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DIONE CRISOSTOMO

Brevi cenni sulla vita di Dione Crisostomo (40-120 d.C. circa)

Dione, coevo di Epitteto, era nato in Bitinia (Asia Minore) nella città di Prusa. Con i suoi fratelli ereditò dal padre, Pasicrate, una larga fortuna ma anche molti debiti. Divenne presto un abile oratore; in acerba polemica con i filosofi, da lui giudicati elementi ostili allo Stato. Nel corso di uno dei suoi viaggi giunse a Roma, allora sotto l’impero di Vespasiano. Qui, non si sa esattamente in quale anno, ebbe modo di ascoltare, come Epitteto, le lezioni di Musonio Rufo, e ciò gli fece cambiare atteggiamento nei confronti della filosofia. Fortemente critico nei confronti dell’imperatore Domiziano, nell’anno 82 d.C. fu esiliato e gli fu impedito di soggiornare sia in Italia che in Bitinia. Egli si trovò quindi costretto a girovagare qua e là in povertà, soprattutto nella regione del Danubio e della desolata Scizia. Sappiamo che nel 97 d.C. parlò in pubblico ai Greci riuniti ad Olimpia, che fu accolto amichevolmente dal nuovo imperatore Nerva a Roma, e che ebbe modo di ristabilirsi a Prusa. Tornato a Roma un paio di anni dopo in occasione di una ambasceria, entrò in stretta amicizia con l’imperatore Traiano. Coinvolto in un processo legato a dei progetti di ricostruzione edilizia nella sua città natale, nel 112 d.C. egli ebbe occasione di difendersi davanti a Plinio il giovane, allora Governatore romano della Bitinia. Poco si sa del resto della sua vita, nel corso della quale ebbe a subire la perdita della moglie e di un figlio.

Il testo greco delle Orazioni XIV e XV ‘Sulla schiavitù e la libertà’ di Dione Crisostomo

Il testo greco delle due Orazioni da me tradotte è quello pubblicato nella Collana ‘The Loeb Classical Library’, 1977. 

Perché la scelta di proporre la traduzione di queste due Orazioni

Dione Crisostomo, che è coevo di Epitteto, è una sorta di volgarizzatore e propagandista dello Stoicismo sul quale Epitteto ha un giudizio preciso e tagliente. Egli lo esprime in un lungo e articolato passaggio del Capitolo XXIII del III Libro delle sue Diatribe (§ 9-38). Detto in estrema sintesi, Dione Crisostomo rappresenta secondo Epitteto un modello di conferenziere insipiente; disprezzato, in cuor loro, dai suoi uditori; che bada soltanto alla ‘audience’ ed allo ‘share’; che cerca elogi, e il cui stile è né protrettico né confutatorio né didascalico bensì ‘per ostentazione’.

Ho scelto di tradurre le due Orazioni nelle quali Dione Crisostomo discute di libertà e di schiavitù appunto affinché chi vuole possa farsi un giudizio personale al riguardo, paragonando le parole di Dione a quelle di Epitteto, che nel Capitolo I del IV Libro delle sue Diatribe tratta lo stesso identico argomento.

DIONE CRISOSTOMO

Fino a questo punto i presenti avevano prestato attenzione ai discorsi dei due come a cose dette non tanto sul serio quanto per scherzo.

