De Stoicorum repugnantiis
Περὶ Στωικῶν ἐναντιωμάτων
GLI STOICI FANNO AFFERMAZIONI CONTRASTANTI LE UNE CON LE ALTRE E NON RISPETTANO NELLA PRATICA LA LORO STESSA TEORIA
“Il mio l’obiettivo non è quello di indagare se gli Stoici dicano cose sbagliate, bensì quello di evidenziare il cumulo di affermazioni contradittorie che fanno”.
Plutarco 1049B
§ 1. Nella vita delle persone, in primo luogo io chiedo che sia osservata l’intima coerenza con i propri principi teorici; giacché se il retore e la legge, come dice Eschine, devono parlare lo stesso linguaggio, [1033B] è ancor più necessario che la vita del filosofo sia in piena armonia con la sua dottrina. La dottrina del filosofo è infatti una legge che egli stesso ha personalmente scelto; o almeno così è se davvero gli Stoici ritengono la filosofia non uno specioso giochetto di parole fatto per ottenerne fama bensì, com’è vero, un’opera meritevole della massima industriosità.
§ 2. Capita pertanto che molto sia stato scritto proprio da Zenone, pur nella sua concisione; molto da Cleante e ancor più da Crisippo, sulla costituzione politica, sull’essere comandati e sul comandare, sulla amministrazione della giustizia, sul parlare in pubblico. Ma nella vita di nessuno di costoro è dato trovare un incarico di comando militare, una proposta di legge, un passaggio nell’Assemblea deliberativa, la difesa di una causa davanti ai giudici, [1033C] una campagna militare in difesa della patria, un’ambasceria, un donativo. Invece, in terra straniera, gustando gli agi dello studio come fosse del loto, essi trascorsero tutta la vita, non breve ma lunghissima, tra i discorsi, i libri e le passeggiate. Ed è indubbio che essi vissero in un modo che è ammissibile con le dottrine professate e scritte da altri più che da loro; campando in quella completa quiete che è lodata da Epicuro e da Ieronimo di Rodi. Nel quarto dei libri ‘Sulle vite’ Crisippo stesso crede che la vita da studioso non differisca per nulla dalla vita di piacere. Citerò le sue parole: “A me sembra che sbaglino fin da principio quanti concepiscono [1033D] che ai filosofi spetti soprattutto la vita da studioso, sottintendendo che bisogna fare ciò per passarsela in un certo modo o per un qualche altro scopo similare, e tirare avanti così la vita intera. Ma fare ciò, a vederlo chiaramente, significa passarsela ‘piacevolmente’, giacché non deve sfuggirci ciò che costoro sottintendono, anche se alcuni lo dicono chiaramente e non pochi altri in modo più dubbio”. Chi più di Crisippo, di Cleante, di Diogene, di Zenone e di Antipatro giunse alla tarda vecchiaia facendo questo tipo di vita dedicata allo studio? Proprio loro, che si lasciarono dietro [1033E] le loro patrie senza incolparle di nulla ma per passarsela in tranquillità ad oziare e ad erudirsi nell’Odeon o allo Zostere! Aristocreonte, appunto il discepolo e familiare di Crisippo, fece innalzare su una stele un’immagine in bronzo di lui e vi fece scrivere questo distico:
‘Aristocreonte dedicò quest’immagine dello zio Crisippo,
recisore dei lacci degli Accademici’.
Questo è Crisippo, il vecchio, il filosofo, quello che loda la vita del re e la vita del politico, e crede che la vita dello studioso non differisca per nulla dalla vita di piacere.
§ 3. Quanti poi di loro si avvicinano alla politica ancor di più contraddicono i loro stessi principi, giacché amministrano, [1033F] giudicano, consigliano, legislano, decretano pene ed onori in qualità di consiglieri degli Stati al governo dei quali partecipano, in qualità di giudici, di strateghi estratti a sorte e in ogni caso in nome delle leggi istituite da Clistene, da Licurgo e da Solone, che essi però affermano essere stati persone vili e prive di senno. Sicché anche quando si interessano di affari pubblici gli Stoici si contraddicono.
§ 4. Invero Antipatro, [1034A] nel suo libro sulle differenze tra Cleante e Crisippo, riferisce che Zenone e Cleante non vollero diventare Ateniesi per non sembrare ingiusti verso la loro patria. Il fatto è che se costoro si sono comportati bene, allora non fece bene Crisippo a registrarsi come cittadino di Atene. Ma lasciamo stare ciò. Però è sommamente contraddittorio ed ha dell’illogico che essi, dopo essere espatriati corpo ed anima così lontano dalle loro terre natie, ne abbiamo però conservati i nomi. È come se qualcuno, dopo avere abbandonato la moglie e mentre convive con un’altra, mentre ci va a letto ed ha da quest’altra dei figli, non contraesse matrimonio per non sembrare ingiusto con la prima.
§ 5. Nel libro ‘Sulla retorica’ Crisippo, [1034B] di nuovo lui, quando scrive che il sapiente parlerà in pubblico e parteciperà alla vita politica, parla come se anche la ricchezza di denaro fosse un bene e tali fossero pure la fama e la salute; ammettendo dunque che i suoi discorsi sono senza sbocco e senza costrutto politico e che i suoi giudizi non sono acconci né ai bisogni né alle azioni.
§ 6. Per di più, è dottrina di Zenone quella di non edificare sacrari agli dei, giacché un sacrario di poco valore neppure è santo, e nessuna opera di muratori e di artigiani è di gran valore. Gli Stoici però, mentre lodano queste dottrine come buone, si fanno poi iniziare ai misteri nei sacrari, salgono all’Acropoli, riveriscono le statue, incoronano i templi: [1034C] che sono tutte opere di muratori e di artigiani. Eppure ritengono che gli Epicurei si contestino da soli quando offrono sacrifici agli dei; mentre sono loro a contestarsi ancora di più quando offrono sacrifici agli dei su altari e sacrari che essi richiedono che non esistano e che non siano edificati.
§ 7. Zenone, come Platone, ci lascia in eredità una pluralità di virtù distinte come la saggezza, la virilità, la temperanza, la giustizia; e ce le lascia come inseparabili ma diverse e differenti una dall’altra. Quando definisce ciascuna di esse, afferma che la virilità è saggezza [nelle cose cui si deve resistere, la temperanza è saggezza nelle cose che si devono scegliere, la saggezza in senso proprio è saggezza] nelle attività da svolgere, la giustizia è saggezza nelle cose da distribuire. E’ come se una fosse la virtù seppure, nelle sue relazioni con le faccende, sembri differire a seconda delle attività. [1034D] Non soltanto Zenone appare contraddirsi su questo argomento, ma è così anche per Crisippo in quanto egli incolpa Aristone d’avere affermato che tutte le virtù sono forme di relazione di una sola virtù, e difende la causa di Zenone, il quale aveva però definito ciascuna delle virtù proprio in questo modo. Cleante, negli ‘Appunti di Fisica’ afferma che “il tono è una botta di fuoco; ed esso, quando diventi nell’animo tale da essere sufficiente a realizzare i progetti, si chiama potenza e potere”. Poi aggiunge testualmente: “Questa potenza e questo potere, se si ingenera in circostanze nelle quali manifestamente ci si deve mantenere saldi, è padronanza di sé; se in circostanze nelle quali bisogna resistere, è virilità; [1034E] nei casi che coinvolgono meriti, è giustizia; nel caso di scelte e di avversioni è temperanza”.
§ 8. A chi diceva:
‘non emettere un verdetto prima di avere ascoltato il racconto di entrambi’,
Zenone faceva obiezione usando un ragionamento di questo genere. Se il primo imputato che parla ha provato il suo punto, non c’è bisogno di ascoltare la deposizione del secondo, giacché la ricerca ha termine qui. Oppure non ha provato il suo punto. Ma allora questo è lo stesso che il non aver dato retta alla convocazione, oppure all’avervi dato retta ma poi essersi messi a cinguettare. Dunque o il primo ha provato il suo punto oppure non l’ha provato, e pertanto non c’è bisogno di ascoltare la deposizione del secondo. Dopo avere prospettato questo ragionamento, Zenone continuava però a scrivere contro ‘La repubblica’ di Platone, a sciogliere i sofismi e ad intimare ai discepoli di assumere la dialettica come un’arte capace di fare ciò. [1034F] Eppure, o Platone aveva dimostrato le sue tesi oppure non le aveva dimostrate; e dunque non c’era alcuna necessità di scrivere contro di lui né in un caso né nell’altro, essendo ciò del tutto superfluo e sciocco. E la stessa cosa può essere detta anche a proposito dei sofismi.
§ 9. Crisippo [1035A] crede che i giovani debbano ascoltare per prime le lezioni di logica, per seconde quelle di etica, dopo di queste quelle di fisica e, al pari di queste discipline, familiarizzarsi per ultimo con il discorso sugli dei. Poiché queste cose egli le ha dette spesso, basterà citare le sue testuali parole nel quarto libro dell’opera ‘Sulle vite’: “In primo luogo io reputo, in armonia con le rette affermazioni degli antichi, che le principali dottrine generali del filosofo siano di tre generi: la dottrina logica, quella etica e quella fisica. In secondo luogo reputo che la logica debba essere posta in prima posizione, l’etica in seconda e la fisica in terza; e che ultimo tra i discorsi di fisica debba essere quello sugli dei. [1035B] È per questo che gli antichi chiamavano pubblicamente la trasmissione di questo discorso ‘iniziazione’ ”. Ma questo discorso sugli dei, che Crisippo afferma dover essere posizionato per ultimo, egli invece lo posiziona abitualmente per primo e lo antepone ad ogni ricerca etica. Nel suo libro sui sommi beni, in quelli sulla giustizia, sui beni e sui mali, sul matrimonio e l’allevamento dei figli, sulla legge e sulla costituzione politica, egli non pronuncia una parola sola se non non ha prima scritto di Zeus, del Destino, della Prònoia, e che il cosmo è tenuto insieme da una forza sola essendo uno e finito; proprio come fanno i responsabili della promulgazione dei decreti cittadini, i quali li fanno precedere dalla scritta: ‘Con Buona Fortuna’. [1035C] E nessuno di questi testi riesce convincente se non per chi abbia una profonda padronanza delle dottrine fisiche. Ascolta cosa afferma Crisippo nel terzo libro ‘Sugli dei’: “Non è dato trovare altro principio né altra genesi della giustizia se non quella che viene da Zeus e dalla natura delle cose; giacché è qui che tutto ciò deve avere il suo fondamento, se intendiamo dire qualcosa sul bene e sul male”. Di nuovo, nelle sue ‘Questioni di Fisica’ Crisippo dice: “Non vi è altro né più appropriato modo per affrontare il discorso sui beni e sui mali, sulle virtù e sulla felicità, che quello di prendere le mosse dalla natura delle cose e dal governo del cosmo”. E poi prosegue: [1035D] “Giacché a questi bisogna collegare il discorso sui beni e sui mali, non essendovi per essi altro fondamento né riferimento migliore, e non essendo la teoria fisica da assumersi a motivo d’altro che per la distinzione dei beni e dei mali”. Secondo Crisippo la dottrina fisica viene dunque ad un tempo ‘prima e dopo’ il discorso sull’etica. Ma questa sorta di sua disposizione circolare non lascia aperta alcuna via d’uscita, se bisogna disporre ‘dopo’ le nozioni senza le quali è impossibile capire qualcosa; ed è più che evidente la contraddizione di chi comanda che la teoria fisica sia posta quale fondamento del discorso sui beni e sui mali, e che però essa sia insegnata non prima ma dopo. [1035E] Se qualcuno dirà che Crisippo ha scritto nel suo libro ‘Sull’uso del ragionamento’ che: “Chi ha intrapreso per primo lo studio della logica non deve assolutamente astenersi dallo studio della fisica e dell’etica, ma deve intraprendere lo studio anche di queste secondo le circostanze date”, dirà una verità e però rinforzerà l’accusa. Infatti Crisippo si contraddice quando comanda di apprendere la dottrina sugli dei quale ultima e finale -ed è per questo che essa si chiama anche ‘iniziazione’- e però dice pure che essa deve essere appresa tra le prime; giacché l’ordinata disposizione dei soggetti sparisce, se bisognerà comprendere di tutto in tutti. Ma ancora più grave è il fatto che Crisippo, [1035F] dopo avere fatto della dottrina sugli dei il fondamento di quella sui beni e sui mali, non comanda a chi comincia questi studi di apprendere l’etica a partire dalla teologia, bensì che essi, apprendendo l’etica comprendano la teologia secondo il possibile, e in seguito di passare alla teologia dall’etica, senza la quale teologia egli però afferma che non si dà alcun fondamento né alcun adito all’etica.
