vita da scapolo, che offre potestà per l’impudenza e la voluttuosa fruizione di svariati piaceri ignobili e di breve momento, è ritenuta pari ad una vita divina; mentre [III,256,1] l’ingresso in casa da parte di una moglie è invece ritenuto equivalente all’introduzione in città di un corpo di guardia. La vita con una moglie sembra a taluni apparire difficile perché essi non sanno comandare il piacere ma ne sono servi. Alcuni sono stati catturati dall’avvenenza esteriore, alcuni dalla dote; a seguito [III,256,5] delle quali cose sono pronti ad assecondare deliberatamente la donna e non invece ad insegnarle quanto è doveroso circa l’amministrazione e l’arricchimento della casa; né per quale fine loro due siano convenuti insieme; né ad infonderle buone opinioni circa gli dei, la pietà e la superstizione; né a farle riscontrare la perniciosità della mollezza e la sgraziataggine dei piaceri; né ad abituarla ad avere lo sguardo teso alla vita che ha dinanzi [III,256,10] ed a tener conto del futuro tutto con retta intelligenza, senza essere a sua volta ciecamente e sconsideratamente speranzosa che se il marito lo deciderà essa possa ottenere tutte le cose per cui smania; né ad occuparsi soltanto delle cose del momento, ma ad esaminare anch’essa il donde, il come, il se più salutarmene e e il se più utilmente di tutte le faccende. Giacché se uno fosse capace di mettere in pratica questi insegnamenti [III,256,15] e gli altri precetti ben teorizzati e professati dai filosofi, la donna sposata sembrerebbe essere uno dei pesi più piacevoli e più leggeri. La situazione infatti è del tutto simile alla condizione di chi avesse una sola mano e ne aggiungesse un’altra presa da qualche dove; oppure, avendo un piede solo ne acquisisse un altro dall’altra parte. Infatti, come costui potrebbe incedere, [III,256,20] approssimarsi e recarsi dove vuole, così colui che introduce in casa una moglie riceverebbe più facilmente quei servizi che sono salutari e utili per la vita. Dunque invece di due occhi i coniugi hanno l’uso di quattro, invece di due mani ne hanno altrettante in più con le quali eventualmente effettuare assieme e con maggiore facilità ciò ch’è opera delle mani. Perciò se due mani fossero stanche e malate, le altre due potrebbero a loro volta averne cura [III,256,25] e il totale, che è diventato due invece di uno, potrebbe avere miglior successo nella vita. Perciò chi ritiene che l’introduzione in casa di una moglie appesantisca di molto la vita e la renda torpida sperimenta, io credo, quel che sperimenta chi vietasse di avere più di un piede affinché noi non si debba trascinarcene dietro molti nel caso ci tocchi di camminare assai, oppure biasimasse chi possiede più di una mano perché, [III,256,30] dovendo effettuare qualcosa, ne sarebbe intralciato dal loro maggior numero. Ragionando allo stesso modo, si può dire che se una persona potesse aggiungere a sé un altro se stesso (e non fa differenza se questa persona è femmina o maschio) certo potrebbe effettuare tutte le operazioni in modo più svelto e più agevole. Per l’uomo amante del bene e che dispone di avere agio per i ragionamenti filosofici o per le opere della politica o per entrambe queste cose, [III,257,1] questo è un punto inamovibile; giacché quanto più egli rimane distolto dall’amministrazione della casa tanto più deve prendere con sé colei che gli succederà nel governo di essa e che gli permetterà di non essere distratto dalle comuni necessità della vita. Il poeta comico non compendia male tutto ciò:

[III,257,5] ‘è uno studioso: credo debba sposarsi

chi è solerte e capace di amministrare grandi folle’

e ribadisce

‘ma ancor più chi è trascurato e smania d’aver agio di studiare,

[III,257,10] per poter passeggiare senza paura avendo chi amministra per lui’.

SVF III [AT], 64

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VIII, p. 346c. Antipatro di Tarso, lo Stoico, nel quanto libro ‘Sulla superstizione’ afferma che da parte di alcuni si racconta che Gatis, la regina dei Siri, era una mangiona così ingorda di pesce da far proclamare che nessuno era autorizzato a mangiare pesce eccetto Gatis. E dice poi che i più, [III,257,15] per ignoranza, chiamavano lei Atargatis e si astenevano dal mangiare pesci.

