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INDICE RAGIONATO

I 73 termini filosofici dei quali si offre una presentazione ragionata sono i seguenti:

* Aberrazione
* Afflizione
* Allotrio
* Al riparo dall’inganno
* Appropriazione di sé
* Aproairetico
* Assenso
* Assimilarsi alla divinità
* Assomigliarsi
* Avere successo
* Avvenenza
* Avversione
* Buona fortuna
* Cattiva fortuna
* Cautela
* Che non incappa in ciò che avversa
* Comprensione
* Concetto
* Concezione
* Conflagrazione dell’universo
* Controdiairesi
* Dei
* Desiderio
* Diairesi
* Dio
* Dissentire
* Dominio sull’afflizione
* Dominio sulla paura
* Dominio sulle passioni
* Dominio sullo sconcerto
* Ebbrezza
* Eccezione
* Educazione all’uso della diairesi
* Egemonico
* Felicità
* Fortuna
* Giudizio
* Iddio
* Impulso
* Incultura
* Indifferenza
* Indifferente
* Inganno
* Insubordinabile
* Intelletto
* Irragionevole
* Libertà
* Logico
* Logos
* Materia
* Materia Immortale
* Materiale
* Mente della Materia Immortale
* Natura
* Natura delle cose
* Necessità
* Non soggetto ad intralci
* Non soggetto ad impacci
* Non soggetto a impedimenti
* Opere della proairesi
* Piacere fisico
* Pre-concetto
* Proairesi
* Proairetico
* Pronoia
* Ragione
* Ragionevole
* Repulsione
* Rispetto di sé e degli altri
* Soggetto a costrizione
* Smania
* Stoltezza
* Zeus

Per ognuno di questi termini sono anche segnalati i passi dell’opera di Epitteto nei quali essi ricorrono. Il primo numero (in cifre romane) indica il Libro, il secondo numero indica il capitolo e il terzo numero indica il paragrafo dove il passo compare. Per l’indicazione dei passi compresi nel Manuale uso la lettera E seguita dal numero del capitolo e del paragrafo. Per i passi contenuti nei frammenti uso la sigla Fr. seguita dal numero del frammento in cifre romane.

INDICE RAGIONATO DI 73 TERMINI FILOSOFICI DI PARTICOLARE RILIEVO IN EPITTETO

ABERRAZIONE: traduce il sostantivo μάρτημα (‘amàrtema’). L’aberrazione è l’opposto del κατόρθωμα (‘katòrthoma’), ossia dell’atteggiamento diairetico della proairesi, dunque del retto giudizio e della retta azione. Aberrare significa pertanto voler andare contro la natura delle cose, atteggiando la nostra proairesi in modo controdiairetico. Ma questo equivale ad ignorare di disporre così la propria infelicità, giacché ogni aberrazione dell’essere umano include una contraddizione. La contraddizione è per natura delle cose invisa ad ogni animo razionale, ma finché questo non comprenderà di essere in contraddizione, nulla impedisce che faccia cose contraddittorie e sia infelice.
I,7,31; I,7,33; I,18,4; II,13,17-18; II,21,6; II,24,20; II,26,1; III,25,9-10; IV,4,7; IV,6,2; IV,12,1; IV,12,19; Fr. XV

AFFLIZIONE: traduce il sostantivo λύπη (‘lùpe’). L’afflizione è l’opinione immediata e senza riserva che un male ci è presente. Poiché, però, bene e male sono unicamente giudizi proairetici, la proairesi in stato di afflizione altro non sta facendo che dichiarare se stessa ‘male’. Oltre ad essere una prova decisiva della validità dell’intellettualismo Socratico, l’afflizione testimonia l’infinita libertà della proairesi umana e la verità della ‘controdiairesi’, ossia della capacità che la proairesi ha di affermare in suo esclusivo potere ciò che invece non è in suo esclusivo potere, oppure di negare che sia in suo esclusivo potere ciò che invece è in suo esclusivo potere.
I,9,7; I,23,4; II,1,24; II,12,7-8; II,16,45; III,7,7; III,22,61; III,24,1; III,24,23; III,24,82; III,24,90; III,24,114; IV,1,84; Fr. III; Fr. XX; Fr. XXVIIIb; E16; E26; 

ALLOTRIO, ossia ‘in potestà d’altri’ traduce l’aggettivo λλότριος (‘allòtrios’): Chi non è soggetto a impedimenti? Chi non prende di mira alcunché di allotrio. Cos’è allotrio? Ciò che non è in nostro esclusivo potere avere o non avere od avere con certe qualità od in un certo stato. Tutto ciò ch’è aproairetico è tale. Pertanto allotrio è il corpo, allotrie sono le parti del corpo, allotrio è il patrimonio. Chi si strugge per qualcuna di queste cose come sua peculiare, pagherà il fio che merita chi prende di mira l’allotrio. 
I,1,32; I,18,9; I,18,12; I,24,11; I,25,4; I,28,23; I,29,11; II,4,10; II,5,5-6; II,6,8; II,6,24; II,9,14; II,13,8; II,13,18; II,15,1; II,16,10; II,16,27-28; II,16,45; II,19,19; II,19,28; III,7,11; III,7,21; III,10,17; III,10,20; III,18,7; III,22,32; III,22,38; III,22,97; III,22,99; III,22,102; III,24,3-4; III,24,22-23; III,24,39; III,24,68; IV,1,66; IV,1,75-77; IV,1,81; IV,1,83; IV,1,87; IV,1,107; IV,1,129-130; IV,1,159; IV,1,172; IV,5,5; IV,5,7; IV,5,15; IV,5,35; IV,6,9; IV,10,6; IV,10,19; IV,10,29; IV,12,15; E1,2-3; E11,1; E14,1; E24,2

AL RIPARO DALL’INGANNO: traduce l’aggettivo νεξαπάτητος  (‘anexapàtetos’). Secondo Epitteto, tre sono i campi nei quali specialmente deve esercitarsi la proairesi dell’uomo che dispone di vivere in armonia con la natura delle cose. Il primo è quello del desiderio e dell’avversione, per non fallire il segno nell’uno e non incappare nell’oggetto dell’altra. Il secondo è quello degli impulsi e delle repulsioni, per essere al riparo dalle aberrazioni. Il terzo è quello della proposizione e della sospensione dell’assenso, per essere al riparo dall’inganno e dai sofismi
I,4,11; I,7,26; III,2,7-8

APPROPRIAZIONE DI SÉ: traduce il sostantivo οκείωσις (‘oikéiosis’). L’appropriazione di sé è unico e medesimo fondamento per tutte le creature del cosmo. Che ogni essere agisca per se stesso è un fatto universale e non negativo, giacché la Materia Immortale struttura ogni creatura, e ne permette la sopravvivenza, in modo tale che questa non possa centrare il proprio bene senza fornire un qualche giovamento comune. Nel caso dell’uomo, colui che si appropria di chi l’uomo davvero è per natura, ha fatto anche l’azione più doverosa e socialmente utile che si possa fare: azione che in questo caso si risolve nell’uso sistematico della diairesi e nel conseguimento della virtù, ossia del retto uso delle rappresentazioni: il che diventa identico all’azione di assimilarsi alla divinità (q.v.), ossia a Zeus.
I,19,15

APROAIRETICO: traduce l’aggettivo προαίρετος (‘aproàiretos’). Aproairetico è tutto ciò che non è in esclusivo potere della proairesi umana. La proairesi (q.v.) umana è libera, infinita, inasservibile e insubordinabile ma non onnipotente. Delle quattro cause basilari delle vicende cosmiche, tre sono aproairetiche: natura, necessità, fortuna.
I,4,2; I,4,27; I,18,21; I,19,16; I,28,18; I,29,24; I,29,49; I,30,3; II,1,4-6; II,1,9-10; II,1,12; II,1,29; II,1,39-40; II,10,8; II,10,16; II,13,10; II,16,1; II,17,24; II,22,28; II,23,19; III,2,13; III,3,14-15; III,3,19; III,5,4; III,7,5; III,7,7; III,7,10; III,8,1-2; III,12,1; III,12,5-6; III,16,15; III,19,2; III,25,12; III,24,56-57; III,24,106; III,24,112; IV,1,23; IV,1,40; IV,1,84; IV,1,110; IV,4,3; IV,4,39; IV,6,9-10; IV,7,8; IV,7,10; IV,10,1-2; IV,10,8; IV,13,21; E7,1; E11,1

ASSENSO: traduce il sostantivo συγκατάθεσις (‘sunkatàthesis’). L’assenso è la quinta delle sei opere cardinali della proairesi, ed è l’opposto del ‘dissentire’ (q.v.). L’assenso è un’entità proairetica ed è un’azione per natura libera, non soggetta a impedimenti e non soggetta a costrizioni. Le rappresentazioni dell’animo da cui la mente di un essere umano è subito colpita non appena le giunge l’apparenza di alcunché, non sono soggette né al suo libero giudizio né al suo controllo ma si fanno strada quasi con violenza, onde essere da lui conosciute. Invece gli assensi con cui le rappresentazioni medesime sono riconosciute, sono liberi giudizi e soggiacciono al controllo dell’uomo. Per questo, quando si verifica qualche rumore spaventoso, è necessario che anche l’animo del saggio per un momento ne sia scosso e si contragga, non per la previsione di qualche male ma per la presenza di certi moti rapidi ed irriflessi i quali prevalgono sulle normali funzioni della proairesi. Nondimeno, subito dopo, il sapiente non dà il proprio assenso a quelle certe rappresentazioni (ossia alla spaventosità di queste rappresentazioni del suo animo) ma le scaccia e le respinge, non vedendo in esse nulla che egli debba temere. Questa, appunto, è la differenza tra l’animo del sapiente e quello dell’insipiente. Questo ritiene veramente tremende e crudeli le cose che così gli sono apparse alla prima impressione e in seguito, come se fossero realmente terribili, dà loro anche il suo assenso. Il sapiente, al contrario, dopo essere per un breve istante e fuggevolmente mutato di colore e d’espressione non dà il proprio assenso, ma conserva saldamente e con vigore il giudizio che aveva sempre avuto circa tali rappresentazioni, cioè che non sono affatto temibili e che spaventano con una falsa apparenza e con vana paura. 
I,4,9; I,18,1; I,21,2; II,8,29; II,17,15; III,2,1-2; III,9,18; III,12,14; III,22,104; IV,1,69; IV,1,72; IV,4,13; Fr. IX

ASSIMILARSI ALLA DIVINITÀ: vedi ASSOMIGLIARSI

ASSOMIGLIARSI (a Zeus): traduce il verbo ξομοιόω (‘exhomoiòo’). “Tu sei un dio, uomo; tu hai grandi progetti!” Sono queste le parole che Epitteto rivolgerebbe ad un giovane che avesse davvero fatto progressi in tutti e tre gli ambiti principali della filosofia. Quella che viene comunemente chiamata ‘assimilazione alla divinità’, non è dunque un tentativo dell’uomo di assomigliarsi a qualcuno degli dei, ma quello di assomigliarsi a Zeus in lealtà, in libertà, in rettitudine di giudizi, in rispetto della natura delle cose. Questa operazione è negata e impossibile alla proairesi atteggiata controdiaireticamente, mentre è perfettamente realizzata dalla proairesi atteggiata diaireticamente. Quando ciò accade, uomo e Zeus sono su un piano di parità e la divinità e felicità dell’uno è indistinguibile da quella dell’altro.
I,2,18; II,14,12; III,16,1

AVERE SUCCESSO: traduce il verbo κατορθόω (‘katorthòo’). Quando la proairesi si dispone in armonia con la natura delle cose essa dispone così il proprio bene e il proprio successo, giacché ogni aberrazione dell’essere umano include una contraddizione. Κατορθόω è l’opposto dei verbi μαρτάνω e ποτυγχάνω (‘apotunkàno’) che significano entrambi ‘aberrare’, ‘fallire l’obiettivo’. Per avere successo in qualunque caso specifico e pratico bisogna inevitabilmente attraversare tre passaggi. Il primo e fondamentale è l’azione proairetica di eliminare in noi ogni potenziale atteggiamento controdiairetico e di aprirci al confronto con tutto ciò ch’è aproairetico con coraggio, coscienti della esplicita riserva che il risultato di questo confronto (ecco il secondo passaggio) è cosa aproairetica, non in nostro esclusivo potere. Il terzo passaggio, nuovamente azione proairetica, è il retto giudizio che dal risultato del confronto, sia nel caso di successo che nel caso di insuccesso, come non può esserci venuto alcun bene, altrettanto non può esserci venuto alcun male. 
I,17,15; I,27,8; I,28,30; II,3,4; II,23,28; II,26,1; III,9,2

AVVENENZA: traduce il sostantivo κάλλος (‘kàllos’). L’avvenenza, come la magnificenza o la grandiosità, nulla hanno che fare con la bellezza. Avvenenza e bellezza sono entrambi giudizi proairetici di chi osserva, ma mentre la prima concerne aspetti esteriori dell’osservato, la seconda è da riferirsi unicamente agli atteggiamenti in armonia con la natura delle cose della proairesi dell’osservato. Un essere umano, pertanto, può apparirci avvenente e al contempo stolto. Da migliaia di anni è invece invalso in Occidente l’uso di chiamare ‘belli’ oggetti esterni ed aproairetici, invece di riservare l’aggettivo ‘bello’, com’è corretto fare, esclusivamente alla virtù e alle sue opere. 
I,18,11; II,23,32; IV,9,1; Fr. XXXVI

AVVERSIONE: traduce il sostantivo κκλισις (‘ékklisis’). L’avversione è la seconda delle sei opere cardinali della proairesi ed è l’opposto del desiderio (q.v.) La sua azione si svolge nel vastissimo campo del ‘bene’ e del ‘male’, nel quale si gioca la partita della nostra ‘virtù’ o del nostro ‘vizio’. L’avversione è ‘proairetica’ e può essere rivolta tanto contro ciò ch’è aproairetico quanto contro ciò ch’è proairetico. Ma l’avversione senza riserva contro ciò ch’è aproairetico, per inviolabile legge della natura delle cose non ha alcuna certezza di avere successo e inevitabilmente, prima o poi, colui che avversa qualcosa di aproairetico è destinato ad incappare in ciò che avversa. Epitteto, pertanto, scongiura ripetutamente il principiante in filosofia a non avversare mai qualcosa di aproairetico: ad esempio, la morte fisica, la povertà di denaro, le malattie del corpo; e di limitarsi unicamente ad avversare ciò che, tra quanto è proairetico, conosce bene, ha finora praticato ed è contro la natura delle cose: ad esempio, ira, sdegno, invidia, commiserazione.
I,1,31; I,4,1-2; I,4,9; I,4,11; I,17,24; I,19,2; II,1,12; II,1,31; II,7,10; II,8,29; II,13,7; II,13,12; II,14,8; II,14,22; II,17,24; II,23,42; III,2,1; III,2,3; III,6,6; III,7,34; III,12,1; III,12,4-8; III,12,13; III,12,16; III,14,10; III,22,13; III,22,36; III,22,48; III,22,61; III,22,104; III,23,9; III,23,12; III,24,54; III,26,14; IV,1,1; IV,1,81; IV,4,6; IV,4,16; IV,4,18; IV,4,28; IV,4,33; IV,4,37; IV,5,27; IV,8,20; IV,10,5; IV,11,26; IV,12,6; E1,1; E2,1-2; E32,2; E48,3; Fr. I; Fr. XXVII

BUONA FORTUNA: traduce il sostantivo ετυχία (‘eutukìa’). La fortuna (q.v.), in quanto una delle cause basilari di tutte le vicende del cosmo, è un’entità aproairetica. La buona fortuna, invece, dipende esclusivamente da noi; è un giudizio interamente proairetico. Lo stesso vale per la ‘cattiva fortuna’, ossia la δυστυχία (‘dustukìa’). Dice Epitteto che a causa di nessuno ci conviene avere cattiva fortuna bensì buona fortuna a causa di tutti, soprattutto della Materia Immortale che per questo ci ha strutturato.
I,4,29; III,22,84; III,25,3

CATTIVA FORTUNA: vedi BUONA FORTUNA
I,4,23; III,3,18; III,22,84; III,24,25

CAUTELA e ‘con cautela’: traducono il sostantivo ελάβεια (‘eulàbeia’) e l’avverbio ελαβς (‘eulabòs’). La cautela sembrerebbe l’opposto del coraggio -afferma Epitteto- ma non vi è affatto contraddizione tra i due termini. Se infatti è vero che la sostanza del bene consiste nel retto uso delle rappresentazioni e quella del male nel loro uso scorretto, poiché ciò ch’è aproairetico non accoglie in sé natura né di bene né di male, il suggerimento va inteso nel senso di avere coraggio là dove si tratta di confrontarsi con ciò ch’è aproairetico; mentre si deve essere cauti là dove si maneggia ciò ch’è proairetico.
II,1,1-3; II,1,6-7; II,1,12; II,1,14; II,1,29; II,12,12; III,16,1; III,16,3; III,16,9;

CHE NON INCAPPA IN CIO’ CHE AVVERSA: traduce l’aggettivo περίπτωτος(‘aperìptotos’). Soltanto la proairesi che opera sistematicamente la diairesi; che si avvicina a ciò ch’è aproairetico senza paura poiché si fornisce della esplicita eccezione (q.v.) di mantenersi in ogni caso in armonia con la natura delle cose: ebbene soltanto la proairesi così disposta è capace di non incappare in ciò che avversa. La proairesi che invece cerca di non incappare in quanto avversa tremando e piangendo, è in armonia con la natura ma non certo con la natura delle cose.
I,1,31; I,4,11-12; I,19,2; II,8,29; II,23,42; III,12,5; IV,1,1; IV,1,5; IV,6,26

COMPRENSIONE: traduce il sostantivo παρακολούθησις (‘parakoloùthesis’). Molto è comune agli uomini e alle creature sprovviste di ragione. La differenza degli uni rispetto alle altre sta nel fatto che entrambi usiamo le rappresentazioni, ma soltanto noi uomini abbiamo la comprensione dell’uso che facciamo delle rappresentazioni. Agli altri animali, ad esempio, basta mangiare, bere, riposarsi, montare e fare quant’altro realizza ciascuna loro necessità; mentre per noi tutto ciò non è più bastevole, giacché se non lo effettueremo a modo, con posizionamento, conseguentemente alla nostra natura, non centreremo più il nostro fine. Questo è il motivo per cui è brutto, per l’uomo, esaurirsi laddove lo fanno anche le creature sprovviste di ragione. Piuttosto noi dobbiamo iniziare di qua ed esaurirci là dov’è la nostra meta, ossia nella conoscenza della diairesi, nella comprensione della natura delle cose e nel tragittarcela in armonia con essa.
I,4,17; I,6,11; I,6,13; I,6,21; I,16,18; II,8,6; II,8,8; II,14,15

CONCETTO: traduce il sostantivo ννοια (‘énnoia’). Noi veniamo al mondo senza avere per natura alcun concetto del triangolo rettangolo o del semitono diesis, ma impariamo ciascuno di questi concetti grazie ad una certa istruzione tecnica, e per questo coloro che non li conoscono neppure credono di conoscerli. Ma chi di noi non ha un concetto innato, naturale, di bene e di male, di bello e di brutto, di confacente e di non confacente, di felicità, di conveniente, di spettante, di quanto bisogna fare e di quanto non bisogna fare? Ecco come Epitteto spiega la differenza tra ‘concetto’ e ‘pre-concetto’ (q.v.).
II,11,2-3; II,11,7; II,12,6; II,12,9; II,17,7; II,17,11; II,24,12; III,13,2; IV,1,24

CONCEZIONE: traduce il sostantivo πόληψις (‘hupòlepsis’). Possiamo chiamare ‘concezione’ il complesso di giudizi e teorie relative ad un argomento, ed Epitteto distingue sempre le concezioni dai giudizi. In un caso solo [IV,1,140] egli usa il diminutivo πόληψείδιον (‘hupolepséidion’), tradotto con ‘concezioncella’, come sinonimo di ‘giudizio’(q.v.). Le concezioni sono ‘proairetiche’, possono essere rette, potenti; oppure avventate e mentitrici e quindi non rette, come fossero di cera.
I,11,33; I,18,1; II,6,21; II,9,14; II,14,22; III,16,9-10; III,16,13; IV,1,140; IV,6,14; E1,1; E20,1, E31,1

CONFLAGRAZIONE DELL’UNIVERSO: traduce il sostantivo κπύρωσις (‘ekpùrosis’). È noto che per gli Stoici, come per Eraclito, l’elemento primordiale è il fuoco, e che gli altri tre elementi del cosmo: aria, acqua e terra, sono generati per trasformazione di esso. In seguito, e secondo certi tempi fatali, il cosmo nella sua totalità va incontro alla ‘conflagrazione universale’, e tutti i suoi elementi si trasformano di nuovo in puro fuoco. Il numero di questi cicli di formazione e di conflagrazione è infinito e il fuoco primordiale, chiamato anche Zeus, è come una sorta di seme contenente in sé le ragioni di tutte le cose e le loro cause passate presenti e future, mentre l’intreccio e la consequenzialità di queste cause è legge ineludibile ed inevitabile.
III,13,14-15

CONTRODIAIRESI: vedi DIAIRESI
IV,1,65

DEI, (Gli): traduce il sostantivo plurale ο θεοί (‘òi theòi’). A differenza di Zeus, che è Materia Immortale (q.v.) e dunque un’entità aproairetica che si identifica con il cosmo, gli ‘dei’ sono libere creazioni della proairesi umana e sono pertanto entità esclusivamente proairetiche. Proprio per il fatto di essere entità proairetiche essi possono essere creature della nostra diairesi (q.v.) oppure della nostra controdiairesi (q.v.). E siccome diairesi e controdiairesi sono sempre esistite e sempre esisteranno, giacché sono le due sole possibilità di atteggiarsi della proairesi umana, unica è l’origine tanto degli dei del politeismo che del Dio del monoteismo: la proairesi umana che usa in modo scorretto le rappresentazioni e vede il proprio bene e il proprio male fuori di sé, in ciò ch’è aproairetico. A fronte di un ricchissimo Pantheon di dei buoni e cattivi, diversi da cultura a cultura e da paese a paese, quando sia invece usata rettamente la proairesi dell’uomo è capace di concepire di sé e della Materia Immortale delle rappresentazioni felicitanti, generose, liberatorie ed aderenti alla natura delle cose, che sono appunto quelle alle quali Epitteto ci sollecita continuamente ad aderire.
I,1,6-8; I,1,13; I,3,1; I,3,3; I,4,9; I,4,24; I,6,38; I,9,1; I,9,10-11; I,9,22; I,9,25; I,12,1; I,12,8; I,12,21; I,12,26-27; I,12,32; I,13,1-2; I,13,5; I,16,7; I,17,18; I,18,17; I,19,25; I,20,15; I,27,13; I,30,6; II,5,18; II,5,26; II,8,10; II,14,11; II,17,25-26; II,17,31; II,18,20; II,18,22; II,19,15; II,19,24; II,20,9; II,20,20; II,20,27; II,22,5; II,22,17; III,1,36; III,1,39; III,3,16; III,13,15; III,19,3; III,20,8; III,21,12; III,22,69; III,22,91; III,22,95; III,23,35; III,24,7; III,24,11; III,24,53; III,24,60; IV,1,47; IV,1,151; IV,1,154; IV,4,47; IV,9,18; IV,11,1; IV,11,3; IV,11,24-25; Fr. XVII; Fr. XXIV; E1,3; E15,1; E29,2; E31,1; E31,4; E32,2; E53,3

DESIDERIO: traduce il sostantivo ρεξις (‘òrexis’). Il desiderio è la prima delle sei opere cardinali della proairesi, ed è l’opposto dell’avversione (q.v.) La sua azione si svolge nel vastissimo campo del ‘bene’ e del ‘male’, nel quale si gioca la partita della nostra ‘virtù’ o del nostro ‘vizio’. Il desiderio è ‘proairetico’ e può essere rivolto tanto verso ciò ch’è aproairetico quanto verso ciò ch’è proairetico. Ma il desiderio senza riserva di ciò ch’è aproairetico, per la inviolabile legge della natura delle cose, non ha alcuna certezza di avere successo e inevitabilmente, prima o poi, colui che desidera qualcosa di aproairetico è destinato a fallire l’ottenimento di ciò che desidera. E qualora poi lo ottenesse ne invanirebbe e si esalterebbe, traendone la falsa conclusione di avere potere su ciò ch’è aproairetico. Epitteto, pertanto, suggerisce al principiante in filosofia di astenersi completamente dal desiderio, in quanto non è ancora in condizione di comprendere come si deve la differenza tra proairetico ed aproairetico e, per conseguenza, gli è impossibile sapere cosa, di ciò ch’è in nostro esclusivo potere, è contrario alla natura delle cose.
I,1,31; I,4,1; I,4,9; I,4,11; I,17,24; I,18,1; I,19,2; II,1,31; II,7,10; II,8,29; II,13,1; II,13,7; II,13,12; II,14,8; II,14,22; II,17,24; II,23,42; II,24,16; III,2,1; III,2,3; III,6,6; III,7,34; III,9,18; III,9,22; III,12,1; III,12,4-6; III,12,8; III,12,13; III,12,16; III,13,21; III,14,10; III,22,13; III,22,36; III,22,48; III,22,61; III,22,104; III,23,9; III,23,12; III,24,54; III,26,14; IV,1,1; IV,1,77; IV,1,81; IV,1,84; IV,1,102; IV,4,6; IV,4,16; IV,4,18; IV,4,28; IV,4,32-33; IV,4,35; IV,5,27; IV,8,20; IV,10,4; IV,11,26; IV,12,6; E1,1; E2,1-2; E15,1; E32,2; E48,3; Fr. I; Fr. XXVII

DIAIRESI: traduce il sostantivo διαίρεσις (‘diàiresis’). La diairesi è il supergiudizio (ossia il giudizio di un giudizio) che sa distinguere in qualunque circostanza quanto è in esclusivo potere dell’uomo, ossia ‘proairetico’ e quanto non lo è, ossia è ‘aproairetico’. La diairesi è il supergiudizio esattamente opposto alla ‘controdiairesi’, la quale è invece il supergiudizio che afferma in mio esclusivo potere quanto non è in mio esclusivo potere, ossia ciò ch’è ‘aproairetico’, e/o non essere in mio esclusivo potere quanto invece è in mio esclusivo potere, ossia è ‘proairetico’. Epitteto non usa un sostantivo specifico per indicare la controdiairesi, ma accenna esplicitamente ad essa in un breve passaggio del IV libro delle ‘Diatribe’, quando pone all’interlocutore questa domanda: “Vedi dunque: abbiamo noi nulla in nostro esclusivo potere, oppure tutto è in nostro esclusivo potere, oppure alcune cose sono in nostro esclusivo potere ed altre in potere d’altri?” Che nulla di proairetico e di aproairetico sia in nostro potere oppure che tutto ciò ch’è proairetico e tutto ciò ch’è aproairetico sia in nostro potere, è con tutta evidenza una definizione della ‘controdiairesi’ tirata all’estremo per amor di chiarezza, ma comprensibile e nemmeno troppo imprecisa. Ed è ragionevole supporre, sebbene impossibile da provare, che nei quattro di libri delle Diatribe che sono andati perduti Epitteto sviluppasse da par suo anche il tema della ‘controdiairesi’. In ogni caso egli mostra chiaramente di intendere che l’uomo è uomo quando la sua proairesi è illuminata dalla diairesi, mentre scade ad animale bruto quando la sua proairesi si fa guidare dalla controdiariresi. 
I,1,6; I,1,13; I,1,17; I,1,25; I,1,27; I,2,11; I,2,18; I,4,17; I,8,10; I,9,9; I,12,7; I,12,16; I,12,21; I,22,8; I,22,16; I,29,55; I,29,63; II,1,20; II,5,5; II,5,22; II,6,5; II,6,19; II,6,24; II,9,2; II,9,7; II,9,12; II,10,13; II,13,8; II,13,15; II,16,10; II,19,10; II,19,15; II,22,1; III,16,6; III,18,1; IV,2,1; IV,3,3; IV,5,6; IV,7,5; E1,1;

DIO: traduce il sostantivo singolare  θεός (‘o theòs’). Si chiamino Apollo, o Osiride, o Rama, o si tratti del Dio personale e trascendente dei monoteismi rivelati, dunque il Dio di Mosè, di Gesù Cristo e di Maometto, la sostanza non cambia. Esso è un’entità proairetica che non fu e non sarà mai Materia Immortale ma che sempre è, giacché è fatto in ogni tempo esistere dall’atteggiamento controdiairetico della proairesi degli uomini. È ben per questo che un Dio simile non ha bisogno di esistere per essere creduto. È a questa modalità di intendere il divino che Epitteto si riferisce nei passi di seguito citati.
I,10,3; I,12,1; I,13,1; I,20,16; I,29,37; II,5,18; II,7,12; II,8,12; II,14,13; II,14,19; II,16,13; II,19,26-27; II,20,31; II,22,16; III,1,36-37; III,3,4; III,5,16; III,7,26; III,10,13; III,21,11; III,21,18; III,22,2; III,22,13; III,22,48; III,22,53; III,24,58; IV,8,17; Fr. X

DISSENTIRE: traduce il verbo νανεύω (‘ananéuo’). Dissentire è la sesta ed ultima delle opere cardinali della proairesi, ed è l’opposto dell’assenso (q.v.). Anche il dissentire è un’azione proairetica per natura libera, non soggetta a impedimenti e non soggetta a costrizioni. Fondamento del dissentire è il giudicare che una certa rappresentazione ci dà l’immagine di qualcosa che non c’è oppure ch’è falsa. Ad esempio, il saggio dissentirà sempre dalla rappresentazione di qualcosa di aproairetico come ‘bene’ o come ‘male’.
I,14,7; I,18,1; II,24,19; II,26,3; III,2,1; III,3,2; III,12,13

DOMINIO SULL’AFFLIZIONE: traduce il sostantivo λυπία (‘alupìa’). Tanto il virtuoso quanto l’insipiente hanno esperienza di moti istintivi d’afflizione. Ma mentre il primo sa immediatamente dominarli ed opera in modo da mantenere la propria proairesi in armonia con la natura delle cose, la proairesi del secondo si lascia andare ad essi senza riserva.
III,22,48; III,24,116-117; IV,3,7; IV,6,16; Fr. XXVIIIb; E12,1

DOMINIO SULLA PAURA: traduce il sostantivo φοβία (‘afobìa). Tanto il sapiente quanto l’insipiente sperimentano ed hanno esperienza di moti di paura. Ma mentre il primo sa dominarla ed opera in modo da mantenere la propria proairesi in armonia con la natura delle cose, la proairesi del secondo davanti alla paura si fa serva e se ne lascia vincere.
II,1,21; III,24,116; IV,3,7; IV,6,16; IV,7,1

DOMINIO SULLE PASSIONI: traduce il sostantivo πάθεια (‘apàtheia’) e il sostantivato τ παθές (‘to apathés’). Siccome è impossibile che l’uomo sia immune come una statua ai moti passionali, se ne deve dedurre che tanto il sapiente quanto l’insipiente, tanto il virtuoso quanto il vizioso, hanno di essi naturale esperienza. Il virtuoso, pertanto, non si differenzia dal vizioso per l’assenza delle passioni, bensì per la capacità che la sua proairesi ha acquisito, grazie alla pratica sistematica della diairesi, di dominare le passioni. Come il buon auriga, soltanto il saggio sa come tenere salde le redini del cavallo che gli è stato affidato dalla sorte, così da indirizzarlo e da mantenerlo sul corretto percorso.
I,4,1; I,4,3; I,4,28; III,15,12; III,26,13; IV,3,7; IV,6,34; IV,10,13; IV,10,22; E12,2; E29,7

DOMINIO SULLO SCONCERTO: traduce il sostantivo ταραξία (‘ataraxìa’). Come nel caso del dominio sulla paura e su altre passioni, il saggio sa cos’è lo sconcerto ma sa anche dominarlo. Per Epitteto è uno dei frutti più belli della diairesi.
I,10,2; II,1,21; II,1,33; II,2,1; II,5,2; II,5,7; II,18,28; III,13,13; III,15,12; III,24,79; III,26,13; IV,3,7; IV,8,30; IV,10,22; E12,2; E29,7

EBBREZZA: vedi PIACERE FISICO. 
II,11,19-22; E34,1

ECCEZIONE: traduce il sostantivo πεξαίρεσις (‘hupexàiresis’). Come è già stato illustrato in una nota precedente, per ‘avere successo’ (q.v.) in qualunque caso pratico si devono attraversare tre passaggi, due dei quali sono proairetici mentre uno è aproairetico. Il primo passaggio proairetico è quello che incorpora l’esplicita eccezione di cui qui è questione. Nel quarto paragrafo del ‘Manuale’ Epitteto, per illustrare questa ‘eccezione’ che il saggio sempre fa, usa l’esempio di una persona che dispone di andare alle terme per fare un bagno caldo. Prima di avviarsi alle terme, costui deve avere davanti agli occhi quel che accade alle terme: gente che ti spruzza, ti strattona, ti ingiuria, che ruba. Pertanto egli, se è saggio, si avvierà alle terme dicendo a se stesso: “Dispongo di fare un bagno caldo, ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose. E tale non la serberò se fremerò davanti a certi avvenimenti”. Questo è l’unico modo corretto di accostarci a qualunque cosa aproairetica e di serbarci liberi.
E2,2; Fr. XXVII

EDUCAZIONE ALL’USO DELLA DIAIRESI o ‘educazione a diairesizzare’: traduce il sostantivo παιδεία (‘paidéia)’. Ha poco senso tradurre il sostantivoπαιδείαcon il semplice termine ‘educazione’. Infatti, di quale educazione si intende parlare? Il benpensante e il malpensante sono tutti e due educati a qualcosa: il primo a certe idee morali e politiche, il secondo a idee diverse da quelle. Ma si tratta in entrambi i casi di modelli culturali i quali hanno i loro difensori e le loro ragioni. In filosofia, invece, c’è bisogno di un canone che non sia un semplice modello culturale, ma che faccia riferimento a qualcosa di invariante e valido senza eccezione alcuna per tutti gli esseri umani, a qualunque cultura essi appartengano. Questo canone esiste ed è rappresentato, come Epitteto mostra di continuo, dalla infinita libertà della proairesi umana nell’uso delle rappresentazioni, ossia dalla infinita libertà della proairesi umana di atteggiarsi diaireticamente oppure controdiaireticamente. Pertanto la παιδεία va sempre qualificata come ‘educazione all’uso della diairesi’, giacché questa è la sola interpretazione coerente con l’impianto generale della filosofia di Epitteto ed è anche chiaramente lo scopo che egli si dà e ribadisce di sé come educatore. Soltanto in tre casi (I,17,12; II,20,26; III,21,15) Epitteto lascia correre il termine παιδεία con un riferimento leggermente meno stringente.
I,2,6; I,8,1; I,8,8; I,9,12; I,9,18; I,12,8; I,12,15; I,12,17; I,19,1; I,22,9; I,27,2; I,29,33; I,29,44; I,29,54-55; II,1,21-22; II,1,25; II,2,13; II,15,1; II,16,23; II,17,22; II,17,26-27; II,19,29; III,2,10; III,26,28; IV,4,32; IV,5,7; E5,1

EGEMONICO: traduce l’aggettivo sostantivato τ γεμονικόν (‘to hegemonikòn’). Il cosiddetto ‘egemonico’ è, secondo la classica suddivisione stoica, l’ottava parte dell’animo umano: la sua anima direttiva, il nostro ‘sovrano interiore’. Cosa impedisce che chi ha la febbre abbia l’egemonico in accordo con la natura delle cose? Qua è il controllo della faccenda, la valutazione di chi fa filosofia. Giacché è parte della vita anche questo, cioè la febbre, come una passeggiata, come un viaggio per mare o per terra. L’uso che Epitteto fa di questo termine è del tutto intercambiabile con quello del sostantivo ‘Proairesi’ (q.v.). Una certa sua preferenza per il termine ‘Proairesi’ sembrerebbe legata alla geniale e brillantissima risposta che egli oppone alle critiche che gli Aristotelici del tempo muovevano agli Stoici circa la libertà o la servitù della proairesi umana, all’interno della catena di rigidissima causalità della quale facevano colpa a questi ultimi. Come l’animo umano ha il suo ‘Egemonico’, così pure il cosmo ha il suo egemonico, che è la ‘Prònoia’ (q.v.).
I,15,4; I,20,11; I,26,12; I,26,15; II,1,39; II,18,8-9; II,18,30; II,22,25; II,26,7; III,3,1; III,5,3; III,6,3; III,9,11; III,10,11; III,10,16; III,15,13; III,21,3; III,22,19; III,22,33; III,22,93; IV,4,38; IV,4,43; IV,5,1; IV,5,4; IV,5,6; IV,7,40-41; IV,10,25; E29,7; E38,1

FELICITA’: traduce il sostantivo εδαιμονία (‘eudaimonìa’). L’essere umano è l’unico responsabile della propria felicità; e la felicità sta nella retta proairesi, là dove c’è in noi qualcosa che è libero per natura. Dove sono sconcerti, afflizioni, paure, desideri imperfetti, avversioni che incappano in quanto avversano, invidie, gelosie, là che passaggio vi può avere la felicità? L’uomo felice deve infatti avere tutto quel che dispone, deve somigliare ad un essere sazio, al quale non è congiunta né sete né fame. 
I,4,3; I,4,32; I,9,10; II,1,20; II,8,5; II,9,2; II,9,7; II,11,3; II,14,9; II,20,31; II,23,29; III,22,37; III,22,59-61; III,22,84; III,23,34; III,24,17; III,25,1; III,25,3; IV,1,122; IV,8,30; IV,10,19; IV,12,18; E1,4; E50,1

FORTUNA: traduce il sostantivo τύχη (‘tùke’). La fortuna è una delle quattro cause basilari di tutti gli eventi del cosmo. È una causa ‘aproairetica’ ed è pertanto di natura divina. In Epitteto, il riferimento alla ‘fortuna’ intesa come causa basilare, è esplicito soltanto nei tre casi qui segnalati.
II,7,9; IV,1,109; Fr. II

GIUDIZIO: traduce il sostantivo δόγμα (‘dògma’). Il giudizio è un’operazione proairetica che sottostà a tutte le altre opere della proairesi (q.v.). I giudizi possono essere retti oppure non retti. Sono retti quando rispettano la natura delle cose (q.v.), e sono non retti quando non la rispettano. Nel primo caso essi fanno la proairesi buona; nel secondo la fanno pervertita e cattiva. In quanto opera della proairesi, un giudizio non può essere vinto che da un altro giudizio, mentre nulla di aproairetico può vincerlo. Nel campo del bene e del male, ad esempio, bene è il giudizio che il denaro è né un bene né un male. Male il giudizio che esso sia un bene oppure che esso sia un male. 
I,1,25; I,3,1; I,11,29; I,11,33; I,11,35; I,11,38-39; I,12,26; I,17,26; I,18,2; I,18,16; I,18,20; I,19,6; I,19,8; I,19,15-16; I,25,25; I,25,28; I,28,21; I,28,25; I,29,8; I,29,11; I,29,13; I,29,19; I,29,22; I,29,49; II,1,14; II,1,21; II,1,32; II,9,14; II,16,1; II,16,22-24; II,16,26-28; II,16,40; II,18,7; II,18,11; II,18,18; II,19,6; II,19,10-11; II,19,14; II,19,19; II,19,23; II,20,16; II,20,26; II,21,15; II,22,24; II,22,28; II,22,33-34; II,22,37; III,1,42; III,2,12-13; III,3,13; III,3,18-19; III,5,4; III,7,4; III,7,7-8; III,7,17; III,7,20; III,7,22; III,7,29; III,9,1-6; III,9,8-9; III,9,12-13; III,9,17-18; III,10,1; III,10,5; III,16,1; III,16,6-8; III,16,10; III,17,9; III,19,3; III,20,17-18; III,22,59; III,22,61; III,23,9; III,24,1; III,24,21; III,24,38-39; III,24,53; III,24,55; III,24,87; III,26,32; III,26,34-35; IV,1,58; IV,1,86; IV,1,112; IV,1,137; IV,1,139; IV,1,170; IV,1,175-176; IV,4,44; IV,5,17; IV,5,20; IV,5,24; IV,5,26; IV,5,28-29; IV,5,32; IV,5,35; IV,6,14; IV,6,21-25; IV,6,28-29; IV,7,1; IV,7,14; IV,7,21; IV,7,35-36; IV,7,38; IV,8,1; IV,8,3-4; IV,8,41; IV,9,1; IV,10,30; IV,10,36; IV,11,4; IV,11,8; IV,11,33; IV,13,15; IV,13,20; IV,13,23; Fr. XVI; Fr. XXVIIIb; E5,1; E16,1; E20,1; E45,1

IDDIO: vedi DIO
II,16,13

IMPULSO: traduce il sostantivo ρμή (‘hormé’). L’impulso è la terza delle sei opere cardinali della proairesi, ed è l’opposto della repulsione (q.v.) Impulso è il nome che prende il desiderio quando l’azione umana sia considerata limitatamente al campo del ‘doveroso’, ossia là dove si gioca la partita di ciò che per l’uomo è confacente: a) in quanto semplice animale, b) in quanto animale inserito in un certo ambiente naturale e c) in quanto uomo in relazioni naturali o acquisite con altri uomini; giacché tutti gli uomini sono figli o figlie, padri o madri, fratelli o sorelle, mogli o mariti e così via; tutti gli uomini fanno parte della società civile e, una volta raggiunta la maggiore età, hanno diritti politici. Anche l’impulso è ‘proairetico’, e di esso dobbiamo servirci così da essere al riparo dalle aberrazioni, per agire con posizionamento, con razionalità, senza trascuratezza, né fuori tempo, né fuori luogo e salvaguardare la nostra cooperatività nelle relazioni con le proairesi dei nostri simili.
I,4,9; I,4,11; I,4,14; I,17,24; I,18,1; I,19,3; I,19,25; I,21,2; II,8,29; II,13,7; II,14,22; II,17,15; III,2,1-2; III,7,34; III,9,18; III,12,13; III,22,36; III,22,104; IV,1,1; IV,1,89; IV,1,100; IV,4,16; IV,4,18; IV,4,28; IV,6,18; IV,6,26; IV,8,35; IV,11,26; IV,12,14; E1,1; E48,2; Fr. I; Fr. VI; Fr. XXVII

INCULTURA: traduce il sostantivo μαθία (‘amathìa’). Com’è noto, per Epitteto la sola incultura di vero rilievo è l’ignoranza della diairesi (q.v.), ossia l’ignoranza della fondamentale azione proairetica che consiste nel riconoscere la natura delle cose e nel distinguere ciò ch’è in nostro esclusivo potere e ciò che non lo è.
I,11,14; II,1,16; II,3,5

INDIFFERENZA: traduce il sostantivo διαφορία (‘adiaforìa’). Indifferenza non significa affatto assenza di percezione o disconoscimento delle diverse qualità che ineriscono a qualcosa, bensì giudizio proairetico che qualunque oggetto esterno ed aproairetico è né un bene né un male. 
II,1,14; II,5,20; II,6

INDIFFERENTE: traduce l’aggettivo διάφορον (’adiàforon’). Qualunque cosa aproairetica è ‘indifferente’, in quanto è né un bene né un male per la proairesi. Indifferenti sono cose di questo genere: vita, morte, reputazione, discredito, dolore fisico, piacere fisico, ricchezza di denaro, povertà di denaro, malattia, salute e le cose simili a queste. 
I,9,13; I,20,12; I,30,3; II,5,1; II,5,3; II,5,7; II,6,1-2; II,9,15; II,19,13; E32,1-2

INGANNO: traduce il sostantivo πάτη (‘apàte’). Nell’ambito degli assensi e della sospensione degli assensi, dice Epitteto, le determinazioni che noi prendiamo possono essere scienza od opinione o inganno. S’inganna colui che dà il proprio assenso ad una rappresentazione prima di averla a fondo e correttamente analizzata. Il virtuoso, dunque, non s’inganna e non si lascia ingannare.
I,4,27; II,6,1; III,20,3

INSUBORDINABILE: traduce l’aggettivo νυπότακτος (‘anupòtaktos’). Chi è l’uomo? L’uomo è una creatura mortale atta ad usare le rappresentazioni in armonia con la natura delle cose; una creatura che nulla ha di più dominante della proairesi (q.v.), e tutte le altre sue facoltà subordinate a questa, mentre essa è inasservibile e insubordinabile.
II,10,1; IV,1,161

INTELLETTO: traduce il sostantivo διάνοια (‘diànoia’). L’accezione nella quale Epitteto usa questo termine è prevalentemente quella comune. Con esso egli indica, dunque, il complesso delle facoltà che permettono all’uomo di intendere, sottrarre, addizionare e variamente comporre i dati sensibili dell’esperienza o entità astratte. Tuttavia è altrettanto evidente e sicuro che in certi casi egli lo usa quale puro e semplice sinonimo di ‘proairesi’ (q.v.).
I,4,32; I,6,7; I,6,10; I,18,1; I,26,14; I,28,2; II,2,13; II,2,20-21; II,16,45; II,21,22; III,4,5; III,9,17; III,9,19; III,22,20; IV,1,135; IV,5,15; Fr. XV; E7,1

IRRAGIONEVOLE, ossia ‘senza ragione’, ‘sprovvisto di ragione’: traduce l’aggettivo λογος (‘àlogos’). Il termine, inteso nel senso di ‘incapace di discorso ragionato’ è usato per indicare genericamente gli animali bruti. Secondo Epitteto, la differenza tra questi e l’uomo va ricercata nel fatto che mentre i bruti possiedono l’ ‘uso delle rappresentazioni’, soltanto il secondo possiede, oltre all’uso, anche la ‘comprensione dell’uso delle rappresentazioni’. La comprensione dell’uso delle rappresentazioni si identifica con l’autoteoreticità della ‘ragione’; con la capacità umana di riconoscere la ‘natura delle cose’, cioè la bipartizione fondamentale di tutte le realtà in cose che sono in nostro esclusivo potere e cose che non sono in nostro esclusivo potere; e con la presenza in noi di una ‘proairesi’ capace di ‘diairesi’. ‘Irragionevoli’ diventano allora anche le proairesi umane quando si atteggiano in contrasto con la natura delle cose, quando operano la ‘controdiaresi’ e così si abbrutiscono.
I,2,1; I,2,4-7; I,6,12; I,6,20; I,9,9; II,8,3; II,15,6; II,15,19; III,24,7; IV,1,84; IV,6,27; Fr. III

LIBERTÀ: traduce il sostantivo λευθερία (‘eleutherìa’). La libertà è il frutto che pende dai rami dell’albero della diairesi, così come la schiavitù è il frutto che pende dai rami dell’albero della controdiairesi. Nessuno decide di vivere aberrando, nella paura, nell’afflizione e nello sconcerto. Dunque nessuno che aberri, che abbia paura, sia afflitto, sia sconcertato è libero. La libertà è il difficile linguaggio in cui è scritta la natura delle cose (q.v.), ed è un linguaggio del tutto indipendente dalla proairesi umana: è la lingua universale che la nostra proairesi deve imparare a leggere e a comprendere, ma che non ha alcuna possibilità di modificare. 
I,12,10; I,12,12; I,12,15; I,12,21; I,24,8; II,1,20-21; II,1,23; II,16,41; II,18,28; II,20,31; III,15,12; III,22,84; III,22,92; III,22,96; III,24,66-67; III,26,38; IV,1,5; IV,1,23-24; IV,1,27-28; IV,1,30; IV,1,52; IV,1,54; IV,1,56; IV,1,109; IV,1,113; IV,1,117; IV,1,131; IV,1,144; IV,1,171-172; IV,1,175; IV,3,7; IV,9,11; Fr. IV; Fr. XIV; Fr. XXXVI; E1,4; E19,1; E29,7

LOGICO, ossia ‘razionale’: traduce l’aggettivo λογικός (‘logikòs’). È l’opposto di λογος. Soltanto l’uomo, non l’animale bruto, è una creatura logica. In un altro contesto, l’aggettivo viene sostantivato ed utilizzato per indicare la ‘Logica’ in quanto branca della filosofia. La facoltà logica dell’uomo, in quanto facoltà che può scegliere di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente prende il nome di ‘proairesi’. Per Epitteto, quando nell’uomo siano recisi il rispetto di sé e degli altri ed il senso della decenza mentre non è mozzata la logicità, ecco che la sua proairesi si è abbrutita.
I,1,4; I,2,1; I,5,9; I,6,12; I,9,4; I,10,10; I,16,21; I,17,1; I,17,6; I,17,10; I,19,13; I,27,6; II,1,39; II,9,2; II,9,4; II,20,7; II,25,1; II,26,3; II,26,7; III,1,25-26; III,7,33; III,7,35; IV,6,34; IV,7,7

LOGOS: vedi RAGIONE

MATERIA: vedi MATERIA IMMORTALE

MATERIA IMMORTALE: traduce il sostantivo θεός (‘theòs’). Il cosmo è soggetto a continue trasformazioni ma non è soggetto a nascita o morte, giacché è composto di Materia Immortale, la quale segue le leggi ben precise del Logos (q.v.) nei suoi passaggi di stato. Materialità è sinonimo di divinità. Tutto ciò ch’è materiale è θεον (‘thèion’)ossia ‘divino’, e la divinità altro non è che la Materia Immortale. Per conseguenza, anche tutto ciò ch’è aproairetico è divino: divini sono i sassi e le piante, il fango e gli animali, gli astri e gli escrementi, la natura, la necessità, la fortuna, la prònoia, e così via. E nell’uomo? Composto di Materia Immortale è dell’uomo il corpo, e divina è la capacità di questo corpo di esprimere da se stesso una facoltà autoteoretica come la ‘proairesi’. Proairesi che è capace di assomigliarsi (q.v.) a Zeus quando si atteggia diaireticamente. Insomma, noi siamo circondati dal divino e siamo noi stessi divini; salvo che, grazie alla infinita libertà della nostra proairesi, siamo anche gli unici esseri al mondo capaci di negare di esserlo.
I,1,9; I,3,1-2; I,3,4; I,4,32; I,6,1-2; I,6,18; I,6,42; I,9,1; I,9,4; I,12,1; I,13,1; I,14,4; I,14,6; I,14,10; I,14,15; I,16,1; I,16,5-6; I,16,7; I,16,14-16; I,16,19-20; I,17,27; I,19,13; I,29,4; I,29,48; II,1,25; II,6,9; II,8,1; II,8,8; II,8,11; II,8,14; II,8,20; II,10,3; II,14,8; II,14,11; II,14,24; II,16,13; II,16,27; II,16,44; II,17,33; II,23,1-2; II,23,5; II,23,23; III,3,5; III,5,8; III,8,5; III,10,8; III,11,1; III,13,8; III,13,12; III,15,14; III,17,1; III,17,5; III,22,34; III,22,46; III,22,56; III,24,2; III,24,21; III,24,24; III,24,63; III,24,65; III,24,95; III,24,114; III,26,28; III,26,37; IV,1,82; IV,1,89; IV,1,98; IV,1,100-101; IV,1,104; IV,1,108; IV,1,172; IV,4,18; IV,4,32; IV,5,34-35; IV,6,21; IV,7,6-7; IV,7,9; IV,7,11; IV,7,17; IV,8,31-32; IV,10,14; Fr. IV; Fr. XIII; Fr. XXIII

MATERIALE: traduce il sostantivo λη (‘ùle’). Epitteto si serve sempre del termine ‘ùle’non per indicare genericamente la ‘Materia Immortale’ (q.v.), bensì per riferirsi al concreto materiale sul quale di volta in volta si svolge un’azione qualunque. Ad esempio, materiale del falegname è il legno e dello scultore di statue il bronzo, tanto quanto materiale dell’uomo che dispone di essere virtuoso è la sua propria proairesi. Questi materiali possono pertanto essere sia aproairetici (legno, bronzo) che proairetici (giudizi, desideri, ecc.). Quando i materiali siano aproairetici l’uomo che ha retti giudizi deve trattarli con la massima cura ma non infatuarsene tanto da diventarne servo.
I,4,20; I,6,34; I,7,2; I,15,2-3; I,18,11; I,20,3; I,26,2; I,29,2-3; I,29,41; II,5,1; II,5,5; II,5,7; II,5,9; II,5,21-22; II,6,1-2; II,16,18; II,19,31; II,21,17; III,2,7; III,3,1; III,4,9; III,7,25; III,20,8; III,22,20; III,22,40; IV,1,117; IV,4,10; IV,5,6; IV,7,5; IV,7,15; IV,8,11-12; IV,11,4; Fr. VIII

MENTE DELLA MATERIA IMMORTALE: traduce il sostantivo πρόνοια (‘prònoia’). Il sostantivo Prònoia va reso in questo modo per tenere saldamente in evidenza l’inscindibile legame che unisce Logos (q.v.) e Materia (q.v.). Invano si cercherebbero in Epitteto tracce del Provvidenzialismo caratteristico delle religioni monoteiste.
I,6,1-2; I,16,1; I,16,7; I,16,14-16; III,15,14; III,17,1; III,17,5; Fr. XIII

NATURA: traduce il sostantivo φύσις (‘fùsis’). La ‘natura’ è una delle quattro cause basilari di tutti gli eventi del cosmo, è divina ed è onnicomprensiva, nel senso che qualunque comportamento umano è naturale. La ‘natura delle cose’ è invece la essenziale bipartizione di tutto l’esistente in cose proairetiche ed in cose aproairetiche. Si tratta di una questione di fondamentale importanza, giacché i concetti di ‘Natura delle cose’, di ‘Proairesi’ e di ‘Diairesi’, sono tre pilastri fondamentali della filosofia di Epitteto che sono stati finora drammaticamente sottovalutati o addirittura completamente trascurati. Epitteto sa benissimo quanto sia facile equivocare in proposito, spacciando per ‘natura’ quelli che invece sono dei semplici ‘modelli culturali’, e si guarda bene dal farlo. Ogni volta che il termine ‘natura’ si presta a simili ambiguità egli dunque le evita, mostrando ed affermando con estrema decisione che esiste una ‘natura delle cose’ e che questa è invariante, inviolabile e valida per tutti gli esseri umani senza eccezioni. È in relazione al rispetto oppure al tentativo di violazione della ‘natura delle cose’ che gli uomini si dividono in virtuosi e viziosi, in felici ed infelici, in liberi e schiavi, in pace vivente oppure in guerra vivente. 
I,2,7; I,4,14; I,4,18; I,4,29; I,6,15; I,6,18; I,6,21; I,11,5; I,11,7-8; I,11,10-11; I,11,15; I,11,17-18; I,12,3; I,12,7; I,12,19; I,15,4; I,15,6; I,16,4; I,16,9; I,16,11; I,17,12; I,17,17; I,17,21; I,18,8-9; I,19,7; I,19,13; I,19,25; I,20,5; I,20,16; I,21,2; I,22,9; I,23,21; I,25,22; I,26,1-2; I,27,12; I,28,2; I,29,19; II,1,4; II,2,2-3; II,2,10; II,2,14; II,5,6; II,5,22; II,5,24-25; II,6,5; II,6,9; II,8,14; II,8,23; II,10,23; II,11,2; II,11,7; II,14,11; II,14,22; II,15,1; II,16,7; II,16,43; II,19,32-33; II,20,13-14; II,20,18; II,20,21; II,20,31; II,21,1; II,21,4; II,23,19; II,23,33; II,23,35; II,23,42; II,24,12; II,24,14; II,24,19; II,26,1; II,26,3; III,1,3; III,1,23; III,1,25; III,1,28; III,1,35; III,3,1; III,4,9; III,5,3; III,6,3-4; III,7,28; III,9,11; III,9,17; III,9,19; III,10,10-11; III,10,15; III,12,1; III,12,15; III,13,5; III,13,20; III,16,15; III,17,6; III,22,41; III,23,12; III,24,1; III,24,11-12; III,24,101-102; IV,1,51; IV,1,78; IV,1,126; IV,3,10; IV,4,14; IV,4,28; IV,4,38; IV,4,43; IV,5,5-6; IV,5,30; IV,6,11; IV,7,8; IV,8,12; IV,8,42; IV,10,7-8; IV,10,19; IV,10,26; IV,11,1; IV,11,3; IV,11,9-10; IV,12,2; Fr. I; Fr. VI; Fr. VIII; Fr. XIV; Fr. XXIII; Fr. XXVIIIb; E1,1-3; E1,3; E2,1-2; E3,1; E4,1; E6,1; E9,1; E13,1; E26,1; E27,1; E30,1; E48,3; E49,1

NATURA DELLE COSE: vedi NATURA 

NECESSITA’: traduce il sostantivo νάγκη (‘anànke’). La necessità è una delle quattro cause basilari di tutti gli eventi del cosmo. È una causa ‘aproairetica’ ed è pertanto di natura divina. In Epitteto, il riferimento alla ‘necessità’ intesa come causa basilare è esplicito soltanto nei tre casi qui segnalati.
II,6,16; III,22,100; E53,2

NON SOGGETTO AD INTRALCI: traduce l’aggettivo νεμπόδιστος (‘anempòdistos’). Quella di non essere soggetta ad intralci è una caratteristica naturale della proairesi umana.
I,4,18; II,19,32; III,22,41; IV,1,1; IV,1,69; IV,1,100; IV,4,5

NON SOGGETTO AD IMPACCI, ‘disimpacciato’ ‘senza impacci’: traducono l’aggettivo παραπόδιστος (‘aparapòdistos’) e la sua forma avverbiale παραποδιστς(‘aparapodìstos’). Secondo gli Stoici, non soggette ad impacci sono unicamente la proairesi umana e la prònoia del cosmo. 
I,1,10; I,6,40; I,17,23; I,25,3; I,25,31; II,13,21; II,17,29; II,19,29; III,3,10; III,14,10; III,22,39-40; III,24,39; III,24,79; IV,1,63-64; IV,4,22; IV,8,20; E1,2

NON SOGGETTO A IMPEDIMENTI: traduce l’aggettivo κόλουθος (‘akòlutos’). Questa è una caratteristica fondamentale della proairesi umana. Tutto ciò ch’è aproairetico è soggetto a impedimenti, giacché può essere impedito da qualsivoglia agente più potente di lui. Non esiste invece alcun agente che possa impedire alla proairesi di decidere un certo oppure un cert’altro uso delle rappresentazioni a sua disposizione. Cos’è dunque per natura capace di condizionare la proairesi? Nulla di aproairetico bensì soltanto essa, quando sia pervertita, se stessa. Per questo la proairesi diventa solo vizio o sola virtù.
I,1,31; I,4,18; I,6,40; I,17,21; I,17,23; I,19,2; I,25,3; II,19,29; II,19,32; II,23,18; II,23,42; III,3,10; III,5,7; III,12,4; III,22,43; III,24,3; III,24,69; III,24,96; III,26,24; III,26,35; IV,1,27; IV,1,62-64; IV,1,69; IV,1,73; IV,1,75; IV,1,81; IV,1,83; IV,1,100; IV,1,128-129; IV,4,22; IV,4,40; IV,5,34; IV,6,16; IV,6,23; IV,7,6; IV,7,8-9; IV,10,13; IV,13,24; E1,2

OPERE DELLA PROAIRESI: traduce le due espressioni equivalenti προαιρετικά ργα(‘proairetikà èrga’) e ργα προαιρέσεως (‘èrga proairéseos’). Per Epitteto, sono tre i campi in cui deve esercitarsi chi intende vivere bene, in armonia con la natura delle cose: a) quello dei desideri e delle avversioni, per non fallire desiderando e, avversando, per non incappare in quanto avversa; b) quello degli impulsi e delle repulsioni, ossia quello del doveroso, per agire con posizionamento, con razionalità, senza trascuratezza; c) quello del riparo dall’inganno, dall’errore logico, dalla casualità di giudizio e insomma quello degli assensi e dei dissensi. Sono pertanto sei le opere cardinali della proairesi: desiderio (q.v.), avversione (q.v.), impulso (q.v.), repulsione (q.v.), assenso (q.v.), e dissenso (q.v.). Nel primo campo la proairesi dell’uomo gioca la partita del bene e del male. Nel secondo campo la partita delle relazioni sociali, naturali e acquisite. Nel terzo campo la partita della sicurezza nell’uso delle rappresentazioni e nei ragionamenti. Secondo Epitteto, inoltre, l’ordine di importanza per l’uomo dei tre campi è lo stesso dell’ordine in cui egli li elenca.
I,18,1; I,22,10; II,1,12

PIACERE FISICO: traduce il sostantivo δονή (‘hedoné’). Il semplice piacere fisico è distinguibile dal piacere fisico in quanto passione, e quest’ultimo è tradotto con ‘ebbrezza’, la quale è un’esaltazione irrazionale della proairesi per la presenza di quello che si opina essere un bene. Il piacere fisico è l’opposto del πόνος (‘pònos’), cioè del dolore fisico. Il piacere fisico, come il dolore fisico, è una realtà del tutto aproairetica, e dunque qualcosa ch’è né bene né male. Se è vero che dolore e piacere fisico non sono giudizi, è altrettanto vero che la nostra proairesi avrà sempre un giudizio su ciascun particolare piacere e dolore fisico. E questo giudizio, non il dolore ed il piacere fisico, è proairetico, è in nostro esclusivo potere. A questo va subordinato il piacere fisico come ministro, come servitore che può ottimamente assisterci nelle nostre opere in armonia con la natura delle cose. Si usa dire giustamente che il piacere fisico è un ottimo servitore ma un pessimo padrone.
I,2,16; I,18,16; I,24,7; I,29,60; II,17,12; II,19,13; II,20,9; II,22,7; III,7,28; III,12,7; III,24,37; III,24,71; Fr. XIV

PRE-CONCETTO: traduce il sostantivo πρόληψις (‘pròlepsis’). Mentre il ‘concetto’ (q.v.) va appreso, noi veniamo al mondo con dei concetti naturali, innati, di bene e di male, di bello e di brutto, di confacente e di non confacente, di felicità, di conveniente, di spettante, di quanto bisogna fare e di quanto non bisogna fare. Poiché i pre-concetti sono comuni a tutti gli uomini, pre-concetto non contraddice mai pre-concetto; ma non è possibile adattare i pre-concetti alle sostanze consone senza articolarli ed analizzare proprio questo, cioè quale sostanza sia da subordinarsi a ciascuno di essi. E siccome tutte le sostanze possibili rientrano soltanto in due categorie: quella di ciò ch’è proairetico e quella di ciò ch’è aproairetico, noi dobbiamo imparare ad adattare i pre-concetti alle sostanze in armonia con la particolarità di ciascuna, ossia in armonia con la natura delle cose.
I,2,6; I,7,29; I,22,1-2; I,22,6-9; I,25,6; I,27,6; I,28,28; II,1,32; II,11,1; II,11,4-6; II,11,9; II,11,11; II,11,18; II,17,1; II,17,7; II,17,9-10; II,17,12,14; III,5,8; III,13,13; III,22,1; III,22,39; IV,1,41-45; IV,4,26; IV,8,6; IV,8,10; IV,10,15

PROAIRESI: traduce il sostantivo προαίρεσις (‘proàiresis’). Epitteto è di evidenza solare nel mostrare che la proairesi, o ‘egemonico’ (q.v.), è la facoltà logica dell’uomo in quanto facoltà capace di atteggiarsi diaireticamente oppure controdiaireticamente. La proairesi non è un giudizio o un progetto, come tende a pensare Aristotele, né una scelta; e tantomeno una scelta morale di fondo. La proairesi è un codice scritto in determinate sequenze di nucleotidi e presente unicamente nel DNA umano. Le quattro caratteristiche fondamentali della proairesi sono queste: essa è libera, infinita, inasservibile e insubordinabile. Pertanto, la corretta definizione scientifica della nostra specie non è quella usualmente accettata di ‘Homo sapiens’. Infatti, a ben vedere, la stragrande maggioranza di noi apparterrebbe piuttosto alla specie ‘Homo insipiens’. Il vero nome della nostra specie è ‘Homo proaireticus’, giacché questa è la sola definizione che ci incorpora tutti: sapienti e insipienti, virtuosi e viziosi, colti e stolti, galantuomini e criminali. Delle quattro cause basilari delle vicende cosmiche, tre sono aproairetiche: natura (q.v.), necessità (q.v.), fortuna (q.v.), ed una sola, appunto la proairesi, ha per natura, per necessità e per fortuna il destino di essere il destino di se stessa.
I,1,22-23; I,2,32-33; I,4,18; I,6,40; I,8,10; I,8,16; I,12,3; I,12,7; I,12,9; I,17,21; I,17,26; I,18,1; I,18,8; I,18,16-17; I,19,8; I,19,15; I,22,10; I,25,1; I,27,10; I,28,21; I,29,1-3; I,29,8; I,29,12; I,29,47; I,30,1; I,30,4; II,1,6; II,1,12; II,2,2; II,5,3; II,5,5-6; II,6,25; II,8,15; II,10,1; II,10,25; II,10,27; II,10,29; II,15,1; II,16,1; II,16,16; II,21,7; II,21,10; II,21,12; II,21,19-20; II,21,26; II,21,29; II,23,4; II,23,11; II,23,15-17; II,23,19-20; II,23,22; II,23,40-41; III,1,39-40; III,1,42; III,2,1; III,2,13; III,3,4; III,3,8; III,3,10; III,4,9; III,5,2; III,5,7; III,10,18; III,14,7; III,14,10; III,16,1; III,18,3; III,19,2; III,22,41; III,22,102-103; III,22,105; III,23,5; III,23,10; III,24,1; III,24,75; III,25,5; III,26,23-24; III,26,33; III,26,35; IV,4,22-23; IV,5,5; IV,5,11; IV,5,23; IV,5,32; IV,7,28; IV,12,7; IV,12,12; IV,13,14; IV,13,21; E4,1; E5,1; E9,1; E10,1; E13,1; E27,1; E30,1

PROAIRETICO: traduce l’aggettivo προαιρετικός (‘proairetikòs). Tutto ciò ch’è proairetico è in nostro esclusivo potere e nessuno può sottrarcelo né procacciarci quel che di esso noi non disponiamo. Beni e mali dell’uomo sono entità esclusivamente proairetiche.
 I,4,1; I,17,23; I,19,23; I,22,18; I,28,18; II,1,5; II,1,9; II,1,29; II,1,40; II,10,8; II,13,10; II,23,9-10; II,23,12-13; II,23,15; II,23,23; II,23,25; II,23,27; III,3,14-15; III,3,19; III,5,4; III,6,7; III,7,4-5; III,8,1; III,11,2; III,12,8; III,18,1; III,22,13; IV,1,40; IV,1,84; IV,1,100; IV,4,18; IV,4,33; IV,7,8; IV,10,8; IV,12,15

PRÒNOIA: vedi MENTE DELLA MATERIA IMMORTALE

RAGIONE, ma anche ‘citazione’, ‘discorso’, ‘dottrina’, ‘facoltà logica’, ‘lezione’, ‘linguaggio’, ‘parola’, ‘ragionamento’: in contesti diversi traducono il sostantivo λόγος(‘lògos’). Per gli Stoici, com’è noto, il cosmo nella sua interezza è retto dal Lògos; e il Lògos può essere inteso come un movimento incausato, eterno, inarrestabile, che inerisce a qualunque forma di essere, dal più semplice ed infimo fino al più grande e complesso, vivente e non vivente. Può, dunque, qualcosa non essere permeato dal Lògos? No, nulla può esserlo. Per fare un esempio: nei minerali il Lògos prenderà il nome di ‘forza coesiva’; nei vegetali di ‘facoltà vegetativa’; negli animali bruti di ‘animo’; nell’uomo di ‘proairesi’; nel cosmo di ‘prònoia’.
I,3,3; I,5,1-2; I,7,1; I,7,5; I,7,8-9; I,7,11-12; I,7,22; I,7,26-27; I,7,30; I,7,33; I,8,1; I,8,10; I,9,5; I,9,23; I,10,6; I,12,26; I,16,15; I,17,1-3; I,20,1; I,20,5; I,20,14; I,20,19; I,25,11; I,27,6; I,29,28; I,29,56; I,30,7; II,2,16; II,2,20; II,8,2; II,8,8; II,9,21; II,10,2; II,12,1; II,12,14; II,15,1; II,15,4; II,16,2; II,16,7; II,17,30; II,17,39; II,18,8; II,18,29; II,19,1; II,19,17; II,20,26; II,20,31; II,20,34-36; II,21,12; II,21,22; II,22,21; II,23,1; II,23,14; II,23,40; II,24,19; II,24,26; II,25,2; II,26,4; III,1,13; III,1,36; III,2,3; III,2,10; III,2,17; III,6,1; III,6,9; III,9,18-20; III,12,13; III,13,8; III,13,11-12; III,17,1; III,23,14; III,23,19-20; III,23,28; III,24,7; III,24,16; III,24,22; III,24,38; III,24,76; III,24,103; III,24,108; III,24,110; III,24,116; III,26,15; III,26,39; IV,1,104; IV,1,133; IV,1,140; IV,1,143; IV,1,170; IV,3,4; IV,5,21; IV,6,12-13; IV,6,31; IV,7,6; IV,7,38; IV,8,12; IV,9,5; IV,9,8; IV,9,10; IV,11,3-4; IV,11,26; IV,11,29-30; IV,11,33; IV,12,23; E1,1; E16,1; E32,3; E33,3; E33,16; E44,1; E46,2; E48,3; E49,1; E51,1; E51,3; Fr. I

RAGIONEVOLE: traduce l’aggettivo ελογος (‘éulogos’). Ragionevole è tutto ciò che non contraddice se stesso. Siccome nella natura non esistono contraddizioni, tutto ciò ch’è aproairetico è ragionevole; così com’è ragionevole tutto ciò che di proairetico è in armonia con la natura delle cose.
I,2,2-8; I,6,31; III,1,11; III,7,7; III,13,21; IV,6,25; IV,6,28; Fr. III

REPULSIONE: traduce il sostantivo φορμή (‘aformé’). In contesti diversi, che in questa breve nota non sono però tenuti in considerazione, il sostantivo φορμήsignifica invece ‘movente’, o ‘risorsa’. La repulsione è la quarta delle sei opere cardinali della proairesi, ed è l’opposto dell’impulso (q.v.) Repulsione è il nome che prende l’avversione quando l’azione umana sia considerata limitatamente al campo del ‘doveroso’, ossia là dove si gioca la partita di ciò che per l’uomo è confacente a) in quanto semplice animale, b) in quanto animale inserito in un certo ambiente naturale e c) in quanto uomo in relazioni naturali o acquisite con altri uomini. Anche la repulsione è ‘proairetica’, e di essa dobbiamo servirci correttamente così da essere al riparo dalle aberrazioni, per agire con posizionamento, con razionalità, senza trascuratezza, né fuori tempo, né fuori luogo e salvaguardare così la nostra cooperatività nelle relazioni con i nostri simili: ad esempio, nella pulizia personale, o nella stoltezza di rispondere con l’offesa all’offesa di un nostro fratello, senza tenere minimamente conto della relazione naturale che ci lega a lui.
I,4,9; I,4,11; I,21,2; III,2,1-2; III,7,34; III,12,13; III,22,36; IV,4,28; IV,12,14; Fr. I

RISPETTO DI SÉ E DEGLI ALTRI: traduce il sostantivoαδώς (‘aidòs). La proairesi è rispettosa di sé e degli altri allorquando opera la diairesi (q.v.) e dunque si mantiene in armonia con la natura delle cose (q.v.). La proairesi che perde il rispetto degli altri, ossia il retto giudizio su tutto ciò che aproairetico, perde automaticamente e nello stesso istante il rispetto di se stessa. Ed è vero anche il contrario, giacché la proairesi che perde il rispetto di sé, perde con ciò stesso il rispetto degli altri. Nella riproduzione sessuale, i vegetali e gli altri animali, tanto per fare un esempio, fondono cellule a ciò per natura destinate dei rispettivi rispettabilissimi corpi viventi. Ma soltanto gli uomini virtuosi sanno intrecciare le loro libere proairesi e i loro corpi palpitanti.
I,3,4; I,5,5; I,5,9; I,25,4; I,28,20-21; II,20,25; II,22,30; III,3,9; III,14,13; III,22,15; IV,5,21; IV,8,33; IV,9,9; Fr. X

SOGGETTO A COSTRIZIONE: traduce l’aggettivoναγκαστός (‘anankastòs’). Tutto ciò ch’è aproairetico è soggetto a costrizione, ossia a subire la forza coercitiva di qualunque cosa più potente di lui. Qualora alcuni individui sentano questi discorsi, ossia che si deve esser saldi e che la proairesi è qualcosa di libero per natura e di non soggetto a costrizioni mentre il resto è soggetto a impedimenti, a costrizioni, è servo, è allotrio; ebbene immaginano di dover mantenere inviolabilmente ogni loro determinazione. 
I,17,27; II,5,8; II,15,1; III,24,3; IV,1,58; IV,1,78; IV,4,33

SMANIA: traduce il sostantivo πιθυμία (’epithumìa’). La smania è ‘proairetica’ ed è riconosciuta come una delle passioni fondamentali del tetracordo, laddove le altre tre sono: afflizione, ebbrezza e paura. La smania è un’anticipazione, ed è il desiderio inquieto, violento, senza riserva, irrazionale di quello che si opina essere in prospettiva un bene. Qualora poi si centrino le cose per le quali smaniavamo, alla smania subentra un’altra passione, ossia l’ebbrezza (q.v.). Tutte queste passioni sono il risultato di un atteggiamento della proairesi in contrasto con la natura delle cose. 
II,1,10; II,16,45; II,18,8-9; III,9,21; III,15,7; III,15,11; III,19,5; IV,1,174-175; IV,4,1; IV,9,5; IV,13,22; E29,3

STOLTEZZA: traduce il sostantivo φροσύνη (‘afrosùne’). In Epitteto il termine ‘stoltezza’ è sistematicamente citato insieme col, ed opposto al, termine ‘saggezza’. Stoltezza è l’azione della proairesi umana che dichiara non essere in suo esclusivo potere ciò ch’è proairetico, ed essere in suo esclusivo potere ciò ch’è aproairetico.
I,20,6; III,13,19

ZEUS: vedi MATERIA IMMORTALE. 
Ζεύς : Zeus è semplicemente il nome che Epitteto e gli Stoici danno all’insieme di tutta la Materia Immortale di cui è formato il cosmo, ossia la divinità.
I,1,9-10; I,1,16-17; I,1,23; I,3,1-2; I,4,31; I,5,5; I,6,10; I,6,13; I,6,24; I,6,37; I,6,40; I,7,26; I,9,1; I,9,5-7; I,9,13; I,9,16; I,9,24; I,12,6; I,12,25; I,13,3-4; I,14,1; I,14,3; I,14,6; I,14,9-11; I,14,14; I,16,7; I,16,14; I,16,17; I,16,20; I,17,15; I,17,19; I,17,27-28; I,18,1; I,19,9; I,19,11; I,22,15-16; I,24,1; I,25,3; I,25,5; I,27,8; I,27,13; I,29,13; I,29,17-19; I,29,29; I,29,46; II,1,7; II,5,12; II,7,11; II,7,13; II,8,1-2; II,8,7-8; II,8,14; II,8,17-19; II,8,22-23; II,8,26; II,11,7; II,12,20-21; II,16,26; II,16,42; II,16,44; II,16,46; II,17,22; II,17,25; II,17,29; II,18,13; II,18,19; II,18,29; II,19,26-27; II,19,29; II,20,23; II,20,27; II,22,6; II,23,3; II,23,5; II,23,42; II,24,25; III,1,29; III,1,37; III,3,10; III,4,7-8; III,7,19; III,7,36; III,8,6; III,11,3-6; III,13,4-5; III,13,7; III,20,4; III,21,18; III,22,23; III,22,34; III,22,56-57; III,22,59; III,22,69; III,22,82; III,22,95; III,24,16; III,24,19; III,24,24; III,24,65; III,24,110; III,24,112; III,24,117; III,25,3; III,26,30-31; IV,1,90; IV,1,98-99; IV,1,131; IV,3,9; IV,4,7; IV,4,21; IV,4,29; IV,4,34; IV,4,39; IV,4,48; IV,5,15; IV,6,5; IV,7,20; IV,7,35; IV,8,30; IV,8,32; IV,12,11; Fr. IV; Fr. VIII; E22,1; E53,1

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La proairesi e il mistero della “Pala di Brera”

La proairesi e il mistero della “Pala di Brera” di Piero della Francesca (circa 1470)

Un frammento del libro XI° dei “Ricordi” di Marco Aurelio è particolarmente significativo per dare una nuova interpretazione del famoso e misterioso uovo che pende dal catino absidale della Pala di Brera.

La cosiddetta ‘Pala di Brera’ è un celebre dipinto su tavola attribuito a Piero della Francesca o alla sua scuola, databile intorno al 1470 e raffigurante la Madonna col Bambino, sei santi, quattro angeli e il duca Federico II da Montefeltro. Il dipinto pervenne a Brera nel 1810 dalla chiesa di San Bernardino a Urbino.

Varie ipotesi sono state proposte sul significato del misterioso uovo di struzzo sospeso al catino absidale, che sarebbe da intendere come simbolo cristiano dei quattro elementi (secondo vari accenni in tal senso contenuti nella letteratura medioevale) e simbolo della creazione, poiché con questo valore viene usualmente appeso nelle chiese dell’Abissinia e dell’Oriente cristiano. Di conseguenza, nel dipinto sarebbe evidente l’allusione alla nascita di Guidobaldo da Montefeltro la cui madre, Battista Sforza, morta nel 1472, fu sepolta proprio in San Bernardino.

Sempre a proposito del mistero dell’uovo, non è da tacere che esso richiama pure l’idea rinascimentale dello spazio centralizzato, perfettamente armonico e simmetrico. Anche il ripristino ideale della struttura originaria della Pala trova sostegno nel fatto che l’uovo appeso sopra il trono si qualifica come centro geometrico della composizione completa: a ribadire, in certo modo, il collegamento con l’assoluta simmetria vagheggiata dai rinascimentali.

Si legga ora il frammento di Marco Aurelio e si tenga a mente che l’italiano ‘di fulgida luce’ traduce l’aggettivo greco ‘augoeidès’ il quale significa basilarmente ‘che ha la natura della luce’ e quindi ‘luminoso’, ‘splendente’, ‘fulgido’.

“Sfera di fulgida luce è l’animo quando non si distenda su qualcosa, non si contragga in sé, non si esalti, non si deprima ma brilli di quella luce con la quale vede la verità delle cose tutte e quella che in lui è”.

Marco Aurelio, libro XI° dei “Ricordi”, frammento.

L’aggettivo ‘augoeidès’ è usato sei volte -delle quali però soltanto due sono rilevanti ai fini del presente discorso- negli Stoicorum Veterum Fragmenta.

In un primo frammento di Galeno (SVF II,219,10) il quale fu, tra l’altro, medico personale di Marco Aurelio, l’aggettivo è riferito al sostantivo ‘astri’, per dire: ‘gli astri hanno natura e sono fonte di luce, sono secchi e dotati di estrema intelligenza’.

In un secondo frammento sempre di Galeno (SVF II,231,20), l’aggettivo è riferito al sostantivo ‘pneuma’, per dire: ‘la facoltà visiva si dissolve quando lo pneuma che ha natura di luce cessi di affluire, in parte o del tutto, (agli occhi) dalla sua causa (arkè) cerebrale’.

Ora, come è stato ben dimostrato da molti studiosi, l’elenco canonico delle 4 cause (arkài) basilari di tutti gli eventi del cosmo, in Aristotele e nella seguente tradizione filosofica, è questo: proairesi (proàiresis), natura (fùsis), necessità (anànke), fortuna (tùke).

È del tutto evidente che il secondo frammento di Galeno avvalora l’interpretazione che ad avere natura di luce e dunque ad essere sorgente di essa non sono le tre restanti cause basilari, ma la causa basilare ‘proairesi’, che viene anche correttamente localizzata come avente sede nel cervello. È dunque la ‘proairesi’ dell’uomo ad essere ‘augoeidès’.

Il primo frammento di Galeno, poi, conferma questa interpretazione in quanto, secondo la tradizione filosofica cui ci stiamo riferendo, anche il cosmo ha una ‘proairesi’ avente la stessa natura di luce. È questa ‘proairesi’ del cosmo che fa splendere gli astri, li fa intelligenti; come quella dell’uomo ne fa splendere gli occhi e gli permette vista e intelligenza. Se ne può concludere che ad essere ‘augoeidès’ è anche la ‘proairesi’ del cosmo.

Chiediamoci ora: come rappresentare pittoricamente questa concezione della ‘proairesi’ del cosmo e dell’uomo? Certamente, nella pittura antica, come una sfera di fulgida luce.

Passano dodici secoli. Mutano genti e linguaggi e l’oblio stende le sue ali inesorabili.

È fuori discussione che nel Quattrocento fosse in pieno sviluppo in Occidente il poderoso movimento di recupero della tradizione greca, legato alle critiche vicende che attraversava in quel periodo Costantinopoli, assediata e conquistata dagli Ottomani. Ci si risveglia, dunque, dopo secoli e ci viene insegnato che in greco moderno e popolare ‘avgà’ indica adesso le ‘uova’ e l’aggettivo ‘avgoeidès’ significa ‘che ha forma di uovo’, ‘ovale’.

I pittori non devono fare anche i filologi. Se Piero della Francesca o chi per lui, tramite i suoi più che colti amici, è venuto a conoscenza del fatto che l’uomo e il cosmo hanno una ‘proairesi’, ne ha compreso il valore e se, nel corso di tante discussioni gli è stata sempre offerta la ovvia e popolare traduzione dell’aggettivo ‘avgoeidès’, perché avere dei dubbi? Dipingerà la Pala di Brera e metterà al suo centro, tanto geometrico che filosofico, l’oggetto-simbolo di ciò che nell’uomo e nel cosmo è più possente e li fa splendere.

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I RICORDI – COMMENTO

COMMENTO A MARCO AURELIO

[ I,1 ] La famiglia di Marco Annio Vero, nonno paterno di Marco Aurelio, era originaria di Succubi, nei dintorni di Cordova, in Spagna. M. Annio Vero era nato probabilmente intorno al 65 d.C., apparteneva al rango senatoriale e fu per ben tre volte console: console sostituto nel 97 d.C. sotto l’impero di Nerva; nel 121 e nel 126 d.C. console ordinario sotto quello di Adriano. Fece inoltre stabilmente parte, per parecchi decenni, del circolo dei consiglieri più intimi dell’imperatore. 
Sposò Rupilia Faustina e ne ebbe tre figli: Marco Annio Vero, del quale Marco Aurelio sarà figlio nel 121 d.C.; Marco Annio Libone e Annia Galeria Faustina. Quest’ultima, dunque zia di Marco Aurelio, sposerà il futuro imperatore Antonino Pio ed è comunemente indicata come ‘Faustina maggiore’. 
M. Annio Vero era una persona economicamente ricchissima e politicamente molto influente. All’origine della sua potenza economica stavano le numerose fabbriche di laterizi delle quali era proprietario, ed è certamente questa potenza che portò poi la famiglia degli Antonini al potere imperiale nel 138 d.C. Se si ragiona comunemente e si considera che M. Annio Vero fu suocero di un imperatore -Antonino Pio-, e nonno di un altro -Marco Aurelio-, non si può non ammettere che la sua carriera sia stata uno straordinario successo politico. 
Oltre che abilissimo nel gioco della politica, sappiamo che M. Annio Vero era un fuoriclasse anche nel gioco della palla (gioco in cui si dilettò volentieri anche Marco Aurelio da giovane), tanto da essere considerato uno dei migliori giocatori del suo tempo.
Quando il padre di Marco Aurelio morì, questi fu adottato proprio da M. Annio Vero, suo nonno, e con lui convisse a lungo nel suo palazzo di Roma, nei pressi del Laterano.
M. Annio Vero morì quasi certamente nel 138 d.C.

[ I,2 ] Il padre di Marco Aurelio si chiamava, esattamente come il nonno, Marco Annio Vero. A differenza del nonno, del padre di Marco Aurelio si sa pochissimo. Non l’anno della nascita e neppure l’anno della morte, poiché alcuni datano quest’ultima al 124 d.C., anno in cui egli ricoprì la carica di Pretore, mentre altri la datano intorno al 129 d.C. Sappiamo che sposò Domizia Lucilla e che da lei ebbe due figli: nel 121 d.C. Marco Aurelio e poco dopo una bambina, cui fu dato il nome di Annia Cornificia Faustina. 
Le parole di questo frammento sono in ogni caso una testimonianza inequivocabile del fatto che Marco Aurelio non ha un ricordo cosciente, diretto, di suo padre.

[ I,3 ] Domizia Lucilla, la madre di Marco Aurelio, apparteneva ad una famiglia la cui fortuna economica, come quella di M. Annio Vero, era legata alle fabbriche di laterizi.
Tutto era cominciato circa un secolo prima con Cneo Domizio Afro, oratore assai noto ed originario della città di Nimes, nella Gallia. Quando egli morì, nel 59 d.C., ad ereditarne tutte le proprietà furono i suoi due figli adottivi: Cneo Domizio Lucano e Cneo Domizio Tullo. Nessuno poteva allora immaginare che le fabbriche di laterizi rappresentassero una vera e propria miniera d’oro e invece, a partire dal 64 d.C., col famoso incendio di Roma sotto Nerone e poi, nei decenni successivi, fino a Traiano e ad Adriano, tutte le attività di costruzione e di ricostruzione di Roma, e non soltanto di essa, conobbero un periodo di espansione permanente e prodigiosa. Ma andiamo con ordine.
C. Domizio Lucano sposò una figlia di Curtilio Mancia, uomo di grande ricchezza economica e di rango consolare, e da questo matrimonio nacque una bambina, Domizia Lucilla, futura nonna materna di Marco Aurelio. Accadde poi che per motivi ignoti, anche se immaginabili, il suocero Curtilio Mancia prese a detestare il genero C. Domizio Lucano ed entrò con lui in un dissidio tanto grave da legare tutta la sua fortuna in eredità alla nipote Domizia Lucilla a patto che essa fosse emancipata e dunque uscisse dalla potestà del padre, l’odiato C. Domizio Lucano. 
Domizia Lucilla fu effettivamente emancipata, ma fu allora adottata da C. Domizio Tullo, fratello, come abbiamo detto, di C. Domizio Lucano. E così rimase frustrato il proposito di Curtilio Mancia poiché i due fratelli, mantenendo indivise le loro proprietà, attraverso l’adozione riportarono Domizia Lucilla e la sua larga fortuna sotto il controllo del padre. Insomma, questi due fratelli sembravano destinati ad essere coperti d’oro da coloro che invece avevano scopi del tutto contrari.
C. Domizio Lucano morì intorno al 94 d.C., lasciando unico erede il fratello C. Domizio Tullo. Questi, a sua volta, morì intorno al 108 d.C., e lasciò unica erede la figlia adottiva Domizia Lucilla, la quale venne così a trovarsi in possesso di una fortuna immensa. Quando a Roma succedevano queste cose, come ci informa dettagliatamente in una sua lettera Plinio il giovane, a lungo non si pettegolò d’altro. 
Questa ricchissima ereditiera, Domizia Lucilla (indicata anche come ‘maggiore’ e nonna materna di Marco Aurelio) sposò in seconde nozze Calvisio Tullo, anch’egli persona di rango consolare. Dal loro matrimonio nacque una figlia che prese lo stesso nome della madre, Domizia Lucilla, e che sarà appunto la madre di Marco Aurelio. Sarebbe difficile immaginare un matrimonio d’interesse meglio assortito di quello tra M. Annio Vero e Domizia Lucilla ‘minore’. Alla coppia non dovevano certo fare difetto né le proprietà né i mezzi finanziari.
Quando M. Annio Vero morì, Domizia Lucilla non si risposò e rimase sempre vicina al figlio Marco Aurelio. Ella morì tra il 155 e il 161 d.C., senza vedere suo figlio diventare imperatore.

[ I,4 ] Si ammette comunemente che il bisnonno del quale parla qui Marco Aurelio sia il bisnonno materno Catilio Severo. Ma esattamente per via di quale parentela Catilio Severo possa esserlo stato è un problema che gli storici e gli eruditi non hanno ancora risolto, e che probabilmente rimarrà per sempre un mistero. In ogni caso, è lo stesso Marco Aurelio ad assicurarci che questo bisnonno ha giocato un ruolo decisivo nella sua educazione.
Catilio Severo apparteneva ad una famiglia originaria della Bitinia. Prima del 110 d.C. ricoprì varie cariche di modesto prestigio ma poi, a partire da quell’anno, la sua figura emerse in primissimo piano. Fu console sostituto nel 110 d.C., legato di Traiano in Armenia e Cappadocia, governatore della Siria nel 117 d.C., console ordinario con Antonino Pio nel 120 d.C., prefetto di Roma tra il 134 e il 138 d.C. e, quest’anno, addirittura possibile successore di Adriano.
Lo speciale interesse che Adriano manifestò per il giovane Marco Aurelio, da lui soprannominato ‘Verissimus’, si spiega verosimilmente anche con il fatto che Marco Aurelio aveva come nonno M. Annio Vero e come bisnonno Catilio Severo, due figure di assoluto rilievo nel circolo degli intimi dell’imperatore.

[ I,5 ] Nulla ci è noto di questo precettore di cui non conosciamo neppure il nome, e che doveva vegliare sulla salute fisica e morale di Marco Aurelio bambino. 
Verde ed Azzurro erano i colori di due delle principali scuderie che si contendevano la vittoria nelle corse dei cavalli. Palmulari e Scutari erano due delle categorie in cui erano suddivisi i gladiatori del Circo.

[ I,6 ] L’educazione elementare di Marco Aurelio fanciullo continuò sotto la guida di Diogneto, dal quale sappiamo che imparò a dipingere. Anche di questo suo primo maestro poco o nulla è noto, salvo che egli non è identificabile con il destinatario di un’operetta apologetica cristiana intitolata ‘Lettera a Diogneto’.
Pochissimo sappiamo anche dei tre personaggi dei quali a Roma Marco Aurelio, per suggerimento di Diogneto, frequentò le conferenze pubbliche. Bacchio è con ogni probabilità un filosofo di scuola platonica originario della città di Pafo, nell’isola di Cipro. Tantaside e Marciano, se si tratta di nomi esatti, sono personaggi o sconosciuti o non identificabili. 

[ I,7 ] Giunio Rustico era uno dei massimi eredi e depositari della grande tradizione stoica in onore presso una parte dell’aristocrazia romana. Ad esempio suo nonno, Giunio Aruleno Rustico, era stato addirittura condannato a morte e fatto uccidere da Domiziano nel 93 d.C. per avere osato difendere la memoria di Trasea Peto scrivendo la verità sulle vicende che lo portarono al suicidio.
Nato probabilmente intorno al 100 d.C., sappiamo che Giunio Rustico fu console sostituto nel 133 d.C., prefetto di Roma dal 160 al 168 d.C. e console ordinario nel 162 d.C. 
Grazie alle notizie contenute nella corrispondenza di Marco Aurelio con Frontone, è verosimile supporre che Giunio Rustico abbia iniziato ad esercitare un’influenza significativa su Marco Aurelio nel 146 d.C. Da quell’anno in poi -essendo Marco Aurelio già ‘Cesare’, marito di sua cugina Annia Galeria Faustina, padre, diretto collaboratore dell’imperatore Antonino Pio- i loro rapporti si fecero molto stretti e continui, anche se essi furono a volte assai burrascosi. È sicuramente grazie a Giunio Rustico che Marco Aurelio ebbe il fondamentale incontro con l’insegnamento di Epitteto, ossia la rivelazione di cosa sia davvero la filosofia. Ed è addirittura possibile, benché non provato, che Giunio Rustico fosse stato uno dei tanti giovani allievi romani di Epitteto a Nicopoli, e che le ‘Memorie’ che Marco Aurelio qui cita siano in realtà gli appunti che Giunio Rustico aveva preso personalmente a quelle lezioni.

[ I,8 ] La reputazione di Apollonio doveva essere notevole se fu scelto da Antonino Pio per dare una formazione filosofica a Marco Aurelio. Apollonio era molto probabilmente originario di Calcedonia, città della Bitinia non lontana dall’attuale Costantinopoli. Filosofo stoico di professione e non uomo di Stato, pare che il suo insegnamento a Marco Aurelio, insegnamento del quale nulla conosciamo nei dettagli, sia da situare negli anni intorno al 150 d.C.
Nel corso del suo viaggio verso l’Italia, sappiamo che Apollonio sostò ad Atene e che, una volta giunto a Roma, si rifiutò però di recarsi a tenere le sue lezioni nel palazzo di Tiberio sul Palatino, dove Marco Aurelio abitava, affermando: ‘Il maestro non deve andare dal discepolo, ma è il discepolo che deve andare dal maestro’. Al che si racconta che l’imperatore Antonino Pio abbia argutamente fatto notare: ‘Per Apollonio è stato più facile venire da Calcedonia a Roma che venire da casa al palazzo di Tiberio’.

[ I,9 ] Sesto era un greco originario di Cheronea, città della Beozia non molto lontana da Delfi. Sappiamo anche con certezza che uno dei suoi zii era il famoso poligrafo Plutarco, scrittore di tendenze platoneggianti ed acerrimo nemico degli Stoici, autore delle notissime ‘Vite parallele’.
Filosofo e non uomo di Stato, Sesto fu maestro di Marco Aurelio intorno al 161 d.C., ossia subito prima e subito dopo l’ascesa di quest’ultimo al potere imperiale. Marco Aurelio, allora quarantenne, parla di sé in quegli anni come di un uomo che comincia ad invecchiare, ed un aneddoto ci racconta la risposta che egli diede ad un altro filosofo, di nome Lucio, al quale era capitato di incontrarlo mentre si recava, con al collo le tavolette di cera degli studenti, a lezione da Sesto. Alla richiesta di dove si recasse e per quale scopo, Marco Aurelio rispose: ‘Vado da Sesto per imparare quello che ancora non so’.
Sullo stoicismo di Sesto, sul suo stampo derivato da Epitteto e sul rilievo che il suo insegnamento ebbe per Marco Aurelio abbiamo molte testimonianze. Quando un personaggio notissimo, che aveva visto la morte della figlia Panatenaide e della moglie Regilla, perse anche la figlia Elpinice e piangendo disperatamente chiedeva quali offerte potesse ormai consacrarle e cosa potesse seppellire con lei, si racconta che Sesto dicesse: ‘Le farai una grande offerta se, nel lutto, manterrai la padronanza di te stesso’.

[ I,10 ] Si ritiene che l’attuale città turca di Kütahya sia situata là dove sorgeva un tempo l’antica Cozieo, nella Frigia Ellespontica. Questa è, se non quella d’origine, sicuramente la città nella quale Alessandro aveva la sua scuola di grammatica greca, di esegesi dei testi e di critica letteraria. Conosciamo anche il nome, e sono giunte fino a noi alcune delle opere, di almeno uno dei suoi più celebri allievi. La fama della scuola era dunque tale che non è sorprendente se essa giunse fino a Roma. Alessandro ‘il grammatico’ fu così scelto da Antonino Pio per insegnare la lingua e la letteratura greca a Marco Aurelio allora quattordicenne, intorno al 135 d.C.
Alessandro ‘il grammatico’ morì probabilmente intorno al 150 d.C. 

[ I,11 ] Marco Cornelio Frontone era di almeno vent’anni più anziano di Marco Aurelio. Era nato a Cirta, l’odierna città algerina di Costantina e allora colonia romana, poco prima del 100 d.C. Dopo gli studi ad Alessandria d’Egitto venne a Roma, dove seppe farsi largo acquistando presto rinomanza come avvocato ed oratore. Raggiunto il rango senatoriale, ricoprì alcuni incarichi pubblici, ma soprattutto si acquistò il favore di Adriano e di Antonino Pio tanto che intorno al 135 d.C. gli fu affidata l’educazione letteraria e retorica in lingua latina di Marco Aurelio, allora quattordicenne. Certamente fu questo suo ruolo ad aprirgli più tardi le porte di un breve consolato, nell’estate del 143 d.C.
Frontone godette presso i contemporanei la fama di sommo oratore e gli fu assegnato, nella storia dell’eloquenza latina, un posto secondo, forse, soltanto a quello di Cicerone. Nonostante ciò, delle sue opere si era da millenni completamente persa ogni traccia fino alla fortunata scoperta da parte di Angelo Mai, agli inizi del 1800, di alcuni libri della sua corrispondenza privata con Marco Aurelio ed altri personaggi politici di primo piano. Questa corrispondenza copre gli anni che vanno dal 139 al 167 d.C. ed è stata di grande importanza per svelarcene un po’ meglio le qualità professionali ed umane. Frontone morì intorno al 170 d.C.

[ I,12 ] L’Alessandro che qui Marco Aurelio chiama “il Platonico” era in realtà meglio conosciuto con il soprannome di “Platone d’argilla”, ed era originario di Seleucia della Cilicia, l’attuale città turca di Silifke. Sappiamo che Alessandro era individuo di un fascino certamente non comune: gradevolissimo d’aspetto, curato nella persona fino ai minimi particolari e di grandissima abilità oratoria. Era un perfetto esemplare dei sofisti allora alla moda: viaggiatore indefesso, conversatore brillantissimo, capace di tenere conferenze di città in città sugli argomenti più disparati e spesso scelti all’ultimo momenti dagli stessi uditori. 
Anche se alieno a questo genere di declamazioni, Marco Aurelio non dovette essere insensibile alle qualità di Alessandro, tanto che lo nominò suo segretario personale ‘ab epistulis graecis’, ossia incaricato di tutta la corrispondenza imperiale in lingua greca. Questo ufficio fu con ogni probabilità ricoperto da Alessandro tra il 170 e il 175 d.C., che viene anche comunemente ritenuto l’anno della sua morte.

[ I,13 ] Di Cinna Catulo non conosciamo altro che la citazione che qui ne fa Marco Aurelio, ed una seconda che lo indica puramente e semplicemente come filosofo stoico. 
Domizio potrebbe essere, ma al riguardo non vi è alcuna certezza, Cneo Domizio Afro, il famoso oratore e lontano progenitore della madre di Marco Aurelio.
Atenodoto è invece sicuramente una persona di cui Frontone parla nelle sue lettere e di cui si sa che fu, come Epitteto, discepolo di Musonio Rufo.

[ I,14 ] Claudio Severo Arabiano era nato molto probabilmente nel 113 d.C., mentre il padre era Governatore romano della Provincia d’Arabia. La famiglia, di rango senatoriale, era originaria di Pompeiopoli di Paflagonia, città dell’entroterra turco non lontana dalla moderna Sinop. Sappiamo che egli fu console ordinario sotto Antonino Pio nel 146 d.C. e, forse, Prefetto della città di Roma.
Claudio Severo era un filosofo di scuola aristotelica e quando Marco Aurelio decise di familiarizzarsi con la filosofia peripatetica, che allora significava essenzialmente familiarizzarsi con gli studi che oggi si chiamerebbero di ‘Scienze Naturali’ (Botanica, Zoologia, Anatomia Comparata, ecc.), prese lezioni da lui. D’altra parte il celebre Galeno, che fu medico personale di Marco Aurelio, ci conferma che anche il figlio di questo Claudio Severo assisteva alle sue lezioni di anatomia. Proprio questo figlio di Claudio Severo sposò, intorno al 163 d.C., la figlia primogenita di Marco Aurelio, figlia che portava anch’essa il nome di sua madre e di sua nonna ossia quello di Annia Galeria Faustina. Questo matrimonio fece dunque sì che i legami tra le due famiglie, com’è verosimile, diventassero assai stretti. 

[ I,15 ] Claudio Massimo è un personaggio storicamente assai ben conosciuto. Nato probabilmente intorno al 100 d.C., filosofo stoico, senatore, tra il 132 e il 155 d.C. ricoprì molte e diverse cariche pubbliche, essendo console sostituto nel 141-142 d.C. e proconsole d’Africa nel 158-159 d.C. In quanto proconsole d’Africa fu lui a giudicare nel famoso processo ‘per magia’ intentato contro Apuleio di Madaura.
Nel corso degli anni in cui visse a Roma, Claudio Massimo sembra essere stato intimamente legato alla famiglia imperiale, e la sua morte avere rappresentato un avvenimento intensamente vissuto da Marco Aurelio.

[ I,16 ] Successore di Adriano, l’imperatore Antonino Pio era nato nell’86 d.C. a Lanuvio, poco a sud di Roma, ai piedi dei Colli Albani. Fu, tra molti altri incarichi, console nel 120 d.C. e proconsole d’Asia nel 135-136 d.C. Adriano lo adottò pochi mesi prima di morire, nel 138 d.C., ed Antonino Pio resse l’impero per 23 anni, fino al 161 d.C. 
Era sposato con Faustina ‘maggiore’, zia di Marco Aurelio, il quale fu da lui adottato nel 138 d.C. per espressa volontà di Adriano. Da allora Marco Aurelio, che era rimasto orfano di padre in tenerissima età, lo considerò e lo onorò a tutti gli effetti come il proprio padre.

[ I,17 ] Cos’è immortale nel cosmo? Null’altro che il cosmo stesso ossia la Materia della quale esso è costituito. E nell’uomo? Il suo corpo, in quanto Materia Immortale del cosmo eternamente destinata a continue trasformazioni e combinazioni. Se usata rettamente, la ragione umana è allora in grado di concepire di sé e del cosmo quelle rappresentazioni felicitanti, generose, liberatorie ed aderenti alla natura delle cose che si possono anche chiamare ‘dei’.

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[ II,1 ] La giornata di un imperatore, sembra dirci Marco Aurelio, non è molto diversa da quella di uno qualunque di voi.
Tutti i vizi degli esseri umani, infatti, sono forme del giudizio che bene e male sono entità esterne ed aproairetiche, così come tutte le loro virtù sono forme del sapere che bene e male sono unicamente giudizi ossia entità proairetiche. Questa è la natura delle cose: inviolabile, eterna, invariante; e pertanto l’uomo non può fare del bene o del male ad altri che a se stesso.
Da stoico, Marco Aurelio ha chiara coscienza del fatto che tutti gli esseri umani sono partecipi di una medesima ragione, che sono tutti congeneri e destinati alla cooperazione, non all’odio reciproco. 
Pur vivendo tutti secondo natura, la differenza tra saggi ed insipienti consiste allora in ciò: che il virtuoso vive secondo natura e in armonia con la natura delle cose, mentre il vizioso vive secondo natura ma in contrasto con la natura delle cose.

[ II,2 ] ‘Proairesi’ nella prevalente terminologia di Epitteto, ed ‘egemonico’ nella prevalente terminologia di Marco Aurelio, sono sostantivi del tutto equivalenti e intercambiabili. 
Cos’è la proairesi? La proairesi, o egemonico, è la facoltà logica degli esseri umani in quanto facoltà autoteoretica capace di atteggiarsi in armonia con la natura delle cose ossia ‘diaireticamente’, oppure in contrasto con la natura delle cose ossia ‘controdiaireticamente’. Essa è la causa basilare di tutte le azioni responsabili dell’uomo ed è, in un certo senso, l’uomo stesso. Tra tutti gli esseri viventi, finora l’unico animale ad essere ‘proairetico’ è proprio l’uomo. 
Marco Aurelio lo afferma con decisione e riafferma qui che la proairesi, o egemonico, è l’unica facoltà umana capace di parlare a se stessa, di esaminarsi e di decidere se essere serva ed infelice oppure libera e felice.

[ II,3 ] Cos’è la Prònoia? Molti sono i modi in cui la Prònoia può essere definita: come mente della Materia Immortale; come la proairesi, o egemonico, del cosmo; come il ‘logos’ che lo pervade; come le leggi inviolabili, eterne, invarianti che manifesta; come la razionalità che gli inerisce e che da esso è inseparabile come sono inseparabili i poli positivo e negativo di un magnete.
Nel solco della tradizione fissata da Aristotele e condivisa dagli stoici, in questo frammento anche Marco Aurelio sottoscrive il giudizio che quattro sono le cause basilari degli eventi cosmici e le presenta nella loro sequenza tradizionale: Proairesi umana e Prònoia cosmica, Natura, Necessità, Fortuna. 
Queste quattro cause basilari e le loro relazioni reciproche potrebbero forse essere illustrate con un esempio di questo genere: che un seme sia un seme è Prònoia; che un seme di grano generi una pianticella di grano è Natura; che una pianticella di grano sia distrutta da una furiosa grandinata è Necessità; che la grandine cada proprio su quella pianticella è Fortuna.

[ II,4 ] L’uomo che rimanda di fare questi conti e non li fa in questa vita, non avrà più una seconda possibilità. Quali conti? 
Se le parole del frammento non fossero ancora abbastanza eloquenti, basta riflettere su parole come queste di Epitteto: ‘Voi vi mettete in viaggio per Olimpia per vedere lo Zeus di Fidia e ciascuno di voi crede una sfortuna morire senza averlo visto. E laddove non c’è neppure bisogno di mettersi in viaggio, ma dove Zeus è già e presenzia con le opere, queste non smanierete di osservarle e di capirle? Quindi non vi accorgerete né di chi siete, né del per che cosa siete nati, né di cos’è quest’opera alla cui visione siete stati invitati?’

[ II,5 ] L’uomo può essere in vita, ma può affermare in senso proprio di ‘vivere’ unicamente ‘da quando a quando’ la sua proairesi si afferma per quello che è per natura: libera, infinita, inasservibile, insubordinabile. Per affermarsi ‘vivente’ alla proairesi basta dunque fare una operazione sola: quella di atteggiarsi diaireticamente, ossia operare la diairesi. 
Cos’è la diairesi? Basterà dire, come Epitteto ha insegnato anche a Marco Aurelio, che la diairesi è un supergiudizio e precisamente il giudizio che sa distinguere quanto è in nostro esclusivo potere e quanto invece non è in nostro esclusivo potere. 
Dobbiamo allora usare gli oggetti esterni, quanto non è in nostro esclusivo potere, insomma i normali materiali dell’esistenza, casualmente e con trascuratezza o addirittura rifiutare di usarli? Nient’affatto! Anzi, dobbiamo imparare ad usarli con estrema solerzia, poiché il loro uso non è indifferente, e insieme con stabilità di giudizio e dominio sullo sconcerto, poiché il materiale non fa differenza.
Siccome una e medesima è la ragione del cosmo e la ragione dell’uomo, la diairesi innalza pertanto l’uomo al livello di un dio e ‘vivere’ non può che diventare sinonimo di ‘vivere da dio’.

[ II,6 ] È noto che per gli Stoici l’animo umano può essere distinto in otto parti: i cinque sensi (vista, udito, olfatto, gusto, tatto), la parte legata alla fonazione, la parte legata alla sessualità e la proairesi o egemonico.
Con caratteristico procedimento retorico, Marco Aurelio impiega in questo frammento, e userà più volte in seguito, una sineddoche, e indica il tutto (l’animo) per indicare la parte (la proairesi). È infatti incontrovertibile che la sola facoltà autoteoretica dell’animo umano è la proairesi e che soltanto essa è in grado di scegliere di oltraggiarsi. 
Quando la proairesi oltraggia se stessa? Quando si afferma per quello che per natura non è, ossia quando si atteggia controdiaireticamente.
E cos’è la controdiairesi? Basterà anche qui dire che è il supergiudizio, esattamente contrario alla diairesi, che afferma in nostro esclusivo potere quanto non è in nostro esclusivo potere oppure non essere in nostro esclusivo potere quanto invece è in nostro esclusivo potere. 
Porre nelle proairesi altrui la propria buona sorte, ossia far dipendere la propria felicità dagli altri è caratteristico di una proairesi che si atteggia controdiaireticamente e questo, appunto, non può che renderci schiavi.

[ II,7 ] La vita in senso proprio dell’uomo è strettamente legata allo stato della sua proairesi. Egli, infatti, ‘vive’ quando la sua proairesi è atteggiata diaireticamente, mentre è ‘in vita’ quando la sua proairesi è fisiologicamente spenta, come nel sonno, oppure ‘da quando a quando’ essa si nega per quello che è, e si atteggia controdiaireticamente. Marco Aurelio ci offre qui la rappresentazione di due modi a lui ben noti, da imperatore, in cui la proairesi si atteggia controdiaireticamente, ossia di due modi di essere ‘in vita’ senza ‘vivere’. 
Il primo è quello di lasciarci talmente distrarre dagli avvenimenti esteriori da immedesimarci in essi, giudicandoli in nostro esclusivo potere. Il secondo è quello di estraniarcene al punto tale da decidere di perdere ogni contatto con essi. Chi legge attentamente il frammento si accorgerà che Marco Aurelio suggerisce nel contempo anche i corrispondenti rimedi.

[ II,8 ] L’uomo, finora unico tra tutti gli animali, non soltanto usa le rappresentazioni ma ha anche la comprensione del loro uso, giacché è stato dotato dalla natura di ragione, è ‘Homo proaireticus’. Questo lo pone nella condizione di conoscere bene e male, felicità e infelicità, a seconda dell’uso che la sua proairesi fa di se stessa. 
Se i vegetali non hanno rappresentazioni, gli altri animali hanno invece certamente rappresentazioni e le usano ma, pur facendo di esse un uso anche raffinatissimo, non hanno la comprensione dell’uso che ne fanno. Essi sono pertanto creature aproairetiche, esseri non dotati di ragione. Questo esclude che si possa parlare a loro riguardo di bene e di male, di felicità e infelicità.

[ II,9 ] La natura esiste ed essa fu, è, sarà eternamente onnicomprensiva. Con l’uomo viene all’esistenza anche la ‘natura delle cose’, che consiste nella essenziale bipartizione di quel tutto eternamente onnicomprensivo che è la natura o cosmo, in entità aproairetiche ed in entità proairetiche. La peculiare natura dell’uomo è tutt’uno con la conoscenza e la pratica delle conseguenze di questa fondamentale diairesi. 
Marco Aurelio poi afferma, in verità più da imperatore che da filosofo, che nessuno può impedirci di fare o dire ciò che consegue alla nostra natura di uomini. Dovrebbe invece dire, con Epitteto, che non soggetto ad impedimento è soltanto il desiderio, o l’impulso, o l’assenso a fare e dire ciò che consegue alla nostra natura di uomini, giacché laddove vi è bisogno del corpo e della sua collaborazione noi possiamo sempre esserne impediti dalle più svariate e imprevedibili circostanze. 

[ II,10 ] È noto che secondo gli Stoici tutte le aberrazioni degli uomini sono ugualmente gravi. Se, infatti, non c’è una verità che sia più vera di un’altra, non ci sarà neppure una falsità che sia più falsa di un’altra, e lo stesso vale per le aberrazioni. E così non si trova a Nicopoli tanto chi ne dista un miglio quanto chi ne dista cento, ed è destinato ad annegare tanto chi resta un metro quanto chi resta cinque metri sott’acqua.
Marco Aurelio invece, più da seguace di Aristotele che di Crisippo, mostra qui di concordare con Teofrasto, il quale vede una differenza tra l’aberrazione di una proairesi come quella di Medea, che aberra per rancore, ed una, come quella di Fedra, che aberra per smania. 
Teofrasto è il noto filosofo di Ereso, nell’isola di Lesbo, nato intono al 372 a.C. e morto intorno al 286 a.C., che successe ad Aristotele nella direzione della scuola Peripatetica.

[ II,11 ] La natura è immortale. L’uomo è mortale. Al perenne flusso della divina natura, di cui l’uomo è parte, inerisce una razionalità, la Prònoia o Logos, della quale la ragione dell’uomo partecipa con la Proairesi. L’armonia dell’uomo con la natura non può pertanto stabilirsi che quando la proairesi sia in armonia con la Prònoia. 
È possibile questa armonia? Questa armonia è possibile quando la proairesi dell’uomo si atteggia diaireticamente, ossia quando riconosce la differenza tra ciò che è aproairetico e ciò che è proairetico: nel presente caso, tra natura e Prònoia (entità aproairetiche) ed i giudizi che essa ha su natura e Prònoia (entità proairetiche). Se la proairesi giudicasse che natura e Prònoia sono ‘male’, in quanto la destinano alla morte, implicherebbe per sé il progetto di contrastare qualcosa che essa stessa invece ha già definito incontrastabile. Se giudicasse che esse sono ‘bene’, in quanto l’hanno chiamata alla vita, implicherebbe l’esistenza al di fuori di sé di un bene da lei stessa già definito irraggiungibile, così come la parte non può essere il tutto. Dunque la retta proairesi deve giudicare che natura e Prònoia non sono né bene né male, ma ‘indifferenti’ per la propria felicità o infelicità, e comportarsi di conseguenza. 
Ed è possibile la disarmonia? La disarmonia dell’uomo con la natura delle cose, ossia della proairesi con la Prònoia, è facilissima da ottenere. Basta giudicare che natura e Prònoia siano ‘male’ o siano ‘bene’. E dunque anche, ancora più semplicemente, che vita, gloria, piacere fisico, ricchezza di denaro siano ‘bene’, con le inevitabili disillusioni conseguenti; e che i loro contrari: morte, discredito, dolore fisico, povertà di denaro, siano ‘male’, con l’inevitabile infelicità che li accompagna. 

[ II,12 ] Epitteto afferma che tutte le cose aproairetiche sono deboli, serve, soggette ad impedimenti, periture e, soprattutto, che non sono né beni né mali, ma materiali indifferenti dai quali la proairesi può trarre il proprio bene o il proprio male a seconda dell’uso che ne fa.
Tra le cose aproairetiche rientra anche la morte, la paura della quale è tutt’uno con il giudizio che essa sia un male. La morte, invece, non soltanto è un’opera della divina natura ma è anche utile ad essa. L’uomo la cui proairesi è atteggiata diaireticamente e che quindi non ha paura della morte sarà anche, per conseguenza, divinamente atteggiato.

[ II,13 ] Per vivere bene, in modo eticamente adeguato, non basta imparare la sostanza del bene e del male, le misure di desideri ed avversioni, di impulsi e repulsioni, di assensi e dissensi e, usando queste come canoni, governare quotidianamente i fatti della vita? Non sono, in un certo senso, da commiserare coloro che giudicano indispensabile conoscere se esiste il bosone di Higgs per vivere bene? 
Nessuna scoperta può dare alla proairesi, al demone che è dentro di noi, la felicità che le viene dal sapere di nutrire retti giudizi e di essere per natura libera, infinita, inasservibile e insubordinabile.
La citazione poetica viene da un frammento di Pindaro (V° secolo a.C.).

[ II,14 ] Siccome né il passato né il futuro ci appartengono e noi viviamo in un eterno presente, non si può essere felici che nella vita che si vive. E si può esserlo anche nel corso di una vita brevissima, così come si può non esserlo anche nel corso di una vita lunghissima.

[ II,15 ] Monimo il cinico era nato a Siracusa e visse nel IV° secolo a.C. Fu allievo di Diogene e seguì molto da vicino anche Cratete, avendone gli stessi propositi. Conquistò tale reputazione che il poeta comico Menandro ne fece menzione in una commedia della quale Marco Aurelio cita qui un frammento. Monimo, si racconta, si sentì superiore alla gloria ed ebbe il gusto di dire e di sentir dire soltanto la verità.

[ II,16 ] Poiché il cosmo è natura onnicomprensiva, nessuna particolare natura in esso compresa può essergli estranea o contraria. Pertanto nulla di ciò che accade nel cosmo può avvenire e dirsi ‘contro natura’. La vita è ‘secondo natura’ tanto quanto lo è la morte, e sono secondo natura tanto la salute quanto la malattia, tanto un ascesso quanto un tumore. 
Questo vale pienamente anche nel caso dell’uomo. Inveire contro gli avvenimenti, cercare di danneggiare un altro, lasciarsi vincere dal piacere o dal dolore, fingere, mentire, agire a casaccio, ma anche uccidere per piacere, torturare per lucro, inquinare l’ambiente, e così via non sono affatto atteggiamenti ‘contro natura’ ma pienamente ‘secondo natura’ ed ai quali il cosmo assiste con sovrana, eterna indifferenza, senza esserne minimamente scalfito. 
Ma esiste, allora, una peculiare natura dell’uomo? E se essa esiste qual è? 
Se l’uomo è, come in effetti è, ‘Homo proaireticus’, la sua peculiare natura sarà da ricercarsi in ciò che lo differenzia da tutti gli altri animali: e questa differenza è la proairesi. Natura della proairesi è quella di essere libera, infinita, inasservibile e insubordinabile, ed essa salvaguarda questa sua peculiare natura soltanto mantenendosi in tale stato. Per mantenersi in tale stato la proairesi deve scegliere di atteggiarsi diaireticamente, ossia deve scegliere di riconoscere pienamente la differenza tra ciò che è in suo esclusivo potere e ciò che non lo è, e dunque rispettare la ‘natura delle cose’.
È in esclusivo potere della proairesi anche atteggiarsi controdiaireticamente, negare la propria natura, aberrare, oltraggiarsi. Oltraggiarsi è ‘contro natura’? Assolutamente no. Oltraggiarsi è ‘secondo natura’. Ma la proairesi che si oltraggia è esattamente la proairesi che fallisce la diairesi tra ciò che è in suo esclusivo potere e ciò che non lo è, che fallisce il rispetto della ‘natura delle cose’, che aberra. E la ‘natura delle cose’ non è stata scritta né dall’uomo né dalla sua proairesi, ma è la legge inviolabile scritta da quella che qui Marco Aurelio chiama ‘ragione e statuto della città e del regime primigenio’, ossia la Prònoia del cosmo, ovvero dalla mente della Materia Immortale, e che può essere letta e interpretata soltanto dall’uomo.

[ II,17 ] Questo frammento finale del secondo libro è con tutta evidenza strutturato in due parti ben distinte, corrispondenti ai due possibili atteggiamenti del demone interiore dell’uomo, ossia della sua proairesi; parti che ruotano intorno ad un asse rappresentato dalla domanda che ne sta al centro.
Nella prima parte la proairesi confessa, con tono accorato e dolente, come essa vede se stessa e il mondo quando è atteggiata controdiaireticamente. In questo stato si potrebbe dire che essa non ha altra certezza che quella di non avere certezze: tutto è instabile, degradato, incomprensibile, vano. In tre parole: male e infelicità.
Ora, siccome ogni proairesi cerca per sua inviolabile natura il proprio bene e non il proprio male, essa è necessitata a porsi la domanda centrale: esiste la scienza della felicità?
La seconda parte del frammento è la risposta a questa domanda. La scienza della felicità non soltanto esiste, ma è addirittura l’unica vera scienza concessa all’uomo. Basta che la proairesi muti i propri giudizi aberranti e pervertiti in retti giudizi e riconosca di essere per natura libera, infinita, inasservibile, insubordinabile, atteggiandosi diaireticamente.
Se nella prima parte la proairesi era schiacciata sull’infelicità in quanto atteggiata secondo natura ma contro la natura delle cose, la felicità della seconda parte consegue al suo atteggiamento secondo natura e secondo la natura delle cose.

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[ III,1 ] Appare esservi una sostanziale differenza tra il ‘vivere’ e l’essere ‘in vita’. Affinché l’uomo ‘viva’, la sua proairesi deve essere pienamente funzionante ed atteggiata diaireticamente. L’uomo è invece semplicemente ‘in vita’ quando la sua proairesi è fisiologicamente spenta, come nel sonno; quando è pienamente funzionante ma è atteggiata controdiaireticamente; e quando un trauma o una qualunque malattia degenerativa alteri radicalmente o impedisca il funzionamento della proairesi in quanto facoltà, pur assistendosi alla permanenza di tutte o molte delle altre facoltà vegetative ed animali. Già per Marco Aurelio, il quale parla qui non in astratto ma di se stesso, il deperimento e la morte della proairesi dell’uomo possono precedere la morte del corpo.

[ III,2 ] La natura si mostra maestra inarrivabile anche in particolari del tutto accessori delle proprie opere. 
Con sovrana imparzialità essa dona a Marco Aurelio una disastrosa inondazione del Tevere che distrugge molte case di Roma, fa annegare un gran numero di animali, causa una severa carestia e il vezzoso sorriso dei fanciulli; gli orrori di una guerra contro i Quadi e i Marcomanni e i colori dell’autunno; i raccapriccianti spettacoli di una epidemia di peste e le screpolature del pane fragrante; la schiuma e il sangue che gorgogliano da gole strozzate e le spighe di grano mature e incurvate fino al suolo. 
Con eguale sovrana indifferenza, la natura dà a ciascuno di noi le risorse necessarie per odiarla, maledirla ed esecrarla oppure giudicare in ogni circostanza dove stiano il bene ed il male.

[ III,3 ] Ti sei imbarcato, hai navigato, sei approdato: è ora di sbarcare. Quello che adesso tocca a Marco Aurelio è toccato e toccherà a tutti gli uomini, sapienti e insipienti, virtuosi e viziosi. Come sappiamo, per lo stoico la morte non è né un bene né un male, in quanto fatto aproairetico che si disegna nel quadro di eventi necessari e naturali da non temere.
Di fronte alla morte non è dunque la proairesi, qui chiamata ‘mente e demone’, del sapiente Marco Aurelio ma piuttosto la proairesi del Marco Aurelio che dorme intruppato fra le turbe degli insipienti quella che può parlare con sufficienza e con disprezzo del corpo umano, ossia della Materia Immortale che esprime la proairesi stessa, come di un sozzo e spregevole recipiente. 
Tutti i personaggi citati nel frammento sono notissimi e non richiedono precisazioni.

[ III,4 ] ‘Un desiderio che non fallisce e un’avversione che non incappa in quanto intende evitare. Un impulso conveniente, che sa accordarsi abilmente con ciò che è doveroso e una repulsione secondo la natura delle cose, libera dall’errore. Un assenso non precipitoso né sconsiderato e un dissenso meditato e fermo’.
Ecco il ritratto dell’uomo virtuoso, di colui che ha imparato ad usare quotidianamente la diairesi.

[ III,5 ] Dentro di me una proairesi raggiante, atteggiata diaireticamente e dunque dotata delle risorse per accettare qualunque sfida.

[ III,6 ] Chi giudica che i delinquenti, i ladri, i politicanti, i ricchi di denaro siano uomini giusti, veritieri, temperanti, virili, ha l’obbligo di fare di tutto per diventare come loro ed essere il primo dei delinquenti, il primo dei ladri, il primo dei politicanti e un Creso.
Chi, invece, giudica che le virtù proprie dell’uomo stiano in una proairesi rettamente operante, capace di disciplinarne gli assensi, i desideri e gli impulsi e che in questo consistano giustizia, verità, temperanza e virilità, fa inevitabilmente altre scelte.
Dove cercare il canone che permette di portare a termine questa indagine con sicurezza e scegliere la strada giusta? Da nessun’altra parte che nella natura delle cose, laddove la ragione umana sa leggere quello che la Prònoia vi ha scritto e riconoscere la differenza fra ciò che è utile all’uomo in quanto semplice animale e ciò che gli è utile in quanto creatura razionale. 

[ III,7 ] La natura concede all’uomo di far assumere alla sua acropoli interiore, la proairesi, uno schieramento controdiairetico ossia contrario alla natura delle cose, oppure diairetico cioè in armonia con la natura delle cose. Le armi della controdiairesi sono slealtà, odio, sospetti, ipocrisia. Quelle della diairesi sono franchezza, libertà, serenità, felicità.

[ III,8 ] Nell’acropoli dei retti giudizi nulla è purulento, sudicio o fradicio. La retta proairesi, che Marco Aurelio designa qui con il semplice termine ‘intelletto’ è ‘natura viva’, e soltanto colui che ha atteggiato la sua proairesi diaireticamente, anche una sola volta nel corso dell’esistenza, può dire di avere conosciuto la vita. 

[ III,9 ] A fare retta la proairesi è la concezione di retti giudizi. Retti sono i giudizi in armonia con la natura delle cose, senza precipitazione nell’assentire, senza avversione per gli uomini, senza repulsione per ciò che è immortale.

[ III,10 ] Se non si getta alle spalle tutti i giudizi errati, la proairesi che rimanda a domani, poi a dopodomani, quindi a postdopodomani l’uso della diairesi non conquista un terreno neutro ma rimane saldamente in terreno controdiairetico. Sappiamo che l’assillo della fama presente e postuma, dell’opinione che gli altri hanno e avranno di noi era fortissimo in Marco Aurelio. Ed esso è caratteristico di una proairesi atteggiata controdiaireticamente, giacché fa dipendere il proprio bene e il proprio male da cose per noi aproairetiche come i giudizi altrui.

[ III,11 ] È noto che gli stoici hanno abbandonato al loro destino numerosi capisaldi della filosofia classica facendo svanire, ad esempio, l’autonomia del concetto e la trascendenza delle idee, la distanza tra l’essenza dei fenomeni e la loro conoscenza sensibile. Per gli stoici, la definizione di un oggetto o di un evento è tutt’uno con la sua descrizione e raggiunge l’essenza di esso, che risiede nel nesso causale tra il singolo evento e la totalità degli eventi cosmici. Per gli stoici, dunque, la corretta descrizione di un oggetto o di un evento di cui abbiamo la rappresentazione non afferra soltanto i suoi aspetti esteriori (dimensioni, modalità, tempi, ecc.) ma coglie insieme l’ordine causale, ossia la trama universale in cui il singolo oggetto o evento è inscritto e nel quale si definisce. 
Essenziale affinché la proairesi dell’uomo operi secondo la natura delle cose è pertanto il suo saper riconoscere dinanzi ad ogni oggetto od evento da quale delle quattro cause basilari esso provenga: dalla divinità o natura, dalla necessità, dalla fortuna, dalla proairesi; così da potersi atteggiare correttamente di fronte ad esso. Qualora, un evento provenga a noi da un’altrui proairesi atteggiata controdiaireticamente e dunque ignorante della natura delle cose -ad esempio un insulto che ci viene rivolto da un’altra persona-, la retta proairesi descrive a se stessa che qualcuno ci sta insultando ma non da il suo assenso alla rappresentazione che qualcuno ci stia facendo del male. Perciò non se ne lascia sconvolgere e non si sposta a sua volta in terreno controdiairetico ribattendo all’insulto con l’insulto, ma si mantiene saldamente in terreno diairetico e tratta ciò che è aproairetico, ossia tanto l’autore dell’insulto quanto l’insulto, secondo il suo valore. 

[ III,12 ] Chi vive bene? Se il falegname diventa falegname imparando certe cose e il pilota diventa pilota imparando certe cose, vivrà bene colui che impara le cose necessarie per vivere bene. Per vivere bene l’uomo deve conoscere la natura delle cose ed essere in armonia con essa. La natura delle cose è la inviolabile, maschia, ‘romana’, come la chiama qui da imperatore Marco Aurelio, verità. Essa è verità con la quale è essenziale che la nostra proairesi sia in armonia eseguendo qualunque attività. E siccome la proairesi è per natura libera, infinita, inasservibile, insubordinabile, nulla e nessuno può impedirle di atteggiarsi come essa dispone: tant’è vero che turbe sterminate di esseri umani rifiutano di riconoscere la natura delle cose e vivono il male.

[ III,13 ] Occorre tenere sempre ben presente che delle quattro cause basilari degli eventi cosmici, tre sono divine ossia non in nostro esclusivo potere: natura, fortuna, necessità; e una è in nostro esclusivo potere: la proairesi.

[ III,14 ] Forse è il caso di abbandonare tutte le vuote speranze e di soccorrere se stessi.

[ III,15 ] Vedere con gli occhi della testa e vedere con gli occhi della proairesi.

[ III,16 ] Il caldo e il freddo, il dolce e l’amaro sono sensazioni percepite da qualunque animale. Gli stimoli a bere, a mangiare, a dormire, ad accoppiarsi sono propri di tutti gli animali. Propria ed esclusiva dell’essere umano è invece quella facoltà autoteoretica, la proairesi, che lo fa capace di comprendere l’uso delle rappresentazioni ed alla quale tutte le altre facoltà sono subordinate. Pertanto il peggior delinquente e l’uomo virtuoso hanno entrambi come signora e duce la loro proairesi. La differenza tra di loro consiste unicamente nel modo in cui la usano. 

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[ IV,1 ] L’insipiente va a fare un bagno e s’infuria e si consuma in frivole altercazioni con coloro che sulla spiaggia spruzzano, spintonano, ingiuriano. Il saggio va a fare un bagno dicendo prima a se stesso: ‘Dispongo di fare un bagno ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose: e tale non la serberò se m’infurio e mi consumo in frivole altercazioni con coloro che spruzzano, spintonano, ingiuriano’. 
Questa è la ‘riserva’ che contraddistingue la diairesi, ed è per questo che la proairesi del saggio, atteggiata secondo diairesi, è puro fuoco interiore capace di trarre dagli avvenimenti luce, felicità e bellezza; laddove la proairesi dell’insipiente, atteggiata secondo controdiairesi, è invece una lucerna destinata a languire ed essere spenta dal trambusto e dal fracasso degli eventi aproairetici che le si accumulano sopra. 

[ IV,2 ] Chi dispone di apprendere l’arte di vivere bene non deve imparare altro che l’uso quotidiano e sistematico della diairesi.

[ IV,3 ] Dove stanno felicità ed infelicità? Le turbe di insipienti microimperatori che vanno sotto il nome di cittadini credono fermamente che l’infelicità stia dentro l’uomo e sia causata da eventi a lui esterni ed aproairetici e che la felicità stia fuori dell’uomo e si trovi nel possesso di cose anch’esse esterne ed aproairetiche da ricercarsi in campagna, ai monti, al mare oppure nel diventare imperatore.
La natura delle cose è invece diversa e vieta inviolabilmente che felicità e infelicità stiano altrove che nella proairesi degli esseri umani. Questo è il motivo per cui il mero fatto di essere imperatore non equivale ad essere felice e per cui anche un imperatore, puramente e semplicemente come tale può, e forse deve, essere insipiente tanto quanto quei suoi concittadini. 
Marco Aurelio non potrebbe fare e non fa eccezione. E però egli ammette di aver sentito dire da Epitteto che, per un imperatore cui manca il coraggio di dire pubblicamente come stanno le cose, l’unico modo per trovare qualche momento di felicità è quello di avere retti giudizi sull’impero e quindi di ritirarsi il più spesso possibile da uomo libero, da cittadino del mondo, nel campicello della propria proairesi; dove potrà riscoprire continuamente che a fare infelice l’uomo non sono né l’insipienza di quei microimperatori, né gli accidenti assegnatigli dalla fortuna, né le passioni del corpo né la scarsità delle lodi altrui bensì il giudizio che queste cose esterne ed aproairetiche possano essere bene o male. 
Soltanto chi ha imparato ad atteggiare la propria proairesi in modo diairetico, ossia secondo quei retti giudizi che soli definiscono e rispettano la natura delle cose, trova le brevi e semplici massime indispensabili per vivere bene in questo mondo di microimperatori e di imperatori, anche se dovesse passare gli anni abbandonato e occulto tra uno stuolo di malevoli.

[ IV,4 ] Se, come l’uomo continuamente sperimenta, nulla viene dal nulla e neppure ritorna nel nulla, allora ciò che esiste ha perenne sussistenza e dunque il cosmo è Materia Immortale le cui trasformazioni non comportano né creazione né annullamento. Il movimento incausato, eterno, inarrestabile, generativo di queste continue trasformazioni è appunto quella dimensione della Materia Immortale che può essere correttamente chiamata logos o mente o Prònoia o egemonico o proairesi del cosmo e della quale la proairesi ragionante dell’uomo è come un’immagine, avendone la medesima natura.
Una volta assodata la mente come una delle facoltà della Materia, che poi la cosmologia di Marco Aurelio si fondi sull’esistenza di soli quattro elementi: terra, aria, acqua e fuoco; invece che di circa un centinaio di specie atomiche presenti nell’universo in percentuali quantitativamente variabili, fa assai poca differenza. 

[ IV,5 ] La nascita e la morte di qualunque cosa sono eventi opposti ma non contraddittori, e rappresentano l’eterna aggregazione e dissoluzione dei medesimi elementi e della medesima energia senza la scomparsa di neppure un solo quanto di essi.

[ IV,6 ] Il cosmo è tale per cui ogni cosa che in esso vi nasce è necessariamente destinata a morire, e da ogni cosa che vi muore un’altra è necessariamente destinata a nascerne.

[ IV,7 ] Il danno è, per l’uomo, il giudizio di essere stato danneggiato.

[ IV,8 ] Ciò che è aproairetico può uccidere la proairesi umana ma non farle danno, e dunque nulla di aproairetico ha il potere di rendere un individuo peggiore o migliore.

[ IV,9 ] La proairesi sceglie sempre ed inviolabilmente ciò che ad essa appare essere il proprio utile.

[ IV,10 ] Il solo retto giudizio che la proairesi umana può e deve pronunciare dinanzi a qualunque evento aproairetico in quanto tale è che esso è indifferente, che esso non è né bene né male. Pertanto, ad esempio, l’eruzione del Vesuvio che seppellì Pompei circa un secolo prima che Marco Aurelio scrivesse questo frammento può certamente essere concepita come ‘conseguenza’ di leggi naturali, ma certamente né a queste né all’eruzione del Vesuvio si attaglia l’attribuzione di essere ‘giusta’ o ingiusta, secondo ‘giustizia’ o in contrasto con la giustizia. 
Laddove invece tutto ciò che accade come ‘conseguenza’ accade anche secondo ‘giustizia’ e mai secondo ingiustizia, è nell’ambito degli eventi proairetici. Qui, nella proairesi dell’essere umano e soltanto in essa, tutto ciò che accade accade giustamente, in quanto premio e punizione, virtù e vizio, felicità e infelicità sono tutt’uno con l’atteggiamento, diairetico o controdiairetico, che essa assume. Pertanto la proairesi che rifiuta di riconoscersi per natura delle cose libera, infinita, inasservibile, insubordinabile e si atteggia in modo controdiairetico ha con ciò stesso già snaturato e punito se stessa. 

[ IV,11 ] Che differenza c’è tra chi oltraggia e chi è oltraggiato se le loro proairesi sono entrambe mosse dalla controdiairesi?

[ IV,12 ] Giulio Capitolino racconta nella ‘Storia Augusta’ che nel 138 d.C., quando l’allora diciassettenne Marco Aurelio seppe di essere stato adottato da Adriano fu atterrito e non allietato dalla notizia; e che quando gli fu intimato di recarsi ad abitare nella casa privata di Adriano lasciò la casa materna con estrema riluttanza. Ed a chi gli chiedeva perché egli fosse triste per l’adozione imperiale, Marco Aurelio enumerò le disgrazie e i mali che può contenere in sé il potere imperiale. È dunque certo, grazie anche altre evidenze, che Marco Aurelio non ambì all’impero ma che fu scelto dalla sorte per quella carica. 
Ora, chi giudica che diventare imperatore sia un bene in quanto intrinsecamente produttivo di felicità propria e altrui, come giudicano le turbe di microimperatori insipienti che non sanno di cosa parlano e vanno sotto il nome di cittadini, smanierà e bramerà, benché invano, una simile carica e toccherebbe il cielo con un dito se gli toccasse di ricoprirla. 
Chi giudica che diventare imperatore sia un male, in quanto intrinsecamente ostativo alla felicità propria e altrui, farà di tutto per evitare tale carica per sé e soprattutto, senza avere coscienza della terribile contraddizione in cui si dibatte, riterrà giusto che la aborrano gli altri e tenderà ad istituirsi come minoranza fanaticamente regicida fino all’esilio o alla morte. 
Chi giudica invece che l’impero, come qualunque altra cosa esterna e aproairetica, non sia di per sè né un bene né un male, accetterà eventualmente la decisione della sorte e dimostrerà, se ne è capace, come si conduce in simili circostanze un uomo educato ad usare la diairesi e capace di vivere da libero in questo mondo. 
Questo è il rischio che Marco Aurelio, a diciassette anni e con il batticuore, ha accettato di correre. Pur non essendo dotato, come egli stesso ammette, di un intelletto particolarmente brillante, vivendo a corte egli deve avere nel corso del tempo capito che la sorte lo aveva immerso in una fogna maleodorante, mefitica e che gli aveva affidato un lavoro più sporco di quello del pulitore dei più sudici cessi. Sul fatto che egli sia riuscito o meno a rendere decorosamente pulite le chiaviche che la sorte gli aveva affidato in custodia ognuno ha il diritto di avere la propria opinione. In ogni caso Marco Aurelio non ha rifiutato il lavoro, e le testimonianze storiche sono prevalentemente concordi nel valutare positivamente il suo operato, dandogli atto che egli, con le capacità che aveva, nelle condizioni e nei tempi che gli erano concessi, primo e forse unico nella storia si è sforzato di interpretare il proprio ruolo di augusto custode del merdaio, come quello di colui che può giovare agli uomini principalmente creando loro il minor numero di difficoltà e di complicazioni possibili in vista di un retto uso della proairesi e che è pronto ad accogliere qualunque suggerimento si dimostri il migliore a questo scopo.

[ IV,13 ] Per essere liberi, ossia felici, è sufficiente avere una retta proairesi.

[ IV,14 ] Tu sei un refolo di vento nell’aria di primavera. C’è qualcosa di strano in questo?

[ IV,15 ] Tu sei una fiammella nel caminetto. C’è qualcosa di strano in questo?

[ IV,16 ] Tu sarai venerato come un dio dagli insipienti se userai, come loro e più di loro, la controdiairesi. C’è qualcosa di strano in questo?

[ IV,17 ] La virtù, come il vizio, è soltanto nel presente.

[ IV,18 ] Il virtuoso è apportatore di luce, di vitalità, di semplicità, di chiarezza, di calore.

[ IV,19 ] La fama presso i posteri è qualcosa di proairetico o di aproairetico? È essa in mio esclusivo potere o non è in mio esclusivo potere? A queste domande chiunque risponderebbe correttamente che la fama presso i posteri è qualcosa di aproairetico, qualcosa che non è in mio esclusivo potere. È dunque da sapienti o da insipienti trascurare lo stato della propria proairesi per preoccuparsi della propria fama presso i posteri?

[ IV,20 ] Questa preziosa testimonianza di Marco Aurelio certifica che ormai da migliaia di anni è invalso comunemente in Occidente l’uso di chiamare ‘belli’ oggetti esterni ed aproairetici, invece di riservare l’aggettivo ‘bello’, com’è corretto fare, esclusivamente alla virtù e alle sue opere, ossia alla proairesi atteggiata diaireticamente. Questo accade perché e quando è spezzato nelle turbe degli esseri umani il collegamento tra virtù ed atti di giudizio. Essi credono che l’infelicità sia causata dagli oggetti esterni e rechi l’impronta della loro inevitabilità, giacché hanno perso il senso della verità seguente: non la morte mi fa infelice, bensì l’errato giudizio che la morte sia un male. 
L’uso di massa scorretto e improprio dell’aggettivo ‘bello’ segnala inoltre drammaticamente la devastante contraddizione nella quale si dibatte la proairesi umana atteggiata controdiaireticamente, giacché essa tradisce in questo modo la sua perdita di contatto con la natura delle cose, la quale stabilisce invariabilmente ed inviolabilmente per chiunque che il giudizio di lode o di biasimo di un evento o di un oggetto qualunque non può mai diventare una sua qualità. 

[ IV,21 ] Marco Aurelio mostra spesso, nelle sue riflessioni, un’acuta attenzione alle questioni cosmologiche e di tipo fisico-naturalistico, indubbiamente derivata anche dal suo interesse per la filosofia peripatetica e dagli studi condotti sotto la guida di Claudio Severo Arabiano. Per esempio, egli si chiede qui cosa accadrebbe se gli animi di tutte le creature viventi sopravvivessero dopo la morte. Potrebbe l’elemento aria esserne ad un certo punto saturato e non avere più spazio per il loro numero continuamente crescente? Senza bisogno di discostarsi dalla cosmologia del suo tempo, gli basta l’osservazione empirica del destino degli alimenti e dei cadaveri a convincerlo delle possibili reciproche trasformazioni dei quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco; e a permettergli di dare in questo modo risposta alla domanda.
Notevole è l’uso che Marco Aurelio fa qui per la prima volta del sostantivo ‘diairesi’, sostantivo che egli impiega soltanto tre volte in tutta l’opera. Esso significa, in questo caso, ‘distinzione’ concettuale, proairetica, tra la componente materiale, ossia i quattro elementi suddetti, e la componente causale, ossia il logos, i quali sappiamo però essere entità inseparabili in quanto aventi tra di esse lo stesso rapporto che esiste tra i due poli di un magnete.

[ IV,22 ] Per meritare l’assenso di una retta proairesi una rappresentazione deve essere catalettica, essere cioè dotata di perfetta evidenza e certezza. Se vediamo qualcuno fare un bagno frettolosamente dobbiamo assentire alla rappresentazione che qualcuno fa un bagno frettolosamente, non alla rappresentazione che qualcuno fa male il bagno. Se vediamo qualcuno bere molto vino dobbiamo assentire alla rappresentazione che qualcuno beve molto vino, non alla rappresentazione che qualcuno beve male. Prima di averne vagliato i giudizi, infatti, come possiamo sapere se sta facendo bene o male? In questo modo non ci avverrà di avere rappresentazioni catalettiche di certe cose e di assentire ad altre. Non ‘divagare’ significa appunto, in questo frammento, non perdere il contatto con la natura delle cose; il che si sostanza, nell’ambito degli impulsi e delle repulsioni, con l’esplicare ciò che Epitteto chiama in modo filosoficamente rigoroso il ‘doveroso’ e che Marco Aurelio indica qui come il ‘giusto’ e, nell’ambito degli assensi e dei dissensi, il ‘catalettico’. 

[ IV,23 ] Diceva Epitteto: “Che altro posso io, vecchio zoppo, se non inneggiare a Zeus? Se fossi un usignolo farei quel che fa un usignolo; se fossi un cigno, quel che fa un cigno. Ora, sono una creatura logica: bisogna che inneggi alla Materia Immortale. Questa è l’opera mia“. 
Il frammento poetico citato è di Aristofane e la città di Cecrope è Atene.

[ IV,24 ] La proairesi atteggiata controdiaireticamente vede il proprio bene e il proprio male fuori di sé, nelle cose esterne ed aproairetiche, e questo la costringe ad una prodigiosa moltiplicazione dell’inutile e del superfluo. Il che fa tutt’uno con la nostra incapacità di usare la diairesi e di distinguere quel poco che ci è davvero utile e necessario per vivere bene. 
Il detto proverbiale che apre il frammento è attribuito a Democrito. 

[ IV,25 ] Dopo avere fatto tanta esperienza della tragica catena di controdiairesi, vizio e infelicità, prova una buona volta ad usare la diairesi; prova a seguire le orme di un uomo virtuoso e felice!

[ IV,26 ] Gli esseri umani usano la proairesi ogni giorno e ogni ora del giorno, sia nel bene che nel male. Dunque dipende esclusivamente da me sconcertarmi o non sconcertarmi di fronte ad un avvenimento, comprenderne o fraintenderne l’origine e il significato, essere giusto o ingiusto con qualcuno.

[ IV,27 ] Un ordine immutabile, razionale, perfetto e necessario che governa e sorregge infallibilmente tutte le cose e le fa essere e conservarsi quelle che sono. Questa è, secondo Marco Aurelio, la rappresentazione del cosmo cui conducono il rigoroso materialismo e il rigoroso monismo degli Stoici. Egli la condivide e guarda al cosmo come ad un’unità organizzata e indivisibile dotata di un logos o Prònoia o egemonico del quale la proairesi o egemonico dell’uomo è come un’immagine, un riflesso del quale il virtuoso ha esperienza empirica quando, usando la diairesi, si sente ordinato e bello dentro.
Nel contempo, Marco Aurelio mostra di intendere l’ipotesi atomistica di Democrito e di Epicuro, che pure poggia anch’essa su basi rigorosamente materialistiche, come radicalmente alternativa a quella stoica, come un’ipotesi negatrice del cosmo e che prospetta l’esistente come un guazzabuglio intrinsecamente disordinato, casuale e privo di unità.

[ IV,28 ] Non c’è uno solo, fra di voi che leggete, che non sappia di chi si parla: dunque è inutile fare nomi.

[ IV,29 ] Un individuo risiede da tanto tempo in una città me ne ignora le leggi e le abitudini. Non sa di cosa qui si ha potestà e di cosa non si ha potestà. Usa desiderio ed avversione, impulso e repulsione, assenso e dissenso a casaccio, come capita e senza tener conto della natura delle cose. Vuole quanto non è dato avere e non vuole quanto è necessario. Crede di potere impunemente trasgredire il confine che separa quanto è suo peculiare e quanto è allotrio. Chi, dunque, è straniero nel cosmo?

[ IV,30 ] Il frammento evidenzia in modo esplicito e drammatico la terribile differenza che intercorre tra il vivere filosoficamente e il chiacchierare di tesi filosofiche dall’alto di una cattedra o di un trono.
Epitteto soleva ripetere che vergognoso non è non avere una tunica, un libro, di che mangiare, bensì avere una ragione incapace di liberarci dall’afflizione e dalla paura di non avere una tunica, un libro, di che mangiare. 
Io invece, pare confessare Marco Aurelio, ho tuniche, libri, pane eppure sento serrarmi il cuore, sento di non riuscire a consolarmi del tutto del mio destino quando ripenso al giorno in cui fui chiamato a scegliere tra l’accettare o il rifiutare l’adozione imperiale e la mia proairesi scelse, avevo diciassette anni e forse fu per paura e per viltà, di accettare.

[ IV,31 ] Se la mia proairesi scelse allora come scelse, parrebbe continuare Marco Aurelio, essa ha però imparato poi a coltivare l’albero della diairesi, albero dai cui rami pende anche un frutto che contiene la piccola arte di governare quanto si può e come si deve. A questa coltura essa rimarrà ormai fedele a qualunque prezzo, anche se nessuno capisce di cosa io stia parlando ed anche se nessuno mi crede.

[ IV,32 ] Tutto, infatti, è nella sua essenza sempre uguale dappertutto e noi siamo venuti al mondo non per cambiarlo ma per farvi vivere l’albero della diairesi, che cresce egualmente bene in qualunque uomo, ed esservi felici.

[ IV,33 ] Se la fama presso i posteri è puro vuoto, ecco a cosa dobbiamo rivolgere la nostra industria nell’ambito degli assensi, degli impulsi e dei desideri.

[ IV,34 ] L’offerta di sé a Cloto, la filatrice dello stame della vita umana.

[ IV,35 ] Come qualunque altra creatura, anche noi siamo esseri inevitabilmente precari.

[ IV,36 ] Tutto è in continua trasformazione.

[ IV,37 ] Tra poco sarai morto e devi riconoscere di non essere ancora al riparo da tante aberrazioni.

[ IV,38 ] Mostrami i giudizi della tua proairesi e ti dirò chi sei.

[ IV,39 ] Nulla di ciò che avviene nel cosmo può essere contro natura. Soltanto la proairesi dell’uomo può atteggiarsi non contro natura bensì contro la natura delle cose, generando così il proprio male; oppure secondo la natura delle cose, generando così il proprio bene.

[ IV,40 ] Il cosmo è un’unità, una sola creatura vivente.

[ IV,41 ] Chi può dire del corpo umano vivente, il quale è una macchina naturale meravigliosa, straordinariamente sofisticata e complessa, che è null’altro che ‘cadavere’? 
Chi può dire della proairesi che il corpo umano è capace di esprimere, la quale è per natura libera, infinita, inasservibile, insubordinabile, che è ‘animuzza’ da nulla? 
Pare di sentire queste parole uscire dalla bocca dei generali francesi i quali, vedendosi sconfitti militarmente dalle armate tedesche nel giugno del 1940, per spingere il governo del loro paese alla capitolazione e staccarlo dalla decisione britannica di continuare la resistenza contro la Germania nazista fino alla fine e a qualunque costo, assicuravano il loro Primo Ministro che nel giro di tre settimane Hitler avrebbe tirato il collo all’Inghilterra come ad un pollo. Assicurazione che il capo del Governo inglese Winston Churchill, parlando al Parlamento Canadese un anno e mezzo dopo, il 30 Dicembre 1941, poteva commentare con queste due semplici battute riferite al proprio paese: “Che pollo! che collo!” ; come se qui Epitteto dicesse: “Che animuzza! che cadavere!”
Queste sono dunque parole che si possono intendere messe da Epitteto in bocca agli insipienti, ma non sarà mai esclusa la possibilità di intenderle compuntamente come una penetrante meditazione nella quale, con immagine icastica, si raffigura il vivere come una fragile animuncola che trasporta un cadavere. Quel cadavere che sarebbe, ovviamente, l’uomo.

[ IV,42 ] Nulla di aproairetico è male o è bene.

[ IV,43 ] Lo spettacolo che abbiamo davanti è quello di un incessante e tumultuoso scorrere di eventi, nel quale la nostra proairesi può scoprire il modo di trovarsi perfettamente a proprio agio.

[ IV,44 ] Come le rose a primavera e la frutta d’estate, gli insipienti si allieteranno o si affliggeranno sempre di ciò che è esterno ed aproairetico: del pane e della morte, dei porci e della maldicenza.

[ IV,45 ] Il tema di questo frammento è certamente la generale connessione logica esistente tra premesse e conseguenze, tra antecedenti e conseguenti, ma l’indeterminatezza in cui è lasciato il soggetto ne rende ardua una comprensione univoca, lasciandolo aperto a varie interpretazioni possibili. La più semplice potrebbe essere rappresentata dall’interpretarlo come diretta continuazione del pensiero precedente e dunque come una presa d’atto del fatto, secondo Marco Aurelio inspiegabile nei termini dell’ipotesi puramente atomistica e meccanicistica di Democrito e di Epicuro, che una rosa genera sempre delle rose, un melo delle mele, e gli stupidi generano sempre infelicità. 
L’osservazione e la relativa domanda paiono ovvie e banali, ma così non è; giacché se è vero che già Marco Aurelio era in grado di rispondere scientificamente alla domanda sul perché gli stupidi sono sempre generatori di infelicità, sarebbero dovuti passare migliaia di anni prima che si riuscisse a rispondere con altrettanto rigore alla domanda sul come una rosa generi sempre delle rose e un melo dei meli.

[ IV,46 ] I vari detti di Eraclito qui ricordati da Marco Aurelio si prestano bene a condensare due tesi fondamentali degli Stoici. Il primo detto richiama l’unitarietà e la continua trasformazione del cosmo. Il filo conduttore che lega i restanti cinque è rappresentato dal corretto uso che la proairesi deve fare della ragione e richiama la tesi stoica per cui la proairesi grazie alla quale siamo felici è la stessa grazie alla quale siamo infelici.

[ IV,47 ] Le folle che fanno da sfondo in questo frammento sono quelle di coloro che non hanno mai sperimentato in vita loro cosa sia un giudizio virtuoso né cosa siano libertà e felicità, e che proiettano costantemente nel futuro l’accadere di tali ‘miracoli’ oppure li rimandano infingardamente ad un’altra vita che essi fantasticano di vivere dopo la morte. Virtù e vizio, felicità e infelicità, libertà e schiavitù sono invece nel presente, non sono questioni di tempo ma di atteggiamento della nostra proairesi.

[ IV,48 ] Molti credono che la vita umana non abbia un frutto e sia un’inutile miseria. La vita dell’uomo, invece, ha un frutto, non è un’inutile miseria. Inutile miseria è l’ignoranza che ci spinge al vizio e l’infelicità che ci fa credere di essere nulla o di essere immortali. Il frutto della vita dell’uomo è la sua libertà, la sua felicità, la sua virtù. 
Se un’oliva diventata matura potesse parlare, cadrebbe elogiando la natura che l’ha apportata e rendendo grazie all’albero che l’ha generata. All’ombra dell’albero della diairesi, anche la vita dell’uomo è un tempo irripetibile e fruttuoso che merita di essere attraversato mantenendo la nostra proairesi in armonia con la natura delle cose.

[ IV,49 ] Esclusi soltanto il primo e l’ultimo paragrafo, per convincenti ragioni principalmente lessicografiche questo frammento è da molti studiosi ritenuto una citazione autentica e diretta di parole di Epitteto, tratta da qualche opera che non ci è pervenuta. E non vi si può non ammirare lo straordinario vigore e l’incisività mozzafiato con la quale vi si rappresentano la natura delle cose e dell’uomo, e si evidenzia la proairesi nei suoi due atteggiamenti possibili di fronte a ciò che è esterno e aproairetico. 
Di Marco Aurelio sono invece la potente immagine della retta proairesi come roccioso e saldo promontorio contro il quale i flutti del mare infine si calmano e l’ammonimento finale a non credere sfortuna ciò che invece è una fortuna saper sopportare nobilmente.

[ IV,50 ] Un aiuto semplice ed efficace per non avere paura della morte è quello di comprendere fino in fondo che, tra fatiche e difficoltà di ogni genere, il fine della vita umana è quello di conoscere la natura delle cose e quindi vivere in modo ammissibile con essa, virtuosamente e felicemente. Quando questo fine sia raggiunto, non vi è differenza tra chi lascia la vita essendovi pervenuto dopo un dato numero di anni e chi lascia la vita essendovi pervenuto dopo il triplo di anni. E neppure vi è differenza tra chi muore dopo un dato numero di anni senza avere mai raggiunto quel fine e chi muore, senza averlo mai raggiunto, dopo un numero triplo di anni. Anni che sono comunque ben poca cosa rispetto all’eternità.
Cecidiano, Fabio, Giuliano e Lepido sono nomi qualunque di persone verosimilmente longeve. Nestore è il personaggio omerico, re di Pilo, cui il mito attribuisce una vita lunghissima.

[ IV,51 ] Un pressante invito di Marco Aurelio ad usare la diairesi e gli ovvi vantaggi che quest’uso comporta.

*****

[ V,1 ] Il silenzioso colloquio con se stesso di un essere umano nel quale si fronteggiano due principi in contrasto: uno, che lo spinge a badare unicamente al proprio ‘piacere’; e un altro, che si appella alla ‘realtà’ e cerca giudiziosamente di convincerlo ad assolvere il compito per il quale è al mondo. Alla fine, le ragioni della realtà prevalgono su quelle del piacere ed inizia così una nuova giornata di ordinario lavoro. Questa interpretazione, comunemente proposta per la comprensione del frammento, è la sola possibile? Le cose stanno davvero così? 
Chi è intimamente convinto dell’utilità e della bontà del lavoro che gli tocca fare, come una madre la quale non si lamenta mai di dover vegliare o di doversi svegliare a qualunque ora della notte per allattare al seno il suo bimbo appena nato, vivrebbe l’intimo contrasto che qui ci è testimoniato? La risposta certa ed univoca è: no! La natura delle cose, infatti, vieta inviolabilmente di ritenere una cosa giusta e di farne un’altra, di vedere un bene e di non desiderarlo, di vedere un male e di non fuggirlo. 
Se dunque Marco Aurelio è drammaticamente riluttante ad iniziare la sua giornata di ordinario lavoro è perché in realtà giudica che si tratti di un’ennesima giornata di ordinaria follia, la cui unica giustificazione risiederebbe nel fare, da imperatore, ‘azioni socievoli’ e volte al ‘bene comune’. 
Qual è, invece, la menzogna del ‘bene comune’? Qual è la menzogna insita necessariamente nel ‘potere’ e nelle ‘istituzioni’, che Marco Aurelio incarna e qui ci testimonia? 
La menzogna del ‘potere’ e delle ‘istituzioni’ è né più né meno la menzogna della controdiairesi, laddove essa proclama in suo esclusivo potere ciò che invece, per inviolabile natura delle cose, non è in suo esclusivo potere; e dunque laddove il potere e l’istituzione propongono se stessi come portatori di bene comune, di libertà e di felicità per il genere umano. La proairesi di Marco Aurelio, quando e in quanto stoicamente orientata, non può che ribellarsi continuamente all’uso della controdiairesi alla quale si costringe accettando di sedere sul trono di un grande impero, e pertanto vive la maggior parte del suo tempo in drammatica contraddizione con se stessa. 

[ V,2 ] La proairesi è per natura capace, ed è fatta per avere il dominio delle rappresentazioni, non per esserne dominata.

[ V,3 ] Conoscere la natura delle cose significa saperne riconoscere la essenziale bipartizione e la sua inviolabilità, dunque praticare la diairesi, giudicandoci degni di dire e fare tutto ciò che è in accordo con essa. E quando tu, vagliato che una cosa è da fare, la faccia; non fuggire mai dall’essere visto effettuarla anche se il gregge che hai intorno concepirà qualcosa di diverso al riguardo. Giacché se non operi rettamente, fuggi l’opera stessa. Se operi rettamente, perché hai paura di coloro che censureranno non rettamente?

[ V,4 ] È noto che nella cosmologia stoica il fuoco è il principio generativo, origine e fine degli altri tre elementi (aria, acqua, terra) che da esso si generano e che in esso sono destinati a riconfluire nella conflagrazione finale che segna la fine di un ciclo cosmico e l’inizio di uno nuovo.
Ed è altrettanto noto che il principale rito funebre del tempo era la cremazione. Grazie ad essa Marco Aurelio, con intensa commozione, descrive qui i primi passi del suo ritorno al fuoco primordiale. 

[ V,5 ] Un uomo corre più velocemente di un altro. Diremo che il primo è un uomo e che il secondo non lo è? L’uomo è definito dalla capacità della sua proairesi di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente e non dalla velocità della sua corsa o dalla brillantezza del suo intelletto; velocità o brillantezza che, come il colore degli occhi o l’altezza, non sono proairetiche ma legate a fattori esterni ed aproairetici.
Chi prende atto del suo scarso acume, se davvero è così, come prenderebbe atto di correre meno velocemente di un altro e non si affligge quando riconosce che altri sono più veloci di lui o hanno un intelletto più brillante del suo, mostra di usare la diairesi, di saper mantenere la propria proairesi libera, infinita, inasservibile, insubordinabile e dunque felice.
Chi invece si affligge del suo scarso acume, come Marco Aurelio qui confessa apertamente di se stesso, lo fa perché vuole che sia in suo esclusivo potere una brillantezza di intelletto che non è in suo esclusivo potere avere. Egli tradisce così, da imperatore e non da stoico, la sua quotidiana pratica della controdiairesi, che rende la sua proairesi serva, preda di giudizi scorretti, che lo fa vivere in contraddizione con se stesso. Ulteriore esempio di come, se non ci si corregge, si possa sedere su un trono imperiale, fraintendere il proprio ruolo ed essere schiavi e infelici.

[ V,6 ] Quando si identifica con lo stoico che è in lui, Marco Aurelio dice: “Se è vero che bene e male sono entità proairetiche, giudizi della proairesi, allora virtù e vizio, premio e punizione sono insiti nelle nostre deliberazioni e nelle conseguenti azioni che compiamo, e non vanno attesi come contraccambio dall’esterno”. Ma subito l’imperatore che è in lui risponde: “Voglio che le deliberazioni che quotidianamente prendo siano riconosciute come beni, e il mio virtuoso operato al servizio della comunità sia lodato”. Come se non bastasse, Giulio Capitolino riferisce che Marco Aurelio era sempre preoccupatissimo della propria reputazione e che chiedeva continuamente ai suoi collaboratori cosa si dicesse in giro di lui, giustificandosi col desiderio di emendare i propri difetti laddove riconoscesse fondate alcune critiche. 

[ V,7 ] Come si deve auspicare? 
È impossibile dire da dove Marco Aurelio abbia preso il testo qui riferito.

[ V,8 ] Tutto ciò che non è in nostro esclusivo potere, ossia tutto ciò che è aproairetico, va riconosciuto e trattato come tale grazie all’uso sistematico della diairesi. 
La malattia, la perdita di un figlio, la morte sono entità aproairetiche. E come vanno trattate? Come le lettere dell’alfabeto di una lingua che non siamo stati noi ad inventare ma che impariamo stando al mondo. Scriviamo forse la parola “Dione” a casaccio, secondo l’impulso del momento? No, ma impariamo a disporre le lettere affinché sia scritta come si deve. Cosa facciamo con le note musicali? Allo stesso modo. Cosa facciamo, in generale, laddove è in gioco un’arte od una scienza? Altrimenti, di nessun valore sarebbe l’avere scienza di qualcosa, se ciò si acconciasse alle decisioni di ciascuno. Qui dunque, soltanto su quanto è massimo e sommamente dominante, sulla libertà e sulla felicità, ci è stato accordato di volere come capita? Nient’affatto! Ma educarsi a diairesizzare è appunto questo imparare a disporre ciascuna cosa così come accade. E come accade? Come da sempre la costituisce quell’insieme di tutte le cause che si può chiamare natura o necessità o destino o Zeus. Ed esso costituì che vi fossero estate ed inverno, profusione e penuria, virtù e vizio, diairesi e controdiairesi, e tutte le opposizioni siffatte per l’armonia dell’intero e che ognuno di noi, imparandone la lingua, potesse scrivere correttamente, se così dispone, la parola “Felicità”.
Asclepio è il dio greco della medicina, figlio di Apollo e di Coronide, che il mito vuole sia stato ucciso da Zeus con un fulmine perché aveva resuscitato dalla morte alcuni uomini.

[ V,9 ] La filosofia stoica è la sola filosofia esistente la cui essenza non sia normativa. Come una buona madre, essa non ci insegna a riconoscere altro che ciò che ineluttabilmente dispone la nostra natura di uomini, ed educa alla diairesi quella sola facoltà che in noi è comprensione e scienza di noi stessi e delle cose che accadono, ossia la proairesi.

[ V,10 ] Di fronte all’enigmaticità della realtà, alla pochezza e caducità di tutti gli oggetti materiali, ai violenti contrasti e alle guerre mortali che gli uomini conducono gli uni contro gli altri, alla volubilità delle loro idee e al sudiciume dei loro costumi, la maggioranza dei filosofi ha decretato la incomprensibilità del tutto e le ideologie hanno fatto bancarotta. 
Gli unici a non spaventarsi di questa situazione e ad avere trovato la chiave per capire la realtà e portare la libertà in questo mondo sono stati, e sono ancora oggi, gli stoici i quali si sono chiesti se, in tale flusso e in tali tenebre, tutto ciò che esiste sia in nostro esclusivo potere, oppure nulla di ciò che esiste sia in nostro esclusivo potere, oppure se di ciò che esiste alcune cose siano in nostro esclusivo potere ed altre non lo siano. Essi hanno così potuto dimostrare definitivamente che delle cose che sono, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere sono, ad esempio, giudizi, valutazioni, progetti, desideri, impulsi ed hanno chiamato queste entità ‘proairetiche’. Non sono invece in nostro esclusivo potere cose come il corpo, il denaro, la reputazione, il lavoro, che vanno definite entità ‘aproairetiche’. Ed hanno altrettanto definitivamente dimostrato che questa è sempre stata, è, e sempre sarà la ‘natura delle cose’, la quale è universalmente valida, invariante e inviolabile.
Se la diairesi è il giudizio che ci fa capaci di distinguere in qualunque circostanza quanto è in nostro esclusivo potere e quanto invece non lo è, allora l’uomo conosce il segreto per trovare il giusto comportamento in ogni situazione, giacché non ci potrà avvenire nulla che non sia in armonia con la natura, ed è in esclusivo potere della nostra proairesi fare sì che noi non facciamo nulla che sia in contrasto con la natura delle cose.

[ V,11 ] È la proairesi o egemonico la parte costitutiva capace di comandare all’animo. E, a seconda dei giudizi retti o scorretti presenti nella proairesi, del suo atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente, l’animo dell’uomo sarà libero dalle passioni o preda delle passioni, sarà quello di un sapiente o quello di un insipiente.

[ V,12 ] Anche quella contenuta in questo frammento è una preziosa testimonianza del fatto che da migliaia di anni si chiamano comunemente ‘beni’ gli oggetti esterni ed aproairetici, invece di riservare il temine, com’è corretto fare, esclusivamente alla virtù e alle sue opere, ossia alla proairesi atteggiata diaireticamente. 
La constatazione che per le turbe umane ‘beni’ e ‘mali’ sono oggetti esterni e aproairetici non sposta di una virgola la verità che felicità e infelicità non sono qualità di ciò che è aproairetico e che ‘beni’ e ‘mali’ sono per invariante, eterna, inviolabile natura delle cose entità proairetiche. Questo null’altro segnala che la assenza di contatto delle turbe, se mai contatto vi fu, dalla natura delle cose, la quale comunque rimane quella che fu, è, e sarà sempre, senza che spetti ad essa di darsi la minima cura di dove gli uomini cacano o non cacano.
Il frammento poetico citato è tratto da una commedia di Menandro.

[ V,13 ] La componente causale è la proairesi o egemonico, la componente materiale è rappresentata dagli elementi naturali (aria o pneuma, acqua, terra e fuoco) che compongono l’uomo. 
Bisogna stare in guardia dal compiere l’errore di intendere la componente causale, la proairesi, come ‘res cogitans’ e la componente materiale come ‘res extensa’, secondo un dualismo che ha avuto ed ha ancora grande successo di massa, ma che è del tutto infondato, come dimostra a iosa la moderna neurobiologia molecolare, e completamente alieno allo stoicismo antico ed a Marco Aurelio. Componente causale e componente materiale sono come il magnete con i suoi due poli, sono entrambe ‘corpo’, Materia Immortale dalle cui trasformazioni eternamente nasce, muore e rinasce tutto l’esistente.

[ V,14 ] Siccome quanto articola le altre conoscenze è la logica ed essa non può né essere né rimanere disarticolata, da che cosa sarà articolata? E’ manifesto che lo sarà o da se stessa o da qualcos’altro. Questo o è una seconda logica o qualcos’altro migliore della logica, il che però è impossibile. Se, pertanto, è una seconda logica chi, di nuovo, articolerà questa? Giacché se questa si autoarticola, anche la prima lo può. Se, infatti, ci fosse bisogno di una seconda logica, ci sarebbe poi bisogno di una terza a poi di una quarta logica, e il processo diventerebbe infinito. La ragione, pertanto, è la sola facoltà umana autoteoretica in quanto la logica, muovendosi con metodi e principi che le consentono di distinguere formalmente i ragionamenti corretti da quelli scorretti, è autonoma dalla materia alla quale è applicata.

[ V,15 ] Le turbe considerano che la ricchezza di denaro, i colpi di fortuna che portano lusso e fama oppure, al contrario, la povertà di denaro e la malattia, siano un bene o un male. Se fosse vero che gli oggetti esterni ed aproairetici sono bene o male, tutti gli uomini dovrebbero concordare nel ritenere bene e male le stesse cose, così come concordano nel ritenere luminoso il sole e che i cani abbaiano. Essendo invece gli uomini in continuo e feroce contrasto tra di loro riguardo a ciò che considerano bene o male, è impossibile sostenere che bene e male siano qualità oggettive di ciò che è esterno e aproairetico. 
Se è così, ciò che spetta all’uomo in quanto uomo, ciò che ne definisce la natura, va ricercato non fuori dell’uomo ma dentro l’uomo stesso. E si può trovare? Sì. E dov’è? Nella proairesi. Infatti, è dimostrato che spettano all’uomo in quanto uomo unicamente i suoi giudizi su di sé e su ciò che è aproairetico. Soltanto questi giudizi, che sono proairetici, opera della sua proairesi, possono a buon diritto essere considerati propri dell’uomo in quanto uomo e sono soltanto essi ad essere il suo bene o il suo male. 

[ V,16 ] Si può, si deve ed è inevitabile che l’uomo abbia a che fare con le cose esterne e aproairetiche. Ma quando egli si dà da fare intorno ad esse senza riserva, come se fossero in suo esclusivo potere mentre invece, per inviolabile natura delle cose, esse non lo sono; ecco che l’uomo perde se stesso.
Chi, dunque, può affermare che essendoci dato di vivere a corte ci è anche dato, per ciò stesso e senza ulteriori precisazioni, di vivere bene a corte; tacendo il fatto che non si può vivere laddove e quando c’è troppo fumo e dunque che vivere bene a corte può anche essere impossibile?
La creatura razionale ha come fine cardinale quello di mantenere la propria proairesi in accordo con la natura delle cose. Chi dunque può affermare, senza ulteriori distinzioni, che la creatura razionale è nata per la vita in società e per operare il bene comune, se non chi vede il bene principalmente fuori di sé, nel dominio di ciò che è esterno e aproairetico?
Certamente le creature razionali hanno facoltà che altre creature non hanno. Ma chi può ritenersi superiore a tutti gli altri esseri quando anche i lupi, nel loro linguaggio, ringraziano certamente la Prònoia di avere fatto gli uomini così stupidi da massacrarsi l’un l’altro a milioni per offrire loro, in questo modo, dei lauti banchetti?
Se il frammento è anche soltanto parzialmente autobiografico, è difficile sfuggire alla sensazione che Marco Aurelio lo sprema dalla falsa coscienza di un insipiente che ha il problema di giustificare ex post le proprie scelte di vita, e che la sua autocritica sia rappresentata, né più né meno, dalle parole del frammento immediatamente successivo.

[ V,17 ] Il fine cardinale della vita degli insipienti è quello di far volare gli asini e di cavare sangue dalle rape.

[ V,18 ] Come mai la controdiairesi è una pratica di massa? È certamente difficile convincere qualcuno ad abbracciare la saggezza quando il suo guadagnarsi da mangiare dipende dal rimanere insipiente. La saggezza, pertanto, sarà sempre merce rarissima dovunque e finché la stabilità di un lavoro o di un incarico a corte, è fatto strettamente dipendere dalla stabilità della propria ignoranza della natura delle cose e della propria piaggeria. 

[ V,19 ] Dei nostri giudizi è padrona la proairesi, non le cose esterne ed aproairetiche.

[ V,20 ] I giudizi, così come i desideri, gli impulsi, gli assensi della mia proairesi sono entità proairetiche. Anche i giudizi della proairesi di un altro uomo sono entità proairetiche. Proairetiche per lui, ma per me sono entità aproairetiche tanto quanto lo sono i miei giudizi per lui, giacché la natura delle cose vieta inviolabilmente che qualcuno sia padrone della proairesi di un altro. Questo significa anche che nessuna proairesi può essere intralciata da un’altra proairesi e tanto meno da ciò che è esterno e aproairetico. 
Ora: quando vi è bisogno della collaborazione di qualcosa di esterno ed aproairetico per la realizzazione pratica di un’entità proairetica, questa realizzazione pratica è proairetica o aproairetica? 
Sentiamo la risposta di Epitteto: “E dunque se mentre io desidero camminare, un altro me lo impedirà? -Cosa impedirà di te? Forse il desiderio?- No, ma il corpo. E però io non cammino più. -E chi ti ha mai detto che camminare è opera tua non soggetta ad impedimenti? Giacché io dicevo non soggetto ad impedimenti, ossia proairetico, soltanto il desiderio. Dove invece c’è bisogno del corpo e della sua cooperazione, sai bene da tempo che nulla è tuo”.
Così come un altro uomo è per me un oggetto esterno e aproairetico, anche la realizzazione di un progetto proairetico è qualcosa di aproairetico, in quanto non è in mio esclusivo potere. La retta proairesi, pertanto, è retta in quanto tiene conto della natura delle cose e subordina sempre i propri comandi ad una clausola di riserva laddove per la loro realizzazione ci sia bisogno della collaborazione di qualcosa di aproairetico come il corpo.

[ V,21 ] Delle quattro cause basilari operanti nel cosmo, quella cui Marco Aurelio qui allude più direttamente è la Prònoia, cui la Proairesi umana è omogenea, in quanto espressione entrambe del medesimo ‘logos’, e della quale è come un’immagine. 

[ V,22 ] Morte, malattia, disastri naturali sono eventi del tutto fisiologici per quella città che è il cosmo e non lo danneggiano affatto, ma rappresentano semplici momenti delle sue incessanti trasformazioni. Perché dunque la proairesi dell’uomo dovrebbe giudicarli come mali dai quali ritenersi danneggiata? 
Se il cosmo è indenne da qualunque danneggiamento, la proairesi dell’uomo può invece danneggiare se stessa, qualora trascuri di attenersi alla natura delle cose e di rispettarla attraverso l’uso della diairesi. 

[ V,23 ] Il movimento incausato, perpetuo, inarrestabile della Materia immortale che tutto trasforma in rapidissima sequenza.

[ V,24 ] L’uomo è piccolissima parte della sostanza del cosmo e un istante appena della sua immortalità; ma egli, grazie alla proairesi, ha un ruolo decisivo nel proprio destino.

[ V,25 ] Se un altro agisce per offendere me, quella disposizione offensiva è proairetica o aproairetica? Ovviamente essa è aproairetica per me e proairetica per l’altro. Se è per me aproairetica, secondo saggezza io non devo vedere in essa né un bene né un male per me. Bene e male rimangono affare dell’altro, in quanto quella disposizione a offendere è propria della sua proairesi, non della mia. 
C’è qualcosa di proairetico, di mio proprio, in questa situazione? Certamente. La mia proairesi entra in gioco nel giudizio che ho della disposizione della proairesi e delle azioni dell’altro. E qui la mia proairesi può assumere due diversi atteggiamenti. Se prende l’atteggiamento diairetico non mi sentirò offeso e cercherò anzi di far capire all’altro l’aberrazione che sta commettendo contro se stesso. Se invece prende l’atteggiamento controdiairetico mi sentirò offeso e quindi reagirò all’offesa con l’offesa.
Vi è una operazione matematica che è aberrante: quella di dividere per zero. Ecco, in molti casi l’uso della controdiairesi può essere paragonato all’esecuzione dell’operazione suddetta. 

[ V,26 ] Le sensazioni fisiche che l’uomo prova (il dolce e l’amaro, il caldo e il freddo, il piacere sessuale, il dolore fisico) sorgono indipendentemente dalla nostra proairesi e sono, dunque, entità aproairetiche. Proairetico è invece il giudizio che la nostra proairesi dà di esse quando ne sia stata raggiunta, non in quanto piacevoli o dolorose ma in quanto bene o male. 
Siccome bene e male sono per natura delle cose unicamente giudizi della nostra proairesi, la proairesi che si atteggia controdiaireticamente giudica le sensazioni fisiche essere bene o male, mentre la retta proairesi che si atteggia diaireticamente le riconoscerà ugualmente piacevoli o dolorose ma le giudicherà essere né bene né male.

[ V,27 ] Il demone che ci portiamo dentro e che è capace di farci convivere con gli dei, è la nostra proairesi.

[ V,28 ] Ecco la diairesi all’opera. 
Al contrario, due personaggi emblematici che non mettono mai in opera la diairesi bensì si ostinano sistematicamente a dividere per zero quello che loro capita, sono quelli indicati da Marco Aurelio nell’ultimo paragrafo: i protagonisti delle tragedie e chi prostituisce il proprio corpo, simboli entrambi della proairesi che prostituisce se stessa attraverso l’uso della controdiairesi.

[ V,29 ] Queste sono le parole di Epitteto: “Uno ha fatto fumo nella stanza? Se il fumo è in quantità moderata, rimarrò; se è troppo, esco. Giacché si deve ricordare e tenere ben fermo che la porta è sempre aperta. Mi si ordina: ‘Non abitare a Nicopoli’. Non ci abito. ‘Neppure ad Atene’. Non abito ad Atene. ‘Neppure a Roma’. Non abito a Roma. ‘Abita a Giaro!’ Ci abito. Ma abitare a Giaro mi appare come abitare dove c’è troppo fumo. Mi ritiro laddove nessuno mi impedirà di abitare, giacché quella dimora è aperta a tutti”.
In questo frammento Marco Aurelio riprende esattamente il tema di un frammento precedente ma, questa volta, in accordo con la prospettiva correttamente stoica secondo la quale il fine cardinale della proairesi è quello di mantenere se stessa in armonia con la natura delle cose: libera, infinita, inasservibile, insubordinabile; e per cui il saggio, pertanto, per vivere può scegliere di morire. Paradosso soltanto apparente, ed eterno scandalo per le turbe insipienti e stolte che hanno paura di morire perché hanno paura di vivere e che vivono la morte credendo di vivere la vita.

[ V,30 ] Ovviamente non tutti gli esseri viventi si prestavano ad essere inseriti con facilità nel finalismo e nell’antropocentrismo di tradizione stoica. Ma l’acutezza di Crisippo, che echeggia nello sguardo di Marco Aurelio quando si incanta a guardare il cosmo, trovò sempre una via d’uscita: leoni, orsi, leopardi, cinghiali esistono per allenare i germi di coraggio presenti nell’uomo; i denti velenosi dei serpenti per fornire medicamenti; i topi ci abituano a stare attenti nel riporre le provviste di cibo; le cimici provvedono a che non dormiamo troppo e il pavone è stato generato in ragione della sua coda, perché noi possiamo ammirare lo splendore della sua coda.
Anche i Parti, i Quadi e i Marcomanni dovevano essere stati creati dalla Prònoia per qualcosa su cui però Marco Aurelio preferisce non soffermarsi.

[ V,31 ] Il frammento può certo sembrare il bilancio di una vita. Ma può anche essere inteso come l’invito ad un continuo riesame dello stato della propria proairesi e ad individuare e correggere l’eventuale ‘anomalia’ rappresentata da quell’atteggiamento della proairesi contrario alla natura delle cose che si chiama controdiairesi, ed a rallegrarsi di avere saputo usare la diairesi in tante occasioni.
Il verso citato è tratto dall’Odissea, libro IV°. Sono parole che Omero fa pronunciare a Penelope in riferimento ad Odisseo, quando Mentore sta per avvertirla che i Proci tramano un agguato mortale contro Telemaco.

[ V,32 ] Queste sono le parole di Epitteto sulle quali Marco Aurelio sembra riflettere: “Perché dunque quelli sono più potenti di voi? Perché quelli enunciano i loro schifosi discorsi da giudizi, mentre voi proferite i vostri raffinati discorsi dalle labbra. Per questo essi sono atoni e cadaverici; ed è possibile che a chi ascolta le vostre esortazioni e sente parlare di quella disgraziata virtù della quale blaterate su e giù, venga il ribrezzo. Così le persone comuni vi vincono: giacché ovunque il giudizio è potente, il giudizio è invincibile. […] Finché avrete le concezioni di cera, statevene dunque da qualche parte lontano dal sole”. 

Si può avere arte e scienza soltanto di due cose: di ciò che è proairetico e di ciò che è aproairetico. 
Proairetiche sono unicamente la proairesi e le opere della proairesi: desideri e avversioni, impulsi e repulsioni, assensi e dissensi, giudizi, progetti, concezioni. Insomma quell’unico gruppo di cose che è in esclusivo potere dell’uomo e che può diventare virtù, libertà, felicità. L’arte e la scienza di questo gruppo di cose si chiama scienza della felicità o Cultura. Sui poveri stracci che la Cultura sventola sta scritta la inviolabilità della natura delle cose, ossia l’ordine cosmico legato al governo del logos e l’ordine interiore, legato al governo della diairesi, che regna nella proairesi dell’uomo.
Ciò che è aproairetico si frammenta invece in miriadi di competenze diverse, giacché miriadi sono gli oggetti e i gruppi di oggetti esterni e aproairetici dei quali l’uomo può avere arte e scienza. L’arte e la scienza di tutto ciò che è aproairetico si chiama Pseudocultura. Essa ha come unico scopo il dominio dell’uomo su tutto ciò che è esterno e aproairetico (altri uomini compresi), obiettivo che essa persegue celandosi in vario modo dietro i veli di Maia rappresentati da ‘politica’, da ‘religione’, da ‘economia’, da ‘scienza’ e così via. Ma un simile scopo, come qualunque altro scopo, è e non può che essere proairetico, e dunque la Pseudocultura si adagia e coincide necessariamente, per inviolabile natura delle cose, con quell’atteggiamento della proairesi che va sotto il nome di controdiairesi. Sulle bandiere della Pseudocultura si proclama non essere in esclusivo potere dell’uomo ciò che invece è in suo esclusivo potere (ossia la virtù, la libertà, la felicità) ed essere in esclusivo potere dell’uomo ciò che invece non è in suo esclusivo potere (ossia tutto ciò che è esterno e aproairetico).
Coloro che in questo frammento Marco Aurelio chiama animi imperiti e incolti -e s’intende che sono turbe immense- sono imperiti e incolti di diairesi ma sono peritissimi e coltissimi di controdiairesi. E siccome la forza delle persone sta nella saldezza dei loro giudizi, davanti alla Pseudocultura di gente con una controdiairesi d’acciaio non c’è scampo per la presunta Cultura di filosofi con una diairesi di cera. 

[ V,33 ] Lavorare per ottenere riconoscimenti e fama da una turba di individui viziosi, disonesti, turpi, che praticano sistematicamente la controdiairesi? Oltre che contraddittorio non sarebbe neppure un affare, perché il guadagno non coprirebbe le spese. Se gli esseri umani hanno scelto per se stessi questa misera sorte, è vizioso anche imprecare o scandalizzarsene. Bisogna lasciarli al loro destino badando, giacché questo è in nostro esclusivo potere, ad astenerci dal desiderare o avversare ciò che non è in nostro esclusivo potere, ossia essere temperanti; ed a sopportare l’intemperanza altrui giacché da essa, per inviolabile natura delle cose, in ogni caso non può venirci alcun male.
Il verso citato è tratto da “Le Opere e i Giorni” di Esiodo. Esiodo lo riferisce, esattamente come Marco Aurelio, al Rispetto di sé e degli altri e alla Nemesi che abbandonano gli esseri umani dell’odierna età del ferro al misero destino che essi hanno forgiato per sé.

[ V,34 ] La felicità è cosa proairetica, è il giudizio di essere felici. A disporlo in modo inviolabile e invariante per tutti gli uomini è la natura delle cose, la quale dispone anche in modo altrettanto inviolabile e invariante che è il logos o Prònoia a stabilire le leggi cui ubbidisce tutto ciò che è aproairetico. 
Mentre la Prònoia non si mette mai in armi contro la Proairesi, la Proairesi dell’uomo, atteggiandosi controdiaireticamente, può mettersi in armi contro la Prònoia. Ma siccome la proairesi umana è parte del cosmo e non può violarne le leggi, la sua ribellione è destinata a quella sconfitta che prende appunto il nome di ‘infelicità’.
Due sono dunque le caratteristiche principali della Prònoia e della Proairesi: entrambe non possono essere intralciate altro che da se stesse, per entrambe il bene consiste nel rispetto della natura delle cose.

[ V,35 ] I retti giudizi sono i giudizi della proairesi che pratica la diairesi. Essi non portano danno.

[ V,36 ] Ubbidire alla natura delle cose è un conto, ma l’ubbidienza o la disubbidienza ad un’autorità qualunque diversa dalla natura delle cose non deve essere pronta, cieca e assoluta, bensì commisurata alle proprie capacità e al valore di quel che è richiesto. Allo stesso modo l’aiuto che altri richiedono non va concesso o negato sempre, comunque e a tutti i costi, ma commisurato anch’esso ai dati delle situazioni concrete, che sono sempre diverse una dall’altra. Se infatti si ubbidisce o disubbidisce a qualcuno oppure si aiuta o non si aiuta qualcuno lasciandosi semplicemente rapire dalla rappresentazione che ‘ubbidire’ e ‘aiutare’ sono ‘bene’ o sono ‘male’ noi stiamo ponendo il bene e il male fuori di noi stessi, stiamo subordinando il proairetico all’aproairetico, stiamo operando viziosamente.

*****

[ VI,1 ] Non esiste il male nel cosmo. Il male esiste soltanto nella proairesi degli esseri umani viziosi. La Prònoia che governa il cosmo, infatti, è legge razionale e verità, ossia natura delle cose, universalmente valida, invariante, inviolabile e tale legge non può essere contemporaneamente una ed il proprio opposto. Questo significa anche non esiste il bene nel cosmo. Il bene esiste soltanto nella proairesi degli uomini virtuosi. 

[ VI,2 ] Siccome vivere significa atteggiare la proairesi diaireticamente, le circostanze esteriore non fanno al riguardo alcuna differenza, dato che questa operazione è in nostro esclusivo potere. Anche morire diventa così, per l’uomo virtuoso, un momento di vita.

[ VI,3 ] Chi guarda come si deve dentro un qualunque oggetto esterno vedrà che si tratta di qualcosa di aproairetico che è, per natura delle cose, debole, servo, soggetto ad impedimenti, finito. 
Chi guarda dentro di sé come si deve, vi troverai una proairesi che è, per natura delle cose, libera, infinita, inasservibile, insubordinabile.
Il frammento invita a riconoscere proprio questa differenza.

[ VI,4 ] Nella cosmologia stoica, il destino di tutti gli elementi che compongono il cosmo è, da ultimo, quello di trasformarsi in fuoco primordiale, dal quale prenderà nuovamente inizio un nuovo ciclo cosmico. Se la sostanza del cosmo, invece, non fosse una ma fosse plurima, allora i suoi elementi potrebbero andare incontro a dispersione.

[ VI,5 ] Poiché la proairesi umana è facoltà autoteoretica, è legittimo chiedersi se anche la Prònoia del cosmo sia autoteoretica. Marco Aurelio, in questo frammento, da una risposta positiva a simile domanda, in accordo con una tradizione che non è soltanto stoica ma risale almeno al V° secolo a.C. Tale tradizione si basa su un ragionamento di questo genere: “Se nel cosmo non ci fosse l’elemento terreste, in te non vi sarebbe traccia di terra; e se non ci fosse l’elemento umido, in te non ci sarebbe traccia di acqua; e lo stesso vale per l’aria e per il fuoco. E dunque, se nel mondo non vi fosse intelletto, neppure in te ci sarebbe; ma c’è, e dunque c’è anche nel cosmo. Pertanto il cosmo è intelligente, e se è intelligente è anche dio”. 

[ VI,6 ] Queste sono le parole con le quali Epitteto bolla a fuoco l’insipienza di rispondere all’offesa con l’offesa: “E dunque? Non danneggerò chi mi danneggia? Innanzitutto vedi cos’è danno e ricordati di quanto hai sentito dire dai filosofi. Infatti, se il bene è nella proairesi ed il male allo stesso modo nella proairesi, scruta se quel che stai dicendo non è qualcosa del genere: ‘E dunque? Siccome quello ha danneggiato se stesso commettendo un’ingiustizia contro di me, io non danneggerò me stesso commettendo un’ingiustizia contro di lui?’ ”

[ VI,7 ] L’azione più socievole che l’uomo possa fare è quella di atteggiare diaireticamente la propria proairesi e di invitare anche gli altri a fare lo stesso. Infatti, chi si appropria di colui che l’uomo davvero è per natura delle cose, ha fatto anche l’azione più socialmente utile e dunque anche divina che si possa fare.

[ VI,8 ] La proairesi dell’uomo è la sua unica facoltà autoteoretica e fa di lui un saggio o in insipiente, un vizioso o un virtuoso, a seconda di come si atteggia nei confronti di ciò che proairetico e di ciò che è aproairetico.

[ VI,9 ] Tutto ciò che avviene, avviene in armonia con la natura, la quale è una e onnicomprensiva.

[ VI,10 ] Se il cosmo è un guazzabuglio senza legge, l’intrattenermi in esso non può avere altro scopo che quello di intrattenermici il più a lungo possibile, cercando di piegarlo il più rudemente possibile alla mia volontà di potenza, qualunque forma essa prenda. Infatti, non avrei da perdere altro se non quello che perderò comunque, mentre tutto il resto è per me un guadagno. 
Marco Aurelio intende così, come assenza di ordine e di finalità, ossia di Prònoia o Logos quale legge immanente e razionale del divenire cosmico, l’ipotesi atomistica e meccanicistica di Epicuro anche se una simile interpretazione ne fraintende sostanzialmente il pensiero. Egli comunque può considerare seria questa prospettiva, giacché sarebbero dovuti ancora passare circa millecinquecento anni prima che Galileo, definendo le leggi di alcuni moti, dimostrasse per primo, empiricamente e inconfutabilmente, che il cosmo non è un guazzabuglio senza legge e ponesse così la Fisica su basi del tutto nuove.

[ VI,11 ] Il passaggio dalla diairesi alla controdiairesi può essere fisiologicamente causato da rappresentazioni alle quali la proairesi dell’uomo si trova momentaneamente impreparata. Non bisogna avere timore di questi sbandamenti in quanto la proairesi bene allenata può operare il passaggio inverso, dalla controdiairesi alla diairesi, con estrema rapidità.

[ VI,12 ] La filosofia è il luogo della diairesi ossia della generazione della vita. La corte imperiale è il luogo della controdiairesi. Quali parole più esplicite avrebbe potuto trovare Marco Aurelio?

[ VI,13 ] Per gli stoici la rappresentazione catalettica è, com’è noto, la rappresentazione che ha caratteri tali da meritare il nostro assenso come quella che non potrebbe venire da un oggetto diverso. Chi vede unicamente del fumo deve assentire alla rappresentazione che c’è del fumo e non a quella che c’è un incendio, potendo il fumo avere molte altre origini diverse da un incendio. Chi ha la rappresentazione di certi organi sessuali in azione, non ha la rappresentazione di persone che provano piacere e tanto meno di persone felici. Così, sembra dirci Marco Aurelio, chi incontra qualcuno che siede sul trono imperiale di Roma deve assentire alla rappresentazione che ha visto l’imperatore, non che ha visto un filosofo intelligente e tanto meno uno stoico. Spessissimo, poi, l’unica vera differenza tra una rappresentazione catalettica e una rappresentazione non catalettica è la nostra vanità.
Il significato dell’ultimo paragrafo non è decifrabile, in quanto ne rimane ignoto l’oggetto. Il Cratete qui citato è probabilmente il cinico allievo del famoso Diogene di Sinope, vissuto nel III° secolo a.C. Senocrate dovrebbe essere allora il suo coetaneo, originario di Calcedonia, che fu secondo successore di Platone alla guida dell’Accademia.

[ VI,14 ] A cosa volgono gli occhi gli esseri umani per trovare ciò che è più degno di ammirazione? Alcuni li fissano sull’oro, su turbe di cavalieri, altri sui vegetali, altri sugli animali, altri sulla persona che si ama o su persone capaci di opere ingegnose. Tutti, comunque, lo cercano fuori di sé, in ciò che è esterno e aproairetico.
Chi invece conosce la natura delle cose sa che la cosa più degna, la ricchezza più grande e più degna di ammirazione sta dentro l’uomo, nella sua proairesi atteggiata secondo diairesi. 

[ VI,15 ] Flussi e cambiamenti continui di tutto ciò che è esterno e aproairetico rinnovano incessantemente non soltanto il cosmo ma il nostro stesso organismo. 

[ VI,16 ] L’uomo traspira, respira, usa le rappresentazioni, ha impulsi e repulsioni. Ma tutto ciò non è peculiare dell’uomo. Qual è, dunque, l’opera propriamente umana? Affinché l’uomo risulti idoneo all’opera per la quale è stato strutturato dalla natura, la sua unica, vera e fondamentale educazione è quella al rispetto della natura delle cose e all’onore per la propria proairesi, ossia alla comprensione e all’uso della diairesi.

[ VI,17 ] I movimenti e le reciproche trasformazioni dei quattro elementi naturali (fuoco, aria, acqua, terra) sono già stati ricordati più volte da Marco Aurelio. Il movimento dalla diairesi alla controdiairesi e viceversa, e la trasformazione della proairesi umana da virtù a vizio e viceversa, non segue invece regole semplici ed è impossibile da prevedere.

[ VI,18 ] Aproairetico per aproairetico: come mai l’insipiente è in ansia soltanto per la sua immortalità futura e non anche per quella pregressa?

[ VI,19 ] L’uso sistematico della diairesi non soltanto è possibile ma è anche facilmente accessibile.

[ VI,20 ] Siccome l’avversione è qualcosa di proairetico, in mio esclusivo potere, Epitteto soleva dire che il malvagio è cattivo per se stesso ma per me è buono, giacché allena le mie virtù. 
Queste sono le sue parole: “-E’ dunque possibile trarre giovamento da questo?- Da tutto. -Anche da chi ingiuria?- Che giova all’atleta il preparatore atletico? Il massimo. E pure costui diventa mio preparatore atletico: allena la mia capacità di tolleranza, il mio dominio sull’ira, la mia mitezza. Chi avvinghia il mio collo e mi rimette in ordine lombi e spalle mi giova; ed il maestro di ginnastica fa bene a dirmi ‘Solleva il pestello con entrambe le mani’; e quanto più quello è pesante tanto più io ne traggo giovamento. E se uno mi allena al dominio sull’ira non mi giova? Questo è non saper trarre giovamento dagli esseri umani. Un cattivo vicino? Per lui stesso, ma per me è buono: allena la mia buona intelligenza, l’acquiescenza. Un cattivo padre? Per lui stesso, ma per me è buono”.

[ VI,21 ] Quando io ti dico che i tuoi desideri soffrono di infiammazione, che le tue avversioni sono da servo nell’animo, che i tuoi progetti sono incoerenti, che hai impulsi in disarmonia con la natura delle cose, concezioni avventate e mendaci, perché ti ritieni oltraggiato? 
Ti ho dimostrato che ti mancano le cose più necessarie e grandi per la felicità, che fino a questo momento di tutto sei stato sollecito tranne che di quel che conviene, che tu non sai né cos’è proairesi né cos’è diairesi né cos’è bene né cos’è male e che sei ignorante di te stesso, di chi è un uomo, perché ti esasperi? 
Ti ho detto soltanto la verità. A meno che lo specchio non rechi danno a chi è laido, mostrandogli qual è. A meno che il medico non oltraggi l’ammalato quando gli dice: ‘Tu reputi di non avere nulla ma hai la febbre; oggi prendi gli antibiotici e stai a letto’.

[ VI,22 ] Uno dei campi fondamentali nei quali deve esercitarsi l’uomo che conosce la natura delle cose è quello degli impulsi e delle repulsioni, al fine di agire con posizionamento, con razionalità, senza trascuratezza verso ciò che è inanimato, animato ma privo di ragione e verso gli altri esseri umani, anche insipienti. L’uomo, infatti, non è chiamato ad avere il dominio che di sé ha una statua, ma a serbare anche le sue relazioni sociali, naturali ed acquisite, da virtuoso.

[ VI,23 ] L’uomo, creatura razionale, può usare tutto ciò che è aproairetico: oggetti, esseri irrazionali, esseri razionali, finché gli è dato; ma con la riserva di mantenere comunque la sua proairesi, qualunque uso faccia di essi, in accordo con la natura delle cose. E siccome dall’uso che di essi fa dipende il suo bene o il suo male, una buona vita sarà sinonimo di un uso che tenga conto delle loro peculiarità e differenze, e dunque di un uso attento, equilibrato, rispettoso, tale da non comprometta la naturale libertà della proairesi. 
E qual è l’atteggiamento che l’uomo deve avere verso gli dei? Nel cosmo, dei e uomini condividono la stessa ragione e, in questo frammento, gli dei sono concepiti da Marco Aurelio come entità di perfezione superiore a quella umana cui è opportuno rivolgersi come ad esseri benevoli, con invocazioni di devota venerazione.

[ VI,24 ] Se la morte uguaglia tutti gli esseri riducendoli ai loro componenti fondamentali, Marco Aurelio ribadisce di intendere come radicalmente alternative la concezione stoica e la concezione epicurea del loro successivo percorso.

[ VI,25 ] La coscienza che abbiamo della complessità dei fenomeni che avvengono nel nostro corpo e nella nostra mente ci prepara ad accettare quella dei fenomeni che avvengono nell’immensità dell’universo.

[ VI,26 ] Ecco come il saggio porta a termine ciò che la sua proairesi ha giudicato doveroso fare.

[ VI,27 ] Diceva Epitteto che questa è la giustificazione che bisognerebbe dare ai genitori che fremono perché i figlioli studiano filosofia: “Dunque aberro, padre, e non so quel che mi spetta e conviene. Ma se questo non è né imparabile né insegnabile, perché mi incolpi? Se è insegnabile, insegnamelo; e se tu non puoi, lascia che io lo impari da coloro che dicono di sapere. Peraltro, cosa pensi? Che io incappi nel male e fallisca il bene perché lo voglio? Non è così! Cos’è, allora, causa del mio aberrare? L’ignoranza. Non vuoi che mi liberi dell’ignoranza? A chi mai l’ira insegnò l’arte di pilotare una nave o la musica? E tu reputi che io imparerò l’arte di vivere grazie alla tua ira?”

[ VI,28 ] Mentre la proairesi può morire mentre il corpo rimane ancora in vita, con la morte del corpo muore anche la proairesi.

[ VI,29 ] Capitolazione del corpo o capitolazione della proairesi? Capitolazione della proairesi è il suo negarsi come libera, infinita, inasservibile, insubordinabile, e il suo atteggiarsi controdiaireticamente.

[ VI,30 ] ‘Cesarificare’ se stessi vuol dire abbandonare la diairesi ed usare quotidianamente e sistematicamente la controdiairesi: dunque, al mondo succede che vi siano degli imperatori ma anche che vi siano miliardi di microimperatori, di ‘piccoli Cesari’. 
Il frammento contiene un lungo riferimento ad Antonino Pio come al modello di imperatore che invece non si è ‘cesarificato’, e potrebbe essere una bozza della trattazione, più lunga ed articolata, dello stesso personaggio in [ I,16 ].

[ VI,31 ] Nel sonno la proairesi è spenta. I sogni, dunque, sono entità aproairetiche e come tali non sono né bene né male, né virtuosi né viziosi. Ma aproairetica, e con le stesse caratteristiche, è anche la realtà che abbiamo davanti quando siamo svegli e la proairesi è attiva.
Se, dunque, un sogno ci ha sconcertato, quando la nostra proairesi si risveglia ci rendiamo però conto di non avere alcun motivo di sgomento e tiriamo un sospiro di sollievo. Allo stesso modo possiamo guardare senza alcun motivo di sgomento alla realtà che abbiamo davanti, giacché essa è un materiale indifferente del quale possiamo fare un uso che, però, è in nostro esclusivo potere.

[ VI,32 ] Tutto ciò che è aproairetico è indifferente quanto ad essere male e bene. Anche l’attività passata o futura della proairesi, in quanto priva della dimensione del presente, è qualcosa di aproairetico. L’attività presente della mia proairesi è invece in mio esclusivo potere, è cosa proairetica e può essere bene o male. 

[ VI,33 ] Il dolore fisico non è contrario alla natura: esso è cosa aproairetica e dunque per l’uomo non è né un male né un bene, poiché male è soltanto ciò che è proairetico e contrario alla natura delle cose.

[ VI,34 ] Se anche gli insipienti possono godere dei piaceri della carne, allora il piacere fisico non può essere che un’entità aproairetica, un indifferente, qualcosa che non è né bene né male. 

[ VI,35 ] Tutti i comuni lavori manuali, come quello del falegname, del pescatore, dell’architetto o del medico possono essere definiti come opere dell’Antidiairesi. Infatti, proairetica è la decisione di costruire una sedia, di uscire a pesca, di edificare una casa, di curare un ammalato, di rapinare una banca, di uccidere un uomo; ma la realizzazione di queste decisioni avviene poi sempre attraverso una serie di operazioni standard guidate da giudizi che rimangono subordinati alla decisione originaria. 
L’antidiairesi può dunque essere proficuamente definita come l’insieme di giudizi subordinati operante su quanto non è in nostro esclusivo potere e che, in quanto complementare alla diairesi o alla controdiairesi, è competente a realizzare il progetto dell’una o dell’altra.
L’antidiairesi, il nostro comune quotidiano lavoro, può essere immaginata come il tronco di un albero. Diairesi e controdiairesi sono allora come le radici dell’albero. Insieme al lavoro finito, libertà e felicità oppure schiavitù e infelicità sono come i frutti che pendono dai rami dell’albero, a seconda che alla radice noi vi abbiamo posto la diairesi oppure la controdiairesi.
Se gli artigiani sanno che per realizzare come si deve un lavoro qualunque occorre seguire strettamente le indicazioni dell’antidiairesi e non tener conto dei giudizi degli incompetenti, è stupefacente come noi invece ignoriamo che la realizzazione di noi stessi come uomini, ossia la saggezza, significa rispetto della natura delle cose, ossia mettere la diairesi alla radice dell’antidiairesi.

[ VI,36 ] Il cosmo è uno ed uno è il suo egemonico. Sappiamo già che alla domanda cruciale se l’egemonico del cosmo sia da considerarsi autoteoretico come la proairesi umana oppure no, Marco Aurelio ha risposto affermativamente. 
Così come gli è impossibile pensare che se un oggetto si muove uniformemente in linea retta non vi sia una forza che lo spinge, per lui è impossibile pensare che la ragione provenga da una materia che non contenga già in sé la ragione ‘come tale’ nei propri elementi, e dunque che la Prònoia o Logos del cosmo non sia autoteoretica visto che egli pensa al cosmo, secondo la tradizione stoica, come ad un organismo vivente e in continua trasformazione molto più grande e più perfetto del semplice uomo e della sua proairesi. Se la Prònoia è autoteoretica, pensa inoltre Marco Aurelio, essa non può contenere in sé nulla di contraddittorio e dunque dai suoi buoni e solenni impulsi è derivato anche tutto ciò che a noi può apparire deleterio o cattivo.

[ VI,37 ] La natura delle cose è invariante: essa fu, è, e sarà sempre la stessa per qualunque essere umano di qualunque cultura.

[ VI,38 ] Uno sguardo che vede il cosmo come un unico organismo vivente.

[ VI,39 ] La retta proairesi non chiede compiti diversi da quelli che la sorte le ha assegnato, giacché sa di poter fare uso corretto di qualunque materiale le sia dato di lavorare.

[ VI,40 ] Con un coltello si può tagliare il salame oppure uccidere un uomo. Dunque l’uso del coltello non è incluso nel suo essere coltello. Grazie alla proairesi, l’uso che l’uomo fa di se stesso è invece incluso nel suo essere uomo, in quanto vivere in armonia con la natura umana significa vivere virtuosamente e vivere virtuosamente significa vivere in armonia con la natura delle cose.

[ VI,41 ] Chi pone il bene e il male negli oggetti esterni ed aproairetici deve ineluttabilmente accettarne le terrificanti conseguenze; e sono conseguenze che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.

[ VI,42 ] Comunque si atteggi la proairesi dell’uomo, in modo diairetico o controdiairetico, essa è sempre atteggiata secondo natura e coopera in ogni caso al succedersi degli eventi cosmici. Tuttavia la proairesi atteggiata diaireticamente è anche atteggiata in armonia con la natura delle cose, mentre la proairesi atteggiata controdiaireticamente è atteggiata in contrasto con la natura delle cose. Ma questo contrasto è vano, vizioso e stupido perché ha di mira l’impossibile, in quanto intenderebbe mutare la natura delle cose che invece è e rimane invariante, eterna, inviolabile. Mentre la proairesi atteggiata in armonia con la natura delle cose ottiene così felicità, quella atteggiata contro la natura delle cose ottiene infelicità e Plutarco riferisce che Crisippo paragonava l’infelicità, la viziosità, la stupidità umana alle battute scherzose e alle facezie che sono in sé prive di valore ma che sono utili all’andamento generale di uno spettacolo.

[ VI,43 ] Ogni cosa ha nel cosmo un compito diverso, ma tutte collaborano per un medesimo fine.

[ VI,44 ] Si può discutere all’infinito sul fatto che gli dei esistano o non esistano; che essi esistano ma non deliberino nulla oppure deliberino qualcosa; che essi deliberino bene o male sul cosmo oppure anche su di me personalmente. Quello che io so però con certezza, sembra dire Marco Aurelio, è di avere una proairesi che mi permette di deliberare su me stesso e su ciò che mi è utile in quanto creatura razionale e politica, in quanto imperatore di Roma e cittadino del mondo.

[ VI,45 ] La proairesi dell’uomo, quando operi rettamente, è capace di rendere utile qualunque cosa ci accada.

[ VI,46 ] E’ possibile che la felicità venga a noia? È possibile preferire, per sazietà, l’infelicità alla felicità?

[ VI,47 ] Dovunque volga lo sguardo, l’uomo scopre che la sola cosa davvero degna di lui è la virtù.
Filistione, Febo e Origanione sono personaggi del tutto sconosciuti.
Eraclito di Efeso (V° secolo a.C.), Pitagora di Samo (circa 570-496 a.C.) e Socrate di Atene (470-399 a.C.) sono personaggi notissimi e per essi non è il caso di spendere ulteriori parole.
Eudosso di Cnido (circa 391-338 a.C.), Ipparco di Nicea (II° secolo a.C.) e Archimede di Siracusa (287-212 a.C.) sono celebri matematici ed astronomi.

[ VI,48 ] Bella è soltanto la virtù e quanto della virtù partecipa.

[ VI,49 ] Le vite sono peggiori o migliori a seconda che siano brevi o lunghe?
Una libbra è l’equivalente di 327 grammi, e dunque 300 libbre corrispondono a 98,1 chilogrammi.

[ VI,50 ] Usare l’impulso ‘con riserva’ significa desiderare qualcosa e insieme, grazie all’uso della diairesi, desiderare di mantenere la propria proairesi in accordo con la natura delle cose. 
Per chi decide di fare i primi passi sulla strada che porta alla virtù, è fondamentale imparare ad usare l’avversione esclusivamente nell’ambito di ciò che è proairetico e ad usare ‘con riserva’ il desiderio nell’ambito di ciò che è aproairetico.

[ VI,51 ] Bisogna porre il nostro bene e il nostro male in ciò che aproairetico, come la fama e l’oscurità, il piacere e il dolore fisico, o in ciò che è proairetico, nelle opere della nostra proairesi? Bisogna porre la felicità e l’infelicità in mani altrui o nelle nostre?

[VI,52 ] I giudizi sono entità proairetiche, in assoluto nostro dominio. Infatti, le cose esterne ed aproairetiche come tali non hanno accesso alcuno alla nostra proairesi poiché devono, in ogni caso, sempre essere prima trasformate nelle corrispondenti rappresentazioni mentali.

[VI,53 ] Nessuna sciatteria verso ciò che è aproairetico, giacché dall’uso che di esso facciamo dipende il nostro bene o il nostro male, la nostra libertà o la nostra schiavitù.

[VI,54 ] Ciò che è utile all’ape è utile anche allo sciame. Se dunque è utile all’uomo mantenere la sua proairesi in accordo con la natura delle cose: libera, infinita, inasservibile, insubordinabile; ciò sarà anche utile alla società. La politica è questo. Ragion per cui, visto in quest’ottica vera, il grande politico era Socrate, non Pericle; Diogene, non Alessandro Magno; Epitteto, non Marco Aurelio.

[ VI,55 ] Dov’è la salvezza dell’uomo? Gli Stoici hanno ampiamente dimostrato che tutto ciò che è aproairetico non può essere né bene né male e che soltanto ciò che è proairetico può essere tale.
La Natura, il Cosmo, il Fato, la Prònoia, la Materia Immortale, il Dio delle religioni monoteiste e così via, sono entità proairetiche o aproairetiche? 
Se essi esistono indipendentemente da me, se non sono in mio esclusivo potere, essi sono entità aproairetiche. E se tali sono, nessuna di esse può e deve essere per me bene o male. 
Infatti, se io le giudicassi essere un bene, ponendo il bene fuori di me farei inevitabilmente dipendere da esse e dal loro volere la mia libertà e la mia felicità e dunque le odierei e le bestemmierei quando ritenessi di non ottenere da esse quei beni dei quali le faccio depositarie. Se le giudicassi essere un male, ponendo il male fuori di me cercherei inevitabilmente di avversarle in ogni modo, ma farei comunque dipendere da esse e dal loro volere la mia libertà e la mia felicità, giacché le odierei e le bestemmierei quando incappassi in qualcuno dei mali dei quali le faccio depositarie.
Il solo atteggiamento corretto di fronte a tutte queste entità è dunque quello di riconoscere che esse non sono e non possono essere altro per me che né bene né male. Il che significa che l’uomo può benissimo immaginare di provare l’esistenza di un Dio malvagio come Arimane, ma resta il fatto che questo è affar suo, è affare di Arimane. 
Come Epitteto ha insegnato a Marco Aurelio, e come invece Marco Aurelio continuamente mostra di fraintendere, Arimane o Zeus possono benissimo essere entità malvagie o buone ma per l’uomo virtuoso, per l’uomo che usa correttamente la proairesi e la diairesi, essi sono malvagi o buoni per se stessi ma comunque buoni per il virtuoso. La divinità può benissimo essere pensata non soltanto buona ma anche connotata dalla malvagità, da una provvidenzialità perversa che ha di mira il nostro danno. In quel caso l’uomo virtuoso perdona Dio ed usa con lui la bacchetta di Ermete e gli dice: ‘Tu, divinità, porta quel che vuoi ed io, uomo, ne farò un bene. Porta malattia, morte, difetto di mezzi di sussistenza, ingiurie, una condanna ingiusta. Io, uomo, ne farò un bene, una cosa attraverso cui mostrare nei fatti cos’è una creatura che comprende il tuo piano. Tutto ciò che mi darai lo farò beato, felicitante, solenne, da emulare’.
Allo stesso modo, abbiamo miriadi di esempi tutt’altro che immaginari di medici che non sono affatto interessati alla salute dei pazienti e di piloti la cui preoccupazione non è affatto l’attenzione alle esigenze dei passeggeri.
Sto per fare un viaggio per mare. Cosa mi è possibile? Mi è possibile scegliere la nave con cui partire e dunque, in un certo senso, il pilota e i marinai; il giorno; il porto da cui partire. Succede poi che una tempesta si abbatta sulla nave. Quale altra parte posso fare? La parte che mi spettava io l’ho già assolta. La tempesta è ipotesi di altri, del pilota e dell’equipaggio. Ma la nave affonda pure! E cosa posso fare per evitarlo? Quel che posso, questo soltanto faccio. E se non posso null’altro, affogo senza avere paura né strillando né incolpando Dio o la natura o chi altro, ma sapendo che quanto nasce deve anche perire. Giacché non sono eterno; sono un uomo, una parte del tutto, come un’ora di un giorno. Io devo come l’ora venire e come un’ora trapassare. C’è differenza sostanziale se trapasso annegando o per la febbre? Giacché per qualcosa devo pur morire.
È dunque controdiairetico, è da schiavi, è vizioso è stupido credere nell’esistenza di un Dio aproairetico e giudicarlo buono, provvidente, amoroso o il contrario di questi attributi.

[ VI,56 ] La morte, anche quella delle persone più care, è ineluttabile. 

[ VI,57 ] Gli oggetti esterni ed aproairetici non hanno come tali accesso diretto alla nostra proairesi e sono sempre prima trasformati nelle corrispondenti rappresentazioni mentali. Ciò è tanto vero, che gli stessi oggetti sono valutati diversamente da persone diverse.
La controdiairesi, d’altra parte, è il supergiudizio non adeguato alla natura delle cose, sia proairetiche che aproairetiche, perché le assume in una prospettiva diversa da quella che effettivamente loro compete; ed è la più terribile delle malattie dell’uomo, perché è capace di ucciderlo pur mantenendolo in vita.

[ VI,58 ] L’uomo può vivere in modo contrario alla natura delle cose ma non può mai vivere in modo contrario alla natura.

[ VI,59 ] Prima ancora che sia il tempo a cancellarne la memoria, dice Marco Aurelio, meglio stendere un velo pietoso sui cortigiani che ho intorno.

*****

[ VII,1 ] Di una malattia del corpo a decorso rapido, violento, tumultuoso si dice che è una malattia acuta. Così, un episodio acuto di quella malattia della proairesi che è la controdiairesi va chiamato ‘aberrazione’. 
Di una malattia ad andamento prolungato, con scarsa tendenza alla guarigione si dice che è una malattia cronica. Così, la scarsa o nulla tendenza alla guarigione, ossia alla diairesi, di quella malattia della proairesi che è la controdiairesi va chiamata ‘vizio’. 
Tutti i differenti vizi non sono altro che forme di abitudine inveterata, di pratica sistematica della controdiairesi in contesti diversi. È sempre la stessa storia.

[ VII,2 ] Se la malattia della controdiairesi non è cronica, la proairesi può facilmente riprendersi da un accesso acuto ossia da un’aberrazione. Rappresentazioni catalettiche, retti giudizi, diairesi sono infatti in esclusivo potere della nostra proairesi. Inoltre, il timore di non potersi riprendere è intrinsecamente contraddittorio giacché si tratta di un’operazione proairetica, nella quale gli oggetti esterni e aproairetici non hanno alcun potere. La natura ha dato alla proairesi, quasi araba fenice, la possibilità di rivivere da se stessa, dalle proprie ceneri.

[ VII,3 ] Diceva Epitteto che se noi fossimo concentrati sulla nostra proairesi così energicamente come i senatori, a Roma, sono concentrati sulle cose esterne ed aproairetiche per le quali si industriano, probabilmente concluderemmo qualcosa anche noi. I senatori tutto il giorno e tutti i giorni consigliano, dibattono, votano su forniture di grano, su proprietà immobiliari, su profitti ottenuti o attesi. 
In un certo senso, le faccende di quei senatori sono simili alle nostre, giacché ricevere da qualcuno una lettera e leggere: ‘Ti prego di delegarmi l’ esportazione di una certa quantità grano in cambio del mio voto favorevole alla tua elezione a quella certa carica’ non è diverso dal riceverne un’altra e leggervi ‘Ti prego di esaminare qual è per Crisippo il governo dell’ordine del mondo e quale ufficio vi ha l’animale logico; esamina anche chi sei tu e cosa sono il tuo bene ed il tuo male’. Si tratta di istanze diverse quanto agli oggetti ma che hanno bisogno di eguale impegno.
Lo zelo che i senatori pongono nelle loro faccende non sarebbe, dunque, degno di opere migliori? Alla fin fine ognuno di noi tanto vale quanto vale ciò su cui si industria.

[ VII,4 ] Nel caso dell’uomo, nessun progresso verso la virtù è possibile se egli usa parole del cui significato non ha piena comprensione e dà spazio ad impulsi all’azione che contrastano con quanto è per lui doveroso.

[ VII,5 ] Se io sono cittadino del mondo, qual è l’opera che la natura della quale sono figlio richiede da me? 
Che io rispetti la natura delle cose serbando la mia proairesi libera, infinita, inasservibile e insubordinabile. 
Se io sono anche cittadino di una città più piccola che è parte del mondo, qual è l’opera che questa seconda città richiede da me? Che io rispetti le leggi che essa si dà per promuovere la pacifica convivenza tra i suoi cittadini.
Il fatto che il rispetto della natura delle cose sia intrinsecamente in mio esclusivo potere e dunque che la mia proairesi sia sempre adeguata a quest’opera; e soprattutto la possibilità che qualcun altro possa compiere l’opera in questione al mio posto, porta ad escludere che Marco Aurelio, in questo frammento, pensi alla prima città. Egli si riferisce evidentemente alla seconda città, alle sue leggi e al suo ruolo in essa; ruolo che, a seconda delle contingenze, egli porterà a termine, da imperatore, in uno dei tre modi che qui dettaglia. 

[ VII,6 ] La virtù è premio a se stessa. Lasciate che scompaiano i virtuosi, e anche la fama della virtù è destinata a scomparire.

[ VII,7 ] Chi non capisce cosa siano proairesi, diairesi, controdiairesi e antidiairesi non deve vergognarsi di ammetterlo e, se ha bisogno di aiuto, deve accettare che qualcuno lo aiuti a comprendere chi è e che cos’è venuto a fare in questo mondo. 

[ VII,8 ] Se la morte dell’uomo è cancellazione della sua proairesi, il problema non si pone neppure. Se la proairesi invece permanesse, essa sarebbe comunque capace di dominare lo sconcerto domani, come lo è oggi e lo era ieri.

[ VII,9 ] Il cosmo è un’unica sostanza e un’unica polis.

[ VII,10 ] Tutto è sottoposto a rapide trasformazioni.

[ VII,11 ] Qualunque azione umana è in accordo con la natura, ma non tutte le azioni umane sono in accordo con la natura delle cose ossia con la ragione.

[ VII,12 ] Dice il proverbio che l’occasione fa l’uomo ladro. Meglio sarebbe dire che essa rivela il ladro. Rettitudine o soltanto correttezza?

[ VII,13 ] Socrate affermava che Anito e Meleto potevano farlo uccidere ma non fargli del male.
Senza bisogno di attribuirgli la profondità del sapiente stoico, se Socrate giudica rettamente che nessun uomo può fare dal male ad altri che a se stesso, allora giudicherà anche che nessun altro può fargli del male. Ma è altrettanto evidente che nessun uomo può fare del bene ad altri che a se stesso, e che dunque nessuno può fargli del bene.
Questo accade poiché bene e male esistono soltanto nella proairesi dell’uomo, laddove ‘bene’ è il retto uso delle rappresentazioni, che significa -in questo caso- libertà e infinità della proairesi di Socrate; e ‘male’ l’uso scorretto delle rappresentazioni, che significa schiavitù e miseria delle proairesi di Anito e Meleto. 
Dove nasce dunque l’aberrazione di giudicare che il bene e il male siano entità aproairetiche e, ancor peggio, che esista qualcosa come il ‘bene comune’? Ancora e sempre nella proairesi dell’uomo.
Infatti, ‘bene comune’ e ‘male comune’ non hanno maggiore realtà dell’esistenza di un fantomatico ‘pene comune’. Sono pure e vere contraddizioni in termini, concetti aberranti usati per giustificare se stessi e il proprio operato da menti deboli, immature, infantili, non sviluppate, anche se sui loro volti ondeggiassero barbe lunghe due spanne, anche se sedessero su un trono.

[ VII,14 ] Il dolore fisico è un’entità aproairetica, l’afflizione è un’entità proairetica. Il dolore fisico non è né un bene né un male. L’afflizione è un male.

[ VII,15 ] Se l’oro rimane oro pur frammisto ad altri materiali, la proairesi può e deve rimanere virtuosa anche quando sia circondata da proairesi viziose.

[ VII,16 ] Marco Aurelio parla, in questo frammento, di due diversi egemonici o proairesi. 
Nei primi due paragrafi il soggetto è la Prònoia, l’egemonico di quell’unico essere vivente che è il cosmo. Sappiamo che egli la concepisce come autoteoretica e non è difficile capire che la Prònoia, comunque muovesse il cosmo, lo muoverebbe verso il proprio bene, poiché qualunque essere fa sempre quello che giudica essere il proprio bene e mai il proprio male. E ovviamente nulla e nessuno potrebbe deviare la Prònoia del cosmo dal suo corso. 
I paragrafi seguenti sono invece riferiti all’uomo, che Marco Aurelio vede composto, come ha già detto in precedenti frammenti, di: corpo, animo o pneuma, ed egemonico.
Il corpo può patire, provare dolore o piacere, ma non ha la capacità di esprimere giudizi su quello che prova. L’animo può avere reazioni istintive di paura o di afflizione che precedono la formazione dei giudizi da parte della proairesi, semplicemente perché esse sono reazioni animali rapidissime, utili all’individuo per sfuggire determinati pericoli e che gli conferiscono pertanto dei vantaggi di sopravvivenza. La proairesi è invece autoteoretica, è essa e soltanto essa quella che produce i giudizi ai quali corpo e animo ubbidiranno. E l’egemonico dell’uomo, quando operi rettamente è, sempre secondo Marco Aurelio, una fedele immagine dell’egemonico del cosmo.

[ VII,17 ] Non si deve confondere ciò che ci viene in mente con ciò che pensiamo. Le rappresentazioni scabrose sono una cosa; l’assenso ad esse o il dissenso da esse è un’altra e la proairesi rettamente operante non confonde le due cose.

[ VII,18 ] Il cosmo del quale siamo parte è un’unità in spontaneo, continuo e inarrestabile mutamento.

[ VII,19 ] Di quanti Crisippo, di quanti Socrate, di quanti Epitteto ha bisogno il mondo?

[ VII,20 ] Dà un certo conforto sentire Marco Aurelio dichiararsi risoluto a non usare la controdiairesi.

[ VII,21 ] Come il lento richiudersi di un vecchio cofano.

[ VII,22 ] Le aberrazioni sono figlie dell’ignoranza e dunque chiunque può uccidermi, ma nessuno può recarmi danno.

[ VII,23 ] Nulla si crea e nulla si distrugge.

[ VII,24 ] I vizi altrui possono indignarci e l’indignazione trasparire nel nostro volto. Ma il giudizio che l’aberrazione altrui debba essere motivo di indignazione fino a diventare infelicità per me è, a sua volta, male. E quando io non mi renda più conto che essendo infelice sto aberrando, ho passato il confine che separa il ‘vivere’ dall’ ‘essere in vita’.

[ VII,25 ] Per il cosmo nel suo complesso il tempo non esiste e dunque esso è l’unico essere vivente non soggetto ad invecchiamento.

[ VII,26 ] Chi trascura la natura delle cose e dunque aberra, è in contraddizione e diventa nemico di se stesso. Deve pertanto essere considerato per quello che è in simile stato: un infelice che non merita né stupore né ira da parte di una retta proairesi ma quel distacco che si confà a chi invece rispetta la natura delle cose.

[ VII,27 ] Rallegrati pure di ciò che è aproairetico, ma con riserva; ossia non tanto da essere infelice per la sua mancanza.

[ VII,28 ] La proairesi, quando opera rettamente, è pace vivente.

[ VII,29 ] In questa sorta di breve memorandum Marco Aurelio ricorda a se stesso, tra altre cose, di disciplinare l’assenso alle rappresentazioni, l’impulso all’azione, il desiderio e l’avversione. Di particolare rilievo è il pressante invito alla diairesi tra ciò che è proairetico, che qui egli chiama ‘componente causale’ e ciò che è aproairetico, che egli chiama ‘componente materiale’. 

[ VII,30 ] È importante comprendere da quali cause basilari siano prodotti gli eventi. E noi sappiamo che anche per Marco Aurelio queste cause basilari sono quattro: Prònoia o Proairesi, Natura, Necessità, Fortuna.

[ VII,31 ] Vestiti di virtù.
Il filosofo cui la citazione si riferisce è Democrito.

[ VII,32 ] Il frammento ripropone le due prospettive che Marco Aurelio concepisce come radicalmente alternative: l’atomismo di Democrito ed Epicuro, che egli considera inaccettabile; e la visione stoica, che egli tende a colorare di un forte finalismo e di un intenso provvidenzialismo.

[ VII,33 ] Di dolore fisico acuto si può morire? Epicuro pensa di sì. E il dolore fisico cronico, che Epicuro giudica sopportabile, come va affrontato? 
Ricordiamoci che il dolore fisico è un’entità aproairetica e che proairetico è invece il giudizio che la proairesi ha di esso.
Ora, se la proairesi giudicasse il dolore fisico essere di per sé un bene, essa lo ricercherebbe attivamente, cosa che invece nessuna proairesi vediamo fare. Ma anche se lo facesse si tratterebbe di una aberrazione, in quanto la proairesi si sarebbe atteggiata in modo contrario alla natura delle cose, la quale stabilisce inviolabilmente che bene e male siano entità proairetiche e non oggetti esterni e aproairetici come il dolore fisico.
Se la proairesi giudicasse il dolore fisico essere di per sé un male, essa lo avverserebbe in ogni modo; ma anche in questo caso si tratterebbe di una aberrazione, in quanto la proairesi si sarebbe atteggiata in modo contrario alla natura delle cose, secondo la quale il dolore fisico è invariantemente un’entità aproairetica, non in esclusivo potere della proairesi: tant’è vero che essa vi è incappata suo malgrado.
Qual è allora l’atteggiamento della retta proairesi dinanzi al dolore fisico? A diairesi operata, ossia dopo avere correttamente giudicato che il dolore fisico non è né un bene né un male ma un ‘indifferente’, la proairesi ha il dovere di mantenere se stessa libera, infinita, inasservibile e insubordinabile; dunque ha il dovere di comandare all’antidiairesi di allontanare, secondo le circostanze e per quanto è possibile, un dolore fisico che esige per se stesso un’attenzione abnorme e che si propone niente meno che come agente limitante le caratteristiche naturali della proairesi. La retta proairesi fa dunque quel che può per allontanare il dolore fisico, senza trasformarlo in un motivo di paura e di afflizione (che sono proairetiche e male) né in noncuranza e trascuratezza (che sono anch’esse proairetiche e male). E lo fa con riserva, giacché sa che il successo in questa operazione non è in suo esclusivo potere. E quando l’opera dell’antidiairesi avesse fatto sparire il dolore fisico, la retta proairesi continuerebbe a serbare retti giudizi su di esso, senza inorgoglirsi e senza sentirsene per sempre al riparo. Quando invece fosse il dolore a sposarsi con la morte e ad avere il sopravvento, ebbene la retta proairesi farebbe vivere i suoi retti giudizi sulla morte e potrebbe salutare degnamente la fine della sua avventura con le parole che Socrate rivolgeva all’amico di una vita: ‘Critone, siamo debitori di un gallo ad Asclepio. Dateglielo e non ve ne dimenticate’.

[ VII,34 ] Proairesi che inseguono e fuggono cose aproairetiche ed in esse pongono il loro bene ed il loro male: una fama fatta di sabbia.

[ VII,35 ] In quanto entità aproairetiche, vita e morte non sono né un bene né un male.
Salvo un pronome ed un sostantivo, il frammento è la citazione testuale di un brano della ‘Repubblica’ di Platone nel quale Socrate, dialogando con Glaucone, spiega come gli uomini capaci di giungere all’apprensione di ciò che sempre permane invariabilmente costante siano filosofi di una filosofia, mentre coloro che non vi giungono ma vanno errando e si arrestano alla molteplicità del variabile siano filosofi di un’altra filosofia. 

[ VII,36 ] L’uomo che sa di bene operare non si duole di sentir parlar male di sé. Come tale, Marco Aurelio invita se stesso a non affliggersi delle maldicenze che corrono al suo riguardo.
Epitteto nelle ‘Diatribe’ cita le parole del frammento come parole che Antistene rivolge al persiano Ciro. 
Amico e compagno di Socrate, Antistene è la grandissima personalità filosofica cui possono essere fatti risalire i fondamenti del cinismo e, in un certo senso, dello stesso stoicismo.

[ VII,37 ] Quando Epitteto intendeva richiamare qualcuno alla verità che la nostra proairesi può atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente, gli diceva: ‘Se qualcuno ti imponesse di prostituire il tuo corpo al primo individuo che casualmente ti viene incontro, ne fremeresti. E che tu prostituisca la tua proairesi al primo che capita così che, se sarai ingiuriato, essa ne sia sconcertata e confusa: per questo non ti vergogni?’

[ VII,38 ] Il brano è un frammento dal ‘Bellerofonte’ di Euripide, e si può immaginare dedicato alle schiere dei combattenti contro i mulini a vento.

[ VII,39 ] Il frammento è tratto da un’opera di autore sconosciuto.

[ VII,40 ] Il frammento proviene dalla ‘Ipsipile’ di Euripide.

[ VII,41 ] Il frammento proviene dalla ‘Antiope’ di Euripide. 

[ VII,42 ] La citazione è un frammento di un’opera sconosciuta di Euripide.

[ VII,43 ] Il frammento proviene dall’opera di un autore sconosciuto. È comunque irresistibile la tentazione di intitolarlo: ‘Cent’anni di piagnistei’.

[ VII,44 ] Marco Aurelio cita parole di Socrate, come le riferisce Platone nella sua ‘Apologia’.

[ VII,45 ] Altre parole di Socrate, come le riferisce Platone nella sua ‘Apologia’.

[ VII,46 ] Anche per Socrate, la vita di per se stessa non è né un bene né un male.
Il frammento è una citazione proveniente dal ‘Gorgia’ di Platone.

[ VII,47 ] Soltanto il nitore della saggezza, simboleggiata dal moto ordinato dei corpi celesti e dalle regolari trasformazioni dei quattro elementi, è capace di ripulire la sudiceria prodotta dall’insipienza umana.

[ VII,48 ] Un invito a guardare le vicende umane dall’alto della natura delle cose e della diairesi.

[ VII,49 ] Quando si sia seguito l’invito del frammento precedente, cosa si potrà vedere domani più di quanto si sia visto oggi?

[ VII,50 ] Il frammento proviene dal ‘Crisippo’ di Euripide.

[ VII,51 ] Il primo frammento proviene dalla ‘Supplici’ di Euripide. Il secondo frammento è di autore ignoto.

[ VII,52 ] Colui che vince una competizione ha anche, per il semplice fatto di avere vinto, retti giudizi sulla vittoria? E se non li ha, pur avendo primeggiato ha perso la gara fondamentale e decisiva della saggezza e della virtù.

[ VII,53 ] Comune agli uomini e agli dei è la ragione. L’attività che ha libero corso ed è in armonia con la nostra struttura è la diairesi. Dall’uso della diairesi non può certamente venire alcun male.

[ VII,54 ] Giusti desideri ed avversioni, doverosi impulsi e repulsioni, retti assensi e dissensi. Così una proairesi è libera dinnanzi agli eventi, agli uomini ed a se stessa.

[ VII,55 ] La proairesi è una facoltà naturale nata per primeggiare poiché, avendo essa soltanto la conoscenza della natura delle cose, essa soltanto è in grado di disciplinare correttamente i desideri e le avversioni, gli impulsi e le repulsioni, gli assensi e i dissensi dell’uomo in vista del suo perseguimento della felicità.
Se è vero che l’uomo è finora l’unica creatura razionale esistente nel cosmo, è falso che il possesso della proairesi significhi per lui ‘ipso facto’ garanzia di felicità. E mentre tutti gli altri esseri viventi coniugano la loro assenza di proairesi con l’assenza del problema di essere felici o infelici, l’autoteoreticità dell’uomo gli lascia la possibilità di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente e dunque gli apre anche le porte dell’infelicità.
Lasciandosi scivolare lungo il piano inclinato della necessità di giustificare, innanzi tutto a se stesso, il proprio ruolo di ‘imperatore’ e non insensibile al canto delle Sirene che lo attorniano, Marco Aurelio colora a volte il suo stoicismo di un acceso finalismo provvidenzialistico e di un futile antropocentrismo, ripetendo luoghi comuni della scuola che forse non ha neppure ben capito. 
Marco Aurelio, infatti, dimentica o finge di dimenticare che gli uomini sono gli unici animali nel cosmo che si massacrano l’un l’altro a milioni e che, per fare soltanto un minimo esempio, le formiche, le api e i lupi sono animali molto più socievoli e socialmente organizzati dell’uomo. 
È persino stucchevole ricordare la mistificazione che si nasconde nel concetto di ‘bene comune’. La socievolezza dell’uomo, infatti, non consiste nel votarsi a perseguire un fantomatico e inesistente ‘bene comune’, che comunque sarebbe qualcosa di aproairetico e dunque non potrebbe neppure mai essere di per sè un ‘bene’. E neppure nel votarsi a scongiurare, perchè ‘male’, il fatto aproairetico che gli uomini si massacrino l’un l’altro a milioni. 
La socievolezza dell’uomo consiste nel riconoscere la libertà, infinità, inasservibilità, insubordinabilità delle proairesi altrui e nel salvaguardare con tali caratteristiche la propria. E la stessa manifesta impossibilità di eliminare universalmente l’uso della controdiairesi è semplicemente un altro modo per qualificare l’inesistenza del bene comune, così come l’impossibilità di annichilare la diairesi qualifica l’inesistenza del male comune.
Per comprendere fino in fondo cos’è in gioco, merita ascoltare al riguardo queste parole di Epitteto, che si possono benissimo immaginare rivolte ad un imperatore: “-Ma io posso far prendere a legnate chi voglio- Certo tu puoi farlo, come faresti prendere a legnate un asino. Sappi dunque che questo tuo comando non è un comando da uomo che comanda uomini. Comandaci invece come creature logiche, mostrandoci quanto è utile, e noi ti seguiremo. Mostraci quanto non è utile e noi ce ne distoglieremo. Fa di noi dei tuoi emuli, come faceva Socrate di sé. Socrate era colui che comandava gli uomini come uomini, poiché li invitava a subordinare ad essa, alla ragione, il loro desiderio, l’avversione, l’impulso, la repulsione. Tu invece dici: ‘Fa questo, non fare questo; se no, ti farò buttare in prigione’. Questo non è più comando di noi come creature logiche. Dì piuttosto: ‘Come Zeus ha costituito per natura delle cose, questo fa. Se non lo farai sarai punito, sarai danneggiato’. Chiedi quale sia il danno? Nessun altro se non quello di non fare quel che si deve. Infatti, avrai mandato in malora l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, il cittadino del mondo che è in te. E non cercare altri danni più grandi di questi”.

[ VII,56 ] Marco Aurelio ci confessa, forse addirittura esagerando, di avere finora vissuto come se fosse morto.

[ VII,57 ] Natura, fortuna, necessità e Prònoia intessono tutto ciò che di aproairetico avviene all’uomo. Ma anche la proairesi è una delle cause basilari del nostro destino.

[ VII,58 ] I casi della vita sono materiale per la nostra proairesi e una proairesi pervertita li trasforma inevitabilmente in male. Se anche tu vuoi fare così non hai che da accomodarti. La natura non ti frapporrà alcun impedimento, e sappi che non te lo frapporrà neppure se deciderai di trasformali in bene.

[ VII,59 ] La fonte del bene, come del male, è dentro l’uomo ed è la sua proairesi.

[ VII,60 ] Anche l’atteggiamento del corpo può rispecchiare lo stato della nostra proairesi.

[ VII,61 ] Le giuste competizioni alle quali, nel corso della vita, non dobbiamo rifiutarci di partecipare.

[ VII,62 ] Vuoi essere lodato dagli insipienti?

[ VII,63 ] L’aberrazione della proairesi è ignoranza della diairesi, di cos’è bene di cos’è male.
La citazione che apre il frammento è molto nota e proviene da Epitteto il quale, a sua volta, la mutua da Platone.

[ VII,64 ] Finché la facoltà proairetica non è compromessa, un qualunque intralcio del nostro corpo va correttamente giudicato come cosa aproairetica, e dunque non è un intralcio di proairesi.

[ VII,65 ] Le proairesi atteggiate diaireticamente praticano il retto uso delle rappresentazioni. Chi pratica il retto uso delle rappresentazioni si chiama ‘uomo’. Gli uomini sono ‘pace vivente’.
Le proairesi atteggiate controdiaireticamente praticano l’uso scorretto delle rappresentazioni. Chi pratica l’uso scorretto delle rappresentazioni si chiama ‘essere umano’. Gli esseri umani non possono che odiare e odiarsi a vicenda: essi sono ‘inimicizie viventi’. 

[ VII,66 ] Poiché i giudizi dai quali procedono i comportamenti delle persone non sempre si desumono facilmente dalle apparenze esterne, si può cautamente affermare di conoscere un uomo soltanto quando se ne conoscano a fondo i giudizi. 
In questo frammento Socrate e Telauge sono presi da Marco Aurelio a modelli emblematici del filosofo noto e del filosofo ignoto, al fine di rilevare che la notorietà non è indizio, e tanto meno prova, di eccellenza interiore.
Un filosofo di nome Telauge è effettivamente citato, come figlio di Pitagora, nelle ‘Vite dei filosofi’ scritte da Diogene Laerzio nel III° secolo d.C.
Le vicende della vita di Socrate sono troppo note per meritare ulteriori precisazioni.

[ VII,67 ] Anche se hai avuto la sventura di sedere su un trono imperiale, sembra dire Marco Aurelio a se stesso, ricorda che comunque continui ad avere la proairesi che la natura ti ha dato e che essa è libera, infinita, inasservibile, insubordinabile; mentre il trono su cui siedi è schiavo di ambizioni viziose e cortigiane, finito nei suoi confini, asservibile da ogni sorta di nemici, subordinabile da popoli più ricchi e potenti.
Tutti ti conoscono come imperatore e nessuno, spesso neppure tu stesso, ti riconosce per chi tu davvero sei.

[ VII,68 ] La proairesi umana è una delle quattro cause basilari degli eventi del cosmo ed è grazie al corretto uso di essa che l’uomo può essere felice in questa vita.
In questo frammento Marco Aurelio dettaglia il funzionamento della sua propria proairesi atteggiata diaireticamente davanti ad un evento esterno e aproairetico quale, ad esempio, le rabbiose urla di disapprovazione che gli sono rivolte contro da uno dei suoi più intimi collaboratori. Il processo è analizzato in tappe che soltanto per comodità di esposizione sono successive e che sono sommariamente, pur con qualche leggera imprecisione, riassumibili così.
Poiché nulla di ciò che è esterno ed aproairetico ha accesso diretto ad essa, innanzitutto la proairesi assume la rappresentazione di ciò che è esterno ed aproairetico e lo lavora fino a produrne una rappresentazione catalettica cui dà il proprio assenso (‘Avidio urla contro di me’). Immediatamente dopo, impiegando la diairesi, essa passa al retto uso della rappresentazione (‘le urla di Avidio non sono nulla per me, non sono né bene né male’) e decide se desideri o impulsi che scaturiscono da quel giudizio di assenso e dal responso della diairesi, implicano operazioni che sono in suo esclusivo potere (‘taccio’; ‘prendo la parola per spiegare perché Avidio si sbaglia’) oppure non sono in suo esclusivo potere (‘convincerò Avidio che si sbaglia’). Se sono in suo esclusivo potere essa le mette immediatamente in pratica. Se non sono in suo esclusivo potere essa formula, con riserva, quei i giudizi che chiamerà poi l’antidiairesi a mettere in pratica ove, quando, e come possibile.

[ VII,69 ] La retta proairesi sa essere felice, e dunque può fare di ogni giorno il nostro potenziale ultimo giorno.

[ VII,70 ] Quando gli dei decidono di punire gli insipienti non fanno altro che esaudirne i desideri. Come un dio, l’uomo che usa la diairesi sa sopportare coloro che non la usano.

[ VII,71 ] La diairesi ci dice che nostri vizi sono per noi cosa proairetica e dunque evitabili, mentre i vizi altrui sono per noi cosa aproairetica e dunque inevitabili.

[ VII,72 ] Anche per negare l’utilità della proairesi e delle sue opere ci sarebbe bisogno della proairesi.

[ VII,73 ] La proairesi è autoteoretica: dunque è essa stessa premio o punizione a se stessa. 

[ VII,74 ] Una retta proairesi accetta ben volentieri l’aiuto di un’altra proairesi, quando quest’ultima sia retta ossia non pretenda di diventare padrona della proairesi che aiuta. 

[ VII,75 ] Se la Prònoia, ossia l’egemonico del cosmo, fosse una entità irrazionale, non riuscirei a spiegarmi come mai io, Marco Aurelio, sono una creatura razionale.

*****

[ VIII,1 ] L’uomo può certamente vivere facendo a meno di molti oggetti esterni ed aproairetici, ma può vivere facendo a meno della proairesi? Ovviamente no, poiché ‘vivere’ è, in ogni caso e per qualunque uomo di qualunque cultura, sinonimo di uso della proairesi. Uso della proairesi è elaborazione di assensi, giudizi, desideri, impulsi, progetti, regole, visioni del mondo e così via; ossia approntamento e quindi traduzione nella pratica del vivere di tutto ciò che di proairetico è a questo fine pregiudiziale e indispensabile. Quale pratica del vivere? Quella che per l’uomo è bene e lo conduce alla felicità. E questa, sia detto chiaramente, non è altro che una delle possibili veraci definizioni di filosofia! 
Se dunque la filosofia è la ricerca e la pratica dell’arte di vivere bene e se per vivere comunque, bene o male, felicemente o infelicemente, bisogna necessariamente usare la proairesi; allora sono filosofi tutti gli esseri umani, anche coloro che non sanno o non credono di esserlo. Filosofi, tutt’al più, di filosofie differenti ma pur sempre filosofi, in quanto qualunque modo di vivere dell’essere umano, anche il più primitivo, il più biasimevole, il più rozzo, implica una teoresi.
Marco Aurelio è dunque cattivo filosofo e inganna se stesso quando afferma di essere ben lontano dalla filosofia. Egli non è lontano dalla filosofia, ma è filosofo di un’altra filosofia: una filosofia che egli afferma, con parole accorate, di disprezzare e di rifuggire ma della quale invece, nei fatti, egli è garante e custode. 
Si possono dunque intendere rivolte anche a lui le parole che Epitteto mette in bocca ad un vecchio canuto con alle dita molti anelli d’oro il quale, dopo avere guardato negli occhi un figlio adottivo ed avere scosso la testa, gli aveva detto: “Ascoltami, figliolo: si deve anche fare filosofia, ma si deve anche avere cervello: queste sono stupidaggini. Tu dai filosofi impari il sillogismo, ma cosa tu debba fare, lo sai meglio tu dei filosofi”. 
Il fatto è che i modi basilari in cui l’uomo può usare la proairesi non sono infiniti e non sono nemmeno pochi: sono soltanto due. Il primo è la diairesi, il secondo è la controdiairesi. Dunque tutte le teoresi e tutte le filosofie possibili possono essere fatte rientrare in una o nell’altra di queste due modalità filosofiche. 
Diventa così facilissimo e chiarissimo capire di cosa Marco Aurelio si lamenti, cosa sogni invano, cosa si rimproveri e rimpianga e riprometta.

[ VIII,2 ] La natura delle cose è inviolabile: gli uomini sono dotati di proairesi, le istituzioni non hanno e non possono avere proairesi. Ogni volta che un’istituzione incontra delle resistenze oppure le regole di due diverse istituzioni entrano in frizione, che ne è degli uomini delle istituzioni? Quando simili conflitti si verificano, basta qualche manciata di parole di propaganda, di slogan affannosamente consolatori? 
Si sa che presidenti, re e imperatori iniziano dal benessere e fanno inghirlandare e imbandierare i palazzi. Poi però, al terzo o quarto atto del dramma li senti gemere: ‘Ah, Citerone, perché m’accoglievi?’. Le corone sono sparite, le guardie del corpo non servono più a nulla.
Chi si avvicina ad un imperatore, un re, un presidente deve dunque sapere che si avvicina ad un personaggio tragico, non ad un attore ma ad Edipo in persona. Anche Edipo era ben lontano dal sapere di essere la causa della peste di Tebe. 

[ VIII,3 ] La differenza basilare tra Alessandro Magno, Cesare, Pompeo e Diogene, Eraclito, Socrate sta tutta nel fatto che, pur con sfumature diverse, gli ultimi tre sono filosofi della diairesi, mentre i primi tre sono filosofi della controdiairesi.

[ VIII,4 ] Com’è ben noto, nessuno può essere padrone della proairesi altrui.

[ VIII,5 ] Chi ormai conosce la natura umana, fa quel che essa richiede.

[ VIII,6 ] Il cosmo è in eterna trasformazione.

[ VIII,7 ] La natura umana esiste ed è tale che qualunque essere umano tende ad ottenere per sé ciò che giudica bello, giusto, buono ed a fuggire da quanto giudica per sé brutto, ingiusto, cattivo. Siamo pertanto autorizzati a definire la natura umana come una natura che tende alla felicità e non al suo contrario. E la proairesi centra questo fine quando conosce e rispetta la natura delle cose nei desideri e nelle avversioni, negli impulsi e nelle repulsioni, negli assensi e nei dissensi; lo fallisce quando ignora la natura delle cose.

[ VIII,8 ] Anche quando la lettura e lo studio ci sono impossibili, la nostra proairesi è pienamente attiva e funzionante.

[ VIII,9 ] Scrivendo queste parole circa le delizie della vita di corte, Marco Aurelio doveva certo avere sott’occhio queste altre di Epitteto: ‘Punto capitale: ricordati che la porta è aperta. Non essere più vile dei bambini ma come quelli, quando non gradiscono più una faccenda dicono: “Non giocherò più”; anche tu, quando certe cose ti paiano di quel genere, dicendo: “Non giocherò più”, allontanati. Se però rimani, non lamentarti’.

[ VIII,10 ] Il piacere fisico non è né un bene né un male, e dunque il saggio lo conosce, ne ha pratica ma non lo ricerca come un bene né lo fugge come un male.

[ VIII,11 ] Queste sono le domande che vanno rivolte a ciò che è proairetico ed a ciò che è aproairetico.

[ VIII,12 ] La retta proairesi si vede già dal mattino.

[ VIII,13 ] Quella che Marco Aurelio ripete qui è la classica tripartizione stoica della filosofia in: fisica, etica, logica.

[ VIII,14 ] Dimmi che giudizi hai e ti dirò chi sei.

[ VIII,15 ] Di che cosa ti sbalordisci? Di essere un uomo?

[ VIII,16 ] Libero è colui cui tutto accade secondo proairesi, quindi colui che sa anche correggere i propri errori. La libertà, infatti, è retto uso delle rappresentazioni, obbedienza alla natura delle cose; e nulla ha a che fare con il volere che succeda tutto quanto abbiamo reputato a casaccio, con la cieca ostinazione o con la follia.

[ VIII,17 ] L’afflizione è cosa proairetica e quindi in nostro esclusivo potere. Ed è tanto vizioso l’affliggersi e il biasimare quanto è virtuoso il cercare, con riserva, di correggere chi sbaglia o il suo errore. Ma se questo non è possibile, perché fare del male a se stessi affliggendosi?

[ VIII,18 ] Immortalità e trasformazioni del cosmo.

[ VIII,19 ] L’uomo non è nato né per godere nella carne né per aborrire di godere nella carne.

[ VIII,20 ] Come la semplice morte dell’uomo non è un male, così la sua semplice nascita non è un bene.

[ VIII,21 ] Soltanto grazie ad una retta proairesi l’uomo può sopportare la vita e il declino del proprio corpo.

[ VIII,22 ] Cosa accade se la virtù è un domani destinato a non arrivare mai?

[ VIII,23 ] Essere un uomo nel cosmo significa rispettare la natura delle cose.

[ VIII,24 ] La diairesi è come un bagno caldo che ci ripulisce di ogni bruttura.

[ VIII,25 ] Gli uomini passano su questa terra come le nuvole nel cielo; e questo paragone valga come un complimento sia per le nuvole che per gli uomini.
Lucilla e Vero sono la madre e il padre di Marco Aurelio. Massimo è il già citato Claudio Massimo e Seconda è, verosimilmente, la moglie. Epitincano e Diotimo sono personaggi ignoti. Antonino è Antonino Pio, padre adottivo di Marco Aurelio e Faustina è Faustina maggiore, zia di Marco Aurelio e moglie di Antonino Pio. Caninio Celere e Claudio Adriano sono due retori coetanei di Marco Aurelio. Carace, Demetrio ed Eudemone sono personaggi difficilmente identificabili con certezza. 

[ VIII,26 ] Cos’è peculiare dell’uomo?

[ VIII,27 ] Essere un uomo nel mondo.

[ VIII,28 ] Nulla di esteriore ha accesso, come tale, alla nostra proairesi. Se anche il dolore fisico fosse un male per il corpo, la sua traduzione in afflizione, che è cosa proairetica, non è però irriflessa ed automatica ma è operazione sulla quale la proairesi ha il più completo controllo. 

[ VIII,29 ] La retta proairesi ricorda continuamente a se stessa ciò che è in suo esclusivo potere e come utilizzare, con riserva e secondo il suo valore, ciò che non è in suo esclusivo potere.

[ VIII,30 ] La retta proairesi si muove dovunque con naturalezza, senza ricercatezze e senza sotterfugi. 

[ VIII,31 ] Viste con certi occhi -e sappiamo bene quali-, le vicende delle stirpi umane sono un unico, vero, immenso, continuo macello. 
Marco Aurelio cita come emblematici, in proposito, i lutti della famiglia dell’imperatore Augusto (63 a.C. – 14 d.C). I personaggi citati sono nell’ordine: la terza moglie Livia Drusilla; la figlia avuta dalla seconda moglie Scribonia, Giulia, che egli fece confinare a Ventotene per immoralità e che morì nel 14 d.C.; il nipote Marcello, figlio di sua sorella Ottavia e primo marito di Giulia, morto nel 23 a.C.; i nipoti Caio e Lucio, figli di Giulia e di Marco Agrippa, da lui adottati e che morirono nel giro di diciotto mesi: Caio in Licia nel 2 d.C. e Lucio a Marsiglia nel 4 d.C.; i figliastri Tiberio e Druso (morto nel 9 a.C.), figli di Livia Drusilla e del suo primo marito Tiberio Claudio Nerone; la sorella Ottavia, morta nell’11 a.C.; Marco Agrippa, morto nel 12 a.C.; Ario Didimo, filosofo della corte augustea e il celebre Mecenate, morto nell’ 8 a.C. 

[ VIII,32 ] Siccome la proairesi è la facoltà che usa le rappresentazioni, l’uomo è padrone assoluto unicamente dei propri giudizi e di quanto da quei giudizi discende. 
Non si possono non ricordare qui le parole di Epitteto in proposito: ‘Vengo dunque da questo interprete e sacrificatore e gli chiedo: “Esaminami le viscere, dimmi cosa mi significano”. Allora lui le prende, le sbroglia e poi mi spiega: “Uomo, tu hai una proairesi per natura non soggetta ad impedimenti e non soggetta a costrizioni. Qui, nelle viscere, questo vedo scritto. Te lo farò capire innanzitutto nell’ambito dell’assenso. Può qualcuno impedirti di dire di sì a ciò che è vero? Nessuno lo può. Può qualcuno costringerti a dire di sì a ciò che è falso? Nessuno lo può. Vedi dunque che in questo ambito ciò che è proairetico non è soggetto ad impedimenti, non è soggetto a costrizioni, è senza impacci? Orsù, e le cose stanno diversamente nell’ambito del desiderio e dell’impulso? Chi può vincere un impulso se non un altro impulso? Chi un desiderio ed un’avversione se non un altro desiderio ed un’altra avversione?” Ma qualcuno dice che se uno mi minaccia di morte, io sono costretto ad ubbidire e non sono più libero. “Non è la minaccia a costringerti e a toglierti la libertà, ma è il giudizio che tu reputi meglio fare quel che ti viene imposto invece che morire. Dunque a costringerti è stato il tuo giudizio; ossia è stata la tua proairesi che ha costretto se stessa. Questo è scritto nelle tue viscere e questo è il suo significato. Se lo disporrai sei libero. Se lo disporrai non biasimerai nessuno, non incolperai nessuno, tutto accadrà secondo l’intelligenza insieme tua e di Zeus’. 
Ecco il piano della natura, ecco quanto è scritto nel DNA umano.

[ VIII,33] Questa è la regola d’oro e queste sono le parole di Epitteto alle quali Marco Aurelio si riferisce in questo frammento: ‘E qual è la legge divina? Serbare il peculiare e non pretendere ciò che è allotrio, ma usare quanto ci è dato senza bramare quanto non ci è dato. Quando ci sia sottratto qualcosa, restituirlo con scioltezza ed immediatamente, riconoscenti per il tempo dell’uso, se decidiamo di non ridurci a invocare la balia e la mamma’. 

[ VIII,34 ] Gli arti mozzati dei Quadi e le teste mozzate dei Romani non hanno più la possibilità di essere riattaccati al corpo. 
La proairesi dell’uomo, invece, può atteggiarsi secondo diairesi oppure secondo controdiairesi e passare liberamente dall’una all’altra.

[ VIII,35 ] Ragione e proairesi sono capacità insite nella Materia e che da essa scaturiscono. E come la natura ingloba e comprende tutto ciò che esiste, la proairesi riesce a fare di ogni apparente impedimento, materiale per il raggiungimento del fine verso cui si muove. 

[ VIII,36 ] Le difficoltà, le fatiche, le sfide dell’esistenza sono sopportabili se la proairesi si rende conto di essere superiore ad esse. 

[ VIII,37 ] Non rifiutare di vivere, accampando la scusa che non sei immortale e che sei destinato a diventare putredine.
Pantea potrebbe essere il nome di una concubina di Lucio Vero. Pergamo, Cabria e Diotimo potrebbero essere nomi di liberti. 

[ VIII,38 ] Anche la putredine è secondo natura, e dalla cosiddetta putredine scaturisce anche la proairesi.

[ VIII,39 ] Parlando dell’incoerenza degli esseri umani nei loro giudizi circa beni e mali, Epitteto afferma che essi ammettono facilmente certi loro difetti, mentre altri non li ammettono facilmente. Per esempio nessuno ammette di essere stolto o ingiusto, ma ammette facilmente di essere timido o geloso perchè immagina che vi sia in ciò qualcosa di involontario. 
Ora, se la giustizia è una virtù, ogni virtù è bene; e un bene non può contraddire un altro bene. Il piacere fisico, invece, non è una virtù, ma qualcosa che non è né bene né male, un materiale lavorando il quale la proairesi potrà centrare il proprio bene o il proprio male.

[ VIII,40 ] Il dolore fisico è cosa aproairetica. L’afflizione è cosa proairetica. Essere o non essere proairesi? Questo è il problema. 

[ VIII,41 ] Nei vegetali e negli animali privi di ragione hanno continuamente luogo miriadi di stimoli e controstimoli del tutto aproairetici che provocano reazioni organiche o spingono l’organismo a soddisfare determinate necessità fisiologiche. Marco Aurelio, usando la figura retorica dell’iperbole, chiama ‘male’ per la natura tutto ciò che è capace di intralciare tali stimoli e controstimoli, dimenticando di avere invece già ribadito più volte che bene e male esistono soltanto nella proairesi dell’uomo. Fuori di retorica, dunque, tutto ciò che è capace di intralciare tali stimoli e controstimoli può essere considerato come un impedimento non, si badi, della natura vegetale o animale ma del funzionamento fisiologicamente ordinario di quel certo specifico vegetale o animale. 
Non vi è differenza alcuna tra l’uomo e gli altri esseri viventi quanto ai suddetti stimoli e controstimoli. Essi continuano ad essere del tutto aproairetici anche nell’uomo e sono alla base della sua sopravvivenza: si pensi soltanto, per esempio, al sofisticatissimo ed autonomo controllo del ritmo cardiaco di base, della frequenza del respiro, e così via.
L’uomo è però un animale dotato di ragione, proairetico. Questo significa che tutta una serie di stimoli aproairetici, come il piacere e il dolore fisico, attraverso i sensi diventano materiale per sua la proairesi, la quale è dotata per natura della capacità di elaborare giudizi su di essi. Sono questi giudizi che danno poi luogo a impulsi all’azione, a desideri e così via, ossia a tutta quella gamma di attività proairetiche cui continuamente Marco Aurelio fa riferimento. 
Due sono, infine, le caratteristiche della proairesi che egli sottolinea in questo frammento e che sono anche le fondamentali. La prima è la sua assoluta autoteoreticità ossia il fatto che soltanto essa può intralciare se stessa; la seconda, la sua capacità di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente. 

[ VIII,42 ] La mia afflizione, comincia correttamente Marco Aurelio, è qualcosa in mio esclusivo potere, è proairetica, dipende esclusivamente da me, non può essere causata da nulla di aproairetico. Poi immediatamente dopo afferma di poter essere, lui, causa dell’afflizione altrui; come se l’afflizione, dunque, non fosse più qualcosa di proairetico ma qualcosa di aproairetico. È un po’ come se l’imperatore proclamasse con sussiego: ‘La virtù è proairetica perché è aproairetica’, e ai suoi sudditi toccasse il compito di sviscerare la profondità del pensiero sulla base del pregiudizio che un imperatore non può dire delle castronerie.
Il frammento appare dunque come una specie di sconclusionato ossimoro che Marco Aurelio, in un momento di scarsa padronanza delle sue facoltà logiche oppure semplicemente in vena di figure retoriche, mette insieme contraddicendo nella seconda parte quello che ha affermato nella prima.
Sia detto con buona pace di tutti coloro che ancora non lo credono oppure credono il contrario: si può mettere al mondo, salvare la vita o uccidere qualcuno, ma è impossibile fargli del bene o del male e dunque tanto meno causargli felicità o afflizione.

[ VIII,43 ] Felicità non è il possesso di un qualunque oggetto esterno ed aproairetico ma una proairesi rettamente operante.

[ VIII,44 ] E’ desiderabile la mia fama presso i posteri a scapito della mia felicità nel presente?

[ VIII,45 ] Questa sorta di minidiscorso dell’Areopago dell’uomo libero si rifà certamente al seguente brano di Epitteto: “O uomo sii demente ormai, come si dice, per la serenità, per la libertà, per la magnanimità. Drizza una volta il collo come allontanato dalla servitù; abbi l’audacia di levare lo sguardo a Zeus e dire: orbene, usami per quanto disporrai; cointelligo con te; sono tuo pari; nulla schivo di quanto reputi; dove disponi, conduci; del vestito che disponi, cingi. Disponi che io occupi cariche, sia un privato cittadino, rimanga, vada in esilio, sia povero di denaro, sia ricco di denaro? Per tutto questo io parlerò in tua difesa di fronte alle genti; mostrerò qual è la natura di ciascuna cosa”. 

[ VIII,46 ] Epitteto dice chiaramente che per l’uomo c’è qualcosa di insopportabile: ‘Per la creatura logica, insopportabile è ciò che è irragionevole’. 
E cos’è irragionevole? Tutto ciò che contraddice se stesso. Può qualcosa di aproairetico contraddire se stesso? Non può, giacché neppure può semplicemente contraddire. Tutto ciò che di aproairetico accade all’uomo può dunque essere conflittuale ma mai contraddittorio. Pertanto esso è pur sempre sopportabile, fino alla morte. 
Ciò che è proairetico, invece, può essere contraddittorio e irragionevole. Salvo l’essere, proprio per questo, insopportabile per la proairesi, la quale non ha per natura la possibilità di fermarsi al bivio ma deve sempre sciogliere, e sempre scioglie, la contraddizione scegliendo l’alternativa che giudica per sé, magari aberrando, ragionevole e non contraddittoria. 
Se al bue, alla vite e alla pietra non possono dunque accadere contraddizioni, all’uomo esse possono accadere e sono per lui insopportabili; mentre anche per lui, come per il bue, la vite e la pietra, le avversità aproairetiche sono sopportabili. 

[ VIII,47 ] Se la nostra proairesi usa la diairesi e dunque distingue ciò che è in suo esclusivo potere da ciò che non lo è, le avversità aproairetiche sono e rimangono avversità aproairetiche. Se invece la proairesi usa la controdiairesi, dimentica di avere in proprio esclusivo potere i giudizi su ciò che è aproairetico e pronuncia così giudizi inadeguati sulla natura delle cose, essa trasforma inevitabilmente se stessa in afflizione ed infelicità.

[ VIII,48 ] Che la proairesi sia autodeterminativa è attestato anche dal fatto che essa può disporsi contro la natura delle cose e dunque, in un certo senso, contro se stessa quando sceglie di atteggiarsi controdiaireticamente. Alla proairesi è permesso aberrare in questo modo proprio perché essa è libera, infinita, inasservibile e insubordinabile da tutto ciò che le è esterno. 
Vale per la proairesi dell’uomo quello che valeva per la città di Ilio assediata dagli Achei: essa è sempre e comunque un’acropoli inespugnabile dall’esterno.

[ VIII,49 ] Le rappresentazioni cui dare il nostro assenso sono, come sappiamo, le rappresentazioni catalettiche. Le rappresentazioni cui negarlo sono quelle che la proairesi aggiunge di suo impropriamente, giacché non corrispondono a nulla di obiettivo se non alla possibilità della proairesi stessa di atteggiarsi controdiaireticamente, ossia di scotomizzare la diairesi tra ciò che è in suo esclusivo potere e ciò che non lo è. Quest’ultima operazione, com’è noto, è all’origine di tutte le passioni e di tutti i vizi.

[ VIII,50 ] La natura è onnicomprensiva, non ha nulla al di fuori di sé e dunque nulla, assolutamente nulla, può essere contro natura.

[ VIII,51 ] La nostra proairesi è una sorgente perenne di acqua pura quando riconosca se stessa per quello che è per natura: una facoltà capace di lavorare con arte e di trasformare in virtù qualunque materiale le venga sottoposto.

[ VIII,52 ] C’è qualcuno qui che applaude?

[ VIII,53 ] Ti ripeto la domanda: vuoi essere lodato dagli insipienti?

[ VIII,54 ] Paragonando l’aria alla Prònoia che pervade il cosmo e che egli vede dappertutto, Marco Aurelio invita a cointelligere con la mente della Materia Immortale così come respiriamo l’aria che ci circonda.

[ VIII,55 ] Sul frontone del tempio di Apollo a Delfi era scritto: ‘Riconosci te stesso’. 
Riconoscere se stessi significa riconoscere che il cosmo è immune da qualunque bene e da qualunque male, giacché essi non esistono altro che nella proairesi degli esseri umani. 
La proairesi, pertanto, non può fare del male o del bene né al cosmo né ad un’altra proairesi ma soltanto ed unicamente a se stessa.

[ VIII,56 ] Abbiamo già avuto modo di notare che Marco Aurelio definisce l’essere umano come la sintesi di tre componenti: una componente corporea risultante di terra e di acqua, una componente pneumatica derivata dall’aria e dalla quale risultano tutte le funzioni animali, e una componente proairetica derivata dal fuoco e che qualifica l’uomo come finora unico essere razionale nel cosmo. 
La natura delle cose, inoltre, inviolabilmente dispone che nessuna proairesi possa essere padrona della proairesi altrui e che soltanto in questa stiano il bene ed il male. Dunque nessuno è signore né di procacciarmi il bene né di precingermi del male, ma io solo ho potestà su di me a questo riguardo.

[ VIII,57 ] Le caratteristiche della luce del sole che permea e riscalda la nostra atmosfera sono avvicinate da Marco Aurelio a quelle della Prònoia che permea e dà le sue leggi al cosmo. 
L’etimologia che Marco Aurelio dà della parola ‘raggi’ è comunque errata.

[ VIII,58 ] La morte, essendo un evento aproairetico come la nascita, non è né un bene né un male e, come tale, non va né desiderata né temuta.

[ VIII,59 ] Cosa siete venuti al mondo a fare? 

[ VIII,60 ] Il volo della freccia e il volo della mente tendono sempre ad un obiettivo.

[ VIII,61 ] Mostrami i tuoi giudizi e ti dirò chi sei. Guarda i miei giudizi e capirai chi sono.

*****

[ IX,1 ] Nella natura non esistono contraddizioni di sorta ma soltanto contrasti, contrarietà, conflitti, opposizioni reali. Così il dolore non contraddice il piacere ma è altra cosa, opposta ad esso. La morte non contraddice la vita ma è il suo contrario; il dolce non contraddice l’amaro né il ruvido il liscio, tant’è vero che due qualità opposte non possono coesistere allo stesso tempo nella medesima entità.
Neppure esiste nella natura qualcosa che possa essere chiamato falso, in quanto la sua mera esistenza fa di esso un ente la cui verità è per ciò stesso automaticamente e intrinsecamente qualificata. La natura fa dunque soltanto cose vere e, considerata come la più comprensiva e primigenia delle divinità, può essere chiamata Verità e fonte di ogni Verità.
Se essa fa soltanto cose vere, saranno altrettanto naturali e veri tanto il dolore che il piacere, il freddo ed il caldo ed ogni altra sorta di opposti, che saranno da considerarsi per natura equivalenti e da porsi sullo stesso piano.
Della natura fa parte anche l’uomo, che essa ha generato vero come qualunque altra sua opera. All’uomo la natura ha però dato qualcosa che, per quanto è finora a nostra conoscenza, non ha dato a nessun’altra creatura: la comprensione dell’uso delle rappresentazioni ovvero la proairesi, la capacità di distinguere il bene dal male, la possibilità di essere felice oppure infelice.
Comunque l’uomo usi la sua proairesi, evidentemente quest’uso sarà sempre, per definizione, naturale e non potrà mai essere contrario a natura. Se, infatti, questo fosse possibile, significherebbe che la natura ha generato qualcosa che natura non è più, ossia che l’uomo non è più parte della natura che l’ha generato: il che è assurdo. 
È grazie alla proairesi fornitagli dalla natura che l’uomo è capace di riconoscere, nell’ambito dell’unico tutto da essa rappresentato e del quale egli è parte, un fatto empirico, constatabile, evidente: l’esistenza di due classi di cose. La prima classe è rappresentata dall’insieme di tutti quegli enti, come il corpo, che non sono in suo esclusivo potere. La seconda dall’insieme di tutti quegli enti, come i giudizi, che sono invece in suo esclusivo potere. Della prima classe fa parte tutto ciò che è aproairetico. Della seconda classe tutto ciò che è proairetico.
Questa bipartizione fondamentale delle cose, questa diairesi che le suddivide in due classi distinte e distintamente riconoscibili è naturale, è scritta nelle cose, è completamente indipendente dalla proairesi umana e la nostra proairesi ha soltanto la capacità di riconoscerla ma nessuna capacità di modificarla.
Questa struttura empiricamente vera della natura, così come essa si presenta alla proairesi umana può essere allora correttamente chiamata ‘natura delle cose’. La Verità della natura appare alla proairesi umana come esistenza della ‘natura delle cose’ e questa può essa stessa essere chiamata Verità. 
È in relazione a questa verità, ossia alla natura delle cose, che l’uomo può disporsi in armonia oppure in contrasto; mentre qualunque atteggiamento l’uomo prenda esso sarà sempre e comunque in armonia con la natura. È in relazione alla natura delle cose che l’uomo prende, e non può non prendere, ogni istante posizione; che egli vive la sua virtù e il suo bene quando è in armonia con essa e la sua viziosità e il suo male quando è in contrasto con essa. 
Siccome la natura è onnicomprensiva, diairesi e controdiairesi, virtù e vizio, giustizia e ingiustizia, menzogna e sincerità e insomma qualunque altra coppia di opposizioni possibili sono pienamente naturali. E siccome la natura delle cose non è neppur minimamente in nostro potere ed è per noi inviolabile, l’uomo può commettere i peggiori misfatti e nutrire le viziosità più perverse nella più completa e totale indifferenza, al riguardo, della natura e della natura delle cose, le quali proseguono imperterrite il loro cammino assorbendo e metabolizzando qualunque iniziativa umana.
L’ingiustizia e la menzogna, per fermarci ai primi due casi che Marco Aurelio cita nel frammento, sono empietà perché sono entrambe forme della negazione dell’esistenza della natura delle cose; poiché equivalgono a giudicare ed operare come se fosse in mio esclusivo potere ciò che in mio esclusivo potere non è, oppure come se non fosse in mio esclusivo potere ciò che invece è in mio esclusivo potere.
È soltanto l’uomo, e non la natura, a subire il contraccolpo della propria negazione della natura delle cose. Questo contraccolpo ha un nome: contraddizione. E contraddizione è sinonimo di aberrazione, passione, schiavitù, infelicità.
Medea entrò in contraddizione con se stessa perchè voleva Giasone ma contemporaneamente non voleva Giasone sposo di Glauce e re di Corinto. Limitandoci al caso specifico, Giasone invece non era in contraddizione con se stesso perché voleva Medea così com’era, donna e madre dei suoi figli. Le contraddizioni sono esclusivamente interne alla testa degli uomini, sono individuali e sono insopportabili. Credere che qualcosa sia contemporaneamente e nei medesimi riguardi giusto e ingiusto è impossibile. Epitteto al riguardo è, come al solito, chiarissimo quando afferma che volere in violazione della natura delle cose è ignorare di disporre così la propria infelicità, giacché ogni aberrazione dell’essere umano include una contraddizione. Chi aberra, infatti, non ha l’intenzione di aberrare ma di avere successo: dunque è manifesto che egli non fa ciò che vuole. Cosa vuole infatti effettuare il ladro? Il proprio utile, che egli identifica col rubare: ma rubare è appunto una forma di negazione dell’esistenza della natura delle cose. E dunque se rubare non gli è utile, non fa quanto vuole. La contraddizione è per natura delle cose invisa ad ogni animo razionale, ma finché questo non comprenderà di essere in contraddizione, nulla impedisce che faccia cose contraddittorie. Ma comprendendolo, è del tutto necessario che si distorni dalla contraddizione e la fugga; così com’è amara necessità per chi si accorge che una cosa è falsa, dissentire dalla falsità. Finché però non lo immagina, le assentirà come ad una cosa vera.

[ IX,2 ] L’ignoranza delle cause della peste uccide uomini e animali. Vi è una peste che uccide la proairesi e lascia l’uomo in vita: si chiama controdiairesi o ignoranza o negazione della natura delle cose. 
Quando la proairesi abbia raggiunto la sua maturità fisiologica e l’essere umano abbia quindi appreso l’esistenza della natura delle cose, della diairesi e della controdiairesi, bisogna immaginare l’esistenza umana come composta da tante cellule di vita più o meno piccole i cui confini temporali sono segnati dai più diversi ed imprevedibili eventi aproairetici e che sono qualificate al loro interno, nella loro durata, dall’atteggiamento che vi ha assunto la proairesi. Se la proairesi vi ha assunto un atteggiamento diairetico si tratta di cellule virtuose, mentre se la proairesi vi ha assunto un atteggiamento controdiairetico si tratta di cellule viziose.
Ciò che Marco Aurelio si auspica in questo frammento è che tutte le cellule di vita siano virtuose. Ma è facile vedere che ciò, se non impossibile in astratto è però praticamente impossibile. Sarebbe come auspicare che tutti i pezzi di ferro fossero calamite o che al mondo non esistessero gli insipienti. Non è dunque né contro natura né decisivo il fatto che anche il saggio entri a volte in cellule di vita da stolto: l’importante è che la proairesi dell’uomo conservi la naturale qualità di spostarsi il più rapidamente possibile dalla controdiairesi alla diairesi e qui rimanga finché gli è possibile e dato. 
Come la Sfinge pose ad Edipo la domanda rispondendo alla quale Edipo divenne re di Tebe e la Sfinge perì, così ogni cellula di vita pone sotto forme nuove e diverse sempre la stessa domanda, sapendo rispondere correttamente alla quale l’uomo diventa padrone di se stesso, almeno fino al prossimo errore.

[ IX,3 ] Come è stato già più volte ribadito, la morte è un evento del tutto naturale al pari della nascita, della crescita, della maturità della proairesi. La proairesi matura e retta non brama la morte e non la giudica un bene, così come non la aborre e non la giudica un male. Le proairesi di quasi tutti coloro che Marco Aurelio ha intorno la giudicano invece un male e si comportano in conseguenza. La compagnia di queste persone non è quella che si chiamerebbe la più auspicabile e il separarsi da loro con la morte non sarà un evento che si tingerà di rimpianto.

[ IX,4 ] Poiché bene e male sono giudizi e i giudizi sono entità proairetiche, l’uomo può fare del male soltanto a se stesso, non certo alla natura né ad un altro individuo.

[ IX,5 ] Chi capisce che omettere un’azione non è un ‘non fare’ ma il farne un’altra capirà anche facilmente quanto sia insensato omettere di farsi del bene.

[ IX,6 ] Di cosa c’è bisogno? C’è bisogno di un assenso, di un impulso, di un desiderio in accordo con la natura delle cose, quale soltanto la retta proairesi sa fornire all’uomo.

[ IX,7 ] La proairesi è signora assoluta dei nostri desideri, dei nostri impulsi e dei nostri assensi.

[ IX,8 ] L’unità del cosmo.

[ IX,9 ] Tutto ciò che partecipa di una comune natura ha la potente tendenza a riunirsi con ciò che gli è congenere. Così fa ciascuno dei quattro elementi e così fanno tutte le forme di vita, uomo compreso. 
Siccome però la proairesi è una formidabile facoltà umana che ha tuttavia la caratteristica di essere a doppio taglio, in quanto può atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente, questa tendenza coesiste nell’uomo con una tendenza opposta ad allontanarsi dai suoi simili. 
Notevole, nel frammento, è la spiegazione della combustione con la nota teoria chimica del ‘flogisto’, che avrà corso fino al tardo Medio Evo e oltre.

[ IX,10 ] Mentre sono altri a fruire dei frutti dei vegetali, il frutto della proairesi è fruito dalla proairesi stessa, in quanto capace di rendere se stessa tale quale decide di essere. Questo vale per il cosmo, ossia dio, su scala generale; e per l’uomo, come parte del cosmo, su scala individuale.

[ IX,11 ] La retta proairesi ha in se stessa le risorse per fronteggiare qualunque situazione ed essere pace vivente. 
Allo stesso tempo bisogna aver chiaro che se la proairesi non è rettamente atteggiata essa si è gia comunque punita da se stessa, in quanto infelice per non essere riuscita a soddisfare i propri desideri. 
E va anche ricordato che essa sarebbe comunque altrettanto infelice pur se gli dei ne avessero esaudito i desideri, in quanto non avrebbe retti giudizi su ciò che ha ricevuto e quindi ne farebbe un uso aberrante. 

[ IX,12 ] Augia aveva una sterminata ricchezza di greggi e di armenti ed Eracle ebbe da Euristeo l’ordine di ripulire in un solo giorno le stalle di Augia dalla enorme quantità di letame che vi si era accumulata. Cosa che egli, come il mito racconta, riuscì a fare; e l’impresa è annoverata come una delle dodici fatiche di Eracle. 
L’impresa cui Marco Aurelio si era assoggettato, ossia quella di ripulire almeno parzialmente l’impero dall’immensa quantità di merda che lo ricopriva, era impossibile e non ebbe successo. Perciò potrebbe ben essere chiamata ‘la tredicesima fatica di Eracle’. 