§ 10. Crisippo dice di non rifiutare in generale di argomentare, come avviene nei tribunali, sia contro una tesi che contro la tesi opposta; ma esorta a servirsi di questa pratica con cautela, ossia senza fare l’avvocato delle tesi opposte [1036A] ma dissolvendone la plausibilità. “Fare questo, egli afferma, cioè argomentare sia contro una tesi che contro la tesi opposta, spetta a coloro che praticano la sospensione del giudizio su tutto, e ciò coopera allo scopo che essi si prefiggono. Al contrario, a coloro che inculcano la scienza in armonia con la quale noi vivremo in modo ammissibile con la natura delle cose, spetta dare ai principianti gli elementi e istruirli dettagliatamente dal principio alla fine sugli argomenti trattando i quali ci sarà anche l’opportunità, come avviene nei tribunali, di ricordare i discorsi contrari e di dissolverne la plausibilità”. Queste cose egli le ha dette testualmente. Che poi sia assurdo che dei filosofi credano si debba argomentare l’antitesi senza però farne la difesa, ma al modo di arringatori che cercano di fare danno e gareggiano non per la verità [1036B] ma per la vittoria: ebbene questo è stato già detto da me contro Crisippo in altri scritti. Che non in pochi ma in molti luoghi Crisippo abbia strutturato dei ragionamenti opposti a quelli che valuta corretti e che l’abbia fatto vigorosamente, con tanta industriosità ed ambizione d’onore che non è da tutti il decifrare a quali egli desse il suo beneplacito, gli Stoici lo dicono esplicitamente, ammirando la valentia di quell’uomo. Essi credono anche che Carneade nulla dica di suo proprio, ma che attacchi i ragionamenti di Crisippo prendendo spunto dalle argomentazioni che Crisippo stesso aveva approntato a sostegno dell’opinione contraria; e che l’inciso che Carneade spesso pronuncia ‘O mio signore, la tua vitalità ti perderà’, significa che Crisippo dà grandi risorse contro se stesso a coloro che vogliono rovesciarne [1036C] i principi dottrinali e calunniarli. A proposito dei libri pubblicati da Crisippo ‘Contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni’, gli Stoici alzano la cresta e si esprimono in termini talmente magniloquenti da sostenere che i ragionamenti di tutti quanti gli Accademici messi assieme sul medesimo argomento non sono degni di essere paragonati a quelli che Crisippo scrisse per screditare le sensazioni. Ciò è segno dell’inesperienza e dell’amor proprio di coloro che lo affermano; mentre è vero invece che quando egli decise di parlare a sostegno della comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni risultò inferiore a se stesso, e che questo trattato non fu all’altezza del trattato precedente. Sicché Crisippo è in contraddizione con se stesso [1036D] quando comanda di prospettare sempre la tesi opposta senza farne gli avvocati ma dimostrandone la falsità -in effetti egli è più abile come accusatore che come difensore delle sue stesse dottrine- e quando ammonisce gli altri a stare in guardia contro i ragionamenti contrari, in quanto distraenti dall’apprensione certa; e poi proprio lui ambisce di più l’onore di comporre quelli che la fanno sparire, invece delle argomentazioni che quell’apprensione rinsaldano. Eppure, che questo sia ciò di cui ha paura, egli lo indica chiaramente nel quarto libro ‘Sulle vite’, dove scrive queste parole: “Non bisogna accogliere i ragionamenti contrari o dare gli opposti per plausibili così come capita, ma con grande cautela; affinché non accada che quanti [1036E] s’imbattono in essi ne siano distratti e buttino via le apprensioni certe che possiedono; oppure che, essendo incapaci di cogliere a sufficienza la forza delle soluzioni che li confutano, apprendano in un modo che è facile da spazzar via. D’altra parte, anche coloro la cui apprensione degli oggetti sensibili e degli altri dati provenienti dalle sensazioni ricalca la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni, abbandonano facilmente tali cognizioni quando sono attratti dalle argomentazioni filosofiche dei Megarici o da altre argomentazioni ancora più numerose e più potenti”. Io cercherei con piacere di sapere dagli Stoici se essi ritengono le argomentazioni dei Megarici più potenti di quelle scritte da Crisippo nei sei libri ‘Contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni’. O questo bisogna cercare di saperlo da Crisippo in persona? [1036F] Considera, infatti, ciò che proprio lui ha scritto sulle argomentazioni Megariche nel suo libro ‘Sull’uso del ragionamento’: “Qualcosa di simile è avvenuto anche ai ragionamenti di Stilpone e di Menedemo. Essendo essi infatti divenuti celeberrimi per sapienza, al giorno d’oggi quei ragionamenti si sono capovolti a loro onta, essendo alcuni di essi più che grossolani, altri patentemente sofistici”. [1037A] Ora, mio caro Crisippo, tu temi ugualmente che questi ragionamenti -che adesso tu deridi e che chiami onte per coloro che li hanno proposti, in quanto manifestamente viziati- siano però capaci di distrarre alcune persone dall’apprensione certa di qualcosa; mentre proprio tu, che hai scritto una tale quantità di libri ‘Contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni’ nei quali proponevi qualunque cosa ti fosse venuta in mente, poiché ti facevi un punto d’onore d’essere superiore ad Arcesilao, non hai mai supposto che abbiano gettato nello sconcerto qualcuno di coloro che si sono imbattuti in essi? Crisippo, infatti, non utilizza contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni dei meri epicheremi ma, come fosse in un processo, trasportato dalla passione afferma sovente che essa dice stupidaggini e s’affatica a vuoto. E così, per non lasciarci neppure il minimo dubbio sul fatto che egli si stia contraddicendo, [1037B] nelle ‘Questioni di Fisica’ Crisippo ha scritto questo: “Anche quando hanno l’apprensione certa di una tesi, si darà il caso che gli Accademici mettano mano a sostenere la tesi opposta, facendone la difesa per quanto possibile. Qualche volta, invece, si darà il caso che essi parlino delle possibilità di entrambe le tesi pur senza avere l’apprensione certa di nessuna delle due”. Nel suo libro ‘Sull’uso della ragione’, dopo avere detto che non bisogna utilizzare la forza della ragione, come neppure quella delle armi, là dove non spetta farlo, Crisippo ha soggiunto questo: “Giacché la forza della ragione va utilizzata per il rinvenimento delle verità e di ciò ch’è loro congenere, non dei loro contrari; benché molti facciano proprio questo”. E quando parla di ‘molti’ forse si riferisce a coloro che professano la sospensione del giudizio. [1037C] Ma quelli, non avendo l’apprensione certa né di una tesi né dell’altra, mettono mano ad entrambe perché, se l’apprensione certa di qualcosa è possibile, pensano che soltanto o principalmente in questo modo la verità possa procurarci un’apprensione certa di se stessa. Proprio tu invece, che sei il loro accusatore, scrivendo circa la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni tesi opposte a quelle di cui hai l’apprensione certa e così inducendo anche altri a farne gli avvocati, ammetti di usare la facoltà di ragionare in modi non proficui ma dannosi, spintovi propriamente dalla ambizione di fare un figurone.
§ 11. Gli Stoici affermano che l’azione retta è quella che la legge ingiunge, mentre l’aberrazione è quella che la legge vieta, e che perciò la legge vieta molte cose agli insipienti [1037D] ma non ingiunge loro nulla, giacché essi non sono capaci di compiere azioni rette. E chi non sa che chi è incapace di compiere azioni rette è impossibile che non aberri? Essi fanno dunque della legge qualcosa di autocontraddittorio, poiché essa ingiunge le azioni che gli insipienti non possono fare e proibisce quelle dalle quali essi non possono astenersi. Infatti, l’uomo incapace di essere temperante non può non essere impudente, e quello che non può essere assennato, non può non essere dissennato. Gli Stoici stessi invero dicono che quanti proibiscono qualcosa stanno dicendo una cosa, ne stanno proibendo un’altra e ne stanno ingiungendo un’altra ancora. Infatti, chi sta dicendo ‘Non rubare’, dice di non rubare; [1037E] ma sta anche proibendo di rubare e ingiungendo di non rubare. Pertanto la legge nulla proibirà agli insipienti senza anche ingiungere loro qualcosa. Essi dicono che anche il medico ingiunge al discepolo che taglierà e cauterizzerà, omettendo di specificare ‘quando e quanto sia opportuno’. Anche il musicista ingiunge al discepolo di suonare la lira e di cantare, omettendo di specificare ‘nel rispetto della melodia e dell’armonia’. E pertanto essi redarguiscono coloro che fanno queste cose male e non a regola d’arte, giacché fu loro ingiunto di farlo rettamente ed essi invece non lo hanno fatto rettamente. Ebbene, quando il sapiente ingiunge ad un inserviente di dire o di effettuare qualcosa e lo redarguisce qualora egli lo effettui intempestivamente o in modo indebito, manifestamente gli ingiunge di fare non un’azione retta ma un’azione intermedia. E se i sapienti [1037F] ingiungono agli insipienti di fare azioni intermedie, cosa impedisce che anche le ingiunzioni della legge siano dello stesso genere? L’impulso, secondo Crisippo, è la ragione dell’uomo in quanto imperativa del fare, come ha scritto in ‘Sulla legge’. Pertanto, anche la repulsione è ragione in quanto proibitiva, e anche l’avversione lo è. La cautela, poi, è avversione ragionevole. [1038A] Quindi la cautela è ragione in quanto proibitiva di qualcosa al sapiente, giacché l’essere cauti è proprio dei sapienti e non degli insipienti. Se, dunque, la ragione del sapiente è una cosa e la legge è un’altra, i sapienti hanno cautela quando la ragione sia in conflitto con la legge. Se, invece, la legge è non altro che la ragione del sapiente, allora si trova che la legge stessa proibisce ai sapienti di fare ciò che essi sono cauti a fare.
§ 12. Crisippo afferma che nulla è proficuo per gli insipienti e che l’insipiente non ha bisogno di nulla e non manca di nulla. Una volta detto questo, nel primo libro ‘Sulle azioni rette’, dice poi che la proficuità e la gratitudine pertengono agli atti intermedi, nessuno dei quali è, secondo loro, proficuo; [1038B] ed afferma che davvero nulla è appropriato ed acconcio all’insipiente con queste parole: “Secondo lo stesso criterio, nulla è allotrio al virtuoso e nulla è familiare all’insipiente; dacché il bene appartiene al primo e il male al secondo”. Dunque, come mai Crisippo continua ad intronarci scrivendo in ogni libro di Fisica, per Zeus, e di Etica che: “Noi ci appropriamo di noi stessi appena nati, delle parti del nostro corpo e della nostra progenie”? Nel primo libro ‘Sulla giustizia’, Crisippo poi afferma che anche le belve sono state imparentate in modo appropriato e ben regolato ai bisogni della loro progenie; eccetto che nel caso dei pesci, giacché i loro avannotti si nutrono da se stessi. Ma non si dà sensazione per gli esseri per i quali nulla è sensibile, [1038C] né si dà appropriazione per gli esseri per i quali nulla è appropriato. L’appropriazione, infatti, sembra essere la sensazione di ciò ch’è appropriato e la sua presa d’atto.
§ 13. Questa dottrina è una conseguenza dei loro principi fondamentali, e anche se ha scritto molte cose contrarie, Crisippo manifestamente aderisce alla tesi che non vi sia un vizio od una aberrazione che sia più eminente di un altro vizio o di un’altra aberrazione, e neppure una virtù od un’azione retta che sia più eminente di un’altra virtù o di un’altra azione retta. Egli lo afferma nel terzo libro ‘Sulla natura’: “Come a Zeus conviene fare il solenne con sé e con la propria vita pregiandoli grandemente e, per dir così, anche essere orgoglioso, essere fiero e vantarsi di vivere una vita degna di vanto; così questo conviene a tutti gli uomini buoni, [1038D] giacché essi non sono sopravanzati in nulla da Zeus”. Ma di nuovo proprio Crisippo, nel terzo libro ‘Sulla giustizia’ afferma che quanti propongono come ‘sommo bene’ il piacere fisico, aboliscono la giustizia; mentre quanti affermano che è solo un ‘bene’ non la aboliscono. Queste sono le sue testuali parole: “Forse, una volta lasciato il piacere della carne nel novero di ciò ch’è ‘bene’ ma non è il ‘sommo bene’, poiché anche il bello è una delle cose che possono essere scelte per se stesse, potremmo salvaguardare la giustizia, lasciando il bello e il giusto nel novero di ciò ch’è ‘bene maggiore’ del piacere della carne”. Tuttavia, se solo il bello è buono, chi dichiara che il piacere fisico è un bene, aberra; ma aberra meno di chi fa del piacere fisico anche un ‘sommo bene’. Infatti quest’ultimo abolisce la giustizia, mentre il primo la salvaguarda ancora; [1038E] quest’ultimo fa dileguare e sparire la società, mentre il primo lascia ancora uno spazio alla bontà e alla filantropia. Inoltre tralascio il fatto che, nella compilazione ‘Su Zeus’, Crisippo afferma: “Le virtù sono suscettibili di accrescimento e di avanzare a grandi passi”. Lo faccio per non sembrare uno che s’abbranca ai nomi, seppure Crisippo morda amaramente, in questo genere di cose, Platone e gli altri, giacché quando intima di non lodare qualunque azione effettuata secondo virtù, egli palesa esservi una certa differenza tra le azioni rette. Nella compilazione ‘Su Zeus’ egli dice così: [1038F] “Quantunque le opere secondo virtù siano appropriate, portate ad esempio ci sono anche opere di questo genere. Per esempio: protendere virilmente il dito; astenersi con padronanza di sé da una vecchiarda con un piede già nella fossa; stare a sentire fino alla fine e senza precipitoso assenso che il tre non è il quattro. Chi pone mano a lodare ed encomiare della gente attraverso esempi del genere, non si palesa un freddurista?” [1039A] Crisippo ha detto cose simili a queste nel terzo libro ‘Sugli dei’. Infatti egli afferma: “Inoltre io credo che le lodi per cose del genere di ‘astenersi da una vecchiarda che ha un piede già nella fossa’ e di ‘reggere con fortezza la puntura di una mosca’, ci estranieranno da quelle per azioni che derivano dalla virtù”. Quale altro accusatore delle sue stesse dottrine sta ancora aspettando Crisippo? Giacché se chi loda queste azioni è un freddurista, ancor più lo è chi ipotizza ciascuna di esse come un’azione retta non solo grande ma grandissima. Infatti, se sopportare virilmente il morso di una mosca e dar prova di temperanza astenendosi da una vecchiarda sono azioni pari a quelle di sopportare virilmente tagli e bruciature e dar prova di tolleranza astenendosi da una Laide o da una Frine, io credo che non faccia differenza che il virtuoso sia lodato per queste azioni o per quelle. Inoltre, [1039B] nel secondo libro ‘Sull’amicizia’, insegnando che non bisogna dissolvere le amicizie in seguito ad un’aberrazione qualunque dell’amico, Crisippo usa queste parole: “Conviene che alcune aberrazioni siano messe del tutto da parte; che alcune incontrino da parte nostra una piccola pensosità; che alcune ne incontrino una maggiore e che alcune aberrazioni siano da noi valutate come cause del tutto degne di dissoluzione dell’amicizia”. E, quel che è più importante, egli afferma nello stesso libro: “Inoltre noi conferiremo di più con alcuni e di meno con altri, sicché saremo maggiormente amici di alcuni e meno di altri. Se questo divario dura a lungo, alcuni diventeranno degni di un certo grado di amicizia, altri di un altro grado; e alcuni saranno da noi valutati degni di un certo grado di fiducia e cose simili, altri di un altro grado”. [1039C] Con queste affermazioni, cos’altro ha fatto Crisippo se non stabilire che anche in queste faccende vi sono delle grandi differenze? E nel libro ‘Sul bello’, per dimostrare che soltanto il bello è buono, Crisippo ha usato questi argomenti: “Il buono è scelto, ciò ch’è scelto è gradito, ciò ch’è gradito è lodevole, ciò ch’è lodevole è bello”. E di nuovo: “Il buono è rallegrante, ciò ch’è rallegrante è solenne, ciò ch’è solenne è bello”. Questi ragionamenti sono in contraddizione con quello citato prima. Infatti, se tutto ciò ch’è buono è lodevole, anche dar prova di temperanza astenendosi da una vecchiarda sarebbe cosa lodevole; oppure questo non è lodevole, nel qual caso non sarebbe vero che tutto ciò ch’è buono è solenne e dilettevole, e pertanto il ragionamento va a gambe all’aria. Com’è infatti possibile che sia una freddura [1039D] il lodare altri per azioni siffatte e non essere ridicolo il rallegrarsi e il fare il solenne a seguito di siffatte azioni?