SVF III [AT], 65

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 643f. Di quelle focacce di cui abbiamo ritrascritto i nomi, noi te ne faremo parte, e non come della focaccia mandata da Alcibiade a Socrate. Infatti, quando Santippe la trattò con derisione Socrate [III,257,20] le disse: “Dunque tu non ne avrai neppure una fetta!” (Questa storia è raccontata da Antipatro nel primo libro ‘Sull’ira’). Io invece, essendo un amante delle focacce non avrei permesso che quella divina focaccia fosse trattata con tale insolenza.

SVF III [AT], 66

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034a. Tuttavia Antipatro, nel suo libro sulle differenze tra Cleante e Crisippo, riferisce che [III,257,25] Zenone e Cleante non vollero diventare Ateniesi per non sembrare ingiusti verso la loro patria.

SVF III [AT], 67

Filodemo ‘Sui filosofi’ Col. VII. … attraverso le insormontabili difficoltà della politica… [III,257,30] lo mette in campo come d’accordo; e Antipatro, nel suo libro sulle Scuole filosofiche, si ricorda della ‘Repubblica’ di Zenone e dell’opinione che Diogene [III,257,35] mise in campo nella sua ‘Repubblica’, sbalordito dalla sua capacità di dominio sulle passioni… [III,258,1] alcuni sostengono però che non si tratta della ‘Repubblica’ di Diogene di Sinope … ma di qualcun altro

[III,258,5] 3a. Sosigene

Frammento n. 1

SVF III [So], 1

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 216 Bruns. Dei successori di Crisippo alcuni sono d’accordo con lui, altri invece, avendo in seguito potuto sentir parlare delle opinioni di Aristotele, fanno proprie molte delle cose dette da questo a proposito della mescolanza; e uno di costoro è [III,258,10] Sosigene, compagno di Antipatro. Non potendo tuttavia essere completamente d’accordo con Aristotele a causa della loro discrepanza su altri punti, in molti casi essi si trovano a dire cose contraddittorie.

3b. Eraclide di Tarso

Frammento n. 1

SVF III [ET], 1

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. Eraclide di Tarso, discepolo di Antipatro [III,258,15] di Tarso, e Atenodoro affermano che le aberrazioni non sono tutte pari.

[III,259,1] 4. Apollodoro di Seleucia

Frammenti n. 1-18

SVF III [AS], 1

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 39. [III,259,5] <Gli Stoici affermano che> la ragione insita nel cosmo è, secondo filosofia, tripartita. Una sua parte, infatti, è qualcosa di fisico, un’altra di etico e un’altra di logico. Così per primo la suddivise Zenone di Cizio […] e Apollodoro l’Efillo nel primo libro delle ‘Introduzioni ai principi’ […]. Apollodoro chiama queste parti ‘ambiti’.

SVF III [AS], 2

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 41. [III,259,10] Apollodoro posiziona l’Etica per seconda.

SVF III [AS], 3

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 54. Essi affermano che criterio della verità è la rappresentazione catalettica, cioè quella del realmente esistente, come dicono Crisippo […], Antipatro e [III,259,15] Apollodoro.

SVF III [AS], 4

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 150. Per loro la sostanza è corpo ed è finita, secondo quanto afferma […] e Apollodoro nella ‘Fisica’. La sostanza è anche passibile di mutamento, come lo stesso Apollodoro afferma. Se, infatti, fosse non coinvolta in mutamento alcuno, da essa non nascerebbero le cose che ne nascono. Da qui Apollodoro trae lo spunto per affermare che la divisione della sostanza è una divisione [III,259,20] all’infinito.

SVF III [AS], 5

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 140. Del vuoto parla Crisippo nella sua opera ‘Sul vuoto’ e nel primo libro di quella ‘Sulle Scienze fisiche’, […] e Apollodoro.