[ IX,13 ] Dove stanno di casa le circostanze difficili? Esse non stanno fuori della proairesi ma dentro di essa, nel giudizio che quelle circostanze siano difficili.

[ IX,14 ] Che cosa mi sia trovato davanti e che odore abbia sentito quando ho aperto la porta dell’impero, lo lascio dire a voi.

[ IX,15 ] Le cose esterne ed aproairetiche non parlano mai da sole. È la proairesi dell’uomo che mette loro in bocca le parole.

[ IX,16 ] Passività è per Marco Aurelio sinonimo di cose esterne e aproairetiche; attività sinonimo di cose proairetiche ossia in nostro esclusivo potere. Bene e male dell’uomo, dunque, sono entità proairetiche.

[ IX,17 ] È evidente, è solare che per tutto ciò che è aproairetico non esistono né bene né male.

[ IX,18 ] Tutti gli insipienti sono esseri che hanno reso se stessi vili, schiavi, infelici. Perché, dunque, temere il giudizio di chi non sa rettamente giudicare né gli altri né se stesso?

[ IX,19 ] Il cosmo, come è già stato spesso ribadito, è in perenne trasformazione; e il corpo stesso dell’uomo vivente è in continua distruzione e ricostruzione.

[ IX,20 ] Un ordine morale in cui un individuo faccia il male e sia un altro, che non vi ha alcuna responsabilità, a subirlo è inconcepibile.

[ IX,21 ] Non la morte, ma il giudizio che la morte sia qualcosa di male e di terribile: questo è il male terribile.

[ IX,22 ] 10, 100, 1000 egemonici congeneri e parti dell’unico cosmo. 
La proairesi incline alla giustizia è ovviamente quella atteggiata diaireticamente. Pare altrettanto ovvio che la proairesi sia ignoranza se atteggiata controdiaireticamente e sia invece intelligenza se atteggiata diaireticamente.

[ IX,23 ] Quanto all’essere animali proairetici, ossia capaci di diairesi e di controdiairesi, non v’è alcuna differenza tra un imperatore e un comune cittadino. Ma non vi è alcuna differenza tra di essi anche per quanto attiene alle loro funzioni fisiologiche e quindi quanto all’essere produttori di escrementi. Una data società composta da un dato numero di individui produrrà mediamente una data quantità di escrementi in un dato tempo. 
Epitteto dedica un intero capitolo delle ‘Diatribe’ alla ‘pulizia’ del naso, dei piedi, dei denti, della pelle e così via per far comprendere come la produzione di escrementi sia normale, inevitabile e vada correttamente giudicata, in quanto aproairetica, come né un bene né un male; e come sia altrettanto doveroso, e dunque proairetico, trattarla in modo razionale, senza eccentricità e senza stravaganza, per fare opera da uomo e non infastidire gli altri uomini. Sono dunque aberrazioni tanto la coprofilia quanto la coprofobia. 
La metafora escrementizia è particolarmente adatta a far comprendere cosa siano in realtà il sistema politico e la vita politica, nella quale sono sempre ed esclusivamente in gioco entità proairetiche come giudizi, ambizioni, programmi, progetti e così via. Infatti, se è vero, com’è vero, che non v’è differenza alcuna tra cittadini qualsiasi e imperatore quanto a capacità proairetica e se è altrettanto vero che il ‘male’ è l’uso scorretto delle rappresentazioni e dunque l’atteggiamento controdiairetico della proairesi, sarà anche vero che la quantità di male e di bene in una data società sarà altamente variabile in funzione del numero delle proairesi impegnate nella controdiairesi e nella diairesi e del rilievo relativo che i giudizi di proairesi diverse, con il loro esempio, possono avere sul funzionamento del sistema politico. 
Limitiamoci a considerare unicamente l’uso della controdiairesi e lasciamoci ancora guidare nell’analisi da Epitteto: ‘Ma non troveresti l’impurezza dell’animo visibile come quella del corpo, poiché quale altra impurezza dell’animo troveresti se non quanto lo fa sozzo nelle sue opere? Ora, opere dell’animo sono impellere, repellere, desiderare, avversare, prepararsi, progettare, assentire. Cos’è mai, dunque, che procura un animo sozzo ed impuro in queste opere? Null’altro che le sue determinazioni depravate. Sicché impurezza dell’animo sono i malvagi giudizi, mentre è purificazione l’infusione di giudizi quali devono essere. Puro è l’animo che ha giudizi quali deve, giacché soltanto questo è senza confusione e sudiciume nelle proprie opere’. 
È evidente, e non richiede più spiegazioni del sorgere del sole, il fatto che in qualunque società una percentuale variabile di proairesi saranno comunque sempre atteggiate controdiaireticamente. Bisogna dunque trovare innanzitutto pace nel giudizio che il male e le aberrazioni, sotto le forme più varie, sono realtà socialmente ineliminabili. Male che comunque ciascun cittadino fa a se stesso. Ma mentre fa quel male a se stesso, il cittadino, nel medesimo momento, produce qualcos’altro, ossia delle azioni, le quali sono entità aproairetiche per coloro che gli stanno intorno, e questi sono a loro volta necessariamente obbligati a tenerne conto. 
Queste azioni sudice, in quanto derivanti da giudizi aberranti e depravati, sono gli escrementi della metafora. 
Bene sarà allora il giudizio che ci spinge a fare un certo uso di questi escrementi, rimanendo in terreno diairetico col seppellirli senza toccarli e lasciando che la natura li conduca al loro destino. Male sarà il giudizio che ci spinge a cibarcene, ossia l’atteggiare controdiaireticamente la nostra proairesi e pascere a nostra volta altri individui, stabilendo così quella catena magica di merda che si chiama comunemente sistema politico e vita politica. Sistema politico e vita politica i quali, travestiti, truccati, occultati nella loro essenza e propagandati come appetibili, non possono che condurre necessariamente, prima o poi, alla guerra civile, alla guerra fra nazioni, a inevitabili stermini di massa.
Di quale fine socievole, infatti, si può parlare per l’uomo se questo fine non è un fine riferito al rispetto della natura delle cose e alla libertà della proairesi? Soltanto il cittadino che si appropria di colui che l’uomo è davvero per natura delle cose ha fatto l’azione più socialmente utile che si possa fare. 
Un sistema politico sano è dunque quel sistema politico in cui vi è da parte dei cittadini un uso di massa della diairesi, un’assunzione di responsabilità individuale a livello molecolare, una difesa della libertà della proairesi a qualunque prezzo e che pertanto necessita anche di un ridotto, anzi ridottissimo, numero di ‘leggi’. Soltanto in questo modo la produzione di escrementi è contenuta entro limiti ragionevoli. 
Un sistema politico è, ovviamente, malato e inquinato quando accade il contrario, e coloro che hanno poteri e responsabilità più ampie dei comuni cittadini operano attivamente per moltiplicare invece che per diminuire la quantità degli escrementi prodotti: moltiplicazione che Marco Aurelio, in questo frammento, si augura, forse invano, di poter scongiurare.

[ IX,24 ] L’evocazione dei morti e la pratica della controdiairesi.

[ IX,25 ] Nel sonno la nostra proairesi è spenta.

[ IX,26 ] È impossibile non pagare il prezzo che la controdiairesi esige.

[ IX,27 ] La verace e virtuosa benevolenza consiste appunto nel fare presente agli insipienti il lezzo che le loro proairesi emanano. 
Quanto agli dei, quando essi decidono di punire gli insipienti non fanno altro che esaudirne i desideri.

[ IX,28 ] I mutamenti continui e incessanti cui il cosmo e le sue creature vanno soggetti non sono altro che ondate successive di trasformazioni dell’unica Materia Immortale che lo sostanzia. 
Di fronte a questa evidente realtà, la domanda che Marco Aurelio sempre si pone è la seguente: “Questo mutamento è guidato da un egemonico oppure risulta dalla pura casualità dei movimenti degli atomi?”. 
Si tratta, come sappiamo, della classica alternativa tra la prospettiva finalistico-provvidenzialistica e quella materialistico-meccanicistica; e sappiamo anche che Marco Aurelio rifiuta la seconda, propria di Democrito e di Epicuro, in quanto gli riesce impossibile immaginare che qualunque moto non abbia una causa, che la materia organica derivi da quella inorganica e che la mente sia una ‘dimensione’ della Materia Immortale. 
All’interno, dunque, della prima prospettiva e senza prendere al riguardo una posizione netta, egli si chiede allora se l’egemonico del cosmo abbia dato un impulso iniziale al mutamento una volta sola oppure se intervenga di volta in volta nel succedersi dei singoli eventi. 
Ai suoi occhi, in ogni caso, la garanzia dell’esistenza di una proairesi del cosmo riposa sulla constatazione empirica dell’esistenza della proairesi umana. Questo fa sì che, anche se il cosmo fosse irrazionalità pura, l’uomo godrebbe però del privilegio di poter operare razionalmente. 
Ma per operare razionalmente la proairesi dell’uomo deve usare la diairesi ossia riconoscere, secondo le parole con le quali si apre il ‘Manuale’ di Epitteto, che: “Delle cose che sono, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere sono concezione, impulso, desiderio, avversione e, in una parola, quanto è opera nostra. Non sono in nostro esclusivo potere il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche e, in una parola, quanto non è opera nostra. Le cose in nostro esclusivo potere sono per natura libere, non soggette ad impedimenti, non soggette ad impacci; mentre le cose non in nostro esclusivo potere sono deboli, serve, soggette ad impedimenti, allotrie.” E che pertanto chi è dotato di una proairesi per natura libera, non soggetta ad impacci e ad impedimenti può giudicarsi superiore a tutto ciò che è debole, servo e soggetto ad impedimenti.

[ IX,29 ] I celebri e celebrati Alessandro Magno, suo padre Filippo di Macedonia, Demetrio -‘Falereo’ secondo alcuni o ‘Poliorcete’ secondo altri studiosi-, sono qui presi da Marco Aurelio a simboli eminenti di chi?
Di quei filosofi della controdiairesi i quali proclamano che l’ordine della natura è ingiusto e dunque che essi sono venuti al mondo per cambiarlo. Nella più totale ignoranza della differenza tra ‘natura’ e ‘natura delle cose’ essi e i loro seguaci promettono ai popoli di costruire la Repubblica di Platone e di portare libertà e giustizia a genti e popoli che gemono e simulano di obbedire. Mocciosi cialtroni tanto gli uni quanto gli altri, in quanto si ostinano a non imparare, e forse non impareranno mai, a distinguere ciò che è proairetico da ciò che è aproairetico.
Nel cosmo, invece, tutto avviene in armonia con la natura e la natura è radicalmente indifferente al bene e al male, al vizio e alla virtù, alla felicità e all’infelicità di esseri umani che essa potrebbe annientare e far sparire in qualunque momento senza neppure accorgersene.
E allora che fare? Certo non mettere mano a ciò che è impossibile, ossia a persuadere tutti gli esseri umani di quali siano i beni ed i mali. Ma a quello soltanto che è possibile e ci è stato dato: persuadere noi stessi dell’esistenza della natura delle cose, educarci ad operare la diairesi ed imparare l’arte di essere felici nel mondo così com’è.
Alessandro Magno e Filippo di Macedonia sono personaggi troppo noti perché vi sia bisogno di precisazioni. Demetrio Falereo visse tra il 345 e il 283 a.C. Fu allievo di Teofrasto e resse il governo di Atene dal 317 al 307 a.C., quando ne fu scacciato da Demetrio Poliorcete. Quest’ultimo visse tra il 337 e il 283 a.C. quando morì ad Apamea, in Siria. Ebbe vita avventurosissima e fu al centro delle vicende politiche e militari che coinvolsero in quegli anni la Grecia, il vicino Oriente e l’Africa.

[ IX,30 ] Lo spettacolo della enorme varietà delle vicissitudini umane è un’immagine dell’immensità del cosmo e una incontrovertibile testimonianza del fatto che la memoria di qualunque avvenimento è comunque destinata a scomparire.

[ IX,31 ] Dominio sullo sconcerto davanti agli eventi esteriori ed aproairetici, e conformità alla virtù per quelli che originano nella nostra proairesi.

[ IX,32 ] Soltanto l’uomo ha il privilegio di quello sguardo dall’alto che gli permette di abbracciare il cosmo intero e di riconoscere come felicità ed infelicità siano in suo proprio esclusivo potere.

[ IX,33 ] Come ogni cosa, anche l’Impero Romano è destinato inevitabilmente a scomparire. Poi la stessa sorte toccherà a ciò che l’avrà sostituito e così via all’infinito.

[ IX,34 ] Intorno a me, sembra dire Marco Aurelio, la controdiairesi è una pratica di massa.

[ IX,35 ] La morte è trasformazione naturale tanto quanto la vita, e siccome nulla di ciò che avviene nel cosmo può dirsi contro natura è evidente che al di fuori della proairesi umana non esistono né bene né male. Neppure alla proairesi umana è dato di atteggiarsi contro ‘natura’, ma soltanto in armonia o contro la ‘natura delle cose’ generando così il proprio bene o il proprio male.

[ IX,36 ] L’uomo è la sua proairesi, ma l’uomo non è soltanto proairesi bensì anche Materia immortale in continua trasformazione.

[ IX,37 ] Pure se tre sarebbero già anche troppi, gli insipienti scelgono sempre per se stessi almeno cent’anni di solitudine e di sconcerti. 

[ IX,38 ] Bene e male abitano soltanto nella nostra proairesi, non in ciò che è aproairetico.

[ IX,39 ] Poiché è una facoltà autoteoretica, la proairesi può anche dubitare di se stessa.

[ IX,40 ] La preghiera in senso proprio può essere definita come una forma di relazione ‘senza riserva’ che la proairesi dell’essere umano pratica nei confronti di entità che immagina onnipotenti al fine di ottenere, in ogni caso, qualcosa di esterno ed aproairetico che non è in suo esclusivo potere. Qualunque preghiera, pertanto, implica l’atteggiamento compiutamente controdiairetico della proairesi e su di esso si fonda.
Alcuni individui, ad esempio, pregano una entità che chiamano ‘Padre’. Dopo averne definito la residenza ‘nei cieli’ e dunque lontano dalla terra che abitano, invocano l’avvento del suo ‘regno’, con ciò implicando che di esso non vedono traccia alcuna intorno a loro. Quindi passano subito ad esplicite e pressanti richieste di prestazioni ed oggetti esterni ed aproairetici simboleggiati dal ‘pane quotidiano’, dalla ‘remissione dei debiti’, dal ‘non essere indotti in tentazione’ e dall’essere ‘liberati dal male’. 
L’auspicio, a sua volta, può essere definito in senso proprio come una forma di relazione ‘con riserva’ che la proairesi dell’essere umano pratica nei confronti di se stessa al fine di introdursi all’ottenimento di qualcosa di interiore e proairetico che è in suo esclusivo potere. L’auspicio implica, pertanto, l’atteggiamento compiutamente diairetico della proairesi e su di esso si fonda.
Se pregare dicendo: ‘Dacci oggi il nostro pane quotidiano’ definisce una civiltà; allora auspicare dicendo: ‘Possa io non avere paura di non avere il pane quotidiano’ ne definisce una diversa. La vita di ciascuno di noi non è altro che la pratica del giudizio su quale delle due civiltà ci meritiamo. 

[ IX,41 ] Nel sublime passo di Epicuro che Marco Aurelio non esita qui a citare, abbiamo l’esempio di un comportamento esemplare nella malattia e, in genere, nelle circostanze difficili. Ed è corretto e sufficiente intendere ‘intelletto’ come equivalente del termine ‘proairesi’, per rendersi conto di quanto affini siano epicureismo e stoicismo su questioni nient’affatto secondarie.

[ IX,42 ] Lo sfacciato, il furbastro, le persone sleali fanno comunque opere possibili e dunque altrettanto naturali di quelle di chi è virtuoso. E come sarebbe insensato richiedere che quanto è naturale non accada, così sarebbe aberrante richiedere che accada l’impossibile. 
Ora, poiché la natura delle cose inviolabilmente dispone che premio e pena, bene e male, felicità e infelicità siano incorporati, per ciascuno di noi, nei suoi stessi atti di pensiero, il saggio ha pienamente ragione di non affliggersi delle aberrazioni altrui e di farle anzi diventare altrettante occasioni, da un lato, per eventualmente correggere la sua superficialità o la sua imprudenza al riguardo e, dall’altro, per fare opera di filosofica educazione alla diairesi nei confronti di chi ha aberrato. Con riserva, ovviamente: ossia senza pretenderne una qualunque ricompensa né dolersi di non essere ascoltato o di essere frainteso.

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[ X,1 ] Socrate dice ad Anito e Meleto: “Voi potete farmi uccidere ma non potete farmi del male”. Identiche sono le parole che la proairesi dell’uomo può rivolgere a tutto ciò che è aproairetico. 
Essa, infatti, è per natura libera, infinita, inasservibile, insubordinabile e ciò che è aproairetico può spegnerla, cancellarla, estinguerla ma non farle del male né traviarla. Essa soltanto può traviare se stessa e rendersi schiava, finita, asservibile e subordinabile. 
Come? Atteggiandosi controdiaireticamente, ossia negando l’esistenza della natura delle cose e rifiutando la diairesi in cose in nostro esclusivo potere e cose non in nostro esclusivo potere. Natura delle cose per la quale tutto ciò che è aproairetico è, per la nostra proairesi, indifferente e dunque né bene né male: natura, cosmo e Zeus compresi.
Nel presente frammento Marco Aurelio descrive se stesso come lontano da questo stato di naturale perfezione. Perfezione che comunque attesta di conoscere molto bene, giacché egli non soltanto diagnostica con esattezza la malattia da cui è affetta la sua proairesi ma ne propone anche la prognosi e i rimedi necessari per curarla. 

[ X,2 ] Natura inanimata, natura animale e natura razionale possono e devono coesistere armoniosamente nell’uomo.

[ X,3 ] L’uomo può agevolmente tollerare tutto ciò di cui è in grado di concepire la tollerabilità. Per la creatura logica intollerabile è soltanto ciò che è irragionevole ossia tale da contraddire se stesso. Tutto ciò che non contraddice se stesso, invece, è tollerabile. 
Dunque le opposizioni reali tra entità aproairetiche diverse sono tollerabili, mentre le contraddizioni tra giudizi nell’ambito di una singola proairesi sono intollerabili. 
Perciò noi abbiamo bisogno di educazione alla diairesi soprattutto per questo: per imparare ad adattare il preconcetto di tollerabile e di intollerabile ad ogni particolare circostanza in armonia con la natura delle cose. 

[ X,4 ] Ogni aberrazione dell’essere umano include una contraddizione. 
Pur tenendo ben salda la verità che nessuno è padrone della proairesi altrui, il saggio ha però la pazienza di additare a chi glielo richieda la contraddizione per cui aberra, facendogli riscontrare chiaramente come egli stia compiendo, per dir così, qualcosa che non vuole. 

[ X,5 ] Prestabilito fin dall’eternità è l’evento con il quale la tua proairesi dovrà confrontarsi, ma non il come la tua proairesi si atteggerà di fronte ad esso.

[ X,6 ] Nulla nel cosmo può mai essere contro natura ed io, Marco Aurelio oppure uomo qualunque, sono una parte dell’insieme governato dalla natura. 
Che poi la proairesi degli uomini si atteggi diaireticamente o controdiaireticamente, ossia in armonia con la natura delle cose oppure contro la natura delle cose, è del tutto indifferente per il cosmo. 
Un simile evento, infatti, ha rilievo unicamente in relazione alla felicità o infelicità degli uomini come parti individuali dell’insieme cosmico alla cui perfezione, comunque, essi collaborano inevitabilmente anche quando credessero di poterla ostacolare o danneggiare.

[ X,7 ] Bene e male esistono soltanto nella proairesi dell’uomo, il quale è materia immortale destinata, come tutte le altre parti del cosmo, ad una continua e incessante trasformazione. 

[ X,8 ] L’uomo è un essere capace di mettersi in viaggio verso le Isole dei Beati oppure verso le popolarissime isole dei Disperati. 
In queste ultime, gente incosciente e pusillanime, mezza divorata dalle belve, piena di ferite e di sangue coagulato implora nondimeno di essere conservata in vita per la caccia dell’indomani e di essere offerta in quello stato agli stessi artigli e agli stessi morsi ferini. 

[ X,9 ] Sacra è la diairesi ossia il supergiudizio che ci fa capaci di distinguere ciò che è in nostro esclusivo potere e ciò che non lo è, ciò che è proairetico e ciò che è aproairetico. Può ciò che è aproairetico essere superiore a ciò che è proairetico? Può ciò che è superiore essere vinto da ciò che è inferiore? La natura delle cose lo vieta in modo assoluto, tanto quanto la natura vieta la possibilità che un corpo materiale in moto superi la velocità della luce nel vuoto. 
Nei suoi stucchevoli e anche troppo frequenti momenti di sbandamento e di debolezza, una proairesi come quella di Marco Aurelio lo dimentica e, affacciandosi sulle quotidiane vicende del mondo, intona su se stessa queste stupide e penose litanie, come se non fosse lei la sola ed unica responsabile di ciò di cui si lamenta.

[ X,10 ] Di cosa si vantano gli insipienti? Dei loro successi in tutte quelle attività che hanno di mira oggetti esterni ed aproairetici. 
Ingannarsi, essere precipitosi, desiderare con smania viziosa non fa per essi differenza alcuna, se soltanto la imbroccheranno in ciò che è aproairetico. Dove invece ci sono morte o esilio o dolore o discredito, là essi arretrano, là entrano in agitazione. 
Perciò, com’è verosimile che accada a coloro che sbagliano nelle questioni più grandi, ciò che nell’uomo è naturalmente coraggioso essi lo strutturano sfrontato, demenziale, protervo, sfacciato; mentre ciò che in noi è naturalmente cauto e rispettoso di sé e degli altri, lo strutturano vile e miserabile e pieno di paure e di sconcerti.

[ X,11 ] L’uomo virtuoso non si vanta e non ha alcun bisogno di vantarsi, ma se si vantasse di cosa si vanterebbe? Certamente di far vivere la saggezza nel campo di ciò che è proairetico e dunque di mostrare accettazione e gratitudine alla sorte nell’ambito di tutto ciò che è aproairetico.

[ X,12 ] La diairesi è il nostro sole.

[ X,13 ] Subito dopo il risveglio, a Marco Aurelio tocca fare ogni giorno un bagno di folla.

[ X,14 ] Queste sono le parole che il saggio, l’uomo educato alla diairesi, rivolge alla natura.

[ X,15 ] Vivere in armonia con la natura delle cose è possibile dappertutto, a patto di capire che vi sono luoghi o incarichi laddove l’unico modo per vivere in armonia con la natura delle cose è quello di abbandonare il luogo, l’incarico o la vita.

[ X,16 ] Questa è, in poche parole, la differenza che passa tra il cibo e il vomito, tra il sangue e le chiacchiere.

[ X,17 ] Rispetto alla totalità del cosmo, un normale oggetto esterno ed aproairetico ci appare certo, nelle sue dimensioni, un semino di fico e, nella sua durata, un giro di trapano. Salvo che per la proairesi dell’uomo la stessa totalità del cosmo è un oggetto esterno ed aproairetico, proprio come un semino di fico e un giro di trapano.

[ X,18 ] Noi viviamo in un cosmo nel quale c’è sempre, per ogni cosa, un altro giro di giostra.

[ X,19 ] Dagherrotipo dei politicanti e degli uomini di potere, con incorporato autoritratto di Marco Aurelio.

[ X,20 ] Bene e male, utile e dannoso non sono cose aproairetiche ma giudizi proairetici. 

[ X,21 ] La natura delle cose è inviolabile ed essa accoglie l’egemonico dell’uomo, quando sia atteggiato diaireticamente, come la sposa accoglie il suo diletto sposo. Dunque, l’egemonico che tentasse di violentare la natura delle cose atteggiandosi controdiaireticamente non otterrebbe altro risultato che quello di evirare se stesso.
La prima citazione proviene da un frammento di Euripide.

[ X,22 ] Queste sono le tre alternative di vita, tanto semplici quanto chiare, che Marco Aurelio mostra di vedere dinanzi a sé. E il fatto che la seconda, quella centrale, sia esplicitamente rappresentata dal volontario abbandono del trono imperiale certifica in modo inconfutabile la viltà della prima e la stupidità della terza. 
Una proairesi che fa ciò che non vuole e vuole ciò che non fa, tanto per usare un modo di dire inappropriato ma universalmente comprensibile, ha davvero di che stare allegra!

[ X,23 ] La differenza circa la vivibilità di un posto oppure di un altro non la fa il posto stesso, la vera differenza la fa la proairesi.
La citazione, molto brachilogica e di complessa interpretazione, proviene dal ‘Teeteto’ di Platone.

[ X,24 ] La proairesi pone sempre a se stessa delle domande. Queste domande e le corrispondenti risposte sono l’esempio di cosa si debba intendere per ‘cose proairetiche’.

[ X,25 ] L’afflizione, l’ira, la paura sono entità proairetiche: frutti aberranti di una proairesi che presume di poter violare la natura delle cose.

[ X,26 ] Una è la Materia Immortale ed una è la forza che la plasma incessantemente in forme diverse e ne produce meraviglie di fronte alle quali è giustificato il nostro stupore. Ancor più straordinaria è la meraviglia rappresentata dall’intelletto umano fatto capace di cogliere, non con gli occhi ma con non minore evidenza, l’unicità di quella Materia e di quella forza.

[ X,27 ] Le aberrazioni delle quali è capace la proairesi umana sono sempre le stesse: cambiano soltanto i nomi dei personaggi che le compiono.
Adriano, Antonino, Filippo di Macedonia e Alessandro Magno sono personaggi già citati in precedenza. Creso è il ricchissimo sovrano salito al trono della Lidia intorno al 560 a.C. Egli fu l’ultimo re della regione prima della conquista persiana del 547 a.C. 

[ X,28 ] Il destino guida chi lo segue di buon grado e trascina a viva forza chi gli è riluttante.

[ X,29 ] La morte è terribile perché ci priva di qualcosa di esterno ed aproairetico? 

[ X,30 ] L’aberrazione di una proairesi non può mai essere il danno di un’altra.

[ X,31 ] I materiali delle vita sono altrettante occasioni di esercizio per la nostra proairesi. Ed è dall’uso che di essi noi facciamo che ne conseguiremo felicità o infelicità, bene o male.
Nessuno dei personaggi citati è identificabile con certezza. Tenendo conto del contesto nel quale essi vengono citati, parrebbe trattarsi di membri della corte imperiale.

[ X,32 ] Si può chiamare davvero ‘vita’ quella che fanno gli insipienti?

[ X,33 ] Il retto uso della proairesi è, per l’uomo virtuoso, fonte di vera e sublime gioia. Retto uso della proairesi è sinonimo di retti giudizi e dai retti giudizi discendono le azioni rette. 
Vi è tuttavia una differenza sostanziale tra giudizi ed azioni. I giudizi sono entità proairetiche sempre e comunque in nostro esclusivo potere mentre le azioni, potendo incontrare gli impedimenti più svariati, non sono in nostro esclusivo potere e dunque vanno classificate come entità aproairetiche.
Aberra pertanto chiunque affermi, senza la dovuta ‘riserva’ riferita agli eventuali impedimenti, di avere la potestà di fare o dire una certa cosa; anche se si intuisce che la carica ricoperta potrebbe indurre Marco Aurelio a commettere un simile grossolano errore.
Bisogna allora intendere il ‘fare’ e il ‘dire’ di cui qui si tratta, come riferentisi entrambi strettamente ed esclusivamente all’attività che la proairesi opera su se stessa, sotto forma di ‘fare una certa operazione proairetica’ e di ‘dire a se stessa’. Soltanto questa interpretazione permette di evitare la contraddizione e dà al testo un significato coerente.
Ciò è confermato dal paragone conclusivo del frammento, nel quale entrano in gioco la città, il cittadino e la legge. Senza entrare in analisi più sottili e più complesse, basti qui considerare l’assurdità di sostenere che se Atene subisce un danno ad opera di Sparta, Socrate ne ha subito un danno; poiché sarebbe come sostenere che ciò che è aproairetico può recare danno alla proairesi. Questo è invece impossibile, giacché ciò che è aproairetico può bensì uccidere la proairesi ma non può in alcun modo recarle anno. Ragion per cui appare evidente che ‘città’ è sinonimo di ‘proairesi’, ‘cittadino’ è sinonimo di ‘diairesi’ e ‘legge’ è sinonimo di ‘natura delle cose’.

[ X,34 ] Soltanto i retti giudizi ci fanno capaci di dominare afflizione e paura, ed il virtuoso li ha continuamente a portata di mano.
Le citazioni provengono da un celebre e notissimo passo dell’Iliade di Omero.

[ X,35 ] La retta proairesi è pronta a confrontarsi con qualunque evento aproairetico.

[ X,36 ] Se la morte di un uomo saggio è comunque salutata da molti con intima soddisfazione, cosa accadrà a te che saggio non sei? 
Tralasciando ogni altra considerazione, è irresistibile la tentazione di leggere questo frammento di Marco Aurelio in chiave strettamente autobiografica. Non è richiesto un grande sforzo per vederlo circondato di cortigiani che se la ridono di quelle che considerano le sue manie pedagogiche mentre simulano di lodarle; di generali che ubbidiscono a colui che hanno soprannominato ‘vecchiarella filosofa’; e di un figlio, Commodo, da poco associato all’Impero e che mostra già le inclinazioni nefande cui darà pieno sfogo nel corso del suo regno. 

[ X,37 ] Cos’ha di mira quel tale? È egli cosciente del fatto che può correttamente avere di mira qualcosa di aproairetico ma che deve allora sempre accompagnare questo progetto con una ‘riserva’, ossia con la ferma determinazione di conservare in ogni caso la sua proairesi in armonia con la natura delle cose: libera, infinita, inasservibile, insubordinabile, leale, rispettosa di sé e degli altri?
E io cos’ho di mira?

[ X,38 ] La proairesi.

*****

[ XI,1 ] Quello che Marco Aurelio chiama ‘animo razionale’ è, ovviamente, la proairesi atteggiata diaireticamente, della quale sono ben note le principali caratteristiche: libertà, infinità, inasservibilità, insubordinabilità. 
Ad essa si possono ben adattare le due note locuzioni latine ‘Frangar non flectar’ e ‘Omnia mea mecum sunt’, che possono essere approssimativamente tradotte: ‘Mi spezzo ma non piego’ e ‘Ho con me tutti i miei beni’. 
È anche facile notare come l’uso della diairesi ponga la proairesi fuori dallo spazio-tempo, dandole quel ‘respiro’ e quello ‘sguardo dall’alto’ che sono caratteristiche prettamente umane.
Tutto ciò, tuttavia, non vale per la proairesi che si atteggia controdiaireticamente. Allora, infatti, ognun vede come ad essa si adattino piuttosto altre due locuzioni, opposte alle precedenti: ‘Non mi spezzo perché sono pronta a piegarmi ed asservirmi’ e ‘Tutti i miei beni sono fuori di me’ ovvero ‘Flectar non frangar’ e ‘Omnia mea mecum non sunt’.

[ XI,2 ] L’uso della diairesi permette alla nostra proairesi di distinguere infallibilmente ciò che è proairetico da ciò che è aproairetico e di giudicarsi superiore a quest’ultimo.

[ XI,3 ] Ecco lo spettacolo della infinità della proairesi umana. 
L’accenno ai Cristiani, se non si tratta di una interpolazione, è fatto da Marco Aurelio per rilevare come ciò che può apparire esteriormente un comportamento virtuoso possa a volte derivare non da razionalità ma da fede irrazionale, da cieca ostinazione, dal credere non perché se ne comprende la necessità logica ma perché è assurdo. 

[ XI,4 ] Soltanto quando davvero giova a se stesso, l’uomo è utile anche alla società. Dunque l’azione più socievole che l’uomo possa fare è quella di atteggiare la sua proairesi secondo diairesi.

[ XI,5 ] L’arte di essere felici è un’arte che si può apprendere. Essa consiste nel riconosce la natura delle cose e nell’atteggiare diaireticamente la nostra proairesi.

[ XI,6 ] Questo breve excursus di Storia della Letteratura Greca serve a Marco Aurelio per ribadire in un’ottica stoica che cosa, secondo lui, in quella letteratura è eternamente vivo e proficuo e che cosa non lo è. 
Anche Epitteto afferma esplicitamente che Omero ha composto le sue opere a bella posta affinché noi vediamo che nulla impedisce agli individui di stirpe più nobile, ai più forti fisicamente, ai più ricchi di denaro, ai più formosi di essere, qualora non abbiano i retti giudizi che si devono avere, individui meschini, infelici, preda di cattiva fortuna.
I frammenti qui citati sono tratti, nell’ordine, da: l’Edipo re di Sofocle, l’Antiope di Euripide, il Bellerofonte di Euripide, l’Ipsipile di Euripide.

[ XI,7 ] Felice è colui che può affermare di non avere trascorso tutta la vita a cercare invano, ma di avere trovato.

[ XI,8 ] Le relazioni che nella proairesi umana intercorrono tra diairesi, antidiairesi e controdiairesi possono essere facilmente esemplificate pensando alle relazioni che intercorrono tra le radici, il tronco e i rami fruttiferi di un albero.
Se la diairesi è la radice dell’albero e l’antidiairesi ne è il tronco, dai suoi rami pendono frutti che si chiamano libertà, felicità, pace. Se, invece, la controdiairesi è la radice dell’albero e l’antidiairesi ne è il tronco, dai suoi rami pendono frutti che si chiamano infelicità, servitù, guerra. 
Nel periodo in cui un individuo defeziona da chi l’uomo è per natura delle cose, ossia mentre impiega sistematicamente la controdiairesi, la pace cessa per lui di esistere, in quanto gli altri uomini non gli appaiono più come esseri proairetici capaci di diairesi e di retti giudizi ma unicamente come oggetti esterni ed aproairetici qualsiasi da manipolare, da dominare, da uccidere, da vendere e da comprare.
È tuttavia peculiare della natura umana il fatto che sia sufficiente riatteggiare diaireticamente la proairesi per rientrare a buon diritto nella società degli uomini e nella pace, anche se l’operazione diventa via via più difficile quanto maggiore è il tempo che si trascorre in atteggiamento controdiairetico. 

[ XI,9 ] L’essere miti non contraddice l’essere determinati e la pace non va confusa con l’arrendevolezza. 
Sulle bandiere della pace sta scritto: ‘Ora e sempre resistenza a tutti i tiranni, quelli di fuori e quelli di dentro’. 
Infatti, non c’è pace senza diairesi.

[ XI,10 ] La giustizia, come ogni altra virtù, è figlia della diairesi tanto quanto l’ingiustizia ed ogni altro vizio sono figli della controdiairesi. Ma la diairesi presuppone la proairesi umana operante e dunque la giustizia implica necessariamente l’esistenza di uomini giusti, senza i quali essa non viene al mondo e non vive.
Ora, è noto che per la tradizione classica l’arte è imitazione della natura e che l’opera di un vero artista è l’opera di un allievo che imita il maestro. Se dunque la proairesi dell’uomo è l’opera più eccellente della natura, l’uomo imiterà la natura se farà dell’uso quale deve essere della proairesi la sua opera più eccellente. Ma quest’opera è precisamente la virtù, che è riconoscimento della natura delle cose e pratica della diairesi.
D’altra parte non sorprende che Marco Aurelio, da imperatore chiamato quotidianamente a prendere delle decisioni tenda a privilegiare, tra le quattro virtù cardinali, la giustizia. 

[ XI,11 ] Come dice Epitteto, a sconcertarci non sono le cose ma il giudizio della nostra proairesi che esse siano sconcertanti.

[ XI,12 ] La proairesi e il mistero della ‘Pala di Brera’.
La cosiddetta ‘Pala di Brera’ è un celebre dipinto su tavola attribuito a Piero della Francesca o alla sua scuola, databile intorno al 1470 e raffigurante la Madonna col Bambino, sei santi, quattro angeli e il duca Federico II da Montefeltro. Il dipinto pervenne a Brera nel 1810 dalla chiesa di San Bernardino a Urbino. 
Varie ipotesi sono state proposte sul significato del misterioso uovo di struzzo sospeso al catino absidale, che sarebbe da intendere come simbolo cristiano dei quattro elementi (secondo vari accenni in tal senso contenuti nella letteratura medioevale) e simbolo della creazione, poiché con questo valore viene usualmente appeso nelle chiese dell’Abissinia e dell’Oriente cristiano. Di conseguenza, nel dipinto sarebbe evidente l’allusione alla nascita di Guidobaldo da Montefeltro la cui madre, Battista Sforza, morta nel 1472, fu sepolta proprio in San Bernardino.
Sempre a proposito del mistero dell’uovo, non è da tacere che esso richiama pure l’idea rinascimentale dello spazio centralizzato, perfettamente armonico e simmetrico. Anche il ripristino ideale della struttura originaria della Pala trova sostegno nel fatto che l’uovo appeso sopra il trono si qualifica come centro geometrico della composizione completa: a ribadire, in certo modo, il collegamento con l’assoluta simmetria vagheggiata dai rinascimentali.
Si legga ora il frammento di Marco Aurelio e si tenga a mente che l’italiano ‘di fulgida luce’ traduce l’aggettivo greco ‘augoeidès’ il quale significa basilarmente ‘che ha la natura della luce’ e quindi ‘luminoso’, ‘splendente’, ‘fulgido’.
L’uso dell’aggettivo ‘augoeidès’ si riscontra soltanto due volte negli ‘Stoicorum Veterum Fragmenta’.
In un primo frammento di Galeno (SVF II,219,10) il quale fu, tra l’altro, medico personale di Marco Aurelio, l’aggettivo è riferito al sostantivo ‘astri’, per dire: ‘gli astri hanno natura e sono fonte di luce, sono secchi e dotati di estrema intelligenza’. 
In un secondo frammento sempre di Galeno (SVF II,231,20), l’aggettivo è riferito al sostantivo ‘pneuma’, per dire: ‘la facoltà visiva si dissolve quando lo pneuma che ha natura di luce cessi di affluire, in parte o del tutto, (agli occhi) dalla sua causa (arkè) cerebrale. 
Ora, come è stato ben dimostrato da molti studiosi, l’elenco canonico delle 4 cause (arkài) basilari di tutti gli eventi del cosmo, in Aristotele e nella seguente tradizione filosofica, è questo: proairesi (proàiresis), natura (fùsis), necessità (anànke), fortuna (tùke).
È del tutto evidente che il secondo frammento di Galeno avvalora l’interpretazione che ad avere natura di luce e dunque ad essere sorgente di essa non sono le tre restanti cause basilari, ma la causa basilare ‘proairesi’, che viene anche correttamente localizzata come avente sede nel cervello. È dunque la ‘proairesi’ dell’uomo ad essere ‘augoeidès’.
Il primo frammento di Galeno, poi, conferma questa interpretazione in quanto, secondo la tradizione filosofica cui ci stiamo riferendo, anche il cosmo ha una ‘proairesi’ avente la stessa natura di luce. È questa ‘proairesi’ del cosmo che fa splendere gli astri, li fa intelligenti; come quella dell’uomo ne fa splendere gli occhi e gli permette vista e intelligenza. Se ne può concludere che ad essere ‘augoeidès’ è anche la ‘proairesi’ del cosmo.
Chiediamoci ora: come rappresentare pittoricamente questa concezione della ‘proairesi’ del cosmo e dell’uomo? Certamente, nella pittura antica, come una sfera di fulgida luce.
Passano dodici secoli. Mutano genti e linguaggi e l’oblio stende le sue ali inesorabili. 
È fuori discussione che nel Quattrocento fosse in pieno sviluppo in Occidente il poderoso movimento di recupero della tradizione greca, legato alle critiche vicende che attraversava in quel periodo Costantinopoli, assediata e conquistata dagli Ottomani. Ci si risveglia, dunque, dopo secoli e ci viene insegnato che in greco moderno e popolare ‘avgà’ indica adesso le ‘uova’ e l’aggettivo ‘avgoeidès’ significa ‘che ha forma di uovo’, ‘ovale’.
I pittori non devono fare anche i filologi. Se Piero della Francesca o chi per lui, tramite i suoi più che colti amici, è venuto a conoscenza del fatto che l’uomo e il cosmo hanno una ‘proairesi’, ne ha compreso il valore e se, nel corso di tante discussioni gli è stata sempre offerta la ovvia e popolare traduzione dell’aggettivo ‘avgoeidès’, perché avere dei dubbi?
Dipingerà la Pala di Brera e metterà al suo centro, tanto geometrico che filosofico, l’oggetto-simbolo di ciò che nell’uomo e nel cosmo è più possente e li fa splendere.

Per un ulteriore chiarimento sul profondo significato filosofico e fisico-matematico di questo frammento XI,12 di Marco Aurelio clicca qui

[ XI,13 ] La diairesi insegna all’uomo virtuoso che il disprezzo o l’odio altrui nei suoi confronti sono cose aproairetiche, e dunque vanno giudicate essere né un bene né un male. Sarà poi l’uso che egli farà di esse a diventare il suo proprio bene o il suo proprio male.
Una biografia di Focione fu scritta da Plutarco e fa parte delle sue ‘Vite parallele’. Generale e politico dell’Atene del IV secolo a.C., Focione ebbe fama di probità e di sopportazione delle ingratitudini altrui. 

[ XI,14 ] Dagherrotipo del popolo dei micropoliticanti e delle élites dei macropoliticanti.

[ XI,15 ] Chi si scusa di qualcosa senza esserne stato richiesto, con ciò stesso si accusa di ciò di cui intenderebbe scusarsi. La virtù, dunque, non ha bisogno né di tante né di poche parole, giacché parla da sola.

[ XI,16 ] Per vivere il meglio possibile bisogna cercare e trovare il proprio vero bene. E il nostro proprio vero bene sta nella conoscenza della natura delle cose e in una proairesi rettamente operante in armonia con essa.
 
[ XI,17 ] Il destino di tutto ciò che è aproairetico. 

[ XI,18 ] Memorandum in dieci punti per Marco Aurelio.

[ XI,19 ] Quattro pervertimenti della proairesi ai quali la proairesi stessa deve porre rimedio.

[ XI,20 ] Pur essendo di per sé distinti e separabili, i quattro elementi naturali (fuoco, aria, terra e acqua) possono essere disposti e mescolati in infiniti modi senza che neppur uno di tali modi vada considerato contro natura. 
La proairesi dell’uomo non può atteggiarsi in infiniti modi ma in due soltanto: diairesi e controdiairesi; ma anche in questo caso nessuno dei due modi può essere considerato contro natura. 
Se diairesi e controdiairesi sono entrambi modi egualmente naturali di atteggiarsi della proairesi, essi sono però modi ben diversi e del tutto opposti di atteggiarsi nei confronti della natura delle cose. 
Con la diairesi, infatti, la proairesi riconosce ed accetta la natura delle cose e la sua fondamentale bipartizione in cose che sono in nostro esclusivo potere e cose che non lo sono, ottenendone libertà e felicità. 
Con la controdiairesi essa invece nega questa bipartizione e mentre proclama in nostro esclusivo potere cose che non sono in nostro esclusivo potere oppure non essere in nostro esclusivo potere cose che invece sono in nostro esclusivo potere, procura inevitabilmente a se stessa infelicità e schiavitù.

[ XI,21 ] Anche un assassino, anche un politicante è un individuo secondo natura ed è perfettamente capace di rimanere per tutta la vita un assassino e un politicante. Dunque non basta avere per tutta la vita uno scopo qualunque per essere degno di chiamarsi uomo, ma bisognerà avere per tutta la vita lo scopo specifico di essere e di rimanere un uomo. 
Si giudica forse ciascun essere dalla sua mera conformazione? Se così fosse, allora anche quella di cera sarebbe una mela. Invece deve anche averne la fragranza ed il gusto, non basta il connotato esteriore. Neppure naso ed occhi sono dunque adeguati a fare l’uomo, se non avrà giudizi da uomo. 
E quali giudizi fanno un uomo? I giudizi che fanno un uomo sono la conoscenza della natura delle cose, il suo rispetto grazie alla diairesi, il retto uso delle rappresentazioni. 
Soltanto questo diventa anche bene comune ed è socialmente utile.

[ XI,22 ] L’accenno del frammento è ad una celebre favola dell’antichità che, nella redazione di Esopo, contrappone la vita frugale e senza sconcerti alla vita lussuosa tra continue paure ed affanni. 
Non è difficile vedervi il richiamo allegorico alla proairesi atteggiata diaireticamente ed a quella atteggiata controdiaireticamente.

[ XI,23 ] Nella tradizione popolare, le ‘lamie’ erano mostri che si diceva succhiassero il sangue dei bambini. 
Anche Epitteto riferisce espressamente che Socrate considerava spauracchi per bambini l’afflizione per cose aproairetiche come il dolore fisico e la morte.

[ XI,24 ] Quella che potrebbe apparire semplice cortesia spartana serve invece a Marco Aurelio come allegoria della retta proairesi: squisita con gli altri, capace di accettare gli eventi aproairetici e di trarne serenità e fortezza.

[ XI,25 ] L’episodio è citato anche da Aristotele e da Seneca, secondo i quali però l’invito a Socrate partì non da Perdicca ma da suo figlio Archelao. 
L’interpretazione di Seneca è che la risposta di Socrate fu motivata dal suo rifiuto di diventare un cortigiano e di cacciarsi in volontaria servitù. Se, infatti, già la patria Atene faceva fatica a sopportare la sua libera proairesi, cosa sarebbe successo a Socrate alla corte di un re?

[ XI,26 ] Una nobile prescrizione epicurea sulla quale anche gli stoici non possono non essere d’accordo.

[ XI,27 ] Le stelle non hanno bisogno di vestiti, sono nude: come la verità.

[ XI,28 ] Anche Socrate era rimasto nudo, dopo che sua moglie Santippe s’era portata via i suoi vestiti. Quali furono allora le parole che la proairesi di Socrate disse a se stessa?
L’episodio non ci è noto da altre fonti.

[ XI,29 ] Siccome la virtù è conoscenza della natura delle cose e questa conoscenza non è innata, i buoni maestri ci sono essenziali.

[ XI,30 ] Il frammento si presta a molte interpretazioni possibili. Una delle più semplici consiste nel riferirlo a qualunque essere privo di ragione.

[ XI,31 ] Questa risata omerica è una citazione proveniente dal IX libro dell’Odissea.

[ XI,32 ] Lo spettacolo della virtù fa esasperare gli insipienti. 
La citazione proviene da ‘Le opere e i giorni’ di Esiodo.

[ XI,33 ] Volere un fico d’inverno è, anche per Marco Aurelio, una cosa da pazzi. 
Il frammento è una citazione di Epitteto, proveniente dal capitolo 24 del III libro delle Diatribe.

[ XI,34 ] La natura delle cose e le parole di malaugurio. 
Anche questa citazione proviene dal capitolo 24 del III libro delle Diatribe di Epitteto.

[ XI,35 ] Nel cosmo il nulla non esiste, e la Materia Immortale semplicemente si trasforma. 
Questa citazione, come le due precedenti, proviene dal capitolo 24 del III libro delle Diatribe di Epitteto.

[ XI,36 ] La nostra proairesi è al riparo da qualunque possibile rapina. 
La citazione proviene dal capitolo 22 del III libro delle Diatribe di Epitteto.

[ XI,37 ] Questo frammento è attribuito all’opera di Epitteto con il numero XXVII. 

[ XI,38 ] Anche questo frammento è attribuito all’opera di Epitteto con il numero XXVIII. 

[ XI,39 ] Queste parole di Socrate non sono riferite da nessun’altra fonte e potrebbero essere una citazione autentica tratta da uno dei libri di Epitteto che non ci sono pervenuti. 
Si noti come Socrate definisca correttamente ‘razionali’ anche gli animi degli ‘insipienti’ ossia di coloro la cui proairesi è atteggiata controdiaireticamente.

*****

[ XII,1 ] Non bisogna avere paura di morire ma di non avere mai neppure cominciato a vivere in armonia con la natura delle cose.

[ XII,2 ] La proairesi dell’uomo è la meraviglia delle meraviglie delle quali è stato finora capace Zeus ossia la Materia Immortale. 
Quali sono le parole di Epitteto al riguardo? Eccole: “O uomo, non essere ingrato né immemore delle cose migliori; ma per il vedere, il sentire, per lo stesso vivere e per quanto ad esso coopera, per i frutti secchi, per il vino, per l’olio ringrazia la Materia Immortale. E ricorda che essa ti ha dato qualcos’altro migliore di tutto questo: quanto le userà, le valuterà, conteggerà il valore di ciascuna. Cos’è infatti che dichiara per ciascuna di queste facoltà, quanto una di esse merita? Forse ciascuna facoltà lo fa da sé? Hai mai sentito la facoltà visiva dire qualcosa di se stessa? Forse quella uditiva? Esse sono invece state posizionate per essere servitrici, come ministre e serve, della facoltà atta ad usare le rappresentazioni”.

[ XII,3 ] All’interno del rigoroso monismo caratteristico degli stoici, il quale presuppone la completa equivalenza di materia ed energia, vi è ovviamente posto per gli aggregati materiali più diversi. 
Certi specifici aggregati materiali permettono l’emersione dalla materia di caratteristiche che altrimenti sono normalmente celate. È il caso dell’uomo la cui proairesi, lungi dall’essere una straniera giunta da un altro mondo (il mondo dello spirito) per essere incarcerata nella materia, come pretenderebbero le teorie dualistiche, è invece l’arcobaleno che appare nella quiete dopo la tempesta. 
L’uomo, tuttavia, non è soltanto proairesi, così come l’arcobaleno non è soltanto luce di diversi colori. L’uomo è anche, per Marco Aurelio, il corpo che ha in comune con minerali e vegetali; e il soffio vitale, o pneuma, che egli ha in comune con tutti gli altri animali, seppure sia evidente che a caratterizzarlo e qualificarlo come uomo non sono questi due ultimi componenti bensì la proairesi.
E, in verità, neppure soltanto la proairesi senza altre specificazioni, ma la proairesi rettamente operante cioè la proairesi che sa donde è venuta, che conosce se stessa e la natura delle cose.

[ XII,4 ] Qual è l’opera cardinale della proairesi rettamente operante? Opera cardinale della proairesi rettamente operante è quella di conservare se stessa in armonia con la natura delle cose grazie all’uso della diairesi. Ossia quella di conservare, in ogni circostanza, se stessa tale e quale è per natura: libera, infinita, inasservibile, insubordinabile.
Si può dire che una proairesi così operante ‘ama’ se stessa? Certamente, giacché si deve intendere per ‘amore’ di qualcosa il dare a quella cosa il suo giusto valore. Il che significa che soltanto il saggio è capace di amare, giacché amare implica inevitabilmente la conoscenza del valore di ogni cosa e dunque la capacità di distinguere tra ciò che è proairetico e può essere bene o male, e ciò che è aproairetico e invece non può mai essere né bene né male.
Dunque l’insipiente è ben lontano dall’amare se stesso giacché, tutto al contrario, è campione olimpico nel dividere per zero e nel prendere fischi per fiaschi: ossia nell’usare sistematicamente la controdiairesi. E usare sistematicamente la controdiairesi vuol dire disprezzare la propria proairesi giudicandola, ad esempio, inferiore a qualcosa di aproairetico come il giudizio di un altro su di noi.
Pertanto lo stupore di Marco Aurelio, ammesso che sia sincero, risulta piuttosto fuori luogo e testimonierebbe, in questo specifico caso, un momento di sua scarsa capacità di comprensione logica ed analisi creativa di un aspetto non secondario ma cruciale di quella dottrina stoica che pure professa di voler seguire.

[ XII,5 ] Desiderare l’immortalità della proairesi umana è una stolida assurdità, appena si rifletta sul fatto ovvio, evidente e certo che ad essere immortale è già la materia che forma il corpo umano e dalla quale la proairesi è espressa. 
Il desiderio della vittoria sulla morte, poi, è una stupida volgarità in quanto implica il giudizio che la nascita dell’uomo sia un bene in sé e che la morte sia un male in sé: concezioni entrambe caratteristiche degli insipienti sia in cielo che in terra.

[ XII,6 ] L’abitudine è una forza potente, che tende scorrettamente ad essere sottovalutata. 
Nulla è tanto produttivo di felicità quanto il maturo esercizio quotidiano e sistematico della diairesi; e nulla spiega meglio l’infelicità del genere umano quanto il rifiuto di imparare dai propri errori e l’ostinazione nel praticare in massa l’infantile controdiairesi.

[ XII,7 ] Lontano dalla preoccupazione di essere letto, Marco Aurelio può permettersi di registrare anche i suoi momenti peggiori: quelli in cui la sua proairesi dubita di se stessa, è preda dello sgomento davanti alla morte, si scorge nuda di virtù, inorridisce dinanzi all’abisso d’eternità che le si spalanca dinanzi e alle spalle, si sente di una debolezza estrema.

[ XII,8 ] E questa è la immediata reazione di Marco Aurelio alle confessioni del frammento precedente: come il tentativo di risveglio da un incubo, il disperato sforzo di darsi uno scossone e quindi di far riprendere alla sua proairesi il posto che le spetta.

[ XII,9 ] La nostra proairesi deve e può avere sempre a portata di mano i giudizi adeguati ad ogni circostanza.

[ XII,10 ] Ciò che Marco Aurelio indica, in questo frammento, come il ‘materiale’ è certamente rappresentato da tutto ciò che è aproairetico. La ‘causa’ va sicuramente riferita all’elenco delle quattro cause basilari di tutti gli eventi cosmici: proairesi, natura, necessità, fortuna. Il ‘riferimento’ va fatto, verosimilmente, all’impiego, che è proairetico, della diairesi o della controdiairesi.

[ XII,11 ] Tutto ciò che è proairetico è in nostro esclusivo potere e tutto ciò che è aproairetico non è in nostro esclusivo potere.

[ XII,12 ] Nelle opere della natura non si dà aberrazione alcuna. 
E per parte loro gli uomini, anche quando aberrano, fanno sempre ed esclusivamente ciò che a loro appare bene.

[ XII,13 ] Che c’è dunque di strano se gli asini non volano, se dalle rape è impossibile cavare sangue e se le immense masse degli insipienti, ricchi o poveri di denaro, si ostinano a dividere qualunque cosa per zero, col risultato di produrre infelicità per se stessi?

[ XII,14 ] Qualunque cosa ne possa dire qualunque filosofo, qualunque sia l’organizzazione del cosmo, è certo che l’uomo è un essere proairetico e che la proairesi dell’uomo, come ben dice Epitteto, ‘neppure Zeus può vincerla’.
Del resto, a ben riflettere, non ha fondamento alcuno la polemica di quanti affermavano, e affermano ancora, che se tutto fosse governato dal destino allora la proairesi dell’uomo non sarebbe più libera. Non vi è affatto contraddizione tra l’esistenza di un destino che governa rigidamente e ineluttabilmente ogni cosa e la libertà della proairesi. Qual è, infatti, il destino che governa la proairesi umana, ossia il nostro destino di uomini? Il nostro destino di uomini è, per l’appunto, quello di essere liberi, cioè di essere il destino di noi stessi.

[ XII,15] O invece la luce della lucerna risplende e non perde fulgore finché non sia spenta, mentre la verità, la giustizia, la temperanza che sono in te si estingueranno prima?

[ XII,16 ] Come può non essere insipiente chi si fa sistematicamente guidare dalla controdiairesi? E come può non essere infelice l’insipiente, il quale desidera e non ottiene mai ciò che desidera, avversa ed incappa sempre in ciò che intende avversare?
Tu stesso, poi, proprio tu che immagini di poter persuadere tutti gli esseri umani di quali siano i beni ed i mali sei, per ciò stesso, un insipiente.

[ XII,17 ] Stabilità nella diairesi e dunque nella virtù.

[ XII,18 ] Nella nostra proairesi, le rappresentazioni possono essere originate da un’entità proairetica o da un’entità aproairetica.

[ XII,19 ] Nell’uomo, la proairesi è la facoltà superiore a tutte le altre facoltà e quella alla quale tutte le altre facoltà sono sottoposte.

[ XII,20 ] Il fatto che la proairesi sia una facoltà tanto potente vuol forse dire che essa è onnipotente? Nient’affatto, e perciò essa non va usata a casaccio.

[ XII,21 ] Un’eterna trasformazione delle cose che adesso esistono, non nel nulla ma in cose che adesso non esistono.

[ XII,22 ] I giudizi e le concezioni sono in nostro esclusivo potere, sono entità proairetiche, parlano.  Gli oggetti esterni non sono in nostro esclusivo potere, sono entità aproairetiche, sono muti.
Prova a disciplinarti secondo questa verità e vedi che effetto ti fa. 

[ XII,23 ] Poiché bene e felicità sono semplicemente due modi per indicare lo stesso stato della proairesi umana è poiché gli insipienti non sono felici pur condividendo la vita con i saggi, ne consegue che il puro e semplice essere in vita non può essere definito di per sé un bene. 
Se poi si osserva che la morte coglie tanto i saggi, i quali vivono nel bene e sono felici, quanto gli insipienti, i quali vivono nel male e sono infelici; e inoltre si tiene presente che non possono patire alcun male coloro che vivono nel bene: ne consegue che la morte di per sé non può essere definita un male. 
Pertanto sia la nascita dell’uomo quanto la sua morte vanno correttamente giudicati come eventi aproairetici, non in suo esclusivo potere; e dunque tanto la nascita che la morte vanno concepiti come qualcosa che non è né un bene né un male.
Quale vita e quale morte, allora, potranno essere giudicate un bene? La risposta è semplice: una vita e una morte virtuose come quelle di Socrate, illuminate dalla diairesi e dal rispetto della natura delle cose.
E quale vita e quale morte potranno, al contrario, essere giudicate un male? Una vita e una morte viziose come quelle dei carnefici di Socrate, oscurate dalla controdiairesi e dalla negazione dell’esistenza della natura delle cose.

[ XII,24 ] Le tre considerazioni che Marco Aurelio si invita a tenere a portata di mano sono, nell’ordine, le seguenti: la prima concerne la distinzione tra ciò che è proairetico e ciò che è aproairetico, e l’uso della diairesi. 
La seconda concerne le caratteristiche della Materia Immortale di cui siamo composti e il fatto che da essa si esprime anche la nostra proairesi. 
La terza concerne la vastità del cosmo e l’infinita molteplicità delle sue vicende, paragonata al fatto che la proairesi dell’uomo può atteggiarsi soltanto ed esclusivamente in due modi diversi: diairesi o controdiairesi. 

[ XII,25 ] L’infelicità, a ben pensarci, non è altro che il giudizio di essere infelici.

[ XII,26 ] Tanto il saggio quanto l’insipiente vivono secondo natura, ma l’insipiente non sa, o ha dimenticato, o finge di non sapere qual è la natura delle cose e di avere una proairesi per natura libera, infinita, inasservibile e insubordinabile.

[ XII,27 ] È straordinaria la bassezza di ciò verso cui la controdiairesi spinge le turbe dei fortunati e degli sfortunati.
I personaggi citati (fatta eccezione per Tiberio imperatore e per Velio Rufo, destinatario di una lettera di Frontone) sono sconosciuti e i dettagli delle vicende cui si accenna nel frammento ci sono del tutto ignoti.

[ XII,28 ] Il rigoroso panteismo degli stoici fa sì che Zeus, ossia la Materia Immortale, sia dappertutto. Dunque, gli dei sono visibili anche a occhio nudo.

[ XII,29 ] Detto fra di noi: l’uomo stoico è l’unico che sappia davvero godersi la vita perché è l’unico attrezzato per comprenderla.

[ XII,30 ] Il frammento ribadisce il saldo monismo stoico e la sostanziale unità della Materia Immortale. 
Unità della sostanza del cosmo, che discende dal fuoco generatore e nel fuoco è destinata periodicamente a risolversi; unità della vita di tutti gli esseri privi di ragione; unità di natura e di funzionamento delle proairesi degli esseri dotati di ragione. Quanto agli altri elementi (aria, acqua e terra) essi sono privi di sensazioni ma pure tendono ad unirsi tra di loro per effetto della gravità.
Questa è certamente una lettura possibile del frammento. 
Ma è curioso che ne sia possibile anche un’altra, legata al fatto che tanto le osservazioni astronomiche di Claudio Tolomeo, le quali avvengono tra il 127 e il 151 d.C., quanto la pubblicazione del suo celebre ‘Grande Sistema di Astronomia’ o ‘Almagesto’ sono coeve di Marco Aurelio, e che dunque non sembra azzardato supporre che quest’ultimo ne conoscesse l’opera. 
Il presente frammento si presta infatti anche ad essere letto come una breve sintesi di cosmologia Tolemaica, lumeggiante la distribuzione degli elementi nei vari cieli e l’affinità della proairesi umana con il fuoco.
Se il riferimento di Marco Aurelio è qui davvero al sistema geocentrico tolemaico, allora la terra va posta al centro dell’universo e ruotano intorno ad essa, nell’ordine, i seguenti corpi celesti con i relativi cieli: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle Fisse. 
La Terra e il cielo sublunare sono ritenuti sede dei quattro elementi: acqua, terra, aria e fuoco; e sono soggetti al cambiamento, alla nascita e alla morte. I corpi celesti e i cieli oltre la Luna, invece, sono immuni da tali fenomeni, non ospitano né acqua né terra né aria, e sono composti di un fuoco sempre più puro man mano che si sale verso il cielo delle Stelle Fisse. Dei quattro elementi, inoltre, quello generatore di tutti gli altri e quello in cui essi sono destinati periodicamente a risolversi è il fuoco.
Nella prima metà del frammento, la parte di universo in cui una sola è la comune sostanza separata in molti corpi diversi e uno solo è l’animo separato in nature diverse, potrebbe allora essere un chiaro riferimento al Sole, ai Pianeti e alle Stelle dell’universo sopralunare la cui comune ed unica sostanza è il fuoco. Si tratta di corpi celesti dotati anche di un unico animo cognitivo, di un intelletto del quale fanno fede i loro moti diversi ma perfetti ed eterni.
Nella seconda metà del frammento, la restante parte di universo è rappresentata dalla Terra e dal cielo sublunare, nella quale compaiono, oltre a piccole quantità di fuoco, anche l’aria o pneuma e poi gli elementi terra e acqua che hanno tendenza a congiungersi verso il basso. 
Infine la proairesi dell’uomo, che è considerata una scintilla di puro fuoco divino sulla terra e che con esso tende a ricongiungersi. 

[ XII,31 ] Il desiderio dell’immortalità personale non è un desiderio da uomini liberi che conoscono la natura delle cose, ma da schiavi stolti che la ignorano.

[ XII,32 ] Vivere da uomini e morire da uomini.

[ XII,33 ] La proairesi è autoteoretica ed è infinita libertà, mentre ciò che è aproairetico è cadavere e fumo.

[ XII,34 ] Quando c’è la proairesi non c’è la morte e quando c’è la morte non c’è la proairesi.

[ XII,35 ] A chi la morte non fa paura.

[ XII,36 ] Un addio pacificato.

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IL SOVRANO INTERIORE

La mia traduzione in Italiano, con il relativo commento, dell’opera di Marco Aurelio è accessibile anche in forma cartacea. Si tratta di un volume al quale ho dato il titolo:

IL SOVRANO INTERIORE

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I RICORDI – LA TRADUZIONE

[I,1,1] Da mio nonno Vero: il buon carattere e la non inclinazione all’ira.

[I,2,1] Dalla fama e dalla memoria che si ha di colui che mi generò: il rispetto di sé e degli altri e la maschiezza.

[I,3,1] Da mia madre: la devozione, la generosità, l’astenersi non soltanto dal malfare ma anche dall’addivenire ad un siffatto concetto; [I,3,2] e inoltre la frugalità nella dieta, lontana dal tenore di vita delle persone ricche di denaro.

[I,4,1] Dal mio bisnonno: non avere frequentato scuole pubbliche [I,4,2] ma avere potuto servirmi di eccellenti insegnanti in casa; [I,4,3] e riconoscere che per questo genere di cose vale la pena di spendere con larghezza.

[I,5,1] Dal mio aio: non essere diventato tifoso né dei Verdi né degli Azzurri, né dei Palmulari né degli Scutari. [I,5,2] Inoltre la resistenza alla fatica, la parsimonia, la capacità di lavoro manuale, il non essere un ficcanaso [I,5,3] e la refrattarietà alle calunnie.

[I,6,1] Da Diogneto: il disinteresse per le bagattelle [I,6,2] e la diffidenza per le parole di fattucchiere e stregoni che dicono di poter fare incantesimi, esorcismo di demoni e siffatte ciarlatanerie. [I,6,3] Il non giocare a colpire le quaglie e il non appassionarsi a siffatti passatempi; [I,6,4] la tolleranza per la libertà di parola; [I,6,5] l’avere familiarizzato con la filosofia [I,6,6] ascoltando dapprima le lezioni di Bacchio, poi quelle di Tantaside e di Marciano; [I,6,7] l’avere scritto dialoghi quand’ero fanciullo [I,6,8] e la smania per un pagliericcio coperto di pelle e quant’altre cose del genere avevano a che fare col sistema di educazione greco.

[I,7,1] Da Rustico: accogliere la rappresentazione che il mio carattere aveva bisogno di correzione e di cura. [I,7,2] Il non essere stato fuorviato verso uno zelo sofistico né verso la compilazione di trattati speculativi, la redazione di dialoghetti esortativi o il fare colpo sull’altrui fantasia sfoggiando me stesso come modello di asceta o di benefattore. [I,7,3] L’essermi distornato dalla retorica, dalla poesia e dalle spiritosaggini; [I,7,4] il non girare su e giù per casa in abiti eleganti né fare altre cose del genere. [I,7,5] La semplicità nello scrivere le lettere, semplicità di cui è esempio ciò che proprio lui scrisse a mia madre da Sinuessa. [I,7,6] Il diportarmi senza rancore e in modo conciliante verso coloro che ci esasperano e commettono dei falli contro di noi, non appena costoro scelgano di rivenire sui loro passi. [I,7,7] A leggere un testo con precisione; a non accontentarsi di intenderlo genericamente e a non assentire in fretta a coloro che ne vanno cianciando. [I,7,8] E l’essermi imbattuto nelle ‘Memorie’ di Epitteto, delle quali egli mi fece parte traendole dalla biblioteca di casa sua. 

[I,8,1] Da Apollonio: la libertà e l’indisputabile avversione all’azzardo; [I,8,2] il non volgere lo sguardo ad altro, neppure per poco, che alla ragione; [I,8,3] l’essere sempre identico in mezzo a sofferenze acute, in occasione della perdita di un figlio, nel corso di lunghe malattie. [I,8,4] Il vedere con evidenza un paradigma vivente del fatto che la stessa persona può essere sommamente energica e anche rilassata; [I,8,5] il non spazientirsi mai nel corso delle spiegazioni; [I,8,6] il vedere un uomo che riteneva chiaramente minime delle proprie buone doti la perizia e l’abilità nel trasmettere i principi generali della filosofia, [I,8,7] e l’imparare come si debbano prendere dagli amici quei che han sembiante di favori, senza sentirsene obbligati e senza metterli da parte per insensibilità. 

[I,9,1] Da Sesto: la pazienza [I,9,2] e il paradigma di una casa paternamente governata; [I,9,3] il concetto del vivere secondo la natura delle cose; [I,9,4] la solennità non artefatta; [I,9,5] la provvida presupposizione delle richieste degli amici; [I,9,6] la tolleranza per le persone comuni e per coloro che presumono ascientificamente. [I,9,7] Poi l’adattabilità verso tutti, sicché la sua conversazione era gradevole più di qualunque adulazione nel momento stesso in cui egli era, per i suoi interlocutori, la più rispettabile delle persone. [I,9,8] La capacità di scovare e ordinare con perfetta certezza e con metodo i giudizi necessari per vivere; [I,9,9] il non esibire mai ira né qualche altra passione, ma l’essere allo stesso tempo spassionatissimo ed affettuosissimo; [I,9,10] l’inclinazione ad elogiare senza fare baccano; [I,9,11] ed una poliedrica erudizione senza pose.

[I,10,1] Da Alessandro il grammatico: non censurare [I,10,2] e redarguire con acrimonia coloro che proferiscono un barbarismo, un solecismo o qualche parola stonata, bensì soltanto a proferire a mia volta destramente l’espressione corretta, a modo di risposta o di testimonianza o di considerazione congiunta alla faccenda in questione e non al vocabolo usato erroneamente; oppure attraverso qualche altra siffatta garbata menzione.

[I,11,1] Da Frontone: aver soppesato la malignità, varietà di sotterfugi e ipocrisia della quale è capace un tiranno; e come coloro che chiamiamo patrizi siano, per lo più, le persone meno affettuose che esistono.

[I,12,1] Da Alessandro il Platonico: non dire a qualcuno o scrivere in una lettera, spesso anche senza necessità, che sono impegnato; né ad accampare il pretesto di affari pressanti al fine di schivare continuamente, in questo modo, cose da parte mia doverose per le relazioni con i conviventi.

[I,13,1] Da Catulo: non trattare con negligenza l’amico che ti accagiona di qualcosa, anche se capita che lo faccia irrazionalmente, ma anzi provare a ristabilire con lui il rapporto consueto; [I,13,2] e l’elogio di cuore dei propri insegnanti, come raccontano i fatti memorabili riguardanti Domizio e Atenodoto; [I,13,3] ed a nutrire vera amorevolezza per i figli. 

[I,14,1] Da Severo: l’amore per la famiglia, la verità e la giustizia. [I,14,2] L’avere riconosciuto grazie a lui che uomini erano Trasea, Elvidio, Catone, Dione, Bruto e accolto la rappresentazione di un Stato con una legge uguale per tutti, governato secondo uguaglianza politica ed uguale diritto di parola; e di una monarchia che onori al di sopra ogni cosa la libertà dei sudditi. [I,14,3] E ancora, il dare un onore equilibrato ed uniforme alla filosofia; [I,14,4] l’inclinazione alla beneficenza e la liberalità con larghezza; [I,14,5] l’ottimismo e la fiducia nell’amore degli amici; [I,14,6] la spigliatezza con coloro che gli capitava di riprovare, [I,14,7] come pure il fatto che i suoi amici non abbisognavano di presupposizioni per capire cosa volesse, talmente era manifesto.

[I,15,1] Da Massimo: padroneggiare se stessi e il non lasciarsi trascinare in nulla da impulsi passeggeri. [I,15,2] Il buon umore nelle altre circostanze difficili e nelle malattie. [I,15,3] Il contemperamento di blando e di grave nel carattere. [I,15,4] L’espletamento non improvvisato degli obiettivi prefissi. [I,15,5] Il fatto che tutti si fidavano che egli dicesse ciò che davvero pensava e che facesse quel che faceva senza secondi fini. [I,15,6] Non stupirsi, non sbigottirsi, non mostrarsi mai frettoloso o titubante o imbarazzato o accasciato o sguaiato oppure, ancora, rancoroso o sospettoso. [I,15,7] Il beneficare, il perdonare e la sincerità. [I,15,8] Il palesare l’immagine di una proairesi non pervertita piuttosto che quella di una che fosse stata corretta. [I,15,9] E che nessuno credette mai di essere disdegnato da lui né avrebbe retto di concepirglisi superiore. [I,15,10] E l’essere amabilmente arguto.

[I,16,1] Da mio padre: la mansuetudine e la fermezza irremovibile nelle determinazioni prese dopo attenta indagine; [I,16,2] l’assenza di vanagloria per quei che han sembiante di onori; [I,16,3] la laboriosità e l’assiduità nell’impegno; [I,16,4] la capacità di prestare ascolto a quanti hanno qualcosa di comune giovamento da suggerire; [I,16,5] il non sviarsi nell’assegnare a ciascuno secondo il proprio valore; [I,16,6] la perizia nel capire dove c’era bisogno di tenere la briglia corta e dove invece era il caso di lasciarla lunga; [I,16,7] l’aver fatto cessare gli episodi di passione amorosa per gli adolescenti; [I,16,8] il senso della comunanza civile e l’autorizzazione agli amici di non essergli ad ogni costo commensali né di accompagnarlo per forza in viaggio, e il farsi ritrovare sempre l’identica persona da coloro che erano rimasti indietro per qualche bisogno; [I,16,9] la ricerca precisa e tenace del meglio nelle riunioni con i consiglieri; [I,16,10] la capacità di serbare a dovere gli amici senza presto saziarsene o infatuarsene; [I,16,11] l’autosufficienza in tutto e un aspetto raggiante; [I,16,12] la previsione a lunga scadenza e il regolare, senza pose eroiche, anche i minimi particolari; [I,16,13] le restrizioni imposte alle acclamazioni pubbliche e ad ogni forma di adulazione alla sua persona; [I,16,14] la costante custodia delle risorse necessarie all’Impero, la gestione di tesoreria delle sue spese e la capacità di reggere un’incolpazione su faccende siffatte. [I,16,15] Antonino non nutriva superstizioni circa gli dei e non era demagogico con gli uomini, non era un piaggiatore e non corteggiava la turba ma era sobrio in tutto, saldo, mai privo del senso del bello e lontano da ogni smania di novità. [I,16,16] Utilizzava quegli oggetti che apportano comodità alla vita e che la fortuna procura a profusione, con modestia e insieme senza esitazione, cosicché si accostava alla buona a quelli presenti e non abbisognava di quelli assenti. [I,16,17] Di lui nessuno avrebbe potuto dire che era un sofista, un buffone o un pedante, ma che era un uomo maturo, completo, insensibile all’adulazione, capace di capeggiare se stesso ed altri. [I,16,18] Inoltre egli ha impersonato l’onore riservato a chi viveva davvero la filosofia, senza tuttavia essere ingiurioso con gli altri né credulone. [I,16,19] E ancora, l’affabilità e la buonagrazia senza esagerazioni. [I,16,20] La misurata sollecitudine per il proprio corpo, non come di chi sia attaccato alla vita, né per imbellettarsi né con negligenza, ma in modo da avere bisogno il meno possibile, grazie alla propria attenzione, dell’arte medica o di farmaci e di applicazioni esterne. [I,16,21] Soprattutto la rinuncia senza malignità a qualunque pretesa in favore di chi aveva acquisito qualche arte o facoltà, come la capacità espressiva o quella derivante dall’investigazione delle leggi, dei costumi o di altre faccende, e la premurosità nei loro riguardi affinché ciascuno di essi ottenesse la buona fama che meritavano i suoi pregi in un dato campo. Così pure, il fare tutto secondo i patrii usi e l’occuparsi a far sì che questo non apparisse. [I,16,22] Antonino non era mai in preda ad instabilità o irrequietezza, ma si intratteneva volentieri nelle stesse faccende e negli stessi luoghi. [I,16,23] Dopo un attacco parossistico di cefalalgia ritornava subito ai consueti lavori con giovanile vigore. [I,16,24] Non aveva molti segreti, anzi pochissimi, ben di rado e solo su affari di Stato. [I,16,25] Mostrava un assennato scrupolo nell’allestimento di spettacoli, nella fabbricazione di opere pubbliche, nelle elargizioni e in altre attività siffatte, da uomo che guata ciò che bisogna fare e non la buona fama che può derivare dall’averlo fatto. [I,16,26] Non faceva bagni ad ore inopportune; non aveva la smania delle costruzioni; non pensava troppo ai suoi pasti, né ai tessuti e alla coloritura dei suoi vestiti, né alla grazia degli schiavi. [I,16,27] La galleria di Lorio, che viene verso l’alto dalla casa di campagna in basso; i molti fatti che accaddero a Lanuvio; [I,16,28] e come trattò, a Tuscolo, il doganiere che lo schivava e tutti gli altri fatti analoghi. [I,16,29] Nulla di ruvido, di inesorabile, di furioso; nulla di cui si potesse dire ‘fino al sudore’; ma tutto egli discerneva al modo di chi ha fatto i suoi conti, con agio, senza sconcerto, con ordine, gagliardamente e in sinfonia. [I,16,30] Gli si adatterebbe bene quel che si rammemora di Socrate, ossia che poteva astenersi e poteva godere di ciò di cui molti sono deboli nell’astinenza e arrendevoli nel godimento. [I,16,31] Ora, essere potente, saper perseverare ed essere sobrio sia nell’uno che nell’altro caso è proprio di un animo integro e invitto come, ad esempio, nella malattia di Massimo. 

[I,17,1] Dagli immortali: avere avuto buoni nonni, buoni parenti, una buona sorella, buoni insegnanti, buoni familiari, congeneri, amici, quasi tutti. [I,17,2] Non essere stato precipitoso a commettere falli contro nessuno di loro, pur avendo io una disposizione naturale tale che avrei potuto, se fosse capitato, fare qualcosa del genere. Ed è una beneficenza degli immortali quella per cui non si è mai verificato un concorso di circostanze tali da riscontrarmi. [I,17,3] Non essere stato allevato oltre presso la concubina di mio nonno. [I,17,4] Avere preservato il fior degli anni miei, non avendo io raggiunto la maturità sessuale anzitempo ma per avere essa, anzi, preso del tempo. [I,17,5] Essere rimasto subordinato al mio condottiero e padre, le cui intenzioni erano quelle di eliminare del tutto la mia vanità, conducendomi al concetto che è possibile, pur vivendo a corte, non avere bisogno né di guardie del corpo, né di vestiti ricercati, né di certi candelabri, né di certe statue né di simile pompa, ma che ci si può restringere molto vicino al tenore di vita della persona comune senza per questo sentirsi più miserabili o più pigri verso ciò che si deve operare, da capi, per lo Stato. [I,17,6] Essermi capitato un fratello capace, col suo carattere, di svegliarmi alla sollecitudine per me stesso e, insieme, di allietarmi con il suo onore e il suo affetto. [I,17,7] Non essere diventati i miei bambini né inetti né fisicamente deformi. [I,17,8] Non avere io fatto troppi progressi in retorica, in poesia e in altre occupazioni, nelle quali forse mi sarei trattenuto se mi fossi accorto di star procedendo con libero corso. [I,17,9] Avere ben presto istituito i miei precettori ad un posto elevato, per il quale mi sembrava smaniassero; e non averlo rimandato nella speranza, dato che erano ancora giovani, di farlo poscia. [I,17,10] Avere conosciuto Apollonio, Rustico e Massimo. [I,17,11] Essere stato capace di rappresentarmi, con evidenza e spesso, il vivere in armonia con la natura delle cose; cosicché, per quanto attiene agli immortali e alle loro reciprocità, soccorsi e ispirazioni, nulla mi impedisce di vivere già ora in armonia con la natura delle cose e, se qualcosa al riguardo rimane indietro, ne sono io la causa; perché non serbo a dovere i loro rammentamenti e pressoché insegnamenti. [I,17,12] Avere il mio corpo tenuto duro per così tanto in una vita siffatta. [I,17,13] Non essermi accostato sessualmente né a Benedetta né a Teodoto e anche poscia, quando fui preda di passione erotica, esserne risanato. [I,17,14] Non essere andato oltre, quando mi sono spesso esasperato con Rustico, facendo cose di cui poi avrei provato rimorso. [I,17,15] Avere potuto colei che mi procreò, la quale doveva morire giovane, comunque abitare con me i suoi ultimi anni di vita. [I,17,16] Avere potuto prestare aiuto, quante volte così ho deciso, a qualcuno in stato di indigenza oppure in bisogno di qualcos’altro, senza sentirmi dire che non avevo i denari per farlo. [I,17,17] Non essermi contemporaneamente accaduto di avere io stesso un simile bisogno di ricevere aiuto da un altro. [I,17,18] L’essere mia moglie la donna che è, così sottomessa eppure così affettuosa e semplice. [I,17,19] Avere avuto abbondanza di idonei precettori per i miei bambini. [I,17,20] Avere ricevuto aiuti attraverso i sogni, in particolare contro lo sputo di sangue e contro le vertigini; [I,17,21] e il responso dell’oracolo a Gaeta. [I,17,22] Non essere caduto, quando smaniavo per la filosofia, nelle mani di nessun sofista; non essermi seduto in disparte per compilare luoghi comuni o risolvere sillogismi o applicarmi allo studio dei fenomeni celesti. [I,17,23] Giacché tutto questo abbisogna dell’aiuto degli immortali e del favore della fortuna.
(Scritto nel territorio dei Quadi*, presso il fiume Granua**)

*****

LIBRO II

[II,1,1] Fin dal mattino devi predire a te stesso: m’imbatterò in un intrigante, in un ingrato, in chi oltraggia, in una canaglia, in una persona maligna, in una antisociale. [II,1,2] Tutte queste aberrazioni sono loro avvenute a causa dell’ignoranza del bene e del male. [II,1,3] Io invece, avendo chiara conoscenza della natura del bene: che è bello; e di quella del male: che è vergognoso; e inoltre della natura di colui che aberra: che mi è congenere, non di un medesimo sangue e di un medesimo sperma ma di una medesima mente e in quanto partecipe di una divina particella, neppure posso essere danneggiato da uno di loro. Nessuno, infatti, mi precingerà di vergogna; né io posso adirarmi con chi mi è congenere né averlo in odio. [II,1,4] Giacché siamo nati per la cooperazione: come i piedi, le mani, le palpebre, le chiostre dei denti di sopra e di sotto. [II,1,5] Operare gli uni contro gli altri è dunque contrario alla natura delle cose; fremere di odio e distogliersi dalla cooperazione è quindi operare contro di essa.

[II,2,1] Qualunque cosa mai io sia, è carne, pneuma, l’egemonico. [II,2,2] Tralascia i libri, non ambasciartene più: non ti è stato dato. Invece, come qualcuno ormai morente, giudicati pure superiore alla tua carne: è sangue coagulato, ossa, un reticolo di nervi, di vene, di arterie. [II,2,3] Osserva anche cos’è il tuo pneuma: aria in movimento, non sempre la stessa ma ogni momento espirata e poi di nuovo inspirata. [II,2,4] E terzo viene il tuo egemonico. Qui pensaci: sei vecchio; non permettergli più di essere servo; non permettergli più di essere mosso come una marionetta da impulsi antisociali; non permettergli più di essere malcontento del destino presente o di rifiutare quello futuro.

[II,3,1] Le opere degli immortali sono intrise di Prònoia; quelle della Fortuna non mancano di legame con la Natura o della trama e dell’ordito di quelle governate dalla prònoia: tutto scorre di là. [II,3,2] In aggiunta vi è la Necessità e quel che è utile al cosmo nella sua interezza, del quale sei una parte. Bene per qualunque parte della natura è inoltre ciò che la natura del cosmo apporta e ciò che la salvaguarda. E come salvaguardano il cosmo le trasformazioni degli elementi naturali, così pure lo salvaguardano quelle delle sostanze composte. [II,3,3] Questo ti basti, se sono giudizi che hai fatto tuoi. Scaccia invece la sete di libri, per non morire brontolando ma davvero pacificato e grato di cuore agli immortali.

[II,4,1] Ricorda da quanto tempo rimandi questi conti e quanto spesso, pur prendendo proroghe dagli immortali, non le utilizzi. [II,4,2] Bisogna ormai che tu ti accorga una buona volta di quale cosmo sei parte; a quale governante del cosmo sottostai quale emanazione; e che vi è per te un limite circoscritto di tempo il quale, se non te ne servirai per darti aria pulita, disparirà e non vi sarà più un daccapo.

[II,5,1] Ogni ora preoccupati seriamente, da Romano e da maschio, di effettuare ciò che hai per le mani con precisa e non artefatta solennità, con affettuosità, libertà e giustezza; e di provvederti agio da qualunque altra rappresentazione. [II,5,2] E te lo provvederai se esegui ciascuna azione come se fosse l’estrema della vita, essendoti allontanato da ogni avventatezza, da emotivo distoglimento dalla ragione che opera la diairesi, da ipocrisia, malinteso egoismo e dispiacere per gli avvenimenti compartiti dalla sorte. [II,5,3] Vedi quante poche sono le cose padroneggiando le quali si può vivere una vita serena e da dio; giacché gli immortali non richiederanno nulla di più a chi custodisce questi giudizi.

[II,6,1] Oltraggia, oltraggia te stesso, o animo! Di renderti onore non avrai più occasione. Non è, infatti, breve la vita concessa a ciascuno di noi? [II,6,2] E questa vita per te è ormai quasi conclusa; per te che non hai avuto rispetto di te stesso ma hai posto negli animi di altri la tua buona sorte.

[II,7,1] Gli accidenti esteriori ti distraggono? Procurati agio di apprendere qualcosa di buono in più e cessa di girovagare di qua e di là. [II,7,2] Ma bisogna anche stare in guardia dall’altra condotta: giacché vaneggiano in pratica anche coloro i quali, stanchi della vita, non hanno uno scopo sul quale indirizzare una volta per tutte ogni impulso e rappresentazione.

[II,8,1] Difficilmente si vede qualcuno infelice perchè non riesce a soppesare ciò che succede nell’animo di un altro. È invece necessario che non conoscano felicità gli esseri che non hanno la comprensione delle mosse del proprio animo.

[II,9,1] Bisogna sempre ricordare questo: quale sia la natura del cosmo; quale sia la mia natura e in quale relazione questa stia con quella; quale parte di quale cosmo essa sia; che nessuno può impedire di fare e di dire sempre ciò che è conseguente con la natura della quale sei parte.

[II,10,1] Come chi paragonasse le aberrazioni nel modo più comune, Teofrasto afferma, da filosofo, che siffatti falli sono più gravi se commessi per smania che per rancore. [II,10,2] Chi è preda del rancore, infatti, mostra di essersi distolto dalla ragione con una certa afflizione ed una latente contrizione. Chi invece aberra per smania, vinto dall’ebbrezza, appare in un certo modo più impudente ed effeminato nelle aberrazioni. [II,10,3] Rettamente da filosofo, pertanto, Teofrasto ha detto che è maggior crimine l’aberrare con ebbrezza che con afflizione. Insomma, l’uno assomiglia di più a chi abbia prima subito un’ingiustizia e sia stato costretto dalla propria afflizione ad infuriarsi; mentre l’altro si è mosso spontaneamente verso un’azione ingiusta, portato dalla propria smania a fare qualcosa di aberrante. 

[II,11,1] Fare, dire, pensare ogni cosa come chi può ormai uscire dalla vita. [II,11,2] L’andarsene via dagli uomini, se esistono degli immortali, nulla è di terribile; giacché essi non ti precingerebbero di un male. Se poi degli immortali non esistono oppure non importa loro delle umane vicende, cos’è per me il vivere in un cosmo vacuo di immortali e di prònoia? [II,11,3] Ma essi esistono, importa loro delle vicende umane ed hanno posto in esclusivo potere dell’uomo tutto ciò che gli permette di non incappare nei mali veri. E se qualcuna delle altre cose fosse un male, anche questo avrebbero previsto, affinché fosse del tutto in potere dell’uomo non incapparvi. [II,11,4] Ciò che non fa peggiore un uomo, come potrebbe fare peggiore la sua vita? [II,11,5] La natura non avrebbe trascurato queste cose né per ignoranza né, sapendolo, per incapacità di prevenirle o di correggerle e neppure avrebbe aberrato a tal punto, o per impotenza o per imperizia, da far sì che tanto i beni quanto i mali capitassero in modo pasticciato e parimenti sia ai virtuosi che ai viziosi. [II,11,6] Morte e vita, gloria e discredito, dolore e piacere fisico, ricchezza e povertà di denaro: tutte queste cose, che non sono né belle né vergognose, capitano parimenti sia ai virtuosi che ai viziosi. Dunque esse non sono né beni né mali.

[II,12,1] Tocca alla facoltà cognitiva soppesare come tutto scompaia in fretta: i corpi stessi nel cosmo, nell’eternità la loro memoria; quale natura abbiano tutte le cose sensibili e soprattutto quelle che ci adescano col piacere o ci impauriscono col dolore fisico o sono all’ultimo grido della vanità umana; come esse siano da poco, spregevoli, sozze, deteriorabili, cadaveriche. [II,12,2] E poi chi siano costoro le cui concezioni e le cui voci appiccano ad alcuni buona fama o discredito; [II,12,3] cosa sia il morire e che, se uno guarderà la cosa in se stessa e con la partizione del concetto dissolverà le immaginazioni ad essa associate, lo concepirà essere null’altro che un’opera di natura; e se uno ha paura di un’opera di natura è un bambino. E nondimeno esso è non soltanto un’opera di natura ma anche un’opera utile ad essa. [II,12,4] Come, infine, l’uomo si accosti a un dio, grazie a quale sua parte e quando questa parte costitutiva dell’uomo si trovi in quale disposizione. 

[II,13,1] Niente è più meschino di colui che fa il giro intorno ad ogni cosa, ed ‘inquisisce’, come dice il poeta, ‘i sotterranei’ e cerca di arguire da segni esteriori cosa ci sia negli animi di chi gli sta intorno; senza accorgersi, invece, che gli basta stare in compagnia del demone che è dentro di lui ed accudirlo genuinamente. [II,13,2] Averne cura è serbarlo a dovere puro da passione, da avventatezza, da dispiacere per ciò che gli viene dagli dei e dagli uomini. [II,13,3] Ciò che viene dagli immortali, infatti, è rispettabile per virtù; e ciò che viene dagli uomini è caro per congenericità e, a volte e in un certo modo, anche degno di commiserazione per la loro ignoranza del bene e del male; storpiatura, questa, non minore di quella che defrauda della capacità di discriminare il bianco dal nero.

[II,14,1] Anche se tu stessi per vivere tremila anni e altrettante volte diecimila anni, comunque ricorda che nessuno perde altra vita che questa che vive, e non vive altra vita che questa che perde. [II,14,2] Pertanto, una vita lunghissima e una vita brevissima si riducono alla stessa cosa. [II,14,3] Il presente, infatti, è uguale per tutti e quindi quel che sfuma è uguale e quel che si perde compare, così, infinitesimo. [II,14,4] Uno non potrebbe perdere né il passato né il futuro. Come potrebbe, infatti, essergli sottratto ciò che non ha? [II,14,5] Bisogna dunque ricordare sempre queste due cose: primo, che tutto è da sempre conforme, ciclico, e non fa alcuna differenza vedere le stesse cose in cento anni o in duecento o in un tempo infinito; secondo, che chi vive moltissimo e chi muore prestissimo subiscono uguale perdita. [II,14,6] E’ soltanto il presente quello di cui si può essere defraudati, dato che è l’unica cosa che si ha, e nessuno perde ciò che non ha.

[II,15,1] “Che tutto è concezione”. Queste parole riferite al cinico Monimo sono chiare ed è manifesta anche la loro utilità, se uno ne accoglierà il veritiero sapore.

[II,16,1] L’animo umano oltraggia se stesso soprattutto quando diventa, per quanto è in suo esclusivo potere, un ascesso e come un tumore del cosmo. [II,16,2] Infatti, l’essere malcontenti di qualche evento è diserzione dalla natura delle cose, nel cui contesto sono incluse le nature di ciascuno degli altri esseri umani. [II,16,3] In secondo luogo l’animo umano oltraggia se stesso quando si distolga da qualcuno o gli si porti contro col proposito di danneggiarlo, come nel caso degli animi iracondi. [II,16,4] In terzo luogo oltraggia se stesso quando si lascia vincere dal piacere o dal dolore fisico. [II,16,5] In quarto luogo quando recita e fa o dice qualcosa per finta e senza verità. [II,16,6] In quinto luogo quando lasci senza uno scopo qualche sua azione e impulso, ma esegua una cosa qualunque a casaccio e senza comprenderlo, mentre invece anche le più piccole azioni devono avvenire in riferimento ad un fine. E il fine delle creature razionali è quello di seguire ragione e statuto della città e del regime primigenio.

[II,17,1] La durata della vita umana è un attimo; la sostanza, un continuo fluire; la sensazione, ottusa; il composto dell’intero corpo va in putrefazione facilmente; l’animo è un girovago; la fortuna, indecifrabile; la notorietà, spregiudicata. [II,17,2] Per dirla in breve: tutto quanto concerne il corpo è un fiume; quanto concerne l’animo è sogno e vanità; la vita è guerra e soggiorno di uno straniero; la fama presso i posteri, oblio. [II,17,3] Cosa può farci mettere da parte tutto ciò? Solo e soltanto la filosofia. [II,17,4] Ed essa consiste nel serbare il proprio demone interiore indenne da oltraggi fatti o subiti, superiore ai piaceri e ai dolori fisici, capace di non operare nulla a casaccio né da mendace e da ipocrita, libero dal bisogno che un altro faccia o non faccia qualcosa. E ancora: capace di accogliere le contingenze assegnategli come provenienti da un qualche di là donde lui stesso è venuto. E soprattutto capace di attendere la morte con pacificata intelligenza, cosciente che la morte non è altro che la risoluzione degli elementi naturali dei quali ogni creatura è composta. [II,17,5] Se non vi è nulla di terribile per gli elementi naturali nel trasformarsi senza interruzione l’uno nell’altro, perché si dovrebbe guardare con sospetto la trasformazione e la dissoluzione di tutte le creature? Essa è secondo natura, e nessun male è secondo la natura delle cose.

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LIBRO III

(Scritto a Carnunto*)

[III,1,1] Non bisogna conteggiare soltanto il fatto che giorno dopo giorno la vita è distrutta e ne rimane una parte sempre minore, ma anche il fatto che, se uno vivesse più a lungo, è dubbio se l’intelletto sarebbe poi egualmente bastante per l’accorta comprensione dei fatti e per quelle conoscenze che hanno per intento la nostra perizia nelle cose umane e divine. [III,1,2] Se, infatti, comincerà a sragionare, però il traspirare, nutrirsi, immaginare, impellere e tutto il resto non verrà meno; mentre invece la sua autocoscienza, la precisa enumerazione di ciò che è doveroso, l’articolazione di ciò che appare ai sensi, il soppesare su di sé per capire se ormai non sia tempo per lui di uscire dalla vita, e quant’altro ha bisogno di un raziocinio molto ben allenato, si sono ormai estinti prima. [III,1,3] Occorre dunque fare presto, non soltanto perché la morte diventa ciascun momento più vicina, ma anche perché la facoltà di concettualizzazione dei fatti e la loro comprensione si esaurisce prima di morire.

[III,2,1] Occorre inoltre tenere ben presente che anche gli accessori degli eventi naturali hanno aspetti graziosi e attraenti. [III,2,2] Per esempio, quando si cuoce il pane alcune sue parti si screpolano e queste screpolature, pur in un certo modo contrarie all’arte professata dalla panificazione, gli danno come un risalto e stimolano uno slancio peculiare verso il cibo. [III,2,3] A loro volta i fichi, quando sono ben maturi, si aprono. [III,2,4] E nelle olive maturate sull’albero, proprio l’essere vicine a marcire addiziona al frutto una peculiare leggiadria. [III,2,5] Le spighe di grano incurvate fino al suolo, il cipiglio del leone, la schiuma che scorre fuor di bocca ai cinghiali e molti altri particolari, considerati uno per uno, pur essendo lontani dalla bellezza, tuttavia per il fatto di essere conseguenze di fenomeni naturali, li ornano e li rendono accattivanti; sicché se uno ha passione e un concetto più approfondito di ciò che succede nel cosmo, quasi nulla, anche di ciò che avviene per conseguenza, non gli parrà comporsi al resto con una certa qual piacevolezza. [III,2,6] Costui guarderà le vere fauci delle belve non meno piacevolmente di quanto guarda quelle che pittori e scultori mostrano imitando la natura. Sarà capace di vedere con i suoi occhi temperanti il colmo dell’autunno di una vecchia e di un vecchio, e tutta la vezzosità che è nei fanciulli. E molte altre osservazioni siffatte, non persuasive per tutti, incoglieranno soltanto chi si è genuinamente familiarizzato con la natura e le sue opere.

[III,3,1] Dopo avere guarito molte malattie, Ippocrate stesso si ammalò e morì. [III,3,2] I Caldei predissero le morti di molte persone e poi la fatalità afferrò anche loro. [III,3,3] Alessandro, Pompeo, Gaio Cesare dopo avere fatto così tante volte sparire dalle fondamenta intere città e macellato molte decine di migliaia di cavalieri e di fanti schierati, anch’essi a un certo punto uscirono di vita. [III,3,4] Dopo avere tanto scientificamente discusso circa la conflagrazione cosmica, Eraclito si ammalò di idropisia e morì col corpo imbrattato di letame. [III,3,5] I pidocchi uccisero Democrito e altri pidocchi uccisero Socrate. [III,3,6] E allora? Ti sei imbarcato, hai navigato, sei arrivato in porto: sbarca. Se verso un’altra vita, là pure nulla sarà vuoto di immortali. Se, invece, verso uno stato di assenza di sensazioni, cesserai di sopportare piaceri e dolori fisici e di rendere culto ad un recipiente tanto peggiore di ciò cui rende servizio: questo, infatti, è mente e demone; l’altro, terra e sangue coagulato. 

[III,4,1] Non sciupare la parte di vita che ti sopravanza in immaginazioni circa altre persone e faccende, quando questo non faccia riferimento a qualcosa di comune giovamento: cioè immaginando cosa faccia il tale e perché; cosa dica, ponderi o macchini e tutto quanto ti fa divagare dalla disamina del tuo proprio egemonico. [III,4,2] Occorre dunque circostanziare nella sequela delle rappresentazioni quanto è a casaccio e soprattutto ciò che è da intriganti e da individui di cattivo carattere. [III,4,3] Abituati ad immaginare soltanto cose circa le quali, se qualcuno improvvisamente ti interrogasse chiedendoti: ‘Cosa stai pensando?’ potresti rispondere immediatamente con libertà di parola: ‘Questo e quest’altro’. Così che dalle tue parole stesse sia subito manifesto che tutto in te è schietto e paziente, degno di una creatura socievole, che ha negletto le fantasticherie di ebbrezze o, in una parola, di godimento, e quelle dell’ambizione, della malignità, del sospetto o di qualcos’altro di cui arrossiresti spiegando ciò che avevi in mente. [III,4,4] L’uomo siffatto, colui che non pospone più la sua entrata tra i migliori in assoluto, è un sacerdote e un ministro di immortali dal momento in cui utilizza quell’egemonico che ha sede nel suo intimo e che rende l’uomo incontaminato dai piaceri volgari, invulnerabile a qualunque dolore, intangibile da qualunque oltraggio, insensibile a qualunque malvagità, un atleta della contesa più grande: quella per non essere abbattuti da nessuna passione. Immerso a fondo nella giustizia, egli accetta di buon grado e con tutto l’animo ciò che avviene e che gli è assegnato; non spesso, e soltanto per necessità grandi e di comune giovamento, disponendosi ad immaginare cosa un’altra persona dica, faccia o pensi. [III,4,5] Egli fa attenzione soltanto a come potrebbe eseguire le cose che sono in suo esclusivo potere e concettualizza ininterrottamente quali siano quelle che gli sono intessute dalla fabbrica dell’universo. E mentre procura che le prime siano rette, è persuaso che le seconde possano essere beni. [III,4,6] Giacché la sorte dispensata a ciascuno di noi è un elemento tanto condizionato quanto condizionante. [III,4,7] Egli si ricorda anche che tutto ciò che è razionale è congenere e che tutelare tutti gli uomini è in accordo con la natura umana. Non bisogna tuttavia attenersi all’opinione di tutti, ma soltanto a quella di coloro che vivono ammissibilmente con la natura delle cose. [III,4,8] Perciò egli ricorda in continuazione che genere di persone siano coloro che non vivono così, sia dentro casa che fuori di casa, e con chi si lordino di notte e di giorno. [III,4,9] Non tiene perciò in nessun conto la lode di gente siffatta, che non gradisce neppure se stessa.

[III,5,1] Non agire indeliberatamente, in modo antisociale, incontrollato, lasciandoti tirare in direzione contraria da altri. L’affettazione non imbelletti il tuo intelletto. Non essere verboso né ficcanaso. [III,5,2] Il dio che è dentro di te sia patrocinatore di una creatura maschia, provetta, politica, di un romano, di un condottiero predispostosi come chi attendesse il segnale della ritirata dalla vita con scioltezza e non abbisognasse né di giuramenti né di testimoni. [III,5,3] Dentro raggiante, non bisognevole di servizi dall’esterno e di una quiete procurata da altri. [III,5,4] Occorre essere retti, non corretti.

[III,6,1] Se tu scopri nella vita umana qualcosa di migliore della giustizia, della verità, della temperanza, della virilità e, in una parola, del fatto che il tuo intelletto sia pago di se stesso in quei giudizi che ti fanno agire in armonia con la retta ragione e col destino in ciò che di aproairetico ci è assegnato; se, dico, vedi qualcosa migliore di questo, volgiti ad esso con tutto l’animo e godi del meglio in assoluto che hai scoperto. [III,6,2] Se invece nulla ti appare migliore di quel demone che ha sede in te, che ha subordinato a se stesso i tuoi impulsi, che indaga le rappresentazioni, che ha estirpato da sé, come diceva Socrate, le passioni dei sensi, che si è subordinato agli immortali e si dà pensiero degli uomini; [III,6,3] se trovi tutto il resto più piccolo e più da poco di questo: non dare spazio ad altro, propendendo ed inclinando al quale una volta sola potresti poi non preferire più quel bene tuo proprio senza distrazioni. [III,6,4] Al bene della ragione e dello Stato è infatti illecito contrapporre qualunque cosa d’altro genere, come la lode dei più o le cariche pubbliche o la ricchezza di denaro o godimenti di ebbrezze. [III,6,5] Tutte queste cose, anche se sembrassero per un po’ accordarsi, improvvisamente assoggettano e travolgono. [III,6,6] Tu invece, dico, scegli schiettamente e liberamente il meglio e attieniti ad esso. Ma il meglio è l’utile. [III,6,7] Se intendi utile a te come creatura razionale, serba questa scelta. Se intendi utile a te come animale, dichiara e custodisci senza tante storie la risoluzione. Bada soltanto di fare l’indagine con sicurezza.

[III,7,1] Non onorare mai come tuo utile ciò che un giorno ti costringerà a contravvenire alla lealtà, gettarti alle spalle il rispetto di te e degli altri, odiare qualcuno, sospettare, maledire, recitare una parte ipocrita, smaniare per qualcosa che abbisogna di muri e cortine. [III,7,2] Giacché chi presceglie la propria mente, il proprio demone e il sacro culto della sua virtù, non fa tragedie, non sospira, non abbisognerà né di isolamento né di pienone; e poi la cosa più grande di tutte: vivrà senza inseguire e senza fuggire nulla. [III,7,3] A lui non importa un bel nulla se disporrà di un animo circondato dal corpo più o meno a lungo. [III,7,4] E se dovesse ormai allontanarsene, se ne andrà con tale scioltezza come se eseguisse un’altra qualunque delle azioni che possono essere eseguite con rispetto di sé e degli altri e con compostezza, dopo avere per tutta la vita usato cautela soltanto su questo, ossia che il suo intelletto non prendesse un rivolgimento inappropriato ad una creatura cognitiva e politica.

[III,8,1] Nell’intelletto dell’uomo castigato e purgato non scopriresti nulla di purulento né di insudiciato né di fradicio. [III,8,2] E quando la fatalità afferra la sua vita, essa non è incompiuta, come si direbbe di un attore tragico che si allontana prima di ultimare la recitazione del dramma. [III,8,3] Inoltre non vi è nulla di servo, di affettato, né di dipendente, né di frammentato, nulla di cui sia tenuta a render conto e nulla in agguato.

[III,9,1] Venera la facoltà di concepire i giudizi. Dipende interamente da questa che nel tuo egemonico non si ingeneri più una concezione inconseguente alla natura delle cose e alla struttura della creatura razionale. [III,9,2] Questa inoltre professa la non precipitosità, la dimestichezza con gli uomini e il conformarsi agli immortali.

[III,10,1] Scacciati dunque tutti gli altri giudizi, dà continuità a questi pochi soltanto e insieme rammemora a te stesso che ognuno vive soltanto questo brevissimo presente, mentre tutto il resto o è stato già vissuto o è in dubbio. [III,10,2] Breve è dunque il tempo che ciascuno vive e piccolo è l’angolino di terra dove vive. Ben poca cosa è anche la più lunga fama postuma, tramandata per successione di ometti che prestissimo moriranno senza avere conosciuto neppure se stessi e tanto meno chi è morto da moltissimo tempo. 

[III,11,1] Ai suddetti precetti se ne aggiunga ancora uno, ossia quello di dare sempre la definizione o fare la descrizione di ciò di cui ci accade di avere la rappresentazione, così da vederlo qual è nella sostanza, nudo e distintamente in ogni sua parte; e da poterci dire il suo nome proprio e i nomi dei componenti di cui è composto e nei quali sarà ridissolto. [III,11,2] Nulla è, infatti, tanto produttivo di giudizi disinteressati quanto il poter riscontrare con metodo e verità ciascuno degli accadimenti della vita e guardare ad essi così da congetturare a quale bisogno di quale cosmo sopperiscano, che valore abbiano riguardo al tutto e riguardo all’uomo in quanto cittadino della città suprema, della quale le restanti città sono come delle case; [III,11,3] cos’è e da cos’è composto, per quanto tempo è nato per permanere questo oggetto che ora produce in me questa rappresentazione; di quale virtù c’è ora bisogno nei suoi confronti: per esempio di mansuetudine, di virilità, verità, lealtà, semplicità, autosufficienza, eccetera. [III,11,4] Perciò bisogna dire su ciascuno: questo è giunto dalla divinità; questo secondo la congiunzione e la trama compartita dalla necessità; questo secondo quella certa coincidenza legata alla fortuna; questo da un individuo della mia stessa razza, da un congenere, da un compagno che però ignora che cos’è per lui secondo la natura delle cose. [III,11,5] Io, invece, non lo ignoro e per questo tratto lui secondo la legge naturale della società, con pazienza e con giustizia, e nel contempo ho di mira, in ciò che è né buono né cattivo, il suo reale valore.

[III,12,1] Se esegui il presente incarico seguendo la retta ragione con industria, gagliardia, pazienza e serbi puro non qualche appendice ma il demone che è in te, come se fosse già tempo di restituirlo; se a questo ti rannoderai senza nulla attendere né fuggire, pago della presente attività in accordo con la natura delle cose e della romana verità in ciò che dici e proclami, tu vivrai bene. [III,12,2] E non v’è nessuno che può impedirtelo.

[III,13,1] Come i medici hanno sempre a portata di mano gli strumenti e i ferri per le cure d’emergenza, così tu abbi pronti i giudizi per conoscere il divino e l’umano e per fare anche la più piccola azione come chi ricorda il reciproco legame tra ambedue. [III,13,2] Giacché non riuscirai bene in nulla di umano ignorando la correlazione con il divino, né viceversa.

[III,14,1] Non andare più errando qual e là. Non sei più in condizione di leggere i tuoi Appunti né le Gesta degli antichi Romani e degli antichi Greci, né le Selezioni di quelle compilazioni che ti eri messo in serbo per la vecchiaia. Affrettati dunque al fine e, tralasciate le vuote speranze, aiuta te stesso, se t’importa qualcosa di te, finché ne hai la potestà.

[III,15,1] Non sanno quante cose significa ‘rubare’, ‘inseminare’, ‘comperare’, ‘acquietarsi’, ‘vedere il da farsi’, ciò che non avviene con gli occhi ma con un’altra vista.

[III,16,1] Corpo, animo, mente. Del corpo, le sensazioni; dell’animo, gli impulsi; della mente, i giudizi. [III,16,2] Essere modellati dalle rappresentazioni è proprio anche del bestiame; essere mossi come marionette dagli impulsi è proprio anche delle belve, degli androgini, di un Falaride o di un Nerone; avere la mente come duce su quanto appare doveroso è proprio anche di coloro che non legittimano gli dei, che si gettano alle spalle la patria e che, una volta chiuse le porte, commettono i peggiori misfatti. [III,16,3] Se dunque il resto è comune con i suddetti, ebbene è proprio del virtuoso amare ed accettare di buon grado gli avvenimenti intessuti per lui; non lordare né mettere in trambusto con una turba di rappresentazioni il demone che ha sede nel suo petto, ma serbarlo a dovere pacificato, compostamente al seguito della divinità, lontano dal proclamare qualcosa contrario alla verità o eseguire qualcosa contrario alla giustizia. [III,16,4] Se poi tutta la gente diffida di lui perché vive con schiettezza, rispetto di sé e degli altri e buon umore, egli non si esaspera con nessuno di loro né si svia dalla strada che conduce al fine della vita, cui bisogna pervenire puri, tranquilli, con scioltezza, conciliati senza sforzo con la propria sorte.

* Carnunto era la sede del quartier generale di Marco Aurelio nel 171-173 d.C., all’epoca della guerra contro i Quadi e i Marcomanni. La località si trova poche decine di chilometri ad est di Vienna.

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LIBRO IV

[IV,1,1] La facoltà che signoreggia dentro di noi, qualora sia atteggiata secondo la natura delle cose, sta di fronte agli avvenimenti così da allogarsi sempre facilmente a quello dato. [IV,1,2] Essa infatti non ama specificatamente alcun materiale ed impelle ad essi all’inizio con riserva ma poi, in compenso, ne fa materiale per se stessa. Proprio come il fuoco, quando riesce vittorioso su quanto gli cade sopra. Una lucernina ne sarebbe stata spenta; invece un fuoco vivido assimila rapidamente ciò che gli si accumula sopra, lo consuma e grazie ad esso si leva più grande.

[IV,2,1] Non si esegua alcuna operazione a casaccio né altrimenti che secondo il principio generale completivo dell’arte.

[IV,3,1] Molti vanno in cerca per sé di ricetti agresti, di spiagge e monti. [IV,3,2] Ma tutto questo è cosa da gente affatto comune, dato che ti è lecito, in qualunque momento lo disponga, ritirarti in te stesso. In nessun luogo, infatti, un uomo si ritira con maggiore tranquillità e minori grattacapi che nel suo stesso animo; soprattutto chiunque ha dentro di sé giudizi tali che, chinandosi su di essi, subito si ritrova interamente a suo comodo: e chiamo comodità nient’altro che il buon ordine interiore. [IV,3,3] Concediti dunque continuamente questo ricetto e rinnovati. Brevi ed elementari siano le massime che, appena incontrate, basteranno a dilavare tutto il dispiacere ed a farti accomiatare non più malcontento di quegli impegni ai quali rivieni. [IV,3,4] Per cosa, infatti, sei malcontento? Per la viziosità degli esseri umani? Facendo la somma della determinazione che le creature razionali sono nate le une per le altre; che sopportare l’intemperanza altrui è parte della giustizia; che gli esseri umani aberrano loro malgrado; che tanti sono coloro che dopo inimicizie, sospetti, odi, dopo essersi combattuti con le lance giacciono distesi sul letto di morte e sono ridotti in cenere; ebbene cessa una buona volta di essere malcontento! [IV,3,5] O sei malcontento anche per ciò che ti è assegnato dall’universo? Smettila, rinnovando la considerazione della proposizione disgiuntiva: ‘O prònoia o atomi’; e di quante volte è stato dimostrato che il cosmo è come se fosse una città. [IV,3,6] Le passioni del corpo ti si accosteranno ancora? Smettila, riconsiderando il concetto che l’intelletto, una volta ripresosi in se stesso e riconosciuto quanto è in sua propria potestà, non si mescola più ai moti dolci e piacevoli oppure aspri e dolorosi dello pneuma; e inoltre a quante massime sul dolore e sul piacere fisico hai prestato ascolto e dato il tuo assenso. [IV,3,7] Sei malcontento perché sarai distratto dalla fama? Smettila, riguardando la rapidità dell’oblio di tutto; il subisso dell’eternità infinita nel passato e nel futuro; la vacuità della risonanza; la mutabilità e spregiudicatezza di coloro che sembrano elogiare; e la ristrettezza del luogo in cui la fama si circoscrive. [IV,3,8] Giacché la terra nella sua interezza è un puntino, e questa tua dimora quale angolino è mai di essa? E quanti sono e chi sono qui coloro che ti loderanno? [IV,3,9] Orbene, ricordati del ritiro in questo tuo campicello e prima di tutto non ambasciarti e non sforzarti, ma sii libero e guarda i fatti da uomo, da essere umano, da cittadino, da creatura mortale. [IV,3,10] Infine, tra le massime che devi avere più a portata di mano e sulle quali chinarti, vi siano queste due. L’una: i fatti non si accostano all’animo ma se ne stanno fuori immobili, mentre i fastidi ci provengono soltanto dalla nostra interiore concezione di essi. [IV,3,11] L’altra: tutte le cose che vedi, in men che non si dica si trasformeranno e non saranno più come ora; e pensa continuamente alle trasformazioni di quante ti è capitato di assistere. [IV,3,12] Il cosmo è cambiamento, la vita è concezione.

[IV,4,1] Se la cognitività ci è comune, anche la ragione, grazie alla quale siamo creature razionali, è comune. Se è così, anche la ragione imperativa di ciò che va fatto o non va fatto è comune. Se è così, anche la legge è comune. Se è così, noi siamo cittadini. Se è così, noi partecipiamo di uno Stato. Se è così, il cosmo è come se fosse una città. [IV,4,2] Di quale altro Stato, infatti, si dirà che tutto il genere umano partecipa? È di là, da questa comune città, che ci viene anche la nostra cognitività, logicità e legalità. O se no, da dove? [IV,4,3] Come, infatti, la mia componente terrosa mi viene per scompartimento dell’elemento terra, quella umida per scompartimento di un altro elemento, lo pneuma da un’altra sorgente e la componente calda e ignea da un’altra specifica sorgente; e poiché nulla viene dal nulla come neppure se ne va via verso il non essere, così anche la cognitività è giunta da qualche parte.

[IV,5,1] La morte è tale e quale la genesi: mistero di natura, composizione dai medesimi elementi e dissoluzione nei medesimi elementi. Insomma, qualcosa di cui non ci si vergognerebbe. Essa, infatti, non è contraria alla condizione di creatura cognitiva né è razionalmente contraria alla sua preparazione.

[IV,6,1] Queste cose debbono per natura accadere di necessità così ad opera di siffatti elementi; e chi non vuole questo, vuole che il fico non abbia un lattice. [IV,6,2] Insomma, ricorda che entro pochissimo tempo sia tu che costui sarete morti e che, tra breve, di voi non sopravanzerà neppure il nome.

[IV,7,1] Rimuovine la concezione, ed ecco che è stato rimosso il “sono stato danneggiato”. Rimuovi il “sono stato danneggiato”, ed ecco che è stato rimosso il danno.

[IV,8,1] Ciò che non fa l’uomo peggiore di se stesso non rende peggiore la sua vita e non lo danneggia, né dal di fuori né dal di dentro.

[IV,9,1] La natura dell’utile [è tale che la proairesi] è stata costretta a fare questo.

[IV,10,1] Ricorda che tutto ciò che avviene, avviene giustamente: lo scoprirai se ne terrai ben nota con precisione. Non lo dico soltanto intendendo dire che avviene come conseguenza, ma che avviene secondo giustizia: come se fosse opera di qualcuno che assegna secondo il merito. [IV,10,2] Tienine dunque ben nota, come hai cominciato a fare, e qualunque cosa tu faccia, falla da virtuoso, ossia secondo la cognizione che ne ha propriamente il virtuoso. [IV,10,3] E salvaguarda questo proposito in ogni attività.

[IV,11,1] Non concepire i giudizi che muovono chi oltraggia o quelli che egli decide che tu abbia, ma guarda ai giudizi che sono in armonia con la verità.

[IV,12,1] Bisogna sempre avere queste due prontezze: prontezza a fare soltanto ciò che la ragione di imperatore e legislatore ti sottoponga a giovamento degli uomini; e prontezza ad allogarti diversamente ove vi sia qualcuno in grado di correggerti e dissuaderti da una qualche presunzione. [IV,12,2] Questo mutamento d’avviso deve avvenire sempre per persuasive ragioni di giustizia e di comune giovamento, e ciò che gli dà nuova forma deve essere di siffatta natura e non qualcosa che sia apparso piacevole o fonte di celebrità.

[IV,13,1] Hai la ragione? Sì. Perché non la usi? Se, infatti, la ragione fa ciò che le è proprio, cos’altro vuoi?

[IV,14,1] Tu sei venuto a sussistenza come parte. Scomparirai in ciò che genera, o piuttosto sarai riassunto, per trasformazione, nella sua ragione seminale. 

[IV,15,1] Molti pezzettini di incenso sullo stesso altare: uno vi è caduto sopra prima, un altro poscia; ma non fa alcuna differenza.

[IV,16,1] Entro dieci giorni sembrerai un dio a coloro cui adesso sembri una belva o una scimmia se, quanto a retti giudizi e venerazione della ragione, ripieghi indietro.

[IV,17,1] Non vivere come se avessi dinanzi diecimila anni. Il fato pende sulla tua testa: finché vivi, finché ne hai la potestà, diventa virtuoso.

[IV,18,1] Convinciti di quanto bell’agio guadagna chi non guarda cosa ha detto o fatto o pensato chi gli sta intorno, ma soltanto quel che fa lui, affinché proprio questo sia giusto, sacrosanto e in armonia col bene. Nessun carattere nero, nessun guardarsi attorno, ma correre in linea retta senza dimenarsi di qua e di là. 

[IV,19,1] Chi è appassionato della fama postuma non immagina che ciascuno di coloro che si ricorderanno di lui prestissimo morirà; poi morirà a sua volta il successore fino a che ogni memoria, procedendo attraverso accensioni e spegnimenti successivi, si estinguerà del tutto. [IV,19,2] Presupponi adesso che anche coloro che si ricorderanno di te siano immortali, e immortale la memoria: che vantaggio te ne viene? E non dico: nessun vantaggio da morto; ma: che vantaggio viene dalla lode a chi è vivo? Eccetto che per un qualche vantaggio economico. [IV,19,3] Eppure tu ora pretermetti intempestivamente la donazione che la natura ti ha fatto [ossia la tua proairesi] e ti preoccupi di qualcos’altro.

[IV,20,1] Orbene, tutto il bello in qualunque modo bello è bello di per se stesso e si esaurisce in se stesso, non avendo in esso parte alcuna la lode. [IV,20,2] Dunque, ciò che è lodato non diventa né peggiore né migliore. Dico questo anche a proposito di ciò che è detto bello comunemente, per esempio gli oggetti materiali e le opere d’arte. Quanto è per essenza bello, ha bisogno di qualcosa? No; non più della legge, della verità, della benevolenza, del rispetto di sé e degli altri. [IV,20,3] Quale di queste cose è bella a causa delle lodi che riceve o si rovina se è denigrata? Lo smeraldo diventa peggiore se non è lodato? E cosa diventano l’oro, l’avorio, la porpora, la lira, il coltello, il fiorellino, l’alberello?

[IV,21,1] Se gli animi sopravvivono, come può l’aria avere spazio per tutti da sempre? [IV,21,2] Come la terra ha spazio per i corpi tumulativi da così tanto tempo. Infatti, come qui la loro trasformazione e dissoluzione fa spazio ad altri cadaveri, così gli animi trasferitisi nell’aria, dopo esservi restati per un certo tempo si trasformano, traboccano, s’infiammano e sono riassunti nella ragione seminale del tutto e in questo modo procurano spazio a quelli che ne prendono il posto in aggiunta. Questa è la risposta che si darebbe, nell’ipotesi che gli animi sopravvivano. [IV,21,3] Ma non occorre soltanto ponderare lo stuolo dei corpi così tumulati, ma anche lo stuolo degli animali mangiati ogni giorno da noi e dagli altri animali. [IV,21,4] Quanto è grande il numero di quelli consumati e, come dire, tumulati negli organismi di coloro che se ne nutrono? Eppure vi è lo spazio per accoglierli, grazie alla loro trasformazione in sangue e ai cambiamenti in elemento aeriforme o igneo. [IV,21,5] Qual è, in proposito, l’investigazione che porta alla verità? La diairesi tra componente materiale e componente causale.

[IV,22,1] Non divagare, ma per ogni impulso esplicare il giusto e per ogni rappresentazione salvaguardare il catalettico.

[IV,23,1] Tutto ciò che ben si adatta a te, o cosmo, si concilia con me. Quel che è tempestivo per te, per me è né prematuro né tardivo. [IV,23,2] Tutto è frutto per me, o natura, quello che apportano le tue stagioni. Tutto da te, tutto in te, tutto per te. [IV,23,3] Quel poeta dice: “Salve, o cara città di Cecrope”; e tu invece non dirai: “Salve, o cara città di Zeus”?

[IV,24,1] ‘Fa poco’ -dice- ‘se vuoi vivere di buon umore’. Non è meglio fare ciò che è necessario e quanto sceglie la ragione dell’animale politico per natura, e farlo come essa lo sceglie? [IV,24,2] Questo, infatti, non soltanto apporta il buon umore derivante dal fare bene ma anche quello dal fare poco. [IV,24,3] Giacché se uno si togliesse d’attorno la maggior parte delle cose che diciamo e facciamo e che non sono necessarie, potrebbe starsene più a bell’agio e dominare meglio lo sconcerto. [IV,24,4] Da cui deriva che in ogni occasione dobbiamo rammentare a noi stessi: ‘È questa una delle cose non necessarie?’ [IV,24,5] E bisogna togliersi d’attorno non soltanto le azioni ma anche le rappresentazioni non necessarie, giacché in questo modo neppure ne conseguiranno azioni superflue.

[IV,25,1] Esperimenta come ti riesce anche la vita dell’uomo virtuoso, il quale gradisce quel che il cosmo assegna a ciascuno ed è pago della sua propria azione giusta e disposizione paziente.

[IV,26,1] Hai visto quelle cose? Guarda anche queste. [IV,26,2] Non sconcertarti, sii schietto. [IV,26,3] Qualcuno aberra? Aberra a suo danno. [IV,26,4] Ti è successo qualcosa? Bene, quel che ti succede era stato predestinato e intessuto per te dal cosmo fin dall’inizio. [IV,26,5] Insomma, la vita è breve e il presente va guadagnato con razionalità e giustizia. [IV,26,6] E sii sobrio quando ti rilassi.

[IV,27,1] O un cosmo organizzato o un guazzabuglio raccogliticcio ma disordinato. [IV,27,2] Oppure può sussistere in te un ordine mentre nell’universo c’è disordine, e ciò avvenire mentre tutte le cose sono così scriminate, effuse e consentanee?

[IV,28,1] Un carattere nero, un carattere effeminato, un carattere arido, belluino, brutale, puerile, infingardo, disonesto, parassita, mercenario, tirannico.

[IV,29,1] Se straniero nel cosmo è chi non conosce gli esseri che lo abitano, non meno straniero è chi non conosce i fatti che vi succedono. [IV,29,2] Esule è chi esula dalla ragione di questo stato; cieco è chi tiene chiuso l’occhio cognitivo; poveraccio è chi è bisognoso dell’altrui e non ha con sé tutto ciò che è proficuo per la vita. [IV,29,3] Ascesso del cosmo è chi si distorna e spazieggia se stesso dalla ragione della comune natura dispiacendosi di ciò che avviene; giacché la natura che apporta questo evento è quella che ha portato al mondo anche te. Frammento staccato della città è chi frammenta il proprio animo da quello, che è uno solo, delle creature razionali.

[IV,30,1] Uno vive da filosofo senza avere una tunica, un altro senza avere un libro. Quest’altro, mezzo nudo, dice: “Non ho pane e rimango fedele alla ragione”. Io invece ho il cibo che proviene dalle nozioni filosofiche e non le rimango fedele.

[IV,31,1] Ama la piccola arte che hai imparato e trova conforto in essa. Attraversa la restante parte della tua vita come colui che ha affidato tutto se stesso agli immortali dal profondo dell’animo, senza istituirsi né tiranno né servo di alcun uomo.

[IV,32,1] Pensa, faccio per dire, ai tempi di Vespasiano e vedrai tutte le stesse cose: sposarsi, allevare bambini, ammalarsi, morire, guerreggiare, festeggiare, commerciare, coltivare la terra, adulare, vantarsi, sospettare, tramare insidie, auspicare la morte di qualcuno, brontolare sul presente, fare l’amore, tesaurizzare, smaniare per il consolato o per un trono. Ebbene, di quelle vite non rimane più nulla da nessuna parte. [IV,32,2] Adesso va oltre, ai tempi di Traiano: di nuovo tutte le stesse cose. E anche quelle vite non ci sono più. [IV,32,3] Accerta similmente le documentazioni riferentisi ad altri tempi e ad altre popolazioni intere, e guarda quanti individui, dopo tanti sforzi per affermarsi, dopo breve sono caduti e sono stati ridissolti negli elementi naturali. [IV,32,4] Soprattutto sono da rivangare coloro che tu stesso riconosci essersi ambasciati invano, avendo tralasciato di fare ciò che era in armonia con la propria struttura, di attenersi pervicacemente ad essa e di essere paghi di ciò. [IV,32,5] Qui è poi necessario ricordare che anche la diligenza per ciascuna nostra azione ha un proprio ben proporzionato valore. Non ti sentirai un malcapitato, infatti, se non ti applicherai a cose minori più di quanto conviene.

[IV,33,1] Le parole un tempo consuete adesso sono arcaismi, e così anche i nomi di persone un tempo molto decantate adesso sono in un certo modo arcaismi: Camillo, Cesone, Voleso, Dentato; tra poco anche Scipione e Catone, poi anche Augusto e poi Adriano e Antonino. Giacché tutto svanisce, diventa in fretta leggendario e poi in fretta il definitivo oblio lo ricopre. [IV,33,2] E dico questo a proposito degli individui stupendamente brillanti giacché i restanti, una volta esalato l’ultimo respiro, sono “ignoti, sconosciuti”. Ma cos’è, insomma, l’indimenticabilità? Vuoto assoluto. [IV,33,3] A cosa dobbiamo dunque rivolgere la nostra industria? A questo soltanto: giusto intelletto, azioni socievoli, discorsi non mendaci, disposizione ad accettare di buon grado tutto ciò che avviene in quanto necessario, conosciuto, scorrente dalla medesima causa basilare e fonte.

[IV,34,1] Di proposito offriti intero a Cloto, acconsentendole di filarti insieme a qualunque fatto ella decida.

[IV,35,1] Tutto è effimero, sia il rammemorante, sia il rammemorato.

[IV,36,1] Conosci con chiarezza che tutto ininterrottamente nasce per trasformazione, e abituati a pensare che la natura dell’universo nulla ama tanto quanto trasformare le cose esistenti e farne nuove di simili. [IV,36,2] Tutto ciò che esiste, infatti, è in un certo modo semenza di ciò che da esso deriverà. [IV,36,3] La sola semenza che tu immagini è quella gettata nella terra o nell’utero, ma questa è un’immagine da gente davvero troppo comune.

[IV,37,1] Tra poco sarai morto e non sei ancora né schietto, né capace di dominare lo sconcerto, né capace di dominare il sospetto che potresti essere danneggiato dall’esterno, né benigno con tutti, né qualcuno che pone la saggezza nel solo operare il giusto.

[IV,38,1] Fissa lo sguardo sui loro egemonici e su quali cose essi fuggano e quali cose inseguano.

[IV,39,1] Il tuo male non sta in un egemonico allotrio e di sicuro neppure in qualche rivolgimento e alterazione di ciò che ti circonda. [IV,39,2] Dunque dov’è? È laddove sta la tua facoltà di concepire giudizi circa i mali. Questa facoltà non li concepisca e tutto sta bene. [IV,39,3] E se ciò che le è più vicino, ossia il corpo, fosse tagliato, bruciato, suppurasse o imputridisse, tuttavia la parte costitutiva che concepisce i giudizi su queste cose si acquieti, cioè giudichi che è né un bene né un male ciò che può avvenire parimenti ad un uomo virtuoso e ad un vizioso. [IV,39,4] Infatti, ciò che avviene parimenti a chi vive contro la natura delle cose e a chi vive secondo la natura delle cose è secondo natura e non contro natura.

[IV,40,1] Devi continuamente pensare il cosmo come una sola creatura, espressione di una sola sostanza e di un solo animo; come tutto si accomuni in una sola sua sensazione; come quest’essere operi tutto con un solo impulso; come tutto sia concausa di tutto quel che succede e quali ne siano le connessioni e le compartizioni.

[IV,41,1] Sei un’animuzza che sorregge un cadavere, come diceva Epitteto.

[IV,42,1] Non vi è male alcuno nelle cose che si trasformano, così come non vi è bene alcuno in quelle che traggono sussistenza dalla trasformazione.

[IV,43,1] L’eternità è un fiume di eventi e una corrente violenta. Ciascuna cosa, non appena emerge alla vista è spazzata via; poi ne passa un’altra, che a sua volta sarà portata via.

[IV,44,1] Tutto ciò che avviene è tanto noto e consueto quanto le rose in primavera e la frutta d’estate. Tali sono la malattia, la morte, la maldicenza, l’insidia e quant’altre cose allietano o affliggono gli stupidi.

[IV,45,1] Le cose che vengono dopo susseguono sempre in affinità a quelle che le precedono. Non si tratta, infatti, come di una enumerazione di cose sconnesse avente soltanto cogenza, ma di un contatto ben logico. E come le cose che sono, sono state conciliate e coordinate, così nelle cose che nascono traspare non una mera successione, ma una certa mirabile affinità.

[IV,46,1] Bisogna sempre ricordarsi del detto di Eraclito che “morte della terra è diventare acqua, morte dell’acqua è diventare aria, e l’aria fuoco e poi così viceversa”. [IV,46,2] Bisogna anche ricordarsi di “colui che ha dimenticato dove conduce la strada”. [IV,46,3] E che: “gli uomini soprattutto litigano grazie a ciò, ossia la ragione che tutto governa, per cui possono ininterrottamente capirsi conversando”. E che: “ciò che gli uomini si trovano di fronte ogni giorno è ciò che loro appare strambo”. [IV,46,4] E che: “nulla bisogna fare né dire come se si stesse dormendo” giacché anche allora ci sembra di fare e di dire delle cose. [IV,46,5] E che non bisogna agire “come fanciulli di genitori” ossia secondo il mero “secondoché abbiamo assunto”.

[IV,47,1] Come se uno degli dei ti avesse detto: “Domani o dopodomani sarai certamente morto”; tu non daresti maggiore importanza al morire domani o dopodomani, a meno che non fossi una persona di estrema ignobiltà (quant’è grande, infatti, ‘il frattempo’?); così legittima pure il pensiero che non è un grande affare morire tra molti anni invece che domani.

[IV,48,1] Devi farti continuamente il concetto di quanti medici siano morti dopo avere aggrottato spesso le sopracciglia sugli infermi. Quanti astrologi dopo avere predetto, come se fosse qualcosa di grande, le morti altrui; quanti filosofi, dopo essersi dilungati miriadi di volte in discorsi sulla morte e sull’immortalità; quanti capi, dopo avere ucciso tanta gente; quanti tiranni, dopo avere usato con terribile arroganza la loro potestà di vita e di morte, come se fossero immortali; quante città intere sono, per dire così, morte: Elice, Pompei, Ercolano e innumerabili altre. [IV,48,2] Passa anche in rassegna tutti quelli che sai, uno dopo l’altro. Dopo avere fatto il funerale a questo, quello è disteso sul letto di morte e un altro gli fa il funerale. E il tutto avviene in un breve volgere di tempo. [IV,48,3] Insomma, bisogna sempre guardare dall’alto le vicende umane come effimere e da poco: ieri moccicaglia, domani mummia e cenere. [IV,48,4] Questo tempo brevissimo bisogna dunque traversarlo restando in armonia con la natura delle cose e poi disciogliersene pacificati; come un’oliva che, divenuta matura, cade elogiando la natura che l’ha apportata e rendendo grazie all’albero che l’ha generata.

[IV,49,1] Essere simile al promontorio contro il quale i flutti ininterrottamente si frangono. Il promontorio sta immoto e intorno a lui il ribollire delle acque si calma. [IV,49,2] “Sfortunato me perché mi avvenne questo!” Nient’affatto, ma: “Fortunato me perché, pur essendomi avvenuto questo, continuo a saper dominare l’afflizione, a non essere fracassato dal presente ed a non avere paura di quel che si approssima”. [IV,49,3] Giacché qualcosa di siffatto poteva avvenire a tutti ma non tutti, per questo, avrebbero continuato a saper dominare l’afflizione. Perché dunque quella una sfortuna piuttosto che questa una fortuna? [IV,49,4] Insomma dici sfortuna dell’uomo ciò che non è un traviamento della natura dell’uomo? E reputi un traviamento della natura dell’uomo ciò che non è contro il piano della sua natura? E dunque? [IV,49,5] Hai imparato il piano della natura dell’uomo. Dunque l’accidente ti impedisce di essere giusto, magnanimo, temperante, assennato, non precipitoso, sincero, rispettoso di te e degli altri, libero, e le altre cose grazie alla cui compresenza la natura dell’uomo incorpora in sè il fine che le è proprio? [IV,49,6] Orbene, di fronte ad ogni cosa che ti promuova ad una afflizione, ricordati di usare questo giudizio: “Non che questo è una sfortuna, ma che il portarlo nobilmente è una fortuna”.

[IV,50,1] Un aiuto da gente comune e tuttavia efficace per tenere in spregio la morte viene dal rivangare il ricordo di coloro che si sono cocciutamente intrattenuti oltre nella vita. [IV,50,2] Cosa hanno ottenuto più di coloro che sono morti inopportunamente? [IV,50,3] Cecidiano, Fabio, Giuliano, Lepido o altri come loro che hanno sepolto molti e poi sono stati sepolti, certamente giacciono anch’essi da qualche parte. Ben piccolo è l’intervallo di tempo [della nostra vita], che svuotiamo come la sentina di una nave con quante fatiche, in compagnia di chi e dentro quale corpo! [IV,50,4] Dunque, non considerarlo un affare! [IV,50,5] Guarda alle tue spalle l’abisso dell’eternità e innanzi a te un altro tempo infinito. [IV,50,6] In questa immensità, che differenza c’è tra chi ha vissuto tre giorni e chi ha vissuto tre volte la vita di Nestore?

[IV,51,1] Corri sempre per la via più spiccia, e quella più spiccia è la via in armonia con la natura delle cose, così da dire e fare tutto nel modo più valido. [IV,51,2] Un siffatto proposito, infatti, allontana dal tedio, dal tentennamento, dalla considerazione di ogni vantaggio economico e da ogni affettazione.

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LIBRO V

[V,1,1] All’alba, quando ti risvegli di malavoglia, abbi a portata di mano il giudizio: ‘Mi desto in vista di un lavoro da uomo’. Dunque sono ancora scontroso se m’incammino a fare ciò per cui sono nato e per cui sono stato promosso al mondo? Oppure sono stato strutturato per starmene al calduccio sotto le coperte? [V,1,2] “Ma questo è più piacevole!” Dunque sei nato per godere nella carne? Insomma per la passività o per l’attività? Non vedi i vegetali, i passerotti, le formiche, i ragni, le api che fanno ognuno quel che è loro peculiare e che, per quanto sta a loro, forgiano il cosmo? [V,1,3] E poi tu non vuoi fare ciò che è proprio dell’uomo? Non corri a far ciò che è in armonia con la tua natura? [V,1,4] “Ma bisogna anche riposarsi!” Certo, bisogna; lo dico anch’io. La natura ha dato dei metri anche per questo. Li ha dati anche per il mangiare e per il bere, e nonostante questo tu avanzi al di là di quanto basta? Non ancora, però, nelle azioni, ma ‘entro il possibile’. [V,1,5] Infatti tu non ami te stesso, giacché allora ameresti tanto la tua natura quanto il suo piano. [V,1,6] Altri amano le loro arti così profondamente da fondersi nei loro lavori, senza lavarsi e senza mangiare. Tu invece onori la tua natura meno di quanto il cesellatore onori la toreutica, il danzatore la danza, l’avaro il denaro e il vanaglorioso la fama. [V,1,7] Costoro, qualora si struggano per qualcosa, non vogliono né mangiare né andare a letto pur di incrementare ciò cui sono portati; mentre a te le azioni socievoli appaiono cose da poco e degne di minore industria?

[V,2,1] Com’è agevole respingere e scancellare ogni rappresentazione fastidiosa o inappropriata ed essere subito in totale bonaccia. 

[V,3,1] Giudicati degno di qualunque parola e di qualunque opera che sia in accordo con la natura delle cose. Se poi ne conseguirà il biasimo o le chiacchiere di alcuni, questo non ti imbarazzi ma, dovendo qualcosa di buono essere fatto o detto, non stimartene indegno. [V,3,2] Quelli, infatti, hanno il loro proprio egemonico ed utilizzano il loro proprio impulso. Tu non guardare torno torno a questo, ma procedi per la diritta via conformandoti alla natura tua propria e a quella delle cose, che è comune per tutti. Giacché di ambedue unica è la via.

[V,4,1] M’incammino attraverso attività in armonia con la natura fino a che, dopo essere spirato in questo elemento [l’aria] da cui ogni giorno traggo respiro, mi riposerò; cadendo in questo elemento [il fuoco] da cui anche mio padre raccolse lo sperma, mia madre il sangue, la mia balia il latte; grazie a cui quotidianamente da tanti anni mi pasco e mi disseto [l’acqua]; che mi porta mentre incedo [la terra] e che sfrutto per tanti scopi.

[V,5,1] Gli altri non hanno modo di ammirarti per acume: e sia. Ma vi sono molte altre buone qualità per le quali non hai modo di dire: ‘giacché non sono nato per questo’. [V,5,2] Metti dunque in atto queste, che sono proprio tutte in tuo esclusivo potere: autenticità, solennità, resistenza alla fatica, disinteresse per i piaceri fisici, accettazione della sorte, parsimonia, pazienza, libertà, morigeratezza, avversione alle chiacchiere, munificenza. [V,5,3] Non ti accorgi quante buone qualità, per le quali non sono possibili pretesti di inettitudine naturale o di inidoneità, puoi mettere in atto da subito e delle quali tu invece resti al disotto di proposito? [V,5,4] Oppure sei costretto a brontolare, ad essere spilorcio, ad adulare, a dare la colpa al tuo corpo, a piaggiare, a fare il frivolo e agitare tante idee nel tuo animo a causa dell’essere stato strutturato naturalmente inetto ad altro? [V,5,5] No, per gli dei! Già da tempo avresti potuto allontanarti da questi difetti ed essere soltanto accusato, se davvero è così, di essere più lento e duro di comprendonio di altri; e anche in questo bisogna esercitarsi, senza infischiarsene e senza crogiolarsi nell’indolenza.

[V,6,1] Persone di un certo tipo, quando abbiano operato con destrezza per qualcuno, sono anche pronte a presentargli il conto per i favori che gli hanno fatto. [V,6,2] Persone di un altro tipo non sono subito pronte a presentare il conto, ma tra sé e sé pensano all’altro come a un debitore e sanno quel che hanno fatto. [V,6,3] Un altro tipo di persone ancora, in un certo qual modo neppure sa quel che ha fatto ed è simile ad una vite che ha apportato il grappolo e che, una volta apportato il proprio frutto, non va ulteriormente in cerca d’altro. [V,6,4] L’uomo che opera bene non cerca di attirarsi una ricompensa ma passa oltre, come la vite passa ad apportare di nuovo il grappolo nella stagione stabilita, come fa un cavallo quando corre, un cane quando bracca, l’ape quando fa il miele. [V,6,5] In queste faccende bisogna dunque essere di quelli che fanno bene senza, in un certo qual modo, comprenderlo. [V,6,6] “Sì, ma bisogna comprendere proprio questo; giacché, si dice, peculiare della creatura socievole è il rendersi conto di agire socievolmente e, per Zeus, decidere che anche chi gli è compagno se ne accorga”. [V,6,7] Quello che dici è vero, ma tu fraintendi quello che ho appena detto. Per questo sarai uno di quelli che menzionavo in precedenza, giacché anch’essi sono influenzati da una certa qual persuasività logica dei loro giudizi. [V,6,8] Se invece vorrai capir bene di cosa si sta parlando, al contrario sta sicuro che non ometterai, per questo, un’opera socievole.

[V,7,1] Auspicio degli Ateniesi : “Piovi, piovi, o caro Zeus, sui campi e sui pianori degli Ateniesi”. [V,7,2] O non si devono fare auspici, oppure si deve auspicare così, con schiettezza e libertà.

[V,8,1] Come si dice: ‘Asclepio ha prescritto a costui di andare a cavallo o di fare dei bagni freddi oppure di andare scalzo’; così si dice: ‘La natura ha prescritto a costui una malattia o una storpiatura o una perdita o qualcos’altro di siffatto’. [V,8,2] Nel primo caso ‘ha prescritto’ significa qualcosa del genere: ‘ha ordinato a costui questo come consono alla sua salute’. Nel secondo caso, ciò che avviene a ciascuno di noi è stato in qualche modo ordinato per noi dalla natura come consono al nostro destino. [V,8,3] Diciamo pure che queste cose ‘capitano’, come anche gli artefici dicono che le pietre squadrate ‘capitano’ a puntino nelle mura di una città o nelle piramidi, intendendo dire che si conciliano bene l’una con l’altra in una certa combinazione. [V,8,4] Insomma l’armonia è una. E come il cosmo è il corpo che è, essendo il complesso di tutti i corpi; così il destino è la causa che è, essendo il complesso di tutte le cause. [V,8,5] Di ciò che dico hanno cognizione anche le persone appieno comuni, giacché esse dicono: ‘Il destino gli ha portato questo’. [V,8,6] Dunque questo gli è stato portato e questo gli è stato prescritto. [V,8,7] Accogliamo allora queste prescrizioni come accogliamo quelle di Asclepio. [V,8,8] Anche tra quelle ve ne sono molte aspre e dolorose, ma noi le accettiamo di buon grado nella speranza di ritrovare la salute. [V,8,9] Reputa quindi che il compimento e l’adempimento di quel che pare bene alla natura comune a tutti, sia qualcosa come la tua salute. [V,8,10] E così accetta di buon grado tutto quel che succede, anche se ti sembrerà la cosa più ruvida da fare, pensando che conduce là, alla salute del cosmo, al libero corso e al felice successo di Zeus. [V,8,11] Il quale, infatti, non apporterebbe qualcosa a qualcuno se ciò non fosse utile all’insieme del cosmo. né una natura, qualunque capiti, apporta qualcosa che non sia consono a ciò che da essa è governato. [V,8,12] Per due ragioni, dunque, occorre che tu sia contento di quel che ti avviene: la prima, perché è successo per te, per te è stato prescritto e perchè aveva a che fare in qualche modo con te, intessuto fin dall’origine con i fili delle cause primigenie; la seconda, perché a ciò che governa il tutto [ossia all’egemonico del cosmo] è causa di libero corso, di compimento e, per Zeus, della sua permanenza stessa. [V,8,13] L’integrità è storpiata, se frantumerai un elemento qualunque del contatto e della continuità tanto delle parti costitutive quanto delle cause. E tu lo frantumi e in un certo modo, per quanto è in tuo esclusivo potere, lo fai sparire quando fai il dispiaciuto.

[V,9,1] Non avere ribrezzo, non capitolare, non sentirti un malcapitato se ciascuna tua azione non è un condensato di retti giudizi. Se ti sei stornato da essi, ritorna alla filosofia ed esulta se la maggior parte di quelle azioni è stata da uomo. Ama ciò su cui rivieni, senza ritornare alla filosofia come ad un pedagogo, ma come il malato d’occhi ritorna alla spugnetta e al bianco d’uovo, un altro ad un impiastro o ad un impacco. [V,9,2] In questo modo non farai vacuo sfoggio di obbedienza alla ragione, ma troverai conforto in essa. [V,9,3] Ricorda che la filosofia non dispone altro che ciò che dispone la tua natura di uomo, mentre tu volevi qualcos’altro che non era in armonia con la natura delle cose. [V,9,4] E quali gradevolezze sono maggiori di queste? L’ebbrezza non alletta grazie a questo? Invece tu osserva se non sia più gradevole la magnanimità, la libertà, la schiettezza, la costumatezza, la santità. [V,9,5] Qualora tu abbia ponderato come la facoltà che è comprensione e scienza non ti porti a passi falsi e ti offra serenità in ogni circostanza, cosa c’è di più gradevole della saggezza stessa?

[V,10,1] La realtà è, in un certo modo, avvolta in tali velami che a non pochi filosofi, e non dei primi che capitano, essa è sembrata totalmente inintelligibile; e peraltro agli stessi Stoici essa appare di difficile intelligibilità. [V,10,2] E ogni nostro assenso è volubile: dov’è, infatti, la persona dai giudizi immutabili? [V,10,3] Passa adesso a considerare gli oggetti esterni e vedi come essi sono di breve durata, da poco, passibili di essere in possesso di un cinedo, di una prostituta o di un rapinatore. [V,10,4] Dopo di ciò, passa in rassegna i caratteri dei tuoi conviventi, dei quali è appena appena sopportabile il più raffinato; per non dire che uno già a stento regge se stesso. [V,10,5] In siffatte tenebre e sudiciume, in così grande flusso di sostanza, di tempo, di movimento e di cose mosse, non penso che qualcosa possa ancora avere un valore supremo o insomma meritare la nostra industria. [V,10,6] Al contrario, bisogna consolarsi di attendere la nostra naturale risoluzione e non bisogna costernarsi nell’attesa, ma trovare conforto in questi giudizi: uno è che non mi avverrà nulla che non sia in armonia con la natura; l’altro è che ho la potestà di non fare nulla che sia in contrasto con il dio e il demone che mi porto dentro. [V,10,7] Nessuno, infatti, può costringermi a contravvenire ai suoi comandi.

[V,11,1] ‘Verso quale meta, dunque, uso ora il mio animo?’ In ciascuna situazione bisogna interrogarsi ed indagare che cosa ci sia adesso in questa mia parte costitutiva che chiamano appunto ‘egemonico’, e di chi io abbia adesso l’animo. Ho forse l’animo di un bambino? o di un adolescente? o di una femminetta? o di un tiranno? o di un capo di bestiame? o di una belva?

[V,12,1] Di quale natura siano le cose che ai più sembrano beni, potresti prenderne coscienza anche da questo. [V,12,2] Se, infatti, uno pensasse che ci sono certe virtù, quali la saggezza, la temperanza, la giustizia e la virilità, che sono davvero beni, pensando in anticipo a queste non potrebbe più sentir dire che qualcosa è ‘bene’, giacché nulla si adatterebbe ad essere definito così. Quando uno invece pensa in anticipo a quelli che appaiono ‘beni’ ai più, allora sentirà dire e accoglierà con facilità come appropriatamente soggiunta l’espressione del poeta comico. [V,12,3] Così, anche i più si rappresentano la differenza. Giacché questa espressione offenderebbe e sarebbe stimata indegna, e quanto è detto sulla ricchezza di denaro e i colpi di fortuna che portano lusso o fama noi non li accoglieremmo come cose dette decentemente e spiritosamente. [V,12,4] Procedi e domandati se meritino onore e si debbano concepire ‘beni’ oggetti siffatti, pensando in anticipo ai quali si inferirebbe appropriatamente che ‘chi li ha acquisiti, in grazia della sua prosperità, non ha dove cacare’.

[V,13,1] Io consto di una componente causale e di una componente materiale. Nessuna delle due rovinerà nel nulla, così come neppure sussistette dal nulla. [V,13,2] Quindi ogni parte di me sarà ridisposta per trasformazione in qualche parte del cosmo, poi a sua volta quella si trasformerà in un’altra parte del cosmo e così all’infinito. [V,13,3] Anch’io sussistei in armonia con siffatta trasformazione, così come coloro che mi generarono e così, a ritroso, all’infinito. [V,13,4] Nulla impedisce di parlare così, pur se il cosmo si governasse secondo determinati periodi ciclici.

[V,14,1] Ragione e logica sono arti e facoltà paghe di se stesse e delle opere in armonia con loro stesse. [V,14,2] Esse prendono spunto dalla causa appropriata e quindi si avviano verso l’obiettivo che hanno come fine; onde tali operati sono denominati operati retti, per significare la dirittura della via che seguono. 

[V,15,1] L’uomo non deve serbare per sé nessuna delle cose che non spettano all’uomo in quanto è uomo. [V,15,2] Queste cose non sono requisiti dell’uomo, la natura umana non le professa e neppure esse sono completezze della natura umana. [V,15,3] Pertanto neppure il fine dell’uomo è giacente in esse e neppure lo è ciò che è completivo del suo fine: il bene. [V,15,4] Inoltre, se qualcuna di esse gli spettasse come uomo, non gli spetterebbe di guardarle con austerità né di essere in rivolta contro di esse, non sarebbe lodevole chi fa in modo di non esserne bisognevole e neppure, se davvero esse fossero beni, sarebbe virtuoso chi si autolimita in qualcuna di esse. [V,15,5] Ora, invece, quanto più uno fa a meno di queste o di altre cose siffatte oppure tollera di essere costretto a farne a meno, tanto più è virtuoso.

[V,16,1] Tale sarà il tuo intelletto quale tu l’abbia spesso rappresentato a te stesso, giacché l’animo è immerso nelle rappresentazioni. [V,16,2] Immergilo dunque in continuità in rappresentazioni come queste: dove ci è dato di vivere, là ci è anche dato di vivere bene. Ci è dato di vivere a corte, dunque ci è anche dato di vivere bene a corte. [V,16,3] E ancora: ciascun essere è portato a ciò per cui è stato strutturato, e ciò verso cui è portato è il suo fine. Laddove è il fine, là è anche l’utile e il bene di ciascuno. Bene della creatura razionale, pertanto, è la vita in società. [V,16,4] Che noi siamo nati per la vita in società, infatti, è stato mostrato da tempo. [V,16,5] O non era evidente che gli esseri inferiori esistono per i superiori, e i superiori gli uni per gli altri? Gli esseri animati, inoltre, sono superiori a quelli inanimati e, tra gli esseri animati, i superiori sono gli esseri razionali.

[V,17,1] Inseguire l’impossibile è cosa da pazzi; ma è impossibile che gli insipienti non facciano qualcosa del genere.

[V,18,1] A nessuno avviene qualcosa che egli non possa per natura portare con pazienza. [V,18,2] Ad un altro avvengono le stesse cose ed egli, o perché ignora che sono avvenute o perché vuole sfoggiare grandezza d’animo, resta ben stabile e ne esce illeso. [V,18,3] È terribile che l’ignoranza e la piaggeria siano più potenti della saggezza.

[V,19,1] Le cose di per sé non s’accostano in alcun modo al nostro animo né vi hanno accesso né possono farlo volgere o farlo smuovere. Esso soltanto volge e smuove se stesso e rende le cose che gli si presentano dal di fuori tali quali sono le determinazioni delle quali si ritenga degno.

[V,20,1] D’altra parte l’uomo ci è familiare strettissimo, secondo che bisogna far bene nei loro riguardi e sopportarli; ma, quanto a coloro che recalcitrano davanti alle opere proprie dell’uomo, l’uomo diventa per me una qualunque delle entità indifferenti, non meno del sole, del vento o di una belva. [V,20,2] Ammettiamo che una qualche attività fosse stata intralciata da un’entità indifferente. Ciò non diventa affatto un intralcio dell’impulso e della disposizione d’animo, grazie alla riserva cui io li sottopongo e al capovolgimento che posso effettuarne. [V,20,3] L’intelletto, infatti, è capace di capovolgere e di sgombrare qualunque impedimento all’attività che è il suo fine cardinale [ossia quello di mantenersi in accordo con la natura delle cose]. E così ciò che impacciava quell’attività va a vantaggio di questa seconda opera; ciò che ostacolava quella via diventa un vantaggio per compiere quest’altra.

[V,21,1] Rendi onore alla più possente delle cause basilari che sono nel cosmo: questo è ciò che tutto usa e tutto dirige. [V,21,2] Similmente rendi onore a quella che in te è più possente. Questa è omogenea a quella. [V,21,3] Questa è in te la facoltà che usa le altre facoltà, e la tua vita da questa facoltà è governata.

[V,22,1] Ciò che non è dannoso per la città, neppure danneggia il cittadino. [V,22,2] Ad ogni rappresentazione di essere stato danneggiato, applica questo canone: ‘Se la città non ne è danneggiata, neppure io sono stato danneggiato’. E se la città è danneggiata, non bisogna adirarsi con chi danneggia, ma mostragli che cosa ha travisato.

[V,23,1] Pondera spesso la rapidità con la quale è spazzato via e sottratto alla vista l’esistente e il diveniente. [V,23,2] Giacché la sostanza è come un fiume in flusso ininterrotto, le attività sono in continua trasformazione, le cause vi agiscono in miriadi di rivolgimenti e quasi nulla è stabile, né l’istante né il passato prossimo, mentre l’infinito del passato e del futuro sono abissi in cui tutto scompare. [V,23,3] Come fa a non essere stupido chi in queste circostanze si boria, si ambascia, si cruccia come se qualcosa potesse disturbarlo a lungo? 

[V,24,1] Ricordati della totalità della sostanza, della quale partecipi per pochissima parte; dell’eternità intera, di cui ti è stato demarcato un intervallo infinitesimamente breve; e del destino, di cui quanta parte sei!

[V,25,1] Un altro individuo aberra in qualcosa nei miei confronti? Affar suo; giacché quella disposizione di proairesi è sua peculiare, quell’attività è sua peculiare. [V,25,2] Io ho in questo momento quella disposizione di proairesi che la natura delle cose, comune per tutti, dispone che io abbia; ed opero ciò che la mia natura di uomo dispone che io operi ora.

[V,26,1] L’egemonico che signoreggia il tuo animo, sia parte non coinvolta nei movimenti dolci e piacevoli o aspri e dolorosi della carne e non se immischi, ma si circoscriva in se stesso e releghi quelle affezioni nelle loro parti costitutive. [V,26,2] Qualora però esse si accomunino verso l’alto fino all’intelletto, a causa di quel genere di consentaneità che lega le parti del corpo in una unità organica, allora non bisogna provare ad andare contro la sensazione, in quanto essa è fisica; tuttavia l’egemonico non deve addizionarle, traendola da se stesso, la concezione che si tratti di un bene o di un male.

[V,27,1] Convivere con gli dei. Convive con gli dei chi continuamente mostra loro che il proprio animo gradisce la parte assegnatagli ed opera quanto decide il demone che Zeus ha dato, una scintilla di se stesso, a ciascun essere umano quale patrocinatore e duce. [V,27,2] E questo è la mente e la ragione di ciascuno di noi.

[V,28,1] Ti adiri con chi puzza di caprone? Ti adiri con chi ha l’alito cattivo? E che ti faranno mai? Uno ha una bocca siffatta, un altro le ascelle siffatte: è necessario che ne sortiscano effluvi siffatti. [V,28,2] “Ma l’uomo”, dice, “è dotato di ragione e, soppesando, può capacitarsi in cosa commette dei falli”. [V,28,3] Bravissimo! Ebbene, anche tu hai la ragione. Con la tua disposizione razionale smuovi la sua, mostragliela, rammentagliela. Giacché se ti intende, così lo curerai e non ci sarà bisogno d’ira. [V,28,4] né attore tragico né prostituta.

[V,29,1] Come pensi di poter vivere uscendo di qui, così hai la potestà di vivere qui. Se non te lo concedono, allora esci dalla vita; ma non davvero come se patissi qualche male. [V,29,2] C’è fumo e dunque me ne vado via. Che problema ci vedi? Finché a trarmi fuori non è un fumo del genere, io resto libero e nessuno mi impedirà di fare quello che dispongo. E io dispongo di fare ciò che è in armonia con la natura della creatura razionale e socievole.

[V,30,1] La mente del cosmo è socievole. Ha fatto le creature inferiori in vista di quelle superiori e conciliato le superiori una con l’altra. [V,30,2] Vedi come ha subordinato, coordinato, assegnato a ciascuno secondo il suo valore e come ha aggregato le creature più eccellenti in concordia reciproca.

[V,31,1] Come ti sei comportato fino ad ora con dei, parenti, fratelli, moglie, figli, insegnanti, precettori, amici, familiari, domestici? Se verso tutti costoro fino ad ora vale per te il verso
‘non fare né dire nulla di anomalo’
[V,31,2] allora sovvieniti anche di quali vicende hai traversato e quali pesi sei bastato a reggere; [V,31,3] che la tua storia di vita è ormai compiuta; finale l’ufficio che presti; di quante cose belle hai visto; di quanti piaceri e dolori fisici hai disdegnato; di quante occasioni di celebrità hai trascurato; con quante persone scostumate sei stato costumato.

[V,32,1] Perché animi imperiti ed incolti riescono a sconfonderne uno che ha arte e scienza? [V,32,2] Quale animo, allora, ha arte e scienza? Quell’animo che sa principio e fine, che conosce la ragione che pervade la sostanza tutta e come questa ragione amministri l’universo, secondo periodi ciclici ordinati, per l’eternità.

[V,33,1] Quanto prima sarai cenere, o scheletro, e un nome, oppure neanche un nome. E il nome è comunque soltanto un rumore e un’eco lontana. [V,33,2] Le cose tanto onorate in vita sono vacuità, schifezze, piccolezze, cagnetti che si mordono l’un l’altro, bambini ambiziosi che prima ridono ma poi subito dopo si mettono a singhiozzare. [V,33,3] Lealtà, rispetto di sé e degli altri, giustizia, verità ‘lungi dalla terra spaziosa, verso l’Olimpo…’ [V,33,4] Cosa dunque ti trattiene ancora qui? Se gli oggetti sensibili sono facilmente mutevoli e instabili, i nostri sensi ottusi e facili da ingannare con false impressioni, la nostra animuzza stessa una esalazione proveniente dal sangue: allora ottenere buona fama presso individui siffatti è pura vacuità. [V,33,5] E allora? Attenderai con animo pacificato o il tuo spegnimento o il tuo cambio di dimora. [V,33,6] Ma finché il tempo li tiene in sospeso, cosa ti basta? Cos’altro se non venerare ed elogiare gli dei, far bene riguardo agli uomini, sopportarli quando sono intolleranti e astenerti dall’intolleranza. Quanto poi sta fuori dei limiti di questo pezzetto di carne e del tuo pneuma, ricordati che non è tuo e che non è in tuo esclusivo potere.

[V,34,1] Puoi sempre essere sereno, se appunto l’animo tuo può avere libero corso e se appunto puoi concepire ed operare con metodo. [V,34,2] Queste sono le due caratteristiche comuni all’animo della divinità, dell’uomo e di ogni creatura razionale: quella di non poter essere intralciato da un altro e quella di porre il bene in una disposizione e una pratica di vita socievoli, qui facendo esaurire il desiderio.

[V,35,1] Se questo atto è né un mio vizio né una mia attività viziosa e lo Stato non ne è danneggiato, perché litigo riguardo ad esso? Che danno ne ha lo Stato?

[V,36,1] Non bisogna lasciarsi genericamente rapire dalla rappresentazione, ma aiutare gli altri secondo possibilità e secondo il valore della faccenda e, qualora essi siano menomati in cose che non sono né bene né male, non immaginarlo un danno, giacché questa è una cattiva abitudine. [V,36,2] Ma, come nel caso di quel vecchio che, andandosene via, richiedeva la trottola del suo pupillo, pur ricordando che era solo una trottola, così anche qui circa i paletti… [V,36,3] O uomo, hai dimenticato di cosa si trattava? ‘Sì, ma per costoro sono cose altamente desiderabili’. E per questo anche tu devi diventare stupido?

[V,37,1] Un tempo io fui, ovunque mi ritrovassi, un uomo baciato dalla buona sorte. Ma ha buona sorte chi assegna a se stesso una sorte buona; e una sorte buona sono buoni rivolgimenti dell’animo, buoni impulsi, buone azioni.

*****

LIBRO VI

[VI,1,1] La sostanza del cosmo è obbediente e duttile. La ragione che la governa non ha in sé causa alcuna di malfare, giacché non ha vizio, non fa nulla male e nulla è da lei danneggiato. [VI,1,2] Tutto nasce e si realizza in armonia con quella ragione.

[VI,2,1] Se operi quanto è confacente, non fare differenza se lo operi soffrendo il freddo o al calduccio, cascando dal sonno o dopo avere sufficientemente dormito, mentre senti che si sparla di te o che ti si elogia, morendo o facendo qualcos’altro. [VI,2,2] Anche morire, infatti, è una delle azioni della vita: dunque basta fare buon uso del presente anche per questa.

[VI,3,1] Guarda dentro: né la qualità peculiare né il valore di una cosa qualunque sorpassino quelle che hai tu.

[VI,4,1] Tutti gli oggetti si trasformeranno molto in fretta e, o svaporeranno, se davvero la sostanza è una sola, oppure saranno dispersi.

[VI,5,1] La ragione che governa sa come si diporta, cosa fa e su quale materiale.

[VI,6,1] Il miglior modo in assoluto di difendersi da un nemico è quello di non rassomigliargli.

[VI,7,1] Di una sola cosa deliziati ed in una sola trova conforto: passare da un’azione socievole ad un’altra socievole, memore della divinità.

[VI,8,1] È l’egemonico quello che desta se stesso e volge e fa di sé quello che dispone di essere; e che inoltre fa apparire a se stesso tutto ciò che avviene quello che egli stesso dispone.

[VI,9,1] Ogni cosa si realizza in armonia con la natura del tutto, non secondo una qualche altra natura che la circondi dal di fuori o che sia inclusa al suo interno o esista sconnessa fuori di essa.

[VI,10,1] O guazzabuglio, groviglio e dispersione oppure unione, ordine e prònoia. [VI,10,2] Se è vera la prima ipotesi, perché smanio ancora di intrattenermi oltre in un’accozzaglia fortuita e in un garbuglio del genere? [VI,10,3] Che m’importa d’altro se non del modo in cui continuare a vivere? [VI,10,4] E perché sconcertarmi? La dispersione, infatti, giungerà anche per me qualunque cosa io faccia. [VI,10,5] Ma se è vera la seconda ipotesi, io venero, sono ben stabile ed ho confidenza in chi governa.

[VI,11,1] Qualora tu sia costretto dalle circostanze ad essere come gettato nello sconcerto, rientra in fretta in te stesso e non uscir di ritmo al di là del necessario. Sarai, infatti, molto più padrone dell’armonia con te stesso col rivenire continuamente ad essa.

[VI,12,1] Se tu avessi sia una matrigna che una madre, accudiresti la prima ma faresti continuamente ricorso alla seconda. [VI,12,2] Questo sono per te, adesso, la corte imperiale e la filosofia. Qui ritorna spesso e trova conforto in questa, grazie alla quale le vicende della corte ti appaiono sopportabili e tu appari sopportabile in esse.

[VI,13,1] Per esempio, davanti alle carni cotte ed altri alimenti del genere accogliere la rappresentazione che: questo è il cadavere di un pesce; questo è il cadavere di un uccello o di un porcello. E, di nuovo, che il vino Falerno è succo d’uva; la toga porporata è pelame di pecora bagnato nel sangue d’una conchiglia. E circa il coito che è lo sfregamento d’un budellino e l’escrezione di moccicaglia accompagnata da un certo spasmo. [VI,13,2] Ora, come queste sono rappresentazioni che vanno al fondo dei fatti e li particolareggiano in modo da farci vedere di cosa davvero si tratta, [VI,13,3] così bisogna fare per la vita intera, e mettere a nudo i fatti proprio laddove li immaginiamo troppo credibili, guardandone dall’alto la bassezza e togliendo loro d’attorno la storia di cui vanno solenni. [VI,13,4] La vanità, infatti, è una terribile sragionatrice e soprattutto quando reputi di applicarti a cose della massima importanza, proprio allora ti ritrovi turlupinato. [VI,13,5] Vedi, ad esempio, cosa dice Cratete dello stesso Senocrate.

[VI,14,1] La maggior parte delle cose che la folla delle persone ammira si possono ricondurre, in genere, ad oggetti tenuti insieme da uno stato fisico, come pietre e legno; oppure dalla natura, come fichi, viti, olivi. Quelle che suscitano l’ammirazione delle persone di poco meno mediocri sono entità tenute insieme da un animo, come greggi e mandrie. Quelle che suscitano l’ammirazione delle persone ancora più raffinate sono entità tenute insieme da un animo razionale, ma non in quanto razionale bensì in quanto animo capace d’arte o altrimenti di qualche altra abilità pratica, o meramente dell’acquisizione di uno stuolo di schiavi. [VI,14,2] Chi, invece, ha in onore l’animo razionale e politico, non si impensierisce più di nessun’altra cosa ma, al di sopra di tutto, preserva il proprio animo in quello stato e moto razionale e socievole e coopera a questo con chi gli è omogeneo. 

[VI,15,1] Alcuni esseri han fretta di nascere, altri di sparire, e di ciò che è appena nato già qualcosa si è estinto. Flussi e cambiamenti rinnovano senza interruzione il cosmo, così come l’incessante corso del tempo rende sempre giovane l’eternità infinita. [VI,15,2] In questa fiumana non è dato di trovare a quale degli esseri che ci scorrono accanto uno potrebbe dare un valore supremo. È come se uno cominciasse ad amare uno dei passerotti che gli frullano accanto, ed ecco che quello è già sparito di vista. [VI,15,3] Anche la vita di ciascuno di noi è qualcosa come l’esalazione proveniente dal sangue e la respirazione dell’aria. [VI,15,4] Giacché quale è un singolo atto d’aspirazione e d’espirazione dell’aria, cosa che facciamo ogni momento; tale è anche il restituire l’intera facoltà respiratoria, che ieri o l’altro ieri hai acquisito col parto, là donde dapprima l’hai cavata.

[VI,16,1] Onorevole per l’uomo non è traspirare come fanno i vegetali, né respirare come fa il bestiame e fanno le belve, né il modellarsi a seconda delle rappresentazioni, né il muoversi come una marionetta a seconda degli impulsi, né lo stare in branco, né il nutrirsi: tutte queste operazioni, infatti, sono eguali a quella di defecare. [VI,16,2] Cos’è, dunque, onorevole? Essere applaudito? No. [VI,16,3] Dunque, neppure essere applaudito dalle lingue; giacché gli elogi dei più non sono altro che un applauso di lingue. [VI,16,4] Bene, hai tralasciato la gloria. Che cosa, allora, rimane onorevole? Reputo che sia il muoversi e l’arrestarsi in armonia con la nostra propria struttura di uomini, che è il risultato al quale conducono anche gli studi e le arti. [VI,16,5] Questo, infatti, ha di mira ogni arte: che la struttura risulti idonea all’opera per la quale è stata strutturata. Il giardiniere che coltiva con sollecitudine la vite, il domatore di cavalli, l’addestratore di cani vanno in cerca di questo risultato. [VI,16,6] Gli insegnamenti dei pedagoghi e dei maestri a cosa ci affrettano? Qui, dunque, è ciò che è onorevole. [VI,16,7] E una volta che esso stia bene, non cercherai di procacciarti altro. [VI,16,8] Non cesserai di onorare anche molte altre cose? Allora non sarai mai libero, né autosufficiente, né capace di dominare le passioni. [VI,16,9] È infatti necessario invidiare, essere geloso, guardare con sospetto coloro che possono sottrartele, insidiare coloro che posseggono ciò che tu tieni in onore. Insomma è necessario che chi è bisognoso di qualcuna di quelle cose sia lordo e inoltre che biasimi gli immortali per molti motivi. [VI,16,10] Invece il rispetto e l’onore per il tuo proprio intelletto ti farà gradito a te stesso, ben adattabile agli uomini e in sinfonia con gli immortali, ossia capace di lodare quanto essi attribuiscono ed hanno organizzato. 

[VI,17,1] Su, giù, in circolo, sono i corsi degli elementi naturali. [VI,17,2] Il movimento della virtù non rientra in nessuno di questi ma è qualcosa di più divino ed ha libero corso procedendo per una via difficile da pensare.

[VI,18,1] Com’è [ridicolo] quel che fanno [gli insipienti]! Non vogliono elogiare i contemporanei che vivono con loro, mentre danno un grandissimo valore all’essere elogiati dai posteri, gente che essi non hanno mai visto né mai vedranno. [VI,18,2] Il che è vicino all’affliggersi perché anche i tuoi più lontani progenitori non ebbero parole di elogio nei tuoi confronti.

[VI,19,1] Se qualcosa è disagevole per te personalmente, non devi concepire che sia impossibile per l’uomo; ma se qualcosa è possibile ed appropriato per l’uomo, legittimalo come accessibile anche a te.

[VI,20,1] In palestra qualcuno può graffiarci con le unghie o darci una testata, ma noi non lo segnaliamo né ci offendiamo con lui né lo guardiamo con sospetto che ci trami poscia qualche insidia. Nondimeno stiamo in guardia nei suoi confronti, non come fosse un nemico personale e neppure con sospetto, ma con paziente avversione. [VI,20,2] Facciamo in modo che qualcosa di siffatto avvenga anche nelle altre parti della nostra vita e cerchiamo di infischiarcene di molte azioni dei nostri, per così dire, allenatori. [VI,20,3] Giacché è in nostra potestà evitarli, come dicevo, e farlo senza sospettare e senza averli in odio.

[VI,21,1] Se qualcuno è capace di riscontrarmi ed evidenziare che concepisco o faccio qualcosa non rettamente, mi rallegro di allogarmi diversamente. [VI,21,2] Infatti, io vado in cerca della verità, dalla quale nessuno è mai stato danneggiato. Piuttosto, danneggia se stesso chi persiste nel proprio inganno e nella propria ignoranza.

[VI,22,1] Io faccio quello che è per me doveroso. Tutto il resto non mi distrae, giacché si tratta di entità o inanimate o irrazionali o che sono andate errando ed ignorano la via.

[VI,23,1] In quanto sei una creatura dotata di ragione, usa con grandezza d’animo e con libertà le creature irrazionali e, in generale, faccende e oggetti privi di ragione; ma usa degli uomini con socievolezza, in quanto creature dotate di ragione. [VI,23,2] Invoca in ogni circostanza gli immortali, e non fare differenza su quanto tempo potrai operare così; giacché bastano anche tre ore vissute così.

[VI,24,1] Alessandro il Macedone e il suo mulattiere, da morti si ridussero nella stessa condizione, giacché o furono riassunti nelle medesime ragioni seminali del cosmo oppure furono similmente sparpagliati negli atomi.

[VI,25,1] Pondera quanti fenomeni, sia somatici sia psichici, contemporaneamente avvengono in ciascuno di noi in un medesimo brevissimo tempo; e così non ti stupirai se molti di più, anzi tutti i fenomeni che avvengono in quella unica totalità che denominiamo cosmo, vengono a sussistenza contemporaneamente. 

[VI,26,1] Se qualcuno ti propone la domanda: “Come si scrive il nome ‘Antonino’?”; non ti sforzerai di proferire ciascun singolo elemento di quel nome? Non procederai ad elencare pacatamente ciascuna lettera? [VI,26,2] E cosa succede se i tuoi interlocutori si adirano? Ti adirerai a tua volta contro di loro? [VI,26,3] Allo stesso modo ricorda che anche nella vita tutto ciò che è doveroso fare risulta dal complesso di un certo numero di giudizi. Serba gli occhi fissi su questi e realizza con metodo l’obiettivo senza vacillare e senza mostrare a tua volta malcontento verso coloro che si mostrano malcontenti. 

[VI,27,1] Com’è crudele non concedere agli uomini di impellere verso ciò che appare loro appropriato ed utile! Eppure, in qualche modo tu non consenti loro di fare proprio questo, quando fremi di odio perché aberrano. [VI,27,2] Essi vi sono certamente portati come verso qualcosa di appropriato ed utile per loro. [VI,27,3] “Ma le cose non stanno così!” Dunque insegnalo e mostralo loro senza fremere di odio.

[VI,28,1] La morte è requie dalle impressioni dei sensi e dagli impulsi che ti fanno muovere come una marionetta; è chiusura della via d’uscita dell’intelletto e fine degli uffici che rendiamo alla carne.

[VI,29,1] In una vita in cui il tuo corpo non capitola, è vergognoso che sia l’animo a capitolare per primo.

[VI,30,1] Vedi di non essere ‘cesarificato’, di non esserci immerso; perché succede. [VI,30,2] Serbati dunque schietto, buono, integro, solenne, senza fronzoli, amante della giustizia, devoto, paziente, affettuoso, gagliardo nelle opere cui si confà gagliardia. [VI,30,3] Gareggia per restare l’uomo che la filosofia dispose di fare di te. [VI,30,4] Rispetta gli immortali, salva gli uomini. Breve è la vita. Solo frutto dell’esistenza terrestre sono una disposizione conforme alle leggi divine e azioni socievoli. [VI,30,5] Sempre come discepolo di Antonino: quella sua giusta tensione ad operare in armonia con i dettati della ragione, la regolarità ovunque, la santità, la pace del volto, il blando, il non vanaglorioso, e il farsi un punto d’onore del cercare sempre di avere un’apprensione certa delle cose. [VI,30,6] E che egli non avrebbe insomma mai pretermesso una questione se in precedenza non ne avesse avuta una buonissima visione dall’alto e una chiara cognizione; [VI,30,7] come portava pazienza con coloro che lo biasimavano ingiustamente senza, a sua volta, biasimarli; come non aveva mai fretta e non accoglieva le calunnie; [VI,30,8] come era preciso indagatore di caratteri e di azioni. Antonino non era acrimonioso, non era pauroso del minimo rumore, né sospettoso, né sofista. [VI,30,9] Si accontentava di poco quanto ad abitazione, giaciglio, vestiti, cibo, servizio. [VI,30,10] Era laborioso e longanime; e come…[VI,30,11] fino a sera, grazie alla dieta frugale e senza bisogno di defecare che all’ora consueta. [VI,30,12] Ricorda la saldezza e la costanza delle sue amicizie; [VI,30,13] come sopportava coloro che andavano contro i suoi pareri con libertà di parola e si rallegrava se qualcuno ne mostrava uno migliore; [VI,30,14] e com’era devoto senza essere superstizioso. [VI,30,15] Affinché l’ultima ora possa presentarsi a te e trovarti, come lui, con la coscienza pura.

[VI,31,1] Torna sobrio, rianimati, e una volta ridestatoti e fattoti il concetto che erano sogni quelli che ti disturbavano, guarda queste realtà come guardavi a quei sogni.

[VI,32,1] Sono fatto di corpo e di animo. Per il corpo, tutto è indifferente, giacché esso neppure può metter bocca al riguardo. [VI,32,2] Per l’intelletto, invece, indifferente è tutto ciò che non è operazione sua, mentre quanto lo è, ebbene, questo è in suo esclusivo potere. [VI,32,3] Di queste operazioni, poi, l’intelletto si affaccenda soltanto in quelle presenti, mentre le sue operazioni passate e future sono anch’esse indifferenti.

[VI,33,1] Il dolore alla mano o al piede non è contrario alla natura, finché il piede fa il piede e la mano fa la mano. [VI,33,2] Allo stesso modo, pertanto, il dolore fisico non è contrario alla natura per l’uomo in quanto uomo, finché egli fa l’uomo. [VI,33,3] E se dunque non è per lui contrario alla natura, non è per lui neppure un male. 

[VI,34,1] Che grandi ebbrezze godono rapinatori, cinedi, parricidi e tiranni!

[VI,35,1] Non vedi quanti artefici artigianali si acconciano fino ad un certo punto ai giudizi delle persone comuni e nondimeno si attengono ai principi fondamentali della loro arte e non reggono di distornarsene? [VI,35,2] Non è dunque terribile che l’architetto e il medico rispettino i principi fondamentali della loro arte più di quanto l’uomo rispetti la propria ragione, quel principio fondamentale che egli ha in comune con gli dei?

[VI,36,1] L’Asia, l’Europa sono angoli del cosmo; il mare nella sua interezza è una goccia del cosmo; il monte Athos è un pezzettino del cosmo; ogni istante è un attimo dell’eternità: tutto è piccolo, versatile, destinato a scomparire. [VI,36,2] E tutto questo perviene di là, avendo preso impulso da quel comune egemonico del cosmo o per diretta conseguenza. [VI,36,3] Anche le fauci del leone, il veleno, ogni malanno, così come le spine, come la melma, sono consequenzialità di quei buoni e solenni impulsi. [VI,36,4] Tu dunque non immaginare che queste cose siano aliene all’egemonico del cosmo che tu veneri, ma fa calcolo della fonte del tutto.

[VI,37,1] Chi vede la realtà di adesso ha visto tutto quanto è successo da sempre fino ad ora e quanto sarà nell’infinito futuro: tutto, infatti, è omogeneo e conforme.

[VI,38,1] Pondera spesso circa collegamento di tutte le cose nel cosmo e sulla loro relazione reciproca. [VI,38,2] In qualche modo, infatti, esse sono tutte intrecciate le une alle altre e tutte hanno perciò rapporti di mutua solidarietà. Peraltro questo consegue al movimento tonico, alla cospirazione e all’unione della sostanza.

[VI,39,1] Concìliati con le faccende cui sei stato abbinato ed ama gli uomini cui sei stato unito, ma davvero.

[VI,40,1] Ogni strumento, attrezzo, suppellettile, sta bene se fa ciò per cui è stato strutturato, anche se chi l’ha costruito è fuori dai piedi. [VI,40,2] Nel caso delle entità che stanno insieme per natura, invece, la forza che le ha strutturate è al loro interno e qui permane: ragion per cui bisogna rispettarla ancora di più e ritenere legittimo che, se tu vivi in duratura armonia col piano della natura, tutto ti va secondo intendimento. [VI,40,3] E così, anche per il cosmo tutto va secondo intendimento.

[VI,41,1] Qualunque cosa aproairetica tu ponga per te a fondamento del bene o del male, è del tutto necessario che tu, per il fatto di incappare in quel certo male o di fallire l’ottenimento di quel certo bene, biasimi gli dei ed odi gli uomini che sono la causa vera o presunta che ti ha fatto fallire l’ottenimento del bene o incappare nel male. E noi commettiamo molte ingiustizie a causa dei nostri dissidi al riguardo. [VI,41,2] Se invece noi giudichiamo bene o male unicamente ciò che è in nostro esclusivo potere, non rimane più alcun motivo né per incolpare gli dei né per stare in posizione polemica verso gli uomini.

[VI,42,1] Tutti noi cooperiamo ad un unico risultato finale, alcuni con consapevole comprensione, altri inconsapevolmente; proprio nel senso in cui Eraclito, presumo, dice lavoratori e cooperatori degli eventi cosmici anche coloro che stanno dormendo. [VI,42,2] Si coopera chi in modo chi in un altro e, per giunta, coopera anche colui che biasima e prova ad andare contro e a far sparire quel che succede. Il cosmo, infatti, aveva bisogno anche di uno come lui. [VI,42,3] Orbene, cerca di capir bene con quali uomini ti ridisponi, perché il cosmo che tutto governa farà certamente buon uso di te e ti accoglierà in una delle schiere dei suoi cooperatori. [VI,42,4] Tu bada, pertanto, di non fare la parte di quel verso da poco e ridicolo, nel dramma che Crisippo ricorda.

[VI,43,1] Il sole sollecita forse di fare lui quel che fa la pioggia? E Asclepio quel che fa Demetra portatrice di frutti? E ogni singolo astro? Entità differenti non cooperano dunque ad un medesimo risultato?

[VI,44,1] Se dunque gli dei hanno deliberato riguardo a me ed a quanto deve avvenirmi, hanno deliberato certo bene; in quanto un dio abulico non è facile da pensare e, d’altra parte, per quale motivo avrebbero dovuto gli dei provare l’impulso di maltrattarmi? [VI,44,2] In questo caso, cosa ne promanerebbe per loro e per il cosmo del quale soprattutto si fanno mente? [VI,44,3] Se invece non hanno deliberato riguardo a me in particolare, hanno certamente deliberato riguardo al cosmo, ed io devo accettare di buon grado ed essere contento anche di quel che avviene in conseguenza di quelle deliberazioni. [VI,44,4] Se davvero gli dei non deliberano su nulla, fidarsi di essi non è santità; e allora che non si facciano sacrifici, che non si traggano auspici, non si giuri e non si facciano tutte le altre cose che noi tutte facciamo come se gli dei fossero presenti e con noi conviventi. Se essi non deliberano circa nulla di ciò che ci riguarda, io ho però la potestà di deliberare circa me stesso e di analizzare ciò che mi è utile. [VI,44,5] A ciascun essere è utile ciò che è in armonia con la propria struttura e con la propria natura: e la mia natura è razionale e politica. [VI,44,6] Roma è la mia città e la mia patria in quanto Antonino; il cosmo lo è in quanto uomo. Dunque soltanto ciò che giova a queste due città è bene per me.

[VI,45,1] Tutto quanto avviene a ciascuna parte è utile all’insieme. Basterebbe dire questo. [VI,45,2] Ma se ne tieni ben nota, vedrai inoltre che quanto avviene ad un uomo per lo più è utile o a lui o agli altri uomini. [VI,45,3] Il termine ‘utile’ va qui preso nel suo senso più comune, ossia riferito alle cose che non sono né bene né male.

[VI,46,1] Come i giochi nell’anfiteatro e in luoghi del genere ti vengono a noia perchè si vedono sempre le stesse cose e la monotonia dello spettacolo produce sazietà, così tu sperimenti questa noia anche per quanto riguarda la vita intera. Infatti, si tratta sempre suppergiù delle stesse cose ad opera delle stesse cause. Fino a quando, dunque?

[VI,47,1] Fatti continuamente il concetto di quanti uomini di tutti i tipi, d’ogni genere di occupazioni e d’ogni sorta di popolazioni, sono morti; e poi vieni giù giù fino a Filistione, a Febo e Origanione. [VI,47,2] Passa adesso a considerare altre genti. [VI,47,3] Dovremo davvero trasformarci e finire anche noi là dove sono finiti così valenti oratori, filosofi così solenni come Eraclito, come Pitagora, come Socrate e ancora in precedenza tanti eroi, e poscia tanti generali e tiranni. [VI,47,4] E inoltre Eudosso, Ipparco, Archimede, altri ingegni acuti, disinteressati, laboriosi, e poi furbastri, vantoni, schernitori proprio di questa vita fragile ed effimera, come Menippo e altri come lui. [VI,47,5] Fatti il concetto che tutti costoro da tempo giacciono morti. Che c’è di terribile, in questo, per loro? E per coloro che non hanno neppure un nome? [VI,47,6] Una sola cosa quaggiù sulla terra è molto degna: trascorrere la vita con verità, giustizia e pazienza verso i bugiardi e gli ingiusti.

[VI,48,1] Qualora tu disponga di allietarti, pondera i pregi di coloro che convivono con te: per esempio, l’operosità di uno; il rispetto di sé e degli altri di un altro, la liberalità di un altro ancora, ed altro per altri. [VI,48,2] Giacché nulla allieta tanto quanto quei simulacri di virtù, e possibilmente se accadono combinati assieme, che traspaiono nei caratteri dei conviventi. [VI,48,3] Perciò bisogna averli sempre a portata di mano.

[VI,49,1] Sei malcontento di pesare quelle tante libbre e non trecento? Così pure di dover vivere fino ad certo numero di anni e non di più? Come sei contento della quantità di sostanza per te demarcata, così siilo anche a proposito del tempo.

[VI,50,1] Prova a persuaderli, e tuttavia opera anche loro malgrado qualora ragioni di giustizia a questo conducano. [VI,50,2] Nel caso qualcuno opponga resistenza ed utilizzi per di più la violenza, passa oltre, ad un contegno compiaciuto e impassibile, ed approfitta dell’impedimento per esercitare ancora un’altra virtù. E ricorda che usavi l’impulso con riserva, giacché non desideravi ciò che è impossibile. [VI,50,3] Cosa desideravi dunque? Desideravi un certo impulso proprio come questo. Questo l’hai centrato. Ciò per cui fummo promossi al mondo è successo.

[VI,51,1] Chi è attaccato alla fama concepisce come proprio bene un’attività allotria; chi è attaccato all’ebbrezza concepisce come bene la propria passività; chi ha senno concepisce come bene la propria azione.

[VI,52,1] Tu hai la potestà di non concepire nulla su questo fatto e di non provarne alcun fastidio nell’animo. [VI,52,2] Infatti, queste faccende non hanno natura di essere fattive delle nostre risoluzioni.

[VI,53,1] Abituati a non essere sciatto nei confronti di ciò che un altro dice e, per quanto possibile, immedesimati con l’animo di chi parla.

[VI,54,1] Ciò che non è utile per lo sciame non è utile neppure per l’ape.

[VI,55,1] Se i pazienti parlassero male di chi fa il medico o i marinai di chi pilota, farebbero essi attenzione a qualcos’altro se non a come uno esegue quanto è salvifico per i passeggeri e l’altro quanto è salutare per i malati?

[VI,56,1] Quanti, con i quali sono venuto al mondo, se ne sono già andati via!

[VI,57,1] Il miele pare amaro agli itterici; l’acqua fa paura agli idrofobi e la palla pare bella ai bambini. [VI,57,2] Perché dunque mi adiro? O ti sembra che il giudizio mendace abbia minore potenza della bile per l’itterico o della bava velenosa per l’idrofobo?

[VI,58,1] Nessuno ti impedisce di vivere in armonia con la ragione della tua natura, e nulla mai ti avverrà che sia contrario alla ragione della comune natura.

[VI,59,1] Che razza di gente è quella alla quale vogliono riuscire graditi, per che razza di preminenze e attraverso quali attività! [VI,59,2] L’eternità rapidamente occulterà tutto, e quante cose essa ha già occultato!

*****

LIBRO VII

[VII,1,1] Cos’è il vizio? È ciò che hai già visto spesso. Qualunque cosa succeda, abbi a portata di mano il giudizio: è ciò che hai già visto tante volte. [VII,1,2] Insomma troverai sempre suppergiù le stesse cose, di cui sono piene le storie d’antica data, quelle dell’età di mezzo e quelle recenti; di cui adesso sono piene le città e le case. [VII,1,3] Nessuna novità. Tutto è consueto e di breve durata.

[VII,2,1] Come altrimenti possono i nostri giudizi andare in necrosi se non spegnendo le rappresentazioni loro consone, rappresentazioni che è ininterrottamente in tuo esclusivo potere ravvivare di nuovo? [VII,2,2] Io ho il potere di concepire al riguardo quel che bisogna concepire. E se ho questo potere, perché mi sconcerto? Tutto ciò che è fuori della mia proairesi è assolutamente nulla per la mia proairesi. [VII,2,3] Impara questo e sei un uomo retto. Hai la potestà di rivivere. Guarda di nuovo le faccende come solevi vederle: giacché in questo consiste il rivivere.

[VII,3,1] Vacua premura per un pomposo corteo, messa in scena di drammi, greggi, mandrie, combattimenti con le lance, un osso buttato via a dei cagnetti, briciole nelle vasche dei pesci, formiche che tribolano e trasportano dei pesi, corse qua e là di topolini terrorizzati, marionette tirate da fili. [VII,3,2] Di fronte a questi spettacoli occorre stare pazienti e non sbuffare, comprendendo tuttavia che ciascuno di noi di tanto è degno quanto vale ciò su cui si è industriato.

[VII,4,1] Bisogna comprendere, parola per parola, i discorsi che si fanno; e, impulso per impulso, gli eventi che ne conseguono. Per gli eventi, vedere subito a quale scopo fa riferimento l’impulso; per i discorsi, tenere ben presente il loro significato.

[VII,5,1] Il mio intelletto è bastante a quest’opera oppure no? [VII,5,2] Se è bastante, lo utilizzo per compiere l’opera, come strumento datomi dalla natura. Se però non è bastante, o rinuncio all’opera in favore di chi può portarla a termine meglio di me oppure, se questo non è doveroso per un altro, la compio io come posso associandomi chi può, con l’utilizzo per di più del mio egemonico, fare ciò che al momento è congruo e proficuo per lo Stato. [VII,5,3] Giacché qualunque opera io compia, solo o con un altro, occorre avere come unico intento ciò che è proficuo e ben adattabile allo Stato.

[VII,6,1] Quanti, dopo essere stati molto decantati, sono ormai stati consegnati all’oblio; e quanti, dopo avere decantato costoro, sono da tempo fuori dai piedi!

[VII,7,1] Non vergognarti di essere aiutato, giacché il tuo obiettivo è di eseguire quel che ti spetta, come un soldato in battaglia sulle mura. [VII,7,2] E allora, se tu zoppicante non fossi in grado di salire da solo sugli spalti e lo potessi fare grazie all’aiuto di un altro?

[VII,8,1] Il futuro non ti sconcerti. Vi giungerai infatti, se bisognerà arrivarci, portando con te la stessa ragione della quale ora ti servi nel presente.

[VII,9,1] Tutte le cose sono intrecciate le une alle altre, il loro legame è sacro e non v’è praticamente nulla di allotrio tra l’una e l’altra, giacché esse sono disposte con armonia ed adornano insieme il medesimo cosmo. [VII,9,2] Uno è il cosmo formato da tutte le cose e uno è il dio che tutte le pervade. Una è la sostanza e una è la legge. Comune è la ragione di tutte le creature cognitive. Una è la verità, se una appunto è anche la perfezione delle creature omogenee e partecipi della medesima ragione.

[VII,10,1] Tutto ciò che è materialità scompare molto in fretta nella sostanza del cosmo; tutto ciò che è causale molto in fretta è riassunto nella ragione del cosmo e la memoria d’ogni cosa molto in fretta si inabissa nell’eternità.

[VII,11,1] Per la creatura razionale, la medesima azione è in accordo con la natura delle cose e con la ragione.

[VII,12,1] Uomo retto, non uomo corretto.

[VII,13,1] Le creature razionali sono state strutturate per una certa cooperazione reciproca tra individui disparati ed hanno tra di loro lo stesso rapporto che si ha tra le membra del corpo negli organismi singoli. [VII,13,2] La cognizione di questo rapporto ti incoglierà meglio se ti dirai spesso di essere un ‘membro’ del sistema formato dagli esseri razionali. [VII,13,3] Se, invece, con la lettera ‘r’ muti il termine ‘melos=membro’ in ‘meros=parte’, e ti dirai di essere una sua ‘parte’, non ami ancora gli uomini dal profondo del cuore e il beneficare non ti allieta ancora con perfetta certezza; ma lo fai come cosa meramente confacente, non ancora come se facessi del bene a te stesso.

[VII,14,1] Che una qualunque cosa esterna incolga pure quelle parti di me che possono patire a seguito di questo colpo. [VII,14,2] La parte che lo vorrà, infatti, potrà mettersi a biasimare quei colpi. Io invece, se concepirò che l’accidente non è un male, neppure ne sono stato danneggiato. Ed io ho la potestà di non concepirlo.

[VII,15,1] Qualunque cosa un altro dica o faccia, io devo essere un uomo virtuoso. Come se l’oro o lo smeraldo o la porpora dicessero sempre: ‘Qualunque cosa uno faccia o dica, io devo sempre essere smeraldo ed avere il mio colore’.

[VII,16,1] L’egemonico [del cosmo] non reca disturbo a se stesso, non impaurisce e non affligge se stesso, non si volge a smaniare per qualcosa. [VII,16,2] Se qualcun altro può far sì che esso si impaurisca o che si affligga, lo faccia. Ma esso non volgerà mai se stesso, per propria concezione, a siffatto rivolgimento. [VII,16,3] Quanto al nostro corpo, s’affanni lui a non patire qualche infermità, se può; e se invece la patisce, che lo dica. L’animuzza poi, quella che ha paura, quella che si affligge, quella che, insomma, prende la parola a questo riguardo, fa’ in modo che non patisca per nulla, giacché non la vedrai mai prendere da sola questa risoluzione. [VII,16,4] L’egemonico dell’uomo, per quanto è in suo esclusivo potere, non è invece bisognevole; a meno che non si faccia esso stesso carente di qualcosa. Allo stesso modo esso sa dominare lo sconcerto e non è soggetto ad intralci, se da se stesso non si sconcerta e non si intralcia.

[VII,17,1] La felicità è un demone buono oppure un egemonico buono. [VII,17,2] Cosa fai dunque qui, o rappresentazione? Vattene via, per gli dei, come sei venuta! Non ho bisogno di te. [VII,17,3] Sei venuta secondo l’antica abitudine. Non sono adirato con te; soltanto vattene.

[VII,18,1] Qualcuno ha paura del mutamento? E cosa può avvenire senza mutamento? Che cos’è più caro e appropriato alla natura? [VII,18,2] Proprio tu, puoi fare un bagno caldo se la legna non si trasforma? Puoi nutrirti, se gli alimenti non si trasformano? Quale altra opera proficua può essere portata a compimento senza trasformazione? [VII,18,3] Non vedi dunque che anche il tuo stesso trasformarsi è un processo simile e similmente necessario alla natura?

[VII,19,1] Attraverso la sostanza delle cose tutte come attraverso un fiume in piena fanno il loro viaggio tutti i corpi, connaturati e cooperatori di quel tutto come lo sono le parti del nostro corpo l’una per l’altra. [VII,19,2] Quanti Crisippo, quanti Socrate, quanti Epitteto l’eternità ha già ingoiato? [VII,19,3] Questa stessa riflessione possa incoglierti a proposito di qualunque uomo e di qualunque faccenda. 

[VII,20,1] Una sola determinazione mi sprona: quella di non fare ciò che la struttura dell’uomo non vuole, o come non vuole, oppure ciò che adesso non vuole.

[VII,21,1] Vicino è l’oblio di tutto da parte tua; vicino è l’oblio di te da parte di tutti.

[VII,22,1] Proprio dell’uomo è amare anche coloro che toppano. [VII,22,2] E questo succede se vi aggiungerai a commento che essi ti sono congeneri, che aberrano per ignoranza e loro malgrado, che dopo poco tempo ambedue sarete morti e innanzitutto che chi sbaglia non ti danneggia, giacché non rende il tuo egemonico peggiore di quanto fosse prima.

[VII,23,1] Usando la sostanza del cosmo come fosse cera, la natura plasma adesso un cavallo, poi lo sconfonde ed approfitta di questo materiale per plasmare un alberello, poi un ometto, poi qualcos’altro; e ciascuna di queste creature sussiste per pochissimo. [VII,23,2] Anche per un cofano è nulla di terribile l’essere smontato e l’essere rimontato.

[VII,24,1] L’indignazione del volto è d’assai contraria alla natura delle cose. Qualora il decoro muoia spesso sul tuo volto, da ultimo esso si estingue tanto da non poterlo assolutamente più riaccendere. [VII,24,2] Prova a comprendere che ciò è contrario alla ragione. Giacché se disparirà la percezione di aberrare, che motivo c’è di vivere ancora?

[VII,25,1] La natura che tutto governa, tra poco trasformerà tutto quello che vedi e con la sua sostanza farà altre cose e poi di nuovo altre con la sostanza di quelle, così che il cosmo sia sempre giovanile.

[VII,26,1] Qualora qualcuno aberri in qualcosa nei tuoi confronti, pondera subito la concezione di quale bene o di quale male lo abbia indotto a tale aberrazione; giacché, compreso ciò, lo commisererai e non te ne stupirai né ti adirerai. [VII,26,2] E certo, o tu pure concepisci ancora essere bene la stessa cosa, o qualcos’altro di conforme: e allora lo devi perdonare; [VII,26,3] oppure, se non concepisci più che beni e mali siano cose siffatte, sarai più facilmente paziente con chi trascura [la natura delle cose].

[VII,27,1] Non bisogna farsi il concetto delle cose assenti come di cose già esistenti, ma eleggersi le più care e preziose delle presenti e rammentarsi, al riguardo, come le esigeremmo se non ci fossero. [VII,27,2] Nel contempo sta in guardia, per il fatto di esultare tanto di esse, a non abituarti a dare loro un valore supremo, così da essere poi sconcertato se mai non fossero più presenti.

[VII,28,1] Raccogliti in te stesso. Natura dell’egemonico razionale è quella di essere pago di se stesso operando il giusto e, così facendo, trovare bonaccia.

[VII,29,1] Cancella la rappresentazione. [VII,29,2] Ferma gli impulsi che fanno di te una marionetta. [VII,29,3] Circoscrivi l’istante. [VII,29,4] Riconosci quel che avviene a te o ad un altro. [VII,29,5] Usa la diairesi e spartisci l’oggetto in componente causale e materiale. [VII,29,6] Pensa all’ora estrema. [VII,29,7] Abbandona l’aberrazione al suo autore, là dove l’aberrazione stava.

[VII,30,1] Bisogna che la cognizione sia coestensiva a quanto si dice, e bisogna che la mente penetri anche nelle cause basilari degli eventi.

[VII,31,1] Sii raggiante di schiettezza, di rispetto di te e degli altri, di indifferenza per ciò che sta in mezzo tra la virtù e il vizio. [VII,31,2] Ama il genere umano. [VII,31,3] Conformati a dio. [VII,31,4] Quel noto filosofo dice: ‘Tutto per convenzione, in realtà solo gli elementi’. Basta ricordare: tutto per convenzione. 

[VII,32,1] O dispersione, se gli atomi. Se unione, o spegnimento o cambio di dimora.

[VII,33,1] Il dolore fisico insopportabile trae fuori di vita, quello cronico è sopportabile. L’intelletto serba a dovere la sua bonaccia per interclusione in se stesso e l’egemonico non diventa peggiore. [VII,33,2] Quanto alle parti del corpo che sono maltrattate dal dolore, se possono, lo dichiarino.

[VII,34,1] Guarda le loro proairesi, quali sono, che razza di cose fuggono, che razza di cose inseguono. [VII,34,2] E vedi che, come i banchi di sabbia accumulandosi uno sull’altro nascondono i precedenti, così nella vita le fame precedenti sono prestissimo occultate da quelle che si sovrappongono loro.

[VII,35,1] “Chi dunque ha un intelletto davvero da grand’uomo e capace di contemplare la totalità del tempo e della sostanza; ebbene, presumi tu che egli reputi un gran che la vita umana?” 
“È impossibile” rispose lui
“Ed egli riterrà che la morte è qualcosa di terribile?”
“No, per niente”.

[VII,36,1]                          “È da re agire bene e sentir parlare male di sé”

[VII,37,1] È vergognoso che il volto sia ossequente, si foggi e si componga come intima la proairesi, ed essa invece non si foggi e non si componga da se stessa come si deve.

[VII,38,1]                         “Non è legge del fato il provare rancore contro i fatti,
giacché ai fatti del nostro rancore non importa proprio nulla”

[VII,39,1]                        “Possa tu dare motivi di gioia agli dei immortali ed a noi”

[VII,40,1]                                 “Mietere la vita come una spiga fruttuosa, 
ed uno esistere, l’altro no”

[VII,41,1]                             “Se gli dei han negletto pure i miei due fanciulli, 
una ragione v’è anche per questo”

[VII,42,1]                                     “Il bene e la giustizia sono con me”

[VII,43,1]                                  “Non unirti a quei lamenti, non provare batticuori”

[VII,44,1] “Io gli ribatterei giustamente: non parli bene, mio caro, se presumi che un uomo, per pochi spiccioli che valga, debba fare il computo del pericolo di vivere o di morire e non invece, quando fa qualcosa, considerare soltanto se fa qualcosa di giusto o di ingiusto, qualcosa da uomo virtuoso o da vizioso”.

[VII,45,1] “Le cose stanno in verità, o Ateniesi, proprio così: che dove uno prenda posizione ritenendola la migliore possibile o dove gli sia ordinato da un comandante di prenderla, là, a me sembra, egli deve restare affrontando i pericoli senza computare la morte né null’altro più della vergogna”.

[VII,46,1] “Ma, o beato, vedi se bene e nobiltà non siano altro che salvare la vita altrui e la propria; e se l’essere umano davvero uomo non debba dismettere il calcolo di quanto tempo vivere e non restare amante della vita bensì, affidandosi in questo al dio e fidandosi di quel detto donnesco secondo cui nessuno potrebbe scampare al proprio destino, analizzare in che modo vivere il meglio possibile il tempo che gli tocca vivere”.

[VII,47,1] Bisogna osservare torno torno i percorsi degli astri, come ruotando insieme a loro; e pensare continuamente alle trasformazioni degli elementi uno nell’altro, [VII,47,2] giacché queste rappresentazioni ripuliscono il sudiciume di una vita vissuta terra terra. 

[VII,48,1] E invero bisogna che chi discorre di uomini sopravveda le vicende terrestri come dall’alto in basso: mandrie, eserciti, campi coltivati, matrimoni, divorzi, genesi, morti, trambusto nei tribunali, paesi isolati, popolazioni variegate di barbari, feste, lamenti funebri, mercati, confusione e tutto l’insieme adornato dai contrari.

[VII,49,1] Esaminare a fondo le vicende passate e le tante e grandi trasformazioni che succedono: si possono [così] anche presagire le future. [VII,49,2] Giacché esse saranno del tutto conformi, e non è possibile che si svolgano con un ritmo diverso dalle attuali. Ragion per cui è uguale investigare la vita umana su un arco di quarant’anni o di diecimila anni. Cosa si vedrà di più?

[VII,50,1]                   “Tornano alla terra le creature che dalla terra sono germinate
e alla volta eterea le stirpi
 da seme etereo germogliate”

[VII,51,1]                                “Con vivande, con bevande e con sortilegi 
deviando il corso della vita così da non morire”
[VII,51,2]                                 “Senza lamenti l”aura che spira dal cielo 
pur tra le pene dobbiamo sopportare”

[VII,52,1] Più abile a fare lo sgambetto, ma non più socievole, più rispettoso di sé e degli altri, più disciplinato di fronte agli avvenimenti, più paziente verso le trascuratezze di chi gli sta intorno.

[VII,53,1] Laddove un’opera può essere portata a termine secondo quella ragione che è comune agli uomini e agli dei, non vi è nulla di terribile da temere. Giacché quando è lecito centrare il giovamento che proviene da un’attività che procede per un libero corso ed è in armonia con la nostra struttura, ebbene ad essa non bisogna guardare col sospetto di alcun danno.

[VII,54,1] Dovunque e senza interruzione è in tuo esclusivo potere compiacerti devotamente dell’evenienza presente, comportarti secondo giustizia con le persone presenti e lavorare con arte alla rappresentazione del momento affinché non vi si insinui qualcosa di non catalettico.

[VII,55,1] Non guardare attorno a te gli egemonici allotrii ma guarda diritto alla meta cui ti guida la natura, sia la natura del tutto attraverso quel che ti avviene, sia la tua attraverso le opere che compi. [VII,55,2] A ciascuna creatura tocca fare ciò che consegue alla propria struttura. Ora, tutte le altre creature sono strutturate in vista delle creature razionali -e in ogni caso le inferiori lo sono in vista delle superiori- mentre le creature logiche lo sono l’una in vista dell’altra. [VII,55,3] Dunque ciò che è cardinale nella struttura dell’uomo è la socievolezza. [VII,55,4] Seconda viene la sua capacità di non cedere alle passioni del corpo, essendo peculiare del moto razionale e cognitivo dell’uomo la capacità di delimitarsi in se stesso e di non essere mai vinto né dal moto dei sensi né da quello degli impulsi istintivi. Entrambi questi moti sono infatti animaleschi, mentre il movimento cognitivo dispone sempre di primeggiare e mai di essere assoggettato a quelli. E invero giustamente, giacché esso è nato per usare tutti quelli. [VII,55,5] Terza, nella struttura razionale dell’uomo, viene poi la sua capacità di non essere precipitoso nei giudizi e di tenersi al riparo dall’inganno. [VII,55,6] Avendo queste caratteristiche, l’egemonico proceda per la diritta via ed avrà così ciò che gli appartiene.

[VII,56,1] Bisogna che chi ha vissuto fino ad ora come se fosse morto, viva in armonia con la natura delle cose il resto del tempo che gli avanza.

[VII,57,1] Amare unicamente quel che gli avviene ed è intessuto per lui. Cosa potrebbe, infatti, essere più acconcio?

[VII,58,1] Per ciascun caso della vita, avere davanti agli occhi coloro ai quali sono avvenuti gli stessi casi e che solevano adontarsene, sbalordirsene, biasimarli. Dove sono costoro, adesso? Da nessuna parte. E allora? Vuoi comportarti anche tu similmente? [VII,58,2] Non abbandonare, piuttosto, i rivolgimenti impropri ai conturbatori e ai conturbati, e tu invece concentrarti interamente sul come servirti di quei casi della vita? [VII,58,3] Giacché te ne servirai bene e sarà materiale per te. Soltanto fa’ attenzione a disporre di essere bello dentro in ogni cosa che fai, e ricordati di entrambe le cose, ossia…[che il caso della vita è indifferente mentre non è indifferente l’uso che ne fai]…con la tua azione.

[VII,59,1] Scava dentro. Dentro è la fonte del bene che sempre può sgorgare, se sempre scavi.

[VII,60,1] Bisogna che anche il corpo sia ben piantato e non si dimeni di qua e di là, tanto in movimento quanto in posizione di riposo. [VII,60,2] Infatti, come la retta proairesi procura al nostro volto un’espressione che lo mantiene intelligente e decoroso, qualcosa del genere va richiesto anche per tutto il corpo. [VII,60,3] E dobbiamo badare a raggiungere questo risultato alla buona. 

[VII,61,1] L’arte della vita è più simile alla lotta corpo a corpo che alla danza, per via dello star pronti e incrollabili agli accidenti non pronosticabili.

[VII,62,1] Soppesare continuamente chi siano costoro dai quali intendi ottenere una testimonianza favorevole di te e quali egemonici essi abbiano. [VII,62,2] Giacché non biasimerai coloro che toppano indeliberatamente né abbisognerai di quella corroborazione se guardi ben dentro, alle fonti della loro concezione e del loro impulso. 

[VII,63,1] Ogni animo, dice, si priva della verità suo malgrado. Dunque è così anche della giustizia, della temperanza, della pazienza e di tutto ciò che è siffatto. [VII,63,2] E’ oltremodo necessario ricordarsi ininterrottamente di questo, giacché così sarai più mite con tutti.

[VII,64,1] Di fronte ad ogni dolore fisico, abbi a portata di mano il giudizio che esso non è una vergogna; che non rende peggiore quell’intelletto che pilota né lo corrompe come facoltà razionale o socievole. [VII,64,2] Per la maggior parte dei dolori ti sia di aiuto anche il detto di Epicuro: ‘Il dolore fisico è né insopportabile né eterno’; così che tu possa rammemorare i suoi limiti e non opinare nulla di più. [VII,64,3] Ricordati inoltre di questo, cioè che ci sfugge come molte altre faccende che ci rendono malcontenti siano dei dolori camuffati: per esempio il cascare dal sonno, il morire di caldo, l’essere inappetenti. [VII,64,4] Qualora dunque tu ti dispiaccia per qualcuna di queste faccende, dì a te stesso che ti arrendi al dolore.

[VII,65,1] Guarda di non sperimentare verso gli esseri umani che non sono uomini, quel che gli esseri umani sperimentano verso gli uomini.

[VII,66,1] Come facciamo a sapere se Telauge non fosse migliore di Socrate quanto a disposizione interiore? [VII,66,2] Non basta, infatti, che Socrate abbia fatto una morte più celebre; che fosse più abile nel dialogare con i sofisti; che potesse passare una nottata al gelo con straordinaria forza d’animo; che, essendogli intimato di condurre in arresto Leonte di Salamina, così nobilmente pensasse bene di andare contro l’ordine; che camminasse per le vie [di Atene] con aria spavalda (cosa, questa, della quale si potrebbe davvero diffidare che sia proprio vera). [VII,66,3] Bisogna invece considerare quale tipo di animo avesse Socrate e se poteva accontentarsi di essere giusto verso gli uomini e santo verso gli dei; senza fremere di odio contro il vizio; senza essere servo dell’ignoranza di qualcosa; senza accogliere come straniera qualcuna delle cose che ci sono assegnate dall’universo o reggerla come se fosse insopportabile; e senza fare della mente qualcosa di consentaneo alle passioni della carne.

[VII,67,1] La natura non ti ha commisto in un composto in modo tale da non autorizzarti a delimitare te stesso ed a far sì che ciò che è tuo non sia in tuo esclusivo potere; infatti è d’assai fattibile per un uomo diventare come un dio e non essere riconosciuto come tale da nessuno. [VII,67,2] Ricordatene sempre e ricorda anche che il vivere felicemente giace in pochissime cose. [VII,67,3] Non disperare, inoltre, di essere libero, rispettoso di te e degli altri, socievole, obbediente a chi è immortale, dal momento che hai perso la speranza di essere un giorno esperto in dialettica e in fisica.

[VII,68,1] Senza sforzo, puoi passare la vita nella massima contentezza anche se tutti ti urlassero contro quel che vogliono, anche se belve dilaniassero le povere membra di questo impasto rappreso. [VII,68,2] Che cosa impedisce, infatti, che in tutte queste circostanze la proairesi si salvaguardi in bonaccia; capace della risoluzione veritiera circa ciò che la circonda; pronta all’uso di ciò che le è sottoposto? [VII,68,3] Così che la proairesi in quanto risoluzione, possa dire a ciò che la incoglie: “Tu nella sostanza sei questo, anche se all’opinione appari essere quest’altro”; e in quanto uso, possa dire a quel che accade: “Andavo in cerca proprio di te, giacché il presente è sempre il materiale della mia virtù razionale e politica e, in complesso, dell’arte di un uomo soggetto alla stessa legge cui è soggetto dio”. [VII,68,4] Tutto quel che avviene è infatti assimilabile ad una causa divina o umana e non è mai una novità né è difficile da trattare, ma è noto e facile da lavorare.

[VII,69,1] La completezza del carattere è questa: tragittare l’intera giornata come se fosse l’ultima, senza provare batticuori, senza intorpidirsi, senza recitare una parte.

[VII,70,1] Gli dei, essendo immortali, non sono malcontenti di dover certamente sempre sopportare per così tanto tempo tale e tanta quantità di insipienti; e per di più si prendono cura di loro in ogni genere di modi. [VII,70,2] E tu che stai per farla finita tra non molto, invece capitoli? E questo quando tu sei uno di quegli insipienti?

[VII,71,1] Ridicolo è il fatto che noi non scansiamo la nostra propria viziosità, cosa che è possibile; mentre vorremmo scansare la viziosità degli altri, cosa invece impossibile.

[VII,72,1] Ciò che la facoltà che è insieme razionale e politica trovi non essere né cognitivo né socievole, ben logicamente lo giudica ancora più bisognevole di se stessa.

[VII,73,1] Qualora tu abbia fatto qualcosa di buono e un altro ne abbia sperimentato un bene; perché, oltre questi due, cerchi, come fanno gli stupidi, un terzo risultato, ossia di centrare anche la fama di benefattore o il contraccambio?

[VII,74,1] Nessuno si stanca se gli si giova, e il giovare è azione in armonia con la natura. Dunque non stancarti se ti si giova dal momento che, così facendo, tu giovi ad altri.

[VII,75,1] La natura ha dato l’impulso alla fabbrica del cosmo. Ora, o tutto ciò che succede succede per conseguenza, oppure anche le creature principali [ossia gli uomini] attraverso le quali l’egemonico del cosmo si fa impulso privato e personale, sono creature prive di ragione. [VII,75,2] Rammemorare questo ti riporterà in bonaccia verso molte cose.

*****

LIBRO VIII

[VIII,1,1] Al disprezzo della vanagloria porta anche questo, ossia il fatto che non puoi più dire di avere vissuto sempre, o almeno fin dalla giovinezza, una vita da filosofo. È ormai diventato manifesto a molti altri e pure a te stesso che sei ben lontano dalla filosofia. [VIII,1,2] Dunque, sei lordo; sicché l’acquisire fama di filosofo per te non è più facile, ed anche la tua ipotesi di vita è in antagonismo con ciò. [VIII,1,3] Se davvero hai visto dove giace il problema, tralascia, allora, la preoccupazione di chi sembrerai e accontentati di riuscire eventualmente a vivere il resto della tua vita come la natura delle cose dispone. [VIII,1,4] Sviscera ciò ch’essa dispone e null’altro ti distragga. Infatti, hai provato a te stesso, dopo essere andato errando intorno a tante cose, di non avere trovato il ‘vivere bene’. [VIII,1,5] Non l’hai trovato nei sillogismi, né nella ricchezza di denaro, né nella gloria, né nel godimento né da nessuna parte. [VIII,1,6] E dunque dov’è? Il vivere bene sta nel fare ciò che la natura dell’uomo esige. E questo, come lo farai? Se avrai i giudizi dai quali far discendere impulsi ed azioni. Quali giudizi? Quelli sul bene e sul male, per cui nessun giudizio è bene per l’uomo se non lo rende giusto, temperante, virile, liberale; e nessun giudizio è male se non lo rende il contrario di quanto appena detto. 

[VIII,2,1] Per ciascuna tua azione domanda a te stesso: “Come mi si addice quest’azione? Non avrò a pentirmene?” Tra breve sarò morto e tutto sarà tolto di mezzo. [VIII,2,2] Se la presente mia opera è opera di una creatura cognitiva, socievole, soggetta alla stessa legge cui è soggetto dio, cosa esigo di più?

[VIII,3,1] Cosa sono Alessandro, Gaio Cesare, Pompeo a confronto di Diogene, Eraclito, Socrate? [VIII,3,2] Questi si resero ben conto dei fatti, delle cause, dei materiali con i quali avevano a che fare ed i loro egemonici erano autonomi. Là, invece, privilegio di quali e servitù di quanti!

[VIII,4,1] Essi faranno nondimeno le medesime cose, anche se tu crepassi di rabbia.

[VIII,5,1] In primo luogo, non sconcertarti; giacché tutto avviene in armonia con la natura e tra breve tu, come Adriano e come Augusto, non esisterai più da nessuna parte. [VIII,5,2] In secondo luogo, tieni lo sguardo teso alla faccenda in questione e, rammemorando insieme cosa richiede la natura umana e il fatto che tu devi essere un uomo virtuoso, fa quel che devi senza voltarti indietro e come ti appare più giusto; e fallo con pazienza, rispetto di te e degli altri, senza ipocrisia.

[VIII,6,1] La natura in generale fa questo lavoro: traslocare là le cose che sono qui, trasformare, sollevare di qua e portare là. [VIII,6,2] Tutti rivolgimenti che non sono da temersi come una novità, ma che sono tutti consueti.

[VIII,7,1] Ogni natura che abbia libero corso è paga di se stessa. La natura razionale ha libero corso quando, nel caso delle rappresentazioni, nega il proprio assenso ad una rappresentazione falsa o dubbia; quando indirizza gli impulsi verso opere socievoli; quando desidera ed avversa unicamente cose che sono in suo esclusivo potere e, per il resto, accetta di buon grado tutto ciò che le è assegnato dalla comune natura. [VIII,7,2] Di questa comune natura, infatti, essa è una parte; come la foglia lo è di un vegetale. Eccetto che, in questo caso, la natura della foglia è parte di una natura priva di sensazioni, irrazionale, soggetta ad intralci; mentre la natura dell’uomo è parte di una natura che non è soggetta ad intralci, che è cognitiva e giusta, dato che fa per ciascun uomo partizioni uguali e secondo il valore di tempo, di sostanza, di causa, di attività e di evenienza, ed uguali assegnazioni. [VIII,7,3] Considera, cioè, non se troverai questi fattori uguali uno per uno per ogni singolo uomo, ma se il totale assegnato ad uno equivale nell’assieme al totale toccato ad un altro.

[VIII,8,1] Non vi è la possibilità di leggere. Ma vi è la possibilità di reprimere lo stimolo ad oltraggiare; di prevalere sui piaceri e i dolori fisici; di essere ben al di sopra della fama; di non nutrire rancore per gli insensibili e gli ingrati e, per di più, di prendersi cura di loro.

[VIII,9,1] Che nessuno, neppure tu stesso, ti senta più vituperare la vita di corte.

[VIII,10,1] Il pentimento è uno scossone di biasimo che si dà a se stessi per avere pretermesso qualcosa di proficuo. Ciò che è proficuo deve essere un bene, e al virtuoso tocca avere ogni sollecitudine per esso. Ora, nessun uomo virtuoso si pentirebbe mai per avere trascurato una qualche ebbrezza: dunque l’ebbrezza non è proficua e non è un bene.

[VIII,11,1] Cos’è questo in se stesso per sua propria struttura? Quali sono il suo sostanziale e il suo materiale? Quale la sua causa? Cosa fa nel cosmo? Per quanto tempo sussiste?

[VIII,12,1] Qualora ti desti malcontento dal sonno, sovvieniti che l’esplicare azioni socievoli è in armonia con la tua struttura e con la natura umana, mentre il dormire è comune anche alle creature irrazionali. Ciò che è in armonia con la natura di ognuno è pertanto ciò che gli è più appropriato, più naturalmente appartenente, più gradevole.

[VIII,13,1] Bisogna applicare la fisica, l’etica, la dialettica ininterrottamente e, per quanto è possibile, su ogni rappresentazione.

[VIII,14,1] In chiunque t’imbatta, per prima cosa dì a te stesso: ‘Che giudizi ha costui sul bene e sul male?’ [VIII,14,2] Giacché se ha sul piacere fisico, sul dolore fisico e su ciò che è produttivo di entrambi, sulla fama, sul discredito, sulla morte e sulla vita un certo tipo di giudizi, non c’è da stupirsi e non mi sembrerà strano che egli faccia quel che consegue a quei giudizi; e mi ricorderò pure che egli è costretto ad agire così.

[VIII,15,1] Ricorda che come è vergognoso sbalordirsi se un fico apporta dei fichi, così è vergognoso sbalordirsi se il cosmo apporta ciò di cui è portatore. Anche per un medico o per un pilota è vergognoso sbalordirsi se qualcuno ha la febbre o se soffia un vento contrario.

[VIII,16,1] Ricorda che anche l’allogarti diversamente ed il seguire colui che ti corregge è egualmente un atto di libertà. [VIII,16,2] Infatti, è una tua attività realizzata secondo il tuo impulso e la tua risoluzione e quindi anche secondo il tuo intendimento.

[VIII,17,1] Se è in tuo esclusivo potere, perché lo fai? Se invece è in potere d’altri, chi biasimi? Gli atomi o gli dei? Ambedue le alternative sono pura pazzia. [VIII,17,2] Non bisogna biasimare nessuno. Se infatti lo puoi, correggi l’uomo. Se non lo puoi, correggi il fatto stesso. Se non puoi neppure questo, a cosa ancora è utile il biasimare? Giacché non bisogna fare nulla a casaccio.

[VIII,18,1] Ciò che muore non casca fuori del cosmo. [VIII,18,2] Se qua resta, allora qua si trasforma e si dissolve negli elementi naturali del cosmo. E questi stessi si trasformano e non brontolano.

[VIII,19,1] Ciascun essere, sia esso un cavallo o una vite, è nato per qualcosa. Perché te ne stupisci? Anche il sole dirà: ‘Sono nato per compiere una certa opera’. E così diranno il resto degli dei. [VIII,19,2] E tu per cosa sei nato? Per godere nella carne? Vedi se il concetto è tollerabile.

[VIII,20,1] La natura ha avuto di mira l’esaurimento di ciascuna cosa non meno che il suo principio e il suo tragitto, così come avviene a colui che lancia in alto la palla. [VIII,20,2] Per la palla, che bene c’è nel portarsi in alto, e che male c’è nel ricadere e nel cascare a terra? [VIII,20,3] Per una bolla d’aria, che bene c’è nel formarsi e che male c’è nel dissolversi? Considerazioni simili si potrebbero fare anche per una lucerna.

[VIII,21,1] Rivolta il corpo e osservalo qual è e quale diventa quando invecchia, è ammalato, soffre dolori. [VIII,21,2] Breve vita hanno tanto chi loda quanto chi è lodato; tanto chi rammemora quanto chi è rammemorato. [VIII,21,3] Per di più in un angolo di questa regione del cosmo, dove non vanno neppure tutti d’accordo e neppure ciascuno con se stesso, mentre la terra intera è un puntino.

[VIII,22,1] Fa attenzione all’oggetto, all’attività, al giudizio, al significato. [VIII,22,2] È giusto che patisca, giacché vuoi diventare virtuoso domani piuttosto che esserlo oggi.

[VIII,23,1] Faccio qualcosa? Lo faccio riferendolo ad una beneficenza per gli uomini. Mi capita qualcosa? Lo accolgo riferendolo agli immortali e alla sorgente di tutte le cose, da cui tutti gli eventi sono compartiti.

[VIII,24,1] Quale ti appare il fare un bagno caldo: olio, sudore, sudiciume, acqua emulsionata, tutte cose che fanno ribrezzo; tale è ogni parte della vita e ogni oggetto.

[VIII,25,1] Lucilla ha sepolto Vero, poi è toccato a Lucilla. Seconda ha sepolto Massimo, poi è toccato a Seconda. Epitincano ha sepolto Diotimo, poi è toccato a Diotimo. Faustina ha sepolto Antonino, poi è toccato a Faustina. Così è sempre. Celere ha sepolto Adriano, poi è toccato a Celere. [VIII,25,2] Dove sono quegli ingegni sottili, pronosticatori, vanitosi, come Carace, Demetrio il platonico, Eudemone ed altri come loro? [VIII,25,3] Tutti effimeri, morti da tempo. Taluni neppure rammemorati per un momento, altri trasformati in leggende, altri ancora svaniti pure dalle leggende. [VIII,25,4] Ricordati, allora, che il tuo corpo composto dovrà essere disperso, e lo pneuma spento o trasferito e ridisposto altrove.

[VIII,26,1] La letizia dell’uomo consiste nel fare ciò che dell’uomo è peculiare. [VIII,26,2] E peculiare dell’uomo è la benevolenza verso chi gli è consimile, il disdegno dei moti dei sensi, la discriminazione delle rappresentazioni speciosamente persuasive, l’accertamento della natura delle cose e di ciò che avviene in armonia con essa.

[VIII,27,1] Tre relazioni: quella con il recipiente che mi porto addosso; quella con la causa materiale dalla quale tutto deriva per tutti; quella con i conviventi.

[VIII,28,1] Il dolore fisico è un male o per il corpo: e allora il corpo lo dichiari; oppure per l’animo: ma l’animo ha la potestà di custodire intatto in se stesso cielo sereno e bonaccia, concependo che esso non è un male. [VIII,28,2] Giacché ogni risoluzione, ogni impulso, ogni desiderio, ogni avversione nascono dentro di noi e nulla di esteriore sale fin qui [nel nostro egemonico].

[VIII,29,1] Cancella le rappresentazioni dicendo continuamente a te stesso: adesso è in mio esclusivo potere far sì che in quest’animo non vi sia alcuna malvagità, né smania, né assolutamente sconcerto; e che, invece, guardando tutto per quello che è, io utilizzi ciascuna cosa secondo il suo valore. [VIII,29,2] Ricorda che hai questa potestà.

[VIII,30,1] Chiacchierare con naturalezza sia in Senato che con chiunque, compostamente e senza ricercatezza. E usare un linguaggio sano.

[VIII,31,1] Guarda la corte di Augusto, la moglie, la figlia, i nipoti, i figliastri, la sorella, Agrippa, i congeneri, i familiari, gli amici, Ario, Mecenate, i medici, gli addetti ai sacrifici: la morte dell’intera corte. [VIII,31,2] Dopo di che passa in rassegna le altre corti e la loro scomparsa, poi quella di intere città come Pompei, non la morte di singoli individui. [VIII,31,3] Fa anche calcolo di quell’epigrafe tombale che dice ‘Ultimo della sua stirpe’, e di quanto si ambasciarono gli avi per poter lasciare un erede; e poi considera che di necessità qualcuno deve diventare ultimo. E così è di nuovo la morte dell’intera stirpe.

[VIII,32,1] Bisogna comporre la vita azione per azione ed essere paghi se ciascuna di esse incorpora in sé, al possibile, il proprio fine. E che essa lo incorpori in sé, nessuno può impedirtelo. [VIII,32,2] ‘Ma qualcosa di esterno opporrà resistenza!’ Nulla opporrà resistenza a che tu concepisca con giustizia, temperanza, razionalità. [VIII,32,3] Forse sarà impedito qualche altro momento operativo, ma grazie al compiacerti proprio dell’impedimento e grazie alla costumata transizione che tu opererai dinanzi al dato di fatto, ecco che un’altra azione si è sostituita, la quale si accorda alla combinazione di vita della quale stiamo parlando.

[VIII,33,1] Prendere con modestia, lasciare con scioltezza.

[VIII,34,1] Se hai mai visto una mano recisa o un piede o una testa mozzata e giacente in disparte dal resto del corpo, sappi che tale si rende, per quanto è in suo esclusivo potere, chi non accetta ciò che avviene e se ne frammenta, oppure colui che fa qualcosa di antisociale. [VIII,34,2] Ti sei bandito da quell’unione che è secondo natura, giacché eri nato per esserne una parte e adesso te ne sei reciso. [VIII,34,3] Ma nel caso dell’uomo il fatto ingegnoso è questo: che hai la potestà di rientrare di nuovo nell’unione. [VIII,34,4] La Materia Immortale non ha concesso a nessun’altra sua parte, una volta spazieggiata e frantumata, il privilegio di ricongiungersi così. [VIII,34,5] Analizza la probità con la quale essa ha reso onore all’uomo. Infatti essa ha posto in suo esclusivo potere, da principio, la possibilità di non rescindersi dall’intero; e poi, una volta rescissosi, di rivenire di nuovo nell’unione, di riconnaturarsi ad essa e riprendere la posizione di parte.

[VIII,35,1] Come la natura delle creature razionali ha dato a ciascuna di esse le altre facoltà quasi come un dono, così noi abbiamo preso da essa natura anche la nostra ragione. [VIII,35,2] E nel modo in cui la natura ribalta tutto ciò che oppone resistenza e le va contro, lo ridispone in riga col destino e ne fa una parte di se stessa, così anche la creatura razionale può fare di ogni impedimento un materiale per se stesso [ossia per la propria proairesi] ed utilizzarlo per lo scopo al quale impellesse.

[VIII,36,1] Non farti sconfondere dalla rappresentazione della vita nel suo insieme. Non stare a pensare a quali e quanti lavori penosi verosimilmente ne saranno susseguiti ma, per ciascuno di quelli presenti, interpella te stesso su cosa ci sia di insopportabile e di intollerabile in esso. [VIII,36,2] Ti vergognerai di ammetterlo. Poi sovvieniti che ad appesantirti non sono mai né il futuro né il passato, ma sempre il presente. [VIII,36,3] E questo rimpicciolisce, se soltanto lo delimiterai e confuterai la tua proairesi, quando essa affermi di non poter tenere duro dinanzi a questo mero presente.

[VIII,37,1] Panteia o Pergamo siedono adesso accanto all’urna con le ceneri di Vero? Cosa? E Cabria e Diotimo accanto a quella con le ceneri di Adriano? Cosa? Se essi fossero seduti lì accanto, Vero e Adriano dovrebbero accorgersene? Cosa? E se se ne accorgessero, dovrebbero gioirne? E se ne gioissero, Panteia e gli altri dovrebbero essere immortali? [VIII,37,2] Non era destino che anche costoro diventassero dapprima vecchiarde e vecchiardi e poi morissero? Cosa avrebbero dovuto fare poscia, una volta che Vero e Adriano erano morti?

[VIII,38,1] Tutto questo è putredine e sangue coagulato in un sacco. Se hai la vista acuta, guarda.

[VIII,39,1] Giudicando con i più saggi, si dice, non vedo nella struttura della creatura razionale una virtù in rivolta contro la giustizia; mentre invece ne vedo una, la padronanza di sé, che è in rivolta contro l’ebbrezza.

[VIII,40,1] Se eliminerai la tua concezione circa ciò che ti pare causa di afflizione, ‘tu’ sei nella condizione più sicura possibile. [VIII,40,2] ‘Quale ‘tu’’? La ragione. [VIII,40,3] ‘Ma io non sono ragione’. Va bene: allora la ragione non affligga se stessa. Se poi qualcos’altro ti fa stare male, l’afflizione la concepisca quello di se stesso.

[VIII,41,1] Ciò che è capace di intralciare la sensazione rappresenta un male per la natura animale. Similmente, ciò che è capace di intralciare l’impulso rappresenta un male per la natura animale. [VIII,41,2] Similmente vi è qualcos’altro capace di intralciare, e dunque è un male per la struttura vegetale. Così pertanto, ciò che è capace di intralciare la mente è male per una natura cognitiva. [VIII,41,3] Trasponi adesso tutto ciò su te stesso. Un dolore o un piacere fisico ti si accostano. Questo è affare della facoltà percettiva. [VIII,41,4] Un ostacolo si è frapposto alla esecuzione di un tuo impulso. Se tu usi l’impulso senza fare eccezioni, già questo è male per una creatura razionale. Se invece tu hai anticipato l’impedimento, non ne sei stato danneggiato né intralciato. [VIII,41,5] Null’altro, però, suole intralciare l’attività propria della mente, giacché né fuoco, né ferro, né un tiranno, né delle invettive blasfeme, né qualunque altra cosa possono accostarlesi: quando essa diventi ‘globo arrotondato [che gioisce della sua circolare unicità]’, tale resta.

[VIII,42,1] Io non sono degno di affliggere me stesso, giacché non ho mai di proposito afflitto nessun altro.

[VIII,43,1] Una cosa allieta uno, un’altra un altro. Io, invece, mi allieto se il mio egemonico è sano, se non rifugge l’uomo né alcuna delle cose che avvengono agli uomini; se è capace di vedere tutto con occhi pazienti e di accogliere ed usare ogni cosa secondo il suo valore.

[VIII,44,1] Vedi di farti la grazia di questo tempo presente. [VIII,44,2] Coloro che inseguono piuttosto la fama presso i posteri, non conteggiano il fatto che i posteri saranno tali e quali agli uomini di adesso che essi aborrono, e anch’essi mortali. [VIII,44,3] Insomma, che importa a te se quelli faranno echeggiare lontano il tuo nome con certe voci o avranno di te una certa concezione?

[VIII,45,1] Sollevami e buttami dove disponi tu. Anche là avrò il mio demone pacificato, cioè pago di essere e di agire in armonia con quanto consegue alla sua peculiare struttura. [VIII,45,2] Il valore di questa cosa è forse tale che per causa sua l’animo mio debba star male ed essere peggiore di quel che è: che ne sia avvilito, rammaricato, sommerso, attonito? E cosa troverai degno di ciò?

[VIII,46,1] All’uomo nulla può avvenire che non sia un caso umano, né ad un bue che non sia un caso bovino, né ad una vite che non sia un caso viticolo, né ad una pietra che non sia un caso litico. [VIII,46,2] Se dunque a ciascuno avviene ciò che gli è solito e per cui è nato, perché dovresti essere malcontento? La comune natura, infatti, non ti ha apportato qualcosa di insopportabile.

[VIII,47,1] Se ti affliggi per qualcuna delle cose di fuori, non è quella a disturbarti ma la tua determinazione su di essa. [VIII,47,2] E cancellare questa determinazione è senz’altro in tuo esclusivo potere. [VIII,47,3] Se ad affliggerti è una di quelle cose che sono a tua disposizione, chi può impedirti di correggerla? Similmente, se ti affliggi perché non esegui un’opera che ti appare valida, perché non la esegui invece di affliggerti? [VIII,47,4] “Ma qualcosa più potente di me oppone resistenza”. Dunque non affliggerti, giacché la causa del tuo non agire non sta in te. [VIII,47,5] “Ma non è degno vivere se non eseguo quest’opera”. Allora vattene con pazienza dalla vita, nella quale anche chi esegue quell’opera muore, ma pacificato con ciò che oppone resistenza.

[VIII,48,1] Ricorda che l’egemonico diventa imbattibile qualora, racchiuso in se stesso, sia pago di non fare ciò che non dispone di fare, anche se si è schierato così irrazionalmente. [VIII,48,2] Che dire, dunque, qualora abbia invece giudicato con piena ponderazione su qualcosa? [VIII,48,3] Questo è il motivo per cui l’intelletto libero da passioni è un’acropoli; e l’uomo non ha nulla di meglio fortificato rifugiandosi nel quale poi sarebbe inespugnabile. [VIII,48,4] Chi non ha visto quest’acropoli è un incolto, mentre chi l’ha vista e non vi si rifugia è uno sfortunato. 

[VIII,49,1] Non dire a te stesso nulla di più di ciò che ti annunciano le rappresentazioni immediate. [VIII,49,2] Ti è stato riferito che il tale parla male di te. Questo ti è stato riferito. Non ti è stato riferito che sei stato danneggiato. [VIII,49,3] Vedo che il bambino è ammalato. Lo vedo. Non vedo che è in pericolo di vita. [VIII,49,4] A questo modo, dunque, rimani sempre alle prime rappresentazioni, non soggiungere nulla dal di dentro, e non ti succede nulla. Piuttosto soggiungi che conosci tutto quello che può avvenire in questo mondo.

[VIII,50,1] Un cetriolo amaro: tralascialo. Rovi sulla strada: evitali. Basta che tu non dica in aggiunta: perché esistono nel cosmo cose come queste? Giacché allora sarai deriso dallo studioso della natura, come lo saresti da un falegname o da un calzolaio se li accusassi perché vedi nel loro laboratorio dei trucioli o dei ritagli di ciò che hanno fabbricato. [VIII,50,2] Eppure essi hanno dove buttare via questi rifiuti. La natura, invece, non ha nulla al di fuori di sé, e quel che è stupendo dell’arte sua è il fatto che essa si autodelimita e trasforma entro se stessa tutto ciò che al suo interno pare corrompersi, invecchiare ed essere improficuo, facendone altre cose giovanili, senza utilizzare sostanza dall’esterno né avere inoltre bisogno di un luogo dove espellere ciò che è più schifoso. [VIII,50,3] Essa è paga, dunque, del suo spazio, del suo materiale, della sua propria arte. 

[VIII,51,1] Non essere negligente nelle azioni né pasticciato nelle conversazioni, e non vagabondare da una rappresentazione a un’altra. Non rinchiuderti tutto nel tuo animo e non sbalzartene tutto fuori, e non essere senza posa impegnato nelle miserie della vita. [VIII,51,2] Ammazzano, fanno a pezzi, perseguitano con maledizioni. Che c’entra questo con il fatto che l’intelletto resti puro, sensato, temperante e giusto? È come se uno stesse accanto ad una sorgente di acqua limpida e dolce e lanciasse contro di lei delle invettive blasfeme. Non per questo dalla sorgente cessa di sgorgare acqua potabile. E anche se qualcuno vi getta dentro del fango o dello sterco, la sorgente rapidamente li sparpaglierà, li laverà via e in nessun modo ne rimarrà tinta. [VIII,51,3] Come potrai dunque avere in te una sorgente perenne? Se baderai, con l’essere paziente, schietto, rispettoso di te e degli altri, a mantenerti in ogni momento un uomo libero.

[VIII,52,1] Chi non sa che esiste un cosmo, non sa dove esso sia. Chi non sa per cosa il cosmo è nato, non sa chi esso sia. [VIII,52,2] Chi lascia addietro una di queste conoscenze non saprebbe neppure dire per cosa egli stesso sia nato. [VIII,52,3] Chi ti appare essere colui che insegue il rumore degli applausi di persone che non sanno riconoscere né dove sono né chi sono?

[VIII,53,1] Vuoi essere lodato da un individuo che maledice se stesso tre volte all’ora? Vuoi riuscire gradito ad una persona che non gradisce se stessa? [VIII,53,2] Gradisce se stesso chi si pente di quasi tutto quel che fa?

[VIII,54,1] Non bisogna soltanto più respirare insieme con l’aria che ci circonda, ma ormai anche cointelligere con quella cognitività che tutto circonda. [VIII,54,2] La facoltà cognitiva è stata, infatti, riversata dappertutto ed ha permeato chi è capace di cavarla, non meno di quanto l’elemento aeriforme permei chi è capace di respirarlo.

[VIII,55,1] Il vizio, in genere, non danneggia affatto il cosmo. In particolare, poi, il vizio di un individuo non ne danneggia affatto un altro. Il vizio è dannoso soltanto a colui cui è anche concesso di allontanarsene non appena così disponga.

[VIII,56,1] Per la mia proairesi, la proairesi di chi mi sta intorno mi è altrettanto indifferente quanto il suo pneuma o la sua carne. [VIII,56,2] Giacché se pur siamo venuti al mondo soprattutto per aiutarci l’un l’altro, tuttavia i nostri egemonici hanno ciascuno la signoria assoluta in casa propria. Diversamente, la viziosità di chi mi sta intorno dovrebbe essere un male per me. Ma non parve bene alla Materia Immortale che io fossi sfortunato se non per colpa mia.

[VIII,57,1] Il sole sembra versarsi sopra di noi e, in effetti, riversarsi dappertutto ma senza dissiparsi. Questo riversarsi, infatti, è un suo irradiarsi. [VIII,57,2] E i fulgori del sole si dicono appunto ‘raggi’ perché sono entità che si ‘irraggiano’. [VIII,57,3] Quale specie di cosa sia un raggio, lo potresti vedere se osservassi la luce del sole che penetra attraverso una via stretta e finisce su una casa in ombra. Essa si propaga, infatti, in linea retta e si infigge su qualunque oggetto solido incontri, separando l’aria interposta. Qui si ferma e non scivola né cade. [VIII,57,4] Occorre dunque che siffatto sia anche il riversarsi e l’effondersi dell’intelletto, non un dissiparsi ma un irradiarsi. Occorre poi che il suo appoggio sugli impedimenti che incontra non sia violento né impetuoso e che esso non tracolli ma si fermi ad illuminare ciò che lo accoglie. Giacché ciò che non lo riflette defrauderà se stesso del fulgore dell’intelletto.

[VIII,58,1] Chi ha paura della morte teme o l’assenza di sensazioni o sensazioni d’altra specie. [VIII,58,2] Ma allora, se non vi sono più sensazioni neppure percepirai alcun male. Se invece acquisirai una sensibilità differente, sarai un’altra creatura e non cesserai di vivere.

[VIII,59,1] Gli uomini sono venuti al mondo gli uni per gli altri: ammaestrali, dunque, o porta pazienza.

[VIII,60,1] Freccia e mente si portano ben altrimenti. Eppure la mente, anche procedendo cauta e rigirandosi nell’analisi, si porta in linea retta, non meno della freccia, sull’obiettivo. 

[VIII,61,1] Presentarsi all’egemonico di ciascuno. Ma acconsentire anche a chiunque altro di presentarsi al proprio.

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LIBRO IX

[IX,1,1] Chi commette un’ingiustizia commette un’empietà. Infatti, siccome la natura ha strutturato le creature razionali le une per le altre in modo che si giovassero reciprocamente secondo il loro valore e non perché si danneggiassero, colui che contravviene al piano della natura commette manifestamente empietà verso la primigenia delle divinità. [IX,1,2] Anche chi mente commette un’empietà nei confronti della medesima divinità, giacché la natura è natura delle cose che sono e le cose che sono hanno intima connessione con i loro attributi veri. [IX,1,3] E inoltre essa è anche denominata Verità ed è la causa prima di tutte le cose vere. [IX,1,4] Chi dunque mente di proposito commette un’empietà inquantoché, ingannando, commette un’ingiustizia. Ma costui è anche empio suo malgrado, in quanto è in disarmonia con la natura e in quanto produce disordine contraddicendo la natura del cosmo. [IX,1,5] Chi si atteggia in modo contrario alla verità, infatti, è in contraddizione con se stesso, giacché la natura gli ha bensì anticipato delle risorse ma poi egli le ha neglette e non è più in grado di discriminare il falso dal vero. [IX,1,6] Empio è invero anche chi insegue i piaceri fisici come se fossero beni e fugge dai dolori fisici come se fossero mali. Un individuo siffatto necessariamente biasima spesso la comune natura perché, a suo parere, non assegna secondo il valore ciò che dà agli insipienti e ciò che dà ai virtuosi. Spesso, infatti, gli insipienti sguazzano nei piaceri ed acquisiscono i mezzi per procurarseli, mentre i virtuosi incappano nel dolore fisico e in quanto lo procura. [IX,1,7] Inoltre, chi ha paura del dolore fisico come se fosse un male, prima o poi avrà paura di qualcosa che pur dovrà succedere nel cosmo; e già questo è cosa empia. [IX,1,8] Colui che insegue i piaceri fisici, a sua volta, non si asterrà dal commettere qualche ingiustizia; e anche questo è evidentemente cosa empia. [IX,1,9] Siccome la comune natura non farebbe ambedue le cose [ossia qualcosa e il suo contrario] se essa non si atteggiasse parimenti verso ambedue, occorre che anche coloro che decidono di seguire la natura delle cose siano unanimi nel diportarsi parimenti con le cose verso cui la natura si atteggia parimenti. È dunque manifesto che chiunque non si atteggia parimenti verso dolore e piacere fisico, morte e vita, gloria e discredito -cose di cui la natura parimenti si serve- commette un’empietà. [IX,1,10] Dico che la comune natura si serve parimenti di queste, per dire che tutte avvengono parimenti, in conseguenza di un succedere ed un susseguirsi di eventi originati da un qualche primitivo impulso della prònoia, col quale essa diede inizio da principio a questo buon ordine del cosmo, dopo avere concepito certe ragioni delle cose future e demarcato facoltà generative di tali basi sostanziali, trasformazioni e successioni.

[IX,2,1] Sarebbe certo da uomo più raffinato andarsene via dal mondo senza avere mai provato il gusto della menzogna, di qualsiasi forma di ipocrisia, di mollezza e di vanità. [IX,2,2] Almeno, stronfiare nauseato da questa robaccia è la seconda navigazione da scegliere. [IX,2,3] Oppure invece tu hai prescelto di accomodarti al vizio e neppure l’esperienza ti persuade ancora a fuggire da questa peste? [IX,2,4] Giacché la corruzione dell’intelletto è peste molto più di quel certo squilibrato rivolgimento dello pneuma sparso intorno a noi. [IX,2,5] Questa è peste per gli animali in quanto animali. Quella è peste per gli uomini in quanto uomini.

[IX,3,1] Non giudicarti superiore alla morte, ma compiacitene perché anche questo è uno degli eventi disposti dalla natura. [IX,3,2] Come l’essere giovani e l’invecchiare, il crescere, raggiungere la maturità, mettere i denti, la barba, la canizie, inseminare, essere gravida, sgravare e le altre naturali operazioni che le stagioni della vita comportano, così è anche l’essere dissolto. [IX,3,3] È dunque da uomo che ha fatto i suoi conti non atteggiarsi verso la morte genericamente, con rigetto o con tracotanza, ma attenderla come una delle attività naturali. [IX,3,4] E come adesso attendi che il feto esca dal ventre della tua donna, così devi aspettare l’ora in cui la tua animuzza fuoriuscirà da questo involucro. [IX,3,5] Se poi vuoi anche una regola da gente comune ma che tocca il cuore, ti renderà agevole pensare alla morte soprattutto la riflessione sugli oggetti dai quali ti distornerai e con quali creature non dovrai più lordarti. [IX,3,6] Non bisogna per niente sentirsi offesi da esse, ma anzi prenderne cura e portare pacatamente pazienza, e però ricordare che il tuo allontanamento non sarà da uomini che hanno giudizi identici ai tuoi. [IX,3,7] Questo soltanto, semmai, potrebbe tirarti in direzione contraria e trattenerti in questa vita, ossia se fossi autorizzato a convivere con persone che condividono i tuoi stessi giudizi. [IX,3,8] Invece, vedi quanto è grande adesso il tedio della disarmonia nella convivenza, tanto da far dire: “Possa tu venire in fretta, o morte; che anch’io, per avventura, non dimentichi chi sono”.

[IX,4,1] Chi aberra, aberra contro se stesso. Chi commette un’ingiustizia maltratta se stesso facendosi vizioso.

[IX,5,1] Spesso commette un’ingiustizia non soltanto chi fa qualcosa, ma chi non fa qualcosa.

[IX,6,1] La presente concezione dotata di perfetta certezza, la presente azione socievole, la presente disposizione a compiacersi di tutto ciò che avviene ad opera della causa esterna: basta questo.

[IX,7,1] Cancella la rappresentazione; ferma l’impulso; spegni il desiderio: l’egemonico deve averli in suo esclusivo potere.

[IX,8,1] Un unico animo è stato suddiviso tra tutte le creature irrazionali, un unico animo cognitivo è stato spartito tra tutte le creature razionali. [IX,8,2] Come pure vi è un’unica terra per tutto ciò che è terroso e unica è la luce grazie alla quale vediamo, unica è l’aria che respiriamo, tutti quanti noi esseri animati e dotati di vista.

[IX,9,1] Tutte le cose che partecipano di un elemento comune, s’affrettano ad unirsi all’elemento che è loro omogeneo. [IX,9,2] Tutto ciò che è terroso ha propensione per l’elemento terra; tutto l’umido è confluente; e l’identica cosa vale per ciò che è aeriforme, sicché vi è bisogno di barriere e di violenza per tenerli separati. [IX,9,3] Il fuoco tende verso l’alto per via del fuoco elementare [che contiene], ed ha una tale prontezza ad avvampare con ogni fuoco quaggiù, che qualunque materiale soltanto un po’ secco è facilmente infiammabile, essendogli intimamente mescolato in quantità minore ciò che è di impedimento alla combustione. [IX,9,4] Quindi in identico modo, o anche di più, tutto ciò che partecipa di una natura cognitiva s’affretta ad unirsi a ciò che gli è congenere. [IX,9,5] E quanto più è superiore rispetto ad altri esseri, tanto più è pronto ad immischiarsi e sconfondersi con chi gli è familiare. [IX,9,6] Per gli esseri irrazionali ben presto questa tendenza prese la forma di sciami, mandrie, nidiate e, per dir così, passioni amorose giacché in queste creature vi erano già degli animi; e la spinta all’aggregazione, nel migliore, vi si trovava intensificata e quale non esisteva né nei vegetali, né nelle pietre, né nelle piante. [IX,9,7] Per gli esseri razionali, invece, questa tendenza prese la forma di Stati, amicizie, casate, raduni, patti e tregue di guerra. [IX,9,8] Per gli esseri ancora superiori, questa tendenza sottostette a modo di una certa unione delle parti disparate tra di loro, quale vi è tra gli astri. [IX,9,9] In questo modo, la tendenza ad ascendere verso ciò che è superiore può elaborare una consentaneità anche fra esseri disparati. [IX,9,10] Vedi adesso quel che succede: soltanto gli esseri cognitivi si sono dimenticati della reciproca premura e tendenza all’unione, soltanto qui non si guarda al confluente. [IX,9,11] Eppure anche fuggendo, essi sono circondati e chiusi da ogni lato, perché la natura padroneggia. Lo vedrai se tieni ben presente quel che dico: [IX,9,12] si troverebbe invero più in fretta qualcosa di terroso appiccato a qualcosa di non terroso che un uomo frammentato dall’uomo.

[IX,10,1] Portano frutto e uomo e dio e il cosmo, e ciascuna cosa porta frutto nelle stagioni appropriate. [IX,10,2] Non importa se la consuetudine ha logorato il termine ‘frutto’ riferendolo principalmente alla vite e a cose simili. [IX,10,3] La ragione ha un frutto sia comune che individuale e da essa nascono altri frutti siffatti, qualunque cosa sia in se stessa la ragione. 

[IX,11,1] Se ne sei capace, insegnagli una via migliore; se non ne sei capace, ricorda che per questo ti è stata data la pazienza. [IX,11,2] Anche gli dei sono pazienti con gente siffatta, e sono così probi che cooperano addirittura con essi al raggiungimento di talune cose come la salute, la ricchezza di denaro, la fama. Anche tu hai questa potestà; oppure dimmi chi te lo impedisce.

[IX,12,1] Compi la tua fatica non da meschino, non per essere commiserato o per essere ammirato, bensì disponi questo soltanto: di muoverti e di arrestarti come solleciti la ragion di Stato.

[IX,13,1] Oggi ‘sono uscito’ da ogni circostanza difficile o piuttosto ‘ho espulso’ ogni circostanza difficile. Giacché essa non era fuori di me ma dentro di me, nelle concezioni [della mia proairesi].

[IX,14,1] Tutte consuete nell’esperienza, effimere nel tempo, sozze nel materiale. [IX,14,2] E tutte, ora, tali e quali erano al tempo di coloro che abbiamo sotterrato.

[IX,15,1] I fatti esteriori se ne stanno fuori della porta, chiusi in se stessi, senza nulla sapere né dichiarare di sé. Cos’è, allora, che dichiara qualcosa su di essi? La proairesi. 

[IX,16,1] Il bene e il male dell’uomo, creatura razionale e politica, non stanno nella passività ma nell’attività. Così anche la sua virtù e il suo vizio non stanno nella passività ma nell’attività. 

[IX,17,1] Per la pietra lanciata in aria non v’è alcun male nel ricadere né alcun bene nel portarsi in alto.

[IX,18,1] Traversa dentro i loro egemonici e vedrai chi sono i giudici dei quali hai paura ed anche che razza di giudici essi sono di se stessi.

[IX,19,1] Tutto è in trasformazione. Tu stesso sei in ininterrotto cambiamento e, per certi aspetti, rovina. E anche il cosmo nella sua interezza lo è. 

[IX,20,1] L’aberrazione di un altro va abbandonata là dov’è.

[IX,21,1] L’esaurimento di un’attività, di un impulso, di una concezione è una pausa, come una morte, ma non è un male. [IX,21,2] Passa ora a considerare le varie età della vita: l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza, la vecchiaia. Ogni trasformazione dall’una all’altra è come una morte. Ciò è stato terribile? [IX,21,3] Passa ora a considerare la tua vita sotto la tutela del nonno, poi di tua madre, poi di tuo padre; e trovando molti altri corrompimenti e trasformazioni ed esaurimenti, interpella te stesso: ciò è stato terribile? Pertanto, neppure la terminazione, la pausa, la trasformazione della tua vita intera sarà qualcosa di terribile.

[IX,22,1] Corri al tuo egemonico, a quello del cosmo ed a quello di costui. [IX,22,2] Al tuo, per renderlo incline alla giustizia. A quello del cosmo per rammemorare insieme di chi sei una parte. A quello di costui per soppesare se è ignoranza o intelligenza ed insieme per tener conto del fatto che ti è congenere.

[IX,23,1] Come proprio tu sei completivo del sistema politico, così ogni tua azione sia completiva di una vita politica. [IX,23,2] Se, infatti, la tua azione non ha a riferimento, da presso o da lungi, un fine socievole, dilania quella vita, non le permette di essere unitaria e diventa generatrice di guerra civile; come, tra il popolo, colui che si dispara, per parte sua, da siffatta armonia. 

[IX,24,1] Collere di bambini, scherzi, pneumi che sorreggono cadaveri. Tutto questo avviene così che lo spettacolo dell’evocazione dei Morti ci incolga con maggiore evidenza.

[IX,25,1] Va’ alla qualità di ciò che è causa e, una volta circoscrittolo dal materiale, osservalo bene. Poi delimita anche il tempo massimo che questa certa qualità in particolare può per natura sussistere.

[IX,26,1] Miriadi di volte hai sofferto per non esser stato pago di fare ciò che il tuo egemonico è stato strutturato per fare. Ma basta!

[IX,27,1] Qualora un altro ti denigri o ti odi o si vociferi in siffatti termini contro di te, pervieni alle loro animuzze, traversa dentro e guarda che razza di persone sono. [IX,27,2] Vedrai che non devi ambasciarti perché essi abbiano di te una certa qual opinione. Pertanto, devi provare benevolenza nei loro confronti, in quanto sono tuoi amici per natura. [IX,27,3] Anche a loro gli dei danno ogni genere di aiuti attraverso sogni, attraverso profezie, per l’ottenimento proprio di quelle cose per le quali essi litigano.

[IX,28,1] Questi sono i cicli del cosmo, su e giù, dall’eternità per l’eternità. [IX,28,2] O l’intelletto del cosmo dà un impulso nel caso di ciascun singolo fenomeno e, se è così, accogli ciò che è messo in moto da tale impulso; oppure ha dato un impulso una volta sola e il resto ne è seguito per conseguenza. Perché hai il nervoso? In un certo modo: o atomi o destino. [IX,28,3] E il cosmo: o è dio, e allora tutto sta bene. Oppure è casualità pura, e tu però non operare a casaccio. 
[IX,28,4] Presto della terra ci occulterà tutti, poi anch’essa si trasformerà e anche quello all’infinito si trasformerà e poi di nuovo quell’altro all’infinito. [IX,28,5] Chi pondera su queste ondate successive di trasformazioni e cambiamenti e sulla loro rapidità, non potrà che giudicarsi superiore a qualunque cosa mortale.

[IX,29,1] La causa del cosmo è un fiume in piena che porta via qualunque cosa. [IX,29,2] E come sono da poco questi omiciattoli che si occupano di politica e presumono di praticarla da filosofi, mentre non sono che dei mocciosi. [IX,29,3] Uomo, e allora? Fa’ ciò che la natura delle cose adesso richiede. [IX,29,4] Impelli, se ti è dato; e non guardare attorno cercando che lo si sappia. [IX,29,5] Non sperare la Repubblica di Platone, ma sii pago del più breve avanzamento e pensa, proprio di quest’esito, che esso non è piccola cosa. [IX,29,6] Chi, infatti, trasformerà il giudizio di quei mocciosi? E senza la trasformazione dei giudizi, che altro vi può essere se non servitù di gente che geme e simula di obbedire? [IX,29,7] Orsù, adesso parlami di Alessandro, di Filippo, di Demetrio [Falereo]. Guarderò se han visto cosa dispone la natura delle cose ed educarono se stessi [all’uso della diairesi]. Se, invece, recitavano una parte in tragedia, nessuno mi ha condannato ad imitarli. [IX,29,8] L’opera della filosofia è schietta e rispettosa di sé e degli altri: non menarmi all’alterigia.

[IX,30,1] Accerta dall’alto le miriadi di mandrie, miriadi di cerimonie, ogni genere di navigazioni tra le bufere e in bonaccia, le vicissitudini di quanti nascono, si accoppiano, decedono. [IX,30,2] Pensa anche alla vita vissuta un tempo da altri, a quella che altri vivranno dopo di te e a quella che si vive adesso tra le popolazioni barbare. Pensa a quanti non conoscono neppure il tuo nome, a quanti prestissimo lo dimenticheranno, a quanti adesso forse ti lodano ma presto ti denigreranno. E pensa che né la memoria è rimarchevole, né la fama né, nell’insieme, altro.

[IX,31,1] Dominio sullo sconcerto davanti ai fatti che avvengono per la causa esteriore e giustezza, invece, in quelli agiti dalla causa tua interiore. [IX,31,2] Cioè impulso ed azione esaurentisi nel mero agire socievolmente, in quanto questo è per te in accordo con la natura delle cose.

[IX,32,1] Tu puoi toglierti d’attorno molti crucci superflui che ti disturbano e che giacciono tutti nel tuo modo di concepire, procacciandoti così un ampio spazio [di serenità]. [IX,32,2] Devi abbracciare con l’intelligenza il cosmo nella sua interezza; intendere la sempiternità; pensare alla rapida trasformazione delle parti di ciascuna cosa; che breve è il tempo tra la genesi e la dissoluzione; che prima della genesi vi è un abisso e che anche dopo la dissoluzione vi è egualmente l’infinito.

[IX,33,1] Tutte ciò che vedi molto rapidamente rovinerà, e coloro che lo rimireranno in rovina molto rapidamente rovineranno anch’essi. [IX,33,2] E chi muore nella più tarda vecchiaia sarà ridotto ad ugual condizione di chi è morto prematuramente.

[IX,34,1] Che razza di egemonici sono gli egemonici di costoro; per che genere di cose si sono industriati e che genere di cose amano ed onorano! Giudica pure legittimo guardare le loro animuzze nude. [IX,34,2] Quando reputano di danneggiare denigrando oppure di giovare inneggiando, quanta presunzione!

[IX,35,1] La perdita non è altro che trasformazione. E la natura di questo si rallegra; natura in armonia con la quale tutto avviene, tutto è avvenuto in modo conforme fin dall’eternità e tutto sarà tale e quale, all’infinito. [IX,35,2] E allora? Tu dici che tutto è sempre avvenuto male e sarà male, e che tra tanti dei non s’è mai scovata una facoltà capace di correggere questa situazione, ma che il cosmo è stato condannato ad essere intrappolato in mali incessanti?

[IX,36,1] La putredine del materiale che sta alla base di ciascuno [di noi] è acqua, polvere, ossa, lezzo. A loro volta, i marmi sono concrezioni di terra, oro e argento sono sedimenti, i vestiti sono pelame, la porpora è sangue, e così via tutto il resto. [IX,36,2] Anche lo pneuma è qualcos’altro di siffatto, che passa da questi a quest’altri.

[IX,37,1] Basta di una vita meschina, di brontolare, di scimmiottare! [IX,37,2] Perché ti sconcerti? Cosa c’è di nuovo in questo? Cosa ti fa uscir fuori di te? La causa? Guardala in faccia. Il materiale? Guardalo in faccia, giacché non vi è nulla al di fuori di queste due cose. [IX,37,3] Ma per gli dei, diventa infine più schietto e più probo! 
[IX,37,4] Investigare queste cose per cent’anni o per tre, è uguale.

[IX,38,1] Se [la proairesi] ha aberrato, là sta il male; ma può darsi che non abbia aberrato.

[IX,39,1] O tutto sopravviene da una sola fonte cognitiva come ad un corpo unitario e la parte non deve biasimare ciò che succede a favore dell’organismo nella sua interezza; oppure tutto è atomi e null’altro che guazzabuglio e dispersione. [IX,39,2] Perché dunque ti sconcerti? Dì al tuo egemonico: ‘Sei una cosa morta, rovinata, imbestialita. Tu reciti una parte, stai nel branco e pascoli [con le altre bestie]’. 

[IX,40,1] Gli dei o non possono nulla o possono. [IX,40,2] Se non possono nulla, perché preghi? Se invece possono, perché non auspichi piuttosto che essi ti diano il non avere paura, il non smaniare, il non affliggerti per qualcuna di queste cose [esterne ed aproairetiche], invece di pregare perchè qualcuna di esse sia presente o non sia presente? [IX,40,3] Infatti, se gli dei possono cooperare con gli uomini, possono certamente cooperare anche a questo fine. [IX,40,4] Ma forse tu dirai: ‘Gli dei hanno posto queste cose [interiori e proairetiche] in mio esclusivo potere’. [IX,40,5] E allora non è meglio utilizzare ciò che è in tuo esclusivo potere con libertà invece di litigare, con miserabile servitù, per ciò che non è tuo esclusivo potere? Chi ti ha detto che gli dei non ci soccorrono anche riguardo a ciò che è in nostro esclusivo potere? [IX,40,6] Comincia, dunque, ad auspicare questo e vedrai. [IX,40,7] Costui prega così: ‘Oh, potessi andare a letto con quella ragazza!’. Tu invece auspica così: ‘Possa io non smaniare di andare a letto con quella ragazza!’. [IX,40,8] Un altro prega: ‘Oh, potessi disfarmi di quel tale!’. Tu: ‘Possa io non avere bisogno di disfarmi di nessuno!’. [IX,40,9] Un altro ancora: ‘Oh, potessi non perdere il figliolo!’. Tu: ‘Possa io non avere paura di perderlo!’. [IX,40,10] Insomma, converti così i tuoi auspici e contempla cosa succede.

[IX,41,1] Epicuro dice: ‘Nella malattia, le mie conversazioni non riguardavano i patimenti del corpo e neppure -dice- chiacchieravo di questo con chi mi si presentava dinnanzi; ma continuavo a discutere scientificamente dei principi cardinali della natura e, in particolare, di come l’intelletto, pur compartecipando dei moti tanto forti della carne, mantenga il dominio sullo sconcerto e serbi intatto il proprio bene. Neppure davo ai medici la possibilità -dice- di sbuffare di fierezza come se stessero facendo chissà che, ma continuavo a condurre bene e virtuosamente la mia vita’. [IX,41,2] Tu fa’ come lui, nella malattia e in altre circostanze difficili; giacché non distornarsi dalla filosofia qualunque cosa ci incolga e non unirsi alle sciocchezze di cui parla la persona comune e priva di conoscenze scientifiche è comune precetto di ogni scuola di pensiero. [IX,41,3] Fa inoltre attenzione soltanto a quello che stai facendo ora e allo strumento grazie al quale lo fai.

[IX,42,1] Quando ti offendi per la sfacciataggine di qualcuno, chiediti subito: ‘Nel cosmo possono non esserci degli sfacciati?’ Non possono. [IX,42,2] Dunque non richiedere l’impossibile, giacché anche costui è uno di quegli sfacciati che sono necessari nel cosmo. [IX,42,3] Abbi a portata di mano lo stesso giudizio anche nel caso di un furbastro, di una persona sleale, di chiunque si macchi di qualunque altro tipo di aberrazione. [IX,42,4] Rammentandoti, infatti, che è impossibile che un siffatto genere di persone non esista, sarai più paziente verso ciascuno di essi singolarmente. [IX,42,5] È poi profittevole pensare subito a quale specifica virtù la natura abbia dato all’uomo per contrastare questa aberrazione. Giacché come antidoto verso chi è scostumato la natura ci ha dato la mitezza, e verso qualcun altro qualche altra facoltà. [IX,42,6] Insomma, hai la potestà di insegnare una via migliore a chi è andato errando. Chiunque aberra, infatti, aberra dal suo obiettivo e perciò è andato errando. [IX,42,7] E tu ne sei stato forse danneggiato? Troverai, infatti, che nessuno di costoro contro i quali ti esacerbi ha fatto qualcosa di tale per cui il tuo intelletto ne starebbe per diventare peggiore; mentre il tuo male e il tuo danno hanno qui [nel tuo egemonico] tutta la loro base. [IX,42,8] Che c’è di male o di strano se chi non è educato all’uso della diairesi fa ciò che è proprio di chi non è educato in materia? Guarda se tu non debba piuttosto incolpare te stesso, per non avere supposto che costui avrebbe aberrato. [IX,42,9] La ragione ti aveva infatti dato le risorse per ponderare che probabilmente costui avrebbe commesso questa aberrazione e nonostante ciò tu l’hai dimenticato e adesso ti stupisci se ha aberrato. [IX,42,10] E soprattutto quando biasimi qualcuno per la sua slealtà o per la sua ingratitudine, impensierisciti di te stesso. [IX,42,11] Manifestamente, infatti, l’aberrazione è tua, sia perché ti fidavi che costui avesse disposizione a custodire lealtà verso di te; sia perché, facendogli un favore, non lo hai fatto con la perfetta certezza del risultato né assaporando tutto il frutto della tua azione nel semplice averla compiuta. [IX,42,12] Cosa vuoi di più, infatti, del fare bene riguardo ad un uomo? Non ti basta d’aver fatto qualcosa che è in armonia con la tua natura e invece vai in cerca del soldo per questo? È come se l’occhio richiedesse un contraccambio perché vede o i piedi perché camminano. [IX,42,13] Come infatti queste parti del nostro corpo sono nate per qualcosa facendo il quale esse eseguono quanto è in armonia con la loro struttura ed incorporano in se stesse il loro proprio fine; così anche l’uomo, che è nato per fare bene, ogni volta che fa qualcosa di benefico ha fatto ciò per cui è stato strutturato ed ha ciò che è suo.

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LIBRO X

[X,1,1] Animo mio, sarai mai una volta buono, schietto, uno e nudo, più appariscente del corpo che ti porti addosso? Gusterai mai la disposizione amorevole e affezionata? [X,1,2] Sarai mai una volta compiuto, libero dal bisogno, dalla folle brama di qualcosa, dalla smania per ciò che, animato o inanimato, ha di mira i godimenti di ebbrezze, o per il tempo nel quale ti sarà dato di godere più a lungo, o per l’opportunità di godere di un luogo, di un paese, di certe arie, o dell’adattabilità umana? [X,1,3] Sarai pago del tuo stato presente e gioirai di quanto hai? Ti convincerai che quanto hai ti viene dagli immortali e che per te sta bene e starà bene tutto ciò che ad essi è caro e che essi intendono dare per la salvezza della creatura completa, buona, giusta, bella, che genera, dà continuità, circonda e abbraccia tutte le entità che si dissolvono per la genesi di altre simili a loro? [X,1,4] Sarai mai una volta tale da essere concittadino di dei e di uomini, tale da non biasimarli per qualcosa né essere da loro accusato? 

[X,2,1] Disamina cosa esige la tua natura in quanto essere governato dalla sola natura fisica. E poi, se la tua natura di creatura animale non ne scapita, fallo e approvalo. [X,2,2] In seguito devi disaminare cosa esige la tua natura in quanto creatura animale e, se non ne scapita la tua natura in quanto animale dotato di ragione, assumerlo completamente. [X,2,3] Ma l’animale dotato di ragione è subito anche un animale politico. Utilizzando questi canoni, non intrigare oltre.

[X,3,1] Quanto avviene, o avviene così come tu sei nato per portare con pazienza oppure come non sei nato per portare con pazienza. [X,3,2] Se ti avviene come tu sei nato per portare con pazienza, non essere malcontento ma portalo con pazienza come sei nato per fare. Se invece avviene come non sei nato per portare con pazienza, non essere malcontento giacché il malcontento ti avrà già distrutto prima. [X,3,3] Ricorda poi che sei nato per portare con pazienza tutto ciò di cui ti è possibile concepire la sopportabilità e la tollerabilità, grazie alla rappresentazione della sua utilità o della doverosità per te di fare questa certa cosa. 

[X,4,1] Se uno inciampa, avere la pazienza di ammaestrarlo e di mostrargli quel che ha travisato. [X,4,2] Se ne sei incapace, accagionare te stesso, oppure neanche te stesso. 

[X,5,1] Qualunque cosa ti succeda è stata prestabilita per te fin dall’eternità, e l’intreccio delle cause ha intessuto da sempre la tua base sostanziale e questa evenienza.

[X,6,1] Sia che si tratti di atomi, sia che si tratti di natura, resti in primo luogo stabilito questo: io sono una parte dell’insieme governato dalla natura. In secondo luogo: io ho una qualche intima connessione con le parti che mi sono omogenee. [X,6,2] Ricordati questi principi, io, secondoché sono una parte, non mi dispiacerò di nessuna delle cose assegnatemi dall’insieme, giacché nulla di ciò che è utile all’insieme è dannoso per una sua parte. L’insieme, infatti, non ha parti che non gli siano utili. [X,6,3] Avendo tutte le nature in comune questa caratteristica ed avendo in più la natura del cosmo quella di non poter essere costretta da una causa a lei esterna a generare qualcosa di dannoso per se stessa, ricordando che io sono una parte di un insieme siffatto, mi compiacerò di qualunque occorrenza. [X,6,4] Inquantoché, poi, io ho una qualche intima connessione con le parti che mi sono omogenee, non farò nulla di antisociale, ma piuttosto avrò di mira le parti che mi sono omogenee e condurrò ogni mio impulso verso l’utile comune, disviandomi dal contrario. [X,6,5] Realizzandosi le cose in questo modo, la mia vita sarà di necessità serena; come potresti pensare serena quella di un cittadino la cui vita procede attraverso azioni vantaggiose per i cittadini, e che accetta di buon grado ciò che la città gli assegna. 

[X,7,1] Per le parti del tutto -quante, dico, sono incluse nel cosmo- è una necessità l’andare in rovina; e questo sia detto nel significato di ‘diventare altro’. [X,7,2] Se però, dico, questo è per esse, in quanto parti che vanno a diventare altro e che sono state strutturate per rovinare, un male ed insieme una necessità, allora il tutto non se la tragitterebbe bene. [X,7,3] La natura stessa mise mano a maltrattare le sue proprie parti, a farle tali che incappassero nel male e che fossero di necessità proclivi a fare il male? Oppure alla natura è sfuggito che avvenivano tali cose? Ambedue le ipotesi sono assurde. [X,7,4] Se qualcuno, tralasciata la natura, spiegasse che queste parti sono nate proprio per diventare altro, sarebbe però ridicolo sentirlo poi affermare che le parti del tutto sono nate per trasformarsi e contemporaneamente stupirsene come di qualcosa che avviene contro natura o altrimenti essere malcontento per la dissoluzione che c’è negli elementi di cui ciascuna di esse consta. [X,7,5] Infatti, o vi è dispersione degli elementi di cui la parte era composta oppure vi è rivolgimento di ciò che è solido verso l’elemento terroso e di ciò che è pneuma verso l’elemento aeriforme, così da essere riassunti nella ragione del tutto o attraverso una periodica conflagrazione cosmica o per rinnovamento attraverso un perpetuo ricambio. [X,7,6] Non immaginare il solido e lo pneuma come quelli del momento della genesi della parte. [X,7,7] Tutto ciò è stato preso ieri o ieri l’altro attraverso le vivande e l’aria aspirata. [X,7,8] Si trasforma dunque questo che è stato preso da poco, non quello che la madre procreò. [X,7,9] Presupponi pure che quello ti intrecci d’assai alla tua qualità personale di uomo: essa, presumo, non ha rilievo alcuno in rapporto a quanto ora detto.

[X,8,1] Dopo esserti posto questi nomi appellativi: buono, rispettoso di sé e degli altri, verace, assennato, docile, austero; fa attenzione a non mutarli in altri ed a non mandarli in malora. In questo caso, fa di ritornare rapidamente ad essi. [X,8,2] Ricorda anche che ‘assennato’ voleva significare per te l’accurata riflessione su ogni cosa e il rifiuto della sciatteria; ‘docile’ il deliberato accoglimento di quanto ci è assegnato dalla comune natura; ‘austero’ l’elevazione della tua parte costitutiva pensante al di sopra dei moti dolci e piacevoli o aspri e dolorosi della carne, al di sopra della fama, della morte e di ogni altra cosa siffatta. [X,8,3] Se serberai a dovere te stesso all’altezza di questi nomi appellativi e non agognerai soltanto ad essere denominato così dagli altri, sarai un uomo diverso ed entrerai in una vita diversa. [X,8,4] Giacché rimanere quello che sei stato finora e continuare a straziarti e insudiciarti in una vita siffatta è d’assai da individuo incosciente e pusillanime, simile a quei bestiarii mezzo divorati dalle belve i quali, pieni di ferite e di sangue coagulato, implorano nondimeno di essere conservati in vita per la caccia dell’indomani, al fine di essere offerti in quello stato agli stessi artigli e agli stessi morsi ferini. [X,8,5] Sali dunque a bordo di questi pochi nomi appellativi e se sarai capace di restarvi, restaci come se stessi emigrando verso certe Isole dei Beati. Se invece ti accorgerai che ne stai fuoriuscendo o che non ne hai il controllo, vattene con confidenza in qualche angolo dove tu possa padroneggiarli oppure esci totalmente dalla vita senza adirarti ma schiettamente, liberamente, rispettosamente, pur se la sola cosa che hai fatto in vita tua è di uscirne così. [X,8,6] Al fine di ricordare questi nomi appellativi ti soccorrerà poi grandemente il ricordarti degli immortali e del fatto che essi dispongono non di essere adulati, ma che tutte le creature razionali rassomiglino ad essi e così che il fico svolga i compiti del fico, il cane quelli del cane, l’ape quelli dell’ape e l’uomo quelli dell’uomo.

[X,9,1] Pestilenza, guerra, terrore, torpore, servitù, giorno per giorno scancelleranno tutti quei tuoi sacri giudizi che ti rappresenti senza discuterli scientificamente e poi metti da parte. [X,9,2] Eppure bisogna guardare e fare tutto così da portare a compimento, nello stesso momento in cui si esegue la teoria, ciò che la contingenza richiede e salvaguardare, latente ma non nascosto, ciò che in te trae vanto dalla scienza che ha di ciascuna cosa. [X,9,3] Quando, infatti, trarrai godimento dalla schiettezza? Quando dalla solennità? Quando dalla conoscenza di ciascuna cosa: cos’è nella sua sostanza e quale rango ha nel cosmo, per sussistere quanto tempo è nata, di quali elementi è composta, a chi può appartenere, chi può darla e può sottrarla?

[X,10,1] Un ragnetto, quando abbia preso una mosca, ha un gran concetto di sé. Un altro ce l’ha quando cattura un leprotto; un altro quando ha pescato un’acciuga con la rete; un altro quando ha acchiappato dei maialini da latte; un altro quando ha cacciato degli orsi; un altro quando ha fatto prigionieri dei Sarmati. [X,10,2] Se indaghi i loro giudizi, costoro non sono dei rapinatori?

[X,11,1] Devi acquisire un metodo che ti permetta la chiara conoscenza di come tutte le cose si trasformino una nell’altra, e fa attenzione ad allenarti senza interruzione in questa branca di studi, giacché nulla è tanto produttivo di giudizi disinteressati. [X,11,2] Chi fa questo si è spogliato del corpo e, pensando che ben presto dovrà abbandonare tutto e andarsene dagli uomini, rimette se stesso intero alla giustizia per le attività che sono in suo esclusivo potere, ed alla natura per quelle che avvengono diversamente. [X,11,3] A cosa uno dirà, concepirà di lui o farà contro di lui, egli non pone affatto mente, pago di queste due certezze: operare il giusto nelle azioni presenti e amare ciò che ora gli è assegnato [dalla sorte] tralasciando ogni altro impegno e industria. [X,11,4] E non decide altro che di procedere per la diritta via attraverso la legge e di seguire il dio che procede per la diritta via. 