§ 14. In molte occasioni questo è il modo di agire di Crisippo, ma è quando replica alle tesi altrui che egli meno si preoccupa di non fare affermazioni contraddittorie e tra di loro discordanti. Nei libri ‘Sull’esortare’, prendendosela con Platone per avere detto che per chi non impara e non sa vivere conviene morire, Crisippo dice testualmente: “Un discorso siffatto è contraddittorio e ben poco esortativo. In primo luogo, infatti, additando che per noi è molto meglio non vivere e sollecitandoci, in un certo senso, a morire, ci sprona piuttosto [1039E] ad altro che al vivere la filosofia; giacché non si può vivere la filosofia se non si è in vita, e neppure è possibile diventare saggio se non dopo essere sopravvissuti per molto tempo nel vizio e nell’inesperienza”. Proseguendo poi afferma: “È doveroso anche per gli insipienti rimanere in vita”. E poi testualmente: “In primo luogo, la mera virtù non è un motivo perché noi si viva, così come il vizio non è un motivo perché noi si debba andarcene dalla vita”. Non è qui il caso di aprire e scorrere altri libri di Crisippo per mostrare le sue contraddizioni. In questi stessi libri di discorsi esortativi, una volta, facendo le lodi di Antistene, Crisippo mostra che bisogna acquisire per sé o una buona mente o un cappio; e cita il verso di Tirteo:
‘Sospingersi ai confini della virtù prima che della morte’.
Eppure questi [1039F] versi cos’altro vogliono mostrare se non che per i viziosi e i dissennati il non vivere è più vantaggioso del vivere? Un’altra volta, rettificando Teognide, afferma che non si dovrebbe dire:
‘Per fuggire la povertà di denaro è d’uopo’
ma piuttosto:
‘Per fuggire il vizio è d’uopo anche gettarsi nei profondi
abissi del mare e da rupi scoscese, o Cirno’.
[1040A] Parlando così cos’altro sembrerebbe che Crisippo stia facendo se non paragrafare fraudolentemente gli stessi precetti e le stesse dottrine che egli vuole però cancellare quando a scriverle sono gli altri? Perché fa a Platone una colpa del fatto di mostrare che il non vivere è più vantaggioso del vivere da vizioso e da ignorante; quando invece consiglia a Teognide di buttarsi in un precipizio o di affogarsi in mare pur di rifuggire il vizio? E quando loda Antistene perché spinge i dissennati ad impiccarsi, Crisippo si sta denigrando da solo, giacché è proprio lui a dire che l’essere viziosi non è un motivo sufficiente per allontanarsi dalla vita.
§ 15. Nei libri ‘Sulla giustizia’ scritti proprio contro Platone, al principio Crisippo salta subito al discorso sugli dei e afferma: “Cefalo aberra quando fa della paura degli dei un deterrente contro l’ingiustizia. Un simile ragionamento è facile da screditare e induce, [1040B] al contrario, molte distrazioni e persuasività che pongono obiezioni al discorso sui castighi divini, in quanto essi non sarebbero differenti dalle storielle di Acco e di Alfito, ossia le storielle con le quali le donne reprimono i bambini dalle impertinenze”. Dopo avere così schernito i libri di Platone, in altri Crisippo loda di nuovo e proferisce molte volte queste parole di Euripide:
‘Ma essi esistono, anche se qualcuno a parole li deride;
Zeus e gli dei, che han gli occhi sulle passioni umane’.
Similmente, nel primo libro ‘Sulla giustizia’, dopo avere citato questi versi di Esiodo
[1040C] ‘Ad essi dal cielo il Cronide spinse contro una calamità grande:
fame e peste; e soccombevano i popoli’
Crisippo afferma che gli dei fanno questo affinché, visti castigati i malvagi, servendosi di questi esempi gli uomini che restano in vita mettano meno spesso mano a fare cose del genere. Per contro, dopo avere rimarcato nei libri ‘Sulla giustizia’ che, per quanti valutano il piacere della carne un ‘bene’ ma non il ‘sommo bene’ è ancora fattibile salvaguardare la giustizia, e una volta posto ciò, Crisippo ha detto testualmente: “Forse, una volta lasciato il piacere della carne nel novero di ciò ch’è ‘bene’ ma non è il ‘sommo bene’, poiché anche il bello è una delle cose che possono essere scelte per se stesse, potremmo salvaguardare la giustizia, lasciando il bello e il giusto nel novero di ciò ch’è ‘bene maggiore’ del piacere della carne”. Ciò egli afferma [1040D] in questi libri circa il piacere della carne. Nei libri contro Platone § ad esempio ‘La giustizia’), mentre lo accusa di far mostra di lasciare la salute nel novero dei beni, Crisippo afferma: “Non soltanto la giustizia, ma sono abolite anche la magnanimità, la temperanza e tutte le altre virtù se lasceremo nel novero dei beni il piacere della carne o la salute o qualunque altra cosa non bella”. Ora, quel che c’è da dire a difesa di Platone e contro Crisippo è stato da me scritto in altri libri. La contraddizione di Crisippo è però palese laddove, in un caso, egli afferma che chi ipotizza che il piacere fisico, insieme con il bello, è anche un bene, salvaguarda l’esistenza della giustizia; e in un altro caso accusa quanti non ammettono che solo il bello è buono, [1040E] di abolire l’esistenza di tutte le virtù. E per non tralasciare giustificazione alcuna alle sue polemiche, scrivendo contro Aristotele a proposito di giustizia, Crisippo dice: “Egli parla non rettamente quando afferma che, se il piacere della carne è il sommo bene, la giustizia è abolita e che ciascuna delle altre virtù è abolita insieme con la giustizia. Giacché la giustizia è in verità abolita da coloro che ritengono il piacere della carne il sommo bene, ma nulla impedisce che le altre virtù continuino a sussistere e siano pur sempre beni e virtù, anche se non scelti per se stessi”. Le chiama poi ciascuna per nome. Ma la miglior cosa è riprendere le sue parole: “Se, dice Crisippo, secondo siffatto ragionamento [1040F] il piacere della carne si palesa essere un sommo bene, io però non reputo che ciò abbracci tutte queste implicazioni. Perciò bisogna dire che nessuna delle virtù è scelta per se stessa né alcun vizio per se stesso fuggito, ma che tutte queste cose vanno riferite allo scopo soggiacente. Tuttavia nulla impedirà che, per loro, virilità, saggezza, padronanza di sé, fortezza e le virtù simili a queste continuino ad essere dei beni e che gli opposti siano fuggiti”. [1041A] Quale altro pensatore è stato più protervo e più sconclusionato di Crisippo nei ragionamenti? Egli infatti ha incolpato due dei maggiori filosofi, facendo ad uno la colpa di abolire ogni virtù poiché non mantiene saldo il principio che solo il bello è buono; e all’altro la colpa di ritenere che ogni virtù, eccetto la giustizia, è preservata se il piacere fisico è un sommo bene. Infatti, mentre le faccende in discussione sono identiche, è strabiliante la capacità di Crisippo di utilizzare per la sua critica di Aristotele argomentazioni la cui validità lui stesso nega quando accusa Platone. E nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ Crisippo afferma espressamente: “Ogni azione retta è azione conforme alla legge e pratica della giustizia. Giacché quanto è effettuato secondo padronanza di sé o [1041B] fortezza o saggezza o virilità è un’azione retta. Sicché è anche pratica della giustizia”. Com’è dunque possibile che alle azioni alle quali egli accorda la qualità di essere sagge, virili, fatte con padronanza di sé, non lascia però la qualità di essere giuste; e poi a quante di esse sono rette secondo le suddette virtù lascia anche, per ciò stesso, la qualità di essere azioni effettuate con giustizia?
§ 16. Siccome Platone afferma che l’ingiustizia, in quanto rovina dell’animo e conflitto intestino, non perde la propria forza neppure negli stessi ingiusti e mette il malvagio alle prese con se stesso, lo mette in urto con se stesso, lo rende preda dello sconcerto; Crisippo, nei libri contro Platone ‘Sulla giustizia’, gli fa colpa di ciò e dice: “È assurdo affermare che si sia ingiusti con se stessi; giacché l’ingiustizia è rivolta contro altri, non contro se stessi”. Ma Crisippo si dimentica di queste cose [1041C] e nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ daccapo afferma: “Qualora commetta ingiustizia contro un’altra persona, l’ingiusto è vittima di un’ingiustizia da parte di se stesso e insieme autore di un’ingiustizia contro se stesso, poiché diviene causa a se stesso d’illegalità e danneggia se stesso contro il merito”. Nei libri contro Platone, circa il dire che l’ingiustizia è rivolta contro un’altra persona e non contro se stessi, Crisippo ha affermato questo: “Gli ingiusti, presi singolarmente, non constano di una pluralità di persone che dicono cose opposte, mentre invece l’ingiustizia è ottenuta proprio quando una pluralità di persone fossero tra di loro così disposte. Ma nulla del genere riguarda il singolo, almeno fino a che egli è così disposto verso chi ha dintorno”. Nelle ‘Dimostrazioni’, circa il fatto [1041D] che l’ingiusto sia anche vittima di un’ingiustizia che egli commette contro se stesso, Crisippo ha proposto argomenti di questo genere: “La legge proibisce di diventare complici di un’illegalità ed il commettere ingiustizia è un’illegalità. Pertanto chi diventa complice di se stesso nell’ingiustizia che commette, opera un’illegalità verso se stesso, e colui che opera un’illegalità verso qualcuno commette anche un’ingiustizia contro di lui. Dunque chi commette ingiustizia contro chiunque, commette ingiustizia anche contro se stesso”. E ancora: “L’aberrazione fa parte dei detrimenti e chiunque aberra, aberra contro di sé. Dunque chiunque aberra danneggia se stesso contro il merito e, se è così, allora commette anche un’ingiustizia contro se stesso”. E pure così: “Chi si giudica danneggiato da un altro, danneggia se stesso e si danneggia contro il merito. Ma questo equivale a commettere ingiustizia. Dunque chi giudica di subire [1041E] un’ingiustizia da chiunque sia, commette in ogni caso ingiustizia contro se stesso”.
§ 17. Del ragionamento sui beni e sui mali che egli stesso introduce e valuta, Crisippo dice: “È perfettamente in armonia con la vita e quello che meglio si rifà alle prolessi innate”. Così egli ha affermato nel terzo libro dei ‘Discorsi esortativi’. Nel primo libro di essi Crisippo però dice: “Questo ragionamento estirpa dall’uomo tutto il resto, come se esso fosse nulla in relazione a noi e non cooperasse affatto alla felicità”. Considera dunque come possa essere in armonia con se stesso chi prescinde dall’essere in vita, dalla salute, dall’assenza di dolore, dalla integrità degli organi di senso ed è dell’avviso che tutto ciò sia nulla per noi -quando sono invece proprio queste [1041F] le cose che noi chiediamo agli dei- e come possa dichiarare queste sue dottrine massimamente in armonia con la vita e con i comuni preconcetti degli esseri umani. Ma affinché non si possa negare che egli si contraddice, nel terzo libro ‘Sulla giustizia’ Crisippo ha affermato: “Perciò, a causa dell’enormità della grandezza e della bellezza § del sapiente), sembra che noi si stia dicendo cose fittizie e non conformi all’uomo ed alla natura delle cose umane”. [1042A] Vi può mai essere un modo più chiaro di questo col quale uno ammetterebbe di autocontraddirsi, ossia di riconoscere che a causa dell’enormità di quanto si afferma, potrebbe sembrare che uno stia parlando di cose fittizie e al di là dell’uomo e della natura umana; e poi essere dell’avviso che proprio queste affermazioni sono in armonia con la vita e si adattano sommamente ai preconcetti innati degli uomini?