SVF III [AS], 6

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 135. Come afferma Apollodoro [III,259,25] nella ‘Fisica’, ‘corpo’ è ciò che ha tre dimensioni: lunghezza, larghezza e profondità. Questo si chiama anche corpo solido. La ‘superficie’ è il limite di un corpo, ossia ciò che ha lunghezza e larghezza ma non profondità. […] La linea è il limite di una superficie, ossia ciò che ha lunghezza senza larghezza o soltanto lunghezza. Il punto è il limite di una linea, ed è il segno più piccolo.

SVF III [AS], 7

Stobeo ‘Eclogae’ I, 19, 5, p. 166 W. (Ario Didimo ‘Dox. Gr.’ p. 460). [III,260,1] Nel trattato ‘La Fisica’, Apollodoro afferma che il moto è cangiamento di luogo o di atteggiamento, in tutto o in parte. Lo stato di quiete è continuità di luogo o di atteggiamento e il permanere tale. I generi [III,260,5] primari di moto sono due: il rettilineo e il circolare. Di questi moti vi sono più specie. Locali sono molti moti che avvengono nello stesso luogo, per esempio: camminare o correre senza uscir fuori dallo stesso spazio; e insieme il muoversi in linea retta od obliqua o avanti o indietro o [III,260,10] a destra o a sinistra o in cerchio o velocemente o lentamente, come capita a coloro che si trovano su una nave oppure in condizioni simili. Inoltre, come dicevamo che d’ogni corpo la parte è un corpo, d’ogni superficie una superficie, d’ogni linea una linea, d’ogni spazio uno spazio e d’ogni tempo un tempo; così, secondo la stessa analogia, bisogna dire che d’ogni moto [III,260,15] la parte è un moto e d’ogni stato di quiete uno stato di quiete.

SVF III [AS], 8

Stobeo ‘Eclogae’ I, 8, 42, p. 105 W. (Ario Didimo ‘Dox. Gr.’ p. 461). Nel trattato ‘La Fisica’, Apollodoro così definisce il tempo: “Il tempo è una dimensione del moto del cosmo. Il tempo è infinito così come si dice infinita la serie [III,260,20] dei numeri. Del tempo si hanno, infatti, il passato, l’istante presente e il futuro. In una connotazione più larga diciamo anche che la serie infinita del tempo è presente, come quando parliamo dell’annata in corso; e si dice che la serie infinita del tempo esiste sebbene nessuna delle sue parti esista davvero se considerata in modo puntuale”.

SVF III [AS], 9

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 143. L’universo, come afferma Apollodoro, [III,260,25] si chiama ‘cosmo’ e, in un altro modo, si chiama così l’insieme formato dal cosmo e dal vuoto a lui esterno. Pertanto il cosmo è finito, mentre il vuoto è infinito.

SVF III [AS], 10

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 142. Che il cosmo sia una creatura vivente, razionale, animata e cognitiva […] lo afferma Apollodoro nella ‘Fisica’. […][III,260,30] creatura vivente nel senso che è una sostanza animata capace di sensazioni.

SVF III [AS], 11

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 143. Che il cosmo è uno lo affermano Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo e Apollodoro nella ‘Fisica’.

SVF III [AS], 12

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 157. [III,260,35] Noi vediamo quando la luce che sta frammezzo all’organo visivo e all’oggetto della visione si stende in forma conica, secondo quanto affermano Crisippo […] [III,261,1] e Apollodoro. Si forma così un cono d’aria che ha il suo vertice nell’organo visivo e la sua base nell’oggetto visto. Dunque l’aria così stesa annuncia l’oggetto osservato come mediante un bastoncello.

SVF III [AS], 13

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 84. <Gli Stoici> dividono la parte Etica della filosofia [III,261,5] in diversi ambiti. […] Così la suddividono i seguaci di Crisippo […] e di Apollodoro.

SVF III [AS], 14

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 102. Né bene né male sono tutte quelle cose che né giovano né danneggiano; per esempio, vita, salute, piacere fisico, avvenenza, potenza del corpo, ricchezza di denaro, celebrità, nobiltà di stirpe; e i loro opposti: morte, malattia, dolore fisico, laidezza, debolezza, [III,261,10] povertà di denaro, discredito, umili origini e le cose a queste similari; secondo quanto affermano Ecatone […], Apollodoro ne ‘L’etica’, e Crisippo.