[X,12,1] Che bisogno c’è di sottintesi quando è possibile considerare cosa bisogna fare e, se lo scorgi, dipende soltanto da te il procedervi senza voltarti indietro? Se non lo scorgi, il sospendere il giudizio e servirti dei consiglieri migliori in assoluto? Se altre circostanze andranno contro queste decisioni, il procedere secondo le risorse a disposizione attenendoti, al modo di chi ha fatto i suoi conti, a ciò che appare giusto? Ecco, centrare in pieno questo obiettivo è la miglior cosa, poiché fallimento è proprio il mancarlo. [X,12,2] Chi segue la ragione in tutto è un essere quieto e insieme agile, raggiante e insieme compatto.

[X,13,1] Non appena esci dal sonno devi chiederti subito: ‘Per te, farà qualche differenza se un altro denigrerà ciò che è giusto e perbene?’. Non farà alcuna differenza. [X,13,2] Hai dimenticato chi sono a letto, a tavola, costoro che fanno tanto gli alteri nel lodare e nel denigrare gli altri; e cosa fanno, cosa fuggono, cosa inseguono, cosa rubano, cosa ghermiscono, non con le mani e con i piedi ma con la loro parte più onorevole, quella capace di diventare, quando così lo disponga, lealtà, rispetto di sé e degli altri, verità, legge, demone buono?

[X,14,1] Alla natura che tutto dà e tutto riprende, chi è stato educato all’uso della diairesi, l’uomo rispettoso di sé e degli altri dice: “Dà quel che disponi; riprenditi quel che disponi”. [X,14,2] E glielo dice senza animosità ma solo in obbedienza e benevolenza a lei.

[X,15,1] Il tempo che sopravanza è poco. [X,15,2] Vivilo come in marcia. Non fa differenza alcuna vivere qua o là, se uno vive dovunque nel cosmo come in un’unica città. [X,15,3] Che gli uomini vedano, che investighino su un uomo vero che vive in armonia con la natura delle cose. [X,15,4] Se non portano pazienza, che lo uccidano. Giacché è meglio morire che vivere così come vivono loro.

[X,16,1] Non devi assolutamente più dialogare su quale uomo sia il virtuoso, ma esserlo.

[X,17,1] Devi avere continuamente presente la rappresentazione dell’eternità del tempo e dell’insieme della sostanza del cosmo; e il giudizio che ogni singola parte è, rispetto alla sostanza, un semino di fico; e, rispetto al tempo, un giro di trapano.

[X,18,1] Soppesando ciascun oggetto materiale, bisogna pensarlo già dissolto e in trasformazione, e quale diventa per marcimento o dispersione ovvero pensare che ogni oggetto è nato come per morire.

[X,19,1] Guardali mangiare, dormire, montare la femmina, evacuare, eccetera. [X,19,2] Poi guardali darsi arie da pastori di uomini, pavoneggiarsi, esasperarsi e censurare gli altri dall’alto della loro eccellenza. [X,19,3] Poco fa, di quanti e di quante cose erano servi e per quali motivi! E tra poco saranno di nuovo alle prese con faccende siffatte.

[X,20,1] Utile a ciascuno è ciò che la natura a ciascuno apporta. E allora è utile, quando essa lo apporta.

[X,21,1] ‘La terra fa l’amore con gli acquazzoni, fa l’amore l’etere solenne’; e il cosmo desidera fare l’amore con qualunque cosa debba succedere. Io dico dunque al cosmo: ‘Faccio l’amore insieme con te’. [X,21,2] Non si dice anche: ‘questo ama succedere’?

[X,22,1] O vivi qui e ormai ci sei abituato; o te ne vai fuori e questo era quello che volevi; o muori e hai lasciato così il tuo ufficio. Questo è tutto. Dunque sta di buon umore!

[X,23,1] Ti sia sempre evidente che la campagna è un posto qualunque e che tutti i posti sono gli stessi: quaggiù, in vetta ad un monte o su una spiaggia o dove vorrai andare. [X,23,2] Infatti ti troverai dirimpetto le parole di Platone: “Chiuso” dice “in un recinto su un monte” e “mungere pecore belanti”.

[X,24,1] Cos’è per me il mio egemonico, in quale modo lo atteggio adesso, per cosa mai lo sto usando adesso? È vuoto di mente, indipendente e spiccato dalla socialità, fuso e mischiato alla carne così da voltolarsi con questa?

[X,25,1] Lo schiavo che fugge dal suo padrone è uno schiavo fuggiasco. La legge è il nostro padrone e chi la trasgredisce è uno schiavo fuggiasco. [X,25,2] Ma anche chi si affligge, si adira, ha paura, lo fa perché vuole che non sia avvenuto, che non avvenga o che debba in futuro non avvenire qualcosa che è stato ordinato dalla natura che tutto governa, la quale è legge che dispensa a ciascuno quanto gli spetta. [X,25,3] Dunque chi ha paura, è afflitto o si adira è uno schiavo fuggiasco.

[X,26,1] Dopo avere rilasciato lo sperma nell’utero, [il maschio] si tira indietro e da quel momento in poi un’altra causa lo assume, lo elabora e ne fa finalmente risultare il neonato. Da quale principio a quale fine! [X,26,2] Di nuovo: [il neonato] rilascia il cibo attraverso la gola e da quel momento in poi un’altra causa assume il cibo e lo fa diventare sensazione, impulso, l’intera vita animale, la vigoria e quante e quali altre cose! [X,26,3] Bisogna dunque conoscere i principi generali di fenomeni come questi che avvengono sotto tali velami e vedervi, non con gli occhi ma con non minore evidenza, la forza che li causa, così come vediamo quella che fa piegare in basso e quella che fa tendere verso l’alto.

[X,27,1] Devi continuamente pensare che tutto ciò che succede adesso è già successo anche prima, e pensare che succederà. [X,27,2] Poniti davanti agli occhi tutti i drammi e le scene conformi che conosci per esperienza personale e dalla storia più remota. Per esempio, tutta la corte di Adriano, tutta la corte di Antonino, tutta la corte di Filippo, di Alessandro, di Creso. Tali erano tutti quei drammi, soltanto con attori diversi.

[X,28,1] Rappresentati sempre chi si affligge o si dispiace per una cosa qualunque, come simile al porcellino che viene sacrificato e che scalcia e strilla. [X,28,2] Simile a costui è anche chi, tutto solo nel suo lettuccio, mugugna in silenzio sulle nostre catene. Soltanto alle creature razionali è dato di seguire deliberatamente gli eventi, mentre il mero seguirli è necessario per tutti.

[X,29,1] Una per una, soppesa ciascuna delle cose che fai e interpellati: “E’ la morte terribile perché di questa mi priva”. 

[X,30,1] Qualora tu ti offenda per l’aberrazione di qualcuno, passa subito a far calcolo di tue aberrazioni molto simili, per esempio quando giudichi che sono un bene l’ebbrezza, la fama e cose di tal sorta. [X,30,2] Spostando su questo la tua attenzione, dimenticherai in fretta l’ira, aggiungendovi a commento che egli è forzato ad agire così. Cosa puoi fare tu? [X,30,3] Se ne sei capace, eliminagli ciò che lo forza.

[X,31,1] Quando vedi Satirione, immagina di vedere Socratico o Eutiche o Imeno. E quando vedi Eufrate, immagina di vedere Eutichione o Silvano. Quando vedi Alcifrone, immagina di vedere Tropeoforo. Quando vedi Senofonte, immagina di vedere Critone o Severo. Quando ti riguardi allo specchio, immagina di vedere uno dei Cesari e fa analoga operazione su ogni persona. [X,31,2] Dopo di che aggiungigli a commento: “Dunque dove sono costoro?” Da nessuna parte o da qualche parte. [X,31,3] Giacché in questo modo potrai osservare continuamente come le vicende umane siano fumo e nullità, soprattutto se insieme rammemorerai che qualunque cosa, una volta sola trasformatasi, non sarà mai più quella di prima nel tempo infinito. [X,31,4] Perché, dunque, hai il nervoso? Perché non ti basta oltrepassare compostamente questo breve confine? [X,31,5] Quale materiale e quale ipotesi stai fuggendo? Cos’altro sono i materiali della vita e il tuo ruolo in essa se non esercizi da palestra per una ragione che ha visto con precisione e da studiosa della natura cosa avviene nella vita? [X,31,6] Rimani, dunque, fino a che avrai assimilato anche questo; come lo stomaco gagliardo che assimila tutto; come il fuoco vivido che fa di qualunque cosa gli getti dentro, vampa e fulgore.

[X,32,1] Nessuno abbia la potestà di dire con verità nei tuoi riguardi che non sei un uomo schietto o che non sei virtuoso; e mentisca chiunque concepisce uno di questi giudizi su di te. [X,32,2] Tutto ciò è in tuo esclusivo potere. Chi, infatti, potrà impedirti di essere virtuoso e schietto? E determina di non vivere neppure più se tale non sarai. Giacché neppure la ragione sceglierà che tu viva, se tale non sei.

[X,33,1] Su questo materiale, cos’è che può essere fatto o detto nel modo più valido possibile? Qualunque cosa questo sia, si ha la potestà di farlo o dirlo; e non accampare il pretesto che puoi esserne impedito. [X,33,2] Non cesserai mai di gemere se in precedenza non avrai sperimentato di persona che per te il fare, sul materiale che ti è sottoposto e che ti accade di avere per le mani, ciò che è proprio della struttura dell’uomo equivale a ciò che la mollezza è per le persone sensuali. Giacché ogni creatura che ha la potestà di eseguire qualcosa in armonia con la propria natura deve concepirne un godimento. E tu ne hai la potestà dovunque. [X,33,3] Al cilindro, infatti, non è dato dovunque di portarsi secondo il peculiare movimento che inerisce alla sua forma, né all’acqua, né al fuoco, né a tutte le altre entità che sono governate dalla natura o da un animo irrazionale, poiché molte sono le barriere e le cose che oppongono resistenza. [X,33,4] La mente e la ragione, invece, possono incamminarsi attraverso qualunque obiezione, come sono nati per fare e quando lo dispongono. [X,33,5] Quando tu ti sia posto davanti agli occhi questo toccasana, grazie al quale la ragione sarà portata attraverso tutto così come il fuoco va in su, una pietra in giù e un cilindro in declivio, non esigere più altro; [X,33,6] giacché i restanti intoppi o sono tali per il nostro corpo inteso come cadavere oppure non fracassano né producono il benché minimo male senza una [previa] concezione da parte della ragione e senza il suo consenso, giacché altrimenti anche chi li subisce diventerebbe subito un vizioso. [X,33,7] Nel caso di tutte le altre entità strutturate, qualunque sia il male che loro avviene, è ciò che lo subisce a diventare peggiore; mentre invece qui, nel caso della ragione, se così si può dire, l’uomo diventa migliore e più lodevole poiché ha utilizzato rettamente le difficili circostanze dalle quali è stato incolto. [X,33,8] Insomma, ricorda che ciò che non danneggia la città neppure danneggia chi per natura è suo cittadino; e che ciò che non danneggia la legge neppure danneggia la città. Ora, di queste cosiddette disgrazie nessuna danneggia la legge. Pertanto ciò che non danneggia la legge non danneggia né la città né il cittadino.

[X,34,1] A colui che è stato morso dai giudizi veri, basta anche l’accenno più breve e a portata di tutti per rammentarsi del dominio sull’afflizione e sulla paura. [X,34,2] Ad esempio:
‘e il vento a terra le foglie riversa,
come stirpi di uomini’

[X,34,3] Foglioline sono anche i tuoi figlioli; foglioline è questa calca che ti acclama in buona fede e ti glorifica oppure, al contrario, ti maledice o, sotto sotto, ti denigra e ti schernisce. Foglioline sono similmente i successori che tramanderanno la fama postuma. [X,34,4] Tutte queste sono creature che:
‘si susseguono a primavera’

ma che poi il vento ha abbattuto. E successivamente la materia immortale ne fa germinare altre al loro posto. [X,34,5] Comune a tutte le cose è la breve durata mentre tu, invece, le insegui e le fuggi come se fossero eterne. [X,34,6] Tra breve chiuderai gli occhi, ed ecco che un altro innalzerà il lamento funebre per il tuo seppellitore.

[X,35,1] L’occhio sano deve vedere tutto il visibile e non dire: “Voglio le cose gialloverdi”; giacché questo lo dice un malato d’occhi. [X,35,2] L’udito e l’odorato sani devono essere pronti per tutti i suoni e tutti gli odori; [X,35,3] lo stomaco sano per tutte le cibarie similmente, come una macina è pronta a macinare tutto ciò che è stata fabbricata per macinare. [X,35,4] Pertanto la proairesi sana deve essere pronta per tutto quanto avviene. Quella invece che dice: “Si salvino i miei figlioli!” e “Tutti mi lodino qualunque cosa io faccia!”, è un occhio che va in cerca del gialloverde o denti che vanno in cerca di cibi delicati.

[X,36,1] Nessuno ha così buona ventura che non stiano accanto al suo letto di morte alcuni i quali saluteranno con intima soddisfazione l’evento ferale. [X,36,2] Un uomo era virtuoso e saggio. Eppure ci sarà qualcuno che alla fin fine dirà tra sé e sé: ‘Finalmente respireremo da questo pedagogo! Con nessuno di noi era acre; ma mi accorgevo che, sotto sotto, ci accusava di tutto’. [X,36,3] Questo per l’uomo virtuoso. A nostro riguardo, quanti altri sono i motivi che ha chi molto desidera liberarsi di noi! [X,36,4] Ti farai dunque questo concetto morendo, ed uscirai di vita più agevolmente facendo conto che: ‘Me ne vado via da una vita dalla quale persino i miei compagni, per i quali ho tanto lottato, auspicato e mi sono preoccupato, vogliono che io vada fuori e sperano da ciò per loro, se capita, qualche altro toccasana’. [X,36,5] Perché dunque ci si dovrebbe attenere ad indugiare più a lungo in questa vita? [X,36,6] Nonostante questo, non andartene meno paziente verso di loro e preserva la tua abitudine di essere amico benevolo e benigno. E ancora: non andartene come se fossi spiccato ma, come quando un uomo muore bene la sua animuzza sguscia via agevolmente dal corpo, così dev’essere anche il tuo distacco da loro, giacché la natura ti ha rannodato e composto a costoro. [X,36,7] Ma ora te ne dissolve. Me ne dissolvo come da familiari, non tirandomi in direzione contraria ma senza sforzo. Giacché anche questa è una cosa secondo natura. 

[X,37,1] Davanti a qualunque azione altrui, per quanto ne sei capace abituati ad esigere tra te e te una risposta alla domanda: ‘Costui a cosa riferisce quel che fa?’. [X,37,2] Comincia però da te ed indaga per primo te stesso.

[X,38,1] Ricorda che chi tira le fila è quel qualcosa che si rimpiatta in noi: quella è l’autorità, la vita e, per dir così, l’uomo. [X,38,2] Non stare mai ad immaginarlo insieme al recipiente che si porta addosso e agli organi che ha spalmati intorno. [X,38,3] Questi sono simili all’ascia, e ne differiscono soltanto secondoché gli sono naturalmente appartenenti. [X,38,4] Poiché nessuna di queste parti costitutive, senza la causa che la muove e la arresta vale più della spola per la tessitrice, della penna per chi scrive e della frusta per l’auriga.

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LIBRO XI

[XI,1,1] Le peculiarità dell’animo razionale: vede se stesso, articola se stesso, rende se stesso quale decide di essere, fruisce lui stesso del frutto che apporta -mentre sono altri a fruire dei frutti dei vegetali e dell’analogo dei frutti nel caso degli animali-, centra il proprio fine ovunque sia stabilito il terminale della vita. [XI,1,2] Nella danza, nella recitazione e nel corso di siffatti spettacoli, l’intera azione riesce imperfetta se vi è un intoppo. Invece l’animo razionale, in qualunque parte e in qualunque momento sia sorpreso, fa risultare compiuto e non bisognevole di ritocchi ciò che si era proposto, tanto da poter dire: ‘Io incorporo in me stesso tutto ciò che è mio!’. [XI,1,3] Inoltre spazia per il cosmo nella sua interezza e il vuoto che lo circonda, ne percepisce la foggia, si distende nell’infinità del tempo, abbraccia nel suo complesso ed intende la periodica palingenesi del tutto, conosce con chiarezza che niente di nuovo vedranno i nostri discendenti e che i nostri antenati non hanno visto nulla di più; sicché, in un certo modo, il quarantenne che abbia un po’ di senno può essere certo di avere già visto il passato e il futuro, data la loro conformità. [XI,1,4] Altre peculiarità dell’animo razionale sono l’amore per chi gli sta intorno, la verità, il rispetto di sé e degli altri, il non preferire null’altro a se stesso: caratteristica, questa, che è propria anche della legge. [XI,1,5] Così in nulla differiscono retta ragione e ragione di giustizia.

[XI,2,1] Ti giudicherai superiore ad un canto dilettoso, una danza, un incontro di pancrazio se ripartirai la voce armoniosa in ciascuna delle sue note e per ciascuna di esse ti chiederai se tu sia da meno di lei. Lo scarterai, e farai analoga operazione per ciascun movimento o posizione di riposo della danza; e lo stesso per il pancrazio. [XI,2,2] Esclusa dunque interamente la virtù e quanto partecipa della virtù, ricorda allora di correre subito all’esame delle singole parti di qualcosa e di andare a giudicarlo inferiore a te attraverso la loro diairesi. Trasponi anche lo stesso procedimento alle vicende della vita intera.

[XI,3,1] Quando ormai debba congedarsi dal corpo ed essere spento o disperso o restargli unito, di cos’è capace l’animo dell’uomo pronto a questo passo! [XI,3,2] Ma questa prontezza, per pervenire da una risoluzione propriamente personale non deve essere frutto di mero schieramento [come fanno i Cristiani], bensì la scelta di chi ha fatto i suoi conti, solenne e, per essere capace di persuadere anche altri, immune da pose eroiche.

[XI,4,1] Ho fatto qualcosa in modo socievole, dunque ho giovato a me stesso. Fa di avere sempre a portata di mano questo giudizio, e non cessare mai.

[XI,5,1] Qual è la tua arte? “Quella di essere virtuoso”. E come altrimenti può succedere ciò se non grazie alla conoscenza dei principi generali circa la natura del cosmo e la struttura propria dell’uomo?

[XI,6,1] Dapprima furono messe in scena le tragedie, per rievocare le vicende che avvengono e il fatto che esse succedono così per natura; e affinché non vi adontiate quando accadono sulla scena maggiore della vita quelle che sono accattivanti a teatro. [XI,6,2] Vedete, infatti, che esse così devono realizzarsi e che portano pazienza anche coloro che strillano ‘Ahimé, Citerone!’. [XI,6,3] I drammaturghi dicono comunque anche delle cose proficue come, per esempio, soprattutto questa: 
‘Se gli dei han negletto pure i miei due fanciulli, una ragione v’è anche per questo’;
e ancora: 
‘Giacché è insensato provare rancore contro i fatti’;
e poi: 
‘Mietere la vita come una spiga fruttuosa’;
e quante sono siffatte. [XI,6,4] Dopo la Tragedia fu messa in scena la Commedia Antica, che aveva una pedagogica libertà di parola e che, grazie alla propria franchezza, ci rammentava non improficuamente la modestia; fine per il quale anche Diogene assunse il medesimo ruolo. [XI,6,5] Dopo la Commedia Antica, la Commedia di Mezzo e infine la Commedia Nuova, la quale a poco a poco dall’imitazione della natura sfociò in virtuosistico amore dell’artificio, per cosa mai sono state messe in scena? [XI,6,6] Non si può ignorare che alcune cose proficue vengono dette anche da questi commediografi, ma il progetto nel suo insieme di siffatta poesia drammaturgica, a quale scopo mai volgeva lo sguardo?

[XI,7,1] Come riesce evidente che non vi è altra ipotesi di vita così idonea alla pratica della filosofia, quanto questa nella quale ora ti capita di essere!

[XI,8,1] Un ramo reciso dal ramo contiguo non può non essere stato reciso anche dal vegetale nella sua interezza. [XI,8,2] Allo stesso modo anche l’uomo, una volta frammentatosi dall’essere un uomo si è segregato dall’intera società. [XI,8,3] Dunque, a recidere il ramo è un altro; l’uomo, invece, è lui stesso a spazieggiarsi da chi gli sta intorno quando lo odia e se ne distoglie; ignorando però che così si è contemporaneamente mozzato via dall’intera comunità civile. [XI,8,4] Eccezion fatta proprio per quel dono di Zeus istitutore della società: giacché noi abbiamo la potestà di connaturarci di nuovo con chi ci è contiguo e di ridiventare completivi dell’intero. [XI,8,5] Se tuttavia ciò che consegue a siffatta diairesi avviene troppe volte, ciò rende la parte distaccata difficile da riunire e reintegrare. [XI,8,6] Insomma, il ramo che fin dal principio è germogliato ed è restato cospirante con la pianta non è identico a quello che è stato daccapo reinnestato dopo esserne stato reciso, come dicono pressappoco i giardinieri. [XI,8,7] ‘Essere dell’identico tronco, ma non d’identici giudizi’.

XI,9,1] Coloro che oppongono resistenza al tuo procedere secondo retta ragione, come non potranno distoglierti dal sano operare, così possano non stornarti dalla tua pazienza verso di essi. Sta in guardia in ambedue le direzioni similmente: non soltanto circa la stabilità della tua risoluzione ad agire, ma anche circa la tua mitezza nei confronti di coloro che mettono mano ad impedirlo. [XI,9,2] L’esasperarsi con loro, infatti, è segno di debolezza, come lo sarebbe il distornarsi dall’azione e l’arrendersi atterrito. Giacché sono ambedue parimente disertori sia colui che tremola di paura, sia colui che si è alienato da chi gli è per natura congenere e amico.

[XI,10,1] Non esiste nessun prodotto della natura che sia peggiore di un’opera d’arte, e infatti le arti imitano la natura. [XI,10,2] Se è così, la natura in generale, che è perfettissima e inclusiva di tutte le nature particolari, non potrebbe certo rimanere indietro rispetto all’abilità inventiva di un artista. [XI,10,3] In tutte le arti ciò che è inferiore è fatto in vista di ciò che è superiore, sicché questo fa anche la comune natura. [XI,10,4] E di qui ha genesi la giustizia, alla quale sottostanno poi tutte le altre virtù. Infatti il giusto non potrà essere serbato se litighiamo per ciò che è né bene né male o siamo facilmente ingannabili o precipitosi o volubili.

[XI,11,1] Le faccende importanti, l’inseguimento delle quali o la fuga dalle quali ti mette in trambusto, non ti vengono addosso ma, in un certo modo, sei tu che vai addosso a loro. Pertanto, la determinazione su di esse si acquieti e anch’esse resteranno immobili, e non ti si vedrà più né inseguirle né fuggirle.

[XI,12,1] Sfera di fulgida luce è l’animo quando non si distenda su qualcosa, non si contragga in sé, non si esalti, non si deprima ma brilli di quella luce con la quale vede la verità delle cose tutte e quella che in lui è.

Per un ulteriore chiarimento sul profondo significato filosofico e fisico-matematico di questo frammento XI,12 di Marco Aurelio clicca qui

[XI,13,1] Qualcuno mi disprezzerà? Affar suo. Io vedrò di non farmi trovare a fare o dire qualcosa degno di disprezzo. [XI,13,2] Qualcuno mi odierà? Affar suo. Io sarò paziente e benevolo con chiunque; pronto a mostrare a lui in persona quel che ha travisato, senza acrimonia né con l’intenzione di mettere in mostra la mia sopportazione ma genuinamente e con probità o come fece quel famoso Focione, se non simulava. [XI,13,3] Giacché la mia interiorità così dev’essere e gli immortali devono vedere in me un uomo che non si induce a fremere di odio né a coltivare il corruccio verso nulla. [XI,13,4] Che male te ne viene, se ora fai ciò che è proprio della tua natura ed accogli ciò che adesso è tempestivo per la natura in generale, proteso a che accada in ogni modo ciò che è utile alla comunità?

[XI,14,1] Si disprezzano a vicenda e si piaggiano l’un l’altro; vogliono avere il sopravvento l’uno sull’altro e si fanno gli inchini a vicenda.

[XI,15,1] Com’è schifoso e disonesto chi dice: “Ho prescelto di comportarmi con te con schiettezza”. [XI,15,2] O uomo, che fai? Non devi predire questo. [XI,15,3] Apparirà da sé. Deve essere scritto in fronte; lo echeggia subito la voce; spunta dagli occhi, così come l’amato capisce subito tutto dallo sguardo degli amanti. [XI,15,4] Insomma, l’uomo schietto e virtuoso così dev’essere, come chi puzza di caprone; perché chi gli sta accanto se ne accorga, voglia o non voglia, appena lui si appressa. La leziosità nella schiettezza, invece, è un pugnale. [XI,15,5] Nulla è più vergognoso dell’amicizia da lupi: fuggila al di sopra di ogni altra cosa. [XI,15,6] L’uomo virtuoso, schietto, paziente, tutto questo l’ha negli occhi, e non è latente.

[XI,16,1] Bisogna vivere il meglio possibile; e questa facoltà sta nell’animo quando si resti indifferenti alle cose indifferenti. [XI,16,2] L’uomo resterà indifferente se conoscerà i principi per giudicare, distintamente e in termini generali, ciascuna di esse, e si ricorderà che nessuna di esse ci infonde una concezione di sé né ci perviene addosso, ma che invece esse se ne stanno immobili, mentre siamo noi quelli che generano le risoluzioni al loro riguardo; che quasi le scriviamo in noi stessi pur avendo la potestà di non scrivere nulla oppure, se qualcosa è latente da qualche parte, di cancellarlo subito. [XI,16,3] Se poi le tue risoluzioni sono in accordo con la natura delle cose, rallegratene e la vita ti sarà facile. Se invece esse non sono in accordo con la natura delle cose, cerca cos’è per te in accordo con la tua natura ed a ciò affrettati, anche se ti fosse causa di discredito. Giacché si perdona a chi cerca il proprio bene.

[XI,17,1] Abbi presente donde ciascuna cosa è pervenuta, di quali substrati consta, in cosa si trasforma, quale sarà dopo la trasformazione e che non subirà alcun male.

[XI,18,1] Primo: quale sia la mia relazione con loro e che siamo nati gli uni per gli altri, e d’altro canto che io sono nato per capeggiarli, come il montone un gregge o il toro una mandria. Risali allora a monte di ciò: se non siamo in balia degli atomi, allora è la natura a governare il tutto. [XI,18,2] Se è così, le creature inferiori nascono per servire quelle superiori e queste, a loro volta, per servirsi le une le altre. [XI,18,3] Secondo: considera quale specie di persone essi siano a tavola, a letto e così via; soprattutto a quali necessità imposte dai loro giudizi soggiacciano e con quale vanità le soddisfino. [XI,18,4] Terzo: ricorda che se essi fanno queste cose rettamente non devi esserne malcontento, mentre se le fanno non rettamente è manifesto che operano così per ignoranza e loro malgrado. [XI,18,5] Giacché ogni animo si priva suo malgrado tanto della verità quanto della possibilità di comportarsi con ciascuno secondo il suo valore. [XI,18,6] Essi dunque si adontano quando sentono dirsi di essere ingiusti, scostumati, avidi e, in una parola, soggetti ad aberrare circa chi hanno intorno. [XI,18,7] Quarto: ricorda che anche tu commetti molte aberrazioni, che sei un altro individuo siffatto. E se pur ti astieni da certe aberrazioni, hai però una postura ad esse accline, anche se ti astieni da identiche aberrazioni per viltà o per ambizione di gloria o per qualche altro vizio siffatto. [XI,18,8] Quinto: constata che neppure afferri con sicurezza se essi aberrino, giacché molte cose succedono per vantaggi economici. [XI,18,9] E generalmente bisogna in precedenza imparare molte cose per poter dichiarare qualcosa con perfetta certezza circa un’azione allotria. [XI,18,10] Sesto: qualora tu frema di odio o sia troppo insofferente per qualcosa, ricorda che la vita umana è brevissima e che dopo poco tempo tutti siamo distesi sul letto di morte. [XI,18,11] Settimo: considera che a disturbarci non sono le loro azioni, giacché queste sono in potere dei loro egemonici, ma le nostre concezioni a loro riguardo. [XI,18,12] Leva via queste concezioni, disponi di tralasciare la risoluzione che si tratti di una cosa terribile ed ecco che l’ira è sparita. [XI,18,13] E come le leverai via? Conteggiando che quelle azioni non sono una tua vergogna. Se infatti non fosse vero che soltanto ciò che è vergognoso è male, di necessità anche tu aberreresti e diventeresti un rapinatore ed ogni genere di delinquente a causa delle aberrazioni di quelli. [XI,18,14] Ottavo: quanto l’ira e l’afflizione per cose siffatte ci infliggono un danno più acre dei fatti stessi per i quali ci adiriamo ed affliggiamo. [XI,18,15] Nono: ricorda che la pazienza è invincibile quando sia genuina, priva di falsi sorrisi e di ipocrisia. [XI,18,16] Cosa può mai farti, infatti, l’individuo anche più oltraggioso se tu continui ad essere paziente verso di lui e, se capita, ad ammonirlo pacatamente; e gli insegni con bell’agio una via migliore nel momento stesso in cui egli mette mano a maltrattarti? ‘No, figlio; siamo nati per un altro scopo. Io non mi danneggerò di certo; tu stai danneggiando te stesso, figlio!’ [XI,18,17] Ed a mostrargli con tatto ed in termini generali che così stanno le cose; che quel che fa lui non lo fanno le api né tutti gli altri animali che sono nati per stare in branco. [XI,18,18] Devi però farlo senza ironia e senza acrimonia; non come se fossi a scuola né in modo da stupire chi vi sta accanto, ma come se foste soli anche se vi sono dei circostanti. [XI,18,19] Ricordati di questi nove punti capitali come se li avessi presi in dono dalle Muse e comincia una buona volta ad essere uomo, finché sei in vita. [XI,18,20] Devi poi stare in guardia parimenti dall’adularli e dall’adirarti con loro, giacché ambedue questi modi di fare sono antisociali e comportano un danno. [XI,18,21] Quando ti adiri, devi avere a portata di mano il giudizio che l’essere preda del rancore non è mascolino ma che, come mitezza e mansuetudine sono più umane, così esse fanno anche più maschiezza; in quanto potenza, saldezza di nervi e virilità hanno a che vedere con costui e non con chi freme di odio e si dispiace. [XI,18,22] Quanta più familiarità ha poi un egemonico con il dominio sulle passioni, tanta più ne ha con la forza. [XI,18,23] E come l’afflizione è propria di un egemonico debole, così lo è l’ira. Ambedue, infatti, sono egemonici che sono stati feriti e che si sono arresi. [XI,18,24] Se infine lo decidi, prendi anche un decimo dono da Apollo Musagete e ricorda che sollecitare gli insipienti a non aberrare è una cosa da pazzi, giacché mira a qualcosa di impossibile. [XI,18,25] Consentire che altri siano siffatti e poi sollecitare che essi non aberrino nei tuoi confronti è, infatti, da individuo scostumato e tirannico.

[XI,19,1] Bisogna senza interruzione tenere ben presente soprattutto quattro rivolgimenti dell’egemonico e, avendoli rintracciati, scancellarli soggiungendo così davanti a ciascuno di essi: ‘Questa fantasticheria non è necessaria’; ‘Questo [impulso] è causa di lisi della società’; ‘Questo [assenso] che stai per dare non viene dal tuo intimo’. E dire qualcosa che non proviene dal proprio intimo, legittimalo pure tra le più grandi utopie. [XI,19,2] Il quarto orientamento dell’egemonico è quello per cui tu rinfaccerai a te stesso: ‘Questo è segno che la tua parte più divina è vinta e inchinata alla porzione più disonorevole e mortale, al corpo ed alle sue crasse ebbrezze’.

[XI,20,1] Tutto il tuo pneuma e l’elemento igneo, in quanto in te intimamente mescolati, seppure siano per natura elementi che tendono verso l’alto, tuttavia obbediscono all’organizzazione del tutto e si bloccano quaggiù nella sostanza composta. [XI,20,2] Anche tutto il tuo elemento terroso e quello umido, seppure tendenti verso il basso, tuttavia sono -come dire- desti, e stanno in una posizione che non è di per sé la loro. [XI,20,3] Così, pertanto, anche gli elementi naturali danno retta al tutto, distribuendosi là dove sono stati ridisposti finché dal tutto non venga loro di nuovo significata l’intonatura della dissoluzione. [XI,20,4] Non è dunque terribile che la tua parte cognitiva sia l’unica disobbediente e che freme di odio per il rango assegnatole dal tutto? Eppure all’egemonico non viene ingiunto nulla che gli faccia violenza, ma soltanto quanto è per lui in armonia con la natura delle cose. Nondimeno l’egemonico non lo sopporta e si atteggia in modo contrario ad essa. [XI,20,5] Infatti il nostro moto verso l’ingiustizia, l’impudenza, l’ira, l’afflizione, la paura non è altro che il moto di un egemonico che si distorna dalla natura delle cose. [XI,20,6] E quando l’egemonico è malcontento di qualcuna delle cose che succedono, anche allora sta abbandonando il proprio rango. Giacché esso è stato strutturato per la santità e la venerazione degli immortali non meno che per la giustizia. [XI,20,7] Anche queste, infatti, sono incluse in entità della sorta della sociabilità e sono molto più anziane della pratica della giustizia.

[XI,21,1] Chi non ha nella vita un unico e sempre medesimo scopo, non può essere per tutta la vita un unico e medesimo uomo. [XI,21,2] Questo detto non basta, se non gli addizionerai quale deve essere questo scopo. [XI,21,3] Come, infatti, la concezione di tutti quelli che sono comunque reputati beni dalla maggioranza non è identica, mentre lo è quella di certi beni, cioè di quelli comuni; così bisogna che lo scopo sottostante sia il bene comune e politico. [XI,21,4] Chi indirizza a questo fine i propri impulsi esplicherà anche in modo simile tutte le sue azioni e così sarà sempre il medesimo uomo.

[XI,22,1] Ricordati del topo di montagna e del topo con dimora in città, e il terrore e la trepidazione di quest’ultimo.

[XI,23,1] Socrate usava chiamare i giudizi dei più anche ‘Lamie’, ossia babau per bambini.

[XI,24,1] In occasione degli spettacoli pubblici, gli Spartani ponevano all’ombra gli scranni per gli stranieri, e invece essi si sedevano dove capitava.

[XI,25,1] Circa il non venire alla sua corte, Socrate diceva a Perdicca: “per non perire della peggiore sciagura”; cioè non poter contraccambiare un beneficio ricevuto.

[XI,26,1] Nelle lettere degli Epicurei si trovava l’ingiunzione di rammentarsi continuamente di qualche personaggio d’antica data che avesse praticato la virtù.

[XI,27,1] I Pitagorici dicono di riguardare il cielo al mattino, affinché possiamo rammentarci di quegli esseri che sempre secondo le stesse regole e nello stesso modo concludono l’opera loro e del loro ordine, purezza e nudità. [XI,27,2] Non hanno veli, gli astri.

[XI,28,1] Ammirevole fu Socrate quando si cinse i fianchi con un vello di pecora, dopo che Santippe gli aveva preso la toga e se n’era uscita di casa. E ammirevole fu anche quello che Socrate disse ai suoi sodali che si ritiravano rispettosamente, quando lo videro così conciato.

[XI,29,1] Non inizierai a leggere e a scrivere se in precedenza qualcuno non ti avrà iniziato alla lettura e alla scrittura. Questo è tanto più vero nel caso della vita.

[XI,30,1] Tu sei per natura servo, non hai a che fare con la ragione.

[XI,31,1] E il mio caro cuore rideva.

[XI,32,1] Biasimeranno la virtù, acri parole favellando.

[XI,33,1] Andare in cerca di un fico d’inverno è cosa da pazzi, e tale è chi cerca il bambino quando non gli è più dato averne.

[XI,34,1] Epitteto soleva affermare che, mentre si bacia il proprio bambino, bisogna esclamare dentro di sé: ‘Forse domani morirai’. ‘Ma queste sono parole di malaugurio!’ ‘Nessun malaugurio’, diceva ‘ma parole che significano un’opera del tutto naturale. Oppure, allora, è anche di malaugurio dire che le spighe di grano devono essere mietute’.

[XI,35,1] Uva acerba, uva matura, uva passa: tutte trasformazioni non in qualcosa che non esiste, ma in qualcosa che adesso non esiste.

[XI,36,1] Epitteto dice: ‘Un rapinatore di proairesi non esiste’.

[XI,37,1] Epitteto dice che si deve trovare un’arte circa l’assentire e, nell’ambito degli impulsi, di custodire quanto fa attenti affinché siano con riserva, socievoli e secondo il valore. [XI,37,2] E di astenersi totalmente dal desiderio ed usare l’avversione per nulla di quanto non è in nostro esclusivo potere.

[XI,38,1] Epitteto dice che la gara, dunque, non è su quel che capita ma sull’essere pazzi oppure no.

[XI,39,1] Socrate dice: “Che volete? Avere animo di creature razionali o irrazionali?” “Razionali”. “E di quali creature razionali? Sane o insipienti?” “Sane”. “Perché dunque non cercate di averlo?” “Perché l’abbiamo”. “Perché dunque vi contraddite e litigate?”.

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LIBRO XII

[XII,1,1] Tutti quei successi cui periodicamente auspichi di pervenire, puoi averli adesso se non te li denegherai tu stesso. [XII,1,2] E cioè: se abbandonerai il passato, affiderai il futuro nelle mani della prònoia e indirizzerai il presente soltanto verso santità e giustizia. [XII,1,3] Santità in primo luogo, per amare ciò che ti è assegnato, giacché la natura apportava questo a te e te a questo. [XII,1,4] Giustizia in secondo luogo, perché tu possa dire liberamente e senza giri di parole la verità ed operare secondo la legge e il valore di ciascuno. E non ti siano di intralcio né la viziosità allotria né le concezioni o le voci allotrie e neppure le sensazioni legate alla carne rappresa intorno al tuo egemonico: al riguardo se la vedrà la parte soggetta a patire. [XII,1,5] Se dunque, qualunque sia il momento in cui uscirai di scena, abbandonato tutto il resto renderai onore soltanto al tuo egemonico, alla tua parte divina, ed avrai paura non di cessare di vivere ma di non avere mai cominciato a vivere in armonia con la natura delle cose, allora sarai un uomo degno del cosmo che ti ha generato e cesserai di essere uno straniero in patria, uno che si stupisce degli eventi quotidiani come di fatti inattesi e che è appeso a questo e a quest’altro.

[XII,2,1] Zeus vede gli egemonici di tutti gli uomini nudi dei loro involucri materiali, delle loro bucce e scorie. Con la sua sola cognitività, infatti, egli s’accosta solo con quanto da sé è scorso ed è stato incanalato negli egemonici. [XII,2,2] Se anche tu ti abituerai a fare così, toglierai d’attorno molte tue distrazioni. [XII,2,3] Chi non guarda i pezzetti di carne che gli egemonici si portano addosso, davvero sarà impegnato a osservare vestito, casa, fama e siffatti apparati e scenari?

[XII,3,1] Tre sono i componenti di cui tu consti: corpo, pneuma, mente. [XII,3,2] Di questi, i primi due sono tuoi fino al punto che devi averne sollecitudine, mentre soltanto il terzo è principalmente tuo. [XII,3,3] Ora, se tu spazieggerai da te stesso, cioè dal tuo intelletto, tutto ciò che gli altri fanno o dicono; tutto ciò che tu stesso hai fatto o detto; tutto quel futuro che ti sconcerta; tutto quanto del corpo che ti porti addosso o dello pneuma che ti è congenito è aproairetico; tutto ciò che il turbine vorticante fuori di te mulina; in modo che la tua facoltà cognitiva, emancipata dagli eventi condeterminati dal destino possa vivere pura e indipendente per se stessa: capace di operare il giusto, di accettare gli avvenimenti, di dire la verità; [XII,3,4] se tu spazieggerai, dico, da questo tuo egemonico tutto ciò che vi è appiccicato per inclinazione passionale, quanto è interposto nel futuro oppure nel passato; ebbene farai di te, come Empedocle,
‘globo arrotondato, che gioisce della sua circolare unicità’;
ebbene studierai con cura di vivere soltanto il tempo che vivi, cioè il presente; e potrai trascorrere la vita che ti sopravanza senza sconcerti, paziente e benigno col tuo demone fino al momento della morte.

[XII,4,1] Spesso mi sono stupito di come ciascuno di noi ami se stesso più di ogni altra cosa e poi tenga la concezione che ha di sé in minor conto di quella che gli altri hanno di lui. [XII,4,2] In effetti, se un dio o un assennato maestro si presentassero a qualcuno e gli intimassero di non ponderare né pensare su di sé nulla che non possa profferire ad alta voce, costui non reggerà l’ingiunzione neppure per un giorno. [XII,4,3] In questo modo rispettiamo di più quello che il prossimo pensa di noi che noi stessi.

[XII,5,1] Come mai gli immortali, dopo avere organizzato ogni cosa bene e filantropicamente, hanno trascurato questo soltanto, cioè che taluni uomini davvero molto probi e posti quaggiù più di tutto come viventi contratti con il divino, dopo essere entrati in ancor maggiore consuetudine con esso attraverso opere sante e sacre funzioni, una volta morti non nascono daccapo, ma sono definitivamente estinti? [XII,5,2] Se dunque le cose stanno proprio così, sappi bene che se esse dovessero stare in un altro modo, gli immortali lo avrebbero fatto. [XII,5,3] Giacché se questa cosa fosse giusta sarebbe anche possibile; e se essa fosse in armonia con la natura delle cose, la natura ad essa avrebbe portato. [XII,5,4] Dal fatto, invece, che le cose non stanno così, e se proprio così non è, sta garantito che così non doveva essere. [XII,5,5] Infatti, vedi tu stesso che cercando erroneamente questo tu stai mettendo la divinità sul banco degli accusati. E se gli immortali non sono gli esseri migliori e più giusti in assoluto, noi neppure dialogheremmo con essi. [XII,5,6] Ma se essi sono tali, non avrebbero permesso, ingiustamente e irrazionalmente, che qualcosa essenziale al buon ordine del cosmo rimanesse negletto.

[XII,6,1] Abituati anche a praticare tutti quegli esercizi nei quali disperi di riuscire. [XII,6,2] Anche la mano sinistra, infatti, pur tarda in altri esercizi perché non avvezza ad essi, padroneggia le redini più gagliardamente della mano destra, perché a questo è abituata.

[XII,7,1] Pensa di che sorta sia una creatura che deve essere afferrata dalla morte nel corpo e nell’animo. Pensa alla brevità della vita; all’abisso dell’eternità alle nostre spalle e innanzi a noi; alla debolezza di ogni materiale.

[XII,8,1] Osservare le cause nude delle loro bucce; a cosa fanno riferimento le azioni; cos’è il dolore fisico; cos’è il piacere fisico; cos’è la morte; cos’è la gloria; chi è causa del proprio disagio; come nessuno è intralciato da altri; che tutto è concezione.

[XII,9,1] Nell’uso dei giudizi devi essere simile al pancraziaste e non al gladiatore. Infatti il gladiatore depone la spada che usa ed è tolto di mezzo; mentre invece il pancraziaste ha sempre la mano e non deve fare altro che racchiuderla a pugno.

[XII,10,1] È possibile vedere quali siano le cose distinguendo in esse il materiale, la causa, il riferimento.

[XII,11,1] L’uomo ha la potestà di non fare altro che ciò che Zeus loderà e di accogliere tutto ciò che Zeus gli dispensa.

[XII,12,1] Non bisogna biasimare gli immortali, giacché essi non aberrano né di proposito né loro malgrado. E neppure bisogna biasimare gli uomini, giacché essi sempre aberrano loro malgrado. Dunque non bisogna biasimare nessuno.

[XII,13,1] Com’è ridicolo e straniero nel cosmo chi si stupisce di una qualunque delle cose che succedono nella vita!

[XII,14,1] Esistono o una necessità e un ordinamento inviolabile, o una prònoia propizia o un garbuglio di fortuità senza governo. [XII,14,2] Se la necessità è inviolabile, perché contendi con essa? [XII,14,3] Se la prònoia è compatibile con l’esserci propizia, renditi degno dell’aiuto che ti viene da ciò che è divino. [XII,14,4] Se il garbuglio è privo di guida esulta, perché in siffatta tempesta tu però hai in te stesso una mente che ti è duce. [XII,14,5] Se la tempesta ti travolge, che travolga pure la carne, lo pneuma e il resto, ma non travolgerà la mente. [15] O invece la luce della lucerna risplende e non perde fulgore finché non sia spenta, mentre la verità, la giustizia, la temperanza che sono in te si estingueranno prima?

[XII,16,1] Se qualcuno ti procura la rappresentazione di uno che aberra, devi dirti: ‘E come faccio a sapere se questa è un’aberrazione?’. Se poi egli ha davvero commesso un’aberrazione, devi dirti: ‘Costui ha condannato se stesso, ed il suo comportamento è identico a quello di chi si sia graffiato tutto il viso’. [XII,16,2] Giacché chi pretende che l’insipiente non aberri è identico a colui che pretende che il fico non apporti lattice ai suoi fichi, che i neonati non vagiscano, che il cavallo non nitrisca e quant’altro deve avvenire per necessità. [XII,16,3] Cosa potrebbe sperimentare, infatti, chi ha siffatta postura? Se poi tu sei un tipo focoso, allora curagliela.

[XII,17,1] Se qualcosa non è doveroso, non farlo; se non è vero, non dirlo. [XII,17,2] Il tuo impulso sia stabile.

[XII,18,1] Devi sempre vedere cosa effettivamente sia quello che produce in te la rappresentazione, e svelarlo distinguendone la causa, il materiale, il riferimento e il tempo entro cui deve essere cessato.

[XII,19,1] Accorgiti una buona volta che hai in te stesso qualcosa di superiore e più demonico di ciò che produce le passioni e di ciò che, in una parola, ti muove come una marionetta. [XII,19,2] Cos’è adesso la mia proairesi? E’ paura? Sospetto? Smania o qualcos’altro di siffatto?

[XII,20,1] In primo luogo, non agire a casaccio né senza riferimento a qualcosa. [XII,20,2] In secondo luogo, non partire con la prua rivolta ad altro che ad un fine socievole.

[XII,21,1] Pensa che tra non molto tu non sarai più nessuno da nessuna parte, né lo sarà qualcuna delle cose che ora ti vedi intorno, né lo sarà qualcuno di coloro che adesso sono vivi. [XII,21,2] Giacché tutto è nato per trasformarsi, trasmutare, rovinare così che altre cose possano di seguito nascerne.

[XII,22,1] Tutto è concezione e la concezione è in tuo esclusivo potere. Leva dunque via, quando lo disponi, la concezione; e, come per chi doppia il promontorio, c’è bonaccia, tutto si è placato e il golfo è riparato dai flutti. 

[XII,23,1] Una qualunque attività che cessi al momento congruo non patisce alcun male per il fatto di essere cessata. E neppure chi fa l’azione in questione ha patito alcun male per il fatto che quell’azione è cessata. [XII,23,2] Similmente, quindi, se il sistema formato da tutte le nostre azioni -che è la vita- cesserà in tempo congruo, essa non patisce alcun male per il fatto di cessare. E neppure chi ha conchiuso questa sequela di azioni in tempo congruo è malridotto. [XII,23,3] Ora, tempo congruo e limite per la vita, li dà la natura. A volte la natura individuale, come nel caso della vecchiaia. Ma certamente tempo congruo e limite li dà la natura in generale e, grazie alla trasformazione delle sue parti, la totalità del cosmo sopravvive sempre giovanile e in pieno vigore. [XII,23,4] Ciò che è utile al tutto risulta, così, sempre bello e pienamente maturo. [XII,23,5] Dunque la conchiusione della vita, se appunto si tratta di qualcosa di aproairetico e di non antisociale, non essendo una cosa vergognosa non è un male per l’individuo, ma piuttosto un bene in quanto è congrua al cosmo tutto, è utile ad esso e diretta al suo meglio. [XII,23,6] Pertanto risulta divinamente ispirato chi si lascia portare lungo questa stessa via dalla divinità e verso questa stessa via dalla propria intelligenza. 

[XII,24,1] Bisogna avere a portata di mano queste tre considerazioni. Circa ciò che fai, se non sia fatto a casaccio oppure altrimenti da come la giustizia in persona lo eseguirebbe. Circa ciò che avviene al di fuori di te, che esso avviene o per coincidenza casuale oppure per prònoia e che non bisogna biasimare la coincidenza casuale né incolpare la prònoia. [XII,24,2] Seconda considerazione: quale creatura ciascuno di noi è, partendo dall’inorganicità fino alla nostra animazione e poi dall’animazione fino alla restituzione dell’animo; e di quali elementi noi siamo la composizione e in quali ci risolviamo. [XII,24,3] Terza considerazione: se, librandoti in cielo, tu potessi analizzare sotto di te la svariatezza delle vicende umane, le apprezzeresti assai poco; essendo ormai in grado di scorgere contemporaneamente la vastità dello spazio occupato dai corpi aerei e celesti. Inoltre, per quante volte tu ti librassi in cielo, comunque vedresti sempre le medesime vicende umane, la loro conformità e breve durata. [XII,24,4] E su queste si esercita la vanità. 

[XII,25,1] Butta fuori la concezione: sei salvo. E chi ti impedisce di espellerla?

[XII,26,1] Quando mal sopporti qualcosa, tu dimentichi che tutto succede secondo natura, che l’aberrazione altrui è cosa allotria e, oltre a questo, che tutto quel che succede così è sempre successo, succederà e adesso succede dovunque. Tu dimentichi pure quanto sia grande la congenericità dell’uomo con tutto il genere umano, giacché essa non è società di sangue e di sperma ma di mente. [XII,26,2] Inoltre dimentichi che la mente di ciascun uomo è dio e di là è scorsa; che nulla [di aproairetico] è proprietà di nessuno, ma che il figliolo, il corpo, l’animuzza animale stessa sono pervenuti di là; che tutto è concezione; che ognuno vive solo nel presente e questo perde.

[XII,27,1] Bisogna continuamente rivangare coloro che troppo fremevano di odio per un nonnulla, di coloro che hanno toccato il culmine in fatto di fama, di guai, di faide private o dei più diversi tipi di fortuna e poi soppesare dove sia adesso tutto questo: fumo, cenere, leggenda o neppure una leggenda è il commento da aggiungere. [XII,27,2] E anche tutto ciò che è siffatto: come il caso di Fabio Catullino a proposito di una campagna; di Lusio Lupo a proposito di certi giardini; quello di Stertinio a Baia, di Tiberio a Capri, di Velio Rufo e, insomma, i dissidi per una cosa qualunque scatenati con presunzione. Com’era da poco tutto ciò per cui costoro si sforzavano e quanto più da filosofo è il palesarsi con semplicità, sul materiale datoci, giusti, temperanti, seguaci degli dei! [XII,27,3] La vanità, poi, che si vanta della modestia è la più esasperante di tutte.

[XII,28,1] A coloro che esigono una risposta alla domanda : “Dove hai visto gli dei, o donde afferri che essi esistono per venerarli così?”, rispondi che, in primo luogo, essi sono visibili anche alla vista; poi, in secondo luogo, che io non ho visto nemmeno il mio animo, eppure lo onoro. [XII,28,2] Così dunque anche gli dei: afferro che essi esistono da ciò per cui ciascun momento esperimento il loro potere e pertanto li rispetto.

[XII,29,1] La salvezza della vita umana consiste nel vedere nella sua interezza che cos’è ciascuna cosa, ossia quale ne è l’elemento materiale e quale quello causale; [XII,29,2] e poi, con tutto l’animo, nell’operare il giusto e nel dire il vero. [XII,29,3] Cos’altro poi resta da fare se non godersi la vita e rannodare un bene dopo l’altro così da non lasciare addietro, tra di essi, neppure il più breve intervallo?

[XII,30,1] Una sola è la luce del sole, anche se essa trova barriere in muri, monti e altre miriadi di oggetti. [XII,30,2] Una sola è la comune sostanza, anche se è separata in miriadi di corpi con certe particolari qualità. [XII,30,3] Uno solo è l’animo, anche se è separato in miriadi di nature e individualità specifiche. [XII,30,4] Uno solo è l’animo cognitivo, anche se sembra essere stato scriminato. [XII,30,5] Le altre parti dei suddetti esseri, poi, come lo pneuma e gli elementi al di sotto di questo sono privi di sensazioni ed estranei gli uni agli altri; sebbene anche ad essi dia continuità la forza che li fa piegare in basso ed unirsi al loro medesimo elemento. [XII,30,6] L’intelletto, infine, si propaga specificamente verso ciò che gli è consimile [ossia il fuoco], di esso consta e la sua affezione per ciò che gli è comune non trova barriere. 

[XII,31,1] Cosa esigi? Di continuare a vivere? Ma continuare a vivere è avere sensazioni, impulsi, crescere, poi daccapo farla finita di usare la voce, farla finita di pensare. Quale di queste cose ti sembra degna di brama? [XII,31,2] Se ciascuna di esse è spregevole, procedi da ultimo a seguire la ragione e Zeus. Adontarsi se si viene privati di quelle cose a causa della morte, contraddice l’onore in cui teniamo il seguire la ragione e Zeus.

[XII,32,1] Quale parte dell’infinito abisso del tempo è stata scompartita per ciascuno di noi? Essa molto rapidamente scompare nell’eternità. [XII,32,2] Quale frazione della sostanza del cosmo? Quale frazione dell’animo del cosmo? Sopra quale minuscolo pezzettino della terra intera vai strisciando? [XII,32,3] Se ponderi tutte queste cose, non immaginare che vi sia qualcos’altro di grande eccetto questo: operare come la tua natura conduce a fare e subire quel che la comune natura comporta.

[XII,33,1] Il nostro egemonico, come tratta se stesso? Tutto il problema sta qui. [XII,33,2] Il resto sono o cose proairetiche oppure cose aproairetiche, e queste ultime sono cadaveri e fumo.

[XII,34,1] Ottimo svegliarino a farci giudicare superiori alla morte è il pensiero che anche coloro che giudicano il piacere fisico un bene e il dolore fisico un male, comunque le si sono sentiti superiori. 

[XII,35,1] Colui per il quale soltanto il bene è tempestivo, per il quale è uguale esplicare molte o poche azioni secondo retta ragione, per il quale conoscere i principi generali del cosmo per un tempo maggiore o minore non fa differenza: ebbene a costui la morte non fa paura.

[XII,36,1] Uomo, sei stato cittadino di questo grande Stato. Che differenza ti fa se per cinque anni o per cinquanta? Ciò che è in armonia con le sue leggi è uguale per tutti. [XII,36,2] Cosa c’è dunque di terribile se ad accomiatarti dalla città non è un tiranno né un giudice ingiusto ma la natura che ti ci ha introdotto? È come se il pretore-impresario congedasse dalla scena un attore che ha assunto. [XII,36,3] ‘Non ho recitato cinque atti ma soltanto tre!’ Hai recitato bene: nella tua vita i tre atti sono tutto il dramma. [XII,36,4] Che sia completo, infatti, lo fissa colui che è causa, allora della tua composizione e adesso della tua dissoluzione; mentre tu sei irresponsabile di ambedue. [XII,36,5] Vattene dunque pacificato; anche il cosmo che ti congeda lo è.

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STOICORUM VETERUM FRAGMENTA LIBRO II

Tutti i frammenti greci e latini

Nuovamente tradotti da Franco Scalenghe

LIBRO II

Testimonianze sulla vita e gli scritti di Crisippo (c. 282-206 a.C.) [II,1,1]

Frammenti n. 1-34

SVF II, 1

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 179. Crisippo, figlio di Apollonio, era nato a Soli o a Tarso, come attesta Alessandro nelle ‘Successioni’, e fu discepolo di Cleante. In un primo tempo Crisippo praticava la corsa di fondo. In tempi successivi ascoltò le lezioni di Zenone o, come attestano Diocle e la maggior parte degli autori, quelle di Cleante. Abbandonò la sua scuola quando questi era ancora in vita e [II,1,5] divenne un filosofo nient’affatto qualunque. L’uomo era un purosangue di grandissima acutezza in tutti i campi della filosofia, tanto che su un gran numero di punti si differenziò sia da Zenone che da Cleante, al quale soleva spesso dire che aveva bisogno soltanto dell’insegnamento dei principi dottrinali, giacché le loro dimostrazioni le avrebbe trovate da solo. Ogni volta che [II,1,10] prendeva le distanze da lui soleva però pentirsi, sicché continuamente proferiva questi versi:

‘Io sono per natura, quanto al resto, un uomo beato;

tranne che in relazione a Cleante: in questa non mi riesce d’essere felice’

Divenne un dialettico così rinomato che i più reputavano che se presso gli dei ci fosse un posto per la dialettica, questo non sarebbe occupato da altra dialettica [II,1,15] che quella di Crisippo. Poiché aveva a disposizione una pletora di argomentazioni di sostanza, non rifinì la loro espressione. Era un faticatore straordinario quant’altri mai, come è manifesto dalle sue compilazioni il cui numero supera le settecento cinque. Egli le moltiplicava mettendo più volte mano al medesimo principio dottrinale, scrivendo tutto quel che gli veniva in mente, correggendolo più volte e [II,1,20] citando il maggior numero possibile di testimonianze; tant’è che una volta, quando in una delle sue compilazioni per poco non citò tutta intera la Medea di Euripide, un tale che aveva tra le mani il libro rispose a chi gli chiedeva che libro avesse: “La Medea di Crisippo”. E Apollodoro di Atene nella sua ‘Raccolta di principi dottrinali’, volendo far riscontrare come le opere di Epicuro, [II,1,25] in quanto scritte con originalità e prive di citazioni, siano enormemente più copiose dei libri di Crisippo, afferma testualmente così: “Se infatti si eliminassero dai libri di Crisippo tutte quante le citazioni di altri autori, [II,2,1] le sue pagine resterebbero vuote”. Questo dice Apollodoro. D’altra parte, come afferma Diocle, l’anziana governate di Crisippo sosteneva che egli scrivesse giornalmente cinquecento righe. Ed Ecatone afferma che egli era venuto alla filosofia dopo che il patrimonio paterno era stato confiscato a favore del tesoro reale. [II,2,5] Era mingherlino di corpo, come è manifesto dalla statua che si trova nel Ceramico, la quale è quasi completamente nascosta da quella di un cavaliere lì vicino. Ragion per cui Carneade soleva chiamarlo ‘Cripsippo’.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 183. Infine, secondo quanto afferma Sozione nel suo ottavo libro, <Crisippo> si presentò ad Arcesilao e a Lacide, e seguì nell’Accademia le loro lezioni di filosofia. Questo è il motivo per cui [II,2,10] egli argomentò dialetticamente pro e contro le comuni consuetudini, ed utilizzò sulle grandezze e sui numerali l’impostazione degli Accademici. Ermippo afferma che quando teneva scuola nell’Odeon fu invitato dai suoi discepoli a partecipare ad un sacrificio. Qui, dopo avere sorbito del vino puro dolce, [II,2,15] fu preso dalle vertigini e, passati cinque giorni, se ne partì dal genere umano; dopo avere vissuto settantatré anni, nel corso della centoquarantatreesima Olimpiade (208-204 a.C.), secondo quanto afferma Apollodoro nelle sue ‘Cronache’. […] Taluni affermano invece che egli morì per un accesso di riso. Un asino s’era infatti mangiato i suoi fichi. Egli disse allora alla vecchia governante di dare [II,2,20] da sorseggiare all’asino del vino puro e, mentre si sganasciava dalle risate, morì. Sembra che fosse d’animo disdegnoso: pur avendo, infatti, compilato un tal numero di opere, non ne ha dedicata neppure una a qualche re. S’accontentava d’una sola vecchietta come governante, secondo quanto afferma anche Demetrio nei suoi ‘Omonimi’. Quando Tolomeo scrisse a Cleante di venire di persona alla sua corte oppure di mandare qualcuno, Sfero partì mentre [II,2,25] Crisippo, invece, non badò all’invito. Fece convocare presso di sé i figli della sorella, Aristocreonte e Filocrate, e ne forgiò il carattere. Per primo ebbe il coraggio di tenere scuola all’aria aperta nel Liceo, come riferisce il predetto Demetrio.

[3] Luciano ‘Macrobìoi’ 20. Crisippo visse 81 anni. [II,2,30]

SVF II, 1a

Strabone ‘Geographia’ XIV, p. 671. Tra gli uomini di un certo nome nati qui (a Soli) vi è Crisippo, il filosofo Stoico. Suo padre era di Tarso, ma si era trasferito di là […]

SVF II, 1b

[1] Galeno ‘Protrept.’ 7, p. 8, 22 Keibel. [II,3,1] Che ragione ci sarebbe di ricordare Stagira, se non fosse per Aristotele; e di ricordare Soli, se non fosse per Arato e Crisippo?

[2] Solino 38,9 p. 181 ed M. Eliopoli, antica città della Cilicia, fu patria di Crisippo, [II,3,5] eminentissimo rappresentante della sapienza Stoica.

SVF II, 2

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXVIII. Effettuava in modo simile anche le altre cose: usciva per andare alla scuola sempre alla stessa ora e similmente se ne licenziava, così da non risultare mendace con quelli della sua cerchia.

[2] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXIX, 3. [II,3,10] […] scritti sulla giustizia […] 6. […] nel regime di vita giornaliero […] fu […]

SVF II, 3

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XL. <La vecchia governante> persisteva nel rimanere a custodia dell’abitazione, secondo la disciplina di vita stabilita fin dall’inizio. Quando < Crisippo> avesse bisogno del vaso da notte, non permetteva a nessun altro di sottoporglielo; e quando egli si alzava [II,3,15] per fare i suoi bisogni, come se fosse sano […]

SVF II, 3a

Pausania ‘Greciae descriptio’ I, 17, 2. Nel Ginnasio, che non è molto distante dalla Piazza del mercato e che è chiamato di Tolomeo dal nome del suo costruttore, vi sono delle Erme di pietra degne di essere viste [e un’immagine in bronzo di Tolomeo]. Qui ci sono anche <immagini> di Giuba il Libico e di Crisippo di Soli.

SVF II, 3b

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1033e. [II,3,20] Aristocreonte, appunto il discepolo e familiare di Crisippo, fece innalzare su una stele un’immagine in bronzo di lui e vi fece scrivere questo distico:

‘Aristocreonte dedicò quest’immagine dello zio Crisippo,

recisore dei lacci degli Accademici’.

SVF II, 4

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ XII, 7, 9. D’altra parte, quando il bilancio familiare [II,3,25] esige entrate straordinarie per soddisfare necessità primarie, secondo l’indicazione unanime dei sapienti è lecito concedersi un favore; dal momento che la colletta per Socrate consisteva in quanto gli serviva per il vivere quotidiano, mentre Zenone, Cleante e Crisippo accettarono una paga dai discepoli.

SVF II, 5

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XLI. Si dice che così stavano le cose: ossia che nessuno [II,3,30] l’avrebbe visto intrattenersi, neppure di sfuggita, con altri che non fossero suoi uditori o suoi emuli […]

SVF II, 6

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 183. Crisippo aveva una tale stima di se stesso che quando un tale gli chiese: “A chi raccomanderò mio figlio?”, rispose: “A me. Infatti, se io concepissi che c’è qualcuno migliore di me, io stesso studierei la filosofia presso di lui”. [II,3,35] Onde si afferma che su di lui si diceva:

‘Lui soltanto è sapiente; gli altri sono ombre che s’agitano’

e anche:

‘Se Crisippo non ci fosse, non ci sarebbe la Stoa’

SVF II, 7

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 183. Quand’era brillo se ne stava quieto e tranquillo, [II,3,40] anche se gli traballavano le gambe. Sicché la serva diceva: “Di Crisippo si ubriacano soltanto le gambe”.

SVF II, 8

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 182. [II,4,1] Ed ancora: un tale, quando gli poneva dei quesiti da solo a solo discorreva con lui con equilibrio; ma quando vedeva avvicinarsi loro della folla, cominciava a voler avere ragione a tutti i costi. Allora <Crisippo> soleva dirgli:

‘Ahimé, fratello; il tuo occhio t’è causa di sconcerto,

[II,4,5] di volo sei diventato rabbioso, mentre testé eri assennato’

SVF II, 9

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 182. Al dialettico che insorgeva contro Cleante e gli proponeva dei sofismi, <Crisippo> disse: “Smettila di distrarre chi è più anziano dalle faccende di sostanza, e proponili invece a noi giovani”.

SVF II, 10

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 182. Quando un tale gli rinfacciò di non frequentare, insieme a molti altri, la scuola di [II,4,10] Aristone, <Crisippo> gli rispose: “Se prestassi attenzione alla maggioranza non avrei fatto una vita filosofica”.

SVF II, 10a

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XXXIII, 53. Si racconta che una valente persona di qui (Tarso) giungesse in una certa città e che fosse in grado di fare questo lavoro, ossia di riconoscere all’istante il modo d’essere di ciascuno e di esporne [II,4,15] le caratteristiche, senza mai fallire, in quest’opera, con alcuno. […] che costui è un tipo virile, che costui è un vile, costui un cialtrone, costui è una persona oltraggiosa o un cinedo o un adultero. Siccome l’uomo era stupefacente nel dimostrare questa capacità e non si sbagliava in alcun caso, ecco che gli portano innanzi un tale con tratti somatici spigolosi, con le sopracciglia fuse, squallido, malconcio, con i calli alle mani, [II,4,20] avvolto in un manto fosco e ruvido, peloso fino alle caviglie e tutto scarmigliato, chiedendogli di dire chi fosse. Dopo averlo guardato per parecchio tempo, da ultimo l’uomo, a me sembra peritandosi di dire quel che aveva riscontrato, affermò di non avere compreso il caso ed ordinò a quello di partirsene. Mentre si discostava, quello però fece uno sternuto ed allora egli subito gridò a gran voce che si trattava di un cinedo.

SVF II, 11

Seneca ‘De constantia sapientis’ 17, 1. Crisippo racconta che un tale s’era indignato [II,4,25] perché qualcuno l’aveva chiamato castrone di mare.

SVF II, 12

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XLVI, 1. …. malato. Illo di Soli, che Aristocreonte, sul sepolcro di Crisippo, dice avere in precedenza frequentato la scuola con Sfero. Diafane […]

[2] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XLVII, 3. Apelle, che polemizzò contro Aristobulo […] [II,4,30] Eraclide che dapprima era stato a scuola da Sfero, Arcesilao e Aristobulo; Aristocreonte […]

SVF II, 13

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 189. Poiché i libri di Crisippo sono altamente accreditati, [II,4,35] ho reputato opportuno registrarne qui il catalogo per specie. I libri sono i seguenti:

I. Ambito Logico: sull’articolazione dei concetti logici.

‘Tesi logiche’, ‘Le speculazioni del filosofo’, [II,4,40] ‘Definizioni dialettiche, a Metrodoro (6 libri)’, [II,5,1] ‘Sui termini usati in dialettica, a Zenone (1 libro)’, ‘Arte dialettica, ad Aristagora (1 libro)’, ‘Proposizioni ipotetiche plausibili, a Dioscuride (4 libri)’.

II. Ambito Logico: i fatti concreti.

[II,5,5] Prima serie di trattati:

‘Sulle proposizioni (1 libro)’, ‘Sulle proposizioni non semplici (1 libro)’, ‘Sul periodo copulativamente coordinato, ad Atenade (2 libri)’, ‘Sulle proposizioni negative, ad Aristagora (tre libri)’, [II,5,10] ‘Sulle proposizioni determinative, ad Atenodoro (1 libro)’, ‘Sugli enunciati per privazione, a Tearo (1 libro)’, ‘Sulle proposizioni indefinite, a Dione (3 libri)’, ‘Sulla differenza tra proposizioni indefinite (4 libri)’, ‘Sugli enunciati temporali (2 libri)’, [II,5,15] ‘Sulle proposizioni perfettive (2 libri)’.

Seconda serie di trattati:

‘Sul vero periodo disgiuntivo, a Gorgippide (1 libro)’, ‘Sul vero periodo ipotetico, a Gorgippide (4 libri)’, ‘La scelta, a Gorgippide (1 libro)’, [II,5,20] ‘Contributo sulle proposizioni consecutive (1 libro)’, ‘Sul periodo a tre termini, di nuovo a Gorgippide (1 libro)’, ‘Sui possibili, a Clito (4 libri)’, ‘Contro il “Sui significati” di Filone (1 libro)’, ‘Su quali siano gli enunciati falsi (1 libro)’.

[II,5,25] Terza serie di trattati:

‘Sugli imperativi (2 libri)’, ‘Sulla domanda (2 libri)’, ‘Sull’interrogazione (4 libri)’, ‘Compendio sulla domanda e sull’interrogazione (1 libro)’, [II,5,30] ‘Compendio sulla risposta (1 libro)’, ‘Sulla ricerca (1 libro)’, ‘Sulla risposta (1 libro)’.

Quarta serie di trattati:

‘Sui predicati, a Metrodoro (dieci libri)’, [II,5,35] ‘Sui predicati attivi e passivi, a Filarco (1 libro)’, ‘Sui congiuntivi (1 libro)’, ‘A Pasilo, sui predicati (4 libri)’.

SVF II, 14

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 192.

Quinta serie di trattati:

[II,6,1] ‘Sui cinque casi (1 libro)’, ‘Sugli enunciati definiti secondo il caso in oggetto (1 libro)’, ‘Sul diverso significato dei casi, a Stesagora (2 libri)’, [II,6,5] ‘Sugli appellativi (2 libri)’.

III. Ambito logico: sulle locuzioni e il discorso risultante

Prima serie di trattati:

‘Sugli enunciati singolari e plurali (6 libri)’, ‘Sulle locuzioni, a Sosigene e ad Alessandro (5 libri)’, [II,6,10] ‘Sull’anomalia nelle locuzioni, a Dione (4 libri)’, ‘Sui soriti applicati alle voci (3 libri)’, ‘Sui solecismi (1 libro)’, ‘Sui discorsi contenenti solecismi, a Dioniso (1 libro)’, ‘Linguaggi inconsueti (1 libro)’, [II,6,15] ‘La locuzione, a Dioniso (1 libro)’.

Seconda serie di trattati:

‘Sugli elementi del discorso e delle frasi (5 libri)’, ‘Sulla sintassi delle frasi (4 libri)’, ‘Sulla sintassi e sugli elementi delle frasi, a Filippo (3 libri)’, [II,6,20] ‘Sugli elementi del discorso, a Nicia (1 libro)’, ‘Sulla frase relativa (1 libro)’.

Terza serie di trattati:

‘Contro coloro che non praticano la diairesi (2 libri)’, ‘Sulle anfibolie, ad Apollas (4 libri)’, ‘Sulle anfibolie tropiche (1 libro)’, [II,6,25] ‘Sull’anfibolia tropica ipotetica (2 libri)’, ‘Contro il “Sulle anfibolie” di Pantoide (2 libri)’, ‘Sull’introduzione alle anfibolie (5 libri)’, ‘Compendio delle anfibolie, a Epicrate (1 libro)’, [II,6,30] ‘Raccolta per l’introduzione alle anfibolie (2 libri)’.

IV. Ambito logico: per i ragionamenti e i tropi

Prima serie di trattati:

‘Arte dei ragionamenti e dei tropi (5 libri)’, ‘Sui ragionamenti (3 libri)’, [II,6,35] ‘Sulla impostazione dei tropi, a Stesagora (2 libri)’, ‘Paragone delle proposizioni tropiche (1 libro)’, ‘Sui ragionamenti reversibili e ipotetici (1 libro)’, ‘Ad Agatone o sui problemi in serie (1 libro)’, ‘Su quali premesse siano valide in un sillogismo in relazione ad una o più altre premesse [II,6,40] (1 libro)’, [II,7,1] ‘Sulle conclusioni logiche, ad Aristagora (1 libro)’, ‘Sulla formulazione di un medesimo ragionamento in più tropi (1 libro)’, ‘Contro le obiezioni al fatto che il medesimo ragionamento sia stato formulato sillogisticamente e non sillogisticamente (2 libri)’, [II,7,5] ‘Contro le obiezioni alle risoluzioni dei sillogismi (3 libri)’, ‘Contro il “Sui tropi” di Filone, a Timostrato (1 libro)’, ‘Raccolte logiche contro le opere “Sui ragionamenti e sui tropi” di Timocrate e di Filomate, (1 libro)’.

SVF II, 15

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 195.

Seconda serie di trattati:

[II,7,10] ‘Sui ragionamenti concludenti, a Zenone (1 libro)’, ‘Sui sillogismi primi e anapodittici, a Zenone (1 libro)’, ‘Sulla risoluzione dei sillogismi (1 libro)’, ‘Sui ragionamenti ridondanti, a Pasilo (2 libri)’, ‘Sui principi generali dei sillogismi (1 libro)’, [II,7,15] ‘Sui sillogismi introduttivi, a Zenone (1 libro)’, ‘I tropi introduttivi, a Zenone (3 libri)’, ‘Sui sillogismi con figure false (5 libri)’, ‘Ragionamenti sillogistici risolti in anapodittici (1 libro)’, ‘Ricerche tropiche, a Zenone e Filomate [II,7,20] [ma quest’opera è ritenuta spuria] (1 libro)’.

Terza serie di trattati:

‘Sui ragionamenti equivoci, a Atenade [ma quest’opera è ritenuta spuria] (1 libro)’, ‘Ragionamenti equivoci nel termine intermedio [ma quest’opera è ritenuta spuria] (3 libri)’, ‘Contro i ragionamenti disgiuntivi di Aminia (1 libro)’.

[II,7,25] Quarta serie di trattati:

‘Sulle ipotesi, a Meleagro (3 libri)’, ‘Ragionamenti per ipotesi sulle leggi, di nuovo a Meleagro (1 libro)’, ‘Ragionamenti per ipotesi, a mo’ d’introduzione (2 libri)’, ‘Ragionamenti per ipotesi sui principi generali (2 libri)’, [II,7,30] ‘Soluzione dei ragionamenti per ipotesi di Edilo (2 libri)’, ‘Soluzione dei ragionamenti per ipotesi di Alessandro [ma quest’opera è ritenuta spuria] (3 libri)’, ‘Sulle esposizioni, a Laodamante (1 libro)’.

Quinta serie di trattati:

‘Sulla introduzione al “Mentitore”, ad Aristocreonte (1 libro)’, [II,7,35] ‘Ragionamenti falsi, a mo’ d’introduzione (1 libro)’, ‘Sul “Mentitore”, ad Aristocreonte (6 libri)’.

Sesta serie di trattati:

‘Contro coloro che legittimano l’idea che le proposizioni siano ad un tempo false e vere (1 libro)’, [II,7,40] ‘Contro coloro che risolvono il ragionamento “Mentitore” per stralcio, ad Aristocreonte (2 libri)’, ‘Dimostrazioni che non si devono stralciare le proposizioni indefinite (1 libro)’, [II,8,1] ‘Contro le obiezioni dei favorevoli allo stralcio delle proposizioni indefinite, a Pasilo (3 libri)’, ‘Soluzione secondo gli antichi, a Dioscuride (1 libro)’, ‘Sulla soluzione del “Mentitore”, ad Aristocreonte (3 libri)’, ‘Soluzione dei ragionamenti per ipotesi di Edilo, ad Aristocreonte ed Apollas (1 libro)’.

[II,8,5] Settima serie di trattati:

‘Contro quanti sono dell’avviso che le premesse del “Mentitore” siano false (1 libro)’, ‘Sul ‘Diniegatore’, ad Aristocreonte (2 libri)’, ‘Ragionamenti diniegatori, per esercizio (1 libro)’, ‘Sul ragionamento “Approssimativo”, a Stesagora (2 libri)’, [II,8,10] ‘Sui ragionamenti “Per farsi delle concezioni” e “Quiescenti”, a Onetore (2 libri)’, ‘Sul “Velato”, ad Aristobulo (2 libri)’, ‘Sul “Nascosto”, ad Atenade (1 libro)’.

SVF II, 16

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 198.

Ottava serie di trattati:

‘Sul “Nessuno”, a Menecrate (8 libri)’, [II,8,15] ‘Sui ragionamenti a premessa indefinita e definita, a Pasilo (2 libri)’, ‘Sul ragionamento “Nessuno”, a Epicrate (1 libro)’.

Nona serie di trattati:

‘Sui sofismi, a Eraclide e Pollide (2 libri)’, ‘Sulle questioni dialettiche insolubili, a Dioscuride (5 libri)’, [II,8,20] ‘Contro il metodo di Arcesilao, a Sfero (1 libro)’.

Decima serie di trattati:

‘Contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni, a Metrodoro (6 libri)’, ‘A favore della comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni, a Gorgippide (7 libri)’.

V. Ambito logico: libri che esulano dalle quattro predette differenti sezioni [II,8,25] e che includono ricerche logiche sparse e non organiche con quelle catalogate.

Si tratta di 39 libri di ricerche, su un totale di 311 libri di logica.

1. Ambito etico: sulla articolazione dei concetti etici.

Prima serie di trattati:

[II,8,30] ‘Delineazioni del discorso etico, a Teoporo (1 libro)’, ‘Tesi etiche (1 libro)’, ‘Premesse plausibili ai principi dottrinali, a Filomate (3 libri)’, ‘Definizioni del concetto di virtuoso, a Metrodoro (2 libri)’, ‘Definizioni del concetto di vizioso, a Metrodoro (2 libri)’, [II,8,35] ‘Definizioni del concetto di intermedio, a Metrodoro (2 libri)’, ‘Definizioni dei concetti secondo il genere, a Metrodoro (7 libri)’, ‘Definizioni dei concetti secondo le altre arti, a Metrodoro (2 libri)’.

[II,9,1] Seconda serie di trattati:

‘Sui simili, ad Aristocle (3 libri)’, ‘Sulle definizioni, a Metrodoro (7 libri)’.

Terza serie di trattati:

[II,9,5] ‘Su coloro che obiettano non rettamente al ‘Sulle definizioni’, a Laodamante (7 libri)’, ‘Argomenti plausibili a sostegno del ‘Sulle definizioni’, a Dioscuride (2 libri)’, ‘Sulle specie e sui generi, a Gorgippide (2 libri)’, ‘Sulle diairesi (1 libro)’, ‘Sui contrari, a Dionisio (1 libro)’, [II,9,10] ‘Argomenti plausibili a sostegno del ‘Sulle diairesi’, del ‘Sulle specie e sui generi’ e del ‘Sui contrari’ (1 libro)’.

Quarta serie di trattati:

‘Sulle etimologie, a Diocle (7 libri)’, ‘Etimologie, a Diocle (4 libri)’.

[II,9,15] Quinta serie di trattati:

‘Sui proverbi, a Zenodoto (2 libri)’, ‘Sui poemi, a Filomate (1 libro)’, ‘Sul come si debbano ascoltare i poemi (2 libri)’, ‘Contro i critici, a Diodoro (1 libro)’.

SVF II, 17

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 201.

2. [II,9,20] Ambito etico: sul discorso comune e sulle arti e virtù che da questo derivano.

Prima serie di trattati:

‘Contro le raffigurazioni pittoriche, a Timonatte (1 libro)’, ‘Sul modo in cui noi diciamo e pensiamo ciascuna cosa (1 libro)’, [II,9,25] ‘Sui concetti, a Laodamante (2 libri)’, ‘Sulle concezioni, a Pitonatte (3 libri)’, ‘Dimostrazioni che il sapiente non opina (1 libro)’, ‘Sull’apprensione certa, la scienza e l’ignoranza (4 libri)’, ‘Sul ragionamento (2 libri)’, [II,9,30] ‘Sull’uso del ragionamento, a Leptine’.

Seconda serie di trattati:

‘Sull’ammissione della dialettica da parte degli antichi, con le relative dimostrazioni; a Zenone (2 libri)’, ‘Sulla dialettica, ad Aristocreonte (4 libri)’, [II,9,35] ‘Sulle obiezioni ai dialettici (3 libri)’, ‘Sulla retorica, a Dioscuride (4 libri)’.

Terza serie di trattati:

‘Sulla postura morale, a Cleone (3 libri)’, ‘Sull’arte e sull’imperizia nell’arte, ad Aristocreonte (4 libri)’, [II,9,40] ‘Sulla differenza tra le virtù, a Diodoro (4 libri)’, ‘Sull’essere le virtù delle qualità (1 libro)’, ‘Sulle virtù, a Pollide (2 libri)’.

SVF II, 18

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 202.

3. [II,10,1] Ambito etico: sui beni e sui mali.

Prima serie di trattati:

‘Sul bello e sul piacere fisico, ad Aristocreonte (10 libri)’, ‘Dimostrazioni che il piacere fisico non è un fine (4 libri)’, [II,10,5] ‘Dimostrazioni che il piacere fisico non è un bene, (4 libri)’, ‘Sugli argomenti a favore di […]

SVF II, 19

Valerio Massimo ‘Factorum et dictorum memorabilium’ VIII, 7, 10. Crisippo fu meno longevo <di Isocrate> ma non di molto; giacché all’età di ottant’anni ci lasciò il trentanovesimo volume delle ‘Ricerche Logiche’, [II,10,10] un’opera di straordinaria acutezza. La sua appassionata dedizione allo studio, mirata a lasciarci testimonianza del suo ingegno, lo sostenne nell’affrontare una tale mole di lavoro che già per conoscere le cose che ha scritto ci vuole una lunga vita.

SVF II, 20

Numenio presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XIV, p. 728a. Le sette [II,10,15] Stoiche sono state tra di loro in conflitto già a partire dai fondatori e non finiscono di esserlo neppure ora. Gli Stoici amano contestarsi a vicenda in modo astioso, e mentre alcuni di essi si sono mantenuti sulle loro posizioni altri, invece, le hanno modificate. I primi Stoici somigliano dunque a dei perfetti oligarchi i quali, con i loro dissidi, sono stati causa per i successori di violente invettive sia contro i predecessori sia tra di loro, al fine di essere gli uni più Stoici degli altri. [II,10,20] Questo vale soprattutto per quanti davano maggior peso alle inezie tecniche; giacché proprio costoro, superando gli altri in impiccioneria e nelle vane sottigliezze, erano i più rapidi a lanciare invettive.

SVF II, 21

Origene ‘Contra Celsum’ II, 12, Vol. I p. 141, 7 (p. 297 Delarue). In molti luoghi delle sue compilazioni, anche Crisippo appare [II,10,25] attaccare Cleante, introducendo delle innovazioni contrarie all’opinione di quello, che pure era stato suo maestro da giovane e dal quale aveva appreso i principi della filosofia […] e si dice anche che Crisippo abbia fatto conversazione filosofica presso Cleante per non poco tempo.

SVF II, 22

Origene ‘Contra Celsum’ I, 39, Vol. I p. 91, 20 (p. 357 Delarue). [II,10,30] Quando Crisippo, in molti luoghi, rende pubblici i libri che lo hanno mosso, ci rimanda ad autori che noi potremmo trovare capaci di parlare meglio di lui.

SVF II, 23

Origene ‘Contra Celsum’ V, 57, Vol. II p. 60, 5 (p. 621 Delarue). A volte si danno a vedere agli uomini dei fatti paradossali, e tra i Greci li hanno riferiti non soltanto coloro che si sottintende siano dei raccontatori di favole ma anche coloro [II,10,35] che dimostrano di filosofare quanto più genuinamente si possa e di esporre in modo quanto più veritiero si possa i fatti loro sopraggiunti. Queste cose abbiamo letto in Crisippo di Soli […]

SVF II, 24

[1] Galeno ‘De differentia pulsuum’ 10, Vol. VIII, p. 631 K. Molto di ciò si trova nel bisnonno della loro setta, Crisippo. Questi infatti legifera sui nomi più di quanto abbia legiferato Solone [II,10,40] collocando leggi per gli Ateniesi sulle tavole girevoli, anche se è poi lui il primo a fare confusione […]

Ora, la cosa più strana è che Crisippo, non generato né nutrito ad Atene [II,11,1] ma giuntovi appena ieri dalla Cilicia, prima ancora di avere precisamente imparato a memoria una qualunque voce greca mette mano a dettar legge sui nomi agli Ateniesi […] Su quanta sia poi l’insolenza di Crisippo verso il dialetto degli Ateniesi, avremmo forse occasione di dilungarci un’altra volta.

[2] Fozio ‘Lexicon’ s.v. ‘méntoi’ . [II,11,5] Il ‘ménton’ che Crisippo usa è una forma barbara.

SVF II, 25

[1] Quintiliano ‘Institutio oratoria’ X, 1, 84. Gli Stoici antichi concessero ben poco all’eloquenza poiché esortavano alla pratica della virtù, e quindi per loro valevano infinitamente di più le regole che avevano stabilito per le argomentazioni e le dimostrazioni logiche. Essi erano pertanto fortissimi ragionatori sui fatti piuttosto che, [II,11,10] cosa che neppure mai rivendicarono di essere, magnifici oratori.

[2] XII, 2, 25. Gli Stoici, come di necessità concedono che ai loro maestri fece difetto l’abbondanza e il nitore dell’eloquenza, così confutano l’esistenza di qualcuno più efficace di loro nel dimostrare o più sottile nel trarre conclusioni.

SVF II, 26

Cicerone ‘De oratore’ I, 50. Difatti vediamo che di queste stesse questioni alcuni hanno discusso in stile arido e magro: come quel Crisippo che si dice fosse acutissimo, [II,11,15] e che non ha mancato di essere pienamente filosofo sebbene non possedesse quella capacità di esprimersi che viene da un’arte diversa dalla filosofia.

SVF II, 27

Frontone ‘Epistulae’ (ad M. Antoninum de eloquentia) p. 146 Naber. Dov’è finito il tuo acume? E la tua perspicacia? Svegliati, e bada a cosa vuole Crisippo in persona. S’accontenta forse egli di insegnare, palesare una cosa, [II,11,20] definirla e spiegarla? Non s’accontenta, ma l’amplifica quanto può, la esagera, anticipa le obiezioni, ripete, pospone, torna indietro, fa domande, descrive, suddivide, inventa personaggi fittizi, mette le sue parole in bocca a qualcun altro. Questo significano i verbi greci: αὔξειν, διασκευάζειν, ἐξεργάζεσθαι, πάλιν λέγειν, ἐπαναφέρειν, παράπτειν, προσωποποιεῖν.

SVF II, 28

Dionigi di Alicarnasso ‘De compositione verborum’ p. 30 Re. [II,11,25] E perché bisogna ammirare costoro quando anche i professionisti della filosofia e i divulgatori delle arti dialettiche sono ad un livello così meschino nel mettere insieme i nomi che fa specie il parlarne? Basta usare come prova il linguaggio dello Stoico Crisippo, giacché io non procederei oltre. Tra coloro che sono degni del nome e della fama di filosofi, [II,11,30] nessuno meglio di lui è infatti stato preciso nelle arti dialettiche e nessuno ha divulgato discorsi composti con peggiore armonia tra le parti. Eppure alcuni di loro si sono arrogati il vanto d’essersi industriati anche in questo campo, come necessario per il discorso; ed hanno scritto alcuni trattati tecnici sulla sintassi delle parti del discorso. Ma molti, o meglio tutti, [II,11,35] se ne sono andati errando ben lontano dalla verità e neppure in sogno hanno visto cos’è che rende piacevole ed bella la composizione.

SVF II, 29

Epitteto ‘Diatribe’ I, 17, 15-17. Ma, per Zeus, non comprendo il piano della natura. Chi dunque me lo spiega? Dicono che sia Crisippo. Vengo e ricerco cosa dice questo interprete della natura. Inizio [II,11,40] a non capire cosa dice e cerco il commentatore. “Ecco, esamina… Com’è detto bene questo, proprio come fosse in latino!” Qua, dunque, quale giustificazione ha il cipiglio del commentatore?

SVF II, 30

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1035b. Ma questo discorso sugli dei, che <Crisippo> afferma dover essere posizionato per ultimo, egli invece lo posiziona abitualmente per primo e lo antepone ad ogni ricerca etica. Nel suo libro ‘Sui sommi beni’, [II,11,45] in quelli ‘Sulla giustizia’, ‘Sui beni e sui mali’, ‘Sul matrimonio e l’allevamento dei figli’, ‘Sulla legge’ e sulla costituzione politica’ non pronuncia una parola sola [II,12,1] se non non ha prima scritto di Zeus, del Destino, della Prònoia, che il cosmo è tenuto insieme da una forza sola essendo uno e finito; proprio come fanno i responsabili della promulgazione dei decreti cittadini, i quali li fanno precedere dalla scritta: ‘Con Buona Fortuna’.

SVF II, 31

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1046a. [II,12,5] Perché dunque proprio tu <Crisippo>, qualcuno potrebbe dire, non smetti mai di combattere e di contestare uomini di tale qualità e di tale grandezza, tu che li ritieni sbagliare sulle questioni assolutamente principali e più importanti? Giacché essi di sicuro non scrissero con tanta serietà della dialettica e invece alla leggera e per scherzo del principio, del fine, degli dei e della giustizia: [II,12,10] tutti argomenti sui quali invece tu chiami il loro ragionamento cieco, contraddittorio e pieno di miriadi di altri errori.

SVF II, 32

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1036b. Che non in pochi ma in molti luoghi Crisippo abbia strutturato dei ragionamenti opposti a quelli che valuta corretti e che l’abbia fatto vigorosamente, con tanta industriosità ed ambizione d’onore [II,12,15] che non è da tutti il decifrare a quali egli desse il suo beneplacito, gli Stoici lo dicono esplicitamente mentre ammirano la valentia di quell’uomo. Essi credono anche che Carneade nulla dica di suo proprio, ma che attacchi i ragionamenti di Crisippo prendendo spunto dalle argomentazioni che Crisippo stesso aveva approntato a sostegno dell’opinione contraria; e che l’inciso che Carneade spesso pronuncia ‘O mio signore, la tua vitalità ti perderà’, significa che Crisippo dà grandi risorse contro se stesso [II,12,20] a coloro che vogliono rovesciarne i principi dottrinali e calunniarli.

SVF II, 33

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1059b. Si potrebbe quasi legittimare l’idea che Crisippo sia nato dopo Arcesilao e prima di Carneade non per divina opera della Fortuna ma della Prònoia. […] Pertanto Crisippo, nascendo tra i due, con le sue repliche polemiche ad Arcesilao sbarrò anche il passo alla valentia dialettica di Carneade, poiché [II,12,25] lasciò molti presidi a difesa della sensazione, come fossero aiuti in caso di assedio; eliminò del tutto i motivi di sommossa tra le prolessi e i concetti, correggendo ciascuna e ponendola al proprio posto; di modo che quanti decidessero di sbattere un’altra volta fuori dalla porta i fatti oppure di violentarli non concludessero nulla ma fossero contestati come malfattori e sofisti.

SVF II, 34

Cicerone ‘De finibus’ I, 6. Del resto quale aspetto [II,12,30] dello Stoicismo è stato trascurato da Crisippo? E tuttavia leggiamo Diogene, Antipatro, Mnesarco, Panezio, molti altri e soprattutto il nostro familiare Posidonio.

[II,15,1] Prolegomeni alla filosofia

Cos’è la filosofia. Le parti della filosofia. L’ordine delle sue parti

Frammenti n. 35-44

SVF II, 35

Aezio ‘Placita’ I, Proem. 2 (Dox. Gr. p. 273, 11). Gli Stoici affermavano che la sapienza è scienza delle cose divine ed umane; [II,15,5] che la filosofia è l’esercizio pratico dell’arte idonea ad essa; che quest’arte idonea, una e suprema, è la virtù; e che le virtù più generiche sono tre: la fisica, l’etica e la logica. Per questo motivo anche la filosofia è tripartita e le sue parti sono la fisica, l’etica e la logica. La fisica si ha quando noi facciamo ricerche sul cosmo e sulle cose che esso contiene; etica è la parte che si occupa a fondo [II,15,10] della vita umana, e la logica è quella che concerne la ragione, parte che essi chiamano anche dialettica.

SVF II, 36

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 13. Essi affermano che la filosofia è studio e pratica attenta della sapienza e che la sapienza è scienza delle cose divine ed umane.

SVF II, 37

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 39. <Gli Stoici affermano che> la ragione insita nel cosmo è, secondo filosofia, tripartita. [II,15,15] Una sua parte, infatti, è qualcosa di fisico, un’altra di etico e un’altra di logico. Così per primo la suddivisero Zenone […] e Crisippo nel primo libro ‘Sulla ragione’ e nel primo libro della ‘Fisica’. […] Apollodoro chiama queste parti ‘ambiti’, Crisippo ed Eudromo le chiamano ‘specie’. Altri le chiamano ‘generi’.

SVF II, 38

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 16. [II,15,20] <[…] più soddisfacente è l’opinione di> quanti affermano che la filosofia è divisa in fisica, etica e logica. […] Coloro che si attengono più espressamente a questa suddivisione sono quelli della cerchia di Senocrate, i Peripatetici e inoltre gli Stoici. Di conseguenza essi agguagliano plausibilmente la filosofia ad un frutteto ricco d’ogni sorta di frutti, affinché la fisica sia simboleggiata dall’elevatezza delle piante, l’etica [II,15,25] dal gusto saporito dei frutti e la logica dalla fortificazione delle mura. Altri affermano che la filosofia è simile ad un uovo. L’etica somiglierebbe al tuorlo, che alcuni dicono essere il pulcino; la fisica all’albume, che è il nutrimento del tuorlo; e la logica al guscio esterno. Tuttavia Posidonio, poiché le parti della filosofia sono inseparabili una dall’altra mentre invece le piante hanno un aspetto diverso dai frutti [II,15,30] e le mura sono separate dalle piante, sollecitava di far rassomigliare la filosofia piuttosto ad un animale, [II,16,1] col sangue e la carne che simboleggiano la fisica; le ossa e i tendini, la logica; e l’animo l’etica.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 40. <Gli Stoici> fanno rassomigliare la filosofia ad un animale, assimilando la logica alle ossa e ai tendini, l’etica alle parti più carnose e [II,16,5] la fisica all’animo. Oppure la fanno rassomigliare ad un uovo: la logica è il guscio dell’uovo, l’etica è la parte intermedia e la fisica è la parte interna. Oppure la fanno rassomigliare ad un campo ferace: la logica è lo steccato di recinzione, l’etica è il frutto e la fisica è la terra e gli alberi. Oppure la fanno rassomigliare ad una città ben fortificata e governata secondo ragione.

SVF II, 39

[1] Filone Alessandrino ‘De agricultura’ 14, Vol. II, p. 97, 24 Wendl. [II,16,10] Poiché secondo la filosofia la ragione è trigemina, si dice che gli antichi l’abbiano raffigurata come un campo, paragonando la sua parte fisica agli alberi e alle piante; la sua parte etica ai frutti, in funzione dei quali ci sono le piante; e la sua parte logica allo steccato e al recinto.

[2] 16. […] qualora semplifichi [II,16,15] le espressioni duplici e ambigue, dissolva la persuasività dei sofismi ed elimini i seduttivi inganni grazie a ragionamenti trasparentissimi e dimostrazioni indiscutibili, la logica rende la mente liscia come una tavoletta di cera, pronta ad accogliere i caratteri che vi saranno lasciati dalla fisica e dall’etica.

SVF II, 40

Origene ‘Comm. in Matth.’ III, p. 778, Delarue. [II,16,20] Vedi dunque se, secondo la Sacra Scrittura, noi possiamo chiamare lo studio della natura vigneto; se possiamo dire che la vita conseguente allo studio della vera natura, quella che reca frutto in virtù e nei più eccellenti costumi, è il frutto del vigneto; se possiamo dire che la logica (e tutta la lettera della Scrittura) è lo steccato [II,16,25] che circonda il vigneto all’esterno […]

SVF II, 41

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 40. Nessuna <delle tre parti della filosofia> è separata dalle altre, come pure affermano alcuni di loro. Esse sono invece intimamente mescolate e <gli Stoici> ne facevano la trasmissione mista.

SVF II, 42

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1035a. Crisippo crede che i giovani [II,16,30] debbano ascoltare per prime le lezioni di logica, per seconde quelle di etica, dopo di queste quelle di fisica e, al pari di queste discipline, familiarizzarsi per ultimo con il discorso sugli dei. Poiché queste cose egli le ha dette spesso, basterà citare le sue testuali parole nel quarto libro dell’opera ‘Sulle vite’:

“In primo luogo io reputo, in armonia con le [II,16,35] rette affermazioni degli antichi, che le principali dottrine generali del filosofo siano di tre generi: la dottrina logica, quella etica e quella fisica. In secondo luogo reputo che la logica debba essere posta in prima posizione, l’etica in seconda e la fisica in terza; e che ultimo tra i discorsi di fisica debba [II,17,1] essere quello sugli dei. È per questo che gli antichi chiamavano pubblicamente la trasmissione di questo discorso ‘iniziazione’ ”.

SVF II, 43

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 40. Altri invece posizionano per prima la logica, per seconda la fisica e per terza l’etica. Tra questi vi è Zenone, [II,17,5] nel suo libro ‘Sulla ragione’ e Crisippo […]

SVF II, 44

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 22. Anche gli Stoici affermano che al primo posto viene la logica, al secondo l’etica e che per ultima va posizionata la fisica. In primo luogo bisogna infatti che la mente abbia acquistato sicurezza nel custodire in modo incrollabile i principi che le sono trasmessi, e la dialettica è appunto quella che fortifica l’intelletto. [II,17,10] In secondo luogo bisogna delineare la teoria etica con in vista il miglioramento dei costumi. L’accettazione dell’etica è infatti senza pericolo quando avvenga sulla base di una preesistente capacità logica. Per ultimo bisogna impartire l’insegnamento della teoria fisica, giacché essa è più divina e necessita di una riflessione più approfondita.

[II,18,1] La filosofia di Crisippo

Parte I

La Logica

Frammenti n. 45-51

SVF II, 45

Cicerone ‘De finibus’ IV, 4, 9. Non sono forse stati <gli antichi> a stabilire quei principi che i professori di logica oggi tramandano insegnando? [II,18,5] Anche se Crisippo trattò di questi principi con ampiezza, Zenone si occupò di essi assai meno dei filosofi antichi, e su alcuni punti non fece meglio dei predecessori mentre su altri sorvolò completamente. Sono due le arti che coprono l’intero campo del ragionamento e dell’oratoria: una è quella dei Luoghi Topici, l’altra è la Logica. [II,18,10] Quest’ultima è stata trattata sia dagli Stoici che dai Peripatetici; mentre la prima, pur insegnata in modo eccellente dai Peripatetici, non è stata per nulla toccata dagli Stoici.

SVF II, 46

Galeno ‘De libris propriis’ 11, Vol. XIX, p. 40 K. Intendo dire che i filosofi Peripatetici, Stoici e Platonici differiscono gli uni dagli altri nella teoria logica, e inoltre che all’interno di ogni singola Scuola i filosofi si differenziano [II,18,15] ulteriormente tra di loro. La disarmonia interna è in qualche modo piccola tra i Peripatetici, mentre è invece grande tra gli Stoici e tra i Platonici.

SVF II, 47

Galeno ‘De differentia pulsuum’ II, 4, Vol. VIII, p. 578 K. Non ho trovato questo nome in nessuno degli scrittori Greci, sicché non so bene a quale fatto esso sia stato da Archigene applicato; anche perché egli non ha scritto un libro [II,18,20] sulla terminologia che usa, come invece ha fatto Crisippo per i nomi che da lui impiegati in dialettica.

SVF II, 48

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 41. Taluni affermano che la parte logica della filosofia si suddivide in due scienze: la retorica e la dialettica.

[2] VII, 42. La retorica è la scienza del parlare forbito su argomenti minuziosamente esposti. [II,18,25] La dialettica è la scienza del dialogare rettamente quando il discorso consiste di domande e risposte. Essi definiscono pertanto la dialettica anche in questo modo: scienza delle affermazioni vere, di quelle false e di quelle né vere né false.

SVF II, 49

[1] Ammonio ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 8, 20 Wal. [II,19,1] Gli Stoici sollecitano di non chiamare la logica uno strumento della filosofia e neppure un suo pezzo qualunque, bensì una sua parte costitutiva.

[2] p. 9, 1. Gli Stoici affermano che è proprio la filosofia a generare da se stessa [II,19,5] la logica, la quale ne sarebbe così una parte costitutiva; e fanno molti altri discorsi del genere di bassa lega, attraverso i quali credono di strutturare la prova che la logica sia una parte costitutiva della filosofia. Lasciamo da parte la maggior parte di quei discorsi e parliamo di quello che essi credono il discorso più strutturale e più sottile e che presentano sotto forma del seguente sillogismo. Se un’arte utilizza qualcosa che è né [II,19,10] una parte costitutiva né un pezzo accessorio di alcun’altra arte, questo qualcosa è a tutti gli effetti una parte costitutiva o un pezzo accessorio di quest’arte. Per esempio, essi affermano, la medicina utilizza la chirurgia, e poiché nessun’altra arte utilizza la chirurgia come parte costitutiva o come pezzo accessorio, la chirurgia non è uno strumento della medicina. La filosofia, dicono poi, utilizza la logica e la logica è [II,19,15] né una parte costitutiva né un pezzo accessorio di alcun’altra arte. La logica pertanto è non un organo della filosofia, ma una parte costitutiva o un pezzo accessorio di essa. Se qualcuno dice che anche altre arti utilizzano la logica, dal momento che la medicina e tutte le altre arti utilizzano i sillogismi, diremo che anch’esse li utilizzano ma che non sono scienziate dei loro metodi e che non s’industriano cardinalmente [II,19,20] in questo. Per esempio, il medico non s’industria cardinalmente sul metodo sillogistico; né tu diresti che il metodo sillogistico sia una parte costitutiva o un pezzo accessorio della medicina, bensì diresti che per quanto il metodo sillogistico è proficuo al medico per la dimostrazione dei principi generali della medicina, per tanto il medico lo assume dal dialettico come strumento; mentre invece è il filosofo l’unico scienziato soprattutto di questo metodo. Per questa via gli Stoici [II,19,25] credono di strutturare la prova che la logica non è uno strumento della filosofia. Orbene, vediamo adesso come essi strutturano la prova che la logica è una parte costitutiva della filosofia e non un pezzo accessorio di essa. Essi dicono che materiale delle tre articolazioni della filosofia pratica sono le vicende umane e che il suo fine è la felicità della vita umana, felicità che l’uomo godente dei diritti politici s’industria di procacciarsi. A sua volta, materiale delle articolazioni della filosofia teoretica sono le faccende divine ed il suo fine è la felicità teoretica. [II,19,30] La trattazione logica della realtà ha né lo stesso materiale né lo stesso fine. Materiale della logica sono infatti i discorsi, mentre il suo fine è il conoscimento dei metodi dimostrativi; e tutto il resto converge in questo, ossia nella dimostrazione scientifica di qualcosa. Sicché la logica non può essere posizionata né sotto una parte della filosofia né sotto l’altra. Se pertanto la logica tratta tanto delle faccende umane che di quelle divine, (e [II,19,35] infatti noi l’abbiamo utilizzata sia dialogando di faccende umane che di faccende divine) essa non ha dunque a che fare soltanto con le faccende umane, come lo hanno le articolazioni della filosofia pratica; né soltanto con le faccende divine, come lo hanno le articolazioni della filosofia teoretica. Sicché essa non è un pezzo accessorio ma una parte costitutiva della filosofia.

[II,19,40]

SVF II, 49a

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 1, 9 Wal. Coloro dunque che dicono che la logica è una parte della filosofia furono portati a ciò perché, come nel caso della filosofia teoretica e della filosofia pratica, che tutti ammettono essere sue parti, la filosofia fa [II,19,45] del loro rinvenimento, ordinamento e impostazione il proprio compito; così essa lo fa anche nei riguardi della trattazione logica, la quale è opera della filosofia [II,20,1] e non è un pezzo accessorio di nessuna delle due restanti parti di essa, né di quella teoretica né di quella pratica. Diverso è infatti l’oggetto della logica rispetto a quello della filosofia teoretica e della filosofia pratica, e differente è il proposito per ciascuna di esse. Ora, poiché queste differiscono una dall’altra per oggetto e per proposito distinguendosi per opposizione; e poiché il metodo logico differisce dai metodi di ciascuna di quelle, [II,20,5] è ben ragionevole che la logica si distingua da esse per opposizione. La logica differisce infatti dalla filosofia teoretica e dalla filosofia pratica per oggetto, essendo i suoi oggetti delle proposizioni e delle premesse, e inoltre per fine e per proposito. Il proposito della logica è infatti quello di dimostrare, attraverso una certa connessione delle premesse a partire da premesse poste e convenute, che ne viene di necessità dedotta una conclusione; il che non è un fine né della filosofia teoretica né della filosofia pratica.

SVF II, 50

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1035e. [II,20,10] Se qualcuno dirà che Crisippo ha scritto nel suo libro ‘Sull’uso del ragionamento’ che: “Chi ha intrapreso per primo lo studio della logica non deve assolutamente astenersi dallo studio della fisica e dell’etica, ma deve intraprendere lo studio anche di queste secondo le circostanze date”, dirà una verità […]

SVF II, 51

Epitteto ‘Diatribe’ I, 17, 10. [II,20,15] Bastevole è il fatto che la logica è atta a distinguere e ad esaminare le altre cose e, come uno direbbe, a misurarle e pesarle. Chi dice questo? Solamente Crisippo, Zenone e Cleante?

[II,21,1] Cap. I

La dottrina della conoscenza

§ 1. Sulla rappresentazione

Frammenti n. 52-70

SVF II, 52

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 49. [II,21,5] “La scelta di mettere in prima posizione il discorso sulla rappresentazione e sulla sensazione ha il beneplacito degli Stoici, perché il criterio grazie al quale si riconosce la verità dei fatti è generalmente una rappresentazione; e perché il discorso sull’assenso, sull’apprensione certa e sull’intellezione, che ha la precedenza sugli altri, non sussiste in mancanza di rappresentazione. In prima istanza viene infatti [II,21,10] la rappresentazione; dopo di che l’intelletto, in quanto atto alla produzione di enunciati, enuncia in forma discorsiva ciò che sperimenta ad opera della rappresentazione”.

SVF II, 53

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 46. La rappresentazione è un’impronta nell’animo. Il nome ‘impronta’ è una metafora appropriata, presa dall’impronta lasciata nella cera da un anello con sigillo. La rappresentazione può essere catalettica [II,21,15] o acatalettica. La rappresentazione catalettica, che gli Stoici affermano essere criterio di verità dei fatti reali, è quella che nasce da un oggetto esistente e che è stata suggellata e ben ricalcata in conformità all’esistente stesso. La rappresentazione acatalettica è quella che nasce dal non esistente, oppure da un oggetto esistente ma non in conformità all’esistente stesso e pertanto essa è né nitida né modellata in rilievo.

SVF II, 54

Aezio ‘Placita’ IV, 12, 1 (Dox. Gr. p. 401, 14). [II,21,20] In cosa si differenziano rappresentazione, ciò di cui si ha la rappresentazione, la fantasticheria e il fantasma. Crisippo afferma che questi quattro termini sono differenti tra di loro. La rappresentazione è un’affezione che ha luogo nell’animo ed è dimostrativa [II,21,25] di ciò che l’ha prodotta. Per esempio, quando grazie alla vista noi percepiamo il colore bianco, è un’affezione quella che s’ingenera nell’animo attraverso la visione; e in conformità a quest’affezione noi abbiamo modo di dire che c’è qualcosa di bianco che ci stimola. Cose simili accadono anche attraverso il tatto e l’olfatto. […] La rappresentazione φαντασία (‘phantasìa’) prende il suo nome dalla luce φῶς (‘phos’), giacché come la luce mostra se stessa e [II,22,1] tutto ciò che la circonda, così la rappresentazione mostra se stessa e ciò che l’ha prodotta. Ciò di cui si ha la rappresentazione è ciò che produce la rappresentazione. Per esempio: il bianco, il freddo e tutto ciò che possa stimolare l’animo [II,22,5] sono produttivi di rappresentazioni. La fantasticheria è un trascinamento vacuo, un’affezione che nasce nell’animo in assenza di ciò che produce la rappresentazione, come nel caso di chi lotta con le ombre e protende le mani verso il vuoto. Alla rappresentazione soggiace infatti qualcosa che la produce, mentre alla fantasticheria non soggiace nulla. [II,22,10] Il fantasma è ciò verso cui siamo trascinati per il vacuo trascinamento esercitato dalla fantasticheria. I fantasmi nascono nell’animo di coloro che sono preda della malinconia e della pazzia, come quando nell’omonima tragedia Oreste dice:

‘O madre, ti supplico, non sollevare contro di me

le Furie sanguinarie anguicrinite;

[II,22,15] eccole, eccole qua che mi si avventano contro’

egli lo dice in preda alla pazzia, perché non vede nulla ma gli sembra di vederle. Per questo a lui risponde Elettra:

‘O disgraziato, resta immobile nel tuo letto;

invero non vedi nulla di quel che credi di veder chiaro’

[II,22,20] come è anche il caso di Teoclimeno in Omero.

SVF II, 55

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 50. Vi è differenza tra una rappresentazione e un fantasma. Un fantasma è infatti una parvenza bizzarra che occupa l’intelletto, del tipo di quelle che nascono nei sogni; mentre la rappresentazione è invece un’impronta nell’animo, cioè un cambiamento, come sostiene Crisippo nel secondo libro ‘Sull’animo’. Non [II,22,25] si deve però accogliere l’idea che l’impronta sia come la traccia di un sigillo, giacché è inaccoglibile l’idea che vi siano molte tracce contemporaneamente nel medesimo luogo.

SVF II, 56

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 227. Poiché rimane ancora da trattare dell’opinione degli Stoici, parliamo di seguito di questa. Gli Stoici dunque affermano che il criterio di verità è la rappresentazione catalettica. [II,22,30] Sapremo cos’è, se innanzitutto riconosciamo cosa sia secondo loro la rappresentazione e quali siano le differenti specie di questa. Secondo loro la rappresentazione è un’impronta nell’animo. Ma su di essa <gli Stoici> ben presto si dispararono. Infatti Cleante intese ‘l’impronta’ fatta di rientranze e di sporgenze, com’è l’impronta fatta dagli anelli nella cera. [II,22,35] Crisippo riteneva assurda una cosa simile. In primo luogo, afferma infatti Crisippo, qualora l’intelletto si rappresentasse un triangolo e un quadrato, lo stesso identico corpo dovrebbe assumere contemporaneamente forme differenti, [II,23,1] cioè dovrà diventare triangolare e insieme quadrato o anche circolare, il che è assurdo. Inoltre, qualora sussistano in noi molteplici rappresentazioni insieme, pure l’animo dovrà assumere altrettante numerosissime forme, il che è ancora peggio della situazione precedente. Egli dunque sottintende che [II,23,5] Zenone usi il termine ‘impronta’ nel senso di ‘alterazione’. Sicché la formulazione diventa qualcosa di questo genere: “la rappresentazione è un’alterazione dell’animo”. Allora non è più assurdo che lo stesso identico corpo, quando molte rappresentazioni coesistono in noi, in un solo e medesimo tempo riceva ed accolga in sé numerosissime alterazioni. Come infatti l’aria, quando molte persone vociano insieme, [II,23,10] riceve ed accoglie in sé innumerabili e differenti percosse ed ha sùbito molte alterazioni; così pure l’egemonico, alle prese con svariate rappresentazioni, sperimenta qualcosa di analogo a questo.

[2] VII, 372. Se infatti la rappresentazione è un’impronta nell’animo, o si tratta di un’impronta fatta di sporgenze e di rientranze, come legittimano i seguaci di Cleante; oppure essa nasce per mera alterazione come reputarono i seguaci [II,23,15] di Crisippo. Ora, se essa consta di sporgenze e di rientranze, ne conseguiranno le assurdità di cui parlano i seguaci di Crisippo. Se infatti l’animo, quando sperimenta una rappresentazione, viene modellato al modo di una cera, il movimento estremo della serie ottenebrerà la rappresentazione che lo precede, come la traccia del secondo sigillo cancella quella del primo. Ma se è così, allora è abolita la memoria [II,23,20] in quanto tesaurizzazione di rappresentazioni. Ed è anche abolita ogni arte, giacché essa sarebbe un insieme accumulato di apprensioni certe, ma è impossibile che molteplici e differenti rappresentazioni sussistano nell’egemonico quando in esso le tracce presenti nella mente sono diverse da un momento all’altro. Non è pertanto l’impronta che si ha principalmente nella mente ad essere la rappresentazione. D’altronde se le cose sensibili sono [II,23,25] uno spiraglio su cose non evidenti e se consideriamo che i corpi delle cose sensibili, i quali sono composti di parti molto più dense dello pneuma, sono incapaci di conservare alcuna traccia in se stessi, è ragionevole pensare che neppure lo pneuma custodisca una qualunque singola traccia derivante dalla rappresentazione.

SVF II, 57

Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 166, Vol. I, p. 58, 9 Wendl. [II,23,30] Trasferendo al nostro interno le apparenze esteriori, le sensazioni le annunciano e le mostrano dopo averne sigillato le tracce e fattone nascere la corrispondente affezione. Simile alla cera, attraverso le sensazioni la mente accoglie dunque le rappresentazioni, e grazie ad esse afferra la presenza dei corpi […]

SVF II, 58

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 72, 5 Bruns. [II,23,35] A proposito della rappresentazione è d’uopo sentir parlare della sua traccia in termini più comuni. Infatti la traccia è principalmente un’impronta che consta di rientranze e di sporgenze, oppure la forma che una matrice lascia nel materiale che viene modellato, come vediamo nel caso dei sigilli. Ma non è così che si formano in noi le peste lasciate dagli oggetti sensibili. Da principio, infatti, [II,24,1] l’appercezione degli oggetti sensibili non ha una forma. Quale forma ha il bianco o, in complesso, il colore? Quale forma ha l’odore? Usando una metafora a causa della mancanza di un nome suo proprio, noi chiamiamo ‘traccia’ l’orma e le peste che sopravvivono in noi degli oggetti sensibili.

SVF II, 59

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 68, 11 Bruns. [II,24,5] Perciò essi definiscono la rappresentazione come impronta nell’animo e impronta nell’egemonico.

[2] p. 68, 16. Inoltre essi chiamano rappresentazione o l’impronta mentre avviene, oppure quella già avvenuta e presente. Ma se la rappresentazione è l’impronta mentre avviene, essi potrebbero chiamare la sensazione come rappresentazione in atto. Questa è infatti la genesi della traccia. Avvengono però rappresentazioni [II,24,10] anche senza che vi sia attività sensitiva. Se invece la rappresentazione è quella già avvenuta e salvaguardata, essi potrebbero chiamare la memoria rappresentazione.

SVF II, 60

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 50. S’intende per ‘rappresentazione’ quella che nasce da un oggetto esistente, che è stata ben ricalcata, ben modellata e sigillata in conformità all’esistente, e che non potrebbe nascere da un oggetto inesistente.

SVF II, 61

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 51. [II,24,15] Secondo gli Stoici, alcune delle rappresentazioni sono sensibili, altre no. Sensibili sono le rappresentazioni che prendono avvio da uno o più organi di senso; non sensibili quelle che si hanno attraverso l’intelletto, come quelle degli incorporei e quelle che prendono avvio da un ragionamento. Alcune delle rappresentazioni sensibili nascono da oggetti esistenti e sono accompagnate da cedimento ed assenso, [II,24,20] ma vi sono anche delle rappresentazioni che sono miraggi e che nascono come se nascessero da oggetti esistenti. Inoltre, alcune rappresentazioni sono razionali, altre irrazionali. Razionali sono le rappresentazioni degli animali razionali; irrazionali quelle dei bruti. Le rappresentazioni razionali sono intellezioni, quelle irrazionali non hanno sortito un nome. E poi alcune rappresentazioni sono artistiche, altre non artistiche: dunque una figura è vista in un modo da un artista e in un altro modo [II,24,25] da chi è imperito nell’arte.

SVF II, 62

Cicerone ‘De divinatione’ II, 126. In particolare Crisippo, nello sforzo di confutare gli Accademici, afferma che le rappresentazioni che abbiamo da svegli sono molto più chiare e certe di quelle in sogno.

SVF II, 63

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 162. [II,24,30] Bisogna dire che la rappresentazione è, nella creatura vivente, un’affezione espressiva di se stessa e di altro. Per esempio, Antioco afferma che quando scrutiamo qualcosa noi atteggiamo la vista in un certo modo, e che non la teniamo disposta come la tenevamo prima di guardare quell’oggetto. In conformità con siffatto cambiamento noi prendiamo atto di due cose: la prima è il cambiamento stesso, cioè la rappresentazione; [II,24,35] la seconda è ciò che ha prodotto il cambiamento, cioè l’oggetto visibile. E una cosa similare avviene anche nel caso delle altre sensazioni. Pertanto, come la luce mostra se stessa e tutti gli oggetti che illumina, così la rappresentazione, che nella creatura vivente è fattore primario del discernimento, giusta la luce è tenuta a far trasparire se stessa e ad essere indicativa dell’evidente oggetto che l’ha prodotta.

SVF II, 64

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 241. [II,25,1] La rappresentazione è: o rappresentazione di oggetti esterni oppure rappresentazione delle affezioni a noi interne, il che gli Stoici chiamano più propriamente ‘vacuo trascinamento’.

SVF II, 65

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 242. Molte e diverse [II,25,5] sono le differenze tra le rappresentazioni, ma basteranno quelle che saranno qui di seguito trattate. Delle rappresentazioni, alcune sono persuasive e altre non persuasive, alcune sono persuasive e insieme non persuasive, alcune sono né persuasive né non persuasive. Persuasive sono le rappresentazioni che suscitano nell’animo un movimento che scorre liscio e senza intoppi, come quelle che ‘adesso è giorno’ e che ‘io sto disquisendo’. […] Non persuasive sono le rappresentazioni non di questo genere, e che quindi ci [II,25,10] distolgono dall’assenso: per esempio, ‘se è giorno, non c’è sole sopra la terra’ oppure ‘se è buio, è giorno’. Persuasive e insieme non persuasive sono le rappresentazioni che, a seconda della relazione che hanno con qualcosa, diventano ora di tal fatta ora di tal altra fatta, com’è il caso di quelle dei discorsi aporetici. Né persuasive né non persuasive sono le rappresentazioni inerenti a fatti del genere: ‘le stelle sono in numero pari’ oppure ‘le stelle sono in numero dispari’. Delle [II,25,15] rappresentazioni persuasive o non persuasive, alcune sono vere, altre sono false, altre sono sia vere che false, ed altre ancora sono né vere né false. Vere sono dunque le rappresentazioni delle quali è possibile denunciare la verità, come ad esempio: ‘è giorno’ in questo momento, oppure ‘c’è luce’. False sono le rappresentazioni delle quali è possibile denunciare la falsità, come ad esempio: ‘il remo sommerso è spezzato’ oppure ‘il portico [II,25,20] è convergente a coda di topo’. Vere e insieme false erano le rappresentazioni che, in relazione alla sua pazzia, incoglievano Oreste in presenza di Elettra (giacché in quanto incoglieva Oreste a partire da una persona esistente -c’era infatti Elettra- la rappresentazione era vera; ma in quanto originata da un’Erinni -mentre non c’era alcuna Erinni- la rappresentazione era falsa). E ancora se qualcuno, a partire dal Dione vivente, nel sonno sogna un falso e vacuo trascinamento [II,25,25] immaginando che Dione gli stia accanto. Né false né vere sono le rappresentazioni del ‘genere’, giacché di una fatta o di un’altra sono le sue ‘specie’ mentre il ‘genere’ non lo è. Per esempio, del ‘genere’ umano alcuni sono di ‘specie’ greca ed altri sono di ‘specie’ barbara; ma l’uomo in quanto ‘genere’ è né Greco, giacché allora tutti gli uomini ‘specifici’ sarebbero Greci; né Barbaro, per lo stesso motivo. Delle rappresentazioni vere, alcune sono catalettiche [II,25,30] e altre no. Non catalettiche sono le rappresentazioni che incolgono alcuni in relazione ad un patimento fisico. Moltissime persone in preda alla frenesia o alla malinconia si strascinano dentro una rappresentazione vera ma non catalettica, caduta loro addosso dall’esterno e per un caso fortuito, che spesso essi né sostengono saldamente e cui neppure danno assenso. Catalettica è quella rappresentazione che nasce da un oggetto esistente, che è stata ben ricalcata [II,25,35] e suggellata in conformità all’esistente stesso e che è quale non potrebbe nascere da un oggetto inesistente. Poiché gli Stoici fanno la rappresentazione catalettica eminentemente percettiva degli oggetti e capace di foggiarne con arte perfetta i caratteri peculiari, affermano anche che essa possiede ciascuno di questi attributi necessari. Il primo di essi è che nasce da un oggetto esistente. […] Il secondo è che nasce da un oggetto esistente, ma che è anche conforme allo stesso oggetto esistente. [II,25,40] Talune rappresentazioni, infatti, originano a loro volta da un oggetto esistente ma non si conformano all’oggetto esistente stesso, come mostravamo poco prima nel caso della pazzia di Oreste. […] Deve inoltre toccarle di essere stata ben ricalcata e suggellata per foggiare con arte perfetta i caratteri peculiari degli oggetti rappresentati. <Come avviene nel caso dei sigilli nella cera> così coloro che fanno della rappresentazione catalettica un’apprensione certa degli oggetti, [II,25,45] sono tenuti ad associarle anche tutti i caratteri peculiari di questi ultimi. Gli Stoici addizionarono poi la clausola ‘quale non potrebbe nascere da un oggetto inesistente’ poiché, a differenza di loro, [II,26,1] i seguaci dell’Accademia hanno concepito impossibile il trovare una rappresentazione sotto tutti i riguardi indistinguibile dall’oggetto reale. Gli Stoici affermano infatti che chi ha una rappresentazione catalettica s’accosta alle sottostanti differenze tra le realtà con la precisione di un artista; dal momento che la rappresentazione catalettica avrebbe pure, rispetto alle altre rappresentazioni, [II,26,5] una sorta di carattere peculiare quale quello che ha il ceraste rispetto agli altri serpenti. I seguaci dell’Accademia affermano, al contrario, che sarà possibile trovare una falsità indistinguibile dalla rappresentazione catalettica.

SVF II, 66

Cicerone ‘Academica’ II, 47. <I neo-Accademici> dicono: [II,26,10] “Quando sostenete che alcune visioni sono inviate dalla divinità, come quelle che si hanno in sogno o i responsi di oracoli, di auspici e di sacrifici (infatti essi affermano che queste manifestazioni sono approvate dagli Stoici contro i quali stanno polemizzando), come può un dio, vi chiediamo, [II,26,15] far diventare probabili cose che sono false?”

SVF II, 67

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 405. Se dunque alcune rappresentazioni sono catalettiche in quanto ci inducono all’assenso e a dare loro il conseguente seguito nei fatti […]

SVF II, 68

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 424. [II,26,20] Secondo gli Stoici, affinché la rappresentazione diventi sensibile, per esempio, una rappresentazione visiva, devono concorrere cinque componenti: l’organo di senso, l’oggetto sensibile, il luogo, la modalità e l’intelletto. Di modo che in presenza degli altri ma in mancanza di uno solo, come ad esempio l’intelletto in condizioni non naturali, essi affermano che non sarà salvaguardata l’appercezione.

SVF II, 69

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 426. [II,26,25] Se noi ricerchiamo qual è la ‘rappresentazione catalettica’, gli Stoici per definirla affermano: “Quella che nasce da un oggetto esistente […] ”. A sua volta poi (poiché tutto ciò ch’è insegnato in modo definitorio è insegnato a partire da definizioni riconosciute), per rispondere alla nostra domanda su cos’è un ‘oggetto esistente’, essi rivoltano la definizione e affermano che ‘oggetto esistente’ è ciò che determina la rappresentazione catalettica.

SVF II, 70

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 71, 10 Bruns. [II,26,30] Le rappresentazioni vere e veementi noi siamo soliti chiamarle anche catalettiche, giacché l’assenso a siffatte rappresentazioni è un’apprensione certa. Chiamiamo invece rappresentazione acatalettica la rappresentazione falsa e quelle, tra le vere, non ben distinte.

§ 2. Sulla sensazione

Frammenti n. 71-81

SVF II, 71

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 52. [II,26,35] Gli Stoici chiamano ‘sensazione’ lo pneuma che partendo dall’egemonico pervade i sensi; l’apprensione che avviene attraverso di essi; e anche l’apparato degli organi di senso, del quale alcuni sono storpi. La sensazione è anche chiamata attività degli organi di senso.

SVF II, 72

Aezio ‘Placita’ IV, 8, 12. Gli Stoici affermano che ogni sensazione è assenso [II,26,40] ed apprensione certa.

SVF II, 73

Cicerone ‘Academica’ II, 108. In secondo luogo voi negate che possa compiere un’azione qualunque chi non l’approva col proprio assenso. Ma innanzitutto bisogna che una cosa sia vista, e ciò include già un assenso, giacché gli Stoici dicono che le sensazioni sono esse stesse assensi, [II,27,1] ed è perché a queste segue un impulso che ne consegue poi l’azione: pertanto tolta la presentazione ai sensi è tolto via tutto.

SVF II, 74

Porfirio ‘De anim. facult.’ presso Stobeo ‘Eclogae’ I, 49, 24, p. 349 W. […] poiché gli Stoici pongono la sensazione non soltanto nella rappresentazione, ma ne fanno dipendere [II,27,5] la sostanza dall’assenso. La sensazione è dunque assenso ad una rappresentazione sensibile, essendo poi l’assenso in relazione all’impulso.

SVF II, 75

Galeno ‘In Hippocr. de medic. offic.’ XVIII B, p. 654 K. Alcuni misero per iscritto una spiegazione di questo tipo, nella quale affermano che non significa la stessa cosa dire ‘si può vedere, toccare, ascoltare’ e dire ‘si possono avere sensazioni attraverso la vista, [II,27,10] l’udito, il tatto’. È infatti possibile vedere, toccare, ascoltare in modo non catalettico, ma l’avere sensazioni è sempre catalettico. Siffatta è la spiegazione della sensazione dello Stoico Simio, com’è riferita da Ificiano, un discepolo di Quinto ossequente alla filosofia Stoica. Ma ciò che essi intendono dire è qualcosa di questo genere. [II,27,15] Una parte del passo ragguaglia soltanto circa il genere di faccende dalle quali nasce il nostro studio dei segni e dei sintomi. La seconda parte del passo ragguaglia invece sul genere specialistico ed affidabile di tali faccende, come se fosse stato scritto in questa forma: “Converrebbe fare le diagnosi a partire da quanto nel corpo del paziente appare simile e da quanto appare dissimile dalle condizioni naturali. Questi sono gli oggetti sensibilmente percepiti e, di questi, [II,27,20] non quanti chi fa la diagnosi ha sottovalutato, frainteso o complessivamente percepito male con qualcuno dei sensi, ma quelli che ha percepito bene con ciascuno dei sensi e cataletticamente con l’intelligenza”. Egli dice infatti che Ippocrate si è servito della voce dei sensi sotto la guida dell’intelligenza.

SVF II, 76

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 185. Gli Stoici e [II,27,25] i Peripatetici tagliarono una strada intermedia e dissero che taluni degli oggetti sensibili ci sono, in quanto veri; mentre talaltri non esistono, essendo falsa la nostra sensazione a loro riguardo.

SVF II, 77

Cicerone ‘Academica’ II, 101. Né noi <Accademici> diciamo contro le sensazioni cose diverse dagli Stoici, i quali dicono che molte cose sono false e stanno ben altrimenti di come appaiono ai sensi.

SVF II, 78

Aezio ‘Placita’ IV, 9, 4. [II,27,30] Gli Stoici affermano che le sensazioni sono vere; e che delle rappresentazioni, invece, alcune sono vere e altre sono false.

SVF II, 79

Galeno ‘De dignosc. puls.’ I, 5, Vol. VIII, p. 793. Gli oggetti sensibili primi nei nostri corpi sono i patemi; i secondi sono gli oggetti esterni fattivi di questi patemi.

SVF II, 80

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 352. [II,27,35] Cose del genere essendo dunque incerte in questo campo, i Dogmatici […] sono soliti dire che l’oggetto sensibile esterno è né un intero né una parte, poiché siamo noi a qualificarlo come intero o come parte. L’intero sarebbe infatti un modo relativo, in quanto se ne ha cognizione in relazione alle parti; e a loro volta le parti sarebbero modi relativi poiché si ha cognizione di esse [II,27,40] in relazione all’intero. I modi relativi stanno nella nostra coscienza, e la nostra coscienza è in noi. Pertanto l’intero e la parte stanno in noi. L’oggetto sensibile esterno è né un tutto né una parte ma una faccenda attraverso la quale noi qualifichiamo la nostra propria coscienza.

SVF II, 81

Aezio ‘Placita’ IV, 9, 13. [II,28,1] Crisippo afferma che il piacevole in quanto genere è un intelligibile, mentre il piacevole specifico che ci incoglie è qualcosa di sensibilmente percepito.

§ 3. Sulle concettualizzazioni

Frammenti n. 82-89

SVF II, 82

[II,28,5] [Von Arnim ritiene che i frammenti che seguono siano da attribuirsi con ogni probabilità a Crisippo. Crisippo lascia infatti nel novero dei criteri di verità la sensazione e la prolessi (SVF II, 105); aggancia il valore delle massime morali al loro rifarsi alle prolessi innate (SVF III, 69); dice che il piacevole in quanto genere è un intelligibile (SVF II, 81); usa assai spesso il vocabolo ‘perizia’, come in SVF III, 4: ‘vivere [II,28,10] secondo perizia di ciò che avviene per natura’]

SVF II, 83

Aezio ‘Placita’ IV, 11. Come nascono la sensazione, il concetto e il ragionamento mentale. Gli Stoici affermano che quando l’essere umano è generato, la parte egemonica del suo animo è come un foglio fatto apposta per la scrittura e sul quale vengono scritti [II,28,15] uno per uno i concetti. […] Il primo modo per scrivere sopra quel foglio è quello mediante le sensazioni. Infatti coloro che hanno la sensazione, per esempio, di qualcosa di bianco, una volta sparito l’oggetto ne hanno il ricordo. E qualora si diano molti ricordi conformi, allora noi affermiamo di avere perizia di qualcosa; giacché la perizia è il gran numero di rappresentazioni conformi di qualcosa. […] Dei concetti, poi, alcuni nascono naturalmente e senz’arte o disegno secondo i modi [II,28,20] suddetti; altri invece per via di insegnamento e di nostra sollecitudine. Questi ultimi sono chiamati soltanto ‘concetti’; quegli altri, invece, anche ‘prolessi’. […] Inoltre si dice cha la ragione, grazie alla quale noi siamo designati come ‘esseri razionali’, si completi a partire dalle prolessi nel corso del primo settennio di vita. La concettualizzazione è una produzione fantasmatica dell’intelletto della creatura razionale. Infatti, qualora la produzione fantasmatica incolga [II,28,25] un animo razionale allora si chiama concettualizzazione, avendo preso questo nome dai concetti presenti nella mente. […] Perciò tutte le rappresentazioni che incolgono le creature prive di ragione sono soltanto produzioni fantasmatiche. Invece tutte le rappresentazioni che incolgono noi e gli dei sono produzioni fantasmatiche quanto al genere e concettualizzazioni quanto alla specie; così come i denari e gli stateri sono di per sé stessi denari e stateri, ma qualora siano dati per l’affitto di bastimenti [II,28,30] allora, oltre ad essere denari, si chiamano anche ‘noli’.

SVF II, 84

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 52. Secondo loro [gli Stoici] la nostra apprensione del bianco e del nero, del ruvido e del liscio avviene attraverso la sensazione; mentre è attraverso la ragione che noi abbiamo l’apprensione delle deduzioni di una dimostrazione, come quella che gli dei esistono e che sono provvidenti.

SVF II, 85

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 409. [II,28,35] Essi [gli Stoici] provano inoltre a confortare il loro enunciato (che gli incorporei non operano alcunché né inducono in noi delle rappresentazioni, ma che siamo noi a farci delle rappresentazioni a loro riguardo) anche con l’illustrazione di esempi. Essi affermano infatti che come l’istruttore di ginnastica o il maestro d’armi insegna ad un ragazzo a fare [II,28,40] certi movimenti ritmici, a volte prendendolo per le mani e altre volte, col muoversi in un certo modo pur standone lontano, procura che egli sia in ritmo con lui per imitazione; così pure talune delle cose di cui si ha la rappresentazione, com’è il caso del bianco, del nero e comunemente dei corpi, producono la loro [II,29,1] impronta nell’egemonico per così dire entrando in contatto con esso e toccandolo; mentre invece talune altre, e tali sono gli incorporei esprimibili, hanno natura siffatta che la loro impronta coincide con la rappresentazione che di essi l’egemonico produce e non proviene da essi.

SVF II, 86

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 58 (p. 85 Aucher). Che cos’è mai la specie, chiedo io, se non la comprensione di qualcosa di universale? E quale altro universale [II,29,5] si presenta all’intelletto, che dio non abbia precostituito, inserendo nella mente una facoltà capace di convogliare esattamente a sé le singolarità d’ogni cosa dai segni che essa le presenta, oppure di anticiparne la presenza nelle cose che indaga?

SVF II, 87

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 52. Delle cose delle quali si ha cognizione, di alcune [II,29,10] si ha cognizione per impatto, di alcune per somiglianza, di alcune per analogia, di alcune per trasposizione, di alcune per composizione, di alcune per contrasto. Gli oggetti sensibili vengono dunque in nostra cognizione per impatto; quelli che lo vengono a partire da qualcosa che è loro affine, come Socrate a partire dalla sua raffigurazione, vengono in nostra cognizione per rassomiglianza. Si può venire in cognizione di qualcosa per analogia in senso accrescitivo, come nel caso di Tizio o di un Ciclope; oppure in senso diminutivo, come nel caso di un Pigmeo. [II,29,15] E anche il centro della terra è stato pensato per analogia con delle sfere più piccole. Per trasposizione: ad esempio, gli occhi sul petto. Per composizione è stato pensato l’ippocentauro. Per opposizione: la morte. Inoltre alcune cose, come gli esprimibili e lo spazio, vengono in nostra cognizione per transizione logica. Di ‘giusto’ e di ‘bene’ si ha cognizione naturalmente. Si hanno anche cognizioni per privazione: per esempio, quella di ‘monco’.

[II,29,20]

SVF II, 88

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 56. Ogni intellezione nasce da una sensazione o non a prescindere da una sensazione, e da un impatto sensibile o non senza un tale impatto. Laonde troveremo che neppure le cosiddette false rappresentazioni: per esempio, quelle che si hanno nel sonno o nella pazzia; sono sconnesse da quelle da noi conosciute [II,29,25] per impatto mediante la sensazione. […] Ed in generale è impossibile che uno trovi per divisamento qualcosa che non gli sia prima conosciuto per impatto sensibile. Giacché questo divisamento sarà stato preso o per rassomiglianza con le rappresentazioni che apparvero nell’impatto sensibile, oppure per accrescimento o per diminuzione o per composizione di esse.

SVF II, 89

Ps. Galeno ‘Definitiones medicae’ 126, Vol. XIX p. 381 K. [II,29,30] Il divisamento è un’intellezione che giace riposta, mentre l’intellezione è una rappresentazione razionale.

§ 4. Apprensione, scienza, arte

Frammenti n. 90-101

SVF II, 90

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 151. Essi [gli Stoici] affermano che tre sono [II,29,35] i tipi di conoscenza aggiogati uno all’altro: la scienza, l’opinione e l’apprensione, la quale è posizionata nella terra di confine tra le prime due. Di queste, la scienza è l’apprensione sicura, salda e inamovibile ad opera di un ragionamento; mentre l’opinione è l’assenso debole e fallace. L’apprensione sta frammezzo a queste ed è l’assenso tipico di una rappresentazione catalettica; e secondo gli Stoici [II,29,40] capiterebbe alla rappresentazione catalettica di essere apprensione vera e tale da non poter essere falsificata. Essi dicono pure che la scienza esiste soltanto [II,30,1] nei sapienti e l’opinione soltanto negli insipienti, mentre l’apprensione è invece comune ad entrambi ed è istituita quale criterio di verità.

SVF II, 91

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 396. Poiché gli Stoici sembrano avere precisato [II,30,5] con la massima accuratezza i metodi dimostrativi, dilunghiamoci dunque un poco anche su quest’argomento […]

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 397. L’apprensione è pertanto, com’è dato udirli affermare, l’assenso tipico della rappresentazione catalettica ed è una faccenda che pare essere duplice, avendo in sé qualcosa di involontario ma anche di volontario e giacente nella nostra determinazione. Infatti la formazione delle rappresentazioni sarebbe una cosa indeliberata, e il disporsi in questo modo non sarebbe in potere [II,30,10] dalla persona che le sperimenta, ma del corpo che quelle rappresentazioni è in grado di formare: per esempio, la rappresentazione di ‘bianco’ quando si è in presenza del colore bianco oppure la rappresentazione di ‘dolce’ quando si offre al gusto qualcosa di dolce. Il dare invece il proprio assenso a queste nozioni sarebbe in potere di chi riceve la rappresentazione.

SVF II, 92

Cicerone ‘Academica’ II, 119. Qualunque dottrina approvi, [II,30,15] egli la terrà saldamente in animo come le cose che coglie con i sensi; e non approverà che ora c’è luce più di quanto approvi, se è Stoico, che questo mondo è sapiente, che ha una mente la quale ha costruito tanto se stessa che quello, e che modera, muove e regge tutte le cose. Egli sarà pure persuaso che il sole, la luna, tutte le stelle, la terra e il mare siano dei, [II,30,20] poiché una certa intelligenza animata li permea ed attraversa tutti; e che ci sarà tuttavia un tempo in cui questo mondo deflagrerà nel fuoco.

SVF II, 93

Ps. Galeno ‘Definitiones medicae’ 7-8, Vol. XIX p. 350 K. La scienza è un’apprensione sicura e non mutabile ad opera di un ragionamento. È possibile anche definirla così: la scienza è una postura abituale dell’animo non mutabile nell’accoglimento delle rappresentazioni e procurata dalla ragione in modo irreprensibile. [II,30,25] L’arte è un insieme di apprensioni coesercitate in vista di uno dei fini profittevoli nella vita. Oppure così: l’arte è un insieme di apprensioni coesercitate ed aventi riferimento ad un unico fine.

SVF II, 94

‘Scholia’ in Dyonis. Thrac. p. 108, 31 segg. Hilgard. Gli Stoici dicono: l’arte è un insieme di apprensioni coesercitate con perizia [II,30,30] in vista di uno dei fini profittevoli nella vita.

SVF II, 95

Filone Alessandrino ‘De congressu quaerendae eruditionis gratia’ 141, III, p. 101 Wendl. La definizione di arte è questa: un insieme di apprensioni coesercitate in vista di un fine profittevole, dove l’aggettivo ‘profittevole’ è sanamente addizionato per via dell’esistenza anche di male arti. La scienza: apprensione sicura, salda e non mutabile ad opera [II,30,35] di un ragionamento. Noi chiamiamo pertanto ‘arti’ la musica, la grammatica e le attività congeneri; mentre chiamiamo ‘scienze’ la filosofia e le altre virtù, e ‘scienziati’ i loro possessori. Costoro sono infatti saggi, temperanti e filosofi; e neppure uno di loro inciampa a proposito dei principi dottrinali della scienza di cui è cultore, come non inciampano i predetti a proposito dei principi generali delle arti intermedie.

SVF II, 96

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 188. [II,30,40] Circa i beni dell’animo, gli Stoici affermano inoltre che le virtù sono delle arti. Affermano poi che l’arte è un insieme di apprensioni coesercitate e che le apprensioni si formano dalle parti dell’egemonico. Come avvenga il deposito delle apprensioni nell’egemonico, che secondo loro è pneuma, e la loro raccolta in tale quantità da diventare un’arte, [II,31,1] è impossibile farsene un concetto. Infatti l’impronta che viene dopo cancellerà sempre quella precedente, poiché lo pneuma è fluido ed è detto agitarsi tutto ad ogni impronta.

SVF II, 97

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 182. L’arte è un insieme formato da apprensioni, [II,31,5] e l’apprensione è l’assenso tipico della rappresentazione catalettica.

[2] XI, 183. Oltre a ciò la rappresentazione catalettica è determinata, secondo gli Stoici, come ‘catalettica’ per il fatto che nasce da qualcosa di esistente ed in modo ben ricalcato e ben suggellato in conformità con l’esistente stesso. A sua volta l’esistente è valutato come ‘esistente’ per il fatto di mettere in moto la rappresentazione catalettica.

[II,31,10]

SVF II, 98

Galeno ‘Prognost. ex mathem. sc.’ 1, XIX, p. 529 K. Circa l’esistenza della scienza matematica basterebbe anche l’opinione dei filosofi Stoici, uomini che si sono prodigati sui ragionamenti e fanno riscontrare la vita qual è.

SVF II, 99

Filone Alessandrino ‘De congressu quaerendae eruditionis gratia’ 146, III, p. 102 Wendl. [II,31,15] Nessuno ignora che la filosofia ha fatto dono a tutte le altre scienze particolari dei principi e dei semi dai quali poi parvero rampollare i loro teoremi. La geometria ha scovato i triangoli isosceli e scaleni, le circonferenze, i poligoni e le altre figure geometriche; ma non è la geometria ad avere scoperto la natura del punto, della linea, [II,31,20] della superficie e del solido, i quali sono radici e fondamenta delle suddette figure. Donde potrebbe la geometria trarre le definizioni e dire che il punto è ciò che non ha parti, che la linea è una lunghezza senza larghezza, che la superficie è ciò che ha soltanto lunghezza e larghezza e che il solido è ciò che ha tre dimensioni: lunghezza, larghezza e profondità? Questo compito è di spettanza della filosofia e tutta la trattazione delle definizioni è di spettanza del filosofo. [II,31,25] Invero l’insegnare a scrivere e a leggere è professione della grammatica più elementare, che alcuni con una modificazione del termine chiamano ‘grammatistica’; mentre professione della grammatica più perfetta è l’esplicazione dei testi dei poeti e degli scrittori in prosa. Ma quando discutano circa le parti del discorso, allora non tirano esse a sé i ritrovati della filosofia facendone dei propri accessori? È infatti peculiare della filosofia l’indagare cosa siano [II,31,30] la congiunzione, il sostantivo, il verbo, il nome comune, il nome proprio e, nel discorso, la proposizione ellittica, piena, assertiva, e cosa siano domanda, quesito, imperativo, ottativo, deprecativo. È la filosofia che compone le trattazioni circa esprimibili completi, sia proposizioni che predicati. E non è la filosofia che s’è affaticata ed è giunta a delle conclusioni sull’identità della semivocale, della vocale, della consonante muta e su come ciascuno di questi elementi suole essere pronunciato; e che ha criteri di classificazione [II,31,35] circa la fonetica degli elementi e delle parti del discorso?

SVF II, 100

Plutarco ‘Quom. adol. poet. aud. debeat’ p. 34b. Crisippo ha rettamente illustrato l’uso delle espressioni in senso lato, mostrando che quanto in esse è proficuo va trasportato ed esteso transitivamente alle situazioni conformi. Quando [II,31,40] Esiodo dice:

‘il bue non si perderebbe, se il vicino di casa non fosse cattivo’

dice la stessa cosa di un cane, di un asino e di tutto ciò che può similmente essere perso. Ancora, quando Euripide dice:

[II,32,1]

‘chi è servo, se è noncurante di morire?’

bisogna intendere che egli ha detto la stessa cosa anche del dolore e della malattia.

SVF II, 101

Plutarco ‘Quom. adol. poet. aud. debeat’ p. 31e. Bisogna poi [II,32,5] prestare orecchio senza trascuratezza alle parole <dei poeti>, ma anche schivare la puerilità di un Cleante. Giacché egli è in vena d’ironia quando, simulando di commentare il verso

‘Zeus padre e signore dell’Ida’

e il verso

[II,32,10] ‘Zeus signore di Dodona’

propone di unire le due ultime parole del secondo verso [‘ana’ e ‘Dodona’] in una sola, come se l’aria che esala dalla terra, a causa della ‘su-dazione’, fosse ‘su-dativa’. Anche Crisippo è sovente un cavillatore gretto e cocciuto, non perché gioca ma perché fa il trovatore di espressioni in un modo che non convince, come quando facendo violenza al significato chiama ‘Cronide altitonante’ chi è valente nel dialogare [II,32,15] e ben piantato sulle gambe per forza di ragionamento.

§ 5. Sulla ricerca

Frammenti n. 102-104

SVF II, 102

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VI, 14, p. 801 Pott. La ricerca è un impulso a capire che ritrova il proprio oggetto grazie a dei segni. La [II,32,20] scoperta è termine e cessazione della ricerca, che è diventata apprensione.

SVF II, 103

Cicerone ‘Academica’ II, 26. Se queste dottrine sono vere, allora ogni ragione, quale luce e lume della vita, è totalmente abolita? […] Infatti è la ragione che dà inizio alla ricerca, è la ragione che perfeziona la virtù, giacché essa stessa si consolida nella ricerca. Quest’ultima è impulso di conoscenza, ed il suo fine è la scoperta. [II,32,25] Ma nessuno scopre cose false, né quelle che permangono incerte possono essere scoperte. Si dicono invece scoperte quelle che prima erano come velate e poi sono state disvelate. È così che la ragione attiene sia all’inizio della ricerca che al suo esito di percezione e di comprensione.

SVF II, 104

Plutarco d’Atene presso Olimpiodoro ‘In Plat. Phaed.’ p. 156, 1 segg. Norvin. [II,32,30] Come è stato prospettato nel ‘Menone’, è effettivamente incerto se sia possibile ricercare e scoprire qualcosa. Infatti noi non ricerchiamo quello che sappiamo, poiché sarebbe una cosa da matti. Ma neppure ricerchiamo quello che non sappiamo, giacché qualora vi incappassimo lo ignoreremmo, come accade con le cose casuali. […] Gli Stoici in questo caso tirano in ballo i concetti naturali. Ma se i concetti naturali [II,32,35] sono in potenza, noi diremo la stessa cosa. Se invece essi sono in atto, perché ricerchiamo ciò che sappiamo? E se, ad eccezione di ciò che sappiamo, noi ignoriamo il resto; come potremo ricercare proprio le cose che non sappiamo?

[II,33,1] § 6. Sul criterio di verità

Frammenti n. 105-121

SVF II, 105

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 54. Essi [gli Stoici] affermano che criterio della verità è la rappresentazione catalettica, cioè quella del realmente esistente, come dicono [II,33,5] Crisippo nel secondo libro della ‘Fisica’, Antipatro e Apollodoro. Boeto ammette più criteri <di verità>: mente, sensazione, desiderio e scienza. Invece Crisippo, nel primo libro ‘Sulla ragione’ si differenzia da lui ed afferma che i criteri di verità sono la sensazione e la prolessi.

SVF II, 106

Agostino ‘De civitate dei’ VIII, 7. <In logica i Platonici sono molto superiori a quei> filosofi che pongono [II,33,10] il criterio di verità nelle sensazioni corporee, e ritengono che tutto quanto s’impara vada misurato con tali <infidi e fallaci> metri. Mi riferisco agli Epicurei e ad altri come loro, ma pure agli stessi Stoici. Questi, infatti, amarono fortemente l’arte della disputa, che chiamavano dialettica, e reputarono che essa andasse dedotta dalle sensazioni, [II,33,15] sostenendo che è a partire da esse che l’animo concepisce i concetti, chiamati dagli Stoici ἐννοίας, di quelle cose che poi si precisano nella definizione. Ed è partendo dalle sensazioni che essi procedono poi ad articolare tutto quanto il loro discorso su apprendimento ed insegnamento.

SVF II, 107

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 35. Si dà anche la possibilità di [II,33,20] un’ulteriore suddivisione di questo criterio logico, dicendo che un suo aspetto è il ‘ciò da cui’, un altro è il ‘ciò attraverso cui’ e un altro ancora è il suo impiego applicativo. Il ‘ciò da cui’ sarebbe l’uomo, il ‘ciò attraverso cui’ sarebbe la sensazione e il terzo aspetto sarebbe l’applicazione della rappresentazione.

[2] VII, 37. In questo caso l’uomo, che è l’agente della determinazione, somiglia al pesatore o al falegname; la sensazione e l’intelletto, [II,33,25] grazie ai quali avviene l’opera di determinazione, somigliano alla bilancia o allo strumento di misura; e l’applicazione della rappresentazione in armonia con la quale l’uomo procede alla determinazione, somiglia all’impiego dei predetti strumenti.

SVF II, 108

Origene ‘Contra Celsum’ VII, 37, Vol. II, p. 187, 22 K. Sul fatto che tutto ciò ch’è capito è capito a partire dalle sensazioni e che ogni apprensione dipende dalle sensazioni, [Celso afferma] di nutrire giudizi similari agli Stoici, [II,33,30] i quali tolgono di mezzo l’esistenza di sostanze intelligibili.

SVF II, 109

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1036c. A proposito dei libri pubblicati [da Crisippo] ‘Contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni’, [gli Stoici] alzano la cresta e si esprimono in termini talmente magniloquenti da sostenere che i ragionamenti di tutti quanti gli Accademici messi assieme sul medesimo argomento non sono degni di essere paragonati a quelli che Crisippo scrisse [II,33,35] per screditare le sensazioni. […] È vero invece che quando egli decise di parlare a sostegno della comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni risultò inferiore a se stesso, e che questo trattato non fu all’altezza del trattato precedente.

[2] p. 1036e. Io cercherei con piacere di sapere dagli Stoici se essi ritengono [II,34,1] le argomentazioni dei Megarici più potenti di quelle scritte da Crisippo nei sei libri ‘Contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni’.

[3] p. 1037a. Tu stesso hai scritto una tale quantità di libri ‘Contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni’, nei quali proponevi qualunque cosa avessi trovato poiché ti facevi un punto d’onore d’essere superiore ad Arcesilao. […] [II,34,5] Infatti egli <Crisippo> non utilizza contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni dei meri epicheremi ma, come fosse in un processo, trasportato dalla passione afferma sovente che <l’avversario> dice stupidaggini e s’affatica a vuoto.

[4] Cicerone ‘Academica’ II, 87. Mi dilungherò ora sulle dottrine che concernono l’Universo, dottrine delle quali sono stati riempiti interi volumi non soltanto dai nostri filosofi ma anche da Crisippo. Di lui gli Stoici sogliono lamentare [II,34,10] che abbia diligentemente radunato tutti gli argomenti possibili contro la perspicuità delle sensazioni, contro il senso comune in tutte le sue forme e contro la ragione, e che però sia poi stato inferiore nel confutare le sue stesse confutazioni, sicché fornì armi a Carneade.

[5] II, 75. Contro di voi io avrei a disposizione filosofi, seppur minori, capaci di darvi fastidio: Stilpone Diodoro, Alessino; gente comunque capace di scagliarvi contro [II,34,15] certi sofismi contorti e pieni di aculei (così infatti si chiamano le conclusioncelle fallaci). Ma perché chiamare a raccolta costoro quando ho Crisippo, che è ritenuto una colonna portante della Stoa? Quante confutazioni egli fece delle sensazioni, quante di tutto ciò che il senso comune approva! Tuttavia egli confutò pure le sue confutazioni. A me in verità non pare; [II,34,20] ma diamoli per confutati. Certo però che non ne avrebbe messo insieme così tante, alcune delle quali sono con grande probabilità ingannevoli, se non avesse visto che non era poi così facile riuscire a contrastare la fiducia nelle sensazioni e il senso comune.

SVF II, 110

Cicerone ‘Academica’ II, 67. Gli Stoici ed il loro sostenitore Antioco, dicono che la premessa maggiore: ‘se il sapiente darà l’assenso, allora dovrà anche avere opinioni’, è falsa. Essi pensano infatti che il saggio possa distinguere le rappresentazioni false da quelle vere [II,34,25] e quelle che non possono essere percepite da quelle che lo possono.

SVF II, 111

Cicerone ‘Academica’ II, 26. Ecco dunque la prova logica, quella che i Greci chiamano ἀπόδειξις cioè ‘dimostrazione’, la quale è così definita: ‘un ragionamento che porta da cose percepite a qualcosa non prima percepito’. Se invece tutte le rappresentazioni fossero come questi <Accademici> dicono, ossia tutte possibilmente false e senza che vi sia alcun criterio per discernere le vere dalle false, [II,34,30] come potremmo dire che qualcuno ha provato o ha scoperto qualcosa, e quale fiducia potremmo avere in una prova logica?

SVF II, 112

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1077c. È quindi possibile ascoltarli, e leggerli in molti loro scritti, litigare con gli Accademici [II,34,35] gridando che questi confondono ogni cosa con la loro dottrina delle ‘indistinguibilità’, poiché forzano l’esistenza di un’unica qualità nel caso di due sostanze. Eppure non c’è uomo il quale non pensi e creda, al contrario, stupefacente e paradossale che nel corso di tutto il tempo non vi sia mai stato un colombo identico ad un altro colombo, un’ape ad un’ape, un chicco di grano ad un chicco di grano, il fico del racconto ad un altro fico.

SVF II, 113

Cicerone ‘Academica’ II, 85. Cotesto principio è senza dubbio Stoico, [II,34,40] ma non del tutto convincente: ‘non c’è un solo pelo [II,35,1] né un granello di sabbia che sia completamente uguale ad un altro pelo o granello’.

SVF II, 114

[1] Cicerone ‘Academica’ II, 54. Perché dunque vi sforzate di provare un fatto contrario alla natura delle cose, credendo che ciò che appartiene ad un genere non sia tale e quale il genere cui appartiene, e che due o più oggetti [II,35,5] non possiedano mai un comune carattere indistinguibile?

[2] II, 56. Giacché filosofi naturali più colti di lui insegnano che cose singole hanno proprietà singole.

SVF II, 115

[1] Cicerone ‘Academica’ II, 37. Ora diremo poche cose sull’assenso e sull’approvazione, che i Greci chiamano συγκατάθεσις […] Del resto, [II,35,10] quando spiegavamo il potere che hanno i sensi, diventava contemporaneamente chiaro che molte cose possono essere comprese e percepite dai sensi, il che non può avvenire senza assenso. Inoltre, poiché la differenza più significativa tra esseri inanimati ed animati sta essenzialmente nel fatto che l’animale compie delle azioni (ciò che non agisce neppure può essere pensato come animale) allora bisogna o togliergli la sensibilità oppure riconoscergli una facoltà di assentire che [II,35,15] è in nostra piena potestà.

[2] II, 38. Ne derivano anche queste conseguenze: senza l’assenso non c’è memoria né cognizione delle cose né sono possibili le arti; ed a colui che non concede mai il proprio assenso verrà a mancare la facoltà capitale dell’uomo, che è di avere qualcosa in sua assoluta potestà. Che posto può avere in noi la virtù se nulla è in nostro esclusivo potere?

SVF II, 116

Cicerone ‘Academica’ II, 24. Un altro aspetto [II,35,20] perspicuo della faccenda è la necessità che esista un movente che la saggezza segue quando intraprende un’azione; e che questo movente sia in accordo con la natura. Diversamente, infatti, non può essere messo in moto l’impulso [II,35,25] (quello che i Greci chiamano ὁρμή) che ci determina all’azione, dato che noi appetiamo ciò che abbiamo percepito. Pertanto bisogna che l’oggetto movente l’impulso sia prima visto e creduto esistente, il che non può accadere se un movente vero non potrà essere distinto da uno falso. Come potrà l’animo essere mosso alla appetizione di qualcosa qualora non sia in grado di percepire se ciò che vede s’accomoda alla natura o è alieno ad essa? [II,35,30] Inoltre se l’animo non ha presente quale sia il proprio dovere, non agirà affatto, non impellerà ad alcunché, non si muoverà mai; giacché se uno qualche volta deve agire, bisogna pure che ritenga vero quel che gli appare.

SVF II, 117

Cicerone ‘Academica’ II, 23. Tuttavia la massima [II,35,35] conferma che noi possiamo percepire e comprendere molte cose è la cognizione che abbiamo delle virtù. È soltanto alle cognizioni che noi diciamo inerire la scienza -e per scienza non intendiamo la semplice comprensione della cose, ma una comprensione permanente ed immutabile-ed anche la saggezza, che è quell’arte di vivere che abbia in se stessa la propria coerenza. Se però questa coerenza [II,35,40] nulla ha in sé di percepito e di conosciuto, chiedo donde sia nata e in che modo.

SVF II, 118

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 440. Nelle loro repliche, i filosofi dogmatici sono soliti porre la questione di come lo scettico possa dichiarare l’inesistenza di un criterio di verità; giacché costui afferma ciò o senza valersi di un criterio oppure valendosene. Se lo fa senza valersi di un criterio, egli perderà ogni credibilità; [II,36,1] se lo fa valendosi di un criterio, la sua posizione andrà a gambe all’aria in quanto, mentre afferma l’inesistenza del criterio, col fare questa asserzione ammette di assumerne l’esistenza. Quando noi [scettici] poniamo la questione: ‘Se esiste un criterio di verità, esso o è stato soggetto ad un giudizio oppure [II,36,5] non lo è stato’; e ne deduciamo o l’una o l’altra delle due conclusioni e cioè: ‘O il regresso procede all’infinito, oppure è un’assurdità dire che qualcosa è criterio di se stesso’; i dogmatici contrattaccano affermando che non è affatto assurdo lasciare la possibilità che esista qualcosa che è criterio di verità di se stesso. Infatti la retta è atta a valutare se stessa ed altre linee; la bilancia sarebbe misuratrice della propria parità e di quella di altri oggetti; la luce appare atta a disvelare [II,36,10] non soltanto gli altri oggetti ma anche se stessa. Per questo motivo, anche il criterio di verità può istituirsi criterio di se stesso e di altre cose.

SVF II, 119

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 162. Laonde è necessario non tenere conto di quanti ritengono che lo scettico sia chiuso da ogni parte tra l’inoperosità e l’incongruenza. L’inoperosità poiché, essendo tutta la vita una questione di scelte e di rifiuti, [II,36,15] chi non sceglie e non rifiuta nega potenzialmente la vita e occuperebbe il ruolo di un vegetale. L’incongruenza poiché, caduto una volta sotto le grinfie di un tiranno e costretto a fare qualcosa di indicibilmente turpe, o non reggerà ciò che gli è ingiunto e sceglierà deliberatamente la morte, oppure, per sfuggire alle torture, farà ciò che gli è stato intimato e così non sarà più, come dice Timone, ‘senza rifiuto e senza scelta’, [II,36,20] ma sceglierà una cosa e si distornerà da un’altra. Il che sarebbe proprio di coloro che hanno capito in modo persuasivo cosa può essere fuggito e cosa può essere scelto. Una volta detto ciò, essi non convengono […]

SVF II, 120

Galeno ‘Adversus Iulianum’ 5, Vol. XVIII A, p. 268 K. Se invero uno crede che il disaccordo sia una testimonianza sufficiente dell’ignoranza del criterio di giudizio, eccolo repentinamente diventato uno incline al dubbio invece [II,36,25] che uno Stoico. Se infatti tu dai retta a questo ragionamento, il quale afferma che nulla di ciò su cui i filosofi in generale sono in disaccordo può giungere ad essere umanamente conosciuto […]

SVF II, 121

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, 5 (II p. 923 Pott.) Contro i Pirroniani. Se la sospensione del giudizio sull’esistenza di un criterio di verità afferma che nulla è saldo, è manifesto che essa s’invalida [II,36,30] in primo luogo a cominciare da se stessa. Quindi o si dà che qualcosa sia vero, e allora non bisogna sospendere il giudizio su tutto; oppure se la sospensione del giudizio recalcitra ed insiste a dire che nulla è vero, allora è manifesto che neppure essa per prima dirà il vero. Infatti, o essa dice il vero oppure non dice il vero. Ma se dice il vero, concede suo malgrado che qualcosa sia vero; e se non dice il vero, lascia vere le cose che voleva togliere di mezzo: giacché in quanto la sospensione [II,36,35] del giudizio che nega l’esistenza di un criterio di verità si mostra falsa, in tanto mostra vera l’esistenza del criterio di verità che nega, come fosse il sogno che dichiara che tutti i sogni sono falsi. Pertanto, nel momento in cui la sospensione del giudizio si autoelimina, essa convalida il resto. Inoltre, se essa è completamente vera, essa si farà principio di se stessa, essendo sospensione del giudizio non di qualcos’altro ma in primo luogo di se stessa. E dunque se uno capisce di essere un uomo o capisce di sospendere il giudizio al riguardo, è manifesto che non sta sospendendo [II,36,40] il giudizio. Se egli sospendesse il giudizio su tutto, [II,37,1] come potrebbe giungere anche soltanto ad iniziare la controversia e come sarebbe in grado di rispondere alle domande? È infatti manifesto che almeno su questo non può sospendere il giudizio, ossia sul fatto che invero dichiara di sospendere il giudizio. E se uno deve dare retta ai Pirroniani e sospendere il giudizio su tutto, noi sospenderemo il giudizio in primo luogo proprio sulla sospensione del giudizio, se cioè bisogna darle retta oppure no. Inoltre, se [II,37,5] la verità è proprio questa, ossia che non sappiamo la verità, neppure da parte di Pirrone si dà come principio qualcosa di vero. E se egli dirà che anche questo, ossia l’ignoranza del vero, è controversa; con questa stessa affermazione egli concede che il vero è conoscibile, in quanto Pirrone appare non tenere salda la sospensione del giudizio al riguardo. Infine, se la scelta è una predilezione per certi giudizi o, come dicono alcuni, predilezione per una molteplicità di giudizi che includono una consequenzialità degli uni con gli altri e [II,37,10] con i fenomeni, ed avente per scopo il vivere bene; se il giudizio è un’apprensione logica, e se l’apprensione è una postura ed un assenso dell’intelletto, allora non soltanto gli scettici ma anche ogni filosofo dogmatico è solito sospendere il giudizio in certe circostanze, o per debolezza di intelligenza o per poca chiarezza dei fatti o per eguaglianza di forza dei ragionamenti pro e contro qualcosa.

[II,38,1] Cap. II

La dialettica

Frammenti n. 122-135

SVF II, 122

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 62. La dialettica, come afferma Posidonio, è scienza del vero, del falso e di ciò ch’è né l’uno né l’altro. [II,38,5] Essa è anche, come afferma Crisippo, scienza dei significanti e dei significati.

SVF II, 123

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 187. Ed essi [gli Stoici] chiamavano la dialettica scienza del vero, del falso e di ciò ch’è né l’uno né l’altro.

SVF II, 124

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 3, Ald. p. 1, 8 Wal. Dobbiamo ben sapere in anticipo [II,38,10] che non tutti i filosofi adoperano il nome ‘dialettica’ nel medesimo significato e che gli Stoici, quando definiscono la dialettica come scienza del ‘parlare forbito’, poiché pongono che il parlare forbito consista nel dire cose vere e convenienti e ritengono che ciò sia peculiare del filosofo, adoperano il termine dialettica in riferimento alla filosofia più perfetta. E per questo motivo, [II,38,15] secondo loro, soltanto il sapiente è dialettico.

SVF II, 125

Filodemo ‘De rethorica’ Vol. I, p. 10 Sudhaus. Merita sapere con certezza…. così che uno non dica cose non persuasive, come quella che esiste l’arte dialettica; e non elabori qualcosa secondo i suoi dettami se non in stretto collegamento con i ragionamenti dell’etica e della fisica, [II,38,20] al modo che anche taluni Stoici discernettero. Così pure la retorica […]

SVF II, 126

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1045f. Nel terzo libro ‘Sulla dialettica’ dopo avere rimarcato che: “Platone s’industriò sulla dialettica, come Aristotele e i loro successori fino a Polemone e a Stratone, e soprattutto come Socrate”; e dopo avere ribadito [II,38,25] che: “Uno sarebbe disposto anche ad aberrare in compagnia di questa quantità di personaggi di tale qualità”; <Crisippo> aggiunge testualmente: “Se essi avessero parlato di tale soggetto in modo accessorio, forse uno potrebbe trattare la materia con dileggio; ma poiché essi ne hanno parlato con tale solerzia come se la dialettica fosse tra le arti e facoltà più grandi e più necessarie, non [II,38,30] è plausibile che essi si sbaglino di così tanto, dal momento che sono nel complesso le personalità che si sottintende che sono”.

SVF II, 127

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1035f. <Crisippo> dice di non rifiutare, in generale, di argomentare sia contro una tesi che contro la tesi opposta, ma esorta a [II,39,1] servirsi di questa pratica con cautela, come avviene nei tribunali: senza fare l’avvocato delle tesi opposte ma dissolvendone la plausibilità. “Fare questo, egli afferma, cioè argomentare sia contro una tesi che contro la tesi opposta, spetta a coloro che praticano la sospensione del giudizio su tutto, e ciò coopera allo scopo che essi si prefiggono. Al contrario, a coloro che inculcano la scienza in armonia con la quale [II,39,5] noi vivremo in modo ammissibile con la natura delle cose, spetta dare ai principianti gli elementi e istruirli dettagliatamente dal principio alla fine sugli argomenti trattando i quali ci sarà anche l’opportunità, come avviene nei tribunali, di ricordare i discorsi contrari e di dissolverne la plausibilità”. Queste cose egli le ha dette testualmente.

SVF II, 128

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1037b. [II,39,10] Nelle ‘Questioni di Fisica’ <Crisippo> ha scritto questo: “Anche quando hanno l’apprensione certa di una tesi, si darà il caso che <gli scettici> mettano mano a sostenere la tesi opposta, facendone la difesa per quanto possibile. Qualche volta, invece, si darà il caso che essi parlino delle possibilità di entrambe le tesi pur senza avere l’apprensione certa di nessuna delle due”.

SVF II, 129

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1037b. [II,39,15] Nel suo libro ‘Sull’uso della ragione’, dopo avere detto che non bisogna utilizzare la forza della ragione, come neppure quella delle armi, là dove non spetta farlo, <Crisippo> ha soggiunto questo: “Giacché la forza della ragione va utilizzata per il rinvenimento delle verità e di ciò ch’è loro congenere, non dei loro contrari; benché molti facciano proprio questo”. [II,39,20] E quando parla di ‘molti’ forse si riferisce a coloro che professano la sospensione del giudizio.

SVF II, 130

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 46. Essi affermano che la dialettica è necessaria, e che è essa stessa una virtù inclusiva di altre virtù specifiche. La non-precipitosità è scienza del quando si deve e del quando non si deve assentire. La non-avventatezza è una ragione potente contro ciò che appare verosimile, così da non cedergli. L’irrefragabilità è la potenza nel ragionamento, [II,39,25] così da non esserne fuorviati verso il partito opposto. La non-mattìa è la postura dell’animo che riferisce le rappresentazioni alla retta ragione. E chiamano la scienza stessa o apprensione sicura oppure postura dell’animo la cui immutabilità, nell’accettazione delle rappresentazioni, è a prova di ragionamento. Senza la teoria dialettica il sapiente non sarà incrollabile nel ragionamento, giacché la dialettica vaglia il vero dal falso; [II,39,30] e ciò ch’è persuasivo sarà ben distinto da ciò ch’è detto in modo ambiguo. Sprovvisti della dialettica, non è inoltre possibile formulare con metodo domande e risposte. La precipitazione nelle dichiarazioni si prolunga anche negli avvenimenti che accadono, sicché coloro le cui rappresentazioni non sono ben allenate si volgono alla scompostezza e all’avventatezza. Il sapiente, invece, non apparirà altrimenti che acuto, perspicace e assolutamente valente nei ragionamenti, [II,39,35] giacché è proprio del sapiente il dialogare e il meditare rettamente; il saper mantenere il dialogo entro gli argomenti proposti e il rispondere alle domande che sono formulate: il che è proprio dell’uomo esperto di dialettica.

[2] VII, 83. Tali sono gli Stoici in fatto di questioni logiche, soprattutto per tenere ben fermo il punto che soltanto il sapiente è dialettico. Secondo loro tutte le faccende reali [II,40,1] vanno viste attraverso la teoria logica, sia quante concernono la fisica sia quante, a loro volta, concernono l’etica. È infatti compito del logico sapere che cosa bisogna dire circa la correttezza dei nomi, e senza la logica egli non avrebbe modo di spiegare come le leggi abbiano messo ordine nelle opere umane. Sono due i campi di indagine abitualmente sottoposti alla virtù logica: [II,40,5] uno riguarda cos’è ciascun essere, l’altro che nome ha.

SVF II, 131

[1] Papiro 1020 ‘Herc. Voll. coll. alt.’ X, 112-117. …. che noi teniamo in onore la non-precipitosità e la non-avventatezza ed abbiamo rettamente screditato i loro contrari. La non-precipitosità è la disposizione a non assentire [II,40,10] prima dell’apprensione certa. Essa dà il proprio assenso […] alla rappresentazione catalettica, mentre procura di restare potente e imperterrita contro le rappresentazioni acatalettiche. La persona non precipitosa, infatti, non deve lasciarsi trascinare dalla rappresentazione acatalettica ma deve farsi forza in mezzo alle rappresentazioni, così da non essere trascinata dalle rappresentazioni [II,40,15] acatalettiche, e padroneggiare i suoi assensi in modo da non essere trascinato a seguire le rappresentazioni.

[2] Frgm. I n. […] prima di uomini siffatti, non ha rilievo circa l’inesistenza di uomini virtuosi, ed io non credo impossibile che il virtuoso esista, ma che esserlo sia una cosa sommamente disagevole [II,40,20] come pure difficile da scuotersi di dosso: per questo è stato detto che gli dei hanno posto davanti alla virtù il sudore. Al fatto che il sapiente non abbia opinioni, noi diciamo che conseguono queste cose: in primo luogo nulla gli ‘sembra’, giacché il vano parere è un’opinione incompresa; e poi che egli non crede nulla, giacché la presunzione [II,40,25] è essa stessa un’opinione […] piuttosto parere […] si dice […]

[3] Frgm. II n. …. è proprio dei virtuosi non essere confutati né persuasi a modificare avviso e, per lo stesso motivo, neppure a variarlo. Nessuno di essi fraintende o comprende male, giacché bisogna che egli [II,40,30] non accetti false […] inoltre, in conseguenza di ciò, né egli s’imbroglia sui numeri né si lascia imbrogliare da altri; e per di più non s’ingannerà nella visione, nell’udito o in qualche altro organo di senso […] chi s’inganna nella visione deve, infatti, acquisendo attraverso la vista una falsa [II,41,1] rappresentazione, […] accettarla […] al riparo dall’inganno […]

[4] Frgm. III n. …. e [II,41,5] non avranno molte arti e saranno introdotti a queste. Non è da dirsi che essi abbiano visioni distorte o che siano imperiti nelle arti […] le predette […] l’opinione è [II,41,10] volubile […] impossibile

[5] Ox Ld. […] consegue che il sapiente nulla ignora, e perciò anche tali caratteri saranno similari. Con i predetti, tutti i caratteri dello stolto non saranno caratteri del saggio, e neppure [II,41,15] lo saranno quelli intermedi; per il fatto che essi non si manifestano nei procedimenti logici senza errore. Sotterfugio, ignoranza, diffidenza sono caratteri da stolto; imperizia nell’arte, difetti di vista, l’imbrogliarsi sui numeri sono caratteri intermedi […] imbrogliarsi sui numeri […] [II,41,20] del falso […] d’ogni stolto […] differenza.

[6] Col I n. […] essi affermano, a ciò consegue che i sapienti sono al riparo dall’inganno e dalle aberrazioni, come già secondo [II,41,25] Aristotele, ed effettuano bene ogni cosa. Perciò circa gli assensi essi fanno in modo che non avvengano altrimenti se non dopo che la più grande pensosità è diventata apprensione. Al primo posto c’è dunque la filosofia, intesa sia come attività di studio della correttezza del ragionamento sia come la scienza stessa della trattazione del discorso. Giacché soltanto essendo ben addentro alle [II,41,30] parti costitutive del discorso e alla loro sintassi noi ci serviremo da esperti del ragionamento, e intendo per ragionamento quell’attività che inerisce per natura a tutti gli esseri razionali. Se pertanto la dialettica è scienza del dialogare rettamente, secondo noi […]

[7] Col II n. […] è plausibile che costui sia valente nelle risposte […] [II,41,35] e che chi è valente nel porre le domande e nel dare le risposte sia incapace di avere il sopravvento e di sfuggire ai tranelli logici, mentre chi è tale [II,42,1] da lasciarsi ingannare abbia invece il sopravvento e sfugga a tali tranelli. Il sapiente deve insomma essere valido nel dialogare, e chi è valido nel dialogare dev’essere persona ben introdotta sia nel porre correttamente le domande sia nel dare correttamente le risposte. Queste non saranno caratteristiche di chi si lascia ingannare, [II,42,5] né di chi rispondesse correttamente ma con argomentazioni false e precipitose. Converrebbe dunque che il saggio avesse una consumata esperienza di discorsi, pur senza avere una consumata esperienza teoretica anche dei più piccoli <particolari> […]

[8] Col III n. Quanto a chi si lascia ingannare e alla sua validità nel dialogo contro un avversario, costui non sarebbe capace [II,42,10] di avere il sopravvento né di serbarsi indomito. Ma il sapiente, poiché dice il vero, replicherà a costoro, e in molti procederanno contro coloro che dicono il falso. I sapienti, infatti, sono al riparo dalla confutazione, e poiché hanno rappresentazioni catalettiche delle proposizioni, sono in grado di procedere in modo autonomo alla confutazione del ragionamento da eliminare e di farsi valere [II,42,15] contro gli avversari. Essi devono infatti rimanere immoti di fronte alla contestazione e ben armati nel loro assenso contro gli avversari […]

SVF II, 132

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 38. Alcuni filosofi, e soprattutto gli Stoici, credono che la ‘verità’ si differenzi dall’ ‘enunciato vero’ in tre modi: per sostanza, [II,42,20] per componentistica, per facoltatività. Per sostanza, in quanto la verità è corpo, mentre l’enunciato vero sarebbe un incorporeo. Ed è verosimile che sia così, essi affermano, giacché l’enunciato vero è una proposizione, la proposizione è un esprimibile, e un esprimibile è un incorporeo. All’opposto, la verità è corpo, in quanto appare essere scienza indicativa di tutte sostanze vere, ed ogni scienza è un certo modo di essere dell’egemonico [II,42,25] proprio come il pugno è un certo modo di essere della mano. E siccome, secondo gli Stoici, l’egemonico sarebbe ‘corpo’, dunque anche la verità sarà di genere ‘corporeo’. Per componentistica, in quanto l’enunciato vero è stato pensato come qualcosa di una sola specie e semplice per sua natura; […] mentre la verità, poiché si istituirebbe a scienza, è stata al contrario concepita come una raccolta sistematica di molteplici sostanze.

[2] VII, 42. Per facoltatività, [II,42,30] ‘verità’ ed ‘enunciato vero’ sono stati separati uno dall’altra giacché l’enunciato vero non parteciperebbe affatto della scienza. Infatti anche l’insipiente, l’infante e il pazzo pronunciano a volte qualche enunciato vero, ma non hanno scienza della vera sostanza; mentre la verità è invece vista in armonia con la scienza. Laonde chi possiede questa è sapiente, giacché possiederebbe la scienza delle sostanze vere; e non dice mai una falsità anche qualora proferisse un enunciato falso, poiché lo proferisce non a partire [II,42,35] da una disposizione cattiva ma da una virtuosa.

[3] VII, 44. In questo modo il sapiente, cioè colui che ha la scienza della vera sostanza, proferirà a volte un enunciato falso ma non dirà mai una falsità giacché non ha l’intelligenza assenziente alla falsità.

[4] VII, 45. Proferire un enunciato falso differisce di gran lunga dal dire falsità, in quanto una cosa proviene da un’intelligenza virtuosa, mentre il dire falsità proviene da una malvagia.

SVF II, 133

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Metaph.’ p. 258, 4 Bon. 301, 17 Hayd. [II,42,40] Credere che non vi sia un enunciato [II,43,1] più mendace di un altro, come sembra agli Stoici, è una falsità ed è contrario all’evidenza.

SVF II, 134

Cicerone ‘Orator’ XXXII, 115. Io ritengo che chi è portato a cercare lode per la propria eloquenza non debba affatto essere inesperto di quelle dottrine, bensì un fine conoscitore vuoi della vecchia logica <di Aristotele>, vuoi di questa di Crisippo. [II,43,5] In primo luogo egli dovrebbe conoscere la forza, la natura e i generi delle parole singole e di quelle che le uniscono in una frase; poi in quanti modi si possa dire una cosa; il criterio per discernere il vero dal falso; cosa producano l’uno e l’altro, cosa ne consegua e cosa ne sia il suo contrario; e quando [II,43,10] si dicano molte ambiguità, come ciascuna di esse debba essere risolta e spiegata.

SVF II, 135

[1] Galeno ‘In Hippocr. de med. officina’ Vol. XVIII B, p. 649 K. Di seguito a tutti quanti i tipi di sensazione egli posizionò l’intelligenza, cioè l’intelletto, che gli uomini chiamano comunemente anche mente, senno, ragione. E poiché l’intelligenza è anche un discorso di quelli che si fanno a voce, circoscrivendo la definizione i filosofi [II,43,15] chiamano questo predetto discorso ‘discorso mentale’. Attraverso questo ‘discorso mentale’ noi riconosciamo le conseguenze e le contraddizioni, che abbracciano entro di sé anche la diairesi e la sintesi, l’analisi e la dimostrazione.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 275. <I Dogmatici> affermano che l’uomo differisce dagli animali bruti non per la ragione come discorso verbalmente proferito (giacché anche i corvi, i pappagalli e le gazze [II,43,20] proferiscono voci articolate) ma per il discorso mentale, e non soltanto per la semplice rappresentazione ma per la rappresentazione traslatoria e sintetica. Avendo perciò l’uomo il concetto di conseguenza, grazie ad esso subito ha intellezione del ‘segno’.

A. Sui significanti o sulla voce

Frammenti n. 136-165

[II,43,25]

SVF II, 136

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 55. La maggioranza di essi è concorde nel ritenere opportuno che la discussione della teoria dialettica prenda avvio dal tema della voce.

SVF II, 137

‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 266, p. 53 Di Gregorio. [II,43,30] Iris, ossia il discorso verbalmente proferito, origina dalla forma εἴρω (‘éiro’) del verbo λέγω (‘légo’) ‘dico’.

SVF II, 138

Origene ‘Contra Celsum’ II, 72, Vol. I, p. 194, 13 K. Io non dico che la voce non sia affatto aria percossa o una percossa d’aria o che nei libri ‘Sulla voce’ quella indicata a volte come tale sia chiamata ‘voce di Dio’.

[II,43,35]

SVF II, 139

Scholia in Arat. I, p. 335, 17 Maass. […] <questo> gli Stoici ipotizzano, e in special modo tutti coloro che scrivono la definizione della ‘voce’, e la chiamano ‘aria percossa’.

SVF II, 140

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 55. Secondo gli Stoici la voce è corpo, come affermano Archedemo nel suo libro ‘Sulla voce’, Diogene, [II,44,1] Antipatro e Crisippo nel secondo libro della ‘Fisica’. Infatti, tutto ciò che fa un’azione è corpo; e la voce fa un’azione quando s’avvicina da chi parla a chi ascolta.

SVF II, 141

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ V, 15. Gli Stoici sostengono che la voce è un corpo, [II,44,5] e dicono che è aria percossa.

SVF II, 142

Servio ‘In Aeneidem’ II, 488. I filosofi della natura dicono che la voce è corpo, quindi che l’urlo ferisce.

SVF II, 143

Varrone ‘De lingua latina’ VI, 56. ‘Parlare’ (loqui, in latino) deriva da ‘luogo’ (locus), perché chi comincia a pronunciare le prime parole dice i nomi e gli altri termini del discorso prima di saperli mettere al giusto luogo. Crisippo [II,44,10] sostiene che costui non parla, ma quasi-parla. Perciò, come l’immagine di un uomo non è un uomo, così nei corvi, nelle cornacchie, nei bambini che iniziano ad esprimersi le parole non sono vere parole, perché essi non parlano.

SVF II, 144

[1] Galeno ‘In Hippocr. de humoribus’ 1, XVI, p. 204 K. Voce, [II,44,15] linguaggio articolato, favella, non sono la stessa cosa. La ‘voce’ è opera degli strumenti della fonazione; il ‘linguaggio articolato’ di quelli della dizione, il primo dei quali è la lingua e, dopo di essa, il naso, le labbra e i denti. Strumenti della fonazione sono il laringe e i muscoli e nervi che lo fanno muovere: nervi che dal cervello trasferiscono a questi strumenti la forza motoria. Quella che gli antichi chiamavano ‘favella’ non è la stessa cosa di tutto ciò che cade [II,44,20] sotto il senso dell’udito, né è soltanto ciò ch’è emesso attraverso la bocca, nel quale sono inclusi il singhiozzare, il fischiare, il mugugnare, il tossire e tutti quanti i suoni del genere. Gli antichi denominavano invece favella soltanto la voce umana con la quale noi dialoghiamo gli uni con gli altri.

[2] ‘In Hippocr. Epidem.’ III, Vol. XVII, 1, p. 757 K. [II,44,25] Così anche il poeta, allorché descrisse Achille mentre dialoga con i suoi cavalli, afferma che uno dei due scambia con lui dei discorsi utilizzando il linguaggio articolato umano. Dice infatti il poeta:

‘favellante lo rese Era, la dea dalle bianche braccia’.

Non perché esso fosse in precedenza privo di voce, né perché mancasse della comune voce dei cavalli, ma in quanto quella voce [II,44,30] non era denominata ‘favella’. Allo stesso modo il poeta chiamò “dea favellante con voce umana” la dea che utilizzava il linguaggio articolato umano e disse che ella aveva sembianze umane, giacché non tutti gli dei esistenti sono di questo genere. È infatti evidente che il sole, la luna e il resto degli astri si discostano moltissimo dalla forma ideale di ‘uomini’.

SVF II, 145

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 117 (p. 336 Aucher). Compara intelletto, sensi e corpo [II,44,35] alle vocali, semivocali e consonanti.

SVF II, 146

Origene ‘Contra Celsum’ I, 24 (p. 341 Delarue) Vol. I, p. 74, 10 K. È pertinente con questo obiettivo un discorso profondo e difficile a farsi, ossia quello sulla natura dei nomi: se cioè, [II,44,40] come crede Aristotele, i nomi siano tali per convenzione oppure, come ritengono gli Stoici, i nomi siano tali per natura. Secondo questi ultimi, le prime voci avrebbero imitato le cose, e a corrispondenza di queste essi introducono i nomi, e pure gli elementi dell’etimologia.

SVF II, 147

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 57. Come [II,45,1] affermano Diogene […] e Crisippo, le parti del discorso sono cinque: nome, appellativo, verbo, congiunzione, articolo.

SVF II, 148

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ VIII, 3, p. 232, 673 M. Platone ritiene che questo ‘fuoco sensibile’ sia un fitto ammasso di minuscoli corpi [II,45,5] aventi tutti forma piramidale. Egli afferma che ciascuno di quei corpuscoli è un elemento del fuoco, come se dicesse che di una catasta di legna infuocata ciascun fuoco singolo è un elemento. Secondo lo stesso ragionamento, anche gli elementi della voce generano dapprima le sillabe; poi da esse si generano il nome, [II,45,10] il verbo, la preposizione, l’articolo e la congiunzione, che a sua volta Crisippo denomina ‘elementi del discorso’.

SVF II, 149

Galeno ‘De differentia pulsuum’ III, 4, Vol. VIII, p. 662 K. Ma anche le parole βλίτυρι (‘blìturi’) e σκινδαψός (‘skindapsòs’) sono, egli afferma, completamente prive di significato. […] Perché, o uomo, vaneggi volontariamente? Anche βλίτυρι manifesta un suono musicale e σκινδαψός non è soltanto un nome [II,45,15] da domestici ma anche il nome di uno strumento musicale.

SVF II, 150

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 8Z Ed. Bas. Più appropriatamente Aristotele ha chiamato ‘sinonime’ le voci che con un diverso nome definiscono però la stessa cosa. Oppure gli Stoici, i quali definiscono ‘sinonime’ le realtà che hanno contemporaneamente molti nomi, come Paride [II,45,20] ed Alessandro che sono lo stesso individuo, e che sono da loro chiamate semplicemente polinomi.

SVF II, 151

Varrone ‘De lingua latina’ IX, 1. <Enorme è l’errore di quanti preferiscono> insegnare quello che non sanno, invece di imparare quello che ignorano. Fra costoro rientra Cratete, un valente grammatico che basandosi sull’autorità di Crisippo, uomo di grande ingegno ed autore di tre libri ‘Sulla anomalia’, intraprese una polemica contro l’analogia e contro Aristarco, ma in un maniera tale che, a quanto si deduce dai suoi scritti, non sembra aver capito le tesi né di Crisippo né di Aristarco; [II,45,25] poiché Crisippo, quando scrive sulle anomalie lessicali si propone di mostrare che cose simili sono indicate con parole dissimili, e cose dissimili con parole simili: il che è vero.

SVF II, 152

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ XI, 12. Crisippo asserisce che tutte le parole sono per natura ambigue, giacché la stessa parola [II,45,30] può essere intesa in due o più modi diversi. Invece Diodoro, detto Crono, dice che nessuna parola è ambigua, che nessuno dice o sente parole ambigue, e che non deve sembrare che sia detto altro da ciò che sente se stesso dire chi sta parlando.          

SVF II, 153

Galeno ‘De sophism. ex elocutione’ 4, Vol. XIV, p. 595 K. [II,45,35] Su queste anfibolie alcune cose sono state dette anche dagli Stoici, i quali sono giunti ad individuarne distintamente una giusta parte, pur se qualche modo dell’anfibolia ne cade al di fuori. Questa fiducia negli Stoici potrebbe essere una chiamata in soccorso; peraltro giusta, [II,46,1] non dovendosi mettere da parte come accessoria alcuna opinione di uomini di chiara fama. La loro definizione di ‘anfibolia’, se pur sembra contraddire molte delle nostre affermazioni, va per ora lasciata da parte; giacché qui si tratta di considerare, oltre le definizioni, altre difficili questioni. Prendiamo dunque in esame le differenti forme delle cosiddette anfibolie [II,46,5] le quali, secondo gli Stoici più colti, sono in numero di otto. La prima forma di anfibolia è quella che essi denominano comune di ciò che ‘è detto’ e di ciò ch’è ‘suddivisibile’: per esempio, ‘la flautista caduta’; giacché questa anfibolia è comune sia di nome suddivisibile: ‘flautista’ [infatti il sostantivo greco ‘auletrìs’ = ‘flautista’ può essere suddiviso e letto come ‘aulé-tris’ e quindi significare ‘il cortile (o la dimora) tre volte’], che di ciò che ‘è detto’. La seconda forma di anfibolia ha a che fare con l’omonimia di semplici termini: per esempio, ‘virile’. Infatti ‘virile’ può essere una tunica oppure può essere un uomo. [II,46,10] La terza forma di anfibolia ha a che fare con l’omonimia negli enunciati composti: per esempio, ‘l’uomo è’. Questa espressione è ambigua, perché significa o la ‘sostanza’ oppure il semplice ‘caso’ grammaticale. La quarta forma di anfibolia ha a che fare con l’ellissi, come l’espressione ‘che è tuo…’, giacché qui manca il termine intermedio: per esempio, ‘padrone’ oppure ‘padre’. La quinta forma di anfibolia ha a che fare con il pleonasmo, come quella del genere: ‘gli proibì di non [II,46,15] navigare’. L’aggiunta di quel ‘non’ rende infatti tutta la frase incerta: se cioè qualcuno proibì il navigare oppure il non navigare. La sesta forma di anfibolia, dicono sia quella che non chiarisce con che cosa è stata messa in relazione la parte priva di significato, come nel caso della frase: ‘e ora, o passò oltre’. Infatti l’elemento […] diventerebbe di tipo disgiuntivo. La settima forma di anfibolia è quella che non rende manifesto con che cosa è stata messa in relazione la parte [II,46,20] significante, come nel caso della frase: ‘Il divino Achille lasciò cinquanta uomini, cento’. L’ottava forma di anfibolia è quella che non rende manifesto cosa si riferisce a che cosa, come nel caso della frase: ‘Dione Teone è’. È infatti dubbio se la frase faccia riferimento all’esistenza di entrambi, o a qualcosa del genere, per esempio: ‘Dione è Teone’ oppure al contrario. […] Questi sono i modi delle anfibolie [II,46,25] enumerati dagli Stoici più colti. […] L’assenza di metodo e d’arte è ben manifesta […]

SVF II, 154

Varrone ‘De lingua latina’ VI, 1. Parlerò ora dei nomi dei tempi e di quanto accade o si dice con un riferimento temporale quando si opera, come ‘si siede’, ‘si cammina’, ‘che essi parlino’. Se poi si aggiungeranno considerazioni di genere diverso, io mi atterrò [II,46,30] più alla parentela fra le parole che ai rimproveri di chi mi ascolta. Su questo argomento io mi baso sull’autorità di Crisippo e di Antipatro […] i quali tutti scrivono che le parole derivano dalle parole, sicché le parole derivate differiscono per aggiunta, perdita o mutazione di lettere.

SVF II, 155

Varrone ‘De lingua latina’ X, 59. Infatti talvolta un termine [II,46,35] risulta da un altro, come scrive Crisippo, ad esempio nella relazione padre-figlio e figlio-padre; [II,47,1] o come nel caso degli archi, nei quali la parte destra tiene su la sinistra e la sinistra la destra. Parimenti, dai casi retti è possibile risalire a quelli obliqui e dagli obliqui ai retti, dai singolari ai plurali e dai plurali ai singolari.

SVF II, 156

‘Scholia’ in Hom. Iliad. IV, 295. [II,47,5] Esecrabile ἀλάστωρ (‘alàstor’) ed erroneo ἁμαρτωλός (‘amartolòs’), secondo Crisippo, è l’omicida perché merita di ‘andare vagando’ ἀλᾶσθαι (‘alàsthai’) cioè di ‘andare errando’ πλανᾶσθαι (‘planàsthai’).

SVF II, 157

Lexicon apud Bekk. Anecdot. Gr. I, 374. ἀλάστωρ ovvero ἁμαρτωλός l’erroneo. Oppure il demone omicida. Secondo il filosofo Crisippo [II,47,10] deriva da ἔλασις (‘élasis’) allontanamento, perché merita di essere perseguitato ἐλαύνεσθαι (‘elàunesthai’) a causa dell’omicidio. Secondo Apollodoro deriva invece da ἀλιτεῖν (‘alitèin’) essere colpevole.

SVF II, 158

‘Etymologicum Magnum’ s.v. ἀλάστωρ […] secondo il filosofo Crisippo ha a che fare con ἁμαρτωλός l’erroneo e l’omicida; e deriva dall’allontanamento ἔλασις perché merita di essere perseguitato ἐλαύνεσθαι per l’omicidio.

SVF II, 159

‘Etymologicum Orion’ s.v. [II,47,15] ἀγκών (‘ankòn’) gomito […] Crisippo l’intende ἐγκών (‘enkòn’) , per il fatto che un osso sta sopra ἐγκεῖσθαι (‘enkeisthai’) un altro.

SVF II, 160

‘Etymologicum Magnum’ s.v. διδάσκω (‘didàsko’) p. 272, 18. Erodiano dice che Crisippo fa derivare il significato di διδάσκειν (‘didàskein’) insegnare da ἀσκεῖν (‘àskein’) esercitare. Da esercito qualcosa τὶ ἀσκῶ (‘tì askò’) si passa a διάσκω (‘diàsko’) e quindi per epentesi della consonante ‘d’ alla forma διδάσκω.

SVF II, 161

‘Etymologicum Magnum’ s.v. παλαιστή (‘palaisté’) p. 647, 34. [II,47,20] Si dice σπιθαμή (‘spithamé’) spanna dall’azione di divaricazione ἀποσπασμόν (‘apospasmòn’) ossia la divaricazione che si opera dal dito grande, il pollice, fino all’estremità del mignolo. Così dice Crisippo, per il fatto di aprire al massimo σπᾶσθαι (‘spàsthai’) l’intera mano.

SVF II, 162

‘Etymologicum Gudianum’ s.v. βάναυσος (‘bànausos’) […][II,47,25] Crisippo, dall’ingenerare e provvedere […] artigiani […] in vista della vita […]

SVF II, 163

Varrone ‘De lingua latina’ VI, 11. ‘Aevum’ ossia ‘eternità’ viene da ‘età di tutti gli anni’; da cui deriva ‘aeviternum’ e infine ‘aeternum’. Per i Greci è αἰῶνα, che secondo Crisippo [II,47,30] vale come () ε () ὄν ossia ‘sempre esistente’.

SVF II, 164

Ammonio ‘In Aristot. de interpr.’ p. 42, 30 Busse. Circa l’espressione verbale diretta dei nomi, presso gli antichi si faceva solitamente ricerca se convenisse chiamarla o no ‘caso’ oppure senz’altro ‘nome’, dal momento che ciascuna faccenda prende la propria denominazione da quell’espressione verbale [II,47,35] e gli altri casi del nome nascono dalla declinazione di quel nominativo. Aristotele è un sostenitore di questa seconda opinione […] mentre gli Stoici e, come loro seguaci quanti perseguono l’arte della grammatica, sono sostenitori della prima opinione. Quando i Peripatetici dicono loro […] “Per quale ragione è giusto chiamare il nominativo ‘caso’, come se ‘cadesse’ da qualcosa?”; [II,47,40] gli Stoici rispondono che il nominativo è un caso perché ‘è caduto’ anch’esso dall’intellezione che è nel nostro animo. Noi abbiamo, infatti, in noi stessi l’intellezione di ‘Socrate’, [II,48,1] e quando decidiamo di manifestarla allora pronunciamo il nome ‘Socrate’. Come quando dello stilo, lasciato cadere dall’alto e conficcatosi diritto nella tavoletta per scrivere, si dice che ha avuto una caduta in linea retta; allo stesso modo noi siamo del parere che il nominativo sia ‘caduto’ dal concetto, e che il caso sia retto a causa del suo essere l’archetipo [II,48,5] delle forme in cui il nome è poi verbalmente proferito.

SVF II, 165

‘Scholia’ in Dionys. Thrac. Bekker Anecd. Gr. II, p. 891. Il presente, gli Stoici lo definiscono ‘tempo durativo’, poiché si distende dal passato anche verso il futuro. Infatti, chi dice ‘sto facendo’ palesa anche che fece e che farà.

[II,48,10] B. Sui significati o esprimibili

Frammenti n. 166-171

SVF II, 166

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 11. Tra i Dogmatici vi era anche un altro dissenso. Infatti, alcuni ponevano vero e falso [II,48,15] nei ‘significati’, altri nella ‘voce’ e altri ancora nel ‘movimento dell’intelletto’. Sostenitori della prima opinione sono stati gli Stoici, i quali affermano che tre elementi sono aggiogati uno all’altro: il significato, il significante e la cosa esistente. Il ‘significante’ è la voce: per esempio, ‘Dione’. Il ‘significato’ è la faccenda che è resa manifesta dal significante-voce e della cui esistenza davanti a noi prendiamo atto [II,48,20] con il nostro intelletto; significato che i barbari non capiscono pur se odono il suono della voce. La cosa esistente è l’oggetto esterno reale, cioè ‘Dione’ in carne ed ossa. Di questi elementi, due sono ‘corpo’: in questo caso la ‘voce’ e la ‘cosa esistente’; mentre uno è un ‘incorporeo’, come la faccenda significata, ed un ‘esprimibile’, il quale è ‘vero o falso’. Non ogni esprimibile ha però in comune di essere vero o falso, poiché un esprimibile [II,48,25] può essere ellittico ed un altro essere completo. Alla specie degli esprimibili completi appartiene la proposizione, e gli Stoici la delineano affermando che “la proposizione è l’esprimibile che è vero o falso”.

SVF II, 167

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 80. Ogni esprimibile deve poter essere espresso, il che è ciò da cui ha avuto in sorte questo appellativo. […] Infatti il parlare, come affermano proprio gli Stoici, significa proferire quella voce che è significante [II,48,30] della faccenda di cui si ha cognizione […]

SVF II, 168

Ammonio ‘In Aristot. de interpr.’ p. 17, 24 Busse. Per mezzo di ciò Aristotele insegna quali sono le cose principalmente ed immediatamente significate dalle voci e che esse sono le intellezioni e, per loro mezzo, i fatti. Nulla di diverso bisogna dunque divisare quale intermedio [II,48,35] tra l’intellezione e il fatto, cosa che invece gli Stoici ipotizzavano ed erano del parere di denominare ‘esprimibile’.

SVF II, 169

‘Scholia’ in Hom. Iliad. II, 349. Falsità: di contro a ‘falso’. Presso gli Stoici le cose portate a significazione per mezzo di altre sono chiamate ‘esprimibili’.

SVF II, 170

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 224. [II,48,40] Pertanto ciò ch’è ‘corpo’ non si insegna, e soprattutto non si insegna da parte degli Stoici. Gli insegnamenti sono infatti degli ‘esprimibili’, e gli esprimibili non sono ‘corpo’.

SVF II, 171

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1037d. [II,49,1] Essi <gli Stoici> invero dicono che quanti proibiscono qualcosa dicono una cosa, ne proibiscono un’altra e ne ingiungono un’altra ancora. Infatti, chi sta dicendo “Non rubare”, dice di non rubare; ma sta anche proibendo di rubare e ingiungendo di non [II,49,5] rubare.

§ 1. Sugli opposti, i contrapposti e i privativi

Frammenti n. 172-180

[II,49,10]

SVF II, 172

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 98Γ, Ed. Bas. Una volta chiarita l’espressione di Aristotele, vediamo quanto [II,49,15] hanno elaborano sull’argomento i suoi più incliti interpreti. Poiché gli Stoici fanno gran pregio dell’elaborazione delle argomentazioni logiche e, tra le altre, anche di quelle sugli opposti, essi s’industriano di mostrare che tutti gli spunti al riguardo Aristotele ce li ha procurati in un solo libro, quello intitolato ‘Sui contrapposti’. In questo libro si riscontra pure un’imbarazzante moltitudine di aporie, delle quali però gli Stoici hanno evidenziato soltanto una piccola [II,49,20] porzione, non essendo logico inserire anche il resto in un testo a carattere introduttivo. Diciamo allora le cose sulle quali gli Stoici sono d’accordo con Aristotele. Poiché è d’antica discendenza questa definizione, che noi abbiamo già ricordato in precedenza, degli opposti: ‘opposti sono quegli elementi dello stesso genere tra i quali vi è il massimo di differenza’; [II,49,25] Aristotele la adottò nel suo libro ‘Sui contrapposti’ e la sottomise a prove di varia specie. […] Avendo Aristotele ugualmente utilizzato questa definizione nel suo discorso sulla quantità, dopo avere segnalato che la definizione è antica, gli Stoici la assunsero e la utilizzarono, additando quanto in essa suonava fesso e ugualmente provando a risolvere le apparenti assurdità. […] Gli [II,49,30] Stoici si servirono dunque di tutte queste argomentazioni e nelle altre definizioni concernenti gli opposti seguirono passo passo Aristotele, poiché è stato lui, nella sua compilazione ‘Sui contrapposti’ ad avere dato loro gli spunti che essi elaborarono poi nei loro libri.

SVF II, 173

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 98E, Ed. Bas. Infatti essi, come Aristotele, [II,49,35] concepirono opposte anche le posture dell’animo: per esempio, ‘saggezza’ e ‘stoltezza’; i predicati, come ‘essere saggio’ ed ‘essere stolto’; [II,50,1] e i termini intermedi: per esempio, ‘saggiamente’ e ‘stoltamente’. Tuttavia concepirono le ‘qualità’ e i ‘modi di essere’ non ancora ‘opposti’ bensì ‘in stato di opposizione’. Essi dicono che questo non è l’opposto di quello, ma che è il saggio ad essere, senza mezzi termini, l’opposto dello stolto. E se a volte noi diciamo che questo è l’opposto di quest’altro [II,50,5] stiamo indicando cose, com’essi affermano, che sono senza mezzi termini. Nel senso più proprio, pertanto, si conosce con chiarezza l’opposizione nel caso delle posture dell’animo, delle relazioni, delle attività e delle cose a queste similari. Secondariamente, si dicono opposti i predicati e quanto in qualche modo si predica in relazione a quelle. Anche il ‘saggiamente’ e lo ‘stoltamente’ [II,50,10] s’appressano in un certo modo ad essere degli opposti. Nel complesso, è riguardo ai fatti esprimibili che si conoscono chiaramente gli opposti, e così la saggezza è detta l’opposto della stoltezza senza mezzi termini, non questa saggezza qui in questo modo. Se l’insegnamento degli Stoici è di questo genere, vediamo come essi l’abbiano tirato fuori da quello trasmessoci da Aristotele.

SVF II, 174

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 98Z Ed. Bas. [II,50,15] Poiché dunque è possibile dire la stessa cosa con un enunciato non composto: per esempio, saggezza o stoltezza; oppure mediante una definizione: per esempio, per saggezza, che è scienza dei beni, dei mali e di ciò ch’è né bene né male; e per stoltezza, che è ignoranza dei medesimi; costoro ricercano se opposti siano soltanto gli enunciati non composti oppure anche gli enunciati delle definizioni. [II,50,20] Crisippo, riflettendovi, si chiede se opposti siano forse soltanto i semplici appellativi e non gli altri enunciati. Infatti, negli enunciati composti noi coinvolgiamo molti elementi e li proferiamo ricorrendo ad articoli, congiunzioni e altre particelle esplicative, ciascuna delle quali potrebbe essere altrimenti assunta nella formulazione discorsiva degli enunciati opposti. Perciò egli afferma che la saggezza è l’opposto della stoltezza, [II,50,25] ma che la definizione di saggezza non è più conformemente l’opposto della definizione di stoltezza, e però “facendo riferimento agli enunciati non composti <gli Stoici> contrappongono, per connubio con essi, anche le definizioni”.

SVF II, 175

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 102Z Ed. Bas. Gli Stoici sostengono con forza che nulla di quanto è detto per negazione [II,50,30] è l’opposto di qualcosa. Infatti, se la non-virtù fosse l’opposto della virtù e il non-vizio l’opposto del vizio, nell’ambito della non-virtù ricadrebbero sia il vizio che molte altre cose: un sasso, un cavallo e tutte le cose che nulla hanno a che fare con la virtù; e nell’ambito del non-vizio ricadrebbero sia la virtù sia tutto il resto. Tutto sarà dunque l’opposto di una cosa sola e le medesime cose saranno l’opposto [II,50,35] sia della virtù che del vizio, nel caso che non fosse la virtù bensì il non-vizio ad essere l’opposto del vizio. Avverrà allora che le azioni intermedie siano l’opposto sia di quelle virtuose che di quelle viziose. Ma ciò è assurdo, soprattutto trattandosi di azioni identiche [II,51,1] e non. Quando di due opposti, tutte le cose che ricadono nell’ambito di uno sono qualità, com’è il caso della virtù e del vizio; mentre invece le cose che ricadono nell’ambito dell’altro sono sia qualità che esseri dotati di qualità, com’è il caso della non-virtù e del non-vizio (giacché nell’ambito di questi ultimi rientrano sia le qualità, sia gli esseri dotati di qualità, sia le attività e qualunque altra cosa esistente), [II,51,5] anche questo è incongruente. È dunque in questo modo che sono stati definiti da parte degli Stoici gli opposti e i contrapposti per negazione.

SVF II, 176

[1] Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 102Δ Ed. Bas. Gli Stoici legittimano l’idea che soltanto le frasi negative si contrappongano a quelle affermative.

[2] ‘Anecdota graeca’ p. 484 Bekker. Neppure dobbiamo omettere ciò che dicono gli Stoici, [II,51,10] i quali parlano di una differenza tra ‘contraddittorio’ e ‘contrapposto’ nel caso di fatti che sono per natura disgiunti e inconciliabili. Sarebbe cioè ‘contraddittorio’ ciò che non può essere compreso in una medesima intellezione, e di esso è già stato detto in precedenza: ‘è giorno ed è notte’, oppure ‘pronuncio delle parole e sto in silenzio’ e fatti simili a questi. Sarebbe invece ‘contrapposto’ ciò che ha in più la negazione […]

SVF II, 177

[1] Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 100B Ed. Bas. [II,51,15] Esiste anche un altro tipo di forma privativa che è diversa dalla ‘deprivazione’ naturale di qualcosa -intendo dire diversa dalla deprivazione di proprietà naturali o del quando esse nascono naturalmente- e che Crisippo chiama relativa alle abitudini. Le forme ‘senza tunica’, ‘senza calzari’, ‘senza colazione’ possono significare mera esclusione, ma significano anche una modificazione a rovescio del significato quando sono termini privativi. [II,51,20] Infatti, noi non diremo che il bue è un ‘senza tunica’, né che quando facciamo il bagno noi siamo dei ‘senza calzari’, né che quando viene giorno tanto gli uccelli che noi siamo dei ‘senza colazione’; giacché bisogna che la forma privativa palesi al contempo l’abitudine e il quando dell’abitudine. Se l’abitudine è quella di fare colazione ad una certa ora stabilita e chi ha quest’abitudine non fa colazione al momento stabilito, con questa privazione [II,51,25] costui elimina il palesamento non di un fatto naturale ma di un’abitudine. Vi sono dunque non-possessi di proprietà naturali e non-possessi di abitudini, ed esclusioni sia nell’ambito delle proprietà naturali che in quello delle abitudini. Spesso poi la forma privativa palesa la decadenza non da un’abitudine ma da un atto doveroso, come quando, a proposito del venire a pranzo ‘senza invito’, noi rendiamo palese che l’ospite è venuto da noi in modo né doveroso [II,51,30] né confacente alle abitudini. Peraltro esiste anche la deprivazione nel caso di realtà chiamate con lo stesso nome. Giacché qualora un intero genere di esseri manchi per natura di qualcosa, noi diciamo che esso è stato deprivato di ciò che per natura non ha. Così i vegetali sono privi della sensazione: e lo diciamo perché essi non hanno per natura le sensazioni. Qualora entro un genere talune creature abbiano per natura una cosa [II,51,35] e altre invece non l’abbiano, si dice che quelle che per natura non l’hanno ne siano deprivate: come, nel genere animale, è il caso della talpa, la quale è priva della vista. E parliamo così in casi come questi, piuttosto che nei casi della sottrazione di qualcosa mediante violenza. Pertanto si parla propriamente di deprivazione in rapporto a proprietà che si hanno per natura e che invece non si hanno alla nascita o non si hanno allorquando esse sono solite presentarsi, il che è visto anche come condizione antitetica al possesso, [II,52,1] e la condizione di antitesi al possesso è stata chiamata deprivazione. […] Bisogna anche sapere che talora nomi non privativi indicano però una deprivazione: come ‘povertà’, che indica deprivazione delle ricchezze; e come ‘cieco’, che indica deprivazione della vista. Talora i nomi privativi non indicano però una deprivazione. Il termine [II,52,5] ‘immortale’, la cui forma è privativa, non significa deprivazione, giacché noi usiamo questo termine non per indicare qualcuno che è nato per morire e che poi invece non muore. Vi è molto sconcerto intorno alle voci privative. Infatti, essendo esse introdotte dalla lettera ‘a’ o dalla particella ‘an’: come ἄοικος (‘àoikos’) ‘senza casa’ e ἀνέστιος (‘anéstios’) ‘senza focolare’; avviene che esse [II,52,10] siano impasticciate a volte con le negazioni, a volte con gli opposti. Dato che erano molte le anomalie al riguardo, Crisippo ne ripercorse i problemi in quanto disse circa le forme privative, mentre questo non era stato un obiettivo di Aristotele […]

[2] 102B Ed. Bas. Ma il discorso completo sulle forme privative [II,52,15] può essere appreso dal libro di Aristotele e di Crisippo.

SVF II, 178

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 101E Ed. Bas. Non ci può essere trasformazione scambievole del possesso e della deprivazione. La cecità, infatti, nasce dalla vista e non accade il contrario. Perciò [II,52,20] Crisippo ricercò se si debba dire che gli individui affetti da cataratta, potendo recuperare la vista per asportazione di quella, sono ciechi; e si pose la stessa domanda a proposito di coloro le cui palpebre sono state chiuse. Infatti, chi tiene gli occhi chiusi oppure chi ha la vista impedita da una cortina, levata di mezzo la quale nulla gli impedisce di vedere, conserva nondimeno la facoltà visiva. Pertanto una trasformazione del genere non è un passaggio dalla deprivazione al possesso. [II,52,25] A questo punto egli prende in esame la deprivazione per storpiatura.

SVF II, 179

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 100B Ed. Bas. In compagnia di Aristotele, anche Crisippo chiama termini ‘privativi’ tutti quelli che eliminano la natura di possesso di qualcosa modificando a rovescio il senso della parola, non semplicemente ma lasciando palese la proprietà naturale e il quando [II,52,30] essa naturalmente è nata. […] La deprivazione si contrappone al possesso (così chiamato dal ‘possedere’), e non esistono soltanto deprivazioni delle qualità, ma anche delle attività: come la cecità, che è deprivazione dell’attività del vedere; e l’essere zoppo, che è deprivazione della possibilità di incedere a piedi.

SVF II, 180

Papyrus Letronnii ‘Sulle proposizioni negative’ [II,52,35] Th. Bergk Opusc. II, p. 114.

[I] Si dà il caso che uno potrebbe dire così: “Non so come sia d’uopo che chi vede chiaramente le cose dall’alto incolpi l’intimo desiderio di Eracle”.

[II,53,1] Sì, non è vero quel che diceva il poeta: “Non so come sia d’uopo che chi vede chiaramente le cose dall’alto incolpi l’intimo desiderio di Eracle”.

Se uno parlasse così dicendo né il falso né il vero: “Certo Tebe preclara non m’educò straniero ed ignorante delle Muse”.

Non fu vero [II,53,5] quel che fosse detto così: “No di certo, Tebe preclara non m’educò straniero ed ignorante delle Muse”. Sì.

Dicendo né il falso né il vero uno direbbe così: “Certo Tebe preclara non m’educò straniero ed ignorante delle Muse”.

Sì, fu vero quel che fosse detto [II] così: “No di certo, Tebe preclara non m’educò straniero [II,53,10] ed ignorante delle Muse”.

[3] Se davvero un poeta dichiarava così:

“Non gradisco l’intenzione di Sardanapalo”.

Contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non gradisco l’intenzione di Sardanapalo”.

[II,53,15] Sì, non contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non gradisco l’intenzione di Sardanapalo”.

Sì, non è vero che un poeta dichiarava così:

“Non gradisco l’intenzione di Sardanapalo”.

[4] Se qualcuno dichiarò:

[II,53,20] “Non c’era malanno capace di mordere il libero anino dell’uomo come il disonore”.

Contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non c’era malanno capace di mordere il libero anino dell’uomo come il disonore”.

Sì, qualcuno non dichiarò:

[II,53,25] “Non c’era malanno capace di mordere il libero anino dell’uomo come il disonore”.

[5] Se davvero Euripide così denegava:

“Non è questo ciò che ammiro in un uomo che tiene il primo posto”.

Contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non è questo ciò che ammiro in un uomo che tiene il primo posto”.

[II,53,30] Sì, non contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non è questo ciò che ammiro in un uomo che tiene il primo posto”.

Sì, Euripide non denegava così:

“Non è questo ciò che ammiro in un uomo che tiene il primo posto”.

[6] Se l’Andromaca di Euripide si rivolse ad Ermione in questo [II,53,35] modo:

“Il consorte ha ribrezzo di te non per via dei miei farmaci”.

Contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Il consorte ha ribrezzo di te non per via dei miei farmaci”.

[II,54,1] Sì, non contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Il consorte ha ribrezzo di te non per via dei miei farmaci”.

Sì, non l’Andromaca di Euripide si rivolse ad Ermione in questo modo:

[II,54,5] “Il consorte ha ribrezzo di te non per via dei miei farmaci”.

[7] Se è vero ciò che fosse detto così:

“Non c’è uomo che sia del tutto felice”.

Contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non c’è uomo che sia del tutto felice”.

[II,54,10] Sì, non contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non c’è uomo che sia del tutto felice”.

V. Sì, non è vero ciò che fosse detto così:

“Non c’è uomo che sia del tutto felice”.

[8] Se è vero quel che diceva Euripide:

[II,54,15] “È d’uopo che i giovanotti si facciano onore non con le femmine ma col ferro e con le armi”.

Contrapponesi una proposizione affermativa a:

“È d’uopo che i giovanotti si facciano onore non con le femmine ma col ferro e con le armi”.

Sì, non contrapponesi una proposizione affermativa a:

[II,54,20] “È d’uopo che i giovanotti si facciano onore non con le femmine ma col ferro e con le armi”.

Sì, non è vero quel che diceva Euripide:

“È d’uopo che i giovanotti si facciano onore non con le femmine ma col ferro e con le armi”.

[9] Se un poeta dichiarò così:

VI. “Non m’importa più di inni melodiosi né più del canto”.

[II,54,25] Affermativo è ciò che si sarebbe detto così:

“M’importa ancora di inni melodiosi e del canto”.

Sì, non affermativo è ciò che si sarebbe detto così:

“Non m’importa più di inni melodiosi né più del canto”.

Sì, non un poeta dichiarò così:

[II,54,30] “Non m’importa più di inni melodiosi né più del canto”.

Se un poeta dichiarò così:

“Non m’importa più di inni melodiosi né più del canto”.

Contrapponesi a:

“Non m’importa più di inni melodiosi né più del canto”

una proposizione affermativa. Sì, non contrapponesi a:

“Non m’importa più di inni melodiosi né più del canto”

[II,54,35] una proposizione affermativa. Sì, non un poeta dichiarò così:

“Non m’importa più di inni melodiosi né più del canto”.

[10] Se il Ciclope di Timoteo dichiarò così a qualcuno:

VII [II,55,1] “Egli non ascenderà al cielo che tutto avvolge”.

Contrappongonsi ad una proposizione affermativa due proposizioni negative.

Sì, non contrappongonsi ad una proposizione affermativa due proposizioni negative.

[II,55,5] Sì, non il Ciclope di Timoteo dichiarò così a qualcuno:

“Egli non ascenderà al cielo che tutto avvolge”.

[11] Se uno dichiarò così:

“Non so esprimere il vero sicuro”.

Uno potrebbe dichiarare:

[II,55,10] “[Non] so esprimere il vero sicuro”.

Sì, uno potrebbe non dichiarare:

“So esprimere il vero sicuro”.

Sì, non così uno dichiarava:

“Non so esprimere il vero sicuro”.

[12] [II,55,15] Se uno così dichiarasse:

VIII. “So quel che ti dico per averlo visto con i miei occhi”.

Il poeta Tespi così denegava:

“So quel che ti dico per averlo visto non con i miei occhi”.

Sì, non così uno potrebbe dichiarare:

[II,55,20] “So quel che ti dico per averlo visto con i miei occhi”.

Sì, non il poeta Tespi così denegava:

“So quel che ti dico per averlo visto non con i miei occhi”.

[13] Se Saffo dichiarò così:

“Non riterrei che ci sarà mai in alcun tempo [II,55,25] una vergine di tale sapienza che vedrà la luce del sole”.

Contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non riterrei che ci sarà mai in alcun tempo una vergine di tale sapienza che vedrà la luce del sole”.

Sì, non contrapponesi una proposizione affermativa a:

IX. [II,55,30] “Non riterrei che ci sarà mai in alcun tempo una vergine di tale sapienza che vedrà la luce del sole”.

Sì, non Saffo dichiarò così:

“Non riterrei che ci sarà mai in alcun tempo una vergine di tale sapienza che vedrà la luce del sole”.

[14] Se non contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Ai defunti non è più dato di trovare un farmaco di vita”.

[II,55,35] Non il poeta Ibico così dichiarava:

“Ai defunti non è più dato di trovare un farmaco di vita”.

Sì, non contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Ai defunti non è più dato di trovare un farmaco di vita”.

[II,56,1] Sì, non il poeta Ibico così dichiarava:

“Ai defunti non è più dato di trovare un farmaco di vita”.

[15] Se non sono ambigue le espressioni, non Euripide così dichiarando:

[II,56,5] “Non nascerebbe un figlio probo da un cattivo padre”,

denegava:

“Nascerebbe un figlio probo da un cattivo padre”.

Sì, non sono ambigue le espressioni; sì, non Euripide così dichiarando:

[II,56,10] “Non nascerebbe un figlio probo da un cattivo padre”,

denegava:

“Nascerebbe un figlio probo da un cattivo padre”.

[…]

[16] Se è falso o vero ciò che fu detto da Euripide in questo [II,56,15] modo:

“Non così noi tumuliamo i marinai periti”.

X. Contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non così noi tumuliamo i marinai periti”.

[II,56,20] Sì, non contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non così noi tumuliamo i marinai periti”.

Sì, né falso né vero è ciò che fu detto da Euripide in questo modo:

“Non così noi tumuliamo i marinai periti”.

[17] Se veramente Euripide diceva:

[II,56,25] “Non v’è suolo più piacevole di quello che ci nutre”.

Contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non v’è suolo più piacevole di quello che ci nutre”.

Sì, non contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non v’è suolo più piacevole di quello che ci nutre”.

[II,56,30] Sì, non veramente Euripide diceva:

“Non v’è suolo più piacevole di quello che ci nutre”.

[18] Se Euripide così dichiarava:

“Non è per niente possibile essere felici fino in fondo”.

Contrapponesi una proposizione affermativa a:

[II,56,35] “Non è per niente possibile essere felici fino in fondo”.

Sì, non contrapponesi una proposizione affermativa a:

“Non è per niente possibile essere felici fino in fondo”.

[II,57,1] Sì, non Euripide così dichiarava:

“Non è per niente possibile essere felici fino in fondo”.

[19] Se così dichiarava un poeta:

“Non ti valuto poco: è che non ho molto”.

[II,57,5] C’è qualcuno che così potrebbe dichiarare:

“Ti valuto poco: è che non ho molto”.

Sì, non c’è qualcuno che così potrebbe dichiarare:

“Ti valuto poco: è che non ho molto”.

Sì, non dichiarava così un poeta:

[II,57,10] “Non ti valuto poco: è che non ho molto”.

[20] Se Agamennone così denegava:

“Non mi dicevo di far adirare in modo così assolutamente terribile il cuore gagliardo d’Achille, dal momento che mi era amicissimo”.

È una proposizione:

[II,57,15] “Mi dicevo di far adirare in modo così assolutamente terribile il cuore gagliardo d’Achille, dal momento che mi era amicissimo”.

Sì, non è una proposizione:

“Mi dicevo di far adirare in modo così assolutamente terribile il cuore gagliardo d’Achille, dal momento che mi era amicissimo”.

Sì, non Agamennone così denegava:

“Non mi dicevo di far adirare in modo così assolutamente terribile il cuore gagliardo d’Achille, dal momento che mi era amicissimo”.

[21] [II,57,20] Se il poeta Alcmane così dichiarava:

“Non eri un uomo rozzo e sinistro”.

Uno potrebbe affermare:

“Eri un uomo rozzo e sinistro”.

Sì, uno non affermerebbe:

[II,57,25] “Eri un uomo rozzo e sinistro”.

Sì, non il poeta Alcmane così dichiarava:

“Non eri un uomo rozzo e sinistro”.

[22] Se uno così dichiarasse:

“Poiché sono un uomo ben solido, [II,57,30] e non gradevole coi concittadini”.

Non Anacreonte così dichiarò:

“Non poiché sono ben solido e non gradevole coi concittadini”.

Sì, non così uno potrebbe dichiarare:

“Poiché sono ben solido e non gradevole coi concittadini”.

[II,57,35] Sì, non Anacreonte così dichiarò:

“Non poiché sono ben solido e non gradevole coi concittadini”.

[23] Se Saffo così dichiarando:

“Non so cosa voglio: ho due pensieri in mente”,

[II,58,1] denegava:

“So cosa voglio: ho due pensieri in mente”.

Sono espressioni ambigue. Sì, non sono espressioni ambigue.

Sì, non Saffo così dichiarando:

[II,58,5] “Non so cosa voglio: ho due pensieri in mente”,

denegava:

“So cosa voglio: ho due pensieri in mente”.

Se Saffo così denegava:

“Non so cosa voglio: ho due pensieri in mente”.

[II,58,10] Vi è una proposizione affermativa contrapponentesi a:

“Non so cosa voglio: ho due pensieri in mente”.

Sì, non vi è una proposizione affermativa contrapponentesi a:

“Non so cosa voglio: ho due pensieri in mente”.

Sì, non Saffo così denegava:

[II,58,15] “Non so cosa voglio: ho due pensieri in mente”.

[24] Se un poeta così dichiarava:

“Non vidi una fanciulla veloce come il vento”.

Vi è una proposizione affermativa contrapponentesi a:

“Non vidi una fanciulla veloce come il vento”.

[II,58,20] Sì, non vi è una proposizione affermativa contrapponentesi a:

“Non…

[…][II,58,25]

§ 2. Esprimibili ellittici

Frammenti n. 181-185

SVF II, 181

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 63. Essi affermano che ‘esprimibile’ è ciò che si sostanzia secondo una rappresentazione logica. Gli Stoici dicono poi che alcuni [II,58,30] esprimibili sono completi, mentre altri sono ellittici. Ellittici sono quegli esprimibili la cui enunciazione è incompleta: per esempio, “Scrive”. E noi ricerchiamo: “Chi?”. Completi sono invece gli esprimibili la cui enunciazione è compiuta: per esempio, “Socrate scrive”.

SVF II, 182

Filone Alessandrino ‘De agricultura’ 139, Vol. II, p. 122, 18 Wendl. <Essi affermano> che degli esseri alcuni sono ‘corpi’, [II,58,35] altri sono ‘incorporei’. Dei corpi alcuni sono ‘inanimati’, altri invece sono ‘animati’; alcuni sono ‘dotati di ragione’, altri sono ‘privi di ragione’; alcuni sono ‘mortali’, altri sono ‘divini’; e che dei corpi mortali, ripartizione valida nel caso dell’uomo, uno è maschio e l’altro è femmina. Degli incorporei alcuni sono perfetti, altri sono imperfetti. Dei perfetti, alcuni sono domande, quesiti, imprecazioni e [II,59,1] giuramenti, e tutte le altre differenti specie che sono rubricate nei trattati elementari in argomento. Altri incorporei, a loro volta, sono quelli che i dialettici hanno l’usanza di denominare ‘proposizioni’. Delle proposizioni alcune sono semplici, altre sono non semplici. Di quelle non semplici alcune sono proposizioni condizionali, [II,59,5] altre sono proposizioni più o meno connesse da particelle causative. Ci sono inoltre proposizioni disgiuntive e altre ancora di modi affini. Ancora, vi sono proposizioni vere, false e dubbie; possibili e impossibili, necessarie e non necessarie, di facile soluzione o aporetiche, e quante sono a queste congeneri. A loro volta, degli incorporei imperfetti sono i cosiddetti predicati, gli attributi accidentali [II,59,10] e quante sono suddivisioni contigue minori di queste.

SVF II, 183

[1] Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 63. I predicati sono posizionati tra gli esprimibili ellittici.

[2] VII, 64. Il predicato è ciò che si ‘predica’ di qualcosa; oppure, come affermano i seguaci di Apollodoro, una faccenda coordinata ad una o più cose; oppure ancora un esprimibile ellittico coordinato al caso retto [II,59,15] per la genesi di una proposizione. Dei predicati, alcuni sono intransitivi: per esempio, ‘navigare fra gli scogli’. Alcuni dei predicati sono attivi, altri sono passivi, altri ancora sono né attivi né passivi. Predicati attivi sono quelli coordinati ad uno dei casi obliqui per la genesi di una proposizione: per esempio, ‘ascolta’, ‘vede’, ‘dialoga’. Predicati passivi sono quelli coordinati e con la desinenza passiva: per esempio, [II,59,20] ‘sono ascoltato’, ‘sono visto’. Né attivi né passivi sono i predicati formati in nessuno di questi due modi: per esempio, ‘pensa(re)’, ‘passeggia(re)’. Riflessivi sono, tra i passivi, quei predicati che hanno forma passiva ma esprimono un’operazione attiva: per esempio, ‘si taglia i capelli’. Chi si taglia i capelli, infatti, coinvolge se stesso in un’azione. I casi obliqui sono il genitivo, il dativo e l’accusativo.

SVF II, 184

[1] Porfirio, presso Ammonio, ‘De interpret.’ P. 44, 19 Busse. [II,59,25] [In cui Porfirio riferisce la classificazione ad opera degli Stoici di quelli che, nelle proposizioni, sono definiti predicati]. Il predicato è ciò che si ‘predica’ di un nome o di un caso. Come predicato di entrambi, esso è: o perfetto ed autosufficiente, insieme con l’oggetto, per la genesi di una dichiarazione; oppure è ellittico e bisognoso [II,59,30] di qualche aggiunta per farne un predicato perfetto. Pertanto, se ciò ch’è predicato di un nome produce una proposizione dichiarativa, gli Stoici lo denominano predicato transitivo; oppure predicato intransitivo-riflessivo (entrambi significano lo stesso predicato) in un caso come quello del ’passeggia’: per esempio, ‘Socrate passeggia’. Se poi la predicazione è di un caso obliquo, allora essa è dagli Stoici denominata predicato impersonale, come se stesse accanto al predicato intransitivo-riflessivo e fosse un quasi-transitivo. Così accade con l’impersonale ‘importa (pentirsi)’: per esempio, ‘a Socrate importa (pentirsi)’. [II,59,35] Infatti, il predicato ‘si pente’ è un predicato riflessivo, mentre invece lo ‘importa (pentirsi)’ è un predicato impersonale il quale, se coordinato ad un nome, è incapace di produrre una dichiarativa: per esempio, ‘Socrate importa’ non è affatto una proposizione dichiarativa; e neppure si mostra capace di coniugazione, come lo ‘io passeggio’, ‘tu passeggi’, ‘egli passeggia’; né di un cambiamento di forma con i numeri, tant’è che come diciamo: ‘a costui importa (pentirsi)’, così [II,59,40] diciamo anche: ‘a costoro importa (pentirsi)’. Inoltre, se il predicato di un nome avesse bisogno dell’aggiunta del caso obliquo di un altro nome per dar luogo ad una dichiarativa, questo [II,60,1] si dice sub-predicato; com’è il caso di ‘ama’ e di ‘vuol bene’: per esempio, ‘Platone ama’. Infatti, l’aggiunta del ‘chi’: per esempio, ‘Dione’, rende definita la dichiarazione: ‘Platone ama Dione’. Se invece fosse il predicato del caso obliquo ad avere bisogno di essere coordinato ad un altro caso obliquo [II,60,5] per dare luogo ad una dichiarativa, si chiama sub-predicato impersonale, com’è il caso di ‘importa’ nell’esempio: ‘A Socrate importa di Alcibiade’. <Gli Stoici> chiamano tutti questi ‘verbi’. Siffatto è dunque il lascito dottrinale degli Stoici al riguardo.

[2] Stephanus in Aristot. de interpret. P. 10, 22 Hayd. [II,60,10] Nell’enunciato: ‘A Socrate importa pentirsi’ e anche in: ‘A Socrate importa’, non è presente il caso retto. Perciò gli Stoici hanno chiamato questi predicati ‘impersonali’; mentre gli altri verbi sono da loro designati, a seconda della diatesi che prendono al momento, come predicati intransitivi-riflessivi o anche predicati transitivi. Inoltre, nell’enunciato: ‘A Socrate importa’, il predicato impersonale corrisponde bene al pensiero; mentre l’enunciato: ‘Importa’, lascia deficitario il pensiero ed è un sub-predicato impersonale.

[3] [II,60,15] Ogni nome che non determina il soggetto in modo palese è un nome verbale, e anche gli Stoici lo chiamano appunto ‘verbo’. Sono verbi ‘passeggia’ e ‘scrive’, e il primo è un predicato intransitivo, il secondo un predicato transitivo.

SVF II, 185

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 84Δ Ed. Bas. Bisogna anche disaminare [II,60,20] quando ciò che si mette opera, o ciò che si subisce, è un fatto attivo e quando invece è un fatto passivo. Lì per lì lo ‘affliggere’ sembra ai più essere un fatto attivo, mentre lo ‘essere afflitto’ sembra passivo. Ma questo non avviene sempre, com’è invece il caso di chi percuote e di chi è percosso. È fattibile, infatti, che colui che affligge non sempre sia presente: per esempio, il figlio morto, se uno fosse afflitto per questo fatto; ma è fattibile anche non essere afflitto, se la rappresentazione che è fattiva [II,60,25] e causativa di ciò non persiste. Ma è anche possibile che, pur cessata l’azione dell’agente, uno sperimenti quel che sperimenta perché persiste in lui una certa disposizione: come accade per un membro che è riscaldato sul fuoco e che sperimenta il riscaldamento anche dopo essere stato ritratto dal fuoco. Il patire ha, infatti, un duplice aspetto: un primo aspetto congiunto al fare dell’agente; e un secondo aspetto, quando sia visto in relazione alla disposizione del paziente. Ma forse anche in questa circostanza vi è stato un connubio con l’agente interno: [II,60,30] si tratti di rappresentazione o di fuoco venuto dall’esterno. Nel decretare qualcosa su questi argomenti è dunque bene seguire i fatti e non le parole. Molta è stata l’elaborazione degli Stoici sui temi di questo genere, ma il loro insegnamento e la maggior parte delle loro trattazioni sono andati perduti.

§ 3. Sugli esprimibili completi

Frammenti n. 186-192

[II,60,35] [Sugli argomenti trattati in questo paragrafo, Crisippo ha scritto: ‘Sugli imperativi (2 libri)’, ‘Sulla domanda (2 libri)’, ‘Sull’interrogazione (4 libri)’, ‘Compendio sulle proposizioni interrogative dirette e indirette (1 libro)’]

SVF II, 186

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 66. [II,60,40] Vi è differenza tra proposizione, domanda, interrogazione, imperativo, giuramento, imprecazione, ipotesi, appellativo e simil-proposizione. Una proposizione [II,61,1] è ciò che noi dichiariamo parlando e che è vero o falso. La domanda è un enunciato in sé completo come una proposizione, ma che richiede una risposta: per esempio, ‘È giorno?’. La domanda è né vera né falsa; sicché mentre ‘È giorno’ è una proposizione, lo ‘È giorno?’ è una domanda. [II,61,5] Il quesito è un enunciato al quale non è possibile rispondere in modo simbolico, come nel caso della domanda, con un ‘Sì’; ma bisogna dire qualcosa del tipo ‘Abita in questo luogo’. Imperativo è un enunciato dicendo il quale noi ingiungiamo qualcosa: per esempio,

‘E tu incedi alle correnti dell’Inaco’

[II,61,10] Il giuramento […] <Appellativo> è un enunciato dicendo il quale uno darebbe un appellativo: per esempio,

‘Gloriosissimo Atride, Agamennone signore di uomini’

Simil-proposizione è qualcosa simile, per enunciazione, ad una proposizione; ma che per il pleonasmo o la pateticità di una sua parte cade al di fuori del genere delle proposizioni: per esempio,

[II,61,15] ‘Bello davvero il Partenone!’

oppure

‘Quant’è simile ai figli di Priamo il bifolco!’

C’è anche una forma di espressione dubitativa che è diversa da una proposizione, e pronunciando la quale uno mostrerebbe di essere nell’incertezza:

‘Vita e afflizione sono dunque cose congeneri?’

[II,61,20] La domanda, i quesiti e tutto ciò ch’è ad essi similare sono né veri né falsi; le proposizioni, invece, sono o vere o false.

SVF II, 187

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 70. Ora, in generale […] gli Stoici erano del parere che il vero e il falso esistono negli esprimibili. Essi affermano che ‘esprimibile’ è ciò che si sostanzia secondo una rappresentazione razionale, e che ‘razionale’ è quella rappresentazione [II,61,25] nella quale il rappresentato trova un riscontro nella ragione. Essi chiamano alcuni esprimibili ‘ellittici’ ed altri ‘completi’. Lasciando per ora da parte quelli ellittici, essi affermano che vi sono parecchie varietà di esprimibili completi. Infatti, chiamano alcuni di questi esprimibili ‘imperativi’; e sono quelli che noi pronunciamo quando ingiungiamo qualcosa: per esempio,

‘Vieni qui, cara sposa’.

Esprimibili ‘dichiarativi’ sono quelli che pronunciamo quando dichiariamo qualcosa: per esempio, ‘Dione passeggia’. [II,61,30] ‘Interrogativi’ quelli che pronunciamo quando cerchiamo di sapere qualcosa: per esempio, ‘Dove abita Dione?’. Alcuni esprimibili sono dagli Stoici chiamati ‘imprecativi’, ossia pronunciando i quali noi imprechiamo:

‘Possa il tuo cervello colare qui per terra come questo vino’.

‘Auspicali’ quelli che pronunciamo quando auspichiamo qualcosa:

‘Zeus padre, che dall’Ida governi, gloriosissimo, massimo, dà la vittoria ad Aiace

e concedigli di acquistare la gloria splendente’.

Essi poi designano [II,61,35] alcuni degli esprimibili completi col nome di ‘proposizioni’, e sono quelli pronunciando i quali noi diciamo il vero o il falso. Vi sono anche degli esprimibili che sono ‘iper-proposizioni’. Per esempio: ‘Il bifolco è simile ai figli di Priamo’ è una proposizione, giacché dicendo una cosa del genere noi stiamo dicendo il vero o il falso. Ma se diciamo: ‘Quant’è simile ai figli di Priamo il bifolco!’ questo non è una proposizione, ma è qualcosa di più di una proposizione. Se si prescinde dal fatto che vi è sufficiente differenza [II,61,40] tra i vari esprimibili, gli Stoici affermano che affinché qualcosa sia vero o falso esso deve innanzitutto essere un esprimibile, e poi un esprimibile completo e non, in generale, un esprimibile qualunque, ma una proposizione. Infatti, soltanto a patto di pronunciare una proposizione noi possiamo, come ho accennato prima, dire il vero o il falso.

SVF II, 188

Ammonio ‘In Aristot. de interpr.’ p. 2, 26 Busse. Gli Stoici chiamano ‘proposizione’ l’enunciato dichiarativo, ‘imprecativo’ l’enunciato auspicale, ‘appellativo’ [II,61,45] l’enunciato vocativo. Addizionano poi a queste, altre cinque forme discorsive; riferendole chiaramente [II,62,1] a qualcuna di quelle già enumerate. Essi dicono, infatti, che esiste una proposizione di tipo ‘giurativo’: per esempio,

‘Sappia ora questo la terra’;

una proposizione di tipo ‘tetico’: per esempio,

‘Sia questa una linea retta’;

 una proposizione di tipo ‘ipotetico’: per esempio, [II,62,5]

‘Si supponga che la terra sia al centro della circonferenza descritta dal sole’;

che un’altra è una simil-proposizione: per esempio,

‘Come lussureggia la fortuna nelle nostre vite!’.

Tutte le proposizioni capaci di accogliere in sé una falsità o una verità si raggrupperebbero però nel tipo ‘dichiarativo’. […] Gli Stoici affermano poi che, oltre a questi, il quinto tipo è quello ‘dubitativo’: [II,62,10] per esempio,

‘È qui presente Daos, che cosa mai ci preannuncia?’.

Questo enunciato è evidentemente identico ad una proposizione di tipo interrogativo, salvo che antepone la ragione apparente della domanda.

SVF II, 189

Ammonio ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 2, 3 Wal. Sicché <Aristotele> [II,62,15] non discerne là tutti i tipi di enunciato: né quello auspicale, né quello imperativo; né tratta di alcun altro dei cinque tipi secondo i Peripatetici o dei dieci secondo gli Stoici, ma soltanto di quello dichiarativo.

SVF II, 190

‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 463. Alla domanda s’accompagna una risposta in forma simbolica; all’interrogazione, invece, una risposta in forma discorsiva.

SVF II, 191

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 539, 17. [II,62,20] In quel <libro, Aristotele> disse che non sono domande dialettiche quelle che indagano il ‘cos’è’ dell’oggetto in questione: queste, i filosofi più moderni usano chiamarle ‘interrogazioni’.

SVF II, 192

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 103A Ed. Bas. A parte ciò, essi affermano, queste questioni sono state risolte da tempo nel corso delle spiegazioni del limite [II,62,25] che demarca la proposizione, e per cui la ‘proposizione’ è definita come quell’enunciato che può essere vero o falso. L’enunciato giurativo, infatti, non può essere vero o falso, mentre è verosimile che si possa essere fedeli al giuramento oppure spergiuri. E dunque è impossibile che in essi si dica il vero o il falso, anche se si giurasse su delle verità o delle falsità. L’enunciato ‘esclamativo’ e quello ‘denigratorio’, i quali vanno oltre la semplice proposizione per il pleonasmo di stupore e di diffamazione che incorporano sono enunciati né veri né falsi, [II,62,30] ma simil-veri o simil-falsi. Siano queste le soluzioni provenienti dalla meticolosa precisione degli Stoici.

§ 4. Sulle proposizioni

Le proposizioni semplici

Frammenti n. 193-206a

[Sugli argomenti trattati in questo paragrafo, Crisippo ha scritto: [II,62,35] ‘Sulle proposizioni (1 libro)’, ‘Sulle proposizioni determinative, ad Atenodoro (1 libro)’, ‘Sulle proposizioni indefinite, a Dione (3 libri)’, ‘Sulla differenza tra proposizioni indefinite (4 libri)’, ‘Sui possibili, a Clito (4 libri)’, [II,62,40] ‘Sugli enunciati definiti secondo il caso in oggetto (1 libro)’]

SVF II, 193

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 65. La proposizione è ciò ch’è vero o falso, oppure una faccenda completa e asseribile di per se stessa, come afferma Crisippo nelle ‘Definizioni dialettiche’: [II,63,1] “La proposizione è ciò ch’è asseribile o negabile di per se stesso: per esempio, ‘È giorno’ o ‘Dione passeggia’ ”. La proposizione ἀξίωμα (‘axìoma’) ha preso questo nome perché può essere accettata ἀξιοῦσθαι (‘axioùsthai’) oppure rigettata. Infatti, chi dice ‘È giorno’, appare accettare che sia giorno. Se pertanto è giorno, la proposizione [II,63,5] proposta è vera; se invece non è giorno, è falsa.

SVF II, 194

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ XVI, 8, 1. Quando decidemmo d’essere introdotti ed istruiti nelle discipline dialettiche fu necessario addentrarci nella conoscenza di quelle che i dialettici chiamano εἰσαγογάς ossia ‘introduzioni’. Allora, la prima cosa da imparare riguardava le proposizioni […] Ritorniamo dunque per necessità ai libri Greci, dai quali traiamo questa definizione di proposizione: ‘Esprimibile completo e asseribile di per se stesso’. […] [II,63,10] Qualunque cosa sia detta a parole in forma piena e perfetta così da essere necessariamente vera o falsa, è chiamata dai dialettici ‘proposizione’.

SVF II, 195

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 10. Gli Stoici dicono che [II,63,15] alcuni degli oggetti sensibili e di quelli intelligibili sono veri. Veri non direttamente quelli sensibili, ma per riferimento a quegli intelligibili che sono loro connessi. Secondo gli Stoici, infatti, ‘vero’ è ciò che esiste e che corrisponde a qualcosa; mentre ‘falso’ è ciò che non esiste e corrisponde a qualcosa: il che è appunto una proposizione incorporea e dunque un intelligibile.

SVF II, 196

Cicerone ‘Academica’ II, 95. Fondamento della dialettica [II,63,20] è che qualunque proposizione (che <i Greci> chiamano ἀξίωμα) […] o è vera o è falsa. E dunque? Questa proposizione: “Se tu dici di mentire, e dici il vero, tu menti” è vera o è falsa? Questo, senza dubbio, voi lo dite inesplicabile. […] Se enunciati come questo non possono essere spiegati, né si trova un criterio per rispondere se sono veri o falsi, [II,63,25] cosa diventa la definizione di ‘proposizione’ come ‘enunciato che è o vero o falso’?

SVF II, 197

Stobeo ‘Florilegium’ 28, 18 H. Di Crisippo. Crisippo soleva affermare che vi è differenza tra il giurare il vero e il rimanere fedeli al giuramento, così come tra lo spergiurare e il giurare il falso. Infatti chi giura, in occasione del giuramento in ogni caso giura [II,63,30] o il vero o il falso; e ciò ch’è da lui giurato, dal momento che si tratta di una proposizione, è o vero o falso. Chi giura, però, nel momento in cui giura non è affatto spergiuro o infedele al giuramento che fa, poiché non è ancora venuto il tempo al quale i giuramenti facevano riferimento. Allo stesso modo in cui si dice che uno è fedele ai patti oppure che non sta ai patti, non quando li stipula [II,63,35] ma quando vengono i tempi stipulati negli accordi; così pure si dirà che uno rimane fedele al giuramento oppure che è spergiuro quando siano venuti i tempi che egli convenne per la realizzazione di quanto aveva giurato.

SVF II, 198

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 103B Ed. Bas. Circa le proposizione contraddittorie riferite al futuro, gli Stoici fanno le stesse valutazioni [II,63,40] che fanno per le altre. Infatti, ciò che vale per le proposizioni contrapposte in relazione al presente e in relazione al passato, [II,64,1] vale anche per quelle che si riferiscono al futuro e per le loro parti. Infatti, vero è il ‘sarà’ oppure il ‘non sarà’; se bisogna appunto che il futuro sia falso o vero. Gli eventi futuri sono pertanto definiti secondo gli stessi criteri. Se domani ci sarà una battaglia navale, dire adesso che ci sarà è dire il vero. Se invece non ci sarà, dire adesso che ci sarà è dire il falso; [II,64,5] giacché essa domani ci sarà o non ci sarà, e dunque una delle cose sarà o vera o falsa.

SVF II, 199

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 79. Bisogna a questo punto dire che <gli Stoici> vogliono che la proposizione in sé completa sia un composto: per esempio, la proposizione ‘È giorno’ consta di ‘giorno’ e di ‘è’.

SVF II, 200

Proclo ‘In Euclidem’ p. 193 Friedlein. Gli Stoici [II,64,10] sono soliti designare ogni enunciato semplice come ‘proposizione dichiarativa’; e qualora scrivano dei trattati tecnici di dialettica ‘Sulle proposizioni’ è perché vogliono che ciò sia manifesto fin dai titoli.

SVF II, 201

[1] Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 75. Plausibile è quella proposizione che ci conduce ad un assenso: per esempio, ‘Se una ha partorito qualcosa, [II,64,15] ne è la madre’. Tuttavia ciò è falso, giacché la gallina non è la madre di un uovo. Inoltre alcune proposizioni sono possibili e altre impossibili; alcune sono necessarie e altre non necessarie. Possibile è la proposizione che accoglie in sé la possibilità di essere vera poiché le condizioni esterne non si oppongono a che sia vera: per esempio, ‘Diocle è vivo’. Impossibile è la proposizione che non accoglie in sé la possibilità di essere vera: per esempio, ‘La terra spicca dei voli’. Necessaria è la proposizione [II,64,20] che è vera e che non accoglie in sé la possibilità di essere falsa, oppure quella che accoglie in sé questa possibilità ma è tale che le condizioni esteriori si oppongono a che essa sia falsa: per esempio, ‘La virtù giova’. Non necessaria è la proposizione che è capace di essere o vera o falsa poiché le condizioni esteriori non oppongono alcuna contrarietà: per esempio, ‘Dione passeggia’. Ragionevole è la proposizione che possiede le maggiori risorse per essere vera: per esempio, ‘Domani [II,64,25] sarò vivo’. Tra le proposizioni vi sono anche altre differenze, equivocità e reversibilità da vere a false, circa le quali parliamo ora estesamente.

[2] Boezio ‘In Aristot. De interpret.’ p. 374. Gli Stoici posero poi come ‘possibile’ ciò che è suscettibile di una predicazione vera e che nessuna circostanza esterna, pur se ad esso congiunta, proibisce. ‘Impossibile’ ciò che non è mai vero [II,64,30] perché circostanze esterne gli impediscono di verificarsi. ‘Necessario’ ciò che, essendo vero, non è suscettibile di alcuna falsa predicazione.

[3] p. 429. Non è da ignorarsi il fatto che gli Stoici ritennero il ‘possibile’ una forma più universale del ‘necessario’, giacché essi suddividono gli enunciati in questo modo: [II,64,35] “Degli enunciati alcuni sono possibili, altri impossibili. Dei possibili, alcuni sono necessari, altri non necessari. Per converso, dei non necessari, alcuni sono possibili”. Ma è sciocco e sconsiderato fare di uno stesso possibile un genere e una specie del non necessario.

SVF II, 202

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1055d. Il suo discorso [II,64,40] sui ‘possibili’ non è, in certo modo, in contraddizione con il suo discorso sul ‘destino’? Infatti, se il possibile non equivale, come voleva invece Diodoro, a ciò che è o sarà vero bensì a tutto ciò che accoglie in sé la possibilità di diventare vero anche se non lo diventerà, saranno possibili molte cose che non sono scritte nel destino. Pertanto o il destino perde la sua forza invincibile, ineluttabile, [II,65,1] che ha il sopravvento su tutto; oppure, se il destino è tal quale Crisippo è del parere che sia, ciò che accoglie in se la possibilità di diventare vero perterrà spesso all’impossibile.

SVF II, 202a

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 177, 25 Wal. [II,65,5] Quando Crisippo afferma che nulla impedisce che un impossibile segua ad un possibile, nulla dice contro la suddetta dimostrazione di Aristotele, ma prova, attraverso degli esempi messi insieme in modo insano, a mostrare che la faccenda non sta in quei termini. Afferma, infatti, che nell’enunciato ipotetico ‘Se Dione è morto, costui è morto’, vero se si indica a dito Dione, [II,65,10] il primo enunciato: ‘Dione è morto’, è un possibile, giacché è possibile che un giorno diventi vero che Dione è morto; ma che allora ‘costui è morto’ è un impossibile, perché morendo Dione perde ogni significato la proposizione ‘costui è morto’, non essendoci più l’oggetto dell’indicazione a dito, giacché l’indicazione è possibile solo per un vivente e finché è in vita. Se dunque egli non è morto il ‘costui’ è ancora [II,65,15] un possibile; ma quando Dione non esiste più così da potersi dire di lui ‘costui è morto’, il ‘costui è morto’ è un impossibile. Sarebbe non impossibile se in qualche tempo successivo, dopo la morte di Dione, che la prima parte dell’enunciato ipotetico intendeva vivente e sul quale si predicava il ‘costui è morto’, si potesse di nuovo predicare il ‘costui’. [II,65,20] Ma poiché ciò non è possibile, il ‘costui è morto’ sarebbe un impossibile. Crisippo cita poi un esempio simile: ‘Se è notte, questa non è il giorno’, se si indica il giorno. Infatti, anche in questo enunciato ipotetico, che è vero, secondo lui ad un antecedente possibile segue un conseguente impossibile.

[2] Ammonio ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 50, 13 Wal. [II,65,25] ‘Questo’ è un dimostrativo che significa qualcosa di esistente, mentre il morire è un non esistente e l’esistente è impossibile che non sia. Pertanto dire che ‘questo è morto’ è un impossibile.

SVF II, 202b

Proclo ‘In Platonis Parmen.’ Vol. IV, p. 103 Cousin. [II,65,30] A proposito dell’indagine su questioni tanto rilevanti, se qualcuno portasse il discorso sulle fanfaronate degli Stoici, ricercando se ad un possibile può seguire un impossibile col mettere di mezzo il ‘Se Dione è morto’, e dunque volesse far menzione di siffatte aporie, è facile che ne incontri di quelle validamente indagate dai Peripatetici.

SVF II, 203

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 68. [II,65,35] Delle proposizioni, alcune sono semplici mentre altre sono non semplici, come affermano i seguaci di Crisippo, di Archedemo, di Atenodoro, di Antipatro e di Crini. Semplici sono quelle che consistono di una proposizione univoca: [II,66,1] per esempio, ‘È giorno’. Non semplici sono gli enunciati che consistono di una proposizione equivoca o di più proposizioni. Di un’unica proposizione equivoca: per esempio, ‘Se è giorno’. Di più proposizioni: per esempio, ‘Se è giorno, c’è luce’.

SVF II, 204

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 69. [II,66,5] Tra le proposizioni semplici ci sono la proposizione negativa, la negante, la privativa, la predicativa, la determinativa e l’indefinita. […] Proposizione negativa è, per esempio, ‘Non è giorno’. Una specie di negativa è la proposizione ipernegativa. L’ipernegativa è la negazione di una negazione: per esempio, ‘Non è [II,66,10] non giorno’. Ciò dispone che ‘È giorno’. Negante è la proposizione che consiste di un termine negante e di un predicato: per esempio, ‘Nessuno passeggia’. Privativa è quella che consiste di un termine privativo e di una proposizione secondo il possibile: per esempio, ‘Costui è inumano’. Predicativa è quella che consiste di un soggetto in caso retto e di un predicato: per esempio, ‘Dione passeggia’. Determinativa [II,66,15] è quella che consiste di un dimostrativo in caso retto e di un predicato: per esempio, ‘Costui passeggia’. Indefinita è quella che consiste di uno o più termini indefiniti e di un predicato: per esempio, ‘Qualcuno passeggia’, ‘Quello si muove’.

SVF II, 204a

Apuleio ‘Sull’interpretazione’ 266 (p. 2, 9 Goldb.). Altre proposizioni sono affermative, e sono quelle che affermano qualcosa [II,66,20] di qualcos’altro, come: ‘La virtù è un bene’. […] Altre invece sono negative, perché negano qualcosa di qualcos’altro, come: ‘Il piacere non è un bene’ […] Ma per gli Stoici anche questa proposizione è affermativa, perché dicono: “Capita che un certo piacere sia un non bene; quindi afferma cosa gli sarebbe accaduto, cioè cosa sia. Perciò essa è affermativa, dicono, perché anche in ciò di cui si nega l’esistenza, [II,66,25] si afferma ciò che sembra non essere”. Chiamano invece negativo solo ciò cui è preposta una particella negativa.

SVF II, 205

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 93. La prima e principale differenza tra le proposizioni che i dialettici enunciano è quella per cui alcune di esse sono [II,66,30] semplici ed altre invece non semplici. Semplici sono quelle che consistono né di una proposizione ripetuta due volte né di proposizioni che differiscono tra di loro per via di una o più congiunzioni.

[2] VIII, 94. Si dicono proposizioni semplici poiché non consistono di proposizioni ma di altri elementi.

[3] VIII, 95. Non semplici sono le proposizioni, per dir così, doppie; e tutte quelle che consistono di una proposizione presa due volte o di proposizioni differenti per via di [II,66,35] una o più congiunzioni: per esempio, ‘Se è giorno, è giorno’; ‘Se è notte, è buio’; ‘Esistono sia il giorno che la luce’; ‘O è giorno o è notte’.

[4] VIII, 96. Delle proposizioni semplici alcune sono ‘definite’, altre sono ‘indefinite’, altre ancora sono ‘intermedie’. Definite sono le proposizioni enunciate con l’indicazione a dito di qualcosa: per esempio, ‘Costui passeggia’, [II,66,40] ‘Costui è seduto’; giacché così dicendo io indico a dito qualche uomo in particolare. Indefinite sono, [II,67,1] secondo loro, le proposizioni nelle quali l’elemento dominante è un termine indefinito: per esempio, ‘Qualcuno è seduto’. Intermedie sono le proposizioni del genere ‘Un uomo è seduto’ oppure ‘Socrate passeggia’. La proposizione ‘Qualcuno passeggia’ è indefinita perché non risulta definito un passeggiatore in particolare e può essere enunciata in riferimento comune a ciascuno di essi. [II,67,5] ‘Costui è seduto’ è invece una proposizione definita, dal momento che è definita la persona che viene indicata a dito. La proposizione ‘Socrate è seduto’ esiste come proposizione intermedia allorquando non è indefinita, poiché è specificamente definito il soggetto; e neppure è definita, poiché viene enunciata senza l’indicazione a dito del soggetto. Essa sembra pertanto esistere come proposizione intermedia tra le altre due forme, quella indefinita e quella definita. I dialettici affermano poi che la proposizione indefinita diventa vera […] qualora la proposizione definita corrispondente [II,67,10] si trovi ad essere vera.

[5] VIII, 100. E questa proposizione definita ‘Costui è seduto’ oppure ‘Costui passeggia’, i dialettici affermano che esiste come vera qualora al soggetto su cui cade l’indicazione a dito sia successo ciò che afferma il predicato: per esempio, ‘l’essere seduto’ o il ‘passeggiare’.

SVF II, 206

Alessandro d’Afrodisia presso Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 1299, 35 Diels. [II,67,15] Prendendo impulso da questi ragionamenti, afferma Alessandro, è possibile mostrare che quelle che per gli Stoici sono proposizioni e che alcuni chiamano ‘equivoche a contorno non circoscritto’, non sono tali. Si tratta di proposizioni di questo genere: ‘Se Dione vive, Dione vivrà’. Se pur questo enunciato è vero adesso, poiché comincia con una proposizione vera [II,67,20] ‘Dione vive’ e finisce con una proposizione vera ‘Dione vivrà’; potrà comunque esserci un tempo in cui, pur essendo vera la premessa minore ‘ma Dione vive’, il sillogismo ipotetico diventerà falso. Ciò accadrà quando, pur essendo ancora vero che ‘Dione vive’, non sarà più vero anche il ‘vivrà’. E ciò non essendo più vero, tutto il sillogismo ipotetico diventerebbe equivoco e falso. Infatti, non sempre quando è vero il ‘vive’ [II,67,25] è vero anche il ‘vivrà’, poiché altrimenti Dione sarebbe immortale. In sede di definizione non è però possibile dire quando non sarà più vero che, se si vive, vale anche che ‘si vivrà’. Perciò essi dicono che l’equivocità di siffatte proposizioni diventerà tale in un tempo indefinito e non circoscritto.

SVF II, 206a

Dionigi di Alicarnasso ‘De compositione verborum’ p. 31 Re. Io [II,67,30] dunque, allorché vagliai il modo di comporre un’opera su questo soggetto, feci delle ricerche per appurare se qualcosa al riguardo era stato detto dai miei predecessori e soprattutto dai filosofi Stoici, ben sapendo che l’ambito dell’espressione linguistica era stato oggetto di non poca preoccupazione da parte di quegli uomini. Bisogna, infatti, testimoniare a loro favore questa verità. Ma poiché da nessuna parte e ad opera di nessuno degli autori degni di questo nome io trovavo alcunché né molto [II,67,35] né poco raccolto in vista di quella trattazione che io avevo prescelto di comporre; e dal momento che Crisippo ci ha lasciato due trattati dal titolo ‘Sulla sintassi delle parti del discorso’, i quali non contengono una teoria della retorica ma della dialettica -come sanno coloro che hanno letto i libri- e concernono la sintassi delle proposizioni, le proposizioni vere e false, possibili e [II,67,40] impossibili, fattibili, equivoche, ambigue [II,68,1] ed altri modi del genere i quali non conferiscono aiuto né giovamento alcuno ai discorsi politici, e dunque si tratta di materiale non raccolto in vista di quel piacere e di quella bellezza dell’esposizione linguistica che la composizione deve avere per bersaglio, io mi distornai dalla trattazione di questo soggetto.

[II,68,5] § 5. Sulle proposizioni non semplici

Frammenti n. 207-220

[Dei libri di Crisippo sono qui pertinenti i seguenti: ‘Sulle proposizioni non semplici (1 libro)’, ‘Sul periodo copulativamente coordinato, ad Atenade (2 libri)’, ‘Sul vero periodo disgiuntivo, a Gorgippide (1 libro)’, [II,68,10] ‘Sul vero periodo ipotetico, a Gorgippide (4 libri)’, ‘Contributo sulle proposizioni consecutive (1 libro)’]

SVF II, 207

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 71. Delle proposizioni non semplici, come affermano Crisippo nelle ‘Definizioni dialettiche’ e Diogene nella sua opera ‘L’arte della dialettica’, la proposizione ipotetica [II,68,15] è quella che sussiste per la presenza della congiunzione ipotetica ‘se’. Questa congiunzione preannuncia che al primo enunciato ne segue un secondo: per esempio, ‘se è giorno, c’è luce’. [In un enunciato che consta di una proposizione iniziale e di una finale, la proposizione causale-temporale, come afferma Crini nella sua ‘Arte dialettica’, è quella introdotta dalla congiunzione ‘poiché’: per esempio, ‘Poiché è giorno, c’è luce’. La congiunzione preannuncia che alla prima proposizione segue la seconda e che la prima regge la seconda.] La proposizione copulativamente coordinata è quella coordinata da congiunzioni copulative: per esempio, ‘Ed [II,68,20] è giorno e c’è luce’. La proposizione disgiuntiva è quella disgiunta dalla congiunzione disgiuntiva ‘o’: per esempio, ‘O è giorno o è notte’. Questa congiunzione preannuncia che una delle due proposizioni è falsa. La proposizione causale-formale è quella composta mediante la congiunzione ‘perché’: per esempio, ‘Perché è giorno, c’è luce’. Infatti, è quasi come se [II,68,25] la prima proposizione fosse causa della seconda. La proposizione chiarificativa di maggioranza è quella composta dalla congiunzione chiarificativa di maggioranza ‘più’ e dal ‘che’ posizionato in mezzo alle proposizioni: per esempio, ‘È più giorno che notte’. La proposizione chiarificativa di minoranza è la proposizione opposta alla precedente: per esempio, ‘È meno notte che [II,68,30] giorno’.

SVF II, 208

Galeno ‘Introd. dialect.’ 4, p. 10, 13 Kalb. Se ci esprimessimo a voce su fatti diversi i quali hanno tra di loro né consequenzialità né contraddizione negativa, chiameremo una tale proposizione copulativamente coordinata: come nel caso dell’enunciato ‘Dione passeggia e Teone dialoga’. [II,68,35] Non avendo questi fatti contraddizione né consequenzialità alcuna tra di loro, la loro relazione è linguisticamente interpretata da una copula. [II,69,1] Perciò qualora noi li denegassimo, affermeremo che quell’enunciato è: o una copulazione negativa, oppure un periodo copulativamente coordinato in modo negativo; non facendo alcuna differenza in questo caso il chiamare l’enunciato copulativamente congiunto negativo oppure a copulazione negativa. Ma i seguaci di Crisippo, anche [II,69,5] qui facendo più attenzione alle parole che ai fatti, chiamano proposizioni copulativamente coordinate tutte le proposizioni che sussistono come tali grazie alla presenza di quelle che sono chiamate congiunzioni copulative, sia che esse implichino contraddizione o consequenzialità. Ciò significa che nei casi in cui ne va di mezzo la precisione dell’insegnamento, essi utilizzano i nomi con trascuratezza; e invece nei casi in cui nulla di differente le espressioni significano, essi legiferano [II,69,10] sull’esistenza di significati peculiari […]

SVF II, 209

Dexippo ‘In Aristot. categ.’ p. 22, 18 Busse. Noi affermiamo che quanti dicono che l’unica copulazione <vera> è l’espressione verbale mediante congiunzione copulativa, sono seguaci degli Stoici. Aristotele invece, più antico di essi, adottava le consuetudini dei più anziani, i quali solevano designare col nome di copula la congiunzione [II,69,15] della maggior parte degli elementi del discorso.

SVF II, 210

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1047c. Ma proprio <Crisippo> afferma che il numero di combinazioni ottenibile mediante dieci proposizioni oltrepassa il milione, senza peraltro avere fatto al riguardo accurate ricerche personali né riferendo informazioni vere di esperti. […] Tutti i matematici [II,69,20] contestano Crisippo; e tra di essi vi è Ipparco, il quale dimostra che il suo errore di conteggio è stragrande, se appunto la proposizione affermativa produce centotremilaquattrocentonove combinazioni di proposizioni copulativamente coordinate, e la proposizione negativa ne produce a sua volta trecentodiecimilanovecentocinquantadue. [II,69,25]

SVF II, 211

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 124. Sarà ora opportuno andare oltre questi discorsi e passare all’esame delle proposizioni copulativamente coordinate, delle proposizioni disgiuntive e insieme all’esame delle restanti forme di proposizioni non semplici. […] …qualora essi dicano che è sano quel periodo copulativamente coordinato che contiene tutte proposizioni vere: per esempio, ‘È giorno e c’è luce’; [II,69,30] mentre è falso quello che contiene una proposizione falsa […]

[2] 128. Ma come nella vita, essi affermano, un manto che sia sano nella maggioranza delle sue parti e strappato soltanto in piccola parte noi non lo diciamo sano, guardando alla maggioranza delle sue parti sane, bensì strappato, guardando alla piccola parte strappata; così nel caso della proposizione copulativamente coordinata, quand’anche una sola di esse sia falsa e le altre siano in maggioranza vere, [II,69,35] l’intero enunciato sarà detto falso per la presenza di quel solo membro falso.

SVF II, 212

Galeno ‘De simplic. medicam.’ II, 16, Vol. XI, p. 499 K. La premessa ipotetica, che i seguaci di Crisippo denominano proposizione condizionale […]

SVF II, 213

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ XVI, 8, 9. Ma quello che i greci chiamano συνημμένον ἀξίωμα ossia ‘sillogismo ipotetico’ […] è […] come questo: ‘Se Platone cammina, Platone si muove’, [II,69,40] ‘Se è giorno, il sole sta sopra la terra’. Inoltre quello che loro chiamano συμπεπλεγμένον e noi coordinato [II,70,1] o copulativo è di questo tipo: ‘Publio Scipione, figlio di Paolo, fu due volte console e celebrò un trionfo e fu censore e qui fu collega di Lucio Mummio’. Ebbene, ogni periodo [II,70,5] copulativamente coordinato si dice falso se un solo elemento è falso, anche se gli altri sono veri.

SVF II, 214

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 88. Ma gli Stoici non sono in grado di porci davanti il contrapposto. […] Essi affermano che “Sono proposizioni contrapposte quelle in cui una eccede l’altra per la presenza di una negazione: per esempio, ‘È giorno’ e ‘Non è giorno’. La proposizione ‘Non è giorno’ eccede, infatti, la proposizione ‘È giorno’ per la presenza [II,70,10] della negazione ‘non’ e per questo motivo è il contrapposto dell’altra”. Ma se questo è il contrapposto, allora saranno contrapposte anche le proposizioni ‘È giorno e c’è luce’ e ‘È giorno e non c’è luce’, giacché la proposizione ‘È giorno e non c’è luce’ eccede la proposizione ‘È giorno e c’è luce’ per una negazione. Secondo loro, invece, queste due proposizioni non sono contrapposte. [II,70,15] Ma allora non sono più contrapposte due proposizioni delle quali una eccede l’altra per la presenza di una negazione. Sì invece, essi affermano; ma sono contrapposte con questa condizione aggiunta: ossia che la negazione sia posizionata all’inizio dell’enunciato, giacché in questo modo essa domina l’intera proposizione. Nel caso di ‘È giorno e non c’è luce’ la negazione nega soltanto una parte del tutto e non domina in modo da negare l’intera proposizione.

SVF II, 215

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 73. [II,70,20] Inoltre, alcune proposizioni si contrappongono una all’altra come sono contrapposte verità e falsità, essendo una la negazione dell’altra: per esempio, ‘È giorno’ e ‘Non è giorno’. Pertanto, è vero quel periodo ipotetico in cui la proposizione che è il contrapposto dell’apodosi contraddice la protasi. Prendiamo come esempio il periodo ipotetico ‘Se è giorno, c’è luce’. Questo periodo ipotetico è vero [II,70,25] giacché la proposizione ‘Non c’è luce’, la quale è il contrapposto dell’apodosi, contraddice la protasi ‘È giorno’. È falso quel periodo ipotetico in cui la proposizione che è il contrapposto dell’apodosi non contraddice la protasi: per esempio, ‘Se è giorno, Dione passeggia’. Infatti la proposizione ‘Dione non passeggia’ non contraddice la proposizione ‘È giorno’. [Enunciato causale-temporale vero è quello che comincia con una proposizione vera e conclude in modo conseguente: per esempio, ‘Poiché è giorno, c’è il sole sulla terra’. Enunciato causale-temporale falso è invece quello che comincia con una proposizione falsa oppure che conclude in modo inconseguente: per esempio, ‘Poiché è notte, Dione passeggia’ qualora ciò sia detto mentre è pieno giorno.] Enunciato causale-formale vero [II,70,30] è quello che comincia con una premessa vera e conclude in modo conseguente, essendo chiaro che la premessa non consegue a sua volta dalla conclusione: per esempio, ‘Perché è giorno, c’è luce’. Infatti, alla proposizione ‘È giorno’, consegue l’altra ‘C’è luce’; ma alla proposizione ‘C’è luce’ non consegue l’altra ‘È giorno’. Enunciato causale-formale falso è quello che o comincia con una premessa falsa, oppure ha una conclusione inconseguente, oppure ha la premessa inconseguente alla conclusione: [II,70,35] per esempio, ‘Perché è notte, Dione passeggia’.

SVF II, 216

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 108. Sono proposizioni non semplici quelle che consistono di una proposizione equivoca o di proposizioni differenti nelle quali sono preminenti una o più congiunzioni. Tra queste, si prenda al momento in considerazione il cosiddetto periodo ipotetico. Esso [II,70,40] consiste di una proposizione equivoca o di proposizioni differenti introdotte dalla congiunzione ‘se’ oppure ‘se davvero’. Per esempio, il periodo ipotetico di questo genere ‘Se è giorno, è giorno’ è costituito da una proposizione equivoca e dalla congiunzione ‘se’. [II,71,1] Da proposizioni differenti e dalla congiunzione ‘se davvero’ è invece costituito il seguente periodo ipotetico: ‘Se è giorno, c’è luce’. Delle proposizioni del periodo ipotetico, la proposizione posizionata subito dopo la congiunzione ‘se’ o ‘se davvero’ si chiama ‘protasi’ o prima e quella che conclude si chiama ‘apodosi’ o seconda, anche se l’intero periodo ipotetico [II,71,5] è enunciato in ordine invertito, per esempio, così: ‘C’è luce, se davvero è giorno’. Anche in questo caso, infatti, si chiama apodosi la proposizione che conclude ossia ‘C’è luce’, benché essa sia enunciata per prima; mentre resta protasi, seppure detta per seconda, la proposizione ‘È giorno’, in quanto essa è posizionata subito dopo la congiunzione ‘se davvero’. La composizione del periodo ipotetico è pertanto tale, per dirlo alla spiccia, che in esso appare preannunciarsi [II,71,10] che l’apodosi consegue alla protasi e che se è vera la protasi, lo sarà anche l’apodosi. Laonde quando sia salvaguardato tale preannuncio e l’apodosi sia realmente conseguente alla protasi, il periodo ipotetico diventa vero; mentre se tale preannuncio non è salvaguardato esso diventa falso.

SVF II, 217

[1] Galeno ‘Introd. dialect.’ 3, p. 8, 11 Kalb. [II,71,15] Siccome, qualora qualcosa è non-questo, noi pensiamo che sia quest’altro: per esempio, dicendo che è non-notte intendiamo dire che è giorno; […] da parte di alcuni filosofi più recenti questa è denominata proposizione ‘disgiuntiva’; proprio come è da essi denominata ‘ipotetica’ l’altra forma, quella delle premesse ipotetiche, che noi dicevamo essere la forma a continuità logica diretta (qualora [II,71,20] ci si fidi che qualcosa esiste grazie all’esistenza di qualcos’altro o per continuità diretta con esso). Il termine ‘disgiuntive’ è il più appropriato per indicare queste proposizioni (che sono evidentemente quelle che noi dicevamo denominarsi premesse diairetiche) le quali sono introdotte dalla congiunzione ‘o’ (non fa differenza alcuna usare il monosillabo ‘o’ oppure il bisillabo [in lingua greca] ‘oppure’). Invece è più appropriato il termine di ‘proposizione ipotetica’ per quella introdotta dalla congiunzione ‘se’ oppure ‘se davvero’ (giacché anche queste due congiunzioni significano la stessa cosa). Perciò [II,71,25] un enunciato di questo genere: ‘Se è giorno, c’è il sole sulla terra’, è denominato dai filosofi più recenti ‘proposizione ipotetica’. […] Ed enunciati del genere: ‘O è giorno o è notte’ sono denominati dai filosofi più recenti ‘proposizioni disgiuntive’.

[2] 14, p. 32, 13 Kalb. Gli Stoici chiamano ‘proposizioni ipotetiche’ [II,71,30] le premesse a continuità logica diretta e ‘proposizioni disgiuntive’ le premesse diairetiche, e sono d’accordo sull’esistenza di due sillogismi in relazione con la proposizione ipotetica e di due sillogismi in relazione con la proposizione disgiuntiva. […] Il terzo ragionamento anapodittico, stando ai seguaci di Crisippo, ha una combinazione di proposizioni negative per premessa maggiore, una delle proposizioni così combinate per premessa minore [II,71,35] e il contrapposto della proposizione rimanente per conclusione […]

[3] ‘Epimerismi Homer.’ Anecdot. Oxon. I, p. 188 Cramer. La congiunzione ‘o’, con lo spirito dolce e l’accento acuto [in lingua greca] ha tre significati: disgiuntivo, subdisgiuntivo e chiarificatore. […] In cosa differiscono l’uno dall’altro? L’ ‘o’ disgiuntivo sceglie uno soltanto di due oggetti alternativi ed elimina l’altro. [II,71,40] ‘O è giorno o è notte (c’è uno solo dei due, non possono esserci entrambi). […] L’ ‘o’ para(sub?)disgiuntivo può invece assumere entrambi gli oggetti, come quando diciamo: ‘Chi si curva sul remo o lo tira a sé o lo spinge lontano da sé’ (egli fa, infatti, [II,72,1] entrambe le cose). […] L’ ‘o’ chiarificatore, che gli Stoici chiamano contestativo, lo capirai così: ‘Voglio che il popolo sia salvo o perisca’, dove l’ ‘o’ significa ‘piuttosto che’. Queste sono parole per consuetudine attribuite ad Agamennone.

SVF II, 218

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ XVI, 8, 12. C’è poi un altro enunciato che i Greci chiamano διεζευγμένον ἀξίωμα e che noi chiamiamo proposizione disgiuntiva. [II,72,5] Esso ha questa forma: ‘Il piacere o è un bene o è un male o è né un bene né un male’. Ora, tutte le entità fra loro disgiunte devono necessariamente essere in reciproca opposizione, e i loro opposti, che i Greci chiamano ἀντικείμενα, devono anch’essi essere tra loro contrari. Di tutte le entità disgiunte, una deve essere vera [II,72,10] e le altre false. Se però nessuna è vera, oppure tutte sono vere, oppure più d’una è vera; o se le entità disgiunte non sono in opposizione; o se le entità tra di loro opposte non sono contrarie una all’altra: allora siffatta disgiunzione è falsa e si chiama παραδιεζευγμένον ossia ‘paradisgiunzione’. Per esempio il seguente enunciato, nel quale gli opposti non sono contrari: ‘O corri o cammini o stai fermo’ […] [II,72,15] Infatti tu potresti contemporaneamente e allo stesso tempo non camminare, non stare fermo e non correre.

SVF II, 219

Cicerone ‘Academica’ II, 97. I dialettici […] cioè Antioco e gli Stoici, non riuscirebbero ad ottenere che Epicuro riconosca come vero l’enunciato ‘Domani Ermarco o vivrà o non vivrà’; mentre essi invece decretano che tutte le proposizioni disgiuntive [II,72,20] secondo la formula ‘o sì o no’ non soltanto sono vere, ma anche necessarie.

SVF II, 220

Galeno ‘Introd. dialect.’ 5, p. 12, 3 Kalb. Può darsi che in talune proposizioni le congiunzioni disgiuntive siano numerose o tutte, non soltanto una; ma è comunque necessario che ve ne sia almeno una. Taluni denominano siffatta proposizione ‘paradisgiuntiva’, [II,72,25] poiché vi è soltanto una vera disgiuntiva, sia che l’enunciato risulti constare di due o di numerose proposizioni semplici.