§ 18. In ogni suo libro di Fisica e di Etica, Crisippo dichiara che essenza dell’infelicità è il vizio, e scrivendone sostiene energicamente che vivere nel vizio è la stessa cosa che vivere infelicemente. Nel terzo libro ‘Sulla natura’ Crisippo rimarca che è vantaggioso vivere da stolto piuttosto che non vivere, anche se non si dovesse mai diventare saggi, e poi soggiunge: [1042B] “Per gli uomini i beni sono siffatti che, in un certo modo, anche i mali vengono per importanza prima delle cose intermedie”. Tralascio il fatto che in altri libri egli abbia detto che nulla è vantaggioso per gli stolti, mentre qui egli afferma che sia vantaggioso vivere da stolti. Siccome però, per gli Stoici, le cose cosiddette ‘intermedie’ sono né bene né male, affermando che i mali primeggiano per importanza egli null’altro sta dicendo se non che i mali primeggiano per importanza su quelli che mali non sono, e che l’essere infelici è più vantaggioso del non esserlo: di modo che Crisippo ritiene il non essere infelici meno vantaggioso dell’esserlo. Ma se ciò è meno vantaggioso è anche più dannoso, e dunque il non essere infelici è più dannoso dell’essere infelici. Volendo dunque appianare quest’assurdità, [1042C] Crisippo soggiunge circa i mali: “Quelli che primeggiano per importanza non sono però questi mali bensì la ragione, con la quale piuttosto spetta a noi vivere anche se saremo stolti”. Una prima volta, dunque, egli chiama ‘male’ il vizio e ciò che partecipa del vizio e null’altro. Ma il vizio ha a che fare con la ragione, o piuttosto è la ragione che aberra; e per conseguenza il vivere con la ragione da stolti, null’altro è che vivere nel vizio. In secondo luogo il vivere da stolti è vivere nell’infelicità. In che senso, allora, questo modo di vivere ha più importanza di quello che dà importanza alle cose intermedie? Giacché Crisippo non starà certo affermando che l’essere infelici ha più importanza dell’essere felici. Ma, affermano gli Stoici, Crisippo non crede assolutamente che la permanenza in vita [1042D] vada parametrata ai beni e il trapassar di vita ai mali, bensì che esse vadano parametrate alle entità intermedie secondo natura. Perciò anche per gli uomini felici diventa a volte doveroso trapassar di vita, e invece rimanere in vita per le persone infelici. Quale autocontraddizione a proposito di scelta e di rifiuto è allora maggiore di questa, ossia di quella per cui per coloro che sono al culmine della felicità diventa doveroso distornarsi dai beni loro presenti, a causa della mancanza di cose che sono di per sé indifferenti? Eppure gli Stoici ritengono che nessuna delle cose indifferenti sia da scegliersi o da fuggirsi, e che da scegliersi sia soltanto il bene e da fuggirsi soltanto il male. Sicché a loro avviene di dirigere il raziocinio sulla cui base agiscono, non verso le cose che scelgono e quelle che rifuggono bensì di averne di mira altre, [1042E] le quali essi né rifuggono né scelgono e però di vivere e di morire sulla base di queste ultime.
§ 19. Crisippo ammette che beni e mali siano del tutto differenti; e ciò è necessario se i mali rendono subito estremamente infelici coloro ai quali si presentano mentre i beni, invece, li rendono felici al massimo grado. Inoltre egli afferma che beni e mali sono entità sensibili, scrivendo nel primo dei due libri ‘Sul sommo bene’: “Che beni e mali siano entità sensibili è possibile affermarlo anche sulla base di queste considerazioni. Non soltanto, infatti, le passioni sono entità sensibili nelle loro specie, come l’afflizione, la paura e cose similari; ma è possibile accorgersi anche della ruberia, [1042F] dell’adulterio e cose simili; e, in generale, accorgersi della stoltezza, della viltà e di altri non pochi vizi; e non soltanto della gioia, dei benefici e di molte altre azioni rette, ma anche della saggezza, della virilità e delle restanti virtù”. Tralasciamo pure ogni altra assurdità di queste affermazioni; ma chi non ammetterebbe che esse contraddicono quelle che gli Stoici fanno a proposito del sapiente ‘a sua insaputa’? Se infatti il bene è un’entità sensibile grandemente differente da quella del male, [1043A] cosa c’è di più assurdo del sostenere che un individuo vizioso può ignorare di essere diventato virtuoso e non accorgersi della presenza della virtù, anzi credere di essere ancora impegolato nel vizio? Infatti, o nessuno che possieda tutte quante le virtù può ignorare di averle o credere di non averle; oppure la differenza tra la virtù e il vizio, tra la felicità e l’infelicità, tra la vita più nobile e la vita più abietta è minutissima e difficilissima da riconoscere, se appunto ad uno sfugge di avere acquisito le prime ed abbandonato le seconde.
§ 20. Quello ‘Sulle vite’ è un trattato in 4 libri. Nel quarto, Crisippo dice che il sapiente è un uomo lontano dagli affari pubblici, che si occupa di poche cose e che si fa gli affari suoi. Questo è il testo: “Giacché io credo [1043B] che il saggio sia un uomo lontano dagli affari pubblici, che si occupi di poche cose e che si faccia gli affari suoi; e che similmente siano virtuose tanto l’autodeterminazione pratica quanto l’occuparsi di poche cose”. Affermazioni quasi simili egli ha fatto nel libro ‘Sulle cose che possono essere scelte per se stesse’, con queste parole: “Giacché in effetti la vita tranquilla appare possedere qualcosa che la rende al riparo dai pericoli e sicura, anche se pochissimi sono capaci di notarlo”. È manifesto che una simile affermazione non stona sulla bocca di Epicuro, il quale leva di mezzo la Prònoia attraverso la dottrina che la divinità non si occupa affatto delle vicende umane. Ma proprio Crisippo, nel primo libro ‘Sulle vite’ dice: “Il sapiente si farà deliberatamente carico del potere regale e ricaverà denari da esso. [1043C] E qualora non possa regnare convivrà con un re e parteciperà alle sue campagne militari, re quali erano Idantirso lo Scita o Leucone il Pontico”. Citerò di lui anche questo passo affinché, come l’armonia nasce dal suono della corda più bassa e della corda più alta, così noi si possa capire che la coerenza della vita di un uomo consiste nella scelta del disinteresse completo o parziale per gli affari pubblici e poi nel cavalcare insieme con gli Sciti e nel curare per una necessità qualunque gli affari dei tiranni del Bosforo. Afferma infatti Crisippo: “Attenendoci al giudizio che il sapiente parteciperà alle campagne militari e vivrà con i reali, noi esamineremo di nuovo l’argomento, [1043D] dato che alcuni neppure lo sottintendono possibile quando fanno simili computi, e noi lo abbiamo lasciato da parte per ragioni similari”. E poco dopo aggiunge: “Non soltanto con coloro che hanno fatto progressi di un certo rilievo sia nel loro sistema educativo sia acquisendo certe abitudini, come alla corte di Leucone e di Idantirso”. Alcuni incolpano Callistene di essersi recato da Alessandro per via di mare nella speranza di risollevare le sorti di Olinto, come Aristotele aveva fatto per Stagira; e però lodano Eforo, Senocrate e Menedemo per avere declinato gli inviti di Alessandro. Ma per fare denari, Crisippo sospinge il sapiente a testa in giù e piedi per aria fino a Panticapeo e alla desolata Scizia. Che il sapiente faccia questo per lavoro e per fare denari egli [1043E] lo ha manifestato in precedenza, ipotizzando tre modi di fare denari che sono specialmente acconci al sapiente: quello legato all’essere re, quello legato agli amici e quello legato al vivere la vita del sapiente. Eppure Crisippo sovente loda questi versi fino a diventare molesto:
‘Peraltro di che han bisogno i mortali salvo queste due cose sole:
del grano di Demetra e dell’acqua corrente da bere?’
E nei libri ‘Sulla natura’ afferma: “Quand’anche il sapiente perdesse le più grandi sostanze, reputerebbe d’avere buttato via una dracma”. Mentre nel libro ‘Sulla natura’ lo estolle e gonfia di lodi, qui di nuovo Crisippo abbatte il sapiente a livello di un lavoratore mercenario e di un sofista. Egli, infatti, richiederà e si farà anticipare il compenso dal discepolo, [1043F] in alcuni casi subito all’inizio, e in altri casi dopo un certo lasso di tempo; pratica, quest’ultima, che Crisippo afferma essere più costumata, e che però più sicuro è il compenso anticipato, in quanto questo campo è compatibile con comportamenti ingiusti. Egli dice così: “Gli uomini assennati si fanno pagare il compenso non da tutti allo stesso modo, ma in modo diverso da persona a persona a seconda dei casi, e senza professare di farne degli uomini virtuosi, e per di più nel giro di un solo anno; ma, per quanto sta a loro, che faranno tutto ciò per il lasso di tempo concordato”. [1044A] E poi prosegue: “L’uomo assennato saprà se il momento è opportuno per riscuotere il compenso subito all’entrata nella scuola, come hanno l’abitudine di fare i più, oppure di dar loro del tempo; cosa, questa, maggiormente compatibile con comportamenti ingiusti, anche se sembrerebbe essere più costumata”. Come può il sapiente spregiare i quattrini, quando ha firmato un contratto con il quale si impegna a trasmettere la virtù dietro un compenso in denaro; e qualora non la trasmetta pretende comunque di essere pagato asserendo di avere fatto ciò che gli spettava fare? O come può il sapiente sentirsi superiore al danno, quando fa bene attenzione a non essere raggirato circa la paga pattuita? Nessuno subisce un’ingiustizia se non subisce un danno. Laonde Crisippo, dopo avere dichiarato in altri luoghi che il sapiente non subisce ingiustizia, [1044B] qui afferma che il sapiente è passibile di qualche ingiustizia.
§ 21. Nel libro ‘La repubblica’ Crisippo afferma: “I cittadini nulla faranno né appresteranno in vista del piacere fisico”. Loda quindi Euripide per avere proferito queste parole:
‘Peraltro di che han bisogno i mortali salvo di queste due cose sole:
del grano di Demetra e dell’acqua corrente da bere?’
Proseguendo, loda poi poco dopo Diogene, il quale si masturbava sotto gli occhi di tutti e diceva agli astanti: “Magari potessi sbarazzare così il ventre dalla fame!”. Che senso ha lodare chi ripudia il piacere fisico e lodare, nelle stesse pagine, chi fa certe cose per ottenerne un piacere fisico e per di più impegnandosi in simili oscenità? [1044C] Dopo avere scritto nei libri ‘Sulla natura’ che “molti degli animali la natura li ha messi al mondo per via della loro bellezza, giacché la natura è amante del bello e si rallegra della varietà”; Crisippo soggiunge, con argomentazione quanto mai inopinata e illogica, che “il pavone è nato a motivo della sua coda, per via della bellezza della sua coda”. Però un’altra volta, ne ‘La repubblica’ egli ha rimproverato con veemenza gli allevatori di pavoni e di usignoli, in questo modo legiferando in contrasto con il legislatore del cosmo e deridendo la natura, la quale mostra invece di amare la bellezza di quegli animali ai quali il sapiente nega diritto di cittadinanza nella città. Com’è possibile che non sia un’assurdità quella di incolpare e dare addosso a chi alleva animali che egli invece loda quando è la Prònoia a generarli? [1044D] Nel quinto libro ‘Sulla natura’ Crisippo dice poi: “Le pulci ci fanno assai profittevolmente ridestare; i topi attirano la nostra attenzione sulla necessità di non riporre le nostre cose in modo trascurato; ed è verosimile che la natura ami il bello giacché essa si rallegra della varietà”, e quindi dice testualmente: “Evidenza palese di questo fatto potrebbe essere soprattutto la coda a ruota del pavone. Qui la natura dà infatti a vedere che l’animale è venuto al mondo a motivo della sua coda a ruota e che non è il contrario, dato che la femmina è venuta dopo la nascita del maschio”. Nel libro ‘La repubblica’ Crisippo dice che “Siamo vicini a dipingere anche i cessi”. E poco dopo afferma che: “Alcuni abbelliscono la campagna con rampicanti e con mirti; allevano pavoni, piccioni, pernici, per udire i loro canti, [1044E] e anche usignoli”. A questo punto mi piacerebbe cercar di sapere da lui in quale pregio tiene le api e il miele, giacché sarebbe del tutto coerente con la sua affermazione che le pulci esistono per recarci un gran profitto se egli affermasse che invece le api non ce ne recano alcuno. E se egli dà spazio alle api e al miele nel suo Stato, perché esclude i cittadini da quanto è delizioso all’udito e alla vista? In generale, come dice delle assurdità colui il quale biasima i commensali perché si servono delle varie portate, del vino e delle pietanze, e al contempo loda il padrone di casa che li ha invitati e che ha fatto preparare questi cibi; così, a quanto pare, non fa parola di autocontraddirsi colui che encomia la Prònoia [1044F] perché ci procura pesci, uccelli, miele e vino: cibi che abbiamo a portata di mano e che la natura ha fatto apposta per nutrirci; e però incolpa coloro che non trascurano questi cibi e che non si accontentano del grano di Demetra e dell’acqua corrente da bere.
§ 22. Nel [….] dei ‘Discorsi esortativi’, Crisippo dice che si calunnia senza ragione l’accoppiarsi con madri o sorelle o figlie, il mangiare certi cibi e il procedere verso un luogo sacro venendo da una puerpera o da un morto. Ed afferma che bisogna volgere lo sguardo alle belve, [1045A] ed arguire dai loro comportamenti che nessuna cosa di quel genere è assurda o contro natura. Al riguardo, infatti, sono tempestivi i paralleli con gli altri animali, per evidenziare che essi non contaminano il divino né quando s’accoppiano né quando partoriscono né quando muoiono in luoghi sacri. A sua volta, nel quinto libro ‘Sulla natura’ dice: “Esiodo fa bene a vietare di orinare nei fiumi e nelle sorgenti. E ancor più ci si deve astenere dall’orinare sugli altari o su un’effigie divina. Non è infatti un’azione ragionevole, anche se i cani, gli asini e i bambini infanti [1045B] lo fanno perché non se ne danno alcun pensiero e non si rendono razionalmente conto delle cose di questo genere”. Ma è assurdo definire opportuna, nel primo caso, l’osservazione di ciò che fanno gli animali privi di ragione, e invece nel secondo caso definirla illogica.