SVF III [AS], 15

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 125. Essi affermano che le virtù hanno implicazione reciproca e che chi ne ha una le ha tutte, giacché i loro principi generali [III,261,15] sono comuni; come dicono Crisippo […] e Apollodoro ne ‘La fisica secondo l’antica Stoa’.

SVF III [AS], 16

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 118. Il sapiente non sarà davvero preda dell’afflizione, a causa del fatto che l’afflizione è una contrizione irrazionale dell’animo, come afferma Apollodoro nella sua ‘Etica’.

SVF III [AS], 17

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. [III,261,20] L’uomo che s’industria di essere virtuoso cinizzerà, giacché il cinismo è una via spiccia verso la virtù, come afferma Apollodoro nella sua ‘Etica’.

SVF III [AS], 18

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 120. Il sapiente proverà trasporto amoroso per quei giovani i quali palesano nel loro aspetto un’attitudine da purosangue per la virtù, come affermano [III,261,25] Zenone […], Crisippo […] e Apollodoro ne ‘L’etica’.

[III,262,1] 5. Archedemo di Tarso

Frammenti n. 1-22

SVF III [ArT], 1

Strabone ‘Geographia’ XIV, p. 674. Uomini che sono nati a Tarso. Degli Stoici: Antipatro, Archedemo e Nestore…

SVF III [ArT], 2

Plutarco ‘De exilio’ p. 605b. [III,262,5] Archedemo si trasferì da Atene nella terra dei Parti e, in Babilonia, lasciò a succedergli una scuola Stoica.

SVF III [ArT], 3

[1] Epitteto ‘Diatribe’ II, 17, 40. Se no, non saremo vicino a profittarne neppure se discuteremo tutte le Introduzioni e tutti i Trattati di Crisippo dopo quelli di Antipatro e di Archedemo.

[2] II, 4, 11. [III,262,10] “Ma io sono un erudito e capisco Archedemo!” Capendo quindi Archedemo sii un adultero, un individuo sleale, invece che uomo sii un lupo o una scimmia. Giacché cosa lo impedisce?

SVF III [ArT], 4

[1] Epitteto ‘Diatribe’ III, 2, 13. …se sei uno che ha letto Crisippo od Antipatro. Se poi hai letto anche Archedemo, allora hai proprio tutto!

[2] III, 21, 7. [III,262,15] “Eppure vi commenterò i testi di Crisippo come nessuno; dissolverò l’elocuzione in formule purissime addizionando in qualche dove anche la profusione di Antipatro e di Archedemo”.

SVF III [ArT], 5

Diogene Laerzio VII, 40. Altri invece posizionano per prima la logica, per seconda la fisica e per terza l’etica. Tra questi vi è […] anche [III,262,20] Archedemo.

SVF III [ArT], 6

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 55. Secondo gli Stoici la voce è corpo, come afferma Archedemo nel libro ‘Sulla voce’ […]. Infatti, tutto ciò che fa un’azione è corpo; e la voce fa un’azione quando s’avvicina da chi parla a chi ascolta.

SVF III [ArT], 7

Demetrio ‘De elocutione’ 34, Vol. III, p. 269, 19 Spengel. [III,262,25] Aristotele definisce così il membro di un periodo: “Membro di un periodo è una qualunque parte di esso”. E poi aggiunge: “C’è anche un periodo semplice”. […] Archedemo, componendo insieme la definizione di Aristotele e l’aggiunta alla definizione, in modo più chiaro e più perfetto lo definì così: “Membro di un periodo [III,262,30] è: o un periodo semplice oppure una parte di un periodo composto”.

SVF III [ArT], 8

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, p. 332 Sylb., Vol. II, p. 930 Pott. ‘Divenire’ ed ’essere tagliato’, ciò insomma di cui sono causativi degli atti, [III,263,1] sono degli incorporei. Per la qual ragione, tali atti sono causativi dei predicati o, come dicono alcuni, degli esprimibili (Cleante e Archedemo chiamano infatti ‘esprimibili’ i predicati); oppure, ancora meglio, alcuni saranno chiamati causativi di predicati: per esempio, dello ‘è tagliato’, il quale è una flessione dello ‘essere tagliato’; altri saranno invece chiamati causativi di proposizioni, come: [III,263,5] ‘diventa una nave’ che è a sua volta una flessione di ‘diventare una nave’.