Dione Crisostomo ‘Orazioni’ – XV, 23 

Orazione n. 14

SULLA SCHIAVITU’ E LA LIBERTA’   I

(1) Gli uomini, sopra ogni altra cosa, smaniano d’essere liberi ed affermano che la libertà è il sommo dei beni, mentre la schiavitù è la più vergognosa e peggior fortuna che possa capitare; e però non sanno proprio questo, ossia cos’è ‘essere libero’ o cos’è ‘essere schiavo’. Pertanto essi neppure fanno mai qualcosa per sfuggire, come si dice, ciò ch’è vergognoso ed infesto, ossia la schiavitù; o per acquisire ciò che reputano di gran valore, ossia la libertà. Anzi, tutt’al contrario essi effettuano quelle azioni la pratica delle quali di necessità li costringe poi a passare tutto il tempo in stato di schiavitù ed a non centrare mai la libertà. (2) Ma forse non vale neppure la pena di stupirsi se costoro non possono né impadronirsi di né proteggersi da ciò che sono nella condizione di ignorare. Se essi, ad esempio, si trovassero davanti una pecora e un lupo ed ignorassero qual è l’uno e qual è l’altra, e però fossero al corrente che uno dei due è di giovamento e buono da possedere mentre l’altro è dannoso ed inutile, non ci sarebbe da stupirsi se a volte essi avessero paura e fuggissero la pecora come se fosse un lupo ed invece si avvicinassero al lupo e lo aspettassero ritenendolo una pecora. Giacché l’ignoranza ha effetti di questo genere su coloro che non sanno, e li costringe a fuggire e ad inseguire cose contrarie a quel che vogliono ed a ciò che è loro utile. (3) Orbene, analizziamo se i più sanno con chiarezza cosa siano la libertà e la schiavitù; giacché forse noi li accusiamo senza ragione, quando essi, invece, queste cose le sanno benissimo. (4) Se dunque qualcuno chiedesse loro cosa significa essere libero, essi forse affermerebbero che significa non ascoltare nessuno e fare semplicemente quel che ci pare. Se però uno ponesse a chi ha risposto così questa seconda domanda, ossia se crede che agisca bene e che sia un uomo libero colui che da corista in un coro non presta attenzione al capocoro e non lo ascolta, ma canta in tono e fuori tono come gli salta in mente; e se ritenga vergognoso e degno di uno schiavo il comportamento opposto, cioè il prestare attenzione ed obbedire al capocoro cominciando e smettendo di cantare quando quello lo comanda: ebbene, io credo che egli non si direbbe d’accordo. (5) Credo anche che egli non si direbbe d’accordo quando gli si domandasse se ritiene che per chi naviga sia un comportamento da uomo libero quello di non preoccuparsi del pilota e di non fare qualunque cosa questi dica di fare. Per esempio, restare in piedi sulla nave, soltanto perché questo gli è saltato in testa, quando invece il pilota ordina di sedersi. E credo che neppure chiamerebbe libero e degno d’emulazione l’uomo che, quando il pilota comanda di buttare fuori dalla nave l’acqua accumulatasi nella sentina o di tirare giù le vele, invece né svuota la sentina né mette mano alle funi perché in questo modo lui fa quel che gli pare. (6) Di certo, poi, uno non chiamerebbe schiavi i soldati perché ascoltano il generale, perché si levano in piedi quando egli ne dà l’ordine, perché consumano il cibo, prendono le armi, si dispongono in formazione, attaccano e si ritirano non altrimenti che come e quando il generale lo comanda. E quando obbediscono ai medici, gli ammalati non diranno certo di essere per questo degli schiavi. (7) Eppure essi obbediscono loro in cose né spicciole né facili, giacché i medici ingiungono a volte di digiunare e di astenersi da qualunque bevanda. Quando poi il medico ritenga di dover legare il paziente, ecco che immediatamente egli è legato; e se ritiene di dover operare un taglio e di cauterizzare, ecco che egli sarà tagliato e cauterizzato per quanto pare al medico. Se invece il paziente non obbedisce, tutti i presenti in casa fanno da assistenti al medico; e non soltanto gli uomini liberi ma spesso i domestici stessi dell’ammalato legano strettamente il padrone, recano il fuoco così che egli possa essere cauterizzato e si prestano per tutti gli altri servizi. (8) Non diresti dunque che quest’uomo, il quale sopporta molte cose spiacevoli per ordine di un altro, è un uomo libero? Certamente non diresti che non era un uomo libero Dario, il gran re dei Persiani, poiché, essendo caduto da cavallo nel corso di una battuta di caccia ed essendosi slogato una caviglia, diede ascolto ai medici, ed erano medici che venivano dall’Egitto, i quali gli tiravano e torcevano il piede per rimettere a posto l’articolazione. A sua volta, non diresti che non era un uomo libero Serse, quando, ritirandosi dalla Grecia e colto da una tempesta mentre era in nave, obbedì in tutto e per tutto al pilota e non si permise né di fare un cenno col capo né di cambiare posto contro il parere del pilota. Pertanto non si affermerà più che la libertà consiste nel non dare alcun ascolto ad altre persone o nel fare qualunque cosa si voglia. (9) Ma forse i più diranno che questi individui ascoltano gli ordini perché sono ordini che mirano al loro utile, com’è il caso dei passeggeri col pilota della nave. Ed è per questo motivo che i soldati obbediscono al generale ed i pazienti al medico, giacché costoro null’altro ingiungono se non ciò ch’è utile a chi esegue i loro ordini. 
– Invece i padroni non ordinano ai loro schiavi ciò che sarà utile a questi ultimi, bensì ciò che i padroni credono (10) essere vantaggioso per loro stessi. 
– Ma che dici? È forse utile al padrone che il suo domestico muoia o che si ammali o che sia un schiavo malvagio? Nessuno direbbe questo. Ben al contrario, io credo, è utile al padrone che il domestico viva, sia in salute e sia un buon servo. Queste stesse cose parranno utili anche al domestico; sicché il padrone, se è assennato, ingiungerà di fare ciò che è non meno utile al servo, giacché queste sono le cose che paiono utili anche al padrone stesso. 
– (11) Ma l’uomo, chiunque sia, per il cui acquisto uno abbia versato del denaro, è necessariamente uno schiavo.
– Eppure molti non hanno forse pagato del denaro per tanti uomini che erano liberi cittadini, alcuni dando il prezzo del riscatto ai nemici, altri ai briganti? E altri ancora non hanno forse pagato il prezzo del loro riscatto ai padroni? E questi padroni non sono di certo schiavi di se stessi.
– (12) Però qualora uno abbia la potestà di frustare un altro, di metterlo in catene, di eliminarlo o di fare di lui qualunque altra cosa voglia, allora quest’individuo è schiavo di quello.
– Che dici? I briganti non hanno la potestà di fare ciò a coloro che hanno catturato? E nondimeno questi prigionieri non sono degli schiavi. E allora? I giudici non hanno la potestà di comminare il carcere, la morte o qualunque altra pena vorranno a molti dei giudicati? E costoro non sono certo degli schiavi. E se anche lo fossero per un giorno, quello nel quale ciascuno di loro è giudicato, ciò non significherebbe nulla; giacché chi ha mai sentito dire che un uomo è stato schiavo per un giorno solo? 
