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L’ALBERO DELLA DIAIRESI LIBRO IV

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EPITTETO

nuovamente tradotto

da

FRANCO SCALENGHE

I quattro libri delle Diatribe di Epitteto sono né Dialoghi costruiti da Platone a tavolino né Orazioni scritte per sfoggio da Isocrate, ma la fedele registrazione -ad opera di Arriano- di un parlato dal vivo. Io ho cercato di conservare anche in italiano questa loro peculiarità e mi sono mantenuto molto aderente al testo greco. Chi legge lo tenga presente, e legga semplicemente con il “tempo giusto”.

LIBRO IV

Τί οὖν ἔλεγες, ὅτι ἄνθρωπός ἐστιν; μὴ γὰρ ἐκ ψιλῆς μορφῆς κρίνεται τῶν ὄντων ἕκαστον; ἐπεὶ οὕτως λέγε καὶ τὸ κήρινον μῆλον εἶναι. καὶ ὀδμὴν ἔχειν αὐτὸ δεῖ καὶ γεῦσιν: οὐκ ἀρκεῖ ἡ ἐκτὸς περιγραφή. οὐκοῦν οὐδὲ πρὸς τὸν ἄνθρωπον ἡ ῥὶς ἐξαρκεῖ καὶ οἱ ὀφθαλμοί, ἀλλ’ ἂν τὰ δόγματα ἔχῃ ἀνθρωπικά.

“Perché dunque dicevi che è un uomo? Giacché si giudica forse ciascun essere dalla mera conformazione? Dacché, così, dì che anche quella di cera è una mela. Deve anche averne la fragranza ed il gusto, non basta il connotato esteriore. Neppure naso ed occhi sono dunque bastanti a fare l’uomo, se non avrà giudizi da uomo”. (IV,5,19-20)

CAPITOLO 1 
SULLA LIBERTÀ 

Nessun insipiente è libero (1-5)

[IV,1,1] Libero è chi vive come decide, chi non è possibile costringere né impedire né violentare; colui i cui impulsi non sono soggetti ad intralci, i cui desideri vanno a segno, le cui avversioni non incappano in quanto avversano. Chi, dunque, vuole vivere aberrando? -Nessuno- [IV,1,2] Chi vuole vivere ingannandosi, essendo precipitoso, ingiusto, impudente, lagnoso sulla propria sorte, servo nell’animo? -Nessuno- [IV,1,3] Proprio nessuno degli insipienti vive come decide e, quindi, neppure è libero. [IV,1,4] Chi vuole vivere affliggendosi, avendo paura, invidiando, commiserando, desiderando e fallendo, avversando ed incappando in quanto avversa? -Neppure uno- [IV,1,5] Abbiamo dunque qualche insipiente senza afflizione, senza paura, che non incappa in quanto avversa, che non fallisce il segno? -Nessuno- Proprio nessuno, pertanto, libero.

Né nascita né posizione sociale fondano la libertà (6-10)

[IV,1,6] Se uno che è stato due volte console sentirà dire questo, se addizionerai: “Ma tu sei un sapiente, questo non riguarda te”, ti perdonerà. [IV,1,7] Se invece gli dirai la verità: “Quanto al non essere anche tu servo, non differisci per nulla da quelli che sono stati smerciati tre volte”; che altro devi supporre se non botte? [IV,1,8] “Ma come”, dice, “io sono un servo? Mio padre era libero, mia madre libera; di me nessuno ha un contratto di acquisto. Anzi sono pure senatore, sono amico di Cesare, sono stato console ed ho molti servi”. [IV,1,9] Innanzitutto, o ottimo senatore, probabilmente pure tuo padre era servo della medesima servitù, e tua madre, e tuo nonno e di seguito tutti gli avi. [IV,1,10] E se pure loro erano liberissimi, che riguardo ha questo con te? Che riguardo ha, se loro erano generosi e tu sei ignobile; se loro sapevano dominare la paura e tu invece sei un vile; se loro erano padroni di sé e tu invece sei un impudente?

Schiavo è chi ha un padrone… (11-15)

[IV,1,11] -Che c’entra questo, dice, con l’essere servo?- Fare qualcosa nostro malgrado, per costrizione, gemendo, non ti pare nulla riguardo all’essere servo? [IV,1,12] -Questo sia, dice. Ma chi può costringere me se non Cesare, che è Signore di tutti?- [IV,1,13] Dunque tu stesso ammetti di avere un padrone. Il fatto poi, come dici, che sia un padrone comune a tutti, non ti consoli. Riconosci piuttosto di essere servo di una grande casata. [IV,1,14] Anche i Nicopolitani sono soliti acclamare così: “Sì, per la fortuna di Cesare noi siamo uomini liberi!” [IV,1,15] Ugualmente, se lo reputerai, tralasciamo Cesare per il presente, ed invece dimmi: fosti mai innamorato di qualcuno? Una ragazzina, un pupattolo, un servo, un libero?

… o una padrona (16-23)

[IV,1,16] -Che c’entra questo con l’essere servo o libero?- [IV,1,17] Dall’innamorata non ti fu mai ordinato nulla che non volevi? Non adulasti mai il tuo servetto? Non gli baciasti mai i piedi? Eppure, se qualcuno ti costringesse a baciare quelli di Cesare, lo riterresti un oltraggio ed il colmo della tirannia. [IV,1,18] Cos’altro è dunque la servitù? Non partisti mai di notte per dove non volevi? A spendere quanto non volevi ? Dicesti cose mugugnando e gemendo, tollerasti d’essere ingiuriato, sbarrato fuori? [IV,1,19] Ma se ti vergogni di ammetterlo per te, vedi ciò che dice e fa Trasonide il quale, dopo avere condotto cotante campagne militari quante probabilmente neppure tu hai condotto, dapprima è uscito dall’accampamento di notte, quando Geta non ha l’audacia di uscire, mentre se vi fosse da lui costretto sarebbe uscito strepitando improperi e deprecando l’amara servitù. [IV,1,20] E poi cosa dice? *…una ragazzina da quattro soldi, dice, m’ha asservito; io, che nessuno dei nemici mai…* [IV,1,21] Sciagurato, che sei servo di una ragazzina, e di una ragazzina da quattro soldi! Perché dunque ti dici ancora libero? Perché proferisci le tue campagne militari? [IV,1,22] E poi chiede una spada e si esaspera con chi, per benevolenza, non gliela dà; e manda doni a colei che lo odia, e briga e singhiozza e di nuovo si esalta se ha passato un giorno un po’ lieto; [IV,1,23] eccetto che anche allora, come avrebbe costui per sé la libertà se non ha disimparato a smaniare od avere paura?

L’istinto: quanto più si avvicina alla libertà nel caso delle creature strutturalmente aproairetiche (24-28)

[IV,1,24] Analizza come usiamo il concetto di libertà per gli animali. [IV,1,25] Taluni chiudono in gabbia dei leoni addomesticati, poi li nutrono, li pascono, li trasferiscono con sé. Chi dirà che questo leone è libero? Quanto più mollemente se la tragitta, non è tanto più servilmente? Quale leone, se prendesse coscienza e contezza, deciderebbe di essere uno di questi leoni? [IV,1,26] Orsù, e qualora questi volatili vengano presi e siano nutriti in gabbia, cosa non sperimentano cercando di fuggir via? Taluni si rovinano di fame piuttosto di reggere un siffatto modo di tragittarsela. [IV,1,27] Quanti poi si preservano in vita, lo fanno con stento ed esasperazione, deperiscono e, in complesso, se troveranno uno spiraglio balzano via. Così tanto desiderano la naturale libertà e di essere autonomi, non soggetti ad impedimenti! [IV,1,28] Che male c’è per te qui? “Che dici? Io sono nato per volare dove voglio, per passarmela all’aria aperta, per cantare quando voglio: tu mi sottrai tutto questo e dici: ‘Che male c’è per te?’ “.

Una libertà per la quale capita di dare la vita (29-32)

[IV,1,29] Per questo diremo libere soltanto le creature che non sopportano cattura ma che, mentre sono catturate, sfuggono morendo. [IV,1,30] Così anche Diogene dice da qualche parte che il solo accorgimento per conservare la libertà è morire come se niente fosse, e scrive al re dei Persiani: “Non puoi asservire la città degli Ateniesi; non più, dice, che i pesci”. [IV,1,31] “Come? Non li prenderò?” “Se li prenderai,” dice, “ti abbandoneranno e ti spariranno appunto come i pesci. Anche di essi, quello che prenderai muore. Se gli Ateniesi presi da te moriranno, che pro ti è della preparazione alla guerra?” [IV,1,32] Questa è la voce di un uomo libero, che ha indagato la faccenda industriosamente e che, com’è verosimile, ha trovato. Ma se tu cercherai altrove da dov’è, che c’è di stupefacente se non trovi mai la Verità?

Le irresistibili storie di schiavi che non sanno di quale schiavitù siano schiavi (33-40)

[IV,1,33] Il servo auspica di essere lasciato subito libero. Perché? Reputate che smani di dare del denaro agli esattori della tassa del cinque per cento? No. Ma perché immagina di essere intralciato e di non essere sereno a causa dal non avere finora centrato ciò. [IV,1,34] “Se sarò lasciato libero,” dice, “subito tutto è serenità, non mi impensierisco di nessuno, parlo a tutti da pari e simile, procedo dove voglio, vengo onde voglio e dove voglio”. [IV,1,35] Poi viene affrancato e, non avendo di che mangiare, subito cerca chi adulare, da chi pranzare. E poi, o si prostituisce e sperimenta le cose più terribili -e se ne avrà una greppia si è imbattuto in una servitù [IV,1,36] molto più ardua della precedente- oppure, anche trovandosi nella prosperità, da individuo privo del senso del bello si è invaghito di una ragazzina, ed avendo cattiva fortuna prorompe in singhiozzi e brama la servitù. [IV,1,37] “Infatti, che male ne avevo? Un altro mi vestiva, un altro mi calzava, un altro mi nutriva, un altro mi curava quand’ero ammalato ed io gli facevo un po’ da servitore. Ora invece, sciagurato me, cosa non sperimento facendo da servo a molti invece che ad uno solo! [IV,1,38] Ugualmente però,” dice, “ se prenderò gli anelli allora sì, me la passerò serenissimamente e felicissimamente”. Innanzitutto, per prendere gli anelli di cavaliere sperimenta ciò che merita; [IV,1,39] poi, presili, di nuovo è lo stesso. E poi dice “Se condurrò una campagna militare, mi sarei allontanato da tutti i mali”. Conduce una campagna militare, sperimenta quanto sperimenta un tipo da frusta e nondimeno ne chiede una seconda ed una terza. [IV,1,40] Poi qualora sovrapponga il tocco finale e diventi senatore, allora diventa un servo che viene in adunanza, allora è servo della servitù più onorevole e più crassa.

Gli animali, in quanto creature aproairetiche, sono unicamente istintivi. L’essere umano, in quanto creatura proairetica, rimane animale istintivo quando usa o sceglie di usare la controdiairesi; e diventa libero, ossia uomo, unicamente quando impara a giocare correttamente con l’antidiairesi e ad usare con arte la diairesi. Ce lo testimoniano Cesare ed i suoi cortigiani (41-50)

[IV,1,41] Che non sia stupido, che impari ciò che diceva Socrate: ‘il “cos’è” di ciascuna cosa’, e che non adatti a casaccio i pre-concetti alle particolari sostanze! [IV,1,42] Giacché questo è il causativo per gli esseri umani di tutti i mali: l’incapacità di adattare i comuni pre-concetti ai particolari. [IV,1,43] Noi crediamo causativo chi una cosa chi un’altra. Uno che è ammalato. Nient’affatto, ma che non adatta i pre-concetti. Un altro che è un poveraccio, un altro che ha un padre od una madre esasperanti; un altro ancora che Cesare che non è benigno. Questo causativo è invece uno ed uno soltanto: il non saper adattare i pre-concetti. [IV,1,44] Peraltro, chi non ha il pre-concetto di male, che esso è dannoso, che è da fuggirsi, che bisogna disfarsene in ogni modo? [IV,1,45] Pre-concetto non contraddice pre-concetto se non qualora uno venga ad adattarlo. Cos’è dunque questo male, questa cosa dannosa e da fuggirsi? Uno dice: non essere amico di Cesare. Partì, abortì l’adattamento, si opprime, cerca quanto nulla ha a che fare coll’obiettivo: giacché centrato l’essere amico di Cesare, nondimeno non ha centrato quello che cercava. [IV,1,46] Cos’è infatti che ogni persona cerca? Stabilità di giudizi, essere felice, fare tutto come dispone, non essere impedito, non essere costretto. Qualora dunque diventi amico di Cesare, ha cessato di essere impedito, ha cessato di essere costretto, è stabile, è sereno? Da chi cercare di saperlo? Chi abbiamo più degno di fede di colui stesso che ne è diventato amico? [IV,1,47] Vieni nel mezzo e dicci quando dormivi con più dominio dello sconcerto. Ora o prima di diventare amico di Cesare? Subito senti dire: “Cessa, per gli Dei, di burlarti dell’anima mia; non sai cosa non sperimento, sciagurato me! Appena mi viene sonno ed ecco, prima uno poi l’altro vengono a dirmi: Cesare è già sveglio! Cesare viene già avanti! E poi sconcerti, e poi preoccupazioni…” [IV,1,48] Orsù, quando pranzavi con maggior compiacimento: adesso o prima? Ascolta cosa dice anche su questo. Dice che se non sarà chiamato, se ne duole; e se lo sarà, pranza come un servo alla mensa del Signore, facendo nel frattempo attenzione a non dire od a non fare qualche stupidaggine. Di cosa reputi abbia paura? Di essere frustato come un servo? E come potrebbe cavarsela così bene? Ma ha paura, come si confà ad una persona così rilevante, ad un amico di Cesare, di perderci il collo. [IV,1,49] Quando facevi il bagno con più dominio dello sconcerto? Quando ti allenavi con più agio? In totale, quale vita vorresti di più vivere? Quella di adesso o quella di allora? [IV,1,50] Posso giurare che nessuno è così insensibile o bugiardo da non prorompere in lamenti per i propri guai quanto più sarà amico di Cesare.

Ascolta cos’hanno da dire coloro che hanno cercato la Verità e l’hanno trovata: nessun infelice è libero (51-53)

[IV,1,51] -Qualora dunque non vivano come vogliono né quelli detti re né gli amici dei re, chi è ancora libero?- Cerca e troverai. Giacché la natura ti ha dato risorse per il rinvenimento della verità. [IV,1,52] E se non sei capace di trovare il seguito procedendo con queste mere risorse, ascoltalo da coloro che hanno cercato. Cosa dicono? Reputi la libertà un bene? -Il sommo- Può dunque uno che centra il sommo bene essere infelice o finire male? -No- Quanti vedrai dunque essere infelici, non essere sereni, piangere, dichiara con fiducia che non sono liberi. [IV,1,53] -Lo dichiaro- Pertanto ci siamo già ritirati dalla compravendita e da siffatto assegnamento sul patrimonio. Giacché se avessi rettamente ammesso questo, sia un grande re sia uno piccolo, sia chi è stato una volta console sia chi lo è stato due, se sarà infelice non sarà libero. -Sia-

Perfidi megaservi che portano toghe orlate di porpora, maligni microservi in ferie e sillogismi da servi (54-61)

[IV,1,54] Rispondi ancora a questo: reputi la libertà qualcosa di grande e generoso, di rimarchevole? -E come no?- E’ dunque possibile che chi centra un bene così grande e rimarchevole e generoso sia servo nell’animo? -Non è possibile- [IV,1,55] Qualora dunque tu veda qualcuno che si è prostrato davanti ad un altro o che adula contro il proprio parere, dì con fiducia che anche costui non è libero: e non soltanto se lo farà per un pranzetto, ma anche per una provincia od un consolato. E chiama microservi quanti lo fanno per piccoli fini e gli altri, come meritano, megaservi. [IV,1,56] -Sia anche questo- Reputi la libertà qualcosa di incondizionato ed autonomo? -E come no?- Dunque quando è in potere di un altro impedire o costringere qualcuno, dì con fiducia che costui non è libero. [IV,1,57] E non scrutarmi i suoi nonni e bisnonni, non cercare una compravendita; se lo sentirai dire dal di dentro e con passione “Signore!”, anche se dodici verghe lo promuoveranno, dillo servo. Se lo sentirai dire “Sciagurato me, cosa non sperimento!” dillo servo. Se insomma lo vedrai singhiozzare tutto, lagnarsi, non essere sereno: dillo un servo che porta una toga porporata. [IV,1,58] Se poi non farà nulla di ciò, non dirlo ancora libero ma decifra se i suoi giudizi sono soggetti a costrizioni, soggetti ad impedimenti, generatori di non serenità. E se lo troverai siffatto, chiamalo un servo in vacanza durante i Saturnali. Dì che il suo Signore si è messo in viaggio; ma poi giungerà e riconoscerai quel che non sperimenta! [IV,1,59] -Giungerà chi?- Chiunque avrà potestà di procacciare o sottrarre qualcuna delle cose che egli vuole. -Dunque abbiamo così tanti Signori?- Così tanti. Giacché precedenti a questi abbiamo per signori le cose, ed esse sono molte. Per questo è necessario che siano nostri Signori quanti hanno potestà su qualcuna di esse. [IV,1,60] Dacché nessuno ha paura proprio di Cesare, ma ha paura della morte, dell’esilio, della sottrazione di proprietà, della prigione, del difetto di onorificenze. Né qualcuno predilige Cesare, se Cesare non sarà uomo di gran valore, ma prediligiamo la ricchezza di denaro, il tribunato, la pretura, il consolato. Qualora prediligiamo ed odiamo ed abbiamo paura di queste cose, è necessario che quanti hanno potestà su di esse siano nostri Signori. Per questo li riveriamo come Dei. [IV,1,61] Giacché concettualizziamo così: “Quanto ha potestà del massimo giovamento è divino”. Poi subordiniamo malamente: “Costui ha potestà del massimo giovamento”. Di necessità anche quel che ne deriva è inferito malamente. 