SVF III [ArT], 9

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 68. Delle proposizioni, alcune sono semplici mentre altre sono non semplici, come affermano i seguaci di Crisippo, di Archedemo […]. Semplici sono quelle che consistono di una proposizione univoca: per esempio, ‘È giorno’. Non semplici [III,263,10] sono gli enunciati che consistono di una proposizione equivoca o di più proposizioni. Di un’unica proposizione equivoca: per esempio, ‘Se è giorno’. Di più proposizioni: per esempio, ‘Se è giorno, c’è luce’.

SVF III [ArT], 10

Epitteto ‘Diatribe’ II, 19, 9. <“Ne ha scritto in modo stupefacente Crisippo nel primo libro su ‘I Possibili’> Anche Cleante ha scritto peculiarmente [III,263,15] su questo argomento, e pure Archedemo.

SVF III [ArT], 11                       

[1] Quintiliano ‘Institutio oratoria’ III, 6, 31. Alcuni ammisero due tipi di stato processuale. Archedemo parlava di stato processuale congetturale e finitivo, mentre escludeva quello qualitativo, perché stimava che quest’ultimo riguardasse questioni come: ‘Cos’è iniquo? Cos’è ingiusto? Cos’è disobbedire?’, che egli definisce una mescolanza dei due stati precedenti.

[2] III, 6, 33. Come, ad esempio, [III,263,20] Archedemo esclude lo stato processuale qualitativo.

SVF III [ArT], 12

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 134. <Gli Stoici> ritengono che i fondamenti del cosmo nella sua interezza siano due: quello che fa l’azione e quello che la sperimenta. Quello che sperimenta l’azione è la sostanza senza qualità, il materiale. Quello che fa l’azione è la ragione insita nel materiale, ossia la divinità. Poiché questa ragione sempiterna è connaturata a qualunque materiale, è essa a fabbricare tutte e singole le cose esistenti. A porre questo [III,263,25] principio sono Zenone […] e Archedemo nel suo libro ‘Sugli elementi’.

SVF III [ArT], 13

Siriano ‘In Aristot. Metaph.’ p. 105, 23 segg. Kroll. Le forme ideali non erano riportate da parte di questi uomini divini all’uso abituale dei nomi, come successivamente credettero Crisippo, [III,263,30] Archedemo e la maggior parte degli Stoici.

SVF III [ArT], 14

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1081e. Quando Archedemo dice che ‘l’ora presente’ è una giuntura e commessura del tempo trascorso e del tempo a venire, pare sfuggirgli che egli sta in questo modo abolendo il tempo intero. Se, infatti, l’ora presente non è un tempo ma il limite del tempo <passato e futuro> e se [III,263,35] ogni pezzetto del tempo è tal quale l’ora presente, il tempo nella sua interezza appare non avere parti ma risolversi al tutto in limiti, commessure e giunture.

SVF III [ArT], 15

Aezio ‘Placita’ II, 4, 17 (Dox. Gr. p. 332). [III,264,1] Archedemo dichiarava che l’egemonico del cosmo è nella terra.

SVF III [ArT], 16

[1] Simplicio ‘In Aristot. De caelo’ p. 512, 28 Heibg. È anche possibile plausibilmente strutturare l’ipotesi che al centro del cosmo vi sia il fuoco [III,264,5] e non la terra…

[2] p. 513, 7. Di questa opinione è stato Archedemo, un filosofo più recente di Aristotele.

SVF III [ArT], 17

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ CXXI, 1. Vedo che avrai da ridire quando ti avrò presentato il problemino del giorno su cui ci siamo già intrattenuti piuttosto a lungo. Esclamerai ancora una volta: “Che cosa c’entra questo con la morale?” Ma […] ti trovo io gente con cui litigare: [III,264,10] Posidonio e Archedemo; loro sì che accetteranno d’essere trascinati in giudizio!

[2] 5. Ci chiedevamo se tutti gli animali avessero il senso della propria complessione.