§ 6. Sul segno

Frammenti n. 221-223

SVF II, 221

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 244. Bisognerà forse farsi brevemente un concetto del punto di vista che ha il loro beneplacito e secondo il quale essi vogliono che il ‘segno’ sia una proposizione [II,72,30] e pertanto un intelligibile. Delineando quindi il loro punto di vista, essi affermano che il segno è la protasi di un sano periodo ipotetico, atta a disvelare l’apodosi conseguente. Affermano pure che i criteri di determinazione di un sano periodo ipotetico sono molti e diversi, e che quello che sarà esplicato qui […] è uno dei tanti. Ogni periodo ipotetico o comincia con una protasi vera e conclude in un’apodosi vera, o comincia con una protasi falsa e conclude [II,72,35] in un’apodosi falsa, o comincia con una protasi vera e conclude in un’apodosi falsa, o comincia con una protasi falsa e conclude in un’apodosi vera. Pertanto il periodo ipotetico ‘Se ci sono dei, il cosmo è governato dalla Prònoia di dei’, comincia con una protasi vera e conclude in un’apodosi vera. Il periodo ipotetico ‘Se la terra vola, la terra ha le ali’, comincia con una protasi falsa e conclude in un’apodosi falsa. Il periodo ipotetico ‘Se la terra vola, la terra esiste’, comincia con una protasi falsa e conclude in un’apodosi vera. Il periodo ipotetico ‘Se costui si muove, costui cammina’, comincia con una protasi vera e conclude in un’apodosi falsa, [II,72,40] giacché costui si muove ma non sta camminando. Mentre sono dunque quattro i tipi di connubio di protasi ed apodosi del periodo ipotetico, […] essi affermano che il periodo ipotetico è vero soltanto nei primi tre modi, […] mentre è falso [II,73,1] in uno solo dei modi: ossia quando comincia con una protasi vera e conclude in un’apodosi falsa. Se così stanno le cose bisogna ricercare il segno non in questo periodo ipotetico viziato ma in quello sano, giacché si è detto che il segno è la protasi di un sano periodo ipotetico. Ma poiché il periodo ipotetico sano non è uno soltanto ma sono tre, [II,73,5] cioè quello che comincia con una protasi vera e conclude in un’apodosi vera, quello che comincia con una protasi falsa e conclude in un’apodosi falsa e quello che comincia con una protasi falsa e conclude in un’apodosi vera, bisogna analizzare se mai ricercare il segno in tutti e tre i periodi ipotetici sani oppure in quali o in quale. Se dunque il segno deve essere vero ed evidenziatore del vero, esso non se ne starà nascosto sotto il periodo ipotetico che comincia con una protasi falsa e conclude in un’apodosi falsa, né sotto quello che comincia con una protasi falsa e conclude in un’apodosi vera. [II,73,10] Resta l’unica possibilità che esso si trovi nel periodo ipotetico che comincia con una protasi vera e conclude in un’apodosi vera, come se il segno esistesse lì e ciò ch’è da esso segnalato fosse tenuto a coesistergli. Quindi, qualora si dica che il segno è la protasi di un periodo ipotetico sano, bisognerà intendere soltanto la protasi di quel periodo ipotetico che comincia con un enunciato vero e conclude in un enunciato vero. [II,73,15] Tuttavia, non una qualunque protasi di un periodo ipotetico che comincia con un enunciato vero e conclude in un enunciato vero è un segno. Il segno deve infatti anche avere natura di disvelatore dell’apodosi; quale esso ha, per esempio, nei periodi ipotetici di questo genere: ‘Se questa femmina ha latte nelle mammelle, questa femmina è stata gravida’ e ‘Se costui [II,73,20] ha sputato della cartilagine bronchiale, costui ha una piaga in un polmone’. Questo periodo ipotetico è sano, poiché comincia con un enunciato vero e conclude in un enunciato vero; ed inoltre il primo enunciato è disvelatore del secondo, al punto che gettando uno sguardo sul primo abbiamo l’apprensione di quest’ultimo. Il segno, inoltre, deve essere segno presente di una realtà presente. Ma taluni [II,73,25] s’ingannano e vogliono che il segno presente sia disvelatore di una realtà passata, come nel caso di: ‘Se costui ha una cicatrice, costui ha avuto una piaga’. Il ‘se costui ha una cicatrice’, infatti, è una realtà presente che appare visibile; mentre lo ‘ha avuto una piaga’ è una realtà passata, perché la piaga non c’è più. Certuni vogliono che il segno presente sia disvelatore di una realtà futura, come quella inclusa in un periodo ipotetico di questo genere: ‘Se costui è stato ferito al cuore, costui morirà’. La ferita al cuore, [II,73,30] essi affermano, c’è già e la morte è futura. Quelli che dicono una cosa del genere ignorano che il tempo trascorso e quello futuro sono realtà diverse, mentre invece il segno e ciò che dal segno è significato è, anche in questi casi, una realtà presente. Nel primo caso […] la piaga c’è già stata ed è scomparsa, mentre la proposizione ‘costui ha avuto una piaga’ è esistente nel presente, essendo pronunciata ora su qualcosa avvenuto nel passato. Nel caso di ‘Se costui è stato ferito [II,73,35] al cuore, costui morirà’, la morte è un evento futuro, mentre ‘costui morirà’ è una proposizione pronunciata nel presente circa un evento futuro che è vero già fin da ora. Sicché, per concludere, il segno è una proposizione che è la protasi di quel sano periodo ipotetico che comincia con una protasi vera e conclude in un’apodosi vera, che è disvelatrice dell’apodosi e che è in ogni caso segno presente di un fatto presente. [II,73,40] Una volta illustrate queste argomentazioni secondo le loro regole dell’arte logica […]

SVF II, 222

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 177. Alcuni concepiscono il segno come qualcosa di natura sensibile, altri come un intelligibile. Epicuro e i suoi scolarchi dissero che il segno è un sensibile; gli Stoici, invece, [II,73,45] che è un intelligibile.

SVF II, 223

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 275. [II,74,1] Davanti a ciascuna di queste obiezioni dialetticamente argomentate i Dogmatici restano con la museruola alla bocca e, cercando di strutturare argomenti opposti, affermano che l’uomo differisce dagli animali bruti non per la ragione come discorso verbalmente proferito (giacché anche [II,74,5] i corvi, i pappagalli e le gazze proferiscono voci articolate) ma per il discorso mentale, e non soltanto per la semplice rappresentazione (giacché anche quegli animali si fanno delle rappresentazioni) ma per la rappresentazione traslatoria e sintetica. Avendo perciò l’uomo il concetto di conformità, grazie ad esso subito ha intellezione del ‘segno’. Infatti, proprio il segno è qualcosa del genere ‘Se questo, allora questo’; e l’esistenza del segno s’accompagna alla natura [II,74,10] strutturale dell’uomo. È pure concordemente ammesso che la dimostrazione appartiene al genere del segno. Essendo, infatti, rivelativa della conchiusione, la sua combinazione attraverso gli assunti sarà segno dell’esistenza di una conchiusione. Si prenda per esempio, il caso di questa dimostrazione: ‘Se c’è movimento, c’è vuoto; ma c’è movimento, dunque c’è vuoto’. Il periodo copulativamente coordinato ‘Se c’è movimento, c’è vuoto [II,74,15] e c’è movimento’, il quale risulta dalla coordinazione attraverso la copula ‘e’ della premessa maggiore e della premessa minore del sillogismo, è subito anche segno della conchiusione ‘c’è vuoto’. Pertanto essi affermano che i discorsi indirizzati contro il segno da coloro che nutrono incertezze a suo riguardo, o sono probativi o sono non probativi. Se sono non probativi sono indegni di fede, e laddove pure fossero per caso probativi sarebbero degni di ben poca fiducia. [II,74,20] Se invece sono probativi, è manifesto che un qualche segno esiste, giacché la dimostrazione è una specie di segno. E se nulla è segno di nulla, allora le parole proferite a voce contro il segno o significano qualcosa oppure sono insignificanti. Se sono insignificanti, neppure aboliscono l’esistenza del segno: com’è infatti possibile aver fede in parole che nulla significano circa l’esistenza del segno? Se invece significano qualcosa, [II,74,25] sono matti gli Scettici, i quali espellono il segno a parole e ne assumono la realtà nei fatti. Inoltre, se davvero non c’è alcun principio filosofico peculiare dell’arte, l’arte non differirà dalla mancanza d’arte. Se invece un principio filosofico peculiare dell’arte esiste, esso è o apparente a prima vista oppure è non manifesto. Ma apparente a prima vista non potrebbe essere, giacché ciò ch’è apparente a prima vista appare a tutti in modo simile e senza bisogno d’insegnamento. Se invece esso capita essere non manifesto, allora questo principio filosofico sarà conosciuto [II,74,30] proprio attraverso un segno. E se c’è qualcosa che può essere conosciuto attraverso un segno, esisterà anche un segno. Alcuni, poi, argomentano interrogativamente in questo modo: ‘Se c’è un segno, il segno c’è; se il segno non c’è, il segno c’è. Ma o nulla è segno, oppure il segno c’è. Dunque il segno c’è’.

§ 7. Sulla definizione

Frammenti n. 224-230

SVF II, 224

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 8. [II,74,35] Gli scrittori di trattati logici affermano che la definizione differisce dall’universale per la mera sintassi, ma che è potenzialmente la stessa cosa. Ed è verosimile che sia così, giacché chi dice: ‘L’uomo è un animale razionale mortale’; rispetto a chi dice: ‘Se qualcosa è uomo, quel qualcosa è un animale razionale mortale’; dice potenzialmente la medesima cosa pur se pronuncia a voce parole diverse. Che le cose [II,74,40] stiano in questi termini è insieme manifesto non soltanto dal fatto che l’universale abbraccia tutti i casi particolari, ma anche dal fatto che la definizione pervade tutte le forme [II,75,1] dell’oggetto che è così esplicato. Per esempio, la definizione di ‘uomo’ è valida per tutti gli uomini specifici, e quella di ‘cavallo’ per tutti i singoli cavalli, e qualora risulti loro subordinato un enunciato falso, entrambi, tanto l’universale che la definizione, diventano viziati. E come questi due elementi sono diversi a parole ma [II,75,5] potenzialmente identici; così pure, essi affermano, la perfetta diairesi di un genere in due specie, la quale ha forza universale, è differente dall’universale soltanto per trattamento formale. Colui che opera la suddivisione nel seguente modo: ‘Degli uomini, alcuni sono Greci e altri barbari’ dice la stessa cosa di chi afferma ‘Se ci sono degli uomini, questi o sono Greci o sono barbari’; giacché se si trovasse un uomo [II,75,10] il quale è né Greco né barbaro, allora di necessità la suddivisione sarebbe viziata e l’enunciato universale diventerebbe falso. Perciò anche l’enunciato della forma ‘Delle cose che sono, alcune sono beni, altre mali, altre intermedie tra i beni e i mali’, secondo Crisippo è potenzialmente equivalente ad un universale di questo genere: ‘Se delle cose esistono, esse sono o beni o mali o né beni né mali’.

SVF II, 225

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 16B Ed. Bas. [II,75,15] […] poiché il nome rende manifesto il concentrato dell’oggetto o, come affermano gli Stoici, il suo punto capitale; mentre la definizione le parti distinte […]

SVF II, 226

[1] Scholia Vaticana in Dionys. Thrac. p. 107, 5 Hilgard. Crisippo dice che la definizione è la ‘restituzione della peculiarità’, [II,75,20] cioè il discorso che ne restituisce la peculiarità. E lo Stoico Antipatro dice: “La definizione è un discorso enunciato come necessario, cioè come reversibile. La definizione, infatti, vuole darci modo di revertire [all’oggetto definito]”.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 60. La definizione, come afferma Antipatro nel primo libro ‘Sulle definizioni’, è un discorso enunciato in modo esattamente corrispondente all’analisi oppure, come afferma Crisippo [II,75,25] nel suo libro ‘Sulle definizioni’ è la restituzione in forma discorsiva della cosa stessa.

SVF II, 227

[1] Ps. Galeno ‘Definitiones medicae’ I, Vol. XIX, p. 349 K. La definizione è un discorso enunciato in conformità ad un’analisi puntuale.

[2] Ibid. La descrizione è un discorso che introduce in modo sommario al manifesto conoscimento dell’oggetto.

SVF II, 228

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 42, 20 Wallies. [II,75,30] Come credono alcuni, il primo dei quali sembra essere Antistene e dopo di lui anche alcuni Stoici, lo ‘era’ [nell’enunciato ‘qualcosa era’] non è autosufficiente, ed a ragione gli è aggiunto lo ‘essere’ [nell’enunciato ‘qualcosa era in essere’].

[2] p. 42, 31. Coloro i quali dicono che la definizione è un discorso enunciato in perfetta conformità ad un’analisi, [II,75,35] (e chiamano ‘analisi’ la spiegazione dell’oggetto definito per punti capitali, e ‘perfetta conformità’ un modo che non supera la misura e neppure è di essa carente) direbbero che la definizione in nulla differisce dalla restituzione della cosa stessa.

SVF II, 229

Galeno ‘De differentia pulsuum’ IV, 2, Vol. VIII, p. 708 K. Iniziamo dunque nuovamente dalle definizioni concettuali, che noi affermavamo interpretare linguisticamente [II,76,1] nulla più di ciò che tutti quanti gli uomini conoscono. […] e che gli esperti di appellativi sollecitano di non denominare ‘definizioni’ bensì descrizioni e abbozzi.

SVF II, 230

Galeno ‘Adversus Lycum’ 3, Vol. XVIII, p.209 K. Lico [II,76,5] prospetta dunque interrogativamente un discorso da persona così ignorante che non s’accorge di star spazzando via tutte le arti, giacché queste consistono proprio nel conoscimento delle differenze tra ciascuna realtà esistente. Di ciò ha discusso in primo luogo Platone nel ‘Filebo’, subito all’inizio del dialogo. Aristotele, Teofrasto, Crisippo [II,76,10] e Mnesiteo hanno poi tenuto saldo il suo punto di vista e nessuno di coloro che hanno discusso lo stesso argomento in opere sull’arte lo ha messo in dubbio.

§ 8. Sui ragionamenti e i sillogismi

Frammenti n. 231-269

[II,76,15]

SVF II, 231

Galeno ‘De libris propriis’ 11, Vol. XIX, p. 43 K. Ancora da ragazzo, quando mio padre mi affidò a chi m’insegnò la dottrina logica di Crisippo e dei celebri Stoici, io stesi per me stesso degli appunti dei libri di Crisippo che trattano i sillogismi.

SVF II, 232

Galeno ‘De libris propriis’ 16, Vol. XIX, p. 47 K. [II,76,20] [Opere di Galeno sulla dottrina logica degli Stoici] ‘Sulla dottrina logica di Crisippo, tre libri’, ‘Appunti sulla ‘Sillogistica prima’ di Crisippo, tre libri’, ‘Appunti sulla ‘Sillogistica seconda’ di Crisippo, un libro’, ‘Sulla dottrina e la facoltà logica, sette libri’, ‘Sul bisogno dei principi generali in vista dei sillogismi, un libro’, [II,76,25] […] ‘Sul bisogno dei principi generali in vista dei sillogismi, due libri’.

SVF II, 233

Luciano ‘Icaromen.’ 24. [Parla Zeus] Appunto perciò vedresti i miei altari più freddi delle ‘Leggi’ di Platone e dei ‘Sillogismi’ di Crisippo.

SVF II, 234

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 3 (91), p. 178 M. [II,76,30] Per questa via, un assunto dimostrativo scientifico differisce da uno retorico o da uno a mo’ di esercizio o da uno sofistico. Ma su queste differenze, neppure i seguaci di Zenone e di Crisippo ci hanno insegnato alcunché, né come metodo né quanto ad allenamento ad esse. Ragion per cui, nei loro libri, tutti questi tipi di assunti risultano mescolati alla rinfusa uno di seguito all’altro. Spesso, stando così le cose, s’inizia con [II,76,35] un epicherema retorico; a questo segue un’argomentazione a mo’ d’esercizio dialettico, [II,77,1] quindi un’argomentazione scientifica; poi ancora, se capita, una sofistica. Non sapendo essi che gli assunti scientifici si riferiscono alla sostanza dell’oggetto ricercato […]

SVF II, 235

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 45. Il ragionamento è di per sé un insieme [II,77,5] formato da assunti e da una conclusione logica. Il sillogismo è un ragionamento deduttivo formale articolato a partire da questi elementi. La dimostrazione è un ragionamento che mediante concetti più saldamente afferrati giunge a fare chiarezza su un concetto meno saldamente afferrato.

SVF II, 236

Ammonio ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 68, 4 Wal. Quali nomi hanno utilizzato gli Stoici? Dunque, essi chiamano i fatti ‘eventi’, [II,77,10] giacché il loro fine è quello di avvenire. Chiamano le intellezioni ‘enunciabili’, giacché le enunciamo a voce; e chiamano le voci ‘esprimibili’. Chiamano il periodo ipotetico e quello disgiuntivo ‘modale’, a causa del modo che essi hanno di collegarsi da una premessa all’altra. Chiamano l’antecedente, similmente a noi, antecedente. Il conseguente, lo chiamano ‘concludente’; e la premessa minore, similmente a noi, premessa minore. […] Quello che noi chiamiamo conchiusione, essi lo chiamano ‘conclusione’ logica. Chiamano poi i sillogismi ipotetici ‘anapodittici’ [II,77,15] e ‘temi’.

SVF II, 237

Ammonio ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 26, 36 Busse. Gli stoici chiamavano le premesse ‘assiomi’ e ‘lemmi’. Lemmi dal verbo lambàno=prendere; e assiomi dal verbo axioùn=stimare, in quanto le stimavano vere come gli assiomi degli studiosi di geometria.

SVF II, 238

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 77. [II,77,20] Dei ragionamenti alcuni sono inconcludenti, altri concludenti. Inconcludenti sono quelli in cui il contrapposto della conclusione logica non contraddice la combinazione degli assunti; per esempio, i ragionamenti di questo genere: ‘Se è giorno, c’è luce; ma è giorno; dunque Dione passeggia’. Dei ragionamenti concludenti alcuni si chiamano, per omonimia col genere, ‘concludenti’; altri ‘sillogistici’. [II,77,25] I ragionamenti sillogistici sono o quelli anapodittici o quelli riconducibili agli anapodittici secondo una o alcune tematizzazioni; per esempio, i ragionamenti di questo genere: ‘Se Dione passeggia, <Dione si muove; ma Dione passeggia>; dunque Dione si muove’. Ragionamenti concludenti sono specificamente quelli che deducono in modo non sillogistico; per esempio, i ragionamenti di questo genere: ‘ ‘È giorno ed è notte’ è una proposizione falsa; ma è giorno; [II,77,30] dunque non è notte’. ‘Asillogistici’ sono i ragionamenti plausibilmente giustapponibili a quelli sillogistici ma che non deducono in modo valido; per esempio: ‘Se Dione è un cavallo, Dione è un animale; <ma Dione non è un cavallo>; dunque Dione non è un animale’. Dei ragionamenti, inoltre, alcuni sono veri mentre altri sono falsi. Veri sono i ragionamenti che deducono attraverso proposizioni vere; per esempio: ‘Se la virtù giova, il vizio danneggia; [II,77,35] <ma la virtù giova; dunque il vizio danneggia>. Falsi sono [II,78,1] i ragionamenti aventi qualche assunto falso o che sono inconcludenti; per esempio: ‘Se è giorno, c’è luce; ma è giorno; dunque Dione è vivo’. Vi sono poi ragionamenti possibili e impossibili, necessari e non necessari.

SVF II, 239

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 411. <Gli Stoici> credono, dunque, [II,78,5] al reciproco connubio di tre ragionamenti: il cogente, il vero e il dimostrativo. Dei tre ragionamenti, quello dimostrativo è in ogni caso vero e cogente; quello vero è in ogni caso cogente ma non necessariamente anche dimostrativo; e quello cogente non sempre è vero né è sempre dimostrativo. Ora, un ragionamento di questo genere enunciato mentre è giorno: ‘Se è notte, è buio; ma è davvero [II,78,10] notte; dunque è buio’; opera una deduzione cogente poiché è prospettato secondo un procedimento sano, ma non è vero. Infatti, il secondo assunto o premessa minore: ‘Ma è davvero notte’, è una proposizione falsa. Invece un ragionamento così pronunciato mentre è giorno: ‘Se è giorno, c’è luce; ma è davvero giorno; dunque c’è luce’; è insieme cogente e vero, poiché è prospettato secondo un procedimento sano e deduce il vero attraverso proposizioni vere. [II,78,15] Essi affermano che il ragionamento cogente si determina come tale qualora la conchiusione consegua logicamente dal nesso che lega i suoi assunti. Per esempio, un ragionamento di questo genere pronunciato mentre è giorno: ‘Se è notte, è buio; ma è davvero notte; dunque è buio’; quantunque non sia vero perché conduce ad una conclusione falsa, diciamo però che è cogente. Infatti, combinando la premessa minore e la premessa maggiore in modo copulativamente coordinato: ‘È notte; e se è notte, [II,78,20] è buio’ noi formiamo un periodo ipotetico avente come protasi questo tipo di combinazione: ‘È notte; e se è notte’; e come apodosi questo tipo di conchiusione: ‘È buio’. Questo periodo ipotetico è vero, giacché da una protasi vera non discende qui un’apodosi che conclude il falso. Qualora questo periodo ipotetico fosse pronunciato mentre è giorno, la protasi risulta falsa, […] ma concludendo anche l’apodosi nel falso, […] ecco che in questo modo [II,78,25] l’enunciato risulta vero. Qualora, invece, questo periodo ipotetico fosse pronunciato mentre è notte, sia la sua protasi che la sua apodosi sarebbero vere e pertanto esso sarebbe vero. Il ragionamento cogente, dunque, allora è sano qualora combinando noi la premessa minore e la premessa maggiore in modo copulativamente coordinato e formando un periodo ipotetico avente come protasi quel tipo di combinazione delle premesse e come apodosi quel tipo di conchiusione, si trovi che proprio questo periodo ipotetico è vero. Il ragionamento [II,78,30] vero si determina come tale non soltanto dal fatto che, formando un periodo ipotetico avente come protasi quel tipo di combinazione delle premesse e come apodosi quel tipo di conchiusione, esso risulta vero; ma anche dal fatto che è sano il periodo ottenuto combinando la premessa minore e la premessa maggiore in modo copulativamente coordinato; giacché qualora uno dei due si trovasse ad essere falso, di necessità anche il ragionamento diventerebbe falso. […] Sicché il ragionamento diventa vero non [II,78,35] qualora il solo periodo copulativamente coordinato sia vero né qualora sia vero il solo periodo ipotetico, ma qualora siano veri entrambi. Il ragionamento dimostrativo differisce da quello vero per il fatto che tutti gli enunciati di quest’ultimo, intendo dire sia le premesse che la sua conclusione logica, possono essere evidenti; mentre il ragionamento dimostrativo vuole avere qualcosa in più, ossia che la sua conclusione logica, non essendo manifesta, sia disvelata ad opera delle sue premesse. Laonde un ragionamento di questo genere […] [II,78,40] il quale ha premesse evidenti e conclusione evidente, è un ragionamento vero e non dimostrativo. Invece, un ragionamento di questo genere: ‘Se questa femmina ha latte nelle mammelle, questa femmina è stata gravida; ma questa femmina ha davvero latte nelle mammelle; dunque questa femmina è stata gravida’, oltre ad essere vero è anche dimostrativo. Infatti, essendo non manifesta la conclusione logica, […] questa è disvelata ad opera delle premesse.

SVF II, 239a

Apuleio ‘Sull’interpretazione’ 277 (p. 15, 11 Goldb.). C’è [II,79,1] un’altra dimostrazione ordinaria di tutti i sillogismi anche indimostrabili, che è detta ‘per impossibile’, e che gli Stoici chiamano ‘prima forma’ o ‘prima esposizione’ e che essi definiscono così: “Se in un sillogismo ipotetico da due premesse si ricava una conclusione, allora riformulandolo con una premessa uguale e con il contrario dell’altra premessa si ottiene una conclusione che è il contrario della conclusione precedente”. [II,79,5] […] Questa dimostrazione è stata ideata contro coloro che, concesse le premesse, rifiutano però impudentemente le conclusioni. […] Non inutilmente i dialettici stabilirono che il sillogismo è vero quando, preso il contrario della conclusione e conservando una delle due premesse, la restante risulta negata. Gli Stoici in effetti reputano possibile ricusare una conclusione [II,79,10] anche soltanto anteponendole una particella negativa.

SVF II, 240

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 429. Non è necessario discutere ora dei ragionamenti concludenti, esistendo già, al riguardo, molte e precise ricerche. È il caso, invece, di illustrare alquanto i ragionamenti inconcludenti. Dunque, essi affermano che il ragionamento inconcludente diventa tale in quattro modi diversi: per ‘incoerenza’, per ‘ridondanza’, per [II,79,15] ‘viziata prospettazione procedurale’, o per ‘deficienza’. […] Il ragionamento diventa inconcludente per incoerenza qualora gli assunti non abbiano alcuna comunanza e coerenza tra di loro e con la conclusione logica; per esempio, in un enunciato di questo genere: ‘Se è giorno, c’è luce; ma le granaglie si vendono davvero in piazza; dunque c’è luce’. […] Il ragionamento diventa inconcludente per ridondanza qualora esso assuma in sé, in modo superfluo, [II,79,20] qualcosa che è estraneo agli assunti; come in un enunciato di questo genere: ‘Se è giorno, c’è luce; ma è davvero giorno, ma anche la virtù giova; dunque c’è luce’. […] Il ragionamento diventa inconcludente per viziata prospettazione procedurale qualora sia prospettato secondo uno qualunque dei procedimenti logici contemplati tra quelli non sani. Per esempio, dato come sano questo procedimento logico: ‘Se il primo, il secondo; [II,79,25] ma si dà il primo; dunque si dà il secondo’; e dato anche questo: ‘Se il primo, il secondo; ma non si dà il primo; dunque non si dà il secondo’; noi affermiamo che il ragionamento prospettato nel procedimento logico appena citato: ‘Se il primo, il secondo; ma non si dà il primo; dunque non si dà il secondo’ è inconcludente. E diciamo questo non perché sia impossibile prospettare secondo un procedimento del genere un ragionamento che deduce il vero attraverso proposizioni vere (ciò, infatti, [II,79,30] è possibile; per esempio, in un ragionamento di questo genere: ‘Se tre è quattro, sei è otto; ma tre non è quattro; dunque sei non è otto’); ma perché alcuni ragionamenti viziati possono essere acconciati in questa forma; per esempio, uno di questo genere: ‘Se è giorno, c’è luce; ma non è giorno; dunque non c’è luce’. Il ragionamento diventa inconcludente per deficienza qualora sia deficitario uno degli assunti cogenti per la conclusione. [II,79,35] Per esempio: ‘La ricchezza di denaro è o un male o è un bene; ma non è un male; dunque la ricchezza di denaro è un bene’. Infatti, la disgiuntiva rimane deficitaria del fatto che la ricchezza di denaro sia un indifferente, di modo che la sana prospettazione del ragionamento sia piuttosto questa: ‘La ricchezza di denaro è o un bene o è un male o è un indifferente; ma la ricchezza di denaro è né un bene né un male; dunque essa [II,79,40] è un indifferente’.

SVF II, 241

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 79. Vi sono anche alcuni ragionamenti anapodittici, ossia che non hanno bisogno di dimostrazione, in numero diverso a seconda dei diversi filosofi, ad esempio cinque secondo Crisippo, attraverso i quali si può intrecciare qualunque ragionamenti, [II,80,1] e che sono utilizzati nell’articolazione sia dei ragionamenti concludenti, sia dei ragionamenti sillogistici, sia dei ragionamenti tropici. Il primo ragionamento anapodittico è quello in cui l’intera argomentazione è composta da un periodo ipotetico, una premessa minore che si rifà alla protasi del periodo ipotetico e alla cui apodosi la conclusione logica rimanda; per esempio: ‘Se il primo, il secondo; [II,80,5] ma si dà il primo; dunque si dà il secondo’. Il secondo ragionamento anapodittico è quello composto da un periodo ipotetico, una premessa minore che è la proposizione contrapposta all’apodosi, ed avente come conchiusione la proposizione che è il contrapposto della protasi; per esempio: ‘Se è giorno, c’è luce; ma è buio; dunque non è giorno’. Infatti l’assunto aggiuntivo è il contrapposto dell’apodosi e la conclusione logica è rappresentata [II,80,10] dal contrapposto della protasi. Il terzo ragionamento anapodittico è quello composto da proposizioni negativamente copulate, una delle proposizioni della combinazione, e il contrapposto della proposizione rimanente per conclusione logica; per esempio: ‘Non si dà che è morto Platone e vive Platone; ma Platone è morto; dunque Platone non vive’. Il quarto ragionamento anapodittico è quello composto da un enunciato disgiuntivo come premessa maggiore, da una delle proposizioni [II,80,15] dell’enunciato disgiuntivo come premessa minore e dal contrapposto dell’altra come conchiusione; per esempio: ‘O il primo o il secondo; ma si dà il primo; dunque non il secondo’. Il quinto ragionamento anapodittico è quello in cui l’intera argomentazione è composta da un enunciato disgiuntivo come premessa maggiore, dal contrapposto di una delle proposizioni disgiuntive come premessa minore e dell’altra proposizione come conclusione logica; per esempio: ‘O è giorno o è notte; [II,80,20] ma non è notte; dunque è giorno’.

SVF II, 242

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 223. Per prendere la cosa un po’ dall’alto, diciamo subito che i ragionamenti si dicono ‘anapodittici’ in due sensi: nel senso che alcuni sono lasciati senza dimostrazione; e nel senso che alcuni non hanno bisogno di dimostrazione, giacché è di tutta evidenza che essi sono di per se stessi cogenti. Noi abbiamo spesso indicato più che chiaramente che, [II,80,25] nel secondo significato, meritano questo appellativo i ragionamenti ordinatamente raccolti all’inizio della ‘Prima introduzione ai sillogismi’ di Crisippo. Ora, ammesso questo, bisogna riconoscere che il primo ragionamento anapodittico è quello composto da un periodo ipotetico, dalla sua protasi, e dall’apodosi dello stesso periodo ipotetico in funzione di conchiusione. [II,80,30] Ciò per dire che qualora il ragionamento ipotetico abbia due assunti, dei quali il periodo ipotetico è la premessa maggiore, la protasi del periodo ipotetico è la premessa minore e che abbia come conclusione logica l’apodosi dello stesso periodo ipotetico: allora un ragionamento di questo genere si chiama primo ragionamento anapodittico. Per esempio, il ragionamento formulato così: ‘Se è giorno, c’è luce; ma è davvero giorno; dunque c’è luce’. Infatti questo ragionamento ha [II,80,35] per premessa maggiore il periodo ipotetico: ‘Se è giorno, c’è luce’; per premessa minore la protasi del periodo ipotetico: ‘Ma è davvero giorno’; e per terzo, come conclusione logica: ‘Dunque c’è luce’, che è l’apodosi del periodo ipotetico. [II,81,1] Il secondo ragionamento anapodittico è quello composto da un periodo ipotetico, dal contrapposto dell’apodosi di quel periodo ipotetico, ed avente come conchiusione il contrapposto della sua protasi. Ciò per dire che qualora il ragionamento consista nuovamente di due assunti, dei quali il periodo ipotetico è la premessa maggiore, [II,81,5] il contrapposto dell’apodosi del periodo ipotetico è la premessa minore e che abbia come conclusione logica il contrapposto della protasi: allora un ragionamento di questo genere diventa il secondo ragionamento anapodittico, com’è il caso del seguente: ‘Se è giorno, c’è luce; ma appunto non c’è luce; dunque non è giorno’. Infatti, ‘‘Se è giorno, c’è luce’ è il periodo ipotetico che fa da premessa maggiore del ragionamento; ‘Ma appunto non c’è luce’, [II,81,10] che è posta come premessa minore del ragionamento, è il contrapposto dell’apodosi del periodo ipotetico; e la conclusione logica ‘Dunque non è giorno’ sarebbe il contrapposto della protasi. Il terzo ragionamento anapodittico è quello composto da proposizioni negativamente copulate, una delle proposizioni della combinazione, ed avente come conchiusione il contrapposto della restante proposizione della combinazione; per esempio: ‘Non si dà che [II,81,15] è giorno ed è notte; ma è giorno; dunque non è notte’. Infatti, il ‘Non si dà che è giorno ed è notte’ sarebbe la negativa del periodo copulativamente coordinato ‘È giorno ed è notte’; la proposizione ‘Ma è giorno’ sarebbe una delle proposizioni della combinazione; e la proposizione ‘Dunque non è notte’ sarebbe il contrapposto della restante proposizione della combinazione. Siffatti sono dunque [II,81,20] i ragionamenti di questo genere, mentre le figure tropiche secondo le quali essi sono prospettati sono le seguenti. Nel caso del primo ragionamento anapodittico: ‘Se il primo, il secondo; ma il primo; dunque il secondo’. Nel caso del secondo ragionamento anapodittico: ‘Se il primo, il secondo; ma non il secondo; dunque non il primo’. Nel caso del terzo ragionamento anapodittico: ‘Non il primo e il secondo; [II,81,25] ma il primo; dunque non il secondo’. È d’uopo inoltre riconoscere che alcuni dei ragionamenti anapodittici sono semplici, mentre altri sono non semplici. Semplici sono quelli che contengono già chiara in se stessi la conclusione che deducono, […] com’è il caso di quelli prima esposti. […] Non semplici sono quelli intrecciati mediante degli anapodittici semplici e che hanno ancora bisogno di essere risolti in quelli [II,81,30] per essere riconosciuti anch’essi cogenti. Di questi anapodittici non semplici, alcuni consistono di elementi omogenei, altri invece di elementi non omogenei. Consistenti di elementi omogenei: come quelli intrecciati mediante due primi oppure due secondi anapodittici semplici. Di elementi non omogenei: come quelli consistenti della combinazione di un primo, oppure di un secondo, e di un terzo ragionamento anapodittico e, in genere, di quelli [II,81,35] a questi similari.

SVF II, 243

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 81. Secondo gli Stoici, ad una proposizione vera s’accompagna il vero, come alla proposizione ‘È giorno’ s’accompagna la proposizione ‘C’è luce’; e ad una proposizione falsa s’accompagna il falso, come quando alla proposizione falsa ‘È notte’ s’accompagna falsamente ‘È buio’’. Ma ad una proposizione falsa può accompagnarsi il vero, [II,82,1] come alla proposizione ‘la terra vola’ s’accompagna ‘la terra esiste’. Tuttavia ad una proposizione vera non consegue il falso. Infatti, alla proposizione ‘la terra esiste’ non consegue ‘la terra vola’.

SVF II, 244

Galeno ‘Introd. dialect.’ 7, p. 16, 18 Kalb. Relativamente a [II,82,5] siffatti sillogismi [anapodittici], il ruolo delle premesse maggiori è egemone rispetto a quello delle premesse minori. Nel sillogismo disgiuntivo non è possibile avere più di due premesse minori; e nel sillogismo ipotetico, in relazione alla mancanza in esso di contraddizione, è possibile avere soltanto una premessa minore. Perciò i seguaci di Crisippo denominano le proposizione ipotetiche e le disgiuntive non soltanto proposizioni fondative ma anche carenanti, [II,82,10] come se l’intero sillogismo fosse conficcato su di esse tanto quanto una nave lo è sulla sua carena. E dunque anche alcuni Peripatetici, come Boeto, denominano i sillogismi costituiti da lemmi ipotetici e disgiuntivi non soltanto anapodittici ma anche primi; mentre tutti quei sillogismi costituiti da premesse non ipotetiche ma contenenti un soggetto e un predicato [II,82,15] sono sì anapodittici, ma essi convengono di non denominarli più primi. Eppure, in un altro senso, i sillogismi di questo genere sono precedenti a quelli ipotetici, se le premesse delle quali essi constano sono appunto saldamente precedenti; e nessuno sarà in disaccordo sul fatto che il semplice preceda il composto.

SVF II, 245

Galeno ‘Introd. dialect.’ 6, p. 15, 8 Kalb. [II,82,20] Gli studiosi di dialettica denominano ‘tropi’ gli schemi dei ragionamenti. Per esempio, nel caso del sillogismo costituito da un periodo ipotetico e la cui conclusione discende dall’antecedente, quello che Crisippo denomina primo anapodittico, il tropo è questo: ‘Se A, B; ma A; dunque B’. Nel caso del sillogismo costituito da un periodo ipotetico, [II,82,25] dal contrapposto della sua apodosi e la cui conclusione logica è il contrapposto della protasi, quello che Crisippo denomina secondo anapodittico, il tropo è questo: ‘Se A, B; ma non B; dunque non A’. Secondo questo schema è strutturato anche il terzo anapodittico il quale è composto da proposizioni negativamente copulate, una delle proposizioni della combinazione, [II,82,30] e il contrapposto della proposizione rimanente per conclusione. Il suo tropo è questo: ‘Non A e B; ma A; dunque non B’. Anche il quarto anapodittico è similmente strutturato secondo lo stesso schema, essendo composto da un enunciato disgiuntivo, da una delle proposizioni dell’enunciato disgiuntivo e dal contrapposto dell’altra come conclusione logica. Il suo tropo è questo: ‘O A o B; ma A; dunque non B’. Nel caso del [II,83,1] quinto anapodittico, composto da un enunciato disgiuntivo, dal contrapposto di una delle proposizioni disgiuntive e dell’altra proposizione come conclusione logica, il tropo è questo: ‘O A o B; ma non A; dunque B’.

SVF II, 246

Galeno ‘Introd. dialect.’ 5, p. 13, 10 Kalb. Quanto alla [II,83,5] premessa ipotetica, o a continuità logica diretta, che i seguaci di Crisippo denominano ‘periodo ipotetico’; se assumiamo come premessa minore la sua protasi, avremo come conchiusione la sua apodosi. Se assumiamo come premessa minore il contrapposto della sua apodosi, avremo come conchiusione il contrapposto della sua protasi. Se invece non assumiamo come premessa minore né la sua apodosi né il contrapposto della sua protasi, [II,83,10] non avremo alcuna conchiusione.

SVF II, 247

Galeno ‘Introd. dialect.’ 19, p. 48, 23 Kalb. Per questo motivo neppure mi tocca ora dimostrare che sono improficui gli inutili sillogismi composti da Crisippo nei suoi tre libri di Sillogistica. Infatti ho già dimostrato questo altrove, come pure ho dimostrato la stessa cosa a proposito dei sillogismi [II,83,15] da lui chiamati ‘conclusivi’. Taluni di questi furono da me dimostrati, infatti, non essere un peculiare genere di sillogismi, ma sillogismi linguisticamente interpretati in modo sperimentale, a volte con posposizione della conseguenza […]. Quanto a quelli chiamati ‘subsillogistici’, essi possono essere espressi in termini del tutto equivalenti ai sillogistici. Infine, oltre a questi, ci sono i sillogismi che essi denominano ‘ametodici’, [II,83,20] coi quali ci si trova a dedurre qualcosa pur del tutto senza il tramite di un ragionamento sillogistico.

SVF II, 248

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 3 (92), p. 182 M. Come risolvere i sillogismi mediante due o tre schemi tropici, come risolvere quelli a conclusione indifferente o alcuni altri di questo genere che sfruttano la prima o la seconda tematizzazione, [II,83,25] può capitare al giorno d’oggi a molte persone, se vi si sono accuratamente esercitate; come pure, senza fallo, può capitare a tutte quelle che risolvono sillogismi mediante la terza e la quarta tematizzazione. Eppure esiste la possibilità di risolvere la maggior parte di questi sillogismi diversamente e in modo più spiccio, come ha scritto Antipatro; oltre al fatto che tutto il processo di intreccio di siffatti sillogismi rappresenta non poco lavoro inutile su una faccenda [II,83,30] del tutto improficua, come Crisippo stesso ci testimonia nei fatti, dal momento che non ha avuto bisogno in nessuna parte delle sue compilazioni di tali sillogismi per la dimostrazione di un principio dottrinale. Invece, sul modo in cui si debbono riconoscere e distinguere le premesse scientifiche da quelle dialettiche, retoriche e sofistiche, i seguaci di Crisippo [II,84,1] non hanno ancora scritto alcunché di rimarchevole, né appaiono farne uso.

[2] (93), p. 184 M. Contro gli Stoici è necessario venire a capo di un lungo discorso, poiché si tratta di uomini allenati a sufficienza nelle parti improficue [II,84,5] della teoria logica e invece assolutamente non allenati in quelle proficue e al contempo nutriti, per vie depravate, di epicheremi. […] […] i quali sempre fanno ricerche su una qualunque proposta, prima di avere stabilito come si debba fare la ricerca.

SVF II, 249

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 443. Affermare che Crisippo [II,84,10] non dà il suo beneplacito ai ragionamenti contenenti una premessa sola, cosa che alcuni probabilmente diranno per superare siffatto ostacolo, è un perfetto vaneggiamento; giacché non è necessario ubbidire alle parole pronunciate da Crisippo come fossero prescrizioni oracolari, né si può prestare attenzione alla testimonianza di uomini che sono zittiti da un testimone appropriato che dice l’opposto. Infatti Antipatro, uno degli uomini [II,84,15] più notori della scuola Stoica, affermava che possono sussistere anche i sillogismi monolemmatici.

[2] Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 6 Ald. Quelli che i seguaci di Antipatro chiamano sillogismi monolemmatici non sono ragionamenti, ma argomentazioni prospettate in modo carente; come questa: ‘Respiri, dunque vivi’.

SVF II, 250

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1059e. [II,84,20] Giacché l’affermare che un assunto in forma indefinita, formato da proposizioni contrapposte e copulativamente coordinate non è a iosa falso; ed inoltre l’affermare che esistono dei ragionamenti aventi premesse vere e linee di trattamento logico sane, per i quali ciononostante sono veri pure i contrapposti delle conchiusioni: quale concetto di dimostrazione o quale prolessi di [II,84,25] affidabilità non sovverte?

SVF II, 251

Dexippo ‘In Aristot. categ.’ p. 25, 22 Busse. Come replicheremo allora agli Eristici i quali, assumendo cose che non appartengono al predicato come se fossero dette a suo riguardo, fanno sull’oggetto il sillogismo della negazione? Per esempio: ‘uomo’ è predicato riguardo a Socrate come oggetto, ma [II,84,30] riguardo a ‘uomo’ come oggetto si dice anche che non è Socrate; e pertanto anche riguardo a Socrate si potrebbe dire che non è Socrate. Di nuovo, anche contro costoro noi eccediamo, non come dicono gli Stoici, la riserva delle proposizioni negative ma, come insegna Aristotele, l’assunzione dell’esistere nella sostanza. Questa esistenza nella sostanza è ciò che gli Eristici non salvaguardano e che li induce a formulare paralogismi, visto che assumono [II,84,35] come sostanza cose dette riguardo all’oggetto ma che sono inesistenti di per sé.

SVF II, 252

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 390, 16 Wal. Sicché, secondo Aristotele, le cose stanno all’opposto di quel che stimano i filosofi più recenti; nel senso che i ragionamenti ipotetici sono concludenti ma non sono sillogismi […] e invece sono sillogismi i ragionamenti categorici.

SVF II, 253

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 373, 28 Wal. [II,84,40] Aristotele si comporta dunque in questo modo a proposito delle commutazioni riguardanti le espressioni verbali. [II,85,1] I filosofi più recenti, invece, tenendo d’occhio le espressioni verbali e non più i significati, affermano che la medesima cosa non avviene nelle commutazioni dei termini definitori in espressioni verbali equivalenti. Mentre ‘se A, B’ significa la stessa cosa di ‘ad A consegue B’; essi affermano invece che siamo davanti ad un ragionamento sillogistico qualora esso assuma la formulazione verbale [II,85,5] ‘se A, B; ma A; dunque B’; e che invece non è più ‘sillogistico’ bensì ‘concludente’ il ragionamento che assume la forma ‘ad A consegue B; ma A; dunque B’.

SVF II, 254

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 262, 28 Wal. In ipotetica alternativa, come disse Aristotele, sarebbero sillogismi anche i soli che i filosofi più recenti vogliono chiamare così. Questi sillogismi sono quelli, come essi affermano, costituiti da una figura tropica ed una premessa minore; dove la figura tropica [II,85,10] è un periodo ipotetico, o disgiuntivo, oppure copulativamente coordinato; e che quanti seguono gli antichi filosofi chiamano invece ‘misti’, in quanto formati da una premessa ipotetica ed una dimostrativa, cioè categorica.

[2] p. 263, 12. Lo stesso discorso vale per il sillogismo diairetico ‘O questo o quest’altro’, che dicono pur esso formato da una figura tropica e dalla premessa minore.

[3] p. 265, 3. [II,85,15] Le figure che essi chiamano tropiche, in tutti i casi sono assunte come evidenti per ipotesi e per omologia. Nella maggior parte dei casi, invece, le forme commutate e quelle con assunti aggiuntivi, se fossero in complesso di qualche utilità, hanno bisogno di ulteriori indicazioni; giacché ove il commutato non abbisogna di ulteriori indicazioni non è neppur più un sillogismo, essendo qualcosa di evidente a tutti.

SVF II, 255

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 278, 6 Wal. [II,85,20] Una siffatta composizione avviene secondo quello che i filosofi più recenti chiamano terzo tema.

[2] 11. Il contenuto del cosiddetto terzo tema è definibile anche qui in questo modo: ‘Qualora da due enunciati se ne derivi un terzo e si formi un sillogismo prendendo un enunciato al di fuori di uno di essi, dall’enunciato rimanente e dagli elementi del sillogismo [II,85,25] al di fuori dell’altro se ne deriverà la stessa conclusione’.

SVF II, 256

Simplicio ‘In Aristot. De caelo’ p. 236, 33 Heibg. Siffatta soluzione del sillogismo, che conclude dopo avere assunto come prima premessa la conchiusione di un sillogismo precedente ed avervi aggiunto una seconda premessa, dunque secondo quello che è chiamato dagli Stoici terzo ‘tema’, per gli antichi è definibile così: ‘Se da due enunciati se ne deriverà un terzo, [II,85,30] e da questo terzo unito ad un altro enunciato assunto dall’esterno si derivi qualcos’altro, anche dai primi due e da quello aggiunto dal di fuori si otterrà la stessa conclusione’.

SVF II, 257

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 283, 7 Wal. Per esempio, se noi prendessimo A da B, B da C, C da D, D da E, dunque prenderemmo A da E. […] In siffatta continuità logica diretta delle premesse consiste [II,85,35] il teorema del composto, del quale abbiamo parlato prima, e consistono quei ragionamenti chiamati dai filosofi più recenti ‘sovrapposti’ e ‘sottoposti’. […] I ragionamenti cosiddetti sovrapposti e sottoposti sarebbero, nelle premesse prese in serie continua, sprovvisti delle conchiusioni. I sottoposti, infatti, sono quelli dei quali è pretermessa la conchiusione, mentre i sovrapposti sono quelli dei quali [II,85,40] è pretermessa la premessa dimostrativa; e le conchiusioni omesse dei sottoposti, i quali sono primi per posizione, sono le premesse dimostrative dei sovrapposti, i quali sono secondi per posizione. Per esempio: l’A di ogni B, il B di ogni C, il C di ogni D, dunque l’A di ogni D. Sottoposto è il primo ragionamento, del quale è pretermessa la conchiusione, che è ‘dunque l’A [II,85,45] di ogni C’. Sovrapposto è invece quello risultante dalla premessa pretermessa ‘l’A [II,86,1] di ogni C’ e da ‘il C di ogni D’, il quale mostra ‘dunque l’A di ogni D’, che ne è anche la conchiusione. In quanto detto, sia il sovrapposto quanto il sottoposto si configurano in un primo schema. Ma per questa via un sillogismo configurato in secondo schema può sovrapporsi al sillogismo in primo schema. [II,86,5] Infatti, se noi dicessimo ‘l’A di ogni B, il B di ogni C, l’A di nessun D, dunque il C di nessun D’, il sottoposto, la cui conchiusione è ‘l’A di ogni C’ si trova ad essere in primo schema. Il di lui sovrapposto, invece, ossia quello avente le premesse ‘l’A di ogni C’, che è pretermesso essendo la conchiusione del primo, [II,86,10] e la premessa di questo cioè ‘l’A di nessun D’, è configurato nel secondo schema e così avremmo la conchiusione ‘dunque il C di nessun D’. Ma, al contrario, può essere il sottoposto a trovarsi configurato in secondo schema ed il sovrapposto nel primo. Con lo stesso metodo è possibile ottenere un sillogismo sovrapposto e uno sottoposto dal terzo schema, e collegarli con alcuni in primo schema e [II,86,15] alcuni in secondo schema. Ma si possono collegare tra di loro anche quelli che sono nel medesimo schema, sia quelli appartenenti al primo che quelli appartenenti al secondo e similmente al terzo schema. È così possibile ottenere dai tre schemi tre sillogismi sovrapposti e sottoposti, secondo il citato teorema del composto. I seguaci di Aristotele diedero a questo teorema [II,86,20] l’attenzione che esso richiedeva commisurandola alla sua utilità effettiva; invece gli Stoici, una volta presolo da loro ed operate ulteriori suddivisioni, ne fecero quelli che essi chiamano il secondo ‘tema’, e il terzo, e il quarto; senza curarsi di ciò ch’è proficuo, ma ricercando con ardore in ogni direzione tutto ciò ch’è possibile dire come che sia in siffatto campo teorico, pur se fosse improficuo.

SVF II, 258

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 263, 26 Wal. [II,86,25] Secondo gli antichi appare esservi differenza tra il sillogismo ottenuto per commutazione dei termini e quello ottenuto mediante un assunto aggiuntivo. Infatti, nei casi in cui l’assunto in questione c’è e si trova tra gli assunti, e però non rimane così né tale e quale è assunto, allora in questi enunciati l’assunto è un assunto aggiuntivo; giacché non è addizionato dall’esterno bensì, mentre la prima volta è connotato in un modo, la seconda volta [II,86,30] è connotato in un modo diverso. Infatti, nell’enunciato ‘Se è giorno, c’è luce; <ma è giorno>’, la proposizione ‘è giorno’, che i filosofi più recenti chiamano assunto aggiuntivo, si trova tra gli assunti; ma non due volte nella stessa forma, poiché la prima volta si trova nel periodo ipotetico sotto forma di ipotesi e poi, in ciò che segue, è data come realmente esistente. […] Chiamano poi aggiuntivo qualcosa che è addizionato dall’esterno agli elementi presenti […]

[2] p. 262, 6. [II,86,35] […] chiamando commutato l’enunciato la cui dimostrazione avviene per sillogismo, che è a volte […] a volte […] a volte […] che i filosofi più recenti chiamano aggiuntivo […]

SVF II, 259

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 164, 27 Wal. Onde è manifesto che di questi argomenti, dei quali Aristotele non ha parlato e dei quali invece parlano [II,86,40] i filosofi più recenti, Aristotele omise la trattazione in quanto improficui ai fini di una qualche dimostrazione; e pertanto a causa della loro improficuità e non per ignoranza. Si tratta, per esempio, dei sillogismi equivoci o di quelli a conclusione indifferente o quello detto ‘a materiale infinito’ e, in generale, di quello che i filosofi più recenti chiamano ‘secondo tema’.

SVF II, 260

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 21, 28 Wal. [II,87,1] In generale, se qualcosa fosse derivato in modo cogente non però dalle premesse date ma tramite un assunto aggiuntivo, un ragionamento del genere sarà pur detto ‘necessario’ ma non è già un sillogismo. Tali sono, presso gli Stoici, i ragionamenti concludenti non tramite metodo sillogistico, [II,87,5] come quando si dicesse: ‘Il primo è maggiore del secondo, il secondo del terzo: dunque il primo è maggiore del terzo’. Questa conclusione segue per necessità, ma non in modo sillogistico, a meno che uno non aggiunga, prendendola dall’esterno, l’assunzione aggiuntiva che dice: ‘Il maggiore del maggiore e di quel minore, è maggiore’.

[2] p. 22, 17. In complesso, siffatta è la forma dei ragionamenti che i filosofi [II,87,10] più recenti chiamano concludenti non tramite metodo sillogistico, come per esempio, questo: ‘È giorno; ma anche tu dici che è giorno; dunque tu dici il vero’.

[3] p. 68, 21. Quanti ritengono che da due assunti particolari si possa derivare sillogisticamente qualcosa, come coloro che forniscono a dimostrazione di ciò i ragionamenti che gli Stoici chiamano concludenti non tramite metodo sillogistico ed [II,87,15] accumulano altri esempi al riguardo, […] sappiano […] oltre al fatto che negli esempi che essi forniscono la conchiusione non s’accompagna di necessità alle premesse assunte e poste, né al fatto che ‘queste sono le cose’; ma al fatto che è vera in quei ragionamenti la premessa in generale, dalla quale essi traggono la conchiusione, mentre nell’assunzione delle premesse essi omettono la premessa maggiore e sdoppiano la premessa minore. [II,87,20] Tutti i ragionamenti chiamati da loro concludenti non tramite metodo sillogistico hanno due premesse particolari ed in questo modo derivano qualcosa. È facile mostrare ciò davanti agli esempi che essi forniscono, e non è arduo confutare pure tutte le altre argomentazioni che essi adducono in modo aberrante, sforzandosi di dimostrare il carattere sillogistico di siffatto connubio.

[4] p. 344, 11. [II,87,25] Se il sillogismo dimostra qualcosa per necessità logica, un ragionamento che dimostra qualcosa per il fatto che ciò consegue a date premesse non si può dire che perciò sia già necessariamente un sillogismo.

[5] p. 345, 13. Siffatti sono i ragionamenti che i filosofi più recenti chiamano concludenti non tramite metodo sillogistico. Quanti dicono che questi ragionamenti non derivano le loro conclusioni in modo sillogistico parlano in modo sano, giacché molti di essi sono di questo genere. Quanti invece ritengono che essi siano [II,87,30] simili ai sillogismi categorici, sui quali verte la presente trattazione, e li prendono così come li pongono, sbagliano completamente. Infatti, se essi fossero simili avrebbero anche il carattere di essere sillogismi.

[6] ‘In Aristot. Top.’ p. 10, Ald. p. 14, 20. Siffatti sono i ragionamenti [II,87,35] che anche gli Stoici chiamano concludenti non tramite metodo sillogistico.

SVF II, 261

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 18, 12 Wal. Aristotele ha fatto benissimo ad aggiungere che la conchiusione deve essere diversa dalle premesse. […] L’utilità del sillogismo non ci è procurata dal [II,87,40] ‘Se è giorno, c’è luce; ma è davvero giorno; dunque c’è luce’; né assolutamente dai sillogismi chiamati dai filosofi più recenti ‘a conclusione indifferente’. Di questo genere sono anche i sillogismi ‘duplicati’ come, per esempio: ‘Se è giorno, è giorno; ma è davvero giorno; dunque è giorno’.

[2] p. 19, 3. Infatti, il sillogismo diairetico per asserzione contraria non inferisce la conchiusione come identica alla proposizione commutata o, [II,87,45] come dicono i filosofi più recenti, aggiuntiva; giacché chi dice ‘O è giorno o non è giorno’ e poi assume come premessa minore una delle due proposizioni dell’enunciato diairetico: o quella negativa ‘Ma davvero non è giorno’, oppure quella affermativa ‘Ma davvero è giorno’; ottiene per deduzione o ‘Dunque non è giorno’ oppure ‘Dunque è giorno’, il che sembra essere identico alla premessa minore aggiuntiva: [II,88,1] ‘Ma davvero non è giorno’, oppure ‘Ma davvero è giorno’. Tale conclusione, però, non è identica, giacché è invece il contrapposto dell’altra proposizione presente nella premessa diairetica.

[3] p. 20. É necessario che dicano ciò anche gli Stoici, se essi appunto affermano che nei sillogismi diairetici o disgiuntivi, alla premessa minore o assunto aggiuntivo, costituito da [II,88,5] uno dei due assunti della disgiuntiva, consegue il contrapposto del restante assunto della combinazione sillogistica.

[4] p. 20, 10. Neppure quelli da loro chiamati ragionamenti duplicati: per esempio, ‘Se è giorno, è giorno; ma è davvero giorno; dunque è giorno’, hanno carattere sillogistico, [II,88,10] giacché questo ragionamento non presenta l’utilità propria di un sillogismo. Inoltre, se l’aggiunta dell’assunto seguente nei ragionamenti continui è non-sillogistica in quanto in siffatti ragionamenti continui l’antecedente e il conseguente sono identici, nei duplicati l’aggiunta non è più dell’antecedente che del conseguente […]

SVF II, 262

Apuleio ‘Sull’interpretazione’ 272 (p. 9, 12 Goldb.). Dei sillogismi degli Stoici sono superflui quelli in cui la conclusione non differisce [II,88,15] da una delle premesse, come: ‘O è giorno o è notte; ma è giorno; dunque è giorno’. Oppure quelli identici per geminazione, del tipo: ‘Se è giorno è giorno; ma è giorno; dunque è giorno’.

SVF II, 263

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Top.’ p. 10, 5 Wallies. Non potrebbe essere un sillogismo quello che non salvaguarda l’utilità che è propria del sillogismo. Di questo genere è [II,88,20] invece il sillogismo in cui la conchiusione è identica ad una delle premesse date; com’è il caso dei ragionamenti che gli Stoici chiamano duplicati e a conclusione indifferente. Secondo loro, i duplicati sono quelli di questo genere: ‘Se è giorno, è giorno; ma è davvero giorno; dunque è giorno’. Ragionamenti a conclusione indifferente sono quelli in cui la conchiusione è identica ad una [II,88,25] delle premesse, come in quelli di questo genere: ‘O è giorno o è notte; ma è giorno; dunque è giorno’.

SVF II, 264

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 84, 5 Wal. Se M appartiene a ogni N ma non ad ogni X, se ne dedurrà che N non appartiene ad ogni X. Di questo genere è il sillogismo che i filosofi più recenti chiamano ‘subsillogistico’. [II,88,30] Il subsillogismo fa un assunto in termini equivalenti alla premessa sillogistica e da questa deduce la stessa conclusione. Infatti, il ‘non appartiene a’ è stato commutato in termini equivalenti nel ‘non appartiene a ogni’. Ma quei filosofi, badando solo al suono delle parole, dicono che quelli di questo genere non sono sillogismi; mentre Aristotele, guardando invece alle cose significate e non al suono delle parole, in quanto essi hanno significati simili [II,88,35] afferma trattarsi dello stesso sillogismo anche in siffatta commutazione della formulazione conchiusiva, purché il nesso sia nel suo complesso sillogistico.

SVF II, 265

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 20, 2 Wal. Nei sillogismi diairetici non per contrapposti, come pure in quelli per opposti, la conchiusione non è identica a nessuna delle premesse date [II,88,40] neppure nella formulazione poiché, in questi sillogismi, non accade che il contrapposto sia contemporaneamente identico all’altro termine rimanente. Infatti, nel sillogismo ‘O è giorno, o è notte; ma davvero non è giorno; dunque è notte’, la conclusione ‘È notte’ non è identica a nessuno degli assunti: né a quello che gli Stoici chiamano ‘tropico’ (che sarebbe questo: ‘O è giorno o è notte, tutto intero); [II,89,1] né alla premessa minore, giacché essa è ‘Ma davvero non è giorno’; le quali sono entrambi diverse da ‘È notte’.

SVF II, 266

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 310. Stando così le cose, la dimostrazione è tenuta ad essere innanzitutto un ragionamento; in secondo luogo, ad essere cogente; in terzo luogo, ad essere [II,89,5] vera; quarto, anche avendo una conchiusione non manifesta; quinto, questa dev’essere disvelata dalla forza delle premesse.

[2] VIII, 314. Quando dunque concorrano tutte queste caratteristiche: la cogenza del ragionamento, la sua verità, il suo essere evidenziatore di ciò che non è manifesto; sussiste la dimostrazione. laonde essi la delineano anche così: ‘La dimostrazione è un ragionamento che, attraverso [II,89,10] premesse ammesse e secondo un percorso deduttivo, disvela una conclusione logica non manifesta’.

SVF II, 267

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 367. Non bisogna, essi affermano, chiedere la dimostrazione di tutto, ma anche accettare alcune cose per ipotesi; dacché il ragionamento non potrà procedere se non si concederà l’esistenza di qualcosa che è di per sé degno di fede.

[2] VIII, 369. A parere dei dogmatici, non soltanto la dimostrazione ma quasi l’intera filosofia [II,89,15] progredisce sulla base di ipotesi.

[3] VIII, 375. Ma per Zeus, essi sogliono rimarcare all’occasione: la fiducia nel vigore dell’ipotesi riposa sul fatto che si trovi essere vera la conclusione logica inferita dagli assunti ipotetici; giacché se ciò che loro consegue è sano, anche gli assunti ai quali consegue risultano veri e incontrovertibili.

SVF II, 268

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 463. [II,89,20] I filosofi dogmatici credono che il ragionamento il quale sollecita l’inesistenza della dimostrazione si capovolga da se stesso nel suo contrario; e che proprio grazie alle argomentazioni che tendono ad eliminarne l’esistenza, l’esistenza della dimostrazione sia invece definita. Ragion per cui, contrapponendosi agli scettici, essi affermano: ‘Chi dice che non esiste dimostrazione, lo dice o utilizzando una mera esternazione indimostrata oppure [II,89,25] cercando di dimostrare siffatta affermazione con un ragionamento. Ora, se lo fa sfruttando una mera esternazione, nessuno di coloro che accettano l’esistenza della dimostrazione si fiderà di lui, dal momento che utilizza una mera esternazione; ed anzi egli sarà messo a tacere con l’esternazione contrapposta, da qualcuno che sostiene che la dimostrazione esiste. Se invece egli cerca di dimostrare che la dimostrazione non esiste, essi affermano che con ciò stesso egli ammette che la dimostrazione esiste. Infatti, il ragionamento che cerca di dimostrare l’inesistenza della dimostrazione [II,89,30] è la dimostrazione che la dimostrazione esiste. In generale, il ragionamento relativo alla dimostrazione o è una dimostrazione o non è una dimostrazione. Se non è una dimostrazione, non è degno di fiducia; ma se è una dimostrazione, ebbene allora la dimostrazione esiste’. Taluni prospettano l’argomentazione anche in questo modo: ‘Se la dimostrazione esiste, la dimostrazione esiste; se la dimostrazione è dimostrata essere inesistente, la dimostrazione esiste; ma la dimostrazione o esiste o non esiste; dunque la dimostrazione esiste’.

[II,89,35]

SVF II, 269

Galeno ‘In Hippocr. prognostic.’ I, Vol. XVIII B, p. 26 K. Un analogismo è un ragionamento che prende impulso da ciò che appare e che fa giungere all’apprensione di ciò che non è manifesto. Un epilogismo è un ragionamento sul quale vi è il comune accordo di tutti.

[II,89,40] § 9. Sulla soluzione dei sofismi

Frammenti n. 270-287

SVF II, 270

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1036c. Sicché egli <Crisippo> è in contraddizione con se stesso […] quando ammonisce gli altri a stare in guardia contro i ragionamenti contrari, in quanto distraenti dall’apprensione certa; e poi proprio lui [II,90,1] ambisce di più l’onore di comporre quelli che la fanno sparire, invece delle argomentazioni che quell’apprensione rinsaldano. Eppure, che questo sia ciò di cui ha paura, egli lo indica chiaramente nel quarto libro ‘Sulle vite’, dove scrive queste parole: “Non bisogna accogliere i ragionamenti contrari o dare gli opposti [II,90,5] per plausibili così come capita, ma con grande cautela; affinché non accada che quanti s’imbattono in essi ne siano distratti e buttino via le apprensioni certe che possiedono; oppure che, essendo incapaci di cogliere a sufficienza la forza delle soluzioni che li confutano, apprendano in un modo che è facile da spazzar via. D’altra parte, anche coloro la cui apprensione degli oggetti sensibili e degli altri dati provenienti dalle sensazioni ricalca la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni, abbandonano facilmente tali cognizioni quando sono attratti dalle argomentazioni filosofiche [II,90,10] dei Megarici o da altre argomentazioni ancora più numerose e più potenti”.

SVF II, 271

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1036f. O questo bisogna cercare di saperlo da Crisippo in persona? Considera, infatti, ciò che proprio lui ha scritto sulle argomentazioni Megariche [II,90,15] nel suo libro ‘Sull’uso del ragionamento’: “Qualcosa di simile è avvenuto anche ai ragionamenti di Stilpone e di Menedemo. Essendo essi infatti divenuti celeberrimi per sapienza, al giorno d’oggi quei ragionamenti si sono capovolti a loro onta, essendo alcuni di essi più che grossolani, altri patentemente sofistici”.

SVF II, 272

Galeno ‘De animi peccat. dignosc.’ 3, Vol. V, p. 72 K. [II,90,20] È necessario che chi si trova a dover procedere istantaneamente alla determinazione critica di un ragionamento sia incapace di diagnosticare e di distinguere quelli falsi da quelli veri. Prova evidente di ciò sono i cosiddetti ‘sofismi’, i quali sono ragionamenti falsi scaltramente confezionati a somiglianza di quelli veri. La falsità appare manifesta [II,90,25] dalla loro conchiusione, che non è vera; poiché i falsi ragionamenti contengono in ogni caso qualcosa di falso nelle premesse oppure una conchiusione inferita in modo vizioso. Ma nei sofismi ciò non appare a prima vista, e per questo è difficile a notarsi da parte di quanti non hanno allenamento ai ragionamenti.

SVF II, 273

Anonymi ‘Scholia in Hermog. De statibus’ Walz. Rh. Gr. VII, 1, p. 383. Perciò [II,90,30] anche presso gli Stoici un simile ragionamento si chiama ‘diallélo’. Si tratta di un ragionamento anapodittico, per esempio: ‘Dove abita Teone, lì <abita> Dione; e dove Dione, lì Teone’. Un ragionamento di questo genere, dico il diallélo, ha la dimostrazione, è anapodittico e non se ne va oltre, qualora i segni della faccenda in questione si strutturino reciprocamente l’un l’altro.

SVF II, 274

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 82. [II,90,35] Vi sono poi i ragionamenti aporetici: il Velato, il Celato, il Sorite, il Cornuto e il Nessuno. Per esempio, il Velato è un ragionamento di questo genere: ‘Due sono non pochi, [II,91,1] anche tre sono non pochi, e se questi sono non pochi anche quattro non lo sono e così via fino a dieci; ma due sono pochi; dunque anche dieci’. Il nessuno è un ragionamento cogente che consta di una premessa maggiore composta da una proposizione indefinita e da una definita, che ha una premessa minore ed una conclusione. Per esempio: ‘Se qualcuno è qui, costui non è a [II,91,5] Rodi; ma qui qualcuno c’è; dunque qualcuno non è a Rodi’.

SVF II, 275

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ II, 253. Se i Dogmatici seguaci di Crisippo, nel prospettare interrogativamente il Sorite affermano che nel corso di tale ragionamento bisogna arrestarsi e sospendere il giudizio per non cadere in un’assurdità; quanto più acconcio a noi, Scettici e sospettosi delle assurdità, [II,91,10] sarebbe il non essere precipitosi nel prospettare i lemmi e sospendere il giudizio su ciascuno di essi fino all’intera prospettazione del ragionamento.

SVF II, 276

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 416. Nel caso del ‘Sorite’, poiché l’estrema rappresentazione catalettica è vicinissima alla prima che invece era acatalettica, ed è quasi impossibile da distinguere da quella, i seguaci di Crisippo [II,91,15] affermano che nel caso di rappresentazioni la differenza tra le quali sia così poca, il sapiente si prenderà tranquillamente del tempo; mentre nel caso di rappresentazioni tra le quali la differenza sia maggiore, assentirà ad una di esse come vera.

SVF II, 277

Cicerone ‘Academica’ II, 93. Quando si è interrogati grado per grado, ad esempio, se ‘tre siano pochi o molti’ Crisippo suggerisce di [II,91,20] prendere tempo (quello che gli Stoici chiamano ἡσυχάζειν) alquanto prima di arrivare a molti. “Per quanto mi riguarda”, dice in proposito Carneade, “non solo puoi fermarti un attimo, ma pure russare”.

SVF II, 278

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 26E. Ed. Bas. In riferimento a coloro che attribuiscono realtà sostanziale e genesi alle idee, merita ricercare se possa dirsi che ‘questi enti sono’. [II,91,25] Anche Crisippo è incerto se possa dirsi ciò dell’idea. Bisogna pure tenere in considerazione quali sono le consuetudini degli Stoici quando parlano delle qualità generiche, come ne declinano i vari casi, il fatto che gli universali sono detti da loro ‘non-qualcosa’ e come, per ignoranza del fatto che non ogni sostanza significa qualcosa di determinato esistente, [II,91,30] nasca il sofisma del ‘Nessuno’ secondo questo schema espressivo: ‘Se qualcuno è ad Atene, non è a Megara’. Ma ‘uomo’ non è qualcuno in particolare, giacché qualcuno in particolare non è l’uomo in universale, come invece è assunto nel ragionamento, il quale ha preso il suo nome da ciò, essendo chiamato il ‘Nessuno’. La stessa cosa vale per questo sofisma: ‘Ciò [II,91,35] che io sono, tu non sei; ma io sono uomo; dunque tu non sei uomo’. [II,92,1] Anche nel caso di questo sofisma, ‘io’ e ‘tu’ si dice di individui particolari, mentre ‘uomo’ non si dice di nessuno in particolare. Lo sbandamento è dunque avvenuto perché è stato usato ‘non qualcuno’ come ‘un particolare qualcuno’.

SVF II, 279

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 186. Il nostro filosofo <Crisippo> soleva [II,92,5] prospettare ragionamenti anche di questo genere. ‘Chi rivela i misteri ai non iniziati commette un’empietà; ma lo ierofante rivela i misteri ai non iniziati; dunque lo ierofante commette un’empietà’. Un altro è questo: ‘Ciò che non è nella città neppure è nella casa; ma in città non c’è un pozzo; dunque non c’è neppure nella casa’. Un altro: ‘C’è una testa, e quella tu non hai; c’è dunque una testa che tu non hai; dunque tu non hai [II,92,10] una testa’. Un altro: ‘Se uno è a Megara non è ad Atene; un uomo è a Megara; dunque non c’è un uomo ad Atene’. E ancora: ‘Se tu dici qualcosa, questo passa attraverso la tua bocca; tu dici ‘carro’; dunque un carro passa attraverso la tua bocca’. E infine: ‘Se tu non hai buttato via qualcosa, ce l’hai; [II,92,15] ma tu no hai buttato via le corna; dunque tu hai le corna’. Alcuni affermano però che quest’ultimo ragionamento è di Eubulide.

SVF II, 280

Epitteto ‘Diatribe’ II, 17, 34. No, ma: “Io voglio conoscere cosa dice Crisippo nei libri sul Mentitore”. [Non ti impiccherai con questo progetto, sciagurato? Di che pro ti sarà? Lo leggerai tutto piangendo, e tremando ne parlerai agli altri.]

SVF II, 281

Girolamo ‘Epistola LXIX ad Oceanum’ 2, p. 621 Hilberg. […] ricordando subito il sofisma di Crisippo: “Se menti, e dici la vertità dicendo che menti, menti”.

SVF II, 282

Cicerone ‘Academica’ II, 96. Come giudichi [II,92,20] la conclusione di questo sillogismo? ‘Se dici che ora c’è luce, e dici il vero, c’è luce; ma tu effettivamente dici che ora c’è luce e dici il vero; dunque c’è luce’. Voi certo accettate questo genere di sillogismo e ne ritenete corretta la conclusione; e perciò questo è il primo tipo di ragionamento concludente che menzionate quando insegnate. Pertanto approverete qualunque sillogismo di questo tipo, altrimenti quel che insegnate non ha valore. [II,92,25] Allora vedi un po’ se ti toccherebbe approvare questo sillogismo: ‘Se dici di mentire e dici il vero, menti; ma tu effettivamente dici di mentire e dici il vero; dunque menti’. Come puoi non approvare questo sillogismo, se hai approvato il precedente, che è dello stesso tipo? Questi problemi logici li ha inventati Crisippo e non ha saputo risolverli. E cosa farebbe egli davanti quest’altro sillogismo: ‘Se c’è luce, c’è luce; ma c’è luce; dunque c’è luce’. Certo egli sarebbe d’accordo, giacché è la logica [II,92,30] della sillogismo stesso che ti impone di approvare la conclusione, se hai concesso la premessa. E allora che differenza c’è fra questo sillogismo e quello precedente?

SVF II, 283

[1] Epitteto ‘Diatribe’ II, 19, 1-4. L’argomento ‘Dominatore’ pare essere stato prospettato interrogativamente a partire da certe proposizioni moventi di questo genere, essendovi mutua [II,93,1] contraddizione delle terze con le altre due: ‘tutto quanto veramente è avvenuto è necessario’; ‘l’impossibile non consegue al possibile’; ‘possibile è quanto non è né sarà vero’. Notando questa contraddizione, Diodoro adoperò la persuasività delle prime due proposizioni [II,93,5] per apporre che nulla, che non è né sarà vero, è possibile. Orbene uno serberà, delle coppie di proposizioni, questa: ‘possibile è quanto non è né sarà vero’, e ‘l’impossibile non consegue al possibile’, ma non ‘tutto quanto veramente è avvenuto è necessario’, come appunto sembra sostenere la scuola di Cleante, che Antipatro a lungo difese. [II,93,10] Altri serberanno invece le altre due proposizioni, ossia ‘possibile è quanto non è né sarà vero’, e ‘tutto quanto veramente è avvenuto è necessario’, ma allora l’impossibile consegue al possibile. E’ inconcepibile però serbare le tre proposizioni, essendovi mutua contraddizione tra di esse.

[2] II, 19, 9. [II,93,15] “Ne ha scritto in modo stupefacente Crisippo nel primo libro su ‘I Possibili’. Anche Cleante ha scritto peculiarmente su questo argomento, e pure Archedemo. Ne ha scritto anche Antipatro, non soltanto nei libri su ‘I Possibili’ ma anche peculiarmente in quelli su ‘Il Dominatore’.

SVF II, 284

Cicerone ‘Epistulae ad familiares’ IX, 4. Sappi che circa i possibili io la penso come Diodoro. Perciò, se verrai, sappi che il tuo venire è ‘necessario’; [II,93,20] e se invece non verrai, sappi che il tuo venire è ‘impossibile’. Ora vedi quale determinazione ti soddisfa di più: quella di Crisippo o quest’altra che era indigesta al nostro Diodoto. Ma anche di queste cose parleremo quando avremo tempo libero; ed anche questo, secondo Crisippo, è ‘possibile’.

SVF II, 285

Cicerone ‘Academica’ II, 143. Anche su ciò che i dialettici [II,93,25] insegnano quali nozioni elementari: per esempio, come occorra giudicare la verità o la falsità di qualcosa con un nesso del tipo: ‘Se è giorno, c’è luce’, quante dispute! Diodoro la pensa in un modo, Filone in un altro, Crisippo in un altro ancora. E dunque? Crisippo non dissente dal suo maestro Cleante su molte questioni? E due principi della dialettica, Antipatro e Archedemo, insuperabili opinionisti, [II,93,30] non dissentono su molte questioni?

SVF II, 286

Siriano ‘Schol. in Hermog.’ Vol. II, p. 42, 1 Rabe. Il ragionamento senza via d’uscita in materia di imputazioni, e che gli Stoici chiamano del ‘coccodrillo’, è di questo tipo: ‘Euatlo aveva stipulato col sofista Protagora di pagargli l’onorario [II,93,35] se e quando, perorando in tribunale, avesse vinto la prima causa. Dopo avere imparato da Protagora la sofistica, decise però di non perorare in tribunale e allora fu citato in giudizio da Protagora con la richiesta del pagamento dell’onorario. A quel punto, la replica polemica di Euatlo fu che se egli avesse vinto la causa, non era giusto che gli pagasse l’onorario secondo l’accordo; e che se avesse perso la causa, non avendo ancora imparato a dovere la sofistica non meritava la richiesta del pagamento di quell’onorario’.

SVF II, 287

Luciano ‘Vitarum auctio’ 22.

[Crisippo] -Hai un figlio?

[Acquirente] -E perché?

[Crisippo] -Se un coccodrillo [II,93,40] lo ghermisse trovandolo mentre se ne va qua e là [II,94,1] nei pressi di un fiume, e se promettesse di restituirtelo se tu gli dicessi la verità su cosa lui ha opinato circa la restituzione del bambino; cosa dirai che quello ha pensato? […] E ti insegnerò altre cose ancora più stupefacenti. […] il Mietitore, [II,94,5] il Dominatore, e soprattutto l’Elettra e il Velato. […] La famosa Elettra, […] quella che sapeva e al contempo non sapeva le stesse cose. Essendole infatti vicino Oreste, che ella ancora non conosceva; Elettra sapeva di un Oreste che era suo fratello, ma non sapeva che costui era Oreste. Quanto al Velato, sentirai parlare di un ragionamento davvero stupefacente. Rispondimi: [II,94,10] tu conosci tuo padre?

[Acquirente] -Sì

[Crisippo] -E allora? Se io ti chiedessi, mentre accanto a te c’è qualcuno velato: ‘Conosci costui?’ Tu cosa diresti?

[Acquirente] -Direi di non saperlo

[Crisippo] -Ma proprio costui era tuo padre; sicché se non conosci costui è manifesto che non conosci tuo padre.

[II,95,1] Cap. III

La retorica

Frammenti n. 288-298

SVF II, 288

Cicerone ‘De finibus’ IV, 7. Zenone e i suoi discepoli o non seppero o non vollero perseguire tutto questo genere di studi <concernenti la politica> e, comunque sia, lo abbandonarono. [II,95,5] È vero che Cleante ha scritto un libro di retorica, e pure Crisippo lo ha fatto, e in modo tale che se uno volesse ammutolire non avrebbe da leggere null’altro.

SVF II, 289

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ III, 1, 15. Anche Teofrasto, discepolo di Aristotele scrisse con diligenza di retorica, e dopo di lui i filosofi, [II,95,10] in special modo i maggiori degli Stoici e dei Peripatetici, si applicarono ad essa ancor più dei retori.

SVF II, 290

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ II, 17, 2. <Che la retorica sia un’arte> non fu rivendicato soltanto dai retori, […] giacché consente con loro anche la maggior parte dei filosofi Stoici e Peripatetici.

SVF II, 291

Cicerone ‘De oratore’ III, 65. Gli Stoici, [II,95,15] che io non disapprovo affatto, li lascio stare […] anzi io sono loro grato perché furono i soli fra tutti a chiamare l’eloquenza virtù e saggezza.

SVF II, 292

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ II, 15, 34. La definizione che meglio s’adatta alla sostanza della retorica è quella di ‘scienza del parlar bene’. Essa include, infatti, [II,95,20] tutte le virtù dell’oratoria ed inoltre il carattere dell’oratore, giacché egli non può parlar bene se non è uomo di virtuosi costumi. Altrettanto valida è la definizione di Crisippo, che la derivò da Cleante: ‘scienza del parlare correttamente’. Ci sono poi altre definizioni di Crisippo della retorica, ma hanno attinenza con altre questioni.

SVF II, 293

Anonymi ‘Scholia in Hermog. De statibus’ Walz. Rh. Gr. VII, p. 8. Essendo la retorica più importante di altre arti, gli Stoici [II,95,25] la chiamarono ‘scienza’, e la definirono ‘scienza del parlare forbito’.

SVF II, 294

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ II, 6. Senocrate, l’auditore di Platone, e i filosofi Stoici solevano dire che la retorica è la scienza del parlare forbito. Senocrate intendeva però per scienza […] [II,95,30] qualcosa di diverso dagli Stoici, per i quali essa consiste nel possesso dell’apprensione salda e certa, e germoglia soltanto nel sapiente. Entrambi assumono comunque che il parlare sia differente dal dialogare, dal momento che quest’ultimo sta tutto nella concisione e che opera della dialettica è quella di prendere e dare la parola; mentre il parlare a lungo e minuziosamente è invece considerato peculiare della retorica.

SVF II, 295

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 42. [II,96,1] Essi dicono poi che la retorica stessa è tripartita. Infatti, una sua parte è deliberativa, un’altra giudiziaria e un’altra encomiastica. Essa si suddivide in: invenzione dell’argomento, tono espressivo, disposizione dei concetti, recitazione. Il discorso retorico si suddivide a sua volta [II,96,5] in: proemio, narrazione, replica agli avversari in giudizio, epilogo.

SVF II, 296

Anonimo ‘Ars rethorica’ I, p. 454 Spengel. Platone afferma nel ‘Fedro’ che il compito dell’epilogo è quello di raccogliere insieme per sommi capi i singoli temi trattati e di richiamare alla memoria degli ascoltatori, alla fine del discorso, [II,96,10] le cose dette. Anche Crisippo è della stessa opinione, giacché anche lui afferma che l’epilogo è monopartito.

SVF II, 297

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1047a. La retorica è definita arte dell’ordinata disposizione del discorso parlato, ed inoltre nel primo libro egli <Crisippo> ha scritto queste parole: “Io credo che bisogna darsi pensiero [II,96,15] non soltanto dell’ordine semplice e privo di forzature dei discorsi, ma anche dell’appropriato modo di recitarli in relazione alle estensioni di voce loro spettanti ed agli atteggiamenti del viso e delle mani”. A questo punto, una volta diventato persino così eccessivo nella sua ambizione d’onore […]

SVF II, 298

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1047b. […] nello stesso libro, [II,96,20] mentre rimarca la questione degli iati, afferma “Che noi dobbiamo attenerci a faccende ben più importanti di quella e tralasciare non soltanto simile questione ma anche quella di certe oscurità, ellissi e, per Zeus, solecismi, dei quali non pochi altri si vergognerebbero”.

SVF II, 298a

Le ricerche [II,96,25] Logiche di Crisippo -Libro 1 [Si tratta di testi papiracei molto frammentari e di assai incerta lettura, la cui traduzione non può quindi che risultare meramente tentativa]

Fr. 1 (n). futuro […] plurale [II,96,30] [II,96,35] […] essere [II,97,1] [II,97,5] […] soltanto […]

Fr. 2n (p. 284 o). [II,97,10] […] appare anche qui […] non plausibile […] apparire […] [II,97,15] [II,97,20] […] non va attaccato a queste così da formare un solo enunciato […] Se una proposizione [II,97,25] è al presente, è plausibile che ne esista una che è il passato di quella, e che esista il passato del passato fino all’infinito. [II,97,30] E se esistono siffatti passati, allo stesso modo esistono i futuri dei futuri fino all’infinito […] [II,97,35]

Fr. 3n (p. 285 o) […] fino all’infinito […] [II,97,40] [II,98,1] [II,98,5] […] esserci […] [II,98,10] […] si tralascino le affermazioni fatte prima […] [II,98,15] […] passato […]

Col. I n (p. 286 o) [II,98,20] […] due […] due […] fino all’infinito […] [II,98,25] […]è simile […] [II,98,30] […] avvenuti […] parrà anche il plurale […] [II,98,35] […] allo stesso modo […] da questi si potrà plausibilmente passare a quelli, dicendo che non esistono i plurali [II,99,1] dei plurali, in un certo modo […] per i singolari […] il passato del passato […] non c’è il passivo del passivo. [II,99,5] Anche per questi ultimi non si va all’infinito e così pure per quelli e viceversa. Se uno facesse siffatti discorsi [II,99,10] su altri argomenti e passasse da uno di questi ad argomenti congeneri, la linea di trattamento logico sarebbe sana e questo [II,99,15] passaggio è[…]

Col. 2 n (p. 287 o) [II,99,20] […] dato […] per controllo […] essendo […] [II,99,25]] Se ci sono predicati e proposizioni al passato, [II,99,30] allora c’è anche il passato del passato fino all’infinito. Ma ciò è del tutto impossibile. Pertanto non esistono predicati e proposizioni al passato. Se ci sono predicati [II,99,35] passivi, allora ci sono predicati passivi del passivo fino all’infinito. Ma ciò è del tutto impossibile, dunque neppure si dà la prima proposizione. Se ci sono predicati plurali, allora si dà anche il plurale del plurale [II,99,40] fino all’infinito. [II,100,1] Ma ciò è del tutto impossibile, dunque neppure si dà la prima proposizione. [II,100,5] […] capita […] un’altra […] [II,100,10] siffatti […]

Col. 3 n (p. 288 o) [II,100,15] [II,100,20] [II,100,25] […] nascono rappresentazioni vere e false, catalettiche e acatalettiche; [II,100,30] e anche nel caso dell’intelletto esiste qualcosa di similare […] giacché su tutto […] averne rappresentazioni [II,100,35] né può comprendere tutto, nascono in esso rappresentazioni false e acatalettiche non meno che catalettiche. [II,101,1] In modo similare a questo capita anche […] altre […] visioni [II,101,5] e ascolti, e similmente degli altri sensi. E in complesso […] in relazione all’intelletto […] dei restanti […] [II,101,10]

Col. 4 n (p. 289 o) […] differendo […] [II,101,15] […] a questi. [II,101,20] Siffatte differenze nascono non soltanto a dispetto delle nature particolari ma anche delle arti e sovente della consumata esperienza di tante cose in tanti campi. Inoltre accade nelle arti [II,101,25] una cosa simile a quella che accade per gli organi di senso. Né a quelle è dato di rintracciare alcunché[…] né questi possono distendersi a tutto il campo loro omogeneo. [II,101,30] E bisogna sottintendere che tutte queste considerazioni si estendono non soltanto agli uomini saggi ma anche agli stolti. La scienza […] [II,101,35] […] cosa avviene quando, mostrando due oggetti, essi dicano che ‘questo non è questo’[…] [II,102,1] […] non si potrebbe dire con fiducia […] [II,102,5]

Col. 5 n (p. 290 o) [II,102,10] […] oltre a ciò[…] [II,102,15] […] la proposizione ‘questo qui è questo qua’ è identica alla proposizione ‘questo qua è questo qui’; per esempio, è la stessa cosa dire ‘Dione è Teone’ e dire ‘Teone è Dione’, [II,102,20] sia così, sia indicandoli in modo definito. Il contrapposto di ‘Dione è Teone’ è ‘Non Dione è Teone’ anche indicandoli in modo definito. Su queste proposizioni [II,102,25] e su quelle simili, non soltanto è arduo far comprendere quel che si dice, ma a volte ci sfugge anche che stiamo dicendo una falsità, [II,102,30] e in modo conforme ciò potrebbe estendersi anche ai sapienti. Non è plausibile che nulla di ciò sia chiarito, né che, una volta chiarito, qualcosa non rimanga incerto. [II,102,35] È possibile soggiungere cose similari […] divari […] [II,103,1]

Col. 6 n (p. 291 o) [II,103,5] […]è siffatto […] [II,103,10] […] capita… [II,103,15] […] anche il plurale […] [II,103,20] […] dunque è plurale grazie a questi termini; come pure ci procurerà motivo di soffermarci su casi similari. Oppure secondo gli stessi autori [II,103,25] il plurale sarà qualcosa del genere, per esempio, ‘nostro’; mentre molti altri mostrano non esserlo; oppure l’oggetto della ricerca non è di questo genere. Se è singolare la proposizione ‘chi percuote costoro’, qualcosa del genere è plurale […] [II,103,30] […] a siffatto […] chi percuote costoro […] mostrano […] vari […] [II,103,35] […] qualcun altro […] discorso […] plurali, se anche […] modo […] [II,104,1]

Col. 7 n (p. 292 o) [II,104,5] [II,104,10] […] plurale essendo quello […] [II,104,15] […] circa il ‘chi percuote costoro’ e il ‘chi percuote costui’[…] precedenti […] termini siffatti […] ‘loro’ e ‘nostro’[…] [II,104,20] e similmente nei casi simili e soprattutto in casi come ‘è per me’ e ‘che sono per me’ e ‘che sono per noi’ e ‘è per noi’[…] [II,104,25] come […] i simili che bisogna […] [II,104,30] […] prendere […] uomo […] parte […] [II,104,35]

Col. 8 n (p. 293 o) […] e quanto […] [II,104,40] […] e da quanti […] [II,105,1] [II,105,5] […]’[…] dopo che costui pensò, pensai’ e ‘dopo che costui passeggiò, mi sedetti’. Infatti, non sono proposizioni simili a ‘dopo questo, pensai o mi alzai’. [II,105,10] Essendo anche questi degli esprimibili, sarà possibile ricercare in cosa consisteranno le loro differenze. Le faccende sono simili anche […] [II,105,15] ‘[…] costui pensò, io pensai’ e ‘in seguito al fatto che costui pensò, io pensai’[…] [II,105,20] è falso […] siffatto […] dopo costui […] in seguito a ciò[…]è falso […] questo […] [II,105,25]

Col. 9 n (p. 294 o) [II,105,30] [II,105,35] […] ai significati […] [II,106,1] […] una cosa siffatta possibile […] e dicono e significano i fatti ma non giurano [II,106,5] né ingiungono, né imprecano, né domandano, né cercano di sapere. Fino a che punto si deve dare retta a ciò, fornisce una riflessione il discorso che faremo tra poco […] [II,106,10] […] se circa la risposta […] plausibilmente ciò non esiste. E similmente […] [II,106,15] […] la conclusione non è sia vera che falsa […] [II,106,20] […]

Col. 10 n (p. 295 o) […] [II,106,25] […] sarà […] a queste conclusioni o di questo genere […] [II,106,30] […] ciò non è plausibile […] [II,106,35] non si deve dire che essi dicano sia il vero che il falso, né si deve guardare ad essi con sospetto in altro modo, se il medesimo sarà vero e falso; ma che [II,107,1] errano del tutto sul significato. Il precedente discorso contesta che essi dicano il falso e insieme il vero, [II,107,5] ma capita in tutti i casi di questo genere che a volte le cose siano dette semplicemente e che altre volte si aggiunga loro qualche significato in più. [II,107,10] Non intendo dire che alcuni di essi sono pronunciati secondo opinione o ragionamento, altri testualmente […] [II,107,15] […] ma […] simili […]

Col. 11 n (p. 296 o) [II,107,20] [II,107,25] […] affermi pure che noi diciamo cose siffatte secondo un nostro modo di pensare del momento, e altre volte con una riserva e in complesso […] disponendoci in maniera tale da non pronunciare espressioni non corrispondenti [II,107,30] o anfiboliche; ed è altamente proficuo segnalare questo fatto per rivolgerglisi il più spesso possibile. [II,107,35] Su proposizioni del genere ‘Passeggia, poiché è giorno’ a volte esse sono pronunciate in due sensi diversi; sicché, secondo uno dei due [II,108,1] tutto ciò che si ingiunge è di ‘passeggiare poiché è giorno’; ma secondo l’altro senso, senza dubbio più palese e più utilizzato, [II,108,5] si ingiunge di passeggiare e il resto sopravviene dal di fuori […]

Col. 12 n (p. 297 o) [II,108,10] [II,108,15] […] di proposizioni del genere ‘Cammina, e se no sta seduto’. Ogni parte ricade sotto l’imperativo [II,108,20] e non si può mutarla in predicativa, giacché nulla palesa un fatto del genere ‘Costui sta camminando, e se no se ne sta seduto’. [II,108,25] Se c’è bisogno […] dire ‘Cammina, e se questo non facesse per te sta’ seduto’ e ‘Piuttosto cammina, e se questo non facesse per te sta’ seduto’. [II,108,30] E si può estenderlo ancora di più e, per Zeus[…] [II,108,35] ‘Passeggia, e se no coricati’ e ‘Soprattutto fa’ questo e se no quest’altro e se no fa quest’altro’ e così all’infinito […] [II,108,40] […] camminare, e se no stare seduto […] [II,109,1] […] cataletticamente […]

Col. 13 n (p. 298 o) [II,109,5] [II,109,10] […] essere ingiunto di non fare. Una cosa del genere potrà essere detta in duplice modo: ‘O cammina o sta seduto’. Di questi due modi […] [II,109,15] uno […] non di ingiunzione: ‘Questo, e se no quest’altro’uest   Q. Diremo così, oppure bisognerà dire che anche qui c’è l’ingiunzione [II,109,20] al modo in cui c’è quando si enuncia questa proposizione: ‘Dione cammina e se no sta seduto’, dove predicato plausibile è [II,109,25] ‘camminare e se no stare seduto’; e se è così, è plausibile che una cosa del genere sia ingiunta. Dopo di che c’è anche un’altra riflessione da fare, se cioè anche coloro che [II,109,30] ingiungono ‘Prendi di queste cose quella che capita’ e ‘Prendi una qualunque di queste cose’ non ingiungono nulla. Infatti, non è dato trovare qui un predicato [II,109,35] né un altro termine che esprima ciò ch’è ingiunto. Similmente […] [II,109,40]

Col. 14 n (p. 299 o) [II,110,1] […]. [II,110,5] […] riflessione […] come si dice: [II,110,10] un muro intonacato e imbiancato, una colonna impeciata, una portae uno scudo sbiancati e, dello stesso grado, un uomo [II,110,15] unto e annerito dal fumo, e ancora, una toga insudiciata e sozza e un uomo sozzo. Si deve […] in questo caso […] [II,110,20] [II,110,25] […] altri divari […] [II,110,30]

Col. 15 n (p. 300 o) […] predicati […] [II,110,35] […] ma su quelli bastano le cose dette. [II,110,40]

Parte II

La Fisica

[II,111,1] Fisica I.

I fondamenti della fisica

§ 1. Sui due principi, la materia e la causa

Frammenti n. 299-328

SVF II, 299

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 134. Essi affermano che i principi e gli elementi [II,111,5] sono cose diverse, giacché i principi sono ingenerati e imperituri, e gli elementi invece periscono nella conflagrazione universale. I principi sono corporei privi di forma, mentre gli elementi sono corporei dotati di forma.

SVF II, 300

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 134. <Gli Stoici> ritengono che i fondamenti del cosmo nella sua interezza siano due: quello che fa l’azione e quello che la sperimenta. Quello che sperimenta l’azione è la [II,111,10] sostanza senza qualità, il materiale. Quello che fa l’azione è la ragione insita nel materiale, ossia la divinità. Poiché questa ragione sempiterna è connaturata a qualunque materiale, è essa a fabbricare tutte e singole le cose esistenti. È Zenone a porre questo principio nel suo libro ‘Sulla sostanza’. Lo fa anche Cleante nel suo libro ‘Sugli atomi’ e lo fa Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’, verso la fine.

SVF II, 301

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 11. [II,111,15] Anche gli Stoici dicono che vi sono due principi: il divino e il materiale privo di qualità; ed hanno concepito il divino come principio ‘che fa’ e il materiale come principio che ne sperimenta l’azione e tramuta.

SVF II, 302

Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 8, Vol. I, p. 2, 18 Wendl. <Mosè> riconobbe come assolutamente necessario che tra i principi ve ne sia uno che è causativo operante ed un altro [II,111,20] che ne sperimenta l’azione; e che quello operante sia la mente assolutamente limpida e incontaminata dell’intero cosmo, […] mentre quello che ne sperimenta l’azione sia di per sé inanimato e immoto; ma che quando fu mosso, informato ed animato dalla mente si trasformò nell’opera perfettissima che è questo cosmo.

SVF II, 303

Seneca ‘Epistulae morales’ LXV, 2. I nostri Stoici, come sai, dicono che la natura delle cose è tale per cui due sono le realtà dalle quali tutto deriva: [II,111,25] la causa e il materiale. Il materiale giace inerte, è cosa pronta a tutto, sempre a riposo se nessuno la mette in moto. Invece la causa, cioè la ragione, dà forma al materiale, lo foggia come vuole e da esso produce artefatti vari. Pertanto, deve esistere qualcosa dal quale le cose si generano, e inoltre qualcosa che le generi. Quest’ultimo è la causa, il primo è il materiale.

SVF II, 304

Origene ‘De principiis’ (interpr. Rufino) II, cp. 1, p. 78. ed. Delarue. Polemizza contro [II,111,30] coloro che ritengono dio artefice del mondo e provvidente, ed affermano che la materia senza forma è ingenerata.

SVF II, 305

[1] Teodoreto ‘Graec. affect. cur.’ IV, 13, p. 206 Canivet. Quanto al materiale […] anche [II,112,1] la filiera degli Stoici usava affermare che è commutabile, cangiante, in stato di flusso.

[2] p. 207. Aristotele ha chiamato il materiale ‘corporeo’; gli Stoici ‘corpo’.

SVF II, 306

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Metaph.’ p. 178, 15 Hayd. [II,112,5] Ora, se c’è un causativo che esiste di per sé e al di fuori del materiale, allora <Aristotele> afferma che si deve esaminare anche un’altra questione, cioè se questo causativo sia separato dal materiale e sussistente in sé e per sé, oppure sia insito nel materiale quale sua forma immanente; e quindi che la divinità sia, come ritennero gli Stoici, il causativo attivo insito nel materiale.

SVF II, 307

[1] Proclo ‘In Platonis Timaeum’ p. 81 E Schn. [II,112,10] Alcuni non si spiegano come mai Platone abbia assunto per ammesso che il demiurgo dell’universo miri ad un modello, giacché non esiste demiurgo che guardi a ciò ch’è identico a se stesso. Molti degli antichi filosofi sono sostenitori di questo discorso, e mentre gli Epicurei sono dell’avviso che non esista affatto un causativo dell’universo, [II,112,15] gli Stoici affermano invece che esso esiste ma che non è separato dal materiale.

[2] p. 299 C. Circa tutti gli dei che dirigono la generazione, noi diciamo che la loro sostanza non è commista al materiale, come invece affermano gli Stoici […]

SVF II, 308

Siriano ‘In Aristot. Metaph.’ p. 8, 4 segg. Kroll. Altri [II,112,20] filosofi lasciano da parte la causa attiva in quanto non separata dal materiale, come fecero gli Stoici dopo di lui <Aristotele> e altri prima di lui […]

SVF II, 309

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ X, 312. Gli Stoici presuppongono la genesi dell’intero cosmo da un unico corpo privo di qualità. Infatti, secondo loro, principio delle cose esistenti è il materiale senza qualità commutabile in esse tutte, il quale, trasformandosi, [II,112,25] diventa i quattro elementi: fuoco, aria, acqua, terra.

SVF II, 310

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 224, 3 Bruns. Giunto a questo punto il discorso, uno potrebbe ragionevolmente addurre come causa delle presenti obiezioni il fatto che essi dicono che i principi di tutte le cose esistenti sono due, il materiale e la divinità, il secondo dei quali è attivo mentre il primo è quello che ne sperimenta l’attività; e il fatto di dire che la divinità è mescolata al materiale, che in questo modo essa pervade [II,112,30] tutto quanto, modella, forma e rende armoniosamente composto. Infatti se la divinità, secondo loro, è corpo poiché è uno pneuma cognitivo e sempiterno, e il materiale è anch’esso corpo: in primo luogo vi sarà un corpo che è pervasivo di un altro corpo; e, in secondo luogo, questo pneuma o sarà uno dei quattro corpi semplici, che essi chiamano elementi, oppure sarà una composto di questi (come qualche volta anch’essi [II,112,35] dicono, giacché sostengono che lo pneuma abbia la sostanza dell’aria e del fuoco); oppure, se fosse qualcos’altro, questo corpo per essi divino sarà una qualche ‘quinta sostanza’, chiamata così senza dimostrazione e senza conforto di prove da coloro che muovono l’obiezione di dire paradossi a chi appoggia le presenti obiezioni con appropriate dimostrazioni.

SVF II, 311

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 75. Quindi, essi affermano, essendo la sostanza delle cose [II,112,40] di per sé priva di moto e di forma, essa è debitrice di movimento e di forma a qualche causa. Per questo motivo, come quando noi osserviamo un’opera in bronzo di grande bellezza e bramiamo conoscere chi ne è l’artista, in quanto sappiamo che il bronzo è di per sé privo di movimento; così pure, poiché siamo spettatori del fatto che il materiale dell’intero cosmo è dotato di movimento, di forma ed è disposto in bell’ordine, sarebbe ragionevole che noi analizzassimo quale causa [II,113,1] lo fa muovere e gli dà tanto varie conformazioni. Questa causa non è plausibilmente altro che una forza che lo permea, proprio come il nostro animo permea noi. Questa forza o si muove da sé oppure prende il movimento da un’altra forza. [II,113,5] Se è mossa da un’altra forza, è impossibile che quest’altra non sia a sua volta mossa da un’altra ancora che la mette in movimento: il che è assurdo. Pertanto esiste una forza che è capace di per se stessa di movimento, e questa forza potrebbe soltanto essere divina e sempiterna. Una simile forza sarà dotata di movimento o dall’eternità oppure a partire da un certo tempo. Ma non sarà dotata di movimento a partire da un certo tempo, giacché non esisterà causa del fatto di dotarla di movimento a partire da un certo tempo. [II,113,10] La forza che muove il materiale e lo guida in modo ben ordinato alle sue generazioni e trasformazioni è dunque sempiterna: sicché essa sarebbe la divinità.

SVF II, 312

Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 25, 15 Diels. ….di quanti dicono che i principi definiti sono due, come Parmenide […] o come gli Stoici: la divinità e il materiale; i quali evidentemente intendono la divinità non come ‘elemento’ ma come principio attivo, [II,113,15] mentre il materiale è il principio che sperimenta tale attività.

SVF II, 313

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1085b. Ma costoro che fanno di dio, il quale è un principio, un corpo cognitivo ed una mente insita nella materia, lo rivelano con ciò né semplice, né puro, né incomposto, ma come un principio risultante da altro e attraverso altro. La materia invece, di per sé alogica e priva di qualità, possiede il carattere di principio semplice e primigenio. [II,113,20] Dunque dio, dato che è né incorporeo né immateriale, ha partecipato della materia come principio. Ora, se la materia e il logos sono un’unica e identica cosa, essi non hanno fatto bene a definire la materia come qualcosa di alogico. Se invece la materia e il logos sono cose distinte, dio potrebbe essere una sorta di dispensiere di entrambi, e non sarebbe semplice ma composto, avendo aggiunto alla cognitività la corporeità presa dalla materia.

SVF II, 314

[1] Plotino ‘Enneadi’ VI, I, 27, 1 segg. [II,113,25] Peraltro sarebbe d’uopo che essi, serbando nel dovuto onore il principio di tutte le cose, non ponessero come principio ciò ch’è amorfo, passivo, spartito dalla vita, dissennato, tenebroso, indefinito e riferissero a questo la sostanza. Infatti, dio è da essi introdotto sulla scena per decoro, ed è un dio che ha il suo essere dalla materia, che è [II,113,30] composto e successivo ad essa, che è piuttosto un modo di essere della materia. Se la materia è l’oggetto soggiacente, inoltre, ciò che compie un’azione su di essa e procura che essa soggiaccia ai comandi che le invia, deve di necessità essere altro da essa e al di fuori di essa. Se invece ciò fosse esso stesso soggiacente nella materia e congenerato con essa, esso non potrà più far sì che la materia gli sia soggiacente, né essere esso stesso oggetto soggiacente insieme con la materia: a chi, infatti, saranno oggetti soggiacenti [II,113,35] dal momento che, una volta consumati tutti quanti i candidati a svolgere il ruolo di cosiddetto oggetto soggiacente, non c’è più chi procurerà che essi siano oggetti soggiacenti? L’oggetto è soggiacente perché soggiace a qualcosa; non a ciò ch’è in esso stesso, ma a ciò che fa di lui un sottostante. L’oggetto soggiacente soggiace dunque a ciò che non è oggetto soggiacente; e se è così, a ciò che gli è esterno. Sicché questo è il ragionamento che sarebbe stato omesso. E se essi non hanno bisogno d’assumere altro dal di fuori, la materia può diventare capace di [II,113,40] assumere qualunque configurazione, come il danzatore fa di se stesso tutte le posizioni della danza, e non sarebbe più oggetto soggiacente ma sarebbe il tutto.

[2] 27, 34 segg. Avviene loro <agli Stoici>, dunque, di accagionare coloro che fanno sostanze di quelle che sostanze non sono, ed essi invece di fare non-sostanza di quella che invece è una sostanza. Il cosmo di per sé, infatti, non è una sostanza. […] Come può la materia talvolta diventare ‘corpi’, ma un’altra sua parte diventare ‘anima’?

SVF II, 315

Plotino ‘Enneadi’ VI, I, 26, 1 segg. [II,113,45] In complesso, preordinare a tutto la materia, la quale è in potenza; e non posizionare l’atto prima della potenza, è sotto ogni riguardo [II,114,1] il culmine dell’assurdità. […] Bisogna che prima di ciò ch’è in potenza vi sia ciò ch’è in atto; ma allora ciò ch’è in potenza non è più un principio; oppure, se essi dicessero che insieme lo è, allora i principi saranno messi in mano alla sorte. E poi se materia e dio sono entrambi principi, perché non preordinano dio? Perché è più esistente questo principio, la materia, che non quell’altro, cioè dio? E se dio è successivo alla materia, come lo è diventato? Giacché la materia certo non genera la forma, [II,114,5] né ciò ch’è privo di qualità la qualità, né ciò ch’è in atto origina da ciò ch’è in potenza poiché, se così fosse, ciò ch’è in atto esisterebbe all’interno di ciò ch’è in potenza e non sarebbe più un principio semplice. Ma dio, per loro, viene per secondo dopo la materia, giacché è un corpo composto da materia e forma. E donde gli viene la forma? Se poi dio ha forma anche senza la materia, essendo logos primigenio, allora sarebbe incorporeo, e pure incorporeo sarebbe il principio attivo. Ma anche se dio è senza materia egli è, quanto a sostanza, composto, [II,114,10] in quanto è corpo; ed essi dovranno introdurre l’esistenza di un’altra materia, che è la materia di dio. E poi, come può essere un principio la materia, se è corpo? Infatti, non esiste corpo che non sia molteplice, ed ogni corpo è composto da materia e qualità. E se questo corpo di dio è corpo in un altro modo, allora essi chiamano la materia ‘corpo’ per semplice omonimia. Se la tridimensionalità è la caratteristica comune dei corpi, essi stanno parlando di un corpo matematico. Se alla tridimensionalità s’accompagna la resistenza propria dei corpi rigidi, allora essi non parlano di qualcosa di unitario. […] E poi donde viene quell’unione? [II,114,15] Infatti, non è unitario, ma per partecipazione dell’unione.

SVF II, 316

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 150. Come affermano anche Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’ e Zenone, <gli Stoici> dicono che la sostanza senza qualità è la materia prima di tutte le cose esistenti. Essa è il materiale dal quale nasce qualsiasi cosa di qualsiasi genere. Questa sostanza materiale si chiama così in duplice senso, ossia o nel senso di sostanza materiale di tutte le cose oppure nel senso di sostanza materiale di cose particolari. [II,114,20] Nel primo senso, la sostanza materiale del cosmo nella sua interezza non aumenta né diminuisce; mentre la sostanza materiale di cose particolari, invece, può aumentare o diminuire.

SVF II, 317

Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 133, 6 W. [II,114,25] Dello Stoico Crisippo. Alle cose dotate di qualità è sottostante la materia prima: questa è sempiterna, non subisce accrescimento né diminuzione, mentre è passibile di suddivisione e di fusione di qualità componenti nelle sue parti; sicché l’estinzione delle parti in altre avviene non soltanto per suddivisione delle stesse, ma anche in analogia alla fusione di certe qualità componenti che nascono da certe altre.

SVF II, 318

Origene ‘De oratione’ Vol. II, p. 368, 1 Koe. [II,114,30] Per coloro che legittimano come precedente la sostanza di ciò ch’è corporeo e come consecutiva quella degli incorporei, le definizioni di essa sono queste: sostanza è il materiale primo degli esseri; è ciò da cui derivano le cose esistenti; è il materiale dei corpi; è ciò da cui derivano i corpi; è il materiale delle cose che hanno un nome; è ciò da cui derivano le cose che hanno un nome. [II,114,35] Oppure: sostanza è il primo sostrato senza qualità; oppure: è ciò ch’è preesistente alle cose che sono; oppure: è ciò che accoglie tutte le trasformazioni e tutti i cambiamenti mentre essa, per sua propria ragione, è invariata; oppure: è ciò che regge ogni cambiamento e ogni trasformazione. Secondo costoro la sostanza, per sua propria ragione, è priva di qualità e di fattezze, non ha una grandezza specificata [II,114,40] e si espone ad ogni qualità come un podere pronto. Essi, inoltre, classificano [II,115,1] in comune come qualità sia le attività pratiche sia le produzioni intellettuali, nelle quali avviene che ci siano tanto stati di moto che stati di quiete. Affermano poi che la sostanza, per sua propria ragione, non partecipa di nessuna di queste qualità e che è sempre inseparabile da ognuna di esse, essendo passiva non meno che accogliente di tutte le attività dell’agente, [II,115,5] qualunque cosa esso faccia e comunque esso la trasformi; giacché il tono che è insito in essa ed in essa ha spazio dappertutto, sarebbe la causa d’ogni qualità che assume e di tutte le opportunità che la riguardano. Dicono anche che essa è interamente mutevole e interamente suddivisibile; e che ogni sostanza può confondersi con ogni altra, essendo unitaria.

SVF II, 319

[1] Plotino ‘Enneadi’ VI, I, 28, 5 segg. Causa di ciò [II,115,10] è il fatto che la sensazione è diventata la loro guida e che della sensazione essi si fidano nella proposizione dei principi e di tutto il resto. Infatti, poiché ritengono che gli esseri reali sono corpi, e in seguito a ciò hanno paura della loro trasformazione gli uni negli altri, hanno creduto che l’essere è ciò che permane a fondamento di tali corpi; come se uno ritenesse che l’essere, più che i corpi è lo spazio, in quanto ritiene che lo spazio non perisce.

[2] 28, 18 segg. La cosa più stupefacente di tutte [II,115,15] è che filosofi i quali affidano alla sensazione la loro fiducia in ciascuna cosa, pongano poi l’essere come inafferrabile dalla sensazione. Inoltre essi non procedono rettamente quando attribuiscono alla materia la resistenza propria dei corpi rigidi, giacché questa è una qualità.

SVF II, 320

Plotino ‘Enneadi’ II, IV, 1, 7 segg. Gli uni pongono come esseri soltanto i corpi e la sostanza che è in essi, e dicono che la materia è una sola, che è stata posta a supporto degli elementi e che è essa la sostanza. [II,115,20] Tutte le altre cose sono come affezioni di questa, e anche gli elementi sono dei suoi modi di essere. Hanno addirittura l’audacia di estollerla fino agli dei e, alla fin fine, di sostenere che dio stesso è un modo di essere di questa materia. Danno alla materia anche un corpo, chiamandola ‘corpo senza qualità’ e anche ‘grandezza’.

SVF II, 321                                                             

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 280. Quanti dichiararono che l’ordinamento della materia primordiale è opera delle provvidenza, [II,115,25] ritengono che tale ordinamento si estenda ininterrottamente dal principio alla fine del mondo; ma non tutti la pensano allo stesso modo. Pitagora la pensa in un modo, Platone in un altro, Aristotele in modo diverso da loro, e alquanto differente è anche la posizione degli Stoici. Però tutti concordano nel ritenere la materia primordiale priva di forma e di qualità proprie.

SVF II, 322

Galeno ‘Method. med.’ II, 7, X, p. 155 K. [II,115,30] […] l’artificiosa minuziosità nella ricerca dei nomi, della quale si fecero belli alcuni filosofi […] schivo di parlarne adesso; […] dico l’artificiosa minuziosità con la quale essi suddividono per genere l’ente e l’essente.

SVF II, 323

Ps. Galeno ‘De qualitat. incorp.’ 5, XIX, p. 475 K. Allora bisogna [II,115,35] per di più dire, oltre a quelle che io chiamavo assurdità, che la sostanza non è unitaria. […] Quello che gli Stoici chiamano primo materiale e sostanza prima, e dal quale affermano che Zeus abbia fatto il cosmo e ciascuna delle realtà che in esso esistono. Ora, se questa sostanza fosse corpo proprio come sono corpo le qualità, come potrebbe non essere anch’essa qualità, o comunque possedere qualità? Se pure non avesse le restanti qualità, di certo avrebbe però in ogni caso [II,115,40] il peso, che essi dicono essere qualità peculiare d’ogni corpo; e allora come fanno ad affermare ancora che la sostanza prima è semplice, e non invece commista? Se poi essi affermano che è finita e delimitata, è manifesto che essa possiede una configurazione geometrica; giacché è assurdo che un corpo [II,116,1] concluso entro i propri limiti esista senza avere in ogni caso una forma, pur se le due cose, per ipotesi, non si abbracciassero contemporaneamente col pensiero. Sicché se circa la materia tutte le cose che dicevo fossero queste, ossia, come affermano loro, corpi; la materia non sarebbe priva di qualità, cioè non sarebbe semplice […] e per questa via nulla, secondo loro, sarebbe incommisto.

SVF II, 323a

Ps. Galeno ‘De qualitat. incorp.’ 6, XIX, p. 478 K. [II,116,5] Il medico che compone un farmaco diverso a partire da molti farmaci aventi tutti la loro peculiare qualità, produce dalla loro mistura una nuova qualità; mentre essi affermano che Zeus, invece, non mischia alla prima sostanza né figura, né lunghezza, né alcuno degli altri attributi accidentali. Se poi Zeus li mischia, essendo allora manifesto che anch’essi sono sempiterni, come [II,116,10] possono ancora dire che soltanto il primo materiale è sempiterno e privo di qualità e che non lo sono anche le altre qualità e tutti gli attributi accidentali? Essi affermano anche che Zeus non è fattore, come fosse un qualunque artista manuale, ma che egli è il demiurgo di tutte le cose in quanto pervade in tutto e per tutto la materia. E se affermeranno che sono sostanze e diranno che sono corporee la grandiosa dimensione del fuoco divino e gli attributi accidentali particolari di tale dimensione: [II,116,15] la lunghezza, la larghezza, la profondità e, oltre a questi, la sua razionalità e beatitudine; allora è manifesto che Zeus consisterebbe di corpi e non sarebbe semplice ma una composto. Se diranno che queste nature […] sono insostanziali, allora si rafforza quel che diciamo noi, ossia che né gli attributi accidentali né le qualità hanno natura corporea.

SVF II, 324

Aezio ‘Placita’ I, 9, 2. [II,116,20] I seguaci di Talete, di Pitagora e gli Stoici ritengono il materiale commutabile, cangiante, labile, in tutto e per tutto in stato di flusso.

SVF II, 325

Aezio ‘Placita’ I, 9, 7. Gli Stoici dichiarano che il materiale è corpo.

SVF II, 326

Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 227, 23 Diels. [II,116,25] Ma poiché alcuni filosofi, e non filosofi qualunque – come i seguaci di Aristotele, di Platone, gli Stoici tra gli antichi e Pericle di Lidia tra quelli recenti – affermano che il materiale primario è un corpo senza qualità, ottima cosa sarebbe esaminare questa opinione.

SVF II, 327

Ps. Galeno ‘De qualitat. incorp.’ 5, XIX, p. 477 K. [II,116,30] È impensabile che questo materiale sia privo di peso e di leggerezza; e non meno assurdo sarebbe dire che ha sia peso che leggerezza insieme, nello stesso riguardo e non relativamente ad un elemento o all’altro. Impensabile è anche il fatto che mentre la sostanza di quel materiale è priva di qualità, ciascuno dei quattro elementi [II,116,35] che in primo luogo da esso derivano, come vanno affermando, sia invece dotato di qualità. […] Se quel materiale non avesse neppur una di queste qualità e neanche l’avesse, per ipotesi, proprio quel fuoco etereo dal quale essi affermano che sono nati i quattro elementi e il cosmo, come sono stati questi generati, prodotti e plasmati?

SVF II, 328

Asclepio ‘In Aristot. Metaph.’ P. 377, 29 Hayduck. A loro volta alcuni, come i Fisici e gli Stoici, hanno detto che la sostanza è una sola, [II,116,40] appunto quella sensibile.

[II,117,1] § 2. Qualcosa, ente, non-qualcosa

Frammenti n. 329-335

SVF II, 329

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ IV, p. 155 Ald. In questo modo potresti dimostrare che gli Stoici non operano rettamente quando pongono il ‘qualcosa’ come genere dell’essere, giacché se esso è ‘qualcosa’ manifestamente anche ‘è’; e se ‘è’ [II,117,5] si farebbe carico anche del discorso dell’essere. Ma quelli, col farsi una legge di chiamare ‘essere’ soltanto i corpi, sfuggirebbero all’aporia perché affermano che il ‘qualcosa’ è più generale dell’essere, essendo predicato non soltanto dei ‘corpi’ ma anche degli ‘incorporei’.

[2] p. 180 Ald. In questo modo sarà mostrato che il ‘qualcosa’ non è il genere di tutti i generi, [II,117,10] giacché il genere dell’uno o gli sarà di pari livello o gli sarà superiore. E se appunto l’uno è in relazione anche alla concettualizzazione di se stesso, il ‘qualcosa’ è invece in relazione soltanto ai ‘corpi’ e agli ‘incorporei’; mentre la concettualizzazione di sé, per coloro che così dicono, non è nessuna di queste due cose.

SVF II, 330

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ I, 17. Ora, se qualcosa è insegnato, o sarà insegnato [II,117,15] grazie a dei ‘qualcosa’ oppure grazie a dei ‘non-qualcosa’. Ma non è possibile che sia insegnato grazie a dei ‘non-qualcosa’, giacché ciò ch’è ‘non-qualcosa’ non può, secondo gli Stoici, fare da sostrato all’intelletto.

SVF II, 331

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ X, 218. Sicché costoro fanno del tempo un corpo, mentre i filosofi Stoici lo credettero essere un incorporeo. [II,117,20] Essi affermano, infatti, che dei ‘qualcosa’ alcuni sono corpi e altri sono invece incorporei; ed enumerano quattro specie di incorporei: l’esprimibile, il vuoto, lo spazio e il tempo. Da ciò è manifesto che oltre a concepire il tempo come un incorporeo, essi opinano che il tempo sia di per sé una faccenda pensata.

SVF II, 332

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ LVIII, 12. Il genere ‘ente’ è generale [II,117,25] e nulla ha sopra di sé. È il principio delle cose ed esse tutte gli sono subordinate. Gli Stoici vogliono però porre al di sopra di questo un genere ancor più primario.

[2] LVIII, 15. A certi Stoici pare che il genere supremo sia il ‘qualcosa’. Ti esporrò perché paia loro così. La natura delle cose, essi dicono, è tale che alcune cose sono enti, altre non lo sono. Ora, la natura delle cose abbraccia anche quelli che sono non-enti [II,117,30] e che però vengono in mente: ad esempio i Centauri, i Giganti e qualunque altra cosa formatasi per una falsa elucubrazione cominci ad avere una qualche immagine pur non avendo sostanza alcuna.

SVF II, 333

Anonimo ‘Proleg. in Aristot. Categ.’ p. 34b Brandis. [II,117,35] Gli omonimi più generali sono tre: ‘uno’, ‘essere’, ‘qualcosa’. Essi si rapportano infatti a tutte le realtà: secondo Platone, l’uno; secondo Aristotele, l’essere; secondo gli Stoici, il qualcosa.

SVF II, 334

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ III, 175, Vol. I, p. 152, 28 W. Il termine ‘manna’ è linguisticamente interpretato come ‘qualcosa’. È questo il più generale degli esseri.

SVF II, 335

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1074d. [II,117,40] Inoltre si devono allora chiamare ‘niente’ il tempo, il predicato, la proposizione, il periodo ipotetico e quello copulativamente coordinato: insomma gli strumenti di cui essi soprattutto tra i filosofi si servono, proprio loro dicono che sono ‘inesistenti’.

[II,118,1] § 3.Sulle cause

Frammenti n. 336-356

SVF II, 336

Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 138, 23 W. Di Crisippo. Crisippo dice che causativo è il ‘per cui’. Il causativo è corpo e il causativo è ciò a causa di cui si ottiene l’effetto. [II,118,5] La causa è la ragione del causativo, oppure la ragione del causativo in quanto causativo.

SVF II, 337

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 196. Se dunque, essi affermano, c’è il seme, c’è anche il causativo; essendo il seme il causativo delle cose che da esso germogliano e [II,118,10] sono generate. Ma il seme appunto c’è, come è mostrato dalla generazione dei vegetali e degli animali; e dunque c’è il causativo. E di nuovo: se c’è una natura, c’è un causativo; giacché la natura è il causativo di ciò che germoglia e di ciò ch’è nato. Ma la natura esiste, com’è insieme manifesto dai suoi risultati. […] Pertanto se la natura c’è, c’è un causativo; ma si dà il primo, dunque si dà anche il secondo. Detto altrimenti: se c’è un animo, [II,118,15] c’è un causativo. Infatti, l’animo è causa sia del vivere che del morire: del vivere, quando esso è presente; del morire quando esso è separato dai corpi. Ma l’animo c’è, essi dicono; se proprio anche chi afferma che l’animo non c’è, sfrutta l’animo per dirlo e così ne esibisce l’esistenza; dunque un causativo c’è. Oltre a ciò: se c’è una divinità c’è un causativo. Infatti, questa sarebbe quella che governa l’intero cosmo. Ma secondo i comuni concetti degli uomini, una [II,118,20] divinità c’è; dunque c’è un causativo. E seppure non esistesse una divinità, un causativo c’è. Infatti, l’inesistenza della divinità avviene per una qualche causa; e dunque sia nel caso che esista una divinità, sia nel caso che essa non esista, ugualmente ne consegue che ci sia un causativo. Essendo molte le cose che sono generate e che periscono, che crescono e che diminuiscono, che sono mosse e che restano inattive, bisogna per necessità ammettere che vi siano [II,118,25] dei causativi di tutto ciò: alcuni causativi della genesi e altri della rovina, alcuni della crescita e altri della generazione, e così pure alcuni del movimento o dell’inattività. Se pure questi risultati dei causativi non esistessero e fossero soltanto delle apparenze, con ciò bisognerebbe di nuovo introdurre l’esistenza dei causativi; giacché del fatto che tali risultati appaiano a noi come oggetti ma che oggetti non siano, esiste un causativo. E se invero nulla è causativo, allora bisognerà [II,118,30] che tutto venga da tutto e in ogni luogo e pure in ogni tempo: il che è assurdo. Ad esempio: se non c’è un causativo, nulla impedisce che da un uomo si formi un cavallo. Se nulla lo impedisce, una volta o l’altra da un uomo si formerà un cavallo e così, quando capitasse, un vegetale si formerà da un cavallo. Secondo questi esempi non sarà impossibile che la neve congeli in Egitto, [II,118,35] che il Ponto sia preda della siccità, che i fenomeni atmosferici dell’estate avvengano in inverno e che quelli dell’inverno sussistano in estate. Onde, se ciò cui consegue qualcosa di impossibile sarà anch’esso impossibile, e all’assunzione che non vi sia un causativo conseguono molte cose impossibili, bisogna dire che l’inesistenza di un causativo è una tra le cose impossibili. Inoltre, chi dice che non vi è un causativo o lo dice senza causa oppure per una causa. Se lo dice [II,118,40] senza una causa non è degno di fede, in conseguenza del fatto che egli potrebbe sostenere tanto questa tesi quanto la tesi contrapposta a questa, non essendo stata avanzata in precedenza una causa ragionata dell’affermazione che il causativo è inesistente. Se invece egli lo dice per una causa, la sua affermazione si capovolge nel contrario, [II,119,1] poiché nel momento in cui egli afferma che non vi è un causativo pone con ciò stesso l’esistenza di un causativo. Laonde diventa possibile prospettare con la stessa forza di prova l’argomentazione sul segno e sulla dimostrazione esplicitata in precedenza; argomentazione che avrà una struttura di questo genere: ‘Se c’è qualcosa di causativo, esiste il causativo; ma anche se non c’è qualcosa di causativo, esiste il causativo; [II,119,5] ma il causativo o c’è o non c’è; dunque il causativo c’è’. All’esistenza di un causativo consegue che qualcosa è causativo, non essendoci differenza tra la protasi e l’apodosi. All’affermazione che nulla è causativo consegue di nuovo che qualcosa è causativo, poiché chi dice che nulla è causativo lo dice essendo mosso da una qualche causa. Sicché la proposizione disgiuntiva in aggiunta alle due proposizioni ipotetiche diventa vera, per il fatto di essere una disgiuntiva [II,119,10] formata da proposizioni contrapposte, e da siffatte premesse la conclusione può essere inferita, secondo quanto provammo più sopra.

SVF II, 338

Aezio ‘Placita’ I, 11, 7. Gli Stoici definirono il primo causativo essere in movimento.

SVF II, 339

Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 420, 6 Diels. Alcuni reputano [II,119,15] che non vi sia un motore immoto, ma che tutto ciò che muove sia anche mosso, […] ed è manifesto che sono di questa opinione sia quanti, tra gli antichi studiosi della natura, ipotizzarono uno o più principi di natura corporea e, tra quelli recenti, gli Stoici.

SVF II, 340

Aezio ‘Placita’ I, 11, 5. Gli Stoici affermano che tutti i causativi sono corporei, giacché son pneumi.

SVF II, 341

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 211. [II,119,20] Gli Stoici affermano che ogni causativo è corpo, il quale è causativo ad un altro corpo di qualcosa di incorporeo. Per esempio: il bisturi=corpo è causativo alla carne=corpo dell’essere tagliata=predicato incorporeo. E ancora: il fuoco=corpo è causativo al legno=corpo dell’essere arso=predicato incorporeo.

SVF II, 342

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 77B Ed. Bas. [II,119,25] Non bisognerebbe cominciare dai fatti estremi, dico quelli relativi alla percossa e all’urto <dei corpi>, e neppure convenire con gli Stoici riguardo a ciò su cui continuamente differiamo da loro, ossia sul fatto che l’agente agisca per prossimità e per stretto contatto. È meglio dire che non tutto agisce per prossimità e per stretto contatto.

SVF II, 343

Proclo ‘In Platonis Parmen.’ Vol. V, p. 74 Cousin. [II,119,30] Quindi il secondo modello, quello del sigillo, conviene alle ipotesi degli Stoici; ipotesi le quali affermano che gli agenti agiscono e i pazienti patiscono. Infatti, c’è stato bisogno di spinta, di rigidità e di scontro; e il sigillo non è avvenuto altrimenti.

SVF II, 344

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, 9, p. 96, 11 segg. St. Si dice [II,119,35] causativo principalmente ciò che grazie alla sua attività procura un qualche effetto. Poiché noi affermiamo che il ferro è tagliente non soltanto nel momento in cui tagliamo ma anche quando non tagliamo; allo stesso modo ciò ch’è procuratorio ha entrambi i significati: sia l’essere attualmente attivo sia il non esserlo ancora, potendolo però potenzialmente diventare.

SVF II, 345

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, 9, p. 96, 11 segg. St. Alcuni [II,119,40] affermano dunque che i causativi sono ‘corpi’, altri invece che sono degli incorporei. Gli uni affermano che è il ‘corpo’ ad essere principalmente causativo, mentre l’incorporeo è tale in senso improprio e causale-formale. Gli altri rigirano queste affermazioni al contrario e chiamano causativi principalmente gli incorporei, mentre i ‘corpi’ lo sono in senso improprio.

SVF II, 346

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, 9, p. 95 St. [II,119,45] Dei causativi, alcuni sono incoativi, altri sono essenziali, altri sono sinergici, altri sono indispensabili. Gli incoativi sono quelli che procurano primariamente il movente [II,120,1] per il divenire di qualcosa: come l’avvenenza per le persone impudenti in fatto di passione amorosa; giacché l’avvenenza da essi percepita con la vista infonde in loro la disposizione erotica, non però forzatamente. Gli essenziali sono quelli che si chiamano anche, per sinonimia, ‘fini in se stessi’ poiché sono autosufficienti di per se stessi a produrre l’effetto. [II,120,5] È il caso di mostrare di seguito tutti i causativi in azione, guardando ad un allievo che sta imparando. Il padre è il causativo incoativo dell’imparare, l’insegnante è il causativo essenziale, la natura di chi impara è il causativo sinergico e il tempo ricopre il ruolo dei causativi indispensabili.

SVF II, 346a

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ LXV, 4. Gli Stoici pensano che la causa sia una sola: [II,120,10] l’artefice che fa.

[2] LXV, 11. La folla di cause che Platone e Aristotele ipotizzano ne comprende o troppe o troppo poche. Infatti, se essi giudicano causa qualunque remoto agente senza il cui concorso qualcosa è impossibile a farsi, allora ne hanno enumerate troppo poche. Mettano allora fra le cause il tempo, giacché niente può farsi senza il tempo. Mettano anche il luogo, perché se non c’è il posto dove si fa una cosa, neppure si potrà farla. [II,120,15] Mettano il movimento: senza di esso nulla nasce e nulla perisce; né c’è l’arte senza il moto: insomma nessun mutamento di nessun genere. Ma noi ora ricerchiamo la causa prima e generale, e questa dev’essere semplice come semplice è la materia. Ci domandiamo cos’è causa? La ragione creatrice, ossia dio.

SVF II, 347

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, 9, 27, 2 p. 97 St. [II,120,20] Sono dunque la stessa cosa il ‘causativo’, il ‘fattitivo’ e il ‘per cui’. Se qualcosa è causativo e fattitivo, questo è anche affatto ‘per cui’; ma se qualcosa è ‘per cui’ non è affatto detto che sia anche ‘causativo’. Molti ‘per cui’ concorrono infatti ad un unico risultato finale, ma essi non sono tutti ‘causativi’. Medea non avrebbe ucciso i figli se [II,120,25] non fosse stata adirata; non sarebbe stata adirata se non si fosse ingelosita; questo non sarebbe accaduto se ella non fosse stata preda della passione amorosa; questo non sarebbe accaduto se Giasone non avesse navigato verso la Colchide; questo non sarebbe accaduto se non fosse stata costruita la nave Argo; questo non sarebbe accaduto se i legni del Pelio non fossero stati tagliati. In tutti questi eventi c’entra il ‘per cui’, ma non tutti sono causativi dell’uccisione dei figli; uccisione della quale soltanto Medea è causa.

SVF II, 348

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, 9, 31, 1, pp. 100 segg. St. [II,120,30] Si ricerca inoltre se molti causativi possono concorsualmente portare ad un unico risultato. Alcuni dicono di sì, giacché molti uomini, tirando tutti insieme sono causativi del varo della nave, senza esserlo ciascuno da solo ma nel concorso con gli altri. E se ciò è, allora anche la concausale è un causativo. Altri affermano invece che se i causativi sono molti, ciascuno [II,120,35] singolarmente è causativo dell’unico risultato. Avviene infatti che le virtù, che sono molte, siano causativi di quell’unico risultato che è l’essere felice. Anche i causativi dell’essere accaldato e del provare dolore sono similmente molti e dunque forse le molte virtù sono potenzialmente una causa sola, come lo sono gli agenti dell’essere accaldato e del provare dolore. In questo modo la moltitudine delle virtù, che è però per genere una sola, diventa causa dell’essere felice. In effetti i causativi incoativi [II,120,40] di un unico risultato sono plurimi sia per genere che per specie. Per genere, sono causativi incoativi dell’ammalarsi agenti quali che sia, come: raffreddore, fiacchezza, un colpo, indigestione, ubriacatura; per specie, la febbre. Quelli essenziali sono causativi soltanto per genere e non per specie. Dell’emanare profumo, che è unico quanto al genere, molti sono i causativi specifici: per esempio, l’incenso, la rosa, lo zafferano, lo storace, la mirra, un’ essenza odorosa, [II,121,1] […] anche se la rosa non sarebbe così profumata come la mirra.

SVF II, 349

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, 9, 26, 1, p. 96 St. Alcuni causativi non sono tali uno dell’altro, ma uno per l’altro. La preesistente disposizione splenetica [II,121,5] non è causativo di febbre ma dell’insorgere della febbre; e la febbre preesistente non è causativo della disposizione splenetica ma dell’accrescimento di tale disposizione. Così anche le virtù, per il fatto di non essere separate ma di implicarsi reciprocamente, sono causativi una per l’altra; le pietre di un arco di volta sono causativi una per l’altra del predicato ‘rimanere dove sono’, ma non sono causativi una dell’altra; chi insegna e chi impara [II,121,10] sono causativi uno per l’altro del predicato ‘fare profitto nello studio’. Si dice a volte delle stesse persone che sono causativi uno per l’altro, com’è il caso del mercante all’ingrosso e del rivenditore al minuto, giacché sono causativi l’uno per l’altro del ‘guadagnare’; ma altre volte lo si dice di due cose diverse, com’è il caso del coltello e della carne, giacché il coltello è causativo per la carne dello ‘essere tagliata’ e la carne è causativo per il coltello del ‘tagliare’[…]

SVF II, 350

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, 9, (Vol. II, p. 933 Pott). [II,121,15] Lo stesso agente diventa causativo di effetti opposti, a volte per la sua grandezza e la sua forza, altre volte per l’idoneità a ciò di chi ne sperimenta l’azione. Per la qualità della forza: per esempio, la medesima corda musicale a seconda della sua maggiore o minore tensione restituisce un suono acuto o grave. Per l’idoneità del paziente: per esempio, il miele risulta dolce per chi è in salute e invece amaro [II,121,20] per i febbricitanti; lo stesso ed unico vino conduce gli uni all’ira e invece altri a gioiose effusioni; lo stesso sole fa fondere la cera e secca il fango […]

SVF II, 351

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, 9, 33, 1 segg., p. 101 St. Ci sono causativi incoativi, essenziali, concausali, sinergici. […] [II,121,25] Una volta rimossi i causativi incoativi, l’effetto tuttavia permane. Essenziale è il causativo in presenza del quale l’effetto permane, e rimosso il quale anche l’effetto è rimosso. Quei filosofi, per sinonimia, chiamano il causativo essenziale anche ‘fine in se stesso’, poiché è autosufficiente di per sé a produrre l’effetto. Se il causativo essenziale manifesta un’attività in sé completa, ‘sinergico’ significa causativo a ‘servizio e ufficio’ [II,121,30] di un altro causativo, e pertanto se esso questo non procura neppure sarà detta sinergico. Se invece lo procura, esso diventa a pieno diritto causativo di ciò che procura, cioè di ciò che avviene grazie ad esso. È dunque sinergico il causativo in presenza della quale si ebbe l’effetto: in modo manifesto nel caso di una sua presenza manifesta, in modo non manifesto nel caso di una presenza non manifesta. La ‘concausale’ è del genere della causativi, come [II,121,35] il commilitone è un soldato e il compagno di efebia è un efebo. Dunque mentre il causativo sinergico è di aiuto al causativo essenziale nell’intensificazione dell’effetto di quest’ultimo, la ‘concausale’ non rientra invece nel concetto di ‘essenziale’, giacché può esserci la ‘concausale’ anche quando non vi sia lo ‘essenziale’. La concausale, infatti, è pensata in compagnia di un’altra causale che da sola è incapace di produrre l’effetto, ed è così un causativo concomitante ad un causativo. Il causativo sinergico [II,121,40] differisce dalla concausale per il fatto che mentre la concausale è concomitante ad un’altra causale incapace da sola di procurare l’effetto; il causativo sinergico, invece, non produce l’effetto da solo ma, riunendosi ad un altro causativo capace da solo di produrre l’effetto, coopera con esso ad una più energica realizzazione dell’effetto. Quando poi [II,122,1] un causativo da incoativo è diventato sinergico, allora soprattutto ciò ci permette di riscontrare il prolungamento del suo potere causativo.

SVF II, 352

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 376, 77 Pott. Causativo sinergico, concausale, essenziale. [II,122,5] Il causativo che produce un effetto in compagnia di un altro causativo, il quale è imperfetto ad agire di per sé e che chiamiamo sinergico, prende il nome di concausale ed è così denominato dal fatto di essere un causativo che si riunisce ad un altro causativo di per sé incapace di fornire […] il risultato.

Dei causativi sinergici alcuni hanno più forza, [II,122,10] altri meno forza.

SVF II, 353

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 367 Pott. Io so che molti […] affermano che anche il non impedimento è un causativo. […] A costoro noi diciamo che il causativo è pensato attenere al produrre, all’agire, al compiere; e che in relazione a ciò il non impedimento è inoperoso. Inoltre il causativo è in vista dell’attività, [II,122,15] come il costruttore di navi ha il pensiero rivolto all’allestimento dello scafo e l’edificatore alla costruzione della casa. Invece il non impedimento è separato dal divenire […]

SVF II, 354

Ps. Galeno ‘Definitiones medicae’ 154-160, Vol. XIX, p. 392 K. I causativi sono incoativi, antecedenti, essenziali, fini in se stessi, concausali, sinergici.

SVF II, 355

[1] Galeno ‘Adversus Iulianum’ 6, Vol. XVIII A, p. 298 K. [II,122,20] A proposito dei causativi essenziali è stato d’altr’onde detto, poiché noi dimostriamo che il nome e la faccenda stessa dalla quale esse prendono il nome appartengono alla scuola Stoica; che i medici più recenti non concepiscono e non denominano correttamente tutto questo genere di questioni; e che se noi, seguendoli spesso per non sembrare [II,122,25] qualcuno che bisticcia sui nomi, conveniamo nel chiamare così taluni causativi, ciò però non vale, per Zeus, nel caso di quanti semplicemente sono causativi, bensì di quanti possiedono la qualità di essere essenziali nel diventare tali.

[2] p. 298. Neppure è da dirsi che il causativo essenziale rientri in un concetto diverso da quello che un certo effetto si instaura in sua presenza e cessa in sua assenza, eccetto che [II,122,30] anche in questo caso tutt’a un tratto, come ha fatto in altre circostanze, egli <Giuliano> afferma di essere uno Stoico. Ma una volta effettuato ciò, egli <Giuliano> dichiarerà che qualcosa è causativo non soltanto della malattia ma anche della stessa salute, e sarà costretto a dire che anche il caldo e il freddo, il secco e l’umido sono malattie, cosa però che egli non vuole che siano. Dunque non vaneggi delle sciocchezze e non s’immagini al modo degli stupidi ora una cosa ora un’altra, una volta [II,122,35] lodando gli Stoici e un’altra volta togliendo di mezzo le loro dottrine.

SVF II, 356

Galeno ‘Synopsis med. de pulsibus’ 9, Vol. IX, p. 458 K. È d’uopo tuttavia ricordare come noi, primi fra tutti e sfruttando quell’appellativo, affermassimo di denominare il causativo ‘essenziale per così dire’ quando essa non lo era principalmente. Quella principalmente detta causativo essenziale, nessuno la denominò così prima degli Stoici [II,122,40] e neppure convenne che esistesse; e quelle che prima di noi erano dette ‘essenziali per così dire’ erano causativi della genesi di qualcosa, non della sua esistenza.

[II,123,1] § 4. Sui corpi. Cos’è corpo. Solo i corpi esistono, non le idee. Tre generi di corpi

Frammenti n. 357-368

SVF II, 357

Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 143, 24 W. (Ario Didimo ‘Dox. Gr.’ p. 457, 17). Corpo è ciò che ha tre dimensioni: larghezza, profondità, [II,123,5] lunghezza. Queste dimensioni sono intese in più modi. A volte si dice che la lunghezza è la massima dimensione del corpo, a volte che è soltanto la sua dimensione dal basso verso l’alto. La larghezza è a volte considerata la seconda dimensione, a volte la dimensione da destra a sinistra. La profondità è a volte la dimensione interna del corpo, a volte quella dal davanti al dietro. Poiché né la sfera né i quadrati [II,123,10] né simili figure hanno queste dimensioni, si parla di loro nel primo modo; si parla invece nel secondo modo di ogni corpo avente le tre dimensioni, a causa del fatto che in ogni posizione esso cade entro questo tipo di definizione.

SVF II, 358

Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 36, I, p. 11, 9 Wendl. Il corpo è per sua natura solido, perché ha tre dimensioni. Quale altro concetto esiste di corpo solido [II,123,15] se non quello di oggetto a molte dimensioni?

SVF II, 359

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 436 Pott. Essi sostengono fermamente che esistente è soltanto ciò ch’è soggetto ad urto e contatto, e così definiscono identici ‘corpo’ e ‘sostanza’. Altri, invece, sono in disaccordo con loro e difendono rigorosamente l’idea che la sostanza provenga dall’alto, da una qualche parte invisibile, e fanno ogni sforzo per mostrare che gli enti intelligibili e le idee incorporee [II,123,20] sono la vera sostanza.

SVF II, 360

Aezio ‘Placita’ I, 10, 5. Gli Stoici seguaci di Zenone solevano affermare che le idee sono nostre concettualizzazioni.

SVF II, 361

Siriano ‘In Aristot. Metaph.’ p. 104, 15 segg. Kroll. […] delle cose particolari, le quali sia che fluissero di continuo, […] sia che nascessero [II,123,25] e perissero, perdurerebbero però nel loro insieme grazie alla causa ideale, […] sia che uno li chiamasse ‘esseri’, come soleva chiamarli Aristotele; sia che uno dicesse che soltanto essi esistono, come affermano gli Stoici.

SVF II, 362

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 17A Ed. Bas. Ma quelli aboliscono la natura dei concetti universali e ritengono che essi esistano soltanto nei particolari, [II,123,30] non prevedendone da nessuna parte l’esistenza autonoma.

SVF II, 363

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 263. Secondo gli Stoici, ciò ch’è incorporeo per sua natura né agisce né subisce.

SVF II, 364

Siriano ‘In Aristot. Metaph.’ (Aristot. Acad. V, 892, 14). Da parte di questi uomini divini le idee [II,123,35] non erano messe innanzi nell’accezione consueta dei nomi, come invece successivamente credettero Crisippo, Archedemo e la maggior parte degli Stoici; giacché c’erano molte differenze tra le idee di per sé e le cose che si dicono in linguaggio consueto.

SVF II, 365

Proclo ‘In Euclidem’ 35, 25, p. 395 Friedlein. (I parallelogrammi [II,123,40] aventi la stessa base e contenuti entro le stesse parallele [II,124,1] sono equivalenti.) Crisippo, come afferma Gemino, equiparava tali teoremi alle idee. Infatti, come le idee circoscrivono la genesi di infinite entità entro termini definiti, così pure in questi teoremi avviene la circoscrizione di infiniti elementi entro spazi definiti. [II,124,5] L’equivalenza compare a causa di questa delimitazione. Permanendo, infatti, identica l’altezza delle parallele e pensati infiniti parallelogrammi sulla stessa base, è chiaro che tutti sono equivalenti tra di loro.

SVF II, 366

Plutarco ‘Praec. coniug.’ p. 142f. I filosofi dicono che alcuni dei corpi sono formati da elementi disparati, come una flotta e [II,124,10] un’armata; altri da parti ben rannodate, come una casa e una nave; altri ancora sono invece corpi unitari e connaturati, come ciascuna creatura vivente. […] Come i fisici dicono dei liquidi che la loro mescolanza è totale, bisogna dunque che così[…]

SVF II, 367

Plutarco ‘De defectu oraculorum’ p. 426a. Anche qui fra di noi un unico corpo: per esempio, un’assemblea, un esercito, un coro, [II,124,15] non consta spesso di corpi disparati? A ciascun elemento di essi avviene di vivere, di pensare, di imparare – come Crisippo crede – e invece che vi siano dieci mondi nell’universo […] i quali utilizzano un’unica ragione […] è questo impossibile?

SVF II, 368

Achille ‘Isagoge’ 14, p. 41 Maass. (Cos’è una stella, cos’è una costellazione?) Si dicono corpi unitari tutti quei corpi, come una pietra o del legno, [II,124,20] che sono tenuti assieme da un’unica forza di coesione. Questo legame è lo pneuma essenziale che tiene unito il corpo. Corpi ben rannodati sono tutti quelli, come un bastimento e una casa, legati non da un unico legame. Infatti, il bastimento consta di molti tavolati e la casa di molte pietre. Corpi disparati sono quelli come un coro. I corpi di questo genere sono di due tipi. Alcuni di essi sono formati da corpi definiti e in numero comprensibile, come appunto un coro; altri invece da un numero indefinito di essi, com’è per una folla. Una stella [II,124,25] sarebbe dunque un corpo unitario, mentre una costellazione consterebbe invece di corpi disparati e definiti, giacché per ciascuna costellazione si mostra il suo numero di stelle.

§ 5.Le quattro categorie

Frammenti n. 369-375

SVF II, 369

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 16D Ed. Bas. Gli Stoici sollecitano la riduzione del numero dei generi primi, e tra questi [II,124,30] così ridotti ne assumono alcuni in forma mutata. La divisione che essi operano è in quattro generi primi: ‘substrati’, ‘qualificazioni qualitative’, ‘modalità’, ‘modalità di relazione’; ed è manifesto che così facendo ne omettono molti. Senz’altro omettono la quantità, ma anche i generi riguardanti tempo e spazio. Infatti, se essi ritengono che la modalità abbracci i generi omessi perché ‘l’anno scorso’ o ‘nel Liceo’ o [II,124,35] ‘stare seduto’ o ‘avere le scarpe’ tendono come a disporsi secondo uno dei loro quattro generi; in primo luogo, essendo molta la differenza tra tutte queste cose, la comunanza tra di esse della ‘modalità’ fa di questa qualcosa di per sé disarticolato. In secondo luogo, questo comune genere della modalità si acconcerà anche al genere ‘substrato’ e soprattutto al genere ‘quantità’, giacché anche questi sono modi di disporsi.

SVF II, 370

Dexippo ‘In Aristot. categ.’ p. 5, 18 Busse. [II,124,40] Ho all’incirca capito che contro un’ipotesi filosofica diversa non sono nate più numerose obiezioni [II,125,1] né sono state mosse battaglie più grandi di quelle degli Stoici e dei Platonici che mettono mano a far vacillare le ‘categorie’ di Aristotele […]

SVF II, 371

Plotino ‘Enneadi’ VI, I, 25, 1 segg. Ci sarebbe molto da dire [II,125,5] contro coloro che, suddividendo l’essere in quattro, pongono questi quattro generi: ‘substrati’, ‘qualificazioni qualitative’, ‘modalità’, ‘modalità di relazione’; pongono poi al di sopra di essi il comune ‘qualcosa’ e così abbracciano tutto in un unico genere, poiché assumono il comune ‘qualcosa’ come unico genere al di sopra di tutti i generi. Questo loro ‘qualcosa’ è al di fuori di ogni intelligente comprensione, è illogico e non s’adatta a convenire insieme a ‘corpi’ [II,125,10] e ad ‘incorporei’. Essi, inoltre, non hanno lasciato sussistere differenze con le quali suddividere il ‘qualcosa’.

SVF II, 372

Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 94, 11 Diels. Perciò <Aristotele> affermava che l’essere è plurimodale; eccetto che le altre categorie sono accidenti della sostanza secondo la quale l’oggetto si caratterizza. Perciò, da un lato, alcuni abolivano le altre categorie, [II,125,15] come facevano gli Stoici contro l’evidenza; e dall’altro lato, chi dice che anche le altre categorie esistono similmente alla sostanza è ancor più in errore.

SVF II, 373

Plotino ‘Enneadi’ VI, I, 25, 10 segg. È il caso di prendere in esame la diairesi stessa. Posizionando il substrato al primo posto e preordinando l’oggetto materiale agli altri generi, [II,125,20] essi coordinano quello che a loro appare come il principio primo ai generi che vengono dopo questo loro principio. […] Poiché essi affermeranno anche, io credo, che è dalla materia che viene agli altri generi l’essere. Quando poi essi danno al substrato il numero uno, essi non stanno enumerando gli esseri ma stanno ricercando i principi degli esseri: e c’è differenza tra parlare di principi e parlare di esseri. Se essi affermeranno che unico essere è la materia e che tutto il resto sono affezioni della materia, non sarebbe d’uopo preordinare all’essere e agli altri generi l’unico genere del ‘qualcosa’. [II,125,25] Piuttosto essi direbbero meglio se dicessero che il ‘qualcosa’ è la sostanza, che tutto il resto è affezione di questa sostanza e se procedessero alla diairesi di queste affezioni. E quanto al dire: ‘i substrati, e poi tutto il resto’; poiché per loro la materia è unica e indifferenziata ma spezzettata in parti come una massa (ma di essa neppure si potrebbe dire che è spezzettata, giacché secondo loro la sostanza è continua), meglio sarebbe dire: ‘il substrato’.

SVF II, 374

Dexippo ‘In Aristot. categ.’ p. 23, 25 Busse. [II,125,30] In risposta a questa controversa questione è d’uopo dire che sia secondo gli Stoici, sia secondo i filosofi più antichi il substrato è duplice. Uno è il substrato detto ‘primo’ e inteso come materiale senza qualità, che Aristotele chiama corpo in potenza. Secondo è il substrato come qualificazione qualitativa, quello che sottostà in comune o singolarmente, giacché [II,125,35] sia il bronzo sia Socrate sono substrati delle cose che s’ingenerano o che si predicano a loro proposito. Il substrato apparirebbe chiamarsi così per la relazione che ha con qualcosa (in quanto è substrato di qualcosa), o ‘semplicemente’ come substrato degli eventi che in esso avvengono e di esso si predicano, oppure ‘peculiarmente’. ‘Semplicemente’ il substrato di tutti gli eventi e di tutti i predicati è la ‘materia prima’; mentre ‘peculiarmente’ il substrato [II,125,40] di alcuni eventi e predicati che lo riguardano può essere ‘il bronzo’ e può essere ‘Socrate’. Essendo quindi due i tipi di substrato, molti eventi, in relazione al primo, sono nel substrato; e in relazione al secondo non sarebbero nel substrato ma parti di esso.

SVF II, 375

Plotino ‘Enneadi’ IV, VII, 9. È manifesto dalle prove che seguono, che anche i corpi possono ciò che possono grazie a delle facoltà che sono incorporee. [II,125,45] Essi ammetteranno, infatti, che qualità è altro da quantità, che ogni corpo è quantità e che non ogni corpo ha una qualificazione qualitativa, com’è appunto il caso della materia priva di qualità. Una volta ammesso ciò, [II,126,1] essi ammetteranno che la qualità, essendo altro dalla quantità, è altro anche dal corpo; giacché come potrà la qualificazione qualitativa, che è priva di quantità, essere corpo se ogni corpo è quantità? […] Ora, il fatto che la materia rimanga la stessa, poiché com’essi affermano è corpo, e che faccia cose diverse perché aggiunge a sé le qualità: come può non rendere manifesto che le qualità che le sopravvengono sono ragioni immateriali [II,126,5] ed incorporee?

§ 6. Qualità, qualificazioni qualitative, qualificazioni qualitative peculiari

Frammenti n. 376-398

SVF II, 376

Plotino ‘Enneadi’ VI, I, 29, 1 segg. Secondo loro bisogna che le qualificazioni qualitative siano altro dai substrati materiali, e lo dicono; giacché altrimenti non le enumererebbero per seconde […] Se essi dicessero che le qualificazioni qualitative sono materia di una certa qualità; [II,126,10] in primo luogo tali forme razionali inerirebbero alla materia, ed essendo immanenti in essa non produrranno alcun composto, bensì esisteranno prima del composto di materia e forma che formeranno: e dunque esse saranno né forme né razionali. E se dicessero che le forme razionali altro non sono che materia in una certa modalità, diranno con ciò manifestamente che le qualificazioni qualitative sono modalità, e che dunque vanno posizionate nel terzo genere. E se questa relazione fosse diversa, qual è la differenza? Qui non è manifesto che [II,126,15] la modalità è piuttosto realtà sostanziale?

SVF II, 377

Ps. Galeno ‘De qualitat. incorp.’ 1, XIX, p. 463 K. Si tratterebbe del discorso sulle qualità e su tutti gli accidenti, che i seguaci degli Stoici affermano essere corpi.

SVF II, 378

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 57E Ed. Bas. Gli Stoici [II,126,20] dicono che il comune concetto di ‘qualità’ applicato ai corpi è quello di una differenza di sostanza discernibile come tale, che termina e si racchiude in un’intellezione di identità specifica, non richiede tempo o sforzo per prendere forma ma la ‘siffattità’ di essa differenza, in accordo con la quale si ha la genesi della qualificazione qualitativa. In questo campo, secondo il loro ragionamento, se è impossibile che esista una proprietà accidentale comune a corpi [II,126,25] e ad incorporei, la qualità non sarà più un genere […]

SVF II, 379

Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ IV, p. 181 Ald. In tal modo si abolirebbe l’idea che la qualità sia una modalità dello pneuma o della materia. […] Chi dice che il pugno è una modalità della mano è in errore, giacché il pugno non è la mano; piuttosto il pugno è ‘nella mano’ come nel suo substrato.

SVF II, 380

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1085e. [II,126,30] Essi dicono inoltre che la sostanza o materia fa da sostegno alle qualità, sì che questo fatto quasi ce ne dà la definizione; e poi fanno delle qualità, a loro volta, sostanze e corpi. Ciò è molto sconcertante. Infatti, se le qualità hanno una loro peculiare sostanza grazie alla quale sono chiamate e sono ‘corpi’, non hanno alcun bisogno di un’altra sostanza giacché posseggono [II,126,35] già la loro. Se invece fa loro da sostegno quest’unica entità comune che essi chiamano sostanza o materia, è manifesto che le qualità partecipano del ‘corpo’ ma non sono ‘corpi’, giacché ciò che fa da sostegno ed accoglie necessariamente è differente da ciò ch’è accolto e cui fa da sostegno. Essi insomma guardano solo alla metà dei fatti, giacché chiamano la materia ‘priva di qualità’ e poi non vogliono chiamare le qualità ‘immateriali’.

[2] p. 1086a. Il ragionamento [II,126,40] che alcuni di loro ci mettono innanzi, denominando la sostanza ‘priva di qualità’ non perché ad essa manchi ogni qualità ma perché le ha tutte, è contrarissimo ad ogni concetto di comune buonsenso.

SVF II, 381

Ps. Galeno ‘De qualitat. incorp.’ 10, XIX, p. 483 K. [II,127,1] Se anche ciascun accidente è corpo, cos’hanno in mente quando affermano che soltanto il corpo si lascia tagliare all’infinito e non pure, per esempio, la figura, la dolcezza e ciascun altro accidente; e non al modo di cose congiunte per incastro [II,127,5] né in riferimento a quello chiamato per consuetudine corpo ma, dico, in senso diretto e proprio? Perché, come dicevo, del solo corpo danno questa definizione: ‘ciò che ha tre dimensioni e resistenza all’urto’; e non definiscono così anche il colore superficiale, il sapore, la succosità e ciascun altro accidente? Se affermano che tutti questi sono corpi (anche se differiscono per specie, essi affermano che hanno [II,127,10] in comune di essere tutti corpi), quando definiscono ciascun accidente dicano allora che è una sostanza somatica tridimensionale capace di resistenza all’urto.

SVF II, 382

Ps. Galeno ‘De qualitat. incorp.’ 3, 4, XIX, p. 471 K. L’incertezza del discorso cresce e s’intensifica se anche la lunghezza, la larghezza e la profondità dei corpi sono ‘corpo’. Dico, entro il breve [II,127,15] e circoscritto spazio necessario in vista della sensazione, contemporaneamente le infinità dei corpi diventeranno infinite; e la moltitudine di questi molteplici, anzi piuttosto infiniti, corpi è forse allora sempiterna? Come potranno ancora affermare che la sostanza prima, dalla quale dicono sia nato il cosmo e ciascuna delle sue specie particolari, è priva di qualità?

SVF II, 383

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 69Γ Ed. Bas. Nemmeno l’opinione [II,127,20] degli Stoici, i quali dicono che anche le figure, come pure le altre qualificazioni qualitative, sono corpi, è in accordo con l’opinione di Aristotele.

SVF II, 384

Ps. Galeno ‘De qualitat. incorp.’ 2, XIX, p. 467 K. [dopo avere cercato di dimostrare che lunghezza, larghezza, profondità, peso, figura non sono ‘corpo’] […] un discorso simile vale per tutti i restanti accidenti: per i colori, i sapori, le percezioni olfattive e uditive, le voci, i discorsi, [II,127,25] i fischi, i mugolii, gli schiocchi, i sospiri, i rutti, i russamenti, i rimbombi, gli echi, i fracassi. Se poi uno dicesse che tutti questi accidenti e tutti quelli di questo genere sono aria percossa in un certo modo, ben gli si potrebbe ribattere questo verso di Menandro:

‘Questi accidenti t’hanno mandato in malora, o disgraziato’

[II,127,30] che qualcosa del genere non si capisce senza il corpo. […] Pertanto neppure la percossa dell’aria è aria […]

SVF II, 385

Ps. Galeno ‘De qualitat. incorp.’ 6, XIX, p. 480 K. Orbene, queste affermazioni non sono assurde per degli uomini ansiosi di vittorie? Infatti, essi affermano che sono ‘corpo’ i movimenti che sopravvengono ai corpi e che poi da essi spariscono. […] [II,127,35] Ma se li chiamassero ‘corpo’ in senso metaforico, io non me la prenderei con loro […] Se invece lo dicono in senso primario e principale, essi sono in errore.

SVF II, 386

Ps. Galeno ‘De qualitat. incorp.’ 4, XIX, p. 473 K. Se anche la luce è ‘corpo’, e lo sono pure la bianchezza e il calore; e se ogni corpo è [II,127,40] un’entità qualificata per quantità e per grandezza ed ha per natura capacità di accrescimento; secondo loro l’acqua illuminata [II,128,1] e riscaldata dai raggi del sole diventa di più e più grande, e per questo ha bisogno di occupare uno spazio maggiore.

SVF II, 387

Aezio ‘Placita’ IV, 20, 2. Gli Stoici affermano che la voce è ‘corpo’, giacché tutto ciò che compie e fa un’azione è corpo e la voce questo fa e compie. Noi l’ascoltiamo [II,128,5] e ci accorgiamo quando essa incoglie il nostro udito e lo modella in rilievo come fa un dito con la cera. Anche tutto ciò che ci commuove e ci importuna è corpo: una musica armoniosa ci commuove e una musica stonata ci importuna. Tutto ciò che si muove, inoltre, è corpo; e la voce incoglie le superfici lisce e ne è riflessa indietro come fosse la palla scagliata contro un muro. [II,128,10] Nelle piramidi egizie, poi, la voce che si spezza al loro interno rende quattro o cinque echi.

SVF II, 388

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 54B Ed. Bas. Alcuni filosofi abolivano certe qualità mentre ne lasciavano sussistere altre. Dei filosofi che concedevano realtà sostanziale alle qualità, alcuni le ritenevano tutte incorporee, com’è il caso degli antichi. Altri, invece, [II,128,15] ritenevano incorporee le qualità degli incorporei e corporee quelle dei corpi, com’è il caso degli Stoici.

SVF II, 389

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 56D Ed. Bas. Gli Stoici dicono che le qualità dei corpi sono corporee e quelle degli incorporei sono incorporee. Inciampano però quando ritengono che i causativi e i loro effetti siano consustanziali, e quando ipotizzano un discorso comune per la causa delle qualità [II,128,20] sia dei corpi che degli incorporei. Come potrà essere fatta di pneuma la sostanza delle qualità corporee se lo stesso pneuma è un’entità composta, che consta di più elementi ed è quindi divisibile in parti, la cui unione è un’unione acquisita sicché per essenza non ha potere unificante neppure primariamente per se stesso? Come potrebbe dunque procurare ad altri [II,128,25] questa coesione?

SVF II, 390

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 55A Ed. Bas. Se Aristotele lascia nel novero di ciò ch’è nostro le qualità possedute e le attività – mentre i seguaci dell’Accademia le considerano entrambe esterne a noi e gli Stoici, fondendo insieme le due opinioni, annoverano come nostre le ‘qualità possedute’ ed esterni a noi attività e operazioni – [II,128,30] in armonia con la propria dottrina Aristotele congiunse la qualificazione qualitativa alla qualità come entrambe nostre. Alcuni Stoici danno tre definizioni della qualificazione qualitativa e dicono che due di esse incorporano significati più ampi della qualità, mentre uno, o parte di esso, corrisponde esattamente alla definizione di qualità. Infatti essi chiamano qualificazione qualitativa, in un primo significato, qualunque differenza sia in stato di moto sia in stato di quiete, sia essa di difficile [II,128,35] oppure di facile eliminazione. In questo senso non soltanto il saggio e chi protende il pugno, ma anche chi corre è un’entità qualitativamente qualificata. In un altro senso essi non prendevano più in considerazione gli stati di moto ma soltanto gli stati di quiete, e così definivano come qualificazione qualitativa l’essere ‘in stato di differenza’ quale sarebbe, ad esempio, il saggio o chi è in posizione di difesa. Rispetto a questi stati permanenti di differenza, alcune persone [II,128,40] sono perfettamente conformi all’enunciazione che di essi si dà e al divisamento che di essi si ha, mentre altre non sono loro perfettamente conformi. Essi schivavano la considerazione di questi ultimi e ponevano come qualitativamente qualificati gli individui perfettamente conformi agli stati permanenti di differenza. Perfettamente conformi alla differenza chiamavano pertanto coloro, come il grammatico e il saggio, che possono essere identificati con la qualità; giacché nessuno di questi due ha di più o di meno della qualità che è sua; e similmente [II,128,45] si può dire ciò di chi ama mangiare il pesce o bere il vino. Invece, le persone di questo genere in ragione della loro attività, com’è il caso dell’ingordo mangione di pesce o di chi si ubriaca di vino, si chiamano così [II,129,1] quando hanno a disposizione i cibi particolari di cui voluttuosamente fruiscono. Perciò se uno è un ingordo mangione di pesce è anche in ogni caso uno che ama mangiare il pesce; ma se uno ama mangiare il pesce non è in ogni caso un ingordo mangione di pesce. Se, infatti, vengono a mancare i cibi particolari dei quali è ingordo mangione, l’ingordigia si licenzia da lui ma la postura abituale dell’animo suo per cui ama mangiare il pesce non è sparita. Se dunque la qualificazione qualitativa può essere espressa in tre modi diversi, la qualità si appariglia bene alla qualificazione qualitativa [II,129,5] secondo l’ultimo esempio di qualificazione qualitativa che abbiamo fatto. Perciò qualora essi definiscano la qualità come una qualificazione qualitativa in stato di quiete, si deve intendere la definizione assumendola nella terza accezione di qualificazione qualitativa; giacché secondo gli Stoici la qualità è definita in un solo modo, mentre della qualificazione qualitativa si può parlare in tre modi.

SVF II, 391

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 55E Ed. Bas. Sulla base delle loro ipotesi, [II,129,10] gli Stoici potrebbero essere condotti alla stessa aporia ad opera del discorso il quale afferma che tutte le qualificazioni qualitative sono raccolte sotto il termine generale di ‘qualità’. Mentre affermano che le ‘qualità’ sono ‘qualità possedute’, essi lasciano esistere ‘qualità possedute’ soltanto nel caso di entità unitarie. Nel caso di entità formate per congiunzione di parti – come una nave – e di quelle formate da parti disparate – come un esercito – non esiste alcuna ‘qualità posseduta’ né è possibile trovare in esse un qualche pneuma o qualcosa [II,129,15] avente una ragione singola, così che quell’entità pervenga alla realtà sostanziale di una unica forza di coesione. Però la qualificazione qualitativa è da loro prevista sia nel caso di entità formate da parti congiunte, sia nel caso di entità formate da parti disparate. Infatti, come il grammatico si mantiene differente dal non grammatico grazie all’assunzione di certe conoscenze ed al loro continuo esercizio, così pure il coro si mantiene differente grazie ad uno studio qualitativamente qualificato. Perciò esistono qualificazioni qualitative per assegnazione di se stessi ad un’attività, e qualificazioni qualitative per cooperazione ad un’unica opera, [II,129,20] e dunque esistono entità qualitativamente qualificate a prescindere dalla qualità. In queste entità non vi è una forza di coesione e, in complesso, neppure tra sostanze separate e non aventi alcuna connaturata unione tra di loro esiste qualità o forza di coesione. Ma se esiste qualificazione qualitativa e non esiste qualità, essi non potrebbero più affermare che queste due cose corrispondono esattamente una all’altra, né è possibile che la qualità ci sia restituita attraverso la qualificazione qualitativa. A queste argomentazioni è possibile ribattere che la ‘forma ideale’,poiché è incorporea, [II,129,25] sempre unica e identica a se stessa pertiene e s’estende ad una moltitudine di oggetti restando ovunque interamente la stessa. Se è così, allora esisterà anche un’unica ‘qualità’ che pervaderà le entità formate da parti connesse o disparate qualitativamente qualificate. Se qualcuno, tuttavia, non accettasse siffatta ipotesi perché completamente aliena alla scuola Stoica, è il caso di ricusare con forza…

SVF II, 392

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 70E Ed. Bas. [II,129,30] Gli Stoici fanno esistere le qualità di qualità e posture abituali che fanno di se stesse qualità possedute.

SVF II, 393

[1] Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 61B Ed. Bas. Merita decifrare la nomenclatura consueta a tutti gli Stoici a proposito di questi nomi. Al contrario di Aristotele, sembra ad alcuni che essi ritengano la ‘disposizione’ una condizione [II,129,35] più duratura della ‘postura’. Il motivo di una congettura del genere trova spunto non nel fatto che la differenza tra questi due termini sia stata assunta da Aristotele più o meno duratura che dagli Stoici, ma per il riferimento a ‘disposizioni’ diverse. Infatti, gli Stoici affermano che le ‘posture’ possono intensificarsi o attenuarsi, mentre le ‘disposizioni’ non sono passibili di intensificazione e di attenuazione. Perciò dicono anche che la dirittezza di una verga, pur se essa è facilmente mutabile poiché può essere piegata, [II,129,40] è una ‘disposizione’. La dirittezza, infatti, è né attenuata né intensificata, non possiede un più e un meno, e quindi è una ‘disposizione’. Allo stesso modo anche le virtù sono ‘disposizioni’, non secondo la peculiarità dell’essere durature ma per la loro non suscettibilità all’intensificazione o ad accogliere un di più. Invece le arti, seppure difficili da muovere ad un più o ad un meno non sono ‘disposizioni’. Gli Stoici sembrano individuare il carattere principale della ‘postura’ nell’ampio numero delle sue forme possibili [II,129,45] e quello della ‘disposizione’ nella perfezione della sua forma, [II,130,1] sia se questa forma fosse particolarmente soggetta a subire movimenti o mutamenti, com’è il caso della dirittezza della verga, sia se non lo fosse. Ancor più all’uopo sarebbe sapere se quello che per gli Stoici è lo ‘stato’ sia identico a quella che per Aristotele è la ‘disposizione’, la quale si scevera dalla ‘postura’ per il fatto che quest’ultima è facile da sciogliere e invece l’altra si scioglie con difficoltà; ma neppure su questo essi sono d’accordo. [II,130,5] Aristotele sostiene che la salute malferma è una ‘disposizione’; mentre gli Stoici, qualunque sia la salute, non convengono nel chiamarla uno ‘stato’, dal momento che porta in sé la peculiarità di una ‘postura’. Gli ‘stati’, infatti, sono caratterizzati da condizioni acquisite dall’esterno, mentre le ‘posture’ sono caratterizzate dalle attività stesse che sono compiute; e perciò, secondo loro, le ‘posture’ non ricevono una specificità dalla lunghezza o dal potere del tempo, ma da una certa peculiarità e un certo carattere. Come i vegetali che mettono radici [II,130,10] ne mettono di più o di meno, ma lo loro comune peculiarità è quella di tenersi ben attaccati alla terra, così pure la ‘postura’ è vista sempre identica a se stessa sia nel caso di ‘posture’ facilmente che difficilmente mobili. In complesso, molte entità qualificate per appartenenza ad un genere -per esempio: il vino secco, delle mandorle amare, un cane molosso o uno maltese – possono presentare infiacchita il carattere peculiare che li specifica. Esse hanno tutte parte nel carattere proprio del loro genere, [II,130,15] ma in piccola proporzione e in modo attenuato, e mentre per quanto attiene alle forme razionali proprie della ‘postura’, questa permane in un’unica condizione, la sua facile mobilità ha spesso un’altra causa. Gli Stoici ampliano il concetto di ‘postura’ in modo da inglobare in esso anche quelle che Aristotele chiama ‘disposizioni facilmente mobili’, e ritengono che queste ‘posture’ differiscano molto dallo ‘stato’. La ‘postura’ di chi sta recuperando la salute è ben lontana e diversa da quella di chi sta seduto o [II,130,20] è in posizione di difesa e da quelli che sono ‘stati’. Le ‘posture’, infatti, sono prive di radici, non sono abiti solidificati. Invece essi dicono che gli ‘stati’ si sostengono a tal punto che, una volta lasciati, essi perdurano per quanto possono da se stessi, procurandosi una sorta di automantenimento dalla ragione loro attinente. Per questo motivo un qualunque ‘stato’ che sia difficile da sciogliere non è chiamato dagli Stoici ‘postura’. Se la difficoltà a sciogliersi proviene dall’esterno, com’è il caso di un dito [II,130,25] che si trovi in un guanto, il dito non sarebbe in ‘postura’ di una condizione siffatta. Ma se il dito procurasse da se stesso l’atto d’essere dentro il guanto allora esso sarebbe in ‘postura’, come l’argilla che muta in coccio giacché è essa da se stessa che diventa tale. Basta, queste faccende risultino così indagate.

[2] f. 72Δ. La terza scelta in proposito è quella degli Stoici, i quali [II,130,30] separano nettamente le virtù dalle arti medie ed affermano che le virtù sono passibili né di intensificazione né di attenuazione mentre le arti medie sono passibili sia dell’una che dell’altra. Secondo loro, pertanto, delle ‘posture’ e delle ‘entità qualitativamente qualificate’, queste ultime né s’intensificano né s’attenuano, mentre le ‘posture’ sono passibili di entrambe le cose.

SVF II, 394

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 17, 15 Bruns. La forma non potrebbe essere corpo neppure [II,130,35] secondo coloro i quali affermano che ogni corpo è materia o origina dalla materia (come reputano gli Stoici).

[2] p. 17, 21. Se dicessero che la forma origina da materia e forma, e non da un’altra forma ma da una forma che condivide l’essere con la materia; allora secondo loro la materia non sarebbe più priva di qualità e ragione di se stessa.

[3] p. 18, 7. [II,130,40] Inoltre, non è assurdo mettere insieme la ‘materia’ prendendo la forma e la qualità e poi aggiungendovi una certa qual materia? Eppure è necessario che raccolgano questo frutto coloro i quali affermano che la forma e la qualità sono corpo insito nella materia.

SVF II, 395

Simplicio ‘In Aristot. De anima’ p. 217, 36 Hayd. […] se anche nei composti esiste quella forma unica e specifica [II,130,45] chiamata peculiarmente dagli Stoici ‘qualificazione qualitativa’; forma che tutta insieme sopravviene e tutta insieme se ne va, che perdura identica lungo tutta vita del composto anche se dei pezzi differenti di esso ora nascono ed ora periscono.

SVF II, 396

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1077d. [II,131,1] In effetti è invece contrario ad ogni concetto di comune buonsenso quel che plasmano fittiziamente questi <Stoici>, i quali affermano che in una sola sostanza ci possono essere due peculiari qualificazioni qualitative, e che la medesima sostanza avente una sola e peculiare qualificazione qualitativa ne può accogliere in seguito un’altra e custodirle intatte [II,131,5] entrambe.

SVF II, 397

Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 236, 6B. Crisippo, dunque il più valido di loro <Stoici>, nei libri ‘Sull’accrescimento’ fa un mostruoso ragionamento di questo genere. Dopo avere strutturato l’argomentazione secondo cui è inconcepibile che due peculiari qualificazioni qualitative sussistano nella medesima sostanza, afferma: “ [II,131,10] Si supponga di divisare in via teorica l’esistenza di un individuo fisicamente integro e quella di un individuo sprovvisto di un piede; che l’individuo fisicamente integro si chiami Dione e quello imperfetto Teone; e che, in seguito, uno dei due piedi di Dione venga mozzato”. Se si ricerca chi dei due risulta menomato, è più appropriato essere dell’avviso che lo sia Teone. [II,131,15] Ma questa risposta è più da persona che dice paradossi che da persona che dice il vero. Com’è possibile che chi non ha subito mutilazione di parti, ossia Teone, sia da considerare uno scerpato; mentre invece Dione, cui è stato amputato un piede, vada considerato non fisicamente rovinato? “Convenientemente, afferma <Crisippo>, Dione cui è stato reciso un piede è disceso nella sostanza imperfetta di Teone, ma due [II,131,20] peculiari qualificazioni qualitative non possono essere nello stesso soggetto. Pertanto di necessità uno rimane Dione e l’altro fisicamente rovinato Teone”.

<Nelle pagine successive Filone, con questa argomentazione di Crisippo riferita al cosmo, fa sì che: “Nella conflagrazione universale va in rovina l’anima del cosmo, [II,131,25] ma il cosmo permane”.>

SVF II, 398

Siriano ‘In Aristot. Metaph.’ (Aristot. Acad. V, 852, 3). Anche gli Stoici pongono le qualificazioni qualitative comuni a tutti prima delle qualificazioni qualitative peculiari di ciascuno.

§ 7. Modalità e modalità di relazione

Frammenti n. 399-404

SVF II, 399

Dexippo ‘In Aristot. categ.’ p. 34, 19 Busse. Se uno coordinasse [II,131,30] la maggior parte delle categorie alla ‘modalità’, come fanno gli Stoici, bisogna mostrargli con tutta chiarezza che essi in questo modo omettono la maggior parte delle qualificazioni esistenti, ossia quelle di spazio, di tempo, le qualificazioni quantitative per numero e per grandezza, l’avere le scarpe e altre di questo tipo. Nulla del genere, infatti, è incluso nella ‘modalità’.

SVF II, 400

Plotino ‘Enneadi’ VI, I, 30, 1 segg. Circa le qualificazioni modali, [II,131,35] è parimenti assurdo porle al terzo posto o in qualunque altra posizione nella serie, poiché tutte le modalità hanno a che fare con la ‘materia’. Gli Stoici affermeranno però che esistono modalità differenti e che sono cose diverse il fatto che la materia sia atteggiata secondo questa o secondo quest’altra modalità [II,132,1] e il fatto che vi sia differenza tra le modalità. Diranno inoltre che esistono le qualificazioni qualitative della materia atteggiata modalmente e che esistono le modalità peculiari delle qualificazioni qualitative. Ma dal momento che proprio le qualificazioni qualitative non sono altro che modalità della materia, le modalità per loro rimandano di nuovo alla materia e saranno modalità della materia. Come accade allora che la modalità sia una sola [II,132,5] quando vi è molta differenza tra le modalità? Come possono il ‘lungo tre cubiti’ e il ‘bianco’ essere una modalità sola, se la prima è una qualificazione quantitativa e la seconda è una qualificazione qualitativa? Come possono essere una modalità sola il ‘quando’ e il ‘dove’? Come possono tutte insieme essere modalità lo ‘ieri’, ‘l’anno scorso’, ‘nel Liceo’, ‘nell’Accademia’? Generalmente parlando, com’è una modalità il tempo? <Per loro> non lo sono né il tempo né ciò ch’è nel tempo, né lo spazio né ciò ch’è nello spazio? E ‘il fare’: [II,132,10] com’è una modalità ‘il fare’? […] Forse l’espressione ‘stare in un certo modo’ s’acconcerebbe unicamente allo ‘atteggiarsi’, allo ‘stare’; e allo ‘stare’ non s’acconcerebbe lo ‘stare in un certo modo’ ma il semplice ‘stare’?

SVF II, 401

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 94E Ed. Bas. Poiché gli Stoici sono del parere che lo ‘stare’ sia comunque riconducibile allo ‘stare in un certo modo’, Boeto s’oppone […]

SVF II, 402

Plotino ‘Enneadi’ VI, I, 30, 20 segg. [II,132,15] Quanto alla ‘modalità di relazione’, se gli Stoici non l’avessero classificata in un unico genere con le altre categorie, sarebbe diverso il discorso di quanti ricercano se essi diano una realtà sostanziale a siffatti stati, dato che sovente non la danno. Se però l’hanno posta nel medesimo genere <delle altre tre categorie>, mentre essa è invece una faccenda che sopravviene ad entità preesistenti, è un’assurdità quella di unificare nello stesso genere ciò che sopravviene ai preesistenti. Bisogna, infatti che esistano prima l’uno e il due [II,132,20] affinché esistano il mezzo e il doppio.

SVF II, 403

[1] Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 42E Ed. Bas. In proposito, invece di un singolo genere gli Stoici ne contano due, e pongono alcune qualificazioni nella categoria del ‘relativo’ ed altre in quella della ‘modalità di relazione’. Distinguono le qualificazioni ‘relative’ opponendole a quelle che sono ‘di per sé’, e distinguono le qualificazioni che sono ‘modalità di relazione’ opponendole a quelle che rientrano nella categoria delle qualificazioni ‘per differenza’. [II,132,25] Chiamano pertanto ‘relativo’ il dolce, l’amaro e tutte le qualificazioni che in tal modo si dispongono. Sono invece qualificazioni ‘per modalità di relazione’, ad esempio, “la destra”, “il padre” e le qualificazioni siffatte. ‘Per differenza’ chiamano poi le qualificazioni caratterizzate da una certa specifica forma. Pertanto, com’è diverso il concetto delle qualificazioni ‘di per sé’ dal concetto delle qualificazioni ‘per differenza’, così sono diversi i ‘relativi’ e le ‘modalità di relazione’, e la consequenzialità delle [II,132,30] qualificazioni in connubio è inversamente trasponibile. Infatti, le qualificazioni ‘per differenza’ coesistono con quelle ‘di per sé’ giacché le entità qualificate ‘di per sé’ hanno delle differenze tra di loro, come il bianco e il nero. Tuttavia alle qualificazioni ‘per differenza’ non coesistono quelle ‘di per sé’. Il dolce e l’amaro hanno differenze per le quali si caratterizzano e tuttavia non sono qualificazioni ‘di per sé’, bensì qualificazioni ‘relative’. Le qualificazioni ‘per modalità di relazione’, le quali corrispondono [II,132,35] a quelle ‘per differenza’, sono in ogni caso anche qualificazioni ‘relative’, giacché “la destra” e “il padre”, insieme alla ‘modalità’, sono anche ‘relativi’. Il dolce e l’amaro, mentre sono ‘relativi’ sono anche qualificazioni ‘per differenza’, mentre le qualificazioni ‘per modalità di relazione’ sono opposte a quelle ‘per differenza’ giacché è impossibile che le qualificazioni ‘per modalità di relazione’ siano ‘di per sé’ o ‘per differenza’. Infatti esse dipendono unicamente dalla loro relazione con un’altra entità. Le qualificazioni ‘relative’ [II,132,40] non sono ‘di per sé’ (infatti non sono assolute) ma sono in ogni caso qualificazioni ‘per differenza’ in quanto sono previste come dotate di qualche caratterizzazione […] Se proprio bisogna commutare quanto siamo venuti dicendo in un discorso più chiaro, quei filosofi chiamano ‘relativo’ tutto ciò che per suo proprio carattere è disposto in modo tale da stornarsi da sé e richiamarsi a qualcos’altro. Chiamano poi qualificante ‘per modalità di relazione’ tutto ciò che per natura avviene oppure no a qualcosa senza in proposito una sua trasformazione [II,132,45] e un suo cambiamento con riguardo all’evento esterno; sicché qualora qualcosa accenni e richiami a qualcos’altro ‘per differenza’, questa qualificazione sarà soltanto ‘relativa’ (come fanno l’abitudine, [II,133,1] la scienza, la sensazione); mentre qualora qualcosa non riguardi l’inerente differenza ma riguardi la pura e semplice relazione con qualcos’altro, allora questa sarà una qualificazione ‘per modalità di relazione’. “Il figlio” e “la destra”, infatti, abbisognano di riferimenti esterni per avere una realtà e perciò, anche non avvenendo alcuna loro trasformazione, “un padre” non sarebbe più tale [II,133,5] se “il figlio” morisse, e “la destra” non sarebbe più destra se ciò che le sta accanto cambiasse posizione. Invece, il dolce e l’amaro non diventerebbero sapori diversi se insieme non si trasformasse anche la facoltà che li rende tali. Se quindi, anche senza patire alcunché, delle entità mutano a seconda della loro relazione con l’altro, è manifesto che le ‘modalità di relazione’ hanno il loro essere esclusivamente nella relazione e non in una qualche differenza.

[2] f. 43A. [II,133,10] Consegue ad esse anche quell’assurdità di fare, dei generi, dei composti di qualificazioni prime e di qualificazioni seconde: come il ‘relativo da qualificazione qualitativa’ e ‘il relativo’. Anche circa la consequenzialità le cose stanno né come dicono gli Stoici, ossia che alla modalità di relazione consegue il relativo e invece mai al relativo la modalità di relazione, né come afferma Boeto quando si difende da loro […]

[3] f. 44B. [II,133,15] Gli Stoici non fanno bene a ritenere che la qualificazione ‘per modalità di relazione’ sia completamente lontana da quella ‘per differenza’, per il fatto che essa per natura si verifica oppure no senza che ci sia alcuna trasformazione. Questa, infatti, è una falsità […]

SVF II, 404

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 453. Partendo dalla concorde ammissione dei filosofi dogmatici, si può insegnare che [II,133,20] le ‘modalità di relazione’ trovano la loro effettiva salvaguardia unicamente in un nostro divisamento mentale, giacché esse non hanno un’esistenza propria. Infatti, quando delineano il ‘relativo’ i Dogmatici concordemente affermano: ‘relativo è ciò ch’è pensato in relazione ad altro’.

§ 8. Qualità primarie

Frammenti n. 405-411

SVF II, 405

Galeno ‘De constitutione artis medicae’ 8, Vol. I, p. 251 K. [II,133,25] Siccome la realtà materiale è del tutto cangiante, discutiamo di seguito quanti siano in totale gli elementi naturali, anche qui iniziando da ragionamenti che appaiano con evidenza avere qualche fondamento. Qualunque cosa caratterizzi le realtà che cambiano, è necessario che la loro trasformazione avvenga in primo luogo a partire da elementi che sono fisicamente toccati, come ci insegna la sensazione e la stessa natura delle cose ci mostra.[…] E invero, se l’agente trasformante opera il cambiamento [II,133,30] per contatto fisico, è necessario che esso agisca in armonia con certe qualità degli elementi che tocca. Cosa c’impedisce, dunque, di esaminare tutte tali qualità? Ciò ch’è affilato taglia quel che gli viene a contatto ma non ne cambia la sostanza. Così pure fa il peso, il quale può spiaccicare qualcosa ma non opera affatto alcuna trasformazione della sostanza che ne subisce l’azione. E nemmeno la durezza può operare un cambiamento in ciò che gli viene a contatto, così da mutarlo [II,133,35] in qualcosa di specie diversa. In antitesi, tuttavia, ‘il caldo’ e ‘il freddo’ possono interamente cambiare la sostanza con la quale vengono a contatto. Lo stesso fanno umidità e secchezza, se pur non con la rapidità dei precedenti; e però, col tempo, anch’essi trasmutano gli oggetti materiali. Abbiamo noi qualche altra e diversa qualità capace di operare il cambiamento, o l’intera serie di esse sta in quelle appena citate? Conviene denominare e legittimare come operanti [II,133,40] soltanto le qualità citate; tra di esse, soprattutto le prime due in antitesi; e tra queste due soprattutto il caldo, giacché esso è la più operativa delle qualità. Di seguito ad esso vengono: il freddo, poi l’umido e poi il secco. Oltre a queste, nessun’altra qualità opera un cambiamento negli oggetti materiali con i quali viene a contatto. […] Quindi tutti quei corpi che possiedono in modo primario siffatte qualità [II,134,1] sono gli elementi di tutti gli altri corpi, e anche della nostra carne. Questi elementi sono: terra, acqua, aria, fuoco. E tutti i filosofi che non rifuggono dalle dimostrazioni hanno affermato che questi sono gli elementi delle cose che sono generate e che periscono. Essi affermano anche che i quattro elementi si trasformano gli uni negli altri e che esiste un substrato comune a tutti loro.

 [II,134,5]

SVF II, 406

Galeno ‘De natur. facult.’ I, 3, II, p. 7 K. Vi sono non pochi uomini, e si tratta sia di filosofi che di medici nient’affatto screditati, i quali attribuiscono al caldo e al freddo la qualità di agenti, e sottomettono ad essi, in qualità di passivi, il secco e l’umido. Aristotele è il primo [II,134,10] che prova a ricondurre a questi principi le cause di tutti i fenomeni particolari; e, dopo di lui, il coro degli Stoici ha seguito le sue orme. Per gli Stoici, come filosofi che riferirebbero la trasformazione uno nell’altro anche degli elementi a processi di rarefazione e di condensazione, sarebbe logico fare del caldo e del freddo dei principi agenti, ma per Aristotele le cose non stavano così[…]

SVF II, 407

Plutarco ‘De primo frigido’ p. 946a. [II,134,15] [ Il seguente brano di Plutarco testimonia probabilmente di quali argomentazioni gli Stoici facessero uso per provare che il freddo non è una semplice privazione di calore] Quando s’ingenera nei corpi il freddo, esso per natura mette in opera affezioni e trasformazioni non minori di quelle operate dal caldo. Infatti, molti oggetti col freddo induriscono, s’aggregano, diventano viscosi; e la stazionarietà e la difficoltà di movimento che esso genera non è [II,134,20] inerte, ma è il risultato di una salda pressione originata da un rigore il cui tono è stringente e costrittivo. Ciò spiega perché, da un lato la privazione di qualcosa è eclissi e ritiro della facoltà corrispondente; ma, d’altro lato, perché molti oggetti si raffreddano pur essendovi in essi molto calore; e perché, nel caso di alcuni, il freddo li indurisce e compatta tanto più quanto più essi sono caldi, come accade al ferro immerso nell’acqua. Gli Stoici [II,134,25] dicono che anche lo pneuma nei corpi dei feti è temprato dal raffreddamento <successivo alla nascita> e che esso, mutando natura, diventa il loro animo. Ma questo fatto è controverso […]

SVF II, 408

Galeno ‘De elementis sec. Hippocr.’ I, 6, I, p. 469 K. Che il calore massimo di un corpo sia la qualità di fuoco più semplice, e che quando questo calore s’ingenera [II,134,30] in un materiale ne risulta il fuoco, è stato ammesso da tutti i filosofi che Ateneo s’industria di seguire. Inoltre, che all’origine della genesi del fuoco ci siano quel certo materiale privo di qualità che fa da supporto a tutti gli elementi e il calore massimo che s’ingenera in questo materiale, anche questo è stato ammesso; così come è pure ammesso che quel certo materiale, essendo ingenerato e imperituro, sia eterno; mentre invece [II,134,35] ciò che di esso compare e scompare è la sua qualità; e che l’elemento debba essere omogeneo a ciò di cui è elemento, giacché la differenza tra ‘elemento’ e ‘principio’ sta proprio in questo: ossia nel fatto che i principi non necessariamente sono omogenei alle cose delle quali sono principi, mentre gli elementi lo sono invece in ogni caso.

SVF II, 409

Galeno ‘In Hippocr. de natura hom.’ I, 2, XV, p. 30 K. <La [II,134,40] materia ingenerata e le quattro qualità primarie, ossia ‘caldo’, ‘freddo’, ‘umido’, ‘secco’> non sono ‘elementi’ né delle altre cose né della natura umana, bensì sono ‘principi’. Gli antichi filosofi avevano fatto confusione su questo argomento e non erano giunti al concetto della differenza esistente tra ‘principio’ ed ‘elemento’, tant’è che potevano usare l’appellativo ‘elemento’ anche per indicare i ‘principi’. Me le due cose [II,134,45] sono assai chiaramente differenti una dall’altra, giacché uno è il più piccolo pezzettino dell’intero, [II,135,1] mentre l’altro è ciò in cui per via di divisamento concettuale uno potrebbe suddividere questo stesso pezzettino piccolissimo. Infatti, non è possibile dividere il fuoco in quanto tale in due corpi e dimostrare che esso risulta dalla loro mescolanza; né ciò si può fare con la terra, l’acqua o l’aria. E tuttavia è possibile capire che una cosa è la sostanza che si trasforma e un’altra cosa è la sua trasformazione. [II,135,5] Non sono cose identiche il corpo in trasformazione e la trasformazione che lo concerne. Ciò che si trasforma è il substrato materiale, mentre siffatta trasformazione avviene per un contraccambio delle sue qualità.

SVF II, 410

[1] Galeno ‘De natur. facult.’ II, 4, II, p. 88 K. Il caldo e il freddo, il secco e l’umido sono principi reciprocamente attivi e passivi. [II,135,10] Di questi principi il più attivamente operativo è il caldo; secondo, per forza, è il freddo […] Grazie a loro, i corpi che si nutrono sono in tutto e per tutto nutriti; quelli che si mescolano sono completamente mescolati; quelli che subiscono cambiamenti cambiano interamente […] La digestione è un cambiamento e una trasformazione del materiale nutritivo nella qualità attinente al corpo nutrito. La trasformazione del cibo in sangue è un cambiamento [II,135,15] allo stesso modo della nutrizione; e la crescita avviene a partire dall’estensione dell’organismo in ogni direzione ad opera di ciò che lo nutre. Il cambiamento è portato a compimento soprattutto per azione del caldo, e grazie ad esso si compiono anche la nutrizione, la digestione e la formazione di tutti gli umori; e pure le qualità degli escreti sono ingenerate dal calore innato […]

[2] p. 92 K. Il catalogo dei predetti principi dottrinali mostra che Erisistrato [II,135,20] nulla ha a che fare con la fisiologia di Aristotele. Quei principi dottrinali erano in primo luogo di Ippocrate, in seconda istanza di Aristotele e, in terza battuta, erano degli Stoici, con il mutamento del solo principio dottrinale per cui le qualità sono corpi.

SVF II, 411

Galeno ‘Method. med.’ I, 2, Vol. X, p. 15 K. [Il frammento di Galeno è rivolto contro Tessalo, un medico critico di Ippocrate e degli altri medici antichi] [II,135,25] Se noi introducessimo i filosofi Stoici in assemblea consiliare e consentissimo loro di votare su quali principi dottrinali essi si fondano, da questi voti uscirebbe incoronato Ippocrate. Fu infatti Ippocrate ad introdurre per primo il caldo e il freddo, l’umido e il secco come principi; [II,135,30] principi che, dopo di lui, Aristotele dimostrò. I seguaci di Crisippo assunsero questi principi già bell’e pronti e non vi fecero sopra alcuna polemica; anzi essi affermano che l’intero universo è stato mescolato da questi principi, che essi sono reciprocamente passivi e attivi, che la natura è natura artefice; ed ammettono come propri tutti gli altri principi dottrinali di Ippocrate, esclusa qualche loro differenza di poco conto con Aristotele. [II,135,35] Poiché Ippocrate dice correttamente che l’intero corpo è animato dallo scorrere in esso di un unico pneuma e che le parti costitutive degli animali sono tutte consentanee, essi ammettono come propri entrambi i principi. Gli Stoici differiscono però da Aristotele in una concezione, che è la seguente: mentre secondo Aristotele ad attraversarsi a vicenda e a mescolarsi in tutte le direzioni sono soltanto le qualità; per gli Stoici, invece, non sono soltanto le qualità [II,135,40] ma anche le sostanze stesse.

[II,136,1] § 9. I quattro elementi

Frammenti n. 412-438

SVF II, 412

Galeno ‘De elementis sec. Hippocr.’ I, 56, I, p. 487 K. Il discorso sugli elementi è stato elaborato da Aristotele nei suoi libri sul cielo e sulla genesi e l’estinzione; così come è stato elaborato da Crisippo nei suoi ragionamenti [II,136,5] sulla sostanza.

SVF II, 413

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 129, 1 W. Di Crisippo. Circa gli elementi originati dalla sostanza egli dichiara, seguendo il caposcuola Zenone, che gli elementi sono quattro: <fuoco, aria, acqua e terra. Di questi elementi consistono tutte le creature animali>, vegetali e [II,136,10] l’intero cosmo con tutte le realtà in esso incluse; e in questi elementi tutto si dissolve. Egli afferma che il fuoco si chiama ‘per eccellenza’ elemento, in quanto i restanti elementi consistono, per trasformazione, primariamente di esso; e perché da ultimo tutti gli elementi, per fusione, si dissolvono in esso; mentre il fuoco non è passibile di fusione o di risoluzione in altro. [ I restanti elementi consistono di fuoco ed in esso finalmente fondendo spariscono. [II,136,15] Perciò esso si chiama primo elemento […] ] Per questa ragione il fuoco si chiama elemento che ha il proprio fine in sé medesimo e non in altro. In base al precedente discorso, esso è componente degli altri elementi [II,136,20] e la prima trasformazione che avviene è quella, per compostaggio, del fuoco in aria; la seconda trasformazione è quella dell’aria in acqua; e le terza trasformazione, con un compostaggio analogo ma ancor più denso, è quella dell’acqua in terra. Nel corso del processo inverso, con la dissoluzione e fluidificazione della terra avviene la sua effusione in acqua; per seconda avviene l’effusione dell’acqua in aria, e per terza ed estrema quella dell’aria in fuoco. Si chiama [II,136,25] fuoco tutto ciò ch’è igneo, aria tutto ciò ch’è aeriforme e similmente si dice degli altri elementi. L’elemento è chiamato così da Crisippo in tre accezioni diverse. In una prima accezione, ‘elemento’ è sinonimo di ‘fuoco’, giacché i restanti elementi sono prodotti della sua trasformazione ed in esso trovano la loro risoluzione. In un’altra accezione il termine ‘elemento’ è usato per indicare i quattro elementi: fuoco, aria, acqua e terra; giacché tutto il resto consiste o di uno [II,136,30] o di alcuni o tutti questi elementi. Di tutti e quattro nel caso dei viventi e degli esseri composti che si trovano sulla terra; di due nel caso della luna, la quale consiste di fuoco ed aria; di uno solo nel caso del sole, il quale consiste soltanto di fuoco, essendo fuoco allo stato puro. In una terza accezione, egli chiama ‘elemento’ <il logos che inerisce al cosmo, logos che> è costituito primariamente in modo tale da generarlo [II,136,35] da se stesso per via razionale fino a perfezione e poi ad accoglierne in se stesso la risoluzione per una via similmente razionale. Crisippo, a proposito di ‘elemento’, ha affermato anche [II,137,1] che siffatte accezioni sono nate poiché esso è di per sé mobilissimo, è fondamento, è logos, ed è facoltà sempiterna avente natura tale da muoversi con rivolgimento verso il basso e poi verso l’alto, ogni volta in circolo, [II,137,5] consumando in se stessa il tutto e da se stessa di nuovo ristabilendo il tutto in modo ordinato e razionale.

[2] *Frammento di Probo il latino, contenente questo verso in greco attribuito ad Empedocle di Agrigento: [II,137,10]

‘Vi sono all’origine quattro radici di tutte le cose’

SVF II, 414

Giustino ‘De resurrectione’ 6. Tra coloro che si chiamano fisici esperti del cosmo alcuni, come Platone, affermano che il tutto consiste di materia e dio; […] altri invece, come gli Stoici, che esso consiste dei quattro elementi: fuoco, acqua, aria e terra. […] [II,137,15] Platone afferma che tutto nasce ad opera di dio dalla materia; gli Stoici, invece, dalla divinità che pervade i quattro elementi. […] Secondo gli Stoici, poiché il corpo nasce dalla mescolanza dei quattro elementi e poiché esso si dissolve nei quattro elementi mentre questi, invece, si mantengono imperituri; è possibile che i quattro elementi, [II,137,20] riformando nuovamente ad opera della divinità che li pervade la stessa identica mistura e mescolanza, rifacciano il corpo che avevano già formato in precedenza.

SVF II, 415

Galeno ‘De venae sect. therap.’ 3, Vol. XI, pag. 256 K. Per tutti quanti gli esseri materiali i fondamenti della genesi sono i quattro elementi, i quali sono per natura tali da mescolarsi reciprocamente e da operare attivamente uno sull’altro.

SVF II, 416

Ps. Galeno ‘Introd. med.’ 9, Vol. XIV, pag. 698 K. [II,137,25] Secondo Ateneo gli elementi dell’uomo non sono i quattro corpi primari: fuoco, aria, acqua e terra; bensì le loro qualità: il caldo, il freddo, il secco e l’umido; due delle quali egli ipotizza essere cause fattive: il caldo e il freddo; e due essere invece principi materiali: il secco e l’umido. Egli introduce poi [II,137,30] accanto ad esse un quinto componente: quello che, secondo gli Stoici, è lo pneuma che pervade ogni realtà e dal quale esse sono tutte tenute insieme e governate.

SVF II, 417

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 56, Vol. I, p. 329, 12 K. Egli cercherà allora rifugio presso Aristotele e i Peripatetici, i quali sono dell’avviso che l’etere sia immateriale e che sia di una quinta natura, oltre quella dei quattro elementi. [II,137,35] Anche i seguaci di Platone e gli Stoici si disposero nei confronti di questo discorso in modo non ignobile.

SVF II, 418

Nemesio ‘De nat. hom.’ cp. 5, p. 126. Gli Stoici dicono che alcuni degli elementi sono attivamente operativi, altri sono passivi. Operativi sono l’aria e il fuoco, passivi la terra e l’acqua.

SVF II, 419

Aezio ‘Placita’ I, 15, 11 (sui colori) DG. P. 314, 11. [II,137,40] Altri sostengono che gli elementi sono naturalmente colorati.

SVF II, 420

Galeno ‘De constitutione artis medicae’ 7, Vol. I, p. 245 K. L’obiettivo […] è scovare quali siano in natura le parti costitutive prime [II,138,1] e più semplici, non di tutti gli oggetti materiali ma di uno solo in particolare. […] Il nostro ragionamento prenda dunque ad oggetto la ‘carne’ ed esamini, in primo luogo, se l’elemento che la genera sia qualcosa di unitario quanto a forma ideale (non c’è nulla di peggiorativo nel denominare così il suo primo e più semplice pezzo costitutivo). [II,138,5] Se apparisse inesistente un pezzo dotato di questa caratteristica, esamini allora se i suoi pezzi costitutivi siano molti, poi quanti siano e quali siano, e quale sia il loro modo di entrare nella composizione.

Poiché la carne duole quando è tagliata o scottata, è impossibile che l’elemento che la genera sia di un’unica specie, quale invece Epicuro ipotizzò essere l’atomo. E che quest’atomo sia elemento di un’unica specie è manifesto dalle considerazioni che seguono. [II,138,10] Per natura nessun atomo è, di per sé, caldo o freddo; e neppure vi sono, tra di essi, dei bianchi e dei neri […] In complesso l’atomo non possiede alcuna qualità, come hanno determinato i suoi padri. Tutte le qualità del genere citato appaiono invece caratterizzare e passare interamente attraverso i corpi, di modo che per tutti gli atomi, in figura di qualità, esistono [II,138,15] la resistenza all’urto e il peso. Che poi sia d’uopo chiamare qualità oppure in un altro modo siffatti caratteri non fa alcuna differenza per il nostro obiettivo. Tali caratteri appartengono a tutti gli atomi ed essi non differiscono per specie gli uni dagli altri, come le ‘omeomerie’ per coloro che le ipotizzano, oppure ‘i quattro elementi’ per coloro che di essi ipotizzano l’esistenza. Dice dunque Ippocrate: ‘Io affermo che se l’uomo fosse fatto di un unico elemento [II,138,20] non sentirebbe il dolore’; e parla rettissimamente. Ciò ch’è unico, infatti, non è trasformabile in altro, non avendosi ciò in cui trasformarsi. Ciò che non è trasformabile è immune al cambiamento ed è impassibile, e ciò ch’è impassibile è esente da doglia. Da dette premesse nasce la conchiusione: ciò ch’è unico è impassibile. Su questa base potrà a sua volta essere prospettato un altro ragionamento di questo genere: ‘Se l’elemento fosse unico per specie, nessuno mai di tutti gli elementi proverà doglia; ma invero prova doglia; [II,138,25] dunque l’elemento non è unico’. Poiché ci eravamo proposti di fare oggetto del nostro discorso la carne, si indaghi dunque così su di essa: ‘Se l’elemento della carne fosse unico per specie, la carne non proverà mai doglia; ma invero essa prova doglia; dunque l’elemento della carne non è unico per specie’. Lo stesso ragionamento sarà riprospettato in un altro modo così: ‘Se l’elemento della carne è impassibile, [II,138,30] non proverà doglia; ma invero prova doglia; dunque non è impassibile’.

Se qualcuno dicesse che gli elementi sono più d’uno e che però non sono soggetti a cambiamento, lo stesso ragionamento potrà essere loro prospettato allo stesso modo: ‘Se gli elementi della carne sono impassibili, essa non sentirà il dolore; ma essa sente il dolore; dunque gli elementi della carne sono non impassibili’. Pertanto, il primo ragionamento sovverte [II,138,35] l’ipotesi degli atomi, quella di entità ‘prive di agganci’ e quella di entità ‘minime’; mentre sono tolte di mezzo dal secondo ragionamento l’opinione teorica delle ‘omeomerie’ e quella di Empedocle, il quale vuole che i corpi consistano dei quattro elementi, ma che questi non si trasformino uno nell’altro.

Presta attenzione al ragionamento che, più rapidamente di quanto sperato, ha ormai scovato la maggior parte [II,138,40] delle cose che ricercavi. Esso ha infatti dimostrato che gli elementi della carne devono essere non impassibili. Dunque non terranno più il presente discorso su un piano razionale quanti sono dell’avviso che le doglie si generino nella composizione di quei corpi impassibili che essi ipotizzano essere gli elementi naturali di tutti gli esseri. Infatti, l’intelletto non accetta che qualcosa che è impassibile possa provare doglia, tanto più che di ciò non vi è alcuna testimonianza da parte degli organi di senso. [II,138,45] Se tu intrecciassi le dita e poi le disintrecciassi [II,139,1] né la congiunzione né il distacco produrranno doglia. Provare doglia è legato al patire un’affezione; ma ciò che entra in contatto non patisce alcunché; dal momento che il patire un’affezione consiste in questi due eventi: in un cambiamento totale e nella soluzione della continuità. Pertanto, allorché né la congiunzione né la disgiunzione suscitano doglia in corpi che sono evidentemente soggetti alle affezioni, [II,139,5] molto meno esse la susciterebbero nei corpi che sono impassibili. […] Quindi è d’uopo che quanto patirà doglia sia passibile di affezione e di sensazione.

Invero non è necessario che quanto è sensibile sia composto da elementi primi anch’essi sensibili, ma basta che esso sia passibile di affezione, giacché esso può, per trasformazione e per cambiamento, diventare una volta o l’altra sensibile. E poiché [II,139,10] può darsi che la moltitudine dei cambiamenti e delle mescolanze che avvengono a partire dagli elementi sia infinita, sussisteranno infinite identità specifiche di corpi particolari, date le quali non è assurdo che molti corpi siano insensibili e che, di quelli sensibili, alcuni lo siano di più ed altri lo siano di meno.

SVF II, 421

Cicerone ‘De natura deorum’ III, 35. Ma i vostri, Balbo, sogliono riportare tutto ad una forza ignea seguendo, [II,139,15] così mi pare, Eraclito […] Voi sostenete che ogni forza è ignea e che pertanto anche negli animali la morte interviene allorché il calore si dissipa, e che è nella natura di tutte le cose che viva e vegeti solo ciò che ha calore […] Voi pensate, io reputo, che nulla di intrinsecamente animato esista in natura e nell’universo se non il fuoco […] Sicché se il fuoco è di per sé un ente animato al quale non si mescola alcun’altra [II,139,20] natura; siccome esso, quando è presente nei nostri corpi, fa si che noi sentiamo, il fuoco non può essere privo di sensazione […] A ciò consegue che non possiate attribuire eternità al fuoco. E che? Non siete voi a ritenere che ogni fuoco abbisogna di pastura e che non può in alcun modo sussistere se non è alimentato? E poi che il sole, la luna e gli altri astri lo sono, alcuni dalle acque dolci e altri da quelle salmastre?

SVF II, 422

Filone Alessandrino ‘De visione angeli’ p. 616 Aucher. I cherubini [II,139,25] sono rappresentati come un incendio […] Incendio perché fa sparire l’assenza di ordine ossia di forma della materia e la riduce all’ordine; e quindi <i cherubini> portano ciò che è informe alla forma e ciò che è privo di bellezza alla bellezza, giacché le virtù non erano un fuoco che causa malattia ma un fuoco che dà salute e grazie al quale tutte le cose sono state create con arte sopraffina. [II,139,30] Questo è il motivo per cui, a me sembra, anche non pochi filosofi asseriscono che il fuoco artefice cadde sulla terra per produrre i semi necessari alla generazione. Pertanto, se quell’estesa massa luminosa si concede alla vista degli occhi del corpo, allora anche nelle cose invisibili, grazie agli occhi della mente che sono prontissimi nella loro visione, ci è dato scorgere quella natura che crea e dà forma alla materia.

SVF II, 423

Agostino ‘De civitate dei’ VIII, 5. Alcuni di loro, [II,139,35] come gli Epicurei, credettero che esseri viventi potessero generarsi da esseri non viventi. Altri invece che da un essere vivente potessero generarsi esseri viventi e non viventi, ma comunque corpi da corpi. Gli Stoici, infatti, reputarono che il fuoco, che è corpo ed è uno dei quattro elementi di cui consta questo mondo visibile, sia vivente, dotato di sapienza, artefice dello stesso mondo [II,139,40] e di tutto ciò che esso contiene; e lo considerarono senz’altro dio.

SVF II, 424

[1] Galeno ‘De differentia pulsuum’ III, 6, Vol. VIII, p. 672 K. I medici e i filosofi che hanno analizzato a fondo e razionalmente cosa sia l’aria, non la concepiscono affatto come un vuoto. Alcuni, della cui opinione [II,139,45] siamo anche noi partecipi, la concepiscono come un corpo unico, continuo in se stesso in ogni sua parte e privo di qualunque intreccio col vuoto. Altri, invece, ritengono che nel vuoto esistano molti corpi minuscoli, [II,140,1] i primi dotati di movimento, i quali si urtano e rimbalzano, senza però intrecciarsi né dare luogo a composti.

[2] p. 673 K. Nel cosmo non c’è alcun vuoto di questo genere, e neppure in preminenza. Se non esiste affatto vuoto nel cosmo, come potrebbe esserci [II,140,5] in preminenza del vuoto?

[3] p. 674 K. <I medici pneumatici> ritengono che non vi sia alcuno spazio vuoto di questo genere nel cosmo, e che invece l’intera sostanza sia un tutto unitario.

SVF II, 425

Aezio ‘Placita’ IV, 19, 4. Gli Stoici affermano che l’aria non consta di frantumi ma che è interamente continua e non ha in sé alcun vuoto. [II,140,10] Dopo essere stata percossa da una ventata, essa ondeggia in circoli retti verso l’infinito fino ad empiere l’aria circostante, come accade <all’acqua> contenuta in una piscina e percossa da un sasso; con la differenza che questa si muove su un piano circolare, mentre l’aria si muove sfericamente.

SVF II, 426

Galeno ‘De simplic. medicam.’ I, 24, Vol XI, p. 423 K. Non v’è quindi chi non dica che l’aria è finemente particellare, giacché con manifesta facilità [II,140,15] essa si frammenta in fini particelle ed attraversa prontamente dei corpi fittissimi. E se essi inferiscono che l’aria è particellare dall’osservazione di qualche altra sua proprietà, che ce la insegnino chiaramente. Noi però non diremo che l’aria consta di ‘molecole’, come direbbero i principali rappresentanti dell’altra scuola. [II,140,20] In siffatta natura di corpo, l’essere particellare è divisabile nella sola rapidità della sua suddivisione in piccole particelle. Ma se, per questo motivo, l’aria è particellare, non tutto il fuoco sarà particellare. Lo sono anche il bronzo, il ferro, la pietra, il legno e tutto ciò che il fuoco è in grado di carbonizzare, ma non certo più particellari adesso di prima. Tuttavia le vampe, che sono un diverso genere di fuoco, sono in effetti [II,140,25] particellari […]

SVF II, 427

Galeno ‘De simplic. medicam.’ IV, 2, Vol XI, p. 626 K. Quando l’aria conflagra diventa vampa; la terra diventa carbone; l’acqua può accogliere un potente calore ma diventa né vampa né carbone a causa della sua connaturata umidità. La vampa e il carbone sono specie di fuoco […]

SVF II, 428

Galeno ‘De simplic. medicam.’ I, 14, Vol XI, p. 405 K. [II,140,30] Dico sostanza porosa quella i cui pezzetti sono intervallati da spazi vuoti, manifestamente sapendo e sempre ricordando in quale senso si intenda il termine ‘spazio vuoto’ da parte di quanti sono dell’avviso che la sostanza sia un tutto unitario, ossia non come l’intendevano Epicuro ed Asclepiade, ma nel senso che in tutti i corpi porosi lo spazio vuoto è pieno d’aria.

SVF II, 429

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1053f. [II,140,35] <Crisippo> dice che l’aria è per natura tetra, ed a prova di ciò utilizza il suo essere primariamente fredda; ed afferma anche che la sua tetraggine si contrappone alla radiosità, e il suo freddo al calore, del fuoco. Egli muove queste argomentazioni nel primo libro delle ‘Ricerche fisiche’, e di nuovo […]

[2] ‘De primo frigido’ p. 952c. [II,140,40] Crisippo si è ricordato di quanti fanno notare che l’acqua dista dall’etere più di quanto ne disti l’aria, soltanto quando ha mostrato di credere che l’aria sia un elemento primariamente freddo, e perciò anche tenebrosa. Ma poiché aveva deciso di dire qualcosa contro di loro soleva affermare: “Ragionando così potremmo dire che anche la terra è un elemento primariamente freddo, poiché la sua distanza dall’etere è ancora maggiore”. [II,140,45] Se egli metteva tra i rifiuti questo discorso come definitivamente invalido e assurdo, [II,141,1] io invece, per parte mia, reputo che dichiarare tale la terra non è affermazione destituita di verosimili e plausibili argomenti, e prendo a loro fondamento quello che proprio Crisippo ha utilizzato a proposito dell’aria. Qual è questa argomentazione? Che quanto è primariamente tenebroso è anche primariamente freddo.

SVF II, 430

Plutarco ‘De primo frigido’ p. 948d. [II,141,5] Poiché il fuoco è caldo e insieme radioso, bisogna che la natura contrapposta al fuoco sia fredda e tenebrosa; giacché come il tetro si contrappone al radioso, così il freddo si contrappone al caldo. E come la tenebra confonde la vista, così il freddo confonde il tatto. Il caldo, invece, effonde la sensazione del toccare, [II,141,10] come la radiosità quella del guardare. Dunque, ciò che per sua natura è primariamente tenebroso è anche freddo. Il fatto che l’aria sia un elemento primariamente tenebroso non è sfuggito ai poeti, giacché essi chiamano ‘aria’ il ‘buio’:

‘L’aria presso le navi era fonda, e la luna

non risplendeva dal cielo’ [II,141,15]

e ancora:

‘Cintisi d’aria, frequentavano tutta la terra’

e ancora:

‘D’improvviso disperse l’aria e spinse via la nebbia,

il sole risplendette e tutta apparve la battaglia’ [II,141,20]

I poeti chiamano l’aria non illuminata ‘dilucolo’, giacché sembra essere un vuoto di luce; ed è stata chiamata ‘nuvola’ l’aria che insieme ricade e s’infittisce per negazione della luce. Si chiamano anche ‘caligine’ e ‘nebbia’, e sono differenze dell’aria tutte quelle che non forniscono la trasparenza della luce <necessaria> alla sensazione visiva; mentre l’invisibilità [II,141,25] e l’assenza di colore dell’aria furono soprannominate ‘Ade’ e ‘Acheronte’. Al modo cui, dunque, al venir meno dei raggi di luce l’aria s’ottenebra; così quando il caldo sgombra il campo, quello che esso lascia dietro di sé è aria fredda e null’altro. Perciò il ‘Tartaro’ è stato chiamato così per la sua freddezza. Lo rende manifesto anche Esiodo quando dice:

‘l’atro Tartaro’.

[II,141,30] e tremare e rabbrividire per il freddo si dice ‘tartarizzare’. Tale è dunque la ragione di questi nomi.

Siccome l’estinzione di qualcosa è una trasformazione di ciò che perisce nel suo opposto, consideriamo se sia ben detto che ‘morte del fuoco è genesi dell’aria’. Infatti, anche il fuoco muore, come fosse una creatura vivente: o spento per azione violenta, [II,141,35] oppure illanguidendo da sé. Lo spegnimento rende più palese la sua trasformazione in aria, giacché il fumo è una forma d’aria, come il vapore e l’esalazione, che secondo Pindaro

‘scalcia l’aria col fumo odoroso delle carni delle vittime’.

Tuttavia, anche quando la fiamma deperisce per mancanza di alimento [II,142,1] è possibile vedere, come nelle lucerne, la sua estremità che si spande e risolve in aria e nerofumo. Anche il vapore umido che sale verso l’alto dai corpi di coloro che escono al freddo dopo un bagno caldo o un bagno di vapore, mostra a sufficienza la trasformazione del calore, quando deperisce, in aria; come in qualcosa che è per natura contrapposta al fuoco; [II,142,5] e da ciò consegue che l’aria è primariamente tenebrosa e fredda. Di tutti i fenomeni che avvengono nei corpi per effetto del freddo, il più veemente e violento è il congelamento, il quale è un’affezione dell’acqua ma è opera dell’aria; giacché l’acqua, di per sé, è facile a effondersi, non solida, non coesa, ma si compatta e si raccoglie in sé [II,142,10] per azione dell’aria quando sia serrata dal freddo. Perciò è stato detto:

‘se il Noto richiama Borea, lì per lì nevicherà’.

Infatti, il Noto appresta, come fosse un materiale, quell’umidità che poi l’aria di Borea prende e congela. Ciò è soprattutto manifesto nelle nevicate; giacché le nevi, dopo avere rilasciato ed esalato l’aria fina e fredda, [II,142,15] colano poi <come acqua>. Aristotele afferma che dei pezzi di piombo fondono e colano per il freddo invernale, senza che sia loro vicino dell’acqua; ma, come sembra, è l’aria con la sua freddezza che forza i corpi ad unirsi insieme fino a frantumarli e sgretolarli.

SVF II, 431

Galeno ‘De simplic. medicam.’ II, 20, Vol. XI, p. 510 K. [II,142,20] È di qui che essi manifestamente ereditarono la grandissima ricerca sul quesito rimasto controverso anche per celeberrimi filosofi, giacché Aristotele e i suoi seguaci concepirono l’aria come elemento caldo e gli Stoici, invece, come elemento freddo.

SVF II, 432

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 124, 9 Bruns. [In uno scritto contro gli Stoici, teso a dimostrare che le qualità non sono corpi] [II,142,25] Inoltre se, come reputano gli Stoici, le qualità sono corpi, allora anche la luce, che è una qualità, è corpo.

[2] p. 132, 30. [In uno scritto contro Crisippo e coloro che fanno dipendere la visione dalla messa in tensione dell’aria] Se essi dicono che la luce è un corpo capace di procedere attraverso l’acqua ed altri corpi, è manifesto che [II,142,30] qualora la luce apparisse non essere un corpo, il loro ragionamento sarebbe destituito di fondamento. Se, poiché è un corpo, avviene alla luce di scontrarsi con un altro corpo; se essa non fosse corpo è manifesto che non avrebbe quegli scontri. È anche lecito chiedersi come questa luce non si compatti con il freddo dell’acqua e cessi di essere luce, se appunto è luce per raffinazione e distinzione di componenti. Inoltre, sarebbe d’uopo che la luce fosse minore nelle cose gelate, in quanto c’è meno calore. Se l’acqua si compatta [II,142,35] e diventa ghiaccio, è illogico che non si compatti anche lo pneuma, se la luce è appunto aria raffinata e distinta.

[3] p. 138, 2. [Contro quanti dicono che la visione avviene grazie a emanazione di corrente da parte di entrambi] Inoltre, secondo costoro la luce sarà corpo. Se la luce è corpo, o sarà fuoco o un’emanazione di corrente del fuoco, che essi [II,142,40] chiamano ‘raggio di luce’ e terza forma di fuoco.

[4] p. 139, 1. Inoltre, se il buio è corpo, l’aria in cui si genera luce, essendo anch’essa corpo, o accoglierà interamente la luce, e così un corpo procederà dentro un altro corpo; oppure [II,143,1] avrà dei pori attraverso i quali passerà la luce. Questi pori, qualora non vi sia luce, saranno ripieni di un qualche altro corpo, qualunque sia quello che diranno essere, e allora dove traslocare questo corpo? Bisognerà che questo corpo sia più fino della stessa luce, se appunto a questa esso lascia il posto e trasloca. E quale potrebbe essere, secondo loro, un corpo [II,143,5] più fino della luce? […] Se i pori dell’aria rimangono vuoti quando è buio, in primo luogo secondo loro esisterà in atto nel cosmo un qualche vuoto, cosa che essi invece non vogliono che esista; e inoltre l’aria sarà più rada di notte in quanto contiene in se stessa dei vuoti (allora essa sembra invece essere più fitta); e poi la luce non sarà più, come dicono, distintrice ed affinatrice dell’aria, bensì [II,143,10] sarà l’opposto.

SVF II, 433

[1] Galeno ‘In Hippocr. Epidem.’ VI, comment. 4, Vol. XVII, 1, p. 161 K. L’acqua pura appare tersa non quando un fulgido raggio cade su di essa dall’esterno, ma in armonia col cambiamento che essa subisce per effetto dalla luce che l’incoglie. Identica cosa vale per l’aria stessa, la quale non è [II,143,15] per propria natura tersa, giacché altrimenti essa sarebbe tale anche nottetempo. Quando i raggi di luce solare incolgono i suoi limiti superiori, l’aria tutta intera, essendo un elemento continuo, subisce un cambiamento e una trasformazione. Che poi esistano degli spazi vuoti sia nell’acqua che nell’aria, è una conseguenza dell’opinione che degli elementi hanno tanto Epicuro quanto Asclepiade. Al contrario, [II,143,20] Aristotele e gli Stoici sono persuasi che nel cosmo non esista in nessun luogo il vuoto e che esso sia tutto riempito di corpi. Essi reputano che gli spazi tra i corpi terrestri non siano assolutamente vuoti, neppure nel caso della pietra pomice, ed affermano che in essi è presente dell’aria. L’acqua, poi, non possiede alcuna porosità del genere di quella [II,143,25] della pomice, ma è un elemento in sé continuo in ogni sua forma.

[2] Plutarco ‘De facie in orbe lunae’ p. 930f. Essi dicono che l’aria stessa è illuminata dal sole non per gli effluvi o raggi che le si mescolano, ma per il rivolgimento e la trasformazione operata in essa dalla stimolazione e il contatto della luce.

SVF II, 434

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1053e. A volte <Crisippo> afferma che l’aria [II,143,30] tende a salire verso l’alto e che è leggera […]. Nel secondo libro ‘Sul movimento’ dice che il fuoco, non avendo peso, tende a salire verso l’alto e che un movimento similare a questo ha l’aria; e che mentre l’acqua tende di più ad associarsi con la terra, l’aria si associa di più col fuoco.

SVF II, 435

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1053e. Nel trattato ‘Sulle Scienze fisiche’, invece, [II,143,35] propende per un’opinione diversa, quella che di per sé l’aria abbia né peso né leggerezza.

SVF II, 436

‘Scholia’ Pind. Olymp. I, 1, p. 22B. Egli si associa al punto di vista dei filosofi mossi da un orientamento più naturalistico, i quali affermavano che gli altri tre elementi prendano sussistenza dall’acqua. Infatti, dicono che la parte fina dell’acqua diventi ‘aria’, [II,143,40] che la parte più crassa si costituisca in ‘terra’ e che l’infuocato ‘fuoco’ etereo risulti da un ulteriore assottigliamento.

SVF II, 437

Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 225, p.5 Bern. Aristotele crede che ‘Caos’ sia un luogo, poiché è necessario che ad un corpo preesista un substrato che lo accolga. Taluni Stoici, invece, credono il Caos sia acqua, ritenendo che esso abbia preso quel nome (Kàos) dalla effusione (Kùsis) <che è propria dell’acqua>.

[[II,143,45]

SVF II, 438

Galeno ‘De simplic. medicam.’ IX, 1, Vol. XII, p. 165 K. [II,144,1] Questo è per tutti l’unico significato del nome ‘terra’; mentre un significato diverso è noto soltanto ai filosofi, poiché avviene che essi chiamino terra, acqua, aria e fuoco gli elementi dei corpi. I filosofi, infatti, denominano ‘terra’ [II,144,5] il corpo secco e freddo al grado estremo. Per loro, dunque, nessuno di questi corpi composti è terra ‘elementare’ ed affermano che tuttavia partecipano di più delle terra corpi come il diamante e le pietre, e che quanto più i corpi sono duri, tanto più essi sono ‘terrestri’. […] Nell’accezione nota ai filosofi, la terra si differenzia e si definisce in tre generi. [II,144,10] Un genere di terra è la pietra, un altro genere è il corpo metallico e il terzo genere è la terra coltivata. Vi è però tra di loro disaccordo circa i corpi metallici fusibili, quali il rame, lo stagno e il piombo. Taluni, infatti, affermano che questi corpi non hanno tanto della terra, ma piuttosto dell’acqua. […] Inoltre, va ancora soltanto aggiunto che la predetta divisione dei corpi terrestri in [II,144,15] pietre, metalli e terra coltivata, è stata enunciata prescindendo dal riferimento ai corpi denominati in senso proprio ‘naturali’. Se si aggiungono questi, allora anche ogni specie di legno, molte parti dei frutti, come anche degli animali, si potranno denominare di sostanza terrosa. Quali parti dei frutti: i noccioli delle olive, i vinaccioli dell’uva, i gusci delle noci e delle pigne e molte [II,144,20] altre cose del genere. Quali parti degli animali: le ossa, le corna e i denti.

§ 10. Pneuma, tono, forza di coesione

Frammenti n. 439-462

SVF II, 439

Galeno ‘De plenitudine’ 3, Vol. VII, p. 525 K. Dire che qualcosa fa un’azione su se stesso o agisce su se stesso è contrario ad ogni sano concetto; e dunque lo è pure il dire che qualcosa tiene insieme se stesso. Anche i filosofi che soprattutto hanno proposto l’esistenza [II,144,25] di una forza coesiva, come gli Stoici, fanno di ‘ciò che tiene insieme’ una cosa, e di ‘ciò ch’è tenuto insieme’ un’altra; giacché ‘ciò che tiene insieme’ è sostanza pneumatica, mentre ‘ciò ch’è tenuto insieme’ è sostanza materiale. Laonde essi affermano che l’aria e il fuoco sono gli elementi ‘che fanno coesione’ mentre la terra e l’acqua sono gli elementi ‘coesi’.

SVF II, 440

Galeno ‘De plenitudine’ 3, Vol. VII, p. 526 K. Ora ti spiegherò come, [II,144,30] se noi poniamo che tutto l’esistente abbia bisogno di una causa essenziale, il ragionamento si riduca necessariamente all’assurdo. La causa essenziale, qualunque essa sia, (ma i seguaci di Erofilo non ammettono di riconoscerne l’esistenza) la concepiscono anche loro come qualcosa di esistente o di inesistente? Se la concepiscono come qualcosa di inesistente, io mi meraviglio della sapienza di uomini simili, i quali affermano che ciascuna cosa esistente ha bisogno [II,144,35] per esistere di qualcuna delle cose che non esistono. Se invece pongono la causa essenziale tra gli esistenti, rimemorino di avere affermato che tutto l’esistente ha bisogno di una causa essenziale per esistere; giacché avverrà in questo modo che proprio quella causa abbia bisogno di un’altra causa per esistere, e che quest’altra abbia a sua volta bisogno un’altra ancora, e così all’infinito. Se poi diranno che alcuni enti per esistere hanno bisogno di un causativo diverso da loro, [II,144,40] mentre altri enti derivano la loro esistenza da se stessi, in primo luogo sappiano che così dicendo non custodiscono più intatto il loro assioma iniziale. […] In secondo luogo, avrebbero bisogno di un discorso estremamente prolisso per spiegare perché alcuni enti ne hanno bisogno ed altri no; e quali siano, tra gli enti, e gli uni e gli altri. Ma né i molti seguaci di Erofilo né [II,145,1] gli Stoici più recenti danno alcuna dimostrazione del perché lo pneuma e il fuoco siano coesivi di se stessi, mentre invece l’acqua e la terra abbiano bisogno di ciò che li rende coesi. Con una rappresentazione a portata di mano si potrebbe dire che tutto ciò ch’è duro, resistente all’urto e compatto è coeso; [II,145,5] mentre tutto ciò ch’è poroso, molliccio, duttile, ha bisogno di ciò che lo rende coeso. Questi signori credono non soltanto che la loro ipotesi meriti fiducia senza che essi ne abbiamo dato dimostrazione alcuna, ma non s’accorgono neppure di stare proponendo qualcosa che si autocontraddice. Infatti, gli elementi di tutti più finemente particellati, più molli e più cedevoli: il fuoco e l’aria; essi li affermano causa per la terra di durezza e [II,145,10] di resistenza all’urto, come se fosse fattibile che un elemento facesse parte all’altro della forza, della natura, dell’attività, della qualità che questo non ha condiviso. Invece appare chiaro non soltanto che nulla è tenuto insieme dal fuoco ma che, al contrario, tutto è dissolto dal fuoco. Contro l’ipotesi degli Stoici, poi, si è già parlato in altro luogo con abbondanza di argomenti.

SVF II, 441

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 223, 25 Bruns. [II,145,15] Se la faccenda sta in questi termini, come potrebbe ancora essere vero che l’universo è unitario e coeso a causa di uno pneuma che lo pervade dappertutto? A seguito di ciò sarebbe ragionevole che vi fosse una simile continuità di contatto dello pneuma tra tutti i corpi. Ma non è così. Infatti, alcuni corpi sono coesi, [II,145,20] ma altri sono distintamente definiti. Perciò è più ragionevole dire che ciascuno di essi è tenuto insieme dalla sua appropriata forma ideale ed unificato a se stesso secondo quello che è l’essere di ciascuno; che la consentaneità dei singoli gli uni verso gli altri è salvaguardata dalla comunanza della loro materia e dalla natura divina del corpo del quale sono cinti, invece che del legaccio rappresentato dallo pneuma. E quale sarebbe il ‘tono’ dello pneuma, [II,145,25] allacciate dal quale le cose serbano continuità tra le parti loro attinenti e si rannodano a quelle che giacciono loro accanto? A causa della sua naturale disposizione a non opporre alcuna renitenza all’agente che lo muove, per via della facilità con cui è capace di subire un’azione, lo pneuma assume una certa potenza quando sia forzato a prenderla dall’impatto concentrato di qualcosa di esterno. Ma ciò che per sua propria natura facilmente subisce l’azione è umido [II,145,30] e facile a suddividersi; come lo sono anche gli altri corpi nei quali sia mescolata questa qualità, ed è soprattutto in relazione a questo che avviene con grande facilità la suddivisione. […] Se lo pneuma è la causa coesiva che impedisce ai corpi di cadere a pezzi e che li mantiene insieme, è manifesto che i corpi i quali cadono a pezzi non avrebbero in sé quello pneuma che li tiene allacciati. Come potrebbe allora essere salvaguardata, in quanto principio, la divisione dei corpi, se [II,145,35] la divisione è appunto separazione di corpi unitari; e invece, secondo loro, tutti i corpi rimangono similmente unificati gli uni agli altri anche qualora siano suddivisi? Non sarebbe un’incongruenza dire che corpi i quali giacciono uno accanto all’altro e che possono facilmente essere separati uno dall’altro, sono invece unificati in modo simile a quelli che sono coesi e che, senza divisione, sono impossibilitati per sempre a separarsi uno dall’altro?

SVF II, 442

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 224, 14 Bruns. [II,145,40] Inoltre, se lo pneuma nato dal fuoco e dall’aria ha bazzicato [II,146,1] tutti i corpi poiché è stato mescolato ad essi tutti, e se per ciascuno di essi è da questo che è dipeso il loro essere: come potrebbe qualcosa essere ancora un corpo semplice? Se ciò che consta di certi elementi semplici è successivo ad essi, come potrebbero essere semplici il fuoco e l’aria, dalla cui mischiatura nasce appunto lo pneuma, e senza il quale sarebbe impossibile [II,146,5] che qualcosa fosse corpo? Infatti, se la genesi dello pneuma dipende da quegli elementi, e però è impossibile che qualche corpo sia sprovvisto di pneuma, né esisterebbe corpo prima della genesi dello pneuma, né potrebbe nascere lo pneuma, non essendoci gli elementi semplici dai quali lo pneuma trae la sua genesi. Come potrebbe qualcuno dire che nel freddo c’è, in atto, qualcosa di caldo? E, insieme a ciò, quale specie di moto è il moto dello pneuma verso il suo opposto, moto per il quale egli tiene insieme i corpi nei quali si trova ad essere; [II,146,10] poiché esso è, come affermano, pneuma contemporaneamente moventesi fuori di sé e verso di sè?

SVF II, 443

[1] Plotino ‘Enneadi’ IV, VII, 3 segg. Quest’intero universo sarà dissolto se lo si affiderà alla forza congiuntiva di un corpo, dando ad esso -aria e pneuma dispersissimi – la posizione di [II,146,15] anima persino nei nomi.

[2] 4 segg. Condotti a ciò dalla verità, anch’essi testimoniano che prima dei corpi deve esistere qualcosa migliore di essi: una forma d’anima; e perciò pongono l’esistenza di uno pneuma capace di mente e di un fuoco cognitivo, come se la porzione migliore tra gli esseri non potesse esistere senza fuoco e pneuma, ed essa cercasse un luogo in cui [II,146,20] risiedere come in un tempio. […] Se essi dispongono che vita e anima nulla sono se non pneuma, cos’è mai la loro tanto decantata ‘modalità’, nella quale si rifugiano quando sono costretti a porre l’esistenza, oltre ai corpi, di un’altra natura attivamente operante? Pertanto, se non ogni pneuma è anima (poiché miriadi di pneumi sono inanimati), ed essi affermeranno che l’anima è ‘un certo modo di essere’ dello pneuma; circa questa ‘modalità’ e questo ‘stato’ o essi diranno che è qualcosa di esistente di per sé [II,146,25] oppure diranno che è inesistente di per sé. Ma se è inesistente di per sé, allora sarebbe soltanto ‘pneuma’ e la ‘modalità’ sarebbe un puro nome. E così dicendo avverrà loro di affermare che non esiste altro che la materia, e che ‘Anima’ e ‘Dio’ sono tutti nomi, perché sola esistente è la materia.

SVF II, 444

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1085c. Benché designino col nome di primi elementi [II,146,30] i quattro corpi: terra, acqua, aria e fuoco; io non so come essi possano fare degli uni, elementi puri e semplici; e degli altri, invece, corpi composti e mischiati. Infatti, affermano che la terra e l’acqua non sono in grado di tenere insieme né se stesse né altro, e che serbano intatta la loro unità grazie alla partecipazione della forza propria di uno pneuma igneo. L’aria e il fuoco, invece, sono in grado di tenersi insieme grazie alla loro eutonia [II,146,35] e, frammischiandosi a quegli altri due elementi, forniscono loro tono, durata e sostanzialità. [Poi Plutarco conclude così] Ma tali non sono di per sé né la terra né l’acqua. Invece, la materia diventa ‘terra’ quando l’aria la combina ed infittisce in un certo modo; e diventa, al contrario, ‘acqua’ quando sia dissolta e rammollita in un certo modo. Nessuno di questi due è dunque un elemento, se è qualcos’altro a procurare ad entrambi [II,146,40] sostanza e genesi.

SVF II, 445

‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 120, p. 27 Di Gregorio. Dopo avere citato i tre elementi, parla del quarto, il fuoco, ed afferma che esso è eros come demone, giacché ha per natura quella di conciliare e di unificare.

SVF II, 446

Galeno ‘De tremore, palp., convuls.’ 6, VII, p. 616 K. [II,147,1] […] poiché noi non poniamo come elementi del corpo le molecole e i pori, […] ma riteniamo che l’intero corpo sia co-spirante e co-fluente, e che il calore sia né acquisito né successivo alla genesi del vivente ma esso stesso primario, fondamentale [II,147,5] e connaturato. Natura dell’animo altro non è che questo calore, sicché capendo che esso è una sostanza auto-mobile e sempre in moto, non cadresti in errore. […] In quanto il calore connaturato è sempre in moto, esso non si muove soltanto verso l’interno o soltanto verso l’esterno, ma l’un movimento è sempre successivo all’altro. Infatti, la movenza verso l’interno si conchiuderebbe in fretta in un arresto del moto, e la movenza verso l’esterno in fretta lo disperderebbe, [II,147,10] e per questa via lo porterebbe ad estinguersi. Spegnendosi invece con regolarità e con regolarità accendendosi, come diceva Eraclito, rimane così sempre in moto. Esso s’accende quando, desideroso di alimento, accenna verso il basso; e si spegne invece quando si solleva e si disperde in ogni direzione. Il calore possiede la tendenza ad un decorso verso l’alto e verso l’esterno e, si potrebbe dire, ad un dispiegamento che lo allontana dal proprio fondamento, [II,147,15] perché è per natura caldo. Invece ha un decorso verso l’interno e verso il basso, che è la strada che lo avvicina al proprio fondamento, perché possiede qualcosa che partecipa del freddo. Esso è infatti nato come un misto di caldo e di freddo. La sua ragione prima è il caldo, in quanto è il caldo a conferirgli la sua auto-mobilità e del caldo ha soprattutto bisogno per le sue attività; e tuttavia anche il freddo gli fornisce ugualmente una grande utilità. Natura del caldo è quella di sollevarsi in altezza [II,147,20] e di menar via con sé il proprio alimento. Se il freddo non gli facesse da intralcio, il caldo si getterebbe avanti il più lontano possibile; ma il freddo intralcia siffatto movimento del caldo, così che esso non si perda distendendosi oltre misura. Esiste in effetti il pericolo che il caldo si distorni dai corpi per la sua leggerezza e per il suo impulso a salire verso l’alto. ma il freddo lo trattiene, impedisce che ciò avvenga ed elimina la veemenza di questo movimento [II,147,25] di troppo.

SVF II, 447

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 8, 48, 1, p. 358 St. ‘Sfinge’ non è l’intelligente comprensione del tutto e la condotta del cosmo secondo le parole del poeta Arato, ma probabilmente sarebbe il tono dello pneuma che pervade e che rende coeso il cosmo. Ancora meglio sarebbe aspettarsi che fosse l’etere a mantenere il tutto coeso e [II,147,30] ben serrato, secondo quanto afferma anche Empedocle.

SVF II, 448

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 131, 5 Bruns. Nel complesso, l’opinione riguardante il ‘moto tonico’ contiene molte aporie. In primo luogo, infatti, qualcosa che è in sé omogeneo muoverà se stesso: il che è mostrato essere impossibile da chi prende in esame i movimenti uno per uno. In secondo luogo, se una cosa singola tiene unito [II,147,35] il cosmo nel suo insieme e contemporaneamente ciò ch’è in esso, e se per ciascuno di questi corpi particolari c’è qualcosa che lo mantiene coeso: come può non essere necessario che lo stesso identico tono determini contemporaneamente dei movimenti opposti?

SVF II, 449

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1053f. Di nuovo, nei libri ‘Sulle forze di coesione’ <Crisippo> afferma che le forze di coesione non sono altro che ‘aria’. [II,147,40] Del fatto che ciascuno dei corpi che sono tenuti insieme da tale legame abbia una qualificazione qualitativa è causativo l’aria che li tiene insieme: aria che chiamano ‘durezza’ nel ferro, ‘compattezza’ nella pietra e ‘bianchezza’ nell’argento.

[2] p. 1054a. Essi tuttavia ovunque dichiarano che il materiale soggiace di per sé inerte [II,147,45] e immobile alle qualità, e che le qualità [II,148,1] sono pneumi e toni aeriformi i quali danno forma e figura specifiche a ciascuna di quelle parti del materiale nel quale s’ingenerino.

SVF II, 450

Galeno ‘De musc. mot.’ I, 7, IV, p. 400 K. [Galeno si chiede: se uno solleva il braccio e lo mantiene disteso, i muscoli continuano a muoversi?] [II,148,5] Per il fatto che i muscoli stanno compiendo un’attività: è per questo che noi diciamo che si muovono? Per il fatto che né l’intero membro del quale i muscoli sono parte, né essi stessi appaiono muoversi quando si mantiene una certa posizione: è di nuovo per questo che noi non abbiamo l’audacia di ammettere che essi si muovono? Qualcuno sarebbe capace di trovare una soluzione di questa aporia? Forse la soluzione è quella di coloro che pongono l’esistenza dei cosiddetti ‘movimenti tonici’, oppure ce n’è un’altra ancora migliore? […] [II,148,10] Facciamo così, e il ragionamento vada avanti, in prima istanza, come quei <filosofi> insegnano. Immaginiamo dunque che un corpo inanimato, per esempio, un pezzo di legno o una pietra, sia trascinato da qualcosa. Poi immaginiamo che questo stesso corpo sia a sua volta tirato in direzione contraria da qualcos’altro, che questa forza domini per vigore la precedente trazione, e che perciò il corpo segua la forza dominante, ma molto meno che se non fosse per nulla [II,148,15] trascinato in senso opposto. Applichiamo ora ad un corpo siffatto una terza condizione, ossia quella di subire una tensione di uguale forza in direzioni opposte. Pertanto la prima condizione lo fa muovere di un solo moto, pari alla quantità di forza del movente; e lo costringe ad avanzare di uno spazio tanto grande quanta è la capacità del movente di condurlo a tale distanza. La seconda condizione dimostra [II,148,20] che lo spazio percorso è di tanto minore del precedente di quanto l’altra forza movente ha contrastato il movimento in direzione opposta. La terza condizione mostra che di quanto uno dei due movimenti ha trascinato verso l’avanti il corpo, di tanto l’altro movimento lo ha contrastato verso l’indietro, costringendolo così a rimanere fermo sul posto. Non però come un corpo del tutto immobile, giacché anche questo rimane del tutto fermo sul posto ma non in modo simile all’altro. Infatti, uno rimane fermo perché non si muove affatto mentre l’altro, invece, rimane fermo perché [II,148,25] ha subito ben due movimenti, come accade a chi nuota controcorrente in un fiume. Anche questo nuotatore, qualora la veemenza della corrente sia pari alla sua forza, resta nello stesso posto, non come se non si muovesse affatto ma perché di tanto si sposta verso l’avanti col proprio movimento, di quanto è portato verso l’indietro dalla forza esterna. Non c’è nulla di male nell’indagare una faccenda così poco chiara con un maggior numero di esempi. Vi sia [II,148,30] in alto nel cielo un uccello che appare fermo nello stesso posto. Bisogna dire che esso non sta compiendo alcun movimento, come se fosse casualmente appeso lassù; oppure che esso sta compiendo un movimento verso l’alto tanto grande quanto è grande il peso del suo corpo che lo condurrebbe verso il basso? A me sembra che questa seconda spiegazione sia la più vera. Infatti, quando fosse privato dell’animo o del tono muscolare, lo vedresti in fretta portarsi in basso verso terra. [II,148,35] Da ciò è manifesto che la connaturata propensione verso il basso dovuta al peso del corpo era controbilanciata a parità dal decorso verso l’alto dovuto al tono del suo animo. Quindi, in tutte le condizioni di questo genere il corpo è portato ora verso il basso ora verso l’alto e sperimenta a turno cose opposte, ma a causa del fatto che le trasformazioni sono rapide, i cambiamenti di direzione repentini e che i movimenti durano intervalli di tempo brevissimi, il corpo appare rimanere nello stesso posto; [II,148,40] oppure il corpo rattiene effettivamente per tutto il tempo un solo posto? Non è adesso il momento adatto per dilungarci nella discussione, giacché è più giusto fare inchieste su siffatte questioni nel corso dei ragionamenti fisici sul movimento. Basta per ora avere scovato questo, ossia l’esistenza di una certa specie di attività che non farà differenza chiamare ‘tonica’ oppure [II,148,45] diversamente, come tu voglia.

SVF II, 451

Nemesio ‘De nat. hom.’ 2, 47, P. G. XL, col. 539. Se essi dicessero, come gli Stoici, che esiste nei corpi un certo movimento ‘tonico’ che muove verso l’interno e insieme [II,149,1] verso l’esterno; e che il movimento verso l’esterno ha come risultato finale delle grandezze e delle qualità, mentre quello verso l’interno ha come risultato finale dell’unione e della sostanza, bisogna loro domandare […] [segue una refutazione platonica] Se dicessero che i corpi sono tridimensionali, che l’animo [II,149,5] che pervade l’intero corpo è tridimensionale e che per questo motivo l’animo è affatto corpo, noi diremo loro […]

SVF II, 452

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 68E Ed. Bas. Gli Stoici pongono l’esistenza di una forza o piuttosto di un movimento ‘diradante’ e ‘infittente’, uno [II,149,10] diretto verso l’interno e l’altro verso l’esterno; e legittimano l’idea che uno sia causa dell’essere e l’altro della qualificazione qualitativa dell’essere.

SVF II, 453

Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 68, I, p. 230, 5 Wendl. [a proposito del ‘logos’] ….moventesi non per transizione, come se prendesse un posto dopo essersene lasciato dietro un altro, ma utilizzando il movimento ‘tonico’.

SVF II, 454

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 149. [L’argomentazione di Carneade sull’inesistenza degli dei rispecchia la dottrina Stoica sull’animo] [II,149,15] Allo stesso modo la divinità è inanimata. Infatti, se essa è tenuta insieme da un animo, lo è in ogni caso da uno pneuma che si porta dal centro all’estrema periferia e dall’estrema periferia al centro.

SVF II, 455

Cleomede ‘De motu circulari corporum caelestium’ I, 8, p. 58 Bake. I corpi solidi [II,149,20] sono in grado di assumere varie forme geometriche, mentre nel caso di una sostanza pneumatica o ignea lasciata a se stessa, nulla fa sì che qualcosa del genere avvenga. Queste pertanto pervengono a sintonizzarsi con la forma geometrica che è appropriata alla natura di quei solidi, e parimenti a coprire la distanza dall’esatto centro in ogni direzione, poiché la loro sostanza è molle, è nulla di solido, che potrebbe altrimenti far loro prendere una figura diversa.

SVF II, 456

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 68E Ed. Bas. [II,149,25] Quindi gli Stoici dicono che è la tensione a procurare il contegno, come fosse quel che sta frammezzo a dei segni intervallati. È per questo che definiscono ‘retta’ la linea che è ‘tesa all’estremo’.

SVF II, 457

Galeno ‘De dignosc. puls.’ IV, 2, Vol. VIII, p. 923 K. La [II,149,30] questione del ‘tono’ è controversa. Tanto per cominciare, la presenza di un qualunque tono nei corpi degli esseri viventi non è stata ammessa da parte di coloro che frantumano l’intera sostanza in entità minime, o in atomi, o in entità prive di agganci. Il tono è ammesso soltanto da quanti sono dell’avviso che la sostanza sia un’entità unitaria.

SVF II, 458

[1] Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ II, 22, I, p. 95, 8 W. La mente <quando è ancora nuda e non confinata nel corpo> [II,149,35] possiede molte facoltà: quella coesiva, vegetativa, animale, logica, intellettiva, e altre miriadi sia specifiche che generiche. La forza di coesione è comune anche agli esseri inanimati, come pietre e legno; e di essa partecipano anche quelle che in noi somigliano a pietre: ossia le ossa. La facoltà vegetativa è quella che pertiene ai vegetali, ed in noi ci sono parti che somigliano ai vegetali: le unghie e i peli. La facoltà vegetativa è la forza coesiva ormai dotata di movimento. La facoltà diventa animale [II,149,40] quando le siano state aggiunte la rappresentazione e l’impulso. Questa è comune anche agli animali privi di ragione; e la nostra mente possiede qualcosa di analogo all’animo dell’animale privo di ragione. A sua volta, la facoltà intellettiva è propria della mente, e quella logica è probabilmente comune anche alle nature più divine, ma è peculiare, tra i mortali, dell’uomo. Questa facoltà è duplice: da un lato è ciò grazie a cui, partecipando della mente, siamo esseri logici; dall’altro è ciò grazie a cui siamo capaci [II,149,45] di dialogare.

[2] ‘Quod deus sit immutabilis’ § 35, II, 64, 1 Wendl. Dei corpi, alcuni sono mantenuti legati dalla forza di coesione, altri dalla facoltà vegetativa, altri dalla facoltà animale ed altri ancora [II,150,1] dalla facoltà animale razionale. Delle pietre e del legno, che invero sono state spiccate da un’identica natura, <il divino artefice> lavorava quale robustissimo legaccio la forza di coesione, la quale è uno pneuma capace di rivolgersi su se stesso. Esso comincia a tendersi dal centro verso i limiti periferici, e quando sia entrato in contatto con le superfici estreme ripiega indietro fino a che non abbia di nuovo raggiunto lo stesso luogo [II,150,5] dal quale aveva dapprima preso le mosse. Questa continua ‘doppia corsa’ della forza di coesione è imperitura e i corridori a piedi la imitano quando, durante le feste triennali in anfiteatri aperti a tutti gli uomini la sfoggiano come un’opera grande, illustre, degna di contesa. La facoltà vegetativa egli l’assegnava invece ai vegetali, dopo averla mescolata a partire da molteplici facoltà: quella nutritiva, quella di trasformarsi e di crescere.

[3] § 41. [II,150,10] <Il divino artefice> faceva poi la facoltà animale differente da quella vegetale per tre cose: la sensazione, la rappresentazione e l’impulso. Infatti, i vegetali sono privi di impulsi, di rappresentazioni e non partecipano della sensazione, mentre invece gli animali partecipano di tutte e tre insieme le cose appena dette. Dunque la sensazione, come lo stesso nome in qualche modo rende manifesto, essendo una sorta di ‘imposizione’, immette le apparenze dentro la mente. Tutte quante le apparenze [II,150,15] visive, acustiche e mediate dagli altri organi di senso sono così riposte dentro la mente e sono in essa tesaurizzate, poiché la mente è una grande ed onnicomprensiva tesoreria. La rappresentazione è un’impressione nell’animo animale, e ciò che ciascuna sensazione vi ha introdotto, come fosse un anello o un sigillo, vi lascia ben ricalcato l’appropriato carattere. Somigliante a cera, la mente, una volta accolto il calco, lo custodisce in sé con somma cura, fino a che [II,150,20] l’irriducibile avversario della memoria, l’oblio, spianata la traccia, la renda indistinta o la faccia definitivamente sparire. Ciò che gli appare, dispone inoltre l’animo animale a modellarsi ora in modo da appropriarsi di sè, ora in modo diverso. Quest’affezione si chiama ‘impulso’, ed è quello che per definizione si affermava essere il primo movimento dell’animo animale. Per tutti questi aspetti gli animali soverchiano i vegetali. Vediamo adesso per cosa l’uomo ha superato gli altri esseri viventi. [II,150,25] L’uomo ha avuto in sorte questa singolare e speciale parte del bottino che è l’intelletto, grazie al quale gli è di solito dato di capire la natura di tutte le realtà, tanto corpi che fatti. Proprio come nel caso del corpo la facoltà egemone è la vista e nel caso dell’universo è la natura della luce, allo stesso modo, delle facoltà che sono in noi la più eccellente è la mente. Infatti, la mente è la vista dell’animo umano, quella che fa luce tutt’intorno con i raggi appropriati, attraverso i quali dissipa la grande e profonda [II,150,30] tenebra che l’ignoranza della realtà dei fatti riversava in giro.

SVF II, 459

Critolao presso Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 75, VI, p. 96 Cohn-Reiter. Perché mai non si deve pur dire che la natura del cosmo è la perenne “messa in posizione di ciò ch’è privo di posizione, armonia di ciò ch’è privo di armonia, accordo di ciò ch’è privo di accordo, unione di ciò ch’è disparato, forza di coesione del legno e delle pietre, facoltà vegetativa dei coltivi [II,150,35] e degli alberi, facoltà animale di tutti gli animali, mente e ragione degli uomini, virtù perfettissima dei virtuosi”?

SVF II, 460

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 451b. In generale <gli Stoici> stessi [II,150,40] affermano, ed è manifesto, che alcuni esseri sono governati dalla forza di coesione, altri dalla facoltà vegetativa, altri da una facoltà animale priva di ragione e altri ancora da una facoltà razionale e intellettiva.

SVF II, 461

Dexippo ‘In Aristot. categ.’ p. 50, 31 Busse. Mi stupisco che gli Stoici separino le ‘forze di coesione’ dalle ‘qualità possedute’. Infatti, non accettando che gli incorporei [II,150,45] abbiano esistenza di per sé, essi vengono a siffatte puntualizzazioni qualora ci sia bisogno di trovare delle scappatoie.

SVF II, 462

Galeno ‘De nat. facult.’ II, 3, Vol. II, p. 82 K. [II,151,1] Quella natura che plasma le parti del corpo, che in breve tempo le fa crescere del tutto, che è distesa attraverso tutte loro; <quella natura> plasma, nutre e fa crescere completamente tutti gli esseri, non soltanto dal di fuori,[…] giacché non c’è parte <del cosmo> che sia priva di contatto, [II,151,5] che non sia elaborata, che sia lasciata in disordine da quella natura.

§ 11. Sulla mescolanza

Frammenti n. 463-481

SVF II, 463

Galeno ‘In Hippocr. de natura hom.’ I, 2, XV, p. 32 K. Taluni dichiararono che soltanto le quattro qualità si mescolano interamente tra di loro; taluni [II,151,10] invece dichiararono che sono le sostanze. I Peripatetici sono sostenitori della prima opinione, gli Stoici della seconda.

SVF II, 464

Galeno ‘De elementis sec. Hippocr.’ I, 9, I, p. 489 K. Non è necessario che i medici sappiano anche come i soggetti che si mescolano si mescolino interamente: se si tratti soltanto delle qualità, come concepiva Aristotele, [II,151,15] oppure anche delle sostanze corporee che entrano una nell’altra.

SVF II, 465

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1077e. È contrario ad ogni concetto di comune buonsenso <pensare> che un corpo è spazio di un corpo; che un corpo si fa spazio attraverso un altro corpo, quando nessuno dei due include in sé alcun vuoto; che vi è del pieno che s’insinua nel pieno; che ciò che non ha rotture né posto al proprio interno per via della sua continuità, [II,151,20] accoglie quel che gli viene mescolato. Coloro che comprimono in un solo corpo non uno né due né tre né dieci corpi, ma che sbattono dentro ogni singolo corpo, qualunque sia, tutte le parti del cosmo ridotto in spiccioli; e sono dell’avviso che il menomo oggetto sensibile non perda il confronto rispetto al più grande, sono mossi da giovanilismo […]

[2] p. 1078b. Poiché nel mescolamento i corpi si fanno spazio reciprocamente uno nell’altro, è necessario [II,151,25] che uno dei due non sia quello che include e l’altro quello che è incluso, uno quello che accoglie e l’altro quello che è accolto; giacché allora questo non sarà ‘mescolamento’ bensì tocco e contatto di superfici: quella interna come superficie rivestita e quella esterna come superfice che include, mentre le altre parti interessate rimangono invece intatte e fuori della mischia. Quando, secondo il loro parere, avviene la ‘compenetrazione’, è necessario che i corpi mischiati diventino gli uni gli altri e del pari che l’essere incluso dell’uno sia identico all’essere accolto dell’altro [II,151,30] e che l’includere dell’uno sia identico all’accogliere dell’altro. Accade allora che nessuno dei due possa di nuovo esistere singolarmente, poiché la mescolanza forza entrambi i corpi ad attraversarsi, a non lasciarsi dietro nessun pezzo di sé e a riempirsi del tutto l’un l’altro.

SVF II, 466

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 219, 16 Bruns. Un corpo [II,151,35] tridimensionale di qualunque forma, qualora sia composto con un altro corpo a lui simile, necessariamente aumenta di volume. Se questa proprietà attiene ai corpi ed è loro peculiare, coloro i quali dicono che un corpo si fa spazio attraverso un altro corpo e fanno della loro somma un corpo con volume minore o pari, eliminano questa proprietà ed eliminerebbero la sua natura di corpo.

SVF II, 467

[1] Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 530, 9 Diels. [II,151,40] Che un corpo si faccia spazio attraverso un altro corpo, gli antichi lo prendevano come un’evidente assurdità. Gli Stoici invece, [II,152,1] successivamente convennero che ciò fosse conseguente con le loro proprie ipotesi, ipotesi che essi ritenevano dover essere in ogni modo valide. Reputando di poter affermare che tutte le realtà sono corpi, compreso l’animo e le qualità, ed osservando che l’animo e le qualità trovano spazio attraverso tutto il corpo, convenivano che nelle mescolanze [II,152,5] un corpo è capace di farsi spazio attraverso un altro corpo.

[2] p. 22. Coloro i quali affermano che i corpi si fanno spazio uno nell’altro non accagionano di ciò il vuoto.

SVF II, 468

Temistio ‘Paraphr. in Aristotelis Physica’ IV, 1, p. 256 Sp. Ma in questo modo s’andrà incontro alla conseguenza più assurda di tutte. Infatti, un corpo si farà interamente spazio attraverso un altro corpo e due corpi occuperanno lo stesso spazio; giacché se [II,152,10] anche lo spazio è corpo, ed è corpo anche quello che lo occupa ed entrambi sono pari per dimensioni, un corpo sarà parimenti in un altro corpo. Questo si trova nei principi dottrinali di Crisippo e dei seguaci di Zenone. Invece gli antichi […]

SVF II, 469

Ippolito ‘Refutationes’ 21 (Dox. Gr. p. 571, 23). [II,152,15] <Crisippo e Zenone> ipotizzarono che fossero tutti corpi; che un corpo possa farsi spazio entro un altro corpo ma che possa anche riuscirne fuori; che tutto sia pieno e che non esista il vuoto. Questo dicono anche gli Stoici.

SVF II, 470

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 216, 1 Bruns. Dopodiché veniamo a coloro i quali dicono che la materia è comunemente unitaria ed ipotizzano che essa sia una sola e identica per tutti gli esseri […] [II,152,20] Tra quanti affermano che la materia è unitaria, sembra siano soprattutto gli Stoici ad operare delle distinzioni a proposito della mescolanza. Essendovi anche tra costoro molteplici voci (giacché alcuni dicono che le mescolanze avvengono in un certo modo ed altri invece in un altro), l’opinione sulla mescolanza che tra di essi sembra avere il maggiore consenso [II,152,25] è quella esposta da Crisippo. Tra i filosofi venuti dopo Crisippo, alcuni sono favorevoli a lui ma altri, avendo potuto successivamente ascoltare l’opinione di Aristotele circa la mescolanza, ripetono molte delle opinioni espresse da quest’ultimo. Uno di questi è Sosigene, compagno di Antipatro. Costoro, non potendo tuttavia essere interamente favorevoli alle opinioni di Aristotele a causa del loro disaccordo con lui su altre questioni, [II,152,30] in molte delle cose che dicono si fanno trovare in contraddizione.

SVF II, 471

Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 153, 24 W. Crisippo sostiene saldamente qualcosa del genere: l’essere è ‘pneuma che muove se stesso verso di sé e fuori di sé’; oppure: ‘pneuma che muove se stesso avanti e indietro’. Il termine pneuma è stata assunto per il fatto che ‘pneuma’ è chiamata l’aria in movimento; [II,152,35] e una cosa analoga avviene anche a proposito dell’etere, sicché i due termini cadono entro un discorso comune. Un movimento di questo genere avviene soltanto secondo coloro i quali legittimano l’idea che la sostanza tutta sia passibile di trasformazione, fusione di qualità componenti, assemblaggio di componenti, mistione, giunzione naturale di parti [II,153,1] e fenomeni similari a questi. Ha poi il beneplacito dei filosofi di scuola Stoica l’affermazione che vi siano differenze tra ‘accostamento’, ‘mistura’, ‘mescolanza’ e ‘fusione di qualità componenti’. L’ ‘accostamento’ è un contatto dei corpi che coinvolge soltanto le loro superfici, quale lo vediamo nel caso dei mucchi nei quali sono inclusi frumento, orzo, lenticchie ed altre [II,153,5] granaglie similari a queste, oppure nel caso di mucchi di ciottoli e di sabbia sulle spiagge. La ‘mistura’ è l’interpenetrazione intera di due o più corpi i quali conservano le loro connaturate qualità, quale si ha con il fuoco ed il ferro rovente, nel caso dei quali l’interpenetrazione dei corpi è appunto intera. Similmente avviene anche nel caso dei nostri animi, [II,153,10] giacché essi s’interpenetrano interamente coi nostri corpi, ed ha il loro beneplacito l’idea che un corpo ne interpenetri un altro. Essi dicono poi che la ‘mescolanza’ è l’interpenetrazione intera di due o più corpi umidi, i quali conservano le loro qualità. [Mentre la mistura interessa corpi secchi: per esempio, [II,153,15] il fuoco e il ferro; oppure l’animo e il corpo che lo include; essi affermano che la mescolanza avviene soltanto con i corpi umidi]. Infatti, dalla mescolanza viene messa in risalto la qualità di ciascuno degli ingredienti mescolati insieme: per esempio, vino, miele, acqua, aceto e similari. Che in siffatte mescolanze perdurino le qualità dei corpi mescolati insieme, [II,153,20] è manifesto dal fatto che spesso, con opportuni accorgimenti, questi corpi si separano gli uni dagli altri. Pertanto, se si ficca una spugna intrisa d’olio in vino mescolato ad acqua, l’acqua si separerà dal vino poiché essa corre su verso la spugna. La ‘fusione di due o più qualità componenti’ dei corpi è la trasformazione che porta alla genesi di un’altra qualità differente da queste, [II,153,25] come avviene nel caso della sintesi di oli odorosi e dei farmaci medicinali.

SVF II, 472

Filone Alessandrino ‘De confus. ling.’ 184, II, p. 264, 23 Wendl. Possiamo valutare cosa sia la ‘mistura’, riferendoci alle sostanze secche; e cosa sia la ‘mescolanza’ riferendoci a quelle umide. La mistura, infatti, è l’accostamento disordinato di corpi differenti, come se [II,153,30] si facesse un mucchio mettendo insieme dei semi d’orzo, di frumento, di veccia e d’altre specie di coltivi. La mescolanza non è invece un accostamento ma l’interpenetrazione di parti dissimili che s’insinuano interamente una nell’altra e le cui qualità possono ancora essere distinte con qualche artifizio, com’essi dicono che avviene nel caso del vino mescolato all’acqua. Quando si riuniscono queste due sostanze ne risulta, infatti, la mescolanza; e tuttavia questa può nondimeno [II,153,35] tornare di nuovo al punto di partenza, ripristinandosi le qualità degli ingredienti dei quali è il risultato; giacché l’acqua può essere riassorbita con una spugna intrisa d’olio, mentre ne sopravanza il vino. Può darsi che ciò accada perché la genesi della spugna avviene nell’acqua, ed essa è dunque per natura atta ad assorbire in sé l’acqua presente nella miscela ed a lasciar sopravanzare ciò che le è estraneo, ossia il vino. La ‘fusione di qualità componenti’ è l’estinzione delle qualità [II,154,1] originarie, le quali si interpenetrano in tutte le loro parti e producono la genesi di una nuova e differente qualità, come accade al momento della composizione del tetrafarmaco in medicina. Credo che questo farmaco risulti dalla combinazione di cera, sego, pece e resina. Una volta legatosi, non esiste accorgimento capace di separare e distinguere di nuovo le caratteristiche degli ingredienti dai quali è composto, poiché ciascuna di esse [II,154,5] è sparita e l’estinzione di tutte quante ha generato una sola, speciale e diversa caratteristica.

SVF II, 473

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 216, 14 Bruns. L’opinione di Crisippo sulla mescolanza è la seguente: egli ipotizza che tutta quanta la sostanza sia unitaria e che uno pneuma la pervada tutta, uno pneuma ad opera del quale l’universo è reso coeso, rimane unito ed è consentaneo a se stesso. Dei corpi che [II,154,10] in essa sono mischiati, egli dice che alcune misture avvengono per ‘accostamento’ quando due o più sostanze si compongono in una e sono accostate una all’altra, così afferma, per ‘giuntura’; salvaguardando però ciascuna di esse in siffatto accostamento per contornamento, la propria attinente sostanza e qualità: come accade, si fa per dire, con le fave e i chicchi di grano [II,154,15] posti gli uni accanto agli altri. Altre misture avvengono invece per ‘fusione di qualità componenti’, quando le intere loro sostanze e qualità spariscono confondendosi una nell’altra: com’egli afferma avvenire nel caso dei farmaci preparati dai medici, nei quali si ha la scomparsa e la confusione delle sostanze mischiate poiché da esse si è generato un certo altro corpo. <Crisippo> dice poi che certe altre misture avvengono quando alcune sostanze [II,154,20] e le loro qualità si interpenetrano reciprocamente, salvaguardando in questo genere di mistura le sostanze e le qualità iniziali: questa è, tra le misture, quella che egli chiama peculiarmente ‘mescolanza’. Infatti, l’interpenetrazione di due o più corpi in tutto e per tutti gli uni negli altri, in modo che ciascuno di essi salvaguardi, in una mistura del genere, la sostanza che gli [II,154,25] è attinente e le sue qualità è secondo lui caratteristico, tra le misture, soltanto della ‘mescolanza’; giacché è peculiare delle sostanze ‘mescolate’ il potersi di nuovo separare una dall’altra, e ciò avviene unicamente se nella mistura si salvaguardano le loro mescolate nature. Del fatto che queste siano le differenze tra le misture, <Crisippo> prova a rendersi garante attraverso i ‘concetti comuni’, ed afferma che noi assumiamo questi concetti dalla natura proprio [II,154,30] perché sono criteri di verità. Pertanto noi abbiamo una diversa rappresentazione dei corpi che constano di una mistura per ‘giuntura’; un’altra dei corpi che constano di una mistura per ‘fusione di qualità componenti’ e per loro ‘sparizione e confusione’; un’altra ancora dei corpi che constano di una mistura per ‘mescolanza’, ossia le cui sostanze sono interamente interpenetrate le une nelle altre in modo che ciascuna di esse salvaguardi la sua appropriata natura. E noi non avremmo [II,154,35] questa diversità di rappresentazioni se tutti i corpi mischiati come che sia si stessero l’un l’altro addosso per ‘giuntura’. Una siffatta interpenetrazione dei componenti mescolati, <Crisippo> la concepisce [II,155,1] avvenire quando i corpi mescolati riescono a farsi spazio uno nell’altro in modo che neppure un loro pezzetto non sia coeso con tutti gli altri presenti in un miscuglio del genere; giacché, se così non fosse, non si tratterebbe più di una ‘mescolanza’ bensì di un ‘accostamento’ di componenti. A garanzia che avvenga quel che essi credono, i sostenitori [II,155,5] di questa opinione portano il fatto che molti corpi salvaguardano le loro qualità nel caso di evidenti particelle sia di più piccola mole che di mole maggiore; com’è possibile vedere con l’incenso, il quale nell’andare in fumo si riduce in fini particelle ma custodisce per la maggior parte intatta la propria qualità. Inoltre, sono molti i corpi incapaci di per sé di raggiungere una certa grandezza, ma che vi giungono [II,155,10] quando siano aiutati da altri corpi. Dunque l’oro, quando sia mischiato con determinati farmaci, per la maggior parte fonde e s’affina quanto da solo non avrebbe potuto essere spinto a fare. Noi stessi, insieme con altri, riusciamo a compiere delle attività che non siamo in grado di compiere da soli. Infatti, tenendoci a stretto contatto gli uni agli altri traversiamo fiumi che non siamo capaci di traversare [II,155,15] da soli; e con altri portiamo pesi, la parte dei quali a noi spettante non possiamo portare se siamo soli; e le viti, che non possono stare ritte da sé sole, implicandosi una all’altra si alzano. Stando così le cose, essi affermano che non v’è nulla di stupefacente nel fatto che certi corpi, aiutandosi reciprocamente, si unifichino così interamente gli uni agli altri [II,155,20] da salvaguardarsi con le qualità loro attinenti pur interpenetrandosi interamente gli uni negli altri; anche se ammettono che vi siano dei corpi di mole minore i quali non possono di per sé soli fondersi a tal punto e insieme salvaguardare le qualità loro attinenti: così accade quando un ciato di vino viene mescolato con moltissima acqua, giacché il vino è aiutato dall’acqua a diluirsi fino a tal punto. Essi utilizzano quale evidente [II,155,25] testimonianza che la faccenda sta in questi termini il fatto che l’animo animale, il quale ha una realtà sostanziale che gli attiene, come pure l’ha il corpo che l’accoglie in sé, pervade interamente il corpo; e che l’animo, nella sua mistura con il corpo, salvaguarda la sostanza che gli è propria, giacché nessuna parte del corpo che ha in sé l’animo è spartita da tale animo. Le cose stanno in modo simile pure nel caso della facoltà vegetativa dei vegetali; ed anche in quello della forza di coesione [II,155,30] per i corpi che dalla forza di coesione sono tenuti insieme. Essi dicono anche che il fuoco si fa spazio in tutto e per tutto nel ferro, mentre ciascuno dei due salvaguarda la sostanza che gli attiene. Affermano poi che due dei quattro elementi, il fuoco e l’aria, poiché sono finemente particellari, leggeri ed eutonici, hanno permeato in tutto e per tutto gli altri due, la terra e l’acqua, che sono invece grossolanamente particellari, pesanti e atoni, [II,155,35] salvaguardando la natura loro attinente e la continuità, tanto propria che altrui. Essi ritengono che i farmaci deleteri e rovinosi e gli odori, quanti sono di questo genere, quando siano accostati ai corpi che ne soffrono le conseguenze, si mescolano loro in tutto e per tutto. Crisippo dice che la luce si mescola all’aria. Questa è l’opinione II,155,40] di Crisippo e dei filosofi suoi seguaci circa la ‘mescolanza’.

SVF II, 474

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 221, 16 Bruns. Se i corpi [II,156,1] che vanno incontro alla fusione di qualità componenti e quindi spariscono confondendosi non sono capaci di salvaguardare se stessi, neppure si salvaguarderebbero le loro forze di coesione. E se è uno solo il corpo generato dai corpi che hanno subito la fusione di qualità componenti e sono spariti confondendosi, è necessario che quest’unico corpo sia tenuto insieme, come dicono, da un’unica forza di coesione.

SVF II, 475

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 226, 34 Bruns. [II,156,5] Io fui mosso a fare queste affermazioni a causa di coloro che replicano polemicamente ad Aristotele a proposito del ‘quinto corpo’ e di coloro che, per ambizione d’onori, provano a recalcitrare davanti alle sole cose degne di merito che siano state dette circa gli dei; ed anche a causa di coloro che non capiscono il fondamento dell’assurdità delle cose che dicono, e per i quali i dominanti e sommi principi dottrinali filosofici dipendono [II,156,10] e si strutturano a partire dalla stupefacente dottrina che un corpo possa farsi spazio attraverso un altro corpo. Il loro discorso sulla mescolanza non si basa su altro, ed anche ciò che essi dicono sull’animo dipende da questo fondamento. Essi traggono di qui la fede nel da loro tanto decantato destino e nella provvidenza universale; e pure il loro discorso sui principi, su dio, [II,156,15] sull’unità dell’universo e la sua consentaneità a se stesso: per loro, infatti, tutte queste cose altro non sono che la divinità che pervade la materia. Questo fondamento, ossia che un corpo si fa spazio attraverso un altro corpo, fondamento dal quale sono state fatte dipendere le loro convinzioni su quasi tutta la scienza della natura, è affermato in contrasto con le comuni prolessi e in contrasto con le opinioni di tutti i filosofi. Secondo loro esso trae garanzia, come si trattasse di un fatto evidente, [II,156,20] dall’affermazione che il ferro, quando sia infuocato non s’accende e non brucia similmente alle sostanze delle quali il fuoco si serve come materiale. Essi concepiscono invece che il fuoco si faccia spazio attraverso tutto il ferro con quella materia grazie alla quale, quando esso è nelle immediate vicinanze del ferro, lo scalderebbe e accenderebbe.

SVF II, 476

Alessandro d’Afrodisia ‘Quaest.’ II, 12, p. 57, 9 Bruns. [Il fatto che i corpi possano restringersi non dimostra che un corpo possa farsi [II,156,25] spazio attraverso un altro corpo, e confuta la spiegazione Stoica della ‘mescolanza totale’] Se dunque, nel farsi spazio dei corpi reciprocamente uno nell’altro, avvenisse una trasformazione che comporta perdita o addensamento di parti, forse il prodotto derivante dalla mistura di entrambe le sostanze potrebbe occupare successivamente quello che fino ad allora era lo spazio occupato da altro; ma se invece [II,156,30] le parti rimangono le stesse (giacché si reputa che ciascuna sostanza salvaguardi la propria natura), come sarebbe fattibile che ciò avvenisse? Inoltre, talune sostanze mischiate non solo non fanno il miscuglio più grossolano bensì più fine di quanto non fosse all’inizio, sicché bisognerebbe che ciò che era di mole maggiore occupasse anche più spazio.

SVF II, 477

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 139, 30 Bruns. Il fatto che [II,156,35] un corpo pervada un altro corpo, come se i corpi avessero dei vuoti […] diverso è il discorso […] se invece non si ammette che ciò avvenga attraverso dei vuoti (e i fautori di questa tesi affermano che non vi è alcun vuoto nel cosmo), ma <si sostiene> che un corpo il quale è in sé tutto pieno, quando ne accoglie un altro il quale è a sua volta similmente tutto pieno, non aumenta di volume e continua ad occupare lo stesso spazio: perché mai allora questo corpo qui accoglierà in sé un altro corpo [II,156,40] e quest’altro qui invece non lo accoglierà […]

[2] p. 140, 10. Inoltre, se tutti i corpi si estendono a tutti i corpi; quelli più piccoli a quelli più grandi, fino all’estremità della loro superficie: ciò che occupa un luogo solo occuperà il luogo di ambedue insieme.

[3] p. 140, 20. […] se il loro luogo è pari, anche i corpi sono pari; e se quelli che ne sono la somma saranno pari a quelli, [II,157,1] allora anche la somma sarà pari a ciascuno dei due. In questo modo il ciato di vino versato in alto mare sarà pari all’alto mare, e l’alto mare più il ciato di vino sarà pari al solo ciato. Dire che in potenza essi non sono pari, non inficia il ragionamento; giacché basta, per la dimostrazione dell’assunto in questione, [II,157,5] il fatto che essi siano per natura pari per qualificazione quantitativa. Inoltre, il fuoco non passerà attraverso il ferro più di quanto il ferro passi attraverso il fuoco, giacché la facoltà animale passa attraverso il corpo, la facoltà vegetativa attraverso i vegetali e la forza di coesione attraverso gli altri corpi, ma a loro volta questi passano attraverso quelle. E non si conclude nulla dicendo che qualcosa è più fine o più grossolano, se entrambi sono corpi pieni. […] Inoltre, [II,157,10] qual è la causa per cui con la mischiatura la massa di certi corpi diviene più grande, e invece nel caso di altri rimane la stessa? È illogico dire che il ferro diventa più denso nella mistura con il fuoco.

SVF II, 478

Plotino ‘Enneadi’ II, VII, 1, 23 segg. A loro volta, coloro che introducono l’idea della mescolanza totale potrebbero dire che <il corpo> è sì tagliato, ma non è tutto speso nei tagli [II,157,15] pur se la mescolanza è totale; poiché affermeranno che anche le gocce di sudore non fanno tagli nel corpo, né questo risulta essere forato da esse. E uno di loro direbbe che nulla impedisce che la natura abbia fatto dei tagli in questo modo perché le gocce di sudore possano passarvi attraverso, dal momento che anche nel caso di tagli fatti ad arte, qualora essi siano sottili e pervi, è dato vedere che l’umido li impregna interamente e vi scorre attraverso dall’altra [II,157,20] parte. Ma trattandosi di corpi, come sia possibile che avvenga il ‘passare attraverso’ senza che vi siano dei tagli, non è facile divisarlo; e se i corpi si tagliano, è manifesto che essi si elimineranno del tutto l’un l’altro. Qualora gli oppositori dicano che <nella mescolanza> sovente non c’è aumento di volume, essi ne accagionano l’uscita <dai corpi> dell’aria. In risposta all’aumento di volume, cosa impedisce loro di dire ugualmente, sebbene di malavoglia, che è necessario che si abbia un aumento di volume, [II,157,25] dal momento che ciascuno dei due corpi contribuisce, insieme con le qualità, anche la grandezza? Infatti, come <nella mescolanza> non si perdono le altre qualità, neppure si perde la grandezza. E come, in quel caso, nasce un’altra forma di qualità mista delle qualità di entrambi i corpi, così pure il miscuglio delle grandezze forma appunto un’altra grandezza che è la somma di entrambe. […] È di per sé appariscente che un corpo più piccolo può pervaderne totalmente uno più grande, ed uno piccolissimo uno grandissimo; [II,157,30] e che nei casi dubbi è lecito dire che non lo pervade del tutto. Ora, nei casi in cui <la mescolanza> avviene in un modo di per sé appariscente, essi potrebbero dire che si tratta di distensioni delle masse, pur se non si dice una cosa molto plausibile facendo distendere così tanto un corpo di massa piccolissima; giacché anche quando ne ammettono la trasformazione, come se da acqua diventasse aria, essi non concedono al corpo di acquisire una grandezza maggiore. Ma che cosa accade quando [II,157,35] quel che era una massa d’acqua diventa aria e come ci possa essere più aria, è un fatto che va indagato a parte e di per sé.