§ 23. Taluni filosofi, ritenendo in questo modo di provvedere agli impulsi un proscioglimento dall’essere necessitati in modo inderogabile ad opera delle cause esterne, strutturano la presenza nell’egemonico di un certo movimento ‘avventizio’ il quale diventa evidente e manifesto soprattutto nel caso di alternative tra loro indistinguibili. Infatti, qualora sia necessario prendere una decisione su due alternative di pari forza e simili per stato, non essendoci causa alcuna che conduca a scegliere una delle due poiché esse in nulla differiscono una dall’altra, ecco che proprio questa facoltà ‘avventizia’ dell’animo [1045C] trae da se stessa un’inclinazione per una delle due e spezza così l’aporia. Nelle sue obiezioni contro questi filosofi, Crisippo sostiene che essi violentano la natura quando pongono l’esistenza di processi privi di causa, e in molti passi cita l’astragalo, la bilancia e molte di quelle cose che non possono prendere una flessione e una propensione ora in un modo ora in un altro senza qualche causa o differenza presente in loro o al loro esterno. Infatti, gli eventi incausati ed automatici sono secondo lui interamente inesistenti, mentre nei movimenti che taluni plasmano con l’immaginazione e chiamano ‘avventizi’ si insinuano cause oscure e dubbie che guidano a nostra insaputa l’impulso verso una delle due alternative. Queste affermazioni [1045D] sono ripetute molte volte nei suoi discorsi più conosciuti. Ma le cose che proprio lui a sua volta ha detto in opposizione a queste, poiché non sono ugualmente accessibili a tutti, le citerò con le sue stesse parole. Infatti, nel terzo dei libri ‘Sull’amministrare la giustizia’ egli ipotizza il caso di due corridori che taglino contemporaneamente il traguardo, ed è assai incerto su cosa sia doveroso fare al giudice arbitro. “Forse è possibile, egli dice, che il giudice arbitro dia la palma della vittoria a quello dei due che vuole, in dipendenza della rispettiva maggiore o minore consuetudine con lui, come se egli qui, in un certo modo, lo gratificasse di qualcosa di suo proprio; oppure piuttosto, essendo la palma della vittoria divenuta proprietà comune di entrambi i corridori, è possibile che egli la dia, come per sorteggio, [1045E] secondo una sua inclinazione casuale? Dico ‘inclinazione casuale’ per dire quella che capita quando di due dracme proposteci e simili per tutto il resto, noi ne prendiamo una seguendo la nostra inclinazione”. Nel sesto libro ‘Sul doveroso’, dopo avere affermato che: “Vi sono faccende che non meritano davvero molta trattazione né attenzione”, Crisippo crede che noi si debba lasciarci andare all’inclinazione come capita dell’intelletto, affidando la scelta in merito alla sorte, e dice: “Per esempio, se di coloro che valutano queste certe due dracme alcuni dicessero che buona è questa e altri invece dicessero che buona è quella, e se bisognasse prendere una delle due; allora, tralasciando di ricercare oltre, noi prenderemo quella che capita [1045F] affidando la scelta alla sorte secondo una ragione non evidente, anche a rischio di prendere proprio la dracma cattiva”. Con le parole ‘sorteggio’ e ‘inclinazione come capita dell’intelletto’ egli introduce pertanto la presa per sé senza causa alcuna di cose indifferenti.
§ 24. Nel terzo libro ‘Sulla dialettica’ dopo avere rimarcato che: “Platone s’industriò sulla dialettica, come Aristotele e i loro successori [1046A] fino a Polemone e a Stratone, e soprattutto come Socrate”; e dopo avere ribadito che: “Uno sarebbe disposto anche ad aberrare in compagnia di questa quantità di personaggi di tale qualità”; Crisippo aggiunge testualmente: “Se essi avessero parlato di tale soggetto in modo accessorio, forse uno potrebbe trattare la materia con dileggio; ma poiché essi ne hanno parlato con tale solerzia come se la dialettica fosse tra le arti e facoltà più grandi e più necessarie, non è plausibile che essi si sbaglino di così tanto, dal momento che sono nel complesso le personalità che noi sottintendiamo che siano”. Perché dunque proprio tu, o Crisippo, potrebbe dire qualcuno, non smetti mai di combattere e di contestare uomini di tale qualità e di tale grandezza, tu che li ritieni [1046B] sbagliare sulle questioni assolutamente principali e più importanti? Giacché essi di sicuro non scrissero con tanta serietà della dialettica e invece alla leggera e per scherzo del principio, del sommo bene, degli dei e della giustizia: tutti argomenti sui quali invece tu chiami il loro ragionamento cieco, contraddittorio e pieno di miriadi di altri errori.
§ 25. [Nel primo libro ‘Sulle azioni rette’], Crisippo afferma che il godimento per i mali altrui è inesistente, giacché nessuno dei virtuosi si rallegra per i mali altrui, mentre nessuno degli insipienti assolutamente si rallegra. Nel secondo libro ‘Sul bene’, spiegando che l’invidia “è afflizione per i beni altrui, propria di coloro che vogliono svilire chi hanno dintorno per farsi eminenti loro”, Crisippo invece rannoda all’invidia [1046C] il godimento per i mali altrui: “…. e congiunto costantemente all’invidia nasce il godimento per i mali altrui, il quale è proprio di coloro che vogliono, per motivi simili, che chi hanno dintorno sia svilito; mentre la commiserazione nasce invece quando essi sono sviati secondo altre pulsioni naturali”. È dunque manifesto che egli lascia qui esistere, come l’invidia e la commiserazione, anche il godimento per i mali altrui, mentre in altri luoghi afferma che il godimento per i mali altrui è inesistente, così come sono inesistenti l’odio della malvagità e la vergogna per il guadagno illecito.
§ 26. Crisippo, dopo avere detto in molti luoghi che coloro i quali sono felici per la maggior parte del loro tempo, non sono più felici bensì felici allo stesso modo e allo stesso grado di coloro i quali partecipano della felicità per un solo istante; in molti altri per contro ha detto: [1046D] “Non sarebbe doveroso porgere neppure il dito per una saggezza momentanea che ci attraversa come un lampo”. Basterà citare quel che egli ha scritto in proposito nel sesto libro delle ‘Ricerche etiche’. Dopo avere rimarcato che: “Non ogni bene finisce parimenti in gioia né ogni retta azione in parole solenni”, ha inferito questo: “E infatti, se si trattasse soltanto di ottenere la saggezza per un istante o per l’estremo nostro momento, allora non sarebbe doveroso neppure protendere il dito a motivo di una saggezza presente a questo modo”. Eppure coloro che sono felici non lo sono di più perché lo sono per la maggior parte del tempo; né la felicità, perché eterna, diventa preferibile a quella istantanea. [1046E] Se dunque egli ritenesse, come Epicuro, la saggezza un bene produttivo della felicità, bisognerebbe prendersela soltanto con l’assurdità e la paradossalità di una simile affermazione. Invece la saggezza, secondo Crisippo, è non altra cosa dalla felicità ma la felicità stessa; e dunque come può non essere contraddittorio affermare che la felicità istantanea e quella eterna sono da scegliersi allo stesso grado e poi dire che la felicità istantanea non vale nulla?
§ 27. Gli Stoici dicono che le virtù hanno implicazione reciproca non soltanto nel senso che chi ne possiede una le possiede tutte, ma anche nel senso che chi agisce secondo una di esse agisce secondo tutte. [1046F] E non è uomo perfetto chi non ha tutte le virtù, né è azione perfetta quella che non è effettuata in armonia con tutte le virtù. Ma nel sesto libro delle ‘Ricerche etiche’ Crisippo afferma: “Non sempre l’uomo urbano si comporta virilmente né l’insipiente si comporta vilmente così che, all’apparire di certe rappresentazioni, uno mantenga le proprie determinazioni e l’altro invece se ne distorni”. [1047A] Ed afferma anche: “È plausibile che l’insipiente non sempre sia intemperante”. Se pertanto l’essere virile è qualcosa del genere: ‘praticare la virilità’; e l’essere vili del genere: ‘praticare la viltà’; fanno affermazioni contraddittorie quanti dicono che chi ha una virtù o un vizio agisce secondo tutte le virtù o tutti i vizi, e poi sostenere che l’uomo urbano non sempre si comporta virilmente e che l’insipiente non sempre si comporta vilmente.
§ 28. La retorica è definita arte dell’ordinata disposizione del discorso parlato, ed inoltre nel suo primo libro Crisippo ha scritto queste parole: “Io credo che bisogna darsi pensiero non soltanto dell’ordine semplice e privo di forzature dei discorsi, ma anche dell’appropriato modo di recitarli in relazione alle estensioni di voce [1047B] loro spettanti ed agli atteggiamenti del viso e delle mani”. A questo punto, una volta diventato persino eccessivo nella ricerca della perfezione del discorso, nello stesso libro, mentre rimarca la questione degli iati, afferma: “Che noi dobbiamo attenerci a faccende ben più importanti di quella e tralasciare non soltanto simile questione ma anche quella di certe oscurità, ellissi e, per Zeus, solecismi, dei quali non pochi altri si vergognerebbero”. Ora, l’arrivare a concedere agli oratori -una volta- di disporre in buon ordine del loro discorso fino a dettagli riguardanti il decoro delle mani e della bocca; e poi arrivare a concedere loro -un’altra volta- di non darsi alcun pensiero né delle ellissi né delle oscurità e di non vergognarsi neppure dei solecismi: finalmente tutto ciò è proprio di un uomo che dice qualunque cosa gli salti in mente.
§ 29. [1047C] Nelle sue ‘Questioni di fisica’ Crisippo esorta caldamente, circa le questioni che richiedono perizia ed acquisizione di informazioni, a prendersela con calma, ove non si abbia nulla di meglio e di più evidente da dire. “Per non -dice- sottintendere, in modo similare a Platone, che il cibo umido si porta nel polmone e il cibo secco nell’intestino; né incorrere in altre similari cadute in errore”. A me pare che la più grande e la più vergognosa delle cadute in errore sia quella di incolpare gli altri di qualcosa e poi di cadere negli stessi errori che si rimproverano loro, senza ben guardarsi dal fare affermazioni in intimo contrasto reciproco. Infatti proprio Crisippo afferma che il numero di combinazioni ottenibile mediante dieci proposizioni oltrepassa il milione, senza peraltro avere fatto al riguardo accurate ricerche personali né riferendo informazioni vere [1047D] di esperti. Almeno Platone ha dalla sua parte come testimoni i medici più accreditati, Ippocrate, Filistione, Dioxippo l’Ippocratico, e tra i poeti Euripide, Alceo, Eupoli, Eratostene, i quali tutti affermano che le bevande passano attraverso i polmoni. Invece tutti i matematici contestano Crisippo; e tra di essi vi è Ipparco, il quale dimostra che il suo errore di conteggio è stragrande, se appunto la proposizione affermativa produce centotremilaquattrocentonove combinazioni di proposizioni copulativamente coordinate, e la proposizione negativa ne produce a sua volta [1047E] trecentodiecimilanovecentocinquantadue.
§ 30. Alcuni dei filosofi più anziani solevano dire che accade a Zenone ciò che era accaduto a quel tale il cui vino era diventato acido, sicché non poteva più venderlo né come aceto né come vino. Infatti per Zenone lo ‘indifferente promosso’ ha lo stato né di un ‘bene’ né di un ‘indifferente’. Ma Crisippo ha reso la faccenda ancora più intricata. Talora, infatti, dice: “Sono pazzi coloro che tengono in nessun conto la ricchezza di denaro, la salute, l’assenza di dolore, l’interezza e l’integrità del corpo e non s’attengono a siffatti obiettivi”. Talaltra, citando il verso di Esiodo
‘Lavora, Perse, prosapia divina’
ha esclamato che è pazzia ammonire l’opposto
[1047F] ‘Non lavorare, Perse, prosapia divina’.
Nei libri ‘Sulle vite’ egli afferma poi che il sapiente, allo scopo di fare denari, starà con i re; e che vivrà la vita del sapiente per denaro, prendendolo da alcuni discepoli in anticipo e con altri stipulando un accordo al riguardo. Nel settimo libro ‘Sul doveroso’, afferma che il sapiente farà tre capriole, se per questo ottiene in cambio un talento. [1048A] Nel primo libro ‘Sui beni’, in un certo modo Crisippo ne conviene e concede il punto a coloro che vogliono chiamare ‘beni’ gli ‘indifferenti promossi’ e ‘mali’ i loro opposti, con queste parole: “Se uno vuole, in conformità a siffatte diversificazioni linguistiche, chiamare ‘bene’ un ‘indifferente promosso’ e chiamare ‘male’ un ‘indifferente ricusato’, una volta che abbia portato la faccenda su questo terreno e non vada altrimenti errando può procedere, a patto di non cadere in errore nei significati e, per il resto, di avere di mira la consuetudine in fatto di terminologia”. Così, dopo avere avvicinato in questo passo l’indifferente promosso al bene ed averli mescolati insieme, in altri luoghi dice di nuovo: “Questi indifferenti promossi sono assolutamente nulla in relazione a noi, e anzi la ragione ci spicca e ci distoglie [1048B] da tutte le cose di questo genere”. Questo, infatti, ha scritto nel primo libro dei ‘Discorsi esortativi’. E nel terzo libro ‘Sulla natura’ egli dice che certi regnanti e certe persone ricche di denaro sono chiamate ‘beate’, come se si chiamassero beati coloro che usano pitali d’oro e frange dorate. Per il virtuoso, invece, perdere le sostanze è come perdere una dracma; ed ammalarsi è come un intoppo. In conseguenza di ciò egli ha riempito non soltanto la virtù ma anche la Prònoia di incombenze in intimo contrasto reciproco, per cui la virtù appare essere qualcosa che dà un peso enorme a delle inezie, priva di senso, che si dà da fare per faccende come quelle citate e che per causa loro impone al sapiente di navigare fino al Bosforo e di fare le capriole. [1048C] Zeus, poi, diventa ridicolo se si rallegra di essere designato Ctesio, Epicarpio e Caridote, ossia colui che gratifica i viziosi con pitali d’oro e frange dorate, e i virtuosi con cose del valore di una dracma qualora essi diventino ricchi per volere della Prònoia di Zeus. E ancor più ridicolo diventa Apollo, se siede tra frange e pitali dorati vaticinando sulla liberazione dalle pietre in cui si può inciampare.