SVF III [ArT], 18

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 84. <Gli Stoici> dividono la parte Etica della filosofia […] e così la suddividono [III,264,15] i seguaci di Crisippo e di Archedemo …

SVF III [ArT], 19

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 88. [dopo varie definizioni del sommo bene] … per Archedemo <il sommo bene è> vivere realizzando tutte le cose doverose.

SVF III [ArT], 20

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 75, 11W. Zenone così esplicitò il sommo bene: “Vivere in modo ammissibile <con la ragione>” […] I suoi successori, dopo averla articolata più minutamente [III,264,20] enunciavano la definizione così […] e Archedemo: “Vivere realizzando tutte le cose doverose”.

SVF III [ArT], 21

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, 21, p. 179 Sylb., Vol. I, p. 497 Pott. A sua volta Archedemo spiegava così il sommo bene: “Sommo bene è il vivere selezionando per sé le cose più grandi e principalissime secondo natura, che sono anche quelle oltre le quali è impossibile andare”.

SVF III [ArT], 22

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 73. [III,264,25] Archedemo <afferma che il piacere fisico> è secondo natura come i peli sotto l’ascella, e che non ha valore.

[III,265,1] 6. Boeto di Sidone

Frammenti n. 1-11

SVF III [BS], 1

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 54. Boeto ammette più criteri <di verità>: mente, sensazione, desiderio e scienza.

SVF III [BS], 2

Aezio ‘Placita’ I, 7, 25 (Dox. Gr. p. 303, 15). Boeto dichiarò [III,265,5] che la divinità è l’etere.

SVF III [BS], 3

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 148. Nella sua opera ‘Sulla natura’, Boeto sostiene che la sostanza della divinità è la sfera delle stelle fisse.

SVF III [BS], 4

[1] Cicerone ‘De divinatione’ I, 13. Chi può a portare alla luce le cause dei presentimenti? Eppure vedo che lo Stoico Boeto ha tentato di farlo, [III,265,10] e si è spinto fino a spiegare la ragione dei fenomeni celesti e marini.

[2] II, 47. Hanno cercato di indagare le cause dei pronostici sia Boeto di Sidone, che tu hai nominato, sia anche il nostro Posidonio.

SVF III [BS], 5

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 149. [III,265,15] Crisippo […], Posidonio[…], Zenone, Boeto nel primo libro ‘Sul destino’ affermano che tutto avviene in armonia col destino […].

SVF III [BS], 6

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 143. Boeto afferma che il cosmo non è una creatura vivente.

SVF III [BS], 7

Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 15, p. 248 Bern. p. 24, 20 Cum. [III,265,20] Boeto di Sidone e Panezio, uomini solidamente formati nelle dottrine Stoiche, in quanto ispirati da Dio si lasciarono alle spalle le conflagrazioni universali e le palingenesi e disertarono armi e bagagli in favore di una dottrina più santa, ossia quella dell’essere il cosmo imperituro.