Può forse farci liberi qualcosa che è in potere d’altri? No, non può. (62-67)

[IV,1,62] Cos’è dunque che fa l’uomo non soggetto ad impedimenti, incondizionato? Giacché non lo fa la ricchezza di denaro, non lo fanno né il consolato né la provincia né il regno, [IV,1,63] bisogna che si trovi qualcos’altro. Cos’è che fa non soggetto ad impedimenti e ad impacci nello scrivere? -La scienza dello scrivere- E nel suonare la cetra? -La scienza del suonare la cetra- Dunque anche nel vivere, la scienza del vivere. [IV,1,64] Per farla breve, hai sentito. Analizzalo anche nei particolari. E’ fattibile che non sia soggetto ad impedimenti chi prende di mira qualcuna delle cose che sono in potere d’altri? -No- E’ fattibile che costui non sia soggetto ad impacci? -No- [IV,1,65] Dunque neppure è libero. Vedi dunque: abbiamo noi nulla in nostro esclusivo potere, oppure tutto è in nostro esclusivo potere, oppure alcune cose sono in nostro esclusivo potere ed altre in potere d’altri? -Come dici?- [IV,1,66] Qualora tu voglia che il corpo sia integro, è ciò in tuo esclusivo potere o no? -Non è in mio esclusivo potere- E che sia in salute? -Neppure questo- Che sia magnifico? -Neppure questo- Che viva o che muoia? -Neppure questo- Dunque il corpo è allotrio, assoggettato a tutto quanto è più potente di lui. -Sia- [IV,1,67] Ed il fondo, è in tuo esclusivo potere averlo qualora lo voglia e per quanto tempo vuoi e quale lo vuoi? -No- Ed i servetti? -No- Le toghe? -No- La casetta? -No- I cavalli? -Nessuna di queste cose- E se vorrai che i tuoi figlioli o tua moglie o tuo fratello od i tuoi amici vivano ad ogni costo, questo è in tuo esclusivo potere? -Neppure questo- 

C’è qualcosa in nostro esclusivo potere? Sì, c’è (68-75)

[IV,1,68] Dunque nulla hai di incondizionato, che è in tuo potere soltanto o hai qualcosa di siffatto? -Non so- [IV,1,69] Vedi dunque ed analizza la faccenda così. Può forse qualcuno farti assentire al falso? -Nessuno- Dunque, nell’ambito dell’assenso non sei soggetto ad impedimenti e ad intralci. -Sia- [IV,1,70] Orsù, può qualcuno costringerti ad impellere a ciò che non vuoi? – Può. Giacché qualora mi minacci morte o catene mi costringe ad impellere- Ma se spregerai il morire o l’essere messo in catene, ti impensierisci ancora di lui? -No- [IV,1,71] Dunque è opera tua spregiare la morte oppure non tua? -Mia- Tuo è proprio anche l’impellere oppure no? -Sia mio- Ed il repellere qualcosa? Tuo anche questo. [IV,1,72] -E dunque se impellendo io a camminare, quello mi impedirà?- Cosa impedirà di te? Forse l’assenso? -No, ma il corpo- Sì, come un sasso. -Sia, ma io non cammino più- [IV,1,73] E chi ti disse “camminare è opera tua non soggetta ad impedimenti”? Giacché io dicevo non soggetto ad impedimenti soltanto l’impellere. Dove c’è bisogno del corpo e della sua cooperazione, hai sentito dire da tempo che nulla è tuo. -Sia anche questo- [IV,1,74] E può qualcuno costringerti a desiderare ciò che non vuoi? -Nessuno- Qualcuno può costringerti a proporti o progettare qualcosa o, insomma, ad usare le rappresentazioni che ti incolgono? [IV,1,75] -Neppure questo, ma quando desidero mi impedirà di centrare ciò che desidero- Se desidererai qualcuna delle cose tue e non soggette ad impedimenti, come ti impedirà? -In nessun modo- Chi dunque ti dice che chi desidera l’allotrio non è soggetto ad impedimenti?

Prova ad applicare la Verità e non spaventarti delle conseguenze (76-80)

[IV,1,76] -Dunque non devo desiderare la salute del corpo?- Assolutamente no, né null’altro di allotrio. [IV,1,77] Giacché ciò che non è in tuo esclusivo potere apprestare o serbare quando disponi, questo è allotrio. Lungi da esso non soltanto le mani ma prioritariamente il desiderio. Se no trasmettesti te stesso servo, assoggettasti il collo, qualunque sia la cosa non tua della quale ti infatuerai, qualunque delle assoggettate e mortali sia la cosa per cui ti struggi. [IV,1,78] -La mano non è mia?- E’ un tuo membro, ma per natura è argilla soggetta ad impedimenti, soggetta a costrizioni, serva di tutto quanto è più potente di lei. [IV,1,79] Ma perché ti dico “mano”? Il corpo intero devi trattarlo come un asinello oberato per quanto sarà possibile, per quanto sarà dato. E se vi sarà una requisizione ed un soldato lo abbrancherà lascialo andare, non contendere, non brontolare. Se no, dopo avere preso botte nondimeno perderai anche l’asinello. [IV,1,80] Qualora tu debba trattare così il corpo, vedi cosa avanza del resto, di quanto si appresta per il corpo. Qualora il corpo sia un asinello, il resto diventa briglie dell’asinello, basto, ferri, orzo, foraggio. Tralascia anche quello, licenzialo più in fretta e più come se niente fosse dell’asinello.

Fornito della diairesi… (81)

[IV,1,81] Preparato di questa preparazione, esercitato nell’esercizio di distinguere l’allotrio dal peculiare, quanto è soggetto ad impedimenti da quanto non lo è, a ritenere che questo è per te mentre il primo no, ad avere pensosamente qui il desiderio, qui l’avversione: hai forse ancora paura di qualcuno?

…di cosa avrai paura(82-85)

[IV,1,82] -Di nessuno- E per cosa avrai paura? Per quanto è tuo e dov’è per te la sostanza del bene e del male? E chi ha potestà su ciò? Chi può sottrartelo, chi può intralciarti? Non più che intralciare la Materia Immortale, ovvero la Pronoia. [IV,1,83] Paura per il corpo ed il patrimonio? Per l’allotrio? Per quanto nulla è per te? E cos’altro studiavi dall’inizio, se non a distinguere il tuo ed il non tuo, quanto è in tuo esclusivo potere e quanto non lo è, quanto è soggetto ad impedimenti e quanto non lo è? Per cosa venisti dai filosofi? Per essere nondimeno sfortunato ed avere cattiva fortuna? [IV,1,84] Così non saprai dominare la paura e lo sconcerto. Cos’è afflizione per te? Giacché la paura di fatti supposti diventa afflizione quando essi sono presenti. Per cosa smanierai ancora? Di ciò che è proairetico in quanto bello e presente hai un desiderio ben proporzionato e ricostituito, e di ciò che è aproairetico nulla desideri, affinché non trovi posto in te quel certo elemento irragionevole, impetuoso, urgente oltre misura. [IV,1,85] Qualora dunque tu così stia verso le cose, quale persona può ancora farti paura? Cos’ha di pauroso una persona o vista o quando parla o, in complesso, quando gli si relazioni, per un’altra persona? Non più che un cavallo per un cavallo od un cane per un cane od un’ape per un’ape. Ma sono le cose a fare paura a ciascuno di noi: e qualora uno possa procacciarle o sottrarle a qualcuno, allora egli ispira paura.

Il paragone della dissoluzione dell’acropoli che è in noi e della demolizione dell’acropoli della città (86-88)

[IV,1,86] Come si rade al suolo un’acropoli? Non con ferro né fuoco ma con giudizi. Giacché se demoliremo quella nella città, abbiamo forse buttato via anche quella della febbre, quella delle magnifiche femminucce, insomma l’acropoli che è in noi ed i tiranni che sono in noi, che abbiamo tiranni su ciascuno ogni giorno, ora gli stessi, ora altri? [IV,1,87] Di qua si deve iniziare e di qua demolire l’acropoli, espellere i tiranni: tralasciare il corpo, le sue membra, arti e facoltà, il patrimonio, la fama, cariche, onorificenze, figlioli, fratelli, amici, tutto questo ritenere allotrio. [IV,1,88] E se i tiranni saranno espulsi di qua perché, quanto a me, ancora smantellare l’acropoli? Giacché se sta ritta che mi fa? Perché ancora espellerne le guardie? E dove mi accorgo di loro? Contro altri essi hanno le verghe, i giavellotti e i pugnali. 

Io mi riconosco unico responsabile dell’acropoli che è in me, non di quella che è in città (89-90)

[IV,1,89] Io invece non fui mai impedito disponendo, né fui mai costretto non disponendo. Com’è possibile questo? Ho posto il mio impulso al seguito della Materia Immortale, ovvero della Pronoia. Essa dispone che io abbia la febbre: ed io dispongo. Dispone che impella a qualcosa: ed io dispongo. Dispone che desideri: ed io dispongo. Dispone che io centri qualcosa: ed io decido. Non dispone: non decido. [IV,1,90] Dunque dispongo di morire; dunque dispongo di essere torturato. Chi mi può ancora impedire o costringere contro il mio parere? Non più che impedire o costringere Zeus.

Il paragone del viaggiatore accorto, che sa trovare il compagno sicuro (91-98)

[IV,1,91] Così fanno anche i viaggiatori più attenti alla sicurezza. Uno ha sentito dire che la strada è infestata di rapinatori. Non ha l’audacia di lanciarsi da solo, ma attende la comitiva di un ambasciatore o di un questore o di un proconsole e, postosi al seguito, perviene oltre in sicurezza. [IV,1,92] Così fa anche, nell’ordine del mondo, il saggio. “Molti rapinatori, tiranni, tempeste, difetto di mezzi, perdimenti delle cose più care. [IV,1,93] Dove rifugiarsi? Come pervenire oltre senza essere rapinato? Attesa quale comitiva attraversare in sicurezza? [IV,1,94] Di chi porsi al seguito? Del tale ricco di denaro, del consolare? E che pro per me? Lui stesso è spogliato, mugugna, piange. E se il mio stesso compagno di comitiva mi si rigirerà contro e mi rapinerà? [IV,1,95] Che fare? Sarò amico di Cesare, ed essendo suo compagno nessuno commetterà ingiustizie contro di me. Innanzitutto, per diventarlo quanto devo durare e sperimentare, quante volte e da quanta gente essere rapinato! [IV,1,96] E se poi lo diventerò, anche Cesare è mortale. E se per qualche circostanza diventerà mio nemico personale, dov’è meglio arretrare? In un posto isolato? [IV,1,97] Orsù, là non viene la febbre? Che cosa dunque accadrà? Non è possibile trovare un compagno di viaggio sicuro, leale, potente, che non trama insidie?” [IV,1,98] Così riflette e concettualizza che se si porrà al seguito di Zeus attraverserà in sicurezza.

Il nostro solo compagno sicuro è la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, con le sue ottime leggi (99-102)

[IV,1,99] -Come dici ‘porsi al seguito’?- Affinché ciò che Zeus disporrà, anch’egli lo disponga; e ciò che quello non disporrà, neppure lui lo disponga. [IV,1,100] -Come accadrà questo?- Come altrimenti che esaminando gli impulsi ed il governo della Materia Immortale, ovvero della Pronoia? Cosa mi ha dato mio ed incondizionato? Cosa lasciò dietro per sé? Mi ha dato ciò che è proairetico, lo ha fatto in mio esclusivo potere, non soggetto ad intralci, non soggetto ad impedimenti. Ma il corpo fatto d’argilla, come poteva farlo non soggetto ad impedimenti? Subordinò dunque il patrimonio, le suppellettili, la casa, i figlioli, la moglie al ciclo regolare dell’intero. [IV,1,101] Perché, dunque, combattere la Materia Immortale, ovvero la Pronoia? Perché voglio quanto non posso disporre? Perché voglio avere ad ogni costo quanto non mi è dato? Bensì come? Come è dato e per quanto è dato. – Ma chi dà, sottrae- Perché dunque contendere? Non dico che sarò sciocco usando la violenza contro il più potente, ma ancor prima ingiusto. [IV,1,102] Venni al mondo avendolo da dove? -Me lo diede mio padre- E chi a lui? Chi ha fatto il sole, chi i frutti, chi le stagioni, chi la sessualità e la socievolezza gli uni per gli altri?

Il desiderio dell’immortalità personale non è un desiderio da uomini liberi ma da schiavi stolti (103-106)

[IV,1,103] E dopo avere preso tutto quanto da un altro, compreso te stesso, fremi e biasimi il datore, se ti sottrarrà qualcosa? [IV,1,104] Chi sei tu e per cosa sei venuto al mondo? Non è stata la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, ad introdurtici? Non ti mostrò lei la luce? Non ti ha dato dei cooperatori, delle sensazioni, la ragione? Come chi ti introdusse? Non come un essere mortale? Non per vivere sulla terra con un po’ di carne, per osservare il suo governo, far parte del suo corteo e fare festa insieme per un poco? [IV,1,105] Non vuoi dunque, sinché ti è stato dato, osservare il corteo e la sagra e poi, qualora ne sloggi, procedere riverendo e ringraziando per quanto udisti e vedesti? “No, ma volevo fare ancora festa”. [IV,1,106] Anche gli iniziati essere iniziati, probabilmente pure chi è ad Olimpia scorgere altri atleti. Ma la sagra ha un termine. Esci, allontanati da uomo grato, da rispettoso di sé e degli altri. Dà posto ad altri. Anche altri devono nascere appunto come nascesti tu e, nati, avere territorio e dimore e provviste. Se i primi non scemeranno, cosa sopravanza? Perché sei insaziato? Perché sei deficiente? Perché angusti l’ordine del mondo?

Se il tutto non fa per te: vattene! (107110)

[IV,1,107] -Sì, ma voglio che figlioli e moglie siano con me- Giacché sono tuoi? Non sono del datore? Non sono di chi ha fatto anche te? E poi non ti ritrarrai dall’allotrio? Non darai spazio al migliore? [IV,1,108] -Perché la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, mi introdusse a questo patto?- Se non fa per te, esci. Essa non ha bisogno di uno spettatore lagnoso. Ha bisogno di quelli che con lei fanno festa e danzano, affinché piuttosto battano le mani, la invochino come divinità ed inneggino alla sagra. [IV,1,109] Gli indolenti ed i vili essa li vedrà, non spiacevolmente, lasciati addietro dalla sagra; giacché, da astanti, non se la passavano come in una festa né assolvevano l’ufficio loro confacente ma si dolevano, biasimavano i loro geni, la fortuna, i sodali; incoscienti di quanto ottennero e delle facoltà stesse che hanno ricevuto per le contrarietà, della magnanimità, della generosità, della virilità, della stessa ora cercata libertà. [IV,1,110] -A quale scopo, dunque, ho ricevuto le cose aproairetiche? -Per usarle. -Fino a quando?- Finché il prestatore disporrà. -E se mi saranno necessarie?- Non struggerti per esse e non lo saranno; non dire a te stesso che sono necessarie ed esse non lo sono. 

Un ottimo esercizio quotidiano (111-113)

[IV,1,111] Questo è lo studio che bisognerebbe studiare dal mattino alla sera. Iniziando dalle cose più piccole, dalle più fragili: da una pentola, da una tazza; e poi va così innanzi alla tunichetta, ai cagnolini, ai cavallini, al fondicello; e di qua a te stesso: al corpo, alle parti del corpo, ai figlioli, alla moglie, ai fratelli. [IV,1,112] Guàrdatele attorno ovunque, scaraventale via da te. Ripulisci i giudizi, se mai ti è rimasto appiccicato qualcosa di non tuo, così che non si connaturi, così che non ti dolga quando sarà spiccato. [IV,1,113] E se ti alleni ogni giorno, come fai laggiù al ginnasio, non dire che fai filosofia (sia il nome importuno) ma che dai un emancipatore, giacché questo è davvero la libertà. 

La libertà e Diogene (114-117)

[IV,1,114] Per questa via Diogene fu liberato da Antistene, e diceva di non poter più essere asservito da nessuno. [IV,1,115] Per questo, come trattò i pirati quando fu catturato: disse mai a qualcuno di loro “Signore”? E non parlo del nome, giacché non ho paura delle parole, ma della passione da cui scaturisce la parola. [IV,1,116] Come li rimproverava perché nutrivano male i catturati! E come, quando fu smerciato: cercava forse un “Signore”? Ma un servo. E come, smerciato, si conduceva col padrone. Subito discorreva con lui che non doveva abbigliarsi così, non doveva essersi tosato così e, circa i figli, come dovevano passarsela. [IV,1,117] E che c’è di stupefacente? Giacché se quel tale avesse comperato un istruttore di ginnastica, lo avrebbe trattato da servitore o da signore in questioni di palestra? Ed allo stesso modo se avesse comperato un medico od un architetto. Così su ciascun materiale è del tutto necessario che l’esperto padroneggi l’inesperto. 

Il possesso della scienza del vivere e la libertà (118-119) 

[IV,1,118] Ed in generale se uno possiede la scienza del vivere, che altro deve se non essere lui il padrone? Chi è infatti signore su una nave? -Il pilota- Perché? -Perché chi gli disubbidisce è punito- [IV,1,119] Ma può farmi conciare? -Forse che lo può senza punizione?- Così anch’io giudicavo. E poiché non può senza punizione, per questo non ne ha la potestà. Commettere ingiustizia per nessuno è senza punizione. 

Chi non possiede la scienza del vivere ha in ciò stesso la sua punizione (120-122)

[IV,1,120] -E qual è la punizione per chi, se lo reputerà, fa incatenare il proprio servo?- Il farlo incatenare. Questo è ciò che ammetterai anche tu, se vorrai salvaguardare il giudizio che l’uomo non è una belva ma una creatura mansueta. [IV,1,121] Peraltro, quando una vite finisce male? Qualora finisca contro la propria natura. Ed un gallo? Allo stesso modo. [IV,1,122] Dunque anche un uomo. E qual è la sua natura? Mordere, tirare calci, buttare in prigione e decapitare? No, ma fare bene, cooperare, augurare del bene. Dunque allora finisce male, lo vorrai o no, qualora egli operi da scriteriato.

La felicità di Socrate e l’infelicità dei suoi accusatori e dei suoi giudici (123-127)

[IV,1,123] -Sicché Socrate non finì male?- No, ma piuttosto i giudici e gli accusatori. -Neppure Elvidio, a Roma?- No, ma chi lo fece uccidere. [IV,1,124] -Come dici?- Come anche tu dici che non finisce male il gallo vincitore, pur se a pezzi; ma lo sconfitto, pur se illeso. Né feliciti il cane che non insegue la preda e non fatica, ma qualora lo veda sudato, affannato, spezzato dalla corsa. [IV,1,125] Perché diciamo un paradosso se diciamo che male di ognuno è quanto è contrario alla sua natura? E’ un paradosso questo? Tu non lo dici per tutte le altre creature? Perché soltanto per l’uomo ti porti altrimenti? [IV,1,126] Ma poiché diciamo che la natura dell’uomo è mansueta, altruista, leale, questo non è un paradosso. -No, non lo è- [IV,1,127] -Dunque come non è danneggiato pur se viene conciato o incatenato o decapitato?- Non è così se lo sperimenta generosamente e parte traendone insieme guadagno e giovamento, mentre danneggiato è colui che sperimenta le cose più deplorevoli e vergognose; chi, invece di un uomo, è diventato lupo, vipera o vespa. 

Un riassunto memorabile (128-131)

[IV,1,128] Orsù dunque, veniamo ai punti ammessi. Libero è l’uomo non soggetto ad impedimenti, cui le faccende sono a portata di mano come decide. Invece, chi è possibile impedire o costringere od intralciare o sbattere in qualcosa suo malgrado, è servo. [IV,1,129] Chi non è soggetto ad impedimenti? Chi non prende di mira nulla di allotrio. Cos’è allotrio? Ciò che non è in nostro esclusivo potere avere o non avere od avere con certe qualità od in un certo stato. [IV,1,130] Pertanto allotrio è il corpo, allotrie sono le parti del corpo, allotrio è il patrimonio. Se dunque ti struggerai per qualcuna di queste cose come tua peculiare, pagherai il fio che merita chi prende di mira l’allotrio. [IV,1,131] Questa strada conduce alla libertà, questa sola è scampo dalla servitù: poter dire una volta con l’animo intero * Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato, là dove sono stato da voi una volta ordinato *.

Il saggio sa prendere decisioni sul bene e sul male anche a colpo d’occhio (132-134)

[IV,1,132] Ma che dici, o filosofo? Il tiranno ti chiama a dire una di quelle cose che non ti si confanno. La dici o non la dici? Dimmelo. -Lasciami analizzare- Adesso la analizzi? Quand’eri a scuola, cosa analizzavi? Non studiavi cos’è bene, cos’è male e cos’è udetero? -Analizzavo questo- [IV,1,133] Quali conclusioni gradivate? -Che il giusto ed il bello sono beni; l’ingiusto ed il brutto, mali- Forse che vivere è un bene? -No- Forse che morire è un male? -No- Forse lo è la prigione? -No- Invece un discorso ignobile e sleale, il tradimento di un amico, l’adulazione di un tiranno, cosa vi apparivano? -Mali- [IV,1,134] E dunque? Non analizzi ora, non analizzasti né hai preso consiglio allora. Quale analisi: se è doveroso che, potendolo, mi procacci i più grandi beni e non mi procacci i più grandi mali? Magnifica analisi, necessaria e bisognosa di molta deliberazione! Perché ti burli di noi, o uomo? Siffatta analisi non accade mai. 