SVF II, 479

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 151. Secondo le affermazioni di Crisippo nel terzo libro della ‘Fisica’, le mescolanze avvengono ‘totalmente’, e non per ‘contornamento’ o per ‘accostamento’. Infatti, un po’ di vino gettato in alto mare, dopo alquanto vi sarà interpenetrato e poi sparirà confondendosi con esso.

SVF II, 480

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1078e. [II,157,40] Subito all’inizio del primo libro delle ‘Ricerche Fisiche’, Crisippo accetta queste argomentazioni, quando afferma che nulla preclude che una sola stilla di vino temperi [II,158,1] il mare e, affinché noi non ci si stupisca di questo fatto, afferma che la stilla s’estende, col mescolamento, all’intero cosmo.

SVF II, 481

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 213, 2 Bruns. Come potrebbe uno accettare che, in siffatta mescolanza, ciascuno dei corpi [II,158,5] che si mescolano possa serbare la propria superficie in modo tale che, mentre neppure una sua parte qualunque si trova separata da una qualunque dell’altro corpo, contemporaneamente ciascun corpo serba la superficie che aveva prima della mescolanza? La tesi di Crisippo secondo la quale, quando siano in questo miscuglio, i corpi mescolati possono essere di nuovo separati, va poi addirittura oltre [II,158,10] le favole paradossali contenute nei miti.

[2] p. 220, 37. Se i corpi mescolati sono stati mischiati totalmente, e non esiste parte di essi che nel miscuglio non sia mischiata con un’altra, è impossibile che ciascuno dei due corpi rimanga incluso nella propria superficie.

§ 12. Sulla divisione all’infinito

Frammenti n. 482-491

SVF II, 482

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 142, 2 W. [II,158,15] Crisippo era dell’avviso che i corpi possono essere tagliati all’infinito, come pure ciò che ai corpi somiglia: per esempio, la superficie, la linea, lo spazio, il vuoto, il tempo. Se queste entità possono essere tagliate all’infinito, non sussiste però un corpo formato da infiniti corpi, né una superficie da infinite superfici, né linea, né spazio <né vuoto, né tempo>.

 [II,158,20]

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 150. <La sostanza> è anche passibile di mutamento, come lo stesso <Apollodoro> afferma <nella ‘Fisica’>. Se, infatti, fosse non coinvolta in mutamento alcuno, da essa non nascerebbero le cose che ne nascono. Da questo consegue che la divisione della sostanza è una divisione all’infinito. (Crisippo afferma che la divisione è infinita, non ‘all’infinito’, [II,158,25] giacché non c’è un infinito al quale tenda la divisione, ma essa è incessante) e le mescolanze avvengono ‘totalmente’[…]

SVF II, 483

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1079b. Quando ci viene domandato se abbiamo delle parti e quante esse siano, e di quali e quante parti constino a loro volta questi componenti, Crisippo dice che noi utilizzeremo una distinzione e quindi, [II,158,30] mantenendoci sulle generali, diremo di constare di testa, torace e gambe; giacché in questo consisteva tutto ciò ch’era ricercato e incerto. Se però passeranno oltre fino a chiedere delle parti ultime: “Nulla, egli afferma, v’è da concepire di siffatte parti, ma sarà il caso di dire semplicemente che noi non consistiamo di tali parti ultime, senza far parola di quali né, similmente, quante esse siano, e se siano infinite o in numero finito”.

SVF II, 484

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1079a. [II,159,1] Una volta diventati Stoici, essi <dicono però l’opposto ed> opinano che l’uomo non abbia più parti del suo dito, né il cosmo dell’uomo; giacché la divisione in parti incrementa i corpi e negli infiniti non ci sono un più e un meno. [II,159,5] Una moltitudine non è mai troppa, e le parti del corpo restante non cesseranno di poter essere ulteriormente divise in parti e quindi di procurare da se stesse una moltitudine qualsivoglia.

SVF II, 485

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1078e. È contrario ad ogni concetto di comune buonsenso che nella natura dei corpi non vi sia un’estremità, né alcuna prima ed ultima parte entro le quali la grandezza del corpo sia conclusa; e che invece, [II,159,10] qualunque parte di esso sia presa in considerazione, appare sempre qualcosa che ne va al di là, e rimanda l’oggetto materiale nell’infinito e nell’indefinito.

[2] p. 1079a. <Gli Stoici sono> coloro che nessun corpo fanno terminare in una sua parte estrema, ma che con una moltitudine di parti li estendono tutti all’infinito.

SVF II, 486

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1080d. Invero, dire che nulla tocca nulla è contrario ad ogni concetto di comune buonsenso; e non lo è di meno il dire che i corpi [II,159,15] si toccano sì, ma si toccano con nulla. Eppure è necessario che accettino ciò coloro i quali non lasciano questa proprietà alle parti minime del corpo, ma prendono sempre in considerazione una parte che è subito prima di quella che sembra toccare e non cessano più di procedere al di là.

SVF II, 487

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1080e. L’obiezione principale che <gli Stoici> formulano contro i sostenitori dell’esistenza degli ‘indivisibili’ è che [II,159,20] il contatto non è di interi con interi, né di parti con parti. Quello di interi con interi non fa un ‘contatto’ ma una ‘mescolanza’. Quello di parti con parti è impossibile, perché gli indivisibili non hanno parti. Com’è allora che essi non incappano in questa impossibilità, proprio loro che non lasciano sussistere parti, né prime né ultime? Perché, per Zeus, essi dicono che i corpi entrano in contatto reciproco ‘per limiti’ e non ‘per parti’, e che il limite [II,159,25] è un incorporeo.

SVF II, 488

Proclo ‘In Eucl. elem. libr.’ p. 89, 15 segg. Friedlein. Che non si debba ritenere che siffatti limiti, intendo i limiti dei corpi, esistano per mero divisamento, come concepirono gli Stoici; ma che si debba ritenere che tali nature esistono davvero nella realtà e che ne reggono le ragioni creative, ebbene ne saremmo rimemorati se volgessimo [II,159,30] lo sguardo all’intero cosmo.

SVF II, 489

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1079d. Oltre a ciò, con giovanile baldanza <Crisippo> afferma che le facce della piramide sono costituite da triangoli, che lungo le loro linee di contatto scendendo verso la base queste facce sono disuguali, e che però non sono soprammisura dove sono più grandi.

[2] p. 1079e. Guarda inoltre in che [II,159,35] modo <Crisippo> ha replicato a Democrito il quale, da studioso della natura che coglie nel segno, era assai incerto sulla seguente questione : “Se un cono fosse tagliato da un piano parallelo alla sua base, cos’è d’uopo pensare [II,160,1] delle superfici di queste sezioni? Sono esse uguali una all’altra o sono disuguali? Se sono disuguali, esse renderanno il cono un solido anomalo, con molte incisioni a gradino ed asperità. Se le superfici sono uguali, le sezioni saranno uguali ed il cono apparirà avere preso le proprietà del cilindro, il quale consta di sezioni uguali [II,160,5] e non disuguali; il che è però del tutto assurdo. A questo proposito, dopo aver dichiarato che Democrito è un ignorante <Crisippo> afferma che le superfici sono né uguali né disuguali. Disuguali sono i corpi, per il fatto che le superfici sono né uguali né disuguali.

SVF II, 490

Siriano ‘In Aristot. Metaph.’ p. 140, 6 segg. Kroll. Qualora [II,160,10] <i Pitagorici> dicano che la ‘monade’ è la forma delle forme, mostrano la causa archetipa di esse, quella che ha anticipato in se stessa le forme di tutti i numeri, e che anche gli Stoici non si peritavano di chiamare ‘numerale uno’.

SVF II, 491

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ X, 123. Facciamo il tentativo per ordine, a partire dal <loro> primo punto fermo, stando al quale tutti i corpi si tagliano all’infinito. I suoi [II,160,15] sostenitori affermano che il corpo in movimento, in un solo e identico tempo conclude tutt’insieme un intervallo divisibile in parti, e che non occupa dapprima la prima parte dell’intervallo con la prima parte del proprio movimento e poi in second’ordine la seconda parte, ma che esso attraversa l’intero intervallo divisibile in parti in un sol tempo e tutt’insieme.

[2] X, 142. Queste sono le parole che era acconcio dire contro coloro i quali affermano ( e costoro sono gli Stoici) [II,160,20] che i corpi, gli spazi e i tempi possono essere tagliati all’infinito.

§ 13. Sul moto

Frammenti n. 492-500

SVF II, 492

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 165, 15 W. Di Crisippo. Crisippo afferma che il moto è un mutamento di luogo, interamente o parzialmente; oppure [II,160,25] un trasferimento, per intero o in parte, da un luogo. Lo definisce anche altrimenti, dicendo che il moto è un trasferimento di luogo o di figura. Il decorso degli astri è il loro celere moto celeste. Egli intende la permanenza sia come l’immobilità di un corpo, sia come lo stato di quiete di un corpo che rimane ora tal quale era prima. Egli chiama il moto e la permanenza in molti modi, [II,160,30] e perciò dà molte definizioni per ciascun loro significato. I moti principali sono due: quello retto e quello ricurvo. Attraverso questi moti mischiati in molti modi si ottengono molti moti diversi.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ X, 52. E affermano che il moto è una transizione [II,160,35] da luogo a luogo o dell’intero corpo o delle parti dell’intero.

SVF II, 493

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ X, 45. Che il moto esista […] l’ha affermato la maggior parte degli studiosi della natura.[…] Questa tesi fu sottoscritta anche dai Peripatetici e dagli Stoici.

SVF II, 494

Galeno ‘Method. med.’ I, 6, Vol. X, p. 46 K. [II,161,1] Dopo avere detto che la variazione del preesistente <stato morboso> è una sorta di movimento, va detto che tale variazione è duplice: qualitativa oppure di luogo. La variazione di luogo <della malattia> è denominata decorso, mentre la sua trasformazione qualitativa è denominata cambiamento. Sicché è [II,161,5] decorso una variazione o interscambio o permutazione o trasformazione di luogo del preesistente stato morboso, […] mentre invece è cambiamento una sua trasformazione qualitativa o una permutazione della preesistente qualità […]

SVF II, 495

Galeno ‘De nat. facult.’ I, 2, Vol. II, p. 4 K. Giacché se essi non conoscono quanto è stato scritto da Aristotele, [[II,161,10] e dopo di lui da Crisippo, sul cambiamento relativo all’intera sostanza; allora è d’uopo invitarli a conversare con gli scritti di quei filosofi.

SVF II, 496

Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 1320, 19 Diels. Gli Stoici dicevano che sotto ogni moto c’è quello locale, che è loro sottostante o per grandi intervalli, o per intervalli conoscibili chiaramente con la ragione.

SVF II, 497

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 78A Ed. Bas. [II,161,15] Plotino e gli altri pensatori che dalla consuetudine con gli Stoici si traspongono alla scelta filosofica di Aristotele, affermano che i moti sono l’elemento comune del fare e del subire.

SVF II, 498

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 78B Ed. Bas. Giamblico afferma che gli Stoici non afferrano bene l’essenza del moto quando dicono [II,161,20] che esso si chiama imperfetto, non perché non sia un’attività (giacché dicono che è un’attività a tutti gli effetti) ma perché è un’attività ripetitiva. Ripetitiva non al fine di giungere all’attività (il moto lo è già), ma al fine di produrre un qualche altro risultato che è successivo al moto. Questo dicono gli Stoici.

SVF II, 499

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 78B Ed. Bas. Infatti, qualora gli Stoici [II,161,25] chiamino differenze di genere il ‘muoversi di per sé’ -come nel caso del coltello, il quale trae la proprietà di tagliare dalla sua propria struttura, giacché la sua azione si realizza in accordo con la sua figura e la sua forma – e lo ‘attivare attraverso di sé altrui moti’ -come fanno le facoltà vegetative e quelle dei farmaci medici quando compiono la loro azione (infatti, il seme gettato nella terra ne riempie i luoghi adatti, tira a sé la materia [II,161,30] che gli è accanto e dà forma alle sue ragioni) – allora <bisognerebbe aggiungere> anche il ‘fare da sé’, il che comunemente significa fare per proprio impulso, o altrimenti per impulso razionale (che si chiama anche plasmare); e inoltre, più specifico di questo, lo ‘agire secondo virtù’.

SVF II, 500

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 210B Ed. Bas. Gli Stoici [II,161,35] ritengono che differiscano uno dall’altro: il permanere, lo stare tranquillo, lo stare quieto, lo stare immobile e il restare inattivo. Permanere lo si direbbe non di un tempo soltanto bensì del presente e del futuro, giacché noi diciamo che permane ciò che rattiene e ratterrà lo stesso posto, e il rattenuto lo diciamo permàso. Essi affermano che noi usiamo permanere anche per indicare il non essere in movimento, sicché impropriamente [II,161,40] diremmo di qualcuno degli incorporei che permane, invece di dire che non è in movimento. È dunque comune a tutti i corpi la permanenza, mentre lo stare tranquillo e lo stare quieto, essi affermano, sono forse sintomatici delle creature viventi. Una pietra non sta tranquilla, mentre delle creature viventi stanno anche quiete. Stare immobile e restare inattivo si dice di corpi che sono per natura privi di movimento, e sono forme usate al posto di quest’ultima espressione.

[II,162,1] § 14. Sullo spazio e sul vuoto

Frammenti n. 501-508

SVF II, 501

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ X, 7. Se dunque ci sono un alto e un basso, un verso destra e un verso sinistra, un davanti e un dietro, esiste uno spazio; giacché queste sei direzioni spaziali sono parti di esso, ed è impossibile che se esistono le parti di qualcosa [II,162,5] non esista anche ciò di cui quelle sono parti. Ebbene, è nella natura delle cose che vi siano alto e basso, verso destra e verso sinistra, davanti e dietro: pertanto lo spazio esiste. Se dove si trovava Socrate ora nondimeno si trova un altro: per esempio, Platone dopo la morte di Socrate; allora lo spazio esiste. Infatti, come quando un’anfora è svuotata del liquido che contiene e poi riempita con dell’altro liquido diciamo [II,162,10] che l’anfora esiste e che è lo spazio nel quale sono stati versati sia il primo liquido che quello successivo; così, se lo spazio occupato da Socrate quand’era vivo è occupato ora da un altro, allora lo spazio esiste. Detto anche altrimenti: se esiste un corpo, allora esiste anche lo spazio <giacché ‘corpo’ è ciò che occupa uno ‘spazio’>: ma si dà il primo; dunque anche il secondo. Inoltre, se là dove ciò ch’è leggero si porta per natura, colà per natura non si porta ciò ch’è pesante; [II,162,15] esiste uno spazio che è proprio di ciò ch’è leggero e uno che è proprio di ciò ch’è pesante: ma si dà il primo; dunque anche il secondo. Ora il fuoco, che è per natura leggero, tende a portarsi verso l’alto; mentre l’acqua, cui capita di essere per natura pesante, piega verso il basso; né mai il fuoco si porta in basso o l’acqua prende il volo verso l’alto. Esiste pertanto uno spazio proprio di ciò ch’è per natura leggero e uno spazio proprio di ciò ch’è per natura pesante. E se esiste il ciò da cui, il ciò ad opera di cui [II,162,20] e il ciò per cui qualcosa diventa quel che è, altrettanto esisterebbe anche il ciò entro cui lo diventa. Ora ‘il ciò da cui’, esiste ed è, per esempio, la materia; il ‘ciò ad opera di cui’ è, per esempio, il suo causativo; il ‘ciò per cui’ è qualcosa come il suo fine. Pertanto esiste anche il ‘ciò entro cui’ qualcosa diventa quel che è, e questo è lo spazio. Gli antichi, quando misero in buon ordine l’intero cosmo, posero lo spazio a fondamento di tutte le cose, e prendendo di qui le mosse Esiodo declamò:

[II,162,25] ‘Per primo ci fu il Caos, poi subito dopo

la terra dallo spazioso seno, sede sicura di tutte le cose’

chiamando Caos il luogo che fa da spazio per tutte le cose. Se, infatti, lo spazio non ne fosse il substrato, non potrebbero sussistere né la terra, né l’acqua, né i restanti elementi, e neppure il cosmo nel suo insieme. Se, con un nostro divisamento, noi eliminassimo tutti i corpi, non sarà però eliminato lo [II,162,30] spazio entro cui erano tutti i corpi, anzi esso continua a reggersi con le sue tre dimensioni: lunghezza, profondità e larghezza, pur senza la resistenza all’urto; giacché questa è una caratteristica propria dei corpi.

SVF II, 502

[1] Ps. Galeno ‘De qualitat. incorp.’ 1, XIX, p. 464 K. Il fatto che la tridimensionalità sia caratteristica comune del corpo, del vuoto e dello spazio, è necessario che gli Stoici lo ammettano, in quanto essi lasciano rientrare [II,162,35] il vuoto nella natura delle cose esistenti, seppure dicano che esso non esiste nel cosmo.

[2] 4, XIX, p. 474 K. Gli Stoici affermano che nel cosmo non vi è alcun vuoto.

SVF II, 503

Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 161, 8 W. Di Crisippo. Circa lo ‘spazio’, Crisippo lo dichiarava [II,162,40] essere ciò ch’è interamente occupato da un esistente; oppure ciò ch’è tale da poter essere occupato da un esistente e che è interamente occupato da uno o da alcuni esistenti. Se, di ciò ch’è tale da poter essere occupato da un esistente, [II,163,1] è occupata una parte sì e una parte no, l’insieme non potrà chiamarsi né vuoto né spazio, ma qualcos’altro che non ha un nome, giacché il vuoto può essere assimilato ai recipienti vuoti, e lo spazio a quelli pieni; e dunque ‘dove c’è posto’ sarebbe ciò ch’è tale da poter essere occupato in misura maggiore da un esistente: per esempio, un recipiente più grande di un corpo; oppure ciò ch’è tale da poter fare spazio ad un corpo più grande. [II,163,5] Si dice, dunque, che il vuoto è infinito, e tale è infatti ciò ch’è al di fuori del cosmo; mentre lo spazio è invece finito perché nessun corpo è infinito. Come ciò ch’è corporeo è finito, così ciò ch’è incorporeo è infinito: e infatti il tempo e il vuoto sono infiniti. Come il nulla non costituisce un limite, così neppure è limite del nulla: e tale è il vuoto; giacché il vuoto è infinito [II,163,10] per sua realtà sostanziale e trova un limite soltanto quando venga riempito. Ma quando ciò che lo riempie è eliminato, non è possibile pensarne un limite.

SVF II, 504

Aezio ‘Placita’ I, 20, 1 (Dox. Gr. p. 317). Gli Stoici <dicono> che vi è differenza tra il ‘vuoto’, lo ‘spazio’ e [II,163,15] il ‘dove c’è posto’. Il vuoto è l’assenza di corpi. Lo spazio è quello occupato da un corpo. Il dove c’è posto è ciò ch’è occupato parzialmente da un corpo, come nel caso del vino dentro una botticella.

SVF II, 505

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ X, 3. Gli Stoici affermano che il ‘vuoto’ è ciò ch’è tale da poter essere occupato da un esistente, ma che non lo è; oppure che è l’intervallo in cui c’è [II,163,20] assenza di corpi; oppure l’intervallo lasciato vuoto da un corpo. Lo ‘spazio’, invece, è quello occupato da un esistente; ed essi affermano che lo spazio si eguaglia a ciò che lo occupa e perciò, com’è pure appariscente dalla loro commutazione dei nomi, chiamano adesso ‘l’esistente’ ‘corpo’. Affermano poi che il ‘dove c’è posto’ è un intervallo spaziale per un verso occupato e per un altro verso lasciato vuoto da un corpo.

 [II,163,25]

[2] X, 4. Taluni dissero che il ‘dove c’è posto’ esiste come spazio per un corpo più grande. Il dove c’è posto differisce dallo spazio perché lo ‘spazio’ non palesa di per sé la grandezza del corpo che vi è incluso (infatti, pur quando includa in sé un corpo piccolissimo, nondimeno è designato spazio); mentre il [II,163,30] ‘dove c’è posto’ palesa di per sé che la grandezza del corpo in esso presente è rimarchevole.

SVF II, 506

Temistio ‘Paraphr. in Aristotelis Physica’ IV, 4, p. 268 Sp. Ci resta da dimostrare che l’intervallo non è lo spazio. S’intende per intervallo ciò che sta frammezzo i limiti del recipiente: per esempio, ciò che sta frammezzo le superfici concave di una grossa anfora. Quest’opinione è antica e [II,163,35] conveniente a coloro che pongono l’esistenza del vuoto. La seguì anche la schiera dei seguaci di Crisippo e, successivamente, Epicuro.

SVF II, 507

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 91D Ed. Bas. In primo luogo Giamblico ricerca se le cose stesse che si trovano in un luogo definiscono anche lo spazio intorno e insieme ad esse; oppure se sia lo spazio a definire le cose, come se lo spazio stesso le conchiudesse; [II,163,40] ed afferma che se, come dicono gli Stoici, lo spazio [II,164,1] sussiste in modo strettamente coordinato ai corpi, allora esso prende anche la sua definizione da loro e nella misura in cui è completamente riempito dai corpi. Se tuttavia […]

SVF II, 508

Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 571, 22 Diels. Di necessità lo spazio è: o la forma di ciò ch’è in un luogo, o la sua materia, o l’intervallo che sta frammezzo le estremità del recipiente, [II,164,5] (che lo spazio fosse questo lo ritennero, tra i primi filosofi, i seguaci di Democrito; e, tra quelli successivi, i seguaci di Epicuro, gli Stoici ad alcuni Platonici) oppure le estremità del recipiente. […] I seguaci di Democrito e di Epicuro chiamano questo intervallo un vuoto che a volte può essere riempito da un corpo [II,164,10] e a volte può essere lasciato vuoto. Invece i Platonici e gli Stoici affermano che esso è un’altra entità oltre i corpi, la quale è pur sempre un corpo, sicché non lasciano sussistere alcun vuoto.

§ 15. Sul tempo

Frammenti n. 509-521

SVF II, 509

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 106, 5 W. [II,164,15] Di Crisippo. Crisippo afferma che il tempo è un intervallo del moto, per cui a volte lo si dice essere misura della velocità e della lentezza; oppure che esso è la dimensione connessa al moto del cosmo; e che è secondo il tempo che ciascuna realtà si muove e sussiste. Se non che il tempo, come pure la terra, il mare, il vuoto, si chiamano così in duplice senso, giacché un unico termine indica tanto la loro interezza quanto le loro parti. [II,164,20] Come il vuoto è infinito in tutte le direzioni, anche il tempo è infinito nelle due direzioni, quella del passato e quella del futuro: e questo dice in modo assai palese che nessun tempo è interamente presente. Poiché la divisione della continuità del tempo è una divisione all’infinito, in accordo con questa suddivisione anche ogni tempo ha la sua divisione all’infinito; [II,164,25] sicché nessun tempo è presente con perfetta conformità, ma se ne parla con approssimazione. Crisippo afferma poi che ad esistere davvero è soltanto il tempo presente, mentre quello trascorso e quello futuro sono presupposti sì, ma non esistono davvero. Così è anche dei predicati, dei quali si dicono davvero esistenti soltanto quelli che si realizzano: per esempio, il passeggiare esiste davvero per me quando passeggio, ma non [II,164,30] quando sto sdraiato o sto seduto […]

[2] Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ p. 238, 5B. […] tanto da essere stato esplicato in modo ben mirato da parte di coloro che sono soliti definire le cose, che il tempo è una dimensione del moto del cosmo.

[3] p.11. Fu mostrato che il tempo è una dimensione del moto cosmico.

[4] p. 13. [II,164,35] Probabilmente qualche Stoico in vena di ragionamenti speciosi dirà come sia già stato esplicato che il tempo è una dimensione del movimento del cosmo; e non soltanto di quello ben ordinato di adesso, ma anche di quello che è congetturato in accordo con la conflagrazione universale.

SVF II, 510

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 88Z Ed. Bas. Tra gli Stoici, Zenone disse che il tempo è semplicemente la dimensione di ogni moto. Crisippo [II,165,1] lo definì una dimensione del moto del cosmo. Egli non rannoda le due definizioni in una medesima formula ma ne fa una sola, che caratterizza in modo particolare rispetto alle dichiarazioni degli altri.

SVF II, 511

Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 26, I, p. 8, 7 Wendl. Infatti, non c’era [II,165,5] il tempo prima del cosmo, ed esso nacque o con lui o dopo di lui. E poiché il tempo è una dimensione del moto del cosmo e il moto non potrebbe nascere prima di ciò ch’è in moto, ma è necessario che esso sussista o successivamente o insieme a quello; di necessità il tempo è coetaneo del cosmo oppure è più giovane di lui.

SVF II, 512

Filone Alessandrino ‘Quod deus sit immutabilis’ 31, II, 63, 3 Wendl. [II,165,10] Dio è demiurgo anche del tempo, giacché è padre del suo padre. Padre del tempo è il cosmo, il cui moto dichiara la genesi del tempo.

SVF II, 513

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ X, 170. Alcuni affermano che il tempo è l’intervallo del moto del cosmo.

SVF II, 514

Aezio ‘Placita’ I, 22, 7 (Dox. Gr. p. 318). [II,165,15] La maggior parte degli Stoici affermano che sostanza del tempo è il moto.

SVF II, 515

Plutarco ‘Quaest. Plat.’ p. 1007a. Bisogna dunque dire come sia a causa dell’ignoranza che quanti sono sconcertati da queste considerazioni credono il tempo essere ‘misura del moto e numero del prima e del dopo’, come disse Aristotele; oppure [II,165,20] essere la ‘qualificazione quantitativa del moto’, come lo definì Speusippo; oppure null’altro che ‘una dimensione del moto’, come fecero taluni Stoici definendolo un accidente e non notandone né la sostanza né la funzione.

SVF II, 516

Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 700, 16 Diels. Non è dunque affatto chiaro cosa sia il tempo. Infatti, se alcuni affermano che il tempo è il moto [II,165,25] di rotazione su di sé del cosmo, […] altri affermano che è la stessa sfera celeste -concezione, questa, riferita ai Pitagorici da parte di coloro che hanno forse frainteso le parole di Archita quando diceva in generale che il tempo è una dimensione della natura dell’universo – o come solevano dire alcuni Stoici; altri ancora affermano che il tempo è semplicemente il moto.

SVF II, 517

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1081f. Nel terzo, [II,165,30] nel quarto e nel quinto libro ‘Sulle parti’ egli sostiene che, del tempo presente, una parte è futuro e una parte è passato.

SVF II, 518

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1081f. Quando Crisippo decide di lavorare con arte sulla suddivisione del tempo, nel libro ‘Sul vuoto’ e in altri suoi libri afferma che la parte trascorsa e quella futura del tempo non [II,165,35] esistono davvero ma sono presupposte, e che soltanto il presente esiste davvero.

SVF II, 519

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1081c. È contrario ad ogni concetto di comune buonsenso sostenere che ‘tempo’ è quello futuro e quello trascorso, e che invece il presente non è un tempo; che il testé e lo ieri sono presupposti e che l’adesso non c’è affatto. [II,165,40] Ma proprio questo accade agli Stoici, i quali non ammettono l’esistenza di un tempo minimo né vogliono che l’istante presente sia privo di parti, e sono invece dell’avviso che nell’istante in cui uno crede di star pensando al presente, esso è già il futuro o il trascorso del presente.

SVF II, 520

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 140. [II,166,1] Anche questi sono, similmente, degli incorporei. Inoltre, anche il tempo è un incorporeo, giacché esso è una dimensione del moto del cosmo. Del tempo, il trascorso e il futuro sono infiniti, mentre il presente è finito.

SVF II, 521

Proclo ‘In Platonis Timaeum’ p. 271 D. Dalle cose anzidette [II,166,5] bisogna inoltre comprendere che Platone è ben lontano dal pensare il tempo tal quale lo concepirono gli Stoici o molti Peripatetici. Gli Stoici, per mero divisamento lo fanno sussistere come qualcosa di effimero e vicinissimo all’inesistenza. Per essi, infatti, il tempo era uno degli incorporei, e gli incorporei sono stati da essi spregiati come entità inoperanti, inesistenti di per sé, consistenti in meri divisamenti. [II,166,10] I Peripatetici, poi, dicono che il tempo è un accidente del moto.

[II,167,1] Fisica II.

Il cosmo

§ 1. Differenza tra l’universo e il cosmo

Frammenti n. 522-525

SVF II, 522

Aezio ‘Placita’ II, 1, 7 (Dox. Gr. p. 328). Gli Stoici affermano che vi è differenza tra l’universo e l’intero. Infatti, [II,167,5] l’universo è l’intero comprendente anche il vuoto infinito, mentre il cosmo è l’intero con esclusione del vuoto.

SVF II, 523

Achille ‘Isagoge’ 5 (p. 129 Petav. Uranol.). Secondo gli Stoici c’è differenza tra universo e intero. Essi, infatti, chiamano ‘cosmo’ l’intero, e chiamano ‘universo’ il cosmo più il vuoto.

SVF II, 524

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 332. [II,167,10] I filosofi Stoici concepiscono che vi sia differenza tra l’intero e l’universo, giacché dicono che l’intero è il cosmo, mentre l’universo è il cosmo più il vuoto al di fuori di esso. Per questo motivo l’intero è finito, giacché il cosmo è finito; invece l’universo è infinito, giacché infinito è il vuoto esterno al cosmo.

[2] IX, 336. [II,167,15] Gli Stoici affermano che la parte è né altro dall’intero né identica all’intero. La mano, infatti, non s’identifica con l’uomo, giacché non è l’uomo; ma neppure è altro dall’uomo, giacché è con essa che l’uomo è pensato uomo.

SVF II, 525

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1073d. In generale, [II,167,20] è assurdo e contrario ad ogni concetto di comune buonsenso sostenere che qualcosa è, e che però è un non-ente. Che essi dicano che qualcosa è, e che però è un non-ente, diventa il colmo dell’assurdità quando ciò sia detto dell’universo. Dopo avere messo una cintura di vuoto infinito al di fuori del cosmo, dicono che l’universo è né un corpo né un incorporeo. A ciò s’accompagna l’affermazione che l’universo è un non-ente, giacché essi chiamano enti soltanto i corpi; e siccome proprietà dell’ente è quella di fare o subire [II,167,25] un’azione, l’universo è un non-ente: sicché esso né farà né subirà mai qualcosa.

[2] p. 1074a. Sicché è necessario che essi dicano quel che dicono, ossia che l’universo è né in quiete né in moto.

[3] p. 1074b. Essi ammettono, invece, che l’universo è né inanimato né animato. […] ed affermano che l’universo non è perfetto, giacché perfetto è qualcosa di definito; mentre l’universo è indefinito per la sua infinità e pertanto, [II,167,30] secondo loro, è qualcosa che è né imperfetto né perfetto. Ma l’universo non è una parte, giacché nulla è più grande di lui; e neppure è l’intero; giacché, come essi dicono, è in riferimento a qualcosa di fisso e ben posizionato che si usa il predicato ‘intero’, mentre invece l’universo, a causa della sua infinità [II,168,1] è indefinito e senza una posizione fissa. Quanto all’agente causativo, non c’è qualcos’altro che sia causativo dell’universo, poiché non esiste altro oltre l’universo; e l’universo non è causativo d’altro né di se stesso. Esso non è nato per il ‘fare’, mentre il causativo è pensato tale per la sua capacità di ‘fare’.

§ 2.Due significati della parola ‘cosmo’

Frammenti n. 526-529

SVF II, 526

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 137. [II,168,5] <Gli Stoici> lo chiamano cosmo in tre sensi. In un primo senso, cosmo è la divinità stessa come qualificazione qualitativa propria di tutta quanta la sostanza; divinità che è imperitura ed ingenerata, demiurgo del suo buon ordine, e che secondo qualificati e regolari cicli temporali consuma in se stessa tutta la sostanza e poi nuovamente da se stessa la genera. In un secondo senso chiamano cosmo il buon ordine stesso dei corpi celesti. Nel terzo senso [II,168,10] chiamano cosmo la prima e la seconda cosa insieme.

SVF II, 527

Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 184, 8 W. Di Crisippo. Crisippo afferma che ‘cosmo’ è l’insieme formato dal cielo, dalla terra e dalle nature in esso presenti; oppure che è l’insieme formato da dei ed uomini e dalle vicende che li riguardano. Diversamente, il cosmo è la divinità in armonia con la quale [II,168,15] nasce e giunge a perfezione il suo buon ordine. Quando si parla del cosmo in riferimento al suo buon ordine, s’intende che un suo componente ha un moto di rotazione intorno ad una parte centrale, mentre un altro componente è reggente. Quello che ruota è l’etere, quello reggente è la terra, insieme con le componenti umide ed aeree che sono su di essa. L’elemento più compatto di tutta la sostanza è il naturale fulcro di tutti gli altri, al modo in cui le ossa lo sono in un animale, [II,168,20] e si chiama terra. Intorno alla terra è stata spanta in forma sferica l’acqua, che ha avuto in sorte una forza naturale più uniforme e più liscia di quella della terra, la quale ha però delle sporgenze anomale che si elevano al di sopra dell’acqua e sono chiamate isole. Di queste sporgenze, quelle che raggiungono le estensioni maggiori sono state designate ‘terraferma’, per ignoranza del fatto che anch’esse sono incluse entro grandi pelaghi. [II,168,25] Dall’acqua, come se evaporasse, si sprigiona poi l’aria, anch’essa spanta in forma sferica; e da questa l’etere, diradatissimo e limpidissimo. Con riferimento al suo buon ordine, dunque, il cosmo è stato distinto in queste nature. L’elemento che ruota con moto circolare è l’etere, ed entro di esso hanno la sede gli astri, [II,168,30] non-erranti ed erranti, divini per natura, animati e governati dalla Prònoia. La moltitudine degli astri non-erranti è inafferrabile; mentre gli astri erranti sono in numero di sette, e tutti e sette questi pianeti sono più prossimi alla terra degli astri non-erranti. Questi ultimi sono stati posizionati, com’è visibile, su un’unica superficie. Invece i pianeti [II,169,1] sono stati posizionati su sfere concentriche, le quali sono tutte incluse entro la sfera degli astri non-erranti. Subito al di sotto della sfera degli astri non-erranti, la più alta delle sfere dei pianeti è quella di Crono. Dopo questa c’è quella di Zeus, poi quella di Ares, di seguito quella [II,169,5] di Ermes e dopo questa quella di Afrodite. Viene poi quella del Sole e, al di sotto di tutte, quella della Luna, che è a diretto contatto con l’aria. Questo è il motivo per cui la luna appare avere una natura più aeriforme ed essere dotata d’una facoltà capace di estendersi soprattutto alle zone circostanti la terra. Al di sotto della luna c’è la sfera dell’aria dotata di movimento proprio, poi quella dell’acqua e per ultima quella della terra, la quale giace nel punto centrale del cosmo; [II,169,10] cosmo che è al di sotto dell’universo ma al di sopra dal vuoto che da questo s’estende infinito circolarmente in ogni direzione.

SVF II, 528

Ario Didimo presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 15, p. 817, 6. <Gli Stoici> designano come dio l’intero cosmo insieme con le sue parti, ed affermano [II,169,15] che questo è uno solo, finito, vivente, sempiterno, divino. In esso sono inclusi tutti i corpi ed in esso non esiste alcun vuoto. Affermano anche che è designata come cosmo la qualificazione qualitativa risultante da tutta la sostanza, e non ciò che ha siffatta costituzione in riferimento al suo buon ordine. Perciò conformemente al primo modo di darne conto essi affermano che il cosmo è sempiterno, ma che in riferimento al suo buon ordine il cosmo è generato, [II,169,20] mutevole secondo cicli periodici infiniti già avvenuti e che saranno. Fermo restando che la qualificazione qualitativa risultante da tutta la sostanza è cosmo sempiterno e divino, si chiama cosmo anche l’insieme del cielo, dell’aria, della terra, del mare e delle loro nature; e si chiama pure cosmo la dimora stanziale di dei ed uomini e l’insieme delle vicende che li riguardano. [II,169,25] Infatti, al modo in cui si parla di città in duplice senso: come dimora stanziale e come l’insieme formato da quanti vi sono stanziati e dai suoi cittadini; allo stesso modo il cosmo è come una città che consiste di dei ed uomini, e nella quale gli dei hanno l’egemonia e gli uomini sono loro subordinati. La comunanza degli uni e degli altri esiste perché entrambi partecipano della ragione, ragione che è per natura la loro legge; mentre tutto il resto è nato a loro vantaggio. [II,169,30] In conseguenza di questo fatto bisogna legittimare l’idea che la divinità che governa l’intero cosmo si faccia mente degli uomini e sia benefica, proba, filantropa, giusta e dotata di tutte le virtù. Perciò il cosmo si chiama anche Zeus, dal momento che è per noi causativo di vita. In quanto governa ogni cosa inviolabilmente dall’eternità con una concatenazioni di ragioni, è denominato inoltre Destino; Adrastea perché nulla [II,169,35] gli sfugge inosservato; e Prònoia perché ciascuna cosa amministra in modo che sia proficua.

SVF II, 529

Cleomede ‘De motu circulari corporum caelestium’ I, 1, p. 1 Bake. Poiché il cosmo si chiama così in molti sensi, il nostro presente discorso verte sul cosmo inteso come buon ordine cosmico, che essi definiscono così. Cosmo è l’insieme formato dal cielo, dalla terra e [II,169,40] dalle nature in esso presenti. Questo cosmo include in sé tutti i corpi ed assolutamente nessun corpo esiste al di fuori di esso, come è mostrato in altre definizioni.

[II,170,1] § 3.Il cosmo è uno

Frammenti n. 530-533

SVF II, 530

Aezio ‘Placita’ I, 5, 1 (Dox. Gr. p. 291). Gli Stoici dichiararono che il cosmo è uno, ed affermavano anche che esso è il tutto dotato di corpo.

SVF II, 531

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 143. [II,170,5] Che il cosmo sia uno, lo affermano Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’ e anche Crisippo.

SVF II, 532

[1] Filone Alessandrino ‘De migrat. Abrah.’ § 180, Vol. II, p. 303, 18 Wendl. [Mosè appare condividere le opinioni dei Caldei sul cosmo][…] dichiarando che il cosmo è uno e generato. Poiché il cosmo è nato ed è uno solo, è ragionevole che sostanze elementari identiche siano state poste a supporto di tutte quante le entità [II,170,10] che in esso risultano costituite di parti, proprio come la reciproca coesione è un attributo necessario dei corpi unitari […]

[2] § 178. <I Caldei> hanno armonizzato i corpi che stanno in basso e quelli che stanno in alto, le realtà celesti e quelle terrestri. Come grazie a rapporti musicali, hanno messo in evidenza l’intonatissimo accordo dell’universo, originato dalla comunanza e dalla consentaneità delle sue parti, disgiunte certo spazialmente, ma [II,170,15] nient’affatto scasate per congenericità. Questi uomini presunsero che il cosmo che ci appare sia l’unico esistente, che esso stesso sia dio, oppure che includa dio in se stesso; e plasmarono una divinità che è animo, destino, necessità dell’intero cosmo.

SVF II, 533

Proclo ‘In Platonis Timaeum’ p. 138 E. Schn. <Platone dichiarò> che [II,170,20] il cosmo è uno solo a partire dall’unicità del paradigma del quale si serviva, ed inoltre schivò ogni ricorso a riferimenti materiali per le sue argomentazioni dialettiche. Non lo dimostrò partendo dal fatto che la materia è una sola, come Aristotele; o dalla definizione dei luoghi naturali; né dall’unitarietà della sostanza, cioè che la materia è corpo, come fecero gli Stoici.

[II,170,25] § 4. Il cosmo è uno, finito e circondato da un vuoto infinito

Frammenti n. 534-546

SVF II, 534

Cleomede ‘De motu circulari corporum caelestium’ I, 1, p. 1 Bake. Il cosmo non è infinito ma finito, com’è manifesto dall’essere esso governato da una legge naturale. Di nulla d’infinito è possibile una legge naturale, giacché tale legge deve assoggettare a sé [II,170,30] la natura di qualcosa che esiste. E che il cosmo abbia una legge che lo governa è comprensibile, in primo luogo, dal posizionamento delle sue parti; poi dall’ordine degli eventi che vi accadono; in terzo luogo dalla consentaneità delle sue parti; in quarto luogo dal fatto che ciascuna di esse è stata fatta in relazione a qualcosa; e da ultimo per il fatto che tutte queste realtà procurano utilità che sono di grandissimo giovamento. Queste caratteristiche sono proprie anche delle nature particolari [II,170,35] sicché, dal momento che il cosmo possiede una legge naturale che lo governa, di necessità esso è finito.

SVF II, 535

[1] Simplicio ‘In Aristot. De caelo’ p. 284, 28 Heibg. Quando gli Stoici vogliono dimostrare che fuori del cielo c’è il vuoto, strutturano l’argomentazione ricorrendo ad un’ipotesi di questo genere. Ammettiamo che all’estremità della sfera [II,170,40] delle stelle fisse ci sia qualcuno che distende il braccio verso l’alto. Se egli riesce a distendere il braccio, gli Stoici assumono che all’esterno del cielo c’è qualcosa verso cui ha disteso il braccio. Se invece egli non potesse distenderlo, [II,171,1] pure così ci sarebbe qualcosa all’esterno del cielo che impedisce la distensione del braccio. Se poi uno, stando di fronte al limite estremo del cielo distendesse a sua volta il braccio, la questione non cambierebbe aspetto; e sarà pertanto stato dimostrato che esiste qualcosa all’esterno di quel cielo.

[2] p. 285, 28 Heibg. Ammettiamo dunque [II,171,5] come possibile che all’esterno del cosmo ci sia il vuoto. Questo o è finito o è infinito. […] Se, come reputa Crisippo, fosse infinito, essi affermano che questo vuoto è un intervallo capace sì di accogliere in sé un corpo, ma che non l’ha accolto. Ora, nelle modalità di relazione è necessario che se c’è l’uno ci sia anche l’altro; e che se esiste ciò ch’è capace di accogliere, ci dovrebbe essere, o è fattibile che ci sia, anche ciò che può essere accolto. [II,171,10] Ma anch’essi dicono che non esiste un corpo infinito in grado di essere accolto dal vuoto infinito. Pertanto neppure esiste il vuoto capace di accoglierlo.

SVF II, 536

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘Quaestiones’ III, 12, p. 101, 10 Bruns. Il ragionamento che vuole dimostrare l’esistenza dell’infinito, ipotizza che ci sia qualcuno [II,171,15] al limite del cosmo, o in grado di distendere il braccio al di là del cosmo stesso o che ne è impedito da qualcosa; e ne conclude che in entrambi i casi ciò significa che c’è qualcosa all’esterno del cosmo, giacché l’impedimento o è all’esterno del cosmo oppure nel luogo in cui è ciò che viene disteso. Ebbene questo ragionamento trae la sua plausibilità dalla rappresentazione e dalla sensazione, come il ragionamento di chi dice che tutto ciò ch’è finito finisce contro qualcosa.

[2] p. 106, 10 Bruns. [II,171,20] Quanti pongono l’esistenza del vuoto, altro non assumono che l’esistenza di tre dimensioni immateriali, e dicendo che il vuoto è capace di accogliere dei corpi altro non affermano se non che un intervallo spaziale è capace di accoglierne un altro.

SVF II, 537

Cleomede ‘De motu circulari corporum caelestium’ I, 1, p. 2 segg. Bake. Richiameremo brevemente alla memoria gli argomenti relativi all’esistenza del vuoto […] [II,171,25] Se, come reputano i più raffinati studiosi della natura, l’intera sostanza si risolve in fuoco, è necessario che essa occupi uno spazio miriadi di volte maggiore, come accade ai corpi solidi quando diventano esalazioni di vapori secchi. Pertanto, lo spazio che nella conflagrazione universale è occupato dalla sostanza che in esso si riversa adesso è vuoto, in quanto nessun corpo lo riempie.

SVF II, 538

Cleomede ‘De motu circulari corporum caelestium’ I, 1, p. 9 segg. Bake. [[…] si sforza di provare] [II,171,30] […] come sia necessario che il vuoto all’esterno del cosmo, da ogni parte di questo s’allarghi all’infinito.

SVF II, 539

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1054b. <Crisippo> dice spesso che il vuoto all’esterno del cosmo è infinito e che l’infinito [II,171,35] non ha inizio, né metà, né fine. Ed è soprattutto con questo argomento che essi eliminano quello che Epicuro chiama il decorso di per sé verso il basso dell’atomo, non essendovi nell’infinito differenza alcuna per cui si possa pensare ad un alto e ad un basso.

SVF II, 540

Cleomede ‘De motu circulari corporum caelestium’ I, 1, p. 7 Bake. <I Peripatetici> dicono anche [II,171,40] che se al di fuori del cosmo ci fosse il vuoto, quando la sostanza gli scorre attraverso, vi sarebbe dispersa e sparpagliata all’infinito. Ma, noi diremo, [II,172,1] la sostanza può non subire questa sorte, giacché possiede una forza di coesione che la tiene insieme e la mantiene coesa. Il vuoto che la circonda nulla le fa; mentre essa, utilizzando la sua superiore forza, si mantiene coesa, capace di contrarsi e poi di decontrarsi in esso secondo le sue naturali trasformazioni, di volta in volta fondendo [II,172,5] in fuoco oppure dando impulso ad un ciclo di generazione del cosmo.

SVF II, 541

Cleomede ‘De motu circulari corporum caelestium’ I, 1, p. 5 Bake. Pertanto è necessario che il vuoto abbia una realtà sostanziale. Il modo più semplice di divisarlo è d’intenderlo come un ente incorporeo ed intangibile, privo di figura geometrica e non riducibile ad alcuna di esse, che né subisce né fa alcunché, ma semplicemente capace di accogliere in sé [II,172,10] dei corpi.

SVF II, 542

Galeno ‘De animi peccat. dignosc.’ 7, V, p. 101 K. Lo Stoico afferma che non esiste alcun vuoto all’interno del cosmo, bensì al suo esterno. […] L’Epicureo non ammette che vi sia questo cosmo soltanto, come invece crede lo Stoico, il quale ha al riguardo un’opinione uguale a quella dei Peripatetici.

SVF II, 543

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 140. [II,172,15] Al di fuori e intorno ad esso <cosmo> si spande il vuoto infinito, il quale è incorporeo; incorporeo nel senso che sarebbe capace di essere occupato da dei corpi ma non ne è occupato. Nel cosmo, invece, non c’è alcun vuoto ed esso è unitario; giacché questo è il necessario risultato della cospirazione e della sintonia tra corpi celesti e corpi terrestri. Del vuoto parla [II,172,20] Crisippo nella sua opera ‘Sul vuoto’ e nel primo libro di quella ‘Sulle Scienze fisiche’.

SVF II, 544

Galeno ‘De morib. anim.’ 5, IV, p. 785 K. Sull’argomento della divisione primaria esistono due scuole filosofiche. Infatti, taluni affermano che tutta quanta la sostanza del cosmo è unitaria; taluni invece sostengono che [II,172,25] sia suddivisa per l’inserzione in essa di vuoto.

SVF II, 545

Galeno ‘In Hippocr. Epidem.’ VI, comment. 4, 6, Vol. XVII, p. 162 K. Che nell’acqua o nell’aria esistano degli interstizi vuoti, è conseguente all’opinione di Epicuro e di Asclepiade circa gli elementi. Ciò è invece contrario all’opinione di Aristotele e degli Stoici, i quali sono convinti che non esista alcun vuoto in alcun luogo del cosmo, ma che questo sia completamente [II,172,30] pieno di corpi. Anche nella pomice, essi non reputano integralmente vuoti gli interstizi che si trovano frammezzo ai corpuscoli terrosi; ed affermano che in questi interstizi è inclusa dell’aria. Nel caso dell’acqua, poi, non esiste una porosità del genere di quella riscontrabile nella pomice, essendo l’acqua perfettamente e definitivamente in sé continua.

SVF II, 546

Cleomede ‘De motu circulari corporum caelestium’ I, 1, p. 5 Bake. [II,172,35] Tale essendo il vuoto, esso assolutamente non esiste all’interno del cosmo. Ciò è manifesto da fenomeni osservabili, giacché se la sostanza dell’intero cosmo non fosse interamente d’una stessa natura non sarebbe possibile per il cosmo essere tenuto insieme ed essere governato dalla legge naturale, né le sue parti avrebbero consentaneità reciproca. Inoltre, se esso non fosse tenuto coeso [II,172,40] da un unico tono e se non gli fosse interamente connaturato un unico pneuma, sarebbe per noi impossibile vedere ed udire. Infatti, essendovi frammezzo degli spazi vuoti, le nostre sensazioni ne sarebbero intralciate.

[II,173,1] § 5.Il cosmo è sferico e immobile

Frammenti n. 547-557

SVF II, 547

Aezio ‘Placita’ II, 2, 1. Gli Stoici affermano che il cosmo è sferiforme.

SVF II, 548

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Exodum’ II, 90 (p. 528 Aucher). Lo vedi che la terra e l’acqua stanno al centro; che sono circondate da ogni lato dall’aria e dal fuoco, a loro volta circondati dal cielo; che non si appoggiano da nessuna parte; che [II,173,5] si tengono ben strette una all’altra e che a legarle così con arte sopraffina e perfetta armonia è la ragione divina?

SVF II, 549

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 115. Il cosmo è così stabile e coeso che, al fine della sua permanenza, non si potrebbe escogitare nulla di meglio. Infatti, da ogni direzione certe sue parti tendono tutte egualmente a gravitare verso un centro; [II,173,10] mentre al contrario permangono strettamente collegati gli uni agli altri i corpi celesti formanti le costellazioni, come fossero tenuti insieme da un laccio che li circonda. Tutto ciò lo opera quella natura che è diffusa dappertutto nel cosmo, che tutto effettua razionalmente e che trascina con forza verso il centro certe parti e fa ruotare le costellazioni più lontane.

SVF II, 550

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1054e. [II,173,15] Egli non avrebbe paura di ciò, a meno che non ritenga che i corpi, provenendo da ogni dove, si portino per natura verso il mezzo non della sostanza, ma del ‘dove c’è posto’ nel quale è inclusa la sostanza. A proposito di ciò egli ha spesso detto trattarsi di cosa impossibile e contro natura, [II,173,20] giacché nel vuoto non esiste quella differenza per cui i corpi s’appressino qui piuttosto che qui, e che invece è la sintassi stessa di questo cosmo la causa del movimento di tutto ciò che, provenendo da ogni dove, accenna a portarsi verso il centro e il mezzo di esso. Al riguardo basta citare un passo dal secondo libro ‘Sul movimento’, nel quale <Crisippo> rimarca che: “Il cosmo è un corpo perfetto, [II,173,25] mentre perfette non sono le sue parti, giacché queste non sono realtà a sé stanti ma modalità di relazione con l’intero”. Discutendo poi del suo movimento e sostenendo che quello del cosmo attraverso tutte le sue parti è un movimento per natura mirante alla sua permanenza e continuità, e non alla sua dissoluzione e sminuzzamento, egli ha detto: “In questo modo, siccome l’intero è in tensione ed in movimento in una singola direzione, e siccome le parti posseggono [II,173,30] questo movimento grazie alla natura del corpo in cui sono, è plausibile che il primo e naturale movimento sia per tutti i corpi quello diretto verso il centro del cosmo; trattandosi così per il cosmo di un movimento verso se stesso, e per le sue parti di un movimento in quanto ne sono parti”.

[2] p. 1055bc. Alle parole dette prima, tu <Crisippo> rannodi tuttavia queste altre, come colui che si fa un punto d’onore [II,173,35] di confutare se stesso: “È ragionevole che il modo in cui ciascun pezzo del cosmo si muove quando è connaturato al resto, sia lo stesso anche quando esso si muovesse come realtà a se stante se, tanto per dire, lo pensassimo ipoteticamente trovarsi [II,174,1] entro un qualche vuoto di questo cosmo. Infatti, come quand’era tenuto coeso in ogni direzione si muoveva verso il mezzo del cosmo, esso manterrebbe questo movimento pur se, tanto per dire, si facesse repentinamente intorno ad esso il vuoto”.

SVF II, 551

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1054c. [II,174,5] Nel quarto libro ‘Sui possibili’ egli ipotizza l’esistenza di uno ‘spazio’ e di un ‘dove c’è posto’ intermedi, ed afferma che qui ha sede il cosmo. Queste sono le sue parole: “Perciò io credo ci sia bisogno d’una ragione per dire del cosmo che è perituro. Nondimeno a me pare che la faccenda stia in questi termini. [II,174,10] È come se molto cooperasse a favore dell’incorruttibilità del cosmo l’occupazione da parte sua d’un posto tale da essere in posizione mediana; poiché se il cosmo fosse pensato altrove, potrebbe definitivamente toccargli l’estinzione”. E poco dopo <Crisippo> di nuovo afferma: “Così in un certo modo anche la sostanza si trova ad avere occupato accidentalmente per l’eternità lo spazio mediano; ed è pertanto tale che, [II,174,15] per un altro verso, le è anche toccata la sorte di non essere passibile di estinzione, e per questo motivo di essere sempiterna”. […] …manifestamente <Crisippo> teme che avvenga la dissoluzione e l’estinzione del cosmo, a meno che le parti della sostanza non si portino in una posizione mediana nell’universo.

[2] Plutarco ‘De defectu oraculorum’ p. 425d. [II,174,20] Perciò è il caso di guardare con stupore Crisippo e soprattutto chiederci perplessi quale disgrazia abbia dovuto subire per affermare che il cosmo ha sede in una posizione mediana, e che il fatto che la sua sostanza occupi eternamente uno spazio mediano coopera non poco alla sua sopravvivenza e quasi incorruttibilità. Proprio questo egli dice nel quarto libro ‘Sui possibili’, [II,174,25] dov’egli sogna scorrettamente l’esistenza di un luogo mediano del vuoto, ed in modo ancora più assurdo ipotizza che la causa della sopravvivenza del cosmo sia dovuta a questa sua inesistente posizione mediana; dopo avere spesso detto in altri libri che la sostanza è governata e tenuta insieme da movimenti di avvicinamento e di allontanamento dal suo centro.

SVF II, 552

Alessandro d’Afrodisia presso Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 671, 4 Diels. [II,174,30] (Alessandro dice che) è possibile utilizzare questo epicheréma anche contro gli Stoici, i quali affermano che all’esterno del cosmo c’è un vuoto infinito che lo include. Infatti, se il vuoto è infinito, perché il cosmo rimane fermo qui dov’è e non si sposta? E se si sposta, perché si sposta qui e non altrove? Il vuoto è indifferenziato e similmente [II,174,35] duttile in ogni suo dove. Se essi rispondono dicendo che il cosmo rimane dov’è perché a tenerlo insieme è la forza di coesione stessa; forse tale forza potrebbe cooperare a che i suoi pezzi siano né dispersi né dilaniati né si spostino chi di qua e chi di là; ma che il cosmo nella sua interezza rimanga fermo e non si sposti grazie ad una forza che lo tiene coeso, questo nessuna forza di coesione sarà in grado di farlo.

SVF II, 553

Temistio ‘Paraphr. in Aristotelis Physica’ IV, 8, p. 294 Sp. II,174,40] Ai seguaci [II,175,1] di Crisippo bisogna dire questo: perché il cosmo non si sposterà all’infinito, portandosi del pari in qualunque parte del vuoto? Perché vogliono piantarlo saldamente qui? Basti pure la forza di coesione a far sì ch’esso non sia dilaniato. Ma cosa varrebbe tale forza [II,175,5] a far sì che il cosmo nella sua interezza rimanga fermo qui?

SVF II, 554

Achille ‘Isagoge’ 9 (p. 131 Petav. Uranol.). Lo star fermo del cosmo è un dogma degli Stoici e dei matematici. Questo principio dottrinale è strutturato attraverso argomentazioni di questo genere. Se il cosmo, stando nel vuoto infinito si spostasse verso il basso, gli acquazzoni non raggiungerebbero la terra; ma la raggiungono; dunque il cosmo non si sposta ma sta fermo. […] [[II,175,10] Inoltre, alcuni venti spirano dalla terra verso l’aria, mentre altri s’abbattono verso il basso; e se non […] dunque il cosmo non si sposta. […] Essi affermano che il cosmo sta fermo nel vuoto infinito perché è portato ad assumere la posizione mediana, in quanto tutte le sue parti hanno a suo tempo accennato ad assumere la posizione mediana. Parti del cosmo sono la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco: tutti elementi che accennano ad assumere la posizione mediana; e per questo motivo [II,175,15] il cosmo non propende da nessuna parte.

SVF II, 555

Achille ‘Isagoge’ 4 (p. 126 Petav. Uranol.). Bene sarebbe confidare in Crisippo quando afferma che l’assemblaggio dell’intero cosmo è avvenuto a partire dai quattro elementi, e che causativo della sua permanenza è la loro parità di peso. Due elementi, la terra e l’acqua, fanno da substrato e sono pesanti; mentre altri due, il fuoco e l’aria, sono leggeri; e la loro mescolanza è causa dell’ordine del tutto. Infatti, come il cosmo [II,175,20] si porterebbe verso il basso se fosse pesante, così si porterebbe verso l’alto se fosse leggero. Invece sta fermo, perché la sua quantità di pesantezza è pari a quella di leggerezza. L’etere e il cielo (siano essi la stessa cosa o cose diverse) hanno forma sferica e si trovano nella parte esterna del cosmo. Dopo questi, verso l’interno c’è l’aria; anch’essa di forma sferica e disposta tutt’intorno e sopra la terra. [II,175,25] All’interno di questa sfera ce n’è una terza, quella dell’acqua, che sta tutt’intorno alla terra e frammezzo all’aria e alla terra. Nel mezzo esatto c’è poi la terra, che ha la posizione e la grandezza del centro come in una sfera. Le altre tre o quattro sfere sono dotate di un movimento circolare, mentre la sfera terrestre [II,175,30] sta ferma. […] Dei quattro elementi, è avvenuto che il fuoco e l’aria, essendo più leggeri, abbiano l’impulso ad un decorso verso l’alto e ad un movimento circolare. […] Che la terra e l’acqua siano elementi pesanti e tendenti verso il basso non ha bisogno di discorsi, poiché ce lo insegna l’esperienza. [II,175,35] […] <Per provare> che la terra sta ferma, essi utilizzano questo esempio. Se uno, affermano, gettasse un chicco di miglio o un cocco di lenticchia in una vescichetta, poi vi soffiasse dentro e la riempisse d’aria, avverrà che il cocco rimane sollevato nel mezzo del sacchetto. Così pure la terra, sospinta da ogni direzione dall’aria, [II,175,40] se ne sta in equilibrio nel mezzo <del cosmo>. Oppure dicono ancora: se uno prendesse un corpo, lo legasse da ogni direzione con delle funi e lo [II,176,1] facesse poi tirare da alcuni in modo esattamente equilibrato; avverrà che esso, tirato da ogni direzione con pari forza, stia fermo e senza scosse.

SVF II, 556

Simplicio ‘In Aristot. Categ.’ f. 36B Ed. Bas. Alcuni non legittimano l’idea che l’alto e il basso esistano per natura e pensano che si tratti invece di determinazioni teoriche relative a noi. [II,176,5] […] Invece gli Stoici non guardano all’alto e al basso relativamente, ma li assumono tali in relazione alla configurazione dimensionale dell’universo. Quella che va dal centro ai suoi limiti estremi e quella che va dai suoi limiti estremi al centro sono, infatti, configurazioni dimensionali per natura differenti tra di loro.

SVF II, 557

Cleomede ‘De motu circulari corporum caelestium’ I, 1, p. 11 Bake. Essendo incorporeo, il vuoto [II,176,10] non potrebbe avere né un alto, né un basso, né un davanti, né un dietro, né una destra, né una sinistra, né un mezzo. […] Il cosmo stesso, in quanto corpo, ha necessariamente un alto, un basso e le restanti relazioni spaziali. Essi dunque affermano che la sua parte anteriore è quella verso occidente, poiché il suo impulso è a muoversi verso il tramonto. La sua parte posteriore è quella verso oriente, giacché è da qui [II,176,15] che esso procede in avanti. Laonde la parte verso settentrione diventerà la sua destra, e quella verso il mezzogiorno la sua sinistra. Queste relazioni nulla hanno di insicuro, ma le restanti relazioni procurarono molto sconcerto ai più antichi studiosi della natura e ci furono al riguardo moltissime cadute in errore, non riuscendo essi ad avere scienza del fatto che nel cosmo, il quale ha forma sferica, a partire da qualunque punto [II,176,20] della periferia la sua parte più centrale è necessariamente più in basso; mentre verso l’alto, partendo da qualunque parte centrale, si perviene al limite rappresentato dalla superficie stessa della sfera; e che queste due direzioni relative convergono in un unico punto del cosmo che è contemporaneamente il suo centro e il suo punto più basso.

§ 6. Le parti del cosmo e il loro ordine

Frammenti n. 558-573

SVF II, 558

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 155. [II,176,25] Questa è la descrizione del buon ordine cosmico che ha il loro beneplacito. In mezzo c’è la terra, che ricopre il ruolo di centro del cosmo. Dopo di essa c’è la sfera dell’acqua, la quale ha lo stesso centro che ha la terra; sicché la terra è immersa nell’acqua. Dopo quella dell’acqua c’è la sfera dell’aria.

SVF II, 559

Servio ‘In Aeneidem’ I, 381. […] secondo i fisici i quali dicono che la terra [II,176,30] sta al di sotto, giacché tutto ciò che essa contiene sopra di sé è da essa contenuto.

SVF II, 560

Filone Alessandrino ‘De confus. ling.’ 5, II, p. 230, 21 Wendl. I filosofi dediti alla ricerca ammisero che la terra è al centro dell’universo.

SVF II, 561

[1] Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Exodum’ II, 81 (p. 523 Aucher). Unico è il cielo, e null’altro [II,176,35] gli è simile per figura e per proprietà. Infatti i quattro elementi hanno una reciproca parentela sia per sostanza che per tipo di moto. Per sostanza, perché si trasformano l’uno nell’altro; per tipo di moto perché sono dotati di moto rettilineo: dal centro verso l’alto, il fuoco e l’aria; dal centro verso il basso, l’acqua e la terra. [II,176,40] Il cielo invece non si muove in linea retta ma circolarmente, ed ha una figura geometrica tale che ogni suo punto è perfettamente equidistante dal centro.

[2] II, 88 (p. 527 Aucher). Per quanto la terra sia distinta dall’acqua, l’acqua dall’aria, l’aria dal fuoco ed il fuoco da ciascuno dei precedenti, nondimeno tutti sono preparati a mescolarsi armoniosamente in una unica forma determinata. [II,177,1] Ed una materia che è andata incontro a tanti e tali eventi, per forza deve essere unica, perché lo dimostra con evidenza la comune partecipazione degli elementi e la loro commutazione l’uno nell’altro.

SVF II, 562

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ II, 85 (p. 526 Aucher). L’aria [II,177,5] è piuttosto nera poiché non ha sorta alcuna di luce in sé, e quindi è illuminata da un’altra fonte.

SVF II, 563

‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 119. Dice che l’aria è la sfera che include la terra e quel che circonda la terra; e che è verosimile che questa massa d’aria, [II,177,10] poiché si espande e vaporizza per perdita di umidità, sia sempre più agitata fino a che non entra a contatto col sole, giacché allora si coestende al sole proprio come il fuoco è coesteso al ferro incandescente. Per inciso: l’aria si chiama ‘Tartaro’ dal suo agitarsi (taràssesthai), poiché, come dicono, fino a qui egli parlava degli elementi.

SVF II, 564

‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 116. Alcuni dicono che il ‘Caos’ è chiamato così dal verbo ‘khèisthai’ o ‘khèesthai’ (versare). [II,177,15] Altri lo dicono derivare dal verbo ‘khadèin’ o ‘khorèin’ (avere spazio): ‘Era non contenne più la bile’. Dunque il caos è la distinzione e la secrezione in elementi. Altri dicono che caos è l’acqua, quella assimilata dall’umidità del cielo come aria tenebrosa. Altri dicono che è l’aria, o meglio l’aria riversata nello spazio che sta frammezzo la terra e il cielo.

SVF II, 565

‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 115. [II,177,20] Tre cose nacquero per prime: il Caos, la Terra ed Eros celeste, che è anche dio; giacché l’Eros nato da Afrodite è un dio più giovane. Gli elementi nacquero dall’acqua: la terra per assimilazione verso il basso, l’aria per assimilazione verso l’alto; la parte finemente particellare dell’aria divenne fuoco; il mare nacque per risucchiamento e le montagne per espulsione della terra dall’acqua.

SVF II, 566

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 5 (p. 248 Aucher). Il [II,177,25] passo della Scrittura in questione ha anche un significato di questo genere: gli uomini si purificano lavandosi con l’acqua e l’acqua a sua volta è purificata dal piede divino. Simbolicamente, il piede è l’estremità inferiore del corpo, così come l’aria è l’ultima delle realtà divine giacché è essa a dare l’anima all’insieme del creato. Infatti se l’aria non giunge a contatto con l’acqua, questa muore; [II,177,30] poiché è certo che nulla la rende vivapiù dell’aria in essa disciolta.

SVF II, 567

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ I, 64 (p. 44 Aucher). L’universo mondo e le sue parti sono state fatte seguendo un ordine. Infatti il creatore del mondo quando iniziò ad ordinare la sostanza refrattaria, caotica e passiva, si servì della divisione e della separazione. [II,177,35] Infatti pose al centro dell’universo gli elementi pesanti e naturalmente tendenti verso il basso, ossia la terra e l’acqua; mentre collocò in alto l’aria e il fuoco, che per la loro leggerezza tendono a sollevarsi.

SVF II, 568

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 62 (p. 87 Aucher). Rifletti bene a quel che dici quando affermi che i corpi leggeri sono spinti in alto da quelli più pesanti, perché in realtà non ogni corpo […] ha un peso, tant’è che in fisica si risolve il problema chiamando certi corpi ‘imponderabili’, [II,177,40] in opposizione a quelli ‘ponderabili’. La mescolanza di elementi contrari dei quali è fatto il mondo ha un grande significato. […] Sarà sufficiente dire […] che l’aria e il fuoco che, per assenza di peso sono dotati di un naturale movimento verso l’alto, non sono spinti in questa direzione né dalla terra né dall’acqua.

SVF II, 569

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XXXVI, 42 segg. [II,177,45] <Il primo cavallo> differisce [II,178,1] <dagli altri tre> per bellezza, per grandezza e per velocità -in quanto corre in corsia esterna e quindi compie il percorso più lungo – ed è sacro allo stesso Zeus. <I Magi dicono> che è alato, di un colore che ha la brillantezza dei raggi di luce più puri, e che su di esso si vedono i contrassegni di Sole e Luna risaltare in modo lampante. […] Gli altri astri [II,178,5] fanno tutti per natura parte di esso, compiono il loro percorso circolare insieme a lui ed hanno questo solo movimento, pur essendocene però alcuni che seguono percorsi variabili. […] <Il secondo cavallo> gli è accosto vicinissimo ed ha nome Era. È docile e mansueto, molto inferiore al primo per vigoria e per velocità; di un colore per sua natura nero, che è reso lucente quando sia rischiarato dal sole ma che, quando nel suo percorso circolare si trovi nell’ombra, riprende la sua propria tinta. [II,178,10] […] <Il terzo cavallo> è sacro a Poseidone ed è più lento del secondo. […] <Il quarto cavallo> è solido e immobile, non soltanto senz’ali, ed ha nome Estia. […] <Gli altri cavalli> stringono e premono su di lui da ogni direzione; e i due che gli sono prossimi s’inclinano e piegano su di lui cadendogli addosso e sospingendolo imperitamente, mentre il primo cavallo, quello più all’esterno, gira intorno [II,178,15] a quello che sta fermo come intorno ad una meta.

SVF II, 570

Plutarco ‘De facie in orbe lunae’ p. 922d. [II,178,20] <Il motivo è che l’aria>, a causa della sua radezza è facile a mescolarsi con qualunque qualità e facoltà; e soprattutto appena entri a contatto con la luce, come dite voi, e la tocchi, si commuta interamente e s’illumina.

SVF II, 571

Aezio ‘Placita’ I, 12, 4. Gli Stoici affermano che due dei quattro elementi, il fuoco e l’aria, sono leggeri; mentre altri due, l’acqua e la terra, sono pesanti. È per natura leggero [II,178,25] quello che accenna ad allontanarsi dal proprio centro; pesante quello che invece tende ad avvicinarglisi. Inoltre, la luce che circonda la terra si propaga in linea retta, mentre la luce eterea si muove circolarmente

SVF II, 572

Cleomede ‘De motu circulari corporum caelestium’ I, 11, p. 75 Bake. Non è d’uopo avere incertezze sul fatto che la terra, pur essendo un punto rispetto alla grandezza del cosmo, mandi verso l’alto del nutrimento al cielo e agli astri in esso inclusi, [II,178,30] che pur sono tanto numerosi e tanto grandi. Quanto a mole la terra è sì piccina, ma quanto a forza potenziale essa è grandissima, quasi fosse in realtà la maggior parte della sostanza; e dunque se divisassimo di risolverla tutta quanta in fumo o in aria, essa diventerebbe molto più grande della sfera del cosmo. E questo accadrebbe non soltanto se diventasse fumo, aria o fuoco, ma anche se fosse polverizzata. Ci è infatti dato di vedere [II,178,35] che quando la materia del legname si risolve in fumo, questo si spande quasi all’infinito, e che questo fanno anche l’incenso quando esala il suo profumo e tutte le altre materie dei corpi solidi quando si vaporizzano. E se noi divisassimo il cielo, insieme con l’aria e con gli astri, ridotto alla fittezza della terra, essi sarebbero compressi in una massa minore di quella terrestre. Sicché se pur la terra è una massa puntiforme rispetto al cosmo, [II,178,40] e però ha a disposizione una forza potenziale ineffabile ed ha natura di potersi spandere quasi all’infinito, non è impossibile che essa possa mandare verso l’alto del nutrimento al cielo e ai corpi celesti. Né per questo motivo la terra ne risulterebbe del tutto consumata, giacché essa prenderebbe qualcosa in cambio sia dall’aria che dal cielo. Afferma infatti Eraclito che una sola è la strada verso l’alto e verso il basso che attraversa l’intera sostanza, la cui natura è quella di trasmutarsi e di trasformare, [II,178,45] in tutto sottomesso al demiurgo volto al governo e alla sopravvivenza dell’intero cosmo.

SVF II, 573

‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 397. “Primo venne [II,179,1] verso l’Olimpo lo Stige indeperibile”. Giacché per prima fu separata l’acqua che copriva e nascondeva la terra, e poi l’acqua ascese verso l’aria. Infatti, l’acqua giace al di sotto dell’aria.

§ 7. Il cosmo è generato

Frammenti n. 574-578

SVF II, 574

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 14, p. 701 Pott. [II,179,5] Gli Stoici pongono che il cosmo sia generato.

SVF II, 575

Aezio ‘Placita’ II, 4, 1. Pitagora, Platone e gli Stoici sostengono che il cosmo è generato dalla divinità.

SVF II, 576

Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 1121, 12 Diels. Quanti -come Anassimene, Eraclito, Diogene e successivamente gli Stoici – [II,179,10] affermano che il cosmo è sempre esistente, fanno di quest’unico cosmo una realtà generata e peritura; non sempre identica a se stessa, ma di volta in volta diversa secondo dei cicli temporali periodici. Ed è manifesto che costoro hanno l’identica opinione anche per quanto attiene al suo movimento; giacché quando c’è il cosmo, allora è necessario che ci sia il movimento.

SVF II, 577

Filone Alessandrino ‘De providentia’ I, 9 (p. 5 Aucher). Inoltre noi riconosciamo [II,179,15] che le parti del mondo, per esistere, hanno avuto un inizio. Ma se le parti, per esistere, hanno avuto un inizio, è di certo necessario che anche il tutto, per esistere, abbia avuto un inizio. E se la parte è passibile di decomposizione, allora bisogna che anche il tutto lo sia.

SVF II, 578

Filone Alessandrino ‘De providentia’ I, 10 (p. 6 Aucher). Non è forse [II,179,20] universalmente ammesso che l’uomo grazie alla cui esistenza esiste l’umanità, fa parte del mondo? Infatti l’umanità non esisterebbe, se prima non fosse esistito quell’uomo. Con quell’uomo, dunque, ha inizio la stirpe umana, ed egli è parte dell’umanità, giacché non si dà umanità senza uomo; e una volta tolto l’uomo sparisce anche l’umanità. [II,179,25] Pertanto, se è un uomo che ha originato il genere umano, è assolutamente necessario che l’umanità sia frutto di una creazione.

§ 8. Com’è nato il cosmo

Frammenti n. 579-584

SVF II, 579

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1053a. Egli <Crisippo> ritiene il sole un essere animato, fatto di fuoco e nascente dall’esalazione che si trasforma in fuoco. [II,179,30] Dice, infatti, nel primo libro ‘Sulla natura’: “La trasformazione del fuoco è del seguente genere. Attraverso l’aria esso si tramuta in acqua e da questa, mentre verso il basso si condensa la terra, esala l’aria. Al ridursi dell’aria in fini particelle, l’etere si spande circolarmente tutt’intorno, e insieme col sole dal mare s’accendono gli astri”.

SVF II, 580

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 135. [II,179,35] Una cosa sola sono la divinità, la mente, il destino, Zeus, i quali sono denominati anche con molti altri nomi. Da principio la divinità, sola con se stessa, passando attraverso uno stato aereo tramutò tutta la sostanza in umore umido; [II,180,1] e come la matrice generativa racchiude lo sperma così essa, che è la ragione seminale del cosmo, rimase racchiusa in quell’umido, rendendolo materia fatta apposta per la genesi tutte le cose seguenti. Di poi generò dapprima i quattro elementi: fuoco, acqua, aria e terra. [II,180,5] […] L’elemento è ciò da cui originariamente nascono i corpi esistenti ed in cui da ultimo essi sono risolti. I quattro elementi assieme sono la sostanza priva di qualità, il materiale. Il fuoco è l’elemento caldo, l’acqua quello umido, l’aria quello freddo e la terra quello secco. Tuttavia la stessa parte secca è presente anche nell’aria. L’elemento più in alto di tutti è il fuoco, [II,180,10] che si chiama anche etere, ed entro di esso è generata la prima sfera, quella delle stelle fisse, e poi quella dei pianeti. Dopo questa si trova la sfera dell’aria, poi quella dell’acqua, mentre basamento di tutti <gli elementi> è la terra, che è il centro di tutti quanti.

<Questo sostengono> Zenone, nel suo libro ‘Sul cosmo’; [II,180,15] Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’ e Archedemo nel suo libro ‘Sugli elementi’.

SVF II, 581

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 142. Il cosmo si genera quando la sostanza sia volta da fuoco in umidità passando attraverso uno stato aereo. Dopo di che la sua parte più densa si condensa e ne risulta la terra, mentre quella più finemente particellata diventa aria e quindi, [II,180,20] rarefattasi ancora di più, rigenera del fuoco. In seguito, per mistura di questi elementi sono generati i vegetali, gli animali e gli altri generi di esseri. Della genesi e della rovina del cosmo parlano Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’ e Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’.

SVF II, 582

Aezio ‘Placita’ II, 6, 1. Gli Stoici sostengono che la genesi del cosmo prende origine dalla terra come da un centro, [II,180,25] giacché origine della sfera è il centro.

SVF II, 583

Achille ‘Isagoge’ 7 (p. 131 Petav. Uranol.). Gli Stoici affermano che il movimento di rotazione periferico del cosmo origina dalla terra. Infatti, poiché la terra ha il ruolo di centro del cosmo, come il cerchio nasce dal suo centro, così è verosimile che quel movimento circolare periferico sia stato originato dalla terra.

SVF II, 584

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Exodum’ I, 1 (p. 445 Aucher). Il tempo [II,180,30] della creazione del mondo, se si vuol cercare la verità con un esame spassionato della faccenda, è la primavera, giacché questa è la stagione in cui dovunque tutto fiorisce e germoglia, e la terra porta a maturazione i suoi frutti. Come ho detto, al tempo della prima creazione dell’universo nulla esisteva che non fosse perfetto. Infatti, realizzata quest’opera, [II,180,35] era altresì stabilito che la stirpe umana s’intrattenesse senza problema alcuno nel mondo, avendo ottenuto per sé, come premio per la propria religiosità, la migliore delle sorti: questa grande città che è il cosmo e la civiltà. [II,181,1]

§ 9. Il cosmo è perituro

Frammenti n. 585-595

SVF II, 585

Aezio ‘Placita’ II, 4, 7. [II,181,5] Gli Stoici affermano che il cosmo nel corso della conflagrazione universale è perituro.

SVF II, 586

‘Commenta Lucani’ Lib. VII, 1 p. 220 Us. Quale legge eterna: si può intendere quella di Platone, il quale insegna che il mondo è nato ma che è imperituro. Diversamente la pensano gli Stoici e gli Epicurei, i quali affermano che il mondo [II,181,10] è nato e che è perituro.

SVF II, 587

‘Commenta Lucani’ Lib. VIII, 459 p. 274 Us. <Se crediamo che i numi nascano>: come dicono gli Stoici: se qualcosa non esistette, di sicuro può anche non esistere. Può però non avere inizio ciò che non ha fine.

SVF II, 588

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ II, 10. Aristotele si liberò di tale molesta difficoltà affermando che il mondo esiste da sempre, [II,181,15] e che pertanto il genere umano e tutto ciò che il mondo contiene non ebbero inizio, ma sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Tuttavia, siccome noi vediamo che singoli animali che prima non esistevano, iniziano ad esistere e poi cessano di esistere; è necessario che tutto il genere animale un giorno abbia cominciato ad esistere e che un giorno cesserà di esistere, visto che ha avuto un inizio. Ogni realtà, infatti, è necessariamente contenuta in tre dimensioni [II,181,20] temporali: il passato, il presente e il futuro. L’origine appartiene al passato, l’esistenza al presente, l’inesistenza al futuro. Tutto ciò vale anche per i singoli uomini: noi originiamo quando nasciamo, esistiamo finché viviamo, finiamo di esistere quando moriamo. Anche per questo si volle che le Parche fossero tre: una che ordisca il filo della vita dell’uomo, l’altra che lo tessa, [II,181,25] la terza che lo rompa e la faccia finita. Sebbene a tutti gli uomini appaia evidente solo il presente, tuttavia da esso si colgono anche il passato, cioè l’origine, e il futuro, cioè l’inesistenza. Infatti, poiché l’uomo esiste, è evidente che un giorno egli abbia cominciato a vivere, visto che nulla può esistere senza un’origine; e se ha cominciato, un giorno dovrà pure finire. D’altra parte non può essere immortale quell’insieme che è composto di parti mortali. Ora, siccome tutti noi uomini moriamo uno per volta, [II,181,30] può però capitare per un caso qualunque che noi si muoia tutti insieme: o per quella sterilità delle terre che avviene di solito in particolari circostanze; o per una pestilenza ovunque diffusa che spopola singole città o regioni; o per una massa infuocata che cade sulla terra dal cielo, come si dice che sia accaduto ai tempi di Fetonte; oppure per un diluvio quale secondo la tradizione avvenne sotto Deucalione, [II,181,35] allorché tutto il genere umano, tranne un solo uomo, fu sterminato. E se per caso quel diluvio ci fu, poteva certo accadere che morisse anche quell’unico superstite. Se invece quel diluvio avvenne per volere della divina provvidenza, cosa che non si può negare, al fine di rinnovare gli uomini, appare evidente che la vita e la morte del genere umano sono in potere di Dio. Dunque ciò che può tramontare nella sua totalità, poiché tramonta per parti, mostra di essere un certo giorno sorto; [II,181,40] e la caducità del genere umano chiarisce che esso ha un inizio e una fine. Se ciò è vero, Aristotele non può più sostenere che il mondo non abbia avuto un principio. E se Platone ed Epicuro estorcono ad Aristotele l’ammissione che il mondo ha avuto un principio; Epicuro strapperà poi a Platone e ad Aristotele, che ritennero indistruttibile il mondo e malgrado l’eloquenza con la quale l’hanno sostenuto e seppur di malavoglia, l’ammissione [II,181,45] che il mondo ha anche una fine.

SVF II, 589

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 141. In ragione di ciò che noi capiamo grazie alle sensazioni, ha il beneplacito degli Stoici l’idea che il cosmo, dal momento che è generato, [II,182,1] sia anche perituro. Infatti, se le parti sono periture, è perituro anche l’intero. Ma le parti del cosmo sono periture, giacché si trasformano l’una nell’altra; dunque il cosmo è perituro. Inoltre, se qualcosa è passibile di una trasformazione in peggio, è perituro; ma il cosmo lo è, giacché può essiccarsi [II,182,5] o diventare acquoso; <dunque il cosmo è perituro>.

SVF II, 590

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 14, p. 711 Pott. È chiarissimo che Eraclito di Efeso è di questa opinione. Egli valuta che il cosmo sia sempiterno e che quello che perisce è il cosmo inteso come ordine cosmico, ben sapendo che quest’ultimo non è altro che una modalità di quello. Egli sapeva che il cosmo come qualificazione qualitativa propria dell’intera sostanza [II,182,10] è sempiterno, e ce lo mette sotto gli occhi dicendo così: […]. Il suo giudizio che il cosmo sia generato e perituro, lo rivelano le seguenti parole: […]. È come dire, infatti, che il fuoco, ad opera della divina ragione che lo governa e passando attraverso uno stato aereo, tramuta tutto l’esistente in umore umido, che è come il liquido seminale del buon ordine del cosmo e che egli chiama ‘mare’. Da questo, a loro volta, [II,182,15] nascono la terra, il cielo e le realtà che vi sono incluse. Come il cosmo ripercorra all’inverso questa strada e vada incontro alla conflagrazione universale, egli lo chiarisce con queste parole: […]. Similmente si può dire per gli altri elementi. Giudizi similari a quelli di Eraclito nutrono gli Stoici di maggior conto quando discettano sulla conflagrazione universale, sul governo del cosmo, sulla peculiare qualificazione [II,182,20] qualitativa del cosmo e dell’uomo, e sulla sopravvivenza dei nostri animi.

SVF II, 591

[1] Filone Alessandrino ‘De providentia’ I, 13 (p. 7 Aucher). La decomposizione delle particelle di una qualsiasi parte del corpo e, a sua volta, la decomposizione di una minima parte di queste stesse particelle, se trae origine dall’essenza naturale del corpo, preannuncia anche la futura disgregazione dell’intero corpo. Cos’è, infatti, la decomposizione che si insinua dapprima di nascosto [II,182,25] in una qualche parte del corpo, se non una differenza indotta nella parte o nelle sue particelle, la quale fa sì che queste diventino diverse dai corpi da cui si distaccano? Se qualcosa che era di un’unica e medesima natura subisce una dissoluzione per decomposizione, anche sugli altri corpi incombe la sorte di dissolversi per decomposizione, finché la morte condurrà tutti quanti i corpi esistenti alla stessa fine.

[2] 14. Chi, al lume della ragione naturale, vede che la condizione di tutti gli esseri animati, degli esseri dotati di ragione [II,182,30] e in generale di tutte le cose che nell’universo furono e sono, consiste in un continuo fluire, non riconoscerà che anche l’universo mondo si disgregherà secondo la norma valida per le sue parti?

SVF II, 592

[1] Filone Alessandrino ‘De providentia’ I, 15 (p. 8 Aucher). Esaminata e ben ponderata la natura della terra e dell’aria, [II,182,35] non troverai in queste parti differenza alcuna rispetto alle altre parti delle quali è fatto il mondo, e quindi riconoscerai che esso è per genere tutto della stessa natura, e che gli estremi di entrambi gli elementi sono la generazione e la disgregazione. Siccome terra e aria sono soggetti a mutamento, a variazione ed a conversioni, essi hanno anche un fine e una permutazione della loro natura ad opera del fuoco. Così avviene che la terra, logoratasi per il lungo lavoro e venutane meno la naturale fertilità [II,182,40] non porta più avanti la germinazione. Invero questa sarebbe stata pur sempre la sua volontà, ma essa non poté attuarla perché impedita a produrre germogli dal fuoco, oppure perché fu resa fangosa da acqua corrotta, oppure perché fu trasmutata da altre vicissitudini. Come potrebbero presumere di dirla immortale coloro che si sono messi sulle tracce della sapienza?

[2] 18. Tratterò […] della terra e dell’aria [II,182,45] considerando nondimeno quella naturale caratteristica che ha l’aria di riuscire comunque a risanarsi [II,183,1] pur dopo aver patito non poche affezioni. È per questo che a parere dei medici le malattie insorgono per le mutazioni dell’aria, ed essi ritengono anche che i corpi che sono nel mondo s’ammalino per la naturale partecipazione che hanno con essa. Pertanto, chi è soggetto a malattia, a cattivo tempo e alla decomposizione, perché mai non potrebbe essere privato [II,183,5] della vita stessa?

[3] 19. Se qualcuno pensa che l’aria sia immortale e pertanto afferma che essa permarrà in eterno; come può avvenire, io chiedo, che in un corpo immortale degli esseri mortali di regola muoiano? Esseri mortali, poi, che sono saturi di [II,183,10] un’aria in perpetuo vitale che respirano continuamente?

SVF II, 593

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 118. Le stelle sono per natura ignee, e sono perciò alimentate dai vapori della terra, del mare e delle acque, i quali sono suscitati dal sole quando riscalda i campi e le acque. Di poi le stelle e tutto l’etere, una volta così alimentati e rivitalizzati, restituiscono i vapori e di nuovo li riassorbono, sicché praticamente nulla, o soltanto una parte trascurabile di tali vapori va perduta in quanto consumata [II,183,15] dal fuoco degli astri e della fiamma dell’etere. A seguito di ciò i filosofi della nostra scuola reputano […] che da ultimo tutto il cosmo conflagrerà in fuoco, quando per effetto di essiccazione, né la terra avrà più di che alimentarsi né circolerà più l’aria, non potendo più essa salire in alto una volta esauritasi l’acqua. Così non resta altro che il fuoco, dal quale nuovamente, in quanto elemento animato e divino, si rigenererebbe il mondo, che ritornerebbe ad essere [II,183,20] identico a prima.

SVF II, 594

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Meteorol.’ p. 61, 34 segg. Hayduck. Laonde egli <Aristotele> afferma che quanti volgono lo sguardo ai piccoli eventi e da questi piccoli fenomeni di trasformazione relativi alla terra -per cui zone paludose ed umide diventano adatte ad essere abitate a causa della siccità, mentre altre [II,183,25] che in precedenza vi erano adatte diventano inabitabili a causa di un’intensificazione della siccità – provano a parlare di quelli cosmici, sostengono che sono fenomeni del genere a causare la trasformazione e l’estinzione del cosmo. Basandosi su questi segni, essi ritengono che avvenga la conflagrazione del cosmo; come sostennero, prima di Aristotele, Eraclito e i suoi seguaci e, dopo Aristotele, gli Stoici. A seguito del fatto che l’universo è generato e perituro e che la terra va incontro a periodi [II,183,30] di estrema siccità e poi di nuovo di estrema umidificazione, è d’uopo ritenere che questa umidità sia la causa della genesi del cosmo. Ma è assurdo pensare che brevi trasformazioni terrestri mettano in moto l’universo e lo rendano generato e perituro, giacché la grandezza della terra è nulla se paragonata a quella dell’intero cielo. Essi però affermano che la terra, rispetto all’universo, ha il ruolo di centro.

SVF II, 595

Minucio Felice ‘Octavius’ cp. 43, 2. Chi tra i sapienti dubita, [II,183,35] chi ignora che tutto quanto è sorto tramonta, che quanto nasce muore, che anche il cielo con tutto il suo contenuto, se ha avuto inizio pure finirà in una vampa di fuoco, non appena verrà a mancare l’apporto dell’acqua dolce e di quella marina? È costante opinione degli Stoici che, una volta consumata l’acqua, il mondo intero prenderà fuoco.

[II,183,40] § 10. L’eterna conflagrazione e ricostituzione del cosmo

Frammenti n. 596-632

SVF II, 596

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 171, 2 W. Ha il beneplacito di Zenone, di Cleante e di Crisippo l’idea che la sostanza muti in fuoco inteso come sperma, e che poi da questo sperma risulti di nuovo il buon ordine del cosmo, tal quale era in precedenza.

[2] Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 18, 1-3. [II,184,1] Quale sia l’opinione degli Stoici circa la conflagrazione universale. I più anziani appartenenti a questa scuola danno il loro beneplacito all’idea che secondo cicli periodici lunghissimi, tutti i corpi mutino in sostanza eterea, giacché essi si risolvono tutti in fuoco etereo. [II,184,5] E di seguito aggiunge […] Da ciò è manifesto che, circa la sostanza, Crisippo non ha assunto che questa mutazione rappresenti una fusione degli elementi che la compongono (giacché la loro fusione è impossibile), bensì che sia il percorso inverso alla loro predetta trasformazione uno nell’altro; giacché i fautori della risoluzione dell’intero cosmo in fuoco [II,184,10] -risoluzione che essi chiamano conflagrazione universale – non assumono che la rovina del cosmo secondo cicli periodici lunghissimi sia principalmente un’estinzione, bensì utilizzano l’appellativo ‘rovina’ nel significato di ‘trasformazione naturale’. I filosofi Stoici, infatti, danno il loro beneplacito all’idea che la sostanza muti in fuoco inteso come sperma, e che poi da questo sperma risulti di nuovo il buon ordine del cosmo, tal quale era in precedenza. Su questa dottrina filosofica [II,184,15] convennero i primi e più anziani degli Stoici: Zenone, Cleante e Crisippo. Affermano anche che Zenone <di Tarso>, discepolo e successore di Crisippo, sospenda il giudizio a proposito della conflagrazione universale.

SVF II, 597

Aezio ‘Placita’ II, 4, 13. Affermando che il buon ordine del cosmo è sempiterno, [II,184,20] essi intendono affermare che esistono cicli temporali periodici secondo i quali tutte le cose rinascono identiche e allo stesso modo e si salvaguardano identici la costituzione e il buon ordine del cosmo.

Gli Stoici sostengono che il cosmo non aumenta né diminuisce, ma che con la sue parti ora si estende in uno spazio maggiore, ora si contrae.

SVF II, 598

Ippolito ‘Refutationes’ 21 (Dox. Gr. p. 571, 20). [II,184,25] <Gli Stoici, Crisippo e Zenone> accettano l’idea che vi sarà una conflagrazione universale e una purificazione di questo cosmo; per alcuni di tutto il cosmo, per altri di una sua parte. Essi dicono che il cosmo è purificato parzialmente e denominano purificazione la sua quasi rovina e la genesi da essa di un altro cosmo.

SVF II, 599

Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 19, 1. [II,184,30] Una volta avanzato a tal punto il logos universale, dopo essere diventata più grande ed estesa ed avere alla fine disseccato ogni cosa, la comune natura si raccoglie in se stessa nell’intera sostanza e ritorna a quel logos di cui si è detto e a quel famoso risveglio che produce il Grande Anno, [II,184,35] nel corso del quale di nuovo avviene da sé solo e per sé il ristabilimento al pristino stato. Quando ritorna nella posizione dalla quale aveva similmente iniziato a disporre il buon ordine del cosmo, la natura fa di nuovo a ritroso lo stesso tragitto secondo ragione; e siffatti cicli periodici si verificano senza sosta dall’eternità, giacché è impossibile che esistano un principio e una fine della sostanza e della ragione che la governa. La sostanza, infatti, deve fare da sostegno alla realtà, [II,185,1] ed è per natura tale da farsi carico di qualunque sua trasformazione e da accogliere l’elemento creativo che le è insito. Infatti, come esiste in noi una certa natura capace di creatività, così pure qualcosa di siffatto è necessariamente ingenerato anche nel cosmo, giacché nel caso della sostanza è impossibile che vi sia un inizio della sua generazione; e come essa è ingenerata è anche impossibile che essa faccia sparire se stessa [II,185,5] o che sarà fatta sparire da un agente esterno ad essa.

SVF II, 600

Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 72, Vol. II, p. 228, 28 K. Pertanto gli Stoici sostengono che la conflagrazione universale allora sarà possibile quando sarà preminente l’elemento più potente degli altri e tutto si trasformerà [II,185,10] in fuoco.

SVF II, 601

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XL, 37 segg. Quello che dai sapienti è chiamato ‘predominanza dell’etere’, è un periodo nel quale predomina la parte regale e dominante della facoltà psichica -parte che i sapienti spesso non disdegnano di denominare ‘fuoco’ – che entro tempi definiti è diventata mite e rispettosa dei limiti, e sembra avere come attributi necessari amicizia e concordia. [II,185,15] Invece, quando la sopraffazione degli altri e la litigiosità è diventata, contro la legge, preminente, allora esse portano con sé un estremo pericolo di totale rovina; rovina che non sarà mai intenzione dell’intero cosmo perché in esso esiste totale pace e giustizia tra le parti, ed esse ovunque obbediscono e cedono il passo alla sua legge equa e ragionevole, servendola ed adeguandosi ad essa.

SVF II, 602

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XXXVI, 51 segg. [II,185,20] [Si narra come avvenga la conflagrazione universale] Tra questi <quattro elementi> avvengono delle trasformazioni e dei cambiamenti di forma, fino a che tutti quanti, vinti da quello più potente, sono riuniti insieme in una sola natura. […] È come se un mago plasmasse dei cavalli di cera [II,185,25] e poi, levandone e raschiandone via da ciascuno un po’, l’aggiungesse altrove ad un altro e infine, dopo averli consumati tutti a favore di uno solo dei quattro, col proprio lavoro traesse fuori da tutto il materiale un cavallo d’una sola foggia. Siffatto lavoro non è però, come nel caso di artefatti inanimati, quello d’un artigiano creativo che s’affaccenda e trasferisce il materiale dall’esterno, bensì una passione che nasce nei cavalli stessi, come se essi si disputassero la vittoria in una grande [II,185,30] e verace gara. […] <Il cavallo di Zeus> in quanto è il più vigoroso di tutti e focoso per natura, dopo aver fatto velocemente consumare gli altri, come se essi fossero realmente -io credo – di cera; in non molto tempo, che invece a noi sembra infinito […] prende in sé tutta quanta la sostanza degli altri ed appare alla vista molto più grande e più radioso di quanto fosse in precedenza […] così da pigliarsi [II,185,35] più spazio possibile ed abbisognare di un posto più grande […] ed è allora ormai semplicemente l’animo dell’auriga e padrone, o piuttosto proprio la parte saggia ed egemone di esso.

SVF II, 603

Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 480, 27 Diels. Infatti, Eraclito [II,185,40] diceva che tutti i corpi sono formati da una quantità finita di fuoco e che tutti si risolvono in fuoco. <Si ammette> che siano di questa opinione anche gli Stoici, giacché la conflagrazione universale allude a qualcosa del genere, ed essi dicono che ogni corpo è finito.

SVF II, 604

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1052c. Nel primo libro ‘Sulla Prònoia’ <Crisippo> afferma che Zeus s’accresce fino a consumare in sé tutti i corpi. [II,185,45] “Poiché la morte è separazione dell’animo dal corpo, [II,186,1] mentre l’animo del cosmo non si separa bensì continua ad accrescersi fino a consumare in sé la materia, non si deve dire che il cosmo muoia”.

[2] p. 1052d. In esso, egli ha scritto chiaramente: “Soltanto il cosmo [II,186,5] è detto essere autosufficiente, giacché esso soltanto contiene in sé tutto ciò di cui ha bisogno; e pertanto si nutre di se stesso e s’accresce grazie al concambio delle sue differenti parti l’una nell’altra”.

SVF II, 605

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1053b. <Crisippo> afferma che quando avviene la conflagrazione universale il cosmo è tutt’intero vivente e animato, e che quando poi [II,186,10] un’altra volta si spegne e s’addensa, esso si tramuta in forma corporea, ossia in acqua e in terra. Egli dice nel primo libro ‘Sulla Prònoia’: “Quando il cosmo è tutt’intero igneo, esso è direttamente l’animo e l’egemonico di se stesso. Quando, invece, mutando in umido e nell’animo in esso racchiuso, esso in un certo modo mutò in corpo ed animo [II,186,15] così da consistere di questi, esso contenne in sé un’altra ragione; giacché con lo spegnimento anche l’animo del cosmo s’attenua e s’inumidisce mutando in corporeo.

SVF II, 606

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1067a. <In secondo luogo> questi <Stoici sostengono che> qualora entri in conflagrazione universale, il cosmo non si lascia dietro alcun male, e che anzi allora è tutt’intero saggio [II,186,20] e sapiente.

SVF II, 607

Porfirio ‘Aristot. Categ.’ p. 119, 34 Busse. […] se pure qualcuno facesse perire gli esseri viventi, come gli Stoici affermano avvenire nel corso della conflagrazione universale, la sensazione, non esistendo esseri viventi, non esiste più; ma continuerà ad esistere un oggetto sensibile, giacché ci sarà il fuoco.

SVF II, 608

‘Commento a Lucano’ Libro VII, 813, p.252 Us. [II,186,25] […] conflagrazione universale <che seguirà> i cataclismi […]

SVF II, 609

Aezio ‘Placita’ II, 9, 6. Gli Stoici sostengono che esiste un vuoto in cui, essendo esso infinito, si risolve il cosmo al momento della conflagrazione universale.

SVF II, 610

Achille ‘Isagoge’ 8 (p. 131 Petav. Uranol.). Quando dicono [II,186,30] che secondo certi tempi definiti c’è la conflagrazione universale del cosmo, gli Stoici affermano anche che esiste il vuoto ma che esso non è infinito, bensì tanto grande quanto serve per fare spazio all’universo dissolto.

SVF II, 611

[1] Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 18, VI, p. 100 Cohn-Reiter. […] il cosmo necessariamente muta o in vampata o in raggi di luce: in vampata, come credeva Cleante; o in raggi di luce, come credeva Crisippo.

[2] p. 26, 9 Cumont. [II,186,35] Ma questo [ossia la definitiva sparizione di ogni qualificazione qualitativa del cosmo] è inconcepibile. Infatti, secondo i sostenitori della tesi opposta, la qualificazione qualitativa del buon ordine cosmico permane anche quando la sostanza di Zeus è ridotta al minimo, nel corso della conflagrazione universale.

SVF II, 612

Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 86, VI, p. 99 Cohn-Reiter. [II,187,1] Ci sono tre specie di fuoco: il carbone ardente, la fiamma e il raggio di luce. Il carbone ardente è il fuoco presente in una sostanza terrosa, il quale vi si è acquattato e vi sta tutto teso in agguato a mo’ della forza coesiva del pneuma, fino ai suoi limiti. La fiamma è il fuoco [II,187,5] che si solleva verso l’alto da ciò che l’alimenta. Il raggio di luce è il fuoco inviato dalla fiamma, e che coopera con gli occhi all’appercezione dei corpi visibili.

SVF II, 613

Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 47, VI, p. 87 Cohn-Reiter. I filosofi che hanno introdotto le conflagrazioni universali e le palingenesi del cosmo legittimano come ammissibile l’idea che gli astri siano divinità che però, nei loro ragionamenti, non arrossiscono [II,187,10] a dimostrare perituri. Giacché bisognerebbe allora dichiarare, come taluni fanno, che gli astri sono masse di ferro arroventato […] oppure, se li si ritiene nature divine o demoniche, ammettere per essi l’incorruttibilità che s’acconcia agli dei. Ora essi, invece, aberravano a tal punto dalla vera opinione da non accorgersi che con ciò permettevano di inferire il carattere perituro della Provvidenza, che è l’anima del cosmo, traendone quindi conclusioni filosofiche inconseguenti. [Seguono le parole di Crisippo riportate in SVF II, 397] [II,187,15]

SVF II, 614

[1] Giustino ‘Apologia’ I, 20, p. 62 Otto. I filosofi cosiddetti Stoici nutrono il giudizio che anche Dio si risolva in fuoco e dicono che poi il cosmo rinasce per trasformazione.

Quando noi diciamo che tutte le cose sono state adornate e sono nate da Dio, sembreremo ripetere la dottrina di Platone. [II,187,20] Quando invece diciamo che avviene la conflagrazione universale, sembreremo sostenere la dottrina degli Stoici.

[2] II, 7, p. 218 Otto. Così anche noi affermiamo che avverrà la conflagrazione universale, ma non a ragione, come sostengono gli Stoici, della trasformazione di tutte le cose l’una nell’altra.

SVF II, 615

Atanasio ‘Orat. IV contra Arianos’ 13, P. G. XXVI, col. 484. Questa concezione egli forse la prese dagli Stoici, i quali saldamente sostenevano che la divinità si contrae e si distende, [II,187,25] con un infinito alternarsi di costruzione del mondo e di pausa.

SVF II, 616

Filone Alessandrino ‘De spec. legibus’ I, 208, V, p. 50 Wendl. Lo smembramento dell’animale sacrificale intende rendere manifesto che tutto è uno o che tutto deriva da uno e va verso l’uno. Alcuni chiamarono ciò ‘tempi di abbondanza’ e ‘tempi di carestia’; altri lo chiamarono ‘conflagrazione’ e ‘stabilimento del buon ordine cosmico’. Conflagrazione in accordo con il supremo potere di Dio, che è preminente su tutti gli altri. [II,187,30] Stabilimento del buon ordine cosmico in accordo con la parità di diritti che i quattro elementi si riconoscono e ricambiano reciprocamente.

SVF II, 617

[1] Simplicio ‘In Aristot. De caelo’ p. 294, 4 Heibg. Eraclito dice che ad un certo punto il cosmo va incontro alla conflagrazione universale, e che poi in un altro momento ritorna di nuovo a sussistere dal fuoco secondo cicli temporali periodici. Lo dice nei versi in cui afferma: [II,187,35] ‘Misuratamente accendendosi e misuratamente spegnendosi’. Successivamente, anche gli Stoici divennero di questa opinione.

[2] p. 307, 15 Heibg. Egli è poi passato a parlare di coloro i quali dicono anch’essi che il cosmo è generato ma che è perituro, e che poi è generato di nuovo, alternativamente e continuamente; come reputavano Empedocle ed Eraclito, e successivamente reputarono alcuni [II,187,40] Stoici.

SVF II, 618

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1077b. D’altra parte essi dicono che il fuoco è come il seme del cosmo, e che nel corso della conflagrazione universale esso, mutato in seme, partendo da una massa corporea più piccola [II,188,1] va incontro ad una grande effusione e s’espande occupando un’immensa regione di vuoto e pascendosene per la sua crescita. Quando poi per il cosmo è il momento d’una nuova generazione, allora la sua grandezza impiccolisce e scema, poiché la materia sprofonda e si raccoglie in se stessa nel corso della generazione.

[2] Filone Alessandrino ‘De incorruptibilitate mundi’ p. 255, 8 B. [II,188,5] Ammetti dunque, come afferma Crisippo, che l’elemento che rigenera il buon ordine del cosmo sia proprio il fuoco; che questo risulti essere il seme del cosmo futuro e che egli non abbia mentito nei suoi ragionamenti filosofici su di esso: in primo luogo quando ha detto che la genesi del cosmo parte da un seme e si risolve in un seme; e, in secondo luogo, [II,188,10] quando ha detto che il cosmo obbedisce ad una legge naturale e che la natura è razionale, cioè non soltanto animata ma anche cognitiva e finanche saggia. Ebbene, da queste affermazioni si struttura il contrario di ciò ch’egli vuole, cioè che il cosmo non perirà mai.

SVF II, 619

Filone Alessandrino ‘De incorruptibilitate mundi’ p. 257, 12 B. Ma nel caso dell’universo [II,188,15] avverrà l’opposto; giacché il suo seme sarà più grande ed occuperà uno spazio maggiore, mentre il suo risultato sarà più piccino ed apparirà occupare uno spazio minore. Pertanto il cosmo costituitosi a partire da quel seme non progredirà pian piano da esso verso un accrescimento, ma sarà compreso in una mole minore invece che da una maggiore. È facile notare quanto detto. Ogni corpo che si risolve in fuoco [II,188,20] si dissolve e si spande, e quando la fiamma che è in esso si spegne, il corpo si restringe e s’aggrega. Non c’è bisogno alcuno di prove a testimonianza di fatti così palesi come se si trattasse di fatti oscuri. Il cosmo che va a fuoco diventerà pertanto più grande, in quanto tutta quanta la sostanza si risolve in etere finissimo; ed a me sembra che gli Stoici, prevedendo in anticipo questo fatto, lascino con ragione la porta aperta all’esistenza di un vuoto infinito all’esterno del cosmo; affinché, [II,188,25] siccome la sostanza sarebbe destinata ad essere coinvolta in una effusione illimitata, questa sua espansione non difetti del posto che l’accoglierà. C’è dunque un tempo in cui il cosmo è progredito e s’è accresciuto così tanto da quasi concorrere, grazie all’enorme dimensione della sua cavalcata, alla natura indefinita del vuoto, e possiede questo carattere di seme. E c’è un altro tempo in cui, con la palingenesi, esso porta a compimento la rigenerazione dei componenti dell’intera sostanza: quando il fuoco si spegne e si restringe in aria densa, [II,188,30] l’aria si restringe e si rapprende in acqua e l’acqua ancor più s’addensa e si trasforma in terra, che è il più compatto degli elementi. Ma queste affermazioni sono contrarie ai concetti condivisi da quanti sanno valutare a ragion veduta la consequenzialità dei fatti.

SVF II, 620

Filone Alessandrino ‘De incorruptibilitate mundi’ p. 222, 2 B. Dunque Democrito, [II,188,35] Epicuro e la folta torma dei filosofi Stoici ci lasciano in eredità genesi e rovina del cosmo, con l’eccezione che non tutti lo fanno in modo simile. Alcuni, infatti, delineano l’esistenza di cosmi plurimi, […] mentre gli Stoici affermano che il cosmo è uno solo, che Dio è la causa della sua generazione e che della sua rovina non è causa Dio, bensì la forza dell’instancabile fuoco presente negli esseri, forza che nel corso di lunghi cicli temporali periodici [II,188,40] risolve in se stessa tutti i corpi, e a partire dalla quale avviene di nuovo la rigenerazione del cosmo grazie alla Provvidenza dell’artista. Secondo loro, in un senso si può dire che il cosmo è sempiterno, e in un altro senso che esso è perituro. Perituro, in quanto sparisce un certo suo buon ordine; [II,189,1] sempiterno in relazione alla conflagrazione universale, essendo reso immortale da incessanti cicli periodici di palingenesi.

SVF II, 621

Filone Alessandrino ‘De incorruptibilitate mundi’ p. 220, 9 B. [Si danno varie definizioni di ‘cosmo’] La terza definizione, secondo l’opinione degli Stoici, è questa: ‘Sostanza [II,189,5] in buon ordine o non in buon ordine che passa finanche attraverso la conflagrazione universale’. Essi affermano pure che il tempo è l’intervallo del suo movimento.

SVF II, 622

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XXXVI, 55 segg. Una volta rimasta soltanto la mente, dopo che essa ebbe riempito di sé uno spazio inconcepibilmente grande in quanto espansasi altrettanto in ogni direzione; e dopo che in essa nulla più di fitto rimase poiché la radezza ebbe l’assoluta preminenza, nel momento in cui [II,189,10] la mente diventa bellissima e prende la natura purissima di un raggio di luce incontaminato, ecco che essa per prima cosa bramò intensamente la vita. E presa d’amore, […] provò l’impulso di generare ciascuna cosa, attribuendole un posto e fabbricando così l’attuale cosmo, da principio molto migliore e molto più radioso in quanto più giovane. Nell’istante di questa intellezione, la mente intera si mutò con facilità in un lampo sfolgorante, non distorto e sordido […] ma puro e non mischiato a tenebra alcuna. [II,189,15] Allora, memore di Afrodite e della generazione, quel lampo s’ammansì e placò; e smorzata di molto la sua luce, si converte nell’aria ignea d’un fuoco lene. Mischiatosi dunque ad Era, con lei condivide la più perfetta unione nuziale, e mentre cessa di agitarsi eiacula l’intero germe dell’universo. È questo felice sposalizio di Zeus ed Era quello cui inneggiano i discepoli dei sapienti [II,189,20] nelle iniziazioni misteriche. Una volta resa umida l’intera sostanza, solo ed unico sperma dell’universo, che egli stesso percorre come fa lo pneuma che plasma e crea dentro un seme, allora soprattutto Zeus diventa per composizione somigliante alle altre creature viventi, in quanto si direbbe non per metafora che esse consistano di corpo e d’animo, ed ormai plasma e modella con facilità tutto il resto, spandendo intorno a sé la sostanza [II,189,25] scorrevole e morbida e tutta agevolmente cedevole. Lavoratolo tutto alla perfezione, da principio Zeus mostrò il cosmo esistente inconcepibilmente nobile e bello, molto più radioso di quello che si può ora vedere […]

SVF II, 623

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VII, 23. Crisippo, che Cicerone dice sorreggere il portico degli Stoici, nei libri che scrisse sulla provvidenza, quando tratta della rigenerazione del mondo lo argomenta ancora meglio dicendo: “Stando così le cose [II,189,30] è manifesto che ciò è possibile, e che dopo la morte, trascorso un certo periodo di tempo, noi saremo nuovamente ricostituiti nelle fattezze che ora abbiamo’.

SVF II, 624

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Analyt. pr.’ p. 180, 31 Wal. [II,189,35] Secondo loro, ad un certo punto dopo la morte di Dione, può diventare vera l’affermazione dello stesso Dione che ‘l’animo di costui si è separato dal corpo’. Ha infatti il beneplacito degli Stoici l’idea che dopo la conflagrazione universale le stesse vicende tornino di nuovo a prodursi nel cosmo identiche una per una, e che in quel cosmo la sua peculiare qualificazione qualitativa sarà e diverrà di nuovo identica a quella del cosmo antecedente come dice Crisippo [II,189,40] nei suoi libri ‘Sul cosmo’.

[2] p. 181, 13. Se dicessero […] che non sono più lo stesso animo e lo stesso corpo a comporsi insieme uno per uno, [II,190,1] ebbene ciò non ha alcun rilievo nel ragionamento.

[3] p. 181, 25. <Gli Stoici> dicono pure che in relazione alle qualificazioni qualitative precedenti e successive ci sono soltanto diversità [II,190,5] che riguardano accidenti esteriori, quali quelle che non cambiano un Dione presente e vivente. Infatti, Dione non diventa un altro se prima aveva delle lentiggini in vista e successivamente non le ha più; ed essi affermano che le differenze di qualificazione qualitativa tra le vicende di un cosmo e quelle di un altro sono di questo genere.

SVF II, 625

Nemesio ‘De nat. hom.’ 38, P. G. XL, col. 760-762. [II,190,10] Gli Stoici affermano che i pianeti, una volta ristabiliti in lunghezza e larghezza nello stesso segno zodiacale nel quale ciascuno si trovava al principio, quando il cosmo si costituì la prima volta, in periodi di tempo prefissati operano alla conflagrazione universale e all’estinzione degli esseri. Secondo loro, il cosmo si ristabilisce daccapo identico e, poiché gli astri si comportano [II,190,15] di nuovo in modo simile, ciascuno di questi risulta poi trovarsi in un’orbita indistinguibile da quella che occupava in precedenza. Vi saranno di nuovo Socrate, Platone, e ciascun uomo con gli stessi amici e con gli stessi cittadini. E sperimenterà le stesse cose, s’imbatterà nelle stesse vicende, maneggerà gli stessi affari; e ogni città, ogni villaggio, ogni campagna sarà similmente ristabilita. Il ristabilimento dell’universo al pristino stato non avviene una volta sola ma molte, o piuttosto avviene [II,190,20] che all’infinito le cose si ristabiliscano sempre identiche, interminabilmente. E quegli dei che non soggiacciono a rovina, poiché hanno la comprensione di quest’unico ciclo periodico, grazie a ciò conoscono tutte le cose che poi avverranno nei cicli periodici futuri; giacché non accadrà nulla di estraneo agli eventi di prima, e tutti saranno simili finanche nei minimi dettagli.

SVF II, 626

[1] Origene ‘Contra Celsum’ IV, 68, Vol. I, p. 338, 3 K. [II,190,25] La maggior parte degli Stoici afferma che siffatto ciclo periodico concerne non soltanto i mortali ma anche gli immortali e quelli che, secondo loro, sono dei. Infatti, dopo la conflagrazione universale, infinite volte avvenuta e che infinite volte avverrà, ci fu e ci sarà dal principio alla fine sempre lo stesso ordinamento di tutte le cose. Quando tuttavia [II,190,30] provano a curare in qualche modo le loro incongruenze, io non so come mai gli Stoici affermino che tutti gli uomini di un certo periodo saranno del tutto indistinguibili da quelli dei periodi precedenti. Non dicono che Socrate rinasce, ma che ci sarà qualcuno indistinguibile da Socrate, che sposerà una donna indistinguibile da Santippe e che sarà accusato da uomini indistinguibili da Anito e da Meleto. Io non so capire come mai [II,190,35] il cosmo sia sempre ‘lo stesso’ e non ‘indistinguibile’ da un altro, e invece gli esseri che che lo occupano non siano ‘gli stessi’ ma siano soltanto ‘indistinguibili’.

[2] V, 20, Vol. II, p. 21, 23 K. Gli Stoici affermano che la conflagrazione universale avviene secondo cicli periodici, e che poi ad una conflagrazione segue il ristabilimento del buon ordine del cosmo, buon ordine nel quale tutte le cose sono uguali a quelle dell’ordinamento precedente. [II,190,40] Quanti di loro manifestarono delle riserve su questa dottrina, hanno parlato dell’esistenza di un piccolo divario, veramente minimo, tra le cose che accadono in un ciclo periodico e quelle del ciclo precedente.

[3] Vol. II, p. 24, 10 K. […] come credono coloro che fanno riscontrare queste cose per necessità dialettiche […]

SVF II, 627

Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 886, 11 Diels. Questa ricerca s’acconcia di più alla palingenesi degli Stoici. [II,191,1] Infatti, poiché dicono che io rinasco identico nella palingenesi, è verosimile che essi cerchino di sapere se io sono uno di numero adesso ed allora, giacché quanto a sostanza sono lo stesso; oppure se io sono differente, per via della mia assegnazione a diverse e successive formazioni del cosmo.

SVF II, 628

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 12, Vol. I, p. 282, 9 K. [II,191,5] Mosè e alcuni Profeti, essendo uomini antichissimi, non hanno preso da altri le dottrine circa la conflagrazione del cosmo; bensì sono piuttosto altri (se è d’uopo parlare con cognizione dei tempi) che riplasmarono le loro affermazioni, fraintendendole e non capendole con esattezza, ed immaginarono periodi ciclici con identità indistinguibili per qualificazioni [II,191,10] qualitative e per caratteri accidentali. Noi invece non attribuiamo a cicli periodici astrali né cataclismi né conflagrazioni.

SVF II, 629

Origene ‘De principiis’ (interpr. Rufino) II, cp. 3, p. 81. ed. Delarue. Quanti assicurano che di tempo in tempo si formano dei mondi in tutto e per tutto identici a mondi precedenti, non capisco sulla base di quali documenti possano [II,191,15] asserirlo (ed Origene dichiara che questa dottrina contrasta con quella del libero arbitrio). Se il corso delle cose è tale per cui, dopo molti secoli, ripetono cicli sempre uguali a se stessi; le anime non si comporteranno come se fossero libere di scegliere e fare questo o quest’altro.

SVF II, 630

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 1, p. 649 Pott. Anche <Eraclito> sa della catarsi attraverso il fuoco, […] quella che [II,191,20] gli Stoici successivamente chiamarono conflagrazione universale, e in accordo con la quale essi nutrono il giudizio che a risorgere sarà anche la peculiare qualificazione qualitativa.

SVF II, 631

Girolamo ‘Epistola XCVI’ (tradotta in latino da Teofilo). Nessun uomo muore più spesso: il che Origene ha osato scrivere, volendo condannare con l’autorità delle Sacre Scritture [II,191,25] l’empia dottrina degli Stoici

SVF II, 632

Plutarco ‘De defectu oraculorum’ p. 425f. Invero, chi avrebbe paura anche di altre affermazioni degli Stoici, quand’essi si chiedono come possano rimanere in piedi un solo Destino e una sola Prònoia e non ci siano invece molti Zeus, se esistono molteplici cosmi? In primo luogo, infatti, se è assurdo che esistano molti Zeus, lo saranno [II,191,30] senza dubbio di più affermazioni ancor più assurde di quelle, giacché nel corso di infiniti cicli periodici cosmici essi fanno esistere infiniti Soli, Lune, Apolli, Artemidi e Posidoni.

§ 11. Il cosmo è una creatura razionale

Frammenti n. 633-645

SVF II, 633

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 142-143. Che il cosmo [II,191,35] sia una creatura vivente, razionale, animata e cognitiva, lo affermano anche Crisippo nel primo libro ‘Sulla Prònoia’, Apollodoro nella ‘Fisica’ e Posidonio. Creatura vivente nel senso che è una sostanza animata capace di sensazioni. La creatura vivente è migliore di quella non vivente, e nulla è migliore del cosmo. Dunque il cosmo è una creatura vivente. Ed esso è animato, com’è manifesto dall’animo nostro; [II,191,40] il quale è una scintilla che di là viene.

SVF II, 634

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 138. [II,192,1] Secondo quanto affermano Crisippo nei suoi libri ‘Sulla Prònoia’ e Posidonio nel terzo libro ‘Sugli dei’, il cosmo è governato da mente e Prònoia. La mente ne pervade ogni parte, come fa l’animo in noi; ma ne pervade di più alcune parti e meno altre. In alcune, infatti, [II,192,5] essa si fa spazio come forza di coesione: come accade per le ossa e i nervi. In altre invece si fa spazio come vera e propria mente, come accade con l’egemonico. Così il cosmo intero, che è una creatura vivente, animata e razionale, ha come egemonico l’etere […] che essi chiamano divinità primaria, la quale si fa spazio in modo sensibilmente percepibile attraverso gli esseri presenti nell’aria, attraverso tutti quanti gli animali e i vegetali; [II,192,10] e attraverso la terra stessa come forza di coesione.

SVF II, 635

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 188 (p. 397 Aucher). Allo stesso modo l’universo cielo e il mondo <gode eterna letizia non mista a tristezza>, giacché esso è una creatura razionale, un essere vivente dotato di virtù, per natura filosofo, e che perciò non prova tristezza o paura ed è pieno di gioia. [II,192,15] Certo, si dice che anche il padre creatore dell’universo nella sua eterna vita sempre esulta e gioca, godendo della gaiezza che compete ad un luogo divino: egli infatti di nulla ha bisogno e nulla gli manca, ma si congratula con se stesso per le proprie virtù e per i mondi che ha creato.                                                                                                                                          

SVF II, 636

[1] Filodemo ‘De pietate’ c. 14 (DDG p. 548b, 13). [II,192,20] Scrive cose similari anche nei libri ‘Sulla natura’, insieme a quelle che dicemmo essere in stretta relazione alle tesi di Eraclito. Infatti, nel primo libro egli afferma che la notte è la primissima divinità. Nel terzo libro che il cosmo è uno degli esseri saggi, del quale sono concittadini dei e uomini; e che la guerra e Zeus sono la stessa cosa, [II,192,25] come dice anche Eraclito. Nel quinto libro prospetta poi interrogativamente dei ragionamenti sul fatto che il cosmo è una realtà vivente, razionale, pensante e divina.

[2] Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 246, 10 B. Poiché anche coloro che <giudicano il cosmo> perituro, ne sottoscrivono la razionalità.

SVF II, 637

Seneca ‘Epistulae morales’ XCII, 30. Come puoi non stimare [II,192,30] che esista qualcosa di divino in ciò che è parte di dio? Tutto ciò che ci contiene è un’unità ed è dio: noi siamo i suoi soci e sue membra.

SVF II, 638

Ps. Galeno ‘Si animal est quod ventr.’ I, XIX, p. 160 K. Vediamo, dunque, se il cosmo è una creatura vivente, ossia se all’inizio nacque e poi [II,192,35] mantenne integra la sua natura. Il cosmo è un sistema formato dal cielo, dalla terra e dalle realtà naturali che stanno frammezzo ad esse, […] dall’acqua, dalla terra ed avente come sostanza che le pervade tutte quante quello pneuma fondamentale e primitivo che i discepoli dei filosofi chiamano animo o monade [o atomo] o fuoco oppure, [II,193,1] con omonimia di genere, primo pneuma. Questi elementi esistevano anche prima di avere l’eponimo ‘cosmo’, ma allora erano indiscriminati e inconciliati. Come alcuni affermano, aveva nome ‘materia’ quella che oggi ha il nome ‘cosmo’, giacché esso è una realtà che opera in modo ben intonato e disciplinato e compie il proprio movimento come se avesse ritmo e buon ordine. […] Dunque il cosmo [II,193,5] è stato acconciato intero, a partire da elementi interi; perfetto, a partire da elementi perfetti; libero dal bisogno, a partire da elementi che hanno il loro fine in sé medesimi; ed era e sarà una creatura vivente dotata di movimento. A quel tempo esso possedeva quella facoltà germinativa che ha in sé la ragione dell’universo. Poi, una volta distintosi ed avanzato fuori dal buio, mostrò la virtù propria dei suoi semi apparendo qui terra, qui acqua, ora fuoco, [e mente]; a mo’ di crescita [II,193,10] e secondo la natura degli elementi distendendosi ovunque con l’aria, illuminando l’intero cosmo come avviene agli occhi ad opera del sole e della luna, e diventando guida per ogni movimento col rilucente e radioso splendore di questi. Infatti anche la mente era stata da principio commista ad esso appena nato e costituito nella sua prima natura. E così questo cosmo allora era e adesso appare il primo essere vivente, spirante e dotato di mente. [II,193,15] Come non si avrebbe l’audacia di dire che non era vivente un essere allorché era ingravidato (giacché dimostrammo che il cosmo è stato acconciato intero, a partire da elementi interi; e perfetto, a partire da elementi perfetti: come potrebbe infatti procurare di essere perfettamente compiuto se non fosse intero?) così non si direbbe non vivente un essere che sente le necessità del ventre. Al modo in cui chi lavora il bronzo o il ferro, lo scultore di statue o il costruttore di navi o qualche altro simile artigiano non sarebbero detti [II,193,20] aver procurato l’opera loro perfetta ed integra se essa fosse deficitaria di qualcosa […] mentre l’opera che di nulla è deficitaria e che si corrisponde bene in tutte le sue parti […] è perfetta; allo stesso modo anche il cosmo […] non ricoprirebbe il ruolo di essere perfetto se fin da allora, quando per la prima volta condivise l’essere, non avesse preso in carico la sostanza dell’universo.

SVF II, 639

[1] VH2 VIII, 27, 5. […] piuttosto si può dire che sia stato generato [II,193,25] per gli uomini o per gli animali privi di ragione […]

[2] 19. […] essendo siffatto, sarà pensato non avere sensazioni immediate, giacché non ha la potenza né del fuoco né dell’aria […]

[3] 19 in fine. […] da parte nostra, delle cose che avvengono per natura e delle cose proairetiche, è a portata di mano osservare che il cosmo [II,193,30] non assomiglia a nessuna di quelle proairetiche […]

SVF II, 640

VH2 VIII, 29. […] il cosmo né è interamente conosciuto né sfoggia gratitudine, perché è con ogni evidenza visibile che esso è inanimato […]

SVF II, 641

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 38. Servendosi di similitudini, Crisippo fa bene ad insegnare che tutto è migliore negli [II,193,35] esseri perfetti e maturi: ad esempio, in un cavallo più che in un puledro, in un cane più che in un cucciolo, in un uomo più che in un bambino. Ora, ciò che vi è di più eccellente al mondo deve appartenere all’essere assolutamente perfetto; ma nulla è più perfetto del mondo e nulla vale più della virtù; dunque la virtù è propria del mondo. Invece la natura dell’uomo non è perfetta, [II,194,1] e tuttavia nell’uomo si realizza la virtù. Quanto più facile sarà dunque che essa si realizzi nel mondo; e dunque il mondo è virtuoso. Ma se è virtuoso è saggio, e perciò è dio.

SVF II, 642

Ario Didimo presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 15, 8. Alcuni filosofi [II,194,5] di questa scuola reputarono che la terra sia l’egemonico del cosmo. Crisippo, invece, reputava che lo sia l’etere nella sua parte più pura e limpida, in quanto è quella più facilmente mobile di tutte e quella che dirige l’intero decorso del cosmo.

SVF II, 643

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ IV, 215 (p. 416 Aucher). Nell’uomo la mente è simile al cielo, [II,194,10] poiché entrambe sono le parti razionali, una del mondo e l’altra dell’anima.

SVF II, 644

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 139. Crisippo nel primo libro ‘Sulla Prònoia’ e Posidonio nel suo libro ‘Sugli dei’ affermano che l’egemonico del cosmo è il cielo, mentre secondo Cleante è il sole. Tuttavia Crisippo, [II,194,15] nello stesso libro, si esprime anche in modo molto differente e dice che l’egemonico del cosmo è la parte più pura dell’etere.

SVF II, 645

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1076f. Invero <essi dicono> che il cosmo è una città e che gli astri ne sono i cittadini. Se è così, allora è manifesto che ci sono anche dei membri della Tribù e degli Arconti; che il Sole è un membro del Consiglio e che Espero è un Pritano o un membro della Polizia Urbana. Io non so davvero se chi contesta affermazioni di questo genere non si dimostri così [II,194,20] più assurdo di coloro che le dichiarano parlando.

[II,195,1] Fisica III.

I corpi celesti e i fenomeni meteorologici

§ 1. Sulla terra

Frammenti n. 646-649

SVF II, 646

[1] Plutarco ‘De facie in orbe lunae’ p. 923e. Voi <Stoici> affermate che [II,195,5] la terra resta fissa senza bisogno di una base e di radici. È proprio così, rispose Farnace, giacché la terra occupa il posto che le è proprio e secondo natura, che è per essa quello mediano. Questo posto mediano è quello intorno al quale tutti i corpi pesanti, propendendo verso il basso, si puntellano e verso cui si portano e coaccennano da qualunque direzione. Ogni regione al di sopra della terra, pur quando accolga un corpo terrestre scagliatovi con violenza, subito lo ripreme qui dove noi siamo; o meglio, lascia che esso sia portato in basso dalla sua propria [II,195,10] propensione naturale.

[2] p. 924d. Essi <Stoici> affermano che altri dicono cose ridicole quando situano la sede della luna, che pure è terra, in alto e non là dov’è il posto mediano. Eppure se ogni grave coaccenna verso lo stesso punto e con tutte le parti si puntella sul proprio centro, allora la terra s’approprierà del suo posto non in quanto è il centro dell’universo ma piuttosto in quanto [II,195,15] è un intero le cui parti sono pesanti. E la propensione dei gravi verso il basso sarà prova non della centralità della terra rispetto al cosmo, ma di una certa comunanza e connaturatezza, rispetto alla terra, dei gravi che si trovano ad essere spiccati da essa e che poi vi si riportano.

[3] p. 925a. Voi dunque vedete che è ridicolo affermare che la luna non è terra perché se ne sta distante dalla regione più bassa […]

SVF II, 647

Aezio ‘Placita’ III, 9, 3. [II,195,20] Gli Stoici affermano che la terra è una e finita.

SVF II, 648

Aezio ‘Placita’ III, 10, 1. Talete, gli Stoici e i loro seguaci affermano che la terra è sferica.

SVF II, 649

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 156. Le fasce terrestri sono cinque. [II,195,25] La prima è la fascia boreale al di sopra del circolo artico, inabitata a causa del freddo. La seconda è quella temperata. La terza è quella chiamata torrida, inabitata a causa della calura. La quarta è quella temperata antipodica. La quinta è quella australe, inabitata a causa del freddo.

§ 2.Sul sole

Frammenti n. 650-665

SVF II, 650

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 144. Degli astri, quelli fissi [II,195,30] ruotano insieme all’intero cielo, mentre i pianeti si muovono secondo moti loro propri. [II,196,1] Il sole compie una marcia obliqua attraverso il cerchio zodiacale; e, similmente, anche quella della luna è elicoidale. Il sole è puro e limpido fuoco […] più grande della terra […] di forma sferica […] analogamente al cosmo. Il sole, dunque, è fuoco perché opera tutto ciò che opera il fuoco; [II,196,5] è più grande della terra perché essa è tutta quanta illuminata da lui; ed esso illumina anche il cielo. Anche il fatto che la terra risulti avere un’ombra di forma conica significa che il sole è più grande di lei; e a causa della sua grandezza, il sole può essere scorto da ogni parte della terra. La luna, invece, è più terrosa, in quanto è più prossima alla terra. Questi corpi infocati e gli altri astri sono nutriti. Il sole, essendo una massa infuocata cognitiva, è nutrito dal grande mare. La luna, invece, [II,196,10] capitandole di essere mischiata con dell’aria e di essere più prossima alla terra, è nutrita dalle acque potabili. Gli altri astri sono nutriti dalla terra. Secondo loro, sia gli astri che la terra sono di forma sferica, e la terra è immobile. La luna, poi, non ha luce propria, ma la prende dal sole quando è da lui illuminata. Il sole s’eclissa quando la luna si frappone tra la nostra terra e il sole, come Zenone ha mostrato in diagramma nel suo libro ‘Sul cosmo’. [II,196,15] Durante questa congiunzione di astri, la luna appare infatti sorgere alta nel cielo, celare il sole e poi di nuovo scostarsene. Si può riconoscere questo fenomeno grazie all’immagine riflessa in un bacile con dell’acqua.

SVF II, 651

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 155. Nel cielo vi sono cinque circoli, il primo dei quali è il circolo artico, sempre apparente; il secondo è quello tropicale estivo; il terzo [II,196,20] è quello equinoziale; il quarto è quello tropicale invernale; il quinto è quello antartico, invisibile. Essi sono detti paralleli, in quanto non coaccennano l’uno verso l’altro e sono inoltre iscritti attorno ad un medesimo centro. Lo zodiaco è invece obliquo in quanto passa attraverso i paralleli.

SVF II, 652

Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 214, 1 W. Crisippo afferma che il sole è una massa infuocata [II,196,25] e cognitiva raccolta insieme dall’esalazione del mare e che, quanto alla figura, è di forma sferica.

SVF II, 653

Achille ‘Isagoge’ 14 (p. 139 Petav. Uranol.). Quanto alla figura geometrica del sole, alcuni sostengono che ha la forma di un disco; Eraclito che ha la forma di un catino. Gli Stoici, invece, dicono che ha forma sferica.

SVF II, 654

Aezio ‘Placita’ II, 22, 3. [II,196,30] Gli Stoici sostengono che il sole ha forma sferica, come il cosmo e come gli astri.

SVF II, 655

Aezio ‘Placita’ II, 20, 4. Gli Stoici affermano che il sole è una massa infuocata e cognitiva che origina dal mare.

SVF II, 656

‘Scholia’ in Dionys. Thrac. p. 121, 12 Hilgard. Inoltre, [II,196,35] bisogna che la definizione manifesti di cos’è definizione anche a coloro che non sono affatto dotti; non come fanno gli Stoici quando, definendo il sole, dicono che è ‘una massa infuocata e cognitiva di acque marine’.

SVF II, 657

Servio ‘Ad Verg. Georg’ I, 249. “Quando <il sole> da noi s’allontana”: ossia quando va da essi. E ciò secondo gli Stoici, i quali dicono che il sole va da un emisfero all’altro [II,196,40] ed alternativamente causa in ambedue la notte.

SVF II, 658

Aezio ‘Placita’ II, 23, 5. Gli Stoici sostengono che il sole percorre il suo cammino tenendo conto dell’estensione del cibo che gli è soggiacente; il quale è l’oceano o la terra, della cui esalazione il sole si pasce.

SVF II, 659

Servio ‘In Aeneidem’ I, 607. I fisici insegnano [II,197,1] che le stelle, cioè i fuochi celesti, si nutrono di acque marine. […] Alcuni però asseriscono che i raggi del sole si nutrono dell’umidità che emana dalla terra.

SVF II, 660

‘Commenta Lucani’ Lib. VII, 5 p. 220 Us. Non è pastura per le fiamme: come deducono gli Stoici, l’ardore del sole [II,197,5] s’accende dalle nubi.

SVF II, 661

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. Meteorol.’ p. 72, 22 segg. Hayduck. Perciò sono ridicoli tutti quei precedenti filosofi i quali concepirono che il sole si nutra di umidità. E taluni affermano pure che il sole fa i suoi solstizi per questo motivo, giacché sempre gli stessi luoghi non possono approntargli il cibo di cui ha bisogno. Ciò è necessario [II,197,10] che avvenga nei suoi dintorni, oppure che esso perisca; infatti anche il fuoco che vediamo comunemente vive fino a che ha alimento. Soltanto la sostanza umida è cibo per il fuoco, come se l’agente che porta in su l’umidità raggiungesse finanche il sole, oppure come se la strada verso l’alto fosse tale e quale a quella di ciò che diventa fiamma. Prendendo in considerazione la verosimiglianza del paragone con la fiamma, essi dunque concepirono così anche nei riguardi del sole.

[II,197,15]

SVF II, 662

‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 276. <Esiodo> chiama ‘Steno ed Euriale’ il potente e amplissimo pelago, e Medusa la sostanza <umida> più fine. Chiama Perseo il sole, che trascina a sé l’umidezza come se la mozzasse, per via del suo oltremodo eccitarsi ossia impellervi. Ed afferma che [II,197,20] il sole, muovendosi nel suo celeste decorso non fa sparire, ossia non attinge a sé Steno ed Euriale, cioè il potente e amplissimo pelago marino; ma fa sparire, in quanto mortale, Medusa; cioè attinge per sé, col suo movimento, la sostanza più regale e più fine. Pegaso prende infatti l’aire dalla sua testa, e mentre il sole attinge per sé la parte [II,197,25] capitale e vaporosa dell’aria, accade che la parte più pesante portata in alto formi una fonte e si spanda verso il basso.

SVF II, 663

Plutarco ‘De Iside et Osiride’ p. 367e. Gli Stoici affermano che il sole s’accende e si nutre dal mare, mentre le acque sorgive e palustri mandano verso l’alto alla luna una dolce e molle [II,197,30] esalazione.

SVF II, 664

Filone Alessandrino ‘De confus. ling.’ 156, II, p. 259 Wendl. In secondo luogo perché l’etere, sacro fuoco, è fiamma inestinguibile; com’è manifesto anche dal suo nome che viene dal verbo ‘àithein’, il quale, alla lettera, significa ‘ardere’. Testimone di ciò è una porzione della pira celeste, il sole, il quale, pur distando così tanto dalla terra, manda i suoi raggi fin nei recessi di essa; [II,197,35] e qui accalora e là abbrucia e la terra e l’aria che da essa si distende fino alla sfera del cielo e che è per natura fredda. Infatti, tutti i corpi che si trovano a grande distanza dal suo decorso o che gli si sono disposti trasversalmente, li accalora soltanto; mentre appicca con violenza il fuoco a quelli che ha vicino o a quelli su cui cade in linea retta.

SVF II, 665

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1084c. Non siano dunque malcontenti [II,197,40] d’essere condotti a queste conclusioni da un ragionamento passo passo; memori che Crisippo, nel primo libro delle ‘Ricerche fisiche’ così s’appressa alle sue: “Non è che la notte è corpo, mentre invece la sera, l’alba e la mezzanotte non sono corpi. Né è corpo il giorno e invece non sono corpi il primo, il dieci, [II,198,1] il quindici e il trenta del mese. Il mese è corpo, e lo sono anche l’estate, l’autunno e l’anno”.

§ 3.Sulla luna

Frammenti n. 666-680

SVF II, 666

Aezio ‘Placita’ II, 26, 1. [II,198,5] Gli Stoici dichiarano che la luna, come anche il sole, è più grande della terra.

SVF II, 667

Aezio ‘Placita’ II, 27, 1. Gli Stoici sostengono che la luna, come il sole, è di forma sferica; e che essa assume molte fattezze diverse: luna piena, mezzaluna, luna crescente o calante e luna falciforme.

SVF II, 668

Plutarco ‘De facie in orbe lunae’ p. 928c. [II,198,10] Gli Stoici dicono che la componente fulgida e fine dell’etere, per la sua radezza è diventata cielo; quella infittita e raccolta in sé è diventata astri, e che di questi il più indolente e torbido è la luna.

SVF II, 669

Aezio ‘Placita’ II, 30, 5. Gli Stoici sostengono che per il fatto di essere commista [II,198,15] con dell’aria, la sostanza della luna non è intatta ma composta.

SVF II, 670

Aezio ‘Placita’ II, 28, 3. Secondo gli Stoici quella della luna è fioca giacché è luce color aria.

SVF II, 671

Aezio ‘Placita’ II, 25, 5. Posidonio e la maggior parte degli Stoici sostengono che la luna è un misto di fuoco e d’aria.

SVF II, 672

Plutarco ‘De facie in orbe lunae’ p. 933f. [II,198,20] Farnace disse che questo in special modo mostra che la luna è un astro, ossia fuoco: il fatto che essa non sia completamente invisibile nel corso delle sue eclissi, ma lasci trasparire un certo colore superficiale rosso brace incupito, colore che è quello suo proprio.

SVF II, 673

[1] Plutarco ‘De facie in orbe lunae’ p. 921f. Ma perché [II,198,25] non si reputi -disse – che sorvolando sull’opinione Stoica senza neppure rivolgerle una parola, noi s’intenda così coprire accuratamente di fango Farnace; dì tu qualcosa a quest’uomo, il quale ipotizza che la luna sia in tutto e per tutto un miscuglio d’aria e fuoco molle, ed è inoltre dell’avviso che la sua figura sia dovuta al palesamento dell’aria che l’annerisce qua e là, come un’increspatura che corre sotto la superficie del mare in bonaccia.

[2] p. 922a. [II,198,30] <Gli Stoici> l’invocano del pari come Artemide e come Atena, e al contempo ne fanno una commistura e un impasto d’aria tetra e fuoco color rosso brace, che non ha come propri né avvampamento né raggi di luce, ma è un corpo difficile a distinguersi, sempre affumicato e abbrustolito come quei fulmini che i poeti designano fuligginosi e privi di splendore.

[3] p. 922c. [II,198,35] <Gli Stoici> oppongono delle difficoltà alla tesi di Empedocle, il quale fa della luna una gelata granulare d’aria inclusa entro una sfera di fuoco. Essi, invece, affermano che la luna è una sfera di fuoco che include qua e là -ma senza avere in sé fratture, profondità o concavità, come invece lasciano intendere coloro che ne fanno un corpo composto di terra – dei brandelli d’aria in superficie, cioè aria [II,198,40] giacente sopra la sua convessità.

SVF II, 674

Filone Alessandrino ‘De somniis’ I, 145, III, p. 236 Wendl. [II,199,1] Si dice pertanto che la luna non sia un condensato di puro e schietto etere, com’è invece ciascun altro astro; bensì una mescolanza di sostanza eterea e aeriforme. Ciò che in essa si palesa nero, e che alcuni chiamano ‘faccia’, non è altro che l’aria commistavi: aria [II,199,5] che è per natura nera e si estende fino al cielo.

SVF II, 675

Plutarco ‘De facie in orbe lunae’ p. 9336b. Soprattutto una cosa sembra contestare la cosiddetta riflessione della luce da parte della luna, ossia il fatto che chi si trova in presenza di raggi di luce riflessa può vedere non soltanto il corpo illuminato ma anche quello che illumina. Infatti, qualora un raggio di luce sia riflesso dalla superficie dell’acqua contro un muro e s’instauri visibilità [II,199,10] nel luogo illuminato dalla riflessione, uno vede dall’alto tre elementi: il raggio di luce riflesso, l’acqua che riflette e il sole stesso dal quale la luce è stata riflessa cadendo sull’acqua. Se questi fenomeni sono del tutto apparenti ed ammessi, <gli Stoici> intimano allora a quanti sono del parere che la terra sia illuminata per riflessione dalla luna, di dimostrare che di notte il sole è ben visibile [II,199,15] dalla luna, come è ben visibile dall’acqua di giorno, quando la sua luce è da essa riflessa. Se il sole non è visibile di notte dalla luna, essi credono che l’illuminazione avvenga in un altro modo e non per riflessione. E se è così, allora la luna non è terra.

SVF II, 676

Aezio ‘Placita’ II, 29, 6. [II,199,20] Talete, Anassagora, Platone e gli Stoici sostengono, in accordo con i matematici, che la luna fa i suoi oscuramenti mensili quando entra in congiunzione col sole e ne è abbagliata; e che fa le sue eclissi quando cade entro il cono d’ombra della terra, giacché la terra viene allora a trovarsi frammezzo ad entrambi gli astri e scherma la visione della luna.

SVF II, 677

[1] Plutarco ‘De facie in orbe lunae’ p. 940c. [II,199,25] Essi affermano infatti che proprio la luna, come il sole, è un essere vivente fatto di fuoco, grande più volte la terra, nutrito dall’umidità proveniente dalla terra; ed inoltre che gli astri sono infiniti di numero. Così fatue e frugali del necessario essi concepiscono le creature che il cielo porta in sé!

[2] Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 219, 24 W. [II,199,30] Crisippo sostiene che la luna è, dopo il sole, una massa infuocata e cognitiva raccolta insieme dall’esalazione delle acque potabili e che perciò da queste è nutrita. Essa è di forma sferica. Si chiama mese il ciclo periodico del suo percorso. Il mese è, egli dice, il periodo in cui la luna si mostra a noi, oppure il tempo in cui la luna ha una sua parte che si mostra a noi.

SVF II, 678

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 221, 23 W. [II,199,35] Crisippo sostiene che la luna s’eclissa quando la terra le si mette davanti ed essa cade nell’ombra terrestre.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 146. La luna s’eclissa quando cade nel cono d’ombra della terra. Laonde essa s’eclissa soltanto nel corso dei pleniluni, anche se si trova [II,199,40] ogni mese diametralmente opposta al sole. Infatti, muovendosi verso il sole obliquamente, si discosta da esso per latitudine o più verso nord o più verso sud. Tuttavia, quando la latitudine della luna diventa conforme a quella del sole nello zodiaco ed essa si trova diametralmente opposta al sole, allora si ha l’eclisse. La sua latitudine diventa conforme a quella dello zodiaco quando essa si trova nella costellazione del Cancro, dello Scorpione, dell’Ariete e del Toro.

SVF II, 679

Plutarco ‘De facie in orbe lunae’ p. 940a. [II,200,1] […] citando le maree dell’oceano, come dicono gli Stoici, e lo slargamento degli stretti, le cui acque sono espanse ed accresciute dall’azione della luna che si alimenta della loro umidità.

SVF II, 680

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 77 (p. 96 Aucher). È in particolare grazie alle fasi della luna che i frutti appaiono, in un certo modo, [II,200,5] maturare di notte. Infatti la luna, emettendo raggi deboli e più femminei, limpidi e roridi, allatta i frutti in modo meraviglioso, li nutre e li fa crescere. Invece il calore eccessivo e troppo violento li inaridisce e li fa essiccare, mentre un calore non cocente di solito porta a graduale e dolce maturazione col suo tepore.

[II,200,10] § 4. Sugli astri

Frammenti n. 681-692

SVF II, 681

Aezio ‘Placita’ II, 14, 1. Gli Stoici sostengono che gli astri sono sferici, come pure lo sono il cosmo, il sole e la luna.

SVF II, 682

[1] Achille ‘Isagoge’ 11 (p. 133 Petav. Uranol.). Gli Stoici [II,200,15] sostengono che gli astri sono costituiti di fuoco: un fuoco divino, sempiterno e non similare al nostro; giacché il nostro è perituro, non è tutto luce.

[2] 12. Sulla forma geometrica degli astri. Cleante afferma che essi hanno forma conica. Secondo alcuni essi assomigliano a petali di fuoco senza spessore, e che sono come delle scritte. Gli Stoici dicono che essi hanno forma sferica, [II,200,20] come il sole e il cielo che li include.

SVF II, 683

Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 206, 25 W. Di Crisippo. Nel suo libro ‘Sulle Scienze fisiche’, Crisippo afferma che il sorgere di un astro è il suo levarsi al di sopra della terra e il tramonto il suo occultamento sotto terra. Il sorgere e il tramontare delle costellazioni avviene in modo alterno. [II,200,25] La levata di una costellazione corrisponde al sorgere del sole, e il suo tramonto corrisponde al tramonto del sole. Si può, infatti, parlare del tramonto di un astro in modo duplice: in un primo senso riferendo il suo tramonto al suo sorgere, e in un secondo senso riferendosi alla levata della sua costellazione. La levata della costellazione di Orione è il sorgere di Sirio insieme al sole, e il tramonto della costellazione di Orione è l’occultamento di Sirio insieme al sole. Il discorso è lo stesso a proposito della costellazione delle Pleiadi. II,200,30]

SVF II, 684

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 39. Una volta percepita la divinità del mondo, la stessa divinità va attribuita ai corpi celesti generati dalla parte più mobile e pura dell’etere, la cui natura non è commista ad altro e sono tutto fuoco e tutta luce; sicché anch’essi rettissimamente [II,200,35] sono detti esseri animati dotati di sensazioni e di intelligenza.

SVF II, 685

Origene ‘Contra Celsum’ V, 10, Vol. II, p. 11, 13 K. […] se anche gli astri nel cielo sono creature viventi dotate di ragione e virtù.

SVF II, 686

Achille ‘Isagoge’ 13 (p. 134 Petav. Uranol.). Per dimostrare che gli astri sono esseri viventi, gli Stoici si servono di questi argomenti. Tutti i corpi presenti nel cielo sono corpi ignei, [II,200,40] i quali si muovono di movimento naturale, di lunga durata e circolare. Essi, pertanto, sono [II,201,1] capaci di determinazione. Ma se sono capaci di determinazione, sono anche esseri viventi. Hanno anche movimenti vari, e questo s’accompagna al fatto di essere dei viventi. Inoltre, tutti gli elementi hanno in sé esseri viventi; e sarebbe assurdo che il migliore di tutti gli elementi fosse, per parte sua, privo di esseri viventi.

SVF II, 687

Achille ‘Isagoge’ 13 (p. 133 Petav. Uranol.). Che gli astri [II,201,5] siano esseri viventi, non lo reputano né Anassagora, né Democrito, né Epicuro nella sua ‘Epitome a Erodoto’. Reputano invece che essi lo siano: Platone nel ‘Timeo’; Aristotele nel secondo libro ‘Sul cielo’, e Crisippo nel suo libro ‘Sugli dei e la Prònoia’. Gli Epicurei affermano che non sono animali quelli dello Zodiaco, poiché gli animali consistono di corpi, ma gli Stoici la pensano all’opposto.

SVF II, 688

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 74 (p. 94 Aucher). Il moto [II,201,10] circolare <delle stelle fisse> avviene senza sforzo e senza fatica, in primo luogo per la loro vicinanza alla natura divina e poi anche per la virtù specifica del fuoco di non affievolirsi né di spegnersi col tempo quando sia alimentato da un ottimo combustibile.

SVF II, 689

Aezio ‘Placita’ II, 15, 2. [II,201,15] (Sul posizionamento degli astri). […] altri Stoici dicono che certi astri, per altezza e profondità, sono più vicini a noi di altri.

SVF II, 690

Aezio ‘Placita’ II, 17, 4. Eraclito e gli Stoici sostengono che gli astri sono nutriti dall’esalazione proveniente dalla terra.

SVF II, 691

Servio ‘In Aeneidem’ X, 272. In latino le comete si dicono anche <stelle> chiomate. [II,201,20] Per gli Stoici esse sarebbero più di trentadue.

SVF II, 692

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 152. L’arcobaleno è formato da raggi di luce che sono stati riflessi da nuvole umide. [….] Le comete, gli astri barbati, le meteore sono fuochi consistenti d’aria spessa e densa portata in alto fino alla regione dell’etere. La stella cadente è l’avvampamento d’un fuoco concentrato e in rapido movimento nell’aria, [II,201,25] palesanteci una rappresentazione di lunghezza.

§ 5.Sulle parti dell’anno

Frammenti n. 693-696

SVF II, 693

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 151. Dei fenomeni che avvengono nell’aria, essi affermano che l’inverno è dovuto al fatto che l’aria sopra la terra diventa gelida a causa del movimento di recessione del sole. La primavera è la buona temperie dell’aria dovuta alla marcia del sole verso di noi. L’estate è l’aria [II,201,30] al di sopra della terra fortemente riscaldata in seguito alla marcia del sole verso settentrione. L’autunno coincide col percorso di ritorno del sole da noi.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 106, 24 W. Di Crisippo. La primavera è una stagione dell’anno mescolata dell’inverno che si conclude e dell’estate che inizia; oppure la stagione che viene dopo l’inverno e prima dell’estate. L’estate è la stagione [II,201,35] dell’anno più arroventata dal sole. L’autunno è la stagione dell’anno che viene dopo l’estate e prima dell’inverno, ed è anch’esso una mescolanza dei due. L’inverno è la stagione dell’anno più gelida; oppure quella in cui l’aria intorno alla terra è gelida. Ogni anno avvengono due equinozi e due solstizi. [II,202,1] Gli equinozi sono quelli in cui la notte e il giorno sono di pari durata; e, di questi, uno avviene in primavera e l’altro in autunno. I solstizi, invece, cadono uno d’estate e uno d’inverno.

SVF II, 694

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 78 (p. 96 Aucher). Il sole causa l’ineguale durata dei giorni e delle notti perché il suo moto circolare è ineguale e [II,202,5] variabile. Avvicinandosi e allontanandosi <dalla terra> esso dà luogo alle estati. agli inverni e agli equinozi, che sono i tempi dell’anno che determinano la nascita, la crescita e la maturazione di tutti gli esseri viventi sotto il cielo.

SVF II, 695

Filone Alessandrino ‘De animal. sacr.’ Vol. II, p. 243 Mang. <Egli parla> in seguito [II,202,10] dell’aria e delle sue trasformazioni. Inverno ed estate, primavera ed autunno, stagioni annuali e giovevolissime alla vita, sono affezioni dell’aria rivolta alla salvezza delle creature sublunari.

SVF II, 696

Aezio ‘Placita’ III, 8, 1. Empedocle e gli Stoici ritengono che l’inverno viene quando è preminente l’aria, la quale s’infittisce ed è spinta con violenza più verso l’alto. [II,202,15] L’estate viene, invece, quando è preminente il fuoco, il quale è spinto con violenza più verso il basso.

§ 6. Sulla meteorologia

Frammenti n. 697-707

SVF II, 697

Aezio ‘Placita’ III, 7, 2. Gli Stoici sostengono che ogni spirar di vento è un flusso d’aria, il quale prende nomi diversi a seconda della diversità dei luoghi dai quali proviene. Per esempio, si chiama ‘zefiro’ quello che proviene dalla regione del tenebroso tramonto; si chiama ‘levante’ quello che proviene dalla regione ove sorge il sole; [II,202,20] si chiama ‘borea’ quello che proviene dalla regione delle Orse; si chiama ‘libeccio’ quello che proviene dalla regione meridionale.

SVF II, 698

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 152. <I venti sono flussi d’aria, i quali prendono nomi diversi> a seconda del luogo da cui spirano. Causativo della loro genesi è il sole, il quale fa evaporare [II,202,25] le nuvole.

SVF II, 699

Cicerone ‘De divinatione’ II, 44. Gli Stoici sono dell’avviso che gli aneliti della terra, se sono freddi, quando abbiano preso a scorrere siano i venti. Quando questi venti penetrano in una nube, cominciando a lacerarla in una sua parte più tenue e poi facendolo con un crescendo di veemenza, allora si formano tuoni e lampi. [II,202,30] Se poi lo scontro fra nubi causa l’espulsione del forte calore che esse contengono, allora si ha il fulmine.

SVF II, 700

‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 148. ‘Cotto, Briareo e Gige’ […] così sono chiamati questi venti portati dalle nubi, che sono tutti travolgenti. Per questo motivo, nel mito sono anche chiamati ‘centimani’, dato il loro impulso alla battaglia. [II,202,35] Cotta, Briareo e Gige sono anche i tre tempi atmosferici stagionale. Cotta è l’orgia della calura, ossia l’estate. Briareo è la primavera, per via del rigoglioso fiorire e crescere dei vegetali. Gige è il tempo invernale. Egli li chiama anche ‘centimani’, per via del loro possedere molte attività.

SVF II, 701

Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 245, 23 W. Di Crisippo. Crisippo soleva affermare [II,202,40] che la nebbia è una nuvola molto espansa, oppure aria spessa e densa. La rugiada [II,203,1] è umidità portata in basso dalla nebbia. La pioggia è profusione d’acqua dalle nuvole. L’acquazzone è profusione d’acqua impetuosa e abbondante dalle nuvole. La grandine è una gragnola di pioggia congelata. La neve è una nuvola congelata o il congelamento di una nuvola. Il ghiaccio è acqua congelata sulla terra. La brina è rugiada congelata. [II,203,5]

SVF II, 702

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 153. La pioggia è la trasformazione in acqua d’una nuvola, qualora l’umidità che dalla terra o dal mare è stata portata in alto non abbia subito concozione da parte del sole. Quando questa umidità diventa gelida, viene chiamata brina. La grandine è una nuvola congelata trasformata in gragnola dal vento. La neve è umidità che precipita da una nuvola [II,203,10] congelata.

SVF II, 703

Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 233, 9 W. Crisippo afferma che il lampo è l’avvampamento di nubi che sfregano tra di loro o sono squarciate dal vento. Il tuono è il rumore prodotto da questi eventi. Nell’aria, il lampo e il tuono avvengono contemporaneamente, ma noi percepiamo per primo il lampo perché la nostra vista è più acuta del nostro udito. [II,203,15] Qualora la furia del vento sia più veemente ed ignea, ne risulta il fulmine. Qualora il vento fuoriesca dalle nubi fitto e meno infuocato, si ha il baleno. Qualora il vento sia ancor meno infuocato, si ha il turbine.

SVF II, 704

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 153. [II,203,20] Il lampo è l’avvampamento di nubi che sfregano tra di loro o sono squarciate dal vento, come dice Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’. Il tuono è il rumore prodotto dal loro sfregamento e dal loro squarciamento. Il fulmine è l’avvampamento veemente prodotto da nubi che sfregano tra di loro e sono squarciate <dal vento>, e che cade con grande violenza sulla terra. Per alcuni è la chiusura a pugno d’aria ignea che si porta in basso con violenza. Il tifone è [II,203,25] un fulmine di grandi dimensioni, violento e turbinoso; oppure vento fumoso d’una nuvola squarciata. Il baleno è una nuvola lacerata da fuoco misto a vento.

SVF II, 705

Aezio ‘Placita’ III, 3, 12. Gli Stoici affermano che il tuono è una violenta collisione di nuvole, il lampo un avvampamento per sfregamento delle stesse, il fulmine un bagliore più veemente, il baleno un bagliore più fievole.

SVF II, 706

Giovanni Lido ‘De ostentis’ 7, pag. 12 Wach. [II,203,30] Sicché v’è molta comunanza tra i segni celesti e quelli terrestri, pur se agli Stoici così non paia.

SVF II, 707

Aezio ‘Placita’ III, 15, 2. Gli Stoici affermano: il terremoto è dovuto all’umidità presente nella terra che se ne separa e fuoriesce verso l’aria.

[II,204,1] Fisica IV.

Gli animali e i vegetali

§ 1. Sui vegetali

Frammenti n. 708-713

SVF II, 708

Aezio ‘Placita’ V, 26, 3. Gli Stoici e gli Epicurei sostengono che i vegetali non sono esseri animati. Alcuni animali [II,204,5] sono dotati di un animo impulsivo e concupiscente, alcuni anche di un animo razionale. I vegetali, invece, si muovono come in modo automatico, non grazie ad un animo.

SVF II, 709

Temistio ‘Paraphr. in Aristot. De anima’ II, 2, p. 83 Sp. Quando dice che i vegetali sono esseri animati senza essere però animali, Aristotele sta in posizione intermedia tra Platone e gli Stoici. Infatti, per Platone i vegetali sono entrambe le cose; mentre per gli Stoici non sono nessuna delle due.

[II,204,10]

SVF II, 710

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ VI, p. 509 M. Gli Stoici non denominano assolutamente ‘animo’ quello che governa i vegetali, bensì ‘facoltà vegetativa’.

SVF II, 711

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 118, 12 Bruns. Noi mostreremo che quello vegetativo è ‘animo’, ossia che ha le parti e le facoltà d’un animo; le cui porzioni sono la facoltà nutritiva, quella accrescitiva [II,204,15] e quella generativa; e che non si tratta, come alcuni affermano, di ‘facoltà vegetativa’.

SVF II, 712

Galeno ‘De foetuum formatione’ 3, IV, p. 665 K. In primo luogo è d’uopo avere analizzato qualcosa circa la generazione dei vegetali. Infatti, tra le conoscenze necessarie a questo scopo, una è quella di sapere di quali e quante [II,204,20] cose abbia bisogno il feto finché è governato da un solo animo, come avviene nei vegetali. Quando ciò non sia da considerare come l’obiettivo della nostra indagine, noi chiamiamo quest’animo ‘facoltà vegetativa’, che è un termine comune valido per ogni sostanza, e che nelle loro precise analisi i seguaci di Crisippo custodirono in uso […]

SVF II, 713

Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 43, I, p. 13, 21 Wendl. [II,204,25] I frutti non erano soltanto cibo per gli animali ma anche strumenti preparatori per la continua generazione di vegetali a loro simili, giacché essi includono in sé le sostanze seminali nelle quali giacciono, non manifesti e invisibili, le ragioni genetiche dell’individuo intero, e che diventano manifeste e visibili in cicli periodici di tempo.

[II,205,1] § 2.Sugli animali bruti

Frammenti n. 714-737

SVF II, 714

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 487 Pott. Degli esseri capaci di movimento, alcuni si muovono per un impulso o per una rappresentazione, come fanno gli animali; altri per semplice trasposizione di luogo, come avviene agli esseri inanimati. Essi affermano però che, tra gli esseri inanimati, i vegetali si muovono di moto traslatorio nel corso del loro accrescimento, [II,205,5] ammesso che si convenga con loro che i vegetali sono esseri inanimati. Pertanto, le pietre sono dotate di forza di coesione e i vegetali della facoltà vegetativa. Oltre a queste due, gli animali bruti partecipano a loro volta di impulso e di rappresentazione; mentre la facoltà logica è peculiare dell’anima umana, in quanto l’uomo è tenuto a non impellere al modo degli animali bruti, ma a distinguere le rappresentazioni e a non lasciarsi portare fuori strada da esse.

SVF II, 715

Galeno ‘In Hippocr. Epidem.’ V, 6, XVII B, p. 250 K. [II,205,10] É usanza degli Stoici denominare ‘facoltà vegetativa’ la natura dalla quale sono governati i vegetali, e ‘animo’ quella dalla quale sono governati gli animali. Essi pongono quale sostanza di entrambi lo pneuma che è loro connaturato e credono che differiscano una dall’altro per qualità. Infatti, secondo loro lo pneuma dell’animo è più secco, mentre quello della facoltà vegetativa è più umido; e ritengono che entrambi, [II,205,15] per perdurare, abbiano bisogno non soltanto di cibo ma anche di aria.

SVF II, 716

[1] Ps. Galeno ‘Introd. med.’ 9, Vol. XIV, pag. 697 K. Secondo gli antichi filosofi gli pneumi sono due: lo pneuma ‘animato’ e lo pneuma ‘vegetativo’. Gli Stoici introducono anche un terzo pneuma: quello ‘coesivo’; che essi chiamano forza di coesione

[2] p. 726. Lo pneuma connaturato è di due specie: pneuma ‘vegetativo’ [II,205,20] e pneuma ‘animato’. Vi sono poi alcuni che introducono anche un terzo pneuma: lo pneuma ‘coesivo’. È coesivo lo pneuma che tiene insieme le pietre; vegetativo quello che fa nutrire gli animali e i vegetali; animato quello che, negli esseri animati, fa gli animali capaci di sensazioni e di muoversi di qualunque movimento.

SVF II, 717

Proclo ‘In Platonis Parmen.’ Vol. V, p. 135 Cousin. Affinché le entità che [II,205,25] partecipano di una forma ideale permangano tali e mai vengano meno, c’è bisogno di un’altra causa che non è in quelle entità o in esse si muove, ma che è fondata su se stessa, immobile a fronte di ciò che si muove; e che a causa della sua propria salda stabilità è in grado di procacciare anche alle entità soggette al movimento quella partecipazione che mai viene meno alla forma ideale. Mentre tutti i filosofi hanno di mira questa causa, alcuni, come gli Stoici, credendo che le ragioni seminali [II,205,30] siano questa causa, hanno fatto di esse delle realtà imperiture. Altri, invece […]

SVF II, 718

Galeno ‘Adversus Iulianum’ 5, Vol. XVIII A, p. 266 K. Ogni vegetale è governato dalla facoltà vegetativa, mentre ogni animale è governato dalla facoltà vegetativa e insieme anche dall’animo. Se dunque noi tutti uomini diamo il nome di ‘facoltà vegetativa’ alla causa del nutrirsi, del crescere e di funzioni siffatte, diamo invece il nome di ‘animo’ alla causa della sensazione [II,205,35] e del movimento che da essa origina.

SVF II, 719

Filone Alessandrino ‘De fuga et invent.’ 112, III, p. 133 Wendl. Il Verbo di Colui che è essendo infatti -com’è stato detto- il legaccio di tutte le cose, rende coese tutte le parti, le rinserra e impedisce loro di dissolversi e di essere avulse. L’animo particolare poi, per quanto ha avuto in sorte una porzione di questa facoltà, [II,205,40] non permette che le parti del corpo siano rescisse o mozzate contro natura, ma per quanto dipende da lui le guida tutte integre alla reciproca e indissolubile armonia e unione […]

SVF II, 720

Giamblico ‘De anima’ presso Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 375, 20 W. Secondo gli Stoici, poi, siffatte attività di vita si scompartiscono in altre sempre più imperfette; [II,206,1] sicché le attività deteriori rispetto alle precedenti, quanto più avanti procedono in direzione dell’irrazionalità tanto più si portano sul terreno dell’imperfezione.

SVF II, 721

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 6, p. 850 Pott. Gli animali terricoli e i volatili si nutrono respirando la stessa aria che dà cibo alle nostre anime, poiché possiedono un’anima che ha congenericità con l’aria. [II,206,5] Essi affermano che i pesci, invece, non respirano quest’aria ma quella che è stata frammischiata all’acqua, come anche agli altri elementi, subito dopo la genesi. Il che è anche una dimostrazione della sua permanenza materiale.

SVF II, 722

Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 66, I, p. 21 Wendl. Perciò, i primi [II,206,10] esseri animati che generò furono i pesci, i quali partecipano della sostanza somatica più che di quella animata e sono, in un certo qual modo, esseri viventi e non viventi, inanimati dotati di movimento; disseminando in essi una sorta d’animo al solo scopo di far perdurare i loro corpi, come si dice del sale per le carni, affinché non si avarino facilmente.

SVF II, 723

Cicerone ‘De finibus’ V, 38. Non è uno sproposito quello che si dice del maiale, cioè che gli è stato dato un animo con la funzione del sale, [II,206,15] e così impedire che la sua carne imputridisca.

SVF II, 724

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038b. Nel primo libro ‘Sulla giustizia’, <Crisippo> afferma che anche le belve sono state imparentate in modo appropriato [II,206,20] e ben regolato ai bisogni della loro progenie; eccetto che nel caso dei pesci, giacché i loro avannotti si nutrono da soli. […] Infatti, l’appropriazione sembra essere la sensazione di ciò ch’è appropriato e la sua presa d’atto.

SVF II, 725

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 87, Vol. I, p. 357, 25 K. Sia pure concesso che gli animali conoscano anche altri antidoti. Che importanza ha ciò [II,206,25] per convalidare la tesi che non sia la natura bensì la ragione quella che permette loro di trovare questi rimedi? Giacché se fosse la ragione quella che li trova, non avverrebbe che esclusivamente quest’unico rimedio sia stato scoperto tra i serpenti, e invece ce ne sarebbero anche un secondo e un terzo; e qualche altro rimedio sarebbe stato trovato nel caso dell’aquila e così pure tra gli altri animali: anzi tali rimedi sarebbero tanto numerosi quanti ne sono stati trovati tra gli uomini. Ora, poiché la natura di ciascun animale è volta esclusivamente alla scoperta di certi soccorsi, è sotto gli occhi di tutti che in essi non ci sono [II,206,30] né sapienza né ragione, ma una qualche dote naturale strutturata dal Logos per la scoperta di questi rimedi in vista della salvezza degli animali.

SVF II, 726

[1] Filone Alessandrino ‘De animalibus adv. Alexandrum’ p. 147 Aucher. Mentre inseguiva una fiera, un cane raggiunse un profondo canale sulla cui sponda correvano due sentieri, uno verso destra e l’altro verso sinistra. [II,206,35] Qui fermatosi un attimo, meditava sulla strada da prendere. Corse poi verso destra, ma non trovandovi alcun vestigio della fiera, tornò indietro e prese l’altra direzione. Siccome neppure qui ne compariva manifestamente traccia, saltato il canale la ricercava febbrilmente, oltre che con l’odorato affrettando la corsa, e mostrava così a sufficienza di non muoversi alla cieca ma piuttosto dopo un vero esame del da farsi. [II,206,40] La deliberazione frutto di tale riflessione i dialettici la chiamano giudizio epidittico del quinto modo: “Poiché la fiera è fuggita a destra o a sinistra oppure ha saltato il canale; <e tuttavia è fuggita né a destra né a sinistra; dunque ha saltato il canale>”.

[2] p. 166 Aucher. È da bandire l’opinione [II,207,1] di quanti attribuiscono al cane da caccia che insegue animali selvatici l’uso di un giudizio del quinto modo. Lo stesso può dirsi dei cercatori di conchiglie e di chi cerca una cosa qualunque: costoro infatti seguono le tracce delle cose che cercano, apparentemente applicando il metodo dialettico, [II,207,5] ma in verità senza neppure sognarsi di filosofare. Altrimenti si dovrebbe dire che fanno uso di quel quinto modo tutti coloro che cercano qualcosa. […] Noi infatti sosteniamo che delle cose decorose, buone e convenienti a se stessi, nonché delle molte cose che giovano alla sanità e al mantenimento della salute, provano desiderio anche gli esseri che mancano della comprensione che gli uomini invece hanno degli universali, e possiedono unicamente quella certezza che è propria della loro specie. [II,207,10] Dunque tali esseri nulla hanno davvero da spartire con il ragionare. E ragionare significa usare il sillogismo, il quale consegue all’apprensione di enti privi di realtà fisica, come la cognizione di dio, del mondo, della legge, del costume patrio, dello stato, della politica […] tutte cose che le bestie non percepiscono.

SVF II, 727

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 270. [II,207,15] E tuttavia che diremo a proposito degli uomini, quando alcuni Stoici hanno fatto parte dell’intellezione del segno anche agli animali bruti? Infatti il cane, quando bracca una belva, prende segno della sua presenza dall’orma che essa lascia; […] e il cavallo, quando sente il pungolo dello sperone o lo schioccare minaccioso della frusta, s’impenna […] e si lancia nella corsa.

SVF II, 728

Filone Alessandrino ‘De animalibus adv. Alexandrum’ p. 155 Aucher. Ecco infatti [II,207,20] che alcuni animali, sia d’acqua sia terricoli sia dell’aria, oltre alle virtù già citate fanno mostra anche di giustizia. Già tra animali marini è manifesta una forma di equità nella società formata dalla pinna e da chi la accompagna: essi condividono infatti il cibo e se lo spartiscono equamente. Lo stesso fanno, com’è noto, il trochilo e il pompilo, [II,207,25] animali più piccoli e annoverati tra quelli che conducono vita comunitaria. Fra gli uccelli, poi, la cicogna mostra un grandissimo senso della giustizia giacché nutre i genitori; e non appena è in grado di volare non si propone altro lavoro se non ha prima reso i favori ricevuti e contraccambiato i suoi benefattori. E si può essere certi che qualcosa di simile facciano anche degli animali terricoli. […] È sensato che per mondo [II,207,30] si intendano non soltanto alcune, ma tutte le sue parti; e la parte del mondo in cui si collocano la giustizia e l’ingiustizia è quella provvista di ragione, giacché sia la giustizia che l’ingiustizia hanno a che fare con la ragione.

SVF II, 729

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 123. In verità la pinna, […] un’ostrica dotata di due grandi valve ha, per così dire, stretto [II,207,35] con la piccola squilla un accordo per procurarsi il cibo; sicché quando dei pesciolini finiscono nuotando nelle sue valve spalancate, la pinna, avvertita da un morso della squilla, chiude le valve. In tal modo animaletti diversi cooperano per procurarsi il cibo. Vedendo ciò, viene da chiedersi con stupore se l’associazione di queste due creature origini da un qualche accordo, oppure se sia la natura stessa ad averle associate fin dalla nascita.

SVF II, 729a

Ateneo ‘Deipnosophistai’ III, p. 89d. [II,207,40] Crisippo di Soli nel quinto libro ‘Sul bello e sul piacere fisico’ afferma: “La pinna e il pinnotèro cooperano fra di loro, e non possono restare ciascuno per conto proprio. La pinna è un’ostrica e il pinnotèro è un piccolo granchio. La pinna, una volta aperte le valve, se ne sta quieta [II,208,1] ed ha cura che i pesciolini le si avvicinino da presso. Il pinnotèro le sta accanto e, quando qualcosa entra tra le valve, le dà un morso per segnale. Al che la pinna, sentendosi morsa, chiude le valve. E così i due divorano in comune quel che è rimasto preso dentro la conchiglia.

SVF II, 729b

Plutarco ‘‘De sollertia animalium’’ p.980a. [II,208,5] Ma bisogna piuttosto passare all’esame dei casi di comunanza a due e di simbiosi tra gli animali. Tra questi, il pinnotèro è l’animale sul quale Crisippo ha speso il massimo d’inchiostro e quello che ha il primo posto in ogni suo libro di Fisica e di Etica. Crisippo, infatti, non ha investigato il caso dello spongotèro, altrimenti non ometterebbe di parlarne. Com’egli afferma, il pinnotèro [II,208,10] è un animale del genere dei granchi il quale sta con la pinna, e ne custodisce la porta ponendosi davanti alla conca. Lascia così che essa sia aperta e ben spalancata, fino a che non vi entri dentro qualcuno dei pesciolini che sono una facile preda. Allora il pinnotèro morde la carne della pinna e vi si intrufola dentro. La pinna chiude quindi la conca ed essi divorano in comune la preda intrappolata.

SVF II, 730

Filone Alessandrino ‘De animalibus adv. Alexandrum’ p. 169 Aucher. Quello che [II,208,15] si dice della pinna e del suo accompagnatore dimostra la loro comune società. […] Chi invece ha dei dubbi, impari dagli alberi e dalle piante […] Essi, per quanto non abbiano anima alcuna, tuttavia ci mettono innanzi manifestazioni non minori di familiarità e di ripugnanza. Infatti hanno movimenti di crescita [II,208,20] e sovente s’abbracciano l’un l’altro come quando ci si saluta baciandosi affettuosamente, come fa l’edera con l’olivo e la vite con l’olmo; mentre la stessa vite non solo avversa ma evita addirittura altre piante. […] Io però non credo che ci sia qualcuno così pazzo che osi dire che ciò sorge da stati d’animo di fedele amicizia o di ostilità: queste piante, invero, sono spinte ad unirsi o a restare separate da una ragione naturale superiore e non da un reciproco accordo. [II,208,25] Così pure stimo falso che, uomo escluso, esistano altri esseri mortali che diano chiari segni di asocialità e di socialità, e che a queste facciano razionalmente riferimento; giacché tutte queste cose si conciliano solitamente con una mente razionale, e negli animali se ne possono delineare tutt’al più delle somiglianze ed una sorta di immagini. Alcuni animali, infatti, mostrano vagamente impressi [II,208,30] nei loro lineamenti una parvenza di disprezzo o di rispetto, di affezione o di gratitudine, che però non hanno relazione con la verità, dal momento che tali idee in senso proprio, certe e solide esistono soltanto negli animi umani.

SVF II, 731

Filone Alessandrino ‘De animalibus adv. Alexandrum’ p. 163 Aucher. Considera [II,208,35] […] se le api e i ragni, guardando ai secondi quali tessitori e alle prime quali produttrici dei favi di miele, facciano ciò perché dotati dell’ingegnosa industriosità dell’artista oppure agendo in modo naturale e per nulla ragionato. Seppure, a dire il vero, il diligente impegno di questi animali sia da ritenersi assolutamente ammirevole, esso tuttavia non discende da disciplina artistica. Come può esserci disciplina artistica che non sia preceduta dalla [II,208,40] comprensione scientifica, la quale necessariamente è il fondamento delle arti? L’arte è infatti un sistema di concetti coerenti.

SVF II, 732

Filone Alessandrino ‘De animalibus adv. Alexandrum’ p. 163 Aucher. Gli uccelli di solito volano nell’aria, i pesci nuotano e gli animali terricoli camminano. Lo fanno essi dopo essere stati istruiti teoricamente? Nient’affatto, ma agiscono così a memoria secondo la loro specifica natura. [II,208,45] Similmente le api realizzano il favo senza istruzione teorica ma per natura; e i ragni tessono da autodidatti la loro tela elaborata [II,209,1] e sottile. Se poi qualcuno la pensa in modo diverso, vada dagli alberi, ed osservandoli con cura vedrà le qualità molto spiccate di ciascuno, giacché anch’essi senza aver mai studiato l’arte hanno però molte capacità artistiche. Non vedi la vite mentre produce il germoglio nei giorni primaverili? Dapprima lo ricopre di foglie; [II,209,5] poi, a poco a poco, lo nutre a mo’ di madre e lo fa crescere; e dopo un po’ trasforma gli acini in uva, fino a che il frutto giunge a piena maturazione. Dovette forse applicarsi con cura ed istruirsi per svolgere questi compiti? Certo è perché la natura presiedette mirabilmente all’opera, che la vite fu all’altezza di produrre non soltanto un utilissimo frutto, ma pure di decorare artisticamente il tronco <dell’olmo>. […] [II,209,10] Noi parliamo anche di nature invisibili; perché esse, quando siano ordinate e capaci di arte, assicurano che siano razionali anche gli esseri che mancano del tutto di anima. Ma in verità l’esistenza di queste nature invisibili non si dà negli animali sopra citati. Essi tutti, infatti, non agiscono dopo accurata premeditazione ma, con un’operazione che sono incapaci di controllare, fanno emergere le capacità naturali loro costitutive. [II,209,15] È un atto inconsulto […] quello dello scorpione che leva in alto il suo pungiglione e lo agita, anche se avesse stabilito per scelta di doversi vendicare contro chi lo ha danneggiato. […] Pertanto procurarsi il cibo, curare le infermità e altri atti simili, sono doti naturali e, per virtù invisibile, innate negli animali. Tutte queste doti essi le possiedono per conservarsi salvi e difendersi [II,209,20] dagli assalitori.

SVF II, 733

Filone Alessandrino ‘De animalibus adv. Alexandrum’ p. 168 Aucher. Se pensi che gli animali bruti, come la formica e l’ape, siano dotati di cognizioni economiche, pur se nessuno di essi ne possiede di politiche, devi ammettere che possa essere falso per le specie ciò che è vero per il genere in cui esse ricade. [II,209,25] Tu non ignori, io credo, che l’economia è di coloro dei quali è anche la politica, giacché entrambe sono figlie di una sola virtù <che è la giustizia>, e se esse sono pari per specie, sono però impari per grandezza, come una casa e una città. Ma agli animali bruti manca la politica, e dunque neppure bisogna parlare di economia a loro riguardo. “Ma, tu chiederai, chi può dire cosa la formica mette al sicuro nei magazzini prima di fare la sua raccolta, [II,209,30] e perché si prepara in anticipo i granai? Ad un’opera ancor più utile di questa se ne esce l’ape; e una volta raccolto il nettare dei fiori e costruito un bell’alveare, produce in maniera mirabile il miele”. Dico anch’io che è così. Dico però che queste opere sono da attribuirsi non alla previdenza di animali privi di ragione, ma di colui che regola l’intera natura. L’animale non agisce mai seguendo l’intelletto. [II,209,35] Dio invece ha cura di varie cose: per certo, in quanto Creatore, dà alle singole creature il movimento e la forza di effettuare ciò per cui sono state fatte o di giungere a quella perfezione che conviene ai singoli esseri.

SVF II, 734

Filone Alessandrino ‘De animalibus adv. Alexandrum’ p. 171 Aucher. Dopo avere parlato a sufficienza del ragionamento di cui è capace il loro intelletto, [II,209,40] esaminiamone ora la facoltà di parlare. Se i merli, i corvi, i pappagalli e simili uccelli, riescono a modulare variamente la voce, non possono però mai in alcun modo pronunciare un vocabolo in forma articolata. Io credo che, come negli strumenti musicali benché i fori emettano vere note monotone, queste sono prive di forma articolata e per conseguenza non possono manifestamente esprimere nulla, mentre i suoni del discorso razionale non sono monotoni, [II,209,45] così anche le voci dei suddetti animali sono prive di significato e monotone, [II,210,1] giacché esprimono la verità del discorso articolato non come fanno i vocaboli ma con una cantilena.

SVF II, 735

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 233, 14 Bruns. Per strutturare l’argomentazione che un corpo si fa spazio attraverso un altro corpo, essi utilizzano anche l’esempio dell’accrescimento degli animali attraverso il cibo [II,210,5] […] giacché l’accrescimento avviene a seguito dell’aggiunta del cibo. Sicché, se gli esseri che s’accrescono s’accrescono dappertutto, il cibo si congloberebbe dappertutto al corpo preesistente; e non è possibile che il cibo sia conglobato dappertutto se esso non è portato attraverso tutto il corpo e verso tutto il corpo. Ma se il cibo è portato attraverso tutto il corpo, poiché il cibo è corpo, è necessario reputare che un corpo si faccia spazio attraverso un altro corpo, se è appunto unicamente in questo [II,210,10] modo che l’aggiunta del cibo raggiunge ogni parte del corpo nutrito. […] Poiché dunque la nutrizione e l’accrescimento non avvengono in questo modo (giacché nulla di impossibile accade), lasciami esporre l’opinione di Aristotele circa nutrizione e accrescimento.

[2] p. 234, 23. Se si dicesse che la crescita avviene per addizione di materiale corporeo, [II,210,15] ci sarà un corpo che si fa spazio attraverso un altro corpo e che diventa quel corpo, dato che esso appunto cresce in proporzione all’aggiunta che acquisisce; e dunque ciò che cresce cresce in ogni sua parte, sicché esso prenderà l’aggiunta per tutto se stesso. Ma se, essendo corpo, esso prende l’aggiunta per tutto se stesso, bisognerà che ciò che gli è addizionato -e questo è il cibo – si faccia spazio attraverso di lui tutto per produrne la crescita. [II,210,20] Se poi uno dice che il transito del cibo avviene attraverso alcuni vuoti, costui necessariamente deve dire che tutto il corpo che viene nutrito contiene del vuoto, in quanto il passaggio del cibo avviene attraverso questo vuoto; e il passaggio del cibo avviene attraverso tutte le sue parti, se appunto il corpo s’accresce in tutte le sue parti.

SVF II, 736

[1] Galeno ‘De symptom. causis’ III, 4, Vol. VII, p. 227 K. Quanti [II,210,25] non convengono nel ritenere che i corpi nutriti cambino ad opera del cibo (giacché ‘cibo’ è il nome di ciò che è digerito e non di ciò che digerisce) nulla possono dire di sano circa le trasformazioni legate alla crescita nel caso degli animali e ancor meno circa quelle dei vegetali […]

[2] p. 228. Quanti sono dell’avviso che cibo sia il nome di ciò che è digerito, [II,210,30] cambiato e trasformato […] […] Quella di assimilare il cibo è l’opera attiva di chi è nutrito; mentre il ruolo passivo del cibo è quello di essere assimilato e trasformato.

SVF II, 737

Plinio il vecchio ‘Naturalis historia’ XXX, 103. Il filosofo Crisippo ci tramanda che il phryganion adalligatum è un rimedio per le febbri quartane. Ma che essere vivente sia, né lui l’ha descritto, né noi abbiamo trovato chi lo sapesse. [II,210,35] Eppure un autore così serio doveva precisare la sua affermazione, così da facilitare la ricerca di qualcun altro.

§ 3.Sulla natura dell’uomo

Frammenti n. 738-772

SVF II, 738

Cicerone ‘De legibus’ I, 24. Quando ci si interroga sulla natura dell’uomo […] si suole avanzare l’ipotesi che grazie ai perpetui corsi e ricorsi [II,210,40] celesti, si sia presentata l’occasione propizia per deporre il seme [II,211,1] del genere umano; e che questo, sparso sulla terra e seminatovi, sia poi stato fertilizzato dal dono divino dell’animo.

SVF II, 739

Origene ‘Contra Celsum’ I, 37, Vol. I, p. 89, 1 K. Secondo gli stessi Greci, non tutti gli uomini sono nati da un uomo e una donna. [II,211,5] Infatti, se il cosmo è una realtà generata, come molti Greci gradirono pensare, necessariamente i primi uomini non sono nati da un accoppiamento sessuale ma dalla terra; poiché nella terra sussistono le ragioni seminali […]

SVF II, 740

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ III, 48 (p. 222 Aucher). Poi istruisce con ancor maggiore naturalezza coloro che si ritengono artefici della generazione, e che a stento volgono lo sguardo al genitore di tutte le cose. [II,211,10] È lui, infatti, il vero e autentico padre, mentre noi che ci diciamo genitori siano soltanto strumenti a servizio della generazione. Per una straordinaria similitudine, come accade che tutti gli organi della vista siano inanimati e ciò che dà vigore ai loro nervi sia qualcosa di invisibile pur essendo lui la causa della capacità di vedere; così accade che il creatore di tutte le cose attraverso uno spazio eterno e invisibile estenda le sue virtù [II,211,15] e che noi miracolosamente ne siamo corroborati nei nervi per fare quanto ci riguarda, ossia produrre il seme e generare. A meno che non si voglia credere che il flauto di Pan si suoni da solo e non sia invece ben congegnato dall’artigiano per produrre un suono armonioso, dato che lo strumento fu costruito per servire [II,211,20] necessariamente a ciò.

SVF II, 741

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 158. <Gli Stoici dicono> che lo sperma è ciò che è capace di generare corpi quali quelli dal quale anch’esso fu secreto. Lo sperma dell’uomo, quello che l’uomo eiacula in forma fluida, viene mescolato insieme a partire dalle parti dell’animo e in armonia con il miscuglio delle ragioni seminali degli avi. Nel secondo libro della ‘Fisica’ [II,211,25] Crisippo afferma che nella sostanza esso è pneuma, com’è manifesto nel caso dei semi che vengono gettati nella terra. Essi, infatti, quando siano troppo vecchi non germogliano più, in quanto la loro facoltà generativa è manifestamente svaporata.

SVF II, 742

[1] Ps. Galeno ‘Definitiones medicae’ 94, Vol. XIX p. 370 K. Lo sperma è [II,211,30] pneuma caldo in forma fluida, dotato di mobilità propria e capace di generare un corpo quale quello dal quale fu rilasciato. […] Zenone di Cizio lo definì così: “Lo sperma dell’uomo, quello che l’uomo eiacula in forma fluida, è rapimento di una parte dell’animo e commistura del genoma degli avi, quale esso era di per sé e quale fu commisto e secreto”.

[2] p. 439. [II,211,35] Secondo gli Stoici lo sperma è il fluido che l’animale eiacula insieme con dello pneuma e dell’animo, come non parte di sé.

SVF II, 743

[1] Galeno ‘De foetuum formatione’ 3, IV, p. 699 K. Soprattutto ci si potrebbe stupire della somiglianza con i genitori della loro progenie, e chiedersi come mai ciò avvenga. Appare di nuovo che sia l’animo, quello che plasma il corpo, [II,211,40] a giungere dai genitori al concepito, in quanto è incluso nello sperma. […] Alcuni di loro affermano che lo sperma non è un materiale bensì che è un organo dell’animo, giacché il materiale sarebbe rappresentato dal sangue della madre. Altri invece <e sono gli Stoici>, dicono il contrario, [II,212,1] giacché secondo loro lo sperma è l’artigiano stesso: per alcuni di loro, l’intero sperma; per taluni altri, lo pneuma incluso nello sperma. Su questi argomenti da me in particolare è stato scritto qualcosa in un libro, nel quale prendo in esame le affermazioni di Crisippo nei suoi trattati ‘Sull’animo’.

[2] p. 700 K. [II,212,5] L’animo presente nello sperma è quello che i seguaci di Aristotele chiamano ‘vegetativo’, i seguaci di Platone ‘concupiscente’ e che i seguaci degli Stoici non chiamano neppure animo ma ‘natura’ o ‘facoltà vegetativa’, poiché ritengono che sia quella che plasma l’embrione e che non soltanto non sia sapiente ma che prescinda integralmente dalla ragione […]

SVF II, 744

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1077b. Perciò essi affermano [II,212,10] che lo sperma prende questo nome dalla ‘agglomerazione’ di una grande quantità in una piccola mole; e che la natura si chiama così perché è il rigonfiamento e l’effusione delle ragioni o numeri che da essa sono aperti e sciolti.

SVF II, 745

Filone Alessandrino ‘De opificio mundi’ 67, Vol. I, p. 22, 13 Wendl. È avvenuto che lo sperma sia il principio della generazione degli animali. Questo sperma è davvero ben poca cosa e, alla vista, somiglia a della schiuma. [II,212,15] Quando però esso sia gettato nell’utero e vi si infigga, subito prende a muoversi e si volge in facoltà vegetativa. La facoltà vegetativa è migliore dello sperma, poiché anche il movimento, negli esseri generati, è migliore dell’immobilità. Quale un artigiano o, per dirlo più signorilmente, quale un’arte irreprensibile, la facoltà vegetativa plasma in forma di essere vivente la sostanza umida ripartendola nelle membra e nelle parti del corpo; e la sostanza pneumatica nelle facoltà dell’animo: [II,212,20] quella nutritiva e quella sensitiva.

SVF II, 746

Origene ‘In Evangelum Ioannis’ XX, 2. Ed è chiaro che lo sperma contiene in sé i geni del seminatore, seppure quiescenti e in disparte. Il figlio, quando lo sperma si trasforma e lavora il materiale che gli giace accanto, prende forma dalla donna e [II,212,25] dal nutrimento che gli è apportato, venendo così a generazione bell’e apparecchiato.

SVF II, 747

Origene ‘In Evangelum Ioannis’ XX, 5. Ciò che intendo dire sarà chiaro dal seguito del mio discorso. Infatti, poiché il seminatore contiene in sé i geni dei progenitori e dei congeneri, quando il suo patrimonio genetico prevale, il generato è partorito simile al seminatore. Ma a volte prevalgono i geni del fratello, [II,212,30] o del padre, o dello zio, o a volte anche quelli del nonno del seminatore; ragion per cui i figli partoriti sono simili ora a questo ora a quest’altro. È possibile anche vedere casi in cui ha il sopravvento il patrimonio genetico della madre, o del fratello o del nonno di lei; in accordo con il ribollire della mistura nella quale tutti insieme si agitano, fino a che una delle ragioni seminali prende il sopravvento.

SVF II, 748

[1] ‘Scholia’ in Hom. Iliad. XXI, 483. [II,212,35] Poiché, come afferma Crisippo, nelle notti di luna piena le donne partoriscono con la massima facilità, mentre nelle notti senza luna esse partoriscono con molta difficoltà.

[2] ‘Scholia’ Genevensia I, p. 210 Nicole. Nel suo libro ‘Sulla fisica antica’, Crisippo, dopo avere mostrato che la luna è Artemide e avere riferito ad essa gli eventi legati al parto, [II,212,40] dice che nelle notti di luna piena non soltanto le donne partoriscono con la massima facilità, ma pure tutti gli animali partoriscono facilmente.

SVF II, 749

[1] Aezio ‘Placita’ V, 11, 3. Gli Stoici sostengono che lo sperma proviene dall’intero corpo e dall’animo, e che riplasma fedelmente [II,213,1] i modelli e i caratteri presi dai generi stessi, proprio come se un pittore riproducesse con gli stessi colori una figura di ciò che si vede.

[2] 4. Essi sostengono che anche la donna eiacula dello sperma; e che quando ha il predominio lo sperma femminile, allora il generato è simile alla madre; mentre quando ha il predominio quello maschile, allora il generato è simile [II,213,5] al padre.

SVF II, 750

Aezio ‘Placita’ V, 10, 4. [Come mai avvengano parti gemellari e trigemini] Quando entro gli spazi intrauterini, affermano gli Stoici, lo sperma cada prima in uno di essi e poi in un secondo, allora si ha la superfetazione e ne conseguono parti gemellari e trigemini.

SVF II, 751

Aezio ‘Placita’ V, 9, 2. [Perché la donna non concepisca pur dopo molti amplessi] [II,213,10] Secondo gli Stoici ciò è dovuto alla distorsione del pene che non può gettare il seme in linea retta; oppure alla asimmetria delle parti genitali, come nel caso della dislocazione dell’utero.

SVF II, 752

Aezio ‘Placita’ V, 13, 3. [ Come mai le donne sono sterili e i maschi infertili] [II,213,15] Gli Stoici accagionando di ciò le facoltà e le qualità disomogenee di entrambe le persone coinvolte nell’amplesso. Qualora invece accadesse loro di separarsi e di unirsi sessualmente con altre con le quali vi è omogeneità, allora si avrebbe un composto secondo natura e il feto giunge a maturazione.

SVF II, 753

Aezio ‘Placita’ V, 12, 3. [Come mai i generati sono simili ad altri e non ai genitori] [II,213,20] Secondo gli Stoici ciò avviene per consentaneità dell’intelletto.

SVF II, 754

Aezio ‘Placita’ V, 16, 2. [Come si nutre l’embrione] Secondo gli Stoici ciò avviene attraverso la placenta e l’ombelico. Laonde le levatrici subito legano l’ombelico e dilatano la bocca <al neonato>, affinché diventi diversa la pratica della nutrizione.

SVF II, 755

Aezio ‘Placita’ V, 17, 1. Gli Stoici dicono che diventa tutt’insieme [II,213,25] un embrione.

SVF II, 756

Aezio ‘Placita’ V, 15, 2. Secondo gli Stoici l’embrione è una parte del ventre, non un animale. Infatti, come i frutti sono parti dei vegetali che da essi si distaccano quando sono maturi, così è anche per l’embrione.

SVF II, 757

Ps. Galeno ‘Definitiones medicae’ 445, Vol. XIX p. 452 K. Essi dicono che l’embrione non è un animale; che si nutre [II,213,30] e s’accresce come fanno anche gli alberi, ma che non possiede impulso e repulsione come gli animali.

SVF II, 758

Ps. Galeno ‘Definitiones medicae’ 2, Vol. XIX p. 165 K. Poiché è un pezzo e un distaccamento del grande essere vivente che è il cosmo, finché rimane nei recessi e sta nel suo covo, <l’embrione> ricopre il suo ruolo di sostanza composta. Ma quando diventa distinguibile ed esce fuori da questa profondità come dal caos, [II,213,35] esso rende ossequio alla natura, con la quale ha omogeneità e che gli è simile, con le azioni attive, giacché comincia a muoversi con movimenti propri.

SVF II, 759

Filone Alessandrino ‘De fortitudine’ II, p. 398 Mang. Giacché se <gli embrioni> che crescono al modo dei vegetali all’interno del corpo delle madri gravide e sono ritenuti esserne parti adesso unite, ma parti che nel giro di alcuni mesi saranno spiccate da questa congiunzione naturale […] [II,213,40] sono custoditi […]

SVF II, 760

Filone Alessandrino ‘De fuga et invent.’ 13, III, p. 112, 15 Wendl. Infatti, l’animale che nasce è imperfetto quanto a qualificazione quantitativa, e di ciò è testimone la sua crescita di peso con l’età. Ma è perfetto quanto a qualificazione qualitativa, giacché la sua qualità permane in quanto improntata dal Logos divino che è permanente e immodificabile.

SVF II, 761

[1] Galeno ‘De foetuum formatione’ 4, IV, p. 674 K. [II,214,1] A proposito del cuore, cosa mai reputarono opportuno dichiarare Crisippo e molti altri filosofi Stoici e Peripatetici, se non che esso è il primo dei pezzi dell’animale che si forma, che poi dal cuore nascerebbero gli altri pezzi, e che esso, in quanto plasmato per primo, [II,214,5] è il necessario principio anche delle vene e dei nervi?

[2] 4, IV, p. 677 K. Quanti dichiararono che il cuore è il primo organo ad essere plasmato, senza aver da dire cosa appare dalla dissezione anatomica, da che cosa ebbe principio tale scoperta e senza aver da offrire qualche altra dimostrazione logica di ciò, rannodano soltanto ignoranza ad ignoranza quando sono dell’avviso che gli altri organi nascano dal cuore [II,214,10] e che il cuore, com’è all’origine della loro genesi così sia pure duce del loro governo.

[3] 4, IV, p. 698 K. La prima […] ipotesi […] la suggeriscono dicendo che il cuore nasce prima di tutti gli altri organi. Dopo questa, la seconda ipotesi è che il cuore plasmi gli altri pezzi dell’animale, come se la causa che ha plasmato il cuore fosse andata in malora [II,214,15] e non esistesse più. Poi, di seguito, adducono come conseguenza che anche la parte deliberativa del nostro animo sta nel cuore. Ora, se sta qui ciò che ci delibera a desiderare cibi -come dicono – bevande, amplessi sessuali e denaro; evidentemente starà qui anche ciò che ci delibera al rancore, all’ambizione […]

SVF II, 762

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1083a. [II,214,20] Il discorso sull’accrescimento è antico, giacché è stato prospettato interrogativamente, come afferma Crisippo, già da Epicarmo. Poiché gli Accademici credevano che si trattasse di un’aporia non facile e non di pronta soluzione […] <gli Stoici> urlarono loro contro, accusandoli di levare di mezzo le prolessi […]

[2] p. 1083c. […] e così, una volte dette queste cose e poste in questo modo le questioni [II,214,25] <da parte degli Accademici e degli Stoici>, cosa ti sollecitano a credere questi vindici dell’evidenza, questi archipendoli dei concetti di comune buonsenso? Che ciascuno di noi è gemellare, che ha due nature e che è doppio, […] che ha due corpi di identico colore, di identica figura, peso e spazio occupato: [II,214,30] cose che prima di loro nessun uomo ha mai visto, […] che ciascuno di noi è due soggetti corporei: uno, la sostanza; l’altro, la qualità. E che uno dei due sempre scorre ed è portato qua e là, senza aumentare né diminuire pur non restando affatto quello che è. L’altro invece perdura, s’accresce e diminuisce e sperimenta cose speculari a quelle che sperimenta l’altro, [II,214,35] pur essendogli connaturato, conciliato e confuso insieme, e anche se non ci procura mai da nessuna parte la possibilità di toccare coi sensi la differenza.

SVF II, 763

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1047c. Nelle sue ‘Questioni di fisica’ <Crisippo> esorta caldamente, circa le questioni che richiedono perizia e acquisizione di informazioni, [II,215,1] a prendersela con calma, ove non si abbia nulla di meglio e di più evidente da dire. “Per non -dice – sottintendere, in modo similare a Platone, che il cibo umido si porta nel polmone e il cibo secco nell’intestino; [II,215,5] né incorrere in altre similari cadute in errore”.

SVF II, 764

Aezio ‘Placita’ V, 23, 1. Per Eraclito e per gli Stoici gli uomini cominciano a perfezionarsi nella seconda settimana circa, nel corso della quale il siero spermatico si muove. Anche gli alberi cominciano allora a perfezionarsi, quando cominciano a generare i semi; mentre sono imperfetti quando siano prematuri e infruttuosi. Allora l’uomo è perfetto, [II,215,10] giacché nella seconda settimana nasce in lui il concetto del bene e del male e del loro insegnamento.

SVF II, 765

[In tutto il suo libro sulla respirazione, Galeno si sforza di provare] che la respirazione avviene a causa di un certo raffreddamento del calore innato.

SVF II, 766

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 158. Il sonno sopraggiunge quando sia fiaccato il tono sensoriale nell’ambito dell’egemonico. [II,215,15] Essi lasciano poi intendere che le cause delle passioni siano i rivolgimenti che avvengono nell’ambito dello pneuma.

SVF II, 767

Aezio ‘Placita’ V, 24, 4. Platone e gli Stoici affermano che il sonno sopraggiunge per il rilassamento del tono sensoriale, non per un rilasciamento come a terra, ma perché l’egemonico si porta nello spazio tra le sopracciglia. Qualora, invece, il rilassamento dello pneuma [II,215,20] sensitivo sia definitivo, allora subentra la morte.

SVF II, 768

Tertulliano ‘De anima’ cp. 43. Gli Stoici affermano che il sonno è un rilassamento del vigore dei sensi. […] A meno di definire il sonno, come fanno gli Stoici, un rilassamento del vigore dei sensi.

SVF II, 769

Aezio ‘Placita’ V, 30, 5. [II,215,25] In accordo con Parmenide, gli Stoici sostengono che la vecchiaia sopraggiunge per deficienza di calore. Infatti, coloro che hanno più calore hanno una vecchiaia più lunga.

SVF II, 770

Galeno ‘De temperamentis’ I, 3, I, p. 523 K. Ma se la morte, affermano i seguaci di Ateneo di Attalia, è fredda e secca, [II,215,30] necessariamente la vita, che esiste come suo opposto, è calda e umida. E se, essi affermano, la vita è una faccenda calda ed umida, è di tutta necessità che quella più simile alla vita sia anche la mescolanza più eccellente in assoluto; e, se è così, è del tutto manifesto che essa sia la temperie di gran lunga migliore. Sicché essi affermano che una natura umida e calda e la buona temperie si equivalgono, e che la buona temperie null’altro è [II,215,35] che la preminenza dell’umidità e del calore. Questi sono i discorsi dei seguaci di Ateneo; ma sembra che questa sia anche l’opinione del filosofo Aristotele, di Teofrasto e, dopo di lui, degli Stoici.

SVF II, 771

[1] Galeno ‘Adversus Iulianum’ 4, Vol. XVIII A, p. 259 K. Tu non troveresti un libro di Aristotele o di Teofrasto in cui essi, costretti a dire qualcosa sugli stati morbosi, [II,215,40] non portino avanti il discorso senza rammentare il caldo e il freddo, l’umido e il secco. Anzi, li ricordano in continuazione e insieme ad essi ricordano spesso [II,216,1] entrambi i tipi di bile, quella nera e quella gialla; e non poche volte anche la bile fredda, essi che sono usi discutere delle loro differenze designando acida l’una, salmastra o salata l’altra, dolce un’altra ancora. Crisippo non si comporta altrimenti, e disquisisce sempre in questo modo degli stati morbosi e degli umori. [II,216,5] Se uno volesse selezionare soltanto i passi dei tre filosofi citati riempirebbe non pochi libri, facendo un’opera da erudito quale quella che Giuliano faceva ad Alessandria. Se poi si selezionassero i passi anche degli altri filosofi, intendo degli Stoici e dei Peripatetici, allora si riempirebbe un’intera biblioteca.

[2] p. 258 K. [II,216,10] Dovrei dunque qui di seguito trascrivere i passi di Aristotele, di Crisippo e di tutti gli altri Peripatetici e Stoici, nei quali essi accagionano la bile e il flegma ed affermano che esistono quattro stati morbosi originari, come sono quattro gli elementi: il caldo, il freddo, l’umido e il secco? […]

SVF II, 772

Galeno ‘De morborum causis’ 1, Vol. VII, p. 1 K. [II,216,15] Secondo quanti opinano che la sostanza sottoposta alla genesi e all’estinzione sia unitaria e cangiante, qualunque malattia fu mostrata essere una qualche discrasia, o divisione della continuità delle parti, di un corpo all’apparenza sensibile omogeneo e semplice.

[II,217,1] Fisica V.

L’animo dell’uomo

§ 1. Sulla sostanza dell’animo

Frammenti n. 773-789

SVF II, 773

[1] Nemesio ‘De nat. hom.’ 2, P. G. XL, col. 536. Il discorso sull’anima è motivo di disaccordo tra quasi tutti gli antichi filosofi. [II,217,5] Infatti, Democrito, Epicuro e tutto l’insieme dei filosofi Stoici dichiarano che l’anima è corpo. Questi stessi che dichiarano l’anima essere corpo, litigano però tra di loro a proposito della sua sostanza; giacché gli Stoici dicono che essa è uno pneuma accalorato e focoso […]

[2] Tertulliano ‘De anima’ cp. 5. Aggiungo ad essi anche gli Stoici [II,217,10] i quali affermano, quasi come noi e data la stretta somiglianza tra respiro e spirito, che l’anima è spirito. Tuttavia è facile che essi cerchino poi di persuadervi che l’anima è corpo.

SVF II, 774

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 156. Essi reputano che la natura sia un fuoco artefice che incede metodicamente alla generazione. Questo fuoco artefice è uno pneuma igneo e capace di opere d’arte, mentre l’animo [II,217,15] è natura capace di sensazioni. L’animo è lo pneuma a noi connaturato: esso è corpo, persiste dopo la morte e però è perituro. Invece l’animo dell’intero cosmo, del quale gli animi degli animali sono parti, è imperituro.

SVF II, 775

‘Commenta Lucani’ Lib. IX, 7 p. 290 Us. La virtù ignea: significa la virtù dell’animo, non del corpo, giacché gli Stoici dicono [II,217,20] che l’animo è fuoco.

SVF II, 776

Girolamo ‘Epistola CXXVI’ 2, p. 143 Hilberg. Ricordo le vostre questioncelle sullo stato dell’anima […] se sia caduta dal cielo, come reputano il filosofo Pitagora, tutti i Platonici ed Origene; oppure sia sostanza propria di dio, come reputano gli Stoici.

SVF II, 777

Galeno ‘De simpl. medicam. temp.’ V, 9, XI, p. 731 K. [II,217,25] È opinione degli Stoici che questo pneuma e la sostanza dell’animo siano la stessa cosa.

SVF II, 778

‘Scholia’ in Hom. Iliad. II, 857. Anche gli Stoici definiscono l’animo a partire da questa considerazione: l’animo è pneuma connaturato ed esalazione sensibile [II,217,30] che si assimila dagli umori del corpo.

SVF II, 779

Aezio ‘Placita’ IV, 3, 3. Gli Stoici affermano che l’animo è pneuma cognitivo caldo.

SVF II, 780

Ps. Galeno ‘Definitiones medicae’ 29, Vol. XIX p. 355 K. [II,218,1] L’animo è, […] secondo gli Stoici, un corpo finemente particellare e mobile di per sé secondo le ragioni seminali.

SVF II, 781

Galeno ‘De usu partium’ VI, 17, Vol. III, p.496 K. Neanche questo discorso è impossibile, [II,218,5] cioè che lo pneuma psichico sia un’esalazione, se di esalazione si tratta, di buon sangue.

SVF II, 782

Galeno ‘In Hippocr. Epidem.’ V, Vol. XVII, p. 246 K. Giacché quanti credono che l’animo sia pneuma, dicono che esso è salvaguardato in vita dall’esalazione del sangue e dall’aria che è trascinata, con l’inspirazione [II,218,10] attraverso il dotto tracheale, all’interno del corpo.

SVF II, 783

Galeno ‘De usu respir.’ 5, Vol. IV, p. 502 K. È necessario che questo pneuma animato sia nutrito. E donde, essi affermano, avrà il suo nutrimento se non dall’aria che è trascinata dall’inspirazione? Eppure non è inverosimile che esso lo sia anche dall’esalazione del sangue, come [II,218,15] reputarono molti medici e filosofi tenuti in gran conto.

SVF II, 784

Tertulliano ‘De anima’ cp. 10. Prego, cos’è il respirare? Suppongo sia il fiatare. E il vivere? Suppongo forse che sia il non fiatare? Questo dovrò rispondere se respirare e vivere non sono la stessa cosa. Ma è proprio di chi è morto il non fiatare, e pertanto il fiatare è proprio di chi è vivo. [II,218,20] Ma il fiatare è di chi respira, e quindi anche il respirare è proprio di chi vive. Ora, se le due cose potessero occorrere senza l’anima, non sarebbe proprio dell’anima il respirare, ma soltanto il vivere. Invece vivere è respirare, e respirare è vivere. Quindi respirare e vivere sono propri di ciò di cui è proprio il vivere, cioè dell’anima.

SVF II, 785

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 115, 6 Bruns. [II,218,25] Inoltre, se l’animo è corpo, o fuoco, o pneuma finemente particellare, esso comunque pervade il corpo animato nella sua interezza. Se è così, è manifesto che essi non diranno che l’animo è inerte o qualcosa che si comporta come capita, giacché non ogni fuoco né ogni pneuma possiede questa capacità. Pertanto esso avrà una sua propria specificità, forza naturale, facoltà o, [II,218,30] come essi dicono, tono.

SVF II, 786

Alessandro d’Afrodisia ‘In Aristot. De anima’ p. 26, 13 Bruns. Soprattutto secondo coloro che lo fanno generare da una certa qual mistura e combinazione di componenti, l’animo sarebbe o l’armonia o la sintesi armoniosa di alcuni corpi. Gli Stoici sono tra questi filosofi, poiché dicono che l’animo è pneuma che consta in qualche modo [II,218,35] di fuoco e d’aria. Anche gli Epicurei […]

SVF II, 787

Galeno ‘De morib. anim.’ 4, IV, p. 783 K. Anche l’opinione degli Stoici li include nello stesso genere di sostanza. Essi, infatti, vogliono che l’animo, come pure la facoltà vegetativa, sia un certo pneuma: più umido e più freddo quello della facoltà vegetativa; più caldo e più secco quello dell’animo. Di modo che questo pneuma [II,218,40] è il materiale peculiare dell’animo, mentre la forma specifica di tale materiale è quella di una mescolanza ben proporzionata di sostanza aeriforme e di sostanza ignea. Non si può quindi affermare che l’animo sia costituito soltanto di aria o soltanto di fuoco, e il corpo animale mai si paleserà troppo freddo o troppo caldo e neppure dominato dall’uno o dall’altro in misura eccessiva. Infatti, laddove uno dei due, [II,218,45] anche per breve tempo, ecceda la buona proporzione, l’animale, nel corso degli eccessi del fuoco, diventa preda della febbre; mentre quando a dominare nella mescolanza è l’aria, l’animale si raffredda molto, diventa livido, poco sensibile o [II,219,1] completamente insensibile. L’aria, infatti, quanto a sé è fredda, e diventa temperata grazie alla mescolanza con l’elemento igneo. Ti è dunque ormai diventato manifesto che, secondo gli Stoici, la sostanza dell’animo nasce da una mescolanza qualitativamente qualificata di aria e di fuoco; e che [II,219,5] l’intelligente Crisippo è stato reso tale a causa della ben temperata mistura di questi elementi.

SVF II, 788

Galeno ‘De morib. anim.’ 5, IV, p. 786 K. […] da parte di Eraclito, il quale così diceva: l’animo più sapiente è un secco raggio di luce; essendo a sua volta del parere che la secchezza sia causa dell’intelligente comprensione. Il nome ‘raggio di luce’ mostra in effetti proprio questo, e bisogna legittimare questa opinione come la migliore, facendosi il concetto [II,219,10] che gli astri hanno natura e sono fonte di luce e insieme sono secchi e dotati di estrema intelligenza. Se uno affermasse che ciò non appartiene loro, infatti, sembrerebbe essere incosciente dell’eccellenza degli dei.

SVF II, 789

Anonimo ‘Scholia in Hermogenem’ Reth. Gr. VII, p. 884. Gli Stoici, infatti, dicono che quello non è animo, ma che la sua genesi risulta dalla mescolanza degli elementi <fuoco e aria>. [II,219,15] Infatti il caldo, qualora predomini, fa il leone; onde, dicono, l’animo è ruggente. Qualora invece la mescolanza riunisca quantità ragionevoli e quasi pari <di fuoco e di aria>, fa l’uomo. Patrocinatore di questa opinione divenne anche Galeno.

§ 2.Dimostrazione che l’animo è corpo

Frammenti n. 790-800

SVF II, 790

[1] Nemesio ‘De nat. hominis’ c. 2, p. 46. [II,219,20] Siccome anche dello Stoico Cleante e di Crisippo ci sono riportate delle argomentazioni non spregevoli, è opportuno esporre anche le loro soluzioni, e come le risolsero i Platonici […]

2] p. 53. Crisippo afferma: [II,219,25] “La morte è separazione dell’animo dal corpo. Ora, nulla di incorporeo si separa dal corpo, giacché un incorporeo non s’appiglia ad un corpo. Ma l’animo s’appiglia e si separa dal corpo; dunque l’animo è corpo”.

SVF II, 791

Tertulliano ‘De anima’ cp. 5. Crisippo dà una mano <a Cleante>, stabilendo che i corpi non possono assolutamente [II,219,30] essere abbandonati dagli incorporei, visto che neppure sono in contatto con essi, (come dice Lucrezio: nulla che non sia corpo può toccare od essere toccato); mentre invece un corpo abbandonato dall’animo muore. Pertanto l’animo è corpo, giacché se corpo non fosse non abbandonerebbe il corpo.

SVF II, 792

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 117, 1 Bruns. [II,219,35] Non perché dell’animo si asserisce un predicato simile, per questo esso è corpo.

[2] 9. È falso il ragionamento affermante che un incorporeo non patisce insieme con un corpo, sicché l’animo non è incorporeo.

[3] 21. Neppure è sano il ragionamento affermante che [II,219,40] nulla di incorporeo si separa da un corpo; ma che l’animo si separa dal corpo; sicché l’animo non è incorporeo.

[4] 28. Neppure è vero dire che si separano una dall’altra soltanto le cose che si toccano l’un l’altra.

[5] 30. Inoltre, non è vero affermare che noi siamo esseri spiranti grazie alla presenza di ciò con cui respiriamo e che siamo esseri animati grazie all’animo. [II,220,1] E neppure è vero che se gli animali non potrebbero esistere senza lo pneuma loro connaturato, per questo motivo questo pneuma è l’animo.

SVF II, 793

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 18, 10 Bruns. È errato dire, delle parti del corpo, che è necessario che esse parti siano corpi; com’è errato dire della superficie, [II,220,5] della linea e del tempo, che le loro parti devono essere superfici, linee e tempi. E poiché forma e materia sono parti dell’animale in quanto corpo, è errato affermare che perciò anch’esse sono corpi.

[2] p. 18, 27. Né dimostra alcunché il ragionamento che dice: “Se qualcosa è parte di un corpo, allora anch’esso è corpo; e poiché la sensazione, che è una parte dell’animo, è corpo, [II,220,10] dunque anche l’animo è corpo”.

[3] p. 19, 2. Infatti, se l’animo è corpo, e corpo non come la materia; l’animo sarà formato da materia e forma, se appunto ogni corpo secondo loro è tale in ragione della materia.

SVF II, 794

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 113, 31 Bruns. Se l’animo è corpo ed ogni corpo è, per sua natura, un oggetto sensibilmente percepito [II,220,15] (parlo di corpi in atto o, com’essi dicono, fatti), pure l’animo sarebbe un oggetto sensibilmente percepibile (infatti non lo diranno essere un corpo privo di qualità, giacché sarà materia); però l’animo non lo è: dunque l’animo non è corpo.

SVF II, 795

Tertulliano ‘De anima’ cp. 8. Ma se negheranno, disse Sorano, che il mare sia corporeo, perché fuori dal mare una nave si fa pesante ed immobile? [II,220,20] Quanto è dunque più potente la corporeità dell’anima, visto che l’anima porta in giro con grande agilità un corpo in seguito così pesante?

SVF II, 796

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 221. Dicendo che l’anima è spirito vitale, <gli Stoici> dichiarano apertamente che l’anima è corpo. Se così è, un corpo si associa ad un altro corpo; e questa associazione avviene o per adesione, o per miscelazione o per aggregazione. [II,220,25] Se anima e corpo aderiscono, il risultato della loro adesione fino a che punto sarà un tutto vivente? Secondo loro, la vita sta solo nello spirito vitale, il quale se aderisse soltanto al corpo non lo permeerebbe intimamente, giacché ciò che aderisce non penetra. Ma essi sostengono che è l’intero animale a vivere, e dunque anima e corpo non sono associati per adesione. Se sono miscelati, l’anima non sarà un’entità individuale, [II,220,30] ma miscelata a molte sostanze. Ma gli Stoici dichiarano che lo spirito vitale, ossia l’anima, è un’entità individuale, e dunque anima e corpo non sono associati per miscelazione. Resta solo l’ipotesi che siano associati per aggregazione, nel qual caso i due corpi si attraversano a vicenda e l’unico luogo che il corpo occupa mostrerà la capacità di contenerne due; quando però un vaso capace di contenere una misura d’acqua non può contenere contemporaneamente una misura d’acqua ed una di vino. Dunque anima e corpo non sono associati [II,220,35] né per adesione né per miscelazione né per aggregazione: dal che si deduce che l’anima non è corpo, ma una facoltà e una potenza priva di corpo.

SVF II, 797

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 115, 32 Bruns. Ma l’animo non starebbe nel corpo come dentro un recipiente, giacché in questo modo il corpo [II,220,40] non sarebbe tutto intero animato. Ma non vi starà neppure per accostamento, giacché neppure così il corpo sarebbe tutto intero animato. […] Se l’animo è davvero dappertutto, siccome tutto il corpo è animato, allora bisogna dimostrare come un corpo possa pervaderne un altro. E poiché, secondo loro, le qualità dell’animo sono corpi e tali sono anche le qualità del corpo, ci sono molti corpi in un unico organismo, e corpi differenti uno dall’altro che lo pervadono in un identico spazio.

[2] p. 116, 13. [II,221,1] Inoltre, se anche le virtù e le arti sono corpi, quando questi corpi sopravvengono a qualcuno come mai essi non causeranno strettezze o aumenti nel corpo in cui s’insediano?

SVF II, 798

Alessandro d’Afrodisia ‘Comm. in Aristot. Topica’ II, p. 93 Ald. Se uno dice che l’animo è corpo, ne consegue che un corpo possa farsi spazio attraverso un altro corpo, [II,221,5] e che l’animo sia un elemento o sia formato da elementi.

SVF II, 799

Plotino ‘Enneadi’ IV, VII, 82, 1 segg. Se l’anima, inoltre, essendo corpo, attraversasse tutto l’organismo e gli fosse mescolata al modo che vale per la mescolanza nel caso degli altri corpi; e se la mescolanza dei corpi non permette la sussistenza in atto di nessuno dei corpi mescolati; anche l’anima, entro quegli organismi, non sarebbe più in atto ma soltanto in potenza [II,221,10] e perderebbe il suo essere anima. E come se il dolce e l’amaro fossero mescolati non c’è più il dolce, ecco che noi non abbiamo più l’anima. Essendo l’anima corpo, essa deve inoltre essere stata mescolata in tutto e per tutto all’organismo, di modo che dovunque sia l’una ci sia anche l’altro, che pari sia la mole di entrambi a formare il tutto, che non vi sia alcun aumento quando all’uno è innestata l’altra, e che nulla sia lasciato indiviso. La mescolanza non è per grandi parti [II,221,15] alternativamente a contatto l’una dell’altra (essi affermano che così si tratterà di ‘accostamento’), bensì si ha quando il corpo innestato, anche se è più piccolo, ha attraversato e permeato interamente l’altro (il che è impossibile, perché il corpo più piccolo non può diventare pari al corpo più grande, eppure il corpo che ha attraversato e permeato l’altro lo avrebbe tagliato tutto dappertutto). […] Pertanto è impossibile che un corpo si faccia spazio in tutto e per tutto attraverso un altro; ma l’anima si fa spazio attraverso l’intero organismo; dunque l’anima è incorporea.

SVF II, 800

Longino presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, p. 823a. [II,221,20] Delle capacità dell’anima non si trova orma alcuna né prova nei corpi, anche se qualcuno, come Epicuro e Crisippo, si farebbero un punto d’onore di smuovere ogni pietra e di inquisire ogni facoltà del corpo alla ricerca della genesi delle capacità dell’anima.

[II,221,25] § 3.I moti dell’animo

Frammenti n. 801-803

SVF II, 801

Giamblico ‘De anima’ presso Stobeo ‘Eclogae’ I, 371, 22 W. Non convengono con costoro quanti concepiscono l’animo come corpo, per esempio, gli Stoici e numerosi altri. […] Tutti questi filosofi attribuiscono all’animo moti di natura corporea.

SVF II, 802

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ II, 4 (p. 77 Aucher). Il nostro [II,221,30] corpo, invece, composto com’è di molte parti, possiede un’unità tanto estrinseca quanto intrinseca e sta insieme per costituzione sua propria; sicché la capacità di connettere le parti che prima <abbiamo riconosciuto nella pece> qui appartiene all’anima. Essa è situata al centro <del corpo> e di qui si diffonde fino alla sua superficie e poi dalla superficie ritorna al centro, in modo tale che un’unica natura spirituale avviluppa il corpo [II,221,35] con un doppio legame per una sua più salda e solida unità.

SVF II, 803

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Exodum’ II, 120 (p. 547 Aucher). Il moto dell’anima è un moto autonomo, come concordano nel dire soprattutto i filosofi della Stoa.

[II,222,1] § 4. L’animo nasce da un raffreddamento

Frammenti n. 804-808

SVF II, 804

Plotino ‘Enneadi’ IV, VII, 83, 1 segg. Il dire che lo stesso identico pneuma è dapprima ‘facoltà vegetativa’ che, quando si trovi al freddo e nel freddo sia temprato, diventa ‘animo’ perché al freddo è diventato più fino, è già un’assurdità. [II,222,5] Infatti, molti esseri viventi nascono in un ambiente caldo ed hanno un’anima che non è stata raffreddata, benché essi affermino che la facoltà vegetativa viene prima dell’anima, e che l’anima diventa tale per un insieme di circostanze esteriori. Avviene così ad essi di mettere al primo posto ciò ch’è peggiore, e prima di questo qualcosa di ancora più infimo che chiamano ‘forza di coesione’, e di mettere per ultima la mente, che deriva manifestamente dall’anima.

SVF II, 805

Tertulliano ‘De anima’ cp. 25. <… avversari audaci come> quelli [II,222,10] che presumono che l’anima non sia concepita nell’utero né si componga e produca quando si foggia la carne, ma che, a parto avvenuto, essa si introduca nel neonato che ancora non respira provenendo dall’esterno. Secondo loro, il seme rimasto sequestrato nei genitali femminili dopo l’accoppiamento e qui vegetato per moto naturale, si compatta in un’unica massa carnea. Allorché questa esce dall’utero come da una fornace, è fumante e resa fluida dal calore. [II,222,15] Però poi come un ferro incandescente che sia subito tuffato in acqua fredda, questa carne, colpita dall’aria gelida, assume la tempra dell’anima, e a questo punto emette un vagito. Così dicono gli Stoici, e con essi Enedesimo.

SVF II, 806

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1052f. Egli <Crisippo> ritiene che il feto sia nutrito dalla natura nell’utero come un vegetale. Quando poi è partorito, [II,222,20] allora lo pneuma, raffreddato dall’aria e temprato, si trasforma e diventa ‘animale’. Laonde non fuor di modo esso è stato denominato ‘animo’ a causa del suo ‘raffreddamento’. Ancora lui ritiene, contraddicendosi, che “l’animo è lo pneuma della facoltà vegetativa, ma più diradato e più finemente particellare”.

[2] p. 1053d. [II,222,25] Il suo ragionamento sulla genesi dell’animo ha una dimostrazione che contraddice i principi dottrinali. Infatti, egli afferma che l’animo nasce quando il feto è partorito, come se lo pneuma si trasformasse per tempra ad opera del forte raffreddamento; e poi utilizza come dimostrazione della nascita dell’animo e del suo essere generato per ultimo, soprattutto il fatto che per modi e carattere [II,222,30] i figli assomigliano ai genitori. […] Se uno affermasse che la somiglianza s’ingenera dalle mescolanze dei corpi e che gli animi nati si trasformano, manda in rovina la prova della generazione dell’animo, giacché allora è fattibile sostenere che l’animo non è generato, ma che esso, quando sopraggiunge ed entra nel corpo del neonato, si trasforma [II,222,35] per influenza della mescolanza costitutiva della somiglianza.

[3] ‘De primo frigido’ p. 946a. Gli Stoici dicono che anche lo pneuma nei corpi dei feti è temprato dal raffreddamento <successivo alla nascita> e che esso, mutando natura, diventa il loro animo.

[4] Porfirio ‘De anima’ presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, p. 813c. [II,223,1] Come può non traboccare di vergogna chi attribuisce all’anima d’essere una certa forma di pneuma o di fuoco cognitivo, acceso e temprato da un forte raffreddamento, come un bagno, d’aria?

[5] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1084e. Essi fanno generare [II,223,5] l’entità più calda da un forte raffreddamento, e quella più finemente particellare da un infittimento. Infatti, l’animo è appunto l’entità più calda e più finemente particellare, che essi fanno nascere da un forte raffreddamento e infittimento del corpo, visto che lo pneuma si trasforma per tempra, diventando da pneuma vegetale pneuma animale. Essi dicono che anche il sole diventa ‘animato’ quando l’umidità si trasforma in fuoco cognitivo.

SVF II, 807

Ippolito ‘Refutationes’ 21, (Dox. Gr. p. 571). [II,223,10] <Gli Stoici, Crisippo e Zenone> dicono che l’anima è immortale ma che è corpo, che nasce dal forte raffreddamento dell’aria circostante, e che per questo motivo si chiama anima. Essi ammettono anche la trasmigrazione delle anime in corpi diversi, dato che le anime sono in numero definito.

SVF II, 808

Origene ‘De principiis’ II, cp. 8, p. 96 Delarue. [II,223,15] Ritiene che il nome ‘anima’ derivi dal ‘raffreddamento’.

§ 5.L’animo non è immortale ma sopravvive alla morte

Frammenti n. 809-822

SVF II, 809

Ario Didimo ‘Epit. phys.’ Dox. Gr. p.471. <Gli Stoici> dicono che l’animo è generato e perituro. Esso non perisce però subito dopo il suo disimpegno dal corpo, ma persiste di per se stesso per un certo tempo. [II,223,20] L’animo dei virtuosi persiste sino alla risoluzione dell’universo nel fuoco; quello degli stolti, invece, soltanto per un certo lasso di tempo. Essi dicono anche che il perdurare degli animi avviene così: una volta diventati animi in seguito alla separazione dal corpo, noi perduriamo perché ci trasformiamo in una sostanza che è di mole minore, cioè la sostanza dell’animo; mentre invece gli animi degli stolti e degli animali bruti vanno perduti insieme con i corpi.

SVF II, 810

[1] Aezio ‘Placita’ IV, 7, 3. [II,223,25] Gli Stoici sono del parere che quando l’animo se ne va via dal corpo non perisce ancora; e che l’animo più debole (che è quello degli esseri ineducati) diventa una sostanza composta evanescente, mentre l’animo più potente (qual è quello dei sapienti) vive fino al momento della conflagrazione universale.

[2] Teodoreto ‘Graec. affect. cur.’ V, 23, p. 73, 24. Gli Stoici affermavano che gli animi pur separati dai corpi [II,223,30] vivono di per se stessi; ma che l’animo più debole vive per poco tempo, mentre quello più potente vive fino al momento della conflagrazione universale.

SVF II, 811

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 154. Cleante sostiene che tutti gli animi continuano ad esistere fino alla conflagrazione universale; per Crisippo, invece, [II,223,35] soltanto gli animi dei sapienti.

SVF II, 812

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 71. La concezione che essi hanno degli dei non è di questo genere né poneva a suo supporto una contraddizione, ma appariva invece loro in armonia con la realtà dei fatti. Non è contingente, in effetti, [II,224,1] sottintendere che gli animi si portino verso il basso, giacché essi sono finemente particellari e non meno ignei che di natura aerea, sicché data la loro leggerezza si portano piuttosto verso i luoghi elevati. Essi poi perdurano di per se stessi e non si disperdono a mo’ di fumo una volta licenziati dai corpi, come diceva Epicuro; giacché in precedenza non era il corpo a sorreggerli e mantenerli [II,224,5] insieme, ma erano gli animi ad essere causa della permanenza in vita del corpo e, ancor prima, della loro stessa permanenza. Una volta scorporatisi e usciti alla luce del sole, gli animi vanno ad abitare lo spazio sublunare e qui, a causa della limpidezza dell’aria, si prendono molto più tempo di sopravvivenza; usano per proprio nutrimento, come fanno anche i restanti astri, l’esalazione che sale dalla terra; e non hanno in quei luoghi agente alcuno che li dissolva. [II,224,10] Se dunque gli animi perdurano, essi diventano demoni; e se ci sono demoni, allora bisogna dire che esistono gli dei […]

SVF II, 813

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VII, 20. Adesso qualcuno potrebbe dire: “Se l’anima è immortale, come può essere condannata al supplizio e provare il rigore della pena?” […] A questa questione od obiezione degli Stoici si risponde così. Le anime degli uomini sopravvivono e non si risolvono in nulla al momento della morte. [[II,224,15] Ora, le anime di coloro che in vita furono giusti: anime pure, impassibili e beate, ritornano alla sede celeste da cui ebbero origine, oppure sono subito condotte in certi campi fortunati dove godono di straordinari piaceri. Invece le anime degli empi che si sono macchiati di brame malvage, assumono una natura intermedia tra l’immortale e la mortale. Essendo state contagiate dalla carne, queste anime si mantengono [II,224,20] deboli e, dedite com’erano ai desideri libidinosi di quella, si portano dietro belletti e sozzure terrene indelebili. Data la lunga frequentazione, queste sozzure hanno aderito a fondo all’anima e ne sono diventate quasi la natura. Questa natura, seppur non stravolta del tutto dato che le anime sono pur sempre di origine divina, tuttavia le rende sensibili ai supplizi e al dolore, a causa delle macchie lasciatevi dal corpo e impressevi dai peccati.

SVF II, 814

[1] Tertulliano ‘De anima’ cp. 54. Quasi tutti i filosofi, sia pur con specifiche differenze, rivendicano l’immortalità dell’anima, come Pitagora, Empedocle e Platone. Alcuni le concedono pure un certo periodo di sopravvivenza, compreso tra la morte e la conflagrazione universale, come gli Stoici. Tutti però collocano soltanto le proprie anime, [II,224,30] in quanto anime di sapienti, nelle sedi più elevate […] Così, per Platone, le anime dei sapienti salgono su fino all’etere, per Ario si fermano nell’aria, e per gli Stoici appena sotto la luna […] invece le altre anime le fanno finire negli inferi […]

[2] cp. 55. Ma il nostro eterno sonno avrà come sede l’etere […] oppure i luoghi [II,224,35] intorno alla luna con gli Endimioni degli Stoici?

SVF II, 815

‘Scholia’ in Hom. Iliad. 23, 65. Egli rielabora fin nei dettagli l’apparenza superficiale del sogno, giacché per Achille il modello dell’amico è fresco nella memoria. È a partire da questa constatazione che Antistene afferma che gli animi prendono lo stesso aspetto dei corpi che li includono e che Crisippo opina che dopo la loro separazione dai corpi [II,224,40] essi prendono forma sferica.

SVF II, 816

Girolamo ‘Epistola CVIII ad Eustochio’ 23. Senti parlare di ossa, carne, piedi e mani; e tu mi chiacchieri delle sfere degli Stoici di certe stravaganze fatte d’aria.

SVF II, 817

[1] ‘Commenta Lucani’ Lib. IX, 1 p. 289 Us. <Ma l’animo di Pompeo non giacque tra le braci di Faro>: alcuni, e tra di loro Epicuro, stimano che gli animi, [II,224,45] non appena si separano dai corpi si dissolvono compongono nei loro costituenti. [II,225,1] Altri invece stimano che gli animi abbiano una loro consistenza e che una volta usciti dal corpo permangano come tali e che soltanto dopo un certo tempo si dissolvano. Quest’ultima è l’opinione degli Stoici.

[2] p. 290 Us. Qui si mescola la dottrina degli Stoici con quella di Platone. Gli Stoici stimano che gli animi degli uomini virtuosi vaghino nell’aria a mo’ dei corpi celesti e che siano immortali come essi, nel senso che non muoiono [II,225,5] ma che si risolvono in altro. Per Platone essi neppure si risolvono in altro.

SVF II, 818

‘Commenta Lucani’ Lib. VIII, 816 p. 252 Us. Non andrai più in alto nel cielo: finché viviamo, siamo separati, mentre quando siamo morti siamo tutti un solo uomo. [II,225,10] Qui egli tocca le due scuole degli Epicurei e degli Stoici.

SVF II, 819

Origene ‘Contra Celsum’ I, Vol. I, p. 66, 2 K. È come se noi dicessimo che il Platonico, poiché crede nella immortalità dell’anima ed a quanto si dice di essa circa la trasmigrazione in corpi diversi, è incorso nell’accusa di stupidità da parte degli Stoici, i quali si fanno beffe dell’assenso a tali credenze.

SVF II, 820

Seneca ‘Epistulae morales’ LVII, 7. Ora tu credi che io [II,225,15] mi riferisca agli Stoici, i quali sono convinti che l’anima di un uomo fatto a brandelli da un grande peso che l’ha schiacciato non possa durare e subito si sparpagli perché non ha potuto avere una libera via d’uscita?

SVF II, 821

Ario Didimo ‘Epit. phys.’ Dox. Gr. p.471. Essi affermano che il cosmo nella sua interezza ha un animo, che chiamano etere e aria, il quale circonda la terra e il mare [II,225,20] e che è esalato da questi ultimi. I restanti animi appartengono naturalmente a quest’animo, sia quanti si trovano negli animali sia quanti si trovano nell’ambiente circostante, giacché ivi sopravvivono gli animi dei defunti. Taluni sostengono che l’animo del cosmo è sempiterno, e che gli altri animi alla fine si mescolano insieme ad esso. Ogni animo ha in sé un egemonico, il quale è vita, sensazione, impulso.

SVF II, 822

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ I, 77. Gli Stoici, al contrario, [II,225,25] ci elargiscono del tempo in prestito, come alle cornacchie, e dicono che gli animi umani permarranno a lungo ma non sempre.

§ 6. Sulle parti e le facoltà dell’animo

Frammenti n. 823-833

SVF II, 823

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 118, 6 Bruns. Bisogna mostrare come non sia vero che “una sola è la facoltà dell’animo, e quest’unica facoltà, a seconda del modo in cui si atteggia, a volte pensa, [II,225,30] a volte si adira, a volte smania e a volte no”.

SVF II, 824

Temistio ‘Paraphr. in Aristot. De anima’ I, 1, p. 5 Sp. Alcuni sono del parere che l’animo abbia molteplici facoltà pur essendo formato da un unico substrato. Altri, come gli Stoici, sono invece del parere che l’animo abbia molteplici parti e le definiscono dai suoi ambiti d’azione.

SVF II, 825

Giamblico ‘De anima’ presso Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 373, 15 W. [II,225,35] In proposito bisogna capire che gli Stoici mescolano insieme tutte le attività di qualsivoglia sorta d’animo, da quella delle entità che richiedono d’essere governate a quella dei corpi inanimati. I Platonici, invece, non tutte.

SVF II, 826

[1] Giamblico ‘De anima’ presso Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 367, 17 W. [II,225,40] I filosofi seguaci di Crisippo e di Zenone e tutti quanti pensano che l’animo sia corpo, accomodano insieme le facoltà come qualità nel substrato e propongono l’animo come sostanza preesistente alle facoltà; [II,226,1] e da entrambi questi assunti deducono una natura composta da elementi dissimili.

[2] p. 368, 6. Secondo coloro per i quali vi è una sola vita dell’animo, quella del composto, cioè dell’animo mescolato con il corpo, come dicono gli Stoici, […] [II,226,5] per costoro uno soltanto è il modo della comparsa di tali facoltà: quello che consiste nel partecipare o nel risultare mescolate all’intero essere vivente. E come le distinguono? Secondo gli Stoici, talune facoltà si distinguono per la differenza dei corpi che ne sono oggetto. Essi affermano, infatti, che diverse correnti di pneuma si estendono dall’egemonico: alcune verso gli occhi, altre verso le orecchie, altre ancora verso altri organi di senso. Talune facoltà si distinguono [II,226,10] inoltre per la peculiarità della qualità del substrato stesso; giacché come la mela racchiude in un identico corpo dolcezza e fragranza, così l’egemonico comprende in sé rappresentazione, assenso, impulso, ragionamento.

SVF II, 827

Aezio ‘Placita’ IV, 4, 4. Gli stoici affermano che l’animo consta di otto parti: [II,226,15] i cinque organi di senso ossia la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto e il tatto. Sesta viene la fonazione e settima è quella relativa alla riproduzione sessuale. Ottava parte è l’egemonico stesso, a partire dal quale tutte queste facoltà si prolungano attraverso gli organi loro propri a somiglianza dei tentacoli di un polipo.

SVF II, 828

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 110. [II,226,20] Essi affermano che l’animo ha otto parti, giacché ne sono parti i cinque organi di senso, l’apparato della fonazione e quello dianoetico, che è poi l’intelletto stesso, e la parte relativa alla riproduzione sessuale.

[2] VII, 157. Essi parlano di otto parti dell’animo: i cinque sensi, le ragioni seminali che sono in noi, l’apparato della fonazione e quello raziocinante.

SVF II, 829

Origene ‘Contra Celsum’ V, 47, Vol. II, p. 51, 19 K. [II,226,25] Altro è la giustizia secondo Epicuro e altro è la giustizia secondo gli Stoici, i quali negano la tripartizione dell’anima.

SVF II, 830

Porfirio ‘De anim. facult.’ presso Stobeo ‘Eclogae’ I, 350, 13 W. Ora, gli Stoici pongono l’esistenza di otto parti dell’animo, ed assumono che cinque di esse [II,226,30] siano gli organi di senso, la sesta sia l’apparato della fonazione, la settima la parte relativa alla riproduzione sessuale, e che l’ultima sia rappresentata dall’egemonico. Per quest’ultimo ipotizzavano un rango di comandante mentre attribuivano alle altre parti il ruolo di subalterni, cosicché l’animo stesso consta di una parte che comanda e di parti comandate.

SVF II, 831

Giamblico ‘De anima’ presso Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 369, 5 W. I seguaci [II,226,35] di Zenone opinano che l’animo sia diviso in otto parti, ma che le sue facoltà siano molte di più: per esempio, nell’egemonico esisterebbero la rappresentazione, l’assenso, l’impulso, il ragionamento.

SVF II, 832

Filone Alessandrino ‘Quaestiones et solutiones in Genesin’ I, 75 (p. 49 Aucher). La nostra anima consta di otto parti: la parte razionale è unica, e quella irrazionale abitualmente è distinta in [II,227,1] sette parti: i cinque sensi, l’organo della fonazione e gli organi genitali.

SVF II, 833

[Filone Alessandrino parla in più occasioni della suddivisione dell’anima in otto parti. Il frammento non fornisce altro che uno scarno e brevissimo indice di alcuni di tali riferimenti] [II,227,5]

§ 7. Sull’egemonico o parte principale dell’animo

 Frammenti n. 834-849

SVF II, 834

Filone Alessandrino ‘De animalibus adv. Alexandrum’ p. 170 Aucher. Non vedi che nessuno accusa mai il neonato per una sua azione qualsiasi, visto [II,227,10] che egli non ha ancora l’età della ragione? Però nel fanciullo, anche se risulta ancora imperfetto, poiché l’uomo è per natura un essere razionale, dopo alquanto tempo sorgerà la ragione, pur se il bambino, avendo accolto i semi della sapienza da poco, non può svilupparla completamente. Le potenze seminali, poi, come scintille in un bosco alimentate dal vento, [II,227,15] crescono con lui e a tempo debito prendono vigore e gli aderiscono. Le anime degli altri animali, invece, non avendo in sé il lume della ragione non possono acquisire la capacità di deliberare.

SVF II, 835

Giamblico ‘De anima’ presso Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 317, 21 W. Circa la mente e tutte le facoltà superiori dell’animo, gli Stoici [II,227,20] dicono che la ragione non si innatura subito ma che si raguna a partire dalle sensazioni e dalle rappresentazioni intorno ai quattordici anni d’età.

SVF II, 836

[1] Aezio ‘Placita’ IV, 21. Come l’animo diventa capace di sensazione e cos’è il suo egemonico. Gli Stoici affermano che la parte più alta dell’animo è l’egemonico, quello che produce le rappresentazioni, gli assensi, le sensazioni, [II,227,25] gli impulsi, e chiamano questa parte pensiero. Dall’egemonico spuntano fuori e si distendono verso il corpo come i tentacoli del polipo, le sette parti dell’animo. Delle sette parti dell’animo, cinque sono gli organi di senso: vista, olfatto, udito, gusto e tatto. Di essi, la vista è una corrente di pneuma che si estende dall’egemonico fino agli occhi; [II,227,30] l’udito è una corrente di pneuma che si estende dall’egemonico fino alle orecchie; l’olfatto è una corrente di pneuma che si estende dall’egemonico fino alle narici; il gusto è una corrente di pneuma che si estende dall’egemonico fino alla lingua; il tatto è una corrente di pneuma che si estende dall’egemonico fino alla superficie tattile sensibile ai corpi che la incolgono. Delle parti restanti, una si chiama ‘sperma’; ed è anch’essa una corrente di pneuma [II,227,35] che si estende dall’egemonico fino ai testicoli. La parte detta da Zenone ‘vocale’ e che essi chiamano anche ‘voce’, è una corrente di pneuma che si estende dall’egemonico fino alla faringe, alla lingua e agli organi propri della fonazione. L’egemonico in quanto tale, come il sole dimora nello sferico cosmo, così dimora nella nostra testa che è anch’essa di forma sferica.

[2] Seneca ‘Epistulae morales’ CXIII, 23. Tra Cleante [II,227,40] e il suo discepolo Crisippo non c’è accordo su cosa sia l’atto del ‘camminare’. Cleante afferma che è uno spirito vitale spedito dall’egemonico fino ai piedi; Crisippo invece che è l’egemonico stesso che si estende fino ai piedi.

SVF II, 837

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 159. [II,228,1] L’egemonico è la parte dominante dell’animo, quella nella quale nascono le rappresentazioni e gli impulsi, ed alla quale si fa risalire la ragione. L’egemonico ha sede nel cuore.

SVF II, 838

Aezio ‘Placita’ IV, 5, 6. Tutti gli Stoici affermano che l’egemonico ha sede nel cuore intero o nel pneuma che [II,228,5] circonda il cuore.

SVF II, 839

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 97, 8 Bruns. Che l’anima sensitiva, come pure quella nutritiva, abbia sede intorno al cuore […] sarebbe comprensibile da queste argomentazioni. Ma laddove vanno a finire le sensazioni è necessario che abbia sede anche [II,228,10] l’anima capace di rappresentazioni, […] ma dove ha sede la rappresentazione, qui hanno sede anche gli assensi; e dove hanno sede gli assensi, qui hanno sede anche gli impulsi e i desideri.

[2] p. 98, 24. Che il pezzo raziocinante dell’anima, che si chiama anche propriamente egemonico, abbia anch’esso sede nel cuore potrebbe essere mostrato […] [II,228,15]

SVF II, 840

Stobeo ‘Florilegium’ 3, 66. Di Crisippo. Lo Stoico Crisippo affermava che l’intelletto è la sorgente del discorso razionale.

SVF II, 841

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 3, p. 421 M. [In un libro dal titolo ‘Il terapeutico delle passioni’, Crisippo aveva detto]: [II,228,20] “Ci sono parti dell’animo attraverso le quali si costituisce la ragione che in esso è”. [Galeno cerca di enucleare da altri libri di Crisippo di quali parti dell’animo si tratti]. Forse tu intendi rimemorarci le cose scritte nei libri ‘Sulla ragione’, nei quali tu discutesti del fatto che “l’animo è una raccolta di concetti e di prolessi”. Ma se tu ritieni che ciascun concetto e ciascuna prolessi sia un pezzo dell’animo, sei in errore due volte. [II,228,25] Infatti, in primo luogo sarebbe d’uopo essere dell’avviso che essi sono pezzi non dell’animo ma della ragione, come scrivi nella tua trattazione circa la ragione. Infatti, animo e ragione non sono affatto la stessa cosa; e con il tuo antecedente discorso hai mostrato che la ragione è soltanto una delle facoltà che si costituiscono nell’animo; e pertanto non sono la stessa cosa l’animo e ciò che si costituisce nell’animo. [II,228,30] In secondo luogo […] non bisogna chiamare i concetti e le prolessi pezzi dell’animo […] I concetti e le prolessi sono attività dell’animo, come tu stesso insegni puntigliosamente in altri libri; mentre sono pezzi dell’animo lo pneuma acustico e ottico e, oltre a questi, lo pneuma vocale e quello generativo; e più d’ogni altro l’egemonico, [II,228,35] nel quale tu affermavi che consiste la ragione. […] Ora, questo pneuma possiede due pezzi o elementi o condizioni interamente mescolati tra di loro: il freddo e il caldo; e se uno volesse designarli con altri nomi tratti dalle sostanze, aria e fuoco. Ciò nonostante esso ha aggiunta in più una certa umidezza, che trae dai corpi [II,228,40] entro i quali si trova a campare.

SVF II, 842

Filone Alessandrino ‘De sacrificiis Abelis et Caini’ 137, I, p. 256, 22 Wendl. […] Perché l’egemonico, il quale di momento in momento cambia più volte direzione sia [II,229,1] verso il bene sia verso il male, accoglie modelli sempre cangianti ora di conio pulito e valido, e ora d’una moneta falsa e di cattivo conio. Il luogo del corpo che ha accolto entrambi i contraddittori, il bene e il male, che è imparentato ad entrambi e che assegna ad entrambi lo stesso onore […][II,229,5] il legislatore l’ha fatto scendere giù dall’altare divino. [Filone è incerto sulla sede, il cuore o il cervello, dell’egemonico] : se appunto anche secondo il legislatore è stato ammesso che l’egemonico risiede in uno di questi due organi.

SVF II, 843

[1] Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ I, 59, I, p. 75, 25 Wendl. Alcuni dicono che il cuore è stato chiamato albero della vita poiché è la causa del vivere, ed ha avuto in sorte la [II,229,10] zona mediana del corpo; come se ne fosse, secondo loro, l’egemonico.

[2] I, 61, I. Il nostro egemonico è onnirecettivo e somiglia alla cera che accoglie ogni impressione, sia buona sia cattiva.

SVF II, 844

Filone Alessandrino ‘Legum allegoria’ I, 30, I, p. 68 Wendl. Infatti, l’essere vivente soverchia il non vivente per due aspetti: la rappresentazione e l’impulso. La rappresentazione consiste [II,229,15] nell’entrata di ciò che è esterno a modellare la mente attraverso la sensazione. L’impulso, fratello della rappresentazione, consiste nella facoltà della mente di tendersi dinamicamente, e tendendo l’impulso attraverso la sensazione, essa s’accosta all’oggetto esterno e procede verso di esso, agognando di essergli addosso e di comprenderlo.

SVF II, 845

Tertulliano ‘De carne Christi’ cp. 12. Io opino che la natura dell’anima sia sensibile. Visto che nessun animale è privo di sensibilità, [II,229,20] nulla dotato di sensibilità è senz’anima. […] Quindi, poiché l’anima fornisce a tutti la facoltà di sentire, ed essa stessa sente la sensibilità nonché le qualità di tutti; per chi è verosimile credere che essa fin dalla nascita non abbia in sorte di avere sensibilità di se stessa? Come potrebbe di volta in volta sapere quel che le è necessario di una necessità naturale, se non conosce la propria qualità e cosa le sia necessario? [II,229,25] Ciò va riconosciuto ad ogni anima, ossia la coscienza di sé, senza la quale nessun’anima potrebbe svolgere le proprie funzioni. Reputo poi che tu tenga conto del fatto che tanto più l’uomo, l’unico animale razionale, abbia avuto in sorte l’anima che lo fa essere un animale razionale, proprio perché essa stessa lo è per prima. Inoltre, come potrebbe essere razionale l’entità che fa l’uomo razionale, [II,229,30] se essa non conosce la propria razionalità ed ignora se stessa?

SVF II, 846

Plutarco d’Atene presso Olimpiodoro ‘In Plat. Phaed.’ p. 155, 20 segg. Norvin. Perché non è l’anima che tramuta se stessa in apprensione certa dei fatti oppure in inganno su di essi, come dicono gli Stoici. Come può l’anima essere causa a se stessa di conoscimento oppure di ignoranza se non li possiede ancora come suo principio?

SVF II, 847

[1] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1084f. [II,229,35] Il concetto è una rappresentazione, e la rappresentazione è un’impronta nell’animo. Natura dell’animo è quella di essere un’esalazione che è difficile e laboriosa da modellare a causa della sua radezza, ed è impossibile che essa serbi l’impronta che ha accolto. Infatti, poiché trae il suo nutrimento e la sua genesi da sostanze umide, l’animo è in continua accrezione e in continua spendita; e la mistione del respiro con l’aria fa sempre nuova l’esalazione, [II,229,40] che si altera e tramuta ad opera del canale d’aria che dal di fuori vi affluisce e poi ne defluisce.

[2] p. 1085a. Ma essi <gli Stoici> sono così disattenti a quel che dicono da definire i concetti come delle intellezioni messe bene in disparte, i ricordi come impressioni durature e stabilizzate; da fissare assolutamente le scienze come conoscenze dotate di immutabilità e saldezza, [II,229,45] e poi da sottoporre loro come base […] una sostanza […] sempre portata su e giù e sempre in fluire.

SVF II, 848

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1084a. [II,230,1] È completamente assurdo che gli Stoici, mentre fanno delle virtù e dei vizi, e oltre a questi delle arti e di tutti i ricordi, e inoltre delle rappresentazioni, delle passioni, degli impulsi e degli assensi, dei corpi; affermino però che essi non giacciono in alcun corpo né che esiste per essi un luogo, [II,230,5] riservando loro soltanto quel poro puntiforme nel cuore dove costipano l’egemonico dell’animo, il quale rattiene in sé una tale quantità di corpi che una gran moltitudine di essi è sfuggita a quanti reputano di demarcarli e distinguerli uno dall’altro. Il farne poi non soltanto dei corpi ma anche degli esseri animati dotati di ragione […] è un fatto di iperbolica […] illegalità ai danni della consuetudine. […] Ed oltre a questo […] [II,230,10] essi fanno diventare corpi ed esseri viventi pure le attività.

SVF II, 849

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 307. Sì, affermano gli Stoici, ma intelletto e sensazione sono la stessa facoltà. Non però in un unico senso: ma intelletto se vista in un senso e sensazione se vista in un altro. Allo stesso modo in cui la stessa tazza si può dire concava e convessa, però non nello stesso senso: ma in un senso concava, [II,230,15] guardando alla sua curvatura verso la parte interna; e in un altro senso convessa, guardando alla sua curvatura verso l’esterno; e come la stessa strada può essere pensata in ascesa e in discesa: in ascesa per coloro che la ascendono e in discesa per coloro che la discendono; così la stessa facoltà in un certo senso è mente e in un altro senso è sensazione; e poiché si tratta della stessa facoltà, essa non è preclusa dalla predetta apprensione delle sensazioni.

[2] VII, 359. [II,230,20] Ma taluni Dogmatici vanno blaterando anche al presente la stessa rimbeccata sopra ricordata, dicendo che queste differenti parti dell’animo -cioè quella razionale e quella irrazionale – non sono state separate ma, come il miele è in tutto e per tutto fluido e dolce, così pure l’animo in tutto e per tutto possiede due facoltà che procedono parallelamente una all’altra e delle quali una è razionale e l’altra è irrazionale. [II,230,25] Così quella razionale è mossa dagli intelligibili, mentre quella irrazionale è percettiva degli oggetti sensibili. Laonde è da matti dire che l’intelletto o, come comunemente si dice, l’animo non possa essere percettivo dell’una e dell’altra di queste differenti faccende; giacché, avendo l’animo una struttura differenziata, subito esso sarà percettivo di entrambe.

[II,230,30] § 8. Come avvengono le sensazioni

Frammenti n. 850-862

SVF II, 850

Aezio ‘Placita’ IV, 8, 1. Gli Stoici definiscono così la sensazione: la sensazione è un’appercezione o apprensione attraverso un organo di senso. La sensazione è chiamata in molti modi: postura, facoltà, attività. Anche la rappresentazione diventa catalettica proprio nell’egemonico dopo essere passata attraverso un organo di senso. E le correnti di pneuma sensibile [II,230,35] a loro volta si dicono cognitive quando sono tese dall’egemonico verso gli organi di senso.

SVF II, 851

Aezio ‘Placita’ IV, 8, 8. Gli Stoici sostengono che le sensazioni sono corpi.

SVF II, 852

Aezio ‘Placita’ IV, 8, 7. Gli Stoici designano come tatto interiore questa comune sensazione per la quale noi abbiamo la percezione di noi stessi.

SVF II, 853

Aezio ‘Placita’ IV, 10, 1. [II,230,40] Gli Stoici sostengono l’esistenza di cinque sensazioni specifiche: vista, udito, olfatto, gusto, tatto.

SVF II, 854

Aezio ‘Placita’ IV, 23, 1. [II,231,1] Gli Stoici sostengono che i patimenti fisici hanno sede nei luoghi che li sperimentano, mentre le sensazioni hanno sede nell’egemonico.

SVF II, 855

Galeno ‘De symptom. causis’ I, 8, Vol. VII, p. 139 K. Circa gli organi di senso nel loro complesso e circa le facoltà che li riguardano, [II,231,5] mi pare che il discorso sia giunto al termine. È ora tempo di portare il discorso sull’organo che è loro causa primissima e che, come da una sorgente, manda a ciascun particolare organo di senso le sue proprie facoltà. Questo è davvero il primo dei sensi. Infatti, negli organi di senso particolari il cambiamento originato dagli oggetti sensibili si realizza in ciascuna delle sensazioni, ma il pezzo che cambia diventa sensitivo di questo cambiamento solo a partire dal momento in cui accoglie [II,231,10] in sé la facoltà che scende fino a lui dal cervello attraverso il sistema nervoso.

SVF II, 856

[1] Galeno ‘De locis affectis’ I, 7, VIII, p. 66 K. A questo riguardo gli organi dei vegetali sono completamente differenti dagli organi degli esseri animati, appunto perché fu mostrato come per i vegetali la facoltà di movimento attivo è connaturata all’organo, mentre per gli esseri animati, invece, essa scorre a partire da una causa prima in modo simile ad una luce solare. [II,231,15] […] Infatti i topi, poiché non hanno connaturato negli organi la causa prima della sensazione e del movimento, hanno sempre bisogno dei nervi, i quali forniscono loro sensazione e movimento come il sole fornisce i suoi raggi di luce a tutti i corpi che illumina.

[2] IV, 1, VIII, p. 218 K. [Galeno afferma che la facoltà visiva scompare] qualora [II,231,20] lo pneuma che ha natura di luce cessi di affluire <agli occhi>, in parte o del tutto, dalla sua causa cerebrale.

SVF II, 857

Galeno ‘De locis affectis’ II, 5, VIII, p. 127 K. Se si vuol fare un discorso vero bisogna concepire proprio questo, ossia che l’egemonico dell’animo vede e ode, ma vede grazie agli occhi e ode grazie alle orecchie. [II,231,25] Tuttavia per concettualizzare, ricordare, conteggiare, proairesizzare, l’egemonico non sfrutta né gli occhi né le orecchie né la lingua né alcun altro organo.

SVF II, 858

Plotino ‘Enneadi’ IV, Lib. VII, 7. Qualora di un uomo si dica che gli fa male un dito, essi manifestamente ammetteranno che la doglia è certo nel dito, ma sosterranno che la sensazione di avere male nasce nell’egemonico. [II,231,30] Pur essendo un altro pneuma quello della parte che prova dolore, l’egemonico se ne accorge e tutta l’anima sperimenta la stessa cosa. Come mai avviene ciò? Per comunicazione, essi affermeranno, giacché primieramente lo pneuma animato che è nel dito sperimenta la doglia, ma poi questo ne fa parte allo pneuma che gli è contiguo e questo ne fa parte ad un altro ancora, fino a raggiungere l’egemonico.

SVF II, 859

Galeno ‘De instrum. odoratus’ 3, Vol. II, p. 862 K. [II,231,35] La natura ha dunque fatto l’organo della vista specifico al massimo grado per la luminosità, come qualcosa che s’accorga soltanto di raggi e di luce; e quello dell’udito specifico per ciò che è aeriforme, perché era sua intenzione che esso fosse sensibile ai rumori nell’aria. Allo stesso modo l’organo che fa la diagnosi dei sapori, la lingua, la natura lo lavorò a partire dalla specie elementare più umida del nostro corpo. [II,231,40] Frammezzo all’organo dell’udito e a quello del gusto c’è l’organo dell’olfatto, il quale non è così raffinato come l’orecchio né così grossolano come la lingua. Sostanze odorose sono tutte quelle che spargono odore di sé spandendosi da ciascun corpo.

SVF II, 860

[1] Galeno ‘De usu partium’ VIII, 6, Vol. III, p. 639 K. Sono pertanto quattro [II,231,45] gli organi di senso presenti nella testa: gli occhi, le orecchie, il naso e la lingua, […] [II,232,1] e vi sono tra di essi specifiche dissomiglianze sia nelle loro facoltà sensitive che nei corpi attraverso i quali essi giungono a sentire. Le loro facoltà sono infatti capaci di diagnosticare: una gli odori, un’altra i sapori, un’altra i suoni e un’altra i colori, […] giacché è d’uopo, affinché nasca una sensazione, che ciascun organo di senso sia validamente e completamente eccitato. [II,232,5] Non ogni organo di senso è eccitato da ogni oggetto sensibile, bensì quello specifico per il fulgore e la luminosità è eccitato dai colori; quello specifico per i moti dell’aria dai suoni, quello specifico per le sostanze vaporose dagli odori e, in una parola, il simile riconosce il simile. Dunque l’organo di senso specifico per i moti dell’aria non può mai essere eccitato dai colori, giacché se qualcosa è destinato ad accogliere facilmente [II,232,10] e limpidamente in sé l’eccitazione causata dai colori, è d’uopo ch’esso sia terso, pulito e fulgido, […] non certo torbido né vaporoso, ma neppure umido e acquoso, come neppure duro e terroso. […] Ma nulla di più sarebbe questa eccitazione, se non la riconoscesse l’organo specifico per l’immaginazione, il ricordo e il ragionamento, che sarebbe poi l’egemonico.

[2] p. 642. [II,232,15] Dunque […] all’organo di senso della vista, destinato ad essere specifico per il fulgore e la radiosità, lo pneuma è inviato essenzialmente dalla causa <basilare proairesi >.

[3] p. 648. All’incirca, di quanto l’aria cede ai raggi di luce in fatto di finezza, di tanto il vapore cede all’aria.

SVF II, 861

Filone Alessandrino ‘De fuga et invent.’ 182, Vol. III, p. 149, 31 Wendl. [II,232,20] E così il viso, che è l’egemonico del corpo, si abbevera come da una fonte dall’egemonico dell’anima, e questo fa estendere lo pneuma visivo fino agli occhi, lo pneuma acustico agli orecchi, alle narici quello olfattivo, a sua volta quello gustativo alla bocca e quello tattile a tutta la superficie del corpo.

SVF II, 862

Filone Alessandrino ‘De poster. Caini.’ 126, Vol. II, p. 27, 26 Wendl. [II,232,25] Nessuno che sia dotato di buon senso direbbe che gli occhi vedono, ma che è la mente a vedere attraverso gli occhi; né che le orecchie odono, ma che è la mente a udire attraverso di esse; né che le narici odorano, ma che è l’egemonico attraverso le narici.

§ 9. Sulla vista e l’udito

Frammenti n. 863-872

SVF II, 863

[1] Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 237. Gli Stoici sostengono [II,232,30] che causa della vista sia un getto <verso l’esterno> di spirito vitale, la cui forma vogliono che sia quella di un cono <con il vertice nell’occhio>. Questo <getto conico di spirito vitale>, appena fuoriuscito attraverso quella parte dell’occhio che si chiama pupilla, ha una base di piccola superficie, ma quanto più il cono si allontana dall’occhio aumenta la superficie della sua base; fino a che la cosa vista diventa un’immagine alla base del cono e se ne ha la visione definita. Qualunque forma e dimensione abbia la cosa vista, ad essa il cono adatterà la propria lunghezza e la grandezza della propria base, [II,232,35] per il qual motivo le cose visibili ma poste troppo vicino al viso o troppo lontano da esso non si distinguono con chiarezza. Certamente il cono stesso aumenta di dimensione in relazione alla forza del getto <di spirito vitale>, e l’immagine delle cose visibili apparirà diversa a seconda che la base del cono che incide su di esse appartenga ad un cono retto oppure ad un cono obliquo. Una nave da carico vista [II,232,40] da molto lontano appare assai piccola, sia per difetto di visibilità, sia perché il getto di spirito vitale non si espande su tutte le parti della nave. Così pure, una torre quadrata può simulare la rotondità di un cilindro; e un porticato visto lungo il suo asse maggiore, converge in un punto lontano per una illusione ottica. Anche il fuoco delle stelle sembra una cosa esigua e il sole stesso, pur molte volte più grande della terra, [II,233,1] si vede ridotto ad un cerchio del diametro di due piedi. Similmente, gli Stoici reputano che la mente avverta le sensazioni quando senta l’urto dello spirito vitale, il quale trasmette ai penetrali della mente ciò che subisce ad opera delle specie visibili cui si aggrega: così se esso è espanso ed aperto avverte che le cose che vede sono candide; mentre se invece è confuso e sudicio, [II,233,5] indica la visione di cose scure e tenebrose. Ciò che la mente subisce è simile a ciò che subiscono i pescatori che restano paralizzati dal contatto con un pesce marino, quando attraverso la lenza o la canna da pesca il veleno di tale pesce si insinui in loro attraverso la mano e quindi penetri fin negli organi più riposti.

[2] cp. 266. Gli Stoici chiamano dio la vista, perché la reputano il migliore dei sensi: per questo pensarono che [II,233,10] le andasse conferito il bel nome di dio.

SVF II, 864

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 130, 14 Bruns. Vi sono alcuni i quali affermano che il vedere avviene grazie alla messa in tensione dell’aria. Infatti essi sostengono che l’aria a contatto con la pupilla, quando è trapassata dallo pneuma visivo, assume la configurazione di un cono. La sensazione visiva nasce quando questo cono è modellato alla base dagli oggetti visibili, [II,233,15] proprio come la sensazione tattile nasce ad opera di un bastoncello.

[2] p. 26. Ma se anche nel caso dello pneuma visivo che nasce dall’egemonico valgono, come si dice da parte loro, le caratteristiche del moto tonico; allora come mai non avvengono delle interruzioni del vedere, stante il fatto che ai limiti del moto tonico la tensione non è costante, e proprio per questo non lo è neppure lo scontro <dello pneuma visivo con l’aria>? [II,233,20] Questo effetto uno potrebbe ricercarlo e pretenderlo anche nel caso del tatto, ossia della sensazione che nasce quando tocchiamo altri corpi. Anche in essa non ci sono interruzioni dell’appercezione; eppure esse dovrebbero esserci giacché, secondo loro, il moto tonico è dello stesso identico genere. Se questo pneuma visivo che essi chiamano appunto ‘vista’ si muove soltanto del moto predetto e che essi chiamano ‘tonico’, sarebbe illogico parlare così soltanto di quest’ultimo; [II,233,25] e infatti non lo affermano.

SVF II, 865

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ VII, 7, p. 642 M. Orbene, gli Stoici non dicano che noi vediamo come per opera di un bastoncello d’aria circostante.

SVF II, 866

Aezio ‘Placita’ IV, 16, 3. Crisippo sostiene che noi vediamo grazie alla messa in tensione dell’aria che sta frammezzo all’occhio e all’oggetto visto. Quest’aria è trapassata dallo pneuma visivo che scorre stendendosi [II,233,30] dall’egemonico fino alla pupilla e che, proiettandosi con forza contro l’aria circostante, la mette in tensione e la distende facendole assumere la forma, qualora l’aria sia omogenea, di un cono. Dallo pneuma visivo emanano dei raggi fatti di fuoco, non foschi e nebbiosi; e perciò anche il buio è visibile.

SVF II, 867

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 157. [II,233,35] Noi vediamo quando la luce che sta frammezzo all’organo visivo e all’oggetto della visione si stende in forma conica, secondo quanto affermano Crisippo nel secondo libro della ‘Fisica’ e Apollodoro. Si forma così un cono d’aria che ha il suo vertice nell’organo visivo e la sua base nell’oggetto visto. Dunque l’aria così stesa annuncia l’oggetto osservato come [II,233,40] mediante un bastoncello.

SVF II, 868

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 131, 30 Bruns. [II,234,1] Inoltre, perché dalla luce non si vedono i corpi che si trovano al buio, e invece dal buio si vedono i corpi che si trovano nella luce? Come può essere plausibile sostenere che l’aria illuminata, per il fatto di essere stata raffinata <dalla luce>, ha più potenza e quindi può mettere in moto la sensazione visiva grazie al suo scontro <con lo pneuma visivo>; [II,234,5] mentre l’aria non illuminata, per il fatto di risultare affievolita <dall’assenza di luce> non può essere messa in tensione dallo pneuma visivo, seppure essa sia invece più fitta di quella illuminata?

SVF II, 869

Aezio ‘Placita’ IV, 15, 2. Gli Stoici sostengono che il buio è visibile. Infatti, dalla visione emanano verso di esso dei raggi di luce; e la visione non mente, [II,234,10] giacché vede davvero che è buio.

SVF II, 870

Galeno ‘De symptom. causis’ I, 2, Vol. VII, p. 98 K. [Galeno sta parlando delle malattie degli occhi] Così pure lo pneuma animato o è precisamente puro come se fosse etere, oppure è umido e torbido a mo’ di nebbia; e quanto a quantità di sostanza può essere di più o di meno. Pertanto, se esso è al tempo stesso abbondante ed etereo II,234,15] riesce a vedere corpi anche molto distanti ed a farne una precisa individuazione. Se invece è poco ma comunque puro, esso individua con precisione i corpi vicini ma non vede quelli lontani. Se gli capita di essere al tempo stesso più umido e abbondante, esso vede sì fino alla massima distanza ma non con precisione. E se poi è umido e contemporaneamente poco, allora vede né con precisione né fino alla massima distanza.

SVF II, 871

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ V, 16, 2. Gli Stoici dicono che cause della visione sono [II,234,20] l’emissione da parte degli occhi di raggi in direzione degli oggetti visibili e simultaneamente la tensione dell’aria.

SVF II, 872

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 158. Noi udiamo quando l’aria che sta frammezzo a ciò che produce il suono e a chi ascolta è percossa, e in seguito a ciò si producono delle onde [II,234,25] di forma sferica che incolgono gli organi uditivi; come l’acqua presente in una cisterna forma delle onde circolari a seguito della caduta dentro di essa di un sasso.

§ 10. La parte genitale dell’animo

Frammenti n. 873-874

SVF II, 873

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 118, 25 Bruns. Inoltre, se essi affermano che quella generativa è una parte dell’animo e questa parte generativa consta di pneuma vegetativo, allora anche ogni pneuma vegetativo [II,234,30] sarebbe pneuma animato.

SVF II, 874

Filone Alessandrino ‘De incorruptibilitate mundi’ 79, 6, p. 102 Cohn-Reiter. Giacché sarebbe da sempliciotto credere che l’uomo da vivo utilizza un ottavo del suo animo, ossia la parte che si chiama genitale, per la seminagione di un essere simile a se stesso, e che invece da morto utilizza allo stesso scopo se stesso tutto intero. La morte, infatti, non è più efficace seminatrice della vita. [Si tratta delle parole di qualche Stoico, forse Panezio, in polemica con Crisippo?] [II,234,35]

§ 11. Sulle passioni

Frammenti n. 875-878

SVF II, 875

Galeno ‘De causis pulsuum’ IV, 3, Vol. IX, p. 159 K. In coloro che stanno godendo il caldo si espande per tutto il corpo e predomina il movimento esteriore; [II,234,40] come in coloro che sono preda dell’afflizione predomina il movimento interiore.

SVF II, 876

Galeno ‘De locis affectis’ V, 1, Vol. VIII, p. 301 K. [II,235,1] Invero anche in qualche altro modo […] e alcuni muoiono in seguito a mali fisici fortissimi, a potenti paure e a sommi piaceri fisici, giacché quanti hanno un tono vitale debole e soffrono forti passioni psichiche originate dalla loro mancanza di educazione, hanno una sostanza dell’animo che è facile a dissolversi. [II,235,5] Talune persone di questo genere sono morte d’afflizione, non però di morte subitanea come nei casi predetti. Invece, nessun uomo magnanimo è mai incappato nella morte in seguito ad afflizioni o ad altre passioni più potenti ancora dell’afflizione, giacché il tono del loro animo è poderoso e piccolini sono i loro patemi.

SVF II, 877

Galeno ‘De locis affectis’ IV, 3, Vol. VIII, p. 233 K. [II,235,10] Questa passione s’accompagna a doglie veementi, poiché nel corso di queste doglie cade giù il tono dello pneuma psichico.

SVF II, 878

Galeno ‘De sanitate tuenda’ II, 9, Vol. VI, p. 138 K. Il rancore non è semplicemente un accrescimento, ma è come un giungere a bollore del calore nella zona cardiaca. Per questo [II,235,15] anche i filosofi più validi affermano che la sua sostanza è il calore. Il desiderio di controvendetta è qualcosa di accidentale e non rappresenta la sostanza del rancore.

§ 12. Frammenti dei libri ‘Sull’animo’ di Crisippo

Frammenti n. 879-911

SVF II, 879

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 220. Gli Stoici sono d’accordo [II,235,20] nell’indicare nel cuore, e non nel sangue, che invece nasce col corpo, la sede dell’egemonico. Così Zenone cerca di sostenere la dottrina che l’animo è pneuma: “Ciò che al suo ritirarsi dal corpo determina la morte dell’animale, è certamente animo; ma quando lo pneuma naturale si ritira l’animale muore; dunque l’animo è pneuma naturale”. Analogamente, Crisippo dice [II,235,25] che: “Una e medesima è la cosa che ci fare spirare e vivere. Noi respiriamo grazie allo pneuma naturale; pertanto pure viviamo grazie ad esso. Ma noi viviamo grazie all’animo: dunque risulta che l’animo è pneuma naturale”. “Tale animo”, prosegue Crisippo, “risulta suddiviso in otto parti: l’egemonico, i cinque sensi, l’organo della fonazione, la potenza di eiaculare il seme e procreare. [II,235,30] Poi queste parti dell’animo, emanando dalla zona del cuore come da una fonte originaria, si diffondono per tutte le membra fino a riempirle di pneuma vitale, dirigerle, moderarle, dotarle di innumerevoli e diverse capacità nutrendole, rinvigorendole, facendole muovere, regolandone i moti locali, spingendole ad operare per mezzo dei sensi. [II,235,35] In questo modo tutto l’animo è come un albero il cui tronco è l’egemonico ed i cui rami sono i sensi, quali ministri che da esso si spandono per diventare in seguito messaggeri di ciò che percepiscono, ed egli possa valutare come un re i messaggi che ha dai sensi ricevuto. Gli oggetti delle sensazioni, in quanto corpi, sono composti; mentre i singoli sensi hanno percezioni specifiche: uno coglie i colori, un altro i suoni, un altro ancora distingue i sapori, un altro gli odori, e infine un ulteriore senso registra [II,236,1] ciò che è ruvido o liscio al tatto. Tutto questo nel presente, giacché non c’è senso che abbia memoria del passato o sospetto del futuro. In verità è compito di una ponderazione e deliberazione interiore il comprendere l’affezione subita e trasmessa da ciascun senso, e da queste percezioni ricostruire quale ne sia la sorgente, accogliere il dato presente, ricordare oggetti assenti, [II,236,5] nonché prevedere i futuri”. Lo stesso Crisippo definisce così la deliberazione interiore della mente: “Il moto interiore dell’animo è la capacità razionale. Certo, anche gli animali privi della parola hanno una capacità basilare dell’animo, grazie alla quale distinguono i cibi, immaginano, evitano le insidie, scavalcano dirupi e precipizi, riconoscono i legami, non dico logici ma piuttosto naturali. [II,236,10] Fra le creature mortali, però, soltanto l’uomo utilizza quel bene straordinario della mente che è la ragione”. Così afferma lo stesso Crisippo: “Come il ragno nel mezzo della ragnatela tiene con le zampe tutti i capi dei fili, in modo da sentire subito ogni urto di animaletti da qualsiasi parte provengano; così la parte egemonica dell’animo, situata nel centro del cuore, [II,236,15] percepisce i primi accenni di attività dei sensi così da riconoscere subito ciò che quelli le comunicheranno”. Gli Stoici ritengono che anche la voce venga dall’intimo del petto, cioè dal cuore, poiché il soffio vitale esercita una spinta dall’interno di esso, dove un tratto disseminato di nervi si interpone a separare il cuore dai due polmoni e dagli altri organi vitali. Da qui il soffio vitale, [II,236,20] con l’apporto della lingua che cozza contro le strettoie delle fauci e degli altri organi vocali, produce quei suoni articolati che sono gli elementi del discorso. Così si spiegano gli arcani moti di quell’interprete che è la mente. Questa è la parte che Crisippo chiama egemonico dell’animo.

SVF II, 880

Tertulliano ‘De anima’ cp. 15. Anche Protagora, Apollodoro e Crisippo, [II,236,25] sanno <che l’egemonico è collocato nel cuore>.

SVF II, 881

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 1, p. 404 M. Il discorso sulle passioni meritava d’essere esaminato da parte nostra già di per se stesso, ma ancor più necessario hanno reso questo esame i seguaci di Crisippo, i quali lo hanno sfruttato per dimostrare quale sia il luogo del corpo che include in sé l’egemonico dell’animo. Infatti, [II,236,30] dopo avere mostrato che tutte le passioni, come ritengono loro, hanno sede nel cuore -anche se in verità qui ha sede soltanto il rancore – e dopo avere fatto l’assunzione aggiuntiva che dove si trovano le passioni dell’animo là si trova pure la sua parte razionale, giungono alla conclusione che anche la sede della parte raziocinante dell’animo è nel cuore.

SVF II, 882

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 5, p. 208 M. [II,236,35] Affinché la creatura vivente abbia una sensazione, Zenone e Crisippo, insieme con tutto il coro dei loro seguaci, vogliono che il movimento che s’ingenera in una parte del corpo ad opera di ciò che l’incoglie dall’esterno sia distribuito fino alla causa prima dell’animo.

SVF II, 883

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 2, p. 170 M. [II,237,1] Gli Aristotelici si fanno specie di utilizzare lemmi assunti dal linguaggio comune o dalla retorica per le loro dimostrazioni scientifiche. Di questi lemmi sono invece pieni i libri di Crisippo, i quali invocano come testimoni a volte della gente qualsiasi, a volte dei poeti oppure l’etimologia che pare migliore, [II,237,5] oppure ancora qualcos’altro del genere. Tutte dimostrazioni che non concludono un bel nulla, ma che ci fanno consumare e sciupare vanamente il nostro tempo nel mostrar loro chiaro soltanto questo, ossia che le proposizioni della conchiusione non sono scientifiche e oltre a ciò, che se condiscendiamo a lottare contro di loro, lo facciamo per mostrare che la gente qualsiasi [II,237,10] e i poeti testimoniano non meno a nostro favore che a favore loro, anzi a volte sono più favorevoli […] […] Ciò è già stato da me mostrato in un altro trattato, quello ‘Sulla correttezza dei nomi’; dove dimostrai che Crisippo ha dato una falsa etimologia del pronome ‘io’. Perché mai, dunque, avrei ancora bisogno di particolareggiare qui questi argomenti? A Crisippo, invece, è caro discutere [II,237,15] in trattati diversi gli stessi argomenti non due o tre, ma anche quattro e talora cinque volte. Stia in guardia da ciò chi vuole risparmiare del tempo!