– (13) Ma invero bisogna pur dichiarare, per dirlo in poche parole, che chiunque ha la potestà di fare ciò che vuole è un uomo libero, mentre invece chi non ha questa potestà è uno schiavo.
– No, tu non potrai dire questo di chi naviga, né degli ammalati, né di chi è impegnato in una campagna militare, né di quanti stanno imparando le lettere, o a suonare la cetra, o i movimenti della lotta, o qualche altra arte. A costoro, infatti, è concesso di effettuare non le azioni che vogliono, bensì quelle che comandano il pilota, il medico o l’insegnante. E neppure gli altri uomini hanno la potestà di fare quel che vogliono, giacché chi effettuerà qualcosa che va contro le leggi in vigore sarà punito.
– (14) Dunque, chi ha la potestà di effettuare oppure no, e come vuole lui, quanto è compreso entro l’ambito di ciò che è stato né proibito né ordinato dalle leggi è un uomo libero; mentre chi, al contrario, non ha questa potestà è uno schiavo.
– Che dici? Credi tu di avere la potestà di effettuare tutto ciò che non è espressamente proibito dalle leggi ma che peraltro gli uomini reputano vergognoso e fuori luogo: intendo, per esempio, fare l’esattore d’imposte, il tenutario di un bordello o altre attività simili?
– No, per Zeus. Io direi anzi che siffatte attività non sono neanche concesse a chi è libero, giacché esse comportano quale pena d’essere odiati ed abominati dagli uomini.
– (15) E allora? Nel caso degli spudorati, quanto costoro fanno a causa della loro impudenza; nel caso dei dissennati, quanto costoro fanno a causa della loro sconsideratezza, trascurando le loro sostanze o il loro corpo o trattando gli altri uomini ingiustamente e scriteriatamente: ebbene, tutte queste cose non sono altrettante penalità per coloro che le fanno? Infatti essi ne vengono danneggiati o nel corpo o nelle sostanze o, penalità più grande di tutte, nel loro animo.
– Questo che dici è vero.
– Pertanto neppure è lecito effettuare queste cose.
– Certo che no.
– (16) In una parola, non è lecito effettuare azioni viziose, assurde e inutili; mentre è d’uopo affermare che è conveniente e lecito effettuare quelle giuste, utili e virtuose?
– A me sembra che sia così.
– Dunque, per nessuno è senza punizione il fare azioni viziose e sconvenienti, sia egli greco o barbaro …. e neppure se ha pagato un prezzo in denaro per l’acquisto di chiunque?
– Certo che no.
– A tutti è però similmente accordata la possibilità di fare il contrario, e coloro che effettuano queste azioni trascorrono la vita senza punizione alcuna, mentre coloro che effettuano le azioni vietate sono puniti.(17) A te sembra che quanti effettuano le azioni lecite siano diversi da coloro che hanno scienza di esse, e che quanti effettuano le azioni contrarie siano diversi dagli ignoranti? 
– In nessun modo diversi da costoro.
– Pertanto tutto ciò che gli uomini saggi decidono di effettuare è loro lecito. Invece tutto ciò che le persone stolte decidono, non è lecito a chi mette mano ad effettuarlo. Cosicché è necessario che i saggi siano uomini liberi e che sia loro lecito fare ciò che dispongono, mentre è invece necessario che i dissennati siano individui schiavi e che facciano proprio ciò ch’è loro non lecito. 
– Forse è così.
– (18) Dunque è d’uopo anche chiamare la libertà scienza delle cose che è accordato effettuare e di quelle che è impedito effettuare; e chiamare la schiavitù ignoranza delle cose lecite e di quelle illecite. Da questo discorso discende la conclusione che nulla impedirebbe che il Gran Re, pur portando sulla testa una grandissima tiara, sia uno schiavo e che non gli sia lecito effettuare nessuna delle cose che fa, giacché quelle che effettua comportano per lui altrettante penalità e sono tutte altrettanto inutili. Se ne conclude anche che invece un altro individuo, che sembra uno schiavo e che così è chiamato; che è stato venduto non una volta sola ma, se così capita, molte volte; che, se così dovesse avvenire, porta pesantissimi ceppi, è più libero del Gran Re.
– (19) A me sembra del tutto assurdo che un uomo il quale porta dei ceppi, che è marchiato o che fa girare la macina in un mulino, sia più libero del Gran Re.
– Che dici? Sei mai stato in Tracia?
– Io sì, certo.
– Dunque là hai visto le donne di condizione libera piene di marchi, e con un numero di simili tatuaggi tanto maggiore e tanto più vari quanto più esse sono nobili e di nobile casata.
– E cosa significa questo?
– (20) Significa che nulla impedisce, com’è verosimile, che la regina sia marchiata. Credi tu di poter impedire un re? Tu quindi non hai sentito parlare di quel popolo presso il quale il re è custodito in un’altissima torre ed a cui non è lecito scendere dalla torre? Se ne avessi sentito parlare, sapresti che è possibile essere re anche se si è tenuti in completo isolamento. E se tu narrassi loro del Re dei Persiani, caso mai sentiresti quegli uomini manifestare grande stupore e non credere affatto che possa esistere un re che se ne va in giro su un carro e che va dove vuole.
– Però tu non potrai dimostrare che uno in catene è un re.
– Forse un re degli uomini, no. Ma il re degli Dei, il primo e più antico re è stato, come si racconta, messo in catene; almeno se bisogna credere ad Esiodo, ad Omero e ad altri uomini sapienti i quali questo dicono di Crono. E fu incatenato, per Zeus, non ingiustamente ad opera di un suo nemico personale; ma subì questo trattamento da parte del suo figlio più caro, il quale stava manifestamente riservando al padre un trattamento regale e a lui conveniente. (22) Però gli uomini ignorano questi fatti e non crederebbero mai che un poveraccio, qualcuno in catene o una persona screditata possa essere un re; seppure sentano raccontare che Odisseo, quand’era un poveraccio e un postulante presso i pretendenti, era nondimeno il re e il padrone di casa; mentre Antinoo ed Eurimaco, che Omero denominava re, erano persone meschine e preda della malasorte. Questi fatti, come dicevo, gli uomini li ignorano e si cingono, quali segni regali, di tiare, di scettri e di diademi, affinché non sfugga a nessuno che essi sono dei re; come, io credo, fanno i padroni quando marchiano il bestiame affinché esso sia facilmente distinguibile. (23) È appunto per questo che il re dei Persiani si preoccupava di essere l’unico a portare la tiara diritta; e se qualcun altro lo faceva, subito il re ordinava di mandarlo a morte, come se fosse né bene né utile che tra tante decine di migliaia di uomini ce ne fossero due che portavano in capo la tiara diritta. E però non gli importava un bel nulla di avere retta l’intelligenza e che (24) nessun altro avesse una mente più saggia della sua. Io dunque non vorrei che come esistevano allora siffatti segni del potere regale, dovessero esistere anche oggi simboli del genere per la libertà; e che si dovesse incedere portando in testa un berretto di feltro, perché altrimenti non potremo riconoscere l’uomo libero dallo schiavo. 