Invece tu ondeggi e dici a scuola una cosa, fuori scuola un’altra (135-138) 

[IV,1,135] Non saresti giunto a questa riflessione, e neppure vicino ad essa, se immaginassi davvero che male è il brutto e che il resto è udetero. Ma immantinente avresti di che distinguere, come con la vista, così con l’intelletto. [IV,1,136] Quando analizzi se il nero è bianco, se il pesante è leggero? Non aderisci a quanto appare con evidenza? Dunque, come dici ora di analizzare se l’udetero sia da fuggirsi più del male? [IV,1,137] Ma non hai questi giudizi e queste cose -morte e prigione- non ti paiono udeteri bensì i sommi mali. Né quelle -un discorso ignobile e sleale, il tradimento di un amico, l’adulazione di un tiranno- mali, bensì nulla che ci riguarda. [IV,1,138] Giacché dall’inizio ti sei abituato così: “Dove sono? A scuola. Chi mi sente? Parlo con i filosofi. Ma sono uscito dalla scuola: rimuovi quei giudizi di scolari e di stupidi!”

Contraddizione tra teoria e prassi? Nient’affatto! (138-140)

Così un amico ha contro di sé la testimonianza di un filosofo; [IV,1,139] così un filosofo diventa un parassita; così uno si affitta per denaro ed in Senato qualcuno non dice il proprio parere. E dall’interno grida a squarciagola il suo giudizio, [IV,1,140] non una gelida e disgraziata concezioncella dipendente da ragionamenti avventati come da un pelo, ma una concezione potente, atta all’uso, iniziata dall’allenamento attraverso le opere. 

Uomini e vermi (141-143)

[IV,1,141] Sta in guardia, come senti dire-non dico: che morì il tuo bimbo; come reagiresti?- ma che fu versato il tuo olio, fu tracannato il vino; [IV,1,142] ché qualcuno, standoti accanto mentre sei furibondo, ti dica solo questo: “O filosofo, a scuola dici altro. Perché ci inganni? Perché dici di essere un uomo mentre sei un verme?” [IV,1,143] Vorrei stare accanto a qualcuno di loro mentre si accoppia, per vedere com’è teso e quali accenti si lascia scappare, se si ricorda del suo nome, dei discorsi che ascolta o dice, o legge.

Le servitù della gente ricca di denaro o di cariche, che sol per questo si crede libera (144-150)

[IV,1,144] -Cos’ha a che fare questo con la libertà?- Nient’altro che questo ha a che fare con la libertà, lo vogliate o no voi ricchi di denaro. [IV,1,145] -E chi te lo testimonia?- Chi altro se non voi stessi, che avete il Grande Signore e vivete al suo cenno e movimento; che venite meno se soltanto guarderà uno di voi con sguardo stringato; che accudite vecchie signore e vecchi arnesi e dite: “Non posso fare questo: non ne ho la potestà”.? [IV,1,146] Perché non ne hai la potestà? Non mi contraddicevi testé dicendo di essere libero? “Ma Aprulla mi ha impedito!” Dì dunque la verità, servo; e non svignartela dai tuoi Signori, non rinnegare, non avere l’audacia di dare un emancipatore quando hai cotanti controlli della tua servitù! [IV,1,147] Eppure si concepirebbe ancora più degno di perdono chi è costretto dalla passione amorosa a fare qualcosa contro il proprio parere ed insieme vede quel che sarebbe meglio per lui ma non ha la tensione per seguirlo, in quanto è rattenuto da qualcosa di violento ed in certo modo divino.[IV,1,148] Ma chi ti tollererebbe quando fai l’innamorato di vecchie signore e vecchi arnesi, li smocci, li risciacqui, fai loro dei doni e mentre -quando sono ammalati- li curi come un servo, insieme auspichi che muoiano e consulti i medici per sapere se sono già in fin di vita? O di nuovo qualora, per queste grandiose e solenni cariche ed onorificenze, baci le mani dei servi altrui per essere servo neppure di gente libera? [IV,1,149] E poi mi cammini dinanzi solenne, nella carica di pretore, di console. Non so come diventasti pretore, donde prendesti il consolato, chi te lo diede? [IV,1,150] Io non disporrei neppure di vivere se bisognasse vivere per l’intercessione di Felicione, tollerando il suo cipiglio e la sua servile arroganza: giacché so cos’è un servo che ha quella che sembra fortuna e se ne vanta.

Un uomo libero? Diogene (151-158)

[IV,1,151] -Ma tu, dice, sei libero?- Lo voglio sì, per gli dei; e lo auspico. Ma non posso ancora guardare in faccia i Signorionoro ancora il corpo; faccio gran conto dell’averlo integro seppure integro non l’ho. [IV,1,152] Ma posso mostrarti un uomo libero, affinché non cerchi più il paradigma. Diogene era libero. Donde questo? Non perché era nato da genitori liberi, infatti non lo era; ma perché lo era lui, perché aveva buttato via tutti i manici della servitù e non v’era come venirgli innanzi né onde prendere per asservirlo. [IV,1,153] Da tutto poteva sciogliersi facilmente, tutto gli era soltanto appiccicato. Se tu lo avessi abbrancato per il patrimonio te lo avrebbe lasciato, piuttosto di seguirti per causa sua. Se per una gamba, ti avrebbe lasciato la gamba; se per il corpo intero, l’intero corpo; familiari, amici, patria allo stesso modo. Sapeva donde e da chi li aveva ed a che patto li aveva presi. [IV,1,154] Gli avi veraci, gli dei, e la patria effettiva non li avrebbe mai disertati; né avrebbe dato spazio ad un altro per più ubbidienza e sottomissione ad essi, né un altro sarebbe morto per la patria più come se niente fosse di lui[IV,1,155] Giacché non cercava di sembrar fare qualcosa a favore dell’intero, ma ricordava che tutto quel che accade viene di là, è effettuato a favore di quella patria e tramandato dalla legge che la governa. Appunto perciò vedi cosa dice e scrive egli stesso: [IV,1,156] “Per questo,” dice, “hai la potestà, Diogene, di dialogare come decidi sia con il re dei Persianiche con Archidamo, re degli Spartani”. [IV,1,157] Perché era nato da genitori liberi? Tutti gli Ateniesi, tutti gli Spartani ed i Corinzi non potevano dialogare con quei re come volevano ma, per essere figli di servi, li temevano ed accudivano? [IV,1,158] Perché dunque, dice, ne ha la potestà? “Perché non ritengo mio il corpo, perché non ho bisogno di alcuno, perché la legge e nient’altro è tutto per me”. Questo era quanto gli permetteva di essere libero.

Un altro uomo libero? Socrate (159-166)

[IV,1,159] Ma perché non reputi che io mostro un paradigma di uomo solitario, che non ha né moglie né figlioli né patria od amici o congeneridai quali potrebbe essere piegato e distratto, prendi Socrate ed osserva uno che ha moglie e bimbi -anche se come allotrii-, patria, -quanto e come bisognerebbe averla- amici e congeneri; il quale ha subordinato tutto questo alla legge ed alla obbedienza verso la legge. [IV,1,160] Per questo, quando bisognava condurre una campagna militare, se ne andava per primo e là correva pericoli senza minimamente risparmiarsi. Quando fu mandato dai Tiranni contro Leonte, poiché lo riteneva brutto, neppure si consigliò, pur sapendo che avrebbe dovuto caso mai morire. [IV,1,161] E che differenza gli faceva? Giacché disponeva di salvare qualcos’altro: non la carne ma l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri. Questo è intangibile, insubordinabile. [IV,1,162] E poi quando doveva parlare in difesa della propria vita, si conduce forse come uno che ha figlioli e moglie? No, ma come uno che è solo. E quando doveva bere il veleno, come si conduce ? [IV,1,163] Potendo preservarsi in vita e dicendogli Critone: “Esci per i tuoi bimbi”, cosa dice Socrate? Lo riteneva un colpo di fortuna? Donde? Ma considera il decoroso, ed il resto non vede né calcola. Giacché non voleva, dice, salvare il corpo, ma quello che è accresciuto e salvato dal giusto, mentre è diminuito e mandato in malora dall’ingiusto. [IV,1,164] Socrate non si salva in modo vergognoso, lui che non fece votare benché gli Ateniesi lo intimassero, lui che disdegnò i Tiranni, lui che dialoga a quel modo su virtù ed essere uomo.[IV,1,165] Salvaguardare quest’uomo non è possibile con un’azione vergognosa; quest’uomo si salvaguarda morendo, non fuggendo. Giacché anche il buon attore si salvaguarda cessando quando deve, piuttosto che recitando fuori tempo. [IV,1,166] Dunque cosa faranno i bimbi? “Se io me ne andassi in Tessaglia, voi vi sareste presi cura di loro; se invece mi metto in viaggio per l’Ade, non vi sarà nessuno a prendersene cura?” Vedi come vezzeggia e schernisce la morte!

Cosa avremmo fatto noi al posto di Socrate? (167-169)

[IV,1,167] Se invece fossimo tu ed io, subito avremmo filosofeggiato “Bisogna difendersi dagli ingiusti alla pari” ed addizionato “Salvo, sarò di pro a molte persone; morto, a nessuno” e se proprio bisognava sgusciare per un buco, di là saremmo usciti. [IV,1,168] E come avremmo giovato a qualcuno? Dove avremmo giovato rimanendo ancora lì? E se da vivi avessimo giovato, non avremmo giovato alla gente molto di più morendo quando bisognava e come bisognava? [IV,1,169] Ora che Socrate è morto, il ricordo di quanto effettuò o disse da vivo non è meno giovevole alla gente, anzi lo è anche di più.

Alza lo sguardo a questi modelli (170-175)

[IV,1,170] Studia questo, questi giudizi, questi discorsi; tieni gli occhi a questi paradigmi se disponi di essere libero, se smani secondo il merito della faccenda. [IV,1,171] E che c’è di stupefacente se una faccenda così rilevante la comperi a costi tanto grandi e rilevanti? Per questa legittima libertà alcuni si impiccano, altri si gettano in un precipizio e talvolta città intere andarono in malora. [IV,1,172] E per la libertà verace, che non trama insidie, sicura, non restituirai alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia, quel che ha dato, quando essa lo richiederà? Come dice Platone, non studierai non soltanto a morire, ma anche ad essere torturato, andare in esilio, essere conciato ed insomma restituire l’allotrio? [IV,1,173] Sarai quindi servo tra servi anche se sarai console diecimila volte; anche se salirai sul Palatino sarai nondimeno un servo. E ti accorgerai che i filosofi dicono forse paradossi, appunto come diceva pure Cleante, ma non certo illogicità. [IV,1,174] Giacché saprai nei fatti che sono verità e che di queste cose ammirate ed oggetto di industria, pro alcuno non v’è per coloro che le centrano. Coloro che non le hanno ancora centrate si rappresentano che, divenute esse presenti, presenzieranno loro tutti i beni. E poi qualora presenti divengano, pari è la calura, l’irrequietezza è la stessa, la noia pure e pure la smania di quanto non hanno. [IV,1,175] Giacché la libertà non è apprestata dall’assolvimento di ciò per cui smaniamo ma dal disapprestamento della smania.

La libertà si ottiene rimuovendo la smania di ottenere quanto non è in nostro esclusivo potere, ossia vegliando per ottenere il giudizio diairetico (176-177)

[IV,1,176] Ed affinché tu sappia che questo è vero, come hai faticato per quelle, così alloga la fatica anche su queste: veglia per procacciarti il giudizio liberatorio. [IV,1,177] Accudisci un filosofo, invece di un vecchio danaroso. Fatti vedere alle sue porte. Visto, non farai l’indecente; non partirai vuoto e senza guadagno, se ci sarai venuto come si deve. Se no, almeno prova: non è vergognosa la prova.

CAPITOLO 2
SULLA COMPIACENZA

Chi viene alla mia scuola deve imparare non ad essere accomodante a tutti i costi ma a giocare razionalmente con diairesi ed antidiairesi (1-6)

[IV,2,1] Su questo terreno, prima di tutto devi fare attenzione a non rimescolarti mai con qualcuno dei precedenti intimi od amici così da condiscendere con lui alle medesime cose. Se no, perderai te stesso. [IV,2,2] Se ti si insinuerà il pensiero: “Gli apparirò maldestro e non mi tratterà più similmente a prima”, ricorda che nulla accade gratis e che non è possibile, non facendo le stesse cose, essere lo stesso di una volta. [IV,2,3] Scegli dunque se disporre di essere similmente prediletto da quelli di prima, rimanendo simile al te stesso di prima oppure, essendo migliore, di non centrare più il pari. [IV,2,4] Giacché se questo è meglio, immantinente stornati su questo e non ti distraggano altre perplessità. Nessuno che faccia il doppio gioco può fare profitto e, se hai predeterminato tutto per questo, se vuoi essere per questo solo, prodigarti per esso, tralascia tutto il resto. [IV,2,5] Se no, questa ambivalenza farà sì che tu non faccia profitto secondo il merito e che non centri più quello che centravi prima. [IV,2,6] Prima, infatti, avendo tu francamente di mira cose di nessun valore, eri piacevole ai sodali. 

Cosa scegli tra essere ubriacone ma bene accetto, o sobrio ma male accetto? (7-9)

[IV,2,7] Però non puoi differenziarti in entrambi gli aspetti, ma è necessario che per quanto ti accomuni in uno ti lasci addietro nell’altro. Se non bevi insieme a coloro con i quali bevevi, non puoi apparire loro piacevole. Scegli, dunque, se disponi di essere ubriacone e piacevole a quelli oppure sobrio ma spiacevole. Se non canti con coloro con i quali cantavi, non puoi essere similmente prediletto da loro. Dunque scegli anche qui cosa vuoi. [IV,2,8] Se essere rispettosi di sé e degli altri e composti è meglio del fatto che uno dica “piacevole persona”, tralascia il resto, disperane, distoglitene, nulla vi sia tra te ed esso. [IV,2,9] Se non gradirai questo, inclina intero all’opposto: diventa uno dei cinedi, uno degli adulteri, fa’ il seguito e centrerai quel che vuoi. E balza su a strepitare al ballerino! 

La scelta è comunque inevitabile (10)

[IV,2,10] Personaggi così differenti non si mischiano: non puoi recitare sia Tersite sia Agamennone. Se disporrai di essere Tersite devi essere gobbo e calvo. Se Agamennone, devi essere grande, magnifico ed amorevole coi subordinati.

CAPITOLO 3
COSA BISOGNA PERMUTARE CON COSA? 

Non ci perdi affatto se scambi un po’ di denaro con una bella azione (1-3) 

[IV,3,1] Qualora abbandoni qualcuno degli oggetti esterni, abbi a portata di mano il pensiero di quel che ti procacci al posto suo. E se sarà di maggior valore, non dire mai: “Sono stato punito”. [IV,3,2] Non sei stato punito se al posto di un asino ti procacci un cavallo, al posto di una pecora un bue, al posto di quattrini una bella azione, al posto di freddi discorsi una quiete quale deve essere, al posto del turpiloquio il rispetto di te e degli altri. [IV,3,3] Memore di ciò, preserverai ovunque il tuo ruolo quale devi averlo. Se no, considera che perdi tempo a casaccio e che le attenzioni che ora presti a te stesso stai per versarle fuori e sovvertirle tutte quante. 

Il passaggio dalla diairesi alla controdiairesi e viceversa non è che un piccolo distoglimento della ragione…(4-7)

[IV,3,4] C’è bisogno di poco per la perdita ed il sovvertimento di tutto: un piccolo distoglimento della ragione. [IV,3,5] Per far capovolgere il bastimento, il pilota non ha bisogno della medesima preparazione che per salvaguardarlo. Se volterà un poco di fianco al vento, va in malora. E se rallenterà un poco l’attenzione, anche suo malgrado, va in malora. [IV,3,6] Qualcosa di siffatto accade anche qua. Se sonnecchierai un poco, tutto quanto hai raccattato finora parte. [IV,3,7] Fa dunque attenzione alle rappresentazioni; vegliaci su, ché non è piccolo il tesoro serbato: è il rispetto di te e degli altri, è la lealtà, la stabilità di giudizio, è il dominio sulle passioni, sulle afflizioni, sulla paura, sullo sconcerto, insomma è la libertà.

Se tu vali più di tutto l’oro del mondo, per cosa ti venderai? (8-10)

[IV,3,8] Per cosa stai per venderle? Ravvisa quanto valgono. -Ma non centrerò qualcosa di siffatto a quel che ottiene lui!- Ma centrandolo egli, ravvisa cosa fa suo. [IV,3,9] “Io una bella compostezza, lui un tribunato. Lui una pretura, io il rispetto di me stesso e degli altri. Non gracchio dove non è confacente; non mi alzerò quando non si deve. Giacché sono libero ed amico di Zeus, per ubbidirgli di buon grado. [IV,3,10] Quanto al resto non devo pretendere nulla: non il corpo, non il patrimonio, non una carica, non la fama; insomma nulla, giacché egli decide che io non li pretenda. Se infatti così disponesse, li avrebbe fatti beni per me. Invece tali non li ha fatti: per questo non posso violare alcuna delle sue istruzioni”. 

Ed accontentati di usare razionalmente, secondo la natura delle cose, degli oggetti esterni (11-12)

[IV,3,11] Serba il tuo bene in ogni circostanza e, quanto al resto, serbalo secondo che è dato fino ad operare razionalmente con esso, ed accontentati di questo soltanto. Se no avrai cattiva fortuna, sarai sfortunato, sarai impedito, sarai intralciato. [IV,3,12] Queste sono le leggi che sono state inviate di là, queste le costituzioni. Di queste devi diventare interprete, a queste subordinato; non a quelle di Masurio e Cassio.

CAPITOLO 4
A QUANTI SI INDUSTRIANO PER PASSARSELA IN QUIETE

Smaniare per avere un qualunque oggetto esterno oppure smaniare per non averlo non fa gran differenza. In entrambi i casi mostriamo di non conoscere l’arte di usarlo rettamente per godere serenità (1-5)

[IV,4,1] Ricordati che non è soltanto la smania di cariche e della ricchezza di denaro a fare servi nell’animo e subordinati ad altri, ma anche la smania di quiete, di agio, di mettersi in viaggio, di erudizione. Insomma quale che sarà l’oggetto esterno, il suo prezzo subordina ad un altro. [IV,4,2] Dunque che differenza fa smaniare per il Senato e per non essere senatore? Che differenza fa smaniare per una carica o per non averla? Che differenza fa dire “Sto male, non ho nulla da effettuare ma sono vincolato ai libri come un cadavere”, o dire “Sto male, non ho comodità di leggere”? [IV,4,3] Giacché come ossequi e cariche sono oggetti esterni ed aproairetici, così è anche un libro. [IV,4,4] Perché vuoi leggere? Dimmelo. Se infatti ti ci rovesci perché l’animo ne è cattivato od impari qualcosa, sei freddo ed indolente. Se invece lo riferisci a ciò che si deve, che altro è questo se non la serenità? E se leggere non ti procaccia serenità, che pro di esso? [IV,4,5] -La procaccia, dice, e per questo fremo dovendolo abbandonare- E che serenità è questa che chi capita può intralciare, non dico Cesare od un amico di Cesare ma un corvo, un flautista, una febbre e trentamila altre cose? Alla serenità nulla appartiene tanto, quanto la continuità ed il non essere soggetta ad intralci.