SVF II, 884

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 5, p. 293 M. Lascio oramai da parte i brani sui quali ho già scritto e mi volgerò a quelli che vengono dopo, brani nei quali Crisippo [II,237,20] comincia a citare le testimonianze dei poeti, inframmezzandole con alcuni pochi discorsi suoi: spesso come spiegazione di ciò che il passo vuole dire; spesso come epitome e, in generale, a mo’ di richiamo di qualche punto capitale. Egli comincia dunque a spiegare un passo di Empedocle, e in relazione a questa spiegazione inizia a fare alcuni ragionamenti più rimarchevoli [II,237,25] tra i quali vi è anche quello sulla voce, che ho già ricordato nel secondo libro di questi appunti. […] Siccome è opinione dei miei compagni che non sia il caso di trascurare del tutto nemmeno le argomentazioni nelle quali Crisippo ha puramente e semplicemente fatto delle ciarle, ma che sia meglio fermarsi a segnalarne l’assurdità […] [II,237,30] per questo motivo ho addizionato tutti questi brani. […] Sulla voce non ho più bisogno di dire nulla […] e invece ricorderò tutte quante le argomentazioni che sono esposte nel libro di Crisippo dopo questo discorso sulla voce. Vi sono argomentazioni che riguardano il portamento delle mani, quando le teniamo attaccate allo sterno per mostrare noi stessi. Ci sono inoltre argomentazioni che riguardano la parola ‘egò’ (io), che Crisippo [II,237,35] propose già nelle ‘Etimologie’, dove è dell’avviso che questa voce possiede un che di dimostrativo già a partire dalla sua pronuncia, perché la sua prima sillaba è come se portasse verso il petto sia la mascella che il labbro inferiore. […] [p. 295] Simili alle argomentazioni di questo genere sono anche quelle riguardanti l’etimologia della parola ‘cuore’ e [II,238,1] scritte da Crisippo, di seguito a quelle predette, nel primo libro ‘Sull’animo’. Esse stanno qui in questi termini […] [p. 296] Noi prendiamo impulso in relazione a questa parte […] tutte le cose. [p. 297] In seguito fa menzione della voce e dell’origine dei nervi, […][II,238,5] dopo di che dà la sua spiegazione dell’appellativo ‘senza cuore’, […] [p. 298] giacché <si ha> il batticuore negli stati di paura. […] [p. 303] con l’intento di tirare assurdamente fuori ciò in questi termini. […] [p. 308] Ti ho toccato il cuore. […] [p. 309] Dopo il passo scritto in precedenza ve n’è un altro nel quale egli spiega chi sono le persone ‘senza cuore’ e quelle ‘senza cervello’. [II,238,10] [….] A me paiono soprattutto inclini a un portamento di questo genere le persone più vendicative. […] [p. 314] Dopo questi passi, Crisippo trascrive una moltitudine di versi epici, la maggior parte dei quali lo contraddicono, come mostrai in precedenza. Inframmezzate ai versi epici vi sono pochissime parole, ma esse includono [II,238,15] una certa affermazione autocontraddittoria di Crisippo che metterò bene in evidenza nel libro che segue; libro in cui ho pensato di fare il discorso sulle passioni dell’animo. […] [p. 315] Il poeta ripete fino all’eccesso […] che la parte concupiscente dell’animo si trova qui […] e che qui c’è anche quella irascibile. […] [p. 316] Una volta data una scorsa ai restanti passi del libro di Crisippo, [II,238,20] metto anch’io fine a questo punto al presente discorso. Dopo la moltitudine dei versi epici, Crisippo discute successivamente della voce, della ragione, e dell’origine dei nervi, e tratta gli argomenti che sono ad essi collegati -tutte cose invero che nel libro sono le sole che si confarebbero ad uomo che sia un filosofo – circa i quali anche noi discutemmo nel discorso precedente, lasciando da parte i discorsi [II,238,25] che sono puramente e semplicemente delle ciarle. […] [p. 317] Tuttavia adesso […] addizionerò di seguito il discorso su Atena.

SVF II, 885

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 1, p. 251 M. Riferisco che Crisippo, quando nel suo primo discorso sull’animo comincia a ricordare le parti di esso e a parlare dell’egemonico [II,238,30] provando a mostrare che la causa prima dell’animo è insita unicamente nel cuore, dice così: “L’animo è uno pneuma che ci è congenito, che pervade con continuità tutto il nostro corpo e che è presente qualora nel corpo ci sia la buona respirazione caratteristica della vita. Poiché le parti dell’animo entrano nella costituzione di ciascun pezzo del corpo, [II,238,35] noi chiamiamo ‘voce’ la parte dell’animo che pervade l’arteria tracheale, ‘vista’ quella che pervade gli occhi, ‘udito’ quella che pervade le orecchie, ‘olfatto’ quella che pervade il naso, ‘gusto’ quella che pervade la lingua e ‘tatto’ quella che pervade tutta la carne. Chiamiamo ‘seminale’ [II,239,1] la parte dell’animo che pervade i testicoli e che veicola un certo altro pneuma che è ragione seminale; e chiamiamo ‘egemonico’ quella ch’è situata nel cuore e nella quale tutte queste parti convengono. Stando così le cose, quanto al resto delle parti dell’animo vi è accordo, ma vi è disaccordo tra i medici e tra i filosofi quanto all’egemonico, [II,239,5] giacché alcuni lo vogliono localizzato in una parte del corpo ed altri, invece, in altre parti. Infatti, alcuni affermano che l’egemonico è situato nella zona toracica, altri nella zona encefalica. Ma quanto a queste stesse zone, essi dissentono poi sulla sua precisa localizzazione entro la testa ed entro il torace, senza trovare un accordo tra di loro. Platone, dopo avere affermato la tripartizione dell’animo, diceva [II,239,10] che la parte raziocinante è situata nella testa, la parte irascibile è situata nel torace e la parte concupiscente nella zona ombelicale. E così questo luogo appare sfuggirci, sia perché non ce n’è una sensazione patente -cosa che invece è capitata nel caso delle altre parti dell’animo – sia perché non ci sono prove grazie alle quali arrivare per deduzione ad individuare questo luogo. Del resto, se così non fosse, il contrasto di opinioni [II,239,15] sia tra i medici che tra i filosofi non si sarebbe protratto per così tanto tempo”. Questo è il primo passo scritto da Crisippo sull’egemonico, nella prima parte del libro ‘Sull’animo’. Infatti, la prima metà del suo scritto contiene l’analisi sulla sostanza dell’animo; mentre nella metà seguente, [II,239,20] quella che comincia subito dopo il passo che ho trascritto, Crisippo si sforza di dimostrare che la parte egemonica dell’animo è inclusa nel cuore. L’inizio di questo discorso merita d’essere ammirato, giacché Crisippo si esprime qui con chiarezza e precisione, come sarebbe d’uopo che parlasse un uomo che comincia la trattazione d’una dottrina di tale rilievo […] [p. 254] Ma i passi che seguono non sono di simile livello giacché, io credo, sarebbe stato giusto [II,239,25] per prima cosa dire da quali plausibili argomenti Platone sia stato convinto e quindi sia giunto ad abbracciare quelle opinioni; successivamente confutarli e screditarli, e soltanto una volta fatto ciò strutturare la propria opinione […]

SVF II, 886

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 1, p. 254 M. <Crisippo> comincia a mettere mano all’esame della dottrina di cui merita fidarsi, non a partire dalla natura della faccenda in questione, ma dal genere di assunti che rappresentano l’opinione in merito di testimoni, [II,239,30] oppure della moltitudine delle persone qualunque. Trascriverò qui questo passo, che suona all’incirca così: “Su ciò che viene dopo faremo ricerche prendendo similarmente impulso dal comune portamento al riguardo, e dai discorsi che secondo esso si fanno”. Qui Crisippo ha detto ‘comune portamento’ intendendo ciò che tutti gli uomini comunemente reputano. Poi [II,239,35] fa un’inferenza e afferma: “E su queste basi è sufficientemente chiaro che gli uomini sono stati portati fin dall’inizio a credere che il nostro egemonico sia situato nel cuore”. Poi di seguito, rifacendosi ai loro intraprendimenti scrive quasi testualmente così: “A me pare che la maggior parte degli uomini [II,240,1] abbia un comune portamento a questo riguardo; come se essi, quando nascono delle passioni nell’intelletto, ne avessero consapevolezza nel torace e soprattutto nella zona dov’è posizionato il cuore: ad esempio soprattutto per le afflizioni e le paure, nel caso dell’ira e in particolar modo del rancore. [II,240,5] Infatti il rancore si palesa a noi come una passione che esala dal cuore e se ne sospinge fuori diretta contro qualcuno e fa rigonfiare il volto e le mani”. [Secondo Galeno, queste parole di Crisippo dimostrano la tesi di Platone sulla localizzazione del rancore nella regione toracica] [II,240,10]

SVF II, 887

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 7, p. 230, 16 M. Trovo nondimeno che Crisippo, proprio nel corso di questo ragionamento sull’egemonico dell’animo, abbia fatto delle affermazioni autocontraddittorie. All’inizio, infatti, egli premette che vi è accordo sulla localizzazione delle altre parti dell’animo nelle quali l’essere vivente è suddiviso e che [II,240,15] soltanto nel caso dell’egemonico si è in fase di ricerca, a causa del fatto che di esso non c’è una patente sensazione né una prova evidente; e invece poco dopo ne disquisisce come di una parte dell’animo del tutto manifesta. Le sue parole sono di questo tenore: “E così questo luogo appare sfuggirci, non essendocene una sensazione [II,240,20] patente -cosa che invece è capitata nel caso delle altre parti dell’animo – sia perché non ci sono prove grazie alle quali arrivare per deduzione ad individuare questo luogo. Del resto, se così non fosse, il contrasto di opinioni sia tra i medici che tra i filosofi non si sarebbe protratto per così tanto tempo”. Dopo questa premessa, Crisippo afferma che tutti gli uomini [II,240,25] hanno la sensazione delle passioni dell’intelletto nel torace e nel cuore. Il passo recita così: “A me pare che la maggior parte degli uomini abbia un comune portamento a questo riguardo; come se essi, quando nascono delle passioni nell’intelletto, ne avessero consapevolezza nel torace e soprattutto nella zona dov’è posizionato il cuore: ad esempio soprattutto per le afflizioni e le paure, [II,240,30] nel caso dell’ira e in particolar modo del rancore”. In questa formulazione, se non altro, egli ha addizionato il ‘come se’, non avendo l’audacia di dire senza altre mediazioni che gli uomini sentono nel torace le passioni che nascono nell’intelletto. Egli ha pur detto ‘come se avessero consapevolezza’, [II,240,35] ma poco dopo toglie di torno il ‘come se’ e scrive così: “Lo sconcerto che nasce nell’intelletto in ciascuno di questi frangenti [II,241,1] è sensibilmente percepito nel torace”. Poi di seguito: “Se qui nasce l’ira, è ragionevole che anche le restanti smanie abbiano qui la loro sede”. E di nuovo, nel seguito della compilazione, afferma che le passioni di quanti si lasciano andare all’ira nascono apparentemente nella zona toracica, e che la stessa cosa vale anche per le passioni degli amanti. [II,241,5] Nel prosieguo non smette di disquisire sulle passioni come di fenomeni che si collocano nel torace e soprattutto nella regione cardiaca. Sicché io mi stupisco che un uomo simile non abbia cancellato quanto aveva scritto all’inizio lui stesso, laddove afferma che del dove sia situata la parte dominante dell’animo non esiste sensazione patente né prova; [II,241,10] altrimenti la disparità di vedute tra i medici e tra i filosofi non si sarebbe protratta così a lungo.

SVF II, 888

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 7, p. 235 M. Ma né nel primo libro ‘Sull’animo’, né nei libri ‘Sulle passioni’ egli ha formulato una dimostrazione della assoluta necessità che dove si trova la parte irrazionale dell’animo qui debba trovarsi anche la sua parte razionale, [II,241,15] e invece egli prende dovunque la cosa per scontata e ovvia.

SVF II, 889

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 8, p. 243 M. Mi sposterò ora su uno degli argomenti restanti e del quale hanno fatto menzione quasi tutti coloro i quali hanno concepito il cuore come causa prima di tutte le facoltà presenti negli animali. Costoro, infatti, dicono [II,241,20] che là dove si trova la causa prima del nutrimento degli animali, in quella parte del corpo si trova anche la parte razionale dell’animo. E siccome la causa prima del nutrimento degli animali si trova nel cuore, ne consegue che anche la parte razionale e intellettiva si trovi lì.

[2] p. 245 M. Qualora poi essi dicano che donde ha origine la fornitura dello pneuma, qui deve avere sede l’egemonico; e poi aggiungano che lo pneuma è fornito dal cuore; ebbene neppure in questo caso si deve convenire con loro. [II,241,25] [Galeno mostra di avere dei dubbi sul tipo di pneuma del quale costoro parlano, cioè se parlino di pneuma ‘materiale’, ‘animale’ oppure ‘animato’]

SVF II, 890

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 2, p. 258 M. Con te il punto controverso non sarebbe questo, cioè se la parte iraconda abbia dimora nel cuore, ma se vi dimori la parte razionale dell’animo; la qual cosa sarebbe d’uopo [II,241,30] che tu dimostrassi senza affaticarti su quella iraconda e senza infarcire il libro di citazioni poetiche, che qui scrivi una di seguito all’altra:

‘Molto più dolce del miele stillante

s’accresce nei petti degli uomini, simile a fumo’

e poi: [II,241,35]

‘Il rancore lo levò fuor di senno’

e quindi:

‘Sobbalzando il rancore gli divina dentro’

e altre miriadi di citazioni del genere in tutto lo scritto, per strutturare l’argomentazione che la parte iraconda dell’animo ha sede nel cuore. [II,241,40] Ma non era questo che dovevi mostrare, bensì, per Zeus, che vi ha sede la parte razionale; e se era impossibile dimostrare questo senza altre mediazioni, dovevi almeno provare a mostrare [II,242,1] che la parte iraconda e quella razionale dell’animo sono un tutto unico. Ma ciò egli non ha messo mano a fare in alcuna parte del libro, e se ne serve invece dovunque come di un fatto scontato. Poi, nei passi subito seguenti, scrive così: [II,242,5] “Se l’ira nasce qui, è ragionevole che anche le restanti smanie abbiano qui la loro sede e, per Zeus, le restanti passioni, le perplessità e quanto è ad esse similare”.

SVF II, 891

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 5, p. 287 M. [II,242,10] Discostandoci da questo genere di argomentazioni, vediamo ora di seguito tutti i ragionamenti che egli prospetta interrogativamente, e riprendiamo a sua volta l’intero il discorso dall’inizio, così da non tralasciare nulla. Anche se alquanto lungo, citerò tutto il passo che suona così: [II,242,15] “Se l’ira nasce qui, è ragionevole che anche le restanti smanie abbiano qui la loro sede e così pure le restanti passioni, le perplessità e quanto è ad esse similare. La maggior parte di costoro, appagandosi corrivamente di un modo di dire, e ne soggiungono in verità molti del genere, si attengono al portamento suddetto. In primo luogo tutti, tanto per cominciare di qua, [II,242,20] in argomento affermano che il rancore di qualcuno ‘monta’ e sollecitano alcuni ad ‘ingoiare’ la bile, sostenendo di dirlo nel senso in cui noi diciamo loro di ingoiare o di non ingoiare dei bocconi. Così si dice anche: ‘A loro nulla di questo va giù’; e: [II,242,25] ‘Se ne partì ingoiando le parole dette’. A coloro che lo riprendevano perché portava alla bocca tutti i suoi quesiti, Zenone disse: ‘Non tutti i quesiti si ingoiano’. Altrimenti non si potrebbe più parlare propriamente dello ‘ingoiare’ e dello ‘andare giù’ delle parole, se il nostro egemonico non avesse sede nella zona del torace, egemonico verso il quale tutto si porta. [II,242,30] Se esso invece è situato nella testa, sarà ridicolo e improprio dire ‘andare giù’, e credo che essi direbbero più propriamente ‘montare’ e non ‘andare giù’. Alla stessa stregua, della sensazione uditiva che si porta in basso verso l’intelletto, se l’intelletto fosse nella zona toracica si dirà con proprietà trattarsi di una discesa; [II,242,35] se però l’intelletto fosse nella testa, si tratterà di un modo di dire del tutto improprio. [Poi Galeno aggiunge] [II,243,1] Io so che nelle circostanze in cui i più dicono: ‘Le cose dette non vanno loro giù’, ciò avviene non perché questi non comprendano o non pongano mente a ciò che viene detto, ma perché chi parla lo fa con l’intenzione di provocare l’ira, l’afflizione, il rancore o qualche passione del genere, [II,243,5] mentre chi ascolta non si preoccupa di ciò né è mosso passionalmente.

SVF II, 892

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 5, p. 290 M. Questa sfilza di pure e semplici ciarle abbia dunque un limite qui. Ma dopo queste, Crisippo ricorda queste altre. [II,243,10] “Le donne palesano ciò ancora di più giacché, se le parole dette non vanno loro giù, portano spesso un dito in basso alla zona del cuore, e si mostrano dell’avviso che quanto detto non va giù fin lì”. [Galeno giudica però che ciò non provi la tesi di Crisippo] Queste donne, infatti, dicono così [II,243,15] e fanno ballare le mani, come hai detto tu, non perché neghino di avere intelligenza di quel che si dice loro, ma per mostrarsi dell’avviso, qualora siano sotto ingiuria o minaccia o sotto qualcosa del genere, che non sono adirate, né preda del rancore, né in alcun modo frementi. Il che, io credo, non sfugge neppure a Crisippo il quale, pronunciandosi contro se stesso anche in questo frangente, poco dopo scrive all’incirca così: “Nel senso in cui [II,243,20] diciamo che delle parole di minaccia o d’ingiuria non vanno giù fino a raggiungerle e toccarle così da smuoverne l’intelletto; in questo senso diciamo anche che alcune persone sono ‘profonde’, perché nessuna parola del genere riesce ad andare giù fino a toccare il loro fondo”.

[2] p. 292 M. […] Ma [II,243,25] queste cose Crisippo le dice in passi successivi. Invece, frammezzo al brano che ho or ora scritto e quello che scrissi poco più sopra circa le donne, vi è un altro passo che adesso trascriverò, affinché si possa reputare che io non trascuro proprio nulla. Il passo è di questo tenore: “Consequenzialmente a ciò [II,243,30] noi diciamo che alcuni ‘vomitano fuori’ quel che a loro pare, e anche ‘vomitare il fondo dell’anima’; e pronunciamo molte siffatte espressioni in armonia con quanto detto. Infatti, se ‘ingoiare’ qualcosa e riporlo nell’intelletto è simile a dire che ‘è giornata’ per qualcosa; quando a sua volta, davanti agli stessi fatti, si dice che ‘non è giornata’ per quel qualcosa, [II,243,35] non impropriamente e non inappropriatamente si vuol dire di vomitarlo fuori”. Io non ho mai sentito alcuno dire ‘vomitare fuori’, bensì piuttosto ho sentito dire sputare, sputare fuori, espellere, scaraventare via, riporre via, qualora si parli di prendere le distanze da qualche opinione depravata.

SVF II, 893

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 4, p. 196, 97 M. [II,244,1] Se la voce nascesse quando lo pneuma polmonare è sottoposto all’attività modellatrice di quello cardiaco e poi quello della gola a sua volta si automodella, la voce non si perderebbe all’istante quando alcuni nervi sono tagliati. […] Non c’è ragione alcuna [II,244,5] che renda necessaria l’esistenza di un’unica causa prima di tutte le attività degli esseri viventi.

SVF II, 894

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 5, p. 203 M. Prima di contestarli, voglio ancora citare il discorso di Crisippo, un discorso che sta in questi termini: “È ragionevole che la parte verso la quale sono dirette le significazioni contenute nel discorso [II,244,10] e dalla quale il discorso promana, ebbene che quella sia la parte dominante dell’animo. Infatti, fonte del discorso e fonte dell’intelletto non possono essere fonti diverse, né può essere una la fonte della voce e un’altra la fonte del discorso e neppure, badando all’insieme, può semplicemente darsi che la fonte della voce sia una cosa e la parte dominante dell’animo un’altra”. […] Una volta circoscritta la definizione dell’intelletto [II,244,15] in armonia con siffatte argomentazioni, essi dicono che l’intelletto è la fonte del discorso. […] “Insomma, donde il discorso scaturisce, di là bisogna che nascano anche, come dicevo, la meditazione, i pensieri, lo studio delle parole. Ora, è patente che queste attività avvengono nella zona del cuore, e che tanto la voce quanto il discorso scaturiscono dal cuore attraverso la gola. [II,244,20] Del resto è plausibile che la parte dell’animo in direzione della quale le cose dette sono rese significanti sia anche quella a partire dalla quale esse sono significate, e che le voci nascano da quella parte dell’animo al predetto modo”. Io ne ho ormai abbastanza dei discorsi degli Stoici sulla voce, giacché se mi mettessi a scrivere di seguito tutti quanti i discorsi prospettati interrogativamente dagli altri filosofi, ne uscirà fuori uno scritto di lunghezza smisurata. [II,244,25] Io non avrei ricordato i discorsi né di Crisippo né di Diogene <di Babilonia> ma mi sarei accontentato di indagare soltanto quello di Zenone, se non mi fosse avvenuto di trovarmi in disaccordo con qualcuno degli Stoici a proposito della forma verbale ‘si fa spazio’, che Zenone prese ad usare nel suo discorso, scrivendo così: “La voce si fa spazio attraverso la gola”. Ora, io ero del parere che questa forma verbale ‘si fa spazio’ [II,244,30] potesse intendersi come equivalente a ‘esce’ oppure a ‘scaturisce’. Egli affermava invece che secondo lui non aveva nessuno di questi due significati, senza avere però da offrirne un terzo oltre questi. Io fui dunque costretto a leggere i libri degli altri Stoici per metterli a confronto con quello di Zenone; Stoici che commutano quell’espressione verbale o in ‘esce’ oppure in ‘scaturisce’; come ho anche ora dimostrato che Crisippo e Diogene <di Babilonia> hanno fatto; [II,244,35] dopo i quali non ritengo più necessario trascrivere le parole di altri […]

[2] p. 214 M. [Galeno discute sulla forma avverbiale ‘di là’] Giacché è manifesto che Crisippo ha detto ‘di là’ invece di dire ‘là’, il che equivale a dire ‘in quella parte del corpo’. [II,245,1] Non è però da ritenersi che egli, dicendo ‘di là’, voglia significare ‘verso quella parte del corpo’, anche se la forma avverbiale ‘di là’ indica soprattutto un moto a luogo, mentre ‘là’ uno stato in luogo. Invece di pensare che Crisippo abbia voluto dire in modo tanto lampante cose da mentecatto, è meglio concepire che egli, esprimendosi a voce, usi dei solecismi. [II,245,5] Questa seconda cosa, infatti, è per lui abbastanza consueta e non unica in ciascun passo dei suoi scritti, mentre non gli capita in nessun caso di dire cose da mentecatto. A volte in qualche passaggio dice cose false, come fa anche in questo discorso; ma non si tratta di cose da mentecatto; giacché un’affermazione falsa è di gran lunga differente da un’affermazione da mentecatto […]

SVF II, 895

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 2, p. 172 M. [II,245,10] Le cose che Crisippo ha scritto sulla voce ‘egò’ (io) nel primo libro ‘Sull’animo’ disquisendo dell’egemonico, le trascriverò adesso a mo’ di marchio di riconoscimento: “Così diciamo anche ‘egò’ per questo, mostrando noi stessi [II,245,15] che l’intelletto è nel torace col portare qui l’indicazione in modo naturale e proprio. Ma anche senza siffatta ulteriore indicazione con la mano, noi pronunciamo ‘egò’ accennando a noi stessi, perché la voce ‘egò’ è subito di un genere tale che enuncia da se stessa la propria sede, secondo le indicazioni qui di seguito delineate. Quando noi proferiamo ‘egò’, infatti, [II,245,20] nel pronunciare la prima sillaba tiriamo verso il basso il labbro inferiore in un modo che è dimostrativo di noi stessi, e poi in modo consequenziale al movimento della mascella, al suo accennare verso il petto e a siffatta ulteriore indicazione, le si pone accanto la sillaba seguente, la quale nulla palesa di distante, il che è capitato invece nel caso della parola ‘ekéinos’ (quello)”. [II,245,25]

[2] p.175 M. <Ciò accade> perché “quando annuiamo con la testa per dare il nostro assenso, noi portiamo la testa su quella parte del corpo nella quale intendiamo mostrare che risiede la causa prima dell’animo” e <che essa non risiede> nella parte che è in movimento.

SVF II, 896

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 5, p. 295 M. [II,245,30] Dopo le predette, simili […] sono le cose scritte da Crisippo nel primo libro ‘Sull’animo’ circa l’etimologia del nome ‘kardìa’ (cuore). Esse sono all’incirca di questo tenore: “In armonia con tutto ciò, il cuore (kardìa) ha avuto questo nome in relazione alla dominazione e al signoraggio [II,245,35] che gli vengono dal fatto di essere sede della parte dominante e padrona dell’animo, tanto da poter essere chiamata ‘kratìa’ ”. […] Dopo quanto detto Crisippo scrive queste parole: “Noi impelliamo [II,246,1] in armonia con questa parte dell’animo, noi assentiamo con questa parte dell’animo, questa è la parte dell’animo cui tendono tutti gli organi di senso”. […] Questi punti capitali, contenenti in sé tutt’intera la validità dei principi dottrinali che ci propone, Crisippo li ha trattati così velocemente e di sfuggita [II,246,5] da ricordarli soltanto, mentre sui punti sui quali non è d’uopo farlo egli si dilunga in modo superfluo.

SVF II, 897

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ I, 5, p. 138 M. Se tu ferissi il cuore, subito se ne versa fuori il sangue. Secondo Crisippo, bisognerebbe invece che prima il cuore apparisse svuotarsi dello pneuma e che soltanto dopo ne seguisse la fuoriuscita del sangue, [II,246,10] o addirittura che questa non seguisse affatto, come non segue nel caso dei visceri del cervello.

[2] p. 141 M. Erasistrato afferma che il ventricolo sinistro del cuore è pieno di pneuma vitale, mentre Crisippo afferma che esso è pieno di pneuma animato.

[3] p. 143 M. [II,246,15] Al riguardo io ora biasimerei Crisippo soprattutto perché, pur volendo che lo pneuma connesso alla causa prima dell’animo sia qualcosa di limpido e puro, in modo non conveniente ne pone la sede nel cuore; seppure uno lo approverebbe quando con equilibrio dichiara di non avere conoscimento del fatto che il cuore sia l’origine dei nervi né di avere alcuna altra conoscenza delle ricerche [II,246,20] su questo problema, giacché ammette di essere inesperto di dissezioni anatomiche.

[4] p. 145 M. Siccome per una volta ho istituito di analizzare a fondo la posizione di tutti i filosofi, voglio disquisire brevemente di Prassagora, soprattutto perché Crisippo s’è ricordato di quest’uomo quando [II,246,25] s’è contrapposto a quanti legittimano l’idea che i nervi abbiano origine dal cervello.

[5] p. 163 M. Aristotele è un filosofo che non ama dire delle falsità, né un uomo integralmente inesperto di anatomia, così da essere qualcuno che si potrebbe ritenere essere stato un seguace, come i discepoli di Crisippo, delle falsità altrui.

SVF II, 898

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 5, p. 215 M. In un altro passo [II,246,30] scritto non molto dopo questo, <Crisippo> è stato costretto ad ammettere la verità. Ho detto che è stato costretto, perché volendo egli mandare a gambe all’aria un argomento altrui come non vero e poi accortosi che la forma della sua obiezione gli si rivoltava non di meno contro, non si peritò di capovolgere il proprio ragionamento insieme a quello degli eterodossi. […] Trascriverò anche questo passo, [II,246,35] nel quale Crisippo mostra che il ragionamento scritto in precedenza non è dimostrativo. Queste sono le sue parole: “Sta di fatto, come dicevo, che noi faremo più ricerche su tutti i nervi, anche se si concedesse la tesi, che essi avanzano, che le parti delle quali si è parlato abbiano origine dalla testa. Se, per esempio, essi dicessero qualcosa [II,246,40] sul fatto che la voce dal petto si porta attraverso la gola, ma a partire da una qualche base originaria che si trova nella testa, io penso che sia permesso ribattere che però l’egemonico è nel cuore, [II,247,1] anche se l’origine dei movimenti della voce si trova nella testa”. Ciò che Crisippo vuole dire in questo passo è qualcosa di questo genere. Se pure si convenisse sul fatto che l’origine dei nervi è nella testa, [II,247,5] non per questo si converrebbe che l’egemonico abbia sede nella testa. Infatti, alle affermazioni che essi possono fare a favore del fatto che la voce sia portata fuori dal petto attraverso la gola e che però è la testa a mandare il comando che mette in attività le parti del corpo; noi abbiamo la possibilità di ribattere, circa i nervi, che essi originano sì dalla testa, ma ottengono la loro attività dal cuore.

[2] p. 224 M. [II,247,10] Queste affermazioni sono state fatte rettamente da Crisippo, e perciò ancor più lo si biasimerebbe perché, pur vedendo dall’alto la verità, non se ne serve. Invece, le argomentazioni cui ha messo mano a partire da una tesi preconcetta, o quelle delle quali sono chiamati a testimoni i poeti o la maggioranza degli uomini o una qualche etimologia oppure qualcos’altro del genere, non sono state da lui fatte rettamente. […] Pertanto egli, come qualcuno che abbia detto [II,247,15] la verità non per scienza ma per un caso fortuito, s’è discostato dalla ricerca e mette in campo i poeti in qualità di testimoni.

[3] p. 230 M. Io lo biasimo anche perché in un unico libro ha avuto l’impudenza di affermare tesi opposte a breve intervallo una dall’altra; prima scrivendo di un ragionamento di Zenone che aveva valore dimostrativo, e poi [II,247,20] nel prosieguo della compilazione mostrando la sua insussistenza come tale.

SVF II, 899

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 5, p. 297 M. Dopo ciò, egli spiega l’appellativo ‘senza cuore’, […] e anche adesso indicherò quel tanto che basta, prendendolo dalle parole stesse di Crisippo, le quali testimoniano a favore delle affermazioni che feci in precedenza. [II,247,25] Si tratta di parole di questo genere: “Per questo motivo alcune persone sono dette ‘di buon cuore’ come se si dicesse che sono ‘d’animo buono’; e di coloro che sono in affanno per qualcosa si dice che ‘hanno male al cuore’, come se appunto la sofferenza legata all’afflizione nascesse dal cuore”. […] Dopo di che [II,247,30] di ricalzo dice: “In generale, come affermavo all’inizio, le paure e le afflizioni palesano benissimo di nascere proprio in questa parte del corpo”. Anche in questo passo <Crisippo> rende testimonianza al discorso di Platone, e parlando successivamente in modo similare non s’accorge di stare strutturando l’argomentazione cheè la parte irascibile dell’animo [II,247,35] ad avere sede nel cuore. “Infatti, nel corso delle paure è patente sia il batticuore che il concorso di tutto l’animo nel cuore, non altro essendo questi fenomeni se non la risultante del fatto che ciascuna parte dell’animo è nata per patire insieme con tutte le altre; ragion per cui esse si rapprendono in se stesse [II,248,1] e si raccolgono nel cuore come se esso fosse l’egemonico e l’organo che lo custodisce. I patimenti legati all’afflizione nascono ben naturalmente proprio qui, poiché nessun altro luogo del corpo patisce ed ha male insieme ad altri. E infatti, quando nel corpo nascono delle sofferenze [II,248,5] estremamente forti, nessun altro luogo palesa questi patimenti, eccezion fatta per la zona soprattutto del cuore”. […] Ma questo discorso è assunto come ammesso dagli stessi Stoici, giacché non soltanto Crisippo ma anche Cleante e Zenone lo danno per scontato.

SVF II, 900

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 7, p. 302 M. [II,248,10] Nelle parole che vengono dopo i passi scritti in precedenza, Crisippo assume di nuovo come palmare che entrambi questi stati possibili abbiano origine a partire da una sola parte dell’animo, senza addizionare al suo discorso una sola dimostrazione o conforto o argomentazione persuasiva, come sarà appariscente dalle sue espressioni, che suonano così: “Essi porranno dunque [II,248,15] la questione in modo assurdo sia qualora affermino che l’afflizione e l’ansia non sono sofferenze, sia qualora affermino che le sofferenze nascono in un luogo diverso dall’egemonico. Lo stesso vale anche quando parleremo della gioia e del coraggio, i quali nascono palesemente nella zona cardiaca. Infatti, al modo in cui quando parliamo di un dolore al piede o alla testa, [II,248,20] il dolore fisico nasce in questi luoghi del corpo; allo stesso modo noi abbiamo consapevolezza che la sofferenza legata all’afflizione ci nasce nel torace, del fatto che l’afflizione è una sofferenza e inoltre che essa nasce non in qualche altro luogo ma nell’egemonico”.

[2] p. 305 M. [II,248,25] Crisippo non ammette che tali facoltà siano diverse una dall’altra e dunque non ammette che il vivente provi rancore con una facoltà, smani con un’altra e con un’altra ancora operi razionalmente.

SVF II, 901

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 7, p. 307 M. Poiché nel presente discorso abbiamo risolto di ricordare tutto ciò che Crisippo ha detto [II,248,30] nel primo libro ‘Sull’animo’ disquisendo dell’egemonico, sarebbe ormai il momento opportuno per rannodare a quanto già detto il resto. Subito dopo il passo di Crisippo scritto in precedenza, c’è dunque quest’altro: “Questo è un modo di pensare in armonia con il quale si fanno anche tutte le affermazioni del genere: ‘ti toccai il cuore’ e ‘tocco il cuore’ intendendo dire l’animo; [II,248,35] e ci lascerebbero per contro indifferenti coloro che dicessero di toccarci il cervello, i visceri o il fegato, mentre è vero che noi ci esprimiamo con espressioni similari a quelle dette prima. A me pare [II,249,1] che quelle espressioni si dicono come se uno dicesse: ‘ti tocco dentro’, dal momento che le pene del cuore ci penetrano fino a tal punto che noi utilizziamo la parola ‘cuore’ come se fosse la parola ‘animo’. Così si paleseranno queste faccende a chi vi riflette di più”.

SVF II, 902

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 4, p. 276 M. [II,249,5] E dunque qualora Crisippo affermi che alcune persone sono dette ‘senza cuore’ perché tutti gli uomini hanno ormai fede nel fatto che l’egemonico dell’animo sia insito nel cuore, merita stupirsi di quest’uomo […] […] Ma per Zeus, è stupefacente il suo modo di spiegare in quale senso i più usino l’espressione ‘senza cuore’, rannodando immediatamente ad essa anche l’espressione ‘senza visceri’. [II,249,10] Il passo è questo: “Essi paragonano a quelle citate altre espressioni del genere: ad esempio, ‘senza visceri’; locuzione con la quale s’intende dire che alcuni hanno o non hanno ‘cervello’, mentre noi sottintendiamo con questo modo di dire che alcuni non hanno, oppure hanno, ‘cuore’ secondo quanto detto in precedenza. [II,249,15] Ma forse le persone ‘senza visceri’ sono prese, all’opposto, per persone che non provano dentro alcuna condoglianza, anche se esse sono dette così più comunemente dal cuore, essendo il cervello preso o come qualcosa di simile al cuore, oppure per avere anch’esso un qualche signoraggio simile a quello dei visceri”. [II,249,20] Questo è il passo, e fa d’uopo leggerlo tre o quattro volte con molto agio, facendo precisamente attenzione alle parole. Soltanto così, io credo, uno si persuaderà che sussiste in questo passo la verità che dice il proverbio: “Prendi in mano il nulla e tienilo ben stretto”. [II,249,25] Crisippo non è stato uno zelatore della concisione neppure in uno solo dei suoi discorsi, anzi egli è così prolisso che spesso per un intero libro gira e rigira in sù e in giù il discorso intorno agli stessi argomenti. Il difetto della mancanza di chiarezza gli è consueto, difetto che s’accompagna alla debolezza di capacità ermeneutica. […] La brachilogia gli è inusitata e nasce in lui raramente, [II,249,30] soltanto in quei discorsi nei quali egli s’accorga delle inevitabili pecche dei suoi principi dottrinali, […] cioè allo scopo di far mostra che egli s’è difeso dall’incolpazione e che non l’ha affatto passata sotto silenzio, mentre noi nulla abbiamo da obiettare alle parole che ha detto, dal momento che non riusciamo neppure a capirle. Circa il passo scritto in precedenza, nel quale spiega il significato delle espressioni, come dicono i più, ‘senza visceri’ e [II,249,35] ‘non avere cervello’, lì per lì a me pare che egli intenda manifestare un pensiero di questo genere: “I più chiamano talune persone ‘senza visceri’ come sinonimo di ‘senza cuore’, poiché il cuore è un viscere; e poi dicono che ‘non avere cervello’ è sinonimo di ‘senza visceri’ poiché anche il cervello è un viscere, e un viscere dominante”. Non tutti gli Stoici però ammettono per sé una spiegazione di questo genere e invece affermano che il passo significa qualcos’altro, [II,250,1] che però non rendono manifesto evidentemente perché fa parte delle loro dottrine esoteriche. Anzi, ci rimproverano senz’altro di fare obiezioni precipitose prima di saper riconoscere cosa dice il passo. Alcuni di loro, per ingiuriarci con maggiore veemenza, ci soprannominano gente non iniziata e ambiziosa, affermando che non insegneranno il significato di quelle parole ad uomini privi di educazione, [II,250,5] sebbene si dilunghino poi su altre questioni anche contro la nostra volontà. Ma qualora, come dissi, essi giungano ad un passo di questo genere, il quale non offre alcun facile passaggio alle chiacchiere, quelli che scrivono libri passano oltre frettolosamente e insieme con poca chiarezza; quelli che invece spiegano le compilazioni Stoiche, diventano pronti a diffondere tra gli ascoltatori il sottinteso di un’invidia, [II,250,10] e così simulano di non voler essere loro ad insegnare a noi il significato del passo, piuttosto che ammettere d’essere stati vinti dalla sua oscurità. Ma lasciamo ormai stare i ‘senza visceri’ e i ‘senza cervello’, per non affliggere oltre i seguaci di Crisippo, i quali sono con ogni evidenza condannati dalle testimonianze di coloro che essi invocano come testimoni.

SVF II, 903

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 7, p. 309 M. Dopo ciò [II,250,15] egli scrive questo passo: “A me paiono essere spinti da siffatto modo di pensare soprattutto coloro che per estrema sete di vendetta contro alcuni, si lasciano portare dall’impulso a strappar loro il cuore; modo di pensare esacerbando il quale essi sono conformemente portati a strappar loro il resto dei visceri”.

[2] p. 311 M. ….come anche si legge nei passi successivi a quelli scritti prima, [II,250,20] nei quali egli afferma: “Anche le passioni di coloro che sono preda dell’ira e dell’amore appaiono nascere nella regione toracica, sicché anche la smania nasce soprattutto in questa zona del corpo”.

[3] p. 312 M. Dopo di che egli scrive questo: [II,250,25] “Fanno un ottimo riscontro a quanto detto, come venivo affermando, anche lo studio accurato delle parole e cose similari che avvengono in noi stessi. Infatti, è del tutto ragionevole che quella parte dell’animo nella quale tutti questi atti sono portati a compimento sia anche la via d’uscita del discorso, e che noi parliamo e pensiamo grazie ad essa”.

[4] p. 313 M. [II,250,30] A me sembra che egli sfrutti anche adesso il discorso sulla voce. Lo arguisco dalle seguenti affermazioni: “Bisogna parlare, egli afferma, a partire dall’intelletto, in esso parlare e pensare; e in noi stessi particolareggiare la voce e poi mandarla fuori”. [II,250,35] Una volta dato per ammesso che il parlare e il parlare fra sé e sé siano attività della stessa parte dell’animo, e dopo avere fatto l’assunzione aggiuntiva che il parlare è opera del cuore; da entrambi questi assunti egli ha concluso che il discorso fra sé e sé avviene nel cuore. […] Esaminiamo adesso il seguito.

[5] p. 314 M. [II,251,1] “In linea con ciò, anche i sospiri sono da qui ceduti all’esterno”.

SVF II, 904

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 7, p. 315 M. Frammiste ai versi epici, le sue note sono pochissime; eppure includono un’affermazione autocontraddittoria di Crisippo […] [II,251,5] Al presente, dei suoi passi rammenterò soltanto quelli che suonano così: “Il poeta, peccando addirittura per eccesso, in molti versi fa riscontrare che la parte razionale e quella irascibile dell’animo si trovano in questa zona del corpo, e le combina insieme in una stessa entità, proprio come si deve [II,251,10] fare”. […] Nel prosieguo, dopo avere detto in quali versi il poeta dichiara che la parte razionale dell’animo è situata nel cuore, <Crisippo> aggiunge “che anche la parte concupiscente dell’animo si trovi qui, lo palesano questi versi”:

‘Giammai a questo modo passione amorosa per una dea o una donna

[II,251,15] mi domò, facendo dilagare l’ardore nel petto’

Poi di seguito dice “che la parte irascibile dell’animo stia in qualche modo qui, lo palesano molti versi di questo genere”:

‘Ma ad Era il petto non contenne la collera, e disse’

e: [II,251,20]

‘E la collera che spinge a esasperarsi anche il più saggio’

SVF II, 905

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 1, p. 331 M. Pertanto, se Crisippo scrivesse sempre le stesse cose sugli stessi argomenti e non litigasse con se stesso mostrandosi ambivalente nella maggior parte dei suoi giudizi, il mio discorso di contrasto alle sue opinioni [II,251,25] non andrebbe per le lunghe. Poiché, invece, egli si fa trovare a scrivere sugli stessi argomenti ora una cosa ora un’altra, non risulta facile né interpretare il punto di vista di quest’uomo, né mostrare dove inciampa. All’inizio del primo libro della sua opera ‘Sull’animo’, parlando delle facoltà che ci governano Crisippo, come concepiva Platone, ha posizionato nella testa la parte razionale dell’animo, la parte irascibile nel cuore [II,251,30] e la parte concupiscente nella zona dell’ombelico. Ma nei passi successivi egli prova a combinarle tutte e tre insieme nel cuore. Le sue parole son queste: “Il poeta, peccando addirittura per eccesso, in molti versi fa riscontrare che la parte razionale e quella irascibile dell’animo si trovano in questa zona del corpo, e rannoda [II,251,35] a questa stessa zona anche la parte concupiscente, proprio come si dovrebbe fare”. Poi in aggiunta afferma “che la parte razionale dell’animo sia situata qui, lo palesano questi versi”:

[II,252,1] ‘Mente e saggezza irreprensibili altro mi dicevano nel petto,

ma l’animo mio nel petto giammai riuscivano a persuadere’

Di seguito a questi cita numerosi altri versi, e poi afferma “che anche la parte concupiscente dell’animo si trovi qui, lo palesano questi versi”:

[II,252,5] ‘Giammai a questo modo passione amorosa per una dea o una donna

mi domò, facendo dilagare l’ardore nel petto’

e poco dopo di nuovo dice “che anche la parte irascibile dell’animo secondo lui stia qui, lo palesano molti versi di questo genere”:

[II,252,10] ‘Ma ad Era il petto non contenne la collera, e disse’

e inoltre:

‘E la collera che spinge a esasperarsi anche il più saggio,

e molto più dolce del miele stillante

cresce nel petto agli uomini, come fumo’

SVF II, 906

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 2, p. 260 M. [II,252,15] Era meglio […] che Crisippo […] provasse a dimostrare la tesi di Zenone, (ossia che dove ha sede la parte passionale dell’animo, là si trova anche la sua parte razionale) invece di mettersi a trascrivere una moltitudine di versi selezionandoli da tutti i poeti e mostranti che l’ira, il rancore, la paura, la viltà, la sfrontatezza, [II,252,20] il coraggio, la fortezza e quant’altro è di questo genere sono, alcuni delle attività dell’animo, altri dei patimenti dell’animo. Cosa vogliono dire per lui questi versi raccolti insieme prendendoli da Omero?

‘Il cuore gli latrava dentro’

e:

[II,252,25] ‘Battendosi il petto, il cuore rimproverava dicendo:

sopporta, cuore; altro sopportasti una volta ben peggiore’

e:

‘Così fitto in petto gemeva Agamennone

dal fondo del cuore, vicino alle navi Achee’

e: [II,252,30]

‘Ma il cuore mi si gonfia di collera’

e:

‘Ma ad Era il petto non contenne la collera, e disse’

e:

[II,252,35] ‘Ma anche dopo conserva il risentimento nel suo petto,

fino a che lo soddisfi’

In tutti questi versi è manifesto che ad essere inclusa nel cuore non è la parte razionale dell’animo ma quella irascibile; come, io credo, dimostrano anche questi versi:

‘E la collera che spinge a esasperarsi anche il più saggio,

[II,253,1] e molto più dolce del miele stillante

cresce nel petto agli uomini, come fumo’

e:

‘Nel cuore, per lottare e combattere senza riposo’

e inoltre: [II,253,5]

‘Gli ispirò in cuore il coraggio di una mosca’

e:

‘Così che la pena angosciosa invadesse il cuore del Laerziade Odisseo’

e:

[II,253,10] ‘Nel petto t’è giunta la vitalità paterna’

e:

‘[…] Ma Achille

terribile ha in petto orgoglioso rancore’

e:

[II,253,15] ‘[…] Ma a te mai finito, malvagio

rancore posero in petto gli Dei, a motivo d’una fanciulla’

e:

‘Così ad Enea l’animo si rallegrava nel petto’

e:

[II,253,20] ‘Prese fuoco nel petto il vigore di Zeus potentissimo,

quando seppe’

e inoltre:

‘Ed ecco me dentro nel petto, ancor più

l’animo impelle a lottare e combattere’

e: [II,253,25]

‘La squassò, urlò fortissimo egli stesso, a quelli l’animo

incantò dentro il petto, e ciascuno si ricordò della paura’

e:

‘Nestore, me spingon cuore ed animo superbo’

e: [II,253,30]

‘Il cuore del quale molto è saggio e l’animo superbo’

e:

‘Vecchio, oh se all’animo che c’è nel tuo petto,

tali s’accompagnassero le ginocchia !’

e: [II,253,35]

‘Sai com’è il cuore in un petto di donna’

e:

‘Il tuo caro cuore

nel petto sopporti di vedermi angariato’

e: [II,253,40]

‘Così parlò; a quelli fece il cuore un balzo nel petto’

e: [II,254,1]

‘Telemaco in cuore lutto grande fomentava’

e:

‘Così parlava, nel petto rimproverando il cor suo;

[II,254,5] ma fermo nell’obbedienza restava il cuore costante’

Tutti questi versi, e inoltre miriadi di altri che Crisippo cita in gran numero, affermano che la parte irascibile dell’animo ha sede nel cuore; e se io li trascrivessi tutti riempirei il libro, come l’ha riempito Crisippo. [II,254,10] Ma per quanto concerne Omero, sono sufficienti questi. Dei versi di Esiodo trascritti da Crisippo, che son anch’essi moltissimi, a me basterà ricordarne due o tre e mo’ di esempio:

‘A lui il rancore cresceva nel petto’

e: [II,254,15]

‘Avendo in petto una collera tale da farne soffrire l’animo’

e:

‘Animo superbo s’accrebbe nel petto di tutti’

[II,254,20] Versi simili, poi, Crisippo li ricorda tutti. Sarebbe però d’uopo che tutti i versi di questo tipo fossero stati omessi da Crisippo; e che egli invece raccogliesse insieme tutti quelli nei quali un poeta afferma che la mente, il buon senso, l’intelletto e la ragione sono inclusi nel cuore, come sono i versi di questo genere:

[II,254,25] ‘Allora Zeus tolse il buon senso dal petto di Atama’

e:

‘Hai riconosciuto, o Enosìctono, la deliberazione che ho in petto’

e:

‘Sempre questa intellezione hai nel petto’

e: [II,254,30]

‘Non ho siffatta intellezione nel petto’

[2] p. 267 M. Per chi vuole mettere in evidenza la verità storica sarebbe bene scrivere più versi di quel tipo e meno versi di questo tipo, giacché i primi sono [II,254,35] effettivamente in numero maggiore. Ma per chi è impegnato nella tesi che Crisippo s’industria di strutturare, ciò sarebbe a suo sfavore, e soprattutto lo sarebbero tutti quei versi nei quali il poeta mostra chiaramente la parte razionale dell’animo nell’atto di rimproverare quella irascibile, come i versi seguenti:

‘Battendosi il petto, il cuore rimproverava dicendo:

[II,254,40] sopporta, cuore; altro sopportasti una volta ben peggiore’

[3] p. 272 M. [II,255,1] A me sembra che Platone ricordi molto opportunamente questi versi nel quarto libro della ‘Repubblica, e che invece li ricordi molto inopportunamente Crisippo; e mi riferisco soprattutto ai versi che Euripide [II,255,5] fa dire a Medea quando in quell’animo il ragionamento si ribella al rancore.

[4] p. 274 M. Mentre [II,255,10] non legittima l’idea che quella irascibile e quella razionale siano due parti distinte dell’animo e ritiene che oltre la facoltà razionale non esistano delle facoltà irrazionali, Crisippo ugualmente non si perita di ricordare i versi di Odisseo e di Medea che con tutta evidenza mandano in pezzi la sua opinione […] Il discorso sull’egemonico scritto da Crisippo è stato da lui infarcito di versi di poeti i quali testimoniano o che le passioni hanno la loro sede nella zona toracica e in quella del cuore, oppure [II,255,15] che esistono due facoltà dell’animo sotto ogni aspetto differenti una dall’altra, e delle quali una è irrazionale e l’altra razionale. Come citai brevemente poco innanzi i versi che Crisippo ha scritto traendoli da Omero e da Esiodo, così egli ricorda moltissimi versi traendoli da Orfeo, Empedocle, Tirteo, Stesicoro, Euripide ed altri poeti, [II,255,20] versi contenenti tutti un’assurdità simile, per esempio, quando Tirteo dice:

‘Avendo nel petto l’animo di un leone ardente’

Ora, che il leone abbia animo, tutti noi uomini lo sappiamo con precisione anche prima d’aver sentito parlare di Tirteo; e davvero non sarebbe confacente per Crisippo citare questo verso, giacché egli esclude che i leoni abbiano un animo. [II,255,25] Infatti, a suo giudizio, nessun animale bruto possiede un animo irascibile, concupiscente o razionale, ma […] quasi tutti gli Stoici privano, contro ogni evidenza, gli animali bruti di tutte le predette facoltà.

SVF II, 907

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 4, p. 281 M. [II,255,30] Dopo avere infarcito l’intero libro di versi di Omero, di Esiodo, di Stesicoro, di Empedocle e di Orfeo e dopo avere citato, oltre questi, non pochi versi tratti dalla tragedia, da Tirteo e da altri poeti; e dopo avere, dico, messo insieme questa stupefacente serie di interminabili chiacchiere -giacché ritengo [II,255,35] sia questo il nome che meglio loro conviene – Crisippo aggiunge queste testuali parole: “Affermeranno che questo è una ciarlata da vecchia o, caso mai, di un insegnante di grammatica che vuole posizionare sotto lo stesso pensiero quante più righe gli è possibile”.

[2] p. 285 M. [II,256,1] Spintovi dalla ciarlata di Crisippo, io fui dunque costretto a spiegare le parole pronunciate dalle persone comuni e quelle di un Euripide; cosa che non avrei mai avuto l’audacia di effettuare di mia spontanea volontà scrivendo le dimostrazioni di un principio dottrinale così importante. [II,256,5]

SVF II, 908

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 8, p. 317 M. Qui di seguito addizionerò il discorso di Crisippo su Atena. Accorgendosi infatti che il mito riguardante la dea era in opposizione con i suoi principi dottrinali in quanto Atena veniva concepita come generata dalla testa di Zeus, egli dice questo (citerò tutto il suo passo anche [II,256,10] se è piuttosto lungo): “Sento alcuni parlare a conforto della tesi che la parte egemonica dell’animo sia nella testa. Infatti essi affermano che la nascita di Atena, la quale rappresenta in un certo senso la prudenza e la saggezza, dalla testa di Zeus è il segno distintivo che la sede dell’egemonico si trova in questa parte del corpo, [II,256,15] e che la prudenza e la saggezza possono nascere nella testa unicamente a patto che l’egemonico si trovi in essa. Costoro hanno dalla loro parte una certa plausibilità e tuttavia sbagliano, come a me appare chiaro, poiché ignorano i vari resoconti che si hanno di questa vicenda, resoconti circa i quali non è male precisare qualcosa di più nelle presenti ricerche. Alcuni dicono semplicemente così, ossia che [II,256,20] Atena è nata dalla testa di Zeus, e non danno ulteriori informazioni sul ‘come’ o sul ‘per quale ragione’; mentre invece Esiodo, tra le varie Teogonie, dice qualcosa di più. Alcuni scrittori, nella loro Teogonia, asseriscono che la generazione di Atena avvenne dopo che Zeus si unì sessualmente una prima volta con Metis e una seconda volta con Temis. Invece altri scrittori, in opere diverse, parlano in un altro modo [II,256,25] della sua generazione, asserendo che vi era stato un litigio tra Zeus ed Era; e che Era, per parte sua, generò da sé sola Efesto; mentre Zeus generò Atena dopo avere ingoiato Metis. L’ingestione di Metis e la generazione di Atena all’interno del corpo di Zeus è elemento comune ad entrambi i racconti, [II,256,30] mentre essi differiscono sul come questa vicenda sia giunta a compimento. Ciò è però irrilevante ai fini del presente discorso, per il quale è proficuo soltanto l’elemento loro comune. Nella Teogonia <di Esiodo> la vicenda è raccontata così:

[II,256,35] ‘Zeus, il re degli dei, prese in sposa per prima Metis,

di dei e d’uomini mortali la più sapiente.

Ma quand’ella stava per partorire Atena, la dea occhi azzurri,

allora egli con dolo ingannandone il senno,

[II,257,1] con insinuanti parole giù la ingoiò nel suo ventre,

affinché lo consigliasse la dea sul bene e sul male.

Poi proseguendo dice così:

‘Egli dalla testa generò Atena occhi azzurri,

[II,257,5] terribile, suscitatrice di tumulti, conduttrice di schiere, infaticata,

signora, cui piacciono strepiti, guerre e battaglie’

È dunque ben manifesto che Zeus ripose Metis dentro il proprio petto, e in questo modo <Esiodo> afferma che Zeus la generò dalla testa. In passi successivi, discutendo ulteriormente di ciò, si dicono parole di questo genere:

[II,257,10] ‘A seguito di questo litigio e senza concorso di Zeus Egioco,

<Era> partorì un figlio splendido nelle arti: Efesto,

da tutti i celesti acclamato per le sue abilità.

Ma Zeus dal suo canto, da Era belle guance in disparte,

con l’inganno la figlia d’Oceano e di Teti belle chiome

[II,257,15] s’assunse, se pur ella era in continuo movimento;

ché la ghermì fra le mani e giù la ingoiò nel suo ventre,

temendo partorisse qualcuno strapotente più della folgore.

Per questo il Cronide eccelso che nell’etere ha stanza

subitamente la bevve, ed ella lì per lì fu gravida

[II,257,20] di Pallade Atena; che a partorire era però il padre degli uomini e degli dei,

dal suo cocuzzolo, sui rialti del fiume Tritone.

Nascosta poi nelle viscere di Zeus,

madre d’Atena era Metis, architetta di giustizia,

di dei e d’uomini mortali la più sapiente.

[II,257,25] Qui era stata attirata anche Temis, la dea

che tra gli immortali tutti eccelleva, quanti hanno palazzi in Olimpo;

ed ella entro le viscere di Zeus per Atena faceva un’egida che spaventa gli eserciti

e Zeus la generò con quella ed armata con armi da guerra.

SVF II, 909

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 8, p. 321 M. Ciò ravvisato, [II,257,30] Crisippo di poi rannodandovisi scrive questo: “Le cose che si raccontano su Atena sono di questo genere, ma esse rappresentano il palesamento simbolico di un’altra vicenda. In primo luogo, infatti, vi si parla di Metis come se ella fosse una certa saggezza ed arte del vivere per cui bisogna ‘ingoiare’ e ‘riporre in noi stessi’ le arti, [II,257,35] nel senso in cui diciamo che alcuni ‘ingoiano’ i discorsi che sentono, e che attraverso la loro ingestione si dice, per conseguenza, che essi sono stati riposti nei visceri. Dopo di che è ragionevole che siffatta arte ingoiata partorisca in lui qualcosa, similarmente ad una madre che partorisce. [II,258,1] Detto ciò è il momento di considerare quali cose siano partorite negli uomini dalle conoscenze scientifiche, come esse procedano fuori di loro e soprattutto attraverso quale via. È sotto gli occhi di tutti, infatti, che con il discorso esse sono portate all’esterno attraverso la bocca e in relazione alla testa, parlandosi della testa al modo in cui si parla [II,258,5] della ‘testa’ di un gregge di pecore, e si può dire che si eliminano delle ‘teste’. Nel citato racconto si dice anche che Atena è nata dal cocuzzolo di Zeus, ma di siffatti racconti contenenti discrepanze usate come segni distintivi, ce ne sono molti. Se si prescinde da questo aspetto della storia e si guarda soltanto alla nascita, tutti direbbero cose similari, ossia che la nascita di Atena è avvenuta ‘dalla’ testa. [II,258,10] Il racconto, infatti, a meno che alcuni vogliano pervertirlo e discostarsene, non afferma che Atena è nata ‘nella’ testa ma che Atena è fuoruscita ‘dalla’ testa essendo però nata altrove. Sicché, come dicevo, questo è un segno ancor più distintivo di un’altra cosa; ossia del fatto che tutte le opere ingegnose che negli uomini nascono e che [II,258,15] escono dalla loro testa segnalano proprio la validità del precedente discorso”.

SVF II, 910

[1] Filodemo ‘De pietate’ cp. 16 (DDG 549, 9). Alcuni Stoici sono dell’avviso che l’egemonico sia nella testa, giacché esso è saggezza e per questo si chiama Metis. Crisippo è invece del parere che l’egemonico abbia sede nel petto [II,258,20] e che Atena, la quale è saggezza, sia nata qui, e che si dice ‘nata dalla testa’ per il fatto che la voce è escreta dalla testa. Egli sostiene anche che Atena si dice nata ad opera di Efesto poiché la saggezza nasce per arte; e che ella andrebbe chiamata Atrena, Tritonide e Tritogenia perché la saggezza consiste di tre ragionamenti: quello fisico, quello etico e quello logico. Tutti gli altri appellativi [II,258,25] ed attributi egli li apparenta poi alle dea in modi che sono del tutto spuri.

[2] Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 67, p. 792. Allo scopo di parlare allegoricamente e di dire che Atena è la saggezza […]

SVF II, 911

Crisippo ‘De animo’ Libro I [Tentativo di ricostruzione d’insieme del primo libro ‘Sull’animo’ di Crisippo]

[II,258,30] L’animo è uno pneuma che ci è connaturato, che pervade con continuità tutto il nostro corpo e che è presente qualora nel corpo ci sia la buona respirazione caratteristica della vita. Poiché le parti dell’animo entrano nella costituzione di ciascun pezzo del corpo, noi chiamiamo ‘voce’ la parte dell’animo che pervade l’arteria tracheale, ‘vista’ quella che pervade gli occhi, ‘udito’ quella che pervade le orecchie, [II,258,35] ‘olfatto’ quella che pervade il naso, ‘gusto’ quella che pervade la lingua e ‘tatto’ quella che pervade tutta la carne. Chiamiamo ‘seminale’ la parte dell’animo che pervade i testicoli e che veicola un certo altro pneuma che è ragione seminale; e chiamiamo ‘egemonico’ quella ch’è situata nel cuore e nella quale tutte queste parti convengono. [II,259,1] Stando così le cose, quanto al resto delle parti dell’animo vi è accordo, ma vi è disaccordo tra i medici e tra i filosofi quanto all’egemonico, giacché alcuni lo vogliono localizzato in una parte del corpo ed altri, invece, in altre parti. Infatti, alcuni affermano che l’egemonico è situato nella zona toracica, altri nella zona encefalica. Ma quanto a queste stesse zone, essi dissentono poi sulla sua precisa localizzazione entro la testa ed entro il torace, senza trovare un accordo tra di loro. [II,259,5] Platone, dopo avere affermato la tripartizione dell’animo, diceva che la parte raziocinante è situata nella testa, la parte irascibile è situata nel torace e la parte concupiscente nella zona ombelicale. E così questo luogo appare sfuggirci, sia perché non ce n’è una sensazione patente -cosa che invece è capitata nel caso delle altre parti dell’animo – sia perché non ci sono prove grazie alle quali arrivare per deduzione ad individuare questo luogo. Del resto, se così non fosse, [II,259,10] il contrasto di opinioni sia tra i medici che tra i filosofi non si sarebbe protratto per così tanto tempo. Su ciò che viene dopo faremo ricerche prendendo similarmente impulso dal comune portamento al riguardo, e dai discorsi che secondo esso si fanno. E su queste basi è sufficientemente chiaro che gli uomini sono stati portati fin dall’inizio a credere che il nostro egemonico sia situato nel cuore. A me pare che la maggior parte degli uomini abbia un comune portamento a questo riguardo; come se essi, quando nascono delle passioni nell’intelletto, [II,259,15] ne avessero consapevolezza nel torace e soprattutto nella zona dov’è posizionato il cuore: ad esempio, soprattutto per le afflizioni e le paure, nel caso dell’ira e in particolar modo del rancore. Infatti il rancore si palesa a noi come una passione che esala dal cuore e se ne sospinge fuori diretta contro qualcuno, e che fa rigonfiare il volto e le mani […] Lo sconcerto [II,259,20] che nasce nell’intelletto in ciascuno di questi frangenti è sensibilmente percepito nel torace. Se qui nasce l’ira, è ragionevole che anche le restanti smanie abbiano qui la loro sede e, per Zeus, le restanti passioni, le perplessità e quanto è ad esse similare. La maggior parte di costoro, appagandosi corrivamente di un modo di dire, e ne soggiungono in verità molti del genere, si attengono al portamento suddetto. In primo luogo tutti, [II,259,25] tanto per cominciare di qua, in argomento affermano che il rancore di qualcuno ‘monta’ e sollecitano alcuni ad ‘ingoiare’ la bile, sostenendo di dirlo nel senso in cui noi diciamo loro di ingoiare o di non ingoiare dei bocconi. Così si dice anche: ‘A loro nulla di questo va giù’; e: ‘Se ne partì ingoiando le parole dette’. A coloro che lo riprendevano perché portava alla bocca tutti i suoi quesiti, [II,259,30] Zenone disse: ‘Non tutti i quesiti si ingoiano’. Altrimenti non si potrebbe più parlare propriamente dello ‘ingoiare’ e dello ‘andare giù’ delle parole, se il nostro egemonico non avesse sede nella zona del torace, egemonico verso il quale tutto si porta. Se esso invece è situato nella testa, sarà ridicolo e improprio dire ‘andare giù’, e credo che essi direbbero più propriamente ‘montare’ [II,259,35] e non ‘andare giù’. Alla stessa stregua, della sensazione uditiva che si porta in basso verso l’intelletto, se l’intelletto fosse nella zona toracica si dirà con proprietà trattarsi di una discesa; se però l’intelletto fosse nella testa, si tratterà di un modo di dire del tutto improprio. Le donne palesano ciò ancora di più giacché, se le parole dette non vanno loro giù, portano spesso un dito in basso alla zona del cuore, [II,259,40] e si mostrano dell’avviso che quanto detto non va giù fin lì. Consequenzialmente a ciò noi diciamo che alcuni ‘vomitano fuori’ quel che a loro pare, e anche ‘vomitare il fondo dell’anima’; e pronunciamo molte siffatte espressioni in armonia con quanto detto. Infatti, se ‘ingoiare’ qualcosa e riporlo nell’intelletto è simile a dire [II,260,1] che ‘è giornata’ per qualcosa; quando a sua volta, davanti agli stessi fatti, si dice che ‘non è giornata’ per quel qualcosa, non impropriamente e non inappropriatamente si vuol dire di vomitarlo fuori. Nel senso in cui diciamo che delle parole di minaccia o d’ingiuria non vanno giù fino a raggiungerle e toccarle così da smuoverne l’intelletto; [II,260,5] in questo senso diciamo anche che alcune persone sono ‘profonde’, perché nessuna parola del genere riesce ad andare giù fino a toccare il loro fondo […] È ragionevole che la parte verso la quale sono dirette le significazioni contenute nel discorso e dalla quale il discorso promana, ebbene che quella sia la parte dominante dell’animo. Infatti, fonte del discorso e fonte dell’intelletto non possono essere fonti diverse, né può essere una la fonte della voce e un’altra la fonte del discorso e neppure, badando all’insieme, può semplicemente darsi che la fonte della voce [II,260,10] sia una cosa e la parte dominante dell’animo un’altra. Una volta circoscritta la definizione dell’intelletto in armonia con siffatte argomentazioni, essi dicono che l’intelletto è la fonte del discorso. Insomma, donde il discorso scaturisce, di là bisogna che nascano anche, come dicevo, la meditazione, i pensieri, lo studio delle parole. Ora, è patente che queste attività avvengono nella zona del cuore, e che tanto la voce quanto il discorso scaturiscono [II,260,15] dal cuore attraverso la gola. Del resto è plausibile che la parte dell’animo in direzione della quale le cose dette sono rese significanti sia anche quella a partire dalla quale esse sono significate, e che le voci nascano da quella parte dell’animo al predetto modo. Così diciamo anche ‘egò’ (io) per questo, mostrando noi stessi che l’intelletto è nel torace col portare qui l’indicazione in modo naturale e proprio. [II,260,20] Ma anche senza siffatta ulteriore indicazione con la mano, noi pronunciamo ‘egò’ accennando a noi stessi, perché la voce ‘egò’ è subito di un genere tale che enuncia da se stessa la propria sede, secondo le indicazioni qui di seguito delineate. Quando noi proferiamo ‘egò’, infatti, nel pronunciare la prima sillaba tiriamo verso il basso il labbro inferiore in un modo che è dimostrativo di noi stessi, e poi in modo consequenziale al movimento della mascella, [II,260,25] al suo accennare verso il petto e a siffatta ulteriore indicazione, le si pone accanto la sillaba seguente, la quale nulla palesa di distante, il che è capitato invece nel caso della parola ‘ekéinos’ (quello). <Ciò accade> perché quando annuiamo con la testa per dare il nostro assenso, noi portiamo la testa su quella parte del corpo nella quale intendiamo mostrare che risiede la causa prima dell’animo. In armonia con tutto ciò, il cuore (kardìa) ha avuto questo nome in relazione alla dominazione e al signoraggio che gli vengono dal fatto di essere sede della parte dominante [II,260,30] e padrona dell’animo, tanto da poter essere chiamata ‘kratìa’. Noi impelliamo in armonia con questa parte dell’animo, noi assentiamo con questa parte dell’animo, questa è la parte dell’animo cui tendono tutti gli organi di senso […] Sta di fatto, come dicevo, che noi faremo più ricerche su tutti i nervi, anche se si concedesse la tesi, che essi avanzano, che le parti delle quali si è parlato abbiano origine dalla testa. [II,260,35] Se, per esempio, essi dicessero qualcosa sul fatto che la voce dal petto si porta attraverso la gola, ma a partire da una qualche base originaria che si trova nella testa, io penso che sia permesso ribattere che però l’egemonico è nel cuore, anche se l’origine dei movimenti della voce si trova nella testa. Per questo motivo alcune persone sono dette ‘di buon cuore’ come se si dicesse che sono ‘d’animo buono’; [II,260,40] e di coloro che sono in affanno per qualcosa si dice che ‘hanno male al cuore’, come se appunto la sofferenza legata all’afflizione nascesse dal cuore. In generale, come affermavo all’inizio, le paure e le afflizioni palesano benissimo di nascere proprio in questa parte del corpo. Infatti, nel corso delle paure è patente sia il batticuore che il concorso di tutto l’animo nel cuore, [II,261,1] non altro essendo questi fenomeni se non la risultante del fatto che ciascuna parte dell’animo è nata per patire insieme con tutte le altre; ragion per cui esse si rapprendono in se stesse e si raccolgono nel cuore come se esso fosse l’egemonico e l’organo che lo custodisce. I patimenti legati all’afflizione nascono ben naturalmente proprio qui, [II,261,5] poiché nessun altro luogo del corpo patisce ed ha male insieme ad altri. E infatti, quando nel corpo nascono delle sofferenze estremamente forti, nessun altro luogo palesa questi patimenti, eccezion fatta per la zona soprattutto del cuore. Essi porranno dunque la questione in modo assurdo sia qualora affermino che l’afflizione e l’ansia non sono sofferenze, sia qualora affermino che le sofferenze nascono in un luogo diverso dall’egemonico. Lo stesso vale anche quando parleremo [II,261,10] della gioia e del coraggio, i quali nascono palesemente nella zona cardiaca. Infatti, al modo in cui quando parliamo di un dolore al piede o alla testa, il dolore fisico nasce in questi luoghi del corpo; allo stesso modo noi abbiamo consapevolezza che la sofferenza legata all’afflizione ci nasce nel torace, del fatto che l’afflizione è una sofferenza e inoltre che essa nasce non in qualche altro luogo ma nell’egemonico. [II,261,15] Questo è un modo di pensare in armonia con il quale si fanno anche tutte le affermazioni del genere: ‘ti toccai il cuore’ e ‘tocco il cuore’ intendendo dire l’animo; e ci lascerebbero per contro indifferenti coloro che dicessero di toccarci il cervello, i visceri o il fegato, mentre è vero che noi ci esprimiamo con espressioni similari a quelle dette prima. A me pare che quelle espressioni si dicono come se uno dicesse: ‘ti tocco dentro’, dal momento che le pene del cuore ci penetrano fino a tal punto [II,261,20] che noi utilizziamo la parola ‘cuore’ come se fosse la parola ‘animo’. Così si paleseranno queste faccende a chi vi riflette di più[…] Essi paragonano a quelle citate altre espressioni del genere: ad esempio, ‘senza visceri’; locuzione con la quale s’intende dire che alcuni hanno o non hanno ‘cervello’, mentre noi sottintendiamo con questo modo di dire che alcuni non hanno, oppure hanno, ‘cuore’ secondo quanto detto in precedenza. Ma forse le persone ‘senza visceri’ sono prese, all’opposto, [II,261,25] per persone che non provano dentro alcuna condoglianza, anche se esse sono dette così più comunemente dal cuore, essendo il cervello preso o come qualcosa di simile al cuore, oppure per avere anch’esso un qualche signoraggio simile a quello dei visceri. A me paiono essere spinti da siffatto modo di pensare soprattutto coloro che per estrema sete di vendetta contro alcuni, si lasciano portare dall’impulso [II,261,30] a strappar loro il cuore; modo di pensare esacerbando il quale essi sono conformemente portati a strappar loro il resto dei visceri […] Anche le passioni di coloro che sono preda dell’ira e dell’amore appaiono nascere nella regione toracica, sicché anche la smania nasce soprattutto in questa zona del corpo […] Fanno un ottimo riscontro a quanto detto, come venivo affermando, anche lo studio accurato [II,261,35] delle parole e cose similari che avvengono in noi stessi. Infatti, è del tutto ragionevole che quella parte dell’animo nella quale tutti questi atti sono portati a compimento sia anche la via d’uscita del discorso, e che noi parliamo e pensiamo grazie ad essa. Bisogna parlare, infatti, a partire dall’intelletto, in esso parlare e pensare; e in noi stessi particolareggiare la voce e poi mandarla fuori. In linea con ciò, anche i sospiri sono da qui ceduti all’esterno […] [II,261,40] Il poeta, peccando addirittura per eccesso, in molti versi fa riscontrare che la parte razionale e quella irascibile dell’animo si trovano in questa zona del corpo, e le combina insieme in una stessa entità, proprio come si deve fare. Che la parte razionale dell’animo sia situata qui, lo palesano questi versi:

[II,262,1] ‘Mente e saggezza irreprensibili altro mi dicevano nel petto,

ma l’animo mio nel petto giammai riuscivano a persuadere’

Che anche la parte concupiscente dell’animo si trovi qui, lo palesano questi versi:

[II,262,5] ‘Giammai a questo modo passione amorosa per una dea o una donna

mi domò, facendo dilagare l’ardore nel petto’

Che anche la parte irascibile dell’animo stia qui, lo palesano molti versi di questo genere:

[II,262,10] ‘Ma ad Era il petto non contenne la collera, e disse’

e inoltre:

‘E la collera che spinge a esasperarsi anche il più saggio,

e molto più dolce del miele stillante

cresce nel petto agli uomini, come fumo’.

[II,262,15]

Affermeranno che questo è una ciarlata da vecchia o, caso mai, di un maestro di grammatica che vuole posizionare sotto lo stesso pensiero quante più righe gli è possibile.

[…]

[II,262,20] Sento alcuni parlare a conforto della tesi che la parte egemonica dell’animo sia nella testa. Infatti essi affermano che la nascita di Atena, la quale rappresenta in un certo senso la prudenza e la saggezza, dalla testa di Zeus è il segno distintivo che la sede dell’egemonico si trova in questa parte del corpo, e che la prudenza e la saggezza possono nascere nella testa unicamente a patto che l’egemonico si trovi in essa. Costoro hanno dalla loro parte una certa plausibilità [II,262,25] e tuttavia sbagliano, come a me appare chiaro, poiché ignorano i vari resoconti che si hanno di questa vicenda, resoconti circa i quali non è male precisare qualcosa di più nelle presenti ricerche. Alcuni dicono semplicemente così, ossia che Atena è nata dalla testa di Zeus, e non danno ulteriori informazioni sul ‘come’ o sul ‘per quale ragione’; mentre invece Esiodo, tra le varie Teogonie, dice qualcosa di più. Alcuni scrittori, nella loro Teogonia, asseriscono che la generazione di Atena avvenne dopo che Zeus [II,262,30] si unì sessualmente una prima volta con Metis e una seconda volta con Temis. Invece altri scrittori, in opere diverse, parlano in un altro modo della sua generazione, asserendo che vi era stato un litigio tra Zeus ed Era; e che Era, per parte sua, generò da sé sola Efesto; mentre Zeus generò Atena dopo avere ingoiato Metis. L’ingestione di Metis e la generazione di Atena all’interno del corpo di Zeus è elemento comune ad entrambi i racconti, [II,262,35] mentre essi differiscono sul come questa vicenda sia giunta a compimento. Ciò è però irrilevante ai fini del presente discorso, per il quale è proficuo soltanto l’elemento loro comune. Nella Teogonia <di Esiodo> la vicenda è raccontata così: [seguono versi già riportati nel frammento SVF II, 908]. Poi proseguendo dice così: [seguono versi già riportati nel frammento SVF II, 908].È dunque ben manifesto che Zeus ripose Metis [II,262,40] dentro il proprio petto, e in questo modo <Esiodo> afferma che Zeus la generò dalla testa. In passi successivi, discutendo ulteriormente di ciò, si dicono parole di questo genere: [seguono versi già riportati nel frammento SVF II, 908]. Le cose che si raccontano su Atena sono di questo genere, ma esse rappresentano il palesamento simbolico di un’altra vicenda. In primo luogo, infatti, vi si parla di Metis [II,263,1] come se ella fosse una certa saggezza ed arte del vivere per cui bisogna ‘ingoiare’ e ‘riporre in noi stessi’ le arti, nel senso in cui diciamo che alcuni ‘ingoiano’ i discorsi che sentono, e che attraverso la loro ingestione si dice, per conseguenza, che essi sono stati riposti nei visceri. Dopo di che è ragionevole [II,263,5] che siffatta arte ingoiata partorisca in lui qualcosa, similarmente ad una madre che partorisce. Detto ciò è il momento di considerare quali cose siano partorite negli uomini dalle conoscenze scientifiche, come esse procedano fuori di loro e soprattutto attraverso quale via. È sotto gli occhi di tutti, infatti, che con il discorso esse sono portate all’esterno attraverso la bocca e in relazione alla testa, parlandosi della testa al modo in cui si parla della ‘testa’ di un gregge di pecore, e si può dire che si eliminano delle ‘teste’. [II,263,10] Nel citato racconto si dice anche che Atena è nata dal cocuzzolo di Zeus, ma di siffatti racconti contenenti discrepanze usate come segni distintivi, ce ne sono molti. Se si prescinde da questo aspetto della storia e si guarda soltanto alla nascita, tutti direbbero cose similari, ossia che la nascita di Atena è avvenuta ‘dalla’ testa. Il racconto, infatti, a meno che alcuni vogliano pervertirlo [II,263,15] e discostarsene, non afferma che Atena è nata ‘nella’ testa ma che Atena è fuoruscita ‘dalla’ testa essendo però nata altrove. Sicché, come dicevo, questo è un segno ancor più distintivo di un’altra cosa; ossia del fatto che tutte le opere ingegnose che negli uomini nascono e che escono dalla loro testa segnalano proprio la validità del precedente discorso.

[II,264,1] Fisica VI.

Il destino

§ 1. Definizione del destino

Frammenti n. 912-927

SVF II, 912

Ps. Plutarco ‘De fato’ p. 574e. [II,264,5] Chi segue il modo di ragionare opposto, in primissimo luogo reputerebbe che nulla è incausato e che tutto avviene in conformità a cause precedenti. In secondo luogo che questo cosmo, essendo nella sua interezza co-spirante e consentaneo, è governato da una legge naturale. In terzo luogo si fiderebbe di quelle che sembrano testimonianze decisive a favore di ciò: ossia la mantica, come arte altamente reputata [II,264,10] da tutti gli uomini in quanto davvero co-esistente col divino; secondo, il compiacimento dei sapienti dinanzi agli avvenimenti, in quanto cose che avvengono per volere del fato; e, terzo, il tanto decantato assunto che ogni proposizione è o vera o falsa.

SVF II, 913

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, 79, 1 W. Crisippo sostiene che [II,264,15] sostanza del destino è una forza materiale fatta di pneuma, la quale governa ordinatamente l’universo. Questo egli scrive nel secondo libro ‘Sul cosmo’. Nel secondo libro ‘Sulle definizioni’, nei libri ‘Sul destino’ e sporadicamente in altri libri egli lo dichiara in molti modi dicendo: “Il destino è la ragione del cosmo; oppure: è la ragione di quanto nel cosmo è governato dalla Prònoia; oppure: [II,264,20] è la ragione in armonia con la quale gli eventi passati avvennero, quelli presenti avvengono e quelli futuri avverranno”. Commuta però i termini e invece di ‘ragione’ applica i termini ‘verità’, ‘causa’, ‘natura’, ‘necessità’ e altre denominazioni, che sono da lui assegnate alla medesima sostanza con accezioni di volta in volta diverse. Sostiene che Cloto, Lachesi e Atropo sono chiamate Moire dallo spartimento che esse effettuano. [II,264,25] Lachesi, perché la parte che a ciascuno tocca in sorte gli è assegnata secondo giustizia. Atropo perché la determinazione distintiva di ogni realtà è inamovibile e intrasformabile dall’eternità. Cloto perché la ripartitura secondo il destino e gli eventi che si generano si dipanano [II,265,1] similarmente a prodotti filati. Tutto ciò è in armonia con la spiegazione etimologica dei nomi e al tempo stesso delle faccende che profittevolmente fanno loro riscontro.

[2] Critolao presso Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ p. 248, 1. […] [II,265,5] giacché secondo i migliori filosofi della natura il destino è senza principio e senza fine, e concatena le cause di ciascun evento senza lacune né interruzioni.

SVF II, 914

Diogeniano presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ VI, p. 263c. Crisippo crede di portare quale altra poderosa prova dell’influenza del destino in tutte le cose, i nomi che gli sono stati imposti. [II,265,10] Egli afferma, infatti, che esso è chiamato ‘fatalità’ in quanto si tratta di un governo finito e compiuto; ‘destino’ in quanto concatenazione originata da decisione del divino o di una causa qualsivoglia; e sostiene che esso è stato denominato ‘Moire’ in quanto alcune vicende sono state spartite ed aggiudicate a ciascuno di noi. Allo stesso modo egli sostiene che si dice ‘uopo’ [II,265,15] ciò ch’è spettante e doveroso per destino. Egli pone poi a supporto del numero delle Moire, i tre tempi nei quali ogni cosa percorre il proprio ciclo e attraverso i quali si realizza, e dice che Lachesi è stata chiamata così perché assegna in sorte a ciascuno il proprio fato; Atropo, per il carattere rigidamente fisso e inamovibile della partizione; Cloto, perché tutte le cose sono state insieme intessute e concatenate ed è preordinata per esse una sola via d’uscita. [II,265,20] Grazie a queste chiacchiere e ad altre a queste similari, egli ritiene di dimostrare la necessità presente in tutte le cose.

SVF II, 915

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 149. Crisippo nei libri ‘Sul destino’, [II,265,25] Posidonio nel secondo libro ‘Sul destino’, Zenone, e Boeto nel primo libro ‘Sul destino’ affermano che tutto avviene in armonia col destino. E il destino è la causa concatenante delle cose che sono, oppure la ragione in armonia con la quale il cosmo se la tragitta.

SVF II, 916

[1] Teodoreto ‘Graec. affect. cur.’ VI, 14. Lo Stoico Crisippo disse che non vi è differenza tra ciò ch’è inderogabilmente necessitato e ciò ch’è destinato, [II,265,30] e che il destino è un movimento sempiterno, continuo e ordinato.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ I, 78, 4 W. […] <Crisippo> afferma che non vi è differenza tra ciò ch’è inderogabilmente necessitato e ciò ch’è destinato, […] in relazione all’intreccio [II,265,35] congiunto delle parti.

SVF II, 917

Aezio ‘Placita’ I, 28, 4. Gli Stoici <definiscono il destino> una concatenazione di cause, cioè un ordine e un collegamento inviolabili.

SVF II, 918

Nemesio ‘De nat. hom.’ cp. 37, p. 299. Se il destino [II,266,1] è una concatenazione inviolabile di cause -e gli Stoici così lo definiscono, cioè come un ordine e un collegamento non possono essere diversi – allora il destino adduce a fini che non sono orientati all’utile, ma sono in armonia col suo proprio movimento e la sua propria necessità.

SVF II, 919

Servio ‘In Aeneidem’ III, 376. […] definizione del fato secondo Tullio <Cicerone> il quale dice: “Il fato è una connessione di cose [II,266,5] legate una all’altra dall’eternità, connessione che varia secondo una propria ordinata legge, di modo tuttavia che la varietà stessa sia eterna.

SVF II, 920

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 185, 1 Bruns. Invero si ammette che tutti i casi che si verificano per destino si verificano secondo un certo ordine, con una certa consequenzialità, e che hanno di per sé una certa [II,266,10] successione. […] Essi affermano pertanto che il destino è una concatenazione di cause.

SVF II, 921

Cicerone ‘De divinatione’ I, 125. Chiamo ‘fato’ ciò che i Greci chiamano εἱμαρμένη, ossia la serie ordinata delle cause; giacché a generare qualunque cosa è una concatenazione di cause. Esso è verità sempiterna che si dipana [II,266,15] da tutta l’eternità. Stando così le cose, nulla avviene che non dovesse avvenire e, allo stesso modo, nulla avverrà che non abbia nella natura le cause efficienti del proprio avvenire. Da ciò si capisce che il fato è ‘causa eterna delle cose’ intesa quale causa non soprannaturale ma fisica, ossia il perché le cose passate sono avvenute, le presenti avvengono [II,266,20] e le future avverranno.

SVF II, 922

Cicerone ‘De natura deorum’ III, 14. […] specialmente dato che proprio voi Stoici sostenete che tutto avviene fatalmente, e che il fato è ciò che è sempre vero dall’eternità.

SVF II, 923

[1] Servio ‘In Aeneidem’ II, 488. E insieme di sfuggita accenna [II,266,25] alla dottrina degli Stoici, secondo cui per nessuna ragione il fato può cambiare.

[2] II, 689. Si esprime alla maniera degli Stoici, i quali asseriscono la necessità del fato.

SVF II, 924

‘Commenta Lucani’ Lib. II, 306 p. 69 Us. Questo secondo gli Stoici, i quali dicono che tutto è retto dal fato e che, una volta decretato, [II,266,30] non può essere mutato neppure dagli dei.

SVF II, 925

[1] Diogeniano presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ VI, p. 261c. [In primo luogo collazionerò per te le affermazioni di Diogeniano sul destino, scritte da lui pressappoco in questi termini per replicare polemicamente a Crisippo] Oltre a tutto ciò, merita citare anche le opinioni su questo argomento dello Stoico Crisippo. [II,266,35] Infatti egli, nel primo libro ‘Sul destino’, volendo mostrare che “tutto è stato posto sotto il vincolo della necessità e del destino”, tra altre testimonianze utilizza anche quelle dei versi del poeta Omero:

‘[…] me una Chera odiosa inghiottiva,

[II,266,40] quella che in sorte mi toccò quando nacqui’

e

‘[…] successivamente poi sperimenterà ciò che la Parca

col lino filò al suo nascere, quando lo partorì la madre’

[II,267,1] e

‘Ma la Moira, ti dico, non c’è uomo che l’abbia sfuggita’

[2] p. 262d. Nondimeno <Crisippo> neppure fu capace di notare che in quei versi Omero non testimonia in alcun modo a favore della sua dottrina filosofica. [II,267,5] Infatti, chi pone a proprio supporto quei versi troverà che <per Omero> non tutto, ma piuttosto soltanto alcune cose avvengono secondo il destino.

[3] p. 263b. Sicché Crisippo non avrebbe in Omero qualcuno che vota a suo favore nel legittimare che tutto avviene secondo il destino, ma se lo troverebbe [II,267,10] anche contro.

SVF II, 926

Giustino ‘Apologia’ II, 7, p. 218 Otto. Gli Stoici dichiararono che tutte le cose avvengono per necessità del destino. […] Questa è la natura d’ogni individuo generato: ossia d’essere capace di accogliere vizio e virtù. Nessuna loro opera sarebbe infatti lodevole se non avessero la facoltà di volgersi sia all’uno che all’altra. [II,267,15] Ciò mostrano tanto coloro che ovunque legislano secondo la retta ragione quanto gli uomini che vivono filosoficamente, nel momento in cui dettano di effettuare opere virtuose e di astenersi da quelle viziose. Anche i filosofi Stoici nella loro Etica onorano con grande forza i medesimi principi, rendendo così manifesto che essi non sono però sulla retta via nei loro ragionamenti sulle cause basilari e sugli incorporei. Infatti, se affermeranno [II,267,20] che gli eventi umani avvengono per destino, o diranno che dio null’altro è che corpi i quali tramutano, cambiano e si risolvono sempre nei medesimi elementi, e così appariranno avere avuto apprensione certa soltanto dei corpi perituri e di un dio che, attraverso la sua presenza nelle parti e nell’intero, è immerso in ogni male; oppure diranno che nulla sono il vizio e la virtù, il che è contrario a qualunque savio concetto, ragionamento [II,267,25] e intendimento.

SVF II, 927

Fulgenzio ‘Prooem. Mythol.’ p. 15, 15 segg. Helm. Tuttavia nell’umana intelligenza delle cose, gli errori mai nascono se non a seguito di spintoni fortuiti, come dice anche Crisippo quando scrive: “Gli assalti sono portati da spintoni tali che ci fanno scivolare”.

[II,267,30] § 2.Divinità del destino

Frammenti n. 928-933

SVF II, 928

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 31. Come può essere consono il chiamare il destino dio, affermando che esso utilizza gli enti e gli eventi del cosmo per la salvezza sua, del cosmo e del suo ordine, e nel contempo dire cose siffatte sul destino?

SVF II, 929

Proclo in Hesiod. Op. et Dies v. 105. [II,267,35] Non è possibile far deviare l’intendimento di Zeus, che è il destino. E infatti gli Stoici hanno designato con il nome di ‘destino’ l’intendimento di Zeus.

SVF II, 930

‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 411. ‘[…] partorì Ecate’ […] è detto così a causa del fatto che esso di ciascun evento è preveggente. Il destino ha infatti potestà [II,267,40] su tutto ciò che accade sulla terra e sul mare, e così tutti rivolgono preghiere alla dea Moira.

SVF II, 931

‘Scholia’ in Hom. Iliad. VIII, 69. Gli Stoici affermano che il destino e Zeus sono la stessa cosa.

SVF II, 932

Agostino ‘De civitate dei’ V, 8. Essi in verità danno il nome di fato non alla disposizione degli astri al momento in cui uno è concepito, nasce o inizia qualcosa, [II,268,1] ma alla connessione in serie di tutte le cause per cui accade tutto ciò che accade. Ora, con costoro non c’è molto da affaticarsi a discutere su delle parole, giacché essi attribuiscono alla volontà e al potere di un dio sommo lo stesso ordine delle cause e la loro connessione; [II,268,5] credono, per me secondo verità, che egli conosca ogni evento prima che accada e che nulla lasci in disordine, e che da lui dipendano tutti i poteri ma non la volontà di ciascun uomo. È così provato che essi chiamano fato in senso proprio la volontà stessa del dio sommo, il cui potere si estende [II,268,10] ovunque senza ostacoli.

SVF II, 933

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 144. Non pochi reputano presumibile una differenza tra provvidenza e fato, anche se di fatto essi sono la stessa cosa. La provvidenza sarebbe la volontà di Dio, e la volontà di dio sarebbe la serie delle cause. Ora, in quanto volontà è provvidenza, e in quanto serie delle cause prende il nome di fato. Da ciò deriva che quanto avviene secondo il fato, avviene anche secondo provvidenza; e parimenti ciò che avviene per provvidenza accade anche secondo il fato, così almeno pensa Crisippo. Per altri, invece, è vero che quanto avviene per decreto della provvidenza avviene fatalmente, ma non è vero che quanto avviene fatalmente derivi dalla provvidenza. Quest’ultima è la posizione di Cleante.

[II,268,20] § 3.Una sola forza muove il tutto

Frammenti n. 934-938

SVF II, 934

Plotino ‘Enneadi’ III, I, 4. Dunque un’anima sola che pervade l’universo porta a compimento tutte le cose, essendo ciascuna di queste, in quanto parti, mosse da quella, così che essa guida l’intero cosmo? Poiché le cause si portano da quell’anima a ciascuna parte del tutto, è conseguenza necessaria chiamare ‘destino’ la continuità e la coordinazione della serie di tali cause? [II,268,25] Poiché i vegetali hanno origine da una radice, è come se uno dicesse che da questa si diramano a tutte le parti del vegetale le cause attive, passive e reciprocamente coordinate, e pertanto che la radice è l’unico governo e come l’unico destino del vegetale.

SVF II, 935

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1056d. [II,268,30] Non una o due volte soltanto bensì ovunque in tutti i suoi libri di ‘Fisica’, <Crisippo> ha scritto che per le nature e i movimenti particolari si danno ostacoli e impedimenti, ma non per la natura e il movimento del cosmo nella sua interezza.

SVF II, 936

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 9, p. 175, 7 Bruns. Eppure è assurdo e contro ogni evidenza dire che il dominio della necessità arriva ad un punto tale per cui uno non può fare un movimento qualunque [II,268,35] né muovere alcuna parte del corpo o fare qualcosa che potrebbe essere fatto oppure no; e invece sostenere che una torsione casuale del collo, il distendere un dito, il sollevare le palpebre o qualcos’altro del genere non possono da noi essere fatte altrimenti che come effetto di certe cause che sono predeterminanti […]

SVF II, 937

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1049f.. [II,269,1] Innanzitutto, nel primo libro ‘Sulla natura’, dopo aver fatto somigliare la perpetuità del movimento cosmico a un guazzabuglio che rivoltola e scompiglia in modi differenti le differenti realtà che vengono in essere, <Crisippo> ha detto questo: “Poiché l’economia del cosmo procede in questo modo, è necessario che noi si stia come stiamo; [II,269,5] tanto se per condizione personale siamo ammalati, o siamo storpi, oppure siamo diventati dei grammatici o dei musici”. Poi nuovamente poco dopo dice: “In armonia con questo discorso, diremo cose similari tanto della nostra virtù quanto del nostro vizio; tanto circa l’insieme delle nostre arti quanto della nostra imperizia nelle arti, come dicevo”. [II,269,10] E poco dopo, levando di mezzo ogni ambiguità, dice: “Infatti nulla può stare, neppure nel suo minimo particolare, altrimenti che in armonia con la natura universale e con la sua ragione”. Che poi la natura a tutti comune e la ragione universale della natura siano il ‘destino’, la ‘Prònoia’ e ‘Zeus’, non può sfuggire neppure a coloro che vivono agli Antipodi; giacché questo gli Stoici lo vanno blaterando ovunque. [II,269,15] Anche l’affermazione:

‘[…] la deliberazione di Zeus giungeva a perfezione’

Crisippo afferma che Omero l’ha fatta rettamente, in riferimento al destino e alla natura del cosmo, in armonia con la quale tutto è governato.

[2] p. 1050c. Crisippo concede piena ed incondizionata libertà di azione alla malvagità, considerandola non soltanto necessaria [II,269,20] e in armonia col destino, ma anche un prodotto in armonia con la ragione divina e la perfezione della natura. Anche ciò è visibile in queste sue testuali parole: “Poiché la comune natura s’estende a tutte le realtà, qualunque cosa di qualunque genere accade nel cosmo e in una qualunque delle sue parti, bisognerà che sia in armonia con tale natura e, per conseguenza immediata, con la sua ragione; [II,269,25] a causa del fatto che nulla potrà ostacolare dall’esterno l’economia del cosmo, né alcuna delle sue parti avrà modo di muoversi o starà altrimenti che in armonia con la natura a tutti comune”. Quali sono, dunque, gli stati e i movimenti delle parti? È manifesto che ‘stati’ sono i vizi e gli stati morbosi come l’avidità di denaro, la brama di piaceri e quella della fama, la viltà e l’ingiustizia; [II,269,30] che ‘movimenti’ sono gli adulteri, i furti, i tradimenti, gli omicidi e il parricidio. Ebbene, Crisippo crede che nessuno di questi sia né poco né tanto contrario alla ragione, alla legge, alla giustizia e alla Prònoia di Zeus.

[3] Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1076e. Se, come afferma Crisippo, [II,269,35] nulla può stare, neppure nel suo minimo particolare, altrimenti che in armonia con la decisione di Zeus, ma ogni essere animato è nato per stare e muoversi così come Zeus lo conduce, lo fa voltare, lo fa stare e lo fa disporre, allora […]

[4] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1056c. Infine egli afferma che nulla [II,270,1] sta o si muove, neppure di pochissimo, altrimenti che in armonia con la ragione di Zeus, che è identica al destino.

SVF II, 938

Servio ‘In Aeneidem’ III, 90. “<Tutto> sembrò all’improvviso tremare”. Segue gli Stoici e gli Accademici, i quali dicono che ciò che è contro natura in realtà non avviene, ma [II,270,5] sembra che avvenga. È dunque da escludere ogni magia, come Plinio Secondo insegna nella sua ‘Storia naturale’.

§ 4. La vaticinazione prova la necessità del destino

Frammenti n. 939-944

SVF II, 939

[1] Diogeniano presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ IV, 3, p. 136. [[II,270,10]] Nel sopra menzionato libro <’Sul destino’, Crisippo> porta anche un’altra dimostrazione di questo genere: [II,270,15] “Infatti le predizioni degli indovini non sarebbero vere -egli afferma – se tutti gli avvenimenti non fossero inclusi nel destino”. […] come se fosse evidente che tutte le predizioni di quelli che si chiamano indovini riescono vere, o piuttosto che da ciò si dovesse convenire che tutto avviene in armonia col destino. […] Operando in questo modo, Crisippo [II,270,20] ci ha messo innanzi una dimostrazione le cui proposizioni si fondano una sull’altra. Egli, infatti, pretende di dimostrare che tutto avviene per destino basandosi sull’affermazione che la mantica è vera; ma che la mantica sia vera non potrebbe altrimenti dimostrarlo se non anticipando che tutto accade per destino.

[2] p. 138. [II,270,25] E poi anche se per ipotesi fosse vero che la mantica è atta a conoscere e predire tutti gli eventi futuri, se ne dedurrebbe così che tutto ubbidisce al destino, ma non se ne dimostrerebbe l’utilità e la giovevolezza per la vita; cosa per la quale Crisippo reputa di dover soprattutto inneggiare alla mantica. […] Giacché se si affermerà che la proficuità della mantica [II,270,30] è salvaguardata dalla sua capacità di avvisare che il futuro sarà per noi causa di malcontento se non stiamo in guardia, ciò ancora non mostrerebbe che tutto accade per destino, essendo in nostro potere stare in guardia oppure no. E se qualcuno affermerà che anche questo è un evento necessitato in modo inderogabile in quanto il destino s’estende a tutte le cose, [II,270,35] pure in questo caso la proficuità della mantica è inficiata. Infatti, noi staremo in guardia se così è destinato; ed è manifesto che non staremo in guardia, se così destinato non è, quand’anche tutti gli indovini ci predicessero il futuro.

Anche Crisippo afferma che Edipo ed Alessandro figlio di Priamo non poterono essere uccisi, nonostante i loro genitori [II,271,1] escogitassero molte macchinazioni per farli uccidere al fine di proteggersi dai mali loro predetti dagli indovini. Così egli viene a dire che di nessun pro fu per quelli la predizione dei mali, [II,271,5] stante il fatto che la loro causa proveniva dal destino.

SVF II, 940

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ p. 200, 12 Bruns. È ragionevole dire che gli dei conoscono in anticipo gli eventi futuri, giacché sarebbe assurdo dire che essi ignorano qualcuno di tali eventi. Ma una volta assunto questo, è né vero né ragionevole provare a strutturare attraverso ciò l’argomentazione che tutto avviene [II,271,10] di necessità e per destino.

SVF II, 941

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ p. 201, 32 Bruns. Coloro che inneggiano alla mantica e che, per dire che essa è salvaguardata soltanto dalle loro argomentazioni, si servono con cieca fiducia della tesi che tutto avvenga per destino, […] hanno poi l’audacia di dire […] delle cose assurde. Infatti, chi rimane incerto dinanzi alle loro argomentazioni si chiede perché mai, [II,271,15] se tutto ciò che avviene avviene per destino, i responsi divini somiglino però a dei consigli, in quanto coloro che li ricevono possono, grazie a ciò che hanno ascoltato, o stare in guardia da qualcosa oppure fare qualcuna delle cose che hanno ascoltato. Essi portano, come esempio al riguardo, l’oracolo che fu dato a Laio; oracolo col quale Apollo Pizio gli dice che non deve fare figli:

[II,271,20] ‘Se procreerai un figlio, il rampollo ti ucciderà

e tutta la tua casa se n’andrà in sangue’

Ebbene, a costoro i patiti della mantica rispondono -come proclamano le loro compilazioni- che il dio diede tale oracolo non come qualcuno che non sa che non sarà ubbidito (giacché questo, anzi, il dio lo sapeva benissimo) ma perché, se non avesse vaticinato a Laio qualcosa del genere, nessuna delle peripezie che sono avvenute e hanno riguardato [II,271,25] lui ed Edipo, sarebbe avvenuta. Laio, infatti, non avrebbe esposto il figlio che gli era nato, come invece espose; il bambino non sarebbe stato tirato su da un bovaro e dato poi in adozione a Polibo di Corinto. Fattosi poi uomo e imbattutosi a caso per strada in Laio ignorando chi era e senza essere da quello riconosciuto, non lo avrebbe ucciso. Come figlio [II,271,30] allevato in casa, mai avrebbe potuto Edipo ignorare chi erano i suoi genitori, tanto da ucciderne uno e da condurre a nozze l’altra. Ma affinché tutte queste vicende fossero salve e il dramma del destino s’adempisse, il dio fornì a Laio la rappresentazione di tutto ciò attraverso l’oracolo, di modo che egli potesse starne in guardia. Invece Laio si ubriacò, [II,271,35] generò il figlio, lo espose per farlo perire; e proprio l’esposizione fu la causa di queste storie sacrileghe.

SVF II, 942

Proclo ‘De providentia et fato’ cp. 49 (ed. Cousin I, 71). Altri, per attribuire a dio una determinata conoscenza, ammisero la necessità in tutto ciò che avviene. Queste dottrine [II,271,40] sono proprie della scuola Peripatetica e Stoica.

SVF II, 943

[1] Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 160. Gli Stoici seguaci di Crisippo sostengono che se dio fin dall’inizio conosce, prima che avvengano, tutte le cose; e non soltanto quelle celesti che sono rette fatalmente dalla felice necessità di una perpetua beatitudine, [II,272,1] ma anche i nostri pensieri e le nostre volontà; allora egli conosce anche le cose di natura dubbia e fa avvenire le passate, le presenti e le future; e ciò fin dall’inizio, giacché dio non può cadere in fallo. Tutte le cose sono dunque decretate e disposte sin dalle origini, tanto quelle che si dice siano in nostro potere, quanto quelle fortuite e soggette al caso. Pertanto, essendo tutte queste cose [II,272,5] già da tempo stabilite, <i seguaci di Crisippo> concludono che tutto quanto sopravviene, sopravviene fatalmente. Persino gli ordini, le esortazioni, i rimproveri, le punizioni, di qualunque genere siano, sono soggette a decreti fatali; sicché, se è stabilito che deve accadere qualcosa a qualcuno, [II,272,10] è fissato, parimenti, ad opera o a vantaggio di chi questo debba avvenire. Ad esempio, se uno uscirà sano e salvo da un viaggio in nave, ciò gli verrà dal fatto che proprio quel nocchiero, e non un nocchiero qualsiasi, ha guidato la nave; oppure se ad una città accadrà di godere di buone istituzioni e sani costumi, ciò sarà opera di determinate leggi, come accadde a Sparta con quelle di Licurgo. E se ci sarà in futuro un uomo giusto come Aristide, a costui l’educazione ricevuta dei genitori sarà ancora d’aiuto per il raggiungimento della giustizia e dell’equità.

[2] cp. 161. Essi dicono che [II,272,15] senza dubbio anche le arti ricadono sotto i decreti del fato: infatti è già preordinato da tempo quale medico risanerà un certo malato. Ma accade di frequente che un malato sia guarito non da un medico ma da un inesperto di medicina, se questo è il decreto del fato. Lo stesso vale per le lodi, le reprimende, le punizioni e i premi. [II,272,20] Capita spesso che azioni rette compiute contro il fato non solo non procurino alcuna lode, ma al contrario riservino biasimi e pene. Inoltre, essi sostengono che l’arte divinatoria prova palesemente che l’esito delle azioni è prefissato da tempo: infatti, se non fosse già in precedenza stabilito, gli indovini non potrebbero esserne presaghi. In verità i moti dei nostri animi [II,272,25] non sono altro che realizzazioni di decreti fatali, seppure al fato sia necessario agire per nostro tramite. Così gli uomini ricevono i destini di cui si è detto, senza i quali nulla può essere fatto, come senza luogo non si danno né movimento né quiete.

SVF II, 944

Cicerone ‘De divinatione’ I, 127. Inoltre, poiché tutto avviene fatalmente, come sarà mostrato altrove, se mai esistesse un mortale capace di cogliere [II,272,30] con l’animo suo l’intera serie delle cause, nulla gli sfuggirebbe; giacché chi conosce le cause degli eventi futuri necessariamente conosce il futuro. Siccome ciò non è alla portata di nessun uomo ma solo di un dio, l’uomo deve accontentarsi di fare previsioni sulla base di certi segni che anticipano gli eventi futuri; questi infatti [II,272,35] non vengono in esistenza all’improvviso, perché la successione del tempo è come lo svolgersi di una fune, che non crea nulla di nuovo ma srotola cose preesistenti.

§ 5.L’infinita serie delle cause

Frammenti n. 945-951

SVF II, 945

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ 22, p. 191, 30 Bruns. <Gli Stoici> affermano che questo cosmo è uno e include in se stesso tutti gli esseri; che è governato [II,272,40] da una natura vitale, razionale e cognitiva; che il suo sempiterno governo procede secondo una concatenazione ben ordinata, [II,273,1] per la quale i primi esseri diventano causativi degli esseri che vengono dopo e in questo modo tutti gli esseri sono allacciati gli uni agli altri; che mai accade qualcosa nel cosmo che ad esso non aderisca completamente e non si rannodi a qualcos’altro come suo causativo. Neppure, a sua volta, può qualcuna delle cose che sopravvengono [II,273,5] essere slegata da quelle che l’hanno preceduta, così da non conseguire come allacciata a qualcuna di esse; mentre è vero che qualunque cosa avvenga gliene consegue un’altra necessariamente dipendente da essa come da un causativo; e che tutto ciò che accade ha qualcosa che lo precede ed al quale è congiunto come ad un causativo. Nulla di ciò che nel cosmo è e nasce, è incausato perché nulla di ciò che esiste in esso è slegato e separato [II,273,10] da tutto ciò ch’è stato in precedenza. Se in esso s’introducesse un movimento incausato, il cosmo ne risulterebbe dilaniato e diviso e non permarrebbe più un’unità sempre governata secondo un solo ordine ed una sola economia; e se tutte le cose che sono e nascono nel cosmo non avessero dei causativi che le precedono ed ai quali esse necessariamente seguono, ciò equivarrebbe appunto ad introdurre nel cosmo un movimento incausato. <Gli Stoici> affermano dunque che essere senza causa è simile, e similmente impossibile, [II,273,15] al nascere dal nulla; che il governo dell’universo è tale da avvenire da infinito a infinito, attivamente e senza intermissioni; che vi è differenza tra i causativi, ed esponendoli ne elencano minutamente uno sciame: i causativi incoativi, concausali, abituali, essenziali ed altri ancora (ma non adesso il caso di tirare in lungo il discorso [II,273,20] citandoli tutti, e basterà mostrare il piano generale della loro dottrina sul destino). Se pur vi sono numerosi causativi, quando tutte le condizioni di contorno sono identiche sia per il causativo che per ciò di cui esso è causativo, essi affermano che per tutti è parimenti vera l’impossibilità che ne derivi un effetto di volta in volta diverso; giacché, se così avvenisse, si darebbe un movimento incausato. [II,273,25] Essi affermano inoltre che proprio il destino, la natura e la ragione in armonia con la quale l’universo è governato sono dio; che il destino è presente in tutti gli esseri e in tutti gli eventi e che il destino si serve della natura propria di tutti gli esseri in vista dell’economia del tutto. Questa è l’opinione, per dirla in breve, che essi mettono in campo sul destino.

[2] p. 193, 4. [II,273,30] Quanto detto prima, ossia che tutti gli esseri sono causativi di quelli che vengono dopo di loro e che in questo modo tutti i fatti si tengono insieme reciprocamente, essendo i secondi congiunti ai primi a guisa d’una catena, è ciò che essi suggeriscono come sostanza del destino […]

SVF II, 946

Plotino ‘Enneadi’ III, I, 2. Alcuni, invece, una volta arrivati ad un principio del tutto, fanno da esso discendere [II,273,35] ogni cosa, dicendo che questo principio è una causa che bazzica pervasivamente dappertutto e che non soltanto ‘fa muovere’ ma ‘fa essere’ ogni cosa. Posta questa causa assolutamente dominante di nome ‘destino’, la quale fa essere tutte le cose, sostengono che dai movimenti di quella causa provengono non soltanto tutte le altre cose che vengono in essere ma, anche i nostri processi di pensiero, così come ciascuna delle parti di un animale si mette in movimento non da se stessa ma è messa in moto dall’egemonico presente in ciascun animale. [II,273,40] Altri poi […]. Chi poi parlasse di intreccio reciproco dei causativi, di loro concatenazione a partire dall’alto, del fatto che a dei precedenti seguono sempre dei successivi, che questi risalgono a quelli poiché vengono in essere grazie a loro e senza di loro non ci sarebbero, che ciò ch’è successivo serve ciò ch’è venuto prima di lui; ebbene costui apparirà semplicemente introdurre [II,274,1] il destino in un altro modo. Chi ponesse che questi sostenitori del destino sono di due tipi, non andrebbe fallito dal vero; giacché gli uni fanno dipendere tutte le cose da un solo principio, gli altri no.

SVF II, 947

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ 23, p. 193, 25 Bruns. Molte cose esistenti […] [II,274,5] non arrivano ad essere causative di nulla che sia in relazione con la facoltà di cui sono dotate. Di cosa diranno essere causativi le escrescenze che si formano in alcune parti del corpo? Di cosa diranno essere causativi le mostruosità? Il convenire di chiamare causativi anche queste cose e però rifugiarsi nel dubbio di che cosa siano causativi (come senza fallo sono spesso costretti a fare a proposito della loro Prònoia), è cosa da gente che sta escogitando [II,274,10] una scappatoia dalle aporie.

SVF II, 948

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ 25, p. 194, 25 Bruns. Come può non essere una falsità sotto gli occhi di tutti quella di dire che tutto ciò che segue a qualcosa trae la causa del suo essere da quello, e che tutto ciò che precede qualcosa esiste come suo causativo?

[2] p. 195, 1. Ragion per cui uno potrebbe ben stupirsi di loro quando danno conto dei causativi in questo modo, ossia dicono che [II,274,15] l’evento che viene per primo è sempre causa di quello che viene dopo; che ciò produce un collegamento e una continuità dei causativi; ed adducono questo fatto quale causa del non esserci nulla di incausato.

[3] 13. Che la notte non sia causa del giorno o l’inverno dell’estate e che questi eventi non siano reciprocamente implicati a guisa d’una catena, non significa che questi eventi sono incausati, oppure che se le cose non stessero in questi termini, [II,274,20] ne uscirà dilaniata l’unità del cosmo e degli esseri che in esso nascono e sono. […] Sicché quella che loro chiamano ‘concatenazione dei causativi’ non potrebbe essere ragionevolmente addotta quale causa del fatto che non avviene nulla di incausato.

SVF II, 949

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ 25, p. 196, 1 Bruns. Come può non essere un’assurditàil dire che i causativi [II,274,25] procedono all’infinito e che la loro concatenazione e il loro collegamento sono tali da non avere un primo ed un ultimo termine? […] Secondo questo discorso sarebbe abolita anche ogni scienza, se la scienza è appunto e principalmente il conoscimento dei causativi primi; mentre invece non c’è, secondo loro, un primo tra i causativi. Non ogni violazione di una sequenza ordinata è abolitiva delle serie entro le quali essa avviene […] [II,274,30] né, se qualcosa del genere avvenisse nel cosmo, ciò ne scioglie del tutto la felicità, così come una fortuita leggerezza dei domestici non compromette quella della casa e quella del suo padrone.

SVF II, 950

Cicerone ‘De fato’ 7. Ritorniamo alle sottigliezze di Crisippo e in primo luogo diamogli una risposta sulla contagiosa influenza delle cose. […] Noi vediamo quanto siano differenti le caratteristiche naturali di varie località: alcune sono [II,274,35] salubri, altre pestilenziali, in altre abitano uomini linfatici ed obesi, in altre ancora gente asciutta e secca. E così molte altre differenze si trovano da luogo a luogo: ad Atene l’aria è sottile, motivo per cui gli Attici sono ritenuti più perspicaci; a Tebe è spessa, e perciò i Tebani sono pingui e vigorosi. Tuttavia né quell’aria sottile [II,274,40] farà sì che uno segua le lezioni di Zenone piuttosto che quelle di Arcesilao o di Teofrasto; né l’aria spessa farà sì che uno cerchi di vincere i giochi Nemei piuttosto che gli Istmici. Proseguiamo in queste [II,275,1] distinzioni: come può la natura del luogo far sì che noi si passeggi nel portico di Pompeo piuttosto che in campagna? O che io passeggi con te piuttosto che con un altro? Alle Idi piuttosto che alle Calende? Come infatti la natura del luogo influisce su alcune cose e non su altre, così l’influenza degli astri, se vuoi, può avere influenza su certe cose ma non certo su tutte.

SVF II, 951

Cicerone ‘De fato’ 8. Eppure fra le nature [II,275,5] degli uomini ci sono delle differenze per cui certi uomini prediligono i cibi dolci, altri quelli un po’ amari; alcuni sono libidinosi, altri iracondi o crudeli o superbi ed altri ancora aborriscono questi vizi. Se dunque, Crisippo afferma, tanto differisce una natura dall’altra, perché meravigliarsi se queste differenze [II,275,10] derivano da cause differenti? Ma così argomentando egli non vede di cosa si parli ed in cosa consista la causa. Infatti, se alcuni hanno propensioni diverse da altri per cause naturali antecedenti, non per questo ci sono cause naturali antecedenti anche per le nostre volontà e i nostri impulsi; [II,275,15] giacché, se così fosse, nulla sarebbe più in nostro potere. Ora, ammettiamo pure che essere acuti o tardi di mente, vigorosi o fiacchi non dipenda da noi; ma chi reputa che perciò neppure dipenda dalla nostra volontà lo star seduti o il camminare, non vede cosa consegua a cosa. Posto che gli intelligenti e gli ottusi nascano tali per cause antecedenti, e che lo stesso valga per i vigorosi e i fiacchi, tuttavia non ne consegue [II,275,20] che anche lo star seduti o il passeggiare o il fare qualcosa sia definito e fissato da cause principali.

§ 6. Ogni enunciato o è vero o è falso

Frammenti n. 952-955

SVF II, 952

[1] Cicerone ‘De fato’ 20. Crisippo giunge a questa conclusione: “Se esiste un moto senza causa, non ogni enunciato (quello che i dialettici chiamano ἀξίωμα) sarà o vero o falso, [II,275,25] giacché ciò che non avrà cause efficienti sarà né vero né falso. Invece ogni enunciato è o vero o falso; e dunque non esiste un moto senza causa. Se così è, tutte le cose che avvengono, avvengono per cause antecedenti; e se così è, tutte avvengono fatalmente; e pertanto [II,275,30] qualunque cosa avvenga, essa avviene per opera del fato”. […] Perciò Crisippo mette tutto il suo impegno per convincerci che ogni enunciato è o vero o falso. Come Epicuro paventava che se avesse accettato questo avrebbe dovuto anche accettare che qualunque cosa avvenga, essa avviene per opera del fato, […] così Crisippo temeva che se non avesse provato che ogni enunciato è o vero o falso, non avrebbe salvato il principio che tutto avviene fatalmente e per opera delle cause eterne delle cose [II,275,35] future.

[2] 38. Si riterrà così vera la dottrina che Crisippo difende: ossia che ogni enunciato è o vero o falso.

SVF II, 953

Cicerone ‘De fato’ 28. Anche se [II,276,1] si sostiene che qualunque enunciato è o vero o falso, non ne consegue seduta stante che esistano cause immutabili ed eterne capaci di proibire che un fatto accada, ora o in futuro, diversamente. Le cause che fanno sì che sia vera la proposizione ‘Catone verrà in Senato’ sono cause fortuite, non incluse nella natura delle cose e nell’ordine cosmico. [II,276,5] Tuttavia, che ‘egli verrà’, quando ciò si avveri, è tanto immutabile quanto ‘egli è venuto’; e non s’ha da temere di attribuirne la causa al fato o alla necessità. Perciò bisognerà riconoscere anche che se l’enunciato ‘Ortensio verrà al Tuscolano’ non è vero, ne consegue che è falso. [II,276,10] Ma i nostri oppositori vogliono che sia né vero né falso, il che è assurdo.

SVF II, 954

Cicerone ‘De fato’ 11. <Questi> vizi possono nascere da cause naturali, ma la loro estirpazione ed eliminazione dalle fondamenta […] non dipende da cause naturali, bensì dalla volontà, lo studio e la disciplina dell’individuo: tutte cose che invece risultano inefficaci se la forza e la natura del fato sono provati dalla teoria della divinazione. Infatti, se esiste la divinazione, [II,276,15] quali sono i principi teorici (e chiamo ‘principi teorici’ quelli che i Greci chiamano θεωρήματα) dai quali essa in quanto arte discende? Infatti sono certo che utilizzino principi teorici sia gli artigiani dediti ciascuno alla propria arte, sia quanti usano la divinazione per predire il futuro. Ora, i principi teorici degli astrologi sono di questo genere: ‘Se uno, si fa per dire, è nato al sorgere della Canicola, non morirà in mare’. Bada, Crisippo, di non lasciare indifesa la causa [II,276,20] per la quale accanitamente combatti contro il grande dialettico Diodoro, giacché se è vero il nesso ipotetico ‘Se uno è nato al sorgere della Canicola, non morirà in mare’ allora sarà vero anche quest’altro: ‘Se Fabio è nato al sorgere della Canicola, Fabio non morirà in mare’ […] Ora, se si dà per vero che Fabio sia nato al sorgere della Canicola, [II,276,25] […] l’affermazione ‘Fabio morirà in mare’ è del genere dell’impossibilità. Pertanto tutto ciò che si dichiara falso nel futuro diventa impossibile che accada. Ma questo, o Crisippo, è ciò che tu assolutamente non vuoi, e proprio in ciò sta la tua contesa con Diodoro. Questi sostiene infatti che può avvenire soltanto ciò che è vero o che sarà vero, e che tutto ciò che avverrà è necessario che avvenga, [II,276,30] mentre ciò che non avverrà, secondo lui è impossibile che avvenga. Invece tu dici che rimane possibile anche ciò che in futuro non avverrà: come la rottura di questa gemma anche se essa non si romperà mai, ed il fatto che Cipselo non era necessitato regnare a Corinto, quantunque l’oracolo di Apollo [II,276,35] l’avesse predetto mille anni prima. Ma se tu dai per vera questa predizione divina, se tieni per impossibile ciò che è dichiarato falso nel futuro […] e se dai per necessario che avvenga ciò che è stato dichiarato vero nel futuro: questa è né più né meno la dottrina di Diodoro che voi Stoici avversate. Effettivamente, se è vero il nesso ipotetico ‘Se tu sei nato al sorgere della Canicola, non morirai in mare’, e la premessa ‘sei nato al sorgere della Canicola’ [II,276,40] è necessaria (tutto ciò che nel passato è veramente avvenuto è necessario, come piace dire a Crisippo in dissenso dal suo maestro Cleante, perché è immutabile, e il passato non può convertirsi da vero in falso), allora pure la conseguente è necessaria. Ma Crisippo non crede che ciò valga in ogni caso; e che se c’è una causa naturale [II,276,45] per cui Fabio non muoia in mare, Fabio non può morire in mare. A questo punto egli diventa titubante [II,277,1] e spera che i Caldei e i restanti indovini siano in errore e che non ricorreranno più a nessi ipotetici per pronunciare i loro oroscopi così: ‘Se uno è nato al sorgere della Canicola, non morirà in mare’; ma piuttosto dicano: ‘Non si dà che uno sia nato al sorgere della Canicola, e che muoia in mare’. [II,277,5] Bella presa in giro! Per non finire fra le braccia di Diodoro, Crisippo insegna ai Caldei a che patto essi han da esporre i loro oroscopi. Mi chiedo: se i Caldei dovrebbero parlare così, cioè ponendo la negazione di infinite proposizioni coordinate, piuttosto che infiniti nessi ipotetici, perché i medici, i geometri e tutti gli altri non dovrebbero fare lo stesso? […] Quali periodi, in questo modo, non possono essere ridotti [II,277,10] da nessi ipotetici a negazione di coordinate? Di certo noi possiamo dire le stesse identiche cose in molti modi. […] Ci sono molti modi per esprimere qualcosa, ma nessuno è più contorto di questo con cui Crisippo spera che i Caldei facciano contenti gli Stoici. […] Infatti [II,277,15] la proposizione: ‘Carneade discende dall’Accademia’ non è vera per effetto di cause eterne derivanti dalla necessità della natura, né d’altra parte è senza causa, ma sta in mezzo fra le cause fortuite pregresse e le cause aventi in sé una naturale efficacia. […] Neppure quelli che affermano che il futuro è immodificabile e che ciò che sarà vero non può essere convertito in falso, danno per garantita la necessità del fato, [II,277,20] ma semplicemente spiegano il significato delle parole. Invece coloro che introducono una sempiterna serie di cause, incatenano con essa la mente dell’uomo alla necessità del fato, dopo averla spogliata della libera volontà.

SVF II, 955

Cicerone ‘De fato’ 33. In conseguenza di ciò, <Carneade> nega che Apollo potesse predire la sorte di Edipo, non essendovi nella natura delle cose alcuna causa che predisponesse necessariamente Edipo all’uccisione del padre <Laio>. [II,277,25] Se dunque per gli Stoici, i quali affermano che tutto avviene fatalmente, è consentaneo approvare oracoli di tal genere e tutto quanto pertiene alla divinazione; non si può dire la stessa cosa di quanti affermano che gli avvenimenti futuri sono veri fin dall’eternità. Infatti tu vedi bene come la posizione di questi ultimi non sia la stessa degli Stoici: gli Stoici sono chiusi entro confini molto più angusti, [II,277,30] mentre il modo di ragionare degli altri è aperto e libero.

§ 7. La co-destinazione

Frammenti n. 956-958

SVF II, 956

Cicerone ‘De fato’ 30. Questo ragionamento è criticato da Crisippo. Egli infatti dice che nella realtà esistono due classi di fatti: quelli semplici e quelli connessi. Semplice è il fatto ‘Socrate morirà quel giorno’. [II,277,35] Per Socrate, sia che faccia qualcosa sia che non la faccia, il giorno della morte è fissato. Se però è fatale che ‘Edipo nascerà da Laio’, non si potrà dire ‘sia che Laio giaccia con la moglie, sia che non giaccia con lei’, perché qui si tratta di fatti connessi, cioè co-destinati. Crisippo li chiama così perché è fatale sia che Laio giaccia con la moglie, sia che procrei da lei Edipo. [II,277,40] Se si dicesse ‘Milone lotterà ad Olimpia’ e qualcuno replicasse [II,278,1] ‘Dunque lotterà sia che abbia un avversario sia che non lo abbia’, costui sbaglierebbe; giacché ‘lotterà’ è un termine connesso, e senza un avversario non c’è lotta. Tutte le capziosità di questo genere possono essere confutate così. Dire: ‘Sia che tu ti rechi dal medico, sia che tu non ti ci rechi, guarirai’ è capzioso; [II,278,5] giacché tanto il recarsi dal medico, quanto il guarire sono decretati dal fato. Questi fatti connessi, come ho detto, egli li chiama co-destinati.

SVF II, 957

Origene ‘Contra Celsum’ II, 20, Vol. I, p. 149, 22 K. Utilizzeremo contro i Greci ciò che è stato detto in questo modo a Laio, […] gli viene dunque detto da colui che conosce in anticipo [II,278,10] gli eventi futuri:

‘Non seminare il solco generatore di figli spinto da forza di demoni;

giacché se procreerai un figlio, il rampollo ti ucciderà

e tutta la tua casa se n’andrà in sangue’

In questo vaticinio è manifesto che Laio poteva non seminare il solco generatore di figlioli, [II,278,15] e che l’oracolo non gli ingiunse qualcosa d’impossibile. Era infatti possibile sia seminare <che non seminare>, ed egli non era necessitato in modo inderogabile a nessuna delle due alternative. E così, a chi non s’era guardato dal seminare il solco generatore di figli, conseguì di sperimentare, per averlo seminato, le vicende narrate nella tragedia di Edipo, di Giocasta e dei figli. Di genere sofistico è anche il ragionamento chiamato ‘dell’inerte’. Si tratta di un sofisma che ha la forma di un ragionamento ipotetico ed è rivolto ad un malato [II,278,20] per trattenerlo dal consultare un medico al fine di tornare in salute. Il ragionamento procede così: “Se è destino che tu guarisca dalla malattia, sia che tu vada dal medico sia che tu non ci vada, guarirai. Ma se è destino che tu non guarisca dalla malattia, sia che tu vada dal medico sia che tu non ci vada, non guarirai. [II,278,25] Pertanto, o è destino che tu guarisca dalla malattia oppure è destino che tu non guarisca: dunque è vano che tu vada dal medico”. In vena di amenità, questo discorso è paragonato ad uno di questo genere: “Se è destino che tu faccia dei figli, sia che tu coisca con una donna sia che tu non coisca, farai dei figli. Ma se è destino che tu non faccia dei figli, sia che tu coisca con una donna sia che tu non coisca, non farai dei figli. [II,278,30] Pertanto, o è destino che tu faccia dei figli oppure è destino che tu non faccia dei figli: dunque è vano che tu coisca con una donna”. […] Come in questo caso, poiché è inconcepibile ed impossibile che chi non coisce con una donna faccia dei figli, il coire con una donna non è un assunto vano; così, se il metodo per guarire da una malattia passa attraverso l’arte medica, l’essere assunto in cura da un medico è una necessità, ed è una falsità affermare che ‘è vano [II,278,35] andare dal medico”.

Tutte queste notizie noi le abbiamo attinte grazie alle citazioni che ne fa il sapientissimo Celso quando dice: “Egli lo predisse poiché era un dio, ed era d’uopo che quanto era stato predetto dovesse affatto avvenire”. Ora, se Celso intende ‘affatto’ nel senso di ‘necessitato in modo inderogabile’ allora questo noi non lo concederemo, giacché sarebbe anche possibile che l’evento non avvenga. Se invece Celso intende ‘affatto’ nel senso di ‘sarà’, ciò non impedisce all’oracolo di essere vero [II,278,40] anche se è possibile che l’evento non avvenga, e allora questo non inficia il mio discorso […]

SVF II, 958

Servio ‘In Aeneidem’ IV, 696. Ma se la nostra vita è totalmente sottomessa al fato, che importanza hanno i meriti? E se siamo valutati per i nostri meriti, quale forza ha il fato? Come può <Virgilio> accettare allo stesso tempo e fato e merito? E una volta che abbia detto “è stabilito per ciascuno il suo giorno” come può dire “prima del suo giorno”? La ragione di ciò si spiega così: ci sono fati che si chiamano ‘intimativi’ [II,279,1], e altri fati che prendono il nome di ‘condizionali’. Intimativi sono quelli che stabiliscono eventi che in ogni caso si verificheranno, del tipo: ‘Pompeo celebrerà tre trionfi’. I fati stabiliscono per costui, in qualsiasi parte della terra si trovi, tre trionfi; né può essere diversamente, [II,279,5] e pertanto il fato che intima ciò si chiama ‘intimativo’. Il fato ‘condizionale’ è invece di questo tipo: ‘Se Pompeo, dopo la battaglia di Farsalo, toccherà le sponde dell’Egitto, morirà di spada”. Qui non era comunque necessario che egli vedesse l’Egitto; e se casualmente egli fosse giunto in altro luogo, [II,279,10] sarebbe scampato.

§ 8. Destino e possibilità

Frammenti n. 959-964

SVF II, 959

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 10, p. 176, 14 Bruns. Dire che, se pur tutto avviene per destino, non è però con ciò abolito il possibile [II,279,15] e il fattibile; essendo il ‘possibile’ ciò che, pur non avvenendo, nulla vieta che avvenga. Dire che non è stato vietato che avvengano eventi contrapposti a quelli destinati e che perciò, seppure non avvengono, essi sono però possibili. Dire che il non essere stato vietato di avvenire ad eventi contrapposti a quelli destinati, fornisce la dimostrazione che gli agenti che li vietano sono a noi ignoti, anche se esistono senz’altro. [II,279,20] Dire che gli agenti causativi dell’avvenire di eventi contrapposti a quelli destinati sono anche causativi del loro non avvenire se appunto, come essi affermano, è impossibile che a parità di condizioni di contorno avvengano eventi contrapposti; ma che, poiché questi agenti causativi sono a noi sconosciuti, per questo essi sostengono che il loro avvenire non è soggetto ad impedimenti. Ebbene, dire tutte queste cose come può non essere proprio di gente che sta scherzando?

SVF II, 960

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 10, p. 177, 2 Bruns. [II,279,25] Per salvaguardare la natura del ‘possibile’ così come abbiamo detto, <gli Stoici> affermano che gli eventi destinati, seppure sono inviolabilmente stabiliti, non avvengono però necessariamente, poiché è possibile che avvengano anche eventi che sono loro contrapposti, essendo il ‘possibile’ ciò ch’è stato detto in precedenza.

SVF II, 961

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 10, p. 177, 7 Bruns. [II,279,30] Un caso simile è quello della proposizione: ‘Domani ci sarà una battaglia navale’. Dire ciò può essere vero, e tuttavia non essere necessitato; giacché ‘necessitato’ è ciò ch’è sempre vero, mentre questa proposizione non permane vera a battaglia navale avvenuta. Se questa proposizione non è ‘necessitata’, non lo sarà neppure l’evento da essa significato, ossia che ci sarà di necessità una battaglia navale. [II,279,35] Se poi essa ci sarà, essa però non ci sarà ‘di necessità’ (poiché è vero che ci sarà una battaglia navale, ma non ‘di necessità’) bensì ‘fattibilmente’. E se la battaglia navale avviene fattibilmente domani, vuol dire che l’avvenire fattibilmente di certe cose non è abolito dal fatto che tutto avvenga per destino.

SVF II, 962

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘Quaestiones’ I, 4, p. 10, 8. Per quanti affermano che tutto avviene per destino [II,279,40] ne seguirebbe che ‘possibile’ è soltanto ciò che avviene ‘per necessità’, intendendo ‘per necessità’ non nel senso di ‘per costrizione esteriore’, ma nel senso di ‘ciò il cui contrapposto è impossibile’. [II,280,1] A dire il vero, soltanto secondo quanti affermano che tutto avviene per destino ciò che avviene per necessità è diverso da ciò che avviene in modo necessitato; ed essi affermano che ciò che avviene per necessità è diverso da ciò che avviene per costrizione esteriore, mentre ciò ch’è necessitato avviene per consequenzialità dei causativi. [II,280,5] È da ciò comprensibile come, secondo quanti sostengono che tutto avviene per destino, nulla possa avvenire per costrizione esteriore, giacché se gli eventi che avvengono per destino avvengono per una concatenazione di causativi ed in armonia con una ordinata e divina successione, nessuno degli eventi che avvengono secondo siffatta successione avviene per costrizione esteriore e in tal modo nessuno degli eventi che avvengono per destino potrebbe avvenire per costrizione esteriore. […] Infatti, dire che il destino [II,280,10] fa avvenire degli eventi che non ubbidirebbero ai causativi in mancanza di una costrizione esteriore, parrebbe essere del tutto estraneo ad una ordinata e divina successione degli eventi. Se tutto avviene per destino, è così levata di mezzo l’ipotesi che qualcosa avvenga per costrizione esteriore, giacché anche questa sarebbe in ogni caso conforme alla ordinata successione del destino, come è stato detto in precedenza […]

[2] p. 10, 32. Inoltre, se gli eventi che avvengono per destino avvengono anche in armonia con la Prònoia, [II,280,15] come può essere ragionevole e in armonia con la Prònoia che alcuni individui oppongano resistenza ad eventi che ben avvengono per destino e che sia un agire in modo disciplinato l’opporre resistenza ad eventi che sono in armonia con la Prònoia?

SVF II, 963

Stefano ‘Comment. in Aristot. Rhet.’ III, p. 263, 23 Rabe. Gli Stoici […] stabilivano una identità tra l’evento che avviene ‘per lo più’ e l’evento ‘necessitato’. Infatti, nutrendo il giudizio che tutti gli eventi sono ‘necessitati’, essi abolivano l’esistenza dell’evento ‘fattibile’ cioè dell’evento che, tanto si verifichi un caso quanto si verifichi il suo opposto, [II,280,20] ha uguale possibilità fattuale. Dunque si dice così perché quello ‘per lo più’ non è semplicemente un evento ‘fattibile’, bensì un evento che avviene sempre e necessariamente, come gli Stoici pure lo definivano.

SVF II, 964

Origene ‘Comm. in Genesin’ II, p. 11 Delarue. Se si interpreta l’espressione ‘affatto sarà’ nel senso di ‘è necessario’ che avvenga [II,280,25] ciò che è conosciuto in anticipo da Dio, noi questo non lo diamo per concesso. […] Se invece uno esponesse il significato dell’espressione ‘affatto sarà’ dicendo che queste certe cose saranno, e che però sarebbe fattibile che esse avvenissero anche diversamente; ebbene allora noi converremmo con questa interpretazione come vera, giacché non è fattibile che Dio menta; mentre invece è fattibile, circa eventi che hanno la possibilità di avvenire e di non avvenire, tenere saggiamente a mente tale loro possibilità di avvenire o di non avvenire. [II,280,30] Se il conoscimento di Dio dicesse: “È fattibile che questo individuo faccia questa cosa, ma anche che faccia il contrario. Essendo entrambe fattibili, io però so che farà questo”. Non è come se Dio dicesse: “Non è fattibile che quest’uomo voli”; e poi, dando un oracolo -tanto per usare questa parola – su qualcuno dirà: “Non è fattibile che quest’uomo sia temperante”. Infatti, l’uomo non ha in alcun modo la capacità di volare, [II,280,35] mentre ha invece la capacità di essere temperante e di essere impudente. Poiché in lui esistono entrambe queste facoltà, l’uomo che non presta attenzione ai discorsi che lo fanno impensierire e che lo educano consegna se stesso alla facoltà senz’altro peggiore, mentre si consegna alla migliore l’uomo che cerca la verità ed ha deciso di vivere in conformità ad essa. Il primo, infatti, non cerca le cose vere poiché propende verso il piacere fisico. Il secondo, invece, le indaga, in quanto elettovi [II,280,40] dalle comuni nozioni e dal discorso che ad esse lo sprona.

§ 9. Destino e fortuna

Frammenti n. 965-973

SVF II, 965

Simplicio ‘In Aristotelis Physica’ p. 333, 1 Diels. Alcuni ammettono che proprio di là venga la fortuna ed affermano che essa è una causa. Che cosa però davvero sia, [II,281,1] essi non hanno modo di dirlo, ritenendola una causa oscura e dubbia all’umano intelletto, quasi fosse qualcosa di divino o demonico, e per questo motivo capace di oltrepassare l’umano conoscimento, come gli Stoici reputano di poter dire. […] L’opinione della Fortuna come qualcosa di divino sembra essere esistita tra i Greci già prima di Aristotele, [II,281,5] e non essere stata ritenuta tale dagli Stoici per primi, come invece credono taluni.

SVF II, 966

Aezio ‘Placita’ I, 29, 7. Anassagora e gli Stoici ritengono la Fortuna una causa oscura e dubbia all’umano pensiero. Degli eventi, infatti, alcuni sono ‘per necessità’, altri sono ‘per destino’, altri sono ‘per proairesi’, altri sono ‘per fortuna’ e altri ancora [II,281,10] avvengono ‘automaticamente’.

SVF II, 967

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 179, 6 Bruns. Dire che la fortuna è una causa oscura e dubbia all’umano pensiero non è affermazione degna di filosofi che stabiliscono una qualche natura della fortuna, ma di gente che dice che la fortuna sta in un certo modo di relazione degli uomini con gli agenti causativi.

[2] p. 14. [II,281,15] Se infatti <gli Stoici> dicessero che la fortuna è una causa oscura e dubbia non a certi uomini soltanto ma a tutti gli uomini, converrebbero con ciò che la fortuna neppure esiste; mentre invece essi concedono l’esistenza della mantica e la pongono quale arte avente conoscimento delle cose che sembrano oscure e dubbie ad altri.

SVF II, 968

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 8, p. 173, 13 Bruns. Posto che quanto avviene [II,281,20] ‘per fortuna’ ed ‘automaticamente’ è tale che non avviene per una causa precedente, […] come sarebbe possibile salvaguardare uno solo dei ragionamenti fatti in precedenza, e secondo i quali tutti gli esseri provengono da esseri causativi che li hanno preceduti e tutti gli eventi avvengono necessariamente a seguito di causativi che li precedono; dal momento che ciascuna cosa ha un causativo che gli fa da sicuro fondamento e dal cui essere o avvenire dipende necessariamente il suo stesso essere o avvenire? Gente che nulla salvaguarda [II,281,25] dei ragionamenti fatti in precedenza e che invece, seguendo un ragionamento diverso, stabilisce per legge il nome di ‘fortuna’, col dire che siccome il discorso che tutto avviene per destino non è inficiato da quello che pone che tutto avviene per necessità, allora neppure è inficiata l’esistenza della fortuna, è gentaglia in vena di sofismi. […] In questo modo nulla impedirà di dire che il destino e la fortuna sono la stessa cosa e che si è tanto lungi dall’abolire la fortuna da poter dire che tutto ciò che avviene [II,281,30] avviene per fortuna.

SVF II, 969

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 7, p. 172, 12 Bruns. Che certe cose avvengano per fortuna non lo si salvaguarda abolendo la natura di quelle che così avvengono e ponendo a quelle che avvengono per necessità il nome di ‘fortuna’.

SVF II, 970

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 8, p. 174, 1 Bruns. Cos’altro [II,281,35] fanno coloro che definiscono la fortuna e quanto avviene automaticamente, una ‘causa oscura e dubbia all’umano pensiero’ se non introdurre e stabilire per legge qualcosa che è sinonimo di fortuna? E qualora la causa della malattia sia loro oscura e dubbia, utilizzare a sostegno di ciò il dire che alcuni si ammalano senza una causa precedente, è dire una falsità.

SVF II, 971

Teodoreto ‘Graec. affect. cur.’ VI, 15, p. 258 Canivet. E i filosofi [II,281,40] così chiamati dalla Stoa Pecile <definiscono la fortuna come> una causa oscura e dubbia alla ragione umana.

SVF II, 972

Servio ‘In Aeneidem’ VIII, 334. “Fortuna onnipotente e fato ineluttabile”. <Virgilio> si esprime qui alla maniera degli Stoici, i quali attribuiscono al fato la nascita e la morte, e tutto ciò che sta in mezzo alla fortuna, giacché tutti i momenti della vita umana sono all’insegna dell’incertezza. Perciò egli ha unito i due termini, per presentare la dottrina nella sua interezza, dato che nulla si oppone [II,281,45] al fato quanto il caso; e lui qui ha parlato da Stoico.

SVF II, 973

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1045b. [II,282,1] Taluni filosofi, ritenendo in questo modo di provvedere agli impulsi un proscioglimento dall’essere necessitati in modo inderogabile ad opera delle cause esterne, strutturano la presenza nell’egemonico di un certo movimento ‘avventizio’ il quale diventa evidente e manifesto soprattutto nel caso di alternative tra loro indistinguibili. [II,282,5] Infatti, qualora sia necessario prendere una decisione su due alternative di pari forza e simili per stato, non essendoci causa alcuna che conduca a scegliere una delle due poiché esse in nulla differiscono una dall’altra, ecco che proprio questa facoltà ‘avventizia’ dell’animo trae da se stessa un’inclinazione per una delle due e spezza così l’aporia. Nelle sue obiezioni contro questi filosofi, Crisippo sostiene che essi violentano la natura quando pongono l’esistenza di processi privi di causa, e in molti passi [II,282,10] cita l’astragalo, la bilancia e molte di quelle cose che non possono prendere una flessione e una propensione ora in un modo ora in un altro senza qualche causa o differenza presente in loro o al loro esterno. Infatti, gli eventi incausati ed automatici sono secondo lui interamente inesistenti, mentre nei movimenti che taluni plasmano con l’immaginazione e [II,282,15] chiamano ‘avventizi’ si insinuano cause oscure e dubbie che guidano a nostra insaputa l’impulso verso una delle due alternative. Queste affermazioni sono ripetute molte volte nei suoi discorsi più conosciuti.

§ 10. Destino e libero arbitrio

 Frammenti n. 974-1007

SVF II, 974

Cicerone ‘De fato’ 39. Circa il fato e la necessità furono due le dottrine avanzate dagli antichi filosofi: una sosteneva [II,282,20] che tutto avviene per volere del fato, il quale porterebbe in sé la forza della necessità; l’altra invece affermava che i moti dell’animo umano sono volontari e completamente indipendenti dal fato. A me pare che Crisippo, in veste di giudice onorario, abbia voluto colpire nel mezzo; giacché mentre personalmente propende alla tesi di quanti dichiarano i moti dell’animo umano del tutto immuni dalla necessità, [II,282,25] purtuttavia nei suoi discorsi scivola su difficoltà tali che, pur contro voglia, è costretto a confermare la necessità del fato. Se siete d’accordo, vediamo come stia la faccenda nel caso degli assensi. […] Gli antichi sostenitori della dottrina che tutto avvenga fatalmente, dicevano che gli assensi sono forzati e necessari. I loro oppositori sottraevano [II,282,30] invece l’assenso al dominio del fato e negavano che, una volta messi sotto il dominio del fato, gli assensi potessero sottrarsi alla necessità. Le loro argomentazioni erano queste […]. Crisippo, rifiutando la necessità ma volendo che nulla avvenga senza cause antecedenti, al fine di sfuggire alla necessità pur conservando il dominio del fato, distingue vari generi di cause. [II,282,35] “Delle cause, egli dice, alcune sono perfette e principali, [II,283,1] altre invece sono coadiuvanti e prossime. Pertanto, quando diciamo che tutto avviene fatalmente per cause antecedenti, non vogliamo intendere per cause perfette e principali bensì per cause coadiuvanti e prossime”. Dunque al ragionamento che ho citato poco fa, Crisippo obietta: [II,283,5] “Se tutto avviene fatalmente, ne consegue che tutto avviene per cause antecedenti, che però non sono perfette e principali, ma coadiuvanti e prossime. Ora, sarà pur vero che queste non sono in nostro potere, ma non ne consegue che neppure i nostri desideri lo siano. Questa conseguenza sarebbe invece inevitabile se noi dicessimo che tutto avviene a seguito di cause perfette e principali, [II,283,10] giacché al fatto che tali cause non sono in nostro potere seguirebbe necessariamente che anche i nostri desideri non lo sono. Perciò tale argomentazione sarà pienamente valida contro quanti introducono il fato per agganciargli la necessità; mentre non avrà alcun valore contro quanti non parlano di cause perfette e principali quali antecedenti”. [II,283,15] Quanto al perché si dica che gli assensi avvengano per cause antecedenti, <Crisippo> non lo ritiene difficile da spiegare. Infatti, quantunque l’assenso non possa avvenire se non è messo in moto da una rappresentazione, quest’ultima costituisce una causa prossima e non principale; e quindi rientra, come vuole Crisippo, nel caso appena descritto. [II,283,20] L’assenso, cioè, non può verificarsi se non è attivato da una forza esterna, in quanto è necessario che l’assenso sia messo in moto da una rappresentazione; e così, giunto a questo punto, Crisippo può riproporre il suo esempio del cilindro e della trottola, che non possono iniziare a muoversi se non avviati da una spinta. Una volta avvenuto ciò, egli pensa che il resto vada poi per sua natura, sicché il cilindro rotola e la trottola gira su se stessa. Dice Crisippo: “Come chi ha dato una spinta al cilindro, [II,283,25] gli ha dato non la capacità di rotolare ma l’avvio del moto; così la rappresentazione imprime nell’animo un oggetto e vi lascia come il segno del suo aspetto, ma l’assenso resterà pur sempre in nostro potere ed esso, al modo che abbiamo detto del cilindro, benché abbia ricevuto una spinta dall’esterno, si muoverà poi per il resto secondo le proprie capacità naturali. [II,283,30] Se qualcosa potesse verificarsi senza una causa antecedente sarebbe falso che tutto avvenga fatalmente; ma se è verosimile credere che in ogni caso e per qualsiasi fatto vi è una causa antecedente, cosa farà sì che si ammetta che non tutto avviene per fatalità? Basterà che si comprendano la distinzione e la differenza fra le cause”. […] Crisippo, concedendo che la causa dell’assenso sia una causa prossima, limitata [II,283,35] e posta nella rappresentazione, non concede però che essa porti necessariamente all’assenso; sicché, se tutto avviene fatalmente, tutto avviene per cause antecedenti e necessarie.

SVF II, 975

Ippolito ‘Refutationes’ 21 (Dox. Gr. p. 571, 11). [II,284,1] Anche <Crisippo e Zenone> sostennero saldamente che tutto avviene per destino, utilizzando un esempio di questo genere. Qualora un cane sia stato agganciato ad un veicolo, se decide di seguirlo ne è trascinato e lo segue, facendo così insieme ciò ch’è incondizionato [II,284,5] e ciò ch’è necessitato <dal destino>. Se invece decide di non seguirlo, sarà comunque costretto a seguirlo. Esattamente la stessa cosa vale anche per gli uomini, giacché anche quando decidono di non seguirlo, essi saranno costretti in ogni caso a venire al luogo loro destinato.

SVF II, 976

Aezio ‘Placita’ I, 27, 3. Platone ammette il ruolo del destino [II,284,10] nelle vicende delle anime e delle vite umane, ma insieme con esso introduce anche un elemento causale che è in nostro potere. La posizione degli Stoici è affine a quella di Platone, ed essi affermano che la necessità è una causa invincibile e coattiva, mentre il destino è un intreccio ben ordinato di cause, intreccio nel quale rientra anche ciò ch’è in nostro potere, sicché alcune cose ci sono state destinate mentre altre, invece, non lo sono state.

SVF II, 977

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ VII, 2, 15. Pertanto Cicerone nel suo libro ‘Sul fato’, dopo avere detto che questa questione è oscurissima e complicatissima, [II,284,15] dichiara con le parole seguenti che neppure il filosofo Crisippo era riuscito a districarla: “Crisippo, pur facendo ogni sforzo possibile, sul come conciliare l’onnipotenza del fato con la nostra libertà è rimasto impelagato”.

SVF II, 978

[1] Enomao presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ VI, p. 255b. [II,284,20] Si perde e scompare dall’esistenza umana, stando al discorso dei sapienti, sia che ci piaccia di denominarla barra del timone o puntone o zoccolo, la piena potestà che abbiamo sulla nostra vita; si perde e scompare quella che noi poniamo come sovrana assoluta delle cose più necessarie, quella parte migliore in assoluto di tutte le parti umane che Democrito -e se io non sono stato ingannato – anche Crisippo [II,284,25] divisano di poter sfoggiare, il primo come serva e il secondo come semiserva.

[2] p. 257b. […] dunque neppure Crisippo, quello che introduce la servitù a mezzo servizio.

[3] p. 258b. Ma la cosa più risibile di tutte è quel miscuglio e quella congiunzione astrale dell’esservi qualcosa che sta agli uomini decidere e dell’esservi nondimeno una concatenazione di eventi dominata dalla necessità. [II,284,30] Questa concatenazione, come dicono i sapientoni, assomiglia al discorso di Euripide, nel quale si racconta che Laio voleva avere un figlio, che Laio era padrone di farlo o non farlo, ma che questo era sfuggito alla vista di Apollo; e che poi, una volta avuto il figlio, ne seguiva per inevitabile necessità che egli morisse per mano del rampollo. In questo modo ci si viene a dire che la necessità, la quale riguarda il futuro, fornisce all’indovino [II,284,35] il certo presentimento di quello che avverrà.

[4] p. 261a. Ma anche ad Epicuro che tu, o Crisippo, hai coperto di parole blasfeme, io condonerei le tue incolpazioni. Cos’ha da patire chi non di sua volontà è un rammollito e un ingiusto, come tu spesso dicevi per ingiuriarlo?

SVF II, 979

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 13, p. 181, 13 Bruns. [II,285,1] Coloro che tolgono all’uomo la potestà della scelta e dell’effettuazione di azioni contrapposte, dicono però che è in nostro potere ciò che avviene tramite noi. Poiché, essi affermano, le nature degli esseri e degli eventi sono differenti una dall’altra, [II,285,5] le cose che avvengono a causa di ciascun essere sono in armonia con la sua peculiare natura (infatti non sono identiche le nature degli esseri animati e di quelli inanimati e neppure, a loro volta, sono identiche le nature di tutti gli esseri animati, giacché le specifiche differenze tra gli esseri mostrano le differenze delle loro nature). Pertanto ciò ch’è prodotto da una pietra è secondo la natura della pietra; ciò ch’è prodotto da un fuoco è secondo la natura del fuoco; [II,285,10] ciò ch’è prodotto da un essere vivente è secondo la natura dell’essere vivente. <Gli Stoici> affermano anche che nulla di ciò ch’è prodotto da ciascun essere secondo la sua peculiare natura può stare altrimenti; e che invece ciascuno degli eventi da esso prodotto avviene in modo inderogabilmente necessitato; non per una necessità originata da una forza esterna, ma necessitata dal fatto che ciò che ha avuto una certa natura -date certe circostanze che è impossibile non gli facciano da contorno – [II,285,15] non può muoversi in altro modo che come si muove. La pietra, se lasciata cadere da una certa altezza, non può non portarsi in basso quando non ne sia intralciata da qualcosa, giacché la pietra ha in sé la ‘pesantezza’, la quale è causa di siffatto moto naturale; e qualora siano presenti i causativi esterni capaci di portare a compimento il moto naturale della pietra, [II,285,20] allora la pietra è portata per necessità a muoversi come è nata per fare (dal momento che sussistono per essa tutti i causativi che la fanno muovere); e non soltanto non può non muoversi in presenza di queste condizioni, ma si muove necessariamente; e siffatto movimento è quello che il destino opera tramite la pietra. Il discorso è lo stesso anche per gli altri esseri, e [II,285,25] quel che vale per gli esseri inanimati, essi affermano, vale anche per quelli viventi; giacché esiste anche per gli esseri viventi un movimento secondo natura, movimento che è quello per ‘impulso’. Ogni essere vivente, infatti, in quanto essere vivente che si muove, si muove per impulso; che è appunto il movimento che il destino opera tramite l’essere vivente. Stando così le cose [II,285,30] ed avvenendo nel cosmo movimenti ed attività che il destino opera, se così capita, tramite la terra, altri che opera tramite l’aria, altri tramite il fuoco ed altri tramite qualcos’altro; ed avvenendone alcuni (e sono i movimenti impulsivi) che il destino opera anche tramite gli esseri viventi; essi dicono che dipendono dagli esseri viventi i movimenti che il destino opera tramite gli esseri viventi, similmente a quelli che avvengono per necessità in tutti gli altri casi.. [II,285,35] Ciò accade perché di necessità debbono essere presenti anche i causativi esterni, così da attivare il movimento degli esseri viventi secondo impulso, e in certi casi mediante impulso ed assenso, mentre nel caso di quegli altri esseri i movimenti avvengono a causa della pesantezza, [II,286,1] o del calore, o di qualche alto fattore […] <Gli Stoici> dicono che questa <è la causazione> che sta agli esseri viventi, diversa da quella che sta alla pietra o al fuoco. Siffatta è, per dirla in breve, la loro opinione su ciò che dipende da noi.

SVF II, 980

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 14, p. 183, 5 Bruns. [II,286,5] Poiché gli eventi che avvengono tramite un essere vivente non potrebbero avvenire altrimenti che a seguito di un impulso dell’essere vivente, e poiché l’impellere si verifica a causa del suo assenso e non si verifica in mancanza del suo assenso, essi affermano che questi eventi dipendono dall’essere vivente; e che di necessità saranno operati da lui (giacché non potrebbe essere altrimenti). Non potendo essi avvenire tramite qualcun altro se non lui, né avvenire diversamente che così per suo tramite, [II,286,10] <gli Stoici> dicono dunque che questi eventi dipendono dall’essere vivente

SVF II, 981

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 14, p. 183, 21 Bruns. Di questo uno potrebbe meravigliarsi e chiedere loro come mai affermino che ciò ch’è in nostro potere sta nell’impulso e nell’assenso, e perciò li ritengano similmente presenti in tutti gli esseri viventi. Quando una rappresentazione c’incoglie, ciò ch’è in nostro potere, [II,286,15] infatti, non sta nel cederle da noi stessi il passo e nell’impellere a ciò che appare.

[2] p. 184, 11. Se ciò ch’è in nostro potere sta nell’assenso razionale, e questo nasce tramite una deliberazione [così pensa Alessandro]; quelli [come Crisippo] che invece affermano che ciò ch’è in nostro potere sta nell’assenso e nell’impulso, cose che nascono anche irrazionalmente, con le loro parole manifestano [II,286,20] di discettare con grande pigrizia mentale su ciò ch’è in nostro potere […]

[3] p. 184, 20. Messa in sordina la ragione, <gli Stoici> sembrano porre ciò ch’è in nostro potere nell’impulso, perché dicendo che ciò ch’è in nostro potere non sta più nel deliberare, il discorso capzioso che fanno va loro a seconda. Sull’impulso, poi, quel che hanno da dire è che in potere degli esseri viventi sono gli eventi per impulso, cioè che senza impulso [II,286,25] gli esseri viventi non sono in grado di fare le cose che fanno. Invece, se ciò ch’è in nostro potere sta nel deliberare […]

SVF II, 982

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 15, p. 185, 7 Bruns. Quando <gli Stoici> sospendono l’assenso all’affermazione ‘Se, a parità di condizioni di contorno, una persona agisse ora in un modo ora in un altro, si introduce un movimento incausato’, e perciò dicono che uno non può effettuare un’azione contrapposta a quella che effettuerà, non è forse anche questo caratteristico [II,286,30] di gente che travisa i fatti?

SVF II, 983

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 15, p. 186, 3 Bruns. Dire che anche coloro che deliberano danno l’assenso a ciò che loro appare e che perciò anch’essi seguono la loro rappresentazione similmente a quello che fanno gli altri esseri viventi, ebbene questo non è vero.

SVF II, 984

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 26, p. 196, 13 Bruns. Quanto [II,286,35] alle incertezze sull’essere o meno ciò ch’è in nostro potere tal quale la comune prolessi degli uomini ha fiducia che sia, <dirò che> avere delle incertezze non è irragionevole, mentre invece come può non essere assolutamente irragionevole il sospendere l’assenso su certe questioni ammettendole come aporie […] e poi il combattere a difesa di queste stesse aporie?

[2] p. 21. Forse non è la peggior cosa da fare quella che noi si metta mano [II,286,40] ad indagare delle aporie delle quali <gli Stoici> vanno specialmente fieri. […] Tra le loro aporie c’è qualcosa di questo genere: “Se, essi affermano, in nostro potere sono quelle azioni delle quali possiamo effettuare anche le contrapposte, [II,287,1] e se sono azioni siffatte quelle passibili di lodi e di denigrazioni, di esortazioni e di inviti a distornarsene, di castighi e di onori, non sarà possibile per i saggi essere saggi né, per coloro che posseggono delle virtù, avere delle virtù, perché essi sono diventati incapaci di accogliere in sé le azioni viziose che sono contrapposte alle virtù; e similmente avverrà per i vizi dei viziosi, [II,287,5] giacché anche costoro non potranno più smettere di essere viziosi. Ma è assurdo dire che le virtù e i vizi non sono in nostro potere, e che le lodi e le denigrazioni non avvengono a loro riguardo. Dunque ciò ch’è in nostro potere non è qualcosa del genere”.

SVF II, 985

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 32, p. 204, 12 Bruns. Gli dei [II,287,10] -questa sarebbe una delle loro aporie – non potrebbero essere saggi perché la saggezza è presente nella loro natura, e nulla di ciò che è nella natura di qualcuno è in suo potere.

SVF II, 986

Plotino ‘Enneadi’ III, I, 7. Resta da vedere la dottrina di quel principio, posto come unico, il quale intreccia e quasi lega le une alle altre tutte le cose, [II,287,15] porta ciascuna di esse ad essere così com’è e poi le porta al loro termine in armonia con le ragioni seminali. Se pur vuole gratificare ciascuno di noi concedendoci la possibilità di fare qualcosa che è in nostro potere, anche questa dottrina è prossima a quella che dice che ogni stato e movimento, sia nostro che generale, proviene dall’anima del cosmo. Questa dottrina implica pertanto la necessità assoluta e universale di tutto, e una volta assunta l’esistenza di tutti i causativi [II,287,20] è impossibile che ciascun evento non avvenga, giacché se tutto è stato assunto nel destino, nulla potrà più impedirlo o farlo essere altrimenti. Se le cose sono dunque tali che prendono impulso da un unico principio, a noi non resterà che lasciarci portare dovunque esse ci sospingano. Le rappresentazioni, infatti, saranno necessitate da rappresentazioni precedenti, gli impulsi saranno conformi ad esse e ciò ch’è in nostro potere sarà soltanto una cosa nominale. Né vorrà dire di più il fatto [II,287,25] che noi impelliamo, giacché l’impulso sarà conforme a quelle […]

SVF II, 987

Cicerone ‘De fato’ 36. <Gli Accademici> dicono che c’è differenza fra ciò <la causa accessoria> senza di cui qualcosa non può avvenire e ciò <la causa efficiente> che necessariamente fa avvenire qualcosa. Nessuna delle cose riferite più sopra è dunque una causa, perché nessuna per capacità propria fa avvenire ciò di cui si dice causa; [II,287,30] né ciò senza il quale qualcosa non avviene è causa, mentre lo è invece ciò il cui accesso a ciò di cui è causa lo fa necessariamente avvenire.

SVF II, 988

Origene ‘De principiis’ III, p. 108 Delarue. Delle cose che si muovono, alcune hanno la causa del movimento in se stesse, altre sono mosse soltanto da una causa esterna. [II,287,35] Mosse soltanto da una causa esterna sono le cose asportabili come legni o pietre e ogni materiale tenuto insieme soltanto dalla forza di coesione; e si escluda per ora di chiamare movimento lo stato di flusso nel quale si trovano tali corpi, poiché non c’è bisogno di questo discorso in vista del nostro obiettivo. Hanno in se stessi la causa del loro movimento gli animali, i vegetali e, in una parola, tutti quegli esseri che sono tenuti insieme dalla facoltà vegetativa e dall’anima; esseri tra i quali <gli Stoici> affermano trovarsi anche i metalli. [II,287,40] Oltre a questi, anche il fuoco è dotato di movimento proprio, e probabilmente sono tali anche le fonti. Degli esseri che hanno la causa del movimento in se stessi, essi affermano che alcuni si muovono ‘da sé’ mentre altri si muovono ‘di per sé’. Da sé si muovono gli esseri inanimati, mentre di per sé si muovono gli esseri animati. [II,288,1] Questi ultimi si muovono di per sé quando si ingenera in essi una rappresentazione che provoca un impulso; ed effettivamente in alcuni animali nascono rappresentazioni capaci di provocare un impulso, data la facoltà che essi hanno di produrre rappresentazioni preordinate dalla natura. Per esempio, nel ragno nasce la rappresentazione del tessere, alla quale consegue l’impulso a tessere, [II,288,5] […] dato che la sua facoltà di produrre rappresentazioni preordinate dalla natura lo provoca a quest’operazione, e dato che esso ad altro non è abilitato oltre le sue naturali rappresentazioni. […] <La stessa cosa vale per> l’ape per quanto riguarda il suo impulso a modellare la cera. Tuttavia, oltre la naturale facoltà di produrre rappresentazioni, l’animale razionale possiede anche quella ragione che è capace di giudicare le rappresentazioni, di valutarne alcune negativamente e di accettarne altre [II,288,10] affinché l’animale si conduca in armonia con queste ultime. E siccome nella natura della ragione vi sono le risorse per conoscere i principi generali del bello e del brutto morale, ecco che noi, poiché li conosciamo e li seguiamo, scegliamo il bello ed avversiamo il brutto e siamo lodati quando ci diamo alle azioni belle mentre siamo denigrati in caso contrario. Tuttavia non bisogna ignorare che negli animali, quanto a misura in alcuni di più e in altri di meno, c’è il meglio della natura ordinatamente disposta in tutte le cose, [II,288,15] sicché l’operato dei cani da braccheggio e dei cavalli da guerra è in un certo senso vicino, per dir così, a quello della ragione. Che dal di fuori ci sopravvenga qualcosa che in noi mette in moto una rappresentazione di questo genere o di quest’altro, è ammesso generalmente non essere una cosa in nostro potere. Invece, la determinazione di utilizzare in questo modo o in quest’altro ciò ch’è avvenuto, non è opera [II,288,20] di qualcos’altro bensì della ragione che è in noi, la quale o attiva le risorse che ci provocano al bello morale e al doveroso oppure ci svia e fa dirigere al contrario. Se poi uno afferma che qualcosa di esterno è di per sé tale che risulta impossibile affrontarlo faccia a faccia così com’è, costui rifletta sulle proprie passioni e suoi moti del suo animo per capire se la valutazione positiva, [II,288,25] l’assenso e la propensione dell’egemonico verso questo qualcosa non nascano a causa dalle sue apparenze di persuasività. Per chi determina d’essere padrone di sé e di astenersi dai rapporti sessuali, non è la donna che si dà a vedere e lo provoca a fare qualcosa contro quel progetto ad essere la causa decisiva del suo rigettare il progetto. Egli infatti compie l’azione impudente perché valuta del tutto positivamente l’aspetto sollazzevole e carezzevole del piacere fisico, e dopo avere deciso [II,288,30] di non affrontarlo faccia a faccia e di non ratificare la determinazione presa. Viceversa, quando le stesse cose accadono a chi ha appreso molte lezioni ed ha fatto molti esercizi, i solletichi e gli stuzzicamenti avvengono ugualmente, ma la ragione in quanto maggiormente potenziata, nutrita dallo studio e rinsaldata nei giudizi sul bello o giunta vicino all’esserlo, rintuzza gli stuzzicamenti [II,288,35] e fa svigorire la smania.

SVF II, 989

[1] Origene ‘De oratione’ Vol. II, p. 311, 16 Koe. Delle cose che si muovono, ciò che fa muoverne alcune è una causa esterna; come accade per le cose inanimate e tenute insieme soltanto dalla forza di coesione. Si danno però casi in cui anche gli esseri mossi dalla facoltà vegetativa e dall’anima non si muovono come tali, ma alla stregua di cose tenute insieme soltanto dalla forza di coesione. Per sassi e legna, per i minerali [II,288,40] e ciò che ha perso la capacità germinativa -tutte cose che sono tenute insieme soltanto dalla forza di coesione- la causa del movimento è dunque esterna. Ma quando sono spostati da qualcosa, anche i corpi degli animali e le parti asportabili dei vegetali non sono spostati come animali o come vegetali, ma alla stregua di sassi o legni che hanno perso la capacità germinativa. Mentre poi di per sé deperiscono, dal momento che tutti i corpi che deperiscono sono in stato di flusso, essi hanno pure quel tipo di movimento [II,288,45] che è connesso al deperimento. […] [II,289,1] Oltre questi, il secondo gruppo di esseri che si muovono è quello degli esseri mossi dalla facoltà vegetativa o dall’anima in essi esistente, e coloro che meglio padroneggiano l’uso dei nomi dicono che essi si muovono ‘da sé’. Il terzo tipo di movimento, denominato movimento ‘di per sé’, è quello degli animali. Io credo poi che il movimento degli esseri razionali sia un movimento ‘tra sé e sé’. [II,289,5] Se infatti dispogliamo l’animale del movimento ‘di per sé’, esso non può neppur più essere inteso come un animale, ma sarà simile ad un vegetale mosso soltanto dalla facoltà vegetativa o ad un sasso trasportato da qualche forza esterna. Se però l’animale comprenderà qualcosa grazie a questo suo peculiare movimento, poiché noi denominammo questo tipo di movimento ‘tra sé e sé’, è necessario che questo animale sia un essere razionale. […]

Quanti vogliono che nulla sia in nostro potere [II,289,10] accetteranno necessariamente qualcosa di supremamente sciocco: in primo luogo l’affermazione che noi non siamo animali, e in secondo luogo l’affermazione che noi non siamo esseri razionali. Come nel caso di un agente che muovesse dall’esterno esseri che da soli non si muovono affatto, si potrebbe allora dire a nostro proposito che è quell’agente a compiere le azioni che noi riteniamo di fare. Diversamente, ciascuno rifletta su quanto personalmente sperimenta, e veda se non parlerà da spudorato quando dirà che non è lui a volere, non è lui a mangiare, non è lui a passeggiare, non è lui ad assentire, non è lui ad accettare [II,289,15] un giudizio qualunque e che non è lui a dissentire da altri giudizi come falsi. […] Ora, com’è inconcepibile che un uomo venga forzato a certi giudizi pur se io strutturassi miriadi di ragioni speciose e usassi discorsi persuasivi, così è impossibile che qualcuno sia disposto circa le vicende umane in modo tale che in nostro potere non salva assolutamente nulla. [II,289,20] Chi è disposto a giudicare che nulla è comprensibile o vive in modo da sospendere il giudizio su qualunque cosa? Chi non censura un inserviente quando si rappresenta che un domestico commette un errore? Chi non accagiona un figlio che non rende il dovuto onore ai genitori? O che non biasima e denigra un’adultera per avere fatto una cosa vergognosa? Infatti la verità lo costringe a viva forza, pur davanti a miriadi di ragioni speciose, ad usare l’impulso a lodare e a denigrare, [II,289,25] come chi serba in sé la nozione di cos’è in nostro potere e sa che è questo a diventare oggetto di lode o di denigrazione presso di noi. […]

Se si salvaguarda l’esistenza di ciò ch’è in nostro potere con le sue innumerevoli inclinazioni tendenziali alla virtù o al vizio, al dovere o contro il dovere, necessariamente ciò è stato conosciuto da Dio quale sarà -prima che avvenga e insieme a tutto il resto – fin dal momento della creazione e della formazione del cosmo. [II,289,30] E in tutto ciò che Dio precostituisce consequenzialmente a ciò che ha visto circa ciascuna delle opere in nostro potere, dalla sua Provvidenza è stato precostituito -secondo il merito di ciascun movimento in nostro potere – anche il movimento che gli andrà incontro e che accadrà in armonia con la concatenazione degli eventi che saranno. Ciò avviene senza che la prescienza di Dio sia la causa di tutti gli eventi futuri e di quelli che saranno attivati da ciò ch’è in nostro potere in fatto d’impulso. [II,289,35] Piuttosto, dalla prescienza di Dio deriva che ciò ch’è in potere di ciascuno di noi prende il posto che gli è assegnato nel governo dell’universo, come cosa opportuna ed utile alla ordinata condizione del cosmo.

[2] p. 314, 4. [II,289,40] Se uno fosse sconcertato dal fatto che, essendo gli eventi necessitati in modo inderogabile, Dio non può mentire, bisogna dire a questo tale che a Dio è stabilmente conosciuto questo fatto: cioè che costui né stabilmente né saldamente pone le domande migliori, oppure che vorrà porre le peggiori in un modo tale per cui sarà incapace di accogliere [II,289,45] un mutamento verso domande a lui utili e favorevoli.

SVF II, 990

Origene ‘De principiis’ III, p. 110 Delarue. [II,290,1] L’accagionare cause esterne del modo in cui le cose ci avvengono e proscioglierci da ogni incolpazione dichiarandoci simili a legna e sassi trascinati da agenti esterni che li fanno muovere, è un giudizio né vero né costumato, ma il discorso di chi vuole dare una falsa [II,290,5] impronta al concetto di ‘essere incondizionato’. E se noi cercassimo di sapere da lui cos’è incondizionato, egli replicherebbe: “Proponendomi io questa certa cosa, se nessun agente esterno provoca che avvenga l’opposto”. […] A sua volta, l’accagionare la nostra mera struttura caratteriale va contro l’evidenza, poiché il discorso educativo è capace di far presa e di trasformare, qualora essi comprendessero l’esortazione, [II,290,10] anche gli individui meno padroni di sé e più selvatici, sicché il loro rivolgimento e la loro trasformazione diventano considerevoli. Spesso, infatti, individui estremamente impudenti sono diventati molto migliori di altri che già prima erano ritenuti non essere per natura impudenti; e individui estremamente selvatici si sono trasformati in individui così mansueti che quanti non erano mai stati così selvatici invece lo sembravano, se paragonati [II,290,15] a questo tale che aveva trasformato il proprio carattere ed era diventato mansueto. E vediamo anche altri individui dal carattere estremamente stabile e solenne i quali, a causa di un pervertimento che li porta ai peggiori trastulli, si stornano dalla solennità e dalla stabilità al punto da trasformarsi in individui impudenti, la cui impudenza spesso comincia quando sono di mezza età e che cadono nel disordine morale dopo avere ormai attraversato quel periodo della giovinezza nel quale il carattere è per natura traballante. Questo discorso ci mostra dunque [II,290,20] che le cose esterne non sono in nostro potere, e che invece l’utilizzarle in un certo modo oppure in modo opposto, assumendo la ragione ad arbitro e indagatore del come bisogna andare incontro a queste cose esterne, è opera nostra.

SVF II, 991

Nemesio ‘De nat. hom.’ cp. 35, p. 258. Quelli che dicono che <così> si salvaguarda sia l’esistenza di ciò ch’è in nostro potere [II,290,25] sia l’esistenza del destino (giacché a ciascuna delle cose che esistono è stato dato qualcosa per destino: all’acqua il destino di raffreddare, a ciascun vegetale il destino di portare quel certo frutto, al sasso di portarsi verso il basso, al fuoco di portarsi verso l’alto, al vivente di assentire e di impellere; e qualora questo impulso non trovi ostacolo in una cosa esterna o nel destino allora il camminare [II,290,30] è appieno in nostro potere e noi assolutamente cammineremo), quelli che dicono questo […] -tra gli Stoici, Crisippo e Filopatore, e molti altri illustri filosofi – ebbene nient’altro dimostrano se non che tutto avviene per destino. Infatti, se essi affermano che gli impulsi ci sono stati dati dal destino e che questi impulsi una volta possono essere intralciati [II,290,35] dal destino e un’altra volta non esserlo, è manifesto che tutto avviene per destino, anche le cose che si reputa siano in nostro potere. […] Quando i causativi di contorno sono identici, come essi affermano, è del tutto necessario che accadano gli stessi eventi ed è impossibile che ci siano effetti di volta in volta differenti, perché questi sono stati assegnati dalla sorte fin dall’eternità; e quindi è necessario che anche l’impulso del vivente, [II,290,40] quando i causativi di contorno sono identici, sia assolutamente e da per tutto così com’è. […] Se poi essi stabiliscono che l’impulso è in nostro potere perché l’abbiamo per natura, cosa impedisce di dire che anche il bruciare è in potere del fuoco, dal momento che il fuoco brucia per natura? Cosa che sembra Filopatore abbia reso palese nel suo libro ‘Sul destino’.

SVF II, 992

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 458 Pott. [II,291,1] Non soltanto i seguaci di Platone ma anche gli Stoici dicono che gli assensi sono in nostro potere: dunque ogni opinione, ogni determinazione, ogni concezione e ogni apprendimento […] è un assenso.

SVF II, 993

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1056e. A parte questo, [II,291,5] se le rappresentazioni non nascono per destino, come può il destino essere causa dei nostri assensi? Se <gli Stoici> dicono che ciò avviene perché il destino fa rappresentazioni idonee a condurci all’assenso, come può il destino, spesso e su questioni della massima importanza, non essere in contraddizione con se stesso, visto che fa nascere in noi rappresentazioni differenti e distrae l’intelletto su giudizi opposti? Quando questo succede, essi dicono che coloro i quali si applicano ad una o all’altra rappresentazione [II,291,10] invece di sospendere l’assenso, aberrano. Infatti, se cedono il passo ad immagini dubbie sono precipitosi; se cedono il passo ad immagini false sono mendaci, e se cedono il passo ad immagini genericamente inafferrabili sono opinanti. E tuttavia, essendoci tre alternative possibili, bisogna: o che non ogni rappresentazione sia opera del destino; o che ogni accettazione di una rappresentazione ossia ogni assenso sia al riparo dall’aberrazione; o che neppure il destino in persona sia irreprensibile. [II,291,15] Io non so infatti come possa essere incensurabile un’entità che fa nascere rappresentazioni tali che si diventa censurabili quando, invece di contraddirle e di essere loro renitenti, le si segue e si cede loro il passo.

SVF II, 994

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1055f. Ma anche le affermazioni sulle rappresentazioni contrastano brutalmente con quelle sul destino. [II,291,20] Infatti, volendo dimostrare che la rappresentazione non è la causa decisiva dell’assenso, Crisippo ha detto: “Se le rappresentazioni fossero decisive nel far nascere gli assensi, i sapienti farebbero un danno infondendo false rappresentazioni. Spesso, infatti, i sapienti utilizzano contro gli insipienti la falsità e pongono loro innanzi una rappresentazione persuasiva, che non certo per questo è causa dell’assenso, [II,291,25] poiché altrimenti essa sarebbe causa anche della falsa concezione e dell’inganno”.

SVF II, 995

Agostino ‘De civitate dei’ V, 10. Pertanto non è da temersi quella necessità circa la quale gli Stoici, temendola, posero ogni cura nel distinguere le cause delle cose così da sottrarne alcune alla necessità ed altre lasciargliele invece sottoposte. E fra quelle che essi vollero sottrarre alla necessità posero anche la nostra volontà di uomini, [II,291,30] giacché essa non sarebbe libera se fosse soggetta alla necessità.

SVF II, 996

Origene ‘Comm. in Genesin’ II, p. 13 Delarue. Tuttavia anche noi ammetteremo che moltissimi eventi non in nostro potere sono causativi di molte cose che sono invece in nostro potere. [II,291,35] Se questi eventi -dico quelli non in nostro potere – non avvenissero, neppure sarebbero effettuate le cose che invece sono in nostro potere. E le cose in nostro potere sono effettuate in conseguenza dei precedenti eventi non in nostro potere; essendo comunque fattibile, dinanzi ai medesimi eventi, effettuare anche cose diverse da quelle che effettuiamo. Se poi uno cerca di fare in modo che le cose in nostro potere siano completamente slegate dal tutto, sì che noi si possa scegliere le cose che effettuiamo non a causa di questi eventi per noi accidentali, costui si dimentica di essere una parte del cosmo e di essere incluso all’interno di una comunità [II,291,40] di uomini e di un ambiente circostante.

SVF II, 997

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1056b. [II,292,1] Chi dice che Crisippo faceva del destino non una causa decisiva di queste cose bensì soltanto una causa predisponente, lo dimostrerà di nuovo in contraddizione con se stesso là dove egli loda in modo sperticato Omero, [II,292,5] quando dice di Zeus:

‘Perciò tenetevi quel che di male manda a ciascuno di voi’

oppure di bene. E quando loda Euripide:

‘O Zeus, e perché dovrei chiamare pensanti

i disgraziati mortali? Noi a te siamo agganciati,

[II,292,10] e compiamo le cose che a te capita di pensare’

Lui stesso scrive molte cose del tutto coerenti con queste espressioni, ed infine afferma che nulla sta o si muove, neppure di pochissimo, altrimenti che in armonia con la ragione di Zeus, che è identica al destino. Inoltre, il causativo predisponente è più debole di quello decisivo e non perviene all’effetto quando sia [II,292,15] tenuto fermo da altri causativi che gli si levano contro. Invece il destino è una causa che egli dichiara invincibile, non soggetta a impedimenti, rigidamente fissata e che lui stesso chiama Atropo, Adrastea, Necessità, Fato, come entità che frappone un limite a tutto. [II,292,20]

SVF II, 998

[1] Diogeniano presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ VI, p. 265d. Nel primo libro ‘Sul destino’ <Crisippo> utilizza delle dimostrazioni di questo genere, e nel secondo libro prova a sciogliere le assurde conseguenze che sembrano derivare dal ragionamento col quale asserisce che tutto è necessitato in modo inderogabile, conseguenze che anche noi ponevamo in risalto all’inizio: [II,292,25] per esempio, che tale ragionamento inficia gli slanci che noi proviamo riguardo alle denigrazioni e alle lodi, riguardo alle esortazioni e a tutte quelle cose che appaiono avvenire per causa nostra. Egli afferma dunque nel secondo libro: “È manifesto che molti eventi nascono da scelte che sono in nostro potere e anche questi eventi, non meno degli altri, sono co-destinati al governo del cosmo nella sua interezza”.

Egli ha poi utilizzato questi esempi. [II,292,30] “Non perdere il manto, egli dice, non è semplicemente stato destinato, ma è stato destinato insieme con il prendersene cura. Che questo certo tale si salverà dai nemici è stato destinato insieme con il suo sfuggire ai nemici. Far nascere dei figli è stato destinato insieme con la decisione di avere rapporti sessuali con una donna. [II,292,35] Se uno dice, afferma <Crisippo>, che il pugile Egesarco uscirà dall’incontro del tutto indenne, sarebbe assurdo che uno sollecitasse Egesarco a combattere a mani basse poiché tanto gli è stato riservato dal destino di uscire indenne dall’incontro. Come chi fa una simile dichiarazione la fa a causa della più che eccellente abilità dell’uomo [II,292,40] nello stare in guardia per non essere colpito; così pure stanno le cose anche in molti altri casi. Molti eventi, infatti non possono avvenire senza che anche noi lo decidiamo [II,293,1] e senza che noi profondiamo in essi il più esuberante slancio e industria, perché è stato destinato che essi avvengano insieme con ciò.

[2] p. 266d. “<Molte cose> staranno a noi, afferma <Crisippo>, e che stiano a noi è certamente un fatto che è incluso [II,293,5] nel destino.

[3] p. 267a. A partire proprio dalla differenziazione che ne fa Crisippo, diventa manifesto che la causa che sta a noi è slegata dal destino. Infatti, egli afferma, è stato destinato che il manto sia salvo, ma se tu ne avessi cura; che ci saranno dei figli, ma se pure tu lo decidessi; altrimenti non ci sarà nulla di tutto ciò. Per gli eventi già prima assoggettati al destino [II,293,10] non utilizzeremmo siffatte stime […]

SVF II, 999

Diogeniano presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ VI, p. 262c. Nel secondo libro ‘Sul destino’, anche Crisippo ha utilizzato questi versi <di Omero> volendo [II,293,15] far constatare che molte cose stanno anche a noi. Per esempio:

‘Per le loro scelleratezze essi andarono in malora’

e anche:

‘Ahimé! Quanto accagionano gli dei i mortali!

[II,293,20] Affermano essi cha da noi vengono i mali,

e invece per le loro scelleratezze essi fatali han dolori’

SVF II, 1000

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ VII, 2. Crisippo, massimo rappresentante della filosofia Stoica, definisce il fato, che i Greci chiamano εἰμαρμένην, più o meno in questi termini: “Il fato è una serie perpetua e inalterabile di eventi, una catena che si svolge e snoda [II,293,25] attraverso un’ininterrotta serie di conseguenze da cui è foggiato ed a cui è connesso’. Per quanto mi sorregge la memoria ho trascritto anche i termini precisi di Crisippo, affinché chi eventualmente trovasse troppo involuta questa mia interpretazione, possa rivolgersi alle sue stesse parole. Nel quarto libro ‘Sulla Prònoia’ <Crisippo> dice infatti che il destino è “la sintassi naturale [II,293,30] delle vicende cosmiche che dall’eternità si tengono dietro una all’altra e si svolgono in un inviolabile intreccio”. I rappresentanti di altre dottrine e discipline contestano però vivacemente questa definizione. “Se Crisippo, obiettano essi, reputa che il fato tutto muove e regge, e che le sue schiere non possono essere piegate [II,293,35] né trasgrediti i decreti scritti nei suoi libri, allora anche i peccati e i delitti degli uomini non devono farci sdegnare né vanno ascritti alla loro volontà, bensì ad una necessità cogente che sorge dal fato”, necessità che è signora ed arbitra di tutte le cose e fa necessariamente accadere tutto ciò che accadrà. [II,293,40] E se gli uomini non commettono spontaneamente azioni malvagie ma sono tratti ad esse dal fato, sono allora inique le pene comminate per legge ai rei. Contro queste obiezioni Crisippo disserta [II,294,1] con molta finezza ed arguzia; ma di quasi tutto ciò che egli ha scritto in proposito, il succo è questo: “Quantunque avvenga che per una ragione necessaria e fondamentale tutti gli eventi siano forzati dal fato, è dote innata delle nostre menti di essere soggette al fato soltanto a misura della loro propria natura e qualità. [II,294,5] Infatti, se le nostre menti sono fin dall’inizio modellate dalla natura per essere salubri ed utili, tutta la forza del fato che le assale dall’esterno le attraversa in modo più inoffensivo e più trattabile. Ma se le nostre menti sono aspre, ignoranti, rudi, non supportate da buone arti, anche se ad opprimerle [II,294,10] è un piccolo contrattempo, un incomodo da nulla, maldestre ed impetuose come sono esse si cacciano continuamente in delitti ed errori. E che ciò avvenga è dovuto a quella naturale e inevitabile connessione di eventi che si chiama fato; giacché è conseguenza di una sorta di intrinseca fatalità che cattive doti naturali non manchino di far peccare e di far errare”. [II,294,15] Di poi egli esemplifica tutto ciò in un modo al contempo, per Ercole, appropriato e divertente: “Se tu lanci un cilindro di pietra lungo un terreno inclinato e dirupato, sarai tu l’origine e la causa del suo precipitare ma poi, quanto prima quello rotola a precipizio non perché tu ne sia ancora la causa ma perché ha in sé, per la sua peculiare forma, [II,294,20] la predisposizione a rotolare. Ebbene, allo stesso modo l’ordine, la ragione e la necessità del fato fanno muovere i vari generi di cose e ne sono le cause principali, ma poi la realizzazione dei nostri disegni e pensieri, ed anche azioni, sono regolati dalla volontà individuale di ciascuno e dalle doti naturali della sua mente”. Aggiunge poi queste parole, in armonia con quanto ho detto:

Perciò i [II,294,25] Pitagorici hanno detto:

Riconoscerai che gli uomini hanno sciagure che essi stessi si scelgono

giacché i danni che sopravvengono a ciascuno,

essi se li procurano da se stessi aberrando con l’impulso

 e danneggiandosi col loro stesso intelletto e con le loro convinzioni.

Crisippo sosteneva poi che non si deve [II,294,30] sopportare né prestare orecchio ad uomini da poco, ignavi, aggressivi e protervi, che quando siano convinti di colpa e di reato cercano scampo nella necessità del fato, come cercassero asilo in un tempio; giacché affermano che le loro pessime condizioni sono da attribuirsi non alla loro temerarietà, ma appunto al destino. [II,294,35] Per primo il più antico e saggio dei poeti espresse questi concetti nei seguenti versi:

‘Ahimé! Quanto accagionano gli dei i mortali!

Affermano essi cha da noi vengono i mali,

e invece per le loro scelleratezze essi fatali han dolori’

SVF II, 1001

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 33, p. 205, 1 Bruns. [II,294,40] Poiché nulla di ciò che avviene per impulso è in potere degli esseri che impellono, affermare che errano [II,295,1] coloro i quali ritengono falso che se si salvaguarda il principio che l’attività degli animali è impulsiva con ciò stesso è anche salvaguardata l’esistenza di ciò ch’è in nostro potere. Domandarsi perciò se ciò ch’è in nostro potere sia o non sia una qualche operazione su quanto è esterno a noi. Assunto ciò, domandarsi di nuovo se sia vero che delle operazioni su quanto è esterno a noi, alcune risultano essere impulsive [II,295,5] e altre non impulsive. Assunto questo, addizionare a ciò che quel qualcosa che è in nostro potere è un’operazione né su quanto è esterno a noi né un’operazione impulsiva. Convenutosi su ciò, assumere su queste basi che tutto ciò che avviene per impulso riguarda gli esseri che agiscono così, dal momento che non riguarda per nulla gli esseri che agiscono altrimenti. Grazie a questo ragionamento, dire che secondo loro [II,295,10] è salvaguardata l’esistenza di ciò ch’è in nostro potere -che è tale perché può avvenire o non avvenire ad opera nostra- siccome anche le cose che avvengono così sono comprese tra quelle che avvengono per destino. Ebbene, come può non essere tipico di gente integralmente ignorante fare affermazioni di questo genere?

SVF II, 1002

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 34, p. 205, 24 Bruns. Una volta assunto [II,295,15] che ciascuno degli esseri che sussistono in natura è tal quale è per destino, come se l’essere per natura e l’essere per destino fossero la stessa cosa, <gli Stoici> addizionano: “Pertanto gli animali hanno sensazioni e provano impulsi per destino; e alcuni animali avranno soltanto la capacità di fare azioni, mentre altri effettueranno azioni logiche, e tra questi ultimi alcuni effettueranno azioni aberranti e altri azioni rette, giacché queste sono per essi le azioni secondo natura. [II,295,20] Permanendo secondo natura tanto le azioni aberranti che le azioni rette e poiché non spariscono siffatte nature e siffatte qualità, permangono logiche sia le lodi che le denigrazioni, i castighi e gli onori. Queste cose, infatti, trovano così una loro consequenzialità e un ordine logico”.

SVF II, 1003

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 35, p. 207, 4 Bruns. [II,295,25] Né dobbiamo omettere di citare quel discorso del quale <gli Stoici> vanno fieri, come capace di mostrare quali obiettivi hanno. Se siffatto non è il destino, non c’è il fato. Se non c’è il fato, non c’è la Parca. Se non c’è la Parca, non c’è nemesi. Se non c’è nemesi, [II,295,30] non c’è legge. Se non c’è legge, non c’è retta ragione imperativa di ciò che va fatto e proibitiva di ciò che non va fatto; ossia che proibisce le aberrazioni e che ingiunge le azioni rette. Dunque, se siffatto non è il destino, non esistono aberrazioni né azioni rette. [II,295,35] Ma se vi sono aberrazioni e azioni rette, allora ci sono virtù e vizio. E se questi esistono, allora ci sono il bello e il brutto. [II,296,1] Ma il bello è lodevole, il brutto è denigrabile. Dunque se siffatto non è il destino, non esiste qualcosa da lodare né qualcosa da denigrare. Ma le cose lodevoli sono degne d’onore, le cose denigrabili sono degne di castigo. Dunque se siffatto non è il destino, non esistono [II,296,5] onore e castigo. Ma l’onore è segno di stima in ricompensa, il castigo è rettificazione. Dunque se siffatto non è il destino, non esistono segno di stima in ricompensa e rettificazione. Se queste cose non sono levate di mezzo, allora azioni rette e aberrazioni, onori e castighi, segni di stima in ricompensa, lodi e denigrazioni [II,296,10] permangono ed avvengono tutte per destino.

[2] p. 207, 29. Chi non ammirerebbe la composizione del loro discorso, in quanto senza eccessi e combinato a partire da premesse coerenti ed evidenti? Oppure non avrebbero tratto alcun profitto dal lungo impegno intorno ai sillogismi? Essi pongono, infatti, che il destino utilizza tutti gli esseri passati e presenti, e pongono pure che per destino [II,296,15] ciascuno di questi esseri è per natura così com’è, in vista dell’attuazione non soggetta ad alcun impedimento degli eventi che avvengono per opera sua: il sasso come sasso, il vegetale come vegetale, l’animale come animale e se è il caso come animale atto a servirsi dell’impulso. Nel porre che il destino si serve dell’animale come animale atto a servirsi dell’impulso e che gli eventi destinati per gli animali avvengono attraverso l’impulso degli animali stessi (seguendo [II,296,20] anch’essi i causativi che fanno loro da contorno, qualunque essi allora siano) <gli Stoici> credono, facendo agire gli animali per impulso, di serbare come destinato anche il fatto che qualcosa è in nostro potere. Tuttavia a me sembra che essi argomentino gli altri discorsi, e anche il precedente, non tanto credendolo vero, quanto credendo di potere menarsi dietro gli ascoltatori grazie alla lunghezza, [II,296,25] alla moltitudine dei nomi e alla poca chiarezza compositiva.

SVF II, 1004

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 36, p. 210, 3 Bruns. Dunque nulla rimane in piedi delle conclusioni strutturate dal ragionamento argomentato con tanta arte. Da queste conclusioni, cominciando dal basso, deriverà la conseguenza che essi dicono accompagnarsi ai ragionamenti di coloro che provano a levare di mezzo la credenza che esista qualcosa in nostro potere. [II,296,30] Essi invece pensano che sia ammissibile serbare questa credenza e cercano, credendo di poterle sfuggire, di trasferire ad altri le conseguenze assurde che ne seguono. Infatti, se non esistono onori e castighi, neppure ci sono lodi e denigrazioni. Se queste cose non ci sono, neppure esistono azioni rette e aberrazioni. Se queste non esistono, neppure ci sono virtù e vizio. [II,297,1] E se queste cose non esistono, essi affermano, neppure gli dei esistono. Ma la prima conclusione, ossia che né onori né castighi esistono, consegue alla premessa che tutto avviene per destino, come è stato dimostrato. Perciò la conclusione ultima è assurda e impossibile, e dunque va levata di mezzo la premessa che tutto avvenga per destino, alla quale questa conclusione seguiva.

SVF II, 1005

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 37, p. 210, 14 Bruns. [II,297,5] Vediamo allora se il ragionamento argomentato a questo riguardo abbia una simile necessità logica. Il ragionamento dice così: “Se non tutto avviene per destino, il governo del cosmo non è esente da impedimenti e da impacci. Se questo accade, non esiste ordine cosmico. Se non c’è ordine cosmico, [II,297,10] non esistono dei. Se però gli dei esistono, sono dei buoni. Se questo è vero, esiste la virtù. Ma se esiste la virtù, c’è la saggezza. Se questo è vero, esiste la scienza di ciò che va fatto e di ciò che non va fatto. Ma quelle da farsi sono le azioni rette, quelle da non farsi sono le azioni aberranti. Dunque, se non tutto avviene per destino, [II,297,15] non esistono azioni rette e azioni aberranti. Ma le azioni rette sono belle e lodevoli, le azioni brutte sono denigrabili. Dunque, se non tutto avviene per destino, non esistono azioni lodevoli e azioni denigrabili. Se invece tutto avviene per destino, esistono lodi e denigrazioni. [II,297,20] Ma noi lodiamo e rendiamo onore a certe azioni, altre azioni invece le denigriamo e castighiamo. Chi onora, ricompensa; chi castiga, rettifica. Dunque se non tutto avviene per destino, non esistono il ricompensare e il rettificare”. Anche questo ragionamento, che viene dalla stessa palestra, grazie agli stessi argomenti potrebbe manifestamente essere contestato [II,297,25] come falso.

[2] p. 212, 1. Similari a questi sono anche tutti gli altri ragionamenti che <gli Stoici> ci mettono davanti in abbondanza a sostegno di questo principio dottrinale. Questi ragionamenti posseggono una certa eleganza finché si bada alle parole, ma perdono credibilità quando si guarda alla loro consonanza con i fatti di cui parlano.

SVF II, 1006

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 38, p. 211, 28 Bruns. [II,297,30] Con le prime argomentazioni è stato in precedenza mostrato che coloro i quali dimostrano che il movimento impulsivo negli animali rimane <possibile> pur se tutte le cose avvengono per destino, non salvaguardano con ciò l’esistenza di cose in nostro potere; a meno che non si voglia semplicemente dire che tali cose consistono in ciò che accade ad opera di un essere secondo la sua peculiare natura.

SVF II, 1007

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘Quaestiones’ II, 4, p. 50, 30 Bruns. [II,297,35] Se in nostro potere è ciò il cui contrapposto è in nostro potere, ciò il cui contrapposto è non in nostro potere, è non in nostro potere. Il contrapposto di ciò che è in nostro potere è ciò che è non in nostro potere, giacché ciò che è non in nostro potere è contrapposto a ciò che è in nostro potere. Dunque l’essere qualcosa in nostro potere è non in nostro potere. Se l’essere qualcosa in nostro potere è non in nostro potere, nulla è in nostro potere. [II,298,1] Dunque secondo coloro per i quali in nostro potere è ciò il cui contrapposto è in nostro potere, ebbene secondo costoro nulla è in nostro potere.

[2] II, 5, p. 51, 20. L’essere qualcosa in nostro potere è contrapposto [II,298,5] all’essere nulla in nostro potere. Ma è impossibile che nulla sia in nostro potere. Dunque, il contrapposto all’esserci qualcosa in nostro potere è impossibile. Ma ciò a cui il contrapposto è impossibile, questo è per destino; se appunto per destino avvengono le cose di cui è impossibile che siano o avvengano i contrapposti. Dunque che qualcosa sia in nostro potere è per destino. [II,298,10] Coll’affermare che qualcosa è in nostro potere per destino, secondo coloro i quali dicono che tutto avviene per destino si salvaguarderebbe che qualcosa è in nostro potere.

[II,299,1] Fisica VII.

La natura degli dei

 Frammento n. 1008

SVF II, 1008

‘Etymologicum Magnum’ s.v. ‘teleté’ p. 750, 16 Gainsford. Crisippo afferma che i discorsi sulle faccende divine con verosimiglianza si chiamano cerimonie. Bisogna infatti che essi siano insegnati per ultimi e a coronamento di tutti gli altri, [II,299,5] quando l’animo ha saldi puntelli, sa padroneggiarsi ed è capace di tacere con i non iniziati. È un gran guiderdone ascoltare retti giudizi sugli dei e impadronirsi di essi.

§ 1. Donde gli uomini hanno preso il concetto di divinità

Frammenti n. 1009-1010

SVF II, 1009

Aezio ‘Placita’ I, 6. [II,299,10] Donde gli uomini ebbero il concetto degli dei.

Gli Stoici definiscono così la sostanza di dio: uno pneuma cognitivo ed igneo, che non ha conformazione propria ma si trasforma in ciò che vuole e s’agguaglia ad ogni cosa. <Gli uomini> ebbero il concetto di questo dio traendolo in primo luogo dalla bellezza delle cose che ci si palesano. Nessuna delle cose belle nasce a casaccio e come capita, [II,299,15] ma per una qualche creazione artistica. Bello è il cosmo, e ciò è manifesto dalle sue fattezze, dal colore, dalla grandezza e dalla varietà degli astri che lo circondano. Il cosmo, infatti, è sferico, e la forma sferica primeggia su tutte le forme geometriche. Essa è la sola ad agguagliarsi in tutte le sue parti poiché, essendo rotonda, ha tutte le parti alla stessa distanza dal centro. Secondo Platone è per questo che la mente, [II,299,20] la parte più sacra di noi, sta nella testa. Anche il colore del cosmo è bello, colorato com’esso è di un turchino più scuro della porpora e di tonalità splendente. A causa di ciò, per l’intensità del suo colore superficiale che è capace di tagliare una tale distanza d’aria, il suo colore è visibile per intervalli di spazio tanto grandi. Il cosmo è bello anche per la sua grandezza, giacché il contenente di tutti gli esseri di una stessa famiglia è bello, come fosse un animale o un albero. [II,299,25] Realizzano la bellezza del cosmo anche le apparenze che esso offre, giacché nel cielo l’eclittica risulta variegata da costellazioni di differente aspetto:

‘Vi è il Cancro, e dopo di lui il Leone, e poi

la vergine. Seguono la Bilancia e lo stesso Scorpione,

poi il Sagittario, il Capricorno; e dopo il Capricorno

[II,299,30] l’Acquario. Vengono poi i Pesci, astri splendenti.

E dopo l’Ariete, il Toro e i Gemelli’

In simili orbite cosmiche [II,300,1] sono state poste anche miriadi di altre stelle, onde pure Euripide afferma:

‘Stellata volta del cielo, bel ricamo

di Crono artefice sapiente’

Da questo noi prendemmo il concetto di dio, [II,300,5] giacché il sole, la luna e le altre stelle, una volta compiuto il loro decorso sottoterra, sempre sorgono simili per colore, pari per grandezza, nei medesimi luoghi e nei medesimi tempi. Perciò coloro che tramandano la venerazione per gli dei, ce la esposero sotto tre aspetti: il primo è l’aspetto naturale, il secondo è l’aspetto mitico e il terzo è l’aspetto testimoniato [II,300,10] dalle leggi. L’aspetto naturale è insegnato dai filosofi, quello mitico è insegnato dai poeti e quello legato alle leggi consiste nelle usanze di ciascuna città. L’intero ammaestramento si suddivide in sette specie. La prima è quella che trae origine dall’osservazione dei fenomeni celesti. Gli uomini, infatti, ebbero il concetto di dio dall’osservazione degli astri che ci appaiono, [II,300,15] vedendo che questi sono causativi di eventi altamente armoniosi: in bell’ordine il giorno e la notte, l’inverno e l’estate, le albe e i tramonti, gli animali generati e i frutti prodotti dalla terra. Parve perciò a loro che il cielo fosse un padre e la terra una madre. Di loro, uno è padre perché i suoi rovesci d’acqua hanno il ruolo che ha lo sperma, mentre l’altra è madre perché accoglie [II,300,20] questi rovesci e partorisce. Osservando poi che gli astri sono sempre in corsa, e che il sole e la luna sono causativi del nostro vedere, li designarono come dei. […] In secondo e terzo luogo suddivisero gli dei in divinità che recano danno e in divinità che recano giovamento. Quelle che recano giovamento sono Zeus, Era, Ermes, Demetra. Quelle che recano danno sono le Pene, le Erinni, Ares, e queste essi placavano con sacrifici espiatori, giacché sono dei infesti e violenti. [II,300,25] […] In quarto e in quinto luogo, gli uomini hanno assommato degli dei alle loro faccende pratiche e alle loro passioni. Alle passioni sono connessi Eros, Afrodite, Brama. Alle faccende pratiche sono connessi Speranza, Giustizia, Eunomia. […] In sesto luogo, gli uomini aggiunsero ai precedenti gli dei fittizi plasmati dai poeti. Infatti Esiodo, volendo far sussistere per gli dei di seconda generazione degli dei padri, introdusse quali loro genitori

[II,300,30] ‘Ceo, Crio, Giapeto e Iperione’.

Perciò questo insegnamento è stato chiamato ‘mitico’. […] Settima, infine, viene la divinità il cui valore supremo sta nei benefici che arreca alla vita associata, divinità che è stata generata col concorso di un essere umano, com’è il caso di Eracle, dei Dioscuri e di Dioniso. […] Affermavano poi che essi hanno forma umana perché l’essere divino è dominante su tutti gli altri, mentre l’uomo è il migliore di tutti gli animali, [II,300,35] adornato com’è di virtù, a differenza degli altri, per la presenza in lui della mente. Ed essi pensarono bene che ciò che è più possente spetta similmente ai migliori.

SVF II, 1010

Filone Alessandrino ‘De spec. legibus’ I, 32, V, p. 8 Cohn. Donde noi prendiamo [II,300,40] il concetto dell’esistenza di Dio. […] Nelle ricerche su Dio, l’intelletto di chi filosofa in modo non imbastardito prova una certa incertezza di fronte a queste somme questioni. La prima è se esista la divinità, a motivo di coloro che affettano ateismo, il supremo dei mali. L’altra è la questione di cosa sia la divinità quanto a sostanza. Vedere la risposta alla prima questione non richiede molta fatica; la seconda, invece, non è soltanto esasperante, ma forse è impossibile da risolvere. [II,300,45] Bisogna comunque esaminare sia l’una che l’altra. [II,301,1] […] Quindi per natura le opere create portano sempre in qualche modo in sé il marchio dei loro creatori. Chi, infatti, osservando delle statue o dei dipinti non ha subito avuto cognizione dello scultore o del pittore? Chi, vedendo dei vestiti, delle navi o delle case, non si è fatto un concetto del tessitore, del costruttore di navi e dell’edificatore? Se uno è di passaggio in una città retta da buone leggi e [II,301,5] nella quale la vita politica si svolge in buonissimo ordine, cos’altro concepirà se non che alla città soprintendono degli ottimi magistrati? Pertanto, chi giunge in quella che davvero è una Megalopoli, ossia in questo cosmo, osservando monti e pianure pieni di animali e di vegetali, i decorsi di fiumi indigeni e di torrenti in piena, l’espansione degli alti mari, la buona mescolanza dell’aria, i rivolgimenti delle stagioni annuali, [II,301,10] e poi il sole e la luna, guide del giorno e della notte, le rivoluzioni e la danza corale degli altri pianeti, delle stelle fisse e di tutto quanto il cielo, non verosimilmente ma necessariamente bisogna che assuma il concetto dell’esistenza di un padre, di un fattore e altresì di una guida. Nessuna opera d’arte, infatti, si produce automaticamente da sé; mentre il cosmo è un’opera d’altissima arte, poiché è stata creato da qualcuno sommo per scienza ed assolutamente [II,301,15] perfettissimo.

§ 2.Dimostrazione che gli dei esistono

Frammenti n. 1011-1020

SVF II, 1011

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ III, 25. Secondo te Crisippo, uomo senza dubbio scaltro e sperimentato (e chiamo scaltri quanti sono di mente rapida, e sperimentati [II,301,20] coloro il cui animo è incallito dall’uso come la mano dal lavoro), parlava dunque acutamente quando diceva: “Se c’è qualcosa che l’uomo non possa creare, chi ciò crea è migliore dell’uomo; ma l’uomo non può creare le cose che vediamo nel mondo; quindi chi le ha create è superiore all’uomo. E chi può essere superiore all’uomo se non dio? Dunque [II,301,25] dio esiste”.

[2] III, 26. Se gli dei non esistessero, Crisippo parimenti nega che nell’intera natura esista qualcosa che sia migliore dell’uomo; e però ritiene pure che è uomo di somma arroganza chi reputa che nulla sia migliore dell’uomo. […] Egli dice anche: “Se la casa è bella, noi capiamo subito che essa è stata edificata per dei signori e non per topi; e pertanto dobbiamo considerare [II,301,30] il mondo come casa degli dei.

SVF II, 1012

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 16. Crisippo, quantunque uomo di penetrantissimo ingegno, espone le proprie dottrine in modo da sembrare che le abbia apprese dalla natura in persona e non che le abbia scoperte lui. Egli dice: “Se nella natura delle cose vi è qualcosa [II,301,35] che la mente o la ragione o la forza o la capacità dell’uomo non possa creare, ebbene ciò che lo crea è di certo migliore dell’uomo; ma le cose celesti e tutte quelle il cui ordine è sempiterno non possono essere prodotte dall’uomo; dunque ciò dalla cui opera tali cose [II,302,1] sono prodotte è migliore dell’uomo. E quale nome migliore daresti ad esso se non dio? Del resto, se gli dei non esistono, cosa può esservi nella natura delle cose migliore dell’uomo? Nell’uomo soltanto c’è la ragione, della quale nulla può essere più eccellente; ma, d’altro canto, è segno di insipiente arroganza che un uomo reputi non esistere nel mondo intero nulla migliore di sé; [II,302,5] dunque esiste qualcosa di migliore, e questo è senz’altro dio”.

[2] Lattanzio ‘De ira dei’ cp. 10. Crisippo dice che se esiste qualcosa che faccia ciò che l’uomo, pur dotato di ragione, non riesce a fare: ebbene questo è più grande, [II,302,10] più forte e più sapiente dell’uomo.

[3] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 17. Comunque sia, se tu vedessi una casa grande e bella, pur senza vedere il padrone non la reputeresti edificata per topi e per faine. Ora, non sembreresti un puro e semplice insipiente se reputassi dimora tua e non degli dei immortali un mondo così ricco di ornamenti, una così grande varietà e bellezza di cose celesti, una così enorme forza e grandezza del mare e delle terre?

SVF II, 1013

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 78. Dei corpi, alcuni sono unitari, altri risultano dal rannodamento di parti, altri ancora sono formati da parti disparate. Unitari sono i corpi, come quelli dei vegetali e degli animali, vincolati da un’unica forza coesiva. Corpi risultanti dal rannodamento di parti sono quelli consistenti [II,302,20] di elementi accostati e che accennano ad un solo fine capitale, come le catene, le torrette e le navi. Corpi formati da parti disparate sono quelli che constano di elementi disgiunti, separati, che sono oggetti già di per se stessi: come le milizie, le greggi, i cori. Poiché il cosmo è un corpo, esso è: o un corpo unitario, o un corpo risultante dal rannodamento di parti, o un corpo formato da parti disparate. Ma esso non consta di parti rannodate né disparate, come possiamo mostrare a partire dalle consentaneità che lo riguardano. [II,302,25] Infatti, al crescere e al calare della luna molti animali terrestri e marini crescono e calano, e in certe parti del mare avvengono basse ed alte maree. Allo stesso modo, in armonia con certe levate e tramonti di astri, avvengono trasformazioni dell’atmosfera e svariatissimi rivolgimenti dell’aria, [II,302,30] a volte per il meglio ma a volte in senso pestilenziale. Dall’insieme di questo fenomeni è apparente che il cosmo è costituito da un corpo unitario. Nel caso invece di corpi formati da elementi rannodati o disparati, le parti non sono tra di loro consentanee; e infatti, se per caso nel corso di una campagna militare tutti i soldati sono feriti o uccisi, l’unico che rimane illeso nulla patisce per comunicazione dagli altri. Nel caso dei corpi unitari vi è invece una certa consentaneità, e se un dito viene tagliato è l’intero corpo a risultarne affetto. [II,302,35] Il cosmo è quindi un corpo unitario. Ora, poiché dei corpi unitari alcuni sono tenuti insieme dalla mera forza di coesione, altri dalla facoltà vegetativa, altri dall’animo: dalla forza di coesione corpi come sassi e legna; dalla facoltà vegetativa i vegetali; e dall’animo gli animali; anche il cosmo è in ogni caso sorretto e mantenuto qual è da una di queste forze. Tuttavia esso non potrebbe essere tenuto insieme dalla mera forza di coesione. [II,302,40] Infatti i corpi, come la legna e i sassi, vincolati dalla forza di coesione, non ammettono in sé alcuna trasformazione o rivolgimento rimarchevoli, ma di per sé sono passibili soltanto di dilatazione e di compressione. Invece il cosmo ammette in sé trasformazioni rimarchevoli, giacché l’atmosfera diviene a volte glaciale e a volte canicolare, a volte arida e a volte umidiccia, e a volte si altera in qualche altro modo a seconda dei movimenti celesti. [II,303,1] Pertanto il cosmo non è tenuto insieme da una mera forza coesiva. Se non è tenuto insieme da questa forza, esso lo è però certamente da una facoltà vegetativa; giacché anche i corpi che sono vincolati da un animo molto prima erano tenuti insieme da una facoltà vegetativa. Dunque è necessario che il cosmo sia tenuto insieme dalla migliore delle nature, dal momento che esso include le nature [II,303,5] di tutti gli esseri. Ora, la natura che include le nature di tutti gli esseri ha in sé inclusa anche la natura degli esseri razionali. Ma allora la natura che include in sé le nature razionali è assolutamente razionale, giacché non è possibile che l’intero sia da meno di una sua parte. E se la natura migliore in assoluto è quella che governa il cosmo, questa natura sarà cognitiva, virtuosa e immortale. Poiché dunque capita che essa sia di questo genere, essa è dio. Dunque gli dei esistono.

SVF II, 1014

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 86. [II,303,10] Se dentro la terra e nel mare, la cui densità è grande, sussistono svariati esseri viventi che partecipano della facoltà animale e sensitiva; è molto plausibile che nell’aria, la quale possiede molto più della terra e dell’acqua i caratteri di purezza e limpidezza, sussistano degli esseri viventi animati e cognitivi. Ciò è in armonia con il detto che i Dioscuri siano demoni buoni ‘salvatori di navi dai solidi banchi’ [II,303,15] e con i versi:

‘Trentamila sono sulla terra feconda

di Zeus gli immortali custodi degli uomini mortali’.

Ma se è plausibile che esistano nell’aria degli esseri viventi, lo è pure che esista natura vivente nell’etere, dal quale viene la facoltà cognitiva della quale gli uomini partecipano per averla presa di là. [II,303,20] E se ci sono esseri viventi eterei che ci appaiono di molto superiori agli esseri terrestri per il fatto di essere non corruttibili e non generati, si concederà pure che esistono gli dei, non differendo essi da questi ultimi.

SVF II, 1015

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 95. Siffatto è il ragionamento di Senofonte, che ha una capacità induttiva di questo genere: [II,303,25] ‘Nel cosmo c’è molta terra e tu ne hai in te una piccola parte. Nel cosmo c’è molta acqua e tu ne hai in te una piccola parte. Dunque è perché nel cosmo c’è molta mente che tu ne hai in te una piccola parte. Dunque il cosmo è cognitivo, e per questo è dio’.

[2] IX, 98. È contingente anche prospettare interrogativamente così lo stesso ragionamento: ‘Se nel cosmo non ci fosse l’elemento terra, [II,303,30] neppure in te ci sarebbe traccia di terra. Se nel cosmo non ci fosse l’elemento acqua, neppure in te ci sarebbe traccia di acqua; e similmente si potrebbe dire dell’aria e del fuoco. Pertanto, se nel cosmo non ci fosse ‘mente’ anche in te non ci sarebbe una mente. Ma in te c’è una mente; dunque ce n’è anche nel cosmo. Per questo il cosmo è cognitivo, ed essendo cognitivo si istituisce come dio’. [II,303,35] Della stessa capacità argomentativa è anche il ragionamento che procede in questo modo: ‘Osservando un simulacro ben creato, metteresti forse in dubbio che lo abbia fatto la mente di un artista? Non ti asterresti dal sottintendere qualcosa del genere, ammirando invece la straordinaria eccellenza della creazione artistica? Dunque in questi casi, conoscendone chiaramente la traccia dal di fuori, tu testimoni a favore dell’esistenza di qualcuno che ha strutturato tale oggetto ed affermi che esiste un suo creatore; e quando vedi la mente che in te [II,303,40] è stata generata e che per la sua enorme varietà è ben superiore a qualunque simulacro e a qualunque dipinto, la ritieni invece nata ad opera della fortuna e non ad opera di un creatore avente capacità ed intelligenza superiori? Questo creatore non potrebbe dimorare in altro luogo che nel cosmo, generando le sue realtà e facendole crescere. Ma questo è dio. [II,303,45] Dunque gli dei esistono.

SVF II, 1016

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 111. Oltre a questi, anche gli Stoici [II,304,1] e quanti sono animati dagli stessi principi mettono mano a strutturare l’esistenza degli dei dal movimento del cosmo. Che il cosmo sia in movimento, chiunque lo ammetterebbe, essendo condotto a ciò da molte evidenze. Il cosmo è pertanto tenuto in movimento o da una natura, o dalla proairesi, o da un moto vorticoso e dalla necessità. Ma non è ragionevole che esso lo sia da un moto vorticoso e dalla necessità, [II,304,5] giacché il moto vorticoso o è un moto privo di ordine fisso o è un moto fissamente costituito. Se è privo di ordine fisso, il vortice non potrebbe muovere qualcosa in modo ordinato. Se invece muove qualcosa con ordine e armonia, esso sarà una causa divina e demonica, giacché non potrebbe muovere l’intero cosmo ordinatamente e in modo salvifico se non fosse una causa cognitiva e divina. Ma se fosse tale non sarebbe più un semplice moto vorticoso, giacché questo è privo di un ordine fisso ed è di breve durata. In conseguenza, il cosmo [II,304,10] non potrebbe essere mosso per necessità e da un moto vorticoso, come invece dicevano i seguaci di Democrito. Né il cosmo potrebbe essere mosso da una natura incapace di rappresentazioni, in quanto la natura cognitiva è migliore di questa, e siffatte nature cognitive si vedono essere incluse nel cosmo. Dunque è necessario che anche il cosmo abbia una natura cognitiva, ad opera della quale è mosso in modo ordinato e che è direttamente dio.

[II,304,15]

SVF II, 1017

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 123. Consideriamo di seguito natura e modi delle assurdità che conseguono all’abolizione del divino. Se non ci sono gli dei, non c’è una pietà che esista soltanto per degli dei scelti soggettivamente. La pietà, infatti, è scienza del culto degli dei, mentre non vi può essere culto alcuno di dei che non esistono; e da ciò deriva [II,304,20] che non potrà nascere scienza alcuna di questo culto. […] Di conseguenza, se non ci sono gli dei la pietà non esiste. Ma la pietà esiste, e quindi si deve dire che gli dei esistono. Di nuovo, se non ci sono gli dei non esiste la santità, che è una certa giustizia verso gli dei. Secondo i comuni concetti e le prolessi di tutti gli uomini la santità invece esiste, e perciò vi è qualcosa di sacrosanto. Dunque il divino esiste. [II,304,25] Se non ci sono gli dei è abolita la sapienza, che è scienza delle faccende divine e umane, […] e non ci sarà scienza delle faccende divine e umane se esistono gli uomini ma non sussistono gli dei. Ma è assurdo dire che non vi è sapienza: dunque è assurdo essere del parere che gli dei siano inesistenti. Inoltre, se la giustizia è stata introdotta in ragione dell’intreccio degli uomini tra di loro e con gli dei, [II,304,30] se gli dei non esistono neppure sussisterà la giustizia: il che è assurdo. […] Dunque si deve dire che gli dei esistono.

SVF II, 1018

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 132. Oltre a ciò, se non ci sono gli dei, neppure esiste la mantica; la quale è scienza teoretica ed esplicativa dei segni dati dagli dei agli uomini; non esistono l’ispirazione divina, né l’astrologia, né la divinazione per via di sacrifici, né la predizione attraverso i sogni. [II,304,35] Ma è assurdo levare di mezzo uno stuolo tanto grande di faccende che hanno ormai la fiducia di tutti gli uomini. Dunque gli dei esistono.

SVF II, 1019

[1] Temistio ‘Paraphr. in Aristot. Analit. Poster.’ p. 79, 1 Spengel. Nel corso delle dimostrazioni noi perseguiamo ‘l’esserci’ di qualcosa in molti modi. A volte a partire da un fatto accidentale e lontano dalla sostanza della realtà in questione; a volte invece a partire dalla realtà stessa e dal suo possedere una certa determinazione. [II,304,40] Per esempio, nella dimostrazione che ‘gli dei ci sono’, noi possiamo partire da un fatto accidentale, ossia dall’esistenza degli altari -come afferma Crisippo -, oppure dalla realtà in questione, ossia dal fatto che gli dei hanno cura di noi, che fanno predizioni, che si muovono con svariati movimenti per un tempo infinito.

[2] ‘Paraphr. in Aristot. De anima’ I, 1, p. 8 Spengel. È come se uno, [II,305,1] poiché ha prescelto di definire dio dalla presenza di altari degli dei, di sacrifici, di templi e di simulacri, credesse con ciò di conferire qualcosa alla dimostrazione dell’essenza del loro esserci, come concepiva Crisippo. Ma questi sono accidenti troppo sconnessi dall’essenza degli dei. [II,305,5] Il fatto che gli dei siano sempre in movimento, che Apollo faccia predizioni e che Asclepio curi, sono invece già un sufficiente proemio all’essenza del loro esserci, come quella che dio è un essere vivente sempiterno beneficamente disposto verso gli uomini.

SVF II, 1020

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 77. Inoltre, ciò che è generatore di ragione e di saggezza è anch’esso certamente razionale e saggio. [II,305,10] La predetta facoltà [capace di far muovere e di dare una forma alla sostanza degli esseri] è per natura capace di strutturare gli uomini. Essa sarà pertanto razionale e saggia, il che sarebbe proprio di una natura divina. Dunque gli dei esistono.

§ 3.Chi è dio

Frammenti n. 1021-1027

SVF II, 1021

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 147. [II,305,15] <Gli Stoici> affermano che dio è un essere vivente immortale, razionale, perfetto o cognitivo nella sua felicità, che non accoglie in sé male alcuno, che si fa mente del cosmo e delle realtà del cosmo, e che tuttavia non è antropomorfo. Egli è il creatore del cosmo nella sua interezza ed è come il padre di tutti, sia in generale che per quella particolare parte di lui che pervade il tutto e che viene indicata con molti appellativi [II,305,20] a seconda della facoltà che manifesta. Essi affermano infatti che si chiama Dià perché tutto avviene per causa sua; ma lo chiamano anche Zeus, in quanto è causativo del vivere ed ha fatto spazio alla vita; Atena per l’estensione del suo egemonico fino all’etere; Era per l’estensione del suo egemonico all’aria; Efesto per l’estensione del suo egemonico al fuoco artefice; Poseidone per l’estensione del suo egemonico all’elemento umido e Demetra per l’estensione del suo egemonico alla terra. In modo simile gli diedero anche altri appellativi tenendo conto [II,305,25] di certe sue particolari proprietà.

SVF II, 1022

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 148. Zenone afferma che sostanza della divinità sono il cosmo nella sua interezza e il cielo, e in modo simile parla anche Crisippo nel primo libro ‘Sugli dei’.

SVF II, 1023

Filodemo ‘De pietate’ cp. 15 (DDG p. 548, 4). Nei libri [II,305,30] ‘Sulla Prònoia’ egli espone ed estende i medesimi apparentamenti all’animo dell’universo, e adatta ad esso i nomi degli dei sfruttando in modo instancabile la sua sottigliezza.

SVF II, 1024

Seneca ‘De beneficiis’ IV, VII, 1. “La natura” dice “mi offre tutto ciò”. Ma non capisci che quando parli così cambi nome a dio? Infatti, cos’altro è la natura se non dio e la divina ragione, [II,305,35] immanenti nel mondo intero e nelle sue parti? Certo, tutte le volte che vuoi potrai chiamare in un altro modo un tale artefice della nostra realtà: secondo le consuetudini potrai chiamarlo Giove ottimo e massimo, Tonante, Statore […] E se poi lo chiamerai Fato non mentirai; il fato, infatti, altro non è che la catena delle cause, e la prima delle cause da cui tutte le altre discendono. [II,306,1] Qualunque nome attribuirai a dio sarà ben dato purché esprima una forza o un effetto di ordine celeste; e potrà avere tanti nomi quanti sono i suoi doni. I nostri ritengono che sia anche il padre Libero, Ercole e Mercurio. Padre Libero, perché è genitore di tutti in quanto a lui si deve la scoperta della forza seminale [II,306,5] che provvede alla generazione della vita accompagnandola con un piacere; Ercole, per la sua forza invincibile che una volta esauritasi nello sforzo della creazione si riconvertirà in fuoco; Mercurio perché presso di lui si trovano ragione, misura, ordine e scienza. Dovunque ti volgerai vedrai dio venirti incontro, perché nulla è vuoto di lui ed egli è pienamente presente nella sua opera.

SVF II, 1025

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ I, 5. Crisippo chiama dio la forza [II,306,10] naturale provvista di divina ragione, talora la necessità divina.

SVF II, 1026

Giovanni Damasceno ‘De haeresibus’ 7, p. 22 Kotter. Gli Stoici nutrono il giudizio che l’universo sia corpo e legittimano l’idea che questo cosmo sia un dio sensibile. Alcuni di essi dichiararono che dio trae natura dalla sostanza del fuoco. Definiscono dio quale mente, [II,306,15] e come animo di tutto l’involucro rappresentato dal cielo e dalla terra. L’universo è il suo corpo, affermavano, e i suoi occhi sono i luminari del cielo. Le carni periscono, ma l’animo di tutti si trasfonde da corpo a corpo.

SVF II, 1027

[1] Aezio ‘Placita’ I, 7, 33. Gli Stoici dichiarano che dio è un’entità cognitiva, [II,306,20] che è fuoco artefice, che incede metodicamente alla genesi del cosmo, che comprende in sé tutte le ragioni seminali in armonia con le quali ciascuna cosa avviene com’è destino che avvenga, che è uno pneuma che pervade il cosmo intero mutando i suoi appellativi a seconda delle diversificazioni del materiale attraverso il quale si è fatto spazio. Sono dei il cosmo, gli astri, e la terra e la mente, [II,306,25] più in alto di tutto, nell’etere.

[2] Atenagora ‘Apologia’ 6, p. 32 Otto. Anche se moltiplicano i nomi della divinità con appellativi consoni alle diversificazioni del materiale attraverso il quale affermano che si faccia spazio lo pneuma di dio, gli Stoici nei fatti ritengono però che dio sia uno solo. Giacché se dio è fuoco artefice […]

[II,306,30] § 4. Dio è corpo

 Frammenti n. 1028-1048

SVF II, 1028

Teodoreto ‘Graec. affect. cur.’ p. 37, 33. Si fuggirà così anche la non confacente opinione degli Stoici. Costoro, infatti, affermavano che dio ha forma corporea.

SVF II, 1029

Ippolito ‘Refutationes’ 21, (Dox. Gr. p. 571). [II,306,35] Crisippo e Zenone, stoici anch’essi e personaggi della stessa fama, svilupparono la filosofia sulla base di conclusioni più ragionate e quasi la racchiusero entro una serie di definizioni. Anch’essi ipotizzarono che dio è il principio di tutte le cose, essendo un corpo purissimo la cui Prònoia pervade tutte le cose.

SVF II, 1030

Olimpiodoro ‘In Plat. Phaed.’ p. 35, 3 segg. Norvin. [II,306,40] Perciò anche il coro filosofico degli Stoici concepì dio essere corpo, perché agisce servendosi di rappresentazioni. Ed è la rappresentazione che dà corpo agli incorporei.

SVF II, 1031

Servio ‘In Aeneidem’ VI, 727. Certo qui <Virgilio> parla <da Stoico, giacché sono loro> a dire che dio è corpo [II,307,1] ed a definirlo fuoco cognitivo, cioè fuoco dotato di sensibilità. E se ciò è vero, dio è corpo.

SVF II, 1032

Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ III, 9, 9. […] secondo gli Stoici, i quali sono dell’avviso che la sostanza ignea a calda sia l’egemonico del cosmo, [II,307,5] che dio sia corpo e che sia creatore, non diverso dalla facoltà che ha il fuoco.

SVF II, 1033

Teofilo ‘Ad Autolycum’ II, 4, p. 52 Otto. Altri, a loro volta, nutrono il giudizio che dio sia uno pneuma che si è fatto spazio attraverso l’intero cosmo.

SVF II, 1034

Tertulliano ‘Apologeticum’ cp. 47. Alcuni asseriscono [II,307,10] che Dio è incorporeo, altri che è corporeo: i primi sono i Platonici, i secondi gli Stoici […] Gli Stoici rappresentano Dio come un’entità posta fuori dal mondo e che ne modella la massa alla stregua di un vasaio.

SVF II, 1035

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 14, p. 699 Pott. Gli Stoici [II,307,15] affermano che dio è corpo e, quanto a sostanza, pneuma come, senza fallo, è pure l’anima. Alcuni affermano che dio pervade tutta la sostanza.

SVF II, 1036

Tertulliano ‘Adversus Hermogenem’ cp. 44. Gli Stoici pretendono che Dio scorresse nella materia come il miele nei favi.

SVF II, 1037

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 218. [II,307,20] Aristotele diceva che dio è incorporeo ed è al limite del cielo. Gli Stoici, invece, che è uno pneuma pervasivo anche delle cose schifose e fetide.

SVF II, 1038

Alessandro d’Afrodisia ‘De anima libri mantissa’ p. 113, 12 Bruns. A me parrebbe che l’obiezione da muovere a costoro è di ritenere la mente, che è cosa divina, presente anche nelle cose più vili, come reputarono [II,307,25] pure gli Stoici.

SVF II, 1039

Clemente d’Alessandria ‘Protrept.’ p. 58 Pott. Non passerò certo sotto silenzio gli Stoici, i quali dicono che il divino pervade ogni materiale, anche il più disonorevole.

SVF II, 1040

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 346 Pott. [II,307,30] E gli Stoici […] dicono che dio è un corpo che bazzica anche il materiale più disonorevole.

SVF II, 1041

[1] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VII, 3. Gli Stoici dividono la natura in due parti: una attiva, l’altra disponibile ad essere plasmata. [II,307,35] Nella prima si trova la sensibilità, nella seconda la materia; e l’una non può stare senza l’altra. Ma come possono essere identici ciò che tratta e ciò che è trattato? Se uno dicesse che il vasaio e la creta o la creta e il vasaio sono la medesima cosa, non sembrerebbe del tutto pazzo? Eppure costoro con l’unico nome di natura comprendono due cose diversissime: dio e il mondo, l’artefice e l’opera. Essi dicono pure che l’una nulla può senza l’altra, come se la natura fosse dio mescolato al mondo. [II,307,40] E talvolta fondono talmente le parti da fare di dio la mente del mondo e del mondo il corpo di dio, quasi che dio e il mondo abbiano avuto inizio insieme, e non piuttosto che dio abbia creato il mondo. Del resto ciò è ammesso in altri passi in cui si sostiene che il mondo è fatto apposta per l’uomo. Cosa che però essi stessi dicono altre volte, quando affermano che il mondo è stato creato per gli uomini.

[2] VII, 4. E non si tratta di un errore da poco, [II,307,45] tanto più che per loro il mondo fu creato non per un uomo ma per gli uomini.

SVF II, 1042

Proclo ‘In Platonis Timaeum’ p. 297 Schn. Quello strutturato da Crisippo è ben diverso se paragonato a questo cosmo. [II,308,1] Egli, infatti, confonde le cause non partecipate e partecipate, quelle divine e cognitive, immateriali e materiali. Dio stesso, per lui, pur essendo l’essere primo, pervade il cosmo e la materia, ed è anima e natura inseparabile da ciò che governa.

SVF II, 1043

Salviano ‘De gubernatione Dei’ I, 3. Platone e tutte le scuole Platoniche [II,308,5] sostengono che Dio sia il moderatore di tutte le cose. Gli Stoici attestano che dio, in funzione di governatore, permane sempre entro ciò che dirige.

SVF II, 1044

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 225, 18 Bruns. Inoltre qualcuno potrebbe ricercare se sia possibile chiamare creatore delle cose materiali un dio che permea [II,308,10] la materia e che in essa è immanente. Per strutturare questa tesi <gli Stoici> argomentano che le opere d’arte non sono simili alle opere della natura, giacché i risultati della natura sono specificamente formati e plasmati non soltanto in superficie ma anche in profondità, e che le loro parti interne sono state lavorate con arte sopraffina. Per le opere che sono state modellate da un artista vale invece quel che vale per i simulacri, [II,308,15] ossia che le loro parti interne restano non modellate. Per questo essi affermano che nel caso delle opere d’arte l’agente è esterno e separato, mentre nel caso delle opere di natura la facoltà artistica che dà loro forma e che le genera si trova nella materia stessa.

SVF II, 1045

Plutarco ‘De facie in orbe lunae’ p. 926c. E quanto all’anima, per Zeus, [II,308,20] dissi io, non è stato contro natura il suo confinamento nel corpo: lei veloce e lui lento, lei ignea e lui freddo, come voi Stoici dite, lei invisibile e lui sensibile? Perciò allora dovremmo dire che che non c’è anima nel corpo, oppure che la mente, che è cosa divina, quantunque percorra istantaneamente nel suo volo tutto il cielo, la terra e il mare, è giunta nelle carni, nei nervi, nelle midolla e nelle parti umide piede di innumerevoli affezioni sotto l’influenza del peso e della densità. [II,308,25] Non è vero che questo vostro Zeus, per quanto sia per natura un singolo, grande e continuo fuoco, attualmente è allentato, soggiogato e trasformato, ed è diventato e continua a diventare qualunque cosa nel corso delle sue mutazioni?

SVF II, 1046

Sofonia ‘Paraphrasis in De anima’ p. 36, 9 Hayduck. [II,308,30] Quella che segue è l’estrema e ultima opinione sull’anima. Alcuni affermano che essa è mischiata al cosmo nella sua interezza e concepirono che ogni corpo è animato, laonde Talete credette che tutto sia pieno di dei. A quest’opinione potrebbe essere ridotta anche quella degli Stoici, i quali concepiscono la divinità essere corpo, essere presente ovunque e in forma corporea, non nelle attività soltanto.

SVF II, 1047

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 226, 10 Bruns. [II,308,35] Attraverso quel che dicono, sembra che <gli Stoici> chiamino dio la forma della materia. Se per loro così è, dio è mischiato alla materia come negli animali l’animo è mischiato al corpo, e la potenza della materia è dio (infatti affermano che la materia ‘fa’ grazie alla potenza che si trova in essa). È come se dicessero che la forma di essa materia è dio, come l’animo lo è del corpo e la potenza lo è di ciò che è in potenza. [II,308,40] Ma se questo è vero, come potrebbe ancora la materia essere di per se stessa priva di forma, se proprio la sua permanenza e il suo essere materia le viene dalla potenza che in essa è? Secondo loro, che dio sia la forma della materia diventa apparente soprattutto nel corso della conflagrazione universale, se proprio nel fuoco, che per loro è l’unico elemento che allora rimane, [II,309,1] la materia e dio sono gli unici a salvarsi. In quei momenti dio sarebbe la forma della materia del fuoco. Se così è, poiché il fuoco si trasforma in altri corpi cambiando forma, allora dio verrebbe a perire […]

SVF II, 1048

Alessandro d’Afrodisia ‘De mixtione’ p. 226, 24 Bruns. Come può non essere indegno della prolessi che abbiamo della divinità, [II,309,5] il dire che dio si fa spazio attraverso la materia che è substrato di qualunque cosa e che permane in essa qualunque essa sia; il dire che l’opera sua cardinale è quella di generare sempre qualcosa e di plasmare le cose che dalla materia possono nascere; il fare dio creatore di vermi e di zanzare, uno che senz’arte alcuna come un qualunque bambolaio passa il tempo a pasticciare col fango [II,309,10] e con esso fa tutto ciò che è possibile farne?

§ 5.Dio è mutevole

Frammenti n. 1049-1056

SVF II, 1049

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1051f. Secondo Antipatro, Crisippo non è uno dei ‘tutti’, giacché crede che, ad eccezione del fuoco, nessuno degli dei sia imperituro, [II,309,15] ma che tutti sia nati in passato e destinati a perire in futuro. Questo egli lo afferma, per dir così, ovunque. Citerò un brano dal terzo libro ‘Sugli dei’: “Secondo un altro modo di ragionare, alcuni dei sono detti generati e perituri, altri ingenerati; e l’illustrazione di questa tesi dall’inizio è piuttosto un argomento di fisica. [II,309,20] Il sole, la luna e gli altri dei che hanno una ragion d’essere similare sono generati, mentre Zeus è invece sempiterno”. E poi proseguendo afferma: “Si diranno cose simili anche circa il deperire e il divenire sia a proposito degli altri dei sia a proposito di Zeus, giacché gli uni sono perituri mentre le parti di Zeus [II,309,25] sono imperiture”.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1075a. Ma Crisippo e Cleante dopo avere, per così dire, infarcito a parole di dei il cielo, la terra, <l’aria e il mare>; a nessuno di tali e tanti personaggi hanno riservato vita imperitura e sempiterna, ad eccezione di Zeus, nel quale essi fanno consumare tutti gli altri. Sicché a Zeus è anche congiunta la caratteristica di far perire, [II,309,30] che è cosa non più giusta e conveniente dell’essere fatto perire. […] Queste, come molte altre, non sono assurdità che noi deduciamo come insite nelle loro premesse e conseguenti alle loro dottrine. Sono loro stessi, invece, nei loro scritti sugli Dei, la Prònoia, il Destino e la Natura, a dire a gran voce e in termini precisi che tutti gli altri dei [II,309,35] sono stati soggetti a nascita nel passato e saranno soggetti a perire in futuro nel fuoco, dal momento che secondo loro essi sono fusibili come fossero di cera o di stagno.

[3] p. 1075c. Qualora essi contrappongano questa sapiente e bella finezza, cioè affermino che l’uomo è mortale, mentre dio è immortale ma perituro….

[4] ‘De defectu oraculorum’ p. 420a. [II,310,1] Tuttavia, egli diceva, noi riconosciamo che gli Stoici, pur avendo l’opinione di cui parlo non soltanto riguardo ai demoni ma anche riguardo allo stuolo così numeroso degli dei, ne utilizzano però uno solo sempiterno e imperituro, e ritengono gli altri nati in passato e destinati a perire in futuro.

SVF II, 1050

Porfirio ‘De anima’ presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, p. 818c. [II,310,5] Mentre affermano che dio è fuoco cognitivo, <gli Stoici> non si peritano di lasciar credere che sia sempiterno, di dire che fa perire tutte le cose e che se ne pasce come un fuoco del genere di quelli che noi tutti conosciamo, e di replicare polemicamente ad Aristotele, il quale ricusa di ammettere che l’etere origini da un fuoco siffatto. Quando poi sono richiesti di spiegare [II,310,10] come un fuoco del genere possa rimanere acceso, essi dicono che non si tratta di un fuoco diverso dal normale -e dicendo una cosa del genere sollecitano pure che si presti fede alle loro parole -e a questa fede irrazionale aggiungono inoltre che si tratta di un fuoco sempiterno, mentre il fuoco etereo in parte si spegne e si accende. Ma perché uno dovrebbe continuare a dilungarsi ulteriormente a illustrare della cecaggine di costoro nelle loro stesse dottrine e la loro pigrizia e il loro spregio [II,310,15] per quelle degli antichi?

SVF II, 1051

[1] Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 8, Vol. II, p. 226, 24 K. Quando noi diciamo che Dio è pneuma, <Celso> crede che in questa affermazione noi non differiamo affatto dagli Stoici greci, i quali erano dell’avviso che dio è pneuma che scorre attraverso tutte le cose e che tutto include in se stesso. […] Infatti, la Provvidenza include tutte le cose di cui si dà pensiero [II,310,20] e le abbraccia. […] Quindi gli Stoici dicono che le cause basilari sono entità corporee. Per questo tutte le cose periscono, ed essi -se ciò non sembrasse loro del tutto incongruente -corrono il pericolo di far perire addirittura il dio che sta al di sopra di tutte. Per loro anche il logos di dio, la ragione che scende fino agli uomini e fino alle minime realtà, [II,310,25] non è altro che pneuma corporeo.

[2] VIII, 49, Vol. II, p. 265, 4 K. Ma secondo noi Dio non è corpo, <e lo diciamo> per non incappare nelle assurdità nelle quali incappano i seguaci della filosofia di Zenone e di Crisippo.

SVF II, 1052

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 14, Vol. I, p. 284, 23 K. [II,310,30] Il dio degli Stoici, in quanto ‘corpo’, in certi momenti, ossia nel corso della conflagrazione universale, come egemonico ha in sé l’intera sostanza; in altri momenti, ossia nel corso dello stabilimento del buon ordine del cosmo, ha sede nelle varie parti di esso. Insomma, gli Stoici non sono stati capaci di evidenziare nitidamente il concetto naturale di Dio, come essere del tutto imperituro, semplice, non composto di parti, non suddivisibile.

SVF II, 1053

[1] Origene ‘Contra Celsum’ I, Vol. I, p. 72, 11 K. [II,310,35] Volesse il cielo […] che anche gli Stoici, i quali dicono che Dio è ‘corpo’, avessero sentito parlare di questa dottrina! Così il mondo non sarebbe pieno di discorsi che introducono un principio supremo perituro e corporeo, in virtù del quale per gli Stoici anche Dio è ‘corpo’. Costoro, infatti, non si fanno specie di dire che Dio è commutabile, interamente cangiante, mutevole e, in parole semplici, passibile [II,310,40] d’essere fatto perire se ci fosse un agente capace di farlo perire. Insomma, un Dio che ha la fortuna di non esser fatto perire soltanto perché non esiste chi lo faccia perire.

[2] III, 75 (p. 496 Del). Gli Stoici introducono un Dio perituro e dicono che la sua sostanza è corpo. Un corpo interamente commutabile, cangiante, mutevole. E quando a volte tutto perisce, rimane soltanto Dio.

SVF II, 1054

Origene ‘In Evangelum Ioannis’ XIII, 21. [II,311,1] Pochi sono stati capaci di discernere a fondo la natura delle realtà corporee e soprattutto di quelle foggiate dal Logos e dalla Provvidenza, poiché affermano che, quanto a genere, la Provvidenza è delle stessa sostanza dei corpi che ne sono oggetto, quando invece la Provvidenza è un’entità perfetta e del tutto diversa dagli oggetti cui provvede. [II,311,5] Quanti vogliono che Dio sia corpo accettarono dunque le assurdità cui il loro discorso andava incontro, in quanto non furono capaci di guardare in faccia le conseguenze che facevano riscontro in modo evidente al loro ragionamento. Dico questo eccettuando coloro i quali sostengono l’esistenza, oltre i quattro elementi, di una quinta natura di corpi. Ma se ogni corpo ha natura materiale e per propria essenza è privo di qualità, e se questa natura è commutabile, cangiante, interamente mutevole, capace di fare spazio alle qualità che [II,311,10] il creatore volesse darle, allora è necessario che anche il Dio materiale sia commutabile, cangiante, mutevole. E quei filosofi non si fanno neppure specie di dire che Dio, essendo corpo, è perituro; che è un corpo fatto di pneuma e di sostanza eterea soprattutto nel suo egemonico; un corpo che è perituro ma non perisce, perché dicono [II,311,15] che non esista un agente capace di farlo perire.

SVF II, 1055

Plutarco ‘De defectu oraculorum’ p. 426b. <Gli Stoici> fanno degli dei degli eventi atmosferici e li ritengono un misto di potenze dell’acqua e del fuoco; li fanno generare insieme con il cosmo e poi di nuovo incenerire con esso; né indipendenti né liberi come aurighi o piloti, ma come fossero simulacri inchiodati e fusi insieme alle basi, [II,311,20] così essi sono chiusi e imbullettati nella gabbia del somatico e accomunati ad esso fino alla rovina, alla dissoluzione completa e alla trasformazione.

SVF II, 1056

Ps. Galeno ‘De qualitat. incorp.’ 6, XIX, p. 479 K. Se quando Zeus opera le trasformazioni di se stesso ha miriadi di rivolgimenti di qualità pari per numero agli accidenti dei quali parlavo, egli viene a trovarsi anche in stati ben peggiori di quelli del mitologico Proteo, [II,311,25] il quale operava di se stesso poche trasformazioni e in nature confacenti:

‘Prima di tutto divenne chiomato leone,

poi serpente e pantera e immane cinghiale;

liquida acqua si fece poi, e albero d’alto fogliame’.

Zeus invece [II,311,30] diventa qualunque cosa, anche la più laida […]. Se poi non è lui a trasformare se stesso ma fa trasmutare e fa cambiare foggia e qualità, mi chiedo come sia capace di fare ciò.

§ 6. Dio non ha forma umana

Frammenti n. 1057-1060

SVF II, 1057

Lattanzio ‘De ira dei’ cp. 18. Tralascio di parlare dell’aspetto di dio, [II,311,35] giacché gli Stoici negano del tutto che dio abbia una forma.

SVF II, 1058

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 7, p. 852 Pott. Dio dunque, per sentire, non ha bisogno d’avere aspetto umano né ha bisogno dei sensi, come [II,312,1] piaceva dire agli Stoici, soprattutto né di udito né di vista. In altro modo non può essere concepito.

SVF II, 1059

Seneca ‘Apocolocyntosis’ 8. Dicci insomma come vuoi che sia questo dio. Un dio Epicureo non può essere. Un dio simile non ha fastidi e non ne procura ad altri. [II,312,5] Un dio Stoico? In che modo può essere ‘rotondo’, come dice Varrone, senza capo e senza prepuzio? Però vedo che c’è in lui qualcosa del dio Stoico: non ha cuore né testa.

SVF II, 1060

[Metrodoro di Lampsaco ‘De sensu’?] Voll. Herc. VI, 2, p. 250 Scott. Dio del cosmo non è

‘L’infaticabile sole e la luna piena’

Allo Stoico e al Peripatetico [II,312,10] è possibile dire […] come mai la sua forma peculiare è quella sferica? Quanti parlano in modo diverso non lo scorgono perché della natura […]

§ 7. Su Zeus e su Era

Frammenti n. 1061-1075

SVF II, 1061

Servio ‘In Aeneidem’ X, 18. “O padre, eterno signore degli uomini e degli dei”. [II,312,15] Probo discute questo passo e dice che un riferimento è ispirato ai fisici, l’altro ai matematici. Infatti <Giove> è signore degli dei perché è etere, il quale domina gli altri elementi; ed è signore degli uomini, perché i suoi favorevoli raggi rendono [II,312,20] onore agli uomini.

SVF II, 1062

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 31, 11 W. Di Crisippo. Zeus pare trarre questo nome dal fatto d’avere dato a tutti la vita. E lo chiamano Dià perché è causativo d’ogni cosa e tutto avviene per causa sua.

[2] Plutarco ‘De aud. poet.’ p. 31e. [II,312,25] Anche Crisippo è sovente un cavillatore gretto e cocciuto, non perché gioca ma perché fa il trovatore di espressioni in un modo che non convince, come quando facendo violenza al significato chiama ‘Cronide altitonante’ chi è valente nel dialogare e ben piantato sulle gambe per forza di ragionamento.

SVF II, 1063

Giovanni Lido ‘De mensibus’ IV, 48, p. 224 Rother. [II,312,30] Cratete vuole che Dio, il quale pervade ogni cosa, abbia avuto questo nome dal fatto che inzuppa la Terra, cioè la rende pingue. Posidonio, invece, perché è colui che governa ogni cosa. Crisippo perché tutto avviene per causa sua.

SVF II, 1064

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1077e. [II,312,35] Crisippo dice che “Zeus e il cosmo sono simili al <corpo> dell’uomo e la Prònoia al <suo> animo. Quando avviene la conflagrazione universale, poiché Zeus è l’unico dio imperituro, egli arretra e si raccoglie in Prònoia; dopo di che, resisi omogenei, entrambi persistono in un’unica sostanza che è l’etere”.

SVF II, 1065

Seneca ‘Epistulae morales’ IX, 16. Che tipo di vita sarà [II,313,1] quella di un saggio lasciato senza amici, […] o gettato su una spiaggia deserta? Uguale a quella di Giove quando alla dissoluzione del mondo, alla riduzione in un unico essere degli dèi e mentre per qualche tempo è sospesa anche la natura, egli se ne sta tranquillo e tutto dedito ai suoi pensieri. [II,313,5] Il sapiente fa la stessa cosa: si apparta e sta con sé.

SVF II, 1066

Servio ‘In Aeneidem’ I, 47. Ai filosofi della natura piace intendere Giove come etere, cioè fuoco, e Giunone come aria; e poiché questi elementi sono parimente rarefatti, li hanno chiamati fratelli. Dato poi che Giunone, l’aria, è sottoposta al fuoco, cioè a Giove, all’elemento che le sta sopra [II,313,10] fu dato il nome di marito.

SVF II, 1067

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 63. Una gran moltitudine di dei discesero poi da un’altra teoria razionale di carattere fisico; dei che, vestiti in forma umana, rifornirono i poeti di favole e riempirono la vita degli uomini d’ogni genere di superstizione. Questo tema, trattato da Zenone fu poi abbondantemente spiegato e chiarito [II,313,15] da Cleante e da Crisippo. Infatti, poiché in Grecia era largamente diffusa l’arcaica credenza che Cielo fosse stato evirato dal figlio Saturno e quest’ultimo incatenato dal figlio Giove; i filosofi spiegarono che di questo racconto tutt’altro che pio c’era una valida spiegazione naturale. Esso significava che la parte più alta del cielo, di natura eterea cioè ignea, e che da se stessa genera tutte le cose manca dell’organo del corpo bisognoso di congiungersi ad un altro [II,313,20] per procreare.

SVF II, 1068

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1052b. Circa il modo di nutrirsi degli altri dei, nel terzo libro ‘Sugli dei’ Crisippo dice: “Gli altri dei utilizzano tutti il cibo in modo similare e si sostentano grazie ad esso. Invece Zeus e il cosmo si sostentano in modo diverso [II,313,25] dagli dei che sono consumati e che nascono dal fuoco”.

SVF II, 1069

Cicerone ‘De natura deorum’ III, 63. Prima Zenone, poi Cleante e Crisippo, si presero il fastidio niente affatto necessario di rendere ragione delle finzioni delle favole e di spiegare il perché dei nomi con cui si indicano le varie divinità. Così facendo voi ammettete palesemente che la faccenda [II,313,30] è ben diversa da come la opinano gli uomini, e che quelli chiamati dei sono nature delle cose, non figure di dei.

SVF II, 1070

Servio ‘In Aeneidem’ IV, 638. Bisogna sapere che per gli Stoici dio è uno solo, il cui nome però varia a seconda delle azioni che compie e delle funzioni che svolge. Per questo i numi sono anche detti bisessuali, essendo maschi quando hanno una funzione attiva, [II,313,35] e femmine quando hanno una natura passiva. Ecco la spiegazione del verso: “Entrò nel grembo della moglie felice”. Gli Stoici dicono che non esiste che un unico dio e un unico e medesimo potere che assume diversi nomi in ragione delle sue funzioni: così lo stesso dio lo chiamano Sole, o Apollo, o Libero; e alla medesima dea ora danno il nome Diana, ora Cerere, [II,313,40] ora Giunone, ora Proserpina.

SVF II, 1071

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 187. [II,314,1] Vi sono alcuni che inveiscono contro Crisippo per avere scritto molte cose vergognose e indicibili. Infatti, nella compilazione ‘Sugli antichi filosofi della natura’ egli riplasma per seicento righe le vicende che riguardano Era e Zeus, dicendo cose che nessuno, pur così sfortunato da avere la bocca sudicia, direbbe. [II,314,5] I suoi detrattori affermano che questa storia vergognosissima che egli riplasma e che loda come naturale, si confà alle prostitute piuttosto che alle dee, che non è repertoriata dagli autori di opere sui dipinti, giacché non è riferita né da Polemone, né da Ipsicrate e neppure da Antigono, e che si tratta quindi [II,314,10] di una storia inventata da Crisippo stesso.

SVF II, 1072

Clemente Romano ‘Homil.’ V, 18, P.L. II, col. 188. Quando Zenone dice che il divino è dappertutto non sta forse alludendo al fatto che il divino è indifferente, affinché diventi comprensibile alle persone dotate di comprendonio che con chiunque ci si mescoli ci si mescola col divino; e che è superfluo proibire i cosiddetti adulteri o gli incesti con madre o figlia o sorella o ragazzi? [II,314,15] Crisippo nelle ‘Epistole erotiche’ ricorda anche quell’immagine che si trova in Argo, nella quale il viso di Era è a contatto con il membro virile di Zeus.

SVF II, 1073

Teofilo ‘Ad Autolycum’ III, 8, p. 196 Otto. Quel gran chiacchierone di Crisippo come può non trovare che significhi qualcosa anche Era che con bocca immonda [II,314,20] s’accoppia a Zeus?

SVF II, 1074

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 48, Vol. I, p. 321, 3 K. E perché devo io parlare delle assurde storie degli dei Greci, storie di per sé vergognose e che vengono spiegate allegoricamente, come fa ad esempio Crisippo di Soli, che è ritenuto aver dato lustro alla Stoa filosofica con molte compilazioni intelligenti, quando interpreta [II,314,25] quella pittura che si trova a Samo e nella quale Era era stata dipinta nell’atto di fare a Zeus cose innominabili? Il solenne filosofo afferma infatti nelle sue compilazioni, che un tempo la materia ha accettato in sé le ragioni seminali di dio in vista della messa in ordinato assetto del cosmo intero, e che nella pittura di Samo Era è la materia, [II,314,30] mentre Zeus è il dio.

SVF II, 1075

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 66. L’aria, come argomentano gli Stoici, trovandosi a mezzo fra mare e cielo viene divinizzata col nome di Giunone, che è sorella e consorte di Giove, per il fatto che l’aria è simile all’etere ed è ad esso congiunta nelle regioni più alte. La fecero inoltre femmina e la identificarono con Giunone, [II,314,35] perché nulla è più soffice dell’aria.

§ 8. Sugli altri dei popolari

Frammenti n. 1076-1100

SVF II, 1076

Filodemo ‘De pietate’ cp. 11 (DDG 545b, 12). [II,315,1] Anche Crisippo […] nel primo libro ‘Sugli dei’ dice che Zeus è il logos che governa ogni cosa, che è l’anima del cosmo e che tutto vive perché partecipa di lui […] [II,315,5] anche i sassi, e che perciò si chiama Zeus, mentre è chiamato Dià perché è causativo e signore d’ogni cosa. Egli poi afferma che il cosmo è animato ed è dio, e che l’egemonico e l’intero animo […] che la comune natura di tutte le cose, il destino e la necessità si chiamano anche Zeus; che legalità, giustizia, [II,315,10] concordia, pace e tutto ciò che è loro similare sono la stessa cosa. Gli dei non sono maschi e femmine, come neppure lo sono gli Stati o le virtù; e che essi hanno soltanto dei nomi maschili e femminili, come ‘luna’ e ‘mese’, pur essendo le stesse entità. Ares è stato posto a signore della guerra e delle schiere contrapposte. Efesto è il fuoco. [II,315,15] Crono è lo scorrere del tempo. Rea è la terra. Dià è l’etere. Apollo e Demetra sono la terra e lo pneuma in essa contenuto. Egli sostiene che è roba da ragazzini il parlare, dipingere, scolpire dei antropomorfi, allo stesso modo in cui lo è il farlo per città, fiumi, luoghi e passioni. Zeus è l’aria che circonda la terra; [II,315,20] Ade è quella tenebrosa; Poseidone <l’acqua> sulla terra e nel mare. Crisippo apparenta anche gli altri dei, come pure questi, ad entità inanimate; e crede che il sole, la luna e gli altri astri siano dei, come pure la legge. Egli afferma che gli uomini si trasformano in dei.

SVF II, 1077

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 39. Crisippo, considerato [II,315,25] il più scaltrito interprete dei sogni degli Stoici, congrega una turba immensa di dei ignoti; talmente ignoti che non possiamo dar loro neppure una forma congetturale, pur potendo la nostra mente crearsi l’immagine di qualunque cosa. Egli sostiene che la potenza divina è posta nella ragione, animo e mente dell’onnicomprensiva natura; ed afferma che il mondo stesso [II,315,30] è dio, il cui animo è effuso dappertutto nell’universo. Del mondo, dio è sia il sovrano che dimora nella mente e nella ragione, sia la natura delle cose comune a tutti, sia la natura onnicomprensiva, sia la forza fatalmente necessitata degli eventi futuri, sia il fuoco, [II,316,1] che in precedenza chiamai etere, sia gli influssi e le emanazioni naturali, sia l’acqua, la terra, l’aria, il sole, la luna, le stelle, sia l’unità che contiene ogni cosa, sia persino gli uomini che abbiano attinto l’immortalità. Similmente argomenta che l’etere è quello che gli uomini hanno chiamato Giove, [II,316,5] che l’aria che si estende sul mare è Nettuno, che la terra è la dea chiamata Cerere; e con lo stesso metodo tratta dei nomi di tutti gli altri dei. Inoltre dice che Giove è la forza della legge perpetua ed eterna che è come guida della vita e maestra dei doveri, e la chiama fatale necessità e verità sempiterna delle cose future; [II,316,10] sebbene in esse nulla appaia incorporare in sé una potenza divina. Tutto queste cose sono contenute nel primo libro de ‘La natura degli dei’, mentre nel secondo Crisippo tenta accordare le favolette di Orfeo, di Museo, di Esiodo e di Omero a ciò che egli aveva detto degli dei immortali nel primo libro, così da far risultare Stoici anche quegli antichissimi poeti, i quali invero [II,316,15] queste storie neppure le sospettavano.

SVF II, 1078

Filodemo ‘De pietate’ cp. 13 (DDG 547b, 16). Nel secondo libro ‘Sugli dei’ Crisippo, come fa anche Cleante, prova ad apparentare alle opinioni che si hanno sugli dei, i versi riferiti ad Orfeo e a Museo, e quelli che si trovano in Omero, in Esiodo e in Euripide. [II,316,20] Per lui tutto è etere, e il padre e il figlio sono la stessa persona. Anche nel primo libro, secondo lui non è contraddittorio che Rea sia allo stesso tempo madre e figlia di Zeus.

SVF II, 1079

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 41 (p. 76 Aucher). Se riconduci le favole che si raccontano su Vulcano alle proprietà del fuoco, quelle su Giunone alla natura dell’aria, [II,316,25] quelle su Mercurio al raziocinio, e così via per gli altri a seconda delle rispettive caratteristiche ed in conformità ai canoni della teologia, allora tesserai di certo le lodi, quali autentici e pii celebratori della divinità, dei poeti <come Omero ed Esiodo> che poco fa accusavi.

SVF II, 1080

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 71. Seppure ripudiate e disdegnate queste favole, [II,316,30] si potrà capire quale sia il dio che per natura si riferisce a ciascuna cosa: Cerere alla terra, Nettuno al mare e poi altri dei ad altre cose. E quali che siano questi dei, noi dobbiamo venerarli e celebrarli, qualunque sia il nome che la consuetudine ha loro dato.

SVF II, 1081

Filodemo ‘De pietate’ cp. 14 (DDG 547b, 3). Egli fa gli stessi [II,316,35] apparentamenti anche nel libro ‘Sulle Grazie’, nel quale dice che Zeus è la legge e che le Grazie rappresentano le nostre basi originarie per realizzare le buone opere e ciò che ci viene restituito in ricompensa.

SVF II, 1082

[1] Seneca ‘De beneficiis’ I, III, 2. Parlerò poi del valore intrinseco e della appropriatezza di questi benefici, ma tu prima concedimi una digressione su una faccenda che non pertiene al discorso: [II,316,40] ossia sul perché le Grazie siano tre, perché siano sorelle e si tengano per mano, perché siano sorridenti, vergini e indossino una veste discinta e diafana. Alcuni sono convinti che una sia [II,317,1] quella che dà i benefici, l’altra quella che li riceve, e la terza quella che li restituisce. Altri invece pensano che si tratti di tre generi di beneficati: quelli che i benefici li meritano, quelli che li restituiscono, e quelli che li accettano e li restituiscono. Tu giudica pur corretta una o l’altra di queste interpretazioni. Nonostante ciò, di quale utilità ci è una simile cognizione? Che cosa significa quella danza in cerchio tenendosi per mano? Serve ad indicare [II,317,5] che la serie dei benefici passa di mano in mano e ciò nondimeno torna a chi l’ha iniziata; che essa perde ogni valore se qualcuno la interrompe, e che invece è bellissima se mantiene la sua continuità e la sua reciprocità. Fra queste Grazie ce n’è comunque una che si distingue per dignità, com’è proprio di chi vanta dei meriti. I loro volti sono sorridenti come sogliono essere quelli di chi offre o riceve benefici; [II,317,10] inoltre sono giovani perché il ricordo dei benefici non può invecchiare, e sono anche vergini perché sono inviolate, leali e pie in ogni senso. Indossano tuniche vaporose, perché ad esse nulla s’adatta che le leghi o costringa, e diafane perché i benefici pretendono d’essere visti. Se qualcuno è così legato al punto di vista dei Greci da ritenere queste spiegazioni necessarie, certo nessuno giudicherà [II,317,15] pertinente al discorso i nomi che Esiodo ha imposto a queste Grazie. La maggiore egli l’ha infatti chiamata Aglaia, quella di età intermedia Eufrosune, e la terza di Talia. Ognuno adatta questi nomi all’interpretazione che gli pare, e cerca di dar loro un significato razionale, dato che Esiodo ha imposto i nomi a suo piacimento. Così Omero ha cambiato il nome di una di queste in Pasitea e l’ha offerta in sposa, [II,317,20] perché si sapesse che le Grazie non sono vergini vestali. E io stesso sarei in grado di trovare un altro poeta che le presenta con vesti non sciolte e di lana spessa e rustica. E poi in loro compagnia c’è anche Mercurio, non per il fatto che ai benefici si addica un ragionamento o un discorso, ma perché così è sembrato di dover fare al pittore. Anche Crisippo, a cui non manca sottigliezza di spirito, acume e un’attitudine ad andare a fondo nella verità, [II,317,25] Crisippo che parla sempre non perdendo di vista la concretezza e usando il minimo necessario di parole per farsi capire, ebbene anche lui riempie un intero libro di queste inezie, col risultato di dire quasi nulla sul modo di dare, ricevere e restituire benefici, sicché egli non intercala qua e là delle storielle tra i ragionamenti, ma al contrario intercala qua e là dei ragionamenti tra tante storielle. [II,317,30] Oltre a ciò che Ecatone ha copiato da lui, Crisippo sostiene che le tre Grazie sono figlie di Giove e di Eurinome, più giovani delle Ore, ed anche un po’ migliori d’aspetto, tanto che sono destinate al seguito di Venere. Crisippo giudica interessante anche il nome della loro madre. Essa è chiamata Eurinome perché distribuire benefici è segno del possesso di un vasto patrimonio; neanche se valesse l’usanza di dare il nome prima alle figlie e poi alla madre, o se i poeti solessero riferire i veri nomi. […] Ecco che Talia [II,317,35] della quale più che mai qui si tratta, in Esiodo è una Grazia e in Omero una Musa.

[2] I, IV, 1. Tu però difendimi se qualcuno mi obietterà di avere messo in riga Crisippo, per Ercole, un granduomo e però pur sempre un greco; uno il cui acume così appuntito talvolta si ottunde e gli si rigira contro; ed anche quando qualche effetto lo fa, punge, [II,317,40] ma non perfora.

[3] I, IV, 4. Crisippo ci invita a questa degnissima contesa che è quella di vincere coi benefici i benefici. Anzi egli esprime il timore, [II,318,1] visto che le Grazie figlie di Giove, che l’assenza di gratitudine sia un sacrilegio e un’offesa recata a tanto leggiadre fanciulle. (….) [II,318,5] Ma lasciamo queste sciocchezze ai poeti, il cui proposito è quello di dilettare le orecchie e di intrecciare una gradevole storiella.

SVF II, 1083

Cornuto ‘Grec. Theol. comp.’ 15. […] sono discendenti di Eurinome, e lo dimostra il fatto che essi sono in qualche modo più munifici [II,318,10] di quanto siano tenuti ad essere coloro che hanno ricevuto in eredità dalla sorte un grande patrimonio.

SVF II, 1084

‘Etymologicum Magnum’ s.v. ‘réa’. Crisippo dice che la terra è stata chiamata Rea poiché da essa colano le acque.

SVF II, 1085

[1] ‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 135, p. 31 Di Gregorio. Reia è chiamata così dagli scrosci degli acquazzoni. [II,318,15] Per Crisippo la terra è Rea la distruttrice, perché in essa noi ci risolviamo e perché tutti gli esseri che l’abitano scorrono via. È Temi in quanto tiene una posizione inamovibile nell’universo, ed è Mnemosine in quanto persistenza della formazione e della modellatura di esseri viventi.

[2] v. 136. Febe è la purezza dell’aria e per questo è detta ‘corona dorata’, giacché puro è l’oro. Teti l’amabile, [II,318,20] il mare nutritore, che è navigabile, che nutre attraverso il guadagno.

SVF II, 1086

[1] ‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 134, p. 30 Di Gregorio. […] spiegano diversamente e in modo allegorico che Kòio è la qualità e che Kréio è la determinazione. Iperione è il cielo che va sopra le nostre teste, e Giapeto è il suo movimento, dal suo ‘andare a volo’, [II,318,25] giacché il cielo è sempre in movimento. Diversamente Giapeto esprime il movimento del raziocinio col suo esplorare e ricercare ogni cosa.

[2] Cornuto ‘Grec. Theol. comp.’ 17. Il raziocinio ebbe nome Kòio in quanto gli esseri sono qualità, e gli Ioni sovente utilizzano la lettera ‘k’ al posto della lettera ‘p’. […] [II,318,30] Iperione, in quanto se ne va in giro al di sopra delle altre cose.

SVF II, 1087

[1] ‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 459. Crono è ritenuto essere figlio del Cielo e della Terra perché il tempo nasce dalla levata degli astri al di sopra e al di sotto della terra. Grazie a questi astri noi definiamo la durata del giorno e della notte, il mese, il momento adatto. Si dice che Crono ingoia i suoi figlioli, perché quanto nasce nel tempo [II,318,35] a sua volta col tempo si rovina.

[2] Cornuto ‘Grec. Theol. comp.’ 6. Il tempo è qualcosa del genere, giacché nel tempo sono dilapidate le cose che nel tempo sono nate.

SVF II, 1088

‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 459. La sua castrazione si risolve così. Quando avvenne l’accoppiamento del Cielo e della Terra, furono generate molte specie di esseri viventi. [II,318,40] E poiché il tempo in seguito distinse una dall’altra ciascuna specie generata e procurò nuove generazioni dall’accoppiamento tra di loro degli esemplari di ciascuna specie, per questo si disse che il Cielo era stato castrato.

SVF II, 1089

‘Etymologicum Magnum’ s.v. ‘krònos’. [II,319,1] Dicono che ‘Crono’ deriva dal comandare (kràn) e dal mescolare (kirnàn) i membri di ciascuna discendenza e dal far mischiare la femmina al maschio. Crisippo afferma che, poiché tutte le cose viventi sono molto imbevute d’acqua e che vengono giù molti acquazzoni, si chiama ‘Crono’ [II,319,5] l’escrezione di queste acque.

SVF II, 1090

[1] ‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 459 (p. 256 Flach). Dicono che ‘Crono’ deriva dal misturare (keràn) e dal mescolare (kirnàn) i membri di ciascuna discendenza e dal far mischiare la femmina al maschio. Crisippo afferma che, poiché tutte le cose viventi sono molto imbevute d’acqua e che vengono giù molti acquazzoni, si chiama ‘Crono’ [II,319,10] l’escrezione di queste acque.

[2] v. 137. ‘Crono’ è la divisione degli elementi, fatta la quale da entrambi, essi restarono poi privi di ordine. […] Altri dicono che è stato chiamato ‘Crono’ perché, primo tra gli dei, progettò una divisione.

SVF II, 1091

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 64. <I filosofi> stabilirono che Saturno [II,319,15] è chi governa il moto nello spazio e il ciclo del tempo, dato che il suo nome equivale proprio a questo: infatti in Greco è detto ‘Crono’, che è identico a χρόνος, cioè l’intervallo di tempo. […] Di solito è raffigurato nell’atto di mangiare i suoi figli, perché consuma le parti del tempo […] Inoltre si raffigura come legato in catene da Giove, affinché i suoi cicli non siano irregolari [II,319,20] ed egli rimanga vincolato ai moti delle stelle.

SVF II, 1092

‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 211. Dicono che le Moire sono tre. Cloto è quella che fila per ciascun essere in genesi il suo destino. Lachesi è chiamata così dallo ‘assegnare in sorte’, giacché è quella che assegna in sorte ad uno il bene e ad un altro il contrario. [II,319,25] Atropo è quella che rende irreversibile ciò ch’è dato in sorte.

SVF II, 1093

Plutarco ‘De Iside et Osiride’ p. 367c. Ma queste teorie sono simili alle dottrine degli Stoici circa gli dei. Essi dicono infatti che Dioniso [II,319,30] è lo pneuma genitale e nutritivo, che Eracle è lo pneuma percussivo e diairetico, che Ammone è lo pneuma ricettivo, che Demetra e Core sono lo pneuma che pervade la terra e i frutti, che Poseidone è lo pneuma che pervade il mare.

SVF II, 1094

Ps. Plutarco ‘Amatorius’ p. 757b. Quando Crisippo [II,319,35] spiega il nome del dio Ares, lo fa muovendo un’accusa calunniosa. Egli, infatti, afferma che Ares significa ‘levare di mezzo’; e così offre delle fondamenta a quanti ritengono che l’elemento bellicoso, litigioso, irascibile che è in noi sia stato chiamato ‘Ares’.

SVF II, 1095

Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVII, 7. Platone scrive che il sole è denominato Apollo perché vibra i suoi raggi; [II,319,40] Crisippo perché consta di non di poche e vili sostanze del fuoco [II,320,1] essendo la prima lettera del suo nome un alfa privativo, o perché è uno e non è molti.

SVF II, 1096

Giustino ‘Apologia’ I, 64. Con spirito similmente malvagio essi affermavano che Atena era figlia di Zeus non a seguito di un’unione sessuale. E poiché riconoscevano che dio aveva concepito il cosmo attraverso il logos, [II,320,5] affermavano che il suo primo concetto era stato Atena.

SVF II, 1097

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 40. Forse alcune loro affermazioni hanno qualcosa di razionale, come quella di ritenere che la terra sia dio; terra non in quanto sostanza nella quale si tracciano i solchi e che si sterra, ma in quanto potenza che la pervade, facoltà vegetativa apportatrice di frutti [II,320,10] ed avente davvero un carattere altamente demonico.

SVF II, 1098

Giovanni Lido ‘De mensibus’ IV, 44, p. 212 Rother. Crisippo, poi, è del parere che il suo nome non sia Dione ma Didone, perché ella elargisce i piaceri legati alla generazione; che sia stata chiamata Cipride perché procura la gravidanza; e Citerea perché elargisce la gravidanza [II,320,15] non soltanto agli uomini ma anche alle belve.

SVF II, 1099

Plutarco ‘Quaest. Conviv.’ IX, 14, p. 743d. Allora io mi attribuisco qualcosa anche di Tersicore; se, come afferma Crisippo, a lei è toccato in sorte tutto ciò che è delizioso e gratificante nelle conversazioni.

SVF II, 1100

‘Scholia’ in Aratum v. 1. Egli si sposta poi a considerare [II,320,20] quello che per eponimia viene chiamato Dià, ossia il dio naturale, il quale è aria. Infatti essi chiamano l’aria ‘Dià’ in quanto, secondo gli Stoici, esso è colui che pervade ogni cosa. Taluni affermano però che l’aria è Proteo. Anche Omero vi accenna quando dice:

‘Liquida acqua divenne, e albero d’alto fogliame e fuoco’.

Egli è infatti la fonte di tutte le cose.

[II,320,25] § 9. Sui demoni

Frammenti n. 1101-1105

SVF II, 1101

Aezio ‘Placita’ I, 8, 2. Talete, Pitagora, Platone e gli Stoici affermano che i demoni esistono, che sono sostanze psichiche, e che gli eroi sono gli animi separati dai corpi. Essi sono buoni se gli animi sono buoni, cattivi se gli animi sono viziosi.

SVF II, 1102

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 151. Essi affermano che ci sono [II,320,30] demoni che hanno consentaneità con gli uomini e che hanno riguardo per le faccende umane; e che gli eroi sono gli animi dei virtuosi sopravvissuti dopo la morte.

SVF II, 1103

Plutarco ‘De Iside et Osiride’ p. 360e. Meglio, dunque, fanno coloro che raccontano le vicende riguardanti Tifone, Osiride e Iside legittimandole come vicende sperimentate non da dei o da uomini, ma da grandi demoni. [II,320,35] Seguendo gli antichi teologi, Platone, Pitagora, Senocrate e Crisippo dicono che i demoni sono esseri più gagliardi degli uomini e, quanto a facoltà, molto superiori alla nostra natura. [II,321,1] L’elemento divino che essi possiedono non è però incommisto, non è puro e schietto, ma è stato unito dalla sorte alla natura d’un animo e alla sensibilità d’un corpo, essendo capace di accogliere in sé piacere, dolore, e tutte quelle passioni che si ingenerano con queste trasformazioni e che sono capaci di sconvolgere alcuni di più altri di meno.

SVF II, 1104

Plutarco ‘De defectu oraculorum’ p. 419a. [II,321,5] Non fu soltanto Empedocle a lasciar intendere che esistono demoni viziosi, diceva; ma furono anche Platone, Senocrate, Crisippo e inoltre Democrito.

SVF II, 1105

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 71. Non è contingente, in effetti, sottintendere che gli animi si portino verso il basso (nell’Ade), giacché essi sono finemente particellari e non meno ignei che di natura aerea, sicché data la loro leggerezza [II,321,10] si portano piuttosto verso i luoghi elevati. Essi poi perdurano di per se stessi e non si disperdono a mo’ di fumo una volta licenziati dai corpi, come diceva Epicuro; giacché in precedenza non era il corpo a sorreggerli e mantenerli insieme, ma erano gli animi ad essere causa della permanenza in vita del corpo e, ancor prima, della loro stessa permanenza. Una volta scorporatisi e usciti alla luce del sole, gli animi vanno ad abitare lo spazio sublunare [II,321,15] e qui, a causa della limpidezza dell’aria, si prendono molto più tempo di sopravvivenza; usano per proprio nutrimento, come fanno anche i restanti astri, l’esalazione che sale dalla terra; e non hanno in quei luoghi agente alcuno che li dissolva. Se dunque gli animi perdurano, essi diventano demoni.

[II,322,1] Fisica VIII.

La Prònoia e la natura artefice

§ 1. Dimostrazione che la Prònoia esiste

Frammenti n. 1106-1126

SVF II, 1106

Il curatore degli Stoicorum Veterum Fragmenta, Hans von Arnim dichiara: “Tutto il secondo libro del ‘De natura deorum’ di Cicerone è dedicato [II,322,5] alla dimostrazione dell’esistenza della Prònoia, ed ho ritenuto inopportuno il trascriverlo qui nella sua interezza”.

SVF II, 1107

Cicerone ‘De natura deorum’ III, 92. Proprio voi <Stoici> solete dire che nulla v’è che dio non possa effettuare, e pure senza alcuna fatica. Infatti, come le membra umane sono mosse dalla mente e della volontà senza sforzo alcuno, così ad un cenno degli dei tutto può prender forma, [II,322,10] muoversi e mutare. Queste dottrine che voi sostenete non sono superstizioni da vecchiette, ma verità fisiche basate su un saldo ragionamento; giacché la materia delle cose, della quale sono tutte costituite e nella quale tutte sussistono, è completamente plasmabile e trasformabile; sicché non c’è cosa che non possa d’un tratto convertirsi in essa o prender forma da essa. Voi sostenete anche che foggiatrice e regolatrice di questo materiale universale è la provvidenza divina; la quale [II,322,15] può effettuare qualunque cosa voglia a qualunque cosa ponga mano.

SVF II, 1108

Plutarco ‘De Iside et Osiride’ p. 369a. Le cause basilari dell’universo non vanno poste in corpi inanimati, come fanno Democrito ed Epicuro; né vanno poste un’unica ragione -quale demiurgo di una materia priva di qualità- e un’unica Prònoia, come fanno gli Stoici, che ha il sopravvento su qualunque cosa e la padroneggia.

SVF II, 1109

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ I, 2. A questi filosofi ribatterono altri, [II,322,20] e con particolare vigore gli Stoici, i quali insegnavano che il mondo non avrebbe potuto nascere senza una ragione divina, né sussistere senza una somma ragione a dirigerlo.

SVF II, 1110

‘Commenta Lucani’ Lib. II, 9 p. 48 Us. Questo secondo gli Stoici, i quali affermano che il mondo è sorretto da una saggia legge e che lo stesso dio [II,322,25] è legge a se stesso.

SVF II, 1111

Filone Alessandrino ‘De providentia’ I, 25 (p. 13 Aucher). L’uomo […] provvede ai figli, il bovaro agli armenti, lo stalliere ai cavalli, il pastore alle greggi, l’armatore alle navi, il medico ai malati, l’ape stessa è intelligente e la formica provvida. Queste sono parti e particelle delle parti dell’universo; parti comunque intelligenti e accuratamente previdenti. [II,322,30] Dunque il tutto una cui parte è intelligente e provvido, non sarà egli stesso intelligente? Tutte le realtà appena passate in rassegna furono da principio create; ma se ebbero principio ebbero inizio; e ciò che inizia, inizia ad opera di qualcosa che gli preesiste. Pertanto chi dall’inizio fu creato intelligente e provvido, ebbe principio da qualcun altro. Del resto, come potrà qualcuno [II,323,1] essere provvido se non esiste previdenza, e intelligente senza intelligenza? Se dunque nessuno sarà provvido e intelligente senza previdenza e intelligenza, senz’altro ci fu un qualche ente provvido e intelligente che queste realtà hanno avuto in sorte.

SVF II, 1112

Filone Alessandrino ‘De providentia’ I, 29 (p. 14 Aucher). Senza dubbio [II,323,5] nei viventi esiste per natura una capacità di riflettere con prudenza, che mette ordine in tutto e che li fa muovere con intelligenza. Perciò a chi osserva attentamente i corpi viventi, è chiaro che in quelli operanti per mezzo dei sensi è riconoscibile il moto di uno spirito che dà l’avvio, e l’invisibile decisione di un’anima la quale provvede a che l’azione dei mezzi strumentali alla realizzazione di un’opera avvenga il più perfettamente possibile. Senza dubbio [II,323,10] non in altro modo sono da intendersi quei moti <naturali> che la provvidenza ha diffuso su tutta la terra, sicché noi vediamo con ogni evidenza che tutto si compie secondo la sconosciuta volontà della provvidenza. Anche se talvolta accade che questi eventi appaiano verificarsi senza originare da alcun animo o volontà, in realtà essi, e le stesse loro minutissime parti, avvengono per decisione [II,323,15] ed ispirazione della provvidenza.

SVF II, 1113

Filone Alessandrino ‘De providentia’ I, 32 (p. 15 Aucher). È insensato stimare […] che siano intelligenti e provvide le parti dell’universo, e che invece quella provvidenza che inerisce all’universo fin dal suo inizio se ne stia oziosamente disinteressata fra gli esseri creati, mentre il tutto rappresenta un’unica generale e armoniosa composizione. Se due realtà [II,323,20] sono in relazione reciproca, esse non spartiscono un atto senza il moto di entrambe. Pertanto le parti, intelligenti come sono, attraverso la perfezione degli atti che sorgono dal loro armonioso accordo, offrono la prova evidente che una provvidenza universale muove invisibilmente ogni cosa.