Orazione n. 15

SULLA SCHIAVITU’ E LA LIBERTA’   II

(1) Poco tempo fa, posso assicurarvi, fui presente ad una lunghissima discussione tra due persone che dibattevano circa la schiavitù e la libertà, non davanti a dei giudici né sulla pubblica piazza, ma in casa e a loro agio, avendo ciascuno dalla sua parte non pochi degli astanti. Secondo me era capitato che in precedenza essi avevano dibattuto altre questioni, e che uno dei due, trovatosi nel corso del dibattito sconfitto e a corto di argomenti, s’era dato ad ingiuriare l’altro, come suole accadere spesso, e gli aveva rinfacciato di non essere un uomo libero. Al che l’altro sorrise con grande mitezza e disse:
– (2) E da cosa sei in grado di dirlo? È possibile, mio caro, sapere chi è schiavo e chi è libero? 
– Sì, per Zeus, rispose quello; io so bene di essere un uomo libero e che liberi sono tutti i presenti, mentre tu con la libertà non c’entri proprio nulla.
Alcuni degli astanti risero, ma l’altro non provò punto vergogna. E come i galli da combattimento davanti alla botta subita si scuotono e prendono coraggio, così lui pure, davanti all’ingiuria, si scosse e prese coraggio, domandandogli donde gli veniva questa conoscenza riguardo a loro due.
– (3) Dal fatto che io so per certo che mio padre è Ateniese quant’altri mai, mentre il tuo è un servo domestico del tale – e ne disse il nome.
– Se è così, disse allora l’altro, che cosa m’impedisce di fare gli esercizi ginnici e di ungermi d’olio nel Cinosarge insieme ai figli bastardi, visto che mi capita d’essere nato da una madre di condizione libera, e forse addirittura cittadina Ateniese, e dal padre di cui parli tu? Non è forse vero che molte cittadine Ateniesi, a causa dell’isolamento e della penuria di maschi, sono rimaste incinte alcune ad opera di stranieri ed altre di schiavi, alcune ignorando questo fatto ma altre anche ben sapendolo? Nessuno dei figli generati così è schiavo, ma soltanto non è cittadino Ateniese.
– (4) Ma io so bene, disse quello, che anche tua madre è una serva domestica come tuo padre.
– E sia pure, rispose l’altro; ma tu sai chi è tua madre?
– Lo so benissimo: è cittadina Ateniese, figlia di Ateniesi e che ha anche portato al marito una bella dote.
– Potresti tu affermare sotto giuramento di essere figlio dell’uomo che dice tua madre? Telemaco, come sai, non riteneva affatto il caso di sostenere con tutte le sue forze, in difesa di Penelope figlia di Icario, la quale era reputata una moglie della massima castigatezza di costumi, che ella dice la verità quando dichiara che Odisseo è suo padre. Tu invece giureresti non soltanto in difesa tua e di tua madre, ma se qualcuno te lo intimasse giureresti, a quanto pare, anche a proposito di non importa quale schiava, come tu affermi essere mia madre, di sapere ad opera di chi rimase incinta. (5) Ti sembra impossibile che ella sia rimasta incinta ad opera di un altro uomo, di un libero cittadino o del suo stesso padrone? Non sono molti gli Ateniesi che hanno rapporti sessuali con le loro ancelle, alcuni di nascosto ma altri anche apertamente? Tutti gli Ateniesi, infatti, non sono certo migliori di Eracle, il quale non stimò indegno avere rapporti sessuali con la schiava di Iardano, dalla quale nacquero i re di Sardi. (6) Non ti pare che Clitennestra, figlia di Tindareo e moglie di Agamennone, abbia avuto rapporti coniugali, com’è verosimile, con suo marito Agamennone; e che quando questi se ne andò lontano abbia avuto rapporti sessuali con Egisto? Non ti pare che Aerope, la moglie di Atreo, abbia accettato le profferte di Tieste; e che molte altre mogli di uomini celebri e ricchi, sia anticamente che di questi tempi, abbiano avuto rapporti sessuali con altri uomini, e che a volte abbiano avuto da essi dei figli? Tu invece sei sicuro che l’ancella di cui parli abbia custodito la propria fedeltà a suo marito così precisamente da non avere avuto rapporti sessuali con nessun altro. (7) Per di più tu garantisci, a tuo ed a mio riguardo, che ciascuno di noi due è figlio di colei che sembra e si dice essere nostra madre. Eppure potresti dire il nome di molti Ateniesi, e dei più conosciuti, dei quali fu in seguito acclarato non soltanto che non erano figli del padre, ma neppure della madre che si diceva; trattandosi di bambini allevati da qualche parte come figli suppositizi. Queste vicende le vedi mostrate e raccontate ogni volta dagli scrittori di commedie e nelle tragedie; e tu nondimeno insisti egualmente a dire, a tuo ed a mio riguardo, di sapere bene le circostanze della nostra nascita e da chi siamo nati. (8) Non sai, concluse, che la legge permette di intentare un processo per calunnia contro colui che diffama qualcuno senza poter dimostrare chiaramente nulla di ciò di cui parla?
– Io so bene, disse quello, che se non hanno figli perché non riescono a rimanere incinte, le donne di condizione libera fanno spesso passare un figlio altrui come proprio; volendo ciascuna di esse tenersi stretto il proprio marito e conservare la casa, e poiché nel contempo non mancano loro i mezzi coi quali allevare i bambini. So anche che delle schiave, al contrario, alcune abortiscono; ed altre, se possono tener ciò nascosto e a volte anche con la complicità dei mariti, uccidono il bambino dopo il parto per non avere fastidi e non essere costrette, oltre al lavoro servile, anche ad allevare il neonato. 