Come smettere di conseguire sempre gli stessi insuccessi? (6-7)

[IV,4,6] Sono chiamato ora ad effettuare una certa cosa. Vi andrò ora con il proposito di fare attenzione alle misure che bisogna serbare, ossia con rispetto di me e degli altri, con sicurezza, prescindendo da desiderio ed avversione per gli oggetti esterni e, orbene, [IV,4,7] faccio attenzione alle persone, a cosa dicono, a come si muovono; e questo non con malignità né per avere di che denigrare o deridere, ma per voltarmi su me stesso, se aberro anch’io delle medesime aberrazioni. “Come cessare, dunque?” Allora anch’io aberravo; ora non più, grazie a Zeus…

Non si vive per studiare ma si studia per vivere bene (8-13)

[IV,4,8] Orsù, fatto questo e venuto a queste faccende, hai fatto opera peggiore che leggere mille righe o scriverne altrettante? Qualora mangi, ti adonti perché non leggi? Non ti accontenti di mangiare secondo quel che hai letto? Qualora faccia un bagno caldo? Qualora ti alleni? [IV,4,9] Perché dunque non sei lo stesso in ogni caso, sia qualora ti avvicini a Cesare, sia qualora ti avvicini al tale? Se serbi l’uomo che sa dominare le passioni, dominare lo spavento, l’uomo calmo; [IV,4,10] se scorgi quanto accade piuttosto che essere scorto, se non invidi quanti ti vengono anteposti, se i materiali dell’esistenza non ti sbigottiscono: che ti manca? [IV,4,11] Dei libri? Come e per cosa? Questa dei libri non è infatti una preparazione per il vivere? Ma il vivere è completato da altre cose che i libri. Come se un atleta, mentre va dentro lo stadio, singhiozzasse perché non se ne sta allenando fuori. [IV,4,12] E’ per queste gare che ti allenavi; erano per questo i manubri, la rena, i giovanotti. E adesso cerchi quelle cose quando è tempo dell’opera? [IV,4,13] Come se nell’ambito dell’assenso, riscontrandosi rappresentazioni alcune catalettiche ed altre acatalettiche, noi disponessimo non di distinguerle ma di leggere i libri “Sull’apprensione certa”.

Noi invece studiamo non per vivere bene ma tutt’al più per illustrare ad altri quanto abbiamo studiato (14-18)

[IV,4,14] Cos’è dunque il causativo di ciò? Che mai leggemmo per questo, mai scrivemmo per questo, per usare secondo la natura delle cose, nelle opere, le rappresentazioni che ci incolgono, ma ci esauriamo nell’imparare cos’è detto e nel poterlo spiegare ad un altro, nel risolvere un sillogismo, nel perlustrare un ragionamento ipotetico. [IV,4,15] Per questo laddove è l’industria, là pure è l’intralcio. Vuoi ad ogni costo quanto non è in tuo esclusivo potere? Sii quindi impedito, sii intralciato, fallisci! [IV,4,16] Se noi invece leggessimo i libri “Sull’impulso” con lo scopo, non di vedere cosa vi si dice sull’impulso ma per impellere bene; ed i libri “Sul desiderio e sull’avversione” per non fallire desiderando né, avversando, incappare in quanto avversiamo; ed i libri “Sul doveroso” affinché, memori delle relazioni sociali, nulla facciamo irragionevolmente né di contrario ad esse: [IV,4,17] ebbene, non fremeremmo quando siamo intralciati nelle letture ma ci accontenteremmo di esplicare le opere consone; e non numereremmo quel che siamo abituati a numerare finora “Oggi lessi tante righe, tante ne scrissi”, [IV,4,18] ma diremmo: “Oggi usai l’impulso com’è prescritto dai filosofi, non usai il desiderio, usai l’avversione soltanto verso ciò che è proairetico, non fui atterrito dal tale, non persi sicurezza di fronte al tale, allenai la mia capacità di tollerare l’intemperanza altrui, quella di astenermene, la cooperatività”, e così ringrazieremmo la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, per ciò per cui si deve ringraziare.

Se gli oggetti esterni non sono beni essi non sono, però, neppure mali e si possono chiamare con piena ragione “udeteri” (19-22)

[IV,4,19] Ora non sappiamo di diventare noi pure, sebbene in altro modo, simili ai più. Un altro ha paura di non occupare cariche; tu di occuparle. Assolutamente no, o uomo! [IV,4,20] Ma come deridi chi ha paura di non occupare cariche, deridi così anche te stesso. Giacché non fa differenza avere sete perché si ha la febbre oppure essere idrofobo perché ammalato di rabbia. [IV,4,21] O come potrai ancora dire con Socrate “Se così piace a Zeus, così sia”? Se Socrate smaniasse di oziare nel Liceo o nell’Accademia e di discorrere ogni giorno con i giovani, reputi che avrebbe condotto come se niente fosse tutte le campagne militari che condusse? Non si rammaricherebbe e non gemerebbe “Sciagurato me! Adesso sono qua meschino e sfortunato mentre potrei prendere il sole nel Liceo”? [IV,4,22] Era questa l’opera sua: prendere il sole? Non era invece essere sereno, non soggetto ad impedimenti, non soggetto ad impacci? E come sarebbe ancora Socrate se si rammaricasse per questo? Come scriverebbe ancora peani in prigione?

Dare un valore sbagliato qualunque, positivo o negativo, agli oggetti esterni significa mettere in moto la controdiairesi e quindi rendere serva la proairesi (23-28)

[IV,4,23] Insomma ricordati che qualunque cosa onorerai al di fuori della tua propria proairesi, mandi in malora la proairesi. E fuori non c’è soltanto una carica ma anche l’assenza di una carica, non soltanto l’impegno ma anche l’agio. [IV,4,24] “Dunque ora io tragittarmela in questo trambusto?” Perché dici trambusto? Tra molte persone. Che c’è di esasperante? Reputa di essere ad Olimpia, ritienila una sagra. Anche là uno ha strillato qualcosa ed un altro qualcos’altro, uno effettua qualcosa ed un altro qualcos’altro, uno scuote un altro, alle terme c’è folla. E chi di noi non si rallegra di questa sagra e non si duole di allontanarsene? [IV,4,25] Non diventare uno che si dispiace, uno debole di stomaco di fronte agli avvenimenti. “L’aceto è schifoso, infatti è acido”. “Il miele è schifoso, infatti sovverte il mio normale stato fisico”. “Non voglio ortaggi”. E così: “Non voglio agio, è isolamento”, “Non voglio folla, è trambusto”. [IV,4,26] Ma se le faccende così porteranno, da tragittartela da solo o con pochi, chiamalo quiete ed usa la faccenda per quel che si deve: parla con te stesso, allena le rappresentazioni, elabora i pre-concetti. [IV,4,27] Se invece ti imbatterai nella folla, dillo gara, sagra, festa, e prova a far festa con gli uomini. Quale spettacolo è più piacevole per un filantropo della vista di molti uomini? Noi vediamo con piacere mandrie di cavalli o di buoi e qualora vediamo una grande flotta diamo in gioiose effusioni: chi si infastidisce scorgendo molti uomini? [IV,4,28] “Ma mi assordano di gracchiate”. Dunque è intralciato il tuo udito. Cos’è questo per te? E’ forse intralciata anche la facoltà che usa le rappresentazioni? E chi ti impedisce di usare desiderio ed avversione, impulso e repulsione secondo la natura delle cose? Quale trambusto è sufficiente per questo?

E’ venuto il momento di entrare in gara. Non lamentartene: l’infelicità è male (29-32)

[IV,4,29] Tu ricordati soltanto dei principi universali: “Cos’è mio, cosa non è mio? Cosa mi è dato? Cosa Zeus dispone che io ora faccia, cosa non dispone?” [IV,4,30] Poco fa disponeva che tu oziassi, parlassi con te stesso, scrivessi su questi principi, che leggessi, ascoltassi, ti preparassi: avesti tempo sufficiente per questo. Ora ti dice: “Vieni ormai in gara, mostraci cosa imparasti, come ti cimentasti. Fino a quando ti allenerai da solo? E’ ormai tempo di riconoscerti, se sei un atleta degno di vittoria oppure uno di quelli che vanno in giro per la terra abitata da vinti”. [IV,4,31] Perché dunque fremi? Nessuna gara accade senza trambusto. Devono essere molti i preparatori atletici, molti quelli che strepitano, molti i soprintendenti, molti gli spettatori. [IV,4,32] -Ma io vorrei passarmela in quiete- Mugugna, quindi, e gemi come meriti. Giacché quale altra punizione per chi non è educato a diairesizzare e disubbidisce alle costituzioni della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, è maggiore di questa, cioè dell’affliggersi, piangere, invidiare, insomma del non avere fortuna ed avere cattiva fortuna? Non vuoi allontanarti da questo? 

Per ottenere la serenità, che è bene, occorre rimuovere il desiderio di quanto non è in nostro esclusivo potere (33-38)

[IV,4,33] -E come allontanarmene?- Non sentisti spesso dire che devi rimuovere definitivamente il desiderio e girare l’avversione unicamente contro ciò che è proairetico? Che devi tralasciare tutto: corpo, patrimonio, fama, libri, trambusto, cariche, assenza di cariche? Giacché dove inclinerai ecco che sei servo, sei subordinato, diventi soggetto ad impedimenti, soggetto a costrizioni, intero in potere di altri. [IV,4,34] Tieni invece a portata di mano il verso di Cleante *Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato*. Disponete a Roma? A Roma. A Giaro? A Giaro. Ad Atene? Ad Atene. In prigione? In prigione. [IV,4,35] Se una volta sola dirai: “Quando si parte per Atene?”, sei perduto. Giacché è necessario che questo desiderio, essendo imperfetto, ti faccia sfortunato; e se perfetto, vacuo; esaltato per ciò che non si deve. Di nuovo, se sarai intralciato, preda di cattiva fortuna, poiché incappi in ciò che non vuoi. [IV,4,36] Tralascia dunque tutto questo. “Atene è bella”. Ma molto più bello è essere felici, saper dominare le passioni, dominare lo sconcerto, il non giacere le tue faccende in potere di nessuno. [IV,4,37] “C’è trambusto a Roma, e si fanno gli ossequi”. Ma l’essere sereni vale tutte le difficoltà. Se dunque è tempo di queste, perché non rimuovi l’avversione ad esse? Che necessità c’è di portare some come un asino che prende legnate? [IV,4,38] Se no, vedi che devi sempre far da servo a chi può mandare ad effetto la tua assoluzione, può intralciarti in una cosa qualunque, e devi accudirlo come fosse un Genio Cattivo.

La laboriosità? Quale laboriosità? Essere laboriosi è lavorare per conservare il proprio egemonico secondo la natura delle cose: tutte le altre attività vanno definite per quello che sono veramente e quindi in modo diverso (39-48)

[IV,4,39] Una sola è la strada per la serenità (e questo giudizio ti sia a portata di mano all’alba, di giorno e di notte): la diserzione da ciò che è aproairetico, il non ritenere nostro peculiare nulla di esso, il trasmettere tutto al genio, alla ventura; il farne delegati quelli che anche Zeus ha fatto delegati; [IV,4,40] ed essere io per una sola cosa, per quanto è mio peculiare, per quanto non è soggetto ad impedimenti, e leggere riferendo la lettura a questo, e così scrivere ed ascoltare. [IV,4,41] Per questo non posso dirlo laborioso se sentirò dire di qualcuno soltanto questo, cioè che legge o scrive. E se uno addizionerà che lo fa per notti intere, ancora non lo dico se non riconoscerò il suo riferimento. Giacché neppure tu dici laborioso chi veglia per una ragazzina, ed io neppure. [IV,4,42] Ma se lo farà per la reputazione lo dico vanitoso; se per il denaro, avido di denaro, non laborioso. [IV,4,43] Se invece riferirà la fatica al proprio egemonico, per averlo e tragittarlo secondo la natura delle cose, allora soltanto lo dico laborioso. [IV,4,44] Non lodate e non denigrate mai in base ai luoghi comuni, ma in base ai giudizi. Sono infatti questi il peculiare di ciascuno e sono essi che fanno le azioni brutte o belle. [IV,4,45] Memore di questo, rallegrati del presente ed abbi caro ciò di cui è tempo. [IV,4,46] Se vedi che alcuni giudizi che imparasti ed analizzasti a fondo ti vengono incontro nelle opere, allietatene. Se hai riposto in un canto, diminuito l’essere maligno e ingiurioso, la precipitazione, il turpiloquio, l’agire con avventatezza, l’agire con negligenza; se non sei mosso dai giudizi di prima o non similmente a prima, puoi celebrare una festa ogni giorno: oggi, perché ti conducesti da virtuoso in quest’opera; domani, in un’altra. [IV,4,47] Quanta maggior cagione di un sacrificio che un consolato od una provincia! Questi beni ti vengono da te stesso e dagli dei. Ricordati chi è a dare, a chi e per cosa. [IV,4,48] Nutrito di queste meditazioni fai ancora differenza stando dove sarai felice, stando dove sarai gradito a Zeus? Da ogni dove gli uomini non hanno pari distanza da Zeus? Da ogni dove non vedono similmente gli avvenimenti?

CAPITOLO 5
AGLI INDIVIDUI RISSOSI E BELLUINI 

Socrate è sapiente in quanto sa che nessuno può essere padrone dell’egemonico di un altro (1-6)

[IV,5,1] L’uomo virtuoso non si azzuffa con un altro né permette, per quanto è in suo potere, che un altro lo faccia. [IV,5,2] La vita di Socrate si espone a noi quale paradigma, come pure delle altre cose, anche di questo. Egli non soltanto rifuggì ovunque la rissa, ma neppure permetteva che altri si azzuffassero. [IV,5,3] Vedi nel Convito di Senofonte che grandi risse ha sciolto e, di nuovo, come tollerò Trasimaco, Polo, Callicle e come tollerava la moglie, come tollerava il figlio quando questi lo confutava sofisteggiando. [IV,5,4] Giacché assai sicuramente ricordava che nessuno domina un egemonico altrui, Socrate null’altro voleva che quanto era suo peculiare. [IV,5,5] E cos’è questo? Soltanto facendo quanto è suo proprio non è sufficiente neppure un Socrate a far sì che anch’essi abbiano la loro proairesi in accordo con la natura delle cose: questo infatti è allotrio. E però Socrate è all’altezza di far sì che, mentre quelli fanno quanto è loro peculiare come reputano, egli nondimeno starà e se la tragitterà in accordo con la natura delle cose. [IV,5,6] Giacché questo è sempre l’obiettivo del virtuoso. Ottenere la carica di pretore? No; ma se gli sarà data, serbare su questo materiale il suo proprio egemonico. Sposarsi? No; ma se gli sarà dato lo sposalizio, su questo materiale serbarsi in stato di accordo con la natura delle cose.

Educarsi non significa altro che apprendere la diairesi (7)

[IV,5,7] Se invece vorrà che il figlio o la moglie non aberrino, egli vuole che l’allotrio non sia allotrio. Ed educarsi a diairesizzare è questo: imparare quanto è nostro peculiare e quanto è allotrio.

Un uomo così educato per le strade del mondo (8-9)

[IV,5,8] Dov’è ancora terreno di rissa per chi sta così? Si infatua egli forse di qualche avvenimento? Qualcosa gli appare forse una novità? Non accetta da parte degli insipienti cose ben peggiori e più esasperanti di quelle che gli succedono? E non conteggia guadagno tutto ciò che di estremo essi lasciano addietro? [IV,5,9] “Il tale ti ingiuriò!” Molte grazie a lui perché non mi colpì. “Ma ti colpì pure!” Molte grazie perché non mi ferì. “Ma ti ferì pure!” Molte grazie perché non mi uccise. 

Un insipiente per le strade del mondo (10-18) 

[IV,5,10] Quando infatti imparò, o da chi, che è una creatura mansueta, altruista, che proprio l’ingiustizia è grande danno per chi la commette? Non avendolo dunque imparato né essendone persuaso, perché non seguirà l’utile apparente? [IV,5,11] “Il vicino ha buttato dei sassi!” Dunque hai forse aberrato tu? “Ma delle cose in casa furono rotte!” Tu sei dunque una suppellettile? No, ma proairesi. [IV,5,12] Che cosa ti è dunque dato per questo? A te come lupo, mordere a tua volta e buttare altri sassi in maggior numero. Se invece cercherai cosa ti è dato come uomo, esamina la tua cassa e vedi con quali facoltà sei venuto al mondo. Forse la belluinità? Forse la rancorosità? [IV,5,13] Quando è meschino un cavallo? Qualora sia defraudato delle facoltà naturali: non qualora non possa fare cuccù, ma qualora non possa correre. [IV,5,14] Ed il cane? Qualora non possa volare? No, ma qualora non possa braccare. Non è dunque così, che ha cattiva fortuna non l’individuo che non può strozzare leoni od abbracciare statue (giacché non per questo è venuto al mondo con delle facoltà da parte della natura) ma chi ha mandato in malora la costumatezza, la lealtà? [IV,5,15] Bisognerebbe riunirsi per lamentare costui, a quanti mali è giunto e non, per Zeus, chi nasce o chi muore, ma colui al quale in vita è avvenuto di perdere quanto è suo peculiare. Non quanto è del padre: il fondicello e la casetta e l’albergo ed i servetti (giacché nessuna di queste cose è peculiare dell’uomo ma sono tutte allotrie, serve, assoggettate, date dai loro signori una volta ad uno ed una volta ad un altro) ma quanto è da uomini, gli stampi avendo i quali nell’intelletto è venuto al mondo, [IV,5,16] quelli che noi cerchiamo anche sulle monete e, se li troveremo, valutiamo le monete buone mentre se non li troveremo, le scagliamo via. [IV,5,17] “Di chi ha lo stampo questo sesterzio? Di Traiano. Porta qua. Di Nerone? Scaglialo via, è invalido, schifoso”. Così anche qua. Che stampo hanno i suoi giudizi? “Di mansuetudine, socievolezza, tolleranza dell’intemperanza altrui, altruismo”. Porta qui, lo accetto, ne faccio un cittadino; lo accetto come vicino, come compagno di navigazione. [IV,5,18] Vedi solo che non abbia lo stampo neroniano. E’ forse iracondo, sdegnoso, lagnoso sulla propria sorte? “Se gli parrà, fracassa le teste di chi gli viene incontro”.

La drammatica Verità (19-21)

[IV,5,19] Perché dunque dicevi che è un uomo? Giacché si giudica forse ciascun essere dalla mera conformazione? Dacché, così, dì che anche quella di cera è una mela. [IV,5,20] Ma deve anche averne la fragranza ed il gusto, non basta il connotato esteriore. Neppure naso ed occhi sono dunque bastanti a fare l’uomo, se non avrà giudizi da uomo. [IV,5,21] Costui non ascolta ragione, non comprende quando viene controllato: è un asino. In costui il rispetto di sé e degli altri si è necrotizzato: è improficuo, tutto piuttosto che un uomo. Costui cerca a chi tirare calci o chi mordere quando gli va incontro: sicché non è una pecora od un asino ma una qualche belva selvatica. 

Di chi vuoi tu l’approvazione? Degli esseri umani o degli uomini? (22-24)

[IV,5,22] -E dunque? Disponi che io sia spregiato?- Da chi? Da coloro che sanno? E come mi spregeranno, sapendomi mite, rispettoso di me e degli altri? Dagli ignoranti? E che t’importa? Giacché neppure a qualche altro artista importa dei non artisti. [IV,5,23] -Ma mi si aggrapperanno ancora di più!- Perché dici “a me”? Può qualcuno danneggiare la tua proairesi o impedire che essa usi le rappresentazioni che ci incolgono com’è nata per fare? -No- [IV,5,24] Perché dunque sei ancora sconcertato e vuoi sfoggiarti pauroso? Non verrai invece in mezzo a proclamare che celebri la pace con tutti gli individui, qualunque cosa essi faranno; e che deridi soprattutto quanti reputano di danneggiarti? “Questi schiavi non sanno né chi sono né dove stanno il mio bene ed il mio male: non v’è per loro processione a quanto è mio”.