SVF II, 1114

Filone Alessandrino ‘De providentia’ I, 40 (p. 19 Aucher). Se non esiste provvidenza né un motore universale, [II,323,25] certo nulla potrebbe muoversi nel mondo. Se l’armoniosa composizione del mondo intero fosse priva di anima, chi può sostenere che in una creatura perfettamente naturale possano darsi moti dovuti ad un’anima? Se ciò non consta, la dimostrazione in proposito sia il cittadino di questo mondo ossia l’uomo, il quale è egli stesso un microcosmo collocato nel macrocosmo. Infatti, il corpo umano non potrebbe compiere le proprie azioni senza l’anima, cioè se prima non si è servito, come di un amico, delle sue ottime decisioni; [II,323,30] giacché è soltanto dopo che sono prevalse le invisibili deliberazioni dell’anima che ne segue visibilmente l’esecuzione ad opera delle membra sensibili.

SVF II, 1115

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1040c. Partendo dai concetti che noi abbiamo degli dei, ossia che li divisiamo quali esseri benefici e filantropi, <Crisippo> combatte soprattutto contro Epicuro e contro coloro che levano di mezzo la Prònoia. [II,323,35] Siccome queste cose sono scritte e dette dagli Stoici ad ogni piè sospinto, non è il caso di citare le loro parole.

SVF II, 1116

Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ I, 8, p. 136 Pott. Sarebbe del tutto legittimo pensare che ciò che giova sia in qualche modo migliore di ciò che non giova. Ma nulla è migliore del bene, dunque il bene giova. Ora, si ammette [II,323,40] che Dio sia buono; dunque Dio giova. Ma il bene in quanto è bene null’altro fa se non ciò che giova; dunque Dio null’altro fa che giovare. E certo non accade che Dio giovi in qualcosa all’uomo e però non lo tuteli; né accade che egli lo tuteli e però non abbia sollecitudine per lui; giacché ciò che giova a ragion veduta è migliore di ciò che giova non a ragion veduta. Ma nulla è migliore di Dio; [II,323,45] e il giovare a ragion veduta non è altro che avere sollecitudine per l’uomo. Dunque Dio tutela ed ha sollecitudine per l’uomo. [II,324,1] […] Si dice che Dio è un bene e non che è buono perché è virtuoso, in quanto si dice anche della giustizia che è un bene non perché è virtuosa, giacché è essa stessa una virtù, ma perché essa è buona di per se stessa e da se stessa […]

SVF II, 1117

Seneca ‘Epistulae morales’ XCV, 47. Su come si debbano venerare gli dèi, [II,324,5] solitamente si danno dei precetti. […] Venera gli dei chi li conosce. […] L’uomo non sarà mai progredito abbastanza finché non avrà in mente un’esatta cognizione di dio: e cioè che egli ha in suo potere ogni cosa e ogni cosa distribuisce gratuitamente. Quale causa fa gli dei benefici? La natura. Sbaglia chi ritiene che gli dèi non vogliano fare il male: non possono farlo, e non possono fare un danno né riceverlo.

SVF II, 1118

[1] Alessandro d’Afrodisia ‘Quaestiones’ II, 21, p. 68, 19 Bruns. [II,324,10] Dire che gli dèi compiono le attività loro attinenti in funzione della salvezza dei mortali è affermare qualcosa di completamente estraneo alla natura degli dèi. Infatti, equivarrebbe a dire che gli uomini liberi e i padroni esistono in grazia dei domestici […]

[2] II, 28. [II,324,15] A proposito di servi e di padroni è tuttavia il caso di dire che avviene una certa permuta reciproca di ruoli. […] Dire invece che la salvezza degli dei ha bisogno dell’attività dei mortali sarebbe un’affermazione totalmente assurda. E come altrimenti? Un’assurdità equivalente a questa è quella di dire che il fine e il bene degli dei sta nel tenere a regola e [II,324,20] soggetti alla Prònoia i mortali. […] Ma se la divinità compirà le attività che le attengono in grazia della salvezza dei mortali e non di se stessa, allora si potrebbe reputare che essa esista in grazia dei mortali. E secondo coloro che pongono l’essenza di dio nel provvedere ai mortali, dio proprio questo farebbe. Cos’altro sarà la divinità per chi scrive: [II,324,25] “Cosa resta della neve se le si sottraesse il bianco e il freddo? Cosa resta del fuoco se se ne spegnesse il calore? Del miele se gli si sottraesse il dolce, dell’animo la capacità di movimento, di dio il provvedere?” Se infatti, secondo chi parla e scrive così, [II,324,30] per dio l’essere sta nel provvedere […]

[3] p. 70, 2. Per coloro che rimettono tutto alla Prònoia ed affermano che soltanto il bene è bello, sarebbe assurdo continuare ponendo che il bene è in nostro potere. Se invece lo dicono, allora la Prònoia divina, nella quale essi affermano che sta l’essenza degli dei, secondo loro non può diventare causa di bene alcuno per gli uomini

[4] Olimpiodoro ‘In Plat. Phaed.’ p. 72 Finckh. [II,324,35] Come possono gli dei essere nostri padroni, se il padrone non tiene in considerazione il bene del servo ma il proprio bene? È in questo che il padrone si differenzia da chi occupa una carica pubblica. Quale bene potrebbe giungere a dio attraverso l’uomo? Oppure nel loro caso ciascuno concorre al bene dell’altro, come un padrone che si preoccupa del servo? Ma, affermano gli Stoici, il padrone opera il bene per se stesso, sicché fanno così anche gli dei, giacché gli dei [II,324,40] in prima istanza fanno tutto per se stessi. […] Gli dei comandano secondo un certo ordinato sistema che ci riguarda, e gli uomini partecipano alla vita degli dei piuttosto da servi e da comandati, [II,325,1] in quanto noi siamo interamente loro e nulla vi addizioniamo di propriamente nostro.

SVF II, 1119

Seneca ‘De beneficiis’ IV, XXV, 1. Il nostro proposito è quello di vivere in armonia con la natura delle cose seguendo l’esempio degli dèi. Ma gli dèi, qualunque cosa facciano, cosa seguono nel farla se non la razionalità che inerisce indissolubilmente al loro fare? [II,325,5] A meno che tu non pensi che essi percepiscano la ricompensa per le loro opere dal fumo dei pranzi sacrificali o dal profumo dell’incenso.

SVF II, 1120

Lattanzio ‘De ira dei’ cp. 5. Gli Stoici e alcuni altri filosofi, i quali dicono che in Dio c’è misericordia e non ira, sono ritenuti tra coloro che ebbero della divinità un concetto un po’ più favorevole. È un discorso suggestivo e che piace al popolo [II,325,10] quello di ritenere che in Dio non si trovi quella pusillanimità che fa sentire leso chi leso non può essere, quasi che la sua beata e santa maestà possa sfuggirgli di mano, diventare quel turbamento e quella smania che sono proprie della debolezza d’animo umana. L’ira è infatti una commozione e una perturbazione della mente del tutto aliena a Dio. Giacché se l’ira già non s’addice all’uomo sapiente e serio; se essa, quando precipita nell’animo di qualcuno come una furiosa tempesta [II,325,15] eccita flutti immensi capaci di alterarne lo stato mentale, di renderne gli occhi ardenti, fargli tremare le labbra, incespicare la lingua, stridere i denti, far sì che il volto si macchi ora di un soffuso rossore ed ora sbianchi in un pallore cadaverico: ebbene, quanto meno si confarà ad un Dio una così ributtante alterazione? Se un uomo che detiene il potere assoluto [II,325,20] può causare danni immensi per effetto dell’ira, spargendo sangue, abbattendo città, sterminando popolazioni, facendo un deserto di intere regioni: tanto più è credibile che, se preso dall’ita, sia in grado di annientare l’universo un Dio che ha potere su tutto il genere umano e sul mondo stesso. È dunque necessario che egli si tenga lontano da un male tanto grande e pernicioso. E se egli è alieno [II,325,25] agli impeti d’ira, perché l’ira è orribile e dannosa, non farà del male a nessuno. A questo punto non rimane altra possibilità se non quella che egli sia mite, tranquillo, propizio, benefico, salvatore. Allora finalmente si potrà dirlo padre comune di tutti gli uomini, ottimo e massimo, come richiede una natura divina e celeste. Di fatto, se anche tra gli uomini appare lodevole il giovare piuttosto che il nuocere, il dare la vita e non l’uccidere, il conservare piuttosto che lo sciupare, [II,325,30] (non senza merito il non fare del male è enumerato tra le virtù); e se inoltre chi fa ciò è apprezzato, preferito, onorato e celebrato tra gli applausi e le benedizioni di tutti, e poi giudicato quasi uguale a Dio proprio per queste sue meritorie e benefiche azioni: ebbene, quanto più grande è ovvio che sia Dio, il quale eccelle per le sue divine e perfette virtù e la sua lontananza da ogni difetto terreno, [II,325,35] e che superi per i suoi celesti benefici i meriti di tutto insieme il genere umano?

SVF II, 1121

Seneca ‘De beneficiis’ II, XXIX, 4. Qualunque cosa gli dèi ci negano, è perché non hanno potuto darcela. Passa in rassegna l’universo intero e non troverai nessun’altra creatura che tu vorresti essere, pur se da tutte le creature estraessi qualche dote che vorresti per te. [II,325,40] A conti fatti confesserai necessariamente che la natura è stata indulgente con te e che hai goduto dei suoi favori. Così è: gli dèi immortali ci hanno voluto un gran bene e ce ne vogliono tuttora: ci hanno conferito tutto l’onore possibile, collocandoci quasi alla loro altezza: tanto abbiamo ricevuto, di più non ne avremmo accolto.

SVF II, 1122

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 79, Vol. I, p. 349, 21 K. [II,325,45] Se il cosmo è nato per Provvidenza e se Dio sopravvede al cosmo nella sua interezza, era necessario che i tizzoncini del genere umano cominciassero ad essere ravvivati ad opera di un presidio di esseri migliori dell’uomo, sicché all’inizio vi fu una mistione di natura divina e di natura umana, pensando alla quale il poeta ascreo <Esiodo> disse:

[II,326,1] ‘C’erano allora pasti comuni, adunanze comuni

tra dei immortali e uomini mortali’

SVF II, 1123

Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ c. 3, p. 102 Pott. L’uomo, che Dio ha fatto, è una creatura degna d’essere scelta per se stessa; e ciò ch’è degno d’essere scelto per se stesso è familiare per chiunque sia degno d’essere scelto per se stesso. [II,326,5] Ciò ch’è scelto per se stesso è anche accolto di buon grado ed è degno d’amore. Ora, se qualcosa è degno d’amore, esso è anche amato da Dio. Ma è stato dimostrato che l’uomo è degno d’amore, dunque l’uomo è amato da Dio.

SVF II, 1124

Filodemo ‘De deorum vita beata’ col. I (Scott. Fragm. Hercul. p. 140).

[II,326,10] Non si deve credere che siano tutti amici

quelli che per consuetudine si chiamano amici.

Non è infatti possibile che giungano a conoscersi

reciprocamente individui in numero infinito,

[II,326,15] e perciò neppure si potrebbe dire che gli dei

siano amici dei sapienti. […]

[…] agli dei, e ne ammira la natura

e la disposizione, e prova ad approssimarsi

[II,326,20] ad essa, ed agogna come di toccarli

e di stare con loro. Si dice pure che i sapienti

sono amici degli dei e gli dei dei sapienti;

ma a noi non sembra il caso di chiamare amicizia

siffatte relazioni; sicché è meglio

[II,326,25] considerare i fatti in sé e non forzare

indebitamente le parole. Certo gli dei

si gratificano l’un l’altro, ma non si deve dire

che essi facciano parte di ciò ch’è loro proprio

a chi è loro inferiore. Essi infatti tutti quanti

[II,326,30] attendono ad approntare per se stessi e in modo autosufficiente

il piacere più perfetto.

SVF II, 1125

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1049e. Eppure nel libro ‘Sull’amministrare la giustizia’ e pure nel secondo libro ‘Sugli dei’, Crisippo dice: “ Non è ragionevole che le divinità diventi complice di atti vergognosi. Al modo in cui [II,326,35] la legge non potrebbe mai diventare complice di atti illegali, gli dei non potrebbero mai diventare complici di atti empi; e pertanto è ragionevole che essi non possano essere complici di alcun atto vergognoso”. […] Ma per Zeus, dirà qualcuno, a sua volta egli loda però Euripide quando dice:

‘Se gli dei compissero qualcosa di vergognoso, non sono dei’

[II,326,40] e

‘Hai detto la cosa più facile di tutte: accagionare gli dei’.

SVF II, 1126

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1075e. [II,327,1] E invero, in polemica contro Epicuro, gli Stoici non tralasciano alcun ‘ah! ah! oh! oh!’ e gridano che egli, levata di mezzo la Prònoia, mette in confusione le prolessi che noi abbiamo degli dei. Infatti, non basta anticipare e pensare dio immortale e beato soltanto, ma bisogna anche concepirlo [II,327,5] filantropo, provvido e giovevole.

§ 2.Il cosmo è uno Stato (o una casa) bene amministrato

Frammenti n. 1127-1131

SVF II, 1127

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 78. Se gli dei esistono, è necessario […] che essi siano dotati di animo, e non soltanto dotati di animo ma anche partecipi della ragione e uniti fra loro come in una società civile e solidale, e che reggano il cosmo unitariamente come fosse uno stato comune e una città. Ne consegue che vi è in essi la ragione [II,327,10] che c’è nel genere umano, e che per entrambi vale la stessa verità e la stessa legge: quella che è prescrizione del bene e respingimento del male […] Siccome in noi ci sono saggezza, ragione e prudenza, è necessario che gli dei le possiedano in maggior grado; e non soltanto che le abbiano ma anche le usino per cose di sommo valore; ma siccome nulla c’è di più grande e migliore del cosmo; è dunque necessario [II,327,15] che esso sia governato dalla sapienza e provvidenza divina.

SVF II, 1128

Giamblico ‘De anima’ presso Stobeo ‘Eclogae’ I, 372, 7 W. Come affermano gli Stoici, una sola è la ragione ed assolutamente lo stesso è il processo di pensiero; pari sono le azioni rette e pari sono le virtù, sia delle parti sia [II,327,20] del tutto.

SVF II, 1129

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XXXVI, 37. Se gli uomini non chiamano re chi è a capo del cosmo nella sua interezza, non ammetterebbero che il cosmo sia retto da un re; e negando che esso sia retto da un re, negherebbero di essere cittadini di uno Stato e l’esistenza di una vita politica [regale] dell’universo. Se invece convengono sull’esistenza di una vita politica, non si tratterrebbero dall’ammettere l’esistenza di uno Stato [II,327,25] o qualcosa di simile all’essere cittadini di uno Stato. Questo è dunque il ragionamento dei filosofi, che dimostra la buona e filantropica comunanza di demoni e di uomini e fa partecipi di legge e di vita politica non degli esseri viventi qualunque, ma quanti partecipano di ragione e di saggezza.

SVF II, 1130

Dione Crisostomo ‘Orationes’ XXXVI, 29. Ma, dissi io, [II,327,30] la parola ‘Stato’ non va intesa nel senso che gli Stoici dichiarino che il cosmo è senza altre mediazioni uno Stato. Questo, infatti, sarebbe in contrasto col discorso stoico sullo Stato, che i nostri maestri hanno definito, come dicevo, un insieme organizzato di uomini. Allo stesso tempo, non sarebbe forse confacente né persuasivo dire che il cosmo è principalmente un essere vivente e poi essere dell’avviso che è uno Stato, giacché credo che nessuno accetterebbe facilmente di concepire che la stessa entità è uno Stato [II,327,35] e insieme un essere vivente. Tuttavia il presente buon ordinamento cosmico – dove il tutto è stato suddiviso e ripartito in molteplici e diverse forme di vegetali, di esseri viventi mortali e immortali, e inoltre d’aria, di terra, d’acqua e di fuoco; il quale è nondimeno per natura uno solo pur in tutte queste fogge e che è diretto da un solo animo e da una sola forza- gli Stoici lo fanno in certo modo somigliare ad uno Stato, a causa della moltitudine delle creature che in esso nascono e decedono, [II,327,40] e inoltre del buon ordine e della bella compostezza del suo governo. La dottrina stoica, in poche parole, s’è industriata di armonizzare insieme il genere umano e quello divino, [II,328,1] e di abbracciare tutto ciò ch’è razionale in un unico discorso, trovando questo l’unico potente e indissolubile fondamento della società e della giustizia.

SVF II, 1131

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 133. Per chi si direbbe dunque che sia stato creato il mondo? Di sicuro per quegli esseri animati che fanno uso della ragione, ossia per gli uomini e per gli dei; dei quali certamente nulla è migliore, [II,328,5] data l’assoluta superiorità della ragione. Diventa così credibile che il mondo, e tutto ciò che esso contiene, sia stato creato per gli uomini e gli dei.

[2] II, 154. In primo luogo il mondo stesso è stato creato per gli dei e per gli uomini, e tutto ciò che esso contiene è stato concepito ed apparecchiato a vantaggio degli uomini. Il mondo è infatti come la casa comune di dei ed uomini o la città di entrambi, [II,328,10] giacché essi soltanto hanno l’uso della ragione e vivono secondo il diritto e la legge.

§ 3.La natura è artefice

Frammenti n. 1132-1140

SVF II, 1132

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 148. <Gli Stoici> a volte dichiarano che ‘natura’ è ciò che tiene coeso il cosmo, a volte intendono per ‘natura’ la facoltà vegetativa che fa nascere tutte le creature che sono sulla terra. Questa facoltà vegetativa [II,328,15] è una forza capace di muoversi da sé in armonia con le ragioni seminali, di portare a compimento e tenere insieme le creature che in tempi definiti fa nascere e di farle dello stesso genere di quelle dalle quali furono separate. Essi dichiarano anche che essa ha come bersaglio l’utilità e il piacere, come è manifesto dall’attività creativa dell’uomo.

SVF II, 1133

Ps. Galeno ‘Definitiones medicae’ 95, Vol. XIX p. 371 K. La ‘natura’ è fuoco artefice che incede metodicamente alla generazione [II,328,20] ed è capace di muoversi da sé in modo attivo. […] Altrimenti detta, la ‘natura’ è pneuma dotato di calore capace di muoversi da sé, che in armonia con le potenze seminali genera, porta a perfezione e serba in vita l’uomo. Si chiama ‘natura’ anche la mescolanza; è ‘natura’ anche la forza di coesione; è ‘natura’ anche il movimento per impulso. Si chiama ‘natura’ anche la forza [II,328,25] che governa l’essere vivente.

SVF II, 1134

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 14, p. 708 Pott. Gli Stoici definiscono la natura come fuoco artefice che incede metodicamente alla generazione.

SVF II, 1135

Galeno ‘De usu partium’ XVII, 1 (Vol. IV, p.450 K). Poiché taluni filosofi erano in precedenza giunti ad ipotizzare alla base delle sostanze elementi corporei tali da essere incompatibili [II,328,30] con l’esistenza di un’arte propria della natura, essi si videro costretti a combattere contro la sua presenza. Che tali corpi siano incompatibili con un’arte propria della natura lo si può apprendere da questo ragionamento. Ciò che plasmerà con arte alcunché è d’uopo o che entri in contatto con esso dall’esterno oppure che trovi il modo di attraversarlo dall’interno per tutta la sua estensione. Ma essi affermano che nessuno di quegli atomi o di quei corpi indivisibili -che taluni pongono come elementi -entrando in contatto dall’esterno con qualcosa è per natura capace di plasmarlo né di distendersi all’interno per tutta la sua estensione. Rimane dunque [II,328,35] la sola possibilità che gli atomi, intricandosi l’un l’altro come capita, operino l’assemblaggio dei corpi sensibili. Ma se gli atomi s’intricano a caso, raramente la creazione che ne sortisce è proficua, anzi è spesso improficua e stravagante. Questa è pertanto la causa per cui quegli uomini -cioè quanti affermano che i corpi primitivi sono quali dicono coloro che introducono l’esistenza degli atomi –[II,328,40] vogliono che la natura non sia dotata di un’arte propria. Ora, poiché è subito evidente già dall’esterno che nessun essere vivente [II,329,1] è fornito di pezzi improficui, essi si preoccupano di avere a disposizione qualche argomento con cui replicare […]

SVF II, 1136

[1] Galeno ‘De usu partium’ V, 4 Vol. III, p. 350 K. Noi, infatti, scegliamo con grande sconsideratezza ciò che reputiamo per noi vantaggioso, quando non capiti a volte trattarsi di qualcosa che per sua natura peraltro, più che giovare, danneggia in vista di ciò che ci abbisogna. [II,329,5] Invece la natura -poiché in ciascuna delle sue opere non sceglie talora sconsideratamente né con pigrizia grandi mali per un bene minore e determina con esatta misura la quantità di bene e di male in ciascuna opera sua- ottiene sempre un risultato che è molte volte più buono che cattivo. Per di più, se fosse possibile la natura strutturerebbe tutte queste cose prive di ogni difetto. Ora però, giacché per nessuna arte è fattibile sfuggire alla negatività del materiale [II,329,10] o creare un’opera di perfezione adamantina e immune da qualunque pecca, rimane da concluderne che la natura fa bello ed ordinato il cosmo nei limiti del fattibile. È anche vero che materiali diversi rendono fattibili opere diverse. Infatti, noi e gli astri non siamo certamente fatti della stessa sostanza. Pertanto non è d’uopo ricercare la stessa immunità da qualunque pecca e biasimare la natura [II,329,15] se da qualche parte vediamo qualcosa di leggermente dannoso fra miriadi di cose ben fatte.

[2] p. 402. La natura non ha trascurato nulla, in nessun modo e in nessun luogo; giacché essa conosce e vede in anticipo le conseguenze che necessariamente seguiranno all’opera di una causa, e s’affretta ad apprestarvi i retti rimedi.

SVF II, 1137

Galeno ‘De usu partium’ XVII, 1 (Vol. IV, p. 355 K). [II,329,20] Tu invece, o generosissimo accusatore delle opere della natura, a nessuna di queste guardi; e vedi soltanto che tra milioni e milioni di uomini la natura una volta ne ha fatto uno con sei dita.

SVF II, 1138

Galeno ‘De natur. facult.’ I, 12, Vol. II, p. 27 K. In medicina e in filosofia ci sono stati questi due generi di scuola. […] Un genere di scuola ipotizzò l’esistenza di una sostanza tutta quanta assoggettata a genesi e ad estinzione, [II,329,25] unitaria e contemporaneamente capace di cambiamento. L’altra scuola ipotizzò l’esistenza di una sostanza non trasformabile e non soggetta a cambiamenti, spezzata in particelle minutissime separate da spazi interstiziali vuoti. Ora, quanti si rendono conto delle conseguenze di queste due ipotesi, ritengono che per la seconda scuola non esistano né una sostanza né un facoltà che siano proprie della natura e dell’animo; e che tutto si risolva nella qualità dei percorsi congiunti [II,329,30] di quei corpuscoli elementari, semplici e impassibili. Per la prima scuola citata, invece, la natura non è posteriore ai corpi, bensì molto anteriore ad essi e più anziana. Secondo i suoi seguaci, questa natura fa sussistere i corpi animali e vegetali giacché è dotata della facoltà [II,329,35] di attirare e insieme assimilarsi ciò che le è simile e di allontanare ciò che le è estraneo, mentre genera esseri che plasma con arte e cui provvede poi con altre sue facoltà, ossia in virtù di un affetto provvidente per la prole e di una amichevole comunanza per le realtà omogenee […]

SVF II, 1139

[1] Galeno ‘De usu partium’ XIV, 1 (Vol. IV, p.142 K). [II,329,40] La natura per di più s’industriò a rendere la propria opera, se fosse possibile, immortale; ma poiché il materiale non si prestò a questo scopo […] la natura escogitò un fattibile aiuto per l’immortalità dell’opera sua a guisa di un buon fondatore di città, il quale si preoccupa non soltanto della coabitazione nell’immediato, [II,329,45] ma si dà pensiero che la sua città sia sorvegliata e difesa del tutto o almeno per la maggior parte.

[2] p. 151. Dandosi pensiero che nessun genere di esseri viventi fosse fatto sparire, per tutti quelli che per la debolezza del corpo o avrebbero avuto una vita assai breve o sarebbero diventati pasto di esseri viventi più potenti, la natura inventò quale medicina della costante estinzione la capacità di generare moltissima progenie.

[3] p. 152. [II,330,1] Per tutti quegli animali ai quali, data la secchezza del corpo, non è data la possibilità di produrre del latte, com’è il caso di tutti i volatili; la natura escogitò un diverso artificio per l’allevamento della progenie, dotandoli di uno stupefacente istinti a tutelare i loro nati, grazie al quale essi prendono le difese dei pulcini [II,330,5] […] e provvedono loro il cibo idoneo.

SVF II, 1140

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 11, p. 179, 24 Bruns. […] applicandosi a costoro, e comunemente a quasi tutti i filosofi, l’opinione che ad opera della natura nulla nasce senza una ragione.

[II,330,10] § 4. Il cosmo è opera della Prònoia

Frammenti n. 1141-1151

SVF II, 1141

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 55 (p. 84 Aucher). Così [II,330,15] Dio, senza generare il vuoto, nel vuoto edificò quella grande città che è il cosmo, e col cosmo edificò anche lo spazio. E data la pienezza del corpo cosmico, non ci sarà parte alcuna di territorio che non sia anche spazio.

SVF II, 1142

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 57 (p. 84 Aucher). Dio non creò il tempo infinito e incorporeo, bensì i giorni, i mesi e gli anni usando, per stabilirne la durata, il sole la luna e le rivoluzioni dei restanti pianeti. [II,330,20] Lo fece a vantaggio degli animali e dei vegetali, che non sono in grado di sopravvivere senza le stagioni dell’anno. Ed a questo è diretto il consueto sorgere e tramontare del sole.

SVF II, 1143

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 62 (p. 87 Aucher). La figura del mondo, come il mondo stesso, […] fu fatto dalla provvidenza a forma di sfera: [II,330,25] in primo luogo perché questa è la più mobile e veloce di tutte le figure geometriche e poi perché è la più necessaria, dato che tutte le sue parti tendono verso il centro per evitare che, rallentando accidentalmente, il mondo precipiti a ritroso nell’immenso vuoto. Solo in questo modo esso era destinato a conservare il proprio posto, poiché un cerchio regolare tende verso il proprio centro [II,330,30] da ogni punto.

SVF II, 1144

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 64 (p. 89 Aucher). La terra occupò il punto medio, in primo luogo perché, pur spostata alquanto, non fosse sloggiata dal centro; e infatti il suo fortissimo impulso all’immobilità tende a mantenerla proprio qui. In secondo luogo per poter essere torno torno abitata. Infatti, poiché essa [II,330,35] sta saldamente ferma, tutte le cose sulla sua superficie vi stanno stabilmente, essendo anch’esse attratte verso il centro. Il che prova che la sua forma sferica è opera della provvidenza, giacché nessun’altra figura permette la citata circumabitazione della terra, come risulta a chi consideri filosoficamente figure geometriche e superfici abitabili.

SVF II, 1145

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 64 (p. 89 Aucher). Essi dicono [II,330,40] che la distesa del mare fu apparecchiata per comodità degli uomini e degli dei. Degli dei, per un motivo di questo genere: il sole, che molti [II,331,1] chiamano reggitore del mondo perché gli elargisce il necessario per vivere, secondo loro trae nutrimento dal mare, in quanto attira a sé e poi assorbe le parti più pure e raffinate dell’acqua. Prova ne sia, fra le altre, che nel corso delle stagioni dell’anno il sole si muove in direzioni opposte, in estate verso il Cancro e in inverno verso il Capricorno, [II,331,5] e che nel suo giro non oltrepassa mai questi limiti fissati dall’eternità. Anche le stelle della Via Lattea si alimentano dal mare, attirando a sé l’umidità pura e raffinata dell’aria. Il che essi provano facendo notare che un po’ di quell’umidità assolutamente pura, regolarmente ad ogni alba, con l’abbassarsi della temperatura si condensa sulla terra ed assume la forma di quell’acquerugiola che siamo soliti chiamare rugiada. [II,331,10] […] E come il mare è di grande utilità nel sostentare tutto il cielo, così lo è pure per la vita degli uomini, poiché senza di lui non ci sarebbe comunicazione fra gli abitanti del continente e quelli delle isole e viceversa, né scambio dei beni prodotti localmente.

SVF II, 1146

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 67 (p. 90 Aucher). A cosa [II,331,15] servono, dunque, i vapori che esalano dalla terra? O grand’uomo, tale mistura, che è ben diversa dall’aria, non è forse salutifera non soltanto per gli animali, ma anche per le piante? Anzi, se mi è concessa l’opportunità di aggiungere qualcosa, tale mistura è causa di sussistenza anche dei materiali mescolati insieme che formano le sostanze solide. Essa è anzitutto alimento degli esseri animati e componente frequentissimo di ogni cibo e di ogni bevanda. […] Infatti le sostanze [II,331,20] che il corpo riceve, o per nausea o per esaurimento del desiderio […] suscitano a molti fastidio e stanchezza. Invece il nutrimento che si trova diffuso per l’aria è un dono di natura fornito sia a chi è sveglio sia a chi dorme ed è sempre a nostra disposizione dalla gioventù alla vecchiaia: perciò basta una sua [II,331,25] minima contaminazione per causare un’epidemia.

SVF II, 1147

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 73 (p. 93 Aucher). Le stelle fisse sono tra le cause del carattere temperato dell’aria, giacché sono fatte naturalmente di componenti fredde e diffondono da sé sostanze liquefatte. In tal modo l’aria dilatata favorisce la generazione degli animali e rende possibile la respirazione a quelli già nati. [II,331,30] Alla sua tenuità coopera la sua altezza; ed il fatto che l’aria si dilati tutta e non solo in parte, dipende dalla sua circolazione periodica.

SVF II, 1148

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 76 (p. 95 Aucher). In primo luogo […] la luna ha adattato appositamente il suo corso ai periodi mensili, i quali sono altrettante misure del corso del sole. Di poi, col suo crescere e calare, [II,331,35] determina variazioni e mutamenti a beneficio di tutti. Prova certa ne sono le condizioni atmosferiche quali le calme piatte, il sereno, la cessazione dei venti, le nubi, le tempeste di vento ed altri fenomeni simili, oltre naturalmente ai flussi e riflussi del mare sconfinato, che ora si ritrae e ora di nuovo incalza coi suoi flutti. Soprattutto il corso lunare spiega le variazioni di certi animali, come i crostacei, [II,331,40] che vivono ora immersi ora emersi.

SVF II, 1149

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 84 (p. 98 Aucher). Tu reputi che noi siamo stati fatti per il mondo e non invece il mondo per noi? Forse non hai rimuginato abbastanza sulla considerazione che un settore della terra è stato disposto ad arte per l’abitazione degli uomini, [II,331,45] e uno quale spazio ad uso, per riguardo, degli dei sensibili. Ora, le parti che sono state assegnate a noi uomini sono più che sufficienti per abitarci, [II,332,1] ma bisognava anche predisporre un alimento adatto ai corpi celesti, che devono appunto essere nutriti dall’immenso mare.

SVF II, 1150

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 74 (p. 94 Aucher). All’universo giova anche il numero dei pianeti, pur se enumerare l’utilità di ciascuno di essi è cosa da oziosi. II,332,5] Non solo il ragionamento ma anche il buonsenso fa noto che la provvidenza muove il mondo e che essa, come dicono Crisippo e Cleante, nulla ha tralasciato per la sua più sicura ed utile gestione; giacché, se ne esistesse una migliore, esso a quella si sarebbe accomodato, [II,332,10] visto che nulla può impedire la divinità.

SVF II, 1151

Galeno ‘De usu partium’ XVII, 1 (Vol. IV, p. 358 K). Chi non avrebbe subito ponderato che una mente dotata di potere stupefacente ha messo piede su questa terra e si è distesa in tutte le sue parti? Infatti, per ogni dove si vedono nascere esseri viventi tutti dotati di una struttura stupefacente. E tuttavia, delle parti costitutive del cosmo [[II,332,15] quali sarebbero meno pregevoli di quelle terrestri? Ciononostante è apparente che una mente è giunta qui sulla terra provenendo dai corpi celesti, osservando i quali chiunque arriva immediatamente ad ammirare la bellezza della sostanza del cosmo. In primo luogo e soprattutto quella del sole, poi quella della luna e poi quella degli astri, per i quali è verosimile che quanto più è pura la sostanza del corpo, tanto più la mente che in essa v’ha stanza [II,332,20] sia migliore e più esatta di quella che dimora nei corpi terrestri. […] Quando concettualizzo queste cose, io reputo che una tale mente si distenda non poco anche nell’aria stessa che ci include, giacché questa per sua natura non condivide la luce dei raggi solari se poi non ne condivide anche il potere.

§ 5.Gli animali e le piante sono stati fatti per l’utilità dell’uomo

[II,332,25] Frammenti n. 1152-1167

SVF II, 1152

Porfirio ‘De abstin.’ III, 20. Per Zeus, e così sarebbe plausibile la tesi di Crisippo, secondo la quale gli dei hanno creato noi uomini a beneficio loro e nostro reciproco, e gli animali a beneficio nostro: i cavalli per aiutarci a fare la guerra; i cani per accompagnarci nella caccia; i leopardi, gli orsi e i leoni per allenare la nostra virilità! [II,332,30] Il porco, poi, e qui sta la più gustosa delle amenità, non sarebbe stato messo al mondo per altro che per essere sacrificato, e dio nel suo caso avrebbe mischiato l’animo al corpo in funzione di sale, escogitando così per noi un cibo prelibato. Affinché poi avessimo abbondanza di zuppe e di leccornie, dio apprestò per noi ostriche d’ogni sorta, conchiglie, ortiche di mare e svariate specie di volatili, non per altro che per volgere [II,332,35] gran parte di se stesso in prelibatezze, superando così di gran lunga le balie e stipando questa nostra sede terrestre di piaceri e di voluttuose fruizioni.

SVF II, 1153

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 37. A ragion veduta Crisippo afferma che, come la guaina è fatta per lo scudo ed il fodero per la spada, così pure [II,333,1] ogni cosa, ad eccezione del cosmo nel suo complesso, è stata generata in funzione di un’altra: le biade e i vegetali nascenti dalla terra per gli animali; gli animali invece per gli uomini: com’è il caso del cavallo per il trasporto, del bue per l’aratura, del cane per la caccia e per la guardia. L’uomo invece [II,333,5] è nato per contemplare il mondo ed imitarne la perfezione.

SVF II, 1154

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 160. Cosa ci fornisce il maiale a parte il cibo? Crisippo sostiene che l’animo gli è stato dato perché facesse la funzione del sale e così la sua carne non imputridisse, e che la natura nulla ha creato di più prolifico di tale bestia, poiché essa era adatta a nutrire gli uomini.

SVF II, 1155

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 54, Vol. I, p. 326, 31 K. [II,333,10] Dichiarandosi di siffatta opinione e proponendosi di dire cose contrarie non soltanto alle nostre ma anche a quelle sostenute dai filosofi di quella non ignobile scuola fondata da Zenone di Cizio, sarebbe d’uopo che <Celso> fornisse la prova che i corpi degli esseri viventi non sono opera di Dio e che l’arte così grande impiegata nei loro riguardi non deriva dalla mente prima e divina. [II,333,15] Inoltre, riguardo ai vegetali d’ogni sorta che sono governati da una facoltà vegetativa intrinseca e incapace di rappresentazioni, vegetali che sono stati creati per essere di un’utilità assolutamente non spregevole per gli uomini; e riguardo agli animali che fanno da servitori agli uomini, qualunque sia altrimenti il motivo della loro esistenza; bisognerebbe anche che Celso non avesse soltanto dichiarato ma che ci avesse anche insegnato perché ad infondere qualità tanto grandi e numerose alla materia vegetale [II,333,20] non è stata una mente perfetta.

SVF II, 1156

‘Ex Origene Selecta in Psalmos’ II, p. 532 Delarue. Alcune cose sono di prima istanza, altre sono conseguenze di quelle di prima istanza. Di prima istanza è la creatura dotata di ragione, mentre il bestiame e i vegetali che germogliano dalla terra nascono per sua utilità.

SVF II, 1157

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 74, Vol. I, p. 343, 23 K. [II,333,25] Celso […] non ha visto che in questo modo muove un’accusa anche ai filosofi della Stoa, i quali non fanno male a preordinare l’uomo, e in generale la natura razionale, a tutte le creature prive di ragione, e a dire che la Provvidenza ha fatto tutto ciò che ha fatto cardinalmente per gli esseri dotati di ragione. Ed è logico sostenere che gli esseri razionali, poiché sono esseri di prima istanza, siano stati generati dalla Provvidenza come figli, mentre gli esseri privi di ragione [II,333,30] e quelli inanimati abbiano il ruolo che nella generazione ha la placenta. E io ritengo che, come nelle città coloro che provvedono a ciò che si compra e si vende e al mercato non si danno altro pensiero che degli uomini, e però della sovrabbondanza di merci fruiscono anche i cani e altri animali privi di ragione; così la Provvidenza si preoccupa [II,333,35] principalmente degli esseri razionali e però ne consegue che anche gli esseri privi di ragione traggono vantaggio da ciò che è creato per gli uomini.

SVF II, 1158

Plutarco ‘Quaest. Plat.’ p. 1000f. Crisippo dice che non si chiama padre della placenta chi ha procurato lo sperma, anche se essa è derivata da quello sperma.

SVF II, 1159

Alessandro d’Afrodisia ‘De fato’ cp. 23, p. 193, 16 Bruns. [II,333,40] Se nei vegetali la buccia è a motivo del pericarpo e il pericarpo è grazie al seme, e se si irriga per nutrire e si nutre per avere il frutto […]

SVF II, 1160

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1044e. [II,334,1] <Crisippo> è quello che encomia la Prònoia perché ci procura pesci, uccelli, miele e vino.

SVF II, 1161

Cicerone ‘Academica’ II, 120. Sei tu, e non io, ad avere l’obbligo di spiegare perché dio, [II,334,5] che farebbe per noi ogni cosa, (questo è ciò che voi pretendete) avrebbe fatto una tale massa di serpenti d’acqua e di vipere. […] Voi sostenete che creature <mortifere> di tale raffinatezza e perfezione hanno potuto essere create solo dalla destrezza di un qualche dio, la cui maestà poi avvilite fino ad attribuirgli la minuziosa fabbricazione delle api e delle formiche, come se fra gli dei ci fosse [II,334,10] un qualche Mirmecide costruttore di opericciole in miniatura.

SVF II, 1162

Cicerone ‘De legibus’ I, 25. Così la natura ha elargito per agio ed uso degli uomini una tale abbondanza di cose, che quanto essa produce sembra un dono deliberato e non fortuito per noi. E non si tratta soltanto delle messi e delle bacche profuseci dal ventre della terra, ma anche degli animali domestici; giacché è evidente che essi [II,334,15] sono in parte al servizio dell’uomo, in parte gli recano vantaggio e in parte sono state generati quale suo cibo. Innumerevoli sono poi le arti scoperte grazie agli insegnamenti della natura; ed è imitando la natura che la ragione ottiene le cose necessarie alla vita.

SVF II, 1163

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1044c. Dopo avere scritto [II,334,20] nei libri ‘Sulla natura’ che “molti degli animali la natura li ha messi al mondo per via della loro bellezza, giacché la natura è amante del bello e si rallegra della varietà”; <Crisippo> soggiunge, con argomentazione quanto mai inopinata e illogica, che “il pavone è nato a motivo della sua coda, per via della bellezza della sua coda”.

[2] p. 1044d. Nel quinto libro ‘Sulla natura’ <Crisippo> dice: “Le pulci [II,334,25] ci fanno assai profittevolmente ridestare; i topi attirano la nostra attenzione sulla necessità di non riporre le nostre cose in modo trascurato; è verosimile che la natura ami il bello giacché si rallegra della varietà”, e poi dice testualmente: “Evidenza palese di questo fatto potrebbe essere soprattutto la coda a ruota del pavone. Qui la natura dà infatti a vedere che l’animale è venuto al mondo a motivo della sua coda a ruota e che non è il contrario, [II,334,30] dato che la femmina è venuta dopo la nascita del maschio”.

SVF II, 1164

Galeno ‘De usu partium’ XI, 14, Vol. III, p. 899 K. Che sia deducibile dalla presenza di un sovrappiù di bellezza formale e che ciò sia necessariamente esistente, anche questo va riconosciuto alle realtà naturali. E siccome non se n’è parlato in nessuno dei precedenti discorsi,[II,334,35] credo proprio che ora convenga parlarne. Dunque i peli sulle guance non soltanto le riparano, ma contribuiscono anche al loro decoro giacché il maschio appare più solenne soprattutto coll’avanzare dell’età se da ogni parte a lui la barba bellamente disposta contorna il viso. Per questo la natura ha lasciato lisci e nudi di peli i cosiddetti pomelli e il naso, giacché altrimenti tutto il viso avrebbe assunto un aspetto [II,334,40] selvatico e belluino, per nulla appropriato ad un animale domestico e politico.

SVF II, 1165

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 47. Voi senza dubbio, o Lucilio, […] quando [II,335,1] illustrate l’abilità artistica e la capacità costruttiva divina, solete sottolineare non soltanto quanto tutti i componenti della figura umana siano adatti all’uso, ma anche quanto siano belli.

SVF II, 1166

Cicerone ‘De finibus’ III, 18. Delle membra, ossia delle parti del corpo, alcune paiono esserci state date dalla natura per un certo uso -come [II,335,5] le mani, le gambe, i piedi, oppure gli organi interni, sulla misura della cui utilità si discute ancora fra i medici-, altre invece non per utilità ma quasi per bellezza, come la coda al pavone, le penne multicolori al colombo, le mammelle e la barba agli uomini.

SVF II, 1167

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ II, 10. Anche Ermete <Trismegisto> tentò [II,335,10] di spiegare per quale sottile ragione Dio abbia modellato ogni singolo membro del corpo umano, giacché non ve n’è alcuno che non valga altrettanto in termini di necessità e quanto a bellezza. Quando discorrono di provvidenza, anche gli Stoici si sforzano di fare lo stesso, [II,335,15] attribuendo l’architettura degli esseri animati alla divina solerzia, e Cicerone in più luoghi li segue.

§ 6. Perché, pur essendovi la Prònoia, esiste il male

Frammenti n. 1168-1186

SVF II, 1168

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1076c. La stranezza più grande non sta però qui, bensì nel fatto che <gli Stoici> si stizziscano con Menandro quando a teatro fa dire:

[II,335,20] ‘Massima causa dei mali tra gli uomini

                                                                  è l’eccesso di beni’.                                             

Essi sostengono, infatti, che quest’affermazione è contraria ai concetti comuni; e poi sono invece proprio loro a fare del buon dio la causa basilare dei mali. Infatti, non è stata la materia a procurare, traendolo da se stessa, il male; giacché la materia è priva di qualità e tutte le differenziazioni che accoglie essa le ha avute da ciò che la fa muovere e la foggia. [II,335,25] E a muoverla e foggiarla è il logos che esiste in lei, in quanto per sua natura essa è incapace di muovere e di foggiare se stessa.

SVF II, 1169

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ VII, 1. Coloro cui pare che il mondo non sia stato creato per dio e per gli uomini e che la provvidenza non governi le cose umane, reputano di accampare un argomento di peso quando dicono: “Se esistesse la provvidenza, non ci sarebbero i mali”. Essi infatti sostengono che nulla sia meno consentaneo alla provvidenza [II,335,30] della gran massa di tribolazioni e di mali presenti in un mondo che si dice fatto per l’uomo. È contro di loro che Crisippo si schiera, nel quarto libro ‘Sulla Prònoia’ quando sostiene: “Certo nessuno è più insulso di chi opina che possano esistere i beni senza che ci siano contemporaneamente i mali. Infatti, siccome i beni sono contrari ai mali, necessariamente devono [II,335,35] esistere sia gli uni che gli altri in reciproca opposizione e come supportati da uno sforzo uguale e contrario, giacché i contrari non possono esistere l’uno senza l’altro. A che patto potrebbe esistere il senso della giustizia se non ci fossero i torti? Cos’altro è la giustizia se non il toglimento dell’ingiustizia? Come riconoscere la fortezza [II,335,40] se non per confronto con l’ignavia? E in qual modo la continenza, se non dall’intemperanza? Come potrebbe esistere la prudenza se essa non fosse il contrario dell’imprudenza? [II,336,1] E poi” aggiunge “perché gli stolti non desiderano anche che esista la verità e non la menzogna? Beni e mali, felicità e cattiva sorte, dolore e piacere vanno sempre insieme. Come dice Platone, uno è legato all’altro come gli estremi opposti: [II,336,5] tolto uno li toglierai entrambi”.

SVF II, 1170

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ VII, 1, 7. Sempre Crisippo, nel medesimo libro, prende in considerazione e reputa degno di chiedersi se le malattie degli uomini siano conformi a natura, cioè se la natura stessa delle cose [II,336,10] o la provvidenza che ha compaginato questo mondo e creato il genere umano, abbia creato anche le malattie, le infermità e i malanni del corpo che gli uomini patiscono. La sua opinione è che non fosse certo intenzione principale della natura quella di fare uomini soggetti alle malattie, giacché ciò non s’addice affatto all’autrice e genitrice di tutte le cose buone. “Tuttavia”, egli prosegue, “mentre essa [II,336,15] generava è dava alla luce esseri di grande perfezione e utilità, ne sortivano anche degli incomodi per quelli che essa andava creando”. Questi incomodi, secondo Crisippo, non sono dovuti alla natura ma sono il risultato di certe conseguenze necessarie. Dice Crisippo: [II,336,20] “Quando la natura modellava i corpi degli uomini, una ragione superiore e la stessa buona riuscita dell’opera esigevano che il capo fosse costituito di ossa delicate e sottili. Ma a questo vantaggio maggiore per il capo è conseguito un incomodo estrinseco, ossia che il capo risultasse poco difeso e fragile ai colpi ed ai piccoli urti. [II,336,25] Ecco come sono nati malattie e malanni mentre nasceva la salute. Così, per Ercole” egli continua “ mentre la virtù si genera negli uomini per disegno della natura, nel contempo nascono in modo affine e contrario anche i vizi”.

SVF II, 1171

Filone Alessandrino ‘De fortitudine’ II, p. 413 Mang. Come il medico, [II,336,30] nel caso di malattie ad alto rischio, amputa delle parti del corpo avendo di mira la salute di tutto il resto di esso; e come il pilota di una nave, ove sopravvengano delle tempeste, fa gettare in mare il carico della nave, provvedendo così alla salvezza dei passeggeri -ed a queste azioni non s’accompagna biasimo, né per il medico per la storpiatura, né per il pilota per la perdita del carico; ma al contrario ne segue una lode sia per l’uno che per l’altro, in quanto hanno visto e rettamente perseguito l’utile a scapito del piacevole -allo stesso modo bisogna sempre ammirare [II,336,35] la natura del cosmo nella sua interezza, e ci si deve compiacere del fatto che in tutte le opere che in esso si effettuano il male non è mai deliberato e, se è avvenuto qualcosa di spiacevole, indagare se ciò non accada perché il cosmo è tenuto a briglia ed è pilotato al modo di una città retta da buone leggi.

SVF II, 1172

Lattanzio ‘De ira dei’ cp. 13. Quando discutono con gli Stoici, [II,336,40] gli Accademici sogliono chiedere loro: “Perché, se dio ha fatto tutte le cose a vantaggio dell’uomo, si rinvengano tante contrarietà, tanti ostacoli, tanti cose per noi esiziali sia sul mare che sulla terra?” [II,337,1] A questa domanda gli Stoici, poiché non guardano alla verità, da perfetti imbecilli si sono rifiutati di rispondere. Essi infatti dicono che sia tra i vegetali che tra gli animali ci sono molti esseri la cui utilità non è chiara, ma che col passare del tempo si scoprirà; come pure nei secoli passati il bisogno e l’esperienza hanno portato [II,337,5] alla scoperta di molte cose sconosciute.

SVF II, 1173

[1] Origene ‘Contra Celsum’ IV, 75, Vol. I, p. 345, 19 K. Non c’è da meravigliarsi se <Dio> ha apparecchiato dei cibi anche per gli animali più selvatici, giacché pure altri filosofi hanno detto che questi animali sono stati creati per tenere in allenamento la creatura dotata di ragione.

[2] IV, 75, Vol. I, p. 348, 23 K. [II,337,10] E così si dice che il genere dei leoni, degli orsi, dei leopardi, dei cinghiali e di siffatti animali ci è stato dato per tenere in allenamento i semi di virilità che esistono in noi.

SVF II, 1174

Origene ‘Contra Celsum’ IV, 64, Vol. I, p. 334, 33 K. [II,337,15] Se la natura del cosmo nella sua interezza è una e la stessa, la genesi dei mali non è affatto sempre la stessa. Infatti, pur essendo la natura di questo determinato essere umano una e la stessa, non sono sempre identiche le operazioni del suo egemonico, della sua ragione e le sue azioni; giacché egli ha intrapreso il male talora senza avervi ragionato e talora con una scelta ragionata, e questo male può scorrere in lui [II,337,20] o di più o di meno; mentre è possibile che egli talora sia spronato alla virtù e vi faccia progressi più o meno grandi e che talvolta primeggi proprio nella virtù insita in un numero maggiore o minore di conoscenze teoriche. Ancor più è possibile parlare in questo modo per la natura del cosmo nella sua interezza, e dunque dire che se pure essa è una e la stessa per genere, [II,337,25] nel cosmo non avvengono sempre le stesse cose né cose omogenee. Come non c’è sempre abbondanza di risorse o sempre penuria di risorse, e non ci sono sempre inondazioni o sempre aridità; così non è sempre stabilita abbondanza o penuria di anime migliori, né scrosci più o meno intensi di anime peggiori. Ed a coloro che vogliono conoscere ogni cosa per quanto è possibile con precisione, è necessario dire che la ragione [II,337,30] per cui i mali non rimangono sempre in ugual numero è dovuta all’opera della Provvidenza, la quale o conserva in vita le cose terrestri oppure ne fa pulizia attraverso cataclismi e conflagrazioni. E forse ciò non vale soltanto per le cose terrestri ma anche per le cose che esistono nel cosmo intero, il quale ha bisogno di una pulizia qualora il male in esso diventi molto.

SVF II, 1175

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1040c. [II,337,35] Similmente, nel primo libro ‘Sulla giustizia’, dopo avere citato questi versi di Esiodo

‘Ad essi dal cielo il Cronide spinse contro una calamità grande:

fame e peste; e soccombevano i popoli’

<Crisippo> afferma che gli dei fanno questo affinché, [II,337,40] visti castigati i malvagi, servendosi di questi esempi gli uomini che restano in vita mettano meno spesso mano a fare cose del genere.

SVF II, 1176

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1050e. [II,338,1] <Crisippo> afferma che dio castiga il vizio e fa molte cose per castigare i malvagi. Ad esempio nel secondo libro ‘Sugli dei’ egli dice: “A volte accadono ai virtuosi molti incomodi, non però a mo’ di castigo come accade per i viziosi ma in accordo con un’economia di più ampio respiro, [II,338,5] come accade negli Stati”. Poi in questi libri di nuovo dice: “In primo luogo per mali si devono intendere quelli dei quali si è parlato prima, e inoltre che essi sono assegnati in armonia con la ragione di Zeus, o come castigo o secondo un’economia di più ampio respiro che è in funzione del cosmo nella sua interezza”.

SVF II, 1177

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1049a. [II,338,10] <Crisippo> deride però a tal punto coloro che lo incolpano sulla base di queste obiezioni, da scrivere, a proposito di Zeus salvatore, genitore e padre di Giustizia, Eunomia e Pace, nel terzo libro ‘Sugli dei’, le seguenti parole: “Come gli Stati che hanno un eccesso di abitanti ne allontanano una stuolo nelle colonie e muovono guerra ad un altro popolo; così dio dà origine a rovine e distruzioni”. [II,338,15] Egli porta a testimoni di ciò Euripide e altri scrittori, i quali affermano che la guerra di Troia sarebbe stata suscitata dagli dei per far sgombrare la moltitudine degli uomini in sovrappiù.

[2] p. 1049b. Tieni in considerazione il fatto che <Crisippo> applica sempre a dio epiteti nobili e denotanti amicizia per l’uomo, [II,338,20] ma gli attribuisce poi opere selvatiche, barbare, degne dei Galati.

[3] p. 1048c. Zeus è ridicolo se si rallegra di essere designato Ctesio, Epicarpio e Caridote […]

SVF II, 1178

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1051b. Inoltre, benché <Crisippo> abbia spesso scritto sul fatto che al cosmo non vi sono da fare incolpazioni né biasimi [II,338,25] giacché tutti gli eventi vi sono introdotti e rappresentati secondo la migliore natura possibile, vi sono però luoghi delle sue opere nei quali egli lascia trasparire certe incolpazioni di trascuratezza in faccende né piccole né da poco. Per esempio, nel terzo libro dell’opera ‘Sulla sostanza’, dopo avere ricordato che cose siffatte coinvolgono anche uomini retti e virtuosi, dice: “Se avvengono delle trascuratezze, ciò capita come capita nelle grandi case allorché della crusca [II,338,30] o una certa quantità di grano va smarrita, anche se la casa nel suo complesso è ben amministrata; oppure capita perché a cose del genere sopravvedono dei demoni sciocchi, i quali si lasciano effettivamente andare a trascuratezze degne di incolpazione?”. Ora, io lascio perdere la sua disinvolta faciloneria nell’equiparare le accidentali disavventure di uomini probi e virtuosi, come la condanna a morte di Socrate, [II,338,35] Pitagora arso vivo dai Cilonei, l’eliminazione con la tortura di Zenone ad opera del tiranno Demilo e quella di Antifonte ad opera di Dionisio, alla crusca che va smarrita. [II,339,1] Ma il fatto che la Prònoia possa istituire dei demoni sciocchi a siffatte soprintendenze, come può non essere un’incolpazione a dio?[…]

SVF II, 1179

Cicerone ‘De natura deorum’ III, 86. Gli dei trascurano le faccende minori, né si accaniscono contro i campicelli o le povere viti [II,339,5] dei singoli, né bisogna volgere l’animo a Zeus se il golpe o la grandine hanno danneggiato qualcuno; né certo nei regni il re si cura d’ogni minima cosa: questo voi dite.

SVF II, 1180

Cicerone ‘De natura deorum’ III, 90. ‘Né gli dei né i re’ si dice, ‘volgono l’animo a tutto’. Che razza di paragone è questo? Infatti, per i re è una grande colpa lasciare di proposito impunito qualcuno, mentre per dio neppure il non sapere di un delitto è una scusa. [II,339,10]. Eppure voi bellamente difendete dio, quando dite che, seppure qualcuno fosse sfuggito con la morte alla pena per il suo delitto, tale è la potenza degli dei che essa sarà pagata dai figli, dai nipoti e dai posteri.

SVF II, 1181

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1050f. Nel secondo libro [II,339,15] ‘Sulla natura’ <Crisippo> esacerba il carattere contraddittorio <delle precedenti affermazioni> scrivendo quanto segue: “Rispetto alle pur terribili disavventure accidentali, il vizio ha una sua peculiare ragione, giacché anch’esso nasce in un certo senso in armonia con la ragione della natura e, per dir così, non è improficuo in relazione al cosmo nella sua interezza, dal momento che altrimenti non esisterebbero neppure le opere virtuose”.

[2] ‘De communibus notitiis’ p. 1065b. [II,339,20] Il canto di un coro è ben intonato quando nessuno dei suoi membri stona, e la salute del corpo si ha quando nessuno dei suoi pezzi è malato. Invece la virtù non ha genesi senza il vizio. E come il veleno del serpente e il fiele della iena sono necessari in taluni dei rimedi medici, così l’idoneità di Meleto alla depravazione era funzionale alla giustizia di Socrate, e l’idoneità di Cleone all’improntitudine [II,339,25] era funzionale alla virtuosità di Pericle. E come avrebbe potuto Zeus trovare il modo di far nascere Eracle e Licurgo, se non avesse fatto nascere per noi anche Sardanapalo e Falaride? […] In cosa differiscono da questi vaneggiamenti e da queste chiacchiere, quanti affermano che l’impudenza non è senza proficuità per la padronanza di sé [II,339,30] e l’ingiustizia per la giustizia?

[3] p. 1065d. Vuoi essere messo al corrente della sua straordinaria finezza e della sua capacità persuasiva? Ecco quel che dice: “Come le commedie contengono delle battute ridicole che di per sé sono sciocche ma conferiscono una certa grazia all’opera nel suo insieme, così il vizio di per se stesso tu lo denigreresti, [II,339,35] ma esso non è senza proficuità per il cosmo nella sua interezza”.

[4] p. 1066d. [Compagno] – […] smanio dalla voglia di sapere in che modo i signori <Stoici> possano dare la precedenza ai mali rispetto ai beni, e al vizio [II,340,1] rispetto alla virtù –

[Diadumeno] – […] dopo molto blablabla, alla fine quel che dicono è che la saggezza, essendo scienza dei beni e dei mali, sarebbe integralmente abolita se fossero aboliti i mali; e come, essendoci il vero, è impossibile che non ci sia anche il falso, similarmente [II,340,5] essi credono che, se esistono i beni, conviene che esistano anche i mali –

[5] Marco Aurelio ‘Ricordi’ VI, 42. Tu bada, pertanto, di non fare la parte di quel verso da poco e ridicolo, nel dramma che Crisippo ricorda.

SVF II, 1182

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1051a. Di nuovo [II,340,10] nel primo libro ‘Sulla giustizia’, parlando degli dei che oppongono resistenza a talune ingiustizie, <Crisippo> dice che non è possibile rimuovere interamente il vizio e che non sta bene che esso sia interamente rimosso.

SVF II, 1183

[1] Filodemo ‘De deorum vita beata’ col. 7, 28 (Scott. Fragm. Hercul. p. 156). […] se potesse anche questo, <avrebbe> la facoltà […] [II,340,15] di fare tutti <gli uomini> sapienti e beati <e di far sì che non esistesse> il male. Ma ciò <significa che> debolezza e deficienza sono congiunte all’essere più possente di tutti, e che esse si prestano al sovvertimento dell’intellezione <che noi abbiamo> di dio; come dice Crisippo nei libri ‘Sulla mantica’, quando afferma che dio non può sapere ogni cosa, perché non ha […]

[2] col. 8 (Scott. Fragm. Hercul. p. 157). [II,340,20] […] quale peculiare differenza di dio gli attribuiscono l’onnipotenza; ma qualora siano messi alle strette dalle contestazioni, allora si rifugiano nel ripetere che <dio> non può fare tutte le cose che sono congiunte alla sua onnipotenza.

SVF II, 1184

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 369 Pott. Le decisioni e le attività degli apostati, in quanto scelte particolari, [II,340,25] nascono da una cattiva disposizione, così come le malattie del corpo; ma sono pilotate dalla Provvidenza universale ad un fine che è salutare, seppure la loro causa è patologica. Massimo carattere della Provvidenza divina è quello di non permettere che il vizio che nasce dall’apostasia deliberata rimanga privo di proficuità e di giovamento, né che esso diventi in ogni senso dannoso. L’opera della sapienza, della virtù e della potenza divina è infatti non soltanto quella di fare il bene -giacché questa, per così dire, è la natura di Dio [II,340,30] come è natura del fuoco il riscaldare e della luce l’illuminare- bensì è soprattutto quella di portare, pur attraverso divisamenti cattivi ad un risultato finale buono e benefico, utilizzabile in modo giovevole [II,340,35] anche da coloro che sembrano viziosi.

SVF II, 1185

Origene ‘De principiis’ III, p. 162 Delarue. Delle opere della Provvidenza che attiene a tutto il cosmo, alcune appaiono con tutta evidenza essere opere provvidenziali, altre invece sono state a tal punto celate che sembra diano spazio a qualche diffidenza circa il Dio che governa tutte le cose con arte e potenza ineffabili. [II,340,40] Infatti, la ragione artefice di Dio provvidente non è così chiara nelle vicende terrestri come invece lo è nella sfera del sole, della luna e degli astri. E non è così manifesta nell’ambito delle accidentali disavventure umane [II,341,1] come lo è nelle anime e nei corpi degli animali. Il fine e il motivo degli impulsi, delle rappresentazioni, delle nature degli animali e la struttura dei loro corpi sono infatti molto bene a conoscenza di coloro che sono solleciti di trovarli.

SVF II, 1186

Cicerone ‘De natura deorum’ III, 70. A questo tipo di argomentazione [II,341,5] voi solete controbattere: se molti uomini usano in modo perverso il beneficio loro elargito dagli dei, non per questo gli dei non hanno ottimamente provveduto a noi; giacché pure molti uomini usano male il patrimonio ereditato, ma non per questo essi non sono stati [II,341,10] beneficati dai loro padri.

[II,342,1] Fisica IX

La mantica

§ 1. Se ci sono dei e Prònoia, la mantica esiste

Frammenti n. 1187-1195

SVF II, 1187

Cicerone ‘De divinatione’ I, 6. Dopo di loro venne Crisippo, uomo d’ingegno acutissimo, il quale spiegò la dottrina della [II,342,5] divinazione in due libri, uno dedicato agli oracoli e uno ai sogni; testi che in seguito il suo discepolo Diogene di Babilonia rese pubblici in un unico libro.

SVF II, 1188

Cicerone ‘Academica’ II, 107. Panezio dice di dubitare di ciò che tutti gli Stoici, eccetto lui, reputano certissimo: ossia che siano veri i responsi degli aruspici, [II,342,10] gli auspici, gli oracoli, i sogni e i vaticini.

SVF II, 1189

Cicerone ‘De divinatione’ II, 130. Crisippo definisce la divinazione con queste parole: “Il potere di riconoscere, osservare e spiegare i segni che gli dei presentino agli uomini. È suo dovere conoscere in anticipo [II,342,15] cos’abbiano in mente gli dei nei confronti degli uomini, di cosa li avvertano e quale sia il modo per scongiurare ciò o per placarli”. Parimenti, definisce in questo modo l’interpretazione dei sogni: “Il potere di distinguere ed elucidare ciò di cui gli dei avvertano gli uomini nei sogni”.

SVF II, 1190

Aezio ‘Placita’ V, 1, 1. Platone e gli Stoici introducono [II,342,20] la mantica come arte d’ispirazione divina, cioè divinamente ispirata [dato che la divinità dell’animo si diceva ‘entusiasmo’], e l’arte dell’interpretazione dei sogni. Inoltre gli Stoici ammettono quasi tutte le forme di mantica.

SVF II, 1191

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum.’ VII, 149. <Gli Stoici dicono che> se c’è la Prònoia ogni forma di mantica è fondata; edichiarano, sulla base di certi esiti, [II,342,25] che essa è un’arte, come affermano Zenone e Crisippo nel secondo libro ‘Sulla mantica’.

SVF II, 1192

Cicerone ‘De divinatione’ I, 82. Che <la divinazione> sia senza dubbio cosa reale lo si conclude da questo ragionamento degli Stoici. “Se gli dei esistono e non preavvisano [II,343,1] del futuro gli uomini: o essi non hanno cari gli uomini, o ignorano l’avvenire, o stimano che agli uomini non interessi affatto conoscere il futuro, o non ritengono consono alla loro maestà il predire il futuro agli uomini, o neppure gli dei stessi possono intenderlo. [II,343,5] Ora: è escluso che essi non ci abbiano cari, visto che gli dei sono, per genere, benefici amici degli uomini; è escluso che essi ignorino ciò che proprio loro stabiliscono e designano; è escluso che a noi non interessi affatto il nostro avvenire, giacché sapendolo saremmo più cauti; è escluso che gli dei ritengano ciò alieno alla loro maestà, giacché nulla è [II,343,10] più eccellente del beneficare; è escluso che essi non conoscano in anticipo il futuro, giacché in tal caso non sono dei e non intendono il futuro. Invece gli dei esistono e quindi intendono il futuro; e se lo intendono è escluso che non diano a noi uomini le capacità per accedere alla scienza dell’intenderlo, giacché invano ce lo farebbero intendere; e se ce ne danno la capacità è escluso che la divinazione non esista; dunque la divinazione esiste”. Questo è il ragionamento [II,343,15] usato da Crisippo, da Diogene e da Antipatro.

SVF II, 1193

Cicerone ‘De divinatione’ II, 41. Quando hanno più fretta <gli Stoici> sogliono dimostrarlo così: “Se gli dei esistono, esiste la divinazione; ma gli dei esistono; [II,343,20] dunque c’è la divinazione”.

SVF II, 1194

Cicerone ‘De legibus’ II, 32. Se infatti concediamo che gli dei esistano, che il cosmo sia governato dalla loro mente, che essi si prendano cura del genere umano, che possano rivelarci i segni del futuro: non vedo perché dovrei negare l’esistenza della divinazione. Ora, le premesse che ho fatto sono vere, e quindi da esse logicamente [II,343,25] consegue l’asserto che vogliamo provare.

SVF II, 1195

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ V, 7, 35. Se poi qualcuno vuole aggiungere anche quelli che si chiamano segni divini, tratti da responsi, oracoli e vaticini, allora sappia che la loro trattazione è duplice. La prima è di ordine generale e in essa continua lo scontro infinito fra Stoici ed Epicurei sulla questione se il mondo sia o no retto dalla Provvidenza. [II,343,30] L’altra è specifica dei generi della mantica, cioè in quale dei suoi generi cada il fatto in questione. Si può infatti dare o negare credibilità agli oracoli, oppure agli aruspici, oppure agli auguri, oppure agli indovini, oppure agli astrologi, perché degli stessi fatti ci sono spiegazioni diverse.

§ 2.Sui sogni

Frammenti n. 1196-1206

SVF II, 1196

Tertulliano ‘De anima’ cp. 46. Gli Stoici [II,343,35] vogliono piuttosto che dio, nella sua infinita provvidenza per ogni istituzione umana, tra le altre risorse a tutela delle arti e delle scienze divinatorie, ci abbia concesso i sogni quale sorta di oracolo naturale privato.

SVF II, 1197

Cicerone ‘De natura deorum’ III, 93. Ma non siete proprio voi a negare che gli dei si occupino di tutto, e poi a volere che i sogni siano [II,344,1] ripartiti e suddivisi tra gli uomini dagli dei immortali? Discuto di questo con te, poiché la dottrina sulla veridicità dei sogni è una vostra dottrina. Inoltre siete voi a definire opportuno che i voti <degli uomini> siano accolti <dagli dei>?

SVF II, 1198

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 251. Eraclito, con il consenso degli Stoici, [II,344,5] associa la nostra ragione a quella divina che regge e modera le cose del mondo. Per questo inseparabile sodalizio, l’animo umano è fatto conscio dei decreti della ragione, e quando è dormiente preannuncia ad opera dei sensi gli eventi futuri. Ecco perché accade che ci appaiano immagini di luoghi ignoti o figure di uomini tanto viventi quanto morti. Eraclito è un fautore della divinazione e sostiene i meriti delle premonizioni [II,344,10] disposte dalle potenze divine. Pure gli Stoici si servono di tale dottrina quale scienza solida e perfetta.

SVF II, 1199

Cicerone ‘De divinatione’ I, 39. Veniamo ai sogni. Disquisendo di essi, Crisippo, che ne raccolse molti banali, fa quel che fa Antipatro e li spiega usando il metodo interpretativo di Antifonte. L’opera mette certo in luce l’acume dell’interprete, ma [II,344,15] gli conveniva usare esempi più seri.

SVF II, 1200

Cicerone ‘De divinatione’ I, 56. Cosa c’è di più premonitore di quei due sogni rammentati così spesso dagli Stoici? Uno è di Simonide. Simonide, visto uno sconosciuto disteso morto a terra, lo inumò. Successivamente, avendo egli in animo di imbarcarsi, [II,344,20] in una visione fu ammonito di non farlo da colui cui aveva dato sepoltura, giacché se fosse salpato sarebbe perito in un naufragio. Così Simonide tornò sui suoi passi, mentre coloro che allora salparono perirono tutti.

SVF II, 1201

Cicerone ‘De divinatione’ II, 134. Un tale riferisce all’interprete dei sogni -questo sogno si trova in un libro di Crisippo- di avere sognato che un uovo pendeva da una cinghia del letto su cui dormiva. Al che l’interprete gli risponde [II,344,25] che sotto il letto è sepolto un tesoro. Quello scava e trova una certa quantità d’oro con intorno dell’argento. Porta allora all’interprete quel po’ d’argento che gli pare giusto, e l’interprete gli fa: “E del tuorlo nulla?”; giacché per lui era chiaro che il tuorlo di un uovo significa oro e il resto argento.

SVF II, 1202

Fozio ‘Lexicon’ s.v. ‘neottòs’ . […] [II,344,30] Che essi chiamassero il giallo dell’uovo ‘tuorlo’ è testimoniato da Crisippo nella sua opera ‘Sugli oracoli’. “Un tizio, raccontano, vide in sogno che un uovo penzolava dal suo letto, e lo riferì all’interprete dei sogni. Questo gli disse: ‘Se scavi, troverai un tesoro nascosto sotto il letto’. Quello in effetti vi trovò un orciolo contenete dell’argento e dell’oro, [II,344,35] e portò un po’ d’argento all’indovino. E l’indovino gli disse: ‘E del tuorlo non mi dai nulla?’ ”

SVF II, 1203

Apostolius XII, 7. “E del tuorlo non mi dai nulla?”. <Dall’opera di Crisippo ‘Sugli oracoli’>

SVF II, 1204

Cicerone ‘De divinatione’ I, 57. Il secondo sogno tramandatoci [II,344,40] è un sogno molto noto. Due conoscenti Arcadi facevano la stessa strada e, giunti a Megara, uno alloggiò in una bettola, l’altro fu ospitato da un amico. Dopo cena ambedue andarono a riposare, ma nel primo sonno quello che era ospite sognò che l’altro lo supplicava di soccorrerlo, perché il bettoliere si apprestava ad ucciderlo. Egli si svegliò dal primo sonno [II,345,1] tutto atterrito; ma poi riavutosi, e giudicando di non dover dare alcun peso al sogno, tornò a dormire. Mentre dormiva, ecco che rivede lo stesso amico supplicarlo, poiché non lo aveva soccorso da vivo, di non lasciare invendicata almeno la sua morte: era stato assassinato dal bettoliere, [II,345,5] e il suo cadavere gettato su un carretto e ricoperto di letame. Lo scongiurava dunque di essere di mattina presto alla porta della città, prima che il carretto ne uscisse. Agitatissimo per questo sogno, la mattina si trovò col bifolco alla porta; gli chiese cosa ci fosse sul carretto e quello, atterrito, si diede alla fuga. [II,345,10] Così si estrasse il morto, fu denunciato il crimine e il bettoliere ne scontò la pena.

SVF II, 1205

Suida s.v. ‘Timorùntos’ […] Crisippo racconta che un tale sbarcò a Megara con addosso un cinto riempito d’oro. L’albergatore che l’aveva accolto, avendo messo gli occhi sull’oro, nel mezzo della notte lo uccise e stava per portarlo via su un carro carico di letame, dopo avere nascosto l’assassinato sotto di questo. Ma l’animo del morto [II,345,15] si presenta allora ad uno di Megara e gli racconta cosa ha subito, da parte di chi, come stia per essere portato via e attraverso quali porte. Costui non ascoltò pigramente ciò che gli veniva detto, e alzatosi ch’era ancor buio e messosene in cerca, raggiunse il veicolo e rintracciò il cadavere. Così l’uomo fu sepolto e l’altro [II,345,20] ebbe il dovuto castigo.

SVF II, 1206

Cicerone ‘De divinatione’ II, 144. Le congetture degli stessi interpreti dei sogni non rendono forse evidente la scaltra ingegnosità dei loro autori nel raggirare gli altri, piuttosto che la forza e il consenso ad esse della natura? Un corridore che aveva in animo di partire per Olimpia, sognò d’esservi portato su di una quadriga. La mattina, eccolo dall’interprete dei sogni. E quello gli fa: “Vincerai; giacché questo sogno indica la velocità e la forza dei cavalli”. [II,345,25] Più tardi il corridore si reca da Antifonte, il quale gli dice: “Sarai per forza sconfitto. Non vedi che ne hai davanti altri quattro nella corsa?” Ecco un altro corridore -di questi e di altri sogni sono pieni il libro di Crisippo e quello di Antipatro- ma torno al corridore. Costui riferisce all’interprete d’aver sognato d’essersi trasformato in un’aquila. E l’interprete gli fa: “Hai vinto; giacché non c’è uccello che voli [II,345,30] più veloce dell’aquila”. Al contrario, a costui Antifonte dice: “Balordo, non vedi che sei sconfitto? Questo uccello insegue ed incalza gli altri uccelli, e dunque è sempre ultimo”. Una sposa che desiderava avere figli e dubitava di essere incinta, sognò di avere l’utero occluso e riferì questo sogno all’interprete. Questi escluse che potesse concepire, dato che aveva l’utero occluso.Un altro interprete le disse [II,345,35] invece che era incinta, perché non sarebbe normale occludere qualcosa che è vuoto. Qual è l’arte dell’interprete dei sogni se non una scaltra ingegnosità nel raggirare gli altri? I fatti che ho citato ed innumerevoli altri che gli Stoici hanno raccolto, che altro provano se non l’acume di uomini che [II,346,1] da una qualche analogia sanno trarre ora questa ora quella interpretazione?

§ 3.Sulla mantica come arte avente delle regole

Frammenti n. 1207-1216

SVF II, 1207

Cicerone ‘De divinatione’ I, 72. Quei generi di divinazione che si effettuano per via di congettura, oppure sono colti ed evidenziati [II,346,5] da certi eventi, come ho già detto, sono chiamati artificiali e non naturali. Fra di essi si annoverano l’ispezione delle interiora delle vittime sacrificali, il volo degli uccelli e l’interpretazione dei sogni. Questi generi sono disapprovati dai Peripatetici e difesi dagli Stoici.

SVF II, 1208

Cicerone ‘De divinatione’ I, 109. Che c’è di strano se la dottrina della premonizione artificiale risulta facile e invece [II,346,10] quella della premonizione divina è alquanto più oscura? Le viscere delle vittime, le folgori, i portenti e gli astri dai quali si traggono le premonizioni, sono infatti oggetti di osservazione quotidiana. Inoltre, osservazioni lungamente estese nel tempo forniscono in ogni caso una incredibile massa di conoscenze certe, le quali possono formarsi anche senza intervento diretto o impulso degli dei, giacché da cosa origini alcunché e cosa esso significhi II,346,15] può essere colto con una attenta e continua osservazione. Altra cosa è la divinazione naturale, come ho detto prima. Questa divinazione, secondo le sottili distinzioni della fisica, va riferita alla natura degli dei; natura dalla quale, come hanno sostenuto uomini dottissimi e saggissimi, noi abbiamo aspirato e bevuto i nostri animi; e siccome tutto è compenetrato e ricolmo di eterna sensibilità e di mente divina, è necessario che [II,346,20] gli animi umani risentano fortemente del contatto con con gli animi divini.

SVF II, 1209

[1] Cicerone ‘De divinatione’ I, 118. Posto e concesso che esista una certa forza divina che pervade la vita degli uomini, non è difficile immaginare per quale ragione avvengano le cose che vediamo con certezza avvenire. [II,346,25] Infatti anche nello scegliere la vittima sacrificale può guidarci una qualche sensibilità diffusa in tutto il mondo; e allora proprio quando tu voglia immolare la vittima, può avvenire una mutazione delle interiora in aumento o in diminuzione, giacché basta un attimo perché la natura aggiunga, o muti, o tolga qualcosa.

[2] II, 35. Non mi vergogno di te ma di Crisippo, [II,346,30] di Antipatro e di Posidonio, i quali sostengono le stesse cose che sostieni tu, ossia che nella scelta della vittima sacrificale ci guida una certa sensibilità divina e diffusa in tutto il mondo. E ancor più assurdo è ciò che tu hai preso da loro ed essi hanno detto, e cioè che quando uno vuole immolare una vittima, avviene una mutazione [II,346,35] in aumento o in diminuzione delle interiora, giacché tutto ubbidisce alla volontà degli dei.

SVF II, 1210

Cicerone ‘De divinatione’ I, 118. Gli Stoici non credono che gli dei si interessino delle singole fessure del fegato o del canto degli uccelli; giacché ciò è indecoroso e indegno di loro, e quindi non può in alcun modo avvenire. Ritengono però che il mondo sia stato congegnato fin dall’inizio in modo che certe cose siano precedute da certi segni, alcuni nelle viscere, altri nel volo degli uccelli, altri nelle folgori, altri nei portenti, [II,346,40] altri nelle stelle, altri nei sogni, altri nelle voci degli invasati. [II,347,1] I segni, quando siano bene interpretati, quasi mai sbagliano; mentre se sono male intesi e male interpretati risultano falsi, non per loro difetto ma per l’imperizia degli interpreti.

SVF II, 1211

Cicerone ‘De divinatione’ II, 33. D’altra parte, quale parentela hanno le interiora delle vittime con la natura delle cose? [II,347,5] Ammettendo che la natura sia un tutto unico e ininterrotto, dottrina che so essere gradita ai fisici, e soprattutto a quanti dissero che tutto ciò che esiste è un’unica realtà: che connessione può esserci tra il mondo e la scoperta di un tesoro? Se le viscere predicono per me un aumento di patrimonio, e ciò la natura fa avvenire: in primo luogo c’è una relazione tra esse ed il mondo, e in secondo luogo la natura delle cose include quel mio lucro. [II,347,10] I fisici non si vergognano di dire cose simili? Ammettiamo che tra le cose naturali esista una certa connessione: questo lo concedo, giacché gli Stoici ne elencano molti esempi. Essi infatti dicono che i fegati dei topolini aumentano di volume in inverno; che il puleggio secco fiorisce proprio il giorno di tale solstizio; che quando i follicoli si gonfiano e si rompono, i semi, racchiusi all’interno dei frutti, sono lanciati in varie direzioni; [II,347,15] che se si pizzicano alcune corde della cetra, altre risuonano anch’esse; che ostriche e mitili di ogni genere crescono e decrescono di volume in sintonia con la luna; che si ritiene adatta per il taglio degli alberi la stagione invernale nella fase di luna calante, quando essi sono secchi. Perché dilungarsi oltre sugli stretti [II,347,20] e sui flussi e riflussi marini determinati dai moti della luna? Concediamo pure che si possano citare moltissimi esempi simili, dai quali risulta la parentela naturale tra cose distanti tra di loro. Ma in base a quale connessione naturale, a quale concerto e consenso, quello che i Greci chiamano συμπάθεια, potrà mai darsi un legame [II,347,25] tra una fessura del fegato e un mio misero guadagno o fra un meschino lucro ed il cielo, la terra e la natura delle cose?

SVF II, 1212

[1] Origene ‘Contra Celsum’ IV, 88, Vol. I, p. 360, 13 K. In primo luogo si è ricercato se sia possibile un’arte basata sugli uccelli augurali e, in generale, una mantica basata sugli animali; oppure se essa non sia possibile. In secondo luogo, tra coloro che hanno accettano [II,347,30] la possibilità di una mantica basata sugli uccelli, non vi è stato accordo sulla causa di questo tipo di divinazione; poiché alcuni affermano che i movimenti agli animali -per voli diversi e per versi differenti nel caso degli uccelli, per questo o quest’altro movimento nel caso di altri animali – vengono loro da certi demoni o divinità preposte alla mantica. Altri invece affermano che le anime di questi animali sono più divine ed idonee a ciò: [II,347,35] il che è però assolutamente non plausibile.

[2] IV, 90, Vol. I, p. 362, 22 K. Dunque, bisogna dire che che se pure ci fosse in quegli animali una natura divina capace di conoscere in anticipo il futuro e a tal punto ricca da manifestare, per giunta, all’uomo che lo volesse gli eventi futuri, è manifesto che molto prima di ciò essi conoscerebbero gli eventi che riguardano loro stessi […] [II,347,40]

SVF II, 1213

Cicerone ‘De divinatione’ I, 120. La mente divina produce analoghi effetti sugli uccelli, sicché quelli chiamati ‘alites’ volano ora in una direzione ora in un’altra e si celano ora in un luogo ora in un altro; mentre quelli chiamati ‘oscines’ cantano ora da destra, ora da sinistra. Infatti, se ogni animale muove il corpo a suo piacimento: ora prono, ora su un fianco, ora supino, [II,347,45] e piega, contorce, stende, contrae le membra in qualunque direzione voglia, e lo fa quasi prima ancora di averci pensato, quanto [II,348,1] più ciò è facile per un dio, al cui volere tutto ubbidisce.

SVF II, 1214

[1] Cicerone ‘De divinatione’ II, 115. Ed ora vengo a te, santo Apollo […] Crisippo infatti ha riempito un intero volume dei tuoi oracoli: alcuni falsi; altri, a mio avviso, avveratisi [II,348,5] per caso, come accade spessissimo per qualunque discorso; altri così tortuosi ed oscuri che l’interprete necessita a sua volta di un interprete e la sorte stessa va tirata a sorte; altri di un’ambiguità tale da necessitare dell’indagine di un dialettico.

[2] I, 37. Crisippo raccolse innumerevoli oracoli, [II,348,10] ciascuno ben corredato di autore e testimoni.

SVF II, 1215

Cicerone ‘De divinatione’ II, 117. Ma […] come mai a Delfi non si pronunciano più oracoli di questo genere, non da oggi ma ormai da molto tempo, sicché nulla può ormai considerarsi più spregevole? Messi alle strette da questa obiezione, <i loro difensori> dicono che col tempo è svanita la forza del luogo da cui si sprigionavano le esalazioni [II,348,15] che ispiravano la mente della Pizia e le facevano proferire gli oracoli.

SVF II, 1216

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ I, 6. Nel catalogo delle Sibille, la Sibilla delfica, di cui Crisippo parla nel libro ‘Sulla mantica’, è la terza.

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STOICORUM VETERUM FRAGMENTA LIBRO I

Tutti i frammenti greci e latini

Nuovamente tradotti da Franco Scalenghe

Libro I

1. Zenone (c. 333-261 a.C.)

Vita, costumi, scritti, testimonianze

Frammenti n. 1-44

SVF I, 1

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 1-2. [I,3,3] Zenone, figlio di Mnasea (o di Demea) veniva da Cizio, cittadina greca dell’isola di Cipro che aveva avuto coloni fenici. [I,3,5] Come afferma Timoteo di Atene nel suo libro ‘Sulle vite’, aveva il collo storto. Apollonio di Tiro afferma che era allampanato, piuttosto alto, di colorito bruno -per cui qualcuno lo chiamava ‘clematide egizia’, come dice Crisippo nel primo libro dei ‘Proverbi’- gonfio di gambe, fiacco, debole; e perciò, nei suoi ‘Ricordi conviviali’, [I,3,10] Persèo afferma che egli schivava la maggior parte dei pranzi cui era invitato. Dicono, invece, che si rallegrasse di mangiare fichi freschi e di prendere il sole. Come è stato già detto fu discepolo di Cratete. Dicono anche che abbia poi ascoltato le lezioni di Stilpone e, secondo Timocrate nel suo ‘Dione’, quelle di Senocrate per dieci anni, nonché quelle di Polemone. Ecatone, come pure Apollonio [I,3,15] di Tiro nel primo libro ‘Su Zenone’, afferma che quando egli consultò l’oracolo sul cosa fare per vivere nel miglior modo possibile, il dio gli rispose: “Che stesse a contatto con i cadaveri”. Ond’egli capì bene di dover leggere le opere degli antichi. Il suo incontro con Cratete avvenne in questo modo. Mentre trasportava per commercio della porpora dalla Fenicia, fece naufragio nei pressi del Pireo. Aveva ormai trent’anni, e salendo ad Atene [I,3,20] si sedette nella bottega di un libraio. Mentre quello leggeva il secondo libro dei ‘Memorabili’ di Senofonte, Zenone, godendo della lettura, cercò di sapere da lui dove potessero vivere uomini del genere.

SVF I, 2

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 3-5. Passava di lì, davvero tempestivamente, Cratete; e il libraio, mostrandoglielo, gli disse: “Tieni dietro a quest’uomo”. Da quel momento Zenone fu discepolo di Cratete: un discepolo tutto teso alla [I,3,25] vita filosofica, ma altrimenti vergognoso della sfacciataggine Cinica. Laonde Cratete, deciso a curarlo anche di ciò, gli dà una pentola di lenticchie da portare attraverso il Ceramico; e poiché vede che per la vergogna lui cerca di tenerla coperta, batte la pentola col suo bastone e la manda in pezzi. Mentre Zenone fugge via [I,4,1] e le lenticchie gli colano lungo le gambe, Cratete gli fa: “Perché fuggi via, o bel Fenicio? Nulla di terribile hai sperimentato!”. Per un po’ egli fu dunque discepolo di Cratete e, poiché in quel tempo scrisse ‘La repubblica’, alcuni solevano per gioco dire che egli l’avesse scritta ‘sulla coda del cane’. [I,4,5] Oltre a ‘La repubblica’ Zenone scrisse anche le seguenti opere […]. Da ultimo, se ne andò via da Cratete; e si fece discepolo dei predetti filosofi per vent’anni, sicché si racconta che dicesse: “Ho fatto una buona navigazione quando ho fatto naufragio”. Alcuni sostengono che egli abbia detto questo al tempo della sua frequentazione di Cratete. Altri sostengono invece che egli dimorasse ad Atene quando udì del naufragio e che dicesse: “La fortuna [I,4,10] fa proprio bene a spingerci di forza alla vita filosofica”. Taluni poi sostengono che egli si volgesse alla vita filosofica dopo avere disposto, in Atene, del carico della nave. Deciso a far sì che il luogo non fosse contornato di gente, teneva i suoi discorsi andando su e giù sotto il ‘Portico Dipinto’ (Stoa), chiamato anche ‘Portico’ di Pisianatte, e ‘Dipinto’ per la presenza delle pitture di Polignoto. È sotto questo portico che al tempo dei [I,4,15] Trenta Tiranni era stata decisa l’eliminazione di mille e quattrocento cittadini. Orbene la gente s’avvicinava per ascoltarlo e per questo essi furono chiamati ‘Stoici’. Ebbero similmente questo nome anche i suoi seguaci, dapprima chiamati ‘Zenoniani’ secondo quanto afferma Epicuro nelle sue ‘Lettere’ […] i quali ne accrebbero ancor più la fama.

SVF I, 3

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 6-13. [I,4,20] Gli Ateniesi tenevano in grande onore Zenone, tanto da commettergli le chiavi delle mura della città ed onorarlo con una corona d’oro e un’immagine in bronzo. Si dice che questo facessero anche i suoi concittadini, dal momento che ritennero un degno ornamento la sua immagine. Pure i Ciziesi di Sidone lo pretesero come uno di loro. Antigono Gonata approvava il modo di vivere di Zenone e quando gli capitava di giungere ad [I,4,25] Atene molte volte ascoltava le sue lezioni, invitandolo poi a recarsi presso di lui. Zenone schivò questi inviti e però inviò da lui Persèo, uno dei suoi conoscenti, figlio di Demetrio, nato a Cizio e in pieno fiore durante la CXXX Olimpiade (260-256 a.C.), quando Zenone era ormai vecchio. […] [I,4,30] Inviò dunque Persèo e Filonide di Tebe, entrambi i quali Epicuro, nella ‘Lettera al fratello Aristobulo’, rammenta come sodali di Antigono. […] Antigono di Caristo afferma che egli non negò mai di essere di Cizio. [I,4,35] E quando fu uno dei conferitori di fondi per il restauro di un bagno pubblico, poiché sulla stele risultava iscritto come ‘Zenone filosofo’, sollecitò di addizionarvi ‘di Cizio’. Una volta fece un coperchio cavo alla fiaschetta che per consuetudine portava in giro, [I,5,1] affinché il suo insegnante Cratete avesse pronta una soluzione per le sue necessità. Dicono pure che egli venisse in Grecia con più di mille talenti e che li prestasse a interesse contro garanzia della nave o del suo carico. Soleva mangiare piccoli pani, miele e bere un po’ di vinello aromatico. [I,5,5] Raramente aveva rapporti con giovanetti, e una o forse due volte li ebbe con una giovanetta, tanto per non sembrare misogino. Coabitava con Persèo, e una volta che questi gli introdusse in casa una giovane suonatrice di flauto, tirò un sospiro e la menò da Persèo. Dicono che fosse facilmente compiacente, sicché il re Antigono sopraggiungeva da lui a far baldoria e insieme a lui andava a far baldoria dal [I,5,10] citaredo Aristocle, seppure poi Zenone se la svignava.

SVF I, 4

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 14-16. Si dice che Zenone avversasse la calca, sicché soleva sedere all’estremità del sedile, guadagnandosi così di dimezzare il disturbo. Non passeggiava mai in compagnia di più di due o tre persone. Talvolta si faceva pagare dai circostanti una moneta di bronzo [sicché quelli, per non] dargliela, toglievano il disturbo, [I,5,15] come afferma Cleante nel suo libro ‘Sulla moneta di bronzo’. Quando poi i circostanti erano molti di più, Zenone mostrava all’estremità della Stoa il recinto ligneo dell’altare e diceva: “Un tempo questo altare giaceva nel mezzo della Stoa, ma poiché era d’intralcio fu posto in disparte. E così se voi vi toglierete di mezzo ci darete meno disturbo”. [I,5,20] Quando Zenone udì Democare, figlio di Lachete, ossequiarlo mostrandosi dell’avviso che poteva dire o scrivere ad Antigono qualunque cosa di cui avesse bisogno, ed affermare che Antigono gli avrebbe procurato tutto ciò, non volle più passare del tempo in sua compagnia. Si racconta anche che, dopo la morte di Zenone, Antigono dicesse: “Quale teatro ho perduto!” Laonde tramite Trasone, suo ambasciatore presso gli [I,5,25] Ateniesi, chiese per lui la sepoltura nel Ceramico. E quando gli fu domandato perché ammirava Zenone, Antigono rispose: “Benché io gli avessi fatto molti e grandi doni, egli non ne invanì mai né mai fu visto farsi servile”. Era un ricercatore ed un esatto ragionatore su tutto, laonde Timone nei suoi ‘Silli’ dice così: […]. Poneva poi grande solerzia nel misurarsi col dialettico [I,5,30] Filone e condivideva con lui gli studi filosofici; onde Filone era ammirato da Zenone, più giovane di lui, non meno che dal suo insegnate Diodoro. Come anche Timone afferma, gli stavano d’attorno individui nudi e sozzi […]. Era cupo e amaro, coi lineamenti del viso contratti. Spendeva pochissimo [I,5,35] e, col pretesto dell’economia, era di una spilorceria barbara. Qualora poi [I,6,1] decidesse di fare la stroncatura di qualcuno, la faceva succintamente e senza dilungarsi, con distacco […].

SVF I, 5

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 25-27. Secondo quanto afferma Ippoboto, Zenone passò del tempo in compagnia di Diodoro e con lui si prodigò nello studio della dialettica. Aveva già fatto dei progressi quando entrò nel seguito di [I,6,5] Polemone senza mostrare vanità alcuna; tanto che Polemone, secondo quanto raccontano, gli disse: “Non mi sfugge, o Zenone, che tu ti intrufoli qui dalle porte del giardino per rubarmi le dottrine e per riabbigliarle con vesti fenicie”. Al dialettico che gli mostrava come nel ragionamento del ‘Mietitore’ siano contenute sette forme elementari di dialettica, chiese quante dracme intendeva farsi pagare per compenso. E quando udì che egli ne voleva cento, gliene diede duecento; tanto era grande [I,6,10] il suo amore per l’apprendimento. <Dicono anche che> riscrivesse così i versi di Esiodo:

‘Ottimo su tutti è colui che ubbidisce a chi bene parla

e prode, a sua volta, è colui che da sé tutto capisce’.

Giacché chi è capace di ben ascoltare ciò che viene detto e di utilizzarlo, è migliore di colui che da se stesso di tutto si capacita. Infatti, propria di uno è [I,6,15] soltanto l’intelligente comprensione mentre l’altro, ben ubbidendo, vi congiunge anche la pratica. Dicono poi che alla domanda sul perché, pur essendo austero, indulgesse nel bere, egli rispose: “Anche i lupini, pur essendo amari, s’addolciscono se bagnati”. Ecatone, nel secondo libro dei suoi ‘Detti sentenziosi’, afferma che in occasione di tali incontri di società egli attenuava la sua austerità [seguono due sentenze]. [I,6,20] Aveva una grandissima forza d’animo ed era frugalissimo. Mangiava cibi non cotti ed indossava un mantello piuttosto sottile, sicché di lui si diceva:

‘Lui né l’inverno che agghiaccia, né un acquazzone senza fine,

né la vampa del sole lo doma; non un’orripilante malattia,

non una festa popolare. Egli invece, infaticabile,

[I,6,25] all’insegnamento notte e giorno sta teso’.

SVF I, 6

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 27-32. I poeti comici non si resero conto che con i loro scherni ne tessevano le lodi. È dove Filemone, nella sua commedia ‘I filosofi’, dice così:

‘Un pane, per pietanza un fico secco, e berci sopra dell’acqua.

Costui filosofa dunque una filosofia nuova:

[I,6,30] insegna ad avere fame eppure cattura discepoli’.

Secondo alcuni, però, questi versi sono di Poseidippo. Era ormai diventato una figura quasi proverbiale e pertanto, presolo a riferimento, si diceva di qualcuno che era ‘più padrone di sé di Zenone il filosofo’. Anche Poseidippo ne ‘I convertiti’ dice: ‘Sicché nel giro di dieci giorni sembrava essere diventato più padrone di sé di Zenone il filosofo’. E Zenone in realtà superava tutti [I,6,35] per questo aspetto ed anche per solennità e, per Zeus, per beatitudine. Morì all’età di novantotto anni, dopo una vita trascorsa senza malattie e in salute. [I,7,1] Nelle sue ‘Lezioni etiche’ Persèo afferma che egli morì all’età di settantadue anni e che era venuto ad Atene all’età di ventidue. Apollonio sostiene che fu Scolarca per cinquantotto anni. La sua morte avvenne così. Mentre andava via da scuola incespicò e [I,7,5] si ruppe un dito. Batté allora la terra con la mano e pronunciò quel verso della ‘Niobe’:

‘Vengo, perché mi chiami gridando?’

e, soffocato il grido, morì all’istante. Gli Ateniesi lo seppellirono nel Ceramico e lo onorarono secondo i decreti votati e già citati in precedenza, a testimonianza della sua virtù. […] [I,7,10] Nei suoi ‘Omonimi’, Demetrio di Magnesia afferma che il padre Mnasea, in quanto mercante, veniva spesso ad Atene e che portava a Zenone, ancora ragazzo, molti libri di filosofia Socratica; ragion per cui egli era già stato forgiato a queste dottrine quand’era ancora nella sua patria. Poi, quando venne ad Atene, ebbe l’incontro con Cratete. Sembra anche, afferma Demetrio, che sia stato lui a definire il ‘sommo bene’, mentre altri [I,7,15] andavano errando qua e là tra varie dichiarazioni. Dicono che solesse giurare ‘sul cappero’, proprio come Socrate ‘sul cane’.

SVF I, 7 e 8

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 10-12. Mi è sembrato opportuno scrivere qui di seguito il decreto votato a suo riguardo dagli Ateniesi. Ecco il testo.

‘Nel corso dell’Arcontato di Arrenide, quinta Pritania della tribù Acamantide, [I,7,20] undicesimo giorno del mese Mematterione, ventitreesimo della Pritania, assemblea generale.

Il Presidente Ippone, figlio di Cratistotele, del demo di Sipete, insieme con i copresidenti, mette ai voti. Trasone, figlio di Trasone, del demo di Anacea riferisce:

“Siccome Zenone di Cizio, figlio di Mnasea, nel corso di molti anni e con continuità

ha praticato la vita filosofica in questa città;

sotto ogni riguardo è stato uomo dabbene;

ha invitato alla virtù e alla temperanza [I,7,25] quei giovani che procedevano da lui per una raccomandazione, e li ha incitati alle mete più nobili;

ha esposto la propria vita come esempio per tutti, mantenendosi conseguente ai discorsi che faceva;

con buona fortuna il popolo ha ritenuto opportuno

di tributare pubblica lode a Zenone di Cizio, figlio di Mnasea;

di incoronarlo con una corona d’oro, secondo la legge, per la sua virtù [I,7,30] e la sua temperanza;

di edificare per lui, a spese pubbliche, una tomba nel Ceramico”.

Il popolo elegga per alzata di mano i cinque Ateniesi che avranno sollecitudine della fattura della corona e dell’edificazione della tomba. Il segretario del popolo faccia incidere il decreto votato su due stele ed abbia la potestà di collocarne una nell’Accademia e l’altra [I,7,35] nel Liceo. Il funzionario del governo spartisca la spesa sostenuta per le stele affinché tutti sappiano che il popolo di Atene onora i buoni sia vivi che morti. [I,8,1] Per l’edificazione della tomba e la fattura della corona sono stati eletti per alzata di mano: Trasone del demo di Anacea, Filocle del Pireo, Fedro di Anaflisto, Menone di Acarne, Micito di Sipaletto e Dione di Peania’.

SVF I, 9

Temistio ‘Orationes’ XXIII, p. 295d Hard. Circa Zenone, [I,8,5] è arcimanifesto e cantato in coro da molti che fu l’Apologia di Socrate a condurlo dalla Fenicia al Portico Dipinto.

SVF I, 10

Strabone ‘Geographia’ XIII, p. 614. Di Pitane è Arcesilao l’Accademico, condiscepolo di Zenone di Cizio presso Polemone.

SVF I, 11

Numenio presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XIV, 5, 11, p. 729b. Arcesilao e Zenone [I,8,10] appartennero alla cerchia dei discepoli di Polemone. […] Ricordo d’avere detto che Zenone frequentò la scuola di Senocrate, poi di Polemone, e che fece pure vita cinica con Cratete. Sia detto ora di lui che partecipò alle lezioni di Stilpone e che studiò le dottrine dei seguaci di Eraclito. Giacché quando frequentavano entrambi la scuola di Polemone, Arcesilao e Zenone gareggiavano ad emularsi ma in seguito, [I,8,15] nella lotta dell’uno contro l’altro, schierarono dalla propria parte, l’uno -ossia Zenone- Eraclito, Stilpone e insieme Cratete. Zenone prese da Stilpone la combattività, da Eraclito l’austerità e da Cratete il cinismo. Arcesilao invece […]

SVF I, 12

Numenio presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XIV, 6, 9, p. 732b. Ormai distanti uno dall’altro, Zenone e Arcesilao si scambiavano palesemente dei colpi; ma, dei due, era Arcesilao a colpire Zenone, il quale, [I,8,20] nella battaglia, manteneva un certo atteggiamento solenne e grave, se pur non migliore di quello del retore Cefisodoro […] Tuttavia proprio Zenone, una volta messo da parte Arcesilao, se non avesse polemizzato contro Platone, a mio giudizio si stava mostrando un filosofo di gran valore, proprio a motivo di questo suo atteggiamento pacifico. Si può controllare il fatto che Zenone era forse non ignaro delle dottrine di Arcesilao [I,8,25] ma che ignorava quelle di Platone, da ciò che egli scrisse contro quest’ultimo. E così fece anch’egli l’opposto, colpendo chi non conosceva, oltraggiando chi non bisognava oltraggiare in modo tanto infame e vergognoso, e facendo tutto ciò in modo più scellerato di quanto non convenisse ad un cinico. […] Del resto mostrò di avere preso le distanze da Arcesilao non per disinteresse, giacché rivolse [I,8,30] ‘la grande bocca dell’amara guerra’ da un’altra parte, cioè contro Platone, o per ignoranza o per timore delle dottrine di quello. Ma di ciò che Zenone scrisse, né bene né rispettosamente, per smania di novità contro Platone, dirò forse un’altra volta. […] Arcesilao, conoscendo con chiarezza che Zenone gli stava dinnanzi come un competitore e un concorrente alla vittoria, demoliva tutte le sue tesi [I,8,35] e non si peritava di nulla. […] Quando Arcesilao scorse che questo principio, formulato per primo da Zenone con il nome di ‘rappresentazione catalettica’, [I,9,1] godeva di buoni consensi in Atene, usò ogni accorgimento per confutarlo. Allora Zenone, che si trovava in posizione più debole, non potendo accontentarsi di starsene quieto, lasciò perdere Arcesilao pur avendo molte cose da dire (ma non volle, o forse fu piuttosto altrimenti), e si mise a [I,9,5] combattere contro un’ombra, ossia contro Platone che non era più tra i vivi. E dall’alto del suo carro, disturbava con schiamazzi tutto il corteo dei ragionamenti di Platone, visto che non c’era lui a difenderli e che a nessun altro interessava di parlare in sua difesa. E se la cose fosse interessata ad Arcesilao, Zenone credeva comunque di guadagnarci, perché avrebbe distornato Arcesilao dagli attacchi contro di sé.

SVF I, 13

[1] Cicerone ‘Academica’ I, 34. Zenone e Arcesilao erano stati assidui auditori di Polemone. Ma Zenone, più anziano di Arcesilao, [I,9,10] dialettico sottilissimo e pensatore acutissimo qual era, cercò di apportare correzioni alla dottrina.

[2] ‘De finibus’ IV, 3. Pertanto Zenone, dopo essere stato discepolo di Polemone, non aveva alcun motivo di dissentire da lui e dai predecessori.

SVF I, 14

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ XII, 7, 9. La colletta per Socrate consisteva in quanto gli serviva per il vivere quotidiano, mentre [I,9,15] Zenone, Cleante e Crisippo accettarono una paga dai discepoli.

SVF I, 15

Seneca ‘Ad Helviam’ 12, 4. È ben attestato che Omero ebbe un solo schiavo, Platone tre, e che Zenone, dal quale ebbe inizio la rigorosa e virile filosofia degli Stoici, non ne ebbe nessuno.

SVF I, 16

Seneca ‘De beneficiis’ IV, XXXIX, 1. [I,9,20] “Perché dunque”, obiettò quello, “il vostro Zenone, dopo avere promesso ad un tale un prestito di cinquecento denari, pur avendo avuto le prove della inaffidabilità di costui e nonostante gli amici cercassero di persuaderlo a non concederlo, glielo concesse comunque per la sola ragione che glielo aveva promesso?

SVF I, 17

Temistio ‘Orationes’ XXI, p. 252b Hard. Quando condonasti il debito a chi aveva preso del denaro in prestito, [I,9,25] proprio come fece Zenone di Cizio?

SVF I, 18

Sopatro phlyacogr. presso Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 160e-f.

‘Dopo avere ascoltato filosofeggiare e filologheggiare,

e che voi scegliete solertemente di mostrare fortezza,

prenderò da voi la prova di tali principi,

[I,9,30] in primo luogo affumicandovi. E se poi vedrò

che qualcuno di voi mentre arrostisce contrae la gamba,

costui sarà venduto per l’esportazione

ad un padrone Zenoniano, poiché ignora la saggezza’.

SVF I, 19

Eliano ‘Varia Historia’ IX, 33. Un adolescente di Eretria frequentò per parecchio tempo la scuola [I,9,35] di Zenone, finché giunse all’età adulta. Tornò in seguito ad Eretria e suo padre gli chiese che cosa di sapiente avesse imparato in così grande lasso di tempo. Egli rispose che glielo avrebbe mostrato, e non molto tempo dopo compì questo gesto. Poiché il padre era esasperato con lui e infine lo percuoteva, il giovane rimase tranquillo e si fece forza, [I,10,1] dicendogli di avere appunto imparato questo, ossia a sopportare l’ira dei padri e a non fremere.

SVF I, 20

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 22. Deciso a non tollerare gli approcci di un giovanotto di Rodi, avvenente e facoltoso ma altrimenti una nullità, Zenone lo fece sedere [I,10,5] in un primo tempo sui gradini pieni di polvere, così che si insudiciasse il mantellino, e poi nello spazio riservato ai poveracci, così che si strusciasse ai loro cenci. Finalmente il giovanotto se ne partì.

SVF I, 21

[1] Timone di Fliunte ‘Silli’ Fr. XX W.

‘Nel mentre aggregava un nugolo di gentaglia miserabile, di tutti quanti

[I,10,10] i più poveracci, e di quelli in città i mortali con la testa più leggera’.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 16. Come anche Timone afferma, gli stavano d’attorno individui nudi e sozzi:

‘Nel mentre <Zenone> aggregava un nugolo di gentaglia miserabile, di tutti quanti

i più poveracci, e di quelli in città i mortali con la testa più leggera’.

SVF I, 22

[1] Timone di Fliunte ‘Silli’ Fr. VIII W.

‘E vidi una vecchiarda golosa fenicia, d’una vanità ombrosa,

[I,10,15] vogliosa di tutto; le colava il paniere <dei denti>

perché piccolo, e aveva una mente da meno di una parola insensata’.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 15. <Zenone> era un ricercatore ed un esatto ragionatore su tutto, laonde Timone nei suoi ‘Silli’ dice così:

‘E vidi una vecchiarda golosa fenicia, d’una vanità ombrosa,

[I,10,15] vogliosa di tutto; le colava il paniere <dei denti>

perché piccolo, e aveva una mente da meno di una parola insensata’.

SVF I, 23

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 603d. [I,10,20] Il citaredo Aristocle era l’amato del re Antigono e su di lui Antigono di Caristo, nel libro sulla ‘Vita di Zenone’, scrive così: “Il re Antigono soleva sopraggiungere a far baldoria con Zenone e una volta, di giorno, venendo da un certo simposio, fece un salto su da Zenone e lo persuase ad andare con lui a fare baldoria dal citaredo [I,10,25] Aristocle, di cui il re era amantissimo”.

SVF I, 24

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. IX. Nei confronti di Arcesilao, come verso un suo pari ed un suo simile, l’ambizione di vittoria era per Zenone cosa piacevole e grata, ed egli ammirava e onorava immensamente Antigono. […] [I,10,30] […]

SVF I, 25

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. VIII. [….] farebbe quel che fa con i ragazzi che ciarlano e ci vengono incontro sulla porta. Poiché è assai incerto sul dove metterti, quasi quasi dice che ti istituirebbe ‘portinaio di bronzo’. E così [I,10,35] male questo non sarà per ammonire i falsificatori <di chiavi>”. Allora Zenone, volgendo lo sguardo agli ospiti asserì: “Che dite […]

SVF I, 26

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034a. [I,11,1] Zenone e Cleante non vollero diventare Ateniesi per non sembrare ingiusti verso la loro patria. Il fatto che, se costoro si sono comportati bene, allora bene non fece Crisippo ad iscriversi per tale cittadinanza, sia pretermesso.

SVF I, 27

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1033b. [I,11,5] Capita pertanto che molto sia stato scritto proprio da Zenone, pur nella sua concisione; molto da Cleante e ancora di più da Crisippo, sulla costituzione politica, sull’essere comandati e sul comandare, sull’amministrare la giustizia, sul parlare in pubblico. Ma nelle vite di nessuno di costoro è dato trovare un incarico di comando militare, una proposta di legge, un passaggio nell’Assemblea deliberativa, [I,11,10] la difesa di una causa davanti ai giudici, una campagna militare in difesa della patria, un’ambasceria, un donativo. Invece, in terra straniera, gustando ogni agio come fosse del loto, trascorsero tutta la vita, non breve ma lunghissima, tra i discorsi, i libri e le passeggiate. Ed è indubbio che vissero in un modo che è ammissibile con le dottrine professate e scritte da altri, più che da loro.

[2] p. 1033e. [I,11,15] Chi più di Crisippo, di Cleante, di Diogene, di Zenone e di Antipatro giunse alla tarda vecchiaia facendo questo tipo di vita dedicata allo studio? Loro che si lasciarono dietro le loro patrie senza incolparle di nulla ma, per passarsela in tranquillità a oziare e ad erudirsi nell’Odeon o allo Zostere?

SVF I, 28

[1] Dione Crisostomo ‘Orationes’ XLVII, 2. [I,11,20] Dapprima io mi stupivo di quei filosofi che si lasciano dietro le loro patrie senza che nulla li costringa a ciò, ma per la scelta di vivere presso altre genti; pur dichiarando che si deve onorare e far gran conto della patria e che partecipare agli affari pubblici e interessarsi dello Stato [I,11,25] è cosa, per l’uomo, secondo natura. Intendo riferirmi a Zenone, a Crisippo, a Cleante, nessuno dei quali rimase in patria, pur affermando queste cose.

[2] Seneca ‘De tranquillitate animi’ 1, 10. Senza esitare e con determinazione io seguo Zenone, Cleante e Crisippo, nessuno dei quali accedette a cariche pubbliche, e tuttavia nessuno dei quali si rifiutò di indirizzarvi altre persone.

SVF I, 29

Epitteto ‘Diatribe’ III, 21, 19. (Il dio) consigliava a Socrate [I,11,30] di avere l’ufficio di contestatore, a Diogene quello di re e di censore, a Zenone quello di insegnante e di teorico.

SVF I, 30

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. I. […] Onde chi cerca un segno della disposizione dell’animo suo (di Zenone) non potrebbe prenderne uno migliore [I,11,35] che quello dei giudizi che egli aveva sul bello e sul brutto, e similmente sul bene e sul male; giudizi che egli, dopo averli analizzati a fondo, inferì da questi. Infatti l’Epicureo Apollodoro, in 2 libri…. […] [I,11,40] […]

SVF I, 31

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. III. [I,12,1] […] l’epigrafe ‘Sul capo della mia Scuola’ e un’altra. Egli si è intrattenuto su questi argomenti per la maggior parte del libro, come rammentavamo in precedenza. Sul privato, ha scritto quel che voleva lui, e perciò che Zenone raramente si dava [I,12,5] alle compiacenze a causa della sua debolezza fisica, come in ….

SVF I, 32

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. VI. [I,12,10] […] ai fichi, e sopportava volentieri e di buona voglia i bagni di sole. E sarebbe degno di registrare ciò in un inno e addizionarvi la pubblica sepoltura….

SVF I, 32a

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ IX, p. 370c. Non è un paradosso se alcuni giuravano ‘per il cavolo’, [I,12,15] dal momento che Zenone di Cizio, il fondatore della Stoa, imitando il giuramento di Socrate ‘per il cane’ giurava lui stesso ‘per il cappero’, come afferma Empedo nei ‘Detti memorabili’.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 32. Dicono che solesse giurare ‘sul cappero’, proprio come Socrate ‘sul cane’.

SVF I, 33

Galeno ‘De differentia pulsuum’ III, 1, Vol. VIII, p. 642 K. [I,12,20] I principi provenienti dalla Stoa hanno il beneplacito di tutti questi <medici> chiamati ‘Pneumatici’. Siccome Crisippo li ha abituati alla controversia sui nomi, essi non si peritano a fare ciò anche con i termini medici. E Zenone di Cizio, ancora prima, ebbe l’audacia di innovare e di andare oltre [I,12,25] le usanze greche in fatto di nomi.

SVF I, 34

[1] Cicerone ‘De finibus’ III, 5. Per quanto gli Stoici, tra tutti i filosofi, furono quelli che introdussero più novità, Zenone, il loro capo, non fu tanto inventore di concetti quanto di nuove parole.

[2] 15. Se fu lecito a Zenone, ogni volta che scopriva qualcosa di nuovo, imporle anche un nome mai sentito prima, [I,12,30] perché lo stesso non dovrebbe essere concesso a Catone?

SVF I, 35

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ V, 34. Zenone di Cizio, uno straniero, indegno fabbricatore di parole, sembra che si sia infiltrato in un’antica filosofia.

SVF I, 36

Luciano ‘Macrobìoi’ 19. [I,13,1] Zenone, capostipite della filosofia Stoica, visse novantotto anni. Si racconta che mentre entrava nell’assemblea incespicò ed esclamò: “Perché mi chiami con alte grida?” Poi rincasò e pose fine alla sua vita astenendosi dal cibo.

SVF I, 36a

Filodemo ‘De Stoicis’ col IV, Neap. (= 3 Oxf.) [I,13,5] Durante l’Arcontato di Clearco ad Atene, su di lui ha scritto […] nella lettera includente le notizie su Antifonte […] che egli aveva [I,13,10] allora sessantadue anni. Dimostrerà pertanto che Zenone visse pressoché centouno anni. [I,13,15] Infatti dall’Arcontato di Clearco a quello di Arrenide durante il quale, nel mese di Sciroforione, Zenone morì, passano trentanove anni […] [I,13,20] […] [I,13,25]

SVF I, 36b

Pausania ‘Greciae descriptio’ I, 29, 15. Qui [nell’Accademia] giacciono anche [le tombe di] Zenone, figlio di Mnasea e di Crisippo di Soli.

SVF I, 37

Strabone ‘Geographia’ XXVI, p. 757. [Tra i filosofi famosi] di Tiro era Antipatro e, poco prima [I,13,30] dei miei tempi, Apollodoro, il quale pubblicò una tavola dei filosofi della scuola di Zenone e dei loro libri.

SVF I, 38

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 36-38. I discepoli di Zenone furono numerosi, ma i più accreditati furono Persèo di Cizio, figlio di Demetrio. […] Aristone di Chio, figlio di Milziade, quello che introdusse il concetto di ‘indifferente’. [I,13,35] Erillo di Calcedonia, quello che affermò come sommo bene la ‘scienza’. Dionisio il Ritrattatore, quello che affermò come sommo bene il piacere fisico; giacché, a causa di una fortissima oftalmia si peritò a chiamare ancora ‘indifferente’ il dolore fisico. Dionisio era di Eraclea. Sfero del Bosforo. Cleante di Asso, figlio di Fania, il successore [di Zenone] alla guida della Scuola; quello che [I,14,1] era assimilato alle tavolette per scrivere ricoperte di cera dura, sulle quali si scrive appena appena ma che serbano a dovere gli scritti. Dopo la morte di Zenone, Sfero del Bosforo fu discepolo di Cleante. […] Secondo Ippoboto erano discepoli di Zenone anche i seguenti: [I,14,5] Filonide di Tebe, Callippo di Corinto, Posidonio di Alessandria, Atenodoro di Soli, Zenone di Sidone.

SVF I, 39

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. X 2. Cleante di Asso, figlio di Fania, che assunse la direzione della Scuola [alla morte di Zenone]. Dionisio di Eraclea, il Ritrattatore, figlio di Teofanto, [I,14,10] come scrive Antigono. Aristone di Chio, figlio di Milziade, che dichiarò sommo bene ‘l’indifferenza’, ma che per il resto si crede abbia seguito il maestro.

[2] Col. XI 2. [I,14,15] Zenone di Sidone, anche detto […] come anche Crisippo, nel libro ‘Sull’ignoto…

[3] Col. XII Atenodoro di Soli […] Ecateo, figlio di Spintaro, [I,14,20] restituì….

SVF I, 40

Origene ‘Contra Celsum’ III, 54, Vol. I, p. 250, 3 K. A meno che anche noi siamo intenzionati a incolpare dei filosofi che hanno spronato alla virtù gente capace di rovinare una casa, come Pitagora fece con Zamolside e Zenone con Persèo?

SVF I, 40a

Plutarco ‘Vita Cleomenis’ 2. Sfero [I,14,25] era stato uno dei primi discepoli di Zenone di Cizio.

SVF I, 41

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 4. Oltre la ‘Repubblica’, [Zenone] scrisse anche le seguenti opere: ‘Sulla vita secondo natura’; ‘Sull’impulso o sulla natura umana’; [I,14,30] ‘Sulle passioni’; ‘Sul doveroso’; ‘Sulla legge’; ‘Sull’educazione greca’; ‘Sulla vista’; [I,14,35] ‘Sull’intero’; ‘Sui segni’; ‘Questioni Pitagoriche’; ‘Universali’; [I,15,1] ‘Sulle elocuzioni’; ‘Problemi Omerici (cinque libri)’; ‘Sull’ascolto della poesia’. Sono sue anche: ‘L’arte’; [I,15,5] ‘Soluzioni e Confutazioni (2 libri)’; ‘Detti Etici memorabili di Cratete’.

SVF I, 42

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. IV. [….] di coloro che hanno gettato vergogna e sospetto non solo su quest’opera, dicendo che essa è stata cucita insieme [da Zenone] [I,15,10] al modo che altrove si mostrerà a dito….

SVF I, 43

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 9, p. 680 Pott. [I,15,15] Anche gli Stoici dicono che dal primo di loro, ossia da Zenone, furono scritte alcune opere che essi non consentono facilmente di leggere a quei discepoli che non abbiano in precedenza dato prova di saper fare una genuina vita filosofica.

SVF I, 44

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ XII, I, 18. Seppure a questi uomini [I,15,20] mancò la virtù somma, a chi chiede se furono degli oratori risponderò come risponderebbero gli Stoici alla domanda se Zenone, Cleante e lo stesso Crisippo fossero sapienti: furono grand’uomini degni di venerazione, e tuttavia ancora non raggiunsero la somma perfezione della natura umana.

  1. Frammenti e massime di Zenone [I,15,25]

Frammenti n. 45-46

SVF I, 45

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 39. <Gli Stoici affermano che> la ragione insita nel cosmo è, secondo filosofia, tripartita. Una sua parte, infatti, è qualcosa di fisico, un’altra di etico e un’altra di logico. Così per primo la suddivise Zenone di Cizio nel suo libro ‘Sulla ragione’.

Cicerone ‘De finibus’ IV, 4. Gli antichi Accademici avevano suddiviso la filosofia [I,15,30] in tre parti, e noi vediamo che questa partizione è conservata da Zenone.

SVF I, 46

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 40. [I,16,1] Altri invece posizionano per prima la logica, per seconda la fisica e per terza l’etica. Tra questi vi è Zenone, nel suo libro ‘Sulla ragione’.

  1. Logica [I,16,5]

Frammenti n. 47-51

SVF I, 47

Cicerone ‘De finibus’ IV, 9. Di questi argomenti <logici>, seppure Crisippo trattò con ampiezza, Zenone si è occupato assai meno dei filosofi antichi.

SVF I, 48

Epitteto ‘Diatribe’ I, 17, 10-12. La logica […] è atta a [I,16,10] distinguere e ad esaminare le altre cose e, come uno direbbe, a misurarle e pesarle. Chi dice questo? Solamente Crisippo, Zenone e Cleante? Antistene non lo dice?

SVF I, 49

Stobeo ‘Eclogae’ II, 2, 12, p. 22, 12 W. Zenone soleva far rassomigliare le ‘arti dei dialettici’ ai giusti strumenti di misura, che però misurano non il frumento o [I,16,15] qualcos’altro di pregiato bensì lo strame e il letame.

SVF I, 50

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034f. Zenone soleva sciogliere i sofismi e intimare ai discepoli di assumere la dialettica come un’arte capace di fare ciò.

SVF I, 51

Epitteto ‘Diatribe’ IV, 8, 12. […] Del filosofo […] quali sono i principi generali? […] quelli che [I,16,20] dice Zenone ossia riconoscere gli elementi del discorso, qual è la natura di ciascuno di essi, come s’acconciano gli uni agli altri e quanto a questi è conseguente.

§ 1.Struttura della conoscenza: rappresentazione, sensazione, criterio di verità

 Frammenti n. 52-73

SVF I, 52

Cicerone ‘Academica’ II, 66. Arcesilao, [I,16,25] con l’assenso di Zenone, ritiene che la massima forza del saggio consista nel badare a non farsi sedurre e nel guardarsi dallo sbagliare.

SVF I, 53

Cicerone ‘Academica’ I, 42. <Zenone> rimuoveva dall’ambito della virtù e della saggezza l’errore, la precipitazione nel giudizio, l’ignoranza, l’opinione, l’approssimazione, [I,16,30] insomma tutto ciò che è estraneo ad un saldo e costante assenso.

SVF I, 54

[1] Cicerone ‘Pro Murena’ 61. Il saggio non opina, di nulla si pente, in nulla sbaglia, mai cambia avviso.

[2] ‘Academica’ II, 113. Il saggio nulla deve opinare, […] [I,17,1] ma nessuna di queste due posizioni fu difesa con serio impegno prima di Zenone.

[3] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 4. Pertanto se né si può conoscere qualcosa, come insegnò Socrate, né è d’uopo opinare, come insegnò Zenone, si toglie di mezzo tutta la filosofia.

[4] Agostino ‘Contra Academicos’ II, 11 Avendo essi accettato dallo medesimo Zenone [I,17,5] il principio che nulla è più vergognoso dell’opinare.

[5] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 11m, p. 112, 1 W. <Gli Stoici affermano che> il saggio nulla concepisce debolmente, ma piuttosto con sicurezza e con saldezza, e che perciò neppure opina….

[6] p. 113, 5. […] e concepiscono che chi ha accortezza non si pente […] non muta in alcun modo giudizio, non [I,17,10] ritratta e non inciampa.

[7] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. E ancora, che il sapiente non opinerà.

SVF I, 55

Cicerone ‘Academica’ I, 40. In quella terza parte della filosofia <Zenone> apportò cospicui cambiamenti, in primo luogo introducendo certe novità nel campo stesso degli organi di senso, che egli valutò capaci di combinarsi con un certo stimolo [I,17,15] proveniente dall’esterno, generando quello che egli chiamò φαντασία e che noi possiamo denominare ‘rappresentazione’.

SVF I, 56

Numenio presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XIV, 6, 13. Quando Arcesilao scorse che questo principio, formulato per primo da Zenone con il nome di ‘rappresentazione catalettica’, [I,9,1] godeva di buoni consensi in Atene, usò ogni accorgimento per confutarlo.

SVF I, 57

Galeno ‘De optima doctrina’ 1, Vol. I, p. 41 K. [I,17,20] […] vitupera i vocaboli Stoici: ‘catalettico’, ‘catalessi’, ‘rappresentazione catalettica’, ‘acatalettico’, ‘acatalessi’, come poco attici.

SVF I, 58

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 236. Qualora Zenone affermi che la rappresentazione è un’impronta nell’animo, bisogna intendere [per ‘animo’ non tutto l’animo, ma quella sua parte …. chiamata ‘egemonico’].

[2] VII, 230. [I,17,25] <Crisippo> dunque sottintende che Zenone usi il termine ‘impronta’ nel senso di ‘alterazione’.

SVF I, 59

[1] Cicerone ‘Academica’ II, 18. Negando che possa esistere qualcosa che sia comprensibile, […] ma se ci fosse sarebbe, come lo definisce Zenone, una certa rappresentazione ossia φαντασία […] impressa e prodotta da ciò da cui deriva [I,17,30] e che pertanto non potrebbe essere simile a ciò da cui non deriva; e questa definizione di Zenone sembra assolutamente ineccepibile […] ed è negando questo che Filone infirma es elimina […]

[2] II, 77. Poniamo che <Arcesilao> chiedesse a Zenone cosa accadrebbe se il saggio non potesse né percepire qualcosa né opinare. [I,17,35] Zenone, io credo, risponderebbe che il saggio non opinerà alcunché, poiché non c’è nulla che egli possa percepire. E cos’è che non c’è? La rappresentazione, io credo. E quale sorta di cosa è la rappresentazione? Allora <Zenone> la definirebbe così: la rappresentazione è l’impressione, il contrassegno, l’impronta che viene da ciò che esiste realmente e che gli è conforme. Dopo di che <Arcesilao> gli avrebbe chiesto se la rappresentazione vera e quella falsa abbiano identico aspetto. [I,18,1] Al che Zenone, con la sua acutezza, avrebbe risposto che non potrebbe esserci alcuna rappresentazione percepibile, se si ammette che la percezione di ciò che esiste non è diversa da quella di ciò che non esiste. Arcesilao fu d’accordo che questa aggiunta alla definizione era corretta.

[3] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 248. [I,18,5] […] Rappresentazione catalettica è quella rappresentazione che nasce da un oggetto esistente, che è stata ben ricalcata e sigillata in conformità all’esistente stesso ed è quale non potrebbe nascere da un oggetto inesistente.

[4]Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 50. [I,18,10] […. ben ricalcata] e ben modellata….

[5] Agostino ‘Contra Academicos’ III, 9, 18. Ma vediamo quel che dice Zenone. Certamente può essere compresa e percepita solo quella rappresentazione che non ha segni in comune con il falso.

SVF I, 60

Cicerone ‘Academica’ I, 41. <Zenone> [I,18,15] concedeva fiducia non a tutte le rappresentazioni ma solo a quelle che recassero in sé l’intrinseca evidenza degli oggetti visti, e questa rappresentazione discernibile per la sua intrinseca evidenza la chiamava ‘comprensibile’; me lo concedete questo termine? Senza dubbio, disse <Attico>, in quale altro modo potresti tradurre καταληπτόν ? La rappresentazione accettata ed approvata, la chiamava poi ‘comprensione’, [I,18,20] per analogia con quelle realtà che si prendono con le mani. Ecco da dove viene questo termine, che prima di allora non era mai stato usato in tale accezione. Abitualmente egli faceva uso di parecchie parole nuove; e d’altra parte diceva cose nuove. Chiamava sensazione ciò che è colto dai sensi; e se ciò era appreso in maniera tale da non poter essere sradicato dal ragionamento, lo chiamava scienza, [I,18,25] altrimenti non-scienza. Da quest’ultima trae origine anche l’opinione, che è malferma ed ha tratti in comune con ciò che è falso o non conosciuto. Fra la scienza e la non-scienza, egli collocava quella comprensione di cui ho detto, e la annoverava tra le cose né buone né cattive; dicendo che solo ad essa si doveva dare credibilità. Dal che si capisce anche che egli dava fiducia ai sensi, per il fatto che, [I,18,30] come ho già detto, la comprensione che origina dai sensi per lui era vera ed affidabile, non perché esaurisse tutti i caratteri che sono in una cosa, ma perché non perde alcun dato di quelli che sono di sua pertinenza: ragione per cui la natura ce l’ha data come principio e criterio della scienza. In seguito, dalla comprensione si imprimono negli animi le nozioni delle cose, grazie alle quali si aprirebbero [I,18,35] non solo i principi primi ma anche le vie maestre alla ricerca razionale. Egli dunque rimuoveva dall’ambito della virtù e della saggezza l’errore, la precipitazione nel giudizio, l’ignoranza, l’opinione, l’approssimazione, insomma tutto ciò che è estraneo ad un saldo e costante assenso.

SVF I, 61

Cicerone ‘Academica’ I, 40. A queste rappresentazioni [I,19,1] che in parte provengono dai sensi <Zenone> aggiunge l’assenso dell’animo, assenso che egli vuole sia posto in noi e volontario.

SVF I, 62

[1] Cicerone ‘Academica’ I, 41. Chiamava sensazione [I,19,5] ciò che è colto dai sensi.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 52. <Gli Stoici> chiamano ‘sensazione’ [lo pneuma che partendo dall’egemonico pervade i sensi] e anche l’apprensione che avviene attraverso di essi.

SVF I, 63

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 355. Epicuro disse che ogni oggetto sensibilmente percepito è saldamente esistente, mentre lo stoico Zenone utilizzava la diairesi […]

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 70. Arcesilao incalzava Zenone perché, mentre egli [I,19,10] sosteneva che tutte le sensazioni sono false, secondo Zenone non tutte lo sono ma soltanto alcune.

[3] ‘Academica’ I, 41. <Zenone> concedeva fiducia non a tutte le rappresentazioni.

SVF I, 64

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 373. [Cleante aveva affermato che la ‘rappresentazione’ è un’impronta [I,19,15] fatta di rientranze e di sporgenze]. Ma se è così <dice Crisippo>, allora è abolita la memoria in quanto tesaurizzazione di rappresentazioni [ed è anche abolita ogni arte].

SVF I, 65

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 136, 21 W. Di Zenone e dei suoi seguaci. [I,19,20] Essi affermano che le concettualizzazioni sono né ‘qualcosa’ né ‘qualità’, ma è come se fossero certe quali produzioni fantasmatiche dell’animo, quelle che gli antichi designavano col nome di ‘idee’. Le idee, infatti, sono enti che ricadono nel novero delle concettualizzazioni: per esempio, le idee di ‘uomini’, di ‘cavalli’ e, per dirlo più genericamente, di tutte le creature e tutte quelle altre cose delle quali si dice che esistano idee. I filosofi Stoici affermano che queste entità [I,19,25] non hanno un’esistenza propria e che esse partecipano di noi come i casi partecipano di quelli che essi chiamano ‘nomi’.

[2] Aezio ‘Placita’ I, 10, 5. Gli Stoici seguaci di Zenone affermarono che le idee sono nostre concettualizzazioni.

[3] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 61. La concettualizzazione è una produzione fantasmatica dell’intelletto, la quale è né un ‘qualcosa’ né una ‘qualità’, ma è come se fosse un ‘qualcosa’ e una ‘qualità’, [I,19,30] al modo per cui nasce l’impressione di un cavallo anche se il cavallo non c’è.

SVF I, 66

Cicerone ‘Academica’ II, 144. Zenone infatti nega […] che voi sappiate qualcosa. “Com’è possibile?”, dirai tu, “noi, infatti, difendiamo la tesi che anche l’insipiente comprende molte cose. Voi invece negate che qualcuno, al di fuori del saggio, conosca qualcosa”. Zenone traduceva questo in un gesto. Infatti quando mostrava la palma della mano con le dita aperte, diceva: [I,19,35] “Ecco la rappresentazione”. Poi, con le dita un po’ piegate, diceva: “Ecco l’assenso”. Infine, col pugno completamente chiuso, affermava che quella era [I,20,1] la ‘comprensione’. Ed è da questa similitudine che diede il nome ‘κατάληψιν’ ad una cosa prima inesistente. In seguito avvicinava la mano sinistra, e con essa stringendo nel dovuto modo e con forza il pugno, diceva che questa era la scienza, di cui nessuno, tranne il saggio, [I,20,5] ha il pieno possesso.

SVF I, 67

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 151. L’opinione è l’assenso debole e fallace.

SVF I, 68

[1] Cicerone ‘Academica’ I, 41. Se ciò era appreso in maniera tale da non poter essere sradicato dal ragionamento, lo chiamava scienza, altrimenti non-scienza.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 73, 19 W. [I,20,10] La scienza è apprensione sicura la cui immutabilità è a prova di ragionamento.

[3] p. 111, 20. L’ignoranza è un assenso volubile e debole.

[4] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 151. La scienza è apprensione sicura, salda e inamovibile ad opera di un ragionamento.

[5] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 47. E chiamano la [I,20,15] scienza stessa o apprensione sicura oppure postura dell’animo la cui immutabilità, nell’accettazione delle rappresentazioni, è a prova di ragionamento.

SVF I, 69

[1] Cicerone ‘Academica’ I, 42. Fra la scienza e la non-scienza, egli collocava la comprensione, […] e la annoverava tra le cose né buone né cattive.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 151. La scienza, l’opinione e l’apprensione, la quale è posizionata nella terra di confine [I,20,20] tra le due […] l’apprensione sta frammezzo a queste […]

[3] VII, 153 Arcesilao […] il quale mostra che l’apprensione non è affatto un criterio di verità che stia frammezzo alla scienza e all’opinione.

SVF I, 70

Calvisio Tauro presso Erone ‘Geometria’ p. 275 Hultsch. Esiste una memoria di [I,20,25] Tauro di Sidone sulla ‘Repubblica’ di Platone, nella quale vi sono queste affermazioni: Platone definiva la geometria […] Aristotele […] Zenone come postura nell’accettazione delle rappresentazioni la cui immutabilità è a prova di ragionamento.

SVF I, 71

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. <Zenone> soleva dire che nulla è più estraneo all’apprensione delle scienze della presunzione.

SVF I, 72

‘Scholia’ in Dyonis. Thrac. p. 118, 15-16 Hilgard. [I,20,30] Come manifesta anche Zenone quando dice: “L’arte è una postura a fare in modo sistemico”, cioè a fare qualcosa seguendo una strada definita e con metodo. [I,20,35] […] [I,21,1]

SVF I, 73

[1] Olimpiodoro ‘In Platonis Gorgiam’ p. 63, 11 Norvin. Zenone afferma che [I,21,5] l’arte è un insieme formato da apprensioni allenate in vista di un fine profittevole nelle cose della vita.

[2] Luciano ‘De parasito’ c. 4. L’arte è, come io ricordo di aver sentito dire da un certo sapiente, un insieme formato da apprensioni allenate in vista di un fine profittevole nelle cose della vita.

[3] ‘Scholia’ ad Aristoph. Nub. 317. Così noi definiamo l’arte, ossia un insieme [I,21,10] formato da apprensioni allenate, e quel che segue.

[4] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ II, 10. Pertanto ogni arte è un insieme formato da apprensioni allenate e che prendono riferimento da un fine profittevole alla vita.

[5] Sesto Empirico (vari altri luoghi). Gli Stoici definiscono [I,21,15] l’arte in questo modo: l’arte è un insieme inerente all’animo e formato da apprensioni allenate, eccetera.

[6] Quintiliano ‘Institutio oratoria’ II, 17, 41. Questa è la definizione (di ‘arte’) che gode di quasi universale approvazione: l’arte consiste di percezioni concordanti e cooperanti ad un fine utile alla vita.

[7] Cicerone ap. Diomed. II, p. 421 K. L’arte è una costruzione di percezioni ben esercitate e pertinenti ad un unico [I,21,20] fine utile alla vita.

[8] ‘Academica’ II, 22. Quale arte ci può essere se non quella che consta non di una o due ma di molte percezioni dell’animo?

[9] ‘De finibus’ III, 18. Le arti constano di cognizioni e contengono in sé un elemento fatto di ragione e metodo.

[10] ‘De natura deorum’ II, 148. A partire dalle percezioni, collegandole tra di loro e comparandole, costituiamo anche le arti, [I,21,25] che in parte soddisfano delle necessità pratiche.

§ 2. Retorica

 Frammenti n. 74-84

SVF I, 74

[1] Eustazio ‘In Iliadem’ XVIII, v. 506, p. 1158, 37 Bekker. Quando Omero parla in questo verso di ‘araldi le cui voci risuonano nell’aria’, anticipa la definizione di Zenone [I,21,30] quando afferma: ‘La voce è aria percossa’.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 55. La voce è aria percossa.

SVF I, 75

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ II, 7. Onde anche Zenone di Cizio, quando gli fu chiesto in che cosa si differenzi la dialettica dalla retorica, racchiuse la mano e poi di nuovo la dispiegò dicendo: “A questo”. Con la chiusura della mano, infatti, egli dava una forma [I,21,35] al peculiare carattere atticciato e conciso della dialettica, mentre con il suo dispiegamento e la distensione delle dita alludeva all’ampiezza della facoltà retorica.

[2] Cicerone ‘De finibus’ II, 17. “Questo è il pensiero dello Stoico Zenone”, aggiunsi. “Come già in precedenza aveva sostenuto Aristotele, [I,22,1] egli riteneva che tutta l’eloquenza si dividesse in due parti: la retorica, che era simile al palmo della mano; e la dialettica, che era simile al pugno; giacché i retori si esprimono in uno stile esteso, mentre i dialettici con più concisione”.

[3] ‘Orator’ XXXII, 113. Un certo Zenone, dal quale trae origine la filosofia degli Stoici, era solito dimostrare con la mano quale sia la differenza tra queste arti. [I,22,5] Infatti quando stringeva le dita e faceva il pugno, affermava che così era la dialettica; quando invece le distendeva e apriva la mano, diceva che l’eloquenza era simile al palmo di quella.

[4] Quintiliano ‘Institutio oratoria’ II, 20, 7. Pertanto ci son due generi di discorso, uno scorrevole che si chiama retorico, l’altro conciso che si chiama dialettico. Zenone vedeva una stretta relazione tra i due generi e diceva che la dialettica, [I,22,10] era simile alla mano chiusa a pugno, la retorica alla mano aperta.

SVF I, 76

Cicerone ‘De finibus’ IV, 7. Zenone e i suoi discepoli o non seppero o non vollero perseguire tutto questo genere di studi <concernenti la politica> e, comunque sia, lo abbandonarono.

SVF I, 77

[1] Cicerone ‘Epistulae ad familiares’ IX, 21, 1. Nell’esprimermi io amo [I,22,15] il perbenismo, tu invece la piena libertà di parola. E proprio questa piacque a Zenone, uomo certamente acuto, per Ercole, anche se tra lui e la nostra Accademia ci sono contrasti feroci. Ma, come dico, agli Stoici piace chiamare le cose con il loro nome; ed essi argomentano che nulla c’è di osceno o di indecente nelle parole che si pronunciano. Infatti, se ci fosse qualcosa di obbrobrioso nelle parole oscene, tale obbrobrio starebbe o nella cosa che si riferisce oppure nella parola che si impiega per riferirla: [I,22,20] non si dà una terza possibilità. Ma esso non è nella cosa, giacché il fatto in sé è esposto non solo nelle commedie […] ma anche nelle tragedie […]. Tu vedi dunque che, pur rimanendo identica la cosa significata, poiché le parole usate per significarla non sono indecenti, nulla appare indecente. Dunque l’indecenza non è nella cosa, e ancor meno è nelle parole. Infatti se ciò [I,22,25] che è significato dalla parola non è indecente, la parolache lo significa non può essere indecente […]. Pertanto se non è nella parola; e se d’altra parte ho mostrato che neanche è nella cosa, ne consegue che l’indecenza è da nessuna parte […]. Eccoti in poche parole la posizione della scuola Stoica: <il saggio chiamerà pane il pane> ὁ σοφὸς εὐθυρρημονήσει […]. Io osservo il perbenismo nel parlare. Pertanto ti ho scritto con parole velate quello che gli Stoici dicono con parole del tutto esplicite; [I,22,30] e tuttavia essi sostengono che anche i peti e i rutti debbano essere egualmente liberi.

[2] ‘De officiis’ I, 128. Non bisogna dare retta ai Cinici o a quegli Stoici, se ce ne furono, molto vicini ai Cinici, che ci rimproverano e ci deridono perché consideriamo obbrobriose cose che in realtà non sono indecenti, e invece altre cose che sono indecenti le chiamiamo col loro nome. [I,22,35] Rubare, defraudare, commettere adulterio sono di fatto cose indecenti, ma non è osceno menzionarle per nome. Fare quel che serve per mettere al mondo dei figli è in realtà una cosa onesta, ma il dirlo a parole è osceno. E gli Stoici portano molti argomenti dello stesso tenore contro il perbenismo nel parlare.

SVF I, 78

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034e. [I,23,1] A chi diceva:

‘non emettere un verdetto prima di avere ascoltato il racconto di entrambi’,

Zenone faceva obiezione usando un ragionamento di questo genere. Se il primo imputato che parla ha provato il suo punto, non c’è bisogno di ascoltare la deposizione del secondo, giacché la ricerca [I,23,5] ha termine qui. Oppure non ha provato il suo punto. Ma allora questo è lo stesso che il non aver dato retta alla convocazione oppure all’avervi dato retta ma poi essersi messi a cinguettare. Dunque o il primo ha provato il suo punto oppure non l’ha provato, e pertanto non c’è bisogno di ascoltare la deposizione del secondo.

SVF I, 79

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ IV, 2, 117. Qui le parole dovranno essere esplicite e, come vuole Zenone, [I,23,10] cariche di senso.

SVF I, 80

Plutarco ‘Vita Phocionis’ V. Come diceva Zenone: “Il filosofo deve proferire le parole immergendole nella mente”.

SVF I, 81

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 18. Zenone era dell’avviso che i discorsi perfettamente rifiniti di coloro che parlano senza solecismi [I,23,15] fossero simili alle monete Alessandrine d’argento: di magnifico aspetto e dai contorni netti come quelle monete, ma non per questo migliori di altri. Zenone assimilava invece le espressioni di genere opposto alle tetradracme Attiche tagliate alla buona e grossolanamente, e che però hanno spesso più peso delle espressioni calligrafate.

SVF I, 82

[1] Zonara ‘Lexikon’, s.v. ‘Soloikizein’, col. 1662. [I,23,20] Solecizzare non è soltanto essere villani a voce e nel discorso ma anche, come dice Zenone, negli indumenti qualora ci s’abbigli da villani o si mangi sregolatamente o si cammini in modo scomposto.

[2] Cirillo ‘Lexikon’ ap. Cramer. Anecd. Paris IV, p. 190. Solecismo: quando si dialoga non a regola d’arte. Solecizzare non è soltanto [I,23,25] essere volgare nelle espressioni e nella voce, ma anche in ciò che si porta addosso; qualora ci s’abbigli da villani o si mangi sregolatamente o si cammini in modo scomposto, come dice Zenone di Cizio.

SVF I, 83

Anonimo ‘Ars rethorica’ Reth. Gr. I, p. 434, 23 Spengel. Zenone dice così: la narrazione è l’esposizione dei fatti contenuti nella premessa e che fluisce [I,23,30] da chi parla a chi gli sta di fronte.

SVF I, 84

Anonimo ‘Ars rethorica’ Reth. Gr. I, p. 447, 11 Spengel. Come dice Zenone: l’esempio è la menzione di una faccenda avvenuta per la sua somiglianza a ciò che si ricerca. [I,23,35]

  • Fisica I. [I,24,1]

I principi

La materia e lo pneuma – La causa – I corpi e i loro accidenti – Gli incorporei – Il tempo – Il vuoto

Frammenti n. 85-96

SVF I, 85

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 134. [I,24,5] <Gli Stoici> ritengono che i fondamenti del cosmo nella sua interezza siano due: quello che fa l’azione e quello che la sperimenta. Quello che sperimenta l’azione è la sostanza senza qualità, il materiale. Quello che fa l’azione è la ragione insita nel materiale, ossia la divinità. Poiché questa ragione sempiterna è connaturata a qualunque materiale, è essa a fabbricare tutte e singole le cose esistenti. È Zenone a porre questo principio nel suo libro ‘Sulla sostanza’.

[2] Aezio ‘Placita’ I, 3, 25 (Dox. Gr. p. 289). [I,24,10] Zenone di Cizio, figlio di Mnasea, pone a fondamenti: la divinità e il materiale. Di essi, la divinità è causa del fare, mentre il materiale è causa dello sperimentare l’azione. Gli elementi, poi, sono quattro.

[3] Achille ‘Isagoge’ 3, 1, p. 31 Maass. Zenone di Cizio chiama i fondamenti del cosmo nella sua interezza: la divinità e il materiale. Egli dice che la divinità è il fondamento che fa l’azione, il materiale quello che la subisce, e che da essi sono nati i quattro elementi.

[4] Filone Alessandrino ‘De providentia’ I, 22. Zenone, [I,24,15] figlio di Mnasea, […] l’aria, dio, la materia e i quattro elementi.

[5] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ IV, 2. Zenone di Cizio, figlio di Mnasea, frequentatore di Cratete, l’iniziatore della scuola Stoica, affermò essere fondamenti: la divinità e il materiale.

SVF I, 86

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 290. I più separano il materiale dall’essenza, come [I,24,20] fanno Zenone e Crisippo. Ma certamente dicono che il materiale è ciò che sta alla base di tutte le cose dotate di qualità, e che l’essenza prima di tutte le cose e il loro fondamento assolutamente originario, per sua natura senza volto e senza forma, è il materiale. Ad esempio, il bronzo, l’oro, il ferro e le altre realtà analoghe sono il materiale delle cose che sono prodotte a partire da essi, ma non ne sono l’essenza. [I,24,25] In effetti ciò che è causa dell’esistere sia di queste che delle altre realtà, è esso stesso la loro sostanza.

SVF I, 87

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, 11, 5a, p. 132, 26 W. Di Zenone. La sostanza <senza qualità> è il materiale primo di tutte le cose esistenti. Tutto questo materiale è sempiterno e non aumenta né diminuisce mentre [I,24,30] le sue parti, invece, non restano sempre identiche a se stesse ma si suddividono e si riconfondono. È attraverso questo materiale che la ragione universale, che alcuni chiamano ‘destino’, corre proprio come fa lo sperma nella generazione.

[2] Epifanio ‘Adversus haeres.’ I, 5 (Dox. Gr. p. 588). Anche Zenone è di questo avviso poiché, parimenti alle altre scuole, chiama il materiale ‘sincrono’ alla divinità. E afferma che il destino è [I,24,35] il codice genetico dal quale tutte le cose sono governate e che tutte sperimentano.

[3] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 150. [I,25,1] Come affermano <anche Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’ e> Zenone, <gli Stoici> dicono che la sostanza senza qualità è la materia prima di tutte le cose esistenti. <Essa è il materiale dal quale nasce qualsiasi cosa di qualsiasi genere.> Questa sostanza materiale si chiama così in duplice senso, ossia o nel senso di sostanza materiale di tutte le cose oppure nel senso di sostanza materiale di cose particolari. Nel primo senso, la sostanza materiale del cosmo nella sua interezza non aumenta né diminuisce; mentre la sostanza materiale di cose particolari, invece, può aumentare o diminuire.

[4] Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 294. Senza dubbio [I,25,5] gli Stoici ritengono che dio non sia una cosa diversa dal materiale, oppure una qualità non separabile da esso. E inoltre pensano che dio passi attraverso il materiale come il seme passa attraverso gli organi genitali.

SVF I, 88

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 292. In seguito Zenone sostiene che questa stessa essenza sia finita, e che sia sostanza unica e comune di tutte le cose che esistono, divisibile e mutabile in qualunque cosa. [I,25,10] Le sue parti si trasformano ma non vanno perdute, cosicché nulla di ciò che esiste finisce nel non-essere. Come nel caso delle innumerevoli e varie figure che può prendere la cera, così egli pensa non si deve attribuire nessuna forma o figura e neppure in senso proprio alcuna qualità al materiale che è sostrato di ogni realtà. E tuttavia questo materiale è sempre congiunto ed inseparabilmente associato ad una qualche qualità. [I,25,15] E dal momento che conosce né origine né fine, giacché né viene dal nulla né va nel nulla, per l’eternità mai è mancante di spirito e d’energia, i quali lo muovono secondo ragione talora nella sua totalità, qualche altra volta nelle sue parti, e sono la causa di una tanto frequente e veemente trasformazione di tutte le cose. Inoltre quello spirito attivo non sarebbe la natura [I,25,20] ma l’animo, anzi l’animo razionale che, conferendo la vita al mondo sensibile lo ha portato a quella bellezza che ancor oggi lo rende attraente. Spirito che chiamano un animale beato e dio.

SVF I, 89

Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 138, 14 W. [I,25,25] Zenone afferma che il causativo è il ‘per cui’; mentre l’effetto è accidente. Il causativo è corpo, mentre l’effetto è predicato. Ed è impossibile che sia presente un causativo senza che esista l’effetto di cui esso è causativo. Quanto detto ha un significato di questo genere. Causativo è ciò a causa di cui qualcosa avviene: per esempio, a causa della saggezza avviene di essere saggi, a causa dell’animo avviene di vivere, e a causa [I,25,30] della temperanza avviene di essere temperanti. È infatti impossibile che, data la presenza della temperanza circa qualcosa, noi non si sia temperanti; oppure che, data la presenza dell’animo, noi non si viva; oppure ancora che, data la presenza della saggezza, noi non si sia saggi.

SVF I, 90

Cicerone ‘Academica’ I, 39. Zenone non era d’accordo nemmeno con questi <Peripatetici e Accademici>, poiché pensava [I,25,35] che una sostanza incorporea fosse incapace di qualunque attività […] mentre qualunque cosa capace di fare o di subire un’azione non poteva essere incorporeo.

SVF I, 91

[1] Aezio ‘Placita’ I, 10, 5 (Dox. Gr. p. 289). [I,26,1] Lo stoico Zenone ritiene che i colori siano le prime configurazioni delle materia.

[2] Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 27 (Dox. Gr. p. 612, 2). Lo stoico Zenone concepì i colori come colorazioni della materia.

SVF I, 92

[1] Galeno ‘In Hippocr. de humoribus’ 1, XVI, p. 32 K. [I,26,5] Zenone di Cizio legittimava l’idea che come si mescolano le qualità, così pure si mescolino le sostanze nel cosmo.

[2] ‘De nat. facult.’ I, 2, p. 5 K. È d’uopo legittimare l’idea che come si mescolano le qualità, così pure si mescolino interamente le sostanze, come successivamente dichiarò Zenone di Cizio.

SVF I, 93

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, 8, 40e, p. 104, 7 W. [I,26,10] Zenone disse che il tempo è una dimensione del moto e che è misura e criterio della velocità e della lentezza che ciascun corpo possiede. Secondo il tempo avvengono tutte le cose in divenire e quelle trascorse, e quelle che sono, sono.

[2] Simplicio ‘In Aristot. categ.’ p. 350, 15 Kalb. Tra gli Stoici, Zenone affermò [I,26,15] che il tempo è semplicemente la dimensione di ogni moto.

SVF I, 94

Temistio ‘In Aristot. Phys.’ II, p. 284, 10 Spengel. Il vuoto è separato e, raccolto tutto insieme in se stesso, circonda e include il cielo. Questo è quanto credevano dapprima alcuni degli antichi, e dopo di loro i seguaci di Zenone di Cizio.

SVF I, 95

[1] Aezio ‘Placita’ I, 18, 5-20, 1 (Dox. Gr. p. 316-317). Zenone [I,26,20] e i suoi seguaci affermano che all’interno del cosmo non esiste il vuoto, ma che all’esterno di esso il vuoto è infinito. Vi è differenza tra il ‘vuoto’, lo ‘spazio’ e il ‘dove c’è posto’. Il vuoto è l’assenza di corpi. Lo spazio è quello occupato da un corpo. Il dove c’è posto è ciò ch’è occupato parzialmente da un corpo, come nel caso [I,26,25] del vino dentro una botticella.

[2] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ IV, 14. All’interno del cosmo non vi è alcun vuoto, ma al di fuori di esso il vuoto è moltissimo, anzi infinito.

[3] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 140. Al di fuori e intorno ad esso si spande il vuoto infinito, il quale è incorporeo; incorporeo nel senso che sarebbe capace di essere occupato da dei corpi ma non ne è occupato. Nel cosmo, invece, non c’è alcun [I,26,30] vuoto.

SVF I, 96

Giovanni Filopono ‘In Aristot. Phys.’ p. 613, 23 Vitelli. Il vuoto non è stato disseminato nei corpi ma è continuo ed è fuori del cielo che esso esiste di per se stesso, come del resto vuole la rappresentazione dei più; la quale legittima l’esistenza di un vuoto infinito fuori del cielo. Anche i [I,26,35] Pitagorici parlavano così, come già si diceva. E s’afferma che abbiano opinato così anche i seguaci di Zenone di Cizio.

Fisica II. [I,27,1]

Il cosmo

Il cosmo è uno – Il cosmo è generato e destinato alla morte – Il cosmo occupa un solo spazio – Il cosmo è fatto di quattro elementi – La conflagrazione universale e la palingenesi – Il cosmo è un animale sapiente

Frammenti n. 97-114

SVF I, 97

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 143. [I,27,5] Che il cosmo sia uno lo afferma Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’.

[2] Aezio ‘Placita’ II, 1, 2 (Dox. Gr. p. 327b, 8). Zenone dice che il cosmo è uno.

SVF I, 98

Aristocle presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 14, 1-2. [I,27,10] (Sulla filosofia degli Stoici e come Zenone esplicava la dottrina dei fondamenti). Come Eraclito, gli Stoici affermano che ‘elemento’ delle cose che sono è il fuoco; e inoltre, come Platone, che ‘fondamenti’ del fuoco sono la divinità e il materiale. Ma mentre Zenone sostiene che tanto il fondamento che fa l’azione (ossia la divinità), quanto il fondamento che sperimenta l’azione (ossia il materiale) sono entrambi ‘corpo’; Platone afferma invece che il primo fondamento, quello che fa l’azione, la causa, è un ‘incorporeo’. [I,27,15] In seguito, e secondo certi tempi fatali, il cosmo nella sua totalità va incontro alla ‘conflagrazione universale’, dopo la quale esso torna a ridisporsi in buon ordine. Pertanto il fuoco primordiale è come una sorta di seme contenente in sé le ragioni di tutte le cose e le loro cause passate presenti e future. L’intreccio e la consequenzialità di queste cause è [I,27,20] destino, scienza, verità e legge, ineludibili ed inevitabili, delle cose che sono. In questo modo tutte le cose del cosmo sono governate oltremodo bene, come in uno Stato retto da ottime leggi.

SVF I, 99

Stobeo ‘Eclogae’ I, 19, 4, p. 166 W. [I,27,25] Di Zenone. Le diverse parti di quelli che sussistono come elementi naturali di tutte le cose esistenti nel cosmo, hanno un decorso che è diretto verso il mezzo del loro elemento nella sua interezza e, similmente, anche dello stesso cosmo. Perciò rettamente si dice che tutte le parti del cosmo hanno un decorso che è diretto verso il mezzo del cosmo, e questo vale soprattutto per gli elementi che hanno un peso. Identica è la causa sia della permanenza del cosmo all’interno del [I,27,30] vuoto infinito, sia similarmente della permanenza della terra all’interno del cosmo, dal momento che la terra è assisa in equilibrio nel suo centro. Però non sempre un corpo ha peso, giacché aria e fuoco non hanno peso. Ma anche questi elementi tendono a loro modo al mezzo della sfera cosmica nella sua interezza e s’assembrano alla sua periferia in quanto, essendo privi di peso, tendono per natura a portarsi verso l’alto. [I,27,35] Similarmente a questi, gli Stoici dicono che anche il cosmo è privo di peso, poiché l’intero suo assembramento risulta da elementi dotati di peso [I,28,1] e da elementi privi di peso. Essi ritengono poi che la terra nella sua interezza, vista la posizione che ha nello spazio mediano, abbia di per sé un peso; e che essa permanga in questo luogo giacché i corpi di questo genere hanno un decorso che è diretto verso il mezzo.

SVF I, 100

‘Scholia’ alla ‘Teogonia’ di Esiodo, 134 Gaisf. Gr. Poet. Min. II, 482. [I,28,5] Zenone dice che in genere sono chiamati Titani gli elementi del cosmo. Infatti ‘Kòio’ indica la ‘qualità’, secondo il rivolgimento eolico della lettera ‘p’ in ‘k’. ‘Kréio’ indica l’elemento regale ed egemonico. Iperione indica il movimento verso l’alto, dall’espressione ‘andare più in alto’. E poiché la natura di tutti gli elementi leggeri lasciati a se stessi [I,28,10] è quella di andare verso l’alto, egli chiamò questa parte di elementi ‘Giapeto’.

SVF I, 101

[1] Aezio ‘Placita’ I, 14, 6 (Dox. Gr. p. 313). Zenone era dell’avviso che il fuoco si muove in linea retta.

[2] I, 12, 4 (Dox. Gr. p. 311b). La luce terrestre si muove in linea retta, mentre quella celeste si muove circolarmente.

SVF I, 102

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, 17, 3, p. 152, 19 W. [I,28,15] Zenone così dichiara in termini precisi. A partire dalla sostanza senza qualità, nel corso di un ciclo regolare il buon ordine del cosmo dovrà essere di questo genere. Si ritiene che si generi il rivolgimento dal fuoco all’acqua passando attraverso uno stadio aereo e che la parte che è sottostante prenda la consistenza di terra mentre, per il rimanente, resta acqua. Dalla sua evaporazione si genera poi dell’aria e da una parte dell’aria si rattizza il fuoco. [I,28,20] Questa mescolanza avviene per la trasformazione degli elementi uno nell’altro, e così un corpo nel suo insieme attraversa anche gli stati di un altro.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 135-136. Una cosa sola sono la divinità, la mente, il destino, Zeus, i quali sono denominati anche con molti altri nomi. Da principio la divinità, sola con se stessa, passando attraverso uno stato aereo tramutò tutta la sostanza in umore umido; [I,28,25] e come la matrice generativa racchiude lo sperma così essa, che è la ragione seminale del cosmo, rimase racchiusa in quell’umido, rendendolo materia fatta apposta per la genesi tutte le cose seguenti. Di poi generò dapprima i quattro elementi: fuoco, acqua, aria e terra. Parla di essi Zenone, nel suo libro ‘Sul cosmo’.

[3] VII, 142. [I,28,30] Il cosmo si genera quando la sostanza sia volta da fuoco in umidità passando attraverso uno stato aereo. Dopo di che la sua parte più densa si condensa e ne risulta la terra, mentre quella più finemente particellata diventa aria e quindi, rarefattasi ancora di più, rigenera del fuoco. In seguito, per mistura di questi elementi sono generati i vegetali, gli animali e gli altri generi di esseri. Della [I,29,1] genesi e della rovina del cosmo parla Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’.

[4] Valerio Probo ‘Ad Verg.’ P. 10, 33 K. Gli Stoici Zenone di Cizio, Crisippo di Soli e Cleante di Asso affermano che tutte le cose sono poi formate [I,29,5] da questi quattro elementi.

SVF I, 103

[1] Valerio Probo in Virg. Ecl. VI, 31, p. 21, 14 Keil. Alcuni hanno assegnato a singoli elementi il ruolo di principi del tutto […]. Talete di Mileto, maestro di <Anassimene>, ha considerato quale principio l’acqua. E sembra che l’opinione di Talete provenga da Esiodo, il quale aveva detto: “Sia che il Caos sia esistito per primo oppure dopo”. Infatti Zenone di Cizio [I,29,10] interpreta Esiodo in questo modo: il Caos è chiamato acqua da χέεσθαι cioè ‘scorrere’. Del resto un’opinione analoga si deduce da Omero quando afferma: “Oceano è l’origine degli dei e Tetide ne è la madre”.

[2] Cornuto ‘Grec. Theol. comp.’ 17. ‘Caos’ è lo stato liquido [I,29,15] precedente il buon ordine cosmico, così denominato dalla parola χύσις ossia ‘effusione’.

SVF I, 104

‘Scholia’ in Apollonii Rodii ‘Argonautica’ I, v. 498, p. 44 Wendel. Zenone afferma che il termine ‘caos’ in Esiodo significa ‘acqua’. Essa, rapprendendosi, diventa mota la quale, compattandosi, s’indurisce in terra. Secondo Esiodo nacque per terzo elemento Eros, [I,29,20] per metterci nell’animo il fuoco: Eros è infatti la passione più focosa.

SVF I, 105

[1] ‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 117, p. 25 Di Gregorio. Lo Stoico Zenone afferma che il basamento terra proviene da un elemento liquido e che per terzo è nato Eros. Perciò il verso che segue è fuori posto.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 137. Basamento di tutti <gli elementi> è la terra, che è il centro di tutti.

SVF I, 106

Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 23-24, 117 segg., VI, p. 108 Cohn-Reiter. [I,29,25] Teofrasto afferma pertanto che quanti vanno predicando la generazione e l’estinzione del cosmo si ingannano su quattro punti capitali: l’irregolarità della superficie terrestre, l’arretramento del mare, il dissolvimento delle parti di un intero e l’estinzione di animali terricoli a seconda dei generi. Il primo punto [I,29,30] è strutturato così: “Se la terra non avesse preso inizio da un atto di generazione, non si vedrebbe più alcuna sua parte rilevata, tutte le montagne sarebbero ormai state spianate e tutte le alture livellate alla pianura. Infatti, anno dopo anno tali e tanti acquazzoni si portano sul terreno dal cielo sempiterno, e sarebbe verosimile supporre che delle terre che erano sollevate ad una certa altezza, alcune siano state schiantate dai torrenti in piena; altre, nell’abbassarsi, che siano state [I,29,35] sbriciolate; e che tutte dappertutto siano ormai state levigate. Ora, invece, le continue irregolarità e l’elevazione di moltissime montagne ad altezze eteree sono indizi del fatto che la terra non è il cielo sempiterno. Giacché già da un pezzo, come [I,30,1] dicevo, ad opera di inondazioni protratte per un tempo infinito, tutta la terra sarebbe diventata uno stradone pianeggiante. La natura dell’acqua, e soprattutto di quella che precipita giù da luoghi altissimi, è infatti quella di spingere via con violenza alcune rocce; incavarne altre, incidendole con la continua caduta delle gocce e di lavorare [I,30,5] il suolo duro e più sassoso non meno degli scavatori”. <Il secondo punto è strutturato così>: “E poi il livello del mare – essi dicono – è diminuito. Ne sono testimonianza le isole di più chiara fama: Rodi e Delo. Queste isole, infatti, allagate dai flutti erano anticamente sprofondate scomparendo sotto il mare. Successivamente, abbassandosi il livello marino e risollevatesi esse alquanto, nel tempo ricomparvero, come [I,30,10] svelano le storie scritte che le riguardano. Gli autori di queste storie denominarono l’isola di Delo anche Anafi (ossia intangibile) poiché, attraverso l’uso di entrambi i nomi, facevano fede di quanto detto; dal momento che, comparendo, l’isola era diventata (Delo, ossia) manifesta; mentre in antico essa era non manifesta ed invisibile. Oltre a questi fatti, grandi e profondi golfi di grandi mari, dopo essersi prosciugati si son trasformati in terraferma e, seminati e coltivati, sono diventati una [I,30,15] porzione non sterile del territorio limitrofo. In essi possono essere riscontrati quali segni dell’antica origine marina dei ciotoli, delle conchiglie e quanto, in modo simile, è solitamente rigettato dal mare sulle spiagge. Perciò anche Pindaro, a proposito di Delo, dice:

‘Salve, o edificata dagli dei, isola

[I,30,20] tanto desiderata per i figli di Latona dai lucenti capelli;

figlia del mare aperto, prodigio immobile di vasta terra; se i mortali

ti chiamano Delo, i beati nell’Olimpo

astro da lungi visibile di terra negra’

Pindaro ha infatti chiamato Delo ‘figlia del mare aperto’ alludendo a quanto detto. Se dunque il livello del [I,30,25] mare diminuisce, anche la terra diminuirà, e nel corso di lunghi periodi di anni sia l’uno che l’altro elemento saranno totalmente consumati; sarà spesa anche tutta quanta l’aria, la quale diminuirà a poco a poco e da essa tutti gli elementi saranno risolti in una sola sostanza: quella del fuoco”. Per la strutturazione del terzo punto essi utilizzano un ragionamento [I,30,30] di questo genere: “‘Perisce completamente ciò le cui parti sono tutte periture; ma tutte le parti del cosmo sono periture; dunque il cosmo è perituto’. È ora il momento di esaminare la questione che avevamo posposto. Quale parte della terra, per iniziare parlando di questa, grande o piccola che sia, non si dissolve col tempo? I sassi più duri forse non si sgretolano e non si sbriciolano? Infatti, a seconda della [I,30,35] debolezza della forza di coesione del loro stato fisico – giacché il tono del loro pneuma rappresenta un legame non tale da non poter essere rotto ma soltanto difficile da sciogliere – essi, una volta sminuzzati e scorsi via, si risolvono dapprima in fine polvere e poi, successivamente dilapidati, spariscono del tutto. E allora? Se l’acqua non fosse aerata dai venti ma fosse lasciata immobile, non è [I,31,1] resa morta dalla calma? Essa si trasforma e manda un pessimo odore, come un animale che resti privo dell’animo. Le corruzioni dell’aria, poi, sono manifeste a chiunque. L’aria può infatti per natura ammalare, deperire e, in un certo qual modo, morire. Giacché cosa direbbe chi non ha di mira il decoro dei nomi ma la verità, se non che la peste [I,31,5] è morte dell’aria, la quale spande intorno a sé la sua propria affezione per la rovina di tutti coloro cui è stato dato in sorte un animo? Perché andare per le lunghe a proposito del fuoco? Quando non sia alimentato esso si spegne lì per lì, e diventa – come dicono i poeti – di per sé zoppo. Finché trova un supporto, se ne sta ritto secondo la pastura fornitagli dal materiale acceso; ma quando questa sia sparita, si rende invisibile. [106a] Si racconta che anche i serpenti [I,31,10] dell’India sperimentino una cosa similare. Essi infatti s’inerpicano sui più grandi degli animali, gli elefanti; s’attorcigliano loro tutt’intorno tra dorso e ventre e poi, aperta la vena che capita, ne tracannano insaziabilmente il sangue, succhiandolo con un soffio violento ed un acuto sibilo. Per un certo tempo gli elefanti, pur debilitati, tengono testa e, in mancanza d’altre risorse, fanno dei balzi battendosi il fianco con la [I,31,15] proboscide nel tentativo di venire a capo dei serpenti. Poi, sempre più svuotati del liquido vitale fino a non poter più saltare, se ne stanno immobili in preda a forti tremori. Poco dopo, indebolitesi le zampe, crollano a terra e muoiono dissanguati. Cadendo però giù, anche quelli che hanno causato la loro morte muoiono nel modo seguente. I serpenti, non avendo più [I,31,20] cibo e bramosi ormai di uno scampo, tentano di sciogliere il legaccio che avevano stretto, ma sono oppressi e schiacciati dal peso degli elefanti; e ciò molto di più qualora il suolo sia indurito e sassoso. Contorcendosi e facendo di tutto per separarsi, essi sono però bloccati dalla violenza del peso che li schiaccia; e divincolandosi in molti modi [I,31,25] inconsulti e senza via d’uscita, si indeboliscono. Così, come coloro che sono lapidati oppure sono sorpresi dal subitaneo crollo di un muro che cade loro addosso, non potendo neppur più sollevare la testa muoiono soffocati. Se pertanto ciascuna delle parti del cosmo è peritura, è manifesto che anche il cosmo, in quanto risultato del compattamento di quelle, non è imperituro”. Dicono poi che il quarto ed ultimo ragionamento deve [I,31,30] essere precisato in questo modo: “Se il cosmo fosse sempiterno anche gli animali sarebbero sempiterni e molto di più lo sarebbe il genere umano, in quanto genere migliore degli altri. Ma a coloro che decidono di fare inchieste sui fatti della natura esso appare di nascita recente. Ed è verosimile, o piuttosto addirittura necessario, che le arti coesistano con gli uomini in quanto ne sono coeve; non soltanto perché l’agire secondo regole certe [I,31,35] è peculiare della natura razionale, ma anche perché non è dato vivere senza di esse. Guardiamo dunque i tempi di nascita di ciascuna delle arti senza tenere conto dei miti cantati in tragedia in onore degli dei. […] … se l’uomo non è sempiterno, come non lo è ogni altro animale, come non lo sono i luoghi [I,32,1] che ce li mostrano, come non lo sono terra, acqua e aria: è da ciò manifesto che il cosmo è perituro”.

SVF I, 107

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, 20, 1e p. 171, 2 W. Ha il beneplacito di Zenone, di Cleante e di Crisippo l’affermazione che il fuoco muti la sostanza [I,32,5] quasi in un seme; e che poi a partire da questo seme risulti di nuovo il buon ordine del cosmo tale e quale era in precedenza.

[2] Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 18, 3. Ha il beneplacito dei filosofi Stoici l’affermazione che la sostanza nella sua interezza muti in ‘fuoco’ quale elemento seminale; e che poi a partire da questo fuoco risulti di nuovo il buon ordine del cosmo tale e quale era in precedenza. Furono Zenone, Cleante e Crisippo, i primi e più anziani membri della scuola Stoica, a convalidare [I,32,10] questa dottrina.

[3] Arnobio ‘Adversus nationes’ II, 9. Chi minaccia a questo mondo il fuoco e, a tempo debito, la conflagrazione universale, non crede forse a Panezio, a Crisippo, a Zenone?

SVF I, 108

Filargirio ‘Ad Vergili Georgica’ II, 336. Zenone sostiene [I,32,15] che seppure in questo mondo alcune cose muoiono, tuttavia esso permane in perpetuo, giacché contiene in sé gli elementi dai quali si generano le varie materie. Così è certo possibile, dice lui, che questo mondo cresca, ma non che muoia, perché permangono quegli elementi dai quali risorgerà.

SVF I, 109

[1] Taziano ‘Adversus Graecos’ 5, p. 6 Whittaker. Zenone va deplorato [I,32,20] quando dichiara che dopo la conflagrazione universale risorgeranno di nuovo gli stessi individui per compiere le stesse azioni; dico Anito e Meleto per accusare, Busiride per ammazzare gli ospiti, Eracle per compiere di nuovo le sue fatiche.

[2] Nemesio ‘De natura hominis’ 148, P.G. XL, col. 760. Vi saranno di nuovo Socrate, Platone, e ciascun uomo con gli stessi amici [I,32,25] e con gli stessi cittadini. E sperimenterà le stesse cose, si imbatterà nelle stesse vicende, maneggerà gli stessi affari; e ogni città, ogni villaggio, ogni campagna sarà similmente ristabilita.

SVF I, 110

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 107. Quello che <Platone> pubblicò è potenzialmente lo stesso discorso di Zenone. Giacché anche Zenone dice che l’universo è opera bellissima condotta a perfezione [I,32,30] secondo natura; ed anche, secondo ogni verosimiglianza, creatura vivente animata, cognitiva, razionale.

SVF I, 111

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 104. E Zenone di nuovo dice: “Se ciò ch’è razionale è migliore di ciò ch’è non razionale; nulla è migliore del cosmo; dunque il cosmo è razionale”. E altrettanto dicasi di ciò che partecipa di cognitività e [I,32,35] di animalità. “Giacché ciò ch’è cognitivo è migliore di ciò ch’è non cognitivo; e ciò ch’è animato è migliore di ciò ch’è inanimato; nulla è migliore del cosmo; dunque il cosmo è cognitivo ed animato”.

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 21. Tutto ciò che ha l’uso della ragione è migliore [I,33,1] di ciò che ne è privo. Ma nulla è meglio del mondo, dunque il mondo fa uso della ragione.

SVF I, 112

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 22. Com’era solito fare, Zenone concluse [I,33,5] il ragionamento con questa similitudine: “Se da un olivo nascessero dei flauti che suonano armoniosamente, dubiteresti forse che nell’olivo sia insita l’arte di suonare i flauti? Cosa diresti se i platani producessero strumenti a corde che suonano a ritmo? Anche in questo caso senz’altro riterresti che nei platani è insita la musica. E perché allora non ritenere il mondo dotato d’animo e di sapienza, dato che da sé procrea esseri animati e [I,33,10] sapienti?”

SVF I, 113

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 110. Prendendone spunto da Senofonte, Zenone di Cizio argomenta interrogativamente così: “Il seme di una creatura razionale ceduto all’esterno è anch’esso razionale; il cosmo cede all’esterno un seme di natura razionale; dunque il cosmo è razionale”. E la sua esistenza è inclusa in esso.

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 22. Nulla che sia privo [I,33,15] di animo e di ragione può generare da sé un essere animato e dotato di ragione. Ma il mondo genera esseri provvisti d’animo e di ragione; dunque è esso stesso animato e razionale.

SVF I, 114

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 22. Zenone si esprime in questo modo: “Di nulla che sia privo di sensibilità, una parte [I,33,20] può essere senziente. Ma del mondo ci sono parti senzienti; dunque il mondo non è privo di sensibilità”.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 85. Ma la natura che include in sé anche le nature razionali è anch’essa senz’altro razionale, giacché non può l’intero essere peggiore della parte.

[I,33,25] Fisica III.

Il cielo e i fenomeni celesti

Frammenti n. 115-122

SVF I, 115

Achille ‘Isagoge’ 5, p. 36, 19 segg. Maass. Zenone di Cizio così lo definiva: “Il cielo è l’estremo confine dell’etere. Dal cielo e nel cielo tutto è palesemente contenuto. Esso include tutto eccetto se stesso, giacché [I,33,30] nulla lo include ma è lui ad essere inclusivo del resto”.

SVF I, 116

Aezio ‘Placita’ II, 11, 4 (Dox. Gr. p. 340). Zenone affermava che il cielo è igneo.

SVF I, 117

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 153-154. Il lampo è l’avvampamento di nubi che sfregano tra di loro e sono squarciate dal vento, come dice Zenone nel suo libro [I,33,35] ‘Sul cosmo’. Il tuono è il rumore prodotto dal loro sfregamento e dal loro [I,34,1] squarciamento. Il fulmine è l’avvampamento veemente prodotto da nubi che sfregano tra di loro e sono squarciate <dal vento>, e che cade con grande violenza sulla terra.

SVF I, 118

‘Scholia’ alla ‘Teogonia’ di Esiodo, 139 Gaisf. Gr. Poet. Min. II, 484. Ciclopi. [I,34,5] A sua volta Zenone afferma che i decorsi circolari sono assai più naturalmente chiamati così. È per questo che sono stati loro pubblicamente imposti i nomi di Bronte e di Sterope e di Arge, dacché si chiama così il corrusco fulmine. Li chiama poi figli del cielo, dacché tutti questi sono fenomeni celesti.

SVF I, 119

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 145. Il sole s’eclissa quando la luna [I,34,10] si frappone tra la nostra terra e il sole, come Zenone ha mostrato in diagramma nel suo libro ‘Sul cosmo’. Durante questa congiunzione di astri, la luna appare infatti sorgere alta nel cielo, celare il sole e poi di nuovo scostarsene. Si può riconoscere questo fenomeno grazie all’immagine riflessa in un bacile con dell’acqua. Invece la luna s’eclissa quando cade nel cono d’ombra della terra. Laonde essa s’eclissa soltanto nel corso dei pleniluni, [I,34,15] anche se si trova ogni mese diametralmente opposta al sole. Infatti, muovendosi verso il sole obliquamente, si discosta da esso per latitudine o più verso nord o più verso sud. Tuttavia, quando la latitudine della luna diventa conforme a quella del sole nello zodiaco ed essa si trova diametralmente opposta al sole, allora si ha l’eclisse.

 [I,34,20]

SVF I, 120

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, 25, 3, p. 213, 15 W. Zenone afferma che il sole, la luna e ciascuno degli altri astri è un essere cognitivo, saggio, igneo di fuoco artefice. Giacché due sono i generi di fuoco. Il fuoco ‘non artefice’, che muta in se stesso ciò che lo [I,34,25] nutre; e il fuoco ‘artefice’ capace di far crescere e conservare in vita, quale esiste nei vegetali e negli animali e che ne rappresenta natura ed animo. La sostanza degli astri è composta dal fuoco di questo genere. Il sole e la luna si muovono secondo due decorsi. Il decorso nella parte bassa del cosmo è quello che fanno un levante dopo l’altro. Il decorso nella parte alta del cosmo è quello che essi fanno spostandosi da un segno zodiacale all’altro. Le loro [I,34,30] eclissi avvengono in modo differente. L’eclisse di sole, in occasione delle congiunzioni di astri; quella di luna, in occasione dei pleniluni. Per entrambi si hanno eclissi maggiori e minori.

[2] I, 26, 1, p. 219, 12 W. Zenone affermò che la luna è un astro cognitivo, saggio, igneo di fuoco artefice.

SVF I, 121

[1] ‘Etymologicum Gudianum’ s.v. ‘élios’ [6]. [I,34,35] Il sole è chiamato dai poeti anche ‘heélios’ e ‘hàlios’ a [I,35,1] causa del sale (hals). Secondo lo Stoico Zenone il sole è una massa infuocata e cognitiva, scaturente dal <l’esalazione del> mare

[2] ‘Etymologicum Magnum’ s.v. ‘élios’ […] da ‘hals’ ‘halòs’ derivano ‘hàlios’ e ‘hélios’. [I,35,5] Gli studiosi della natura dicono che il sole attinge l’acqua dal mare, e infatti l’umidità si tira su in alto dal mare. Per cui anche il nome Poseidone viene dal mandar su in alto acqua da bere (pòsin) ad opera di una face (dàei), cioè del sole.

SVF I, 122

Seneca ‘Naturales Quaestiones’ VII, 19, 1. Il nostro caro Zenone è della opinione seguente: egli giudica possibile che delle stelle si avvicinino una all’altra e combinino i loro raggi, e che da questa concorrenza di luci si formi l’immagine di una stella [I,35,10] oblunga.

Fisica IV.

I fenomeni terrestri

Gli animali e l’uomo – L’origine degli animali – La materia del corpo e della mente – Lo sperma – Il sonno – Le malattie

Frammenti n. 123-133

SVF I, 123

Varrone ‘De re rustica’ II, 1, 3. Sia nel caso ci fosse stato [I,35,15] uno specifico principio generatore degli animali, come reputarono Talete di Mileto e Zenone di Cizio; o che, al contrario, non ne sia esistito alcuno, come credettero Pitagora di Samo ed Aristotele di Stagira.

SVF I, 124

Censorino ‘De die natali’ IV, 10. Zenone di Cizio, il fondatore [I,35,20] dello Stoicismo, reputò che uno specifico principio per il genere umano si costituì al momento della formazione del mondo e che i primi uomini furono generati soltanto per mezzo del fuoco divino, cioè della provvidenza divina.

SVF I, 125

Galeno ‘Adversus Iulianum’ 5, Vol. XVIII A, p. 269 K. Vi è disarmonia di opinioni circa il fatto che la natura del nostro [I,35,25] corpo risulti dal mescolamento in proporzione ben regolata di aria, fuoco, acqua e terra oppure di umido, secco, caldo e freddo. Questa disarmonia di opinioni non è però tanto grande quanto quella circa i ‘caratteri comuni’ di Tessalo, se appunto Platone e Zenone, Aristotele e Teofrasto, Eudemo, Cleante e [I,35,30] Crisippo ritengono quelle opinioni entrambe ammissibili.

SVF I, 126

Varrone ‘De lingua latina’ V, 59. Oppure, come dice Zenone di Cizio, il seme degli animali è quel fuoco che è animo e mente.

SVF I, 127

Rufo Efesio ‘De nomin. par. corp. hum.’ 228, p. 166, 9 segg. Daremberg-Ruelle. Zenone afferma che calore e pneuma sono la stessa cosa. [I,35,35]

SVF I, 128

[1] Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 20, 1. [I,36,1] Zenone afferma che lo sperma che l’uomo eiacula è pneuma in forma fluida, parte e scintilla dell’animo, miscela dello sperma degli avi e miscuglio che riunisce le varie parti dell’animo. [I,36,5] Poiché contiene in sé le medesime ragioni seminali del corpo nella sua interezza, quando sia rilasciato nell’utero esso viene concepito da un altro pneuma, che è parte dell’animo femminile; e divenutone connaturato, nascosto dov’è, germoglia, mosso e rinfocolato da quello, aggiungendo sempre a se stesso del liquido ed accrescendosi grazie ad esso.

[2] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ V, 25. Zenone di [I,36,10] Cizio, il quale fu capo di questa Scuola, insegnò ai suoi familiari frequentatori ad avere queste opinioni circa l’animo. Poiché il seme genitale umano è in forma fluida e partecipa dello pneuma, egli disse che esso è una parte e scintilla dell’animo, una miscela dello sperma degli avi e un miscuglio ragunato di tutte le parti dell’animo.

[3] Plutarco ‘De cohib. ira’ p. 462f. [I,36,15] Come soleva dire Zenone, lo sperma è una commistura e una miscela delle facoltà dell’animo spiccata da esso.

[4] Aezio ‘Placita’ V, 4, 1 (Dox. Gr. p. 417). Zenone dice che lo sperma è ‘corpo’, giacché è una scintilla dell’animo.

[5] Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 108 (Dox. Gr. p. 640). Lo sperma dell’uomo, [I,36,20] quello che l’uomo eiacula in forma fluida, è rapimento di una parte dell’animo e commistura del genoma degli avi, quale esso era di per sé e quale fu commisto e secreto.

[6] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 158. <Gli Stoici dicono> che lo sperma dell’uomo, quello che l’uomo eiacula in forma fluida, viene mescolato insieme a partire dalle parti dell’animo e in armonia con il miscuglio delle ragioni seminali degli avi. [I,36,25]

SVF I, 129

[1] Aezio ‘Placita’ V, 5, 2 (Dox. Gr. p. 418). Zenone dice che le femmine cedono all’esterno un materiale umido come se fossero sudori di un allenamento, ma che non si tratta di sperma attivo.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 159. <I seguaci di Sfero> dichiarano che il liquido seminale delle femmine è sterile.

SVF I, 130

Cicerone ‘De divinatione’ II, 119. Zenone reputava [I,36,30] che l’animo si contraesse, quasi uno scivolare e un collassare, e che in ciò appunto consistesse il sonno.

SVF I, 131

Galeno ‘Method. med.’ II, 5, X, p. 111 K. [I,36,35] Non soltanto Ippocrate o moltissimi altri medici, ma anche [I,37,1] Platone, Aristotele, Teofrasto, Zenone, Crisippo e tutti i filosofi tenuti in gran conto si prestano a testimoniare che le specie di discrasia insalubre sono molte e che, per ciascuna, la terapia è differente. Inoltre tutti i filosofi e i medici che ho appena detto [I,37,5] si presteranno non ad ingiungere […] ma a dimostrare che senza che sia stata indagata e trovata la precisa natura del corpo è impossibile scovare alcunché circa le differenze tra gli stati morbosi né avere per essi conveniente abbondanza di medicine.

SVF I, 132

Galeno ‘Adversus Iulianum’ 4, Vol. XVIII A, p. 257 K. Queste sono [I,37,10] le parole dell’illustrissimo sofista il quale è dell’avviso che i medici Metodici seguano Zenone Aristotele e Platone. Allora noi gli rimemoreremo un’altra volta che ciascuno di questi filosofi, insieme a molti dei suoi successori, ritiene che la salute sia la buona temperie di caldo e di freddo, di umido e di secco; e che gli stati morbosi, a seconda [I,37,15] del regime di vita, insorgano quando uno dei detti elementi sia in eccesso o sia in difetto; e che nel corpo vi sono degli umori, alcuni umidi e secchi al possibile, alcuni invece caldi o freddi, che si raffrontano agli stati morbosi. Così riconoscevano Platone insieme con tutti i suoi seguaci, così Aristotele insieme con tutti i Peripatetici, così Zenone e Crisippo insieme con [I,37,20] gli altri Stoici.

SVF I, 133

Censorino ‘De die natali’ XVII, 2. Quanti ritennero che la durata media della vita fosse di trent’anni, hanno errato molto. Eraclito è l’autore che ha chiamato questo tempo ‘generazione’, perché in questo intervallo si colloca un ciclo vitale. Egli chiama ciclo vitale quello che la natura impiega a tornare, da seme umano, a seme umano. Ma questo tempo della generazione c’è chi lo definisce in un modo e chi in un altro. [I,37,25] Erodico scrive che sono venticinque anni, Zenone trenta.

Fisica V.

L’animo umano

L’animo è pneuma – L’animo è corporeo – L’animo è un’esalazione – Le parti dell’animo – L’animo permane [I,37,30] dopo la morte ma non è eterno – L’egemonico – La voce – I sensi

Frammenti n. 134-151

SVF I, 134

[1] Cicerone ‘Academica’ I, 39. <Zenone> stabiliva che il fuoco è la natura stessa, la quale è generatrice di qualunque cosa, anche della mente e dei sensi.

[2] ‘De finibus’ IV, 12. Nella discussione su un tema assai difficile, e cioè se esista un quinto elemento, origine [I,37,35] della ragione e dell’intelligenza, [I,38,1] e nel corso della quale ci si chiedeva anche da quali elementi fossero costituiti gli animi, Zenone dichiarò che questo elemento era il fuoco.

[3] ‘Tusculanae disputationes’ I, 19. Per lo Stoico Zenone l’animo è fuoco.

SVF I, 135

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 157. Zenone di Cizio […] affermò che l’animo è pneuma caloroso. È grazie a questo che noi siamo creature spiranti ed è da questo [I,38,5] che noi siamo mossi.

SVF I, 136

Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 24, (Dox. Gr. p. 613). Alcuni affermarono, come Platone, che la sostanza dell’animo è incorporea; altri invece, come Zenone e i suoi seguaci, che esso mette in movimento i corpi. Essi sottintesero infatti che l’animo sia pneuma.

SVF I, 137          

[1] Tertulliano ‘De anima’ 5. Da ultimo Zenone, [I,38,10] nel definire l’animo come ‘pneuma trapiantato’, lo argomenta in questo modo: “Ciò che con la sua uscita determina la morte, è corpo. Ora, quando esce lo pneuma trapiantato, l’animale muore. Dunque lo pneuma trapiantato è corpo. Ma lo pneuma trapiantato è l’animo; pertanto l’animo è corpo”.

[2] Macrobio ‘In somnium Scipionis’ I, 14, 19. Zenone diceva [I,38,15] che l’animo è pneuma concresciuto al corpo.

[3] Nemesio ‘De natura hominis’ c. 2, p. 33. La morte è separazione dell’animo dal corpo. Nulla di incorporeo si separa dal corpo, giacché un incorporeo non trova appiglio in un corpo. Ma l’animo s’appiglia al corpo e si separa dal corpo. Dunque l’animo è corpo.

SVF I, 138

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 220. Così Zenone cerca di sostenere [I,38,20] la dottrina che l’animo è pneuma: “Ciò che al suo ritirarsi dal corpo determina la morte dell’animale, è certamente animo; ma quando lo pneuma naturale si ritira l’animale muore; dunque l’animo è pneuma naturale”.

SVF I, 139

[1] Longino presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 21, 3. Uno potrebbe giustamente sdegnarsi con Zenone [I,38,25] e con Cleante per avere discorso dell’animo in modo così fortemente oltraggioso, e per avere entrambi affermato la stessa cosa, ossia che l’animo è un’esalazione del corpo solido.

[2] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ V, 27, (p. 129 Rae). Entrambi (Zenone e Cleante) infatti affermano che l’animo è un’esalazione del corpo solido.

SVF I, 140

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 8, p. 248 M. [I,38,30] Se egli (Diogene di Babilonia) seguisse Cleante, Crisippo e Zenone quando affermano che l’animo trae nutrimento dal sangue e che la sua sostanza è pneuma….

SVF I, 141

Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 20, 2. [I,39,1] Quando Cleante sistema uno accanto all’altro i giudizi di Zenone e i giudizi degli altri filosofi della natura a proposito dell’animo e li paragona, afferma che Zenone chiama l’animo un’esalazione dotata di sensibilità, proprio come diceva Eraclito. [I,39,5] Volendo infatti palesare che gli animi esalati sono sempre cognitivi, Eraclito li rassomigliò ai fiumi, dicendo così: “Negli stessi fiumi altre sono le acque che affluiscono e altre quelle che defluiscono”. Ed anche: “Gli animi esalano da umori umidi”. Zenone dichiara dunque, similmente ad Eraclito, che l’animo è un’esalazione; e che esso sia dotato di sensibilità [I,39,10] lo afferma per questo, ossia perché la sua parte capeggiante può rimanere modellata, attraverso gli organi di senso, dalle cose che hanno reale esistenza ed accettarne le impressioni. Queste sono le peculiarità dell’animo.

SVF I, 142

Giamblico presso Stobeo ‘Eclogae’ I, 49, 33, p. 367 W. [I,39,15] Ma i seguaci di Crisippo e di Zenone, e tutti quanti hanno cognizione dell’animo come ‘corpo’, accomodano tutte insieme le sue facoltà come qualità in un sottostante, e pongono l’animo come sostanza che serve da sottostante alle facoltà. Dall’una e dall’altra cosa combinano così una natura composta da elementi dissimili.

SVF I, 143

[1] Nemesio ‘De natura hominis’ 96, P.G. XL, col. 669. [I,39,20] Lo Stoico Zenone afferma che l’animo è composto di otto parti e lo suddivide così: la parte chiamata ‘egemonico’, i cinque sensi, la parte concernente la fonazione, la parte concernente lo sperma e le attività sessuali.

[2] Giamblico presso Stobeo ‘Eclogae’ I, 49, 34, p. 369 W. I seguaci di Zenone sono dell’opinione che l’animo sia composto di otto parti e, quanto alle facoltà, che esse siano [I,39,25] molteplici. Ad esempio nell’egemonico ci sono: rappresentazione, assenso, impulso e ragione.

SVF I, 144

Tertulliano ‘De anima’ c. 14. <L’animo> è diviso in parti: ora in due, come da Platone; ora in tre, come da Zenone.

SVF I, 145

Temistio ‘In Aristot. De anima’ f. 68, II, p. 30, 17 Sp. Quanti dicono [I,39,30] che l’animo è pneuma e che gli attribuiscono movimento locale, non potrebbero infatti convenire che, una volta uscito, esso vi rientri di nuovo. Sbagliato, mio caro […] Ma se l’animo, in quanto corpo, esce dal corpo, perché non può di nuovo rientrarvi? […] Purtuttavia una qualche difesa ancora [I,40,1] sopravanza a Zenone; difesa consistente nell’essere dell’avviso che l’animo nella sua interezza sia mescolato al corpo nella sua interezza e nel fare l’ipotesi che l’uscita dell’animo dal corpo non possa avvenire senza la rovina della sostanza composta.

SVF I, 146

[1] Epifanio ‘Adversus haeres.’ III, 2, 9 (Dox. Gr. p. 592, 21). Zenone di Cizio, lo Stoico, soleva affermare che bisogna non edificare sacrari agli dei ma avere [I,40,5] la divinità nella nostra mente soltanto, e ancor di più ritenere dio la mente. Giacché è immortale….

[2] III, 2, 9 (Dox. Gr. p. 592, 26). Soleva anche dire che dopo la separazione dal corpo [….] e chiamava l’animo pneuma longevo, ma diceva che non è affatto imperituro. Esso infatti, nel corso di molto tempo, viene consunto fino all’invisibilità, come dice lui.

[3] Agostino ‘Contra Academicos’ III, 17, 38. Perciò Zenone [I,40,10] si compiaceva di quella sua dottrina del mondo e soprattutto dell’animo, sul quale invece la vera filosofia è cauta. Diceva infatti che l’animo è mortale, che nulla c’è oltre questo mondo sensibile, e che nulla in esso agisce se non è corpo: infatti riteneva che dio stesso fosse fuoco.

SVF I, 147

[1] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VII, 7, 20. Lo Stoico Zenone [I,40,15] insegnava che gli inferi esistono e che in essi le sedi degli uomini pii e degli empi sono separate: o pii abitato regioni quiete e dilettevoli; gli empi scontano le pene in luoghi di tenebra e in orrende voragini di melma.

[2] Tertulliano ‘De anima’ c. 54. Ciò che mi stupisce davvero è che costoro, da prudenti filosofi, situano rasoterra gli animi, pur affermando [I,40,20] che sono eruditi da saggi i cui animi abitano invece in regioni di gran lunga superiori. Ad una così grande distanza di alberghi, dove si troverà la sede della scuola? In che modo i discepoli s’aduneranno coi maestri, separati come sono gli uni dagli da un intervallo tanto grande? E che pro, che vantaggio traggono dall’erudizione dell’ultimissima ora coloro che sono lì lì per perire nella conflagrazione universale? [I,40,25] I restanti animi, poi, li gettano giù negli inferi.

SVF I, 148

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 5, p. 201 M. Il ragionamento di Zenone, ammirato dagli Stoici […] è questo. “La voce si fa spazio attraverso la gola. Se essa si facesse spazio dal cervello non si farebbe spazio attraverso la gola. Ora, donde si fa spazio il discorso, di là pure [I,40,30] si fa spazio la voce. Ma il discorso si fa spazio dall’intelletto, sicché l’intelletto non è nel cervello”.

SVF I, 149

[1] ‘Scholia’ ‘In Plat. Alcibiad.’ I, p. 121, E. Come affermano Aristotele, Zenone e Alcmeone il Pitagorico, la ragione si esibisce in noi perfetta all’età di quattordici anni.

[2] Giamblico presso Stobeo ‘Eclogae’ I, 48, 8, p. 317 W. [I,40,35] Quindi circa la mente e le migliori facoltà dell’animo, gli Stoici dicono che la ragione non ci è subito connaturata ma che essa si raguna successivamente a partire dalle sensazioni e [I,41,1] dalle rappresentazioni, intorno ai quattordici anni.

[3] Aezio ‘Placita’ IV, 11, 4 (Dox. Gr. p. 400). La ragione, in armonia con la quale noi siamo designati come esseri razionali, si dice che si completi a partire dalle prolessi nel corso dei primi sette anni di vita.

SVF I, 150

Aezio ‘Placita’ IV, 21, 4 (Dox. Gr. p. 411). [I,41,5] Quello che da Zenone è detto ‘il vocale’ e che chiamano anche ‘la voce’, è pneuma che si estende dall’egemonico fino al faringe, alla lingua e agli organi attinenti.

SVF I, 151

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 5, p. 208 M. Affinché la creatura vivente abbia una sensazione, Zenone e Crisippo, insieme con tutto il coro dei loro seguaci, vogliono che [I,41,10] il movimento che s’ingenera in una parte del corpo ad opera di ciò che l’incoglie dall’esterno sia distribuito fino alla causa prima dell’animo.

Fisica VI.

Teologia

[I,41,15] Gli dei esistono – L’etere è il sommo dio – Dio è uno e insieme tanti dei – La natura e la Prònoia – La mantica – Il destino

Frammenti n. 152-177

SVF I, 152

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 133. Zenone soleva prospettare questo ragionamento: “Ragionevolmente si onorerebbero gli dei; ma quelli che sono non dei si onorerebbero irragionevolmente; dunque gli dei esistono”.

[I,41,20]

SVF I, 153

[1] Ippolito ‘Refutat.’ 21, 1 (Dox. Gr. p. 571). Crisippo e Zenone, i quali anch’essi ipotizzarono che dio è il principio di tutte le cose, essendo un corpo purissimo la cui Prònoia pervade tutte le cose.

[2] Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 16 (Dox. Gr. p. 608). [I,41,25] Quando Platone e lo Stoico Zenone discussero della sostanza della divinità, non la pensarono in modo simile. Platone infatti pensò dio incorporeo; Zenone, invece, lo pensò ‘corpo’; benché nulla essi abbiano detto della sua conformazione.

SVF I, 154

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 36. Altrove Zenone afferma che dio è etere.

[2] Tertulliano ‘Adversus Marcionem’ I, 13. Alcuni proclamarono [I,41,30] dei l’aria e l’etere, come Zenone.

[3] Minucio Felice ‘Octavius’ c. 19, 10. Di giorno l’etere è il principio di tutte le cose.

[4] Cicerone ‘Academica’ II, 126. Zenone e quasi tutti gli altri Stoici pensano che l’etere sia il sommo dio, dotato di una mente dalla quale tutte le cose sono rette.

SVF I, 155

[1] Tertulliano ‘Ad nationes’ II, 4. Ecco infatti che anche Zenone [I,42,1] separa la materia, in quanto profana, da dio; e dice che dio trascorre attraverso di essa come il miele nei favi.

[2] ‘Adversus Hermogenem’ 44. Gli Stoici vogliono che dio scorre attraverso la materia come il miele nei favi.

SVF I, 156

Tertulliano ‘De praescriptione haereticorum’ 7. Laddove si equipara [I,42,5] la materia dio: ecco la dottrina di Zenone.

SVF I, 157

[1] Aezio ‘Placita’ I, 7, 23 (Dox. Gr. p. 303). Zenone, lo Stoico, dichiarò che la divinità è mente ignea del cosmo.

[2] Agostino ‘Contra Academicos’ III, 17, 38. <Zenone> reputava [I,42,10] che dio stesso fosse fuoco.

SVF I, 158

Temistio ‘In Aristot. De anima’ p. 35, 32-33 Heinze. Probabilmente l’opinione che la divinità bazzichi la sostanza nella sua interezza è consonante anche a quella dei seguaci di Zenone, giacché essi pongono che la divinità sia in un dove mente, in un dove animo, in un dove natura e in un dove forza di coesione.

SVF I, 159

[1] Taziano ‘Adversus Graecos’ c. 3, p. 143 C. [I,42,15] E così Dio sarà dimostrato, secondo Zenone, essere fattore di mali, dal momento che si intrattiene nelle fogne, nei vermi e in altre opere innominabili.

[2] Clemente d’Alessandria ‘Protrept.’ p. 58 Pott. Non passerò certo sotto silenzio gli Stoici, i quali dicono che il divino pervade ogni materiale, anche il più disonorevole; [I,42,20] Stoici che imperitamente svergognano la filosofia.

[3] Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 218. Gli Stoici <dicono che la divinità è> uno pneuma pervasivo anche delle cose schifose e fetide.

SVF I, 160

[1] Lattanzio ‘De vera sapientia’ 9. Zenone sostiene che il logos (λόγος) è l’ordinatore della natura delle cose e l’artefice dell’universo; e gli dà anche il nome di fato, necessità delle cose, dio, anima di Giove.

[2] Tertulliano ‘Apologeticus’ XXI, 10. Anche secondo i vostri sapienti λόγος, ossia il discorso e la ragione, risulta essere l’artefice dell’universo. Infatti Zenone lo determina come il facitore che avrebbe dato forma ed ordinata disposizione ad ogni cosa; e lo chiama pure fato, dio, anima di Giove [I,42,30] e necessità di tutte le cose.

[3] Minucio Felice ‘Octavius’ c. 19, 10. Zenone [I,42,25] chiama dio la ragione.

SVF I, 161

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 36. <In altri libri Zenone> reputa che la ragione insita nella natura di tutte le cose contenga in sé la forza divina.

[2] Epifanio ‘Adversus haereses’ III, 36 (DDG p. 592). Soleva dire che il divino pervade tutto il cosmo.

SVF I, 162

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 36. Zenone ritiene che la legge naturale sia divina e che la sua forza stia nel comandare le cose giuste e proibire quelle contrarie.

[2] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ I, 5. Similmente Zenone dà il nome dio alla legge divina e naturale.

[3] Minucio Felice ‘Octavius’ c. 19, 10. Zenone [I,42,35] afferma che la legge naturale e divina è principio di tutte le cose.

[4] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 88. [I,43,1] Legge comune, la quale è retta ragione che tutto pervade e che è identica a Zeus, guida e capo del governo delle cose.

[5] ‘Scolio’ a Lucano II, 9. È allineato con le dottrine degli Stoici chi afferma che il mondo è reso saldo dalla virtù e dalla legge, [I,43,5] che esso stesso dio, e che è legge a se stesso.

SVF I, 163

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 148. Zenone afferma che sostanza della divinità sono il cosmo nella sua interezza e il cielo.

SVF I, 164

[1] Lattanzio ‘De ira dei’ cp. 11. Antistene […] disse che il dio naturale è uno solo, quantunque le genti e le città ne abbiano dei propri secondo le credenze popolari. Una dottrina [I,43,10] non dissimile sostengono Zenone e i suoi Stoici.

[2] Filodemo ‘De pietate’ p. 84 Gomp. Tutti i seguaci di Zenone, anche se lasciavano da parte il demone […] dicono che vi è un solo dio.

SVF I, 165

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 36. Zenone attribuisce forza divina agli astri, agli anni, ai mesi e alle stagioni dell’anno.

SVF I, 166

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 63. Una gran moltitudine di dei [I,43,15] discesero poi da un’altra teoria razionale di carattere fisico; dei che, vestiti in forma umana, rifornirono i poeti di favole e riempirono la vita degli uomini d’ogni genere di superstizione. Questo tema, trattato da Zenone fu poi abbondantemente spiegato e chiarito da Cleante e da Crisippo.

SVF I, 167

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 36. Nell’interpretare [I,43,20] la Teogonia, cioè l’origine degli dei, di Esiodo, <Zenone> elimina del tutto le usate e tradizionali concezioni degli dei. Egli infatti non annovera tra gli dei né Giove né Giunone né Vesta, né altri che abbiano appellativi analoghi; ma insegna che questi nomi sono stati assegnati allegoricamente a cose inanimate e prive di parola.

SVF I, 168

Filodemo ‘De pietate’ cp. 8 (DDG 542b). [I,43,25] […] Afrodite, è la forza capace di collegare propriamente le parti l’una all’altra….

SVF I, 169

Minucio Felice ‘Octavius’ c. 19, 10. Quando Zenone stesso interpreta Giunone come aria, Giove come cielo, [I,43,30] Nettuno come mare e Vulcano come fuoco, e dimostra al volgo che in modo simile anche altri dei sono elementi, egli sta discutendo seriamente e confutando un errore diffuso.

SVF I, 170

Filodemo ‘De pietate’ col. 8. […] i Dioscuri, retti discorsi e virtuose disposizioni.

SVF I, 171

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 57. Zenone [I,44,1] quindi così definisce la natura: “La natura è fuoco artefice che procede con metodo alla generazione”. Egli sostiene infatti che è compito specifico dell’arte creare e generare; e che ciò che nei prodotti delle nostre arti è fatto dalla mano, con arte assai più fine questo lo produce la natura, ossia, [I,44,5] come ho detto, il fuoco artefice che è maestro di ogni altra arte.

[2] ‘Academica’ I, 39. <Zenone> stabiliva che il fuoco è la natura stessa.

[3] ‘De natura deorum’ III, 27. […] <non> della natura che procede <quale fuoco> artefice, come dice Zenone.

[4] Tertulliano ‘Ad nationes’ II, 2. Zenone vuole che la natura sia sinonimo di fuoco

[5] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 156. La natura è fuoco artefice [I,44,10] che incede metodicamente alla generazione.

SVF I, 172

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 58. Secondo questo ragionamento ogni singola natura è artefice, giacché ha un metodo ed un indirizzo che segue; ma la natura del mondo, che racchiude e contiene in sé tutte le cose, dallo stesso Zenone [I,44,15] è chiamata non solo ‘artefice’ ma propriamente ‘l’artista’, consultrice com’è di tutte le utilità e provvida di tutte le opportunità. Inoltre, come le singole nature sono generate, crescono e sono contenute entro i propri semi, così la natura del mondo ha tutti i moti volontari, i conati e gli impulsi che i Greci chiamano ὁρμαί ed a questi adatta le azioni confacenti come facciamo noi che siamo mossi dall’animo e dai sensi. Ecco dunque com’è ‘la mente del mondo’, [I,44,20] e per tale motivo essa può rettamente chiamarsi saggezza o provvidenza (quello che i Greci chiamano πρόνοια) la quale specialmente provvede e si occupa al massimo: in primo luogo di far sì che il mondo abbia in sé le condizioni di una stabile esistenza; in secondo luogo, che non manchi di nulla; in terzo luogo e in misura particolare, che sia dotato d’una superlativa bellezza e di ogni ornamento.

SVF I, 173

Cicerone ‘De divinatione’ I, 6. Quasi tutti gli Stoici [I,44,25] difendevano <quelle pratiche divinatorie>, giacché Zenone aveva sparso nei suoi commentari una sorta di semi […]

SVF I, 174

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 149. <Gli Stoici dicono che> se c’è la Prònoia ogni forma di mantica è fondata; e [I,44,30] dichiarano, sulla base di certi esiti, che essa è un’arte, come afferma Zenone.

SVF I, 175

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 149. Crisippo […], Posidonio […], Zenone […] affermano che tutto avviene in armonia col destino […]. E il destino è la causa concatenante delle cose che sono, oppure la ragione in armonia con la quale il cosmo se la tragitta.

SVF I, 176

[1] Aezio ‘Placita’ I, 27, 5 (Dox. Gr. p. 322b 9). [I,44,35] Lo Stoico Zenone nel suo libro ‘Sulla natura’ chiama il destino facoltà cinetica della materia che, proprio allo stesso modo, non fa differenza chiamare Prònoia o natura.

[2] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ VI, 14, p. 153 Ra. Zenone di Cizio [I,45,1] ha chiamato il destino <facoltà> cinetica della materia e gli diede nome di Prònoia o natura.

SVF I, 177

Epifanio ‘Adversus haeres.’ III, 2, 9 (Dox. Gr. p. 592). Le [I,45,5] cause delle faccende in parte sono in nostro esclusivo potere, in parte sono non in nostro esclusivo potere; cioè alcune faccende sono in nostro esclusivo potere, altre invece sono in non nostro esclusivo potere.

  • Ethica

Frammento n. 178

SVF I, 178

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 84. <Gli Stoici> dividono la parte Etica della filosofia in diversi ambiti: quello dell’impulso, quello dei beni e dei mali, delle passioni, della virtù, del sommo bene, [I,45,10] del primo valore, delle azioni, delle esortazioni e dissuasioni doverose. Così la suddividono i seguaci di Crisippo […] Zenone di Cizio e Cleante, in quanto filosofi più antichi, discernettero circa queste faccende in modo più semplice.

§ 1.Sul sommo bene [I,45,15]

Quale sia il sommo bene

Frammenti n. 179-184

SVF I, 179

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 87. [I,45,20] E perciò Zenone per primo, nel suo libro ‘Sulla natura dell’uomo’ disse che il sommo bene è vivere in modo ammissibile con la natura, il che significa vivere secondo virtù; giacché è la nostra natura a condurci alla virtù.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 75, 11 W. Zenone così esplicitò il sommo bene: “Vivere in modo ammissibile <con la ragione>” cioè in consonanza ed armonia con una ragione sola, [I,45,25] poiché quanti vivono in contraddizione sono infelici.

[3] Cicerone ‘De finibus’ IV, 14. Questo <gli Stoici> dicono che sia il sommo bene per Zenone, il quale dichiara quello che hai detto tu: vivere in modo conveniente alla natura.

[4] III, 21. Il sommo […] bene sta in ciò che gli Stoici chiamano ὁμολογία e che noi chiamiamo convenienza.

[5] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 7. Per Zenone il sommo bene [I,45,30] è vivere in modo congruente con la natura.

[6] III, 8. Ascoltiamo dunque Zenone, giacché di tanto in tanto egli sogna la virtù. Il sommo bene, egli afferma, è vivere in modo consentaneo alla natura.

[7] Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 470, 27 Mang. E così essi raggiungeranno quel fine benaugurate che non è più Zenoniano che ispirato dall’oracolo di Delfi: vivere in modo conseguente alla natura.

SVF I, 180

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, 21, p. 496 Pott. [I,46,1] A sua volta lo Stoico Zenone ritiene che il sommo bene consista nel vivere secondo virtù.

SVF I, 181

Cicerone ‘Academica’ II, 131. Zenone, il primo degli Stoici e il fondatore di questa Scuola, stabilì che il sommo bene è [I,46,5] vivere nel modo moralmente onesto che deriva dall’essere conciliati con la natura.

SVF I, 182

Epitteto ‘Diatribe’ I, 20, 14. Eppure la dottrina cardinale dei filosofi è anche troppo corta. Per riconoscerlo leggi Zenone e vedrai. Cos’ha di lungo il dire: “Sommo bene è accompagnarsi agli dei; sostanza del bene è l’uso quale si deve delle rappresentazioni”? Dimmi: “Cos’è [I,46,10] dunque dio e cos’è rappresentazione? E cos’è natura del particolare e cos’è natura dell’intero?” Già diventa una cosa lunga.

SVF I, 183

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1069f. E Zenone non seguì forse costoro (i Peripatetici) i quali suggerivano quali elementi della felicità la natura e l’armonia con la natura?

SVF I, 184

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 77, 20 W. [I,46,15] Zenone definì la felicità in questo modo: felicità è il sereno fluire dell’esistenza.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 30. E la felicità, come esplicitarono i seguaci di Zenone, di Cleante e di Crisippo, è il sereno fluire dell’esistenza.

Soltanto il vizio è male

Frammento n. 185

SVF I, 185

[1] Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ II, 29. Nulla è male, dice [I,46,20] <Zenone>, se non ciò che è moralmente deforme e vizioso. […] <Provare dolore fisico o non provarlo>, egli dice, non fa mai la minima differenza ai fini della vita beata, la quale è riposta totalmente nella virtù; e però il dolore fisico è cosa da respingere. Perché? Perché è aspro, è contro natura, difficile da sopportare, cupo e duro.

[2] V. 27. <Va bene > se lo dicesse [I,46,25] Zenone lo Stoico, il quale riteneva che nulla è male se non ciò ch’è vizioso.

La virtù va ricercata per se stessa

Frammento n. 186

SVF I, 186

Agostino ‘Contra Academicos’ III, 7, 16. Zenone proclama, e tutta la Stoa strepita, che l’uomo non per altro è nato che per l’integrità morale; che questa, con il suo splendore, attira a sé gli animi senza bisogno di vantaggi esteriori o la lusinga di un compenso; [I,46,30] che il piacere del famoso Epicuro è comune solo tra il bestiame; e che sarebbe nefasto associare l’uomo sapiente alle bestie.

Per la vita felice è sufficiente la virtù

Frammenti n. 187-189

SVF I, 187

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 127. Secondo quanto dice Zenone, la virtù è autosufficiente per la felicità.

[2] Cicerone ‘De finibus’ V, 79. Zenone [I,46,35] questo lo annuncia magnificamente, quasi venisse da un oracolo: “Per una vita beata la virtù basta a se stessa”.

[3] Agostino ‘De trinitate’ XIII, 5, 8. Noi dicemmo che essi porrebbero la vita beata là dove ne ricavassero il massimo diletto […] come fece Zenone con la virtù.

SVF I, 188

[1] Cicerone ‘Academica’ I, 35. Zenone dunque era nient’affatto [I,47,1] il tipo, com’era invece Teofrasto,che tronca i nervi della virtù, ma al contrario riponeva tutto ciò che pertiene alla vita beata unicamente in essa, null’altro annoverava tra i beni, e la chiamava onestà intellettuale ed il semplice, il solo e l’unico bene.

[2] I, 7. Se infatti vuoi diventare seguace di Zenone, [I,47,5] è una grande impresa capire cosa sia quel suo bene vero e semplice che è inseparabile dall’onestà intellettuale.

SVF I, 189

[1] Cicerone ‘De finibus’ IV, 47. Erra Zenone quando afferma che in nessuna condotta c’è propensione alcuna, neppur minima, al conseguimento del sommo bene se non nella virtù; e che seppur le altre condotte non spingono affatto [I,47,10] alla vita beata, tuttavia in esse c’è una spinta ad acquisire certe cose.

[2] IV, 60. Al contrario, Zenone chiama bene soltanto ciò che ha un sua peculiare specificità che lo rende appetibile, e chiama vita beata solo quella che si conduce virtuosamente.

[3] IV, 48. Una volta conosciuto il sommo bene, cos’è meno consentaneo ad esso del ritornare indietro alla natura, come dicono <gli Stoici>, [I,47,15] per chiederle la condotta da tenere, cioè quale sia il loro dovere?

§ 2. I beni e i mali

 Frammento n. 190

SVF I, 190

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 57, 18 W. Zenone afferma che queste sono [I,47,20] le cose che partecipano della sostanza. E delle cose che sono alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti. Beni sono cose di questo genere: saggezza, temperanza, giustizia, virilità e tutto ciò ch’è virtù o partecipa della virtù. Mali sono cose di questo genere: stoltezza, intemperanza, ingiustizia, viltà e tutto ciò ch’è vizio o partecipa del vizio. Indifferenti sono cose di questo genere: vita, morte, reputazione, [I,47,25] discredito, dolore fisico, piacere fisico, ricchezza di denaro, povertà di denaro, malattia, salute e le cose simili a queste.

§ 3.Gli indifferenti

La nozione di indifferente

Frammento n. 191 [I,47,30]

SVF I, 191

Cicerone ‘Academica’ I, 36. Circa le altre cose, per quanto fossero né mali né beni, tuttavia Zenone ne definiva alcune secondo natura, altre contrarie a natura; e poi, oltre a queste, ne enumerava altre interposte e medie. Egli insegnava che le cose secondo natura vanno accettate e stimate di un certo valore, e che per le altre vale l’opposto; [I,48,1] mentre quelle neutre occupano una posizione intermedia. Queste ultime per lui non avevano assolutamente alcuna capacità di spingere ad una scelta.

Indifferenti promossi e indifferenti ricusati

Frammenti n. 192-194

SVF I, 192

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 84, 21 W. Degli indifferenti dotati di valore, alcuni ne hanno molto, altri poco. Similmente, degli indifferenti che hanno disvalore, [I,48,5] alcuni ne hanno molto, altri poco. Ora, gli indifferenti dotati di molto valore sono detti ‘promossi’, mentre quelli aventi molto disvalore sono detti ‘ricusati’; e fu Zenone per primo a porre alle faccende in questione questi nomi. <Gli Stoici> chiamano ‘promosso’ quell’indifferente che selezioniamo per noi secondo un ragionamento di prima istanza. Un discorso simile vale per l’indifferente ‘ricusato’ e [I,48,10] gli esempi sono, per analogia, gli stessi. Invece nessuno dei beni è un ‘promosso’, giacché i beni hanno il massimo valore. L’indifferente ‘promosso’, pur essendo una faccenda di secondo rango e valore, s’approssima in qualche modo alla natura dei beni. A corte, infatti, il re non appartiene ai ‘promossi’, mentre lo sono quelli posizionati dopo di lui. Gli indifferenti si dicono dunque ‘promossi’ non [I,48,15] perché conferiscano qualcosa in vista della felicità o cooperino ad essa, ma perché necessariamente noi li selezioniamo a scapito degli indifferenti ‘ricusati’.

SVF I, 193

Cicerone ‘Academica’ I, 37. Delle cose degne di scelta, alcune hanno molto valore, altre meno: quelle di molto valore le chiamava [I,48,20] ‘promosse’, quelle di minor valore ‘ricusate’.

SVF I, 194

Cicerone ‘De finibus’ III, 51. Sarebbe il caso, affinché si capisca più facilmente il significato del termine, di esporre il ragionamento di Zenone nel coniarlo. Infatti, egli dice, come nessuno in una reggia direbbe che il re è stato promosso a tale dignità, giacché questo significa προηγμένον, ma si dice questo dei dignitari di alto rango, che sono prossimi [I,48,25] alla posizione del re ma secondi ad esso; così nella vita si parla delle cose promosse, cioè προηγμένα, non in riferimento a quelle di primo rango ma a quelle di secondo rango.

I singoli indifferenti

Frammenti n. 195-196

SVF I, 195

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ IX, 5, 5. Zenone giudicò che il piacere fosse un indifferente, cioè neutro, ossia né bene né male, quello che egli stesso chiamò [I,48,30] con parola greca ἀδιάφορον.

SVF I, 196

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXII, 9. Il nostro caro Zenone utilizza questo sillogismo: “Nessun male è glorioso; ma la morte è gloriosa; dunque, la morte non è un male”.

§ 4.L’appropriazione originaria

Frammenti n. 197-198

SVF I, 197

[I,48,35]

[1] Porfirio ‘De abstin.’ III, 19. Fondamento di ogni appropriazione e di ogni estraniazione è l’avere una sensazione. E i seguaci di Zenone [I,49,1] pongono l’appropriazione <di sé> come fondamento della giustizia.

[2] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038c. Infatti, l’appropriazione sembra essere la sensazione di ciò ch’è appropriato e la sua [I,49,5] presa d’atto.

SVF I, 198

Cicerone ‘De finibus’ IV, 45. A me sarebbe sembrato più equo che Zenone, nella polemica con Polemone, dal quale aveva comunque appreso quali fossero gli istinti naturali primari; avanzando dai principi iniziali comuni riconoscesse dov’era la prima discordanza da chiarire e donde nascesse la causa della loro controversia; senza schierarsi dalla parte di coloro che neppure definivano i loro sommi beni originati da istinti naturali, [I,49,10] utilizzando gli stessi argomenti che usavano quelli e addirittura le medesime formulazioni.

§ 5.La virtù

 Frammenti n. 199-204

SVF I, 199

Cicerone ‘Academica’ I, 38. Per quanto i filosofi precedenti non riponessero ogni virtù nella ragione, ma affermassero che alcune virtù trovano la loro [I,49,15] perfezione nella natura o nel costume, Zenone le poneva tutte nella ragione. E mentre quei pensatori ritenevano possibile che i generi di virtù di cui ho parlato potessero essere disgiunti dalla ragione, questi ne negava categoricamente la possibilità; e sosteneva che non solo l’uso continuo della virtù, come pensavano i predecessori, ma il suo mero esercizio momentaneo era di per sé un atto preclaro, [I,49,20] seppure non potesse dirsi virtuoso se non chi utilizzava costantemente la virtù.

SVF I, 200

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034c. Zenone, come Platone, ci lascia in eredità una pluralità di virtù distinte come la saggezza, la virilità, la temperanza, la giustizia; e ce le lascia come inseparabili ma diverse e differenti una dall’altra. Quando definisce ciascuna di esse, afferma che [I,49,25] la virilità è saggezza….[nelle cose cui si deve resistere, la temperanza è saggezza nelle cose che si devono scegliere, la saggezza in senso proprio è saggezza]….nelle attività da svolgere, la giustizia è saggezza nelle cose da distribuire. E’ come se una fosse la virtù seppure, nelle sue relazioni con le faccende, sembri differire a seconda delle attività.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 161. <Aristone> non introduceva molteplici virtù, come fece invece Zenone.

SVF I, 201

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 441a. [I,49,30] Sembra che anche Zenone di Cizio si lasci in un certo senso trarre a questa opinione, poiché definisce la saggezza nelle cose che si devono assegnare, giustizia; quella nelle cose che si devono scegliere, temperanza; quella nelle cose che si devono reggere, virilità; e i suoi difensori sono del parere che in queste definizioni la conoscenza certa sia stata da Zenone chiamata col nome di saggezza.

SVF I, 202

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 441c. [I,49,35] Tutti costoro [I,50,1] <ossia gli Stoici Aristone, Zenone, Crisippo> in comune ipotizzano che la virtù sia una disposizione durevole dell’egemonico dell’animo e una facoltà originata dalla ragione, o piuttosto che essa stessa sia la ragione in quanto ammessa come tale, ben salda ed immutabile. Essi legittimano anche l’idea che la parte passionale e [I,50,5] irrazionale non sia distinta dalla parte razionale per una differenza di natura ma che sia la stessa identica parte dell’animo, che chiamano appunto ‘intelletto’ o ‘egemonico’, la quale si rigira e muta completamente nel caso delle passioni e delle trasformazioni di postura o di disposizione d’animo, diventando sia vizio che virtù senza avere però in sé nulla d’irrazionale. E inoltre che si dica ‘irrazionale’ qualora, per l’eccedere [I,50,10] dell’impulso divenuto così potente da farla da padrone, essa sia portata fuori controllo verso qualcosa di assurdo e in contrasto con la ragione che sceglie. La passione, infatti, è ragione malvagia e impudente, originata da una determinazione insipiente e sbagliata cui s’aggiungono veemenza e vigoria.

SVF I, 203

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 1, p. 38, 15 W. I seguaci dello Stoico Zenone dicono metaforicamente che [I,50,15] il costume morale è fonte di vita, una fonte dalla quale scorrono le singole azioni particolari.

SVF I, 204

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 173. Secondo Zenone il costume morale si può riconoscere dall’aspetto esteriore.

[2] Aezio ‘Placita’ IV, 9, 17 (Dox. Gr. p. 398). Gli Stoici affermano che si può riconoscere in modo irrefutabile il sapiente a colpo d’occhio, dal suo solo aspetto esteriore.

§ 6.Le passioni

 Frammenti n. 205-215 [I,50,20]

SVF I, 205

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 110. Secondo Zenone, la passione è un moto dell’animo irrazionale e contro natura o un impulso eccessivo.

[2] Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 11. Questa è la definizione che Zenone dà della passione: la passione, che egli chiama πάθος, è un sommovimento innaturale dell’animo [I,50,25] avverso alla retta ragione. Più brevemente, alcuni dicono che la passione è una brama spasmodica.

[3] IV, 47. La definizione di passione della quale si è servito Zenone, credo correttamente, è questa: la passione è un sommovimento innaturale dell’animo avverso alla retta ragione. Più brevemente: la passione è una brama spasmodica, dove con ‘spasmodica’ [I,50,30] si intenda quella che è ben lungi da ogni naturale equilibrio.

[4] ‘De officiis’ I, 136. Le passioni cioè moti eccessivi dell’animo che non obbediscono a ragione.

[5] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 2, p. 44, 4 W. Ogni passione è un impulso eccessivo.

[6] II, 7, 10, p. 88, 8 W. <Gli Stoici> affermano che la passione è un impulso eccessivo e disobbediente alla ragione [I,50,35] che opera la scelta [proairesi], oppure un moto dell’animo contrario alla natura delle cose.

SVF I, 206

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 1, p. 39, 5 W. Come la definì lo Stoico Zenone: la passione è un impulso eccessivo. Non dice: “la cui natura è di essere eccessivo”, [I,51,1] ma che è adesso in eccesso; non dunque in potenza, ma piuttosto in atto. Egli la definì anche così: “la passione è una palpitazione dell’animo”; poiché guardò al frullio dei volatili e ne fece l’immagine della facilità al movimento della passionalità.

[2] II, 7, 10, p. 88, 11 W. Perciò ogni palpitazione è una passione e, viceversa, ogni passione [I,51,5] è una palpitazione.

SVF I, 207

Cicerone ‘Academica’ I, 38. Mentre <i filosofi precedenti> non intendevano escludere dall’animo umano la passione […] ma rimpicciolirla e ridurla a poca cosa, Zenone volle che il saggio fosse privo di qualunque passione, quasi esse fossero delle malattie. E mentre gli antichi sostenevano che le passioni erano conformi a natura e nulla avevano a che fare con la ragione, e quindi collocassero la cupidigia in una parte dell’animo [I,51,10] e la ragione in un’altra, Zenone non era d’accordo con loro. Pensava infatti che le passioni fossero volontarie e che fossero suscitate da un giudizio congetturale, ed era convinto che madre di tutte le passioni fosse una smodata intemperanza.

SVF I, 208

Temistio ‘In Aristot. De anima’ 90b Spengel II, 197, 24. [I,51,15] I seguaci di Zenone non fecero male a proprorre che le passioni dell’animo umano siano pervertimenti della ragione e determinazioni aberranti della ragione.

SVF I, 209

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 1, p. 405 M. Zenone legittimava l’dea che le passioni dell’animo non siano le determinazioni di per sé, bensì le [I,51,20] contrizioni e le effusioni, le esaltazioni e le depressioni che sopravvengono ad esse.

[2] IV, 3, p. 348 M. Con ciò egli contraddice Zenone e molti altri Stoici, i quali concepiscono che le passioni dell’animo non siano le determinazioni dell’animo in quanto tali, ma le irragionevoli contrizioni e i servilismi e gli strazi, come pure le irragionevoli esaltazioni ed [I,51,25] effusioni a seguito di tali determinazioni.

SVF I, 210

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 5, p. 299 M. Non c’è più bisogno da parte nostra di ricercare un’altra dimostrazione del fatto che le paure, le afflizioni e tutte quante le passioni di questo genere abbiano la loro sede nel cuore. Questo è preso per ammesso [I,51,30] anche dagli Stoici; giacché non soltanto Crisippo, ma anche Cleante e Zenone lo pongono prontamente per scontato.

SVF I, 211

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 110. Secondo quanto afferma Zenone nel libro ‘Sulle Passioni’, le passioni supreme sono di quattro generi: afflizione, paura, smania, ebbrezza.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 10, p. 88, 14 W. Primarie [I,51,35] per genere sono queste quattro passioni: la smania, la paura, l’afflizione e l’ebbrezza.

SVF I, 212

[1] Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 74-75. Mi sembra abbastanza assodato che l’afflizione è l’opinione [I,52,1] della presenza di un male, e che in questa opinione è insito il giudizio che sia d’uopo sentirsi afflitti. A questa definizione Zenone rettamente aggiunge: e che quell’opinione della presenza di un male sia freschissima.

[2] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 7, p. 391 M. [I,52,5] “Questa definizione” afferma <Posidonio> “di afflizione, come anche molte altre definizioni delle passioni formulate da Zenone e messe per iscritto da Crisippo, confuta chiaramente il punto di vista di quest’ultimo, il quale afferma che l’afflizione è ‘opinione immediata e senza riserva che un male ci è presente’. Parlando a volte in modo più spiccio, <Crisippo e i suoi seguaci> proferiscono la definizione all’incirca così: ‘l’afflizione è [I,52,10] opinione immediata e senza riserva della presenza di un male”.

SVF I, 213

[1] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 23. Zenone colloca la misericordia tra i vizi e le malattie.

[2] ‘Epist ad Pentad.’ 38. Zenone, maestro degli Stoici, loda la virtù ma giudica la misericordia […] una malattia dell’animo.

SVF I, 214

Cicerone ‘Pro Murena’ 61. Non c’è indulgenza che muova il saggio, [I,52,15] né perdono per alcun delitto; perché solo lo stolto e lo sciocco provano misericordia: non è da uomo il farsi pregare e placare.

SVF I, 215

Seneca ‘De ira’ I, 16, 7. Però, come dice Zenone, pur se la ferita è sanata, anche nell’animo del saggio resta la cicatrice. Pertanto, egli sentirà [I,52,20] come delle suggestioni ed ombre di passione, pur se ne sarà esente.

§ 7.Il sapiente e l’insipiente

Il sapiente

Frammenti n. 216-223a

SVF I, 216

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 11, p. 99, 3 W. [I,52,25] Ha il beneplacito di Zenone e dei filosofi Stoici suoi seguaci l’esistenza di due generi di individui: gli uomini virtuosi e gli esseri umani insipienti. Il genere dei virtuosi pratica per tutta la vita le virtù e quello degli insipienti i vizi; laonde il primo opera sempre rettamente in tutto ciò cui s’applica, [I,52,30] mentre il secondo aberra. Poiché utilizza le sue esperienze di vita in ciò che effettua, il virtuoso fa tutto bene, ossia in modo saggio, con temperanza e in armonia con le altre virtù; mentre l’insipiente, al contrario, fa tutto male. Inoltre il virtuoso è grande, massiccio, d’elevato sentire, potente. Grande, perché è capace di ottenere [I,52,35] le cose proairetiche che si è proposto; massiccio, perché è cresciuto in ogni senso; d’elevato sentire, perché condivide l’altezza d’animo [I,53,1] che spetta all’uomo nobile e sapiente; potente, perché si è procacciata la potenza che gli spetta, dal momento che è invitto e senza antagonisti. Perciò egli è non costretto da alcuno né costringe alcuno, è non impedito né impedisce, non subisce violenza da alcuno né la esercita su alcuno, è non dispotico [I,53,5] né subisce il dispotismo altrui, non maltratta alcuno né è maltrattato, non incappa nei mali <né vi fa incappare un altro>, è non ingannato e non inganna un altro, è non mendace, non ignora, è non occulto a se stesso e, in generale, non concepisce il falso. È al massimo grado felice, fortunato, beato, opulento dei veri beni, pio, [I,53,10] caro agli dei, di gran pregio, regale, dotato di capacità strategica, politico, amministratore, atto a fare denari. Gli insipienti, invece, hanno qualità tutte opposte a queste.

SVF I, 217

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, 158b. È un giudizio stoico che il sapiente farà bene ogni cosa e che condirà con saggezza anche un piatto di lenticchie. Per questo, Timone [I,53,15] di Fliunte diceva di un tale:

‘che non ha imparato a lessare saggiamente le lenticchie alla Zenone’;

come se le lenticchie non potessero essere lessate in un modo diverso dalla ricetta di Zenone, il quale diceva:

‘di aggiungere alle lenticchie un dodicesimo di semi di coriandolo’.

SVF I, 218

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 45, Mang. [I,53,20] Merita ribadire quel detto di Zenone nel quale s’afferma che faresti più in fretta a tenere immerso un otre pieno d’aria che a costringere con la violenza un qualunque uomo virtuoso a compiere suo malgrado qualcosa che non ha deciso. Infatti non cede ed è invitto quell’animo che la retta ragione innerva con consolidati giudizi.

SVF I, 219

Plutarco ‘De aud. poet.’ p. 33d. [I,53,25] Zenone, rettificando quei versi di Sofocle:

‘chi ha mercato col tiranno ne è servo,

pur se libero da lui sia giunto’

riscrisse:

‘non è servo, se libero da lui sia giunto’ [I,53,30]

giacché egli intende così associare all’uomo libero la connotazione di uomo che non ha paura, disinteressato, alieno dal servilismo.

SVF I, 220

[1] Cicerone ‘De finibus’ V, 84. Se la povertà è un male, nessun mendicante può essere beato seppur fosse saggio. Ma Zenone ha avuto il coraggio di dire [I,53,35] che egli non solo è beato ma pure ricco.

[2] ‘Pro Murena’ 61. Soltanto i saggi sono ricchi, pur se poverissimi.

SVF I, 221

[1] Cicerone ‘Pro Murena’ 61. Solo i saggi sono belli, anche se affetti da ogni deformità.

[2] ‘De finibus’ III, 75. Rettamente <il saggio> [I,54,1] sarà chiamato bello, giacché i lineamenti dell’animo sono più belli di quelli del corpo.

SVF I, 222

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 33. E di nuovo ne ‘La repubblica’ <Zenone> fa riscontrare che cittadini e amici e familiari e liberi sono [I,54,5] soltanto gli uomini virtuosi.

SVF I, 223

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 14, 95, p. 703 Pott. Lo Stoico Zenone, prendendo spunto da Platone, il quale a sua volta l’aveva preso dalla filosofia barbarica, dice che tutti gli uomini virtuosi sono amici fra di loro.

SVF I, 223a

Plutarco ‘Vita Arati’ XVIII. Quando successivamente teneva scuola, a chi gli diceva [I,54,10] che secondo lui soltanto il sapiente è stratega, si racconta che <Persèo> rispondesse: “Ma, per gli dei, tra tutti i giudizi di Zenone anch’io una volta gradivo specialmente proprio questo”….

Le aberrazioni sono pari

Frammento n. 224

SVF I, 224

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 120. Ha il loro beneplacito il ritenere, stando alle affermazioni di […] Zenone, che tutte le aberrazioni siano pari.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 422. [I,54,15] Prendendo impulso da qui, i seguaci di Zenone insegnavano che tutte le aberrazioni sono pari.

[3] Cicerone ‘Pro Murena’ 61. Tutti i crimini si equivalgono.

[4] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 23. Chi approva la dottrina di Zenone sulla parità di tutti i crimini?

L’insipiente

Frammenti n. 225-229

SVF I, 225

Cicerone ‘Pro Murena’ 61. Ogni delitto è una scellerata nefandezza, [I,54,20] né delinque in minor misura chi uccide un pollo quando non si dovrebbe, rispetto a chi ha strangolato il padre.

SVF I, 226

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 32. <Per lo Scettico Cassio> Zenone afferma che tutti coloro che sono non virtuosi sono nemici personali, nemici di guerra, servi, estranei gli uni agli altri; [I,54,25] e lo sono anche i genitori dei figli, i fratelli dei fratelli, i familiari dei familiari.

SVF I, 227

Cicerone ‘Pro Murena’ 61. E poi noi che non siamo saggi, a loro detta, siamo schiavi fuggitivi, esuli, nemici e da ultimo folli.

SVF I, 228

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 453, 26 Mang. [I,54,30] Zenone, che si condusse con virtù quant’altri mai, dà una dimostrazione piuttosto elementare del fatto che gli insipienti non hanno eguale diritto di parola a fronte delle persone urbane e civili. Dice infatti: “Se farà un’obiezione al virtuoso, l’insipiente non si metterà a mugugnare? Dunque l’insipiente non ha eguale diritto di parola a fronte del virtuoso”.

SVF I, 229

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXIII, 9. Zenone, uomo eccellente e fondatore della fortissima e integerrima scuola Stoica, ci vuole tenere lontano dall’ubriachezza. [I,54,35] Ascolta dunque in quale modo egli dimostri che il saggio non sarà mai ubriaco: “Ad un ubriaco nessuno confida un segreto, mentre invece lo confida ad un uomo saggio. Dunque, il saggio non sarà ubriaco”.

[2] Filone Alessandrino ‘De plantat. Noe’ II, p. 176 Wendl. [I,55,1] Se è vero che uno non commetterebbe un segreto ad un ubriaco, mentre essi invece si commettono al sapiente; allora ne consegue che la persona urbana e civile non si ubriaca.

§ 8.I doveri intermedi

 Frammenti n. 230-232

[I,55,5]

SVF I, 230

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 107-108. Inoltre essi affermano che ‘doveroso’ è ciò che quando sia effettuato ha una giustificazione ragionevole: per esempio, ciò che consegue all’essere in vita e che pertiene anche a vegetali e ad animali, giacché anche per questi sono contemplati atti doverosi. Il ‘doveroso’ è stato denominato così da Zenone per primo, [I,55,10] questa denominazione essendo stata derivata dall’espressione ‘incombere ad alcuni’.

[2] VII, 25. Dicono che <Zenone> sia stato il primo a dargli il nome di ‘doveroso’ e ad avere fatto un discorso a suo riguardo.

[3] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 8, p. 85, 13 W. Il doveroso è definito così: ‘Ciò che consegue al fatto di essere in vita e che, quando effettuato, ha una giustificazione ragionevole’. In modo opposto si definisce ciò ch’è non doveroso. [I,55,15] Questa definizione pertiene anche alle creature sprovviste di ragione, giacché esse pure hanno attività conseguenti alla loro natura. Ma per esse si rende così: ‘Ciò che consegue al fatto di essere in vita’.

[4] Cicerone ‘De finibus’ III, 58. È atto doveroso ciò che è fatto in modo tale che della sua effettuazione si possa dare razionalmente una spiegazione lodevole.

SVF I, 231

Cicerone ‘Academica’ I, 37. Così come [I,55,20] aveva cambiato tali cose non tanto nella sostanza quanto nella terminologia, tra l’azione retta e il crimine Zenone collocò sia l’atto doveroso che quello non doveroso, considerandoli realtà intermedie. Pose solo le azioni rette tra i beni, e solo le azioni malvage, cioè i crimini, tra i mali; ritenendo intermedi <come ho appena detto> gli atti doverosi sia effettuati che non effettuati.

SVF I, 232

Cicerone ‘De finibus’ IV, 56. E poi quel tuo [I,55,25] piccolo Fenicio -sai bene che i tuoi clienti di Cizio provengono dalla Fenicia- uomo pertanto d’acuto ingegno, vedendo che stava perdendo la causa contro la Natura che gli si opponeva, si mise a rivoltare le parole e, in prima istanza, concesse a quelle cose che noi chiamiamo buone il titolo di ‘degne di stima’ e di ‘conformi a natura’, e poi cominciò ad ammettere che anche il saggio, cioè l’uomo in sommo grado felice, [I,55,30] starebbe meglio se possedesse queste cose che pure egli non aveva il coraggio di chiamare beni, ma che ammette essere conformi a natura. Nega poi che Platone, se pur non è saggio, sia coinvolto nella stesso processo nel quale si giudica il tiranno Dionisio, per il quale la miglior cosa sarebbe la morte perché disperatamente stolto; mentre per Platone sarebbe la vita, perché può ancora sperare di diventare saggio. Inoltre per <Zenone> i crimini di Platone sono in parte tollerabili e in parte no; perché con alcuni di essi egli ha [I,55,35] mancato al dovere in molteplici modi, mentre con altri solo in parte minore. Così alcuni stolti sono [I,56,1] tali che in nessun modo potrebbero pervenire alla sapienza; altri invece se solo si dessero da fare avrebbero la possibilità di conseguirla.

§ 9.Precetti di vita

[I,56,5] Precetti vari

Frammenti n. 233-246

SVF I, 233

Galeno ‘De cogn. morb.’ 3, V, p. 13 K. E così Zenone ci sollecitava a fare tutto con sicurezza, per essere in grado, [I,56,10] di lì a poco, di giustificarci davanti ai pedagoghi. Quell’uomo dava il nome di ‘pedagoghi’ alla maggior parte delle persone, poiché esse sono pronte a rimproverare il prossimo anche se nessuno le chiama in causa.

SVF I, 234

Plutarco ‘Quom. quis in virt. sent. prof.’ 12, p. 82f. Guarda anche quale sia il significato dell’affermazione di Zenone. Giacché egli sollecitava ciascuno [I,56,15] a prendere consapevolezza del proprio stato di progresso dai sogni che fa. Se cioè nel sonno egli si veda non più godere di qualcosa di vergognoso, né ammettere per sé o effettuare qualcosa di terribile o di assurdo; e invece la parte immaginativa e passionale del suo animo, rasserenata dalla ragione, risalti in bella evidenza tal quale il fondale di un mare in bonaccia e non battuto dal vento.

SVF I, 235

[1] Proclo ad Hesiod. Op. et D. 291. [I,56,20] Lo Stoico Zenone scambiava i versi dicendo:

‘Ottimo su tutti è colui che ubbidisce a chi bene parla

e prode, a sua volta, è colui che da sé tutto capisce’.

e dava così il primo posto all’obbedienza e il secondo alla saggezza.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 25-26. [I,56,25] <Dicono anche che Zenone> riscrivesse così i versi di Esiodo [(si tratta dei due versi appena citati)]. Giacché chi è capace di ben ascoltare ciò che viene detto e di utilizzarlo, è migliore di colui che da se stesso di tutto si capacita. Infatti, propria di uno è soltanto l’intelligente comprensione mentre l’altro, ben ubbidendo, vi congiunge anche la pratica.

[3] Temistio ‘Orationes’ VIII, p. 108c. A me è assai gradito Zenone di Cizio [I,56,30] quando dichiara che l’obbedienza è una virtù più regale della perspicacia, e rialloga l’ordine di importanza dato loro da Esiodo….

[4] XIII, p. 171d. Zenone di Cizio concepiva rettamente che l’obbedienza è più regale della perspicacia.

SVF I, 236

Massimo di Tiro ‘Floril.’ c. 6. [I,56,35] L’agricoltore che voglia trarre abbondante e buon frutto dalle piante che coltiva, procura di essere loro giovevole, ne è sollecito [I,57,1] in ogni modo e ne ha cura. Ancor di più questo vale per gli uomini, i quali per natura sono grati a coloro che sono loro giovevoli e per natura si industriano soprattutto per uomini di tal fatta. In ciò nulla vi è di strano. Giacché noi pure abbiamo sollecitudine soprattutto di quelle parti del corpo che legittimiamo come più giovevoli [I,57,5] per il servizio che ci rendono. Laonde, in modo simile, bisogna essere giovevoli con i fatti e non a parole, a coloro dai quali sollecitiamo di sperimentare un bene. Neppure l’olivo, infatti, va superbo di sé con l’agricoltore che ne ha cura, ma lo persuade ad essere di lui sollecito con il produrre abbondanti e buoni frutti.

SVF I, 237

Stobeo ‘Florilegium’ 14, 4. [I,57,10]

‘Controlla te stesso, chiunque tu sia, non per ottenere un favore:

ascolta, elimina la libertà di parola degli adulatori’

SVF I, 238

Stobeo ‘Florilegium’ IV, 106. Zenone soleva dire che è ridicolo non prestare attenzione alle prescrizioni di ciascun singolo su come bisogna vivere, [I,57,15] come se nessuno lo sapesse; e poi invece infatuarsi della lode di chiunque, come se essa avesse il valore di un verdetto.

SVF I, 239

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VI, p. 233b-c. Lo Stoico Zenone appare avere ritenuto indifferenti tutte le altre cose, eccezion fatta per il loro uso legittimo e buono. Egli ha detto di no sia alla scelta e sia alla fuga da tali cose indifferenti, ed ha [I,57,20] comunque ingiunto di utilizzare principalmente cose frugali e senza eccessi. In questo modo gli uomini, poiché hanno una disposizione d’animo lontana da paure e da infatuazioni per tutto ciò ch’è indifferente e dunque né bello né brutto, per la maggior parte usano queste cose secondo natura, e s’astengono dalle contrarie per ragionamento e non per paura, giacché non hanno più timore di nulla.

SVF I, 240

Stobeo ‘Florilegium’ VI, 20. [I,57,25] Zenone accagionava la maggioranza degli esseri umani dicendo: “Pur avendo la potestà di tirar fuori piaceri dai dolori, essi vanno a prenderli dalle cucine”.

SVF I, 241

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, 20, 125 p. 180 St. Parlava bene Zenone quando, a proposito degli Indiani, affermava che avrebbe voluto [I,57,30] vedere un Indiano avvolto dalle fiamme piuttosto che imparare tutte le dimostrazioni relative al dolore.

SVF I, 242

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 565d. Il celebre sapiente Zenone, come lo chiama Antigono di Caristo, presagendo da indovino, com’è verisimile, le vostre vite e il mestiere che vi arrogate, diceva che coloro i quali fraintendono i suoi discorsi e non li capiscono bene, saranno individui sozzi e [I,58,1] non liberi. Proprio come i traviati della scuola di Aristippo saranno individui dissoluti e sfrontati.

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ III, 77. Se è vero quel che soleva dire Aristone di Chio, ossia che i filosofi nuocciono agli ascoltatori che interpretano male le loro giuste affermazioni, allora [I,58,5] dalla Scuola di Aristippo possono davvero uscire dei dissoluti e da quella di Zenone dei burberi immaturi.

SVF I, 243

Musonio presso Stobeo ‘Eclogae’ III, 6, 24, p. 289-290 Hense. È dunque ben detto, affermava <Musonio>, quanto diceva Zenone: cioè che ci si deve tagliare i capelli per la stessa ragione per cui bisogna lasciarli crescere, ossia per vivere secondo natura, affinché uno non sia rallentato né infastidito dalla chioma [I,58,10] in nessuna attività.

SVF I, 244

Origene ‘Contra Celsum’ VII, 63, p. 213 K. Quanti vivono secondo la filosofia di Zenone di Cizio avversano l’adulterio […] giacché esso non è un’azione socievole; ed è contro la natura delle cose, per una creatura logica, rendere adultera una donna già legalmente maritata ad un altro e rovinare la famiglia di un [I,58,15] altro uomo.

SVF I, 245

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 22. <Zenone> diceva che i giovani devono usare la massima compostezza nell’andatura, nei gesti e negli indumenti. Soleva di continuo proferire i versi di Euripide su Capaneo, la cui vita era tale che:

[I,58,20] ‘non si pavoneggiava affatto per la sua opulenza

e non aveva disegni più grandiosi di quelli di un pover’uomo’.

SVF I, 246

Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ III, 11, 74, p. 296 Pott. Sembra che Zenone di Cizio stia qui delineando la figura di un giovanotto e così la scolpisce. Sia, dice, puro il viso; le ciglia non abbassate e gli occhi [I,58,25] né spalacati né socchiusi; il collo non piegato all’indietro; le membra del corpo non rilassate e quelle superiori ben toniche; mente retta nel ragionare, acuta e ritentiva di quanto è detto rettamente; pose e movimenti che nulla concedono alla speranza degli impudenti. Fioriscano in lui [I,58,30] il rispetto di sé e degli altri e il contegno maschio; si tenga perciò lungi dalla dissipazione di profumerie, oreficerie, botteghe di lana e di altre botteghe nelle quali, adornati come delle etere e seduti come in postriboli, si usa passare il giorno.

L’amore per i ragazzi

Frammenti n. 247-249

SVF I, 247

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 563e. <Voi siete dei corruttori di ragazzi, in questo soltanto> emuli [I,58,35] del vostro fondamento di sapienza, Zenone il Fenicio; il quale non se la fece mai con una donna ma sempre con dei ragazzi, come Antigono di Caristo [I,59,1] ha investigato nel suo libro sulla vita di Zenone. Voi infatti blaterate che “bisogna amare non i corpi ma l’animo”, proprio voi che andate dicendo che si devono praticare gli amati fino all’età di ventotto anni.

SVF I, 248

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 129. Il sapiente proverà trasporto amoroso per quei [I,59,5] giovani i quali palesano nel loro aspetto un’attitudine da purosangue per la virtù, come afferma Zenone ne ‘La repubblica’.

SVF I, 249

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 200. E cosa vi è di stupefacente in ciò, laddove anche i filosofi Cinici e i seguaci di Zenone di Cizio, di Cleante e di Crisippo affermano che questo (cioè l’omosessualità maschile) [I,59,10] è un ‘indifferente’?

Frammenti sul Cinismo

Frammenti n. 250-257

SVF I, 250

[1] Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 245. Per esempio, il loro scolarca Zenone nelle ‘Diatribe’, circa l’educazione dei ragazzi dice altre cose simili a queste che seguono: “Metterlo tra le cosce a ragazzi o non ragazzi, a femmine o maschi è né più né meno lo stesso. Giacché si fanno ai ragazzi o ai non ragazzi, [I,59,15] alle femmine o ai maschi cose non diverse, ma le stesse identiche cose che si confanno e che sono confacenti”.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 190. E circa l’educazione dei ragazzi, nelle ‘Diatribe’ lo scolarca Zenone entra in particolari di questo genere (seguono le parole del frammento precedente).

SVF I, 251

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 190. E poi di nuovo. “L’hai messo tra le cosce [I,59,20] del tuo amato?” “Io no” “E non smaniavi forse di metterlo?” “Tantissimo” “Smaniavi che egli si prestasse a te ma hai avuto paura di intimarglielo?” “Per Zeus!” “Ma glielo intimasti?” “Assolutamente si” “E però lui non ti ha fatto il servizio?” “Ecco, no”.

SVF I, 252

Plutarco ‘Quaest. Conviv.’ III, 6, 1, p. 653e. Quanto a me, [I,59,25] per il cane, io vorrei -diceva- che, da parte di Zenone, al metterlo fra le cosce fosse stato assegnato un posto in qualche convito o festino piuttosto che in una compilazione di tale industriosità come ‘La repubblica’.

SVF I, 253

Epifanio ‘Adversus haereses’ III, 36 (DDG p. 592). Zenone di Cizio, lo Stoico, diceva […] che è d’uopo buttare i morti in pasto agli animali [I,59,30] oppure nel fuoco; e usare dei ragazzi amati senza impedimenti.

SVF I, 254

[1] Teofilo ‘Ad Autolycum’ III, 5, p. 119c. Cosa te ne pare dei giudizi che i libri di Zenone o di Diogene o di Cleante abbracciano; libri che insegnano il cannibalismo, che i figli lesseranno e ingeriranno le carni dei loro padri e, se uno decidesse di non farlo oppure decidesse di scaraventare via un membro di questo [I,59,35] fiero pasto, a divorare chi si rifiuta di mangiare?

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. …. <e che il virtuoso> in certe circostanze gusterà carne umana.

[3] VII, 188. Nel libro ‘Sul giusto’, [I,60,1] per un migliaio di righe <Crisippo> intima di divorare i morti.

SVF I, 255

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 206. Zenone non rifiuta la masturbazione, [I,60,5] che per noi è invece una pratica deprecabile.

SVF I, 256

[1] Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 246. Circa il sacrosanto rispetto verso i genitori, lo stesso uomo <ossia Zenone> afferma che nella vicenda di Giocasta e di Edipo non sarebbe da considerarsi una cosa terribile il massaggiare la propria madre. Se, infatti, Edipo avesse massaggiato con le mani Giocasta, poiché ella s’era indebolita in qualche altra parte del corpo, e ciò le fosse stato di giovamento, [I,60,10] nulla di vergognoso avrebbe commesso. Se invece Edipo, massaggiando altre parti del corpo di sua madre, la allieta poiché ne fa cessare le doglianze e ne fa nascere figli di razza, allora questo è ritenuto vergognoso.

[2] ‘Adversus Mathematicos’ XI, 191. Zenone, dopo avere proposto ed investigato la vicenda di Giocasta e di Edipo, afferma che non vi era nulla di terribile nel massaggiare la madre. Infatti, se Edipo le avesse recato giovamento massaggiandole con le mani il corpo che si era indebolito, [I,60,15] nulla di vergognoso avrebbe commesso. Se invece egli la massaggia con un’altra parte di sé, grazie alla quale trova che ne fa cessare le doglianze facendone pure nascere dei figli di razza, cosa vi sarebbe in ciò di vergognoso?

[3] ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 205. Ma anche Zenone di Cizio afferma che non è assurdo massaggiare il sesso della madre con il proprio sesso, appunto come nessuno direbbe che è vizioso massaggiare [I,60,20] con la mano un’altra parte del suo corpo.

SVF I, 257

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 33. <Zenone> intima che uomini e donne usino il medesimo vestito e che nessun pezzo del corpo debba essere tenuto celato.

Sulla morte in armonia con la ragione

Frammento n. 258

SVF I, 258

Seneca ‘Epistulae morales’ CIV, 21. Se vivere tra i Greci è cosa di giovamento, passa del tempo con Socrate e con Zenone: il primo ti insegnerà a morire, se sarà necessario; [I,60,25] il secondo anche prima che sia necessario.

La Costituzione politica

Frammenti n. 259-271

SVF I, 259

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 32. Alcuni poi, <tra i quali i discepoli di Cassio lo Scettico>, accusano Zenone per molte sue affermazioni. In primo luogo perché, all’inizio della sua ‘Repubblica’, egli dichiara improficua l’educazione enciclopedica.

SVF I, 260

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034f. [I,60,30] Dopo avere prospettato interrogativamente questo ragionamento, <Zenone> scrisse contro ‘La repubblica’ di Platone….

SVF I, 261

Plutarco ‘Vita Lycurg.’ XXXI. Anche Platone prese a riferimento [I,60,35] questa ipotesi di costituzione politica, e così fecero Diogene, Zenone e tutti quanti sono lodati per avere messo mano a dire qualcosa al riguardo, benché essi abbiano lasciato dietro di sé soltanto lettere e discorsi.

SVF I, 262

[1] Plutarco ‘De Alex. virt.’ p. 329a. La molto ammirata [I,61,1] ‘Repubblica’ di Zenone, il fondatore della scuola Stoica, ha per scopo quest’unico obiettivo capitale, cioè che noi ci amministriamo né per Stati né per Popoli ciascuno definito da principi di giustizia propri, ma perché riteniamo tutti gli uomini nostri compaesani e concittadini e vi sia una sola ordinata convivenza, [I,61,5] come accade nel caso di una moltitudine di persone che vivono associate e che insieme si nutrono di una legge comune. Questo Zenone scrisse, dando così forma al sogno ad occhi aperti o al disegno astratto di un buon governo filosofico e della sua costituzione politica.

[2] ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1033b. Capita pertanto che molto sia stato scritto proprio da Zenone, pur nella sua concisione …. sulla costituzione politica, sull’essere comandati e sul comandare, sull’amministrare la giustizia, sul parlare in pubblico.

[3] Giovanni Crisostomo ‘Hom.’ I in Matth. 4. [I,61,10] Non come Platone, il quale compose quella risibile ‘Repubblica’; non come Zenone né come chi altro scrisse una costituzione politica ed ha composto leggi.

SVF I, 263

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 561c. Ponziano diceva che Zenone di Cizio concepiva Eros come il dio dell’amicizia e della libertà, ed inoltre come apprestatore di concordia e di null’altro. Perciò nella sua [I,61,15] ‘Repubblica’ Zenone affermava: “Eros è un dio che esiste per cooperare alla salvezza della città”.

[2] Plutarco ‘Vita Lycurg.’ 31. Allora non era invero questo l’obiettivo capitale di Licurgo, ossia di lasciare la sua città a capo di molte altre bensì, poiché riteneva legittimamente che come nella vita di un uomo solo anche nella vita di un intero Stato [I,61,20] la felicità si ingenera a partire dalla virtù e dalla concordia al proprio interno, quello di prescrivere e di conciliare ogni sua disposizione al fine che essi (gli Spartani), una volta diventati liberi, autosufficienti e temperanti, continuassero a rimanere tali per il maggior tempo possibile. Anche Platone prese a riferimento questa ipotesi di costituzione politica, e così fecero Diogene e Zenone.

SVF I, 264

[1] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 12, 76, p. 691 Pott. [I,61,25] Zenone, il costruttore della scuola Stoica, nel suo libro ‘La repubblica’ sostiene che non bisogna fare né templi né simulacri, giacché nessuno di essi è una struttura degna degli dei. E non ebbe paura di scriverlo con le parole seguenti: “Non bisognerà affatto edificare sacrari, giacché è d’uopo legittimmare l’idea che un sacrario di poco valore e [I,61,30] santità è nulla; e che nulla di gran valore e santità è opera di muratori e di artigiani”.

[2] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034b. È giudizio di Zenone quello di non edificare sacrari degli dei. Un sacrario è infatti cosa di poco valore e santità poiché nessuna opera di muratori e di artigiani è di gran valore.

[3] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ III, 74, p. 89, 7 Ra. [I,61,35] Notando ciò, nel suo libro ‘La repubblica’ Zenone di Cizio vieta anche di edificare templi e fare simulacri lignei, giacché afferma che nessuna di queste [I,62,1] strutture è degna degli dei.

[4] Epifanio ‘Adversus haeres.’ III, 36. Lo Stoico Zenone di Cizio affermava che non bisogna edificare sacrari agli dei.

SVF I, 265

Origene ‘Contra Celsum’ I, 5, Vol. I, p. 59, 3 K. Addizioneremo anche noi che Zenone di Cizio nella sua ‘Repubblica’ [I,62,5] afferma: “Non bisognerà affatto edificare sacrari, giacché è d’uopo legittimmare l’idea che un sacrario è nulla; e che nulla di gran valore e santità è opera di muratori e di artigiani”.

SVF I, 266

Stobeo ‘Florilegium’ 43, 88 Mein. Zenone soleva affermare che le città si devono abbellire non con doni votivi ma con le virtù degli abitanti.

SVF I, 267

Cassio ‘Scettico’ presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 33. [I,62,10] <Alcuni rimproverano a Zenone> di nutrire per duecento righe il giudizio che non si debbano edificare nelle città sacrari, tribunali e ginnasi.

SVF I, 268

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 33. <Alcuni rimproverano a Zenone> di avere scritto così circa la moneta: “Bisogna pensare di battere moneta né a scopo di cambio [I,62,15] né di viaggi all’estero”.

SVF I, 269

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 131. Ha il beneplacito degli Stoici il pensiero che presso i sapienti le donne debbano essere comuni, di modo che l’uomo saggio che capita possa avere relazioni con la donna saggia che capita, come afferma Zenone ne ‘La repubblica’.

[2] VII, 33. <Alcuni rimproverano Zenone> perché egli, similmente a Platone, nella ‘Repubblica’ nutre il giudizio che le donne debbano essere comuni.

SVF I, 270

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. [I,62,20] <Il saggio> si sposerà, come afferma Zenone nella sua ‘Repubblica’ e farà dei figli.

SVF I, 271                                                                                      

[1] Seneca ‘De otio’ 3, 2. Zenone afferma: “Il saggio può accedere a delle cariche pubbliche, a meno che qualche causa glielo impedisca”.

[2] ‘De tranq. animi’ 1, 10. Senza esitare e con determinazione io seguo Zenone, Cleante e Crisippo, nessuno dei quali accedette [I,62,25] a cariche pubbliche e tuttavia nessuno dei quali si rifiutò di indirizzarvi altre persone.

§ 10.Cratete, Omero, Esiodo

Frammenti n. 272-276

SVF I, 272

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VI, 91. Nelle sue ‘Sentenze’, Zenone di Cizio afferma che una volta Cratete, con tutta noncuranza, appiccò [I,62,30] un vello di pecora al mantello.

SVF I, 273

Stobeo ‘Florilegium’ 95, 21 Mein. Zenone raccontava che una volta Cratete, seduto nella bottega di un calzolaio, leggeva il ‘Protrettico’ di Aristotele, libro che questi scrisse per Temisone, re di Cipro, asserendo che nessuno possedeva più beni di lui per vivere da filosofo, giacché era ricchissimo di denaro [I,63,1] da prodigare a questo scopo ed era inoltre un uomo di fama. Zenone raccontava anche che il calzolaio, mentre Cratete leggeva ad alta voce, prestava attenzione alle sue parole e intanto continuava a cucire. Allora Cratete ad un certo punto disse: “Ritengo, caro Filisco, che scriverò io un ‘Protrettico’ per te, giacché vedo che, per vivere da filosofo, tu possiedi beni maggiori di quelli di cui [I,63,5] scrisse Aristotele”.

SVF I, 274

Dione Crisostomo ‘Orationes’ LIII, 4-5. Anche il filosofo Zenone ha scritto sull’Iliade, sull’Odissea e intorno al Margite; ed a lui sembra che quest’ultimo poema sia il parto di un Omero più giovane, che mette alla prova la sua attitudine naturale alla poesia. Zenone nulla denigra [I,63,10] di Omero, benché nel contempo esponga ed insegni che Omero ha scritto alcune cose secondo opinione ed altre secondo verità, affinché non appaia che egli si contraddica nel caso di certe vicende che sembrano narrate in modo opposto. Questo discorso, ossia che alcune vicende sono state narrate dal poeta secondo opinione e altre secondo verità, fu fatto per primo da Antistene. Ma questi non lo elaborò, mentre Zenone lo rese [I,63,15] manifesto in tutti i suoi particolari.

SVF I, 275

[1] Strabone ‘Geographia’ I, p. 41. Molte cose sono state dette circa gli Erembi, e più plausibili sono coloro che legittimano l’idea che si parli degli Arabi. Anche il nostro caro Zenone scrive così: “Giunsi tra gli Etiopi, i Sidonii e gli Arabi”. Non è dunque necessario cambiare questa grafia, che è antica….

[2] VII, p. 299. [I,63,20] Se non bisogna prestare attenzione al filosofo Zenone quando scrive…

[3] XVI, p. 784. Piuttosto la ricerca concerne gli Erembi, sia che si debba sottintendere che essi sono i Trogloditi […] sia che essi sono gli Arabi. Il nostro caro Zenone riscrive così: “…. Sidoni e Arabi”.

SVF I, 276

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VIII, 48. [I,63,25] <Si dice che Pitagora> sia stato il primo a chiamare il cielo ‘cosmo’ e la terra ‘sferica’. Ma per Teofrasto il primo fu Parmenide, e per Zenone il primo fu Esiodo.

Sentenze di Zenone

 Frammenti n. 277-332

SVF I, 277

[1] Plutarco ‘De cap. ex inim. utilit.’ p. 87a. Quando Zenone seppe che la nave della quale era armatore aveva fatto naufragio, disse: “Fai proprio bene, o fortuna, [I,63,30] a spingerci tutti insieme verso il mantello <del filosofo>”.

[2] ‘De tranq. animi’ p. 467d. [I,64,1] A Zenone di Cizio rimaneva una sola nave da carico, e quando egli venne a sapere che essa, sommersa dai flutti, aveva perso il carico, disse: “Fai proprio bene, o fortuna, a spingerci tutti insieme verso il mantello <del filosofo>”.

[3] ‘De exilio’ p. 603d. Quando Zenone venne a sapere che l’unica nave che gli rimaneva era stata ingoiata dal mare con tutto il carico, disse: “Fai proprio bene, o fortuna, a spingerci tutti insieme verso il mantello e la vita del filosofo”.

[4] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 5. [I,64,5] Altri sostengono invece che egli dimorasse ad Atene quando udì del naufragio e che dicesse: “La fortuna fa proprio bene a spingerci di forza alla vita filosofica”.

[5] Seneca ‘De tranquillitate animi’ 14, 2. Il nostro caro Zenone, quando gli fu annunciato il naufragio e quindi capì che tutta la sua mercanzia era finita in fondo al mare, disse: “La sorte impone che io mi dia più speditamente alla filosofia”.

SVF I, 278

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 24. [I,64,10] Apollonio di Tiro afferma che quando Cratete cercava di trascinarlo via da Stilpone tirandolo per il manto, Zenone disse: “O Cratete, la presa destra dei filosofi è quella che avviene attraverso le orecchie. Trascinami dunque per le orecchie, persuadendomi. Ma se mi usi violenza, il corpo sarà con te ma l’animo sarà con Stilpone”.

SVF I, 279

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 25. [I,64,15] Al dialettico che gli mostrava come nel ragionamento del ‘Mietitore’ siano contenute sette idee di dialettica, chiese quante dracme intendeva farsi pagare per compenso. E quando udì che egli ne voleva cento, gliene diede duecento.

SVF I, 280

[1] Plutarco ‘De prof. in virt.’ p. 78e. Vedendo che [I,64,20] Teofrasto era ammirato per avere molti discepoli, Zenone soleva dire: “Il suo coro è più grande, ma il mio è più armonioso”.

[2] ‘De se ipsum citra invid. laud.’ p. 545f. A proposito dello stuolo di discepoli di Teofrasto, Zenone soleva dire così: “Il suo coro è più grande, ma il mio è più armonioso”.

SVF I, 281

‘Gnomologium Vaticanum’ 275, p. 113 Sternb. [I,64,25] Poiché alcuni asserivano che egli diceva cose contrarie all’opinione comune, il filosofo Zenone replicò: “Ma non contrarie alla legge <della ragione>”.

SVF I, 282

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 5, p. 288 M. A coloro che lo redarguivano perché portava alla bocca ogni [I,64,30] sorta di ricerche, Zenone disse: “Ma non tutte le ingoio”.

SVF I, 283

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 24. Quando gli fu domandato come si comportava davanti all’ingiuria, <Zenone> disse: “Proprio come quando un ambasciatore venisse inviato via senza risposta”.

SVF I, 284

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 24. Poiché durante un convito se ne giaceva reclinato in silenzio, [I,64,35] gliene fu chiesta la causa. A chi gli faceva di ciò una colpa, <Zenone> disse allora di annunciare al re che era lì presente qualcuno che conosceva la scienza del tacere. Coloro che gli avevano posto la domanda erano ambasciatori giunti da parte di Tolomeo e che volevano apprendere [I,65,1] cosa dovessero dire di lui al re.

[2] Stobeo ‘Florilegium’ 33, 10 (Vol. I, p. 680 Hense). Avendo Antigono mandato degli ambasciatori ad Atene, Zenone, insieme ad altri filosofi, fu da loro invitato a pranzo. E mentre gli altri, tra una bevuta e l’altra, avevano fretta di sfoggiare il loro possesso del sapere, lui invece taceva. [I,65,5] Quando gli ambasciatori ricercarono cosa dovessero annunciare da parte sua ad Antigono, Zenone disse: “Proprio quello che scorgete”. La parola è infatti di tutte le cose la più difficile da dominare.

[3] Plutarco ‘De garrulitate’ p. 504a. Ad Atene, un tale che teneva a banchetto degli ambasciatori reali si fece un punto d’onore di riunire nello stesso luogo insieme a loro, visto che trattavano affari seri, anche dei filosofi. Mentre gli ospiti si davano segni di amicizia, scambiavano brindisi e gli altri filosofi colloquiavano e davano il loro contributo alla generale conversazione, [I,65,10] Zenone se ne stava quieto e zitto. “E da parte tua, o Zenone” chiesero gli ambasciatori “cos’è d’uopo che noi riferiamo al re?” “Null’altro” rispose Zenone “se non che ad Atene c’è un anziano signore che è capace, tra una bevuta e l’altra, di tacere”.

SVF I, 285

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ II, p. 55f. [I,65,15] Perciò Zenone di Cizio, pur essendo burbero e rancoroso con i conoscenti, soprattutto quando trincava del vino diventava piacevole e blando. A coloro che cercavano di sapere il perché della sua differenza di modi, Zenone diceva di sperimentare quello che sperimentano i lupini. Anch’essi, infatti, sono amarissimi prima di essere ammolliti in acqua e invece, dopo essere stati abbeverati, diventano dolci e gradevolissimi.

[2] Galeno ‘De mort. animi’ 3, IV, p. 777 K. [I,65,20] Zenone, come raccontano, soleva dire che come gli amari lupini diventano dolci se inumiditi in acqua, così anche lui era disposto dal vino.

[3] Eustazio ‘In Homeri Odyss.’ XXI, v. 293, p.1910, 42 segg. (II, p. 261 Bekker). Dicono dunque che Zenone, pur essendo altrimenti burbero con coloro coi quali aveva consuetudine, purtuttavia [I,65,25] se tracannasse un po’ più di vino diventava piacevole e blando, e asseriva di sperimentare la stessa cosa dei lupini, i quali sono più amari prima di essere ammolliti in acqua e invece, dopo essere stati abberevati diventano dolci e più gradevoli.

[4] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 26. Dicono poi che alla domanda sul perché, pur essendo austero, indulgesse nel bere, egli rispose: “Anche i lupini, pur essendo amari, s’addolciscono se bagnati”.

SVF I, 286

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 17. [I,65,30] Mentre si trovava in uno stato di eccitazione sessuale per Cremonide, accanto al quale si era seduto assieme a Cleante, Zenone s’alzò in piedi. Ed a Cleante che ne rimase stupito disse: “Ascolto i buoni medici: il rimedio più possente per i nostri organi turgidi è quietarsi”.

SVF I, 287

Musonio ‘De victu’ presso Stobeo ‘Eclogae’ III, 17, 42, p. 506 Hense. [I,65,35] Zenone di Cizio reputava di non doversi accostare ad un cibo raffinato neppure da malato, e poiché il medico che lo curava gli intimava di mangiare una colombella, se ne astenne e gli disse: “Curami come curi lo schiavo Manes”. Con ciò egli sollecitava, io credo, che nella sua cura non ci fosse alcun cibo più delicato di quello previsto per un qualunque schiavo ammalato.

SVF I, 288

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 28. [I,66,1] La sua morte avvenne così. Mentre andava via da scuola incespicò e si ruppe un dito. Batté allora la terra con la mano e pronunciò quel verso della ‘Niobe’:

‘Vengo, perché mi chiami gridando?’

e, [I,66,5] soffocato il grido, morì all’istante.

[2] Stobeo ‘Florilegium’ VII, 44 (Vol. I, p. 321 Hense). Zenone, quand’era già vecchio, incespicò, cadde a terra ed esclamò: “Vengo, perché mi chiami gridando?”. Ed entrato in casa, si trasse fuor di vita.

[3] Luciano ‘Macrobìoi’ 19. Zenone, […] si racconta che mentre entrava nell’assemblea incespicò ed esclamò: “Perché mi chiami con alte grida?” [I,66,10] Poi rincasò e pose fine alla sua vita astenendosi dal cibo.

SVF I, 289

Eliano ‘Varia Historia’ IX, 26. Il re Antigono soleva trattare Zenone di Cizio con grande rispetto e premura. Una volta, riempito oltre il limite di vino, sopraggiunse a far baldoria da Zenone, e mentre lo baciava e lo abbracciava lo sollecitò ad ingiungergli di fare qualcosa, giurando e spergiurando [I,66,15] con giovanile baldanza che avrebbe esaudito la sua richiesta. Allora Zenone gli disse: “Va fuori a vomitare”; contestando in questo modo insieme solenne e disinteressato la sua ubriachezza e risparmiandogli di crepare per l’eccesso di vino.

SVF I, 290

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VIII, p. 345c. Secondo quanto racconta Antigono di Caristo nella sua ‘Vita di Zenone’, questo fu il comportamento di Zenone di Cizio, il costruttore della scuola Stoica, nei confronti dell’ingordo mangione con il quale conviveva da parecchio tempo. [I,66,20] Accadde per caso che, senza che fosse preparato altro, fosse servito in tavola un grosso pesce e che Zenone, presolo tutto intero dal piatto di portata, si mettesse a divorarlo tal quale era. Al mangione che gli lanciava terribili sguardi, Zenone allora disse: “Cosa credi dunque che sperimentino i tuoi conviventi, se tu non sei capace di sopportare per un giorno solo [I,66,25] la mia ingordigia?”.

SVF I, 291

Ateneo ‘Deipnosophistai’ V, p. 186d. Non appena fu servito in tavola un pesce, immediatamente uno degli ingordi mangioni presenti ne rase via la parte superiore. Allora Zenone rigirò il pesce e fece anche lui la stessa cosa soggiungendo:

‘e Ino finì il lavoro dall’altra parte’.

[I,66,30]

SVF I, 292

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 17. Durante un simposio, due convitati giacevano uno un po’ più in alto dell’altro; e quello accanto a Zenone infastidiva quello più in basso a colpi di piede. Allora Zenone gli diede una ginocchiata. Costui si rivoltò <e Zenone gli disse>: “Cosa credi che stia sperimentando quello che giace sotto di te?”

SVF I, 293

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 16-17. [I,66,35] Per esempio, ciò che egli disse una volta a proposito di un tale tutto imbellettato. Giacché costui si peritava ad oltrepassare un canaletto, <Zenone> disse: “Giustamente costui guarda con sospetto il fango, poiché non vi è modo di rispecchiarsi in esso”.

SVF I, 294

Stobeo ‘Florilegium’ 15, 12 (Vol. I, p. 479 Hense). [I,67,1] A quanti si giustificano per la loro dissolutezza e affermano di spendere soltanto qualcosa’ del molto che rimane, <Zenone> soleva dire: “Allora forse voi perdonerete anche i cuochi, se diranno di avere fatto pietanze salatissime perché avevano [I,67,5] a disposizione quantità enormi di sale?”.

SVF I, 295

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 18. Di un tale che era amante di ragazzotti, <Zenone> diceva che né questi hanno buon senso né gli insegnanti che passano tutto il tempo in affari coi ragazzotti.

SVF I, 296

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 17. Quando un certo Cinico, dopo avere detto che non aveva più olio [I,67,10] nella sua fiaschetta, andò oltre e gliene chiese, <Zenone> gli rispose che non glielo avrebbe dato. Partendosene quello, Zenone gli intimò di analizzare chi dei due avesse minore rispetto di sé e degli altri.

SVF I, 297

Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 35, p. 768. A chi affermava: “Possa io andare in malora se non mi vendicherò di te”; <Zenone> diceva: “Io invece, se non ti acquisirò come amico”.

SVF I, 298

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. [I,67,15] Si racconta che un servo veniva frustato per un furto. Il servo diceva: “Era mio destino rubare”. E Zenone a lui: “Anche essere scorticato”.

SVF I, 299

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 443a. Eppure raccontano che anche Zenone, mentre saliva al teatro dove Amebeo cantava suonando la cetra, dicesse ai suoi discepoli: “Andiamo a decifrare quale accordo armonioso di suono e di canto rilascino budella e nervi, [I,67,20] legno e osso, quando partecipano di ragione, di numero e di ordine”.

SVF I, 300

Stobeo ‘Florilegium’ 36, 26 (Vol. I, p. 696 Hense). Zenone era dell’avviso che dei discepoli alcuni amano il ragionamento filosofico, altri invece il chiacchiericcio filosofico.

SVF I, 301

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 37. Cleante di Asso, quello che era assimilato alle [I,67,25] tavolette per scrivere ricoperte di cera dura, sulle quali si scrive appena appena ma che serbano a dovere gli scritti.

SVF I, 302

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 18. Poiché il suo discepolo Aristone faceva molte volte discorsi sconci ed alcune volte pure in modo precipitoso e sfrontato, Zenone soleva dire: “È impossibile che tuo padre ti abbia generato se non quand’era ubriaco”. [I,67,30] Laonde, essendo lui di poche parole, soprannominò Aristone ‘il garrulo’.

SVF I, 303

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Quando Dionisio il Ritrattatore gli chiese perché correggesse tutti gli altri meno che lui soltanto, <Zenone> rispose: “Perché non ho fiducia in te”.

SVF I, 304

[1] Stobeo ‘Florilegium’ 36, 23 (Vol. I, p. 696 Hense). [I,67,35] Nell’Accademia, un certo giovanotto disquisiva da stolto sui mestieri. Al che Zenone gli disse: “Se tu disquisirai senza avere prima fatto macerare la lingua nella mente, ebbene stonerai ancora di più nei tuoi discorsi”.

[2] Plutarco ‘Vita Phoc.’ V. [I,68,1] Zenone soleva dire che il filosofo deve proferire la parola dopo averla immersa nella mente.

[3] ‘Suida’ s.v. ‘Aristoteles’ ….Intingendo la penna nella mente.

SVF I, 305

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 19. Un tale affermava di non gradire la maggior parte [I,68,5] delle opere di Antistene. Allora Zenone gli fece menzione del trattatelo di Antistene su Sofocle e gli chiese se a suo parere esso contenesse anche qualcosa di buono. Poiché quel tale rispose di non saperlo, Zenone gli replicò: “Dunque, se qualcosa è stato detto male da Antistene tu non ti vergogni di selezionarlo e di rammentarlo, mentre se invece Antistene dice qualcosa di buono non progetti di rattenerlo?”.

SVF I, 306

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 20. [I,68,10] Quando un tale gli disse, a proposito di Polemone, che questi aveva proposto un argomento e poi invece aveva parlato d’altro, Zenone s’accigliò e gli chiese: “Ma quanto ti hanno soddisfatto le cose che ti sono state date?”.

SVF I, 307

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 21. E faceva menzione di quelle parole di Cafisia il quale, quando uno dei suoi discepoli s’applicò a suonare forte, lo bacchettò dicendogli [I,68,15] che il bene non sta nel grande, ma che nel bene sta il grande.

[2] Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIV, 629a. Non parlò male il flautista Cafisia il quale, quando uno dei suoi discepoli s’applicò a suonare forte il flauto e studiava come riuscirci, lo bacchettò dicendogli che il bene non sta nel grande, ma che nel bene sta il grande..

SVF I, 308

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 20. [I,68,20] Come se fossero eccellenti opere artigianali, alle frasi ben tornite non bisogna lasciar spazio d’essere osservate con ammirazione. Al contrario, l’ascoltatore deve disporsi verso ciò che sente dire in modo da non avere neppure il tempo di prenderne nota.

[I,68,25]

SVF I, 309

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 22. Non bisogna far diventare memorabili le voci e le parole. Bisogna invece che la mente si impegni circa la nostra disposizione della loro utilità, non come se si trattasse di un cibo già cotto e imbandito.