– (9) Sì, per Zeus, disse l’altro, se però si eccettua quella schiava di Oeneo, figlio bastardo, si diceva, di Pandione. Infatti, il pastore di Oeneo e sua moglie, che vivevano ad Eleutere, non soltanto non esponevano i figli da loro generati, ma raccoglievano anche neonati non loro che trovavano per strada, senza sapere di chi fossero; li allevavano come figli loro e mai in seguito ammisero volontariamente che fossero figli altrui. Tu invece forse copriresti d’ingiurie anche Zeto ed Anfione, prima che la loro identità diventasse chiara; e circa dei figli di Zeus giureresti che sono degli schiavi.
– (10) Quello allora rise molto ironicamente e disse: ‘E tu chiami testimoni gli scrittori di tragedie?’
– Sì, disse l’altro, chiamo a testimoniare coloro nei quali i Greci hanno fiducia. Giacché quelli che i tragediografi ci mostrano come eroi, ebbene è a costoro che i Greci offrono sacrifici come ad eroi; ed è possibile vedere che i sacrari degli eroi sono stati edificati in loro onore. E fatti lo stesso concetto, se vuoi, anche della schiava Frigia di Priamo, la quale, presolo dal marito che era un bovaro, allevò Alessandro sul monte Ida come figlio suo, e portò innanzi l’allevamento del bambino senza esserne affatto incomodata. I Greci raccontano anche che Telefo, il figlio di Auge e di Eracle, non fu allevato da una donna ma da una cerva. E a te sembra che una cerva avrebbe più compassione di un neonato e proverebbe più desiderio di allevarlo di un essere umano, pur se costui è una schiava? (11) Orsù, per gli Dei! E se io pur ammettessi con te che i miei genitori sono quelli che tu dici, come fai tu a sapere che sono degli schiavi? Oppure tu conoscevi con assoluta certezza anche i loro genitori, e sei pronto a giurare a loro proposito che entrambi erano nati da genitori tutti e due schiavi, e che ciò vale anche per le generazioni precedenti e così per tutti loro fin dal principio? È infatti manifesto che qualora un membro della discendenza sia di condizione libera, non è più permesso né corretto legittimare i suoi discendenti come schiavi. Ciò non è possibile, mio caro, perché è impossibile, come si dice, che da tutta l’eternità esista una generazione di uomini nella quale non siano nati un numero sconfinato di individui di condizione libera, e in numero non minore individui di condizione schiava; e poi che non vi siano stati tiranni, re, prigionieri, schiavi marchiati, bottegai, calzolai e addetti a tutte quante le altre attività umane: tutta gente passata attraverso ogni sorta di lavoro, ogni sorta di vita, ogni sorta di fortuna e di guai. (12) Non sai che è questo il motivo per cui i poeti fanno risalire direttamente agli Dei la discendenza dei cosiddetti eroi, di modo che non si possa indagare più oltre il personaggio? Essi affermano anche che la maggior parte di tali eroi sono discendenti di Zeus, affinché i loro re, i loro fondatori di città e i loro eroi eponimi non si imbattano in situazioni tali che agli uomini sembrano essere vergognose e disonorevoli. Pertanto, se lo stato delle cose umane è questo che diciamo noi e che dicono altri più sapienti di noi, quanto a discendenza a te non si converrebbe più libertà, ed a me più schiavitù, di quanta ne convenga a chiunque di coloro che sembrano essere puri e semplici servi domestici, a meno che anche tu non faccia in fretta risalire i tuoi progenitori a Zeus o a Poseidone o ad Apollo.
– (13) Lasciamo dunque stare, disse quello, la faccenda della discendenza e degli antenati, poiché a te sembra una questione così difficile da appurare e poiché forse ne risulterà addirittura che tu sei come un Anfione, uno Zeto o come Alessandro, il figlio di Priamo. Quanto a te proprio, però, noi tutti sappiamo che sei di condizione servile.
– Ma che dici? continuò l’altro. A te sembra che tutti gli individui di condizione servile siano degli schiavi? Molti di essi non sono uomini liberi ingiustamente tenuti in schiavitù? Alcuni di questi, infatti, hanno adito i tribunali ed hanno dimostrato di essere uomini liberi. Altri, invece, sopportano di restare per sempre in stato servile poiché non hanno modo di dimostrare chiaramente la loro libertà, oppure affinché i cosiddetti padroni non siano duri e violenti con loro. (14) Orsù, prendi Eumeo, figlio di Ctesia, a sua volta figlio di Ormeno. Eumeo era figlio di un uomo assolutamente libero e ricco, eppure non svolgeva forse mansioni servili ad Itaca, presso Odisseo e Laerte? E pur essendogli permesso di navigare spesso verso casa, se così voleva, non ritenne mai il caso di farlo. E allora? Molti Ateniesi catturati in Sicilia, pur essendo uomini liberi non rimasero come schiavi in Sicilia e nel Peloponneso? E dei prigionieri di guerra catturati in molte altre battaglie, alcuni non rimasero schiavi per qualche tempo, ossia fino a che non trovarono chi pagava il loro riscatto; mentre altri lo rimasero per sempre? (15) Sembra