16. [III,265,25] I seguaci di Boeto hanno utilizzato le dimostrazioni più plausibili, che esporremo subito. Se il cosmo, essi affermano, fosse generato e perituro, qualcosa nascerebbe dal nulla, il che sembra essere del tutto assurdo anche agli Stoici. Perché? Perché non è possibile trovare alcuna causa agente di estinzione, né interna né esterna, la quale faccia sparire il cosmo. Fuori del cosmo non v’è nulla [III,265,30] se non forse il vuoto, dato che integralmente tutti gli elementi trovano il loro posto nel cosmo. Dentro il cosmo, poi, non v’è alcuno stato morboso che potrebbe diventare causa di dissoluzione [III,266,1] per una divinità di tale enorme grandezza. E se il cosmo perisce senza una causa è manifesto che la genesi della sua estinzione sarà originata dal nulla: cosa questa, che l’intelletto non accetterà mai. Essi affermano anche che i modi generici di estinzione sono tre: quello per divisione, quello per sparizione della qualità prevalente, quello [III,266,5] per fusione di qualità componenti. Le cose formate da entità disparate come un gregge di capre, una mandria di buoi, i cori, gli eserciti o, ancora, i corpi compattati da elementi rannodati, si sciolgono per rottura o per divisione delle parti. Per sparizione della qualità prevalente si dissolve, per esempio, la cera quando sia modellata in una figura diversa; oppure quando sia così ammorbidita da non prestarsi più ad accogliere l’impronta di una forma diversa. Per fusione di qualità componenti, come nel caso del tetrafarmaco preparato dei medici; [III,266,10] ossia quando le proprietà dei componenti che sono messi insieme spariscono, a favore della genesi di un unico particolare prodotto risultante. In quale di questi modi merita dire che il cosmo perisce? Nel modo per divisione? Ma il cosmo non è formato da entità disparate, così che le sue parti possano essere disperse; né da elementi rannodati, così che i loro legami possano essere dissolti; né è unitario allo stesso modo in cui lo sono i nostri corpi. Infatti questi ultimi sono [III,266,15] intrinsecamente caduchi ed in potere di miriadi d’agenti che li danneggiano, mentre invece il cosmo è invitto poiché tiene assoggettata a sé ogni cosa con un grande sovrappiù di potenza. Per sparizione definitiva della qualità? Ma questo è inconcepibile, giacché pure secondo coloro che scelgono la tesi opposta, la qualità di essere il ‘buon ordine del cosmo’, sebbene bloccata in una sostanza in quantità minore, che è quella di Zeus, permane anche nel corso della conflagrazione universale. [III,266,20] Per fusione di qualità componenti? Suvvia! Giacché allora bisognerà di nuovo accettare che l’estinzione del cosmo sia estinzione nel nulla. In grazia della genesi di quale particolare prodotto risultante? Se ciascun elemento sparisse parzialmente, una parte di esso potrebbe trasformarsi in qualcos’altro; ma poiché gli elementi sono fatti sparire tutti quanti e tutt’insieme nella fusione delle qualità componenti, sarebbe necessario sottintendere che avviene l’impossibile. [III,266,25] Oltre a ciò, essi affermano, se ci fosse la conflagrazione universale che cosa effettuerebbe la divinità in quel lasso di tempo? Non effettuerebbe proprio nulla? Ma ciò è inverosimile. Adesso, infatti, la divinità riguarda ciascuna cosa e tutto essa tiene sotto la sua tutela come fa chi è genuinamente padre; e, se bisogna dire la verità, al modo di un auriga e di un pilota tiene le redini e il timone del tutto, prestando assistenza al sole, alla luna, [III,266,30] agli altri corpi celesti erranti e non-erranti e inoltre all’aria ed alle ulteriori parti del cosmo, mentre nel contempo compie quanto serve alla sua sopravvivenza ed al suo intemerato governo secondo la retta ragione. Ma una volta che tutto sia sparito, Dio avrà una vita che non è più vita, per la sua straordinaria inerzia ed inazione. Cosa potrebbe essere più assurdo di questo? Sono titubante a dire ciò che non è lecito dire: [III,266,35] che ne seguirà per Dio la morte, data la sua immobilità. Infatti, se tu fai sparire il suo essere sempre in movimento, avrai fatto del tutto sparire anche l’anima. Ora, per coloro che hanno opinioni contrarie alle nostre, [III,267,1] l’animo del cosmo è la divinità.

SVF III [BS], 8

Aezio ‘Placita’ II, 31, 5 (Dox. Gr. p. 363, 12). Boeto è dell’idea che l’immagine che abbiamo dell’aperto cielo sia una nostra rappresentazione e non la sua [III,267,5] realtà sostanziale.

SVF III [BS], 9

Aezio ‘Placita’ III, 2, 7 (Dox. Gr. p. 367, 5). Boeto è dell’idea che le comete siano una nostra rappresentazione di una massa d’aria infuocata.

SVF III [BS], 10

Macrobio ‘In somnium Scipionis’ I, 14, 19. Platone disse che l’animo è sostanza che muove se stessa […] il Peripatetico Critolao che consta di quintessenza [III,267,10] […] Boeto di aria e fuoco.

SVF III [BS], 11

Simplicio ‘In Aristot. De anima’ p. 247, 24 Hayd. Affinché noi non crediamo, come crede invece Boeto, che l’animo in quanto principio animatore sia di per sé immortale, e che sia però incapace di reggere l’appressamento della morte; sicché quando la morte s’appressa al vivente, l’animo se ne ritrae e perisce.