§ 31. Inoltre, nella dimostrazione gli Stoici rendono ancora più appariscente l’intimo contrasto delle loro affermazioni. Essi affermano, infatti, che ciò di cui è possibile fare un uso buono o cattivo è né un bene né un male. Tutti i dissennati fanno cattivo uso della ricchezza di denaro, della salute, della vigoria del corpo: [1048D] perciò nessuna di queste cose è un bene. Se dunque la divinità non dà agli uomini la virtù, ma il bello è libera scelta dell’uomo, la divinità però dà ricchezza di denaro e salute sprovviste di virtù a gente che le utilizzerà non bene ma male, ossia in modo dannoso, vergognoso e sciagurato. Eppure, se gli dei possono procurare la virtù, sono non probi se non la procurano. Se, invece, non possono rendere gli uomini virtuosi, neppure possono loro giovare, dal momento che null’altro è buono e giovevole. Non conta nulla, infatti, che essi giudichino per virtù e potenza coloro che sono divenuti virtuosi per altra via, giacché anche i virtuosi giudicano gli dei per virtù e potenza. [1048E] Sicché gli dei recano un giovamento non maggiore di quanto ne ricevano dagli uomini. E se invero Crisippo non dichiara virtuoso se stesso né alcuno dei suoi conoscenti o maestri, gli Stoici cosa pensano degli altri se non quello che appunto affermano? Ossia che sono tutti pazzi, fuori di testa, sacrileghi, gente che vive nell’illegalità ed è giunta al culmine della cattiva sorte e d’ogni infelicità. E poi le vicende nostre, di noi che ce la passiamo così meschinamente, sarebbero governate dalla Prònoia degli dei? Se dunque gli dei, mutando avviso, volessero recarci danno, maltrattarci, pervertirci e ulteriormente stritolarci, non potrebbero disporci peggio di come stiamo adesso, come Crisippo dichiara, né la nostra vita mancare del più alto grado [1048F] di vizio e di infelicità, tanto che se essa avesse la voce direbbe le parole di Eracle:
‘Trabocco di mali e non v’è più dove se ne possano mettere’
Chi potrebbe trovare delle dichiarazioni più contraddittorie circa gli dei e gli uomini di quelle di Crisippo, il quale afferma che gli dei [1049A] provvedono a noi nel miglior modo possibile e che gli uomini agiscono nel peggior modo possibile?
§ 32. A proposito dei galli, alcuni Pitagorici incolpano Crisippo di avere scritto nei libri ‘Sulla giustizia’: “Essi sono nati per uno scopo a noi proficuo, giacché ci svegliano, eliminano gli scorpioni e con i loro combattimenti ci attirano, infondendoci una certa emulazione per il loro vigore. E comunque è pur necessario che divoriamo anche loro, affinché la moltitudine dei pulcini non superi il bisogno”. Crisippo deride però a tal punto coloro che lo incolpano sulla base di queste obiezioni, da scrivere, a proposito di Zeus salvatore, genitore e padre di Giustizia, Eunomia e Pace, nel terzo libro ‘Sugli dei’, le seguenti parole: [1049B] “Come gli Stati che hanno un eccesso di abitanti ne allontanano una stuolo nelle colonie e muovono guerra ad un altro popolo; così il dio dà origine a rovine e distruzioni”. Egli porta a testimoni di ciò Euripide e altri scrittori, i quali affermano che la guerra di Troia sarebbe stata suscitata dagli dei per far sgombrare la moltitudine degli uomini in sovrappiù. Lascia stare le altre assurdità contenute in queste affermazioni § giacché il mio l’obiettivo non è quello di indagare se gli Stoici dicano cose sbagliate, bensì quello di evidenziare il cumulo di affermazioni contradittorie che fanno) e tieni in considerazione il fatto che Crisippo applica sempre a dio epiteti nobili e denotanti amicizia per l’uomo, ma gli attribuisce poi opere selvatiche, barbare e degne dei Galati. Le immense rovine e distruzioni e i massacri di uomini [1049C] quali quelli compiuti nel corso della guerra di Troia, delle guerre Persiane e della guerra del Peloponneso non somigliano certo alla fondazione di colonie, a meno che gli Stoici sappiano di certe città fondate nell’Ade e sotto terra. Eppure Crisippo fa del Galata Deiotaro una sorta di dio. Proprio Deiotaro il quale, poiché gli erano nati molti figli e voleva lasciare il regno e le sostanze ad uno solo di essi, fece sgozzare tutti gli altri, come se si trattasse di potare e rimpicciolire i germogli di una vite affinché l’unico rimasto diventi forte e grande. Tuttavia il vignaiuolo fa ciò con i sarmenti quando essi sono ancora piccoli e deboli; ed anche noi, per risparmiare la madre, le sottraiamo la maggior parte dei cagnolini quando sono appena nati e sono ciechi. [1049D] Invece Zeus non soltanto senza far caso al fatto di averli lasciati raggiungere l’età adulta, ma dopo averli lui stesso fatti nascere e crescere, massacra gli uomini di bastonate ed escogita pretesti per rovine e distruzioni ed eccidi, mentre invece dovrebbe non fornire causa ed origine per la loro generazione.
§ 33. Quest’ultimo è un punto minore, mentre il punto maggiore è quello precedente. Nessuna guerra tra gli uomini nasce senza che essa origini da un qualche vizio. A scatenarne una sarà la brama di piaceri, un’altra l’avidità di guadagno, un’altra la brama di gloria, un’altra ancora la brama di comandare. Se pertanto il dio fa scoppiare le guerre, sarà ancora lui a far nascere anche i vizi, esacerbando e pervertendo gli uomini. Eppure nel libro ‘Sull’amministrare la giustizia’ [1049E] e pure nel secondo libro ‘Sugli dei’, Crisippo dice: “Non è ragionevole che le divinità diventi complice di atti vergognosi. Al modo in cui la legge non potrebbe mai diventare complice di atti illegali, gli dei non potrebbero mai diventare complici di atti empi; e pertanto è ragionevole che essi non possano essere complici di alcun atto vergognoso”. E cos’è più vergognoso per gli uomini della rovina e della distruzione reciproca, i principi delle quali Crisippo dice che è il dio ad instillarli in noi? Ma per Zeus, dirà qualcuno, a sua volta egli loda però Euripide quando dice:
‘Se gli dei compissero qualcosa di vergognoso, non sono dei’
e
‘Hai detto la cosa più facile di tutte: accagionare gli dei’.
Come se noi adesso facessimo altro che evidenziare quanto le sue parole e le sue concezioni siano le une opposte alle altre.
§ 34. [1049F] Nondimeno il verso appena ora da lui lodato sarà da usare contro Crisippo non una volta sola, né due, né tre, ma miriadi di volte:
‘Hai detto la cosa più facile di tutte: accagionare gli dei’.
Innanzitutto, nel primo libro ‘Sulla natura’, dopo aver fatto somigliare la perpetuità del movimento cosmico a un guazzabuglio che rivoltola e scompiglia in modi differenti le differenti realtà che vengono in essere, Crisippo ha detto questo: “Poiché l’economia del cosmo [1050A] procede in questo modo, è necessario che noi si stia come stiamo; tanto se per condizione personale siamo ammalati, o siamo storpi, oppure siamo diventati dei grammatici o dei musici”. Poi nuovamente poco dopo dice: “In armonia con questo discorso, diremo cose similari tanto della nostra virtù quanto del nostro vizio; tanto circa l’insieme delle nostre arti quanto della nostra imperizia nelle arti, come dicevo”. E poco dopo, levando di mezzo ogni ambiguità, dice: “Infatti nulla può stare, neppure nel suo minimo particolare, altrimenti che in armonia con la natura universale e con la sua ragione”. Che poi la natura a tutti comune e la ragione universale della natura [1050B] siano il ‘destino’, la ‘Prònoia’ e ‘Zeus’, non può sfuggire neppure a coloro che vivono agli Antipodi; giacché questo gli Stoici lo vanno blaterando ovunque. Anche l’affermazione:
‘…. la deliberazione di Zeus giungeva a perfezione’
Crisippo afferma che Omero l’ha fatta rettamente, in riferimento al destino e alla natura del cosmo, in armonia con la quale tutto è governato. Come può dunque accadere che il dio, da un lato non sia concausa di nulla di vergognoso, e dall’altro lato che la neppur minima cosa possa avvenire altrimenti che in armonia con la natura comune a tutte le cose e la sua legge? Tra tutti gli eventi che accadono sono infatti compresi anche eventi vergognosi. E mentre Epicuro, al fine di non lasciare senza censura il vizio, si dà pensiero di questo fatto e si ingegna per escogitare in una maniera qualunque il modo di liberare l’azione volontaria [1050C] e scioglierla dal vincolo rappresentato dall’eterno movimento; Crisippo concede invece piena ed incondizionata libertà di azione alla malvagità, considerandola non soltanto necessaria e in armonia col destino, ma anche un prodotto in armonia con la ragione divina e la perfezione della natura. Anche ciò è visibile in queste sue testuali parole: “Poiché la comune natura s’estende a tutte le realtà, qualunque cosa di qualunque genere accade nel cosmo e in una qualunque delle sue parti, bisognerà che sia in armonia con tale natura e, per conseguenza immediata, con la sua ragione; a causa del fatto che nulla potrà ostacolare dall’esterno l’economia del cosmo, [1050D] né alcuna delle sue parti avrà modo di muoversi o starà altrimenti che in armonia con la natura a tutti comune”. Quali sono, dunque, gli stati e i movimenti delle parti? È manifesto che ‘stati’ sono i vizi e gli stati morbosi come l’avidità di denaro, la brama di piaceri e quella della fama, la viltà e l’ingiustizia; che ‘movimenti’ sono gli adulteri, i furti, i tradimenti, gli omicidi e il parricidio. Ebbene, Crisippo crede che nessuno di questi sia né poco né tanto contrario alla ragione, alla legge, alla giustizia e alla Prònoia di Zeus. Sicché la violazione della legge non avviene contro la legge, né il commettere ingiustizia avviene contro la giustizia e neppure il malfare è contrario alla Prònoia.
§ 35. Crisippo afferma che dio castiga il vizio [1050E] e fa molte cose per castigare i malvagi. Ad esempio nel secondo libro ‘Sugli dei’ egli dice: “A volte accadono ai virtuosi molti incomodi, non però a mo’ di castigo come accade per i viziosi ma in accordo con un’economia di più ampio respiro, come accade negli Stati”. Poi in questi libri di nuovo dice: “In primo luogo per mali si devono intendere quelli dei quali si è parlato prima, e inoltre che essi sono assegnati in armonia con la ragione di Zeus, o come castigo o secondo un’economia di più ampio respiro che è in funzione del cosmo nella sua interezza”. Ora, già è strabiliante che la nascita del vizio ed il suo castigo siano in armonia con la ragione di Zeus. Ma nel secondo libro ‘Sulla natura’ Crisippo esacerba [1050F] ulteriormente il carattere contraddittorio delle precedenti affermazioni scrivendo quanto segue: “Rispetto alle pur terribili disavventure accidentali, il vizio ha una sua peculiare ragione, giacché anch’esso nasce in un certo senso in armonia con la ragione della natura e, per dir così, non è improficuo in relazione al cosmo nella sua interezza, dal momento che altrimenti non esisterebbero neppure le opere virtuose”. Sicché a rimproverare coloro che [1051A] argomentano a loro volta le tesi opposte è proprio chi, mosso dalla volontà di dire ad ogni costo qualcosa di originale e fuori dall’ordinario su qualunque argomento, afferma che fare il tagliaborse, fare il sicofante e l’andare fuori di testa non sono cose inutili, e che non è inutile che esistano le persone inutili, quelle dannose e quelle malefiche. Quindi che razza di Zeus è, dico lo Zeus di Crisippo, quello che castiga una cosa che non nasce da se stessa e che non manca di utilità? Il vizio, infatti, secondo il ragionamento di Crisippo è qualcosa di assolutamente incolpevole, mentre quello che si deve incolpare è Zeus: se il vizio è inutile, perché l’ha creato; e se l’ha creato utile, perché lo castiga.
§ 36. Di nuovo nel primo libro ‘Sulla giustizia’, parlando degli dei che oppongono resistenza a talune ingiustizie, Crisippo dice che non è possibile rimuovere [1051B] interamente il vizio e che non sta bene che esso sia rimosso. Io qui non ne faccio una questione di indagare se non sta bene che siano rimosse l’illegalità, l’ingiustizia e la scempiaggine. La questione che faccio è che Crisippo, poiché attraverso la sua opera filosofica rimuove, per quanto è in suo potere, il vizio, vizio che invece non sta bene che sia rimosso, sta facendo qualcosa che è in contraddizione con la ragione e con la divinità. Oltre a ciò, affermando che il dio oppone resistenza a talune ingiustizie, egli offre di nuovo una prova palese della disparità delle aberrazioni umane.