che anche il figlio di Callia sia stato schiavo per lungo tempo in Tracia, dopo la battaglia nei pressi di Acanto nella quale gli Ateniesi furono sconfitti. Sicché successivamente, essendo riuscito a fuggire dalla prigionia ed a tornare a casa, egli avanzò pretese sull’eredità del padre e procurò molti fastidi ai parenti. Quello era però, io credo, un falso figlio di Callia, in quanto non ne era il figlio ma lo stalliere, simile soltanto di vista al figlio adolescente di Callia, cui invece era capitato di morire in battaglia. Egli, inoltre, parlava greco correttamente e conosceva le lettere; (16) ma miriadi di altre persone hanno sofferto vicende simili; poiché anche ora, di coloro che sono schiavi qui dove ci troviamo io non disconosco che molti sono uomini liberi. Se infatti un libero cittadino Ateniese preso prigioniero in guerra, sarà condotto in Persia oppure, per Zeus, portato in Tracia o in Sicilia e colà venduto, noi non diremo che costui è uno schiavo. Se invece sarà portato qui un Trace o un Persino, non soltanto nato colà da genitori di condizione libera ma pure figlio di qualche principe o di qualche re, noi non ammetteremo che costui sia un uomo libero. (17) Non sai, continuò, che ad Atene e in molti altri Stati, la legge non permette a chi è schiavo di partecipare dei diritti di cui godono i cittadini? Nessuno invece avrebbe sollecitato di escludere dalla cittadinanza Ateniese il figlio di Callia, se davvero egli si salvò dopo la cattura e giunse qui dalla Tracia dopo esservi vissuto per lunghi anni ed esservi stato spesso frustato. Sicché in certi casi anche la legge afferma perentoriamente che quanti sono tenuti ingiustamente in condizione servile non sono per questo diventati schiavi. (18) Per gli Dei, cosa sai tu che io faccio o subisco, per affermare di sapere che io sono uno schiavo?
– Io so che tu sei nutrito dal tuo padrone, che lo segui, che fai qualunque cosa egli ti ingiunga; e che se non la fai sei picchiato.
– Dicendo così, rispose l’altro, tu stai dichiarando che anche i figli sono schiavi dei loro padri. Infatti i figli seguono i padri, soprattutto se poveri, e vanno con loro in palestra o a pranzo. Tutti i figli sono nutriti dai padri, sono spesso da loro picchiati ed ubbidiscono a qualunque cosa i padri ingiungano loro di fare. (19) E a motivo dell’ubbidire e del prendere botte, allora tu dirai che quanti imparano le lettere sono servi domestici dei loro maestri di grammatica; e che gli istruttori di ginnastica o gli insegnanti di qualcos’altro sono padroni dei loro allievi, giacché in effetti essi ingiungono loro certe cose e li battono quando non ubbidiscono.
– Per Zeus, disse quello, così è; però né gli istruttori di ginnastica né gli altri insegnanti possono imprigionare i loro allievi né venderli, e neppure possono sbatterli in un mulino a far girare la macina; mentre tutte queste punizioni sono invece permesse ai padroni.
– (20) Forse tu non sai che in molti Stati retti da buonissime leggi, le cose che tu dici sono nella potestà dei padri verso i figli. I padri, infatti, possono imprigionare i figli quando vogliono, possono venderli e, cosa ancor più dura e violenta, possono ucciderli senza far loro un processo e senza neppure incriminarli di qualcosa. Eppure nondimeno essi non sono gli schiavi dei padri, ma i figli. E se io pur fossi uno schiavo quant’altri mai e giustamente schiavo fin dalla nascita; cosa impedisce, continuò l’altro, che io sia adesso nondimeno un uomo libero e che tu a tua volta, pur se fossi nato da genitori liberissimi, sia al contrario schiavo più di chiunque altro?
– (21) Io, disse quello, non vedo come potrò mai essere uno schiavo. Non è invece impossibile che tu divenga un uomo libero se il tuo padrone ti emancipa.
– O carissimo, rispose l’altro, che dici mai? Davvero nessuno schiavo potrebbe diventare libero se non per emancipazione dal proprio padrone?
– E come, se no? chiese quello.
– In questo modo: dopo la battaglia di Cheronea, gli Ateniesi decretarono che i servi domestici i quali avessero in futuro preso parte alla guerra sarebbero diventati uomini liberi. Se dunque la guerra fosse continuata e Filippo non avesse fatto pace con loro troppo presto, molti o praticamente tutti i servi domestici Ateniesi sarebbero oggi uomini liberi, senza essere stati emancipati uno per uno dal loro padrone.
– Sia pur così, se lo Stato ti libererà a sue spese.
– (22) Ma che dici? Ti pare che io non potrò liberarmi da solo?
– Sì, se verserai al tuo padrone il denaro che hai trovato da qualche parte.
– Non intendo in questo modo, ma nel modo in cui Ciro liberò non soltanto se stesso ma anche tutti i Persiani, una folla così numerosa di persone, senza versare ad alcuno del denaro e senza essere liberato dal proprio padrone. Non sai che Ciro era un vassallo di Astiage, e che quando poté e gli parve il momento divenne libero e re dell’Asia intera?
– E sia. Ma come fai a dire che io potrei diventare schiavo?
– (23) Io dico che in effetti miriadi di uomini liberi vendono se stessi per lavorare come schiavi a contratto, a volte a condizioni non solo inique ma durissime.