Soltanto una roccaforte di retti giudizi è destinata a resistere a qualunque assedio (25-28)

[IV,5,25] Così pure gli abitanti di una città ben munita deridono gli assedianti: “Costoro, adesso, perché hanno fastidi per nulla? Le nostre mura sono sicure; abbiamo cibo per assaissimo tempo ed ogni altra preparazione”. [IV,5,26] Questo è quanto fa una città ben munita ed inespugnabile. Ed a fare tale l’animo di un uomo non sono altro che i giudizi. Giacché quale muro è così poderoso o quale corpo così adamantino o quale possesso intoglibile o quale buon nome così esente da insidie? [IV,5,27] Tutto è ovunque mortale, facile ad espugnarsi, e chi ad esso in un modo qualunque fa attenzione è del tutto necessario che sia sconcertato, abbia cattive speranze, abbia paura, pianga, abbia imperfetti i desideri, abbia le avversioni che incappano in quanto avversano. [IV,5,28] E poi non disponiamo di fare ben munita la sola sicurezza che ci è data? Né distornandoci da quanto è mortale e servo, di prodigarci per quanto non è mortale per mano altrui ed è libero per natura? Né ci ricordiamo che uno non danneggia un altro né gli giova, ma che è il giudizio su ciascuna di queste cose quello che danneggia, che produce sovvertimento, che è rissa, che è guerra civile, che è guerra? 

Se invece si considerano beni e mali non i giudizi sugli oggetti esterni bensì gli oggetti stessi… (29-32) 

[IV,5,29] Quanto ha fatto un Eteocle ed un Polinice non è altro che questo, il giudizio sulla tirannia, il giudizio sull’esilio: che uno è l’estremo dei mali, l’altro il più grande dei beni. [IV,5,30] E’ questa la natura di ogni essere: inseguire il bene, fuggire il male; ritenere un nemico, un insidioso, chi sottrae il primo e precinge dell’opposto, pur se sarà fratello, pur se figlio, pur se padre. Giacché nulla ci è più stretto congenere del bene. [IV,5,31] Orbene, se questi sono beni e mali, né un padre è amico ai figli, né fratello a fratello; ma tutto ovunque è pieno di nemici, di gente insidiosa, di sicofanti. [IV,5,32] Se invece il solo bene è la proairesi quale deve essere ed il solo male la proairesi quale non deve essere, dov’è ancora la rissa, dove l’ingiuria? Su cosa? Su cose che sono nulla in relazione a noi? Verso chi? Verso gli ignoranti, verso chi ha cattiva fortuna, verso chi si è ingannato nelle questioni più grandi?

Soltanto i retti giudizi producono amicizia, pace, giustizia (33-37)

[IV,5,33] Memore di questo, Socrate abitava a casa sua sopportando una moglie molto rude, un figlio scriteriato. Giacché era rude per cosa? -Per riversargli in testa quant’acqua voleva e spiaccicare la focaccia- E cos’è per me, se concepirò che questo non è per me? [IV,5,34] Questo è opera mia e né un tiranno mi impedirà di disporlo, né un padrone né i più impediranno uno solo, né chi è più potente il più debole. Giacché questo è stato dato a ciascuno, dalla Materia Immortale, ovvero dalla Pronoia, non soggetto ad impedimenti. [IV,5,35] Questi giudizi in una casa fanno amicizia, in una città concordia, tra le etnie pace, l’uomo grato alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia, fiducioso ovunque, trattandosi di cose allotrie, di nessun valore. [IV,5,36] Questo noi siamo bensì sufficienti a scriverlo, a leggerlo ed a lodarlo quando viene letto; ma esserne persuasi, neppur vicino [IV,5,37] Appunto perciò quanto si dice degli Spartani “A casa leoni, ad Efeso volpi” si acconcerà anche a noi: a scuola leoni, fuori volpi.

CAPITOLO 6
A QUANTI SI DOLGONO DI ESSERE COMMISERATI

Commiserati, commiseratori e commiserazione (1-2)

[IV,6,1] –Mi infastidisce, dice, essere commiserato- L’essere tu commiserato, è dunque opera tua o di coloro che commiserano? E dunque? E’ in tuo esclusivo potere il farlo cessare? -E’ in mio potere, se mostrerò loro che non merito commiserazione- [IV,6,2] Ma questo non meritare commiserazione, per te c’è già o non c’è? -Io sì, reputo che c’è. Ma costoro non commiserano per quanto, se proprio, lo meriterebbe: per le aberrazioni; bensì per la povertà di denaro, l’assenza di cariche, malattie, morti ed altre siffatte faccende- 

Due vie per sottrarsi alla commiserazione (3)

[IV,6,3] Ti sei dunque preparato a persuadere i più che proprio nulla di ciò è male e che anche al povero di denaro, a chi non occupa cariche e non ha onorificenze è possibile essere felice; oppure per sfoggiarti loro ricco di denaro ed occupato in cariche? 

Le vie del cialtrone sono infinite (4-5)

[IV,6,4] Giacché di queste alternative la seconda è da cialtrone gelido e di nessun valore. Vedi grazie a quali mezzi avverrebbe la simulazione. Bisognerà che tu prenda in prestito dei servetti, che possegga un po’ d’argenteria e che la metta in mostra sotto gli occhi di tutti, se è possibile, spesso la medesima, provando però a far sì che sfugga trattarsi della medesima; poi di splendide toghette e di tutto l’altro corteo di ornamenti. Bisognerà poi che dia a vedere di essere onorato dalle persone più notorie e che provi a pranzare da loro o, almeno, a sembrare di pranzare da loro. Quanto al corpo, infine, bisognerà che trovi qualche mala arte perché appaia più formoso e più nobile di quel che è. [IV,6,5] Questo devi escogitare, se vuoi andartene per la seconda strada sì da non essere commiserato.

La via impossibile: fare quanto neppure Zeus ha potuto fare (5-8)

La prima poi, inconcludente e lunga, è mettere mano proprio a ciò che Zeus non poté fare, ossia a persuadere tutti gli esseri umani di quali siano i beni ed i mali. [IV,6,6] Giacché questo ti è stato forse dato? Persuadere te stesso: solo questo ti è stato dato. Non hai ancora persuaso te stesso e poi ora mi metti mano a persuadere gli altri? [IV,6,7] Chi sta con te tanto tempo quanto tu con te stesso? Chi è così persuasivo nel persuaderti come tu te stesso? Chi ti tratta più benevolmente e più familiarmente che tu te stesso? [IV,6,8] Come, dunque, non ti sei ancora persuaso ad imparare? Ora non sei sottosopra? Questo è ciò su cui ti industrii: imparare così da essere senza afflizione, senza sconcerto, senza servilismo e libero? 

Se sei angustiato dall’opinione altrui su di te, credi di sapere cos’è bene e cos’è male? (9-10)

[IV,6,9] Non hai sentito dire che una sola è la strada che porta a questo: tralasciare ciò che è aproairetico e ritrarsene ed ammetterlo allotrio? [IV,6,10] Dunque che un altro concepisca qualcosa su di te, di che forma è? -Aproairetica- Pertanto è niente per te? -Niente- Ma quando sei ancora morso e sconcertato per questo, credi di essere persuaso su quanto è bene e quanto è male?

Guardati allo specchio e riconosci il tuo punto debole (11- 17)

[IV,6,11] Lasciati gli altri, non vuoi dunque diventare tu per te stesso apprendista ed insegnante? “Vedranno gli altri se per loro è vantaggioso stare e tragittarsela in maniera contraria alla natura delle cose; a me nessuno è più vicino di me stesso. [IV,6,12] Dunque cos’è questo, che ho ascoltato i ragionamenti dei filosofi ed assento loro ma, nei fatti, non sono diventato per nulla più leggero? Sono forse così bastardo? Eppure circa il resto, su quanto decisi non fui trovato troppo bastardo. Imparai in fretta le lettere, a fare il lottatore, ad usare la geometria, a risolvere sillogismi. [IV,6,13] Forse che la ragione non mi ha dunque persuaso? Eppure dall’inizio null’altro tanto valutai o scelsi, ed ora su questi argomenti leggo, questo ascolto, questo scrivo: finora non abbiamo trovato altra ragione più potente di questa. [IV,6,14] Cosa mi manca, dunque? I giudizi opposti non sono forse stati strappati? Proprio le concezioni sono forse in me non allenate, non abituate ad andare incontro ai fatti, ma arrugginiscono come un armamentario messo a giacere in un canto e non possono più acconciarmisi? [IV,6,15] Eppure nel fare il lottatore, nello scrivere o nel leggere non mi accontento di imparare, ma rigiro su e giù i sillogismi che sono porti ed altri li intreccio io ed equivoci allo stesso modo. [IV,6,16] I principi filosofici necessari prendendo impulso dai quali è possibile diventare capace di dominare l’afflizione, la paura, le passioni, diventare non soggetto ad impedimenti, libero; questi però non li alleno né studio, in accordo con questi, di uno studio conveniente. [IV,6,17] E poi mi importa di cosa gli altri diranno di me, se apparirò loro un uomo rimarchevole, se apparirò felice?” 

L’uomo che sa di bene operare non si duole di sentir parlar male di sé (18-21)

[IV,6,18] Disgraziato, non vuoi ravvisare cosa dici tu di te stesso? Chi appari a te stesso? Chi nel concepire, chi nel desiderare, chi nell’avversare; chi nell’impulso, nella preparazione, nel progetto, nelle altre opere umane? Ma ti importa se gli altri ti commiserano? [IV,6,19] -Sì; ma sono commiserato a torto!- Dunque ti duoli per questo? E chi si duole è commiserabile? -Sì- Come dunque sei ancora commiserato a torto? Giacché proprio per quanto sperimenti circa la commiserazione, ti strutturi meritevole di essere commiserato. [IV,6,20] Cosa dice dunque Antistene? Non l’hai mai sentito? “E’ da re, o Ciro, agire bene e sentire parlar male di sé”. [IV,6,21] Ho la testa sana e tutti credono che abbia mal di testa. Che m’importa? Non ho febbre e tutti sono in pena per me come se l’avessi: “Sciagurato, è tanto tempo che non smetti di avere la febbre!” Anch’io mi acciglio e dico “Sì, davvero è già molto tempo che sto male”. “Che accada cosa, dunque?” Come la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, disporrà. Ed insieme sotto sotto derido coloro che mi compatiscono.

Come posso avere retti giudizi se non mi basta essere chi sono ma pretendo anche che gli altri abbiano su di me i giudizi che dico io? (22-24)

[IV,6,22] Cosa dunque impedisce di fare similmente anche qui? Sono povero di denaro ma ho un retto giudizio sulla povertà di denaro. Dunque che m’importa se mi commiserano per la povertà di denaro? Non occupo cariche, altri invece occupano cariche. Ma ciò che bisogna avere concepito sull’occupare cariche e non occuparle io l’ho concepito. [IV,6,23] Vedranno coloro che mi commiserano; io non patisco né la fame né la sete né brividi, ma essi credono che anch’io abbia fame e sete di ciò di cui loro hanno fame e sete. Che farò con loro? Che vada in giro a proclamare e dire “Non errate, signori, io sto bene. Non mi impensierisco né per povertà di denaro né per assenza di cariche né per altro, insomma, che per retti giudizi: questi ho non soggetti ad impedimenti e non mi sono più preoccupato d’altro”? [IV,6,24] Che chiacchiere sono queste? Come posso ancora avere retti giudizi se non mi accontento di essere chi sono ma sono tutto in fibrillazione per il sembrare?

Cosa pretendi? Avere successo là dove non ti sei impegnato? (25-27)

[IV,6,25] -Ma altri centreranno di più e mi saranno anteposti- Cos’è dunque più ragionevole del fatto che chi si industria per qualcosa abbia di più in ciò per cui si industria? Si industriano per cariche, tu per giudizi; e per ricchezza di denaro, tu per l’uso delle rappresentazioni. [IV,6,26] Vedi se essi hanno più di te in ciò per cui tu ti industrii ed essi invece trascurano: se assentono di più circa le naturali misure; se desiderano e più di te non falliscono il segno; se avversano e più di te non incappano in quanto avversano; se la imbroccano di più nel progetto, nel proposito, nell’impulso; se salvaguardano il confacente come mariti, figli, genitori e poi, di seguito, secondo gli altri nomi delle relazioni umane. [IV,6,27] Se quelli occupano cariche, non vuoi dire a te stesso la verità: che tu nulla fai per questo, mentre essi tutto fanno e che è irragionevolissimo che chi ha sollecitudine per qualcosa riporti meno di chi la trascura?

La saggezza al primo posto, la politicheria al proprio posto: ecco perché chi è saggio non aspira affatto al governo del mondo (28-30)

[IV,6,28] -No, ma siccome io mi preoccupo di retti giudizi, è più ragionevole che sia io a comandare- In ciò di cui ti preoccupi, nei giudizi; ma in ciò di cui gli altri si sono preoccupati più di te, dà loro spazio. E’ come se per il fatto di avere retti giudizi tu sollecitassi, quando tiri con l’arco, di fare centro più degli arcieri o di lavorare il bronzo più dei fabbri. [IV,6,29] Tralascia dunque l’industria per i giudizi, rivolgiti a quanto vuoi acquisire e, se non ti andrà a seconda, allora singhiozza; giacché meriti di singhiozzare. [IV,6,30] Ora però dici di essere per altro, di aver sollecitudine per altro, ed i più fanno bene a dire: “Opera non si accomuna ad opera”.

La preghiera del politicante (31-33)

[IV,6,31] Uno, alzatosi all’alba, cerca chi ossequiare della casa di Cesare, a chi dire una parola ipocrita, a chi mandare un dono, come essere gradito ad un ballerino, come gratificare uno malignando su un altro. [IV,6,32] Qualora auspichi, su questo auspica. Qualora sacrifichi, per questo sacrifica. Il detto di Pitagora “Non accogliere il sonno sui molli occhi” egli lo ha sistemato qui accanto. [IV,6,33] “ ‘Dove violai’ … in fatti di adulazione? ‘Cosa feci’ … forse qualcosa da uomo libero, forse qualcosa da generoso? “ E se troverà qualcosa di siffatto si rimprovera e s’incolpa: “Ma che c’era tra te ed il dire questo? Non era contingente mentire? Lo dicono anche i filosofi che nulla impedisce di dire una falsità”. 

La riflessione e l’augurio del saggio (34-35)

[IV,6,34] Tu invece, se davvero non ti sei preoccupato d’altro che dell’uso quale deve essere delle rappresentazioni, alzatoti al mattino, subito pondera:“Cosa mi manca per saper dominare le passioni? Cosa per saper dominare lo sconcerto? Chi sono? Forse un corpo, forse degli averi, forse fama? Nulla di questo. Ma cosa? Io sono una creatura logica”. [IV,6,35] Quali dunque le richieste? Rivanga quanto hai effettuato. “ ‘Dove violai’ … in fatti di serenità? ‘Cosa feci’ … o contrario all’amicizia od asociale o scriteriato? ‘Cosa dovevo ma non fu da me compiuto’ … per questo?” 

Veri beni contro false illusioni (36-38)

[IV,6,36] Cotanta essendo dunque la differenza delle cose per cui si smania, delle opere, degli auspici, vuoi ancora avere la pari con loro su ciò per cui tu non ti industrii e quelli invece si industriano? [IV,6,37] E poi stupisci se essi ti commiserano e fremi? Quelli non fremono se tu li commiseri. Perché? Perché sono persuasi di centrare dei beni, mentre tu non sei persuaso. [IV,6,38] Per questo tu non ti accontenti dei tuoi beni ma prendi di mira i loro. Quelli invece si accontentano dei loro e non prendono di mira i tuoi. Dacché se davvero fossi persuaso che, quanto ai beni, sei tu a fare centro e loro hanno errato, neppure pondereresti cosa dicono di te.

CAPITOLO 7
DEL DOMINIO SULLA PAURA

La paura del tiranno discende da un certo giudizio sul tiranno e su di noi (1-5)

[IV,7,1] Che cosa fa pauroso il tiranno? -Le guardie del corpo, dice, i loro pugnali, il ciambellano e coloro che sbarrano fuori chi entra- [IV,7,2] Perché dunque, se a lui circondato dalle guardie del corpo appresserai un bimbo, il bimbo non ha paura? E’ perché il bimbo non si accorge di chi ha davanti? [IV,7,3] Se però uno si accorgerà delle guardie del corpo e che hanno i pugnali, ma andrà da lui proprio perché, a causa di qualche circostanza, dispone di morire e cerca di sperimentarlo per mano altrui come se niente fosse, forse che costui ha paura delle guardie del corpo? -No, giacché vuole proprio ciò per cui esse sono paurose- [IV,7,4] E se uno andrà da lui senza disporre né di morire né di vivere ad ogni costo ma secondo quel che si darà, cosa impedisce di andargli innanzi senza timore? -Nulla- [IV,7,5] Se dunque uno si terrà nei confronti del patrimonio allo stesso modo che appunto costui del corpo, ed anche nei confronti di figlioli e moglie ed insomma, se per una qualche pazzia o demenza sarà così disposto da non fare conto alcuno di avere o non avere queste cose ma, come i bimbi quando giocano con i cocci litigano per il gioco ma non si preoccupano dei cocci, così pure costui non avrà fatto conto alcuno dei materiali dell’esistenza ma sarà ossequioso del gioco che con essi si fa ed attento alla sua condotta, ebbene quale tiranno sarà ancora pauroso a costui, quali guardie del corpo, quali loro pugnali lo saranno?

Soltanto il saldo possesso della diairesi libera l’uomo e gli permette di dominare la paura (6-11)

[IV,7,6] E poi per pazzia uno può essersi così disposto al riguardo, ed i Galilei per abitudine; invece per ragionamento e per dimostrazione razionale nessuno può imparare che la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, ha fatto tutto quanto è nell’ordine del mondo, che l’ordine del mondo nella sua interezza non è soggetto ad impedimenti ed ha il proprio fine in se medesimo, mentre le sue parti sono fatte per i bisogni dell’intero? [IV,7,7] Tutte le altre creature sono state allontanate dal poter comprendere il governo della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, mentre la creatura logica ha risorse per raffrontare tutte queste cose, e che egli ne è parte e quale parte ne è e che sta bene che le parti cedano il passo all’intero. [IV,7,8] Oltre a ciò, essendo la creatura logica per natura generosa, magnanima, libera, essa vede che di quanto ha intorno qualcosa non è soggetto ad impedimenti ed è in suo esclusivo potere, mentre qualcos’altro è soggetto ad impedimenti ed è in potere d’altri. Non soggetto ad impedimenti è quanto è proairetico, soggetto ad impedimenti è ciò che è aproairetico. [IV,7,9] E per questo, se riterrà il proprio bene ed il proprio utile essere soltanto qui, nel non soggetto ad impedimenti ed in suo esclusivo potere, sarà libera, serena, felice, indenne, disinteressata, pia, riconoscente per tutto alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia, sarà una creatura che in nessun luogo si lagna di quanto accade, che non incolpa nessuno. [IV,7,10] Se invece lo riterrà essere negli oggetti esterni ed aproairetici, è necessario che questa creatura sia impedita, intralciata, sia serva di coloro che hanno potestà sugli oggetti esterni ed aproairetici, oggetti dei quali essa si è infatuata e dei quali ha paura. [IV,7,11] Ed è anche necessario che sia empia, in quanto crede di essere danneggiata dalla Materia Immortale, ovvero dalla Pronoia; che sia iniqua procacciatrice a se stessa sempre del di più; che sia serva nell’animo e tutta piccinerie.