SVF I, 310

[1] Stobeo ‘Florilegium’ 36, 19 (Vol. I, p. 694 Hense). Ad un tale che voleva [I,68,30] più cianciare che ascoltare, Zenone disse: “Giovanotto, la natura ci ha dotato di una sola lingua e di due orecchie affinché noi ascoltiamo il doppio di quanto parliamo”.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Ad un adolescente chiacchierone, disse: “Per questo abbiamo due orecchie e una sola bocca: per ascoltare di più e parlare di meno”.

[3] Plutarco ‘De garrulitate’ p. 502c. [I,68,35] L’impotenza a tacere è infatti una sordità per scelta propria degli uomini i quali, io credo, [I,69,1] biasimano <la natura> perché hanno una sola lingua e due orecchie.

[4] ‘De recta rat. aud.’ p. 39b. Per lodare Epaminonda, Spintaro diceva che non è facile incontrare un altro uomo che conoscesse di più e che pronunciasse meno parole. E si dice che la natura dia due orecchie [I,69,5] e una sola lingua come se a ciascuno di noi giovasse meno parlare che ascoltare.

SVF I, 311

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 21. Se un giovanotto cianciava molto, <Zenone> soleva dirgli: “Le tue orecchie ti sono confluite nella lingua”.

SVF I, 312

Stobeo ‘Florilegium’ 57, 12. Zenone, il filosofo Stoico, vedendo uno dei suoi conoscenti tratto fuor di sé dalla selvatichezza, gli disse: “Se tu non manderai lei in malora, [I,69,10] lei manderà in malora te”.

SVF I, 313

Plutarco ‘De vit. pud.’ p. 534a. Un fatto di Zenone. Zenone incontrò un certo giovanotto della sua cerchia consueta, il quale incedeva quieto quieto lungo le mura. Informato che egli stava fuggendo un amico che lo sollecitava a testimoniare il falso in suo favore, Zenone così lo apostrofò: “Scempio! Che vai dicendo? Quello non ha temuto e non si vergogna di operare da scriteriato e da ingiusto nei tuoi confronti, [I,69,15] e tu invece non hai il coraggio di metterlo sotto in difesa della giustizia?”

SVF I, 314

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 19. Quando un adolescente gli prospettò interrogativamente un quesito troppo indiscreto per la sua età, Zenone lo fece appressare ad uno specchio e gli ingiunse di guardarvi dentro. Dopodichè gli domandò se gli sembrava che [I,69,20] siffatti quesiti fossero acconci ad una vista siffatta.

SVF I, 315

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 21. Se un giovanotto disquisiva con troppa sfrontatezza, Zenone gli diceva: “Giovincello, non oserei dirti quello che mi sta saltando in testa”.

SVF I, 316

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 21. Al bel ragazzo il quale sosteneva che secondo lui il sapiente mai sarà un amante, Zenone diceva: “Infatti nulla mai sarà più meschino [I,69,25] di voi, bei ragazzi”.

SVF I, 317

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 22. Soleva asserire che la cosa di tutte meno confacente è la vanità, e soprattutto quella dei giovani.

SVF I, 318

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Ad un tale che si era frizionato con olio odoroso, Zenone chiese: “Chi è che puzza di donna?”.

SVF I, 319

Stobeo ‘Eclogae’ II, 31, 81, p. 215, 13 W. [I,69,30] Interrogato su come un giovane qualunque potesse aberrare il minimo possibile, Zenone rispose: “Tenendo davanti agli occhi coloro che più onora e di fronte ai quali più si vergogna”.

SVF I, 320

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Osservando che lo schiavetto di uno dei suoi conoscenti [I,69,35] era coperto di lividi, gli disse: “Vedo le tracce del tuo rancore”.

SVF I, 321

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. <Zenone> soleva dire che nulla è, più della presunzione, estraneo all’apprensione delle scienze.

SVF I, 322

Gnomologium Monacense 198. [I,70,1] Zenone soleva dire che la visione prende la luce dall’aria e l’animo, invece, prende la luce dalle nozioni certe.

SVF I, 323

[1] Stobeo ‘Florilegium’ 98, 68 Mein. Zenone diceva che di nulla noi [I,70,5] siamo così poveri come del tempo. Ed in effetti breve è la vita, l’arte invece lunga da apprendere, soprattutto l’arte capace di medicare le malattie dell’animo.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Di nulla noi siamo così carenti come del tempo.

SVF I, 324

[1] Gnomologium Monacense 197. Proprio Zenone, interrogato su cosa sia un amico, rispose: “Un altro tal quale io sono”.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Interrogato su [I,70,10] cosa sia un amico, Zenone rispose: “Un altro io”.

SVF I, 325

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 26. Lo stare bene è per poco, ma è invero non poca cosa.

SVF I, 326

Massimo Confessore ‘Semones’ XXIV, I, p. 450 Boissonnade. [I,70,15] Di Zenone. Vivi, o uomo, non soltanto per mangiare e per bere, ma per far uso della vita al fine di vivere bene.

SVF I, 327

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 20. Zenone diceva che chi dialoga a tono deve, come fanno gli attori, tenere piena la voce e la sua forza [I,70,20] senza però spalancare la bocca; il che invece fanno coloro che cianciano sostenendo molte cose che sono però impossibili.

SVF I, 328

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 20. Poiché un tale asseriva che le argomentazioni logiche dei filosofi gli parevano stringate, Zenone gli rispose: “Tu dici il vero. E devono essere brevi, se possibile, anche le loro sillabe”.

SVF I, 329

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 26. [I,70,25] Zenone affermava che è meglio andare sul lubrico con i piedi che con la lingua.

SVF I, 330

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Zenone chiamò ‘fiore’ l’avvenenza della voce; [I,70,30] ma secondo altri chiamò ‘la voce’ fiore dell’avvenenza.

SVF I, 331

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 21. [I,70,35] Zenone soleva ripetere che la maggior parte dei filosofi è, quanto a molte cose, gente stolida; e, quanto a cose piccole e fortuite, gente incolta.

SVF I, 332

Frammento spurio, erroneamente attribuito a Zenone, e del quale pertanto si omette la traduzione. [I,71,1]

APPENDICE

*Frammenti di Zenone riferiti ai singoli libri

Questa Appendice, contenuta nelle pagine 71 (parte) e 72 del Volume I, contiene la nuda lista dei titoli delle opere di Zenone già citate nei vari frammenti e dei riferimenti numerici ad esse dei frammenti appena presentati. Si tratta quindi della semplice ridisposizione di materiale già incontrato e tradotto. Giudicando che essa abbia un interesse esclusivamente filologico, non se ne duplica qui la traduzione.

I DISCEPOLI DI ZENONE

1. Aristone di Chio [I,75,1] (320-250 aC.)

§ 1.La vita

Frammenti n. 333-350

SVF I, 333

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 160-164. Aristone di Chio, il Calvo, soprannominato ‘Sirena’. Così filosofando e tenendo discorsi nel Cinosarge, fu in stato d’essere tenuto per un caposcuola. Milziade e [I,75,5] Difilo erano pertanto designati come ‘Aristonei’. Era una persona convincente e fatta per le folle. Laonde Timone dice di lui:

‘e un tale, che trae la sua discendenza dal seduttivo Aristone’.

Diocle di Magnesia afferma che quando Zenone incappò in una lunga infermità, Aristone si confrontò con Polemone e quindi ritrattò. Gli si attribuiscono questi [I,75,10] libri. ‘Protrettico’ (2 libri); ‘La dottrina di Zenone’; ‘Dialoghi’; [I,75,15] ‘Lezioni’ (6 libri); ‘Diatribe sulla sapienza’ (7 libri); ‘Diatribe erotiche’; ‘Memorie sulla vanagloria’; ‘Memorie’ (25 libri); [I,75,20] ‘Memorabili’ (3 libri); ‘Detti sentenziosi’ (11 libri); ‘Contro i retori’; ‘Contro le accuse di Alessino’; ‘Contro i dialettici’ (3 libri); [I,75,25] ‘Contro Cleante’; ‘Lettere’ (4 libri). Panezio e Sosicrate affermano sue soltanto le ‘Lettere’ ed attribuiscono tutti gli altri libri ad Aristone il Peripatetico. Si racconta che, essendo calvo, fu vittima di un’insolazione e che per questo morì.

[2] Cf. prooem. 16. [I,76,1] Certi filosofi hanno lasciato delle ‘Memorie’, ma certi altri non compilarono alcuno scritto; come fecero, secondo alcuni, Socrate, Stilpone, Filippo, Menedemo, Pirrone […] e, secondo altri, Pitagora e Aristone di Chio, salvo poche lettere.

SVF I, 334

Temistio ‘Orationes’ XXI, p. 255 Hard. [I,76,5] Poiché il vero luminoso riluce nella filosofia, tutti coloro che quest’opera imprendono ne ritraggono un vantaggio senza dover spargere del sangue. Per questo Aristone ossequiava Cleante ed aveva alunni in comune con lui.

SVF I, 335

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXIII. Riguardo ad Aristone [I,76,10] di Chio….

[2] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXIV. Della tragedia….una sola cosa può forse essere detta da noi….

[I,76,15]

SVF I, 336

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXV. [I,76,20] Spirava dai suoi discorsi una tale vitalità, un tale empito del cuore, come dice il poeta di Atena, che ciascuno….

SVF I, 337

Eliano ‘Varia Historia’ III, 33. Il flautista Satiro era spesso un uditore del filosofo Aristone, [I,76,25] e poiché ne era ammaliato, a ciò che sentiva dire soleva soggiungere:

‘se io non ponessi questi archi nel fuoco lucente’.

Egli alludeva ai flauti, ed in un certo modo svalutava così la sua arte a confronto con l’arte di vivere una vita filosofica.

SVF I, 338

Strabone ‘Geographia’ I, p. 15. [I,76,30] <Eratostene> afferma che in questo tempo, come non era mai avvenuto, entro una sola cinta di mura ed in una sola città, avvenne la fioritura dei filosofi seguaci di Aristone e di Arcesilao. […] Egli dunque pone Arcesilao ed Aristone quali corifei dei filosofi che fiorirono al suo tempo. […] Proprio con queste sue dichiarazioni <Eratostene> palesa a sufficienza [I,77,1] la debolezza del suo punto di vista; in quanto, pur essendo divenuto uno della cerchia di Zenone di Cizio ad Atene, non ricorda nessuno dei suoi successori, mentre quelli che si differenziarono da Zenone e dei quali nessuna linea di successione salva i nomi, ebbene proprio costoro egli afferma che fiorirono al suo tempo.

SVF I, 339

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 182. [I,77,5] Quando un tale gli rinfacciò di non frequentare, insieme a molti altri, la scuola di Aristone, <Crisippo> gli rispose:

“Se prestassi attenzione alla maggioranza non avrei fatto una vita filosofica”.

SVF I, 340

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 18. Poiché il suo discepolo Aristone faceva molte volte discorsi sconci ed alcune volte pure in modo precipitoso e sfrontato, Zenone soleva dire: “È impossibile [I,77,10] che tuo padre ti abbia generato se non quand’era ubriaco”. Laonde, essendo lui di poche parole, soprannominò Aristone ‘il garrulo’.

SVF I, 341

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VII, p. 281c. Pure alcuni degli Stoici s’appigliarono, insieme ad altri, a queste ebbrezze della carne. Infatti Eratostene il Cirenaico, il quale fu discepolo dello Stoico Aristone di Chio, [I,77,15] nell’opera intitolata ‘Aristone’ rappresenta palesemente il maestro che successivamente impelle all’effeminatezza, dicendo così: “Già alcune volte ho rintracciato anche costui mentre perforava il muro divisorio tra le ebbrezze della carne e la virtù, per poi comparire dalla parte delle ebbrezze della carne”.

SVF I, 342

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VI, p. 251b. Timone di Fliunte, nel terzo libro dei [I,77,20] ‘Silli’ afferma che Aristone di Chio, discepolo di Zenone di Cizio, divenne un adulatore di Persèo, e che questi era compagno del re Antigono.

SVF I, 343

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ IV, 33. <Arcesilao> s’atteneva al metodo dialettico e si rifaceva ai ragionamenti degli Eretriaci. Laonde Aristone [I,77,25] soleva dire di lui:

‘Davanti Platone, dietro Pirrone e in mezzo Diodoro’

SVF I, 344

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ I, 234. Perciò Aristone diceva di Arcesilao:

‘Davanti Platone, dietro Pirrone e in mezzo Diodoro’

giacché egli [I,77,30] sfruttava la dialettica di Diodoro, ma visto di faccia appariva un Platonico.

SVF I, 345

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ IV, 40. <Arcesilao> usava farsela con gli adolescenti ed era portato ai piaceri della carne. Perciò gli Stoici della cerchia di Aristone l’avevano soprannominato, facendogliene colpa, sciupagiovani e sfrontato cinedologo. [I,77,35] Si racconta che egli fosse per molto tempo l’amante di quel Demetrio che navigò fino a Cirene, e di Cleocare di Mirlea; essendo in compagnia del quale una volta disse ad una banda di gente in [I,78,1] baldoria che egli voleva loro aprire la porta, ma che Cleocare glielo impediva. Amanti di Cleocare erano anche Democare figlio di Lachete e Pitocle figlio di Bugelo, e quando egli li pigliava sul fatto usava dire che avessero la pazienza di fare spazio anche a lui. Per questo i predetti filosofi lo mordevano e lo schernivano [I,78,5] come ‘amante dell’affollamento’ e come vanitoso. Soprattutto gli davano addosso quando si ritrovavano presso Geronimo il Peripatetico, ogni volta che questi riunisse gli amici in occasione del compleanno di Alcioneo, figlio di Antigono; occasione nella quale Antigono inviava una quantità di denaro sufficiente a far festa. Qui Arcesilao schivava ogni volta di dare, tra una coppa e l’altra, spiegazioni filosofiche; e ad Aridelo che gli porgeva un certa questione teorica e lo [I,78,10] sollecitava a discuterne disse: “Ma proprio questo è peculiare della filosofia, ossia la conoscenza certa del momento opportuno d’ogni cosa”.

SVF I, 346

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 162. <Aristone> si stava dilungando a parlare contro Arcesilao quando, osservando un toro mostruoso per la presenza di un utero, disse: “Ohimé, è stato dato ad Arcesilao un epicherema contro l’evidenza”.

[I,78,15] All’Accademico il quale affermava di nulla afferrare con certezza, Aristone disse: “Dunque neppure vedi chi ti è dintorno e ti è seduto accanto?”. E poiché quello negava di vederlo, continuò: “Chi ti accecò, chi ti sottrasse i fulgidi raggi del sole?”.

SVF I, 347

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 162. <Aristone> s’attenne soprattutto al principio Stoico che il sapiente non ha opinioni. Ma Persèo, [I,78,20] per contrastare questo principio, fece sì che di due fratelli gemelli uno desse ad Aristone del denaro in deposito, e che in seguito fosse però l’altro gemello a ritirarlo. Egli oppugnò così quel principio e lasciò Aristone nell’incertezza <dell’opinione>.

SVF I, 348

Cicerone ‘De natura deorum’ III, 77. Se è vero quel che soleva dire Aristone di Chio, ossia che i filosofi nuocciono agli ascoltatori che interpretano male le loro giuste affermazioni, allora [I,78,25] dalla Scuola di Aristippo possono davvero uscire dei dissoluti e da quella di Zenone dei burberi immaturi.

SVF I, 349

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ II, 79-80. <Aristippo> usava dire che quanti sono a parte dell’educazione enciclopedica ma restano lontani dalla vita filosofica, sono simili <ai pretendenti di Penelope>. Una cosa simile affermava anche Aristone, giacché quando Odisseo è sceso [I,78,30] nell’Ade ha avuto modo di imbattersi e vedere quasi tutti i morti; ma la regina dell’Ade in persona, quella non ha potuto rimirarla.

SVF I, 350

[1] Stobeo ‘Florilegium’ 4, 109, Vol. I, p. 246 Hense. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Aristone di Chio diceva che quanti s’affaticano intorno alle nozioni enciclopediche ma trascurano la vita filosofica sono [I,78,35] simili ai pretendenti di Penelope, i quali falliscono la conquista di lei pur riuscendo in quella delle sue ancelle.

[2] 4, 110. [I,79,1] Lo stesso filosofo (Aristone) faceva rassomigliare la maggioranza degli esseri umani a Laerte il quale, mentre era sollecito di tutto ciò che riguardava il suo campo, ben poco si curava di se stesso. Infatti, queste moltitudini hanno la massima sollecitudine dei loro possessi materiali, mentre sono sbadate circa gli animi loro che invece sono ripieni di selvatiche passioni.

§ 2. Massime[I,79,5]

Frammenti n. 351-403

SVF I, 351

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 160-161. Aristone di Chio […] affermava che il sommo bene è vivere mantenendosi indifferenti verso le cose che stanno frammezzo alla virtù e al vizio, senza lasciarsi andare all’ammissione di un qualunque divario tra di esse e serbando identica la nostra disposizione verso ciascuna di esse. Il sapiente è infatti simile al provetto attore il quale, tanto se impersona [I,79,10] Tersite quanto se impersona Agamennone, recita la sua parte come si conviene. Aristone levava di mezzo tanto lo studio della Fisica che quello della Logica, dicendo che la Fisica è al di sopra delle nostre capacità di comprensione e che la Logica non ci riguarda, mentre è soltanto l’Etica che ha a che fare con noi. Diceva poi che i ragionamenti dialettici somigliano alle tele di ragno, le quali seppur sembrano palesare una certa capacità artistica, nulla hanno di proficuo. [I,79,15] Egli non introduceva molteplici virtù, come fece invece Zenone; né una sola virtù chiamata con molti nomi, come i Megarici; ma una virtù che è in relazione al modo in cui si sta avendo di mira qualcosa.

SVF I, 352

Stobeo ‘Eclogae’ II, 8, 13 W. Di Aristone. Aristone affermava che delle cose oggetto delle ricerche dei filosofi alcune hanno a che fare con noi, altre non ci riguardano e [I,79,20] altre ancora sono al di sopra delle nostre capacità di comprensione. Quelle che hanno a che fare con noi sono le ricerche Etiche; quelle che non ci riguardano sono le ricerche Dialettiche, poiché esse nulla ci conferiscono per la rettificazione della nostra vita; al di sopra delle nostre capacità di comprensione sono le ricerche fisiche, giacché riguardano cose impossibili da comprendere e non ci procurano utilità alcuna.

SVF I, 353

Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 62, 7. Questo pensava [I,79,25] Socrate. Dopo di lui, i seguaci di Aristippo il Cirenaico e, in seguito, quelli di Aristone di Chio impresero a dire come degni di riflessione filosofica siano soltanto i ragionamenti concernenti l’Etica, giacché questi trattano cose possibili e giovevoli. Invece i ragionamenti sulla natura sono, tutt’al contrario, né afferrabili né, seppur fossero colti dalla nostra mente, di alcun pro. Nulla di più [I,79,30] ci verrà da questi ragionamenti; neppure se, una volta sollevati più in alto di Persèo,

‘sopra i flutti d’aperto mare e sopra le Pleiadi’

potessimo con i nostri stessi occhi vedere sotto di noi tutto il cosmo e, finalmente, quale sia la natura delle cose che sono. Non per questo, infatti, noi saremo uomini più saggi, [I,79,35] o più giusti, o più virili o più temperanti; e neppure potenti, belli, ricchi di denaro, tutte cose senza le quali [I,80,1] è impossibile essere felici. Laonde rettamente parlava Socrate quando mostrava come, delle cose che sono, alcune siano al di sopra delle nostre capacità di comprensione e come altre non ci riguardino. Egli infatti affermava che i fenomeni naturali sono al di sopra delle nostre capacità di comprensione; che le cose susseguenti alla morte non ci riguardano, e che a riguardarci sono soltanto le vicende umane. Per questa via si racconta che egli dicesse addio alle ricerche sulla natura di Anassagora e [I,80,5] di Archelao, per darsi soltanto alla ricerca di “quel che di cattivo e di buono c’è nella magione”. D’altra parte i ragionamenti sulla natura non sono soltanto esasperanti ed impossibili, ma anche empi e profondamente contrari alle tradizioni. Alcuni filosofi, infatti, sostengono che gli dei non esistono affatto; altri filosofi sostengono che essi siano l’infinito, [I,80,10] o l’ente, o l’uno, o qualunque altra cosa piuttosto che gli dei tradizionali. A sua volta, inoltre, enorme è la disarmonia tra costoro, giacché alcuni dichiarano che il tutto è infinito, altri invece che è finito; alcuni sostengono che il tutto è in movimento, altri che non è assolutamente così.

SVF I, 354

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VI, 103. Ha il beneplacito [I,80,15] <dei Cinici> e similmente quello di Aristone di Chio, la rimozione dall’ambito filosofico della Logica e della Fisica, e l’attenzione alla sola Etica.

SVF I, 355

Cicerone ‘Academica’ II, 123. Esenti da tale irrisione sono Socrate e Aristone di Chio, i quali ritengono che nulla si possa sapere di questi corpi celesti.

SVF I, 356

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 12. [I,80,20] Aristone di Chio non soltanto, come si dice, deplorava lo studio teorico della Fisica e della Logica in quanto futile e nocivo per coloro che fanno vita filosofica; ma anche nell’ambito dell’Etica circoscriveva insieme alcuni campi, come il parenetico e l’ammonitorio. Egli diceva che questi due campi potrebbero ricadere nell’interesse di balie e di [I,80,25] pedagoghi, mentre per vivere beatamente basta il ragionamento che ci fa imparentare con la virtù, che ci fa estraniare dal vizio e che ci fa inveire contro le cose che stanno frammezzo a queste due, e per le quali i più vanno in palpitazione e si rendono infelici.

SVF I, 357

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXIX, 13. Aristone di Chio disse che la logica e la fisica sono parti della filosofia non soltanto superflue ma contrarie a quella etica. [I,80,30] Anche l’etica, che è la sola parte della filosofia che lasciò salva, egli la circoscrisse; giacché eliminò la sezione riguardante le ammonizioni, sostenendo che si tratta di materia da pedagoghi e non da filosofi: come se il saggio fosse qualcos’altro che il pedagogo del genere umano.

SVF I, 357a

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VII, 7. Aristone espose la dottrina secondo cui gli uomini nascono per impadronirsi [I,80,35] della virtù.

SVF I, 358

Seneca ‘Epistulae morales’ XCIV, 1. Della filosofia, alcuni accettano solo quella parte che fornisce precetti specifici per i casi singoli, ma non stabilisce quale sia la natura delle cose ed il posto che spetta all’uomo nell’universo: e quindi consiglia al marito come trattare la moglie, al padre come allevare i figli, al padrone come governare i servi […] Lo stoico Aristone considera [I,81,1] invece questa parte poco rilevante e incapace di scendere al cuore dei problemi. Piuttosto che a una tale precettistica da vecchiette, egli dice che a procurare grandissimo profitto sono di per sé stessi i principi cardine della filosofia e la definizione del sommo bene, perché chi l’ha bene intesa e ben imparata, sa poi da sé quello che si deve fare [I,81,5] in ogni circostanza.

SVF I, 359

Seneca ‘Epistulae morales’ XCIV, 5. Quelli che vogliono fornire la prova dell’assoluta inutilità di questa parte, ossia della precettistica, così argomentano. Se c’è qualcosa davanti agli occhi che impedisce la vista, va tolto. Finché è lì davanti, è tempo perso ordinare: ‘cammina così, stendi la mano a quell’oggetto là’. Allo stesso modo, [I,81,10] quando qualcosa acceca l’animo e gli impedisce la percezione della gerarchia dei doveri, non conclude nulla chi prescrive: ‘Così si vive col padre, così con la moglie’. Queste indicazioni non serviranno a nulla, finché l’errore fa velo alla mente, ma, se questo velo sarà squarciato, allora a ciascuno apparirà chiaro qual è il suo dovere. Altrimenti insegnerai, sì, come deve agire un uomo sano, ma non renderai sano nessuno. [I,81,15] Tu mostri ad un povero come ci si comporta da ricchi: ma come potrà egli comportarsi in tal modo, finché resta in povertà? Tu esponi ad un affamato quello che dovrebbe fare da sazio? Pensa piuttosto a togliergli la fame che gli sta piantata nelle budella. Lo stesso dico a te in relazione ad ogni vizio: bisogna rimuovere i vizi, non ordinare ciò che non può realizzarsi finché quei vizi permangono. Se non espellerai le false opinioni che ci fanno soffrire, l’avaro non comprenderà come si deve usare il denaro, [I,81,20] e neppure il pavido come sprezzare il pericolo. È necessario far sì che egli capisca che il denaro è né un bene né un male, e che tu gli esponga quanto siano miseri i ricchi. È necessario far sì che egli capisca quanto poco sia da temere -certo meno di quel che ne dica la fama- ciò che in generale temiamo: il dolore e la morte. Circa la morte, che ognuno deve inesorabilmente subire, è spesso una grande sollievo sapere che essa non torna mai due volte; [I,81,25] e circa il dolore sarà un rimedio la saldezza dell’animo, il quale ha il potere di alleggerire qualsiasi avversità sia sopportata con forza. Inoltre, la natura del dolore è particolarmente benevola, perché non può esserci un dolore duraturo che sia acuto, né un dolore acuto che sia duraturo. E quindi tutti gli eventi che la necessità che governa il mondo ci impone, sono da sopportarsi con forza d’animo. Quando, per via di questi principi, avrai condotto uno alla consapevolezza della sua condizione [I,81,30] e alla coscienza che non la vita di piacere è beata, ma la vita secondo natura; e poi quando uno si sarà innamorato dell’unico bene dell’uomo, cioè della virtù, e sarà rifuggito dall’unico male, cioè dal vizio; e, da ultimo, quando avrà riconosciuto che tutto il resto, ricchezze, onori, buona salute, vigore, potere, sono realtà intermedie da computarsi né fra i beni né fra i mali, allora finalmente non sentirà la necessità di chi lo ammonisca caso per caso dicendogli: “Va’ avanti così, pranza così; [I,81,35] questo tocca all’uomo, questo alla donna, questo al maritato e quest’altro al celibe”. Del resto, quelli che con tanta diligenza distribuiscono ammonimenti, poi loro stessi non li sanno attuare. Sono questi i consigli che il maestro dà al bambino e la nonna al nipote; eppure mentre discetta sul fatto che non ci si deve adirare il maestro è furibondo. Se entrerai in una scuola elementare, ti renderai conto che i principi che i filosofi con tanta supponenza vanno esibendo, già si trovano nei dettati dei bambini. [I,82,1] E poi insegnerai principi dubbi o chiari? Perché le cose che si impongono per l’evidenza non hanno bisogno di ammonitori; e d’altra parte a chi insegna cose dubbie non si presta orecchio, e dunque è inutile insegnarle. Impara dunque questo. Se fai ammonimenti ambigui e poco chiari, ci sarà bisogno di prove; ma se devi ricorrere a prove, queste hanno [I,82,5] di per sé più valore e questo basta.“Tratta così l’amico, il cittadino, il compagno”. Perché? Perché è giusto. Ma questo me lo dice la sezione della filosofia che si occupa della giustizia: è qui che scopro che l’equità va ricercata per se stessa, e che ad essa non può costringerci la paura e neppure condurci una ricompensa; e che non è giusto chi è attratto da qualcosa in questa virtù che non sia la virtù stessa. E una volta che mi sono convinto di queste verità e le ho assimilate, [I,82,10] a che giovano questi precetti che insegnano a chi sa già? Fornire insegnamenti a chi sa già è inutile, e a chi non sa è insufficiente. Uno deve sentirsi dire non solo quel che gli viene prescritto, ma anche il perché. Mi chiedo: opinioni vere sui beni e sui mali sono necessarie a chi le ha o a chi non le ha? Chi non le ha certo non sarà aiutato da te, perché nelle sue orecchie risuonano voci opposte alle tue esortazioni; e d’altra parte chi possiede un giudizio preciso [I,82,15] su quanto va fuggito e su quanto va ricercato, sa come comportarsi anche se tu stai zitto. Pertanto, tutta questa parte della filosofia può essere abolita.

Due sono le cause dei nostri errori: o nell’animo alberga una malvagità contratta da opinioni perverse, oppure, anche se l’animo non è occupato da opinioni false, è però ad esse propenso, e in breve può essere corrotto da quelle apparenze che lo portano fuori strada. [I,82,20] Non ci resta quindi che curare la mente malata e liberarla dai vizi, oppure, ammesso che ne sia ancora sgombra ma sia prona al peggio, prenderne possesso prima che il peggio arrivi. Ebbene, i principi della filosofia fanno una cosa e l’altra. Ne segue che un tal genere di esortazioni non serve a niente. Se poi pretendiamo di dare consigli caso per caso, allora la nostra impresa è sconfinata: altri infatti sono i consigli da dare [I,82,25] all’usuraio, altri al coltivatore, altri ancora al negoziante, a chi persegue l’amicizia dei re, a chi si affeziona ai suoi pari, o a quelli che gli sono sottomessi. In caso di matrimonio darai suggerimenti sul come convivere con la moglie quand’essa sia giunta vergine al matrimonio, o quando sia già stata con un altro uomo prima delle nozze, o quand’essa sia provvista di dote o priva di dote. Inoltre, non pensi che si debba distinguere [I,82,30] fra una donna sterile e una feconda, fra una avanti con gli anni ed una ancora adolescente, fra una madre e una matrigna? Non possiamo comprendere tutti i casi, eppure ognuno di essi esigerebbe una trattazione specifica; mentre invece le leggi della filosofia sono concise e contemplano ogni caso. Aggiungi ancora che i principi della saggezza devono essere in numero finito e certi: se questi non possono essere definiti nel numero, si pongono al di fuori dell’ambito della sapienza, la quale conosce bene i limiti delle cose. [I,82,35] Pertanto bisogna eliminare dalla filosofia la parte precettistica, perché quel che promette a pochi essa non può garantirlo a tutti, mentre la saggezza si offre a tutti. Fra la follia diffusa tra la gente e quella che si affida alle cure mediche, non c’è altra differenza se non che in un caso la follia viene dalla malattia, nell’altro da false opinioni; in un caso causa della pazzia è lo stato di salute; nell’altro caso la causa è il cattivo stato di salute dell’animo. [I,83,1] Se ad un tale che ha un attacco di follia uno desse consigli sulla buona creanza nel parlare, o nel camminare o nel comportamento in pubblico e in privato, sarebbe più pazzo lui di quello che vuole ammonire. Piuttosto è la bile nera che va curata, e quella da rimuovere è la causa stessa della pazzia. Lo stesso bisogna fare con l’altro genere di follia, quella dell’animo: essa va proprio distrutta, altrimenti finiranno nel nulla le parole di chi ammonisce. Ecco dunque qual è il punto di vista di Aristone. [I,83,5]

SVF I, 360

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ Vol. I, p. 497 Pott. Quanto ad Aristone, cosa potrei dirti in dettaglio? Costui affermava che il sommo bene è l’indifferenza: insomma l’indifferente lo lascia assolutamente indifferente.

SVF I, 361

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 63. Aristone di Chio affermava che la [I,83,10] salute, e tutto ciò che le è similare, non è un indifferente promosso. Infatti, dire che essa è un indifferente promosso equivale ad essere del parere che essa è un bene, e quindi in pratica a ridurre la differenza ad una questione di nomi. Tra le cose indifferenti che stanno frammezzo alla virtù e al vizio non vi è, in generale, divario alcuno; né alcune sono per natura promosse ed altre invece ricusate, ma [I,83,15] a seconda delle differenti circostanze del momento, né quelle che si dice siano state promosse diventano in ogni caso promosse, né quelle che si dice siano state ricusate continuano ad essere necessariamente ricusate. Infatti, se fosse imposto che tutti gli individui in salute si mettessero al servizio di un tiranno e, a causa di ciò, fossero poi levati di mezzo; e invece i malati, essendo per questo esentati dal servizio al tiranno, scampassero contemporaneamente all’eliminazione fisica; [I,83,20] ebbene il sapiente, in questo momento preciso, sceglierebbe piuttosto di ammalarsi che di restare in salute. In questo modo è chiaro che né la salute è in ogni caso un indifferente promosso, né la malattia è in ogni caso un indifferente ricusato. Pertanto, come nel caso della scrittura dei nomi noi preordiniamo una volta in un modo e un’altra in un altro i caratteri dell’alfabeto e li giustapponiamo a seconda delle differenti circostanze, usando così quale capolettera la ‘Delta’ quando scriviamo il nome ‘Dione’, [I,83,25] la ‘Iota’ quando scriviamo il nome ‘Ione’ e la ‘Omega’ quando scriviamo il nome ‘Orione’, senza che sia per natura predeterminato che alcune lettere vadano scritte prima delle altre, ed è invece il momento preciso della scrittura a costringerci a fare ciò; così nelle faccende che stanno frammezzo alla virtù e al vizio non vi è una predeterminazione naturale di indifferenti promossi o ricusati invece di altri, ma ciò avviene piuttosto a seconda delle circostanze.

SVF I, 362

[1] Cicerone ‘Academica’ II, 130. Aristone, che era stato discepolo di Zenone, [I,83,30] diede la prova pratica di ciò che Zenone diceva a parole, ossia che non esiste altro bene se non la virtù, né altro male se non ciò che è contrario alla virtù. Egli ritenne infatti che non ci siano verso le cose intermedie quelle spinte ad agire che invece Zenone ammetteva. Per Aristone il sommo bene consiste nel non lasciarsi trascinare da queste cose né da una parte né dall’altra, atteggiamento che lui stesso definiva ἀδιαφορία.

[2] ‘Tusculanae disputationes’ V, 27. Aristone di Chio [I,83,35] […] riteneva che nulla è male se non ciò ch’è vizioso.

SVF I, 363

[1] Cicerone ‘De finibus’ II, 35. Infatti, Pirrone, Aristone ed Erillo [I,84,1] li abbiamo abbiamo già da un po’ messi da parte.

[2] V, 23. Le screditate ed ormai abbandonate dottrine di Pirrone, di Aristone e di Erillo, che non possono rientrare nell’ambito che abbiamo circoscritto, non furono neppure da prendersi in considerazione.

[3] ‘Tusculanae disputationes’ V, 85. Queste sono dottrine dotate di una certa consistenza, visto che quelle di Aristone, di Pirrone, di Erillo [I,84,5] e di non pochi altri svanirono nel nulla.

[4] ‘De officiis’ I, 6. […] le dottrine di Aristone, di Pirrone e di Erillo sono state rigettate già da tempo. Essi avrebbero avuto il diritto di trattare del dovere, se solo avessero lasciato all’uomo una possibilità qualsiasi di preferire delle cose ad altre, così da lasciare aperta una strada al rinvenimento degli atti doverosi.

SVF I, 364

[1] Cicerone ‘De finibus’ II, 43. Poiché ad Aristone [I,84,10] e Pirrone questi <beni esterni> parvero di nessun valore, sicché a loro avviso non ci sarebbe alcuna differenza tra l’essere in perfetta salute e l’essere gravemente malati, si è rettamente smesso già da tempo di discutere contro di essi. Col loro voler ridurre tutto alla sola virtù, così da spogliarla d’ogni possibilità di scelta e da impossibilitarla ad avere una base da cui sorgere e su cui poggiare, hanno tolto di mezzo proprio [I,84,15] quella virtù che si tenevano tanto stretta.

[2] IV, 47. Come è già stata rigettata la dottrina di Aristone, il quale dice non esserci differenza tra una cosa intermedia e un’altra, e non esserci alcuna cosa, [I,84,20] al di fuori delle virtù e dei vizi, tra le quali ci sarebbe qualche diversità; <così>…

[3] V, 23. Quei filosofi […] che nei casi non riconducibili all’integrità morale o al vizio, negano che esista un motivo per anteporre una cosa intermedia ad un’altra, e reputano che fra di esse non ci sia diversità alcuna.

SVF I, 365

Cicerone ‘De finibus’ III, 50. Nel seguito è spiegata la differenza [I,84,25] fra le cose, giacché se negassimo questa differenza, la vita sprofonderebbe tutta nella confusione, come nel caso di Aristone; e neppure si troverebbero un compito ed una funzione specifica per la saggezza, dato che fra le cose pertinenti alla condotta di vita non ci sarebbe diversità alcuna, e quindi non sarebbe necessario applicare alcuna scelta.

SVF I, 366

Cicerone ‘De finibus’ V, 73. Gli antichi ne dissero tante [I,84,30] su ciò che va disprezzato o trascurato nelle vicende umane; ed Aristone si attenne a quest’unico principio: al di fuori dei vizi e delle virtù egli negò che vi fosse alcunché da rifuggire o da perseguire.

SVF I, 367

[1] Cicerone ‘De legibus’ I, 38. […] o anche se essi hanno seguito la difficile e severa, put tuttavia già divisa e confutata, Scuola di Aristone, collocando [I,84,35] ciò che è né virtù né vizio su un piano di assoluta parità.

[2] I, 55. <Se Zenone> avesse detto, come Aristone di Chio, che bene è soltanto ciò ch’è moralmente onesto e male soltanto ciò ch’è vizioso, allora tutte le altre cose starebbero chiaramente sullo stesso piano, né farebbe la minima differenza la loro presenza oppure assenza.

SVF I, 368

Cicerone ‘De finibus’ IV, 69. Interroga dunque Aristone [I,85,1] e chiedigli se gli paiano beni questi: assenza di dolore, ricchezza di denaro, salute. Lo negherà. E allora, forse che i contrari sono dei mali? Neanche per idea. […] Sorpresi, chiediamogli allora in che modo possiamo condurre la nostra vita, se reputiamo che per noi non fa differenza l’essere sani o malati, esenti o tormentati dal dolore, [I,85,5] il riuscire ad allontanare il freddo e la fame oppure no. E Aristone risponde: “Vivrai magnificamente e alla grande: farai quel che ti pare: mai un’angustia, mai un desiderio, mai un timore”.

SVF I, 369

Cicerone ‘De finibus’ IV, 43. A me sembra che quanti hanno sostenuto che il sommo bene consiste nel vivere in modo moralmente onesto abbiano errato, chi più chi meno. [I,85,10] Pirrone certo più di tutti, […] ma poi Aristone, il quale non osò fare terra bruciata e introdusse pertanto quali motivi per il saggio in sommovimento di bramare qualcosa: ‘qualsiasi cosa gli venga in mente’ o ‘qualsiasi cosa gli capiti’. In ciò egli fu migliore a Pirrone, perché per lo meno concesse al saggio un qualche genere di brama, [I,85,15] ma fu inferiore al altri perché prese nettamente le distanze dalla natura.

SVF I, 370

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, 20, 108 p. 172 St. Laonde, come usava dire Aristone di Chio, contro l’intero tetracordo formato da ebbrezza, afflizione, paura e smania, c’è bisogno di molto esercizio pratico e di molta lotta.

SVF I, 371

Plutarco ‘De exilio’ p. 600e. [I,85,20] Tale è il tuo presente cambio di dimora da quella che tu ritieni essere la tua patria. Infatti, come usava dire Aristone, per natura non esiste patria; non esistono casa, fondo coltivato, fucina, studio medico. Ciascuna di queste cose tale diventa, e soprattutto tale è nominata e chiamata, sempre in relazione a chi l’abita o l’utilizza.

SVF I, 372

Seneca ‘Epistulae morales’ CXV, 8. Allora riusciremo a capire [I,85,25] quanto siano spregevoli le cose che ammiriamo: noi, del tutto simili a bambini che apprezzano ogni giocattolo e tengono di più a monili di poco prezzo che ai genitori e ai fratelli. Qual è la differenza tra noi e loro, dice Aristone, se non che noi facciamo follie per quadri e statue, mostrandoci così bambocci ma più a caro prezzo? Quelli almeno provano diletto in qualche ciottolo variopinto raccolto sulla spiaggia; [I,85,30] noi invece nelle venature dei marmi di grandiose colonne.

SVF I, 373

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034d. Crisippo incolpa Aristone d’avere affermato che tutte le virtù sono forme di relazione di una sola virtù.

SVF I, 374

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ VII, 2, (208,591) M. Dunque Aristone, [I,85,35] poiché legittimava l’idea che la facoltà dell’animo sia una sola, quella con cui ragioniamo, pose anche l’esistenza di una sola virtù dell’animo: la scienza dei beni e dei mali. Qualora l’animo nostro debba scegliere i beni e fuggire i mali, Aristone chiama questa scienza temperanza. Qualora debba effettuare il bene [I,86,1] e non effettuare il male, saggezza. Qualora debba affrontare con coraggio alcune cose ed altre fuggire, la chiama virilità. Qualora distribuisca a ciascuno secondo il merito, giustizia. In una parola, l’animo è sapienza e scienza quando conosce, senza effettuarli, beni e mali. Quando invece perviene alle azioni della vita, [I,86,5] l’animo prende i plurimi nomi sopraddetti e si chiama saggezza, temperanza, giustizia e virilità. Siffatta è l’opinione di Aristone circa le virtù dell’animo.

SVF I, 375

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 440f. Anche Aristone di Chio faceva delle virtù, in sostanza, una sola virtù cui dava il nome di ‘salute’. Le virtù sono differenti e plurime [I,86,10] soltanto per il modo della loro relazione con qualcosa, come se si volesse chiamare la nostra visione, quando coglie oggetti bianchi ‘biancovisione’ e quando coglie oggetti neri ‘nerovisione’, o qualcos’altro del genere. Giacché la virtù, quando sopravveda quanto va fatto e quanto non va fatto, è stata chiamata saggezza; quando dà compostezza alla smania e definisce quanto è equilibrato ed opportuno nei piaceri fisici è stata chiamata temperanza; quando concerne relazioni d’affari [I,86,15] e contratti tra persone è stata chiamata giustizia. Così come il coltello, che è uno ma spartisce di volta in volta cose differenti; e il fuoco, che ha una sola natura pur essendo attivo su materiali differenti.

SVF I, 376

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 376 Pott. Se dunque ben considerassimo la cosa, la virtù è potenzialmente una sola. Quando però essa si ingenera in queste faccende, [I,86,20] le è avvenuto d’essere chiamata saggezza; in queste altre faccende, temperanza; in queste altre ancora, virilità o giustizia. […] Allo stesso modo noi diciamo che una sola e medesima dracma, quando sia data all’armatore di una nave, si chiama nolo; quando sia data ad un esattore, si chiama tassa; ad un proprietario di casa, affitto; ad un maestro di scuola, onorario; ad un venditore, caparra. Ciascuna di esse, pur chiamata con il sinonimo [I,86,25] ‘virtù’, è però cagione soltanto del risultato che le è proprio, e il vivere felicemente nasce dall’uso congiunto di tutte queste virtù. E quando noi chiamiamo felicità la vita retta e chiamiamo uomo felice colui che ha adornato virtuosamente l’animo suo, non facciamo certo della felicità una questione di nomi.

SVF I, 377

Porfirio ‘De anim. facult.’ presso Stobeo ‘Eclogae’ I, 347, 21 W. [I,86,30] L’obiettivo è ora quello di delineare le facoltà dell’animo. Una volta ripercorsi, in primo luogo, i riferimenti storici a quanto decretato dagli antichi filosofi e dai successivi maestri, e dopo avere posto l’esistenza di una facoltà percettiva dell’animo, Aristone la suddivide in due parti. Egli è dell’avviso [I,86,35] che una parte sia messa in moto quasi sempre da uno degli organi di senso ed egli la chiama parte ‘sensibile’, poiché è principio e sorgente delle particolari sensazioni. La parte invece che è sempre presente a se stessa ed è sprovvista di organi, parte che nel caso delle creature prive di ragione non ha nome -o perché in loro essa manca del tutto, oppure perché in loro essa è debolissima [I,87,1] e oltremodo ottusa- ebbene questa parte, presente nelle creature dotate di ragione ed in esse soprattutto o esclusivamente apparente, è designata ‘mente’.

SVF I, 378

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 37. Fra i discepoli di Zenone, la dottrina di Aristone non è meno errata. Egli infatti pensa che non si possa conoscere la forma divina, [I,87,5] afferma che gli dei non hanno sensazioni e lascia completamente nel dubbio la questione se dio sia un essere animato oppure no.

SVF I, 379

Giamblico ‘De anima’ presso Stobeo ‘Eclogae’ II, 382, 18 W. Circa la comunanza degli animi umani con gli dei sorse una controversia, giacché secondo alcuni è impossibile che gli dei si mischino [I,87,10] agli animi che sono ancora rattenuti nei corpi; mentre altri sostengono energicamente che una sola è la comune cittadinanza degli animi puri con gli dei, pur se gli animi vivono ancora nei corpi. Alcuni, poi, ipotizzano tale comunanza in vista di una comune convivenza soltanto tra démoni ed eroi. Secondo Platone alcune vite sono migliori e possono essere giudicate tali dalla purezza, [I,87,15] elevatezza e perfezione dell’animo, mentre altre sono peggiori poiché sono definite da caratteri opposti a questi. Secondo gli Stoici, le migliori e le peggiori vite si giudicano dalla comunanza degli animi umani con gli dei e da quella bellezza che è sempre intimamente connessa alla natura. Secondo i Peripatetici da quel proporzionato equilibrio che è secondo natura e dal fatto che esse si distinguono per una vita cognitiva che va oltre la semplice natura umana. Secondo Erillo, dalla scienza. Secondo Aristone, [I,87,20] dall’indifferenza. Secondo Democrito, dal decoro. Secondo altri filosofi, da qualche aspetto del bello morale: o dall’indisturbata tranquillità dell’animo, secondo Ieronimo; oppure da qualcuno di quegli altri modi di trascorrerla i quali esprimono la scelta che si è fatta, e dai quali si generano un infinito numero di vite particolari, suddivise riguardo alla loro genesi….

SVF I, 380

Plutarco ‘Vita Demosth.’ XXX. Aristone [I,87,25] afferma che <Demostene> prese il farmaco da una cannuccia, come si racconta.

SVF I, 381

Plutarco ‘Vita Demosth.’ X. Aristone di Chio ha riferito una certa opinione di Teofrasto sugli oratori. Infatti quando gli fu domandato che tipo di oratore gli pareva fosse Demostene, Teofrasto rispose: “Uno degno della città”; e Demade: “Uno al di sopra della città”. [I,87,30] Lo stesso filosofo riferisce che Polieucto di Sfetto, uno dei politici di allora ad Atene, dichiarava che Demostene era l’oratore più grande; ma che Focione era il più potente, giacché riusciva ad enunciare moltissimo contenuto intelligente in elocuzioni estremamente concise.

SVF I, 382

Plutarco ‘Maxime cum princ. philos. esse disser.’ p. 776c. [I,87,35] Quando Aristone di Chio sentiva parlar male di sé da parte [I,88,1] dei sofisti perché dialogava con tutti coloro che lo volevano, ribatteva: “Volesse il cielo che anche le belve riuscissero a comprendere i ragionamenti capaci di smuovere alla virtù!”.

SVF I, 383

Stobeo ‘Florilegium’ 13, 40 (Vol. I, p. 462 Hense). Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Eliminare la piena libertà di parola nei discorsi è [I,88,5] come eliminare il sapore penetrante e pungente nell’assenzio.

SVF I, 384

Stobeo ‘Florilegium’ 13, 57 (Vol. I, p. 465 Hense). Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Ad un tale gli diceva: “Tu mi schernisci troppo”, <Aristone> rispose: “E infatti ai malati di milza i cibi acidi e amari sono giovevoli, mentre quelli dolci sono dannosi”.

SVF I, 385

Plutarco ‘De recta rat. aud.’ p. 42b. [I,88,10] Aristone afferma che “né un bagno né un discorso sono di alcun pro se non ci ripuliscono”.

SVF I, 386

Stobeo ‘Florilegium’ 79, 44 Mein. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Quanti sono testé giunti alla filosofia e contestano tutti [I,88,15] a partire dai loro genitori, sperimentano ciò che sperimentano anche i cuccioli di cane, i quali non abbaiano soltanto agli estranei ma anche a quei di casa.

SVF I, 387

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 215, 20 W. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. <Aristone> afferma che il cumino deve essere seminato lanciando imprecazioni blasfeme, giacché in questo modo germoglia ottimamente. Ed è d’uopo educare i giovani schernendoli, giacché in questo modo [I,88,20] essi saranno domani uomini proficui.

SVF I, 388

Seneca ‘Epistulae morales’ XXXVI, 3. Aristone diceva di preferire un giovane triste ad uno allegro e di compagnia. Infatti, diventa buono il vino che sembrava da novello duro e asprigno, mentre non sopporta l’invecchiamento quello di buon sapore già nella botte.

SVF I, 389

Plutarco ‘De tuenda sanit. praec.’ p. 133c. [I,88,25] <Queste sono> parole da massaggiatori e ragionamenti da istruttori di ginnastica, i quali ogni volta ripetono che fare discorsi eruditi a pranzo rovina il cibo ed appesantisce la testa, e che allora bisogna avere paura quando a pranzo ci salta in mente di risolvere ‘l’Indo’ oppure di disquisire sul ‘Dominatore’.[…] Ma se essi non ci permetteranno di ricercare [I,88,30] o discutere filosoficamente o leggere qualcuna di quelle cose che, nell’ambito di ciò ch’è bello e giovevole, hanno in sé una parte seducente e dolce per il piacere che procurano, allora intimeremo loro di non importunarci e di andare nel ginnasio coperto e nelle palestre a fare questi discorsi agli atleti giacché, per avere escluso costoro dai libri e per l’abituarli a passare sempre il giorno tra scherni e volgari buffonate, li hanno fatti assomigliare, come [I,88,35] usava dire il raffinato Aristone, alle colonne del ginnasio: sontuose e di pietra.

SVF I, 390

Plutarco ‘Amatorius’ p. 766f. Un costume morale innocente e [I,89,1] composto diventa trasparente nella grazia fiorente dell’aspetto esteriore, proprio come un calzare ben fatto mostra la buona conformazione naturale di un piede.

SVF I, 391

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 24, 8 W. Di Aristone. Aristone faceva rassomigliare i ragionamenti dei dialettici alle ragnatele, che sono per noi di nessuna proficuità [I,89,5] pur essendo mirabili opere d’arte.

SVF I, 392

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 22, 22 W. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Quanti s’approfondiscono nella dialettica somigliano a coloro che masticano granchi, gente che per quel po’ che è cibo si impegna attorno al molto che è ossame.

SVF I, 393

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 23, 15 W. Di Aristone. Aristone usava dire [I,89,10] che la dialettica somiglia al fango delle strade, poiché anch’esso è per nulla proficuo e riduce in cattivo stato chi vi incede.

SVF I, 394

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 24, 12 W. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. L’elleboro, se preso tutto intero, ripulisce; se invece è preso finemente tritato, soffoca. Così è pure per l’eccessiva cavillosità in filosofia.

SVF I, 395                                                                                                                                 

Stobeo ‘Florilegium’ 20, 69 Mein. Di Aristone. [I,89,15] L’ira appare generatrice di turpiloquio, e pertanto è una madre incivile.

SVF I, 396

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 218, 7 W. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Un pilota non soffre il mal di mare né su una nave grande né su una piccola; [I,89,20] mentre gli inesperti di mare lo soffrono in entrambi i casi. Allo stesso modo, chi è stato educato non soffre sconcerti né in ricchezza né in povertà; mentre chi è rimasto ineducato li soffre in entrambi i casi.

SVF I, 397

Stobeo ‘Florilegium’ 94, 15 Mein. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Pur bevendo la medesima quantità di vino, alcuni danno in escandescenze mentre altri, invece, diventano miti. Allo stesso modo anche la ricchezza….

SVF I, 398

Plutarco ‘Vita Catonis’ XVIII. [I,89,25] Infatti i più considerano una sottrazione della ricchezza l’impedimento del suo sfoggio; e di di sfoggiare il superfluo, beninteso, non il necessario. Fatto del quale si dice che massimamente si stupiva il filosofo Aristone, ossia che siano ritenuti beati quanti posseggono il superfluo invece che quanti [I,89,30] sono ben forniti di ciò ch’è necessario e proficuo.

SVF I, 399

Stobeo ‘Florilegium’ 119, 18 Mein. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Molti sapienti, quando sono ormai vecchi amano la vita. Infatti, come coloro che si sposano tardi amano la vita per poter tirare su i figli, così questi sapienti venuti tardi in possesso della virtù, mirano anch’essi a tirarla su.

SVF I, 400

Stobeo ‘Florilegium’ 67, 16 Mein. Dalle opere di Aristone. [I,89,35] La legge degli Spartani fissa delle punizioni: la prima è per i celibi, la seconda per chi si sposa tardi, la terza e maggiore è per chi fa un cattivo matrimonio.

SVF I, 401

Plutarco ‘De curiositate’ p. 516f. Eppure, come afferma Aristone: [I,90,1] “Noi siamo malcontenti soprattutto delle ventate che ci sollevano gli indumenti. Ora, l’impiccione non spoglia il prossimo soltanto delle toghe e delle tuniche ma anche dei muri, dischiude le porte…. ”.

SVF I, 402

Plutarco ‘Praec. ger. rei publ.’ p. 804e. [I,90,5] Aristone afferma che il fuoco non fa fumo e la fama non fa invidia se subitanei velocemente rilucono, ma quando essi s’accrescono lenti a poco a poco, allora chi dall’uno e chi dall’altra sono abbrancati.

SVF I, 403

Plutarco ‘Aqua an ignis utilior’ p. 958d. Siccome [I,90,10] agli uomini è stato dato poco tempo di vita, Aristone afferma che il sonno, come un gabelliere, ce ne sottrae la metà. Io invece….

1a. Apollofane

Frammenti n. 404-408

SVF I, 404

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 140. Del vuoto parla Crisippo nella sua opera ‘Sul vuoto’ e nel primo libro di quella ‘Sulle Scienze fisiche’, [I,90,15] e anche Apollofane nella ‘Fisica’.

SVF I, 405

Tertulliano ‘De anima’ c. 14. <L’animo> è diviso in parti: ora in due, come da Platone, […] in otto da Crisippo, e in nove da Apollofane.

SVF I, 406

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 92. Apollofane sostiene [I,90,20] che <la virtù> è una sola: la saggezza.

SVF I, 407

‘Frag. Hercul.’ Pap. 19-698, p. 271 Scott. ….tempi, che la sensazione giudica le cose una per una e che essa partecipa del ricordo. Apollofane, ingannato dalla plausibilità dell’ipotesi, da una parte fu trattenuto dal ritegno ad [I,90,25] accostare il ricordo alle sensazioni, ma dall’altra accettò che il ricordo partecipi di un’analogia con esse, tanto da dare alle sensazioni la percezione anche di ciò ch’è inesistente; come se, per salvaguardare un’evidenza, ci fosse bisogno di aggiungere altre evidenze.

SVF I, 408

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VII, p. 281d. E Apollofane, che era anch’egli un conoscente di Aristone, nell’opera ‘Aristone’, giacché anche lui [I,90,30] intitolò così la sua compilazione, fa trasparire l’amore del maestro per le ebbrezze della carne.

2. Erillo di Calcedonia (floruit c. 260 a.C.) [I,91,1]

Frammenti n. 409-421

SVF I, 409

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 165-166. Erillo di Calcedonia. […] I suoi sono libri di poche righe, ma sono pieni di forza ed includono controversie con Zenone. [I,91,5] Si racconta che da ragazzo ebbe un buon numero di amanti, ma Zenone, deciso a tenerli lontano, costrinse Erillo a radersi il capo e così essi si tennero lontani da lui. Questi sono i suoi libri: ‘Sull’esercizio pratico’, [I,91,10] ‘Sulle passioni’, ‘Sulle concezioni’, ‘Il legislatore’, ‘L’ostetrico’, ‘L’oppositore’, [I,91,15] ‘L’insegnante’, ‘Il revisore’, ‘Il controllore’, ‘Ermes’, ‘Medea’, [I,91,20] ‘Tesi etiche’.

SVF I, 410

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXVI. Erillo, come afferma Apollonio, oltremodo insigne….

SVF I, 411

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 165. Erillo di Calcedonia sostenne che ‘sommo bene’ è [I,91,25] la scienza, il che significa vivere riferendo sempre ogni cosa al fine di vivere con scienza e non traviati dall’ignoranza. Affermava poi che la scienza è quella postura dell’animo che, nell’accettare le rappresentazioni, non è mutabile da un ragionamento. A volte usava dire che non vi è un fine, ma che esso cambia a seconda delle circostanze e dello svolgersi dei fatti, così come il medesimo bronzo diventa una statua di Alessandro [I,91,30] o di Socrate. Sosteneva anche che vi è differenza tra sommo bene e fini secondari. Anche i non sapienti hanno di mira questi ultimi, mentre soltanto il sapiente ha di mira il sommo bene. Inoltre, tutto ciò che sta frammezzo alla virtù e al vizio, è indifferente.

SVF I, 412

Cicerone ‘De finibus’ IV, 40. In nessun modo può la virtù aver luogo in noi, se tutte le entità intermedie che l’animo nostro sceglierà e rigetterà non daranno essa soltanto come somma totale. Infatti, se noi non terremo in alcun conto le entità intermedie, incapperemo nei difetti e negli errori di Aristone e ci dimenticheremo [I,91,35] dei principi che abbiamo posto a fondamento della virtù stessa. Se teniamo invece conto delle entità intermedie e però [I,92,1] non le riferiamo al fine del sommo bene, allora non ci allontaneremo molto dalla superficialità di Erillo, giacché ci toccherà in tal caso assumere due istituti di vita. Erillo infatti fissa due separati beni finali, che però per essere veri avrebbero dovuto essere congiunti. Invece stanno lì separati e disgiunti, [I,92,5] e nulla può essere più stravagante di ciò.

SVF I, 413

Cicerone ‘Academica’ II, 129. Tralascio quelle dottrine che appaiono ormai abbandonate, com’è il caso di Erillo, il quale pone il sommo bene nell’avere delle cognizioni e nella scienza. Erillo fu uditore di Zenone, ma vedi bene quanto abbia dissentito da lui e quanto poco da Platone.

SVF I, 414

[1] Cicerone ‘De finibus’ II, 43. Riducendo tutto alla scienza, [I,92,10] Erillo vide un certo bene, ma né ottimo né tale che una vita possa da esso essere governata. E così già da tempo egli stesso è stato messo da parte, e dopo Crisippo di lui non si parla proprio più.

[2] ‘De oratore’ III, 62. Ci furono anche altri generi di filosofi che tutti, chi più chi meno, si proclamavano Socratici: [I,92,15] gli Eretriaci, i seguaci di Erillo, i Megarici, i Pirroniani. Ma queste scuole sono state ormai da tempo fatte a pezzi e tolte di mezzo dalla forza delle confutazioni loro mosse dalle scuole citate in precedenza.

SVF I, 415

Cicerone ‘De finibus’ III, 31. Ma dicono delle pure assurdità sia i filosofi che identificano il bene ultimo nel vivere con scienza, sia quelli che negano qualsiasi differenza fra le cose, ed affermano che il saggio sarà beato se in nessun momento [I,92,20] anteporrà qualche cosa a qualche altra.

SVF I, 416

Cicerone ‘De finibus’ IV, 36. È come se, nell’ambito dell’animo stesso, come fece Erillo, costoro si tenessero ben stretti alla facoltà cognitiva e abbandonassero a se stessa quella di agire.

SVF I, 417

[1] Cicerone ‘De finibus’ V, 23. Ed Erillo, se davvero intese sostenere che non v’è altro bene che la scienza, [I,92,25] eliminò ogni motivo di chiedere un consiglio ed ogni possibilità di rinvenire quale sia l’atto doveroso.

[2] V, 73. Preso da questa idea fissa, Erillo difese la dottrina della scienza come sommo bene e sostenne che nessun’altra cosa è da ricercarsi di per sé.

SVF I, 418

Cicerone ‘De officiis’ I, 6. […] le dottrine di Aristone, di Pirrone e di Erillo sono state rigettate già da tempo. Essi avrebbero avuto il diritto di trattare del dovere, se solo avessero lasciato all’uomo una possibilità qualsiasi di preferire delle cose ad altre, così da lasciare aperta una strada al rinvenimento degli atti doverosi.

SVF I, 419

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 179 Sylb., Vol. I, p. 497 Pott. Che metta di mezzo le dottrine di Erillo? Erillo pone il sommo bene [I,92,35] nel vivere secondo scienza.

SVF I, 420

Giamblico ‘De anima’ presso Stobeo ‘Eclogae’ II, 382, 18 W. Secondo Platone alcune vite sono migliori e possono essere giudicate tali dalla purezza,elevatezza e perfezione dell’animo, mentre altre sono peggiori poiché sono definite da caratteri opposti a questi. Secondo gli Stoici, le migliori e le peggiori vite si giudicano dalla comunanza [I,93,1] degli animi umani con gli dei e da quella bellezza che è sempre intimamente connessa alla natura. […] Secondo Erillo, dalla scienza.

SVF I, 421

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 7. Il sommo bene di Erillo è la scienza; quello di Zenone è vivere in modo congruente con la natura; per certi Stoici è [I,93,5] conseguire la virtù.

3. Dionisio di Eraclea, detto il Ritrattatore (c. 330-250 a.C.)

Frammenti n. 422-434

SVF I, 422

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 166-167. A causa dell’avversa circostanza di un’oftalmia, Dionisio il Ritrattatore sostenne che sommo bene è il piacere fisico. Infatti, poiché aveva un [I,93,10] terribile male agli occhi egli si peritò a chiamare ‘indifferente’ il dolore fisico. Era figlio di Teofanto e nativo della città di Eraclea. Secondo quanto afferma Diocle, egli fu discepolo dapprima del concittadino Eraclide, in seguito di Alessino e di Menedemo e poi, da ultimo, di Zenone. Essendo amante delle lettere, da principio mise mano ad ogni sorta di composizioni poetiche, ma poi accolse Arato come modello e cercò di emularlo. [I,93,15] Una volta prese le distanze da Zenone, fu attratto dai Cirenaici e quindi usava entrare nei lupanari e darsi alle altre forme di sensualità senza nascondersi. Dopo avere vissuto fino ad ottant’anni si lasciò morire d’inedia. I libri che di lui si ricordano sono i seguenti: ‘Sul dominio delle passioni (2 libri)’, [I,93,20] ‘Sull’esercizio pratico (2 libri)’, ‘Sul piacere fisico (4 libri)’, ‘Sulla ricchezza di denaro, la grazia e la punizione’, ‘Sull’uso degli uomini’, ‘Sulla buona fortuna’, [I,93,25] ‘Sugli antichi re’, ‘Sulle cose lodate’, ‘Sulle abitudini dei barbari’.

SVF I, 423

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Quando Dionisio il Ritrattatore gli chiese perché correggesse tutti gli altri meno che lui soltanto, <Zenone> rispose: “Perché [I,93,30] non ho fiducia in te”.

SVF I, 424

‘Vita Arati’. Viveva al tempo di Tolomeo Filadelfo e fu scolaro di Dionisio di Eraclea….

SVF I, 425

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ V, 92. Inoltre Dionisio il Ritrattatore (oppure Spintaro, secondo alcuni), dopo avere scritto il ‘Partenopeo’, lo intitolò come opera di Sofocle. Eraclide Pontico, [I,93,35] fidandosi dell’attribuzione, in una delle proprie [I,94,1] compilazioni usò l’opera tra le testimonianze di Sofocle. Quando Dionisio se ne accorse, gli rivelò l’accaduto. Poiché quello negava e diffidava, gli mandò a dire di osservare l’acrostico dei primi versi. Esso formava il nome ‘Pancalo’, e Pancalo era appunto il nome del ragazzo amato da Dionisio. Siccome Eraclide diffidava ancora ed affermava fattibile che le cose stessero così [I,94,5] per puro caso, Dionisio gli mandò di nuovo a dire: “E troverai anche questi versi acrostici. A) Una vecchia scimmia non si lascia mettere in trappola. B) Si lascia mettere in trappola; col tempo si lascia mettere in trappola. E oltre a questi, C) Eraclide non conosce le lettere e non se ne vergogna”.

SVF I, 426

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXIX. [I,94,10] Dionisio il Ritrattatore….

[2] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXX. ….nel mezzo a gran voce, e soprattutto quando vedeva che gli altri tacevano ed erano assai timorosi. Allo stesso modo senza cessare e agitandosi….

[I,94,15]

SVF I, 427

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXII. ….il dolore è da fuggirsi, [I,94,20] mentre il piacere è scopo e fine. Fu dunque un poligrafo e produsse circa ottantamila righe di opere. Sembrava a molti né un fallito né un incapace, come si dice, e….

SVF I, 428

Ateneo ‘Deipnosophistai’ X, p. 437e. Antigono di Caristo nella sua [I,94,25] ‘Vita di Dionisio di Eraclea, soprannominato il Ritrattatore’ racconta che Dionisio, mentre festeggiava insieme ai suoi domestici la festa dei Congi, poiché non riusciva, a causa della vecchiaia, ad avere un rapporto sessuale completo con un’etera che essi avevano invitato, si rivolse ai commensali e disse:

‘Io non ce la faccio a tenderlo, dunque la prenda un altro’.

SVF I, 429

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXIII. [I,94,30] ….dopo avere ossequiato gli amici ed essersi seduto nella bara, morì.

SVF I, 430

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ VII, p. 281d. E cosa bisogna dire a proposito di Dionisio di Eraclea? Senza altre mediazioni, denudatosi della tunica della virtù egli [I,94,35] si rivestì di fiori e si rallegrò di essere chiamato il Ritrattatore sebbene avesse preso le distanze dalle dottrine Stoiche e fosse saltato nel giardino di Epicuro ormai da vecchio. Su di lui non senza grazia Timone diceva:

‘Quando bisognerebbe tramontare, lui comincia ora a darsi ai piaceri;

ma c’è un’ora per amare, un’ora per sposarsi e un’ora per smetterla’.

[2] Luciano ‘Bis accus.’ 20, 21. [I,95,1] Fino alla comparsa della malattia, egli sperava che i ragionamenti sulla fortezza d’animo gli fossero di qualche giovamento; ma quando cominciò a sentirsi male, ad essere malato, e il dolore più vero lo raggiunse, vedendo che il suo corpo praticava una filosofia antitetica a quella della Stoa ed aveva giudizi contrari ad essa, egli prestò fede [I,95,5] più a lui che a costoro….

SVF I, 431

Cicerone ‘De finibus’ V, 94. A noi pare scandaloso che Dionisio di Eraclea abbia defezionato dagli Stoici per il dolore agli occhi. Quasi avesse imparato da Zenone che sentire dolore non è doloroso! Certamente aveva sentito dire che il dolore non è un male perché è una cosa non moralmente deforme e dunque va sopportata da uomo, [I,95,10] ma questa lezione non l’aveva imparata.

SVF I, 432

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ II, 60. Uomo di poca fermezza, Dionisio di Eraclea, imparò da Zenone ad essere forte ma lo disimparò dal dolore. Soffrendo di reni, fra grida lamentevoli andava urlando che erano false le dottrine sul dolore che egli aveva prima fatte sue. E poiché il condiscepolo Cleante [I,95,15] gli chiedeva ragione del suo cambiamento di opinione, rispose: “Perché, se pur avendo io profuso un grande impegno nella filosofia non riuscissi a sopportare il dolore, questo sarebbe una prova sufficiente che il dolore è un male. Ebbene, io ho effettivamente speso parecchi anni nello studio della filosofia, eppure non riesco a sopportarlo: dunque il dolore è un male”.

SVF I, 433

Cicerone ‘Academica’ II, 71. Dionisio di Eraclea [I,95,20] aveva dato il suo assenso […] alla dottrina che per molti anni tenne per vera fidandosi del suo maestro Zenone, e cioè che solo quanto è moralmente onesto è bene, oppure aveva assentito a quella che in seguito difese, ossia che ‘moralmente onesto’ è un vuoto nome, e che il sommo bene è il piacere?

SVF I, 434

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 18. Non sono sciocche le osservazioni di Dionisio di Eraclea sulle lamentele che [I,95,25] Omero mette in bocca ad Achille che si esprime più o meno così:

‘e il cuore mi si gonfia di nera ira, quando ricordo

d’esser stato derubato d’ogni dignità e gloria’

Forse che una mano in stato di gonfiore è in buono stato? E non è anormale lo stato di un qualsiasi altro membro quando sia tumefatto e turgido? [I,95,30] Allo stesso modo un animo infiammato e gonfio è in una condizione di vizio. Ma l’animo del saggio è sempre privo di vizi, mai è turgescente, mai è gonfio. Invece l’animo della persona irata è in questa condizione, e quindi il saggio non si adira mai. Infatti, se si adira, concupisce; giacché è proprio dell’uomo irato il desiderio di causare a chi, a suo avviso, l’ha offeso, [I,95,35] il massimo dolore possibile. E chi ha questo violento desiderio, una volta che esso sia stato esaudito, è necessariamente portato a provare grande soddisfazione, il che fa sì che egli goda del male altrui. Ma poiché il saggio non cade in ciò, [I,96,1] neppure cade nell’ira. Se il saggio cadesse in afflizione, cadrebbe anche nell’ira, ma siccome è privo di questa è privo anche dell’afflizione. E se mai il saggio incappasse nell’afflizione, allora potrebbe incappare anche nella misericordia e nel sentimento di invidia, […] giacché chi si duole delle disgrazie altrui [I,96,5] si duole anche delle fortune altrui. Infatti, Teofrasto, mentre piange per la morte del suo amico Callistene si angustia per la fortuna di Alessandro, e per questo motivo sostiene che Callistene era incappato in un uomo di grande potenza e grande fortuna, il quale però ignorava come utilizzarle nelle circostanze favorevoli. Dunque, come la misericordia è afflizione prodotta dalle disgrazie [I,96,10] altrui, così il sentimento di invidia è afflizione originata dai successi altrui. A chi capita di provare misericordia, capita anche di provare il sentimento di invidia; ma il saggio non incappa nel sentimento di invidia, dunque neppure nella misericordia. E poi se egli fosse avvezzo a provare afflizione, sarebbe avvezzo anche a provare misericordia. Il saggio pertanto non conosce afflizione.

[I,96,15]

4. Persèo di Cizio

Frammenti n. 435-462

SVF I, 435

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 36. I discepoli di Zenone furono numerosi, e tra i più accreditati vi fu Persèo di Cizio, figlio di Demetrio. Secondo alcuni Persèo era un suo conoscente, secondo altri uno dei domestici mandatigli da [I,96,20] Antigono in funzione di scrivano e che era precettore del figlio di Antigono, Alcioneo. Una volta Antigono, deciso a metterlo alla prova, fece in modo che gli fosse data la notizia fittizia che i suoi poderi gli erano stati sottratti dai nemici. E poiché Persèo s’accigliò, Antigono gli disse: “Lo vedi che la ricchezza non è un indifferente?” [I,96,25] Gli si attribuiscono questi libri: ‘Sul regno’, ‘La costituzione di Sparta’, ‘Sul matrimonio’, ‘Sull’empietà’, [I,96,30] ‘Tieste’, ‘Sugli amori’, ‘Discorsi protrettici’, [I,97,1] ‘Diatribe’, ‘Detti sentenziosi (4 libri)’, ‘Detti memorabili’, ‘Contro ‘Le leggi’ di Platone (7 libri)’.

SVF I, 436

‘Suida’ s. v. [I,97,5] Persèo, di Cizio, filosofo Stoico. Fu anche soprannominato Doroteo. Visse al tempo di Antigono Gonata. Era figlio di Demetrio, e fu discepolo e allievo del filosofo Zenone. Storia….

SVF I, 437

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XII, 3. Dei suoi discepoli, Zenone [I,97,10] amava soprattutto Persèo, con il quale pure conviveva. Persèo era stato anche allevato da lui, come alcuni affermano, giacché era un servo nato in casa. Diogene….

SVF I, 438

Aulo Gellio ‘Noctes Atticae’ II, 18, 8. Anche Pompilo, servo del Peripatetico Teofrasto, e il servo di Zenone chiamato Persèo [I,97,15] […] vissero da filosofi di un certo rango.

SVF I, 439

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 6. [1] Antigono Gonata approvava il modo di vivere di Zenone e quando gli capitava di giungere ad Atene, molte volte ascoltava le sue lezioni, invitandolo poi a recarsi presso di lui. Zenone schivò questi inviti e però inviò da lui Persèo, uno dei suoi conoscenti, figlio di Demetrio, [I,97,20] nato a Cizio e in pieno fiore durante la CXXX Olimpiade (260-256 a.C.), quando Zenone era ormai vecchio.

[2] 9. Inviò dunque Persèo e Filonide di Tebe, entrambi i quali Epicuro, nella ‘Lettera al fratello Aristobulo’, rammenta come sodali di Antigono.

[3] 13. Coabitava con Persèo, e una volta che questi gli introdusse in casa una giovane [I,97,25] suonatrice di flauto tirò un sospiro e la menò da Persèo.

[4] Eliano ‘Varia Historia’ III, 17. Io chiamerei politica anche l’attività di Persèo, se fu appunto lui ad educare Antigono.

SVF I, 440

‘Vita Arati’. Arato fu scolaro del filosofo Persèo [I,97,30] ad Atene ed andò con lui in Macedonia quando questi vi fu convocato da Antigono. Intervenne così al matrimonio di Antigono e Fila.

SVF I, 441

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XIII. Causa di ciò fu l’essere separato da Zenone, lo stare a lungo con Antigono e, una volta scelta la vita del cortigiano e non quella del filosofo, l’andare errando di qua e di là insieme con lui. Perciò [I,97,35] dei loro uomini e delle città….

[2] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XIV. ….che Antigono, quando <Persèo> si mise in viaggio…. e che Aristofonte, quando egli supplicò il perdono….

[I,98,1]

SVF I, 442

[1] Pausania ‘Greciae descriptio’ II, 8, 4. Quando Antigono aveva il controllo di Corinto e vi era installata una guarnigione Macedone, <Arato di Sicione> colse di sopresa i Macedoni [I,98,5] con un attacco fulmineo e, avuto il sopravvento in battaglia, fece perire tra gli altri anche Persèo, che era a capo della guarnigione; quel Persèo che aveva frequentato Zenone figlio di Mnasea per apprendere la filosofia.

[2] VII, 8, 3. Arato e i Sicioni scacciarono la guarnigione dalla Rocca di Corinto e uccisero Persèo, che era stato messo da Antigono [I,98,10] a capo della guarnigione.

SVF I, 443

[1] Plutarco ‘Vita Arati’ XVIII. Allora Antigono, [come è stato detto], una volta conquistata la Rocca di Corinto vi poneva di guardia, insieme ad altri uomini dei quali aveva la massima fiducia, anche Persèo, il filosofo, dopo averlo messo a capo di essi.

[2] 23. Dei generali di Antigono <Arato> rilasciò Archelao […] [I,98,15] invece Persèo, una volta catturata la Rocca, trovò scampo nel porto di Cencrea. Quando successivamente teneva scuola, a chi gli diceva che secondo lui soltanto il sapiente è stratega, si racconta che <Persèo> rispondesse: “Ma, per gli dei, tra tutti i giudizi di Zenone anch’io una volta gradivo specialmente proprio questo. Adesso invece, dopo essere stato smentito da quel giovanotto di Sicione, ho mutato avviso”. [I,98,20] A proposito di Persèo, sono in molti a raccontare queste vicende.

SVF I, 444

Polieno ‘Stratag.’ VI, 5. Arato riuscì ad impossessarsi della Rocca di Corinto, che era presidiata da una guarnigione postavi da Antigono e della quale erano a capo Persèo, il filosofo, e il generale Archelao. Quando la Rocca fu catturata, il filosofo Persèo trovò rifugio nel porto di Concrea e poi di là [I,98,25] se ne andò da Antigono.

SVF I, 445

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XV. Difendendosi con questi mezzi, <Persèo> riuscì a scacciare i Traci. Ma quando essi, ancora in maggior numero, lo attaccarono e lo circondarono da ogni parte, subite molte ferite <s’arrese> e perse la vita. Alcuni dicono che dalla zona…. [I,98,30] su una nave…. verso….

SVF I, 446

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXI. ….sopportava….di dare ascolto e ritrattare. Perciò una volta Persèo disse ad alcuni di avere appreso che <Dionisio> aveva mutato avviso sul piacere [I,98,35] poiché aveva prima voluto dare ascolto al dolore e, come si dice, provare a morire per l’acutezza delle doglie….

SVF I, 447

Epifanio ‘Adversus haeres.’ III, 38 (Dox. Gr. p. 592. 34). [I,99,1] Persèo nutrì gli stessi giudizi teorici di Zenone.

SVF I, 448

[1] Filodemo ‘De pietate’ cp. 8 (DDG 544b, 28). È manifesto che Persèo […] fa sparire il divino oppure nulla [I,99,5] sa di esso, dal momento che nel suo libro ‘Sugli dei’ afferma come non gli appaiono inverosimili le cose scritte da Prodico circa l’essere state legittimate ed onorate come dei, in primo luogo le entità che ci nutrono e ci giovano e, dopo queste, coloro che hanno trovato o cibi o ripari o le altre arti, come Demetra, Dioniso e….

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 38. Persèo, uditore [I,99,10] dello stesso Zenone, sostiene che furono ritenuti dei quanti inventarono cose sommamente utili al nostro tenore vita, e che anzi le stesse cose utili e salutari abbiano assunto il nome di dei; e dice questo per non chiamarle opera di dei ma divine esse stesse. Cosa c’è di più assurdo che conferire a cose vili e di nessun valore l’onore di essere dei, oppure annoverare fra gli dei uomini [I,99,15] già consumati dalla morte, per i quali l’unica forma di culto è il cordoglio?

SVF I, 449

Temistio ‘Orationes’ XXXII, p. 358 Hard. Una volta Persèo di Cizio si meritò una risata da parte di Antigono. Infatti Persèo, il compagno di Zenone, [I,99,20] faceva vita comune con il re Antigono quando quest’ultimo, siccome lo sentiva continuamente gonfiarsi e blaterare in gran numero queste graziose bambocciate della Stoa – cioè che il sapiente è invitto dalla fortuna, è integerrimo, capace di dominare le passioni -, mise mano a contestare nei fatti tutta la sua cialtroneria. Antigono fa dunque in modo che giungano [I,99,25] da Cipro e dalla Fenicia dei mercanti, dopo averli in precedenza istruiti su cosa debbano dire in presenza di Persèo. Comincia quindi ad interrogarli cercando di avere notizie, in primo luogo, delle navi, della flotta, dei soldati di stanza a Cipro; e fa tutte quelle domande che i re solitamente fanno. Poi fa cadere senza scosse il discorso su come stiano le faccende della casa di Persèo a Cizio. A questo punto i mercanti, appena sentono parlare di Persèo, [I,99,30] s’accigliano e abbassano il capo, ed è manifesto che stanno per rispondere dando notizie nient’affatto buone. Allora tutta quanta la sfrontatezza di Persèo se ne scorre via, e siccome l’uomo insiste e scongiura, i mercanti rispondono a denti stretti che davvero sua moglie, mentre era in viaggio per mare alla volta di Argo, è stata fatta schiava da certi pirati egiziani; che il suo giovane figlio diletto è stato sgozzato e che i suoi soldi, i suoi schiavi, tutto è andato in malora. Da quel momento per Persèo sparì [I,99,35] Zenone, sparì Cleante; e la natura contestò le chiacchiere, poiché [I,100,1] le sue erano davvero chiacchiere vuote, deboli e non testimoniate dai fatti.

SVF I, 450

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 120. Ha il loro beneplacito il ritenere, stando alle affermazioni di Crisippo, […] Persèo e Zenone, che tutte le aberrazioni siano pari.

SVF I, 451

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 607a. [I,100,5] Eppure Persèo di Cizio nei suoi ‘Ricordi conviviali’ lo grida, e afferma che bevendo del vino è acconcio ricordare argomenti sessuali giacché, quando beviamo alquanto, noi siamo propensi a questi piaceri. Egli dice che “in tale contesto bisogna lodare coloro che dei piaceri sessuali fanno un uso mansueto ed equilibrato ed invece denigrare coloro che ne fanno [I,100,10] un uso belluino ed insaziabile”. Dice anche che “se dei dialettici, convenuti in simposio, si mettessero a discutere di sillogismi, si potrebbe ben concepire che essi facciano qualcosa di estraneo all’occasione del momento”. Inoltre egli dice che “l’uomo virtuoso potrebbe ubriacarsi; e quanti, nel corso dei simposi sono decisi ad essere ultratemperanti, serbano un simile proposito fino ad un certo punto ma poi, una volta che il vinello scorra loro dentro, [I,100,15] allora essi sfoggiano tutta la loro indecenza. Il che avvenne recentemente con gli osservatori giunti presso Antigono dall’Arcadia. Infatti tali osservatori, come credevano di dover fare, pasteggiavano tutti accigliati e pieni di decoro, senza volgere lo sguardo nonché verso qualcuno di noi, neppure guardandosi tra di loro. Quando però le bevute andavano ormai avanti ed entrarono in scena, tra gli altri intrattenimenti musicali, proprio [I,100,20] le danzatrici Tessale le quali, com’è loro costume, usano danzare nude nei loro perizomi, allora quegli uomini non riuscirono più a trattenersi e slanciandosi dai loro letti gridavano di star assistendo ad uno spettacolo stupefacente, proclamavano beato il re perché può fruire di questi spettacoli e facevano molte altre cose del tutto da carrettieri a queste similari. [I,100,25] Quando poi una flautista si mosse verso uno dei filosofi che bevevano con noi e, poiché vi era dello spazio libero accanto a lui voleva sederglisi accanto, egli non lo consentì ma fece con la ragazza la parte del duro. Successivamente, com’è costume che avvenga nei simposi, la flautista fu messa in vendita. Nel comprare, quel filosofo era assai baldanzoso ed entrò in controversia con il venditore, il quale l’aveva assegnata ad un altro [I,100,30] troppo in fretta, affermando che la vendita non era avvenuta. Alla fine quel duro filosofo venne addirittura ai pugni, lui che all’inizio neppure aveva consentito alla flautista di sederglisi accanto”. Può darsi che chi giunse al pugilato per la flautista sia lo stesso Persèo. Lo afferma Antigono di Caristo quando nel suo libro ‘Su Zenone’ scrive [I,100,35] così: “Quando Persèo, durante un simposio, comprò una flautista ma temeva assai di introdurla in casa perché coabitava con Zenone di Cizio, quest’ultimo, avuta consapevolezza della cosa, trascinò dentro la ragazza e la chiuse in casa con Persèo”.

SVF I, 452

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 162b. [I,101,1] <Voi avete in ossequio> i ‘Dialoghi Conviviali’ del buon filosofo Persèo, composti con materiale tratto dai ‘Memorabili’ di Stilpone e di Zenone. Affinché i convitati [I,101,5] non cadano addormentati, Persèo ricerca in essi come si debbano utilizzare le libagioni, in quale momento debbano essere introdotti nel simposio i ragazzi e le ragazze in fiore, quando si debba accettare che essi mostrino le loro grazie e quando invece li si debba respingere trascurandoli. Egli tratta anche di pietanze, di pani e di altri argomenti, tra i quali tutto quanto il filosofo figlio di Sofronisco ha detto alquanto indiscretamente a proposito dei baci. Pur girando [I,101,10] e rigirando nell’intelletto sempre questi argomenti, Persèo, come afferma Ermippo, ebbe in affidamento da Antigono il comando della Rocca di Corinto. Bevuto cionco com’era, egli fu però cacciato via dalla stessa Corinto dalle superiori capacità militari di Arato di Sicione. E pensare che in precedenza proprio Persèo, nei ‘Dialoghi’, aveva fatto a gara con Zenone nel sostenere che il sapiente sarebbe in ogni caso un ottimo generale. Davvero [I,101,15] al buon domestico di Zenone è mancato soltanto di confermare ciò con i fatti! Bione di Boristene, dopo avere osservato una sua statua di bronzo recante l’epigrafe: “Persèo di Zenone, di Cizio”, aveva amenamente detto che chi aveva scritto l’epigrafe aveva errato, giacché essa doveva dire così: “Persèo di Zenone, servo”. E Persèo era in realtà un servo nato in casa di Zenone, come [I,101,20] raccontano Nicia di Nicea nella sua ‘Storia dei filosofi’ e Sozione di Alessandria nelle sue ‘Successioni’. Abbiamo così incontrato due brani tratti da questo sapiente trattato di Persèo intitolato ‘Dialoghi conviviali’.

SVF I, 453

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 1. <Zenone era> debole; [I,101,25] e perciò, nei suoi ‘Ricordi conviviali’,Persèo afferma che egli schivava la maggior parte dei pranzi cui era invitato.

SVF I, 454

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 140e. Circa i dopopasto, nella ‘Costituzione di Sparta’ Persèo scrive così: “<L’incaricato> sanziona immediatamente le persone facoltose a procurare i dopopasto, dove per ‘dopopasto’ si intendono i dessert serviti a fine pasto. [I,101,30] Egli ordina invece alle persone non facoltose di fornire una cannuccia o uno stuoino o delle foglie d’alloro dai quali, dopo il pasto, prendere e mangiare i dopopasto, i quali consistono di farinate spruzzate d’olio d’oliva. Nel suo insieme questa è una piccola norma di pubblica amministrazione, giacché sia chi giace in prima fila o in seconda o chiunque siede sul lettuccio tutti devono fare cose del genere in vista dei dopopasto”. [I,101,35] Cose simili le racconta anche Dioscuride.

SVF I, 455

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 140b. I porcellini da latte non si chiamano ‘orthagoriscoi’, [I,102,1] come afferma Polemone, bensì ‘orthragoriscoi’ giacché se ne fa commercio all’alba, come raccontano Persèo nella ‘Costituzione di Sparta’, Dioscuride nel secondo libro della ‘Repubblica’ e Aristocle nel primo libro, lui pure, della ‘Costituzione di Sparta’.

SVF I, 456

Dione Crisostomo ‘Orationes’ LIII, 4. [I,102,5] Anche il filosofo Zenone ha scritto sull’Iliade e sull’Odissea […] e, affinché non appaia che <Omero> si contraddice, insegna che egli ha scritto alcune cose secondo opinione ed altre secondo verità, […]. Inoltre anche Persèo, il discepolo di Zenone, ha scritto seguendo questa stessa [I,102,10] ipotesi e pure molti altri.

SVF I, 457

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ II, 61. Persèo invece afferma che la maggior parte dei sette <dialoghi> sono di Pasifonte di Eretria, benché siano assegnati ad Eschine Socratico.

SVF I, 458

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 28. Nelle sue [I,102,15] ‘Lezioni etiche’ Persèo afferma che <Zenone> morì all’età di settantadue anni e che era venuto ad Atene all’età di ventidue.

SVF I, 459

Bione presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ IV, 47. Questa è la mia storia. Persèo [I,102,20] e Filonide smettano dunque di raccontarla. Tu considerami invece per quello che sono davvero.

SVF I, 460

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ II, 143. <Menedemo> era in guerra accanita soltanto con Persèo, giacché gli sembrava che quando Antigono era deciso a ristabilire, grazie a lui, il governo democratico ad Eretria, Persèo lo impedì. Perciò una volta, durante un simposio, Menedemo confutò le argomentazioni di Persèo [I,102,25] e, tra le altre cose, disse anche: “Sarà pure un filosofo, ma come uomo è il peggiore di quanti sono e saranno”.

SVF I, 461

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 162. <Aristone> s’attenne soprattutto al principio Stoico che il sapiente non ha opinioni. Ma Persèo, per contrastare questo principio, fece sì che di due fratelli gemelli uno [I,102,30] desse ad Aristone del denaro in deposito, e che in seguito fosse però l’altro gemello a ritirarlo. Egli oppugnò così quel principio e lasciò Aristone nell’incertezza <dell’opinione>.

SVF I, 462

‘Suida’ s. v. Ermagora di Amfipoli, filosofo, discepolo di Persèo. I suoi dialoghi: ‘Il nemico del cane’ ovvero sulle sfortune; ‘Ecchito’ cioè l’ovoscopia; ‘Sulla sofistica’ contro gli Accademici.

5. Cleante di Asso (331-232 a.C.)

§ 1.Vita e costumi

Frammenti n. 463-480

SVF I, 463

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 168. Cleante figlio di Fania, di Asso. Dapprima faceva il pugile, come afferma Antistene nelle sue ‘Successioni’. Dopo essere giunto [I,103,5] ad Atene con in tasca quattro dracme, come sostengono alcuni, e dopo essersi confrontato con Zenone, iniziò a fare vita filosofica con grandissima nobiltà e rimase sempre dei medesimi principi. Andava per le bocche di tutti la sua laboriosità giacché, povero in canna com’era, ne aveva preso impulso per guadagnarsi un salario. Così di notte attingeva e versava acqua negli orti e di giorno s’allenava nei ragionamenti; laonde fu chiamato anche ‘Pozzante’. Dicono inoltre che [I,103,10] fu condotto in tribunale affinché desse ragione, essendo talmente forte e vigoroso, dei suoi mezzi di sussistenza; e che egli ne uscì assolto dopo avere portato come testimoni il giardiniere presso il quale attingeva e versava l’acqua e la venditrice di farina presso la quale impastava le farine. Quando i giudici dell’Areopago approvarono la sua assoluzione, votarono che gli fossero date dieci mine; ma Zenone gli vietò di prenderle. Si dice anche che Antigono gli desse [I,103,15] tremila dracme. Una volta che da capo degli efebi li conduceva ad un certo spettacolo, una folata di ventò lo denudò, e si vide che non portava la tunica; per la qual cosa ebbe dagli Ateniesi l’onore di un applauso, secondo quanto afferma Demetrio di Magnesia nei suoi ‘Omonimi’. Egli fu dunque ammirato anche per questo. Si racconta che una volta Antigono era suo uditore e che cercò di sapere da lui perché attingesse e versasse acqua. Al che Cleante rispose: “Attingo e verso soltanto [I,103,20] acqua? E non zappo anche? E non irrigo e non faccio forse tutto ciò per amore della filosofia?”. Alla filosofia lo allenava Zenone, il quale gli intimò di versargli un obolo del suo salario a titolo di risarcimento. Messi poi insieme questi spiccioli, una volta Zenone li portò in mezzo ai suoi seguaci e disse: “Cleante potrebbe nutrire un altro Cleante, se lo decidesse. Invece coloro che [I,103,25] hanno di che nutrirsi ricercano le provviste da altri, facendo così una vita filosofica davvero scadente”. Laonde Cleante usava anche essere chiamato secondo Eracle. Era un faticatore indefesso, con scarsissime doti filosofiche naturali e oltremodo lento. Perciò di lui Timone dice così:

‘Chi è costui che come un montone passa in rivista le schiere degli uomini,

[I,103,30] smidollatore di parole, pietra di Asso, mortaio senza pestello?’

Tollerava di essere schernito dai condiscepoli ed accettava di sentirsi chiamare ‘asino’, dicendo di essere il solo capace di sorreggere il carico di Zenone.

[2] VII, 174. Dicono che Cleante scrivesse su cocci e su scapole di bue quello che ascoltava da Zenone, per difetto [I,103,35] degli spiccioli necessari per comprare la carta. Poiché era un uomo siffatto, fu lui a prevalere nella successione alla guida della scuola [I,104,1] benché pure molti altri discepoli di Zenone ne fossero degni.

SVF I, 464

Plutarco ‘De recta rat. aud.’ p. 47e. Come Cleante e Senocrate, che erano ritenuti d’ingegno meno brillante dei loro compagni di scuola, ma non per questo [I,104,5] se la davano a gambe dall’imparare né ne facevano una malattia. Usavano invece prevenire gli altri nel prendersi gioco di se stessi, rassomigliandosi a vasi dalla bocca stretta ed a tavolette di bronzo, capaci di accogliere con difficoltà i ragionamenti ma poi di serbarli sicuri e saldi.

SVF I, 465

Plutarco ‘De vitando aere alieno’ p. 830d. Che animo saggio [I,104,10] quello di Cleante! Dal mulino e dalla madia, con la mano che impasta e che macina, arriva a scrivere sugli dei, sulla luna, sugli astri e sul sole!

SVF I, 466

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ XLIV, 3. Cleante attingeva l’acqua dal pozzo e lavorava dietro compenso alla irrigazione di un orto.

[2] VI, 6. Cleante non sarebbe stato un’immagine vivente di Zenone se ne avesse soltanto ascoltato le lezioni. Egli partecipò invece alla sua vita, ne scrutò a fondo quella privata, [I,104,15] lo osservò attentamente per capire se Zenone vivesse secondo i principi che professava.

SVF I, 467

*Frammento di Quintiliano ‘Institutio oratoria’

SVF I, 468

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XIX. “Non hai portato con te, disse <Cleante>, la somma che ti fu ingiunto di portare”. [I,104,20] E discorse in modo simile anche per l’appresso, fino a che non procurò che quello gli portasse l’intera somma. Di poi, resagliene ricevuta, intimò di rimandarlo dai suoi genitori. Perciò alcuni lo biasimavano come avido di denaro, essendo lui non ricco….

SVF I, 469

Stobeo ‘Florilegium’ XVII, 28 (Vol. I, p. 496 Hense). [I,104,25] Dalla ‘Storia varia’ di Eliano. Crisippo di Soli riusciva a vivere con ben poco, e Cleante ancora con meno.

SVF I, 470

Plutarco ‘Quom. adul. ab amico internosc.’ p. 55c. Arcesilao espulse dalla scuola Batone, quando questi compose un verso [I,104,30] da commedia contro Cleante. E la riconciliazione avvenne soltanto dopo che Batone ebbe persuaso Cleante d’essersi ravveduto.

SVF I, 471

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXII. <Batone> scongiurava <Arcesilao> di consentirgli di frequentare di nuovo la scuola. <Cleante> ne discorse con Arcesilao e affermò che il primo atto di un giorno lieto è quello di considerare quali siano le cose che dipendono da noi soli, indicando ad Arcesilao [I,104,35] il punto di vista che conveniva. Ma nessuno dei due s’impicciò di Sositeo….

SVF I, 472

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXIV. [I,105,1] E per questo conversava con la maggior parte delle persone. Sicché, presa la parola, uno riferiva:

‘Questo è Cleante: uno che per un po’ liba [I,105,5] a ciascuno per venire a patti,

ma poi non vuole ampliare il discorso o non può’.

Poi, quando gli capita di vederlo, dicendo qualcosa sulla prima [I,105,10] tesi….

SVF I, 473

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XX. [I,105,15] …. e combattere in modo conforme. Anche Zenone ha parlato e scritto di argomenti del genere; anche Zenone, parlando però urbanamente dei precedenti filosofi e…. gratificati….

[I,105,20]

SVF I, 474

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 176. <Cleante> morì in questo modo. Gli si rigonfiarono le gengive, e poiché i medici gli proibivano il cibo, se ne astenne per due giorni. In qualche modo questa cura andò bene, sicché i medici gli consentirono di riprendere la dieta consueta. Lui però non s’attenne al loro parere e, dicendo d’avere ormai [I,105,25] fatto la sua strada, s’astenne dal cibo anche nei giorni restanti fino a morire, secondo le affermazioni di alcuni, alla stessa età di Zenone, dopo aver vissuto ottant’anni ed avere ascoltato le lezioni di Zenone per diciannove anni.

SVF I, 475

Luciano ‘Macrobìoi.’ 19. Cleante, il discepolo e successore di Zenone, giunto all’età di novantanove anni ebbe [I,105,30] un tumore ad un labbro. Stava lasciandosi morire d’inedia quando gli giunsero delle lettere da parte di alcuni compagni. Egli allora prese del cibo e fece ciò che gli amici lo sollecitavano a fare. Ma poi s’astenne un’altra volta dal cibo e lasciò la vita.

SVF I, 476

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXVI. ….poco prima di morire gli capitò di avere un esantema [I,105,35] al labbro, che ai medici sembraba essere maligno…. [I,106,1] cosa indecente sopportare, disse a Dionisio che era il momento di concludere la vita. …. gli amici consueti e i conoscenti….

[2] Col. XXVII. ….non ricercare….non degno di lui….amante della vita o servo nell’animo, e ciò dicendo, rimanendo felice….

[I,106,5]

SVF I, 477

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXVIII, 8. [I,106,10] Dopo avere non poco penato s’allontanò dalla vita, nell’arcontato di Giasone….

[2] XXIX. Cleante era nato nell’arcontato di Aristofane e resse la scuola per trentadue anni….

[I,106,15]

SVF I, 478

Galeno ‘Qualit. immat.’ 2, Vol XIX, p. 467 K. Io affermo che non si debba legittimare il contenitore uno e identico al contenuto. [I,106,20] Cleante non era un tumore, dacché è avvenuto che il tumore rappresentasse il suo stato morboso. Crisippo ed Epicuro non erano la stranguria, siccome accadde loro di perdere la vita a causa di questa affezione. Pertanto neppure un colpo d’aria è l’aria….

SVF I, 479

Strabone ‘Geographia’ XIII, p. 610. Era di qui <di Asso> Cleante, [I,106,25] il filosofo Stoico, il successore di Zenone di Cizio alla guida della scuola e colui che la lasciò a Crisippo di Soli.

SVF I, 480

Cicerone ‘Academica’ II, 73. Eppure chi non antepone questo filosofo (Democrito) ad un Cleante, un Crisippo o ad altri più recenti? Paragonati a quello, mi sembrano filosofi di quinta classe.

§2.Scritti[I,106,30]

Frammento n. 481

SVF I, 481

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 174. Lasciò libri splendidi, che sono i seguenti: ‘Sul tempo’, ‘Sulla filosofia della natura di Zenone, 2 libri’, [I,106,35] ‘Esegesi di Eraclito, 4 libri’, ‘Sulla sensazione’, ‘Sull’arte’, [I,107,1] ‘Contro Democrito’, ‘Contro Aristarco’, ‘Contro Erillo’, ‘Sull’impulso’, [I,107,5] ‘Archeologia’, ‘Sugli dei’, ‘Sui giganti’, ‘Sulle nozze’, ‘Sul poeta’, [I,107,10] ‘Sul doveroso, tre libri’, ‘Sul buon consiglio’, ‘Sulla gratitudine’, ‘Protrettico’, ‘Sulle virtù’, [I,107,15] ‘Sulla buona disposizione naturale’, ‘Su Gorgippo’, ‘Sull’invidiosità’, ‘Sulla passione amorosa’, ‘Sulla libertà’, [I,107,20] ‘Arte erotica’, ‘Sull’onore’, ‘Sulla fama’, ‘Politico’, ‘Sul consiglio’, [I,107,25] ‘Sulle leggi’, ‘Sull’amministrare la giustizia’, ‘Sul sistema educativo’, ‘Sulla logica, tre libri’, ‘Sul sommo bene’, [I,107,30] ‘Sul bello’, ‘Sull’azione’, ‘Sulla scienza’, ‘Sul regno’, ‘Sull’amicizia’, [I,107,35] ‘Sul convito’, ‘Sul fatto che identica è la virtù dell’uomo e della donna’, ‘Sul fatto che il sapiente usa sofismi’, ‘Sui detti sentenziosi’, ‘Diatribe, 2 libri’, [I,108,1] ‘Sul piacere’, ‘Sulle proprietà’, ‘Sulle aporie’, ‘Sulla dialettica’, [I,108,5] ‘Sui tropi’, ‘Sui predicati’. Questi sono i suoi libri.

§3.Massime

Frammento n. 482

SVF I, 482

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 41. [I,108,10] Cleante afferma che le parti della filosofia sono sei: dialettica, retorica, etica, politica, fisica, teologia.

  1. *Frammenti di Logica e di Retorica

§ 1. Utilità della Logica

Frammento n. 483

SVF I, 483

Epitteto ‘Diatribe’ I, 17, 10. [I,108,15] <Se dunque uno pur concedesse questo> bastevole è il fatto che la logica è atta a distinguere e ad esaminare le altre cose e, come uno direbbe, a misurarle e pesarle. Chi dice questo? Solamente Crisippo, Zenone e Cleante? Antistene non lo dice?

§ 2. Sulla vista

Frammento n. 484

SVF I, 484

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 228. [I,108,20] Secondo loro la rappresentazione è un’impronta nell’animo. Ma su di essa <gli Stoici> ben presto si dispararono. Infatti Cleante intese ‘l’impronta’ fatta di rientranze e di sporgenze, com’è l’impronta fatta dagli anelli nella cera.

[2] VII, 372. Se infatti la rappresentazione è un’impronta nell’animo, o si tratta di un’impronta [I,108,25] fatta di sporgenze e di rientranze, come legittimano i seguaci di Cleante; oppure essa nasce per mera alterazione.

[3] VIII, 400. Cleante intese per ‘impronta’ principalmente quella che si capisce constare di rientranze e di sporgenze.

[4] ‘Pyrrh. Hypot.’ II, 70. Ora, poiché l’animo e l’egemonico sono pneuma oppure, come essi dicono, qualcosa di ancor più sottile dello pneuma; sarà impossibile divisare [I,108,30] l’impronta in esso come qualcosa che consta di rientranze e di sporgenze, come vediamo nel caso dei sigilli, o come la miracolosa ‘trasformazione alterativa’ della quale essi parlano.

§ 3. Sui significanti [I,109,1]

Frammenti n. 485-487

SVF I, 485

[1] Varrone ‘De lingua latina’ V, 9. Anche se non attingerò il sommo grado, tuttavia oltrepasserò il secondo; giacché ho studiato non solo al lume della lucerna di Aristofane [I,109,5] ma anche di quella di Cleante.

[2] 7. Fin là è salita la grammatica antica, quando mostra in che modo il poeta forgia ogni parola, come la dispone e come la declina.

SVF I, 486

Filodemo ‘De musica’ col. 28, 1, p. 79 Kemke. Se pur non vorranno dire [I,109,10] ciò che dice Cleante, il quale afferma che gli esempi poetici e musicali sono superiori per efficacia alla discorsività filosofica, che è capace di divulgare le cose divine e umane ma non possiede espressioni adatte alla purezza delle grandezze divine; mentre i versi, i canti, i ritmi giungono [I,109,15] il più possibile vicino alla verità della chiara conoscenza del divino.

SVF I, 487

Seneca ‘Epistulae morales’ CVIII, 10. Infatti, come diceva Cleante, al modo in cui il nostro soffio produce un suono più squillante quando sia incanalato in un tubo lungo e stretto e poi fuoriesca da un orifizio che si allarga molto alla fine, [I,109,20] così le stringenti regole della poesia rendono più chiara l’espressione dei nostri pensieri.

§ 4. Sui significati

Frammenti n. 488-490

SVF I, 488

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, 9, 26, p. 930 Pott. Cleante e Archedemo [I,109,25] chiamano i predicati ‘esprimibili’.

SVF I, 489

[1] Epitteto ‘Diatribe’ II, 19, 1-4. L’argomento “Dominatore” pare essere stato proposto interrogativamente a partire da certe proposizioni moventi di questo genere, essendovi mutua contraddizione delle terze con le altre due: tutto quanto veramente è avvenuto è necessario; (b) l’impossibile non consegue al possibile; (c) [I,109,30] possibile è quanto non è né sarà vero. Notando questa contraddizione, Diodoro adoperò la persuasività delle prime due proposizioni per apporre che nulla, che non è né sarà vero, è possibile. Orbene uno serberà, delle coppie di proposizioni, questa: (c) possibile è quanto non è né sarà vero, e (b) l’impossibile [I,109,35] non consegue al possibile, ma non tutto quanto veramente è avvenuto è necessario, come appunto sembra sostenere la scuola di Cleante, che [I,110,1] Antipatro a lungo difese. Altri serberanno invece le altre due proposizioni, ossia (c) possibile è quanto non è né sarà vero, e tutto quanto veramente è avvenuto è necessario, ma allora l’impossibile consegue al possibile. E’ inconcepibile però serbare le tre proposizioni, essendovi mutua contraddizione tra di loro.

[2] Cicerone ‘De fato’ VII, 14. Tutto ciò [I,110,5] che nel passato è veramente avvenuto è necessario, come piace dire a Crisippo in dissenso dal suo maestro Cleante, perché è immutabile, e il passato non può convertirsi da vero in falso.

SVF I, 490

Olimpiodoro ‘In Platon. Gorgiam.’ p. 63, 3-4 Norvin. Cleante dice che l’arte è postura abituale dell’animo [I,110,10] che tutto conclude seguendo un metodo.

*Frammento di Quintiliano ‘Institutio oratoria’

§ 5. La Retorica

Frammenti n. 491-492

SVF I, 491

*Frammento di Quintiliano ‘Institutio oratoria’ [I,110,15]

SVF I, 492

Cicerone ‘De finibus’ IV, 7. È vero che Cleante ha scritto un libro di retorica, […] e in modo tale che se uno volesse ammutolire [I,110,20] non avrebbe da leggere null’altro.

  • *Frammenti di Fisica e di Teologia

§ 1. I fondamenti della Fisica

Frammenti n. 493-504

SVF I, 493

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 134. [I,110,25] <Gli Stoici> ritengono che i fondamenti del cosmo nella sua interezza siano due: quello che fa l’azione e quello che la sperimenta. Quello che sperimenta l’azione è la sostanza senza qualità, il materiale. Quello che fa l’azione è la ragione insita nel materiale, ossia la divinità. Poiché questa ragione sempiterna è connaturata a qualunque materiale, è essa a fabbricare tutte e singole le cose esistenti. A porre questo principio è […] e Cleante nel suo libro ‘Sugli atomi’.

SVF I, 494

Siriano ‘In Aristot. Methaph.’ p. 105, 28-29 Kroll. [I,110,30] Le forme ideali non erano riportate da parte di questi uomini divini all’uso abituale dei nomi, come successivamente credettero Crisippo, [I,111,1] Archedemo e la maggior parte degli Stoici […] né le idee sono, secondo loro, delle concettualizzazioni, come ha poi affermato Cleante.

SVF I, 495

Ermia ‘Irrisio gent. philos.’ 14, (Dox. Gr. p. 654). Ma Cleante, [I,111,5] una volta rialzata la testa dal pozzo, attinge i veri principi: il divino e il materiale; poi che la terra muta in acqua; l’acqua in aria; che l’aria si porta in alto; che il fuoco spazia fin torno torno la terra; che l’animo pervade l’intero cosmo, animo partecipando del quale noi siamo esseri animati.

SVF I, 496

Valerio Probo in Virg. Ecl. VI, 31, p. 10. Keil. A Virgilio importa spiegare che le cose di natura, qualunque forma abbiano, [I,111,10] erano dapprima disperse in una massa tenuissima e leggerissima; che questa si condensò poi nei quattro elementi; e che da essi successivamente tutto prese il proprio aspetto. Questo tramandano Zenone di Cizio e Crisippo di Soli, nonché Cleante di Asso.

SVF I, 497

Stobeo ‘Eclogae’ I, 17, 3, p. 153, 7 W. [I,111,15] Cleante dice più o meno così: una volta conflagrato in fuoco l’universo, per prima si rapprende la sua parte mediana, poi le parti attigue si spengono interamente. Quando l’universo diventa acqua, il fuoco residuale, dato che la parte mediana gli oppone resistenza, si volge di nuovo in direzione contraria [I,111,20] cioè si volge, dice Cleante, ad elevarsi verso l’alto ed inizia così a produrre il buon ordine cosmico; e poiché il fuoco compie sempre un ciclo regolare siffatto e produce questo buon ordine cosmico, il tono della sostanza dell’intero cosmo non cessa mai. Infatti, come tutte le parti di un qualcosa si generano da semi nei dovuti tempi, così pure le parti del cosmo si generano nei dovuti tempi, [I,111,25] e tra queste parti capita che siano compresi anche gli animali e i vegetali. E come alcune ragioni seminali delle parti di un essere vivente si mischiano quando convengono insieme a formare lo sperma per poi distinguersi un’altra volta quando nascono le parti, così dall’uno nascono tutte le parti e da tutte le parti si combina l’uno, percorrendo un ciclo regolare con metodo e con armonia.

SVF I, 498

Aezio ‘Placita’ I, 14, 5 (Dox. Gr. p. 312b). Cleante è il solo degli Stoici [I,111,30] a dichiarare che il fuoco ha forma conica.

SVF I, 499

[1] Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 15, 7. [I,112,1] L’affermazione che il sole sia l’egemonico del cosmo ebbe il beneplacito di Cleante, giacché il sole è il più grande degli astri e più d’ogni altro contribuisce al governo dell’intero cosmo, dal momento che fa il giorno e l’anno e le altre stagioni.

[2] Ps. Censorino I, 4. P. 75,14 Jahn. Il mondo è costituito da quattro elementi: [I,112,5] terra, acqua, fuoco e aria. Alcuni tengono per certo, come Cleante, che la sua parte direttiva sia il sole.

[3] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 139. Lo Stoico Cleante affermò che l’egemonico del cosmo è nel sole.

[4] Cicerone ‘Academica’ II, 126. Cleante, che è uno Stoico quasi della prima generazione, uditore diretto di Zenone, ritiene che il sole sia signore e padrone delle cose.

SVF I, 500

Plutarco ‘De facie in orbe lunae’ p. 923a. [I,112,10] Cleante credeva che i Greci dovessero processare Aristarco di Samo per empietà, poiché quell’uomo aveva provato a salvare le apparenze dei fenomeni spostando il focolare del cosmo ed ipotizzando che il cielo rimanga fisso mentre la terra si muove in cerchio secondo l’eclittica e contemporaneamente [I,112,15] ruota sul proprio asse.

SVF I, 501

[1] Aezio ‘Placita’ II, 20, 4. (Dox. Gr. p. 349b). Cleante riteneva che il sole sia una massa infuocata e cognitiva <che scaturisce> dal mare.

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ III, 37. E che? Non siete voi a ritenere che ogni fuoco abbisogna di pastura e che non può in alcun modo sussistere [I,112,20] se non è alimentato? E poi che il sole, la luna e gli altri astri lo sono, alcuni dalle acque dolci e altri da quelle salmastre? Questa è la causa che Cleante adduce per cui il sole torna indietro e non va oltre l’orbita solstiziale estiva ed invernale, e cioè per non allontanarsi troppo dal cibo.

[3] Macrobio ‘Saturnalia’ I, XXIII, 2. E infatti, come affermano anche Posidonio e Cleante, il moto del sole non si scosta mai dalla zona chiamata torrida, [I,112,25] perché sotto di essa corre l’oceano che circonda e separa la terra.

[4] Aezio ‘Placita’ II, 23, 5. (Dox. Gr. p. 353a). Gli Stoici sostengono che il sole procede in armonia con la distanza dell’oggetto che gli fornisce il nutrimento, oceano o terra, della cui esalazione si pasce.

SVF I, 502

[1] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 8, 48, p. 674 Pott. Costoro non hanno letto [I,112,30] il filosofo Cleante, il quale chiama il sole senz’altro ‘plettro’. Quando infatti esso sorge, figgendo i suoi fulgidi raggi come se percotesse il cosmo, lo conduce ad una marcia armoniosa.

[2] Plutarco ‘De Pythiae oraculis’ p. 402a. Successivamente essi dedicarono alla divinità un plettro d’oro riferendosi, come sembra, a Scitino che dice [I,112,35] della lira:

‘quella che accorda il figlio di Zeus, il bell’Apollo che abbraccia

 ogni principio e fine ed ha come radioso plettro la luce del sole’.

SVF I, 503

Cornuto ‘Gr. Theol. Comp.’ 32, p. 67 Lang. [I,113,1] Egli (Apollo-Sole) è stato rappresentato come musicista e citarista, in veste di chi fa risuonare col suo tocco ogni parte del cosmo e lo rende consonante in tutte le sue parti, giacché nessuna loro dissonanza è visibile nelle cose esistenti. Egli conserva al massimo grado [I,113,5] la simmetria dei tempi nel rapporto reciproco delle parti del cosmo, come avviene nei ritmi cadenzati. Egli inoltre, col rendere proficuamente secca l’aria, rende possibili le voci degli animali come pure i rumori degli altri corpi e divinamente fa sì che essi s’acconcino ai vari uditi.

SVF I, 504

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 40. Cleante ritiene che la testimonianza di due sensi confermi la natura ignea [I,113,10] di tutte quelle stelle: il tatto e la vista. Infatti la luminosità del sole supera quella di ogni altro fuoco, visto che esso emette luce in lungo e in largo nell’immenso mondo, e che il suo contatto non intiepidisce soltanto ma spesso abbrucia: cose che non potrebbe fare, né l’una né l’altra, se non fosse igneo. ‘Ora’, egli sostiene, ‘poiché il sole è di natura ignea e si alimenta delle esalazioni dell’Oceano, e poiché [I,113,15] nessun fuoco può permanere vivo senza una qualche pastura, è necessario che esso sia simile o al fuoco d’uso domestico e alimentare, oppure a quello che è contenuto nei corpi viventi. Ma il fuoco richiesto per i nostri bisogni vitali, disperde e consuma ogni cosa, e dovunque si diffonde lascia distruzione e rovina. Per contro, il fuoco corporeo è vitale e salutare, conserva ogni cosa, la nutre, [I,113,20] la fa crescere, la sostenta e le conferisce sensibilità’. Cleante pertanto nega ogni dubbio circa a quale dei due tipi di fuoco sia simile quello del sole, perché anch’esso fa sì che ogni cosa fiorisca e si sviluppi secondo la sua specificità. Di conseguenza, siccome il fuoco del sole è simile a quelli presenti nei corpi viventi, è necessario che anche il sole sia un vivente, e che lo siano anche i restanti astri che sorgono nella celeste vampa chiamata [I,113,25] etere o cielo.

§ 2. Il cosmo e i fenomeni celesti

Frammenti n. 505-514

SVF I, 505

Gemino ‘Elem. Astron.’ p. 172, 13 Manitius. Alcuni degli antichi, [I,113,30] tra i quali vi è anche il filosofo Stoico Cleante, dichiararono che l’oceano si spande al di sotto della fascia torrida, frammezzo ai tropici.

SVF I, 506

Stobeo ‘Eclogae’ I, 26, 1, p. 219, 14 W. Per Cleante la luna è ignea ed ha un aspetto a cappello.

SVF I, 507

[1] Aezio ‘Placita’ II, 16, 1 (Dox. Gr. p. 345a). [I,113,35] Anassagora, Democrito e [I,114,1] Cleante ritengono che tutti gli astri si portino da oriente a occidente.

[2] Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 58 (Dox. Gr. p. 625). Anassagora, Democrito e Cleante ritengono che gli astri si portino da oriente a occidente.

SVF I, 508

[1] Aezio ‘Placita’ II, 14, 2 (Dox. Gr. p. 343). Gli altri Stoici ritengono che gli astri [I,114,5] siano sferici; Cleante, invece, che siano conici.

[2] Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 56a (Dox. Gr. p. 624). Cleante ritiene gli astri conici.

[3] Achille Tat. p. 133c. Cleante afferma che gli astri hanno forma conica.

[4] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ IV, 20, p. 105, 15 Ra. Lo Stoico Cleante ritiene gli astri conici.

SVF I, 509

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 48 (p. 79 Aucher). Orsù, facciamo fra di noi l’ipotesi che l’universo [I,114,10] sia ingenerato ed eterno, secondo quanto suggeriscono filosofi di chiara fama e quanto sottoscrivono Parmenide, Empedocle, Zenone, Cleante ed altri uomini divini: insomma un vero e proprio sacro consesso. Ebbene, cos’abbiamo da stupirci se da una materia ingenerata una certa sua parte si rigenera o si corrompe, [I,114,15] talora per effetto della provvidenza divina, talaltra per ossequio all’ordine delle cose? Infatti degli altri artefici neppur uno genera materia di suo, bensì essi tutti danno forma e figura secondo i canoni di un’arte alla materia che prendono per sé […] Pertanto, secondo questa ipotesi, dio non generò una prima materia uguale a se stessa per l’eternità , ma prese la materia che gli serviva, [I,114,20] e la usò per fare il cielo, la terra, le specie animali e vegetali e tutto il resto […] Ma ciò, non impedisce in alcun modo che esista una provvidenza, anche se si suppone che il mondo, insieme con la materia, sia ingenerato. […] In che modo? Perché caratteristico della provvidenza è non solo di creare e generare materia, ma anche di conservare e di tenere in ordine [I,114,25] quello che è stato fatto.

SVF I, 510

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1075d. Inoltre Cleante, nella sua gara a favore della conflagrazione universale, afferma che il sole assimilerà a sé e trasformerà in se stesso la luna e tutti i restanti astri. Ma allora gli astri, che pur sono dei, mentre danno il loro contributo alla conflagrazione universale cooperano [I,114,30] con il sole alla loro rovina. Sarebbe pertanto ben ridicolo che noi li supplicassimo per la nostra salvezza e li legittimassimo come salvatori degli uomini, quando per natura essi affrettano la loro stessa rovina e la loro eliminazione.

SVF I, 511

Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 18, VI, p. 100 Cohn-Reiter. [I,114,35] Al momento della conflagrazione universale il cosmo necessariamente muta, o in vampata o in raggi di luce: in vampata, come credeva Cleante; o in raggi di luce, come credeva Crisippo.

SVF I, 512

Stobeo ‘Eclogae’ I, 20, 1e, p. 171 W. [I,115,1] Ha il beneplacito di Zenone, di Cleante e di Crisippo l’affermazione che il fuoco muti la sostanza quasi in un seme; e che poi a partire da questo seme risulti di nuovo il buon ordine del cosmo tale e quale era in precedenza.

SVF I, 513

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 24. Quanto grande sia la massa di calore presente in ogni corpo è cosa che Cleante insegna anche con argomentazioni aggiuntive. [I,115,5] Egli infatti nega che vi sia alcun cibo così pesante da non essere digerito in un giorno e una notte; e sostiene che parte di questo calore è ancora presente negli escrementi che la natura elimina.

[2] 23. La faccenda sta in modo che tutte le cose che si alimentano e crescono contengono in sé una massa di calore, [I,115,10] senza la quale non potrebbero né alimentarsi né crescere. Infatti tutto ciò che è caldo ed igneo si muove ed agita di moto proprio, mentre ciò che è alimentato e s’accresce utilizza una qualche sorgente stabile e costante di moto la quale, quanto a lungo rimane in noi, tanto a lungo durano in noi vita e sensibilità, mentre quando il calore si raffredda e si estingue, allora noi moriamo e ci [I,115,15] estinguiamo.

SVF I, 514

Cornuto ‘Gr. Theol. Comp.’ 31, p. 62 Lang. Eracle è il tono presente in ogni cosa e per il quale la natura è potente, possente, invincibile, indomita, dispensatrice di potenza e di vigore anche alle singole parti […] [I,115,20] tanto che diventa difficile distinguere ciò ch’è proprio degli dei da ciò che le storie raccontano a proposito degli eroi. Forse la pelle di leone e la clava attribuitegli dall’antica teologia sarebbero state metafore di ciò. […] Ciascuna delle due sarebbe un simbolo di vigoria e di generosità d’animo, giacché il leone è il più vigoroso degli animali [I,115,25] e la clava la più forte delle armi. Anche la divinità sarebbe rappresentata come arciere per il fatto di penetrare ovunque e per il fatto che il decorso delle frecce ha in sé qualcosa di vibrante. […] Appropriatamente gli abitanti di Cos hanno tramandato che egli [Eracle] coabita con Ebe, come per dire che il corpo è più completo quando sia in compagnia dell’intelletto. Come infatti dice Euripide:

[I,115,30] le mani dei giovani sono più energiche nel compiere qualcosa,

ma gli animi dei più vecchi sono molto migliori’.

Io sotto sotto intendo come molto plausibile che ad Eracle convenga il servaggio presso la regina Onfale, poiché grazie ad esso gli antichi palesano che anche i più potenti fisicamente debbono subordinarsi alla ragione e fare ciò che da questa, cioè dalla voce divina, [I,115,35] è ingiunto; pur se ci tocca fare qualcosa che secondo una conoscenza teorica ed un’analisi logica pare assai femmineo. Voce divina che si potrebbe opinare non assurdamente essere designata appunto [I,116,1] con il nome di Onfale. Ed è fattibile ricondurre anche le dodici fatiche alla divinità, come fece pure Cleante; giacché non si deve ritenere che lo specioso ragionare ricopra ovunque il rango di ambasciatore.

§ 3. Gli animali

Frammenti n. 515-517

SVF I, 515

[1] Plutarco ‘De sollertia animalium’ p. 967e. [I,116,5] Pur essendo dell’avviso che gli animali non partecipano della ragione, Cleante soleva raccontare di essere capitato davanti ad uno spettacolo di questio genere. Alcune formiche venivano ad un formicaio che non era il loro, portando il cadavere di una formica. Allora diverse formiche risalivano dal formicaio come per avere un abboccamento con esse e poi vi ridiscendevano. Ciò accadde [I,116,10] due o tre volte, finché alcune formiche portarono su dal formicaio una larva, quale riscatto della formica morta.A quel punto le altre formiche sollevarono la larva e, dopo avere restituito il cadavere, se ne andarono con essa.

[2] Eliano ‘De nat. anim.’ VI, 50. Una storia di questo genere, si racconta, costrinse Cleante di Asso, suo malgrado ed a dispetto delle sue fortissime obiezioni contrarie, a fare una concessione agli animali e ad ammettere che anch’essi non sono destituiti di capacità di ragionare. [I,116,15] Capitò a Cleante d’essere seduto per una sosta altrimenti più lunga del solito, ed un gran numero di formiche gli stava intorno ai piedi. Cleante vede dunque che lungo un certo sentierino alcune formiche stanno trasferendo il cadavere di una formica alla dimora di formiche diverse e d’altra famiglia. Vede anche che mentre le formiche con il cadavere si fermano sulla soglia del formicaio, altre formiche [I,116,20] risalgono dal basso, si uniscono alle straniere come per uno scopo, poi ridiscendono giù; e questo fanno parecchie volte. Alla fine portano su una larva, come fosse il riscatto. Quelle lo prendono e consegnano il cadavere che avevano portato. A quel punto le altre formiche lo accolgono di buon grado, come se assistessero un figlio o un fratello.

SVF I, 516

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 6, 33, p. 849 Pott. [I,116,25] Perciò anche Cleante afferma che i maiali hanno un animo che tiene il luogo del sale, affinché le loro carni non imputridiscano.

SVF I, 517

Stobeo ‘Florilegium’ 4, 90, Vol. I, p. 240 Hense. Cleante soleva affermare che gli individui non educati <all’uso della diairesi> differiscono dalle belve soltanto per l’aspetto.

[I,116,30]

§ 4. L’animo umano

Frammenti n. 518-526

SVF I, 518

[1] Tertulliano ‘De anima’ c. 5. Cleante vuole che le somiglianze tra genitori e figli corrispondano come in uno specchio, non solo quanto ai lineamenti del corpo, ma anche quanto ai connotati dell’animo, ossia ai costumi, all’intelligenza e agli affetti. Somiglianza e dissomiglianza egli vuole che concernano ciò ch’è corpo, [I,116,35] e dunque che anche l’animo, in quanto corpo, sia soggetto a somiglianze e dissomiglianze. Parimenti egli vuole che ciò ch’è corpo e ciò ch’è incorporeo non possano agire l’uno sull’altro. Pertanto egli vuole che l’animo condivida le sofferenze del corpo, con il quale patisce quando questo sia leso da colpi, da ferite o da ulcerazioni; e che anche il corpo soffra con l’animo quando questo sia afflitto da preoccupazioni, angoscia o amore, a causa dell’indebolimento del compagno, come dimostranoil rossore del pudore e il pallore della paura. Pertanto, dal [I,117,5] fatto che l’animo comunica con le affezioni del corpo, si conclude ch’esso è corpo.

[2] Nemesio ‘De natura hominis’ p. 32. Cleante intreccia il seguente sillogismo. Non soltanto, egli afferma, noi diventiamo simili ai nostri genitori quanto al corpo, ma anche quanto all’animo: nelle nostre passioni, nei nostri caratteri e nelle nostre disposizioni. [I,117,10] Ma somiglianza e dissomiglianza concernono ciò ch’è corporeo, non ciò ch’è incorporeo. Pertanto l’animo è corpo […] Inoltre Cleante afferma: nulla di incorporeo è consentaneo ad un corpo, né lo è un corpo ad un incorporeo, bensì soltanto un corpo ad un corpo. Ora, l’animo è consentaneo al corpo quando questo è ammalato o tagliato; e il corpo è consentaneo all’animo, giacché esso arrossisce quando l’animo prova vergogna, e impallidisce quando l’animo prova paura. Pertanto l’animo è corpo.

[3] Tertulliano ‘De anima’ c. 25. Dato che, [I,117,15] secondo la testimonianza di Cleante, a causa della somiglianza dell’animo noi corrispondiamo come in uno specchio ai nostri genitori anche per intelligenza: ti prego, donde viene ciò se noi non siamo il prodotto di un seme dell’animo?

SVF I, 519

Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 20, 2. Quando Cleante sistema uno accanto all’altro i giudizi di Zenone e i giudizi degli altri filosofi della natura a proposito dell’animo e [I,117,20] li paragona, afferma che Zenone chiama l’animo un’esalazione dotata di sensibilità, proprio come diceva Eraclito. Volendo infatti palesare che gli animi esalati sono sempre cognitivi, Eraclito li rassomigliò ai fiumi, dicendo così: “Negli stessi fiumi altre sono le acque che affluiscono e altre quelle che defluiscono”. Ed anche: “Gli animi esalano [I,117,25] da umori umidi”. Zenone dichiara dunque, similmente ad Eraclito, che l’animo è un’esalazione; e che esso sia dotato di sensibilità lo afferma per questo….

SVF I, 520

[1] Longino presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 21, 3. Uno potrebbe giustamente sdegnarsi con Zenone e con Cleante per avere discorso dell’animo [I,117,30] in modo così fortemente oltraggioso, e per avere entrambi affermato la stessa cosa, ossia che l’animo è un’esalazione del corpo solido.

[2] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ V, 27, p. 130, 2 Rae. Entrambi (Zenone e Cleante) infatti affermano che l’animo è un’esalazione del corpo solido.

SVF I, 521

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 8, p. 248 M. [I,117,35] Se egli (Diogene di Babilonia) seguisse Cleante, Crisippo [I,118,1] e Zenone quando affermano che l’animo trae nutrimento dal sangue e che la sua sostanza è pneuma….

SVF I, 522

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 157. Cleante sostiene che tutti gli animi continuano ad esistere fino alla conflagrazione universale; per Crisippo, invece, [I,118,5] soltanto gli animi dei sapienti.

SVF I, 523

Aezio ‘Placita’ IV, 5, 11 (Dox. Gr. p. 392b). Pitagora, Anassagora, Platone, Senocrate, Cleante affermano che la mente fa il suo ingresso dall’esterno.

SVF I, 524

‘Scholia’ ad Nicol. Ther. 447, p. 36, 13 Keil. I denti che [I,118,10] spuntano successivamente si chiamano ultimi molari poiché mandano ad effetto e compimento l’età matura. Questi denti spuntano infatti quando noi siamo ormai giovanotti. Cleante li chiama però denti del giudizio. Ora, denti semplicemente lo sono. Del giudizio, perché quando essi vengono su ci spunta anche l’assennatezza della mente.

SVF I, 525

Seneca ‘Epistulae morales’ CXIII, 23. Tra Cleante [I,118,15] e il suo discepolo Crisippo non c’è accordo su cosa sia l’atto del ‘camminare’. Cleante afferma che è uno spirito vitale spedito dall’egemonico fino ai piedi; Crisippo invece che è l’egemonico stesso che si estende fino ai piedi.

SVF I, 526

Apollonio ‘Lex. Homer.’ p. 114 Bekker. Il filosofo Cleante afferma che la parola ‘molu’ va spiegata allegoricamente, [I,118,20] come ciò grazie a cui gli impulsi e le passioni sbolliscono.

§ 5. Il destino

Frammento n. 527

SVF I, 527

[1] Epitteto ‘Manuale’ c. 53.

“Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato,

[I,118,25] là dove sono stato da voi una volta ordinato.

Intrepido a voi m’accompagnerò; e se poi non vorrò,

divenuto cattivo, nondimeno a voi m’accompagnerò”.

[2] Seneca ‘Epistulae morales’ CVII, 10. Ed ora rivolgiamoci a Giove, dal cui governo è retta l’immensa mole del mondo, [I,118,30] come fece Cleante in versi assai eleganti; versi che io mi permetto di tradurre in latino sull’esempio di quell’uomo eloquentissimo che fu Cicerone. [I,119,1] Se ti piaceranno, ti saranno buoni consiglieri; se ti dispiaceranno, riconoscerai almeno che in ciò ho seguito l’esempio di Cicerone:

“Conducimi o padre dominatore dell’alto cielo

dovunque ti piaccia: io non esiterò un istante ad ubbidirti.

Eccomi a te sollecito. Se mi opponessi,

ti dovrei comunque seguire, [I,119,5] ma tra i gemiti,

e subirei da vizioso ciò che m’era lecito fare da virtuoso.

Ecco, il fato guida chi lo segue di buon grado

 e trascina a viva forza chi gli è riluttante.

§ 6. La natura degli dei

Frammenti n. 528-547

SVF I, 528

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 13. Il nostro Cleante [I,119,10] parlò di quattro cause che nell’animo umano originarono le nozioni riguardanti gli dei. La prima causa egli la pose nell’idea di cui ho appena parlato, che sorgerebbe dalla premonizione degli eventi futuri. La seconda l’avremmo desunta dalla consistenza dei benefici che godiamo per la mitezza del clima, la fertilità del terreno e l’abbondanza di tante altre condizioni favorevoli. [I,119,15] La terza deriva dal terrore che nell’animo inducono i fulmini, le tempeste, le nuvole, le nevi e le grandinate, la devastazione, le pestilenze, i terremoti e i frequenti bradisismi; le piogge di pietre e di gocce di sangue, smottamenti e sprofondamenti del terreno e di tanto in tanto la nascita di forme mostruose e innaturali sia fra gli uomini sia fra gli animali; e poi ancora dal terrore suscitato dalla visione [I,119,20] di fuochi celesti o di quelle stelle che i Greci chiamano comete e noi a ricciolo […] o di un doppio sole […]: tutte cause per le quali gli uomini, sgomenti, sospettarono l’esistenza di una forza celeste e divina. La quarta e più rilevante causa, fu la regolarità dei moti e delle rivoluzioni del cielo, la distinta varietà e l’ordinata bellezza del sole, della luna e di tutti i corpi celesti, il cui stesso aspetto indicherebbe trattarsi di entità frutto non del caso.

[2] III, 16. Infatti Cleante, come tu dicevi, ritiene che siano quattro i modi in cui nell’animo umano hanno preso forma le nozioni riguardanti degli dei. Il primo modo è […] è quello suscitato dalla premonizione degli eventi futuri; il secondo dagli spaventi che suscitano le tempeste e gli altri cataclismi; il terzo dalla comodità ed abbondanza di cose [I,119,30] a nostra disposizione; mentre il quarto è legato ai movimenti ordinati degli astri ed alla regolarità dei cieli.

SVF I, 529

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 88. Cleante usava argomentare interrogativamente in questo modo. Se esiste una natura migliore di un’altra, allora potrebbe esistere una natura migliore di tutte le altre. Se esiste un animo migliore di un altro, allora potrebbe esistere un animo migliore di tutti gli altri. E pertanto se esiste un animale [I,119,35] migliore di un altro, allora potrebbe esistere un animale più eccellente di tutti. Le cose di questo genere, infatti, sono per natura tali da non ricadere nell’ambito di serie infinite. Dunque né la natura, né [I,120,1] l’animo, né l’animale potrebbero migliorare all’infinito. Però esiste un animale migliore di un altro: per esempio, un cavallo è migliore di, tanto per dire, una tartaruga; un toro di un asino, un leone di un toro. E l’uomo a sua volta soverchia per eccellenza quasi tutti gli animali terrestri [I,120,5] quanto a disposizione fisica e d’animo. Pertanto l’uomo potrebbe essere l’animale più eccellente e migliore di tutti. Eppure l’uomo può anche essere un animale nient’affatto eccellente, come quando procede nel vizio e passa tutto, o almeno la maggior parte del suo tempo, in esso (e se mai raggiunge la virtù, la raggiunge tardi e al ponente della vita); un animale caduco, debole, bisognoso di miriadi [I,120,10] di soccorsi quali cibo, ricoveri, e di varie altre cure per il corpo. Corpo il quale ci sta sopra al modo di un crudele tiranno che richiede il tributo giornaliero e che minaccia malattie e morte se noi non procurassimo di lavarlo, ungerlo, vestirlo e cibarlo. Sicché l’uomo non è un animale perfetto [I,120,15] ma imperfetto, anzi molto lontano dalla perfezione. Dunque se l’animale perfetto e migliore di tutti esistesse, esso sarebbe migliore dell’uomo, completamente ricolmo di tutte le virtù e non suscettibile di un qualunque vizio. Ma questo non differirà da dio, anzi è dio.

SVF I, 530

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 37. Cleante, che era stato uditore di Zenone, [I,120,20] in accordo con <Aristone> che ho appena nominato, una volta dice che il mondo stesso è dio, un’altra riserva questo nome alla mente e all’animo della natura intesa nella sua interezza; un’altra ancora non esita ad affermare che dio è l’ardore ultimo e altissimo, dovunque circonfuso ed estremo, che tutto cinge e comprende e che viene chiamato etere [I,120,25] . Sempre lui, quasi delirando, nei libri che scrisse ‘Contro il piacere’, a volte dà agli dei una forma e un aspetto, a volte attribuisce tutta la divinità agli astri, un’altra ancora ritiene che [I,120,30] nulla sia più divino della ragione.

SVF I, 531

[1] Filodemo ‘De pietate’ cp. 9 (DDG 544). Ragione capeggiante gli eventi del cosmo….

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 37. <Cleante> un’altra volta ritiene che nulla sia più divino della ragione.

[I,120,35]

SVF I, 532

[1] Aezio ‘Placita’ I, 7, 17 (DDG p. 302b). Diogene, Cleante ed Enopide <sostengono> che la divinità è l’animo del cosmo.

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 37. <Cleante> un’altra volta [I,121,1] riserva questo nome alla mente e all’animo della natura intesa nella sua interezza.

[3] Minucio Felice ‘Octavius’ c. 19, 10. Teofrasto, Zenone, Crisippo e Cleante danno una molteplicità di definizioni di dio, però tutti si rifanno all’unico principio della provvidenza. Cleante, infatti, talora parla di dio come intelletto, talora come animo, oppure etere, [I,121,5] oppure, e questa è la definizione più frequente, come ragione.

SVF I, 533

Tertulliano ‘Apologeticus’ XXI, 10. Tutte queste denominazioni Cleante le riassume nella parola ‘pneuma’, che afferma permeare l’universo.

SVF I, 534

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 37. <Cleante> un’altra volta non esita ad affermare che dio è l’ardore ultimo e altissimo, dovunque circonfuso ed estremo, che tutto cinge e comprende e che viene chiamato etere.

[2] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ I, 5. Cleante [I,121,10] ed Anassimene sostengono che il sommo dio è l’etere.

SVF I, 535

[1] Plutarco ‘Quom. adol. poet. aud. debeat’ p. 31e. Bisogna poi prestare orecchio senza trascuratezza alle parole <dei poeti>, ma anche schivare la puerilità di un Cleante. Giacché egli è in vena d’ironia quando, simulando di commentare il verso [I,121,15]

‘Zeus padre e signore dell’Ida’

e il verso

‘Zeus signore di Dodona’

propone di unire le due ultime parole del secondo verso [‘ana’ e ‘Dodona’] in una sola, come se l’aria che esala dalla [I,121,20] terra, a causa della ‘su-dazione’, fosse ‘su-dativa’.

[2] ‘Scholia’ BL Hom. XVI, 233.

‘Zeus signore <di> Dodona’

Alcuni leggono ‘anadodoneo’, in una sola parola, in relazione alla ‘su-dazione’ dei beni.

SVF I, 536

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1075a-c. Ma Crisippo [I,121,25] e Cleante dopo avere, per così dire, infarcito a parole di dei il cielo, la terra, l’aria e il mare; a nessuno di tali e tanti personaggi hanno riservato vita imperitura e sempiterna, ad eccezione di Zeus, nel quale essi fanno consumare tutti gli altri. […] Queste assurdità non […] conseguono alle loro dottrine. Sono loro stessi, invece, nei loro scritti sugli Dei, la Prònoia, il Destino [I,121,30] e la Natura, a dire a gran voce e in termini precisi che tutti gli altri dei sono stati soggetti a nascita nel passato e saranno soggetti a perire in futuro nel fuoco, dal momento che secondo loro essi sono fusibili come fossero di cera o di stagno.

SVF I, 537

Stobeo ‘Eclogae’ I, 1, 12, p. 25 W. Di Cleante.

‘Tu degli immortali il più glorioso, dai molti nomi, onnipotente sempre,

[I,121,35] o Zeus, autore primo della natura, che ogni cosa con la legge piloti,

salve! Per tutti i mortali è normale rivolgerti la parola:

del tuo genere siamo, noi, messi per sorte a parte della ragione,

[I,122,1] noi soli, tra quante creature mortali vivono e si muovono sulla terra.

A te perciò io leverò il mio inno e di te sempre canterò il potere;

a te, cui questo cosmo intorno alla terra ruotante tutto ubbidisce,

 dovunque lo conduca; e di buon grado che si lascia da te padroneggiare.

[I,122,5] Di tal fatta hai ministro sotto le invincibili mani,

forcuta, fiammante, sempreviva la folgore,

sotto il cui colpo le opere tutte di natura soccombono;

con cui tu indirizzi la comune ragione che tutto frequenta,

commista dei grandi e piccoli astri al fulgore

[I,122,10] e per cui divenisti re supremo e sì grande per sempre.

Nessuna opera sulla terra si compie senza di te, o nume,

né alcuna nell’etereo cielo divino e neppure sul mare;

tranne quanto i viziosi operano con le loro follie.

E però tu ben sai il troppo a misura ridurre,

[I,122,15] il disordine all’ordine; e caro t’è anche il non caro.

Così tutte le cose hai conciliato in unità, le buone alle malvagie;

sicché la sempre vivente ragione di tutte è diventata una sola.

Ma quanti tra i mortali sono viziosi, la ragione abbandonano fuggendo;

sventurati! che pur sempre bramando il possesso dei beni

[I,122,20] non vedono dentro di loro la legge divina comune per tutti, né danno ascolto

a ciò cui ubbidendo con intelligenza potrebbero avere una buona vita.

Essi invece, insensati, impellono chi ad un male chi ad un altro:

alcuni, per amor di fama, industriandosi in funeste contese,

altri al lucro rivolti senza compostezza alcuna,

[I,122,25] altri ancora ai sollazzi e alle piacevolezze del corpo.

<Poi, odiando i virtuosi,> essi si trascinano da un male all’altro

e diventano in fretta l’assoluto opposto di questi.

Ma tu, o Zeus, d’ogni dono datore, delle nere nubi adunatore, dalla vivida folgore,

preserva gli uomini dalla rovinosa ignoranza;

[I,122,30] disperdila, padre, dall’animo e fa sì che esso raggiunga

[I,123,1] la sapienza; nella quale fidente, tutto con giustizia tu piloti.

Affinché, da te onorati, possiamo ricambiarti l’onore

levando inni continui alle tue opere, come si conviene

a chi è mortale; giacché non v’è distinzione maggiore per gli uomini

[I,123,5] né per gli dei che quella di inneggiare nella giustizia alla legge comune sempre per tutti.

SVF I, 538

Epifanio ‘Adversus haeres.’ III, 2, 9 (Dox. Gr. p. 592). Cleante afferma che virtù sono i piaceri. Egli usava chiamare ‘uomo’ soltanto l’animo. Affermava che gli dei sono figure mistiche e sacre invocazioni. Era dell’avviso che il sole sia un portatore di fiaccola e il cosmo una realtà mistica. [I,123,10] Soleva anche dire che quanti possiedono il divino sono officianti di misteri.

SVF I, 539

Filodemo ‘De pietate’ cp. 13 (DDG 547b). Nel secondo libro ‘Sugli dei’ Crisippo, così come pure Cleante, si sforza di conciliare le proprie opinioni con quelle che fanno riferimento ad Orfeo e Museo [I,123,15] ed alle opere di Omero, Esiodo, Euripide e di altri poeti.

SVF I, 540

Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVII, 8. Cleante <disse che il sole è chiamato Apollo> ‘perché il sole sorge in zone del sole sempre diverse’ cioè in greco ἀπ’ἄλλων καὶ ἄλλων

SVF I, 541

Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVII, 36. Cleante osserva che Apollo è chiamato Licio, perché come i lupi (in greco λύκοι) rapiscono le pecore, [I,123,20] così anch’egli con i suoi raggi rapisce l’umidità.

SVF I, 542

[1] Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVII, 31. Secondo Enopide <Apollo-Sole> viene chiamato ‘Loxìas’ perché procede muovendosi lungo un’orbita obliqua da occidente ad oriente. [I,123,25] Oppure, come scrive Cleante, perché si muove lungo percorsi ad elica, che sono anch’essi obliqui.

[2] Achille ‘Isagoge’ 169A. Lo zodiaco è chiamato da alcuni ‘Loxìas’ poiché il sole procede in esso lungo percorsi obliqui. E si crede che Apollo, che i poeti chiamano ‘Loxìas’, sia nel sole.

[3] Cornuto ‘Grec. Theol. comp.’ 32. [I,123,30] Essendo obliqui e duri da capire i suoi responsi oracolari, <Apollo> ha avuto il nome di ‘Loxìas’. Oppure dall’obliquità della marcia del sole nello zodiaco.

SVF I, 543

[1] Fozio ‘Biblioth.’ s.v. ‘leskai’ . Cleante dice che sono state dedicate ad Apollo pubbliche gallerie, simili ad esedre, [I,123,35] e che da alcuni egli è stato soprannominato ‘Leschenorio’.

[2] Cornuto ‘Grec. Theol. comp.’ 32, p. 69. [I,124,1] […] e diedero <ad Apollo> l’appellativo di ‘Leschenorio’, perché di giorno gli uomini stanno insieme nelle pubbliche gallerie per conversare, mentre di notte essi si riposano ognuno a casa propria.

SVF I, 544

‘Scholia’ in Hom. Iliad. III, 64. [I,124,5] Cleante dice che in Lesbo si onora un’Afrodite d’oro.

SVF I, 545

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 572f. Presso gli Abideni, come afferma Panfilo, vi è un tempio di Afrodite prostituta. Neante [Cleante] racconta infatti nelle sue ‘Leggende’ che quando la città era tenuta in schiavitù, [I,124,10] i soldati di guarnigione, dopo avere offerto sacrifici ed essersi ubriacati, presero anche con sé molte cortigiane. Una di queste, quando li vide addormentati, tolse loro le chiavi, oltrepassò il muro ed avvisò gli abitanti di Abido. Essi subito arrivarono in armi, levarono di mezzo le guardie, si impossessarono delle mura e, una volta divenuti padroni della propria libertà, in segno [I,124,15] di ringraziamento alla prostituta innalzarono il tempio di Afrodite prostituta.

SVF I, 546

Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVIII, 14. Per questo Cleante scrive che <Dioniso> fu denominato così da ‘dianùsai’ (=compiere), perché [I,124,20] nella sua corsa quotidiana da oriente ad occidente, dando origine al giorno e alla notte, compie tutto il percorso del cielo.

SVF I, 547

Plutarco ‘De Iside et Osiride’ 66 p. 377d. Cleante afferma da qualche parte che Persefone è lo pneuma che si porta e si distrugge nei frutti della terra.

[I,124,25] § 7. La Prònoia e la mantica

Frammenti n. 548-551

SVF I, 548

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 74 (p. 94 Aucher). La moltitudine dei pianeti serve all’universo; seppure è vero che sono soli gli uomini che dispongono di tempo libero a poter enumerare l’utilità di ciascuno di essi. Queste utilità ci sono note non soltanto grazie alla ragione ma anche grazie ai sensi perché, come dicono [I,124,30] Crisippo e Cleante, la provvidenza nulla trascurò di quanto pertiene alla più certa ed opportuna distribuzione delle utilità. Perché se fosse stato meglio distribuire diversamente le cose del mondo, la provvidenza avrebbe composto il mondo a quel modo per cui nulla fosse da impedimento a dio.

SVF I, 549

[1] ‘Scholia’ in Hom. Odis. I, 52 (Cramer Anecd. Oxon. III, 416). [I,124,35] Cleante legge la parola ‘oloòfronos’ con lo spirito aspro: ‘di colui che si dà pensiero dell’intero cosmo’.

[2] Eustazio in Hom. p. 1389, 55. Atlante […] alcuni lo intendono come allegoria [I,125,1] della Prònoia instancabile, infaticabile, causa di tutto; e pensano un siffatto Atlante darsi pensiero dell’intero cosmo, così come ritenevano preoccuparsi dell’intero cosmo chi di esso si dà pensiero. Perciò si dice che anche Cleante pronunciasse con lo spirito aspro la ‘o’ iniziale della parola.

[3] Cornuto c. 26. Atlante è detto [I,125,5] ‘darsi pensiero dell’intero cosmo’ perché di esso si preoccupa e provvede alla salvezza di tutte le sue parti.

SVF I, 550

Cicerone ‘De divinatione’ I, 6. Quasi tutti gli Stoici difendevano <quelle pratiche divinatorie>, giacché Zenone aveva sparso nei suoi commentari una sorta di semi, che Cleante rese poi ancor più fertili.

SVF I, 551

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 144. Da ciò deriva che quanto avviene [I,125,10] secondo il fato, avviene anche secondo provvidenza; e parimenti ciò che avviene per provvidenza accade anche secondo il fato, così almeno pensa Crisippo. Per altri, invece, è vero che quanto avviene per decreto della provvidenza avviene fatalmente, ma non è vero che quanto avviene fatalmente derivi dalla provvidenza. Quest’ultima è la posizione di Cleante.

C. [I,125,15] Frammenti di Etica

§ 1. Il sommo bene

Frammenti n. 552-556

SVF I, 552

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 6a, p. 76, 3 W. Cleante […] così la restituì: “ ‘Sommo bene’ è il vivere in modo ammissibile con la ragione e la natura”.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 87. [I,125,20] Zenone […] disse che il sommo bene è vivere in modo ammissibile con la natura, il che significa vivere secondo virtù; giacché è la nostra natura a condurci alla virtù. Similmente parla Cleante nel suo libro ‘Sul piacere’.

[3] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, 21, 129 p. 497 Pott. Cleante <ritiene che il sommo bene sia> il vivere in modo ammissibile con la natura *** nell’operare razionalmente, la qual cosa egli discerneva giacere nella [I,125,25] selezione delle cose che sono secondo natura.

SVF I, 553

[1] Cicerone ‘De finibus’ II, 69. Ti farà vergognare, dico, il quadro che con vera maestria Cleante soleva dipingere a parole. Egli sollecitava infatti gli ascoltatori ad immaginare il Piacere ritratto in un dipinto, assiso in trono, con uno stupendo vestito e ornamenti sfarzosi. A sua disposizione quali ancelle ci sono le virtù, [I,125,30] che altro non farebbero ed a nessun altro compito si dedicherebbero che a servire il piacere; e che ogni tanto gli bisbigliano all’orecchio (se si potesse sentire quello che esse dicono nel dipinto) di stare attento, di non fare qualche imprudenza capace di offendere l’animo degli uomini, o qualcosa dal quale sorgerebbe un dolore. ‘Noi virtù siamo nate per servirti e non abbiamo altro compito’.

[2] Agostino ‘De civitate dei’ V, 20. I filosofi che pongono [I,125,35] il sommo bene dell’uomo nella sola virtù, per svergognare quei filosofi che approvano le virtù, [I,126,1] ma ne commisurano il fine ai piaceri del corpo, e che quindi ritengono i piaceri del corpo appetibili di per sé e le virtù soltanto in vista di essi, sogliono dipingere a parole un certo quadro. In questo quadro il piacere è assiso su un trono regale come una sensuale regina e le virtù le sono sottomesse come ancelle in attesa di un cenno per eseguire i suoi ordini. [I,126,5] Essa comanda alla prudenza di vigilare assiduamente affinché il piacere regni e sia sano e salvo; alla giustizia di dispensare tutti i favori che può per procurare le amicizie necessarie ai comodi del corpo e di non offendere nessuno, per evitare che il piacere non possa più vivere al sicuro per avere trasgredito le leggi; alla fortezza, nel caso essa regina, cioè il piacere, incorresse [I,126,10] in un dolore corporale che non sia causa di morte, di trattenerla saldamente in stato di coscienza così da lenire le punture del dolore presente con il ricordo delle sue trascorse delizie; alla temperanza di prendere solo moderate quantità di cibo, pur essendo alcuni allettanti, affinché, per via di smodatezza, qualcosa di nocivo non turbi la salute e comprometta gravemente il piacere, [I,126,15] che gli Epicurei dichiarano essere sommo quando il corpo è sano. Ecco dunque le virtù, con tutta la gloria del loro rango ridotte a servire il piacere sotto forma di un’imperiosa e disonesta donnicciola. Questi filosofi dicono che nulla c’è di più ignominioso e deforme di questa raffigurazione, né vista meno sopportabile agli occhi dei virtuosi: e dicono la verità.

SVF I, 554

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 6e, p. 77, 21 W. [I,126,20] Felicità è il sereno fluire dell’esistenza. Anche Cleante usa questa definizione nelle sue compilazioni. La usa anche Crisippo, e lo fanno tutti i loro successori, dicendo che la felicità è non altro che una vita felice, seppure affermino che la felicità è esposta come ‘scopo’, mentre [I,126,25] centrare la felicità è il ‘fine’, il che appunto è lo stesso che essere felici.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 30. E la felicità, come esplicitarono i seguaci di Cleante, è il sereno fluire dell’esistenza.

SVF I, 555

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 89. Per natura delle cose alla quale bisogna vivere in modo conseguente, Crisippo intende sia quella comune alle cose tutte, sia quella peculiarmente umana. [I,126,30] Cleante invece intende per natura cui conformarsi soltanto quella a tutte le cose comune, e non anche quella particolare dell’individuo.

SVF I, 556

Stobeo ‘Florilegium’ 6, 66 Vol. I, p. 304 Hense. Cleante usava dire che se il ‘fine’ è il piacere fisico, allora la saggezza è stata data agli uomini per il loro male.

[I,126,35] § 2. Soltanto il bene è utile

Frammenti n. 557-558

SVF I, 557

[1] Clemente d’Alessandria ‘Protrept.’ VI, 72, p. 61 Pott. Cleante di Asso, il filosofo Stoico, che ci mostra non una teogonia poetica [I,127,1] ma una verace teologia, non celò quale fosse il suo pensiero sul divino:

‘Tu mi domandi quale cosa sia il bene? Allora ascolta:

quel che è ben posizionato, giusto, sacrosanto, pio,

[I,127,5] padrone di se stesso, proficuo, bello, doveroso,

austero, franco, utile sempre,

capace di dominare la paura e l’afflizione, vantaggioso, calmante,

giovevole, di cui compiacersi, sicuro, amico,

onorevole, <grato>, ammissibile con la ragione,

 [I,127,10] glorioso, non vanitoso, solerte, mite, veemente,

cronico, irreprensibile, sempre perdurante’.

[2] ‘Stromata’ V, 14, 110, p. 715 Pott. In un poema sul divino, lo Stoico Cleante ha scritto queste parole. Ascolta…

[I,127,15]

SVF I, 558

[1] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, 22, 131, p. 499 Pott. [I,127,20] Perciò Cleante, nel secondo libro ‘Sul piacere’, afferma che Socrate insegnava in ogni occasione come l’uomo giusto e l’uomo felice siano la stessa e identica persona, e inoltre che malediceva il primo essere umano che aveva discriminato il giusto dall’utile, poiché aveva compiuto un’operazione empia. E davvero empi sono coloro che separano l’utile [I,127,25] dal giusto secondo la legge.

[2] Cicerone ‘De officiis’ III, 11. E così ci è stato tramandato che Socrate soleva esecrare quanti per primi opinarono di poter fare a brani l’unità di queste cose che sono invece per natura inseparabili. E sulla linea di Socrate si posero poi gli Stoici, per i quali tutto ciò che è moralmente onesto è anche utile, e per i quali non esiste cosa utile che non sia anche moralmente onesta.

[3] ‘De legibus’ I, 33. Rettamente Socrate [I,127,30] soleva esecrare chi per primo aveva disgiunto l’utile dal diritto naturale: questa, si lamentava, è l’origine di tutti i mali.

§ 3. Gli indifferenti

Frammenti n. 559-562

SVF I, 559

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 3, 17, p. 655 Pott. In un certo qual modo [I,127,35] nel carme poetico del filosofo Cleante sono scritte cose simili:

‘Non guardare all’opinione della maggioranza, volendo diventare di colpo sapiente,

e non temere le dicerie spregiudicate e spudorate dei più.

[I,128,1] La moltitudine, infatti, ha determinazioni né intelligenti, né giuste,

né belle; in pochi uomini questo potresti trovare’.

SVF I, 560

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 14, 110, p. 715 Pott. Proprio Cleante, per screditare tacitamente l’idolatria delle maggioranze, [I,128,5] aggiunge:

‘Chiunque bada all’opinione della maggioranza

come se, grazie ad essa, egli potesse centrare un qualche bene,

non è un uomo libero’.

SVF I, 561

‘Mantiss. Proverb. cent.’ I, 85; ‘Paroem. Graec.’ II, p. 757. Di Cleante.

[I,128,10] ‘È meglio sentir parlar male di sé che parlar male’.

SVF I, 562

[1] Plutarco ‘De aud. poet.’ p. 33c. [I,128,15] Onde sono non maldestre le correzioni di cui si servirono sia Cleante che Antistene. Quest’ultimo […]; Cleante, invece, a proposito della ricchezza di denaro, i versi (di Euripide):

‘dare agli amici e, se il corpo cade in una malattia,

salvarlo con spese’

li [I,128,20] cambiò così:

‘dare alle prostitute e, se il corpo cade in una malattia,

aggravarla con spese’

[2] Dione Crisostomo ‘Orationes’ VII, 102. Proprio a questi versi (di Euripide) ha obiettato uno [I,128,25] dei maggiori filosofi; e nessuno, a mio parere, potrebbe affermare che egli abbia obiettato ad essi e a quelli di Sofocle sulla ricchezza di denaro, per ambizione di vittoria. A quelli (di Euripide) egli ha obiettato un poco, a quelli di Sofocle un po’ di più; e non, come stiamo facendo noi ora, a lungo, in quanto lì per lì egli non aveva molta potestà di dilungarsi, ma ne scriveva nei libri.

[I,128,30] § 4. La virtù

Frammenti n. 563-569

SVF I, 563

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034d. Cleante, negli ‘Appunti di Fisica’ afferma che “il tono è una botta di fuoco; ed esso, quando diventi nell’animo tale da essere sufficiente a realizzare i progetti, [I,128,35] si chiama potenza e potere”. Poi aggiunge testualmente: “Questa potenza e questo potere, se si ingenera in circostanze nelle quali manifestamente ci si deve mantenere saldi, [I,129,1] è padronanza di sé; se in circostanze nelle quali bisogna resistere, è virilità; nei casi che coinvolgono meriti, è giustizia; nel caso di scelte e di avversioni è temperanza”.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 5, p. 62, 24 W. E similmente, come la potenza del corpo è un idoneo tono dell’apparato neuromuscolare, così pure [I,129,5] la potenza dell’animo è un tono idoneo nel determinare e nell’effettuare qualcosa oppure no.

SVF I, 564

[1] Temistio ‘Orationes’ II, p. 27c. Se, a sua volta, qualcuno dicesse che è adulazione paragonare un re ad Apollo Pizio, Crisippo e Cleante non ne converrebbero con voi; e neppure l’intera etnia filosofica degli Stoici, i quali sono dell’avviso che identiche siano la virtù e la verità [I,129,10] dell’uomo e di dio.

[2] Proclo ‘In Platonis Timaeum’ p. 106 F. Gli Stoici hanno affermato che la virtù degli dei e degli uomini è identica.

[3] Cicerone ‘De legibus’ I, 25. La virtù è la stessa nell’uomo e in dio, e non è presente in alcun’altra creatura.

SVF I, 565

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 92. [I,129,15] I seguaci di Cleante, di Crisippo e di Antipatro affermano che le virtù sono più di quattro.

SVF I, 566

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 65, 7 W. Nulla vi è frammezzo alla virtù e al vizio. Tutti gli uomini hanno dalla natura le risorse per la virtù e, secondo Cleante, è come se avessero la ragione dei versi semigiambi. [I,129,20] Laonde quando sono imperfetti, sono insipienti; mentre quando sono perfetti, sono virtuosi.

SVF I, 567

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 91. Crisippo nel primo libro ‘Sul sommo bene’, Cleante e Posidonio nei ‘Protrettici’ affermano che la virtù è insegnabile.

SVF I, 568

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 127. Per Crisippo la virtù [I,129,25] si può buttar via. Cleante, invece, sostiene che non si può buttar via. Secondo Crisippo la si può buttar via per ubriachezza e malinconia. Secondo Cleante essa non può esser buttata via a causa della saldezza delle apprensioni certe.

SVF I, 569

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 128. Ha il loro beneplacito anche l’uso della virtù in ogni circostanza, come affermano i seguaci di Cleante. Infatti essa non può essere persa; e l’uomo virtuoso usa, in ogni tempo, un animo che è perfetto.

[I,129,30] § 5. Le passioni

Frammenti n. 570-575

SVF I, 570

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 6, p. 456 M. Egli afferma che il punto di vista di Cleante sulla parte passionale dell’animo appare da questi versi:

[I,129,35] [Ragione] – Cos’è mai che vuoi, o Rancore? Dimmelo

[Rancore] – Che tu faccia, o Ragione, tutto ciò che io voglio

[I,130,1] [Ragione] – Parli da re; però comunque ripetilo

[Rancore] – Che le cose per cui smanio, avvengano!’

Posidonio afferma che questo scambio di battute è di Cleante e che mostra con evidenza il suo punto di vista sulla parte passionale dell’animo, [I,130,5] se appunto ha fatto dialogare l’un l’altro Ragione e Rancore.

SVF I, 571

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IX, 1, p. 653 M. Nella sua trattazione ‘Sulle passioni’ Posidonio mostra che noi siamo governati da tre facoltà: la concupiscente, l’irascibile e la raziocinante. Posidonio mostrò poi che anche [I,130,10] Cleante è della stessa opinione.

SVF I, 572

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 5, p. 299 M. Non soltanto Crisippo, ma anche Cleante e Zenone sono pronti a ribadire che le paure, le afflizioni e tutte quante le passioni di questo genere hanno la loro sede nel cuore.

SVF I, 573

Stobeo ‘Florilegium’ 6, 3, Vol. I, p. 281 Hense. [I,130,15]

‘Chiunque tollera di smaniare per una brutta azione

certo la farà, qualora ne abbia l’occasione’.

SVF I, 574

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 74. Cleante nega che il piacere della carne sia secondo natura, al modo che non è secondo natura una spazzola, e che esso [I,130,20] abbia valore nella vita.

SVF I, 575

Stobeo ‘Florilegium’ 108, 59 Mein. Cleante soleva dire che l’afflizione è una paralisi dell’animo.

§ 6. La consolazione

Frammenti n. 576-577

SVF I, 576

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 76. Ci sono persone che reputano quale unico dovere di chi intende consolare qualcuno il dirgli che ‘Quello non è affatto un male’, come [I,130,25] soleva fare Cleante.

SVF I, 577

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 77. Cleante in verità consola il sapiente, il quale di consolazione non manca. Difatti, se tu persuadessi chi è in lacrime che nulla è male se non ciò ch’è moralmente deforme, tu gli sottrarresti della stoltezza ma non del lutto: altro è il tempo per insegnarglielo. Non mi sembra che Cleante abbia pienamente compreso ciò, [I,130,30] ossia che talvolta l’afflizione può essere suscitata proprio da ciò di cui Cleante stesso parlava come di un sommo male.

§ 7.Il dovere

Frammenti n. 578-586

SVF I, 578

[1] Seneca ‘De beneficiis’ VI, XII, 2. Colui che bada soltanto a se stesso e ci giova perché questo è il solo modo che ha di giovare a se stesso, [I,130,35] secondo me si comporta come chi …. fa diventare i propri schiavi ben pasciuti allo scopo di venderli con maggiore profitto [I,131,1] …. giacché, come afferma Cleante, c’è una gran differenza tra beneficio e compravendita.

[2] II, 31, 2. Chi fa un beneficio non voleva che gliene venisse qualcosa in cambio; altrimenti non di un beneficio si tratta bensì di una compravendita.

SVF I, 579

Seneca ‘De beneficiis’ VI, X, 2. La semplice e nuda volontà [I,131,5] non reca di per sé ad effetto un beneficio, giacché non si dà beneficio se alla pur ottima e piena volontà di effettuarlo viene a mancare il concorso di fortuite circostanze esteriori; così come, allo stesso modo, non si dà beneficio se la piena volontà non ha anticipato le circostanze esteriori. Che tu m’abbia giovato non è motivo sufficiente perché io sia in obbligo verso di te: bisogna che tu l’abbia fatto con il deliberato proposito di giovarmi. Cleante si serve di un esempio di questo genere. “Ho mandato due ragazzi”, racconta, “a cercare Platone ed a chiedergli di venire qui dall’Accademia. [I,131,10] Uno dei due ha scrutato in tutti gli angoli del porticato ed ha perlustrato anche altri luoghi nei quali sperava di trovarlo, dopo di che è tornato a casa tanto stanco quanto deluso. L’altro ragazzo invece s’è accostato al primo perdigiorno che ha trovato e mentre scherzando se ne andava a zonzo con della gentaglia, ecco che ti incontra proprio Platone, il quale passava di lì e che egli neppure cercava. [I,131,15] Ebbene -dice Cleante- noi loderemo il ragazzo che ha fatto quanto gli era stato comandato di fare al meglio delle sue possibilità; e invece castigheremo il secondo, che nulla ha fatto ed è stato soltanto fortunato”.

SVF I, 580

Seneca ‘De beneficiis’ V, XIV, 1. Le espressioni di Cleante sono anche più veementi, giacché egli dice: “Posto anche che quello ricevuto non sia un beneficio, chi l’ha ricevuto resta pur sempre un ingrato, perché non l’avrebbe ricambiato neppure se l’avesse ricevuto. [I,131,20] Così l’uomo è un brigante ancor prima di macchiarsi le mani di sangue, giacché è già armato per uccidere ed ha la volontà di depredare e di assassinare. La malvagità si esercita e si manifesta apertamente nelle opere, ma non inizia con esse. Infatti si infliggono pene ai sacrileghi, anche se nessuno di essi riesce a stendere la mano fino agli dei”. [I,131,25]

SVF I, 581

Stobeo ‘Florilegium’ 28, 17, Vol. I, p. 621 Hense. Cleante affermava che chi giura è fedele al giuramento oppure spergiuro già nel momento in cui giura. Infatti, se egli giura con la determinazione di realizzare quel che ha giurato, è fedele al giuramento; se invece ha il proposito di non realizzarlo è spergiuro.

SVF I, 582

Seneca ‘Epistulae morales’ XCIV, 4. Cleante giudica utile [I,131,30] anche quella parte della filosofia (ossia quella che fornisce precetti specifici per i casi singoli, ma non stabilisce quale sia la natura delle cose ed il posto che spetta all’uomo nell’universo: e quindi consiglia al marito come trattare la moglie, al padre come allevare i figli, al padrone come governare i servi) e tuttavia la ritiene debole e insufficiente qualora non discenda dalla conoscenza della natura delle cose e se ignora [I,131,35] i principi cardine stessi della filosofia.

SVF I, 583

Stobeo ‘Florilegium’ 6, 4, Vol. I, p. 281 Hense. [I,132,1]

‘Donde nasce dunque la genia degli adulteri?

Dall’individuo che s’abbuffa di piaceri sessuali’.

SVF I, 584

Teofilo ‘Ad Autolycum’ III, 5, p. 196 Otto. Cosa te ne pare dei giudizi che i libri di Zenone [I,132,5] o di Diogene o di Cleante abbracciano; libri che insegnano il cannibalismo, che i figli lesseranno e ingeriranno le carni dei loro padri e, se uno decidesse di non farlo oppure decidesse di scaraventare via un membro di questo fiero pasto, a divorare chi si rifiuta di mangiare?

SVF I, 585

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 199-200. Presso di noi è turpe, [I,132,10] e per di più è ritenuta illegale, l’omosessualità maschile. Presso i Germani, invece, si dice che sia una pratica non turpe […] Cosa vi è di stupefacente in ciò, laddove anche i Cinici e i seguaci di Zenone di Cizio, di Cleante e di Crisippo affermano che questa pratica è un ‘indifferente’?

SVF I, 586

Stobeo ‘Florilegium’ 42, 2, Vol. I, p. 760 Hense.

[I,132,15] ‘Non c’è opera più malefica della calunnia:

di nascosto essa inganna chi se ne lascia persuadere

e plasma odio contro chi non ne è causa’.

§ 8. La città

Frammenti n. 587-588

SVF I, 587

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 111, p. 103, 12 W. Sul fatto che la città sia un’entità pregiata, [I,132,20] Cleante ha validamente prospettato un ragionamento di questo genere. Se la città è una struttura stanziale rifugiandosi nella quale è possibile dare e ottenere giustizia, non è forse la città una cosa pregiata? Ma la città è proprio questa struttura stanziale. Dunque la città è una cosa pregiata.

SVF I, 588

Seneca ‘De tranquillitate animi’ 1, 10. Senza esitare e con determinazione io seguo Zenone, [I,132,25] Cleante e Crisippo, nessuno dei quali accedette a cariche pubbliche e tuttavia nessuno dei quali si rifiutò di indirizzarvi altre persone.

§ 9. Frammenti vari

Frammenti n. 589-591

SVF I, 589

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 14. <Zenone> talvolta si faceva pagare dai circostanti una moneta di bronzo [sicché quelli, per non] dargliela, toglievano il disturbo, [I,132,30] come afferma Cleante nel suo libro ‘Sulla moneta di bronzo’.

SVF I, 590

Filodemo ‘De philosophis’ Vol. Hercul. VIII, col. 13, 18. E Cleante, nel suo libro ‘Sulla stele’, la rammenta come opera di Diogene, la loda, e poco dopo, in questo stesso libro [I,133,1] come altrove, fa l’esposizione di alcuni suoi brani.

SVF I, 591

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ XI, p. 467d. Il filosofo Cleante, nel suo libro ‘Sulla commutazione’ afferma che la coppa Tericlea e la coppa Diniade [I,133,5] sono state chiamate così dai nomi dei rispettivi fabbricanti.

[2] p. 471b. Nella sua trattazione ‘Sulla commutazione’, Cleante afferma: “I nomi delle invenzioni di uomini come Tericle, Dinia, Ificrate, e quante altre sono dello stesso genere, sono facilmente comprensibili. Infatti questi nomi si rifacevano in un primo tempo a quello degli inventori, e questo appare anche ora. Se così non è, il nome potrebbe essere stato un poco mutato. [I,133,10] Ma, com’è stato detto, non è il caso di fidarsi del primo che capita”.

§ 10.Frammenti spuri

Frammenti n. 592-596

SVF I, 592

[1] ‘Certamen Homer. et Hesiod.’ p. 4, 18 ed. Nietzsch. Ellanico e Cleante dicono che padre di Omero fu Meone.

[2] Proclo vit. Hom. ap. Gaisford. Hephaestion p. 516. Quanti dunque [I,133,15] dichiarano che <Omero> è di Smirne, dicono che suo padre è Meone.

[3] p. 517. <Ellanico, Damaste e Ferecide> affermano che il padre di Omero fu Meone.

SVF I, 593

[1] Porfirio ‘Vita Pythag.’ 1, 2. Nel quinto libro delle sue [I,133,20] ‘Leggende’ Neante [Cleante] afferma che <Mnesarco, padre di Pitagora> era siriano, originario di Tiro di Siria. Quando una carestia colpì gli abitanti di Samo, Mnesarco navigò alla volta dell’isola per commerciare grano, lo vendette all’ingrosso e fu per questo tenuto in grande onore dalla cittadinanza. Poiché fin da bambino Pitagora mostrava ottima disposizione ad ogni sorta di apprendimento, Mnesarco lo menò a Tiro. Lì gli raccomandò di [I,133,25] unirsi ai Caldei e di trarre da costoro il massimo vantaggio. Una volta ritornato di là nella Ionia, Pitagora fu dapprima alunno di Ferecide di Siria e poi, a Samo, di Ermodamante Creofileo, ormai avanti negli anni. Neante dice poi che vi sono altri i quali dichiarano che suo padre era uno dei colonizzatori di Lemno, di origine tirrenica, [I,133,30] il quale di là era venuto a Samo per affari, vi aveva sostato e ne era diventato cittadino. Quando Mnesarco navigò alla volta dell’Italia, che era un paese molto prospero, Pitagora, allora giovane, navigò con lui e successivamente vi fece ritorno. <Nearco> elenca anche due fratelli più anziani di lui, Eunosto e Tirreno.

[2] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 129 S. [I,134,1] Secondo Neante, Pitagora era di Siria o di Tiro.

[3] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ I, 24, p. 11, 13 Ra. Neante denomina Pitagora ‘di Tiro’.

SVF I, 594

Ps. Plutarco ‘De fluviorum nominibus’ V, 3. Accanto gli giace [I,134,5] il monte Caucaso, che prima si chiamava Letto di Borea per un motivo di questo genere. Borea, dopo avere per smania erotica rapito Chione, figlia di Arturo, la portò su una certa cresta montuosa chiamata Nifante e da essa generò il figlio Irpace, quello che poi successe sul trono di Enioco. Il monte cambiò così il nome in ‘Letto [I,134,10] di Borea’. Fu poi designato con il nome di ‘Caucaso’ per una circostanza di questo genere. Dopo la battaglia dei Giganti e per scansare le minacce di Zeus, Crono fuggì verso la sommità del Letto di Borea e qui si nascose trasformandosi in un coccodrillo. Un giorno <Prometeo>, aperto il cadavere di Caucaso, che era uno dei pastori del luogo, e capendo la disposizione delle sue viscere, disse che [I,134,15] i nemici non erano lontani. Allora Zeus si dette a vedere, legò suo padre Crono con una corda di lana e lo gettò nel Tartaro. Dopo avere cambiato il nome della montagna in ‘Caucaso’ in onore del pastore, Zeus vi legò a sua volta Prometeo e lo costrinse ad essere tormentato da un’aquila che gli divorava le viscere, poiché aveva contravvenuto alla legge nell’osservazione delle viscere, come riferisce Cleante nel terzo libro della sua ‘Teomachia’.

SVF I, 595

Ps. Plutarco ‘De fluviorum nominibus’ V, 4. [I,134,20] Nel Caucaso cresce un’erba chiamata ‘erba di Prometeo’ che, raccolta e ridotta in polvere, Medea usava come rimedio contro le sofferenze del padre, secondo quanto riferisce lo stesso <Cleante>.

SVF I, 596

Ps. Plutarco ‘De fluviorum nominibus’ XVII, 4. Sul monte Taigeto cresce [I,134,25] un’erba chiamata ‘Carisia’ che, all’inizio di primavera, le donne s’appendono attorno al collo e così sono amate dagli uomini con più passione.

Sentenze di Cleante

Frammenti n. 597-619

SVF I, 597

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 169. Si racconta che una volta Antigono era suo uditore e [I,134,30] che cercò di sapere da lui perché attingesse e versasse acqua. Al che Cleante rispose: “Attingo e verso soltanto acqua? E non zappo anche? E non irrigo e non faccio forse tutto ciò per amore della filosofia?”. Alla filosofia lo allenava Zenone, il quale gli intimò di versargli un obolo del suo salario a titolo di risarcimento.

[2] Plutarco ‘De vitando aere alieno’ p. 830c. Il re Antigono, rivedendo Cleante ad Atene [I,134,35] dopo un certo tempo, gli domandò: “Macini ancora, Cleante?”. “Macino -rispose Cleante- o maestà; e lo faccio per non distornarmi da Zenone e dalla filosofia”.

SVF I, 598

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 171. Poiché giudicava il proprio modo di vivere [I,135,1] preferibile a quello delle persone ricche di denato, Cleante soleva dire che nel terreno in cui quelli giocano a palla lui lavora, zappando il terreno duro e infruttuoso.

SVF I, 599

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 170. Tollerava di essere schernito dai condiscepoli ed accettava di sentirsi chiamare ‘asino’, dicendo di essere il solo [I,135,5] capace di sorreggere il carico di Zenone.

SVF I, 600

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 171. Una volta gli fu rinfacciata la sua timidezza, e Cleante disse: “È per questo che aberro poco”.

SVF I, 601

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 174. A chi gli rinfacciava la sua vecchiaia, soleva dire: “Anch’io me ne voglio andare; ma quando mi considero da ogni parte e mi vedo [I,135,10] in salute, in grado di scrivere e di leggere, allora rimango”.

SVF I, 602

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 171. Spesso <Cleante> s’autocensurava. Aristone lo sentì farlo e gli disse: “Chi stai censurando?”. E lui gli rispose: “Un vecchio che ha la canizie ma non accortezza”.

SVF I, 603

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 173. Quando il poeta Sositeo, in teatro, [I,135,15] pronunciò in sua presenza il verso

‘<persone> che la stupidaggine di Cleante cacciano innanzi come buoi’

egli non mutò contegno. Gli ascoltatori, ammirati di questo suo atteggiamento, applaudirono Cleante ed espulsero Sositeo dal teatro. Quando poi Sositeo provò rimorso per le sue ingiurie, Cleante ne accettò le scuse, dicendo assurdo che Dioniso ed [I,135,20] Eracle non s’adirassero quando erano oggetto delle chiacchiere dei poeti e che egli, invece, facesse il malcontento per un’occasionale maldicenza.

SVF I, 604

Stobeo ‘Florilegium’ 7, 54, Vol. I, p. 325 Hense. Cleante non poteva più ingerire cibo per via dell’insorgenza di una piaga sulla lingua. Quando gli divenne più facile deglutire e il medico gli fece apprestare del cibo, Cleante gli disse: “Io [I,135,25] ho ormai compiuto la maggior parte della strada, e tu vuoi che io torni indietro per venire di nuovo da principio fin qui lungo la stessa strada?”. E così uscì di vita.

SVF I, 605

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 171. A chi affermava che Arcesilao non faceva mai parola dei doveri, Cleante diceva: “Smettila, e non denigrarlo. Se infatti abolisce il dovere a parole, però lo pratica nei fatti”. [I,135,30] Arcesilao dice: “Io non mi lascio adulare”. Al che Cleante rispondeva: “Sì, ma la mia adulazione consiste nel dire che tu dici una cosa ma ne fai un’altra”.

SVF I, 606

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 173. Cleante soleva dire che i Peripatetici sperimentano qualcosa di simile a quel che accade alle lire, le quali emettono un gran suono ma non possono ascoltarlo.

SVF I, 607

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ II, 60. <Tra quei filosofi> [I,135,35] Dionisio di Eraclea, uomo di poca fermezza, imparò da Zenone ad essere forte ma lo disimparò dal dolore. [I,136,1] Soffrendo di reni, fra grida lamentevoli andava urlando che erano false le dottrine sul dolore che egli aveva prima fatte sue. E poiché il condiscepolo Cleante gli chiedeva ragione del suo cambiamento di opinione, rispose: “Perché, se pur avendo io profuso un grande impegno nella filosofia [I,136,5] non riuscissi a sopportare il dolore, questo sarebbe una prova sufficiente che il dolore è un male. Ebbene, io ho effettivamente speso parecchi anni nello studio della filosofia, eppure non riesco a sopportarlo: dunque il dolore è un male”. Allora Cleante, picchiando per terra col piede, si riporta che recitasse un verso delle ‘Epigoni’:

‘Senti quel che dice costui, Anfiarao, sottoterra celato?’

e si riferiva a [I,136,10] Zenone, dolendosi che Dionisio tralignasse dai suoi insegnamenti.

SVF I, 608

Stobeo ‘Florilegium’ 82, 9 Mein. Quando a Cleante fu domandato perché presso gli antichi, pur essendo non molti coloro che praticavano la filosofia, erano molti più di adesso quelli che brillavano in essa, egli rispose: “Perché allora ci si esercitava nelle opere, oggi invece nelle parole”.

SVF I, 609

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 172. [I,136,15] Mentre aveva un rapporto sessuale con un adolescente, una volta Cleante gli chiese se provasse qualche sensazione. Poiché quello diceva di sì, Cleante disse: “Perché dunque io non provo la sensazione che tu provi una sensazione?”.

SVF I, 610

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 172. Quando un tale gli domandò quale ammaestramento doveva suggerire a suo figlio: “Quello di Elettra, rispose Cleante, ‘taci, taci, lieve sia l’orma’ ”.

[I,136,20]

SVF I, 611

[1] Musonio presso Stobeo ‘Eclogae’ II, 31, 125, p. 243 Wachsm. Non era di questo genere anche il famoso ragazzo spartano che domandò al filosofo Cleante se la fatica è un bene? In questo modo egli si mostrò dotato di buona natura e ben cresciuto in vista della virtù, tanto da ritenere la fatica più prossima [I,136,25] alla natura del bene che a quella del male. Chi infatti ammette che la fatica non è un male, cerca di sapere se essa sia per caso un bene. Laonde Cleante, preso da ammirazione per il ragazzo, gli disse:

‘sei di buon sangue, ragazzo mio, visto come parli!’

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 172. Quando uno Spartano dichiarò [I,136,30] che la fatica è cosa buona, Cleante si sciolse di gioia e disse:

‘sei di buon sangue, ragazzo mio’.

SVF I, 612

Stobeo ‘Eclogae’ II, 31, 63 Wachsm. Ad un compagno che stava per andarsene e gli domandava come potesse fare per aberrare il meno possibile, Cleante rispose: “Se reputerai che io sia presente a ciascuna delle azioni che effettuerai,”.

[I,136,35]

SVF I, 613

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 172. [I,137,1] Nei suoi ‘Detti sentenziosi’ Ecatone racconta che quando un formoso adolescente disse: “Se chi lo sbatte sulla pancia, colpisce la pancia; e chi lo sbatte sulle cosce, colpisce le cosce”; Cleante replicò: “Ragazzo, tu abbiti i tuoi ‘fracosce’, ma vocaboli analoghi non sempre [I,137,5] significano azioni analoghe”.

SVF I, 614

Plutarco ‘Vita Alcib.’ VI. Cleante soleva dire che lui il suo amato lo teneva stretto per le orecchie, e che lasciava invece agli amanti rivali molte prese da lui non toccate, intendendo la pancia, gli organi sessuali e la gola.

SVF I, 615

Stobeo ‘Florilegium’ 33, 8 (Vol. I, p. 679 Hense). [I,137,10] Una volta Cleante taceva e un tale gli chiese: “Perché sei silenzioso? Invero è piacevole conversare con gli amici”. Al che lui rispose: “È piacevole, ma quanto più è piacevole tanto più bisogna cedere posto per esso agli amici”.

SVF I, 616

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 174. Ad un individuo solitario [I,137,15] che parlava tra sé e sé, Cleante soleva dire: “Non parli ad un uomo insipiente”.

SVF I, 617

Stobeo ‘Florilegium’ 95, 28 Mein. Interrogato sul come si potrebbe essere ricchi, Cleante rispose: “Se si fosse poveri di smanie”.

SVF I, 618

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 173. In accordo con Zenone, Cleante era dell’avviso che il carattere di una persona sia afferrabile dal suo aspetto. Si racconta perciò che alcuni giovanotti buontemponi gli portarono dinnanzi un cinedo [I,137,20] dall’aspetto aspro e indurito dalla vita in campagna, e che lo sollecitarono a dichiararne il carattere. Nell’incertezza, egli ordinò all’individuo di andarsene e costui, mentre se ne andava, starnutì. Al che Cleante disse: “Ce l’ho! È un effeminato”.

[I,137,25]

SVF I, 619

Epitteto ‘Diatribe’ IV, 1, 173. I filosofi dicono forse paradossi, come affermava anche Cleante, ma non certo illogicità.

APPENDICE

[I,137,30] *Frammenti di Cleante riferiti ai singoli libri

Questa Appendice, contenuta nelle pagine 137 (in fine), 138 e 139 (parte) del Volume I, contiene la nuda lista dei titoli delle opere di Cleante già citate nei vari frammenti e dei riferimenti numerici ad esse dei frammenti appena presentati. Si tratta quindi della semplice ridisposizione di materiale già incontrato e tradotto. Giudicando che essa abbia un interesse esclusivamente filologico, non se ne duplica qui la traduzione.

[I,139,15] Sfero di Boristene

Frammenti n. 620-630

SVF I, 620

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 177. Anche Sfero di Boristene fu allievo, dopo Zenone, di Cleante; e quando ebbe fatto sufficiente progresso negli studi filosofici se ne andò ad Alessandria, alla corte di Tolomeo Filopatore. [ [2] VII, 178. Egli scrisse [I,139,20] i seguenti libri:

‘Sul cosmo (2 libri)’, ‘Sugli elementi’, ‘Sullo sperma’, ‘Sulla fortuna’, [I,139,25] ‘Sui minimi’, ‘Contro gli atomi e le immagini astratte’, ‘Sugli organi di senso’, ‘Cinque lezioni su Eraclito’, ‘Diatribe’, [I,139,30] ‘Sulla costituzione etica’, ‘Sul doveroso’, ‘Sull’impulso’, ‘Sulle passioni (2 libri)’, ‘Sul regno’, [I,140,1] ‘Sulla Costituzione di Sparta’, ‘Su Licurgo e Socrate (tre libri)’, ‘Sulla legge’, ‘Sulla mantica’, [I,140,5] ‘Dialoghi erotici’, ‘Sui filosofi Eretriaci’, ‘Sui simili’, ‘Sulle definizioni’, ‘Sulla postura dell’animo’, [I,140,10] ‘Sulle obiezioni (tre libri)’, ‘Sulla ragione’, ‘Sulla ricchezza’, ‘Sulla fama’, ‘Sulla morte’, [I,140,15] ‘Sull’arte dialettica (2 libri)’, ‘Sui predicati’, ‘Sui termini ambigui’, ‘Lettere’.

SVF I, 621

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 185. Quando Tolomeo scrisse a Cleante [I,140,20] di venire di persona alla sua corte oppure di mandare qualcuno, Sfero partì mentre Crisippo, invece, non badò all’invito.

SVF I, 622

Plutarco ‘Vita Cleomenis’ II. Si dice che Cleomene partecipasse alle discussioni filosofiche quand’era ancora adolescente, al tempo in cui Sfero di Boristene fece un viaggio a Sparta e non trascurò di passare molto tempo in compagnia dei giovani e [I,140,25] degli efebi. Sfero era stato uno dei primi discepoli di Zenone di Cizio, e sembrò aver cara la mascolinità della natura di Cleomene ed attizzarne l’ambizione di onori. […] La filosofia Stoica ha un che di malsicuro e d’arrischiato per le nature grandi e acute ma quando [I,140,30] si mescola ad un carattere profondo e mite, allora soprattutto ne fa sortire il bene che le è proprio.

SVF I, 623

Plutarco ‘Vita Cleomenis’ XI. <Cleomene> si volse poi all’istruzione militare dei giovani e al recupero del sistema educativo di una volta, nel ristabilimento della maggior parte del quale Sfero, che era presente <a Sparta>, lo aiutò. Ben presto essi ripresero così il conveniente e ordinato sistema degli esercizi fisici e delle mense pubbliche comuni, [I,140,35] restringendosi, in pochi per costrizione ma la maggior parte di buon grado, al parsimonioso e famoso tenore di vita spartano.

SVF I, 624

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VIII, p. 354e. Non è priva di grazia la risposta di Sfero, che fu condiscepolo di Crisippo presso Cleante, il quale, convocato [I,141,1] ad Alessandria alla corte del re Tolomeo, una volta che durante il pranzo furono serviti in tavola degli uccelli di cera, mentre stendeva la mano verso di essi fu trattenuto dal re in quanto stava dando il suo assenso ad una falsa rappresentazione. La risposta di Sfero, infatti, colse nel segno, giacché egli disse che stava dando il suo assenso non alla rappresentazione che essi fossero uccelli ma [I,141,5] a quella della ragionevolezza che esse fossero uccelli. Vi è infatti differenza tra la rappresentazione catalettica e la rappresentazione della ragionevolezza di qualcosa. La prima, infatti, non è mendace; mentre per la ragionevolezza di qualcosa può succedere altrimenti.

SVF I, 625

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 177. Sfero se ne andò dunque ad Alessandria, alla corte di Tolomeo Filopatore. Una volta il discorso cadde sulla questione [I,141,10] se il sapiente avrà delle opinioni, e Sfero sosteneva che il sapiente non opinerà. Il re volle però contestarlo ed ordinò che fossero servite in tavola delle melagrane di cera. Poiché Sfero ne fu tratto in inganno, il re gridò ad alta voce che egli aveva dato l’assenso ad una falsa rappresentazione. Ma la risposta di Sfero colse nel segno, giacché egli affermò di avere dato il suo assenso non alla rappresentazione che esse fossero melagrane ma a quella [I,141,15] della ragionevolezza che esse fossero melagrane. Vi è infatti differenza tra la rappresentazione catalettica e la rappresentazione della ragionevolezza di qualcosa. A Mnesistrato che lo accusava di affermare che Tolomeo non era re, [Sfero replicò]: “Dato che Tolomeo è un individuo siffatto, è anche re”.

SVF I, 626

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 159. [I,141,20] I seguaci di Sfero affermano che lo sperma discende dalla totalità dei componenti dei corpi, in quanto è generativo di tutte le parti del corpo. Invece dichiarano che il liquido seminale delle femmine è sterile giacché, come afferma Sfero, esso è atono, scarso ed acquoso.

SVF I, 627

Aezio ‘Placita’ VI, 15, 1 (Dox. Gr. p. 405b, 26). [I,141,25] Lo Stoico Sfero afferma che il buio è visibile. Dalla nostra vista, infatti, si effonde verso di esso qualche raggio.

SVF I, 628

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 53. Dunque, la fortezza è una disposizione dell’animo ad ottemperare alla suprema legge nel sopportare gli eventi; oppure la capacità di conservare un giudizio saldo nelle circostanze che suscitano paura, [I,141,30] al fine di allontanarle o evitarle; oppure la scienza di ciò che suscita paura, del suo contrario e di ciò ch’è del tutto trascurabile, la quale conserva di queste cose un giudizio stabile. Più brevemente si potrebbe dare la definizione di Crisippo, giacché le definizioni precedenti erano di Sfero, che gli Stoici reputano fra i migliori nel dare definizioni. Si tratta di formulazioni tutte molto simili [I,142,1] che esprimono, più o meno, nozioni comuni a tutti loro.

SVF I, 629

Plutarco ‘Vita Lycurg.’ V. Aristotele afferma che tale era il numero dei senatori istituiti, in quanto, pur essendo dapprima in trenta con Licurgo, [I,142,5] due di loro avevano disertato l’impresa per mancanza di coraggio. Sfero afferma invece che questo era fin dall’inizio il numero di coloro che partecipavano del punto di vista <di Licurgo>.

SVF I, 630

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 141c. Nel terzo libro della ‘Costituzione di Sparta’, Sfero scrive: “I partecipanti alle mense pubbliche comuni vi portano i dopopasto. I più vi portano [I,142,10] talora delle cose cacciate da loro stessi; le persone facoltose vi portano però del pane e primizie di stagione dai campi; giusto quanto serve per il banchetto, poiché ritengono che approntarne più del sufficiente sia di troppo e quindi che non è il caso di portarlo”.

Alcuni degli Stoici più antichi

Frammento n. 631

SVF I, 631

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 54. Alcuni [I,142,15] altri degli Stoici più antichi riservano la funzione di criterio di verità alla retta ragione, come afferma Posidonio nel suo libro ‘Sul criterio’.

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Stoicorum Veterum Fragmenta

Introduzione

Nel 1886, mentre preparava la sua edizione delle opere di Epicuro, Hermann K. Usener, allora professore all’Università di Bonn, affidò ad uno dei suoi allievi, Hans von Arnim, il compito di individuare e di raccogliere, setacciando l’intera letteratura greca e latina, il maggior numero possibile di frammenti delle opere di Crisippo (c. 275-206 a.C.) o contenenti dottrine direttamente e con certezza a lui riconducibili.

Stimolato anche da un Premio promesso, poco tempo dopo, dall’Ordine dei Filosofi dell’Università di Gottinga a chi avesse portato a termine un simile compito, il giovane allievo si mise alacremente all’opera e, ottenuto il Premio, amplificò successivamente la sua raccolta fino a farla diventare il testo degli ‘Stoicorum Veterum Fragmenta’ che oggi possediamo, e che vide la luce tra il 1903 e il 1905.

 Il testo degli ‘Stoicorum Veterum Fragmenta’ è suddiviso in tre volumi:

Il volume I contiene tutti i frammenti di Zenone (c. 330-261 a.C.) e dei discepoli di Zenone, il più noto dei quali è Cleante (c. 320-231 a.C.)

Il volume II contiene tutti i frammenti di Logica e di Fisica di Crisippo

Il volume III contiene tutti i frammenti dell’Etica di Crisippo e i frammenti dei discepoli e dei successori di Crisippo.

La redazione del volume IV, contenente vari Indici riferiti al materiale dei precedenti tre volumi, fu da H. von Arnim successivamente affidato alle cure del suo allievo Maximilian Adler, e vide la luce nel 1924. Questo volume contiene un ‘Index Verborum’ greco che risulta approssimativo e parziale, ma del quale mi sono comunque utilmente servito per portare a termine la mia traduzione italiana, traduzione che è liberamente accessibile su questo sito. 

La mia traduzione dei tre libri degli Stoicorum Veterum Fragmenta è disponibile anche in un singolo file PDF.

La Traduzione

Le tre più recenti traduzioni in italiano degli ‘Stoicorum Veterum Fragmenta’ sono le seguenti:

– ‘Stoici Antichi’ a cura di Margherita Isnardi Parente, Utet, Torino 1989. I due volumi di questa edizione presentano  una traduzione quasi completa del testo del von Arnim, testo che risulta però riorganizzato, tagliato ed integrato con materiale di diversa provenienza seguendo criteri propri della curatrice.

– ‘Stoici antichi – Tutti i frammenti’ a cura di Roberto Radice, Rusconi, Milano 1998. Si tratta di un volume con testo latino e greco a fronte, il quale riproduce l’impaginazione originale del testo di von Arnim e ne fa una versione completa. Chiude il volume un Indice dei concetti.

-Quella che prende ora avvio sul mio sito. Io ho tradotto direttamente dal greco. 

La traduzione inizia con i Frammenti greci del III libro e proseguirà con i Frammenti greci del I libro per finire, ‘rebus sic stantibus’, con quelli del II libro. La scelta di cominciare dai Frammenti del III libro non è ovviamente casuale, dal momento che esso contiene la maggior parte del pensiero etico di quella personalità filosofica Stoica di indiscussa grandezza che risponde al nome di Crisippo. Nella mia traduzione ho conservato l’ordine del testo originale del von Arnim, e i numeri contenuti negli apici tra parentesi quadra fanno appunto riferimento al volume, alla pagina e alla riga di tale testo. Ho tralasciato tuttavia, per ora, di misurarmi con i Frammenti latini, giacché questi non hanno l’importanza e il valore di quelli greci e, per di più, sono di facilissimo reperimento nelle varie traduzioni italiane esistenti dei corrispondenti scrittori latini, Cicerone e Seneca in testa. 

Anche nella traduzione degli ‘Stoicorum Veterum Fragmenta’ mi sono conservato strettamente fedele al mio metodo di traduzione dal greco antico, il quale è basato sull’analisi costante e scrupolosa di un ‘Index Verborum’. L’Index Verborum è, in questo caso, dovuto alle fatiche di Maximilian Adler ed è contenuto nel volume IV dell’opera di H. von Arnim. 

Si tratta di un Index Verborum approssimativo e parziale, non certo paragonabile, per completezza, all’Index Verborum presente nell’edizione critica di J. Dalfen dei ‘Ricordi’ di Marco Aurelio, né tantomeno al monumentale ed accuratissimo Index Verborum che arricchisce l’edizione critica dell’opera di Epitteto preparata da H. Schenkl, dei quali, comunque, mi sono servito.

Pur con tutti i suoi limiti, questo Index Verborum è risultato in ogni caso di notevole ausilio. Esso aiuta a seguire la strada maestra di dare ad ogni parola greca (sostantivo, aggettivo, forma verbale e così via) uno od il minor numero possibile di significati compatibili con i vari contesti, così da evitare, per quanto possibile e come mi piace dire, di ‘andare allegramente per i prati’. Il che equivale, traducendo, al perdersi raccogliendo un granchietto qui, schiacciando un pisolino là, inseguendo una papera poco oltre, e al ritrovarsi infine nella valle dei farfalloni, immemori del tutto di dove si è, di cosa si è appena fatto e di cosa si è lì per fare. Sospetto, anzi, che la compattezza e l’acribia della traduzione italiana che offro permetta, a chi lo vorrà, di fare il percorso inverso, ossia di utilizzare la mia traduzione italiana per implementare lo ‘Index Verborum’ greco dell’Adler. 

Cosa significa tradurre in lingua italiana un testo in greco antico sulla base dell’Index Verborum? Significa innanzitutto partire dalla presunzione, o se volete dalla scommessa, che la lingua italiana abbia una struttura ed una dovizia di vocaboli sufficienti a restituire con accettabile approssimazione le forme e i panneggi dell’abito confezionato nell’antichità. Possiamo paragonarla, insomma, ad un’impresa di alta moda. Io mi sono ovviamente servito dell’aiuto di un gran numero di traduzioni in italiano, in inglese e in francese per superare le numerose incertezze e i frequenti scogli che il testo greco degli Stoicorum Veterum Fragmenta presenta, e posso dunque parlare al riguardo con conoscenza di causa delle modeste o modestissime sartine -absit iniuria verbis- nelle quali mi sono imbattuto. Non desiderando fare nomi, mi spiegherò con un esempio preso da un testo che invece assolutamente tutti conoscono, dotato di un’autorità senza paragoni e che rappresenta dunque un caso ancora più grave. L’esempio è tratto dal testo ‘La Sacra Bibbia’, Traduzione dai testi originali, Edizioni Paoline, 1964 ed è questo:
**Do per buona la citazione di Luca 19, 41, che fa il paio con quella di Giovanni 11, 35.
In entrambi i casi la traduzione italiana del testo del Vangelo usa il verbo ‘piangere’. Gesù dunque pianse due volte sole in vita sua: una su Lazzaro che poi avrebbe risuscitato e, più tardi, alla vista di Gerusalemme. 
Ma le cose stanno veramente così? 
Tralascio di parlare della traduzione latina di S. Gerolamo. Cosa è scritto nel testo greco?
In Giovanni 11, 35 il testo greco è questo:  “Edàkrusen o Iesùs”. Il verbo “dakrùo” vuol dire propriamente “versare lacrime” e “dàkru” è infatti il sostantivo greco che indica la “lacrima”. Dunque siamo ampiamente autorizzati a tradurre “Gesù pianse” (versando lacrime).
In Luca 19, 41 il testo greco è il seguente: “Kai òs énghisen, idòn tèn pòlin éklausenep’autèn”, che si può tradurre: “E quando si avvicinò, guardando la città (Gerusalemme) éklausen su di essa”. 
Tutti capiscono che il verbo “klàio” non è il verbo “dakrùo”, meno i traduttori in italiano dei Vangeli, che traducono per sentito dire, per pigrizia, con disprezzo dei lettori i quali, tanto, non si accorgeranno di nulla. 
Il verbo “klàio”  è usato in greco per indicare qualunque espressione sonora di dolore o di afflizione che può, ma può anche non, essere accompagnata dalle lacrime. Io lo tradurrei con un verbo come “singhiozzare”, “rompere in alti lamenti”. Si può piangere in silenzio ma non si può “klàiein” in silenzio. Si può “klàiein” senza versare lacrime ma non si può  fare altrettanto se si piange.
Ne concludo che in Giovanni il testo greco si propone di sottolineare il silenzioso scorrere delle lacrime sul volto di Gesù e tutta l’intimità della sua pena in un ambiente familiare e raccolto.
In Luca, invece, il testo intende porre in evidenza tutta la sonorità e la spettacolarità di un lamento che è fatto davanti a un grande pubblico e per un grande pubblico. Esso sarà infatti immediatamente seguito dalla cacciata dei mercanti dal Tempio.**
Mi auguro di essermi spiegato. 

Com’è mia abitudine, ho spulciato con attenzione le non numerose traduzioni italiane degli ‘Stoicorum Veterum Fragmenta’ ed ho preso facilmente le misure degli abiti che vi ho visto confezionati. Questo mi è bastato per prendere in seria considerazione l’invito di una mia carissima cugina, la quale mi ha scongiurato di evitare accuratamente la lettura delle pestilenziali e mortifere ‘Introduzioni’, ‘Prefazioni’, ‘Bibliografie’ e via dicendo, con le quali Emeriti Professori amano presentare con sussiego come proprio un prodotto al quale invece parecchi ignari sconosciuti, di solito, hanno lavorato per loro, e che ella non vede andare oltre il significato di certi schizzetti di liquidi organici con i quali diversi animali segnano un territorio e il loro presunto potere su di esso. Lascio a lei il merito di una descrizione tanto vivace, che comunque spiega la mia ignoranza su riserve di caccia e faide territoriali, come le chiama lei, alle quali sono e rimango del tutto estraneo. 

Quando a me è parso che uno o più Frammenti richiedessero una chiarificazione o una precisazione, le ho raccolte alla fine del paragrafo di testo che li contiene, con un opportuno rimando al loro numero d’ordine. Faccio espressamente notare, inoltre, che per la corretta comprensione del pensiero Stoico si rivela sempre più essenziale ed imprescindibile la conoscenza  e l’uso della terminologia filosofica introdotta da Epitteto e che, grazie all’ormai abbondante materiale presente su questo sito, è stata da me ampiamente precisata ed anche, se mi è permesso dirlo, ulteriormente arricchita. Mi riferisco in particolar modo ai concetti di: ‘Natura delle cose’, ‘Proairesi’, ‘Proairetico’, ‘Aproairetico’, ‘Diairesi’, ‘Controdiairesi’, ‘Antidiairesi’.

Questo a testimonianza della potenza di una riflessione filosofica che non solo non è morta ma che è più vitale che mai, ed anzi del ruolo fondamentale che lo Stoicismo è inevitabilmente destinato a giocare nell’immediato futuro di tutti noi.

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ATENEO di NAUCRATI

Un breve accenno alla vita di Ateneo

Quando Marco Aurelio morì, nel 180 d.C., Ateneo doveva essere un bambino di circa dieci anni. Era un Greco che la sorte fece nascere in Egitto, a Naucrati: una cittadina sul delta del Nilo che aveva storicamente svolto il ruolo di principale punto di appoggio per gli scambi mercantili tra Greci ed Egiziani prima della fondazione, poco meno di un centinaio di chilometri più ad nord-ovest, della celebre Alessandria. Ateneo visse a Roma, e le poche evidenze sparse nella sua opera, come la citazione dell’imperatore Commodo, figlio di Marco Aurelio, e del giurista Ulpiano di Tiro quali suoi contemporanei, fanno pensare che egli sia quindi vissuto anche sotto la dinastia dei Severi fino a circa il 230 d.C. ossia sino al tempo di Alessandro Severo, ultimo rappresentante di tale dinastia.

Un brevissimo accenno alle opere di Ateneo

Sappiamo, poiché lo dichiara lui stesso, che egli fu l’autore di due opere ora entrambe perdute: una storia dei re di Siria ed una monografia su una commedia di Archippo. La sua fama è però legata alla fortunata sopravvivenza della sua opera intitolata ‘I Deipnosofisti’. Come dice il titolo, si tratta di un’opera nella quale Ateneo immagina che un nutrito gruppo di persone colte si intrattengano piacevolmente a cenare e a discutere degli argomenti più vari. Gran parte dell’informazione contenuta nell’opera ha a che fare con argomenti attinenti i cibi, le bevande, il modo di servire i piatti, le danze, la musica, i giochi e così via, ma pullula anche di notizie su quasi ottocento scrittori e di citazioni da circa duemilacinquecento opere che sarebbero altrimenti rimaste per noi completamente sconosciute.

La mia scelta dei Frammenti greci di Ateneo

Il mio modesto contributo è stato, in questo caso, quello di raccogliere le citazioni che nell’opera di Ateneo hanno un riferimento diretto agli Stoici e allo Stoicismo; e di presentarle in un modo semplicemente più leggibile, visto che esse si trovano comunque tutte sparse qua e là nella mia traduzione di tutti i frammenti greci degli ‘Stoicorum Veterum Fragmenta’ e che è accessibile cliccando qui.

ATENEO DI NAUCRATI

I DEIPNOSOFISTI
ovvero
I SOFISTI A BANCHETTO

Un celebre banchetto di Sofisti

ANTIPATRO DI TARSO

V, 186a = SVF III [AT], 14 [2] In città vi sono circoli filosofici che si richiamano a molti filosofi diversi, e si chiamano ‘circolo dei seguaci di Diogene’, ‘circolo dei seguaci di Antipatro’, ‘circolo dei seguaci di Panezio’.

V, 186c = SVF III [AT], 14 [1]
Una volta che organizzò un convito, il filosofo Antipatro dispose per norma che i partecipanti discorressero di questioni filosofiche aperte.

VIII, 346c = SVF III [AT], 64
Antipatro di Tarso, lo Stoico, nel quarto libro ‘Sulla superstizione’ afferma che da parte di alcuni si racconta che Gatis, la regina dei Siri, era una mangiona così ingorda di pesce da far proclamare che nessuno era autorizzato a mangiare pesce eccetto Gatis. E dice poi che i più, per ignoranza, chiamavano lei Atargatis e si astenevano dal mangiare pesci.

XIII, 643f = SVF III [AT], 65
Di quelle focacce di cui abbiamo ritrascritto i nomi, noi te ne faremo parte, e non come della focaccia mandata da Alcibiade a Socrate. Infatti, quando Santippe la trattò con derisione Socrate le disse: “Dunque tu non ne avrai neppure una fetta!” (Questa storia è raccontata da Antipatro nel primo libro ‘Sull’ira’). Io invece, essendo un amante delle focacce non avrei permesso che quella divina focaccia fosse trattata con tale insolenza.

ARISTONE DI CHIO

VI, 251c = SVF I, 342
Timone di Fliunte, nel terzo libro dei ‘Silli’ afferma che Aristone di Chio, discepolo di Zenone di Cizio, divenne un adulatore di Persèo, e che questi era compagno del re Antigono.

VII, 281c = SVF I, 341
Pure alcuni degli Stoici s’appigliarono, insieme ad altri, a queste ebbrezze della carne. Infatti Eratostene il Cirenaico, il quale fu discepolo dello Stoico Aristone di Chio, nell’opera intitolata ‘Aristone’ rappresenta palesemente il maestro che successivamente impelle all’effeminatezza, dicendo così: “Già alcune volte ho rintracciato anche costui mentre perforava il muro divisorio tra le ebbrezze della carne e la virtù, per poi comparire dalla parte delle ebbrezze della carne”.

VII, 281d = SVF I, 408
E Apollofane, che era anch’egli un conoscente di Aristone, nell’opera ‘Aristone’, giacché anche lui intitolò così la sua compilazione, fa trasparire l’amore del maestro per le ebbrezze della carne.

CLEANTE DI ASSO

VIII, 354e = SVF I, 624
Non è priva di grazia la risposta di Sfero, che fu condiscepolo di Crisippo presso Cleante, il quale, convocato ad Alessandria alla corte del re Tolomeo, una volta che durante il pranzo furono serviti in tavola degli uccelli di cera, mentre stendeva la mano verso di essi fu trattenuto dal re in quanto stava dando il suo assenso ad una falsa rappresentazione. La risposta di Sfero, infatti, colse nel segno, giacché egli disse che stava dando il suo assenso non alla rappresentazione che essi fossero uccelli ma a quella della ragionevolezza che esse fossero uccelli. Vi è infatti differenza tra la rappresentazione catalettica e la rappresentazione della ragionevolezza di qualcosa. La prima, infatti, non è mendace; mentre per la ragionevolezza di qualcosa può succedere altrimenti.

XI, 467d = SVF I, 591 [1]
Il filosofo Cleante, nel suo libro ‘Sulla commutazione’ afferma che la coppa Tericlea e la coppa Diniade sono state chiamate così dai nomi dei rispettivi fabbricanti. 

XI, 471b = SVF I, 591 [2] Nella sua trattazione ‘Sulla commutazione’, Cleante afferma: “I nomi delle invenzioni di uomini come Tericle, Dinia, Ificrate, e quante altre sono dello stesso genere, sono facilmente comprensibili. Infatti questi nomi si rifacevano in un primo tempo a quello degli inventori, e questo appare anche ora. Se così non è, il nome potrebbe essere stato un poco mutato. Ma, com’è stato detto, non è il caso di fidarsi del primo che capita”.

CRISIPPO DI SOLI

I, 4e =  SVF III [App. II] XXVIII, 6 [1]
Archestrato di Siracusa o di Gela, nell’opera che secondo Crisippo s’intitola ‘Gastronomia’, ma secondo Linceo e Callimaco ‘Vita sensuale’…

I, 5e = SVF III [App. II] XXVIII, 10
Alcune focacce presero il nome di ‘filossenie’ da questo Filosseno. Su di lui Crisippo dice: “Io ho in mente un certo mangione ingordo al quale, dopo i fatti accaduti, era a tal punto decaduto il senso di rispetto per chi gli era vicino che alle terme, e sotto gli occhi di tutti, egli soleva abituare la mano ai cibi caldi ficcandola nell’acqua calda, e che faceva gargarismi con acqua calda in bocca manifestamente al fine di diventare resistente ai cibi caldi. Dicevano anche che subornasse i cucinieri a portare in tavola cibi caldissimi che lui soltanto era in grado di consumare, non potendo tutti gli altri seguirne l’esempio”.

I, 8c = SVF III [App. II] XXVIII, 15
Dice Crisippo: “Non lasciarti sfuggire un banchetto in cui non c’è da pagare la quota”.

I, 9c = SVF III [App. II] XXVIII, 9
La vivanda che molti chiamano, come afferma Crisippo nell’opera ‘Sul bello e sul piacere fisico’, lastaurocaccabo, e la cui preparazione è assai complessa….

I, 18b = SVF III, 708
Con l’occhio a ciò ch’è confacente, Omero ci mette innanzi gli eroi mentre banchettano con non altro che carni e mentre se le imbandiscono; giacché non gli suscita né una risata né vergogna il vederli nell’atto di preparare le vivande e di farle cuocere. Essi infatti, afferma Crisippo, affettavano la loro indipendenza dai servi e si facevano belli della loro versatilità. Così Odisseo afferma di essere destro come nessun altro nello scalcare le carni e nell’ammonticchiare legna per il fuoco. Nelle ‘Preghiere’, Patroclo e Achille mettono in pronto ogni cosa, e quando Menelao celebra le nozze, lo sposo Megapente fa da coppiere. Adesso invece siamo scesi così in basso che banchettiamo sdraiati.

II, 67c =  SVF III [App. II] XXVIII, 14
Il filosofo Crisippo afferma che il miglior aceto è l’aceto d’Egitto e quello di Cnido.

III, 89d-e = SVF II, 729a
Crisippo di Soli nel quinto libro ‘Sul bello e sul piacere fisico’ afferma: “La pinna e il pinnotèro cooperano fra di loro, e non possono restare ciascuno per conto proprio. La pinna è un’ostrica e il pinnotèro è un piccolo granchio. La pinna, una volta aperte le valve, se ne sta quieta ed ha cura che i pesciolini le si avvicinino da presso. Il pinnotèro le sta accanto e, quando qualcosa entra tra le valve, le dà un morso per segnale. Al che la pinna, sentendosi morsa, chiude le valve. E così i due divorano in comune quel che è rimasto preso dentro la conchiglia.

III, 104b = SVF III, 709 [1]
Dunque, cari amici, se uno volge lo sguardo a queste cose, loderebbe verosimilmente il buon Crisippo, il quale vede con precisione dall’alto ‘La natura’ di Epicuro ed afferma che madrepatria della sua filosofia è il trattato di gastronomia di Archestrato, questa nobile epopea che tutti i filosofi ghiottoni proclamano essere il loro Teognide. 

IV, 137f = SVF III [App. II] XXVIII, 3
Nel quarto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ Crisippo afferma: “Le storie raccontano che non molto tempo fa ci furono ad Atene due pranzi, uno al Liceo e uno all’Accademia. In quello all’Accademia, il cuciniere portò in tavola il cibo su di un piatto che era invece destinato ad un altro uso. Gli ispettori mandarono allora in tanti pezzi quel manufatto in ceramica poiché era stato introdotto nel sacrificio del vasellame estero e non cittadino, quando invece era doveroso astenersi da simili manufatti d’importazione. In quello al Liceo, invece, un cuciniere che aveva apparecchiato della carne salata come si apparecchia il pesce salato, fu frustato per malvagia sofisticazione alimentare”.

IV, 158a = SVF III, 709a 
È un giudizio stoico che il sapiente farà bene ogni cosa e che condirà con saggezza anche un piatto di lenticchie. Per questo, Timone di Fliunte diceva di un tale “che non ha imparato a lessare saggiamente le lenticchie alla Zenone”, come se le lenticchie non potessero essere lessate [III,178,25] in un modo diverso dalla ricetta di Zenone, il quale diceva 

“di aggiungere alle lenticchie un dodicesimo di semi di coriandolo”.

Cratete di Tebe soleva dire che 

“per portare in auge un piatto diverso dalle lenticchie, non gettare tra di noi la sedizione”.

Crisippo, nel libro ‘Sul bello’, introducendo alcune massime dice:

‘Non mangiare mai l’oliva quando hai l’ortica.
D’inverno, oh! oh! una zuppa di bulbi e lenticchie.
Quando il freddo agghiaccia, una zuppa di bulbi e lenticchie è pari all’ambrosia’

IV, 159a = SVF III [App. II] X, 2.
<Ma Capaneo non era> come quel tale che il buon Crisippo descrive nel suo libro ‘Sulle cose che possono essere scelte non per se stesse’ dicendo così: “A tal punto certuni cadono in basso davanti al denaro, che le storie raccontano di uno che, ormai in fin di vita, morì dopo avere ingoiato non poche monete d’oro; e di un altro che, dopo averle fatte cucire in un chitone ed averlo vestito, lasciò ai familiari quale sua ultima volontà quella di essere sepolto così com’era, senza cremarlo e senza accudire in alcun modo al suo corpo”.

IV, 159d = SVF III [App. II] XVII, 2
Crisippo, nell’introduzione al trattato ‘Sui beni e sui mali’ afferma che un ricchissimo giovanotto proveniente dalla Ionia risiedeva ad Atene e portava indosso un manto di porpora con il lembo dorato. Quando un tale cercò di sapere da lui di che paese fosse, quello rispose che era ricco.

VI, 267b =  SVF III, 353
Come scrive nel secondo libro ‘Sulla concordia’, Crisippo afferma che vi è differenza tra un servo comprato con denaro e un servo nato in casa, a causa del fatto che i liberti sono ancora in condizione servile mentre invece i servi nati in casa non vengono scorporati dal patrimonio, giacché “il servo nato in casa” – egli dice – “è un servo incorporato nel patrimonio domestico”.

VII, 278e = SVF III, 709 [2] 
Crisippo, da effettivo filosofo e uomo in tutto, afferma che è Archestrato l’autore fondamentale di riferimento per Epicuro e per coloro che fanno scienza della dottrina, profonda guastatrice d’ogni cosa, dell’ebbrezza. Epicuro, infatti, non si copre la bocca ma lo dice a gran voce: “Quanto a me, io non posso proprio pensare al bene se è disgiunto dall’ebbrezza legata ai sapori e ai rapporti sessuali”. Questo sapiente crede che anche la vita dei dissoluti sarebbe irredarguibile se ad essa sopravvenissero l’assenza di paura e la pacatezza.

VII, 285d = SVF III [App. II] IX, 2
Nel suo libro ‘Sulle cose che possono essere scelte per se stesse’, il filosofo Crisippo afferma: “Ad Atene la gente disdegna le acciughe a causa della loro sovrabbondanza, e dice trattarsi di una pietanza da poveracci. Nelle altre città, invece, la gente va matta per le acciughe anche se sono di peggiore qualità. Inoltre, dice sempre Crisippo, qui alcuni si danno un gran da fare nell’allevamento di volatili dell’Adriatico, pur se di minor pregio di quelli delle nostre parti in quanto molto più piccoli. E però quelli là, al contrario, importano i volatili allevati qui”.

VIII, 335b = SVF III [App. II] XXVIII, 5 [1]
Cari amici, mentre ammiro Crisippo, lo scolarca della Stoa, per molti motivi, io ancor più lo lodo perché mette il tanto decantato Archestrato, autore del trattato di gastronomia, sempre allo stesso livello di Filenide, alla quale si attribuisce quell’impudica compilazione sui piaceri sessuali.

VIII, 335d-e = SVF III [App. II] XXVIII, 5 [2]
Ma nel quinto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ il più che ammirevole Crisippo afferma: “Poi ci sono i libri di Filenide e la ‘Gastronomia’ di Archestrato, eccitanti dell’appetito ed eccitanti al sesso. Similmente, ci sono ancelle esperte di questi tipi di movenze e di posizioni e della loro pratica”. E di nuovo: “Essi imparano a memoria le cose di questo genere e acquistano gli scritti in argomento di Filenide, di Archestrato e di consimili scrittori”. E nel settimo libro afferma: “Proprio com’è possibile non imparare a memoria i libri di Filenide e la ‘Gastronomia’ di Archestrato con l’idea che essi apportino qualcosa per vivere meglio”.

VIII, 336a =  SVF III [App. II] XXVIII, 11 [1]
Sulla tomba di Sardanapalo, Crisippo dice che era stata posta la seguente epigrafe:

“Ben sapendo che nascesti mortale, scatena le tue voglie
e deliziati pensando a quanto hai gozzovigliato: non c’è per te conforto alcuno da morto.
Ecco, infatti io sono polvere; io che pur regnai sulla grande Ninive.
Questo posseggo: quel che mangiai, gli oltraggi che commisi e i piaceri sessuali
che godetti. Per il resto, tutte le mie ricchezze si sono dissolte”.

VIII, 336f = SVF III [App. II] XXVIII, 11 [2] 
L’epigrafe sulla tomba di Sardanapalo starebbe meglio, dice Crisippo, se fosse commutata così:

“Ben sapendo che nascesti mortale, scatena le tue voglie
e deliziati di discussioni filosofiche: non c’è per te conforto alcuno nel mangiare.
Ecco, infatti io sono un cencio; io che pur mangiai e godetti a più non posso.
Questo posseggo: quel che imparai, quel che cogitabondo meditai e, grazie a ciò,
quanto di prode sperimentai. Tutto il resto, pur piacevole, è stato lasciato alle spalle”.

VIII, 354e = SVF I, 624
Non è priva di grazia la risposta di Sfero, che fu condiscepolo di Crisippo presso Cleante, il quale, convocato  ad Alessandria alla corte del re Tolomeo, una volta che durante il pranzo furono serviti in tavola degli uccelli di cera, mentre stendeva la mano verso di essi fu trattenuto dal re in quanto stava dando il suo assenso ad una falsa rappresentazione. La risposta di Sfero, infatti, colse nel segno, giacché egli disse che stava dando il suo assenso non alla rappresentazione che essi fossero uccelli ma a quella della ragionevolezza che esse fossero uccelli. Vi è infatti differenza tra la rappresentazione catalettica e la rappresentazione della ragionevolezza di qualcosa. La prima, infatti, non è mendace; mentre per la ragionevolezza di qualcosa può succedere altrimenti.

IX, 373a = SVF III [App. II] XXVIII, 4
Nel quinto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ il filosofo Crisippo scrive così: “Proprio come alcune persone sono inclini a ritenere gli uccelli bianchi più piacevoli al gusto di quelli neri”.

XI, 464d = SVF III, 667
Crisippo, nell’introduzione al trattato ‘Sui beni e sui mali’ afferma che i più appiccano il termine ‘pazzia’ alla maggior parte delle cose, e che pertanto si parla di ‘pazzia per le donne’ e di ‘pazzia per le quaglie’. Alcuni chiamano ‘pazzi per la fama’ gli amanti della fama, come chiamano ‘pazzi per le donne’ gli amanti delle donne e ‘pazzi per gli uccelli’ gli amanti dei volatili, e questi nomi significano tutti la stessa cosa. Sicché anche il resto si può chiamare non impropriamente [III,167,10] in questo modo. Per esempio, chi ama le ghiottonerie e la buona tavola è ‘pazzo per le ghiottonerie’, chi ama il vino è ‘pazzo per il vino’, e allo stesso modo si può dire per i casi simili; ed è non improprio affermare che in essi giaccia la pazzia in quanto aberrano come dei pazzi e, ancor più, sono sconnessi dalla verità.

XIII, 565a = SVF III [App. II] XXVIII, 2
Come afferma il vostro Crisippo nel quarto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’, la pratica di radersi la barba è stata escogitata ai tempi di Alessandro. Sono persuaso di non essere intempestivo nel ricordarne le parole, giacché io molto mi rallegro di quell’uomo per la sua vasta cultura ed il carattere acquiescente. Il filosofo dice dunque così: “La pratica di radersi la barba è stata promossa ai tempi di Alessandro, anche se i primi cittadini non la seguivano. Il flautista Timoteo, infatti, suonava avendo una folta barba, e in Atene serbano a dovere il non antichissimo ricordo che il primo a tagliarsi la barba ebbe il soprannome di ‘Tosato’ ”.
Perciò anche Alessi da qualche parte diceva:

‘Se vedi qualcuno depilato con la pece o rasato,
ebbene deve trovarsi in una o l’altra di queste due condizioni:
a me pare, infatti, che o divisi una campagna militare
nella quale compiere tutte cose opposte alla sua barba;
oppure costui è incolto in qualche vizio da ricchi.
Ma per gli dei, perché mai ci affliggono i peli,
se è grazie ad essi che ciascuno di noi appare essere uomo;
a meno che tu non intenda sotto sotto effettuare qualcosa di contrario ad essi’.

“Quando Diogene vide un tale col mento rasato, gli disse: ‘Hai forse qualche motivo per incolpare la natura d’averti fatto uomo e non donna?’. Quando poi vide in sella ad un cavallo un altro individuo similarmente rasato, tutto profumato e con indosso abiti confacenti a questo stato, gli disse che da tempo ricercava che animale fosse l’ippoporno, e che adesso l’aveva trovato. A Rodi c’è una legge che vieta di radersi, ma non c’è una sola persona che la prenda in parola giacché tutti si radono. A Bisanzio poi, pur se è comminata una multa al barbiere che possiede un rasoio, nondimeno tutti ne fanno uso”. Queste sono le cose che ha detto l’ammirevole Crisippo.

XIV, 616a = SVF III [App. II] XXVIII, 7
Nel quinto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ il filosofo Crisippo scrive di Pantaleone le seguenti cose: “Quando stava per morire, quel vagabondo impostore di Pantaleone ingannò entrambi i suoi due figli dicendo in privato, prima all’uno e poi all’altro, che rivelava soltanto a lui dove aveva sotterrato il proprio oro. Sicché successivamente, dopo avere in comune scavato come matti, i due si accorgessero di essere stati ingannati”.

XIV, 616b = SVF III [App. II] XXVIII, 8
Al nostro convito non può fare difetto qualcuno amante degli scherni. Circa un tale di questo genere, di nuovo nel quinto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’ Crisippo scrive: “Quando stava per essere sgozzato dal boia, un tale amante degli scherni disse di voler morire cantando come fa il cigno. E poiché il boia acconsentì, quello lo schernì”.

XIV, 648c
Ciò spiegato, il saggio Ulpiano disse: “O eruditissimi grammatici, su quali libri e in quale biblioteca questi due eccellentissimi scrittori, Crisippo e Arpocratione, sono apparsi a voi calunniare i nomi di ottimi filosofi per questioni di omonimia?” 

XIV, 659a = SVF III [App. II] XXVIII, 13.
Gli antichi chiamavano ‘Mesone’ il cuoco loro concittadino, e chiamavano ‘Tettige’ (ovvero ‘Cicala’) quello che era non concittadino. Il filosofo Crisippo crede che il nome ‘Mesone’ venga dal verbo ‘masticare’, come per accennare al fatto che si tratta di un individuo incolto e che bada alla pancia. Egli ignora però che Mesone è stato un attore di commedia, nato a Megara, il quale inventò la maschera che da lui prese il nome Mesone, come afferma Aristofane di Bisanzio nel suo libro ‘Sulle maschere’. 

XV, 686f = SVF III [App. II] XXVIII, 12
Il più che ammirevole Crisippo afferma che gli olii odorosi prendono questo nome dal fatto di essere ottenuti dopo una lavorazione molto spossante e una fatica da matti. Gli Spartani scacciano da Sparta i produttori di olii odorosi in quanto rovinano l’olio, e coloro che vi mettono a bagno le lane in quanto ne fanno sparire il biancore. E il sapiente Solone ha vietato per legge a quegli uomini di commerciare gli olii odorosi.

DIOGENE DI BABILONIA

IV, 168e = SVF III [DB], 52
Diogene di Babilonia, nei suoi libri ‘Sulla nobiltà di stirpe’ afferma: “Non c’era un solo Ateniese che non odiasse Foco, il figlio di Focione; e chiunque, quando lo incontrasse, gli diceva: ‘O disonore della famiglia!’. Aveva infatti dilapidato tutto il patrimonio paterno in dissolutezze e, dopo avere fatto questo, s’era messo ad adulare chi controllava la collina di Munichia; cosa per la quale era sferzato dai sarcasmi di tutti. Una volta che si raccoglievano i donativi, venne anche lui in assemblea e disse: ‘Offro anch’io un donativo’; al che gli Ateniesi all’unisono gridarono a gran voce: ‘Sì, all’impudenza!’. Foco era anche un amante del bere. Una volta aveva vinto nella corsa dei cavalli alle Panatenee e suo padre ne riceveva a banchetto i compagni. Quando si riunirono per il pranzo, l’apparato era sontuoso ed a chi entrava erano forniti dei bacili per il lavaggio dei piedi, pieni di vino aromatizzato. Quando suo padre li vide chiamò Foco e gli disse: ‘Non farai smettere al tuo compagno di rovinare la tua vittoria?’ ”.

XII, 526c = SVF III [DB], 53
Nel quindicesimo libro delle sue ‘Storie’, Teopompo afferma che mille uomini di Colofone erano in grado di aggirarsi per la città portando stole tinte di porpora, la quale era allora merce assai rara anche per i re ed era ricercatissima, giacché il suo valore era equivalente al suo peso in argento. Perciò appunto, a causa di un siffatto andazzo finirono nella tirannide e nella guerra civile, e andarono in rovina insieme alla loro patria. Le stesse cose ha raccontato di loro anche Diogene di Babilonia nel primo libro delle sue ‘Leggi’.

DIONISIO DI ERACLEA

VII, 281d =  SVF I, 430 [1]
E cosa bisogna dire a proposito di Dionisio di Eraclea? Senza altre mediazioni, denudatosi della tunica della virtù egli si rivestì di fiori e si rallegrò di essere chiamato il Ritrattatore, sebbene avesse preso le distanze dalle dottrine Stoiche e fosse saltato nel giardino di Epicuro ormai da vecchio. Su di lui non senza grazia Timone diceva:

‘Quando bisognerebbe tramontare, lui comincia ora a darsi ai piaceri;
ma c’è un’ora per amare, un’ora per sposarsi e un’ora per smetterla’.

X, 437e = SVF I, 428
Antigono di Caristo nella sua ‘Vita di Dionisio di Eraclea, soprannominato il Ritrattatore’ racconta che Dionisio, mentre festeggiava insieme ai suoi domestici la festa dei Congi, poiché non riusciva, a causa della vecchiaia, ad avere un rapporto sessuale completo con un’etera che essi avevano invitato, si rivolse ai commensali e disse:

‘Io non ce la faccio a tenderlo, dunque la prenda un altro’.

PERSEO DI CIZIO

IV, 140b = SVF I, 455
I porcellini da latte non si chiamano ‘orthagoriscoi’, come afferma Polemone, bensì ‘orthragoriscoi’ giacché se ne fa commercio all’alba, come raccontano Persèo nella ‘Costituzione di Sparta’, Dioscuride nel secondo libro della ‘Repubblica’ e Aristocle nel primo libro, lui pure, della ‘Costituzione di Sparta’.

IV, 140e = SVF I, 454
Circa i dopopasto, nella ‘Costituzione di Sparta’ Persèo scrive così: “<L’incaricato> sanziona immediatamente le persone facoltose a procurare i dopopasto, dove per ‘dopopasto’ si intendono i dessert serviti a fine pasto. Egli ordina invece alle persone non facoltose di fornire una cannuccia o uno stuoino o delle foglie d’alloro dai quali, dopo il pasto, prendere e mangiare i dopopasto, i quali consistono di farinate spruzzate d’olio d’oliva. Nel suo insieme questa è una piccola norma di pubblica amministrazione, giacché sia chi giace in prima fila o in seconda o chiunque siede sul lettuccio tutti devono fare cose del genere in vista dei dopopasto”. Cose simili le racconta anche Dioscuride.

IV, 162b = SVF I, 452
<Voi avete in ossequio> i ‘Dialoghi Conviviali’ del buon filosofo Persèo, composti con materiale tratto dai ‘Memorabili’ di Stilpone e di Zenone. Affinché i convitati non cadano addormentati, Persèo ricerca in essi come si debbano utilizzare le libagioni, in quale momento debbano essere introdotti nel simposio i ragazzi e le ragazze in fiore, quando si debba accettare che essi mostrino le loro grazie e quando invece li si debba respingere trascurandoli. Egli tratta anche di pietanze, di pani e di altri argomenti, tra i quali tutto quanto il filosofo figlio di Sofronisco ha detto alquanto indiscretamente a proposito dei baci. Pur girando e rigirando nell’intelletto sempre questi argomenti, Persèo, come afferma Ermippo, ebbe in affidamento da Antigono il comando della Rocca di Corinto. Bevuto cionco com’era, egli fu però cacciato via dalla stessa Corinto dalle superiori capacità militari di Arato di Sicione. E pensare che in precedenza proprio Persèo, nei ‘Dialoghi’, aveva fatto a gara con Zenone nel sostenere che il sapiente sarebbe in ogni caso un ottimo generale. Davvero al buon domestico di Zenone è mancato soltanto di confermare ciò con i fatti! Bione di Boristene, dopo avere osservato una sua statua di bronzo recante l’epigrafe: “Persèo di Zenone, di Cizio”, aveva amenamente detto che chi aveva scritto l’epigrafe aveva errato, giacché essa doveva dire così: “Persèo di Zenone, servo”. E Persèo era in realtà un servo nato in casa di Zenone, come raccontano Nicia di Nicea nella sua ‘Storia dei filosofi’ e Sozione di Alessandria nelle sue ‘Successioni’. Abbiamo così incontrato due brani tratti da questo sapiente trattato di Persèo intitolato ‘Dialoghi conviviali’. 

VI, 251b =  SVF I, 342
Timone di Fliunte, nel terzo libro dei ‘Silli’ afferma che Aristone di Chio, discepolo di Zenone di Cizio, divenne un adulatore di Persèo, e che questi era compagno del re Antigono.

XIII, 607a-f = SVF I, 451
Eppure Persèo di Cizio nei suoi ‘Ricordi conviviali’ lo grida, e afferma che bevendo del vino è acconcio ricordare argomenti sessuali giacché, quando beviamo alquanto, noi siamo propensi a questi piaceri. Egli dice che “in tale contesto bisogna lodare coloro che dei piaceri sessuali fanno un uso mansueto ed equilibrato ed invece denigrare coloro che ne fanno un uso belluino ed insaziabile”. Dice anche che “se dei dialettici, convenuti in simposio, si mettessero a discutere di sillogismi, si potrebbe ben concepire che essi facciano qualcosa di estraneo all’occasione del momento”. Inoltre egli dice che “l’uomo virtuoso potrebbe ubriacarsi; e quanti, nel corso dei simposi sono decisi ad essere ultratemperanti, serbano un simile proposito fino ad un certo punto ma poi, una volta che il vinello scorra loro dentro, allora essi sfoggiano tutta la loro indecenza. Il che avvenne recentemente con gli osservatori giunti presso Antigono dall’Arcadia. Infatti tali osservatori, come credevano di dover fare, pasteggiavano tutti accigliati e pieni di decoro, senza volgere lo sguardo nonché verso qualcuno di noi, neppure guardandosi tra di loro. Quando però le bevute andavano ormai avanti ed entrarono in scena, tra gli altri intrattenimenti musicali, proprio le danzatrici Tessale le quali, com’è loro costume, usano danzare nude nei loro perizomi, allora quegli uomini non riuscirono più a trattenersi e slanciandosi dai loro letti gridavano di star assistendo ad uno spettacolo stupefacente, proclamavano beato il re perché può fruire di questi spettacoli e facevano molte altre cose del tutto da carrettieri a queste similari. Quando poi una flautista si mosse verso uno dei filosofi che bevevano con noi e, poiché vi era dello spazio libero accanto a lui voleva sederglisi accanto, egli non lo consentì ma fece con la ragazza la parte del duro. Successivamente, com’è costume che avvenga nei simposi, la flautista fu messa in vendita. Nel comprare, quel filosofo era assai baldanzoso ed entrò in controversia con il venditore, il quale l’aveva assegnata ad un altro troppo in fretta, affermando che la vendita non era avvenuta. Alla fine quel duro filosofo venne addirittura ai pugni, lui che all’inizio neppure aveva consentito alla flautista di sederglisi accanto”. Può darsi che chi giunse al pugilato per la flautista sia lo stesso Persèo. Lo afferma Antigono di Caristo quando nel suo libro ‘Su Zenone’ scrive così: “Quando Persèo, durante un simposio, comprò una flautista ma temeva assai di introdurla in casa perché coabitava con Zenone di Cizio, quest’ultimo, avuta consapevolezza della cosa, trascinò dentro la ragazza e la chiuse in casa con Persèo”.

SFERO DI BORISTENE

IV, 141c = SVF I, 630
Nel terzo libro della ‘Costituzione di Sparta’, Sfero scrive: “I partecipanti alle mense pubbliche comuni vi portano i dopopasto. I più vi portano talora delle cose cacciate da loro stessi; le persone facoltose vi portano però del pane e primizie di stagione dai campi; giusto quanto serve per il banchetto, poiché ritengono che approntarne più del sufficiente sia di troppo e quindi che non è il caso di portarlo”.

VIII, 354e = SVF I, 624
Non è priva di grazia la risposta di Sfero, che fu condiscepolo di Crisippo presso Cleante, il quale, convocato ad Alessandria alla corte del re Tolomeo, una volta che durante il pranzo furono serviti in tavola degli uccelli di cera, mentre stendeva la mano verso di essi fu trattenuto dal re in quanto stava dando il suo assenso ad una falsa rappresentazione. La risposta di Sfero, infatti, colse nel segno, giacché egli disse che stava dando il suo assenso non alla rappresentazione che essi fossero uccelli ma a quella della ragionevolezza che esse fossero uccelli. Vi è infatti differenza tra la rappresentazione catalettica e la rappresentazione della ragionevolezza di qualcosa. La prima, infatti, non è mendace; mentre per la ragionevolezza di qualcosa può succedere altrimenti.

SUGLI STOICI IN GENERALE

III, 103b

‘Lui <Epicuro> soltanto sa qual è il bene, mentre gli Stoici
lo ricercano continuamente senza sapere quale sia. 
Dunque ciò che essi non hanno, ed ignorano pure,
neppure potrebbero darlo a qualcun altro.’

 
III, 104b = SVF III, 709 [1]
Dunque, cari amici, se uno volge lo sguardo a queste cose, loderebbe verosimilmente il buon Crisippo, il quale vede con precisione dall’alto ‘La natura’ di Epicuro ed afferma che madrepatria della sua filosofia è il trattato di gastronomia di Archestrato, questa nobile epopea che tutti i filosofi ghiottoni proclamano essere il loro Teognide. Contro di loro <gli Stoici> anche Teogneto nel suo ‘Lo spettro’    ovvero ‘L’avido di denaro’, dice:
III, 104c = Teogneto comico Fr. 1, III, p. 364 Kock = SVF III, 241

‘Uomo, tu mi manderai in malora. Zeppo come sei 
dei discorsetti di quelli del Portico Dipinto, sei malato: 
“La ricchezza di denaro è per l’uomo una cosa allotria”. Brina! 
“Propria dell’uomo è la sapienza”. Ghiaccio! 
“Nessuno mai dopo averla ottenuta l’ha persa”. Sciagurato me! 
Con che razza di filosofo mi ha messo a coabitare il mio demone?’

IV, 158a-c = SVF III, 709a
È un giudizio stoico che il sapiente farà bene ogni cosa e che condirà con saggezza anche un piatto di lenticchie. Per questo, Timone di Fliunte diceva di un tale “che non ha imparato a lessare saggiamente le lenticchie alla Zenone”, come se le lenticchie non potessero essere lessate in un modo diverso dalla ricetta di Zenone, il quale diceva 

“di aggiungere alle lenticchie un dodicesimo di semi di coriandolo”.

Cratete di Tebe soleva dire che 

“per portare in auge un piatto diverso dalle lenticchie, non gettare tra di noi la sedizione”.

Crisippo, nel libro ‘Sul bello’, introducendo alcune massime dice:

“Non mangiare mai l’oliva quando hai l’ortica.
D’inverno, oh! oh! una zuppa di bulbi e lenticchie.
Quando il freddo agghiaccia, una zuppa di bulbi e lenticchie è pari all’ambrosia”.

IV, 164f
‘A lui <Diodoro di Aspendo> Stratonico mandò un messaggero e gli ingiunse di riferire quanto detto:

‘a quell’accolito di Pitagora, che nel Portico 
ha intorno il pieno di uditori, attirati dalla sua
pazzia ed insolenza d’andar vestito di pelli di belve.’

V, 211a-b
Diogene l’Epicureo, il quale aveva un’adeguata dimestichezza con la dottrina della quale si dichiarava seguace, era nativo di Seleucia di Babilonia; e godeva dei favori del re <Alessandro I Bala Epifane> sebbene quest’ultimo fosse assai più incline alle dottrine degli Stoici.

VI, 233b-c = SVF I, 239
Lo Stoico Zenone appare avere ritenuto indifferenti tutte le altre cose, eccezion fatta per il loro uso legittimo e buono. Egli ha detto di no sia alla scelta e sia alla fuga da tali cose indifferenti, ed ha comunque ingiunto di utilizzare principalmente cose frugali e senza eccessi. In questo modo gli uomini, poiché hanno una disposizione d’animo lontana da paure e da infatuazioni per tutto ciò ch’è indifferente e dunque né bello né brutto, per la maggior parte usano queste cose secondo natura, e s’astengono dalle contrarie per ragionamento e non per paura, giacché non hanno più timore di nulla.

VI, 274e
Tra tante decine di migliaia di uomini, soltanto costoro, ed erano quelli che si attenevano alle dottrine degli Stoici, usavano osservare la legge come sotto giuramento, e non accettavano neppure il minimo regalo; anzi ne facevano essi, e di grandi, ad altre persone o ad amici che vedevano mossi da un sincero impulso ad educarsi filosoficamente. 

VII, 281c-d = SVF I, 341
Pure alcuni degli Stoici s’appigliarono, insieme ad altri, a queste ebbrezze della carne. Infatti Eratostene il Cirenaico, il quale fu discepolo dello Stoico Aristone di Chio, nell’opera intitolata ‘Aristone’ rappresenta palesemente il maestro che successivamente impelle all’effeminatezza, dicendo così: “Già alcune volte ho rintracciato anche costui mentre perforava il muro divisorio tra le ebbrezze della carne e la virtù, per poi comparire dalla parte delle ebbrezze della carne”.

XIII, 563e = SVF I, 247
<Voi siete dei corruttori di ragazzi, in questo soltanto> emuli del vostro fondamento di sapienza, Zenone il Fenicio; il quale non se la fece mai con una donna ma sempre con dei ragazzi, come Antigono di Caristo ha investigato nel suo libro sulla vita di Zenone. Voi infatti blaterate che “bisogna amare non i corpi ma l’animo”, proprio voi che andate dicendo che si devono praticare gli amati fino all’età di ventotto anni.

XIII, 565a-f = SVF III [App. II] XXVIII, 2
Come afferma il vostro Crisippo nel quarto dei suoi libri ‘Sul bello e sul piacere fisico’, la pratica di radersi la barba è stata escogitata ai tempi di Alessandro. Sono persuaso di non essere intempestivo nel ricordarne le parole, giacché io molto mi rallegro di quell’uomo per la sua vasta cultura ed il carattere acquiescente. Il filosofo dice dunque così: “La pratica di radersi la barba è stata promossa ai tempi di Alessandro, anche se i primi cittadini non la seguivano. Il flautista Timoteo, infatti, suonava avendo una folta barba, e in Atene serbano a dovere il non antichissimo ricordo che il primo a tagliarsi la barba ebbe il soprannome di ‘Tosato’ ”.
Perciò anche Alessi da qualche parte diceva:

‘Se vedi qualcuno depilato con la pece o rasato,
ebbene deve trovarsi in una o l’altra di queste due condizioni:
a me pare, infatti, che o divisi una campagna militare
nella quale compiere tutte cose opposte alla sua barba;
oppure costui è incolto in qualche vizio da ricchi.
Ma per gli dei, perché mai ci affliggono i peli,
se è grazie ad essi che ciascuno di noi appare essere uomo;
a meno che tu non intenda sotto sotto effettuare qualcosa di contrario ad essi’.

“Quando Diogene vide un tale col mento rasato, gli disse: ‘Hai forse qualche motivo per incolpare la natura d’averti fatto uomo e non donna?’. Quando poi vide in sella ad un cavallo un altro individuo similarmente rasato, tutto profumato e con indosso abiti confacenti a questo stato, gli disse che da tempo ricercava che animale fosse l’ippoporno, e che adesso l’aveva trovato. A Rodi c’è una legge che vieta di radersi, ma non c’è una sola persona che la prenda in parola giacché tutti si radono. A Bisanzio poi, pur se è comminata una multa al barbiere che possiede un rasoio, nondimeno tutti ne fanno uso”. Queste sono le cose che ha detto l’ammirevole Crisippo.

ZENONE DI CIZIO

II, 55f = SVF I, 285
Perciò Zenone di Cizio, pur essendo burbero e rancoroso con i conoscenti, soprattutto quando trincava del vino diventava piacevole e blando. A coloro che cercavano di sapere il perché della sua differenza di modi, Zenone diceva di sperimentare quello che sperimentano i lupini. Anch’essi, infatti, sono amarissimi prima di essere ammolliti in acqua e invece, dopo essere stati abbeverati, diventano dolci e gradevolissimi.

IV, 158a-b = SVF III, 709a 
È un giudizio stoico che il sapiente farà bene ogni cosa e che condirà con saggezza anche un piatto di lenticchie. Per questo, Timone di Fliunte diceva di un tale “che non ha imparato a lessare saggiamente le lenticchie alla Zenone”, come se le lenticchie non potessero essere lessate in un modo diverso dalla ricetta di Zenone, il quale diceva 

“di aggiungere alle lenticchie un dodicesimo di semi di coriandolo”.

Cratete di Tebe soleva dire che 

“per portare in auge un piatto diverso dalle lenticchie, non gettare tra di noi la sedizione”.

Crisippo, nel libro ‘Sul bello’, introducendo alcune massime dice:

“Non mangiare mai l’oliva quando hai l’ortica.
D’inverno, oh! oh! una zuppa di bulbi e lenticchie.
Quando il freddo agghiaccia, una zuppa di bulbi e lenticchie è pari all’ambrosia”.

IV, 160e-f = SVF I, 18 

‘Dopo avere ascoltato filosofeggiare e filologheggiare,
e che voi scegliete solertemente di mostrare fortezza,
prenderò da voi la prova di tali principi,
in primo luogo affumicandovi. E se poi vedrò
che qualcuno di voi mentre arrostisce contrae la gamba,
costui sarà venduto per l’esportazione 
ad un padrone Zenoniano, poiché ignora la saggezza’.

IV, 162b-e = SVF I, 452 
<A voi piacciono> i ‘Dialoghi Conviviali’ del buon filosofo Persèo, composti con materiale tratto dai ‘Memorabili’ di Stilpone e di Zenone. Affinché i convitati non cadano addormentati, Persèo ricerca in essi come si debbano utilizzare le libagioni, in quale momento debbano essere introdotti nel simposio i ragazzi e le ragazze in fiore, quando si debba accettare che essi mostrino le loro grazie e quando invece li si debba respingere trascurandoli. Egli tratta anche di pietanze, di pani e di altri argomenti, tra i quali tutto quanto il filosofo figlio di Sofronisco ha detto alquanto indiscretamente a proposito dei baci. Pur girando e rigirando nell’intelletto sempre questi argomenti, Persèo, come afferma Ermippo, ebbe in affidamento da Antigono il comando della Rocca di Corinto. Bevuto cionco com’era, egli fu però cacciato via dalla stessa Corinto dalle superiori capacità militari di Arato di Sicione. E pensare che in precedenza proprio Persèo, nei ‘Dialoghi’, aveva fatto a gara con Zenone nel sostenere che il sapiente sarebbe in ogni caso un ottimo generale. Davvero al buon domestico di Zenone è mancato soltanto di confermare ciò con i fatti! Bione di Boristene, dopo avere osservato una sua statua di bronzo recante l’epigrafe: “Persèo di Zenone, di Cizio”, aveva amenamente detto che chi aveva scritto l’epigrafe aveva errato, giacché essa doveva dire così: “Persèo di Zenone, servo”. E Persèo era in realtà un servo nato in casa di Zenone, come raccontano Nicia di Nicea nella sua ‘Storia dei filosofi’ e Sozione di Alessandria nelle sue ‘Successioni’. Abbiamo così incontrato due brani tratti da questo sapiente trattato di Persèo intitolato ‘Dialoghi conviviali’.

V, 186d = SVF I, 291
Non appena fu servito in tavola un pesce, immediatamente uno degli ingordi mangioni presenti ne rase via la parte superiore. Allora Zenone rigirò il pesce e fece anche lui la stessa cosa soggiungendo:

‘e Ino finì il lavoro dall’altra parte’.

VI, 233b-c =  SVF I, 239
Lo Stoico Zenone appare avere ritenuto indifferenti tutte le altre cose, eccezion fatta per il loro uso legittimo e buono. Egli ha detto di no sia alla scelta e sia alla fuga da tali cose indifferenti, ed ha comunque ingiunto di utilizzare principalmente cose frugali e senza eccessi. In questo modo gli uomini, poiché hanno una disposizione d’animo lontana da paure e da infatuazioni per tutto ciò ch’è indifferente e dunque né bello né brutto, per la maggior parte usano queste cose secondo natura, e s’astengono dalle contrarie per ragionamento e non per paura, giacché non hanno più timore di nulla.

VI, 251b = SVF I, 342
Timone di Fliunte, nel terzo libro dei ‘Silli’ afferma che Aristone di Chio, discepolo di Zenone di Cizio, divenne un adulatore di Persèo, e che questi era compagno del re Antigono.

VIII, 345c-d =  SVF I, 290
Secondo quanto racconta Antigono di Caristo nella sua ‘Vita di Zenone’, questo fu il comportamento di Zenone di Cizio, il costruttore della scuola Stoica, nei confronti dell’ingordo mangione con il quale conviveva da parecchio tempo. Accadde per caso che, senza che fosse preparato altro, fosse servito in tavola un grosso pesce e che Zenone, presolo tutto intero dal piatto di portata, si mettesse a divorarlo tal quale era. Al mangione che gli lanciava terribili sguardi, Zenone allora disse: “Cosa credi dunque che sperimentino i tuoi conviventi, se tu non sei capace di sopportare per un giorno solo la mia ingordigia?”.

IX, 370c = SVF I, 32a [1]
Non è un paradosso se alcuni giuravano ‘per il cavolo’, dal momento che Zenone di Cizio, il fondatore della Stoa, imitando il giuramento di Socrate ‘per il cane’ giurava lui stesso ‘per il cappero’, come afferma Empedo nei ‘Detti memorabili’.

XIII, 561c = SVF I, 263 [1]
Ponziano diceva che Zenone di Cizio concepiva Eros come il dio dell’amicizia e della libertà, ed inoltre come apprestatore di concordia e di null’altro. Perciò nella sua ‘Repubblica’ Zenone affermava: “Eros è un dio che esiste per cooperare alla salvezza della città”.

XIII, 563e = SVF I, 247
<Voi siete dei corruttori di ragazzi, in questo soltanto> emuli del vostro fondamento di sapienza, Zenone il Fenicio; il quale non se la fece mai con una donna ma sempre con dei ragazzi, come Antigono di Caristo ha investigato nel suo libro sulla vita di Zenone. Voi infatti blaterate che “bisogna amare non i corpi ma l’animo”, proprio voi che andate dicendo che si devono praticare gli amati fino all’età di ventotto anni.

XIII, 565d = SVF I, 242 
Il celebre sapiente Zenone, come lo chiama Antigono di Caristo, presagendo da indovino, com’è verisimile, le vostre vite e il mestiere che vi arrogate, diceva che coloro i quali fraintendono i suoi discorsi e non li capiscono bene, saranno individui sozzi e non liberi. Proprio come i traviati della scuola di Aristippo saranno individui dissoluti e sfrontati.

XIII, 603d =  SVF I, 23
Il citaredo Aristocle era l’amato del re Antigono e su di lui Antigono di Caristo, nel libro sulla ‘Vita di Zenone’, scrive così: “Il re Antigono soleva sopraggiungere a far baldoria con Zenone e una volta, di giorno, venendo da un certo simposio, fece un salto su da Zenone e lo persuase ad andare con lui a fare baldoria dal citaredo Aristocle, di cui il re era amantissimo”.

XIII, 607a-f = SVF I, 451
Eppure Persèo di Cizio nei suoi ‘Ricordi conviviali’ lo grida, e afferma che bevendo del vino è acconcio ricordare argomenti sessuali giacché, quando beviamo alquanto, noi siamo propensi a questi piaceri. Egli dice che “in tale contesto bisogna lodare coloro che dei piaceri sessuali fanno un uso mansueto ed equilibrato ed invece denigrare coloro che ne fanno un uso belluino ed insaziabile”. Dice anche che “se dei dialettici, convenuti in simposio, si mettessero a discutere di sillogismi, si potrebbe ben concepire che essi facciano qualcosa di estraneo all’occasione del momento”. Inoltre egli dice che “l’uomo virtuoso potrebbe ubriacarsi; e quanti, nel corso dei simposi sono decisi ad essere ultratemperanti, serbano un simile proposito fino ad un certo punto ma poi, una volta che il vinello scorra loro dentro, allora essi sfoggiano tutta la loro indecenza. Il che avvenne recentemente con gli osservatori giunti presso Antigono dall’Arcadia. Infatti tali osservatori, come credevano di dover fare, pasteggiavano tutti accigliati e pieni di decoro, senza volgere lo sguardo nonché verso qualcuno di noi, neppure guardandosi tra di loro. Quando però le bevute andavano ormai avanti ed entrarono in scena, tra gli altri intrattenimenti musicali, proprio le danzatrici Tessale le quali, com’è loro costume, usano danzare nude nei loro perizomi, allora quegli uomini non riuscirono più a trattenersi e slanciandosi dai loro letti gridavano di star assistendo ad uno spettacolo stupefacente, proclamavano beato il re perché può fruire di questi spettacoli e facevano molte altre cose del tutto da carrettieri a queste similari. Quando poi una flautista si mosse verso uno dei filosofi che bevevano con noi e, poiché vi era dello spazio libero accanto a lui voleva sederglisi accanto, egli non lo consentì ma fece con la ragazza la parte del duro. Successivamente, com’è costume che avvenga nei simposi, la flautista fu messa in vendita. Nel comprare, quel filosofo era assai baldanzoso ed entrò in controversia con il venditore, il quale l’aveva assegnata ad un altro troppo in fretta, affermando che la vendita non era avvenuta. Alla fine quel duro filosofo venne addirittura ai pugni, lui che all’inizio neppure aveva consentito alla flautista di sederglisi accanto”. Può darsi che chi giunse al pugilato per la flautista sia lo stesso Persèo. Lo afferma Antigono di Caristo quando nel suo libro ‘Su Zenone’ scrive così: “Quando Persèo, durante un simposio, comprò una flautista ma temeva assai di introdurla in casa perché coabitava con Zenone di Cizio, quest’ultimo, avuta consapevolezza della cosa, trascinò dentro la ragazza e la chiuse in casa con Persèo”.

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L’ALBERO DELLA DIAIRESI FRAMMENTI

Tutto

EPITTETO

nuovamente tradotto

da

FRANCO SCALENGHE

Εδέναι χρή, τι ο ῥᾴδιον δόγμα παραγενέσθαι νθρώπ, ε μ καθ’ κάστηνμέραν τ ατ κα λέγοι τις κα κούοι κα μα χρτο πρς τν βίον.

“E’ d’uopo sapere che un giudizio non diventa facilmente presente ad una persona se uno i medesimi giudizi ogni giorno non dicesse e sentisse dire ed insieme usasse per vivere”. (Fr. XVI)

I

Stobeo “Ecloghe”2, 1, 31. 
Di Arriano, discepolo di Epitteto. A chi si impicciava della sostanza.

Che m’importa, dice, se le cose che sono consistono di atomi o di omeomerie o di fuoco e terra? Non basta imparare la sostanza del bene e del male, le misure di desideri ed avversioni e, ancora, di impulsi e repulsioni ed usando queste come canoni governare i fatti della vita lasciando a spasso queste questioni al di là di noi? Le quali sono, caso mai, inafferrabili per l’intelligenza umana e, se pure uno ponesse che sono afferrabilissime, ma che pro dall’afferrarle? Non bisogna dire che hanno fastidi invano coloro che ascrivono queste questioni come necessarie alla definizione di filosofo? Dunque è forse ridondante anche la prescrizione che si trova a Delfi: il “Riconosci te stesso”? -Questa no, dice- Qual è dunque il suo significato? Se uno prescrivesse ad un coreuta di riconoscere se stesso, non presterebbe egli attenzione al precetto coll’impensierirsi sia dei compagni di coro che dell’armonia con essi? -Sì, dice- E se lo si prescrivesse ad un marinaio? E ad un soldato? E reputi l’essere umano una creatura che è stata fatta per se stessa oppure per la società? -Per la società- Da chi? -Dalla natura- Che cosa sia la natura e come governi l’intero e se esista oppure no, di questo non è più necessario impicciarsi.

II

Stobeo “Ecloghe”4, 44, 65.
Di Arriano discepolo di Epitteto. 

Chi è malcontento di quanto è presente ed è stato dato dalla fortuna è, in punto di vita, persona comune. Chi invece questo sopporta con generosità ed opera razionalmente verso quel che ne viene, merita di essere legittimato uomo dabbene. 

III

Stobeo “Ecloghe”4, 44, 66.
Del medesimo.

Tutto è sottomesso all’ordine del mondo e gli è servitore: la terra ed il mare, il sole ed i restanti astri, i vegetali e gli animali della terra. Anche il nostro corpo gli è sottomesso, ammalandosi ed essendo sano qualora esso lo disponga, ed essendo giovane ed invecchiando ed attraversando le altre trasformazioni. Pertanto è ragionevole che anche quanto è in nostro esclusivo potere, ossia la determinazione, non contenda sola con lui. Giacché esso è potente e migliore di noi ed ha preso a nostro riguardo il miglior consiglio ed anche noi governa insieme all’intero. Oltre a ciò la resistenza è dalla parte dell’irragionevole e, non facendo nulla più che ambasciare invano, fa precipitare in doglie ed afflizioni. 

IV

Stobeo “Ecloghe” 2, 8, 30. 
Musonio, Frammento 38 Hense.
Di Rufo. Dai passi di Epitteto sull’amicizia.

Delle cose che sono, Zeus pose alcune in nostro esclusivo potere, altre non in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere è la più bella e più degna d’industria, quella appunto per cui anche lui è felice, ossia l’uso delle rappresentazioni. Giacché quando quest’uso avviene rettamente ci sono libertà, serenità, buon umore, stabilità di giudizio. Retto uso delle rappresentazioni è anche giustizia, legge, temperanza e tutte quante le virtù. Tutto il resto non fece in nostro esclusivo potere. Pertanto è d’uopo che anche noi votiamo all’unanimità con la Materia Immortale e, discriminando così le faccende, pretendiamo per noi ad ogni modo quanto è in nostro esclusivo potere e deleghiamo quanto non è in nostro esclusivo potere all’ordine del mondo e che allegramente gli diamo spazio se avesse bisogno sia dei figli, sia della patria, sia del corpo, sia di qualunque altra cosa. 

V

Stobeo “Ecloghe” 3, 19, 13.
Musonio, Frammento 39 Hense.
Di Rufo. Da Epitteto sull’amicizia.

Chi di noi non ammira le parole dello spartano Licurgo? Giacché accecato ad un occhio da uno dei cittadini, ottenne in consegna il giovanotto dal popolo perché se ne vendicasse come decideva. Ma egli da ciò si astenne ed invece, educatolo e resolo chiaramente uomo dabbene, lo menò con sé a teatro. Agli Spartani che si stupivano “Quando lo presi,” diceva, “dalle vostre mani costui era oltraggioso e violento; ve lo restituisco acquiescente alla ragione e popolano”. 

VI

Stobeo “Ecloghe”3, 20, 60.
Musonio, Frammento 40 Hense. 
Di Rufo. Da Epitteto sull’amicizia.

Ma più di tutto opera della natura è l’allacciare e conciliare l’impulso alla rappresentazione del conveniente e del giovevole. 

VII

Stobeo “Ecloghe”3, 20, 61.
Musonio, Frammento 41 Hense.
Del medesimo.

Credere che saremo ben spregevoli per gli altri se non danneggeremo in ogni modo i principali nemici personali, è da individui estremamente ignobili e dissennati. Noi diciamo infatti che si capisce chi è ben spregevole anche dalla sua impossibilità di danneggiare; ma molto di più lo si capisce dalla sua impossibilità di giovare.

VIII

Stobeo “Ecloghe” 4, 44, 60.
Musonio, Frammento 42 Hense.
Di Rufo. Dai passi di Epitteto sull’amicizia.

Siffatta era, è e sarà la natura dell’ordine del mondo, ed è impossibile che gli avvenimenti accadano altrimenti da come ora accadono. E non soltanto gli esseri umani e le altre creature sulla terra hanno condiviso questo rivolgimento e trasformazione, ma lo condivide anche tutto quanto è materiale e, per Zeus, gli stessi quattro elementi si girano su e giù e mutano e la terra diventa acqua, l’acqua aria e questa di nuovo muta in etere. E medesimo è il modo della trasformazione dall’alto verso il basso. Se uno metterà mano a far propendere la mente a queste verità ed a persuadersi ad accogliere di buon grado il necessario, vivrà una vita equilibratissima ed armoniosissima.

IX

Gellio “Noctes Atticae” 19, 1, 14-21.

Un filosofo ben conosciuto della scuola Stoica….estrasse dalla sua sacca il quinto libro delle Diatribe del filosofo Epitteto, raccolte da Arriano ed indubbiamente conformi agli scritti di Zenone e di Crisippo. In quel libro, ovviamente scritto in greco, leggemmo un passo così concepito: “Le rappresentazioni dell’animo (che i filosofi chiamano fantasìai) da cui la mente di un essere umano è subito colpita non appena giunge all’animo l’apparenza di alcunché, non sono soggette né al suo libero giudizio né al suo controllo ma si fanno strada quasi con violenza, onde essere da lui conosciute. Invece gli assensi (che i filosofi chiamano sunkatathéseis) con cui le rappresentazioni medesime sono riconosciute, sono liberi giudizi e soggiacciono al controllo dell’essere umano. Per questo, quando si verifica qualche rumore spaventoso o dal cielo od in seguito al crollo di un edificio, oppure viene data d’improvviso la notizia di non so quale pericolo o si verifica qualcos’altro del genere, è necessario che anche l’animo del saggio per un momento ne sia scosso, si contragga ed impallidisca, non per la previsione di qualche male ma per la presenza di certi moti rapidi ed irriflessi i quali prevalgono sulle normali funzioni di mente e ragione. Nondimeno, subito dopo, il sapiente non dà il proprio assenso (questo significa où sunkatatìthetai oudé prosepidoxàzei) a quelle certe rappresentazioni (ossia alla spaventosità di queste rappresentazioni del suo animo) ma le scaccia e le respinge e non vede in esse nulla che egli debba temere. Questa, appunto, dicono che sia la differenza tra l’animo del sapiente e quello dell’insipiente. Questo ritiene veramente tremende e crudeli le cose che così gli sono apparse alla prima impressione e in seguito, come se fossero realmente terribili, dà loro anche il suo assenso e le fa diventare sua propria opinione (prosepidoxàzei è il termine che gli Stoici adoperano quando parlano di questo). Il sapiente, al contrario, dopo essere per un breve istante e fuggevolmente mutato di colore e d’espressione où sunkatatìthetai, ossia non dà il proprio assenso, ma conserva saldamente e con vigore il giudizio che aveva sempre avuto circa tali rappresentazioni, cioè che non sono affatto temibili e che spaventano con una falsa apparenza e con vana paura”. Nel libro sopra ricordato leggemmo che questo pensa e dice Epitteto, conformemente alle tesi Stoiche.

X

Gellio “Noctes Atticae”17, 19.
“Tollera l’intolleranza altrui” ed “Astieniti dall’intemperanza”

Ho udito Favorino dire che il filosofo Epitteto osservava come la maggior parte di costoro che paiono filosofare siano filosofi di questo genere: “àneu toù pràttein, mékri toù léghein” (che significa: non nei fatti, ma a parole). Vi è poi un’altra espressione ancora più veemente che Epitteto era solito usare e che Arriano ricorda nei libri da lui redatti raccogliendo i Discorsi del maestro. Quando si rendeva conto, dice, che un individuo che aveva perso il rispetto di sé e degli altri, che spendeva le sue energie in sregolatezze, dai costumi depravati, temerario, insolente nel parlare, che di tutto si curava fuorché dell’animo suo ebbene, dice, quando vedeva che un individuo di tal genere metteva le mani sulle opere e le discipline filosofiche, si accostava alla fisica, studiava la dialettica e cercava di conoscere e di indagare molti principi di quest’ordine di studi, allora chiamava a testimone dio e la lealtà degli uomini e spesso gridando riprendeva l’individuo in questione con queste parole: “O uomo, e dove la butti questa roba? Analizza prima se il recipiente è stato ripulito. Giacché se la butterai dove c’è presunzione di sapere, va in malora. E se imputridirà diventa orina od aceto o qualcosa ancor peggiore di questi”. Non ci sono certamente parole più gravi né più vere di queste, con le quali il grandissimo filosofo chiariva che le lettere e le dottrine filosofiche, quando vadano a riversarsi in un individuo falso e degenere, come in un recipiente sporco ed insozzato, si mutano, si trasformano, si guastano e, come egli diceva più cinicamente, diventano orina o qualcosa di più immondo dell’orina. Lo stesso Epitteto, come ho sentito ancora da Favorino, era solito dire che due sono i vizi di gran lunga più gravi e più ripugnanti di tutti, ossia l’intolleranza e l’intemperanza. Intolleranza, quando non tolleriamo né sappiamo reggere le offese che dobbiamo saper reggere; intemperanza, quando non ci tratteniamo dalle cose e dai piaceri dai quali dobbiamo saperci trattenere. “Pertanto”, diceva, “se uno avesse bene in mente queste due parole e si preoccupasse di farne le proprie regolatrici e governatrici, allora non cadrebbe mai in errore e vivrebbe una vita tranquillissima”. Queste erano le due parole che diceva: “anékou” ed “apékou”.

Xa

Arnobio “Adversus gentes” 2, 78.

Quando si tratta di sopravvivenza e della nostra salvezza personale, si devono fare cose anche senza riflettere. Così Arriano attesta che Epitteto abbia detto.

XI

Stobeo “Ecloghe”4, 33, 28.
Dalle Conversazioni protrettiche di Arriano

Ma Socrate, quando Archelao lo fece convocare con la promessa di farlo ricco di denaro, intimò di annunciargli che “Ad Atene quattro chenici di farina sono comperabili con un obolo e ci sono sorgenti d’acqua corrente”. Giacché se pure i miei averi non sono sufficienti, io però sono sufficiente per questi e così anch’essi lo diventano per me. O non vedi che Polo non recitava Edipo tiranno con voce più buona e piacevole dell’Edipo, errabondo e poveraccio, a Colono? E poi l’uomo generoso si mostrerà peggiore di Polo, così da non recitare bene ogni personaggio di cui lo cinga il genio? E non imiterà Odisseo il quale spiccava nulladimeno in cenci che in un purpureo manto di lana?

XII

Stobeo “Ecloghe”3, 20, 47.
Di Arriano

Vi sono individui animosissimi i quali, con quieta mitezza e come dominando l’ira effettuano quanto gli estremamente portati al rancore. Ebbene, bisogna stare in guardia dalla loro apparente inavvertenza perché molto peggiore dell’adirarsi furibondo degli altri. Questi infatti sono in fretta satolli di vendetta, mentre i primi la tirano per le lunghe come coloro che hanno delle febbricole.

XIII

Stobeo “Ecloghe” 1, 3, 50.
Dai Detti memorabili di Epitteto

Ma vedo, dice uno, anche gli uomini virtuosi andare in malora per fame e brividi- E gli individui che virtuosi non sono, non li vedi andare in malora per effeminatezza, cialtroneria, privazione del senso del bello? -Ma è brutto essere nutriti da un altro!- E chi altro, o infelice, si nutre da se stesso se non l’ordine del mondo? Pertanto chiunque incolpa la mente della Materia Immortale perché i malvagi non pagano il fio e perché sono potenti e ricchi di denaro, compie qualcosa di simile come se dicesse che, perduti gli occhi, essi non hanno pagato il fio perché le loro unghie sono sane. Ed io dico che differisce molto più la virtù dal patrimonio che gli occhi dalle unghie.

XIV

Stobeo “Ecloghe”3, 6, 57.
Dai Detti memorabili di Epitteto

e conducono in mezzo quei filosofi malcontenti i quali reputano non il piacere essere secondo natura ma sopravvenire a cose secondo natura come la giustizia, la temperanza, la libertà. Perché mai, dunque, l’animo si rallegra e rabbonisce per i beni del corpo che sono più piccoli, come dice Epicuro, mentre non gode per i suoi beni che sono sommi? Eppure la natura mi ha dato il rispetto di me e degli altri, e molte volte arrossisco alquanto, qualora concepisca qualcosa di brutto da dire. Questo movimento non mi permette di porre il piacere fisico come bene e fine della vita.

XV

Stobeo “Ecloghe”3, 6, 58.
Dai Detti memorabili di Epitteto

A Roma le donne hanno tra le mani la “Repubblica” di Platone, perché solleciterebbe che le donne siano comuni. Esse pongono mente alle frasi, non all’intelletto del filosofo; perché egli non intima di sposarsi e di coabitare uno con una sola femmina e poi decide le donne essere comuni, ma estirpa siffatto sposalizio e ne porta dentro un’altra forma. In complesso gli esseri umani si rallegrano di provvedere giustificazioni alle loro aberrazioni. Dacché la filosofia dice che non conviene sporgere a casaccio neppure il dito!

XVI

Stobeo “Ecloghe”3, 29, 84.
Dai Detti memorabili di Epitteto

E’ d’uopo sapere che un giudizio non diventa facilmente presente ad una persona se uno i medesimi giudizi ogni giorno non dicesse e sentisse dire ed insieme usasse per vivere.

XVII

Stobeo “Ecloghe” 3, 4, 91.
Di Epitteto

Quando dunque siamo invitati ad un convito, usiamo del presente. Se uno intimasse a chi ospita di sistemargli accanto del pesce o delle focacce, sembrerebbe assurdo. Ma nell’ordine del mondo chiediamo agli dei quel che essi non danno, pur essendo davvero molte le cose che essi ci hanno dato.

XVIII

Stobeo “Ecloghe” 3, 4, 92.
Del medesimo

Sono ameni, diceva, quanti fanno gran pregio di ciò che non è in nostro esclusivo potere! “Io,” dice, “sono migliore di te giacché ho molti fondi, mentre tu sei disteso dalla fame”. Un altro dice: “Io sono un consolare”. Un altro: “Io un procuratore”. Un altro: “Io ho capelli folti come lana”. Però cavallo non dice a cavallo: “Io sono migliore di te giacché possiedo molto fieno e molto orzo, le mie briglie sono dorate e la gualdrappa è variopinta,” ma “sono più veloce di te”. Ed ogni creatura è migliore o peggiore a seconda della sua propria virtù o vizio. Dunque soltanto dell’essere umano non c’è una virtù e bisogna che noi teniamo gli occhi sopra i capelli e le toghe ed i nonni?

XIX

Stobeo “Ecloghe” 3, 4, 93.
Del medesimo

I pazienti si adontano con il medico che non dà loro alcun consiglio e ritengono che disperi di loro. E perché uno non dovrebbe essere disposto verso il filosofo così da credere che disperi di vederci temperanti, se non ci dicesse più nulla di proficuo? 

XX

Stobeo “Ecloghe” 3, 4, 94.
Del medesimo

Coloro il cui corpo è ben disposto reggono le calure e i freddi. Così pure coloro il cui animo è virtuosamente disposto sopportano l’ira, l’afflizione, la grande letizia e le altre passioni. 

XXI

Stobeo “Ecloghe”3, 7, 16.
Di Epitteto

Per questo è giusto lodare Agrippino, perché essendo uomo di grandissimo valore non si lodava mai ma, se qualcun altro lo lodava, arrossiva. Costui, diceva, era uomo siffatto da scrivere sempre una lode della difficoltà che gli avveniva. Se avesse febbre, della febbre; se fosse vittima di discredito, del discredito; se andasse in esilio, dell’esilio. Ed una volta, diceva Epitteto, mentre stava per andare a colazione gli fu accanto un tale e gli disse che Nerone gli intimava di andare in esilio. E lui: “Dunque,” diceva, “andremo a fare colazione ad Ariccia!” 

XXII

Stobeo “Ecloghe” 4, 7, 44.
Di Agrippino

Quando era governatore, Agrippino provava a persuadere i da lui condannati che loro conveniva essere condannati. Giacché, diceva, io non faccio cadere giù il voto nei loro confronti da nemico o da rapinatore, ma come uno che ha sollecitudine e da tutore: come anche il medico consola chi è operato e lo persuade a prestarsi alle cure. 

XXIII

Stobeo “Ecloghe”4, 53, 29.
Di Epitteto

Stupefacente è la natura e, come dice Senofonte, amante delle creature. E dunque abbiamo affetto ed accudiamo il corpo, la cosa più spiacevole e sozza di tutte. Giacché se bisognasse per soli cinque giorni accudire il corpo del vicino, non l’avremmo retto. Vedi infatti cos’è alzarsi al mattino per sfregare i denti altrui e, fatto qualcosa di necessario, per detergere quelle parti. E’ effettivamente stupefacente prediligere una faccenda per la quale cotanto officiamo ogni giorno. Imbottisco questo sacco qui e poi evacuo: cos’è più gravoso di questo? Ma devo essere servitore della Materia Immortale. Per questo rimango e tollero di fare il bagno a questo misero corpicino, di foraggiarlo, di ripararlo. Quand’ero più giovane, mi ingiungeva anche qualcos’altro ed ugualmente lo tolleravo. Qualora la natura datrice ci sottragga il corpo, perché dunque non lo tollerate? -Lo amo, dice- Dunque, come dicevo ora, anche questa predilezione non te le l’ha data la natura? Ed essa dice: “Lascialo ormai e non avere più fastidi”.

XXIV

Stobeo “Ecloghe”4, 53, 30.
Del medesimo

Se finirà la vita da giovane, uno incolpa gli dei… [perché lo rapiscono anzitempo. Se poi, quando è vecchio, stenta a morire, anche in questo caso incolpa gli dei…] perché, essendo per lui ormai tempo di riposarsi, ha dei fastidi. Nondimeno, qualora si avvicini la morte, decide di vivere e manda per il medico e briga da lui di non lasciare addietro né foga né solerzia. Stupefacenti, diceva, sono gli esseri umani i quali vogliono né vivere né morire.

XXV

Stobeo “Ecloghe” 3, 20, 67.
Di Epitteto

Quando metti mano con minacciosa veemenza contro chiunque, ricorda di avvisarti che sei creatura mansueta; e non avendo compiuto nulla di selvatico, trascorrerai la vita senza pentimenti e senza dover rendere conti.

XXVI

Marco Aurelio “Ricordi” 4, 41.

Sei un’animuzza che sorregge un cadavere, come diceva Epitteto.

XXVII

Marco Aurelio “Ricordi” 11, 37.

Diceva di trovare un’arte circa l’assentire, e nell’ambito degli impulsi di custodire quanto fa attenti affinché siano con eccezioni, socievoli e secondo il merito. E di astenersi integralmente dal desiderio ed usare l’avversione per nulla di quanto non è in nostro esclusivo potere.

XXVIII

Marco Aurelio “Ricordi” 11, 38.

La gara dunque non è su quel che capita, diceva, ma sull’essere pazzi o no.

XXVIIIa

Marco Aurelio “Ricordi” 11, 39.

Socrate diceva: “Che volete? Avere animo di creature dotate di ragione o non dotate di ragione?” “Dotate di ragione”. “E quali dotate di ragione? Sane o insipienti?” “Sane”. “Perché dunque non cercate di averlo?” “Perché l’abbiamo”. “Perché dunque vi contraddite e litigate?”

XXVIIIb

Marco Aurelio “Ricordi” 4, 49, 2-6.

“Sfortunato me perché mi avvenne questo!” Non dire così, ma: “Fortunato me perché, pur essendomi avvenuto questo, continuo a saper dominare l’afflizione, a non essere lacerato dal presente ed a non avere paura di checchessia verrà”. Giacché qualcosa di siffatto poteva avvenire a tutti ma non tutti, per questo, avrebbero continuato a saper dominare l’afflizione. Perché dunque quella una sfortuna piuttosto che questa una fortuna? In complesso dici sfortuna dell’uomo ciò che non è un traviamento della natura dell’uomo? E reputi un traviamento della natura dell’uomo ciò che non è contro il piano della sua natura? E dunque? Hai imparato il piano della natura dell’uomo. Forse quanto avvenuto ti impedisce di essere giusto, magnanimo, temperante, assennato, non precipitoso, sincero, rispettoso di te e degli altri, libero e le altre cose grazie alla cui compresenza la natura dell’uomo ha quanto le è proprio? Orbene, di fronte ad ogni cosa che ti promuova ad un’afflizione, ricordati di usare questo giudizio: “Non che questo è una sfortuna ma che il sopportarlo generosamente è una fortuna”.

EPITTETO – FRAMMENTI DUBBI E SPURI

XXIX

Stobeo “Ecloghe”3, 35, 10.
Dal Manuale di Epitteto

In ogni circostanza, di nulla fatti così mente come della sicurezza; giacché far silenzio è più sicuro che parlare. Non permetterti poi di dire quanto sarà dissennato e pieno di denigrazioni.

XXX

Stobeo “Ecloghe” 4, 46, 22.
Di Epitteto

Non si deve ancorare una nave ad una sola àncora, né la vita ad una sola speranza.

XXXI

Stobeo “Ecloghe” 4, 46, 23.
Del medesimo

Sia con le gambe che con le speranze si deve traversare quel che si può.

XXXII

Stobeo “Ecloghe” 4, 46, 23.
Di Epitteto

E’ più necessario medicare l’animo che il corpo; giacché è meglio morire che vivere male.

XXXIII

Stobeo “Ecloghe” 3, 6, 59.
Democrito, Frammento 232 Diels.

Dei piaceri, i più rari deliziano di più.

XXXIV

Stobeo “Ecloghe”3, 6, 60.
Democrito, Frammento 233 Diels.

Se uno superasse l’equilibrio, le cose più deliziose diverrebbero le più sgradevoli.

XXXV

Florilegium, Cod. Paris. 1168

Nessuno è libero se non è padrone di se stesso.

XXXVI

Antonio Diogene 1, 21.

Roba immortale e sempiterna è la verità, che ci procura non un’avvenenza che appassisce con il tempo né una libertà di parola che può esserci sottratta da un processo, ma quanto è giusto e legale, distinguendolo da quanto è ingiusto e refutandolo.