Fino a questo punto i presenti avevano prestato attenzione ai discorsi dei due come a cose dette non tanto sul serio quanto per scherzo. Successivamente, però, i due entrarono in una seria disputa, giacché sembrò loro assurdo che non si potesse invocare una prova certa grazie alla quale distinguere in modo incontestabile lo schiavo dall’uomo libero; e che invece fosse facilmente possibile in qualunque caso mettere in piedi una controversia ed obiettare polemicamente. (24) Lasciata pertanto cadere la considerazione dello specifico caso della schiavitù o meno di uno dei due, essi presero a considerare chi sia in generale lo schiavo. E parve ad essi che qualora uno entri in pieno e incondizionato possesso di un essere umano, così com’è padrone assoluto di qualunque altro dei suoi beni o dei suoi capi di bestiame, tanto da avere la potestà di servirsene come vuole, allora quest’essere umano può rettamente essere chiamato, e di fatto è, schiavo del suo possessore.
Ma a questo punto quello cui era stato rinfacciato di essere uno schiavo mise di nuovo in piedi una controversia, obiettando polemicamente di voler sapere cosa fosse il ‘pieno e incondizionato possesso’. (25) Giacché, diceva, era già venuto chiaramente in luce come molti di coloro che da lungo tempo possedevano una casa, un podere, un cavallo o un bue, e taluni avendoli ricevuti dai propri padri, non godevano di tale possesso secondo giustizia; e pertanto, allo stesso modo, era possibile anche l’ingiusto possesso di un essere umano. Infatti, come nel caso di tutti gli altri beni, tra i beni che si acquisiscono ci sono anche i servi domestici, che alcuni padroni prendono da altri possessori o per cessione gratuita, o per eredità, o per acquisto oneroso; mentre altri schiavi essi li possiedono fin dal principio, in quanto sono stati generati presso gli stessi padroni e sono quelli che si chiamano schiavi nati in casa. Il terzo modo di acquisire uno schiavo è quando si prenda qualcuno prigioniero in guerra, oppure lo si rapisca e lo si riduca in schiavitù; modo, questo, che io credo sia il più antico di tutti. Non è infatti verosimile che i primi individui diventati schiavi siano nati da uomini fin dal principio per natura schiavi, bensì che per rapimento o per cattura in guerra alcuni individui siano poi stati costretti alla schiavitù da coloro che li avevano catturati. (26) Dunque questo antichissimo modo dal quale tutti gli altri dipendono è, quanto a giustizia, debolissimo e per nulla fondato; sicché qualora quegli schiavi possano fuggire, nulla impedisce che essi siano di nuovo uomini liberi; e poiché erano ingiustamente schiavi ne consegue che essi non erano schiavi neppure prima. A volte, poi, questi schiavi non soltanto fuggirono dalla schiavitù ma ridussero in schiavitù i loro stessi padroni. Anche in questo caso, come si dice, a seconda di come cade e si rivolta il coccio, tutto diventa il contrario di com’era prima. A questo punto uno dei presenti disse che forse quelli non potrebbero essere chiamati schiavi in senso proprio, ma che ai loro figli e a quelli di seconda e terza generazione potrebbe convenire in senso proprio il nome di schiavi. 
– (27) Ma com’è possibile ciò? Se infatti a fare uno schiavo è la cattura, questo nome converrebbe a coloro che sono stati catturati ben più che ai loro discendenti. Se invece a fare uno schiavo è la nascita da genitori schiavi, poiché i catturati sono manifestamente degli uomini liberi, i loro discendenti non potrebbero essere dei servi domestici. Noi ad esempio vediamo che dopo tanti anni i famosi Messeni recuperarono non soltanto la libertà ma anche le loro terre. (28) Quando infatti gli Spartani furono sconfitti a Leuttra dai Tebani, questi ultimi e i loro alleati entrarono militarmente nel Peloponneso, costrinsero gli Spartani a cedere la Messenia e reinsediarono a Messene quanti erano originari di quella regione, e che in precedenza erano tenuti in schiavitù dagli Spartani e chiamati Iloti. E nessuno afferma che i Tebani abbiano compiuto queste imprese contro giustizia, bensì del tutto onorevolmente e secondo giustizia. Se pertanto questo modo, dal quale tutti gli altri originano, di entrare in possesso di un uomo non è giusto, si rischia che nessun altro lo sia, e dunque che effettivamente la parola ‘schiavo’ non sia pronunciata secondo verità. (29) Può tuttavia darsi che la parola ‘schiavo’ non sia stata da principio pronunciata in questo senso, ossia a proposito di colui per il cui corpo qualcuno abbia versato del denaro; oppure, come ritengono i più, che schiavo sia chi è nato da genitori schiavi; ma che il termine ‘schiavo’ indicasse piuttosto chi è d’animo non libero ed incline al servilismo. Noi infatti ammetteremo che dei cosiddetti schiavi molti sono certamente uomini d’animo libero, e che invece molti dei cosiddetti uomini liberi sono persone del tutto inclini al servilismo. Ciò vale anche per le persone ‘di nobile indole’ e ‘bennate’. Dapprima gli uomini chiamarono così coloro che mostravano d’essere nati per la virtù, senza impicciarsi di sapere di chi fossero figli. Successivamente, però, i discendenti di famiglie d’alta reputazione e d’antica ricchezza furono da alcuni chiamati ‘bennati’. (30) Di ciò rimane un segno chiarissimo nel fatto che la designazione ‘di razza’, quale era stata applicata anche agli uomini in tempi antichi, si è conservata nel caso dei galli, dei cavalli e dei cani. Chi infatti vede un cavallo focoso, fiero, ben dotato per la corsa, senza cercare di sapere se il padre sia uno stallone proveniente dall’Arcadia o dalla Media o dalla Tessaglia, lo giudica per le sue doti e dice che è un cavallo ‘di razza’. Similmente, se chi è esperto di cani vede una cagna veloce, piena di slancio e sagace nel seguire le orme, non va a cercare se sia di un genere proveniente dalla Caria, dalla Laconia o da qualche altra regione, ma dice che è una cagna ‘di razza’. La stessa cosa vale nel caso di un gallo e degli altri animali. (31) È dunque manifesto che la faccenda starebbe in questi termini anche nel caso degli uomini. Sicché chi sarà bennato per la virtù, costui conviene che sia chiamato di nobile indole, anche se nessuno conosce i suoi genitori né i suoi antenati.
– Ma non è proprio possibile che uno sia ‘di nobile indole’ e che non sia ‘bennato’, né che sia ‘bennato’ e che non sia un uomo ‘libero’: sicché è anche del tutto necessario che chi è ‘ignobile’ sia uno ‘schiavo’. Dunque s’intende che se ci fosse l’abitudine di parlare della libertà e della schiavitù come se ne parla nel caso dei cavalli, dei galli e dei cani, noi non diremmo che alcuni sono ‘di razza’ ed altri invece sono ‘liberi’, né  che alcuni sono ‘schiavi’ ed altri invece sono ‘ignobili’.
– (32) Allo stesso modo, anche nel caso degli uomini non è verosimile chiamare alcuni ‘di nobile indole’ e ‘bennati’ ed altri invece ‘liberi’, giacché deve trattarsi delle stesse identiche persone; e così pure è inverosimile chiamare alcuni ‘ignobili’ e ‘servi nell’animo’ ed altri invece ‘schiavi’.
– Così il ragionamento rende palese che a fare un cattivo uso dei nomi non sono i filosofi bensì la maggioranza degli uomini dissennati, per la loro inesperienza in materia.