§ 37. Inoltre, benché Crisippo abbia spesso scritto sul fatto che al cosmo non vi sono da fare incolpazioni né biasimi giacché tutti gli eventi vi sono introdotti e rappresentati secondo la migliore natura possibile, vi sono però luoghi delle sue opere nei quali egli lascia trasparire certe incolpazioni di trascuratezza in faccende né piccole né da poco. [1051C] Per esempio, nel terzo libro dell’opera ‘Sulla sostanza’, dopo avere ricordato che cose siffatte coinvolgono anche uomini retti e virtuosi, dice: “Se avvengono delle trascuratezze, ciò capita come capita nelle grandi case allorché della crusca o una certa quantità di grano va smarrita, anche se la casa nel suo complesso è ben amministrata; oppure capita perché a cose del genere sopravvedono dei demoni sciocchi, i quali si lasciano effettivamente andare a trascuratezze degne di incolpazione?”. Ora, io lascio perdere la sua disinvolta faciloneria nell’equiparare le accidentali disavventure di uomini probi e virtuosi, come la condanna a morte di Socrate, Pitagora arso vivo dai Cilonei, l’eliminazione con la tortura di Zenone ad opera del tiranno Demilo e quella di Antifonte ad opera di Dionisio, [1051D] alla crusca che va smarrita. Ma il fatto che la Prònoia possa istituire dei demoni sciocchi a siffatte soprintendenze, come può non essere un’incolpazione al dio come ad un re il quale delega i governi a satrapi e generali malvagi e tonti, senza badare al fatto che gli uomini migliori sono da costoro trascurati e maltrattati? Invero, se alle faccende si trova mescolata una grande dose di necessità, ciò significa che il dio non le padroneggia tutte né che tutte sono governate secondo la sua ragione.
§ 38. Partendo dai concetti che noi abbiamo degli dei, ossia che li divisiamo quali esseri benefici e filantropi, Crisippo combatte soprattutto [1051E] contro Epicuro e contro coloro che levano di mezzo la Prònoia. Siccome queste cose sono scritte e dette dagli Stoici ad ogni pié sospinto, non è il caso di citare le loro parole. È tuttavia naturale nutrire il preconcetto che non tutti gli dei siano buoni. Guarda quali idee hanno degli dei i Giudei e i Siriani e guarda di quante superstizioni sono piene le opere dei poeti. Nessuno però pensa che dio sia, per dirlo a questo modo, perituro e generato. Tralasciando di parlare di tutti gli altri, nel suo libro ‘Sugli dei’ Antipatro di Tarso scrive testualmente questo: “Come preliminare al discorso nel suo insieme, faremo brevemente un rendiconto dell’evidenza che abbiamo del concetto di divinità. Noi abbiamo cognizione della divinità [1051F] come di un essere vivente beato, imperituro, beneficente verso gli uomini. Di poi, spiegando dall’inizio ciascuno di questi attributi dice così: e tutti li ritengono imperituri”. Secondo Antipatro, Crisippo non è uno dei ‘tutti’, giacché crede che, ad eccezione del fuoco, nessuno degli dei sia imperituro, [1052A] ma che tutti siano nati in passato e siano destinati a perire in futuro. Questo egli lo afferma, per dir così, ovunque. Citerò un brano dal terzo libro ‘Sugli dei’: “Secondo un altro modo di ragionare, alcuni dei sono detti generati e perituri, altri ingenerati; e l’illustrazione di questa tesi dall’inizio è piuttosto un argomento di fisica. Il sole, la luna e gli altri dei che hanno una ragion d’essere similare sono generati, mentre Zeus è invece sempiterno”. E poi proseguendo afferma: “Si diranno cose simili anche circa il deperire e il divenire sia a proposito degli altri dei sia a proposito di Zeus, giacché gli uni sono perituri mentre le parti di Zeus sono imperiture”. A queste affermazioni di Crisippo voglio inoltre paragonare [1052B] alcune piccole asserzioni tra quelle fatte da Antipatro: “Quanti dispogliano gli dei dell’attributo di essere beneficenti verso gli uomini, confliggono in parte col preconcetto che noi abbiamo di essi; per la stessa ragione per cui confliggono quanti legittimano l’idea che essi partecipino di generazione e di estinzione”. Se pertanto chi ritiene che gli dei siano perituri dice un’assurdità pari a quella di chi crede gli dei né provvedenti né filantropi, Crisippo è caduto nello stesso errore di Epicuro; giacché Epicuro priva gli dei della prerogativa di essere benefici, Crisippo di quella di essere imperituri.
§ 39. Circa il modo di nutrirsi degli altri dei, nel terzo libro ‘Sugli dei’ Crisippo dice: “Gli altri dei utilizzano tutti il cibo in modo similare e si sostentano grazie ad esso. [1052C] Invece Zeus e il cosmo si sostentano in modo diverso dagli dei che sono consumati e che nascono dal fuoco”. Qui egli dunque dichiara che, eccezion fatta del cosmo e di Zeus, tutti gli altri dei si nutrono; ma nel primo libro ‘Sulla Prònoia’ Crisippo afferma che Zeus s’accresce fino a consumare in sé tutti i corpi. “Poiché la morte è separazione dell’animo dal corpo, mentre l’animo del cosmo non si separa bensì continua ad accrescersi fino a consumare in sé la materia, non si deve dire che il cosmo muoia”. Ora, chi potrebbe mostrare di fare affermazioni in maggiore contrasto una con l’altra di colui il quale va dicendo che il medesimo dio ora si accresce e ora non si alimenta? Questa conclusione non c’è neppure bisogno di dedurla, giacché Crisippo nello stesso libro ha scritto chiaramente: “Soltanto il cosmo è detto essere autosufficiente, giacché esso soltanto contiene in sé [1052D] tutto ciò di cui ha bisogno; e pertanto si nutre di se stesso e s’accresce grazie al concambio delle sue differenti parti l’una nell’altra”. Egli è dunque in contraddizione con se stesso non soltanto allorquando dichiara che, eccezion fatta del cosmo e di Zeus, gli altri dei si nutrono, e poi invece afferma che il cosmo si nutre; ma è ancor di più in contraddizione con se stesso allorquando afferma che il cosmo si accresce nutrendosi di se stesso. Sarebbe invece verosimile il contrario, ossia che sia soltanto il cosmo a non accrescersi poiché ha come cibo la consumazione di se stesso, mentre per gli altri dei che sono nutriti dall’esterno vi sono approvvigionamento e crescita; e che è soprattutto a loro favore che il cosmo si consuma, [1052E] se appunto al cosmo è accaduto di nutrirsi di se stesso e agli dei di prendere sempre da esso qualcosa per nutrirsi.
§ 40. In secondo luogo, il concetto che si ha degli dei include quelli di ‘felice’, ‘beato’, ‘completo’. Perciò gli Stoici lodano Euripide quando dice:
‘Giacché il dio, se è davvero dio, di nulla manca.
Gli altri sono miseri discorsi dei poeti’.
Ma proprio Crisippo, nelle citazioni che abbiamo già messo in evidenza, afferma che ad essere autosufficiente è soltanto il cosmo; giacché esso è l’unico ad avere in se stesso ciò di cui abbisogna. Qual è la conseguenza del fatto che il cosmo soltanto sia autosufficiente? Ne consegue che né il sole né la luna né alcun altro degli dei è autosufficiente. E se essi non sono autosufficienti, neppure potrebbero essere felici e beati.
§ 41. Crisippo ritiene che il feto sia nutrito dalla natura nell’utero come un vegetale. [1052F] Quando poi è partorito, allora lo pneuma, raffreddato dall’aria e temprato, si trasforma e diventa ‘animale’. Laonde non fuor di modo esso è stato denominato ‘animo’ a causa del suo ‘raffreddamento’. Ancora lui ritiene, contraddicendosi, che “l’animo è lo pneuma della facoltà vegetativa, ma più diradato e più finemente particellare”. [1053A] Com’è infatti possibile che uno stato diradato e finemente particellare origini da uno particellato grossolanamente, a seguito di un raffreddamento e di un infittimento? E per di più, come può lo stato ‘animato’ originare per raffreddamento, se Crisippo dichiara di ritenere il sole un essere animato, fatto di fuoco e nascente dall’esalazione che si trasforma in fuoco? Egli dice, infatti, nel primo libro ‘Sulla natura’: “La trasformazione del fuoco è del seguente genere. Attraverso l’aria esso si tramuta in acqua e da questa, mentre verso il basso si condensa la terra, esala l’aria. Al ridursi dell’aria in fini particelle, l’etere si spande circolarmente tutt’intorno, e insieme col sole dal mare s’accendono gli astri”. Cosa dunque contrasta più intimamente con l’accensione del raffreddamento, o con l’effusione dell’infittimento? [1053B] Raffreddamento e infittimento producono acqua e terra da fuoco e aria, mentre accensione ed effusione volgono l’umido e il terroso in aria e fuoco. E nonostante ciò Crisippo pone all’origine dello stato ‘animato’ in un caso l’accensione e nell’altro il raffreddamento. Egli afferma inoltre che quando avviene la conflagrazione universale il cosmo è tutt’intero vivente e animato, e che quando poi un’altra volta si spegne e s’addensa, esso si tramuta in forma corporea, ossia in acqua e in terra. Egli dice nel primo libro ‘Sulla Prònoia’: “Quando il cosmo è tutt’intero igneo, esso è direttamente l’animo e l’egemonico di se stesso. Quando, invece, mutando in umido e nell’animo in esso racchiuso, esso in un certo modo mutò in corpo ed animo così da consistere di questi, esso contenne in sé un’altra ragione”. [1053C] Qui egli sta chiaramente affermando che con la conflagrazione universale anche gli stati inanimati del cosmo diventano stati animati, giacché poi con lo spegnimento anche l’animo del cosmo s’attenua e s’inumidisce mutando in corporeo. Appare pertanto assurdo che grazie al raffreddamento una volta egli faccia diventare ‘animati’ degli stati privi di sensibilità, e un’altra volta faccia invece trasformare in stati privi di sensibilità e inanimati la maggior parte dell’animo del cosmo. A parte questo, il suo ragionamento sulla genesi dell’animo ha una dimostrazione che ne contraddice i principi dottrinali. Infatti, egli afferma che l’animo nasce quando il feto è partorito, come se lo pneuma si trasformasse per tempra ad opera del forte raffreddamento; [1053D] e poi utilizza come dimostrazione della nascita dell’animo e del suo essere generato per ultimo, soprattutto il fatto che per modi e carattere i figli assomigliano ai genitori. Si vede bene l’intimo contrasto di queste affermazioni. Infatti non è possibile che l’animo, il quale è prodotto dopo il parto, abbia modi e caratteri che sono stati prodotti invece prima del parto; altrimenti accadrà che la somiglianza ai genitori appartiene già all’animo prima ancora che questo sia stato prodotto, ossia accadrà che l’animo esiste per la sua somiglianza ai genitori ma contemporaneamente non esiste perché non è ancora stato prodotto dal forte raffreddamento. Se poi uno affermasse che la somiglianza ai genitori s’ingenera dalle mescolanze dei corpi e che gli animi nati si trasformano, manda in rovina la prova della generazione dell’animo, giacché allora è fattibile sostenere che l’animo non è generato, ma che esso, quando sopraggiunge ed entra nel corpo del neonato, si trasforma [1053E] per influenza della mescolanza costitutiva della somiglianza.
§ 42. A volte Crisippo afferma che l’aria tende a salire verso l’alto e che è leggera mentre altre volte dice che è né pesante né leggera. Nel secondo libro ‘Sul movimento’ dice che il fuoco, non avendo peso, tende a salire verso l’alto e che un movimento similare a questo ha l’aria; e che mentre l’acqua tende di più ad associarsi con la terra, l’aria si associa di più col fuoco. Nel trattato ‘Sulle Scienze fisiche’, invece, propende per un’opinione diversa, quella che di per sé l’aria abbia né peso né leggerezza.
§ 43. Inoltre Crisippo dice che l’aria è per natura tetra, ed a prova di ciò utilizza il suo essere primariamente fredda; ed afferma anche che la sua tetraggine si contrappone alla radiosità, e il suo freddo al calore, del fuoco. [1053F] Egli muove queste argomentazioni nel primo libro delle ‘Ricerche fisiche’, e di nuovo nei libri ‘Sulle forze di coesione’, affermando che le forze di coesione non sono altro che ‘aria’. Del fatto che ciascuno dei corpi che sono tenuti insieme da tale legame abbia una qualificazione qualitativa è causativo l’aria che li tiene insieme: aria che chiamano ‘durezza’ nel ferro, ‘compattezza’ nella pietra e ‘bianchezza’ nell’argento. [1054A] Queste affermazioni contengono molte assurdità e molte contraddizioni. Se infatti l’aria rimane quale essa è per natura, come può ciò che è nero diventare bianchezza in ciò che non è bianco, ciò che è molle diventare durezza in ciò che non è duro, ciò che è rado diventare fittezza in ciò che non è fitto? Se l’aria, mischiandosi con questi corpi altera le proprie caratteristiche e si conforma alle loro, come può ancora essere forza di coesione o facoltà o causa coesiva di corpi dalle cui qualità è invece dominata? Siffatta trasformazione per la quale l’aria perde le proprie qualità, è tipica di un elemento passivo, non attivo; non di un elemento che tiene coesi i corpi bensì di uno che li indebolisce. Tuttavia gli Stoici dichiarano ovunque che il materiale soggiace di per sé inerte e immobile alle qualità, e che le qualità sono pneumi [1054B] e toni aeriformi i quali danno forma e figura specifiche a ciascuna di quelle parti del materiale nel quale s’ingenerino. Ma non è loro permesso fare queste affermazioni, visto che essi ipotizzano essere tali per natura le qualità dell’aria. Infatti, se l’aria è forza coesiva e ‘tono’, essa farà somigliare a sé ciascuno dei vari corpi, di modo che esso sia nero e molle. Se invece l’aria, nella mescolanza con essi, acquista caratteristiche contrarie a quelle che ha per natura, essa è in un certo modo un ‘materiale del materiale’ e non più una causa né una facoltà.