Ecce homo (12-15)

[IV,7,12] Che cosa impedisce a chi discerne questo, di vivere leggero e docile, capace di aspettarsi con mitezza tutto quanto può avvenire e di sopportare gli accidenti già avvenuti? [IV,7,13] “Disponi per me la povertà di denaro?” Portala e riconoscerai cos’è la povertà di denaro quando centra un bell’attore. “Disponi delle cariche?” Portale. “Disponi l’assenza di cariche?” Porta. “Disponi per me dolori?” Porta anche i dolori. [IV,7,14] “Disponi il confino?” Dove partirò, là mi starà bene. Giacché anche qua io stavo bene non per il posto ma per i giudizi, i quali sono per portare via con me. Nessuno può sottrarmeli, questi soli sono miei ed intoglibili; mi basta la loro presenza dovunque sarò e qualunque cosa farò. [IV,7,15] “Ma è ormai il momento di morire!” Perché dici morire? Non canticchiare la faccenda, ma di’ le cose come stanno. “E’ ormai il momento che il materiale da cui mi riunii sia di nuovo ristabilito a quegli elementi. Che c’è di terribile? Che cosa di quanto è nell’ordine del mondo sta per andare in malora? Che cosa di nuovo, di illogico sta per nascere?

L’uomo liberato non ha potere su nessuno e nessuno ha potere su di lui (16-18)

[IV,7,16] Per questo è pauroso il tiranno? Per questo le guardie del corpo sembrano avere grandi ed aguzzi i pugnali? Questi giudizi li lascio ad altri. Io ho analizzato la faccenda da tutti i punti di vista. [IV,7,17] Nessuno ha potestà su di me. Io sono stato costituito libero dalla Materia Immortale, ovvero dalla Pronoia. Ho riconosciuto le sue istruzioni. Nessuno può più ridurmi in servitù. Ho l’emancipatore che si deve ed i giudici che si deve. [IV,7,18] “Non sono io signore del tuo corpo?” Cos’ha dunque esso a che fare con me? “Non lo sono delle tue coserelle?” Cos’hanno dunque esse a che fare con me? “Non lo sono di esilio o catene?” Io qui di nuovo mi ritraggo, in tuo favore, da tutto questo e dall’intero corpo, qualora tu voglia. Prova su di me la tua signoria e riconoscerai fino a che punto l’hai.

Assegnare alle cose il loro giusto valore e giocare senza paura finché tutto rimane un gioco. Quando però il gioco non sia più ben giocato, allora salvarsi salvando, ad ogni costo, la Verità della diairesi. (19-24)

[IV,7,19] Di chi dunque posso ancora avere paura? Dei ciambellani? Che facciano cosa? Mi sbarreranno fuori? Se troveranno che voglio entrare, sbarrino pure! -Dunque perché vieni alle porte?- Perché reputo doveroso per me partecipare al gioco, finché rimane un gioco. [IV,7,20] -Come, dunque, non sei sbarrato fuori?- Perché se uno non mi accoglierà, non dispongo di entrare ma piuttosto dispongo sempre quel che accade. Giacché ciò che Zeus dispone lo ritengo migliore di ciò che dispongo io. Lo approccerò da ministro e seguace, coimpello, condesidero, insomma condispongo. Lo sbarramento non è per me ma per chi usa la violenza. [IV,7,21] Perché non uso la violenza? Perché so che lì dentro non si distribuisce alcun bene a chi entra. E qualora senta dire che qualcuno si beatifica perché è onorato da Cesare, dico: “Che gli avviene? Forse che si distribuisce anche il giudizio quale deve essere nei confronti di una Provincia, forse anche l’usare come si deve una delega? Perché ancora irrompere? [IV,7,22] Qualcuno getta qua e là dei fichi secchi e delle noci. I bimbi li ghermiscono e si azzuffano gli uni gli altri; gli uomini no, giacché li ritengono piccola cosa. Se qualcuno getterà qua e là dei cocci, neppure i bimbi li ghermiscono. [IV,7,23] Si distribuiscono province. Se la vedranno i bimbi. Del denaro. Se la vedranno i bimbi. Una pretura, un consolato: le arraffino i bimbi; siano esclusi, siano percossi, bacino le mani di chi dà, dei servi. Per me sono fichi secchi e noci”. [IV,7,24] Che fare dunque se un fico secco, quando lui li scaglia, per caso fortuito mi verrà in grembo? Lo sollevo e lo divoro. Fino a tanto è possibile onorare anche un fico secco. Ma per inchinarmi, per capovolgere un altro o per essere da un altro capovolto, per adulare coloro che li lanciano, questo non lo meritano né un fico secco né alcun’altra di quelle cose non buone che i filosofi mi hanno convinto a non reputare beni.

Eppure tu insisti ad avere paura del tiranno perché sei come lui, perché date lo stesso valore alle stesse cose, perché credete di essere immortali e quindi siete legati dalla stessa catena magica di merda con la quale vi riconoscete e vi cibate reciprocamente (25-28) 

[IV,7,25] Mostrami i pugnali delle guardie del corpo. “Vedi quanto sono grandi e come sono aguzzi!” E cosa fanno questi grandi ed aguzzi pugnali? [IV,7,26] “Uccidono!” E la febbre cosa fa? “Nient’altro”. Ed una tegola cosa fa? “Nient’altro”. Tu vuoi dunque che io mi infatui di tutte queste cose, che le riverisca, che vada in giro servo di tutte? Non sia mai! [IV,7,27] Ma, una volta imparato che quanto nasce deve anche perire perché non si arresti e non subisca intralci l’ordine del mondo, io non faccio più differenza se a farlo sarà la febbre, una tegola od un soldato anzi, se bisogna paragonare, so che lo farà in modo più indolore e più in fretta il soldato. [IV,7,28] Qualora dunque io non abbia paura di nessuno dei modi in cui il tiranno può disporre di me e non smani per qualcosa che può procurare, perché debbo ancora ammirarlo, perché rimanerne ancora attonito? Perché ho paura delle guardie del corpo? Perché mi rallegro se mi parlerà e mi accoglierà con cortesia, ed espongo ad altri come mi parlò? 

Socrate spezza la catena magica di merda. E, con Socrate, tutti coloro che riconoscono di essere proairesi mortale (29-32)

[IV,7,29] E’ forse Socrate, è forse Diogene, così che la sua lode sia una dimostrazione di chi sono? [IV,7,30] Ho forse emulato il suo carattere? Ma vengo da lui per salvaguardare il gioco e gli faccio da servitore fino a che egli non intimi qualche scempiaggine o qualcosa di smisurato. Se mi dirà: “Parti e va da Leonte di Salamina”, gli dico: “Cerca un altro, giacché io non gioco più”. [IV,7,31] “Menalo in prigione!” Lo seguo nel gioco. “Ma ti stacca il collo!” Ed il suo persiste sempre dov’è? E quello di voi che ubbidite? “Ma sarai scagliato via insepolto!” Se io sono il cadavere, sarò scagliato via. Se invece sono altro dal cadavere, dì più elegantemente come sta la faccenda e non incutermi paura. [IV,7,32] Queste cose sono paurose per i bimbi ed i dissennati. Se poi uno che è entrato una volta a scuola da un filosofo non sa chi è, ben merita di avere paura e di adulare coloro che prima adulava, se non ha ancora imparato che non è carne né ossa né nerbo bensì quello che li usa, quello che governa e comprende le rappresentazioni.

Ma tu sei uno spregiatore delle leggi, sei un sovversivo, un asociale! Calma: di quali leggi stai parlando, di quale ordine, di quale società? Calma: vediamo dove tu sei superiore a me e dove io sono superiore a te (33-36)

[IV,7,33] -Sì, ma questi ragionamenti fanno spregiatori delle leggi- Quali ragionamenti, piuttosto, procurano alle leggi degli ubbidienti utilizzatori? Legge non è quanto è in potere di uno stupido. [IV,7,34] Ugualmente vedi come questi ragionamenti preparano a stare come si deve anche verso costoro, insegnandoci appunto a non pretendere da loro nulla di ciò in cui possano vincerci. [IV,7,35] Quanto al corpo insegnano a ritrarsene; quanto al patrimonio, a ritrarsene; e quanto ai figlioli, genitori, fratelli, di dare spazio a tutti, tralasciare tutto. Eccettuano soltanto i giudizi, che pure Zeus dispose fossero particolari di ciascuno. [IV,7,36] Quale illegalità c’è qua, quale scempiaggine? Laddove tu sei migliore e più potente di me, là mi ritraggo in tuo favore. Di nuovo, laddove io sono migliore di te, dammi spazio tu. Giacché questo è importato a me, non a te. 

Tu badi a tutto quanto è esteriore, ed in questo mi sei superiore. Io bado ai miei giudizi, ed in ciò ti sono superiore (37-41)

[IV,7,37] A te importa come abitare in marmorei palazzi e, ancora, come ti facciano da ministri ragazzi e liberti; come portare un vestito vistoso; come avere molti cani da caccia, citaredi, cantanti. [IV,7,38] Forse che io li pretendo? Ti è forse dunque importato dei giudizi? Forse della tua ragione? Sai forse di quali pezzi consiste, come sono combinati, qual è la sua articolazione, quali facoltà ha e di quale natura? [IV,7,39] Perché dunque fremi se un altro che ha studiato, in questo ha più di te? -Ma sono queste le cose più grandi!- E chi ti impedisce di rivolgerti ad esse e di esserne sollecito? Chi ha maggior disponibilità di libri, comodità, persone disposte a giovargli? [IV,7,40] Solo stornati una volta a questi studi, deputa un po’ di tempo al tuo egemonico. Analizza perché mai l’hai e da dove è venuto, l’egemonico che usa tutto il resto, che valuta tutto il resto, che seleziona e rigetta dopo selezione. [IV,7,41] Ma finché sarai rivolto agli oggetti esterni, quelli li avrai come nessuno, l’egemonico invece l’avrai quale disponi di averlo, sozzo e negletto.

CAPITOLO 8
A QUANTI FRETTOLOSAMENTE SALTANO SU AD ATTEGGIARSI A FILOSOFI

I giudizi dai quali procedono i comportamenti delle persone non sempre si desumono facilmente dalle apparenze esterne (1-9)

[IV,8,1] Non lodate e non denigrate mai qualcuno in base ai luoghi comuni, e non attestate o meno qualche arte: vi allontanerete insieme dalla precipitazione e dalla malignità. [IV,8,2] “Costui fa il bagno caldo frettolosamente”. Dunque fa male? No affatto. Ma cosa? Fa il bagno caldo frettolosamente. [IV,8,3] -Dunque tutto accade bene?- Nient’affatto! Quanto procede da retti giudizi accade bene, quanto procede da giudizi depravati accade in modo depravato. Finché non decifrerai il giudizio in base al quale uno fa ciascuna opera, tu non lodarla e non denigrarla. [IV,8,4] Ed un giudizio non si determina facilmente dall’esterno. “Costui è un falegname”. Perché? “Usa un’ascia”. E con ciò? “Costui è un musicista: infatti canta”. E con ciò? “Costui è un filosofo”. Perché? “Giacché ha un mantello ed una gran chioma”. [IV,8,5] Ed i questuanti cos’hanno? Per questo, se si vedrà uno di loro fare l’indecente subito si dice: “Ecco il filosofo, cosa fa!”. Dal fatto che faceva l’indecente, bisognerebbe invece piuttosto dire che lui non è un filosofo. [IV,8,6] Giacché se il pre-concetto e la professione di filosofo è questa: “Avere un mantello ed una gran chioma”, essi direbbero bene. Se invece è piuttosto questo: “Essere al riparo dalle aberrazioni”, perché non lo privano dell’appellativo di filosofo, dal momento che non ne adempie la professione? [IV,8,7] Così è anche nel caso delle altre arti. Qualora uno veda qualcuno che dà di scure malamente, non dice: “Che pro della falegnameria? Ecco che cattivi lavori fanno i falegnami!”, ma dice tutto l’opposto: “Costui non è un falegname, giacché dà di scure malamente”. [IV,8,8] Similmente se sentirà qualcuno cantare male non dice: “Ecco come cantano i musicisti!” ma piuttosto: “Costui non è un musicista”. [IV,8,9] Sulla filosofia soltanto sperimentano questo: qualora vedano qualcuno che fa cose in contrasto con la professionalità del filosofo, non lo privano dell’appellativo ma, ponendo che è filosofo e poi prendendo spunto proprio dall’accaduto, che fa l’indecente, applicano la conclusione non esservi pro alcuno del filosofare.

Coloro che si fanno chiamare filosofi hanno fatto guadagnare alla filosofia un pregiudizio negativo (10-11)

[IV,8,10] Cos’è dunque causativo di ciò? Che al pre-concetto di falegname, a quello di musicista ed allo stesso modo degli altri artisti, noi diamo il rango di ambasciatore, mentre al pre-concetto di filosofo no, ed in quanto si tratta di un pre-concetto confuso e disarticolato giudichiamo soltanto dall’esterno. [IV,8,11] Quale altra arte si apprende da un certo abito e da una gran chioma e non ha anche principi generali, un materiale, un fine? 

Materiale, fine e principi generali della filosofia (12-14)

[IV,8,12] Qual è dunque il materiale del filosofo? Un mantello, forse? No, ma la ragione. Qual è il fine? Forse portare un mantello? No, avere retta la ragione. Quali sono i principi generali? Forse quelli concernenti il come nasce un gran barbone od una folta chioma? No, essi sono piuttosto quelli che dice Zenone ossia riconoscere gli elementi del discorso, qual è la natura di ciascuno di essi, come si acconciano gli uni agli altri e quanto a questi è conseguente. [IV,8,13] Non vuoi dunque vedere innanzitutto se facendo l’indecente uno adempie la professione di filosofo, e così incolpare il mestiere? Ora invece, qualora tu sia temperante, in base a ciò che reputi egli faccia male dici “Vedi il filosofo!” (come se fosse confacente dire filosofo chi fa cose siffatte) e di nuovo “E’ questo un filosofo?”; mentre non dici “Vedi il falegname!” qualora riconosca qualcuno in adulterio o lo veda fare il ghiottone, né dici “Guarda il musicista!”. [IV,8,14] E così quel poco di cui ti accorgi anche tu circa la professione di filosofo, lo fai scivolare di mano e lo confondi per mancanza di studio.

Una citazione di Eufrate (15-20)

[IV,8,15] Ma anche i cosiddetti filosofi vanno in cerca della faccenda a partire dai luoghi comuni. Indossato un mantello e fatto scendere un barbone, subito dicono “Io sono un filosofo!” [IV,8,16] Ma nessuno dirà “Io sono un musicista!”, se comprerà un plettro ed una cetra; né “Io sono un fabbro!”, se si cingerà di un berrettino di feltro e di un grembiule. L’abito è acconciato all’arte, però essi prendono su il nome dall’arte, non dall’abito. [IV,8,17] Per questo diceva bene Eufrate: “A lungo provavo a filosofare di nascosto”, dice, “e questo mi era di giovamento. Giacché innanzitutto sapevo che quanto facevo di buono non lo facevo per gli spettatori ma per me stesso. Per me stesso mangiavo compostamente, avevo lo sguardo calmo, calma l’andatura: tutto per me e per dio. [IV,8,18] E poi, come gareggiavo solo, così pure solo correvo pericoli. Se compivo un’opera brutta o non confacente, non correva pericolo il nome della filosofia né danneggiavo i più aberrando come filosofo. [IV,8,19] Per questo, coloro che non sapevano il mio progetto si stupivano di come io non mi dicessi filosofo, pur trattando e vivendo con tutti i filosofi. [IV,8,20] E che male c’era ad essere riconosciuto filosofo in quel che facevo ma non da segni distintivi?”

Cosa conta il declamare di essere quando in verità non si è? Anzi, proprio il voler declamare di essere non testimonia a sfavore di chi declama? Socrate era ben alieno dal comportarsi così (20-29)

Scruta come mangio, come bevo, come dormo, come tollero l’intemperanza altrui, come mi astengo dall’intemperanza, come coopero, come uso il desiderio e l’avversione, come serbo le relazioni naturali od acquisite senza confusione e senza impacci. [IV,8,21] Giudicami di là, se puoi. Ma se sei così sordo e cieco da concepire che neppure Efesto è un magnifico fabbro se non gli vedrai il berrettino di feltro calcato in testa, che male c’è ad essere ignorato da un arbitro tanto sciocco? [IV,8,22] Così sfuggiva alla maggior parte chi Socrate fosse e venivano da lui per sollecitarlo di essere raccomandati ai filosofi. [IV,8,23] Forse che egli ne fremeva come noi e diceva: “Ma io, a te non paio un filosofo?” Invece li menava e li raccomandava accontentandosi, filosofo, del solo esserlo; rallegrandosi anche che, non sembrandolo, non ne era morso: giacché si ricordava della sua peculiare opera. [IV,8,24] Qual è l’opera del virtuoso? Avere molti apprendisti? Nient’affatto! Lo vedranno quanti per questo si industriano. Quella di precisare principi filosofici difficili? Altri se la vedranno anche su questi. [IV,8,25] Dunque dove Socrate era qualcuno e disponeva di esserlo? Dove sono danno e giovamento. “Se uno,” dice, “può danneggiarmi, io nulla faccio. Se attendo che un altro mi giovi, io nulla sono. Voglio qualcosa e non accade: io sono sfortunato”. [IV,8,26] A cotanta arena sfidava chiunque, e reputo che non si sarebbe ritratto di fronte a nessuno. Cosa reputate? Nell’annunziare e dire “Io sono siffatto”? Non sia mai! Ma nell’essere siffatto. [IV,8,27] Giacché, di nuovo, è da stupidi e da cialtroni il dire: “Io so dominare le passioni e lo sconcerto. Non ignorate, uomini, che mentre voi siete scompigliati ed in trambusto per cose di nessun valore, io soltanto mi sono allontanato da ogni sconcerto”. [IV,8,28] Così non ti basta non avere male, se non proclamerai: “Riunitevi tutti voi che soffrite di podagra, che avete mal di testa, che avete la febbre, voi zoppi, voi ciechi e vedetemi sano da ogni passione”? [IV,8,29] Questo proclama è vacuo ed importuno a meno che, come Asclepio, tu possa indicare subito come, curandosi, saranno anch’essi al riparo dalle malattie, e per questo porti a paradigma la tua salute. 

L’atteggiamento del vero Cinico (30-33)

[IV,8,30] Uno siffatto è in effetti il Cinico, degnato da Zeus di scettro e diadema, che dice: “Affinché vediate, o uomini, che cercate la felicità ed il dominio sullo sconcerto non dove sono ma dove non sono [IV,8,31] ecco, io sono stato inviato dalla Materia Immortale, ovvero dalla Pronoia, quale paradigma per voi. Non ho patrimonio né casa né moglie né figlioli e neppure una coperta né una tunica né una suppellettile: e vedete come sono in salute. Provatemi e se mi vedrete capace di dominare lo sconcerto, ascoltate da quali farmaci fui curato”. [IV,8,32] Questa sì, è già opera da filantropo, da generoso. Ma vedete di chi è opera: di Zeus o di colui che la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, giudicherà degno di questo servizio, affinché in nessun luogo metta a nudo di fronte ai più qualcosa che infirmi la sua testimonianza, quella che egli testimonia in favore della virtù e contro gli oggetti esterni *né sbiancando il colore bellissimo, né sulle guance lacrime asciugando* . [IV,8,33] E non solo questo, ma neppure bramando qualcosa o ricercando un individuo, un posto, un modo di passarsela come fanno i bimbi con la vendemmia o le ferie; adornato ovunque dal rispetto di sé e degli altri, come gli altri dalle pareti, dalle porte e dai portinai.