[III,268,1] 7. APPENDICE

Stoici di età incerta

7a. Basilide

Frammento n. 1

SVF III [Ba], 1

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 258. [III,268,5] Noi vediamo dunque come vi siano alcuni che hanno fatto sparire l’esistenza degli esprimibili. E non si tratta soltanto di filosofi eterodossi, per esempio, gli Epicurei, ma anche di Stoici come i seguaci di Basilide, i quali reputarono che non esista alcun incorporeo.

[III,268,10] 7b. Eudromo

Frammenti n. 1-2

SVF III [Eu], 1

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 39. <Gli Stoici affermano che> la ragione insita nel cosmo è, secondo filosofia, tripartita. Una sua parte, infatti, è qualcosa di fisico, un’altra di etico e un’altra di logico. Così per primo la suddivise Zenone di Cizio […] ed Eudromo nell’opera ‘Principi elementari di Etica’ […].[III,268,15] Apollodoro chiama queste parti ‘ambiti’, Crisippo ed Eudromo le chiamano ‘specie’.

SVF III [Eu], 2

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 40. Altri invece posizionano per prima la logica, per seconda la fisica e per terza l’etica. Tra questi vi è […] anche Eudromo.

7c. Crini

Frammenti n. 1-5

SVF III [Cr], 1

Epitteto ‘Diatribe’ III, 2, 15. [III,268,20] Ora parti e leggi Archedemo: e se poi un topolino cadrà giù e farà rumore, tu muori. Giacché ti rimane una morte siffatta a quella di… -chi era mai quello?- di Crini. Anche lui faceva gran pregio di capire Archedemo.

SVF III [Cr], 2

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 62. ‘Partizione’ è l’assegnamento di un genere in ambiti diversi, [III,268,25] come dice Crini: per esempio, ‘Dei beni alcuni sono beni dell’animo, altri sono beni del corpo’.

SVF III [Cr], 3

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 68. Delle proposizioni di un ragionamento, alcune sono semplici mentre altre sono non semplici, come affermano i seguaci di Crisippo […] e Crini.

SVF III [Cr], 4

[1] Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 71. [III,269,1] In un enunciato che consta di una proposizione iniziale e di una finale, la proposizione causale-temporale, come afferma Crini nella sua ‘Arte dialettica’, è quella introdotta dalla congiunzione ‘poiché’: per esempio, ‘Poiché è giorno, c’è luce’. La congiunzione [III,269,5] preannuncia che alla prima proposizione segue la seconda e che la prima regge la seconda.

[2] VII, 74. Enunciato causale-temporale vero è quello che comincia con una proposizione vera e conclude in modo conseguente: per esempio, ‘Poiché è giorno, c’è il sole sulla terra’. Enunciato causale-temporale falso è invece quello che comincia con una proposizione falsa oppure che conclude in modo inconseguente: [III,269,10] per esempio, ‘Poiché è notte, Dione passeggia’ qualora ciò sia detto mentre è pieno giorno.

SVF III [Cr], 5

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 76. Il ‘ragionamento’, come affermano i seguaci di Crini, consiste di un assunto o premessa maggiore, di un assunto aggiuntivo o premessa minore e di una conclusione logica: per esempio, questo, ‘Se è giorno, c’è luce; [III,269,15] ma è giorno; dunque c’è luce’. L’assunto o premessa maggiore è: ‘Se è giorno, c’è luce’. L’assunto aggiuntivo o premessa minore è: ‘Ma è giorno’. La conclusione logica è: ‘Dunque c’è luce’. La ‘figura tropica’ è quella che si direbbe un ragionamento schematico: per esempio, questo, ‘Se si dà il primo, si dà il secondo; ma si dà il primo, dunque si dà il secondo’. Il ‘ragionamento tropico’ è la sintesi di ragionamento e di figura tropica: per esempio, ‘Se [III,269,20] Platone vive, Platone respira; ma si dà il primo, dunque si dà il secondo’. Il ragionamento tropico fu introdotto nelle trattazioni di ragionamenti molto lunghi per non dover più enunciare la premessa minore e la conclusione in tutta la loro lunghezza, ma per poter inferire concisamente: ‘Si dà il primo, dunque si dà il secondo’.