§ 44. Crisippo dice spesso che il vuoto all’esterno del cosmo è infinito e che l’infinito non ha inizio, né metà, né fine. Ed è soprattutto con questo argomento che gli Stoici eliminano quello che Epicuro chiama il decorso di per sé verso il basso degli atomi, [1054C] non essendovi nell’infinito differenza alcuna per cui si possa pensare ad un alto e ad un basso. Ma nel quarto libro ‘Sui possibili’ Crisippo ipotizza l’esistenza di uno ‘spazio’ e di un ‘dove c’è posto’ intermedi, ed afferma che qui ha sede il cosmo. Queste sono le sue parole: “Perciò io credo ci sia bisogno d’una ragione per dire del cosmo che è perituro. Nondimeno a me pare che la faccenda stia in questi termini. È come se assai cooperasse a favore dell’incorruttibilità del cosmo l’occupazione da parte sua d’un posto tale da essere in posizione mediana; poiché se il cosmo fosse pensato altrove, potrebbe definitivamente toccargli l’estinzione”. E poco dopo di nuovo afferma: [1054D] “Così in un certo modo anche la sostanza si trova ad avere occupato accidentalmente per l’eternità lo spazio mediano; ed è pertanto tale che, per un altro verso, le è anche toccata la sorte di non essere passibile di estinzione, e per questo motivo di essere sempiterna”. Queste affermazioni contengono un primo chiaro ed evidente contrasto tra di loro, poiché si ammette l’esistenza nell’infinito di un luogo mediano e di una regione mediana, ma contengono anche un secondo contrasto più nascosto e più illogico ancora. Ritenendo infatti che il cosmo non potrebbe permanere imperituro se gli fosse toccato di avere le proprie fondazioni in qualche altra parte del vuoto, manifestamente Crisippo teme che avvenga la dissoluzione e l’estinzione del cosmo, a meno che le parti della sostanza non si portino in una posizione mediana nell’universo. [1054E] Egli non avrebbe paura di ciò, a meno che non ritenga che i corpi, provenendo da ogni dove, si portino per natura verso il mezzo non della sostanza, ma del ‘dove c’è posto’ nel quale è inclusa la sostanza. A proposito di ciò egli ha spesso detto trattarsi di cosa impossibile e contro natura, giacché nel vuoto non esiste quella differenza per cui i corpi s’appressino qui piuttosto che qui, e che invece è la sintassi stessa di questo cosmo la causa del movimento di tutto ciò che, provenendo da ogni dove, accenna a portarsi verso il centro e il mezzo di esso. Al riguardo basta citare un passo dal secondo libro ‘Sul movimento’, nel quale Crisippo rimarca che: [1054F] “Il cosmo è un corpo perfetto, mentre perfette non sono le sue parti, giacché queste non sono realtà a sé stanti ma modalità di relazione con l’intero”. Discutendo poi del suo movimento e sostenendo che quello del cosmo attraverso tutte le sue parti è un movimento per natura mirante alla sua permanenza e continuità, e non alla sua dissoluzione e sminuzzamento, egli ha detto: “In questo modo, siccome l’intero è in tensione ed in movimento in una singola direzione, e siccome le parti posseggono questo movimento grazie alla natura del corpo in cui sono, [1055A] è plausibile che il primo e naturale movimento sia per tutti i corpi quello diretto verso il centro del cosmo; trattandosi così per il cosmo di un movimento verso se stesso, e per le sue parti di un movimento in quanto ne sono parti”. Dopo di che qualcuno potrebbe dire: “Uomo mio caro, cos’è successo che ti ha fatto dimenticare questi discorsi, tanto da dichiarare il cosmo soggetto ad estinzione e perituro se non occupasse per fortuna la regione mediana dell’universo?” Se infatti il cosmo per natura accenna sempre a portarsi verso la sua zona mediana e centrale e le sue parti tendono da qualunque posizione verso tale zona, in qualunque regione del vuoto il cosmo sia riallocato, esso, poiché si compatta e così si contrae, [1055B] permarrà imperituro e non sminuzzato; giacché i corpi che sono sminuzzati e dispersi subiscono questo processo per frammentazione e dissoluzione di ciascuna delle loro parti, le quali si dipartono dal luogo contro natura che occupavano e vanno verso quello loro appropriato. Tu invece, poiché credi che se il cosmo fosse posto in qualche altra parte del vuoto, ciò sia connesso alla sua assoluta e totale rovina, poiché lo affermi e poiché per questo motivo cerchi un centro in un infinito che invece per natura non ha alcun centro, hai lasciato perdere come incapaci di garantirgli alcuna salvezza quelle famose ‘tensioni’, ‘coesioni’ e ‘tendenze’ ed hai attribuito l’intera causa della permanenza del cosmo alla sua occupazione del posto centrale nell’universo. Alle parole dette prima, tu Crisippo rannodi tuttavia queste altre, come colui che si fa un punto d’onore di confutare se stesso: “È ragionevole che il modo in cui ciascun pezzo del cosmo si muove quando è connaturato al resto, [1055C] sia lo stesso anche quando esso si muovesse come realtà a se stante se, tanto per dire, lo pensassimo ipoteticamente trovarsi entro un qualche vuoto di questo cosmo. Infatti, come quand’era tenuto coeso in ogni direzione si muoveva verso il mezzo del cosmo, esso manterrebbe questo movimento pur se, tanto per dire, si facesse repentinamente intorno ad esso il vuoto”. Pertanto, una parte qualunque del cosmo che sia circondata dal vuoto non perde la propensione a condursi verso il centro di esso, e invece il cosmo stesso, qualora una causa spontanea ed automatica non metta a sua disposizione il centro dell’universo, perde la tensione che lo tiene insieme e le varie parti della sua sostanza se ne vanno chi qua e chi là in tutte le direzioni.
§ 45. Se le parole di Crisippo contengono affermazioni grandemente contrastanti tra di loro in relazione alla dottrina della natura, [1055D] ciò diventa vero anche in relazione alla dottrina di dio e della prònoia, per il fatto che egli attribuisce a dio e alla prònoia un ruolo infimo col togliere loro quello dominante e maggiore. Cosa c’è infatti di più importante del permanere del cosmo e del fatto che la sostanza di esso, unificata in tutte le sue parti, mantenga la propria intima coesione? Invece secondo Crisippo tutto ciò è accaduto in modo spontaneo ed automatico. Se infatti l’occupazione della regione centrale dell’universo è causa della incorruttibilità del cosmo e se ciò è avvenuto per puro caso, è manifesto che la salvaguardia dell’intero cosmo è opera di un insieme di circostanze casuali e non del destino e della prònoia.
§ 46. Il discorso di Crisippo sui ‘possibili’ non è, in certo modo, in contraddizione con il suo discorso sul ‘destino’? Infatti, se il possibile non equivale, [1055E] come voleva invece Diodoro, a ciò ch’è o sarà vero bensì a tutto ciò che accoglie in sé la possibilità di diventare vero anche se non lo diventerà, saranno possibili molte cose che non sono scritte nel destino. Pertanto o il destino perde la sua forza invincibile, ineluttabile, che ha il sopravvento su tutto; oppure, se il destino è tal quale Crisippo è del parere che sia, ciò che accoglie in se la possibilità di diventare vero perterrà spesso all’impossibile; tutto ciò che è vero sarà necessario, essendovi costretto dalla necessità più dominante di tutte, ed ogni falsità sarà impossibile, essendo la massima delle cause avversa al suo diventare verità. [1055F] Come può essere suscettibile di morire in terra colui il cui fato è di morire in mare? Com’è possibile che chi è a Megara venga ad Atene se ne è impedito dal destino?
§ 47. Ma anche le sue affermazioni sulle rappresentazioni contrastano brutalmente con quelle sul destino. Infatti, volendo dimostrare che la rappresentazione non è la causa decisiva dell’assenso, Crisippo ha detto: “Se le rappresentazioni fossero decisive nel far nascere gli assensi, i sapienti farebbero un danno infondendo false rappresentazioni. Spesso, infatti, i sapienti utilizzano contro gli insipienti falsi enunciati e pongono loro innanzi [1056A] una rappresentazione persuasiva, che non certo per questo è causa dell’assenso, poiché altrimenti essa sarebbe causa anche della falsa concezione e dell’inganno”. Se uno traspone queste parole dal sapiente al destino ed afferma che gli assensi non avvengono per destino, poiché altrimenti anche i falsi assensi, le false concezioni e gli inganni avverrebbero per destino, e dunque gli uomini sarebbero danneggiati per destino; allora la dottrina la quale esclude che il sapiente possa recare danno a qualcuno dimostra contemporaneamente che il destino non è la causa di tutti gli eventi. Pertanto, se gli uomini non si formano delle opinioni per destino e non sono danneggiati per destino, è manifesto che essi neppure ‘per destino’ compiono azioni rette, [1056B] pensano, si formano salde concezioni o giovano a se stessi. E però allora non rimane più nulla della dottrina secondo la quale il destino è la causa di tutte le cose. Chi dice che Crisippo faceva del destino non una causa decisiva di queste cose bensì soltanto una causa predisponente, lo dimostrerà di nuovo in contraddizione con se stesso là dove egli loda in modo sperticato Omero, quando dice di Zeus:
‘Perciò tenetevi quel che di male manda a ciascuno di voi’
oppure di bene. E quando loda Euripide:
‘O Zeus, e perché dovrei chiamare pensanti
i disgraziati mortali? Noi a te siamo agganciati,
e compiamo le cose che a te capita di pensare’.
Lui stesso scrive molte cose del tutto coerenti con queste espressioni, [1056C] ed infine afferma che nulla sta o si muove, neppure di pochissimo, altrimenti che in armonia con la ragione di Zeus, che è identica al destino. Inoltre, il causativo predisponente è più debole di quello decisivo e non perviene all’effetto quando sia tenuto fermo da altri causativi che gli si levano contro. Invece il destino è una causa che egli dichiara invincibile, non soggetta a impedimenti, rigidamente fissata e che lui stesso chiama Atropo, Adrastea, Necessità, Fato, come entità che frappone un limite a tutto. Dunque dobbiamo dire che gli assensi, le virtù, i vizi, le azioni rette, le aberrazioni non sono in nostro esclusivo potere; [1056D] oppure dobbiamo dire che il destino è deficiente, che il Fato è indeterminato e che gli stati di moto e di quiete di Zeus sono inconcludenti? Queste sono le conseguenze del fatto che, in un caso, il destino sia una causa completa e fine in se medesima, e che invece nell’altro caso esso sia soltanto una causa predisponente. Infatti se il destino è causa di tutte le cose, ciò leva di mezzo la possibilità che qualcosa sia in nostro esclusivo potere ed elimina la libera determinazione dell’uomo. Se invece il destino è soltanto una causa predisponente, allora sparisce la possibilità che esso non sia soggetto ad impedimenti e che sia capace di mandare qualcosa a pieno effetto. Non una o due volte soltanto bensì ovunque in tutti i suoi libri di ‘Fisica’, Crisippo ha scritto che per le nature e i movimenti particolari si danno ostacoli e impedimenti, ma non per la natura e il movimento del cosmo nella sua interezza. [1056E] Ma il movimento del cosmo nella sua interezza, il quale si estende a tutti i singoli movimenti particolari, qualora questi siano intralciati ed impediti, come fa a non essere soggetto ad intralci e a non essere soggetto ad impedimenti? L’uomo non è soggetto ad intralci se non sono soggetti ad intralci il suo piede o la sua mano; e neppure il movimento della nave è soggetto ad impedimenti, a meno che non abbiano impedimenti le attività concernenti le vele o il remeggio. A parte questo, se le rappresentazioni non nascono per destino, come può il destino essere causa dei nostri assensi? Se gli Stoici dicono che ciò avviene perché il destino fa rappresentazioni idonee a condurci all’assenso, come può il destino, spesso e su questioni della massima importanza, non essere in contraddizione con se stesso, [1056F] visto che fa nascere in noi rappresentazioni differenti e distrae l’intelletto su giudizi opposti? Quando questo succede, essi dicono che coloro i quali si applicano ad una o all’altra rappresentazione invece di sospendere l’assenso, aberrano. Infatti, se cedono il passo ad immagini dubbie sono precipitosi; se cedono il passo ad immagini false sono mendaci, e se cedono il passo ad immagini genericamente inafferrabili sono opinanti. E tuttavia, essendoci tre alternative possibili, bisogna: o che non ogni rappresentazione sia opera del destino; o che ogni accettazione di una rappresentazione ossia ogni assenso sia al riparo dall’aberrazione; o che neppure il destino in persona sia irreprensibile. [1057A] Io non so infatti come possa essere incensurabile un’entità che fa nascere rappresentazioni tali che si diventa censurabili quando, invece di contraddirle e di essere loro renitenti, le si segue e si cede loro il passo. Nelle polemiche contro gli Accademici, sia per Crisippo che per Antipatro la maggior disputa su cos’era? Sulla possibilità di: “Effettuare un’azione o impellere a qualcosa essendovi inassenzienti; e sul fatto che raccontano favole e fanno vuote ipotesi quanti stimano che, data una rappresentazione appropriata, vi sia subito l’impulso senza che ad essa noi abbiamo ceduto il passo o abbiamo dato l’assenso”. E in appresso Crisippo dice: “La divinità infonde delle rappresentazioni fallaci, e anche il sapiente lo fa, senza che vi sia il bisogno di dare, da parte nostra, assenso o di cedere ad esse il passo, ma soltanto [1057B] di effettuare qualcosa o di impellere a quel che appare. Noi, invece, in quanto siamo insipienti, a causa della nostra debolezza diamo il nostro assenso a siffatte rappresentazioni”. Non è difficile riconoscere la confusione e il mutuo disaccordo di queste dottrine. Chi, sia esso dio oppure il sapiente, non ha bisogno di assensi ma soltanto di azioni da parte di coloro ai quali dà le rappresentazioni, sa che per agire bastano le rappresentazioni e che gli assensi sono ridondanti. Sicché se, pur conoscendo che ad un impulso all’azione non fa riscontro una rappresentazione senza assenso, egli instilla rappresentazioni fallaci e persuasive, è causa volontaria del comportamento precipitoso [1057C] e dell’aberrare di coloro che assentono a rappresentazioni non catalettiche.