La lenta formazione del filosofo (34-40)

[IV,8,34] Ora invece, proprio solo mossi alla filosofia, come i deboli di stomaco verso una vivanda che dopo poco è per fare loro ribrezzo, subito si mira allo scettro, al regno. Si è fatto scendere la chioma, ha indossato un mantello, mostra la spalla nuda, si azzuffa con quanti gli vengono incontro e se vedrà uno con la penula si azzuffa con lui. [IV,8,35] O uomo, innanzitutto esercitati d’inverno. Vedi il tuo impulso, se non è quello di un debole di stomaco o di una femmina che ha le voglie. Studia innanzitutto ad essere ignorato. Chi sei, filòsofalo con te stesso per un po’ di tempo. [IV,8,36] Così nasce un frutto. Il seme deve essere sotterrato per tempo, stare nascosto, crescere poco alla volta per poi ultimare la maturazione. Ma se porterà fuori la spiga prima che germogli il ginocchio del gambo, esso è imperfetto, viene da un orto di Adone. [IV,8,37] Tu pure sei una pianticella siffatta: sei fiorito più in fretta del dovuto, l’inverno ti brucerà. [IV,8,38] Vedi cosa dicono dei semi gli agricoltori, qualora ci siano i calori anzitempo? Sono in ansia che i semi non crescano troppo rigogliosi e poi una sola gelata prenda a confutarne l’orgoglio. Vedi tu pure, o uomo! [IV,8,39] Sei cresciuto troppo orgoglioso, sei saltato su un po’ di reputazione anzitempo. Reputi di essere qualcuno, stupido tra stupidi. Congelerai, o piuttosto sei già congelato sotto, nella radice; mentre il sopra di te ancora fiorisce un poco e per questo reputi di vivere ancora e verdeggiare. [IV,8,40] Lascia che almeno noi maturiamo secondo natura. Perché ci denudi, perché ci violenti? Non possiamo ancora sopportare l’aria. Permetti alla radice di crescere e poi di prendere il primo ginocchio e poi il secondo e poi il terzo, e poi così il frutto spunterà per forza di natura, anche se io non vorrò.

Non esistono filosofi-prodigio (41-43)

[IV,8,41] Chi, divenuto gravido e ripieno di giudizi così rilevanti, non si accorge della propria preparazione e non impelle alle opere consone? [IV,8,42] Un toro non ignora la propria natura e la propria preparazione qualora si dia a vedere una belva, né attende chi lo spronerà; e neppure un cane la ignora, qualora veda qualche creatura selvatica. [IV,8,43] Io invece, se avrò la preparazione di uomo dabbene, aspetterò che tu mi prepari alle opere attinenti? Ora non l’ho ancora, fidati di me. Perché dunque vuoi che dissecchi anzitempo, come disseccasti tu?

CAPITOLO 9
A CHI S ‘ ERA MUTATO IN UNO SFACCIATO

Possedere denaro, ricoprire cariche, avere accanto femmine avvenenti ma non avere retti giudizi su tutto ciò (1-5)

[IV,9,1] Qualora veda un altro occupare una carica, contrapponi che tu hai il non bisognare di cariche. Qualora veda un altro ricco di denaro, vedi cos’hai tu in cambio di questo. [IV,9,2] Giacché se non hai nulla in cambio, sei un meschino. Se invece hai il non aver bisogno della ricchezza di denaro, riconosci che hai qualcosa di più e di molto maggior valore. [IV,9,3] Un altro ha una moglie formosa: tu il non smaniare per una moglie formosa. Reputi piccole queste cose? E quale somma non onorerebbero proprio costoro, i ricchi di denaro e coloro che occupano cariche e campano con femmine formose, per poter spregiare la ricchezza di denaro, le cariche, proprio quelle femmine delle quali sono innamorati e che centrano! [IV,9,4] Ignori qual è la sete di chi ha la febbre? Non ha nulla di simile a quella di chi è in salute. Questi, bevendo ha dismesso la sete. Quello invece, dopo un momento di appagamento ha nausea, fa dell’acqua bile, vomita, ha dolori di ventre, ha sete più energicamente. [IV,9,5] Siffatto è essere ricco di denaro smaniandone; occupare cariche smaniandone; andare a letto con una magnifica femmina smaniandone: vi si congiungono gelosia, paura di esserne defraudati, brutti discorsi, brutte rimuginazioni, opere indecenti.

E’ maggior perdita quella di un po’ di denaro o della propria dignità? (6-10)

[IV,9,6] -Ma, dice, cosa perdo?- O uomo, c’eri rispettoso di te e degli altri ed adesso non lo sei più. Non hai perso nulla? Invece di Crisippo e Zenone leggi Aristide ed Eveno: non hai perso nulla? Invece di Socrate e Diogene sei arrivato ad ammirare chi può rovinarne e convincerne il maggior numero. [IV,9,7] Magnifico vuoi essere e plasmi te stesso non essendolo. Vuoi sfoggiare un vestito splendido per far voltare le femmine e, se in qualche modo farai centro con un profumo, reputi d’essere beato. [IV,9,8] Prima neppure ponderavi una di queste cose ma dove fossero il linguaggio decoroso, l’uomo rimarchevole, un ponderare generoso. Appunto perciò dormivi da uomo, venivi avanti da uomo, portavi un vestito da uomo, enunciavi discorsi che si confanno ad un uomo dabbene. E poi mi dici: “Non persi nulla”? [IV,9,9] E così la gente non perde altro che il quattrino? Il rispetto di sé e degli altri non si perde? Il decoro non si perde? O non è essere puniti perdendo questo? [IV,9,10] Dunque tu reputi probabilmente che per queste cose non v’è più punizione. Ma c’era un tempo in cui quella soltanto computavi punizione e danno; un tempo in cui eri in ansia che qualcuno ti scrollasse da questi discorsi e queste opere.

Se cerchi beni maggiori della virtù sei perduto (11-18)

[IV,9,11] Ecco, sei stato scrollato da nessun altro che da te stesso. Azzuffati con te stesso, riconsegnati al decoro, al rispetto di te e degli altri, alla libertà. [IV,9,12] Se uno ti dicesse di me che qualcuno mi costringe a commettere adulterio, a portare siffatto vestito, a profumarmi: non saresti partito per fare fuori con le tue mani questo individuo che così abusa di me? [IV,9,13] Ora dunque non vuoi aiutare te stesso? E quant’è più facile questo aiuto! Non devi uccidere qualcuno, non devi incatenare, non devi oltraggiare, non devi avanzare verso la piazza ma parlare a te stesso, a chi ti sarà ubbidientissimo e verso cui nessuno è più persuasivo di te. [IV,9,14] Innanzitutto stigmatizza gli avvenimenti e poi, stigmatizzatili, non disperare di te e non sperimentare quanto sperimentano gli individui ignobili i quali, ceduto una volta, si danno appieno e sono strascicati come da una corrente. [IV,9,15] Impara, invece, il modo di fare degli istruttori di ginnastica. Il marmocchio è cascato. “Alzati”, dice, “e riprendi a fare il lottatore fino a che non ti potenzierai”. [IV,9,16] Sperimenta anche tu qualcosa di siffatto! Sappi infatti che nulla è più pieghevole dell’animo umano. Bisogna disporre ed è diventato, è stato corretto. Come, di nuovo, sonnecchia e andò in malora. Giacché perdita ed aiuto sono dal di dentro. [IV,9,17] -E poi che bene è per me?- E cosa cerchi maggiore di questo? Invece che sfacciato sarai rispettoso di te e degli altri; invece che scomposto, composto; invece che sleale, leale; invece che impudente, temperante. [IV,9,18] Se cerchi cose più grandi di queste, fa quel che fai: neppure uno degli dei può più salvarti.

CAPITOLO 10
QUALI COSE BISOGNA SPREGIARE ED IN QUALI DIFFERIRE?

Poiché quanto è aproairetico non è in nostro esclusivo potere, noi non possiamo non essere in perenne imbarazzo e difficoltà circa gli oggetti esterni (1-2)

[IV,10,1] Tra gli esseri umani ogni difetto di mezzi nasce circa gli oggetti esterni, è imbarazzo circa gli oggetti esterni. “Che fare? Come accadrà? Come riuscirà? Purché non vada incontro a questo, a quest’altro”. [IV,10,2] Tutte queste sono voci di gente rigirata verso ciò che è aproairetico. Chi infatti dice: “Come non assentire al falso? Come non stornarmi dal vero?” 

Parole di una madre immortale ai propri figli diletti (3-7)

[IV,10,3] Se uno sarà così purosangue da essere in ansia su questo, gli richiamerò alla memoria: “Perché sei in ansia? E’ in tuo esclusivo potere; sii sicuro. Non balzare fuori ad assentire prima di applicare il canone naturale”. [IV,10,4] Di nuovo, se sarà in ansia per il desiderio, che non sia imperfetto e fallito; [IV,10,5] e per l’avversione, che non incappi in quanto avversa; innanzitutto lo bacerò perché, tralasciando ciò per cui gli altri sono entrati in fibrillazione e le loro paure, si è preoccupato delle opere sue peculiari, del dove lui è. E poi gli dirò: [IV,10,6] “Se non vuoi desiderare in modo fallimentare né avversare in modo da incappare in quanto avversi, non desiderare nulla di allotrio e non avversare nulla di quanto non è in tuo esclusivo potere. Se no, è necessario che tu fallisca ed incappi in quanto avversi”. [IV,10,7] Qual è qua il difetto di mezzi? Dove ha posto il “Come accadrà?” ed il “Come riuscirà?” ed il “Purché non vada incontro a questo, a quest’altro”.?

Usa secondo la natura delle cose degli oggetti esterni e splendi della tua virtù (8-9)

[IV,10,8] Ora, quanto sortirà non è aproairetico? -Sì- La sostanza del bene e del male è in ciò che è proairetico? -Sì- Hai dunque la potestà di usare ogni cosa che succede secondo la natura delle cose. Può forse qualcuno impedirti? -Nessuno- [IV,10,9] Dunque non dirmi più: “Come accadrà?”. Giacché comunque accadrà tu lo porrai bene, e quanto succede sarà per te una fortuna.

Come fece Eracle (10)

[IV,10,10] Chi sarebbe Eracle se dicesse “Come far sì che non mi si diano a vedere un grosso leone, un grosso cinghiale od esseri umani belluini?” ? E che t’importa? Se si darà a vedere un grande cinghiale, ti cimenterai in un maggiore cimento; se individui cattivi, allontanerai dalla terra abitata dei cattivi.

E se morissi? Morire bene è uno stupendo momento di vita (11-13)

[IV,10,11] -E se così morirò?- Morirai da uomo dabbene, realizzando un’azione generosa. Dacché morire si deve affatto, è necessario essere trovati mentre si fa qualcosa: o si coltiva la terra o si zappa o mercanteggia o si è console o non si è digerito o si ha la diarrea. [IV,10,12] Mentre fai cosa, vuoi dunque essere trovato dalla morte? Io, per parte mia, mentre faccio qualche opera da uomo, benefica, di comune giovamento, generosa. [IV,10,13] E se non posso essere trovato mentre faccio cose così rilevanti, almeno mentre faccio quanto non è soggetto ad impedimenti, che mi è dato, mentre rettifico me stesso, mentre elaboro la facoltà che usa le rappresentazioni, mentre mi prodigo per dominare le passioni, mentre restituisco alle relazioni sociali quanto è loro attinente. Se sono così fortunato, anche mentre raccosto il terzo àmbito della filosofia, quello sulla sicurezza delle determinazioni.

La morte del saggio (14-17)

[IV,10,14] E se la morte mi piglierà occupato in questo, mi basta se potrò drizzare le mani alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia, e dire: “Le risorse che da te presi per accorgermi del tuo governo e per seguirlo, io non le trascurai. Per parte mia non ti svergognai. [IV,10,15] Ecco come ho usato le sensazioni, ecco come ho usato i pre-concetti. Ti biasimai forse mai? Forse che mi dispiacqui per qualche avvenimento o volli che accadesse altrimenti? Violai forse le relazioni sociali?[IV,10,16] Ti sono riconoscente perché mi generasti, ti sono riconoscente per quanto mi desti; ed il tempo che ebbi per usare i tuoi doni mi basta. Riprendili ed assegnami all’ufficio che disponi, giacché tutto era tuo, tu me l’hai dato”. [IV,10,17] Non basta uscire così disposti? E quale delle vite è migliore o più decorosa di quella di chi è così disposto? Quale rovescio è più felice?

Se vuoi qualcuno degli oggetti esterni, ecco che perdi te stesso perché lo devi pagare con te stesso: niente è gratis (18-19)

[IV,10,18] Perché ciò accada, non piccolo è quanto devi accogliere e non piccolo è quanto non devi fallire. Non puoi voler essere console e questo; industriarti per avere dei fondi e questo; preoccuparti dei servetti e di te stesso. [IV,10,19] Ma se vorrai qualcosa di allotrio, perdesti quanto è tuo. Questa è la natura della faccenda: nulla accade gratis. Che c’è di stupefacente? 

Tu sei disposto a leccare qualunque culo pur di ottenere delle miserabili cariche ma pensi che la felicità debba ottenersi assolutamente gratis (20-24)

[IV,10,20] Se vorrai essere console devi vegliare, correre di qua e di là, baciare le mani, marcire presso le porte altrui, dire ed effettuare molte cose non libere, mandare doni a molti e, a taluni, doni ospitali ogni giorno. E cos’è che accade? [IV,10,21] Dodici fasci di verghe, sedersi tre o quattro volte su una tribuna, dare giochi Circensi e pranzi dalle sportule. O uno mi mostri cos’è oltre questo! [IV,10,22] E dunque non vuoi spendere nulla, non fare fatica alcuna per ottenere il dominio sulle passioni, il dominio sullo sconcerto, per dormire davvero quando dormi, per essere davvero sveglio quando sei sveglio, per non avere paura di nulla, per non essere in ansia su nulla? [IV,10,23] E se, venuto a questa faccenda, qualcosa andrà in malora o sarà speso male oppure se un altro centrerà quel che dovevi centrare tu, subito sarai morso dall’avvenimento? [IV,10,24] Non contrapporrai cosa prendi in cambio di cosa, quanto in cambio di quanto? Ma vuoi prendere gratis cose così rilevanti? E come puoi? Opera ad opera.

Devi scegliere (25-26)

[IV,10,25] Non puoi avere centrati con sollecitudine gli oggetti esterni ed il tuo egemonico. Se vuoi quelli, tralascia questo. Se no non avrai né questo né quelli, essendo distratto su entrambi. [IV,10,26] Se vuoi questo, devi tralasciare quelli. L’olio sarà versato, le suppellettili andranno in malora ma io saprò dominare le passioni. In mia assenza ci sarà un incendio ed i miei libri andranno in malora, ma io userò le rappresentazioni secondo la natura delle cose.

Un porto c’è in ogni caso (27)

[IV,10,27] Ma non avrò da mangiare! Se sono così sciagurato, porto sarà il morire. Questo è di tutti il porto: la morte, questo il rifugio. Per questo nulla nella vita è arduo. Qualora lo disponga, esci e non ti affumichi.

Sta tranquillo: i tuoi beni sono al sicuro (28-30)

[IV,10,28] Perché dunque sei in ansia, perché vegli? Raffrontato dove sono il tuo bene ed il tuo male, non dici subito: “Entrambi sono in mio esclusivo potere. Nessuno può sottrarmi quello né precingermi di questo mio malgrado. [IV,10,29] Perché dunque non mi butto a russare? Quanto è mio è al sicuro! L’allotrio, se la vedrà chi lo riporterà come sarà dato da chi ne ha potestà. [IV,10,30] Chi sono io per volere che esso stia così o così? Forse che mi è stata data una sua selezione? Mi ha forse qualcuno fatto suo governante? A me basta ciò su cui ho potestà. Questo io devo approntare bellissimo. Il resto sarà come disporrà chi di lui è signore”?

Che miseria gli “eroi” senza retti giudizi! Mostrarli all’opera è lo scopo di Omero (31-36)

[IV,10,31] Con questi giudizi davanti agli occhi, uno veglia e si rivolta di qua e di là? Volendo o bramando cosa? Patroclo o Antiloco o Protesilao? Giacché quando ritenne immortale qualcuno degli amici? Quando non aveva davanti agli occhi che domani o dopodomani devono morire o lui o quello? [IV,10,32] “Sì,” dice, “ma credevo che quello mi sarebbe sopravvissuto e che avrebbe cresciuto mio figlio”. Infatti eri uno stupido e credevi cose dubbie. Perché dunque non incolpi te stesso, invece di sedere a singhiozzare come le pupattole? [IV,10,33] “Ma quello mi sistemava accanto da mangiare!” Giacché era vivo, stupido; adesso non può. Te lo sistemerà Automedonte e se anche Automedonte morrà, ne troverai un altro. [IV,10,34] Se si romperà la pentola in cui ti lessava un pezzo di carne, tu devi morire di fame perché non hai la pentola consueta? Non manderai a comprarne un’altra nuova? [IV,10,35] *Nessun altro male peggiore,* dice, *potrei soffrire* E questo per te è un male? E poi, tralasciando di strappartelo, accagioni tua madre di non averti avvisato, sicché da quel momento continui a dolerti? [IV,10,36] Cosa reputate? Omero non ha composto queste storie a bella posta affinché noi vediamo che nulla impedisce agli individui di stirpe più nobile, ai più potenti fisicamente, ai più ricchi di denaro, ai più formosi di essere, qualora non abbiano i giudizi che si deve, meschinissimi e preda di cattivissima fortuna?

CAPITOLO 11
SULLA PULIZIA

Puliti nel corpo e puri nell’animo: il senso della pulizia come istinto degli uomini e caratteristica degli dei dei quali sono padri (1-4)

[IV,11,1] Alcuni sono in disaccordo sull’essere la socievolezza insita nella natura dell’essere umano; ma ugualmente non reputo che questi stessi sarebbero in disaccordo sull’esserlo affatto il senso del pulito e, se per qualcos’altro, che anche per questo l’uomo è separato dagli animali. [IV,11,2] Qualora dunque vediamo qualche altro animale mondarsi, siamo soliti soggiungere con ammirazione “Come un uomo!”. E di nuovo, se uno incolperà qualche animale, subito siamo soliti dire come scusandolo “Appunto, non è un uomo!”. [IV,11,3] E lo crediamo qualcosa di così singolare dell’uomo, prendendolo innanzitutto dagli dei. Dacché essi sono per natura puri ed incontaminati, e di quanto gli uomini si sono approssimati ad essi secondo ragione, di tanto si attengono al puro ed al pulito. [IV,11,4] E dacché è inconcepibile che la loro sostanza sia integralmente pura perché mescolata a quel siffatto materiale, la ragione invitata al fattibile prova a farla risultare pulita.

La purezza dell’animo è nell’essere dotato di giudizi quali devono essere (5-8)

[IV,11,5] Dunque la prima e superiore purezza, e similmente impurezza, è quella dell’animo. Ma non troveresti l’impurezza dell’animo visibile come quella del corpo, poiché quale altra impurezza dell’animo troveresti se non quanto lo procura sozzo nelle sue opere? [IV,11,6] Ora, opere dell’animo sono impellere, repellere, desiderare, avversare, prepararsi, progettare, assentire. [IV,11,7] Cos’è dunque mai che procura un animo sozzo ed impuro in queste opere? Null’altro che le sue determinazioni depravate. [IV,11,8] Sicché impurezza dell’animo sono i malvagi giudizi, mentre è purificazione l’infusione di giudizi quali devono essere. Puro è l’animo che ha giudizi quali deve, giacché solo questo è senza confusione e sudiciume nelle proprie opere.

La pulizia del naso… (9)

[IV,11,9] Qualcosa di somigliante bisogna lavorare con arte anche riguardo al corpo, secondo il fattibile. Era inconcepibile che all’uomo non colassero i mocci, essendo egli una commistione siffatta. Per questo la natura fece le mani e le narici proprio come canali per emettere i fluidi. Se dunque uno li ringhiottirà, dico che non sta facendo opera da uomo. 

dei piedi… (10)

[IV,11,10] Era inconcepibile che i piedi non si infangassero o non si insudiciassero interamente, quando procedono attraverso dei braghi siffatti: per questo la natura apprestò l’acqua, per questo le mani. 

dei denti… (11)

[IV,11,11] Era inconcepibile che masticando non restasse tra i denti qualche sozzura. Per questo “Lava”, dice, “i denti”. Perché? Per essere uomo e non una belva né un maialino.

della pelle e del corpo… (12-14)

[IV,11,12] Era inconcepibile che a causa del sudore e del contatto del vestito con la pelle non sopravanzasse sul corpo qualche sozzura bisognosa di mondazione: per questo vi sono acqua, olio, mani, pannolino, strigile, nitro e, all’occorrenza, ogni altro preparato per ripulirlo. [IV,11,13] No, ma il fabbro dirugginirà il ferro ed avrà strumenti strutturati per questo; tu stesso laverai il tuo piattino, qualora stia per mangiare, se non sarai definitivamente un sozzo sporcaccione; e non laverai il tuo corpo né lo farai pulito? -Perché? dice- [IV,11,14] Di nuovo ti dirò: innanzitutto per fare opera da uomo e poi per non infastidire coloro che incontri. 

Bada almeno a non infastidire altri con il tuo sudiciume (15-18)

[IV,11,15] Qualcosa di siffatto fai anche qua, e non te ne accorgi. Ti ritieni degno di puzzare? Sia, siine degno. Ma ne sono forse degni anche coloro che ti si siedono accanto, si sdraiano con te, ti baciano? [IV,11,16] Ma partitene per qualche dove isolato di cui sei degno, e passatela da solo impuzzando te stesso! Giacché è giusto che tu fruisca da solo della tua sporcizia. Ma essendo in città, di chi ti pare proprio il condursi in modo così sconsiderato e scriteriato? [IV,11,17] Se la natura ti avesse affidato un cavallo, lo terresti sbadatamente negletto? Ora, credi che il corpo è stato posto nelle tue mani come un cavallo: lavalo, mondalo dallo smegma, fallo affinché nessuno se ne distolga, nessuno lo scansi. [IV,11,18] Chi non scansa un individuo sozzo, che puzza, la cui pelle è più lurida di chi è imbrattato di merda? Quest’odore, poi, è sovrapposto dal di fuori, mentre l’altro viene da una incuria dal di dentro e come da qualcosa di putrefatto. 

Ma Socrate si lavava poco… (19-21)

[IV,11,19] -Ma Socrate poche volte faceva un bagno caldo- Ma splendeva il suo corpo, ed era così aggraziato e piacevole che i giovani più fiorenti e di più nobile stirpe ne erano innamorati e smaniavano per giacere sul letto accanto a lui piuttosto che a quelli più formosi. Socrate aveva dunque la potestà di non fare un bagno caldo né di lavarsi con acqua fredda, se lo disponeva: eppure, anche il farlo poche volte, che potenza aveva! [IV,11,20] -Ma Aristofane dice *i pallidoni, gli scalzi, dico*- Dice anche che andava per l’aria e che rubava le toghe dalla palestra. [IV,11,21] Peraltro tutti coloro che hanno scritto su Socrate attestano tutto l’opposto, ossia che era piacevole non soltanto sentirlo parlare ma anche da vedere. E, di nuovo, su Diogene scrivono le stesse cose.

Se il filosofo è un uomo pulito attirerà molti alla filosofia (22-24)

[IV,11,22] Giacché in relazione al palesamento del corpo non si deve far scappare di spavento la gente dalla filosofia, ma si deve sfoggiare buon umore e dominio dello sconcerto, come nel resto, così pure dal corpo. [IV,11,23] “Vedete, o uomini: non ho nulla e non ho bisogno di nulla. Vedete come pur essendo senza casa, senza cittadinanza, caso mai esule e senza focolare, io me la passo più al riparo dallo sconcerto e più serenamente di tutti gli individui di buona famiglia e ricchi di denaro. E vedete anche che il mio corpo non è maltrattato dall’austero tenore di vita”. [IV,11,24] Ma se queste cose me le dirà chi ha l’abito ed il viso di un condannato, quale degli dei mi persuaderà a venire alla filosofia, se la filosofia fa appunto individui siffatti? Non sia mai! Non lo vorrei, seppure fossi per essere sapiente!

La pulizia come segnale di aspirazione al bello: Polemone va da Senocrate (25-30)

[IV,11,25] Io sì, per gli dei, voglio che il giovane che per la prima volta si muove alla filosofia venga da me con la chioma ben plasmata piuttosto che trasandato e sozzo. Giacché si ravvisa in lui una certa rappresentazione del bello, una mira al decoroso. E dove immagina che il bello sia, lì egli lavora con arte. [IV,11,26] Orbene, bisogna solo indicarglielo e dire: “Giovanotto, tu cerchi il bello e fai bene. Sappi dunque che il bello germoglia là dove hai la ragione. Cercalo là dove sono gli impulsi e le ripulse, dove sono i desideri e le avversioni. [IV,11,27] Giacché questo hai in te di singolare, mentre il corpo è per natura argilla. Perché gli fatichi intorno a casaccio? Col tempo riconoscerai, se non altro, che esso è nulla”. [IV,11,28] Se invece verrà da me imbrattato di merda, sozzo, con i mustacchi fino alle ginocchia, cos’ ho da dirgli, da quale tipo di somiglianza a qualcosa di bello posso istruirlo induttivamente alla ragione? [IV,11,29] Per cosa si industria di simile al bello, per allogarlo e dirgli: “Il bello non è qua ma là”? Vuoi che gli dica: “Il bello non è nell’imbrattarsi di merda ma nella ragione”? Giacché prende egli di mira il bello? Giacché ne ha qualche palesamento? Parti e dialoga con un maiale perché non si rotoli nel brago! [IV,11,30] E per questo i discorsi di Senocrate toccarono Polemone, come giovanotto amante del bello. Entrò infatti alla scuola di Senocrate perché aveva dei barlumi di industria per il bello, ma lo stava cercando altrove.

Quanto a pulizia, si può anche prendere esempio da certi animali (31-32)

[IV,11,31] Peraltro la natura sozzi non fece neppure gli animali che con gli esseri umani fanno vita comune. Un cavallo si rotola forse nel brago? Lo fa forse un cane di razza? Lo fanno invece il porco, le schifose papere, i vermi, i ragni, le creature bandite il più lontano possibile dalla correlazione con gli uomini. [IV,11,32] Tu, dunque, da essere umano, neppur vuoi essere una delle creature che fanno vita comune con gli umani ma piuttosto un verme od un ragno? Non farai una qualche volta un bagno caldo come vuoi, non ti risciacquerai, e se non vorrai l’acqua calda con quella fredda? Non giungerai pulito, affinché i sodali si rallegrino di te? Ma pure nei sacrari ti riunisci a noi siffatto, luoghi dove non è stato legittimato sputare né smocciarsi, tu che intero sei sputo e mocci?

Non offendere il senso altrui del pulito ed evitare ogni eccentricità e stravaganza (33-36)

[IV,11,33] E dunque? Uno sollecita che ci si abbellisca? Non sia mai! Ma che si abbellisca ciò per cui siamo nati: la ragione, i giudizi, le nostre attività; ed il corpo fino al pulito, fino al non offendere. [IV,11,34] Ma se sentirai dire che non bisogna portare lo scarlatto, parti ed imbratta di merda il tuo mantello, oppure straccialo! -Ma come faccio ad avere un magnifico mantello?- O uomo, hai l’acqua: lavalo! [IV,11,35] Ecco un giovane degno d’amore, ecco un anziano degno d’amare e di essere contraccambiato d’amore, un anziano al quale uno trasmetterà il proprio figlio affinché venga educato, dal quale delle figlie, dal quale dei giovani verranno, caso mai, affinché tenga le conferenze in un merdaio? Non sia mai! [IV,11,36] Ogni stravaganza nasce da qualche tratto umano, ma questa è vicino a non essere umana!

CAPITOLO 12
SULL ‘ ATTENZIONE

Fare attenzione ai principi generali significa non fare quanto ci viene in mente ma quanto pensiamo (1-6)

[IV,12,1] Qualora tralasci per un poco l’attenzione, non immaginare di recuperarla in caso lo voglia, ma ti sia a portata di mano che per via dell’aberrazione odierna necessariamente le tue faccende vanno peggio anche per il resto. [IV,12,2] Giacché innanzitutto si ingenera l’abitudine più esasperante di tutte, quella di non fare attenzione; e poi l’abitudine di rimandare l’attenzione. E così ti abitui a posporre sempre ad altro tempo e poi ad altro ancora l’essere sereno, l’agire con decoro, lo stare e tragittartela in accordo con la natura delle cose. [IV,12,3] Se dunque il posporre è vantaggioso, più vantaggiosa è la definitiva diserzione dall’attenzione. Ma se non è vantaggioso, perché non custodisci l’attenzione continuativa? [IV,12,4] “Oggi voglio giocare”. Cosa impedisce, dunque, di farlo con attenzione? “Cantare”. Cosa impedisce, dunque, di farlo con attenzione? Si può forse strappare una parte di vita su cui non si prolunga l’attenzione? Giacché lo farai peggio con attenzione e meglio senza attenzione? E cos’altro nella vita diventa migliore per opera di coloro che non fanno attenzione? [IV,12,5] Il falegname fa il falegname più precisamente non facendo attenzione? Il pilota che non fa attenzione pilota più sicuramente? E quale altra delle più piccole opere è realizzata meglio grazie alla disattenzione? [IV,12,6] Da che tralascerai l’intelligenza, non ti accorgi che non è più in tuo esclusivo potere richiamarla a te, al senso del decoro, al rispetto di te e degli altri, alla calma? Tu, invece, fai tutto quanto ti salta in testa, tu aderisci alle foghe.

Attenzione a possedere saldamente i principi universali nell’ambito del desiderio e dell’avversione (7-14)

[IV,12,7] -A che cosa devo dunque fare attenzione?- Innanzitutto a quei principi universali; quelli tenere a portata di mano; non dormire e non alzarsi, non bere e non mangiare, non conferire con persone sprovvisto di quelli: che nessuno è signore di una proairesi altrui e che soltanto in questa stanno il bene ed il male. [IV,12,8] Dunque nessuno è signore né di procacciarmi il bene né di precingermi del male, ma io solo ho potestà su di me a questo riguardo. [IV,12,9] Qualora questi principi siano dunque in me sicuri, cos’ho da sconcertarmi circa gli oggetti esterni? Quale tiranno sarà pauroso, quale malattia, quale povertà di denaro, quale ostacolo? [IV,12,10] -Ma non fui gradito al tale- E quello è forse un’opera mia, è forse una mia determinazione? -No- Dunque che m’importa ancora? -Ma sembra essere qualcuno!- [IV,12,11] Lo vedrà lui e coloro cui sembra; io l’ho, a chi devo essere gradito, a chi essere subordinato, a chi ubbidire: Zeus e, dopo di lui, me. [IV,12,12] Egli raccomandò me a me stesso e subordinò la mia proairesi a me soltanto, dando canoni per il suo retto uso; ai quali qualora mi conformi, nel caso dei sillogismi, non mi impensierisco per nulla di coloro che dicono qualcos’altro; nei ragionamenti equivoci non mi preoccupo di nessuno. [IV,12,13] Perché, dunque, nelle maggiori questioni, coloro che denigrano m’infastidiscono? Cos’è causativo di questo sconcerto? Null’altro se non che in questo àmbito non sono allenato. [IV,12,14] Dacché ogni scienza è spregiativa dell’ignoranza e degli ignoranti, e non soltanto le scienze ma anche le arti. Porta un qualunque calzolaio e questi deride i più circa l’opera sua; porta qui un qualunque falegname.

Attenzione a possedere saldamente i principi universali nell’ambito degli impulsi e delle repulsioni, di quanto è doveroso nelle relazioni sociali (15-18)

[IV,12,15] Innanzitutto bisogna dunque avere a portata di mano questi principi e nulla fare prescindendo da essi, ma avere l’animo teso a questo scopo: non inseguire nulla di al di fuori, nulla di allotrio ma, come costituì chi può, inseguire ad ogni costo ciò che è proairetico ed il resto come sarà dato. [IV,12,16] Oltre a ciò ricordare chi siamo e quale nome abbiamo, e provare ad aggiustare gli atti doverosi alla nostra facoltà delle relazioni sociali: [IV,12,17] quale il tempo per un cantico, quale il tempo per uno scherzo, in presenza di chi; che cosa verrà dalla faccenda; forse che i sodali spregeranno noi, forse noi loro; quando schernire e quando deridere chi, e quando essere compiacente con chi e su cosa e, orbene, nella compiacenza come serbare la propria personalità. [IV,12,18] Dove ti stornerai da qualcuno di questi principi, ecco subito la punizione, non da qualche dove dal di fuori, bensì dalla attività stessa. 

Se tu fossi convinto di ottenere così la felicità, non rinvieresti ma ti metteresti immediatamente all’opera (19-21)

[IV,12,19] E dunque? Si può ormai essere al riparo da aberrazioni? E’ inconcepibile. Però si può essere continuamente teso a non aberrare. Giacché è cara cosa se, non placando mai questa attenzione, saremo almeno esterni ad un po’ di aberrazioni. [IV,12,20] Adesso, qualora dica: “Da domani farò attenzione”, sappi che dici: “Oggi sarò sfacciato, intempestivo, servo nell’animo; sarà in potere d’altri affliggermi; oggi sarò preda dell’ira, invidierò”. [IV,12,21] Ravvisa quanti mali ti deleghi! Ma se ti sta bene domani, quanto meglio oggi! Se è utile domani, molto più oggi, affinché tu possa anche domani e non lo rimandi di nuovo a dopodomani.

CAPITOLO 13
A QUANTI PROPALANO GLI AFFARI LORO COME SE NIENTE FOSSE 

Non affidarsi al primo venuto (né al secondo, né al terzo…) (1-4)

[IV,13,1] Qualora reputiamo che qualcuno ha dialogato con noi schiettamente delle sue faccende, siamo come indotti anche noi a propalargli i nostri segreti e crediamo che essere schietti sia questo. [IV,13,2] Innanzitutto perché reputiamo iniquo avere ascoltato i fatti di chi ci sta dintorno e non fargli parte a nostra volta dei nostri. E poi perché crediamo, tacendo i nostri propri, di non procurare loro l’immagine di uomini schietti. [IV,13,3] Senza fallo, spesso si è soliti dire: “Io ti ho detto tutti i fatti miei e tu non vuoi dirmi nulla dei tuoi? Dove accade questo?” [IV,13,4] Per di più vi è il credere di poterci in sicurezza fidare di chi ci ha già affidato i fatti suoi, giacché ci viene da pensare che costui non riferirebbe mai i fatti nostri per cautelarsi che noi pure riferiamo i suoi.

Spie a Roma e dintorni (5-8)

[IV,13,5] Anche così, a Roma, i precipitosi sono presi dai soldati. Ti si è seduto accanto un soldato in abito comune ed inizia a parlar male di Cesare. Poi tu, come prendendo da lui a pegno di lealtà il fatto che ha incominciato ad ingiuriarlo, dici quanto pregi della faccenda e quindi sei menato via in catene. [IV,13,6] Noi sperimentiamo qualcosa di siffatto anche in generale. Se quello mi ha affidato in sicurezza i fatti suoi, io invece non faccio così con il primo venuto [IV,13,7] ma, dopo avere ascoltato taccio, se siffatto sarò, mentre quello esce e propala i fatti miei a tutti. Se conoscerò l’avvenimento e sarò io stesso simile a lui, volendo poi difendermi propalo i fatti suoi ed ingarbuglio e sono ingarbugliato. [IV,13,8] Se però rammenterò che uno non danneggia un altro, ma che le proprie opere danneggiano o giovano ciascuno, allora tengo ben fermo il principio di non fare qualcosa di simile a lui ed ugualmente che ho sperimentato quel che ho sperimentato a causa delle mie chiacchiere.

Trai le necessarie conseguenze dal fatto che il primo venuto è, con altissima probabilità, una botte forata, uno che usa sistematicamente la controdiairesi (9-11)

[IV,13,9] -Sì, ma dopo avere ascoltato i segreti di chi ci sta dintorno è iniquo non fargli parte a nostra volta di nulla- [IV,13,10] Ma ti ho forse pregato io di raccontarmeli, o uomo? Hai forse propalato i fatti tuoi a patto di ascoltare poi, a tua volta, i miei? [IV,13,11] Se tu sei un chiacchierone e reputi amici tutti coloro che ti vengono incontro, vuoi che anch’io diventi simile a te? Perché, se tu hai fatto bene ad affidarmi i fatti tuoi ma non è bene fidarsi di te, vuoi che sia precipitoso? 

Le due botti (12-16)

[IV,13,12] Come se io avessi una botte stagna e tu una forata, e tu venissi a commettermi il tuo vino perché lo butti nella mia botte. E poi fremi perché anch’io non ti affido il mio vino? Infatti tu hai la botte forata! [IV,13,13] Com’è dunque ancora pari ciò? Tu lo commettevi ad uno leale, rispettoso di sé e degli altri, che ritiene le proprie attività sole e nulla di quanto è esterno, dannose o giovevoli. [IV,13,14] E vuoi che io commetta a te, ad un essere umano che deprezza la propria proairesi, che vuole centrare il quattrinello o qualche carica od una promozione a corte, anche se starai per scannare i tuoi figlioli come Medea? [IV,13,15] Dov’è pari, questo? Mostrati invece a me leale, rispettoso di te e degli altri, ben saldo; mostra di avere giudizi da amico; mostra che il tuo recipiente non è forato e vedrai come io non attenderò che tu mi affidi i fatti tuoi, ma verrò io stesso a pregarti di ascoltare i miei! [IV,13,16] Chi infatti non vuole usare un magnifico recipiente, chi deprezza un consigliere benevolo e leale, chi non accoglierà allegramente colui che ha intenzione di condividere le nostre circostanze difficili come si trattasse di un fardello e che per il fatto stesso di condividerle lo alleggerisce?

Com’è possibile che chi è servo degli oggetti esterni non sia indiscreto ed inaffidabile? (17-24)

[IV,13,17] -Sì, ma io mi fido di te e tu non ti fidi di me- Innanzitutto neppure tu ti fidi di me ma sei un chiacchierone e per questo non puoi rattenere nulla. Dacché se è come dici, i fatti tuoi affidali a me solo. [IV,13,18] Ora, invece, tu ti siedi accanto a chiunque veda starsene comodo e gli dici: “Fratello, non ho nessuno più benevolo e più amico di te. Ti prego di ascoltare i fatti miei”. E questo fai con chi neppure un poco hai conosciuto! [IV,13,19] Se poi ti fidi di me, è manifesto che lo fai perché sono leale e rispettoso di me e degli altri, non perché ti riferii i fatti miei. [IV,13,20] Lascia dunque che anch’io concepisca lo stesso. Mostrami che, se uno riferirà a qualcuno i fatti propri, è leale e rispettoso di sé e degli altri. Giacché, se così fosse, io andrei in giro a dire i fatti miei a tutta la gente, se per questo fossi per essere leale e rispettoso di me e degli altri. Ma le cose non sono siffatte e, per essere leali e rispettosi di sé e degli altri, c’è bisogno di giudizi e giudizi non casuali. [IV,13,21] Se dunque vedrai qualcuno che si industria per ciò che è aproairetico e che ad esso ha subordinato la propria proairesi, sappi che questo individuo ha miriadi di persone che lo costringono, che lo impediscono. [IV,13,22] Non c’è bisogno per lui di pece o di ruota di tortura per riferire quel che sa, ma lo scrollerà, caso mai, il cennuccio di una ragazzina, il segno d’amicizia di un funzionario di Cesare, la smania per una carica, per una eredità ed altre trentamila cose simili a queste. [IV,13,23] Si deve dunque ricordare, in generale, che i segreti hanno bisogno di lealtà e di giudizi siffatti. [IV,13,24] Queste cose, ora, dov’è possibile trovarle facilmente? Oppure qualcuno mi mostri un uomo che sta così da dire: “A me importa solo di quanto è mio, di quanto non è soggetto ad impedimenti, di quanto è libero per natura. Questo, che è la sostanza del bene, io l’ho. Il resto accada come sarà dato: non faccio differenza”.