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POSIDONIO di APAMEA

“Siccome a me avviene di perlustrare terre vergini ed esplorare in solitudine percorsi mai battuti, non ho bibliografie da offrire né debiti di gratitudine verso alcuno”.

Franco Scalenghe

Un semplice accenno alla vita di Posidonio

Posidonio nacque ad Apamea di Siria, piccola città sulle rive del fiume Oronte, a Sud-Ovest di Aleppo, intorno al 135 a.C. e dovette morire intorno al 51 a. C. Di famiglia certamente facoltosa, andò in gioventù a studiare ad Atene e divenne allievo dello Stoico Panezio. Dopo il soggiorno Ateniese, probabilmente un po’ prima del 95 a.C., si stabilì nell’isola di Rodi e qui fondò la propria scuola, tra i cui allievi ed uditori figurarono anche Cicerone e Pompeo Magno. A Rodi raggiunse le più alte cariche pubbliche, ricoprendo pure quella di Pritano, e partecipò alla ambasceria che i Rodiesi inviarono a Roma nel 87 a.C. Qui trovò facile accesso e allacciò durevoli relazioni con i circoli aristocratici della capitale. Fece certamente uno o più lunghi viaggi che lo portarono a conoscere tutte le terre che si affacciano sul Mediterraneo. Visitò in particolare la Gallia e fu tra i primi a riferire dei costumi dei Celti. 

Un brevissimo accenno alle opere e al pensiero filosofico di Posidonio

Posidonio fu senza dubbio una personalità dai vasti interessi. Le sue ricerche, testimoniate dalle molte opere oggi purtroppo perdute, furono enciclopediche e spaziarono dalla Fisica all’Astronomia, dalla Geografia alla Etnologia, alla Geologia, alla Meteorologia, alla Matematica, senza dimenticare la ‘Storia Universale’, l’interesse per la quale lo spinse a continuare l’opera di Polibio descrivendo, in 52 libri, gli eventi del periodo che va dal 146 al 88 a.C. Molti autori gli sono debitori di parti sostanziali delle loro opere: basterà citare il geografo Strabone, Cicerone, Tito Livio, Plutarco, Seneca, Diodoro Siculo e Tacito.
Per quanto concerne la filosofia, Posidonio ci appare decisamente propenso a condividere l’abbandono di almeno due delle dottrine che avevano caratterizzato lo Stoicismo di Crisippo, ed a favorire un ritorno alle dottrine di Platone e di Aristotele. Il primo ripiegamento consiste nella rivalutazione della tripartizione Platonica dell’animo, giacché nel suo trattato ‘Sulle passioni’ Posidonio sostiene che noi siamo governati da tre facoltà: la concupiscente, l’irascibile e la raziocinante. Il secondo ripiegamento consiste nella rivalutazione della tripartizione Aristotelica del ‘bene’ in beni esterni, beni del corpo e beni dell’animo: fatto che porta Posidonio a sostenere che la virtù non è autosufficiente per il raggiungimento della felicità, giacché a questo scopo c’è bisogno anche di salute, di ricchezza di denaro e di vigore fisico. 

La mia scelta dei Frammenti greci di Posidonio

Posidonio è certamente un professore ricco di cognizioni in ogni campo del sapere, ma mi riesce difficile capire come possa essere considerato uno Stoico. Gliene mancano i presupposti. Non è certo un caso che sia lui che il suo maestro Panezio non siano citati neppure una sola volta da Epitteto.
Poiché non sento alcun calore nello sguardo che Posidonio posa sull’uomo, e quindi su di me, e siccome non provo alcun interesse per l’enciclopedismo di Posidonio, la mia scelta di suoi Frammenti greci si è ridotta ad una ben povera cosa.

La mia traduzione di Posidonio

Per la traduzione ho utilizzato il testo curato da Emmanuele Vimercati ‘Posidonio – Testimonianze e Frammenti’ Bompiani, 2004

POSIDONIO

Frammenti greci scelti

1. Partizioni del sapere filosofico

1.1 = SVF II, 37 = Diogene Laerzio VII, 39 
Gli Stoici affermano che la ragione insita nel cosmo è, secondo filosofia, tripartita. Una sua parte, infatti, è qualcosa di fisico, un’altra di etico e un’altra di logico. Così per primo la suddivisero Zenone di Cizio nel suo libro ‘Sulla ragione’; Crisippo nel primo libro ‘Sulla ragione’ e nel primo libro della ‘Fisica’; Apollodoro l’Efillo nel primo libro delle ‘Introduzioni ai principi’; Eudromo nel ‘Trattato elementare di Etica’; Diogene di Babilonia e Posidonio. Apollodoro chiama queste parti ‘ambiti’, Crisippo ed Eudromo le chiamano ‘specie’, altri le chiamano ‘generi’.
                                                                                                                          
1.2 = SVF II, 38 (1) = Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 16. 
Più soddisfacente è l’opinione di quanti affermano che la filosofia è divisa in fisica, etica e logica: suddivisione primo autore della quale è potenzialmente Platone. Coloro che si attengono più espressamente a questa suddivisione sono quelli della cerchia di Senocrate, i Peripatetici e inoltre gli Stoici. Di conseguenza essi agguagliano plausibilmente la filosofia ad un frutteto ricco d’ogni sorta di frutti, affinché la fisica sia simboleggiata dall’elevatezza delle piante, l’etica dal gusto saporito dei frutti e la logica dalla fortificazione delle mura. Altri affermano che la filosofia è simile ad un uovo. L’etica somiglierebbe al tuorlo, che alcuni dicono essere il pulcino; la fisica all’albume, che è il nutrimento del tuorlo; e la logica al guscio esterno. Tuttavia Posidonio, poiché le parti della filosofia sono inseparabili una dall’altra mentre invece le piante hanno un aspetto diverso dai frutti e le mura sono separate dalle piante, sollecitava di far rassomigliare la filosofia piuttosto ad un animale, col sangue e la carne che simboleggiano la fisica; le ossa e i tendini, la logica; e l’animo l’etica.

1.3 = SVF II, 38 (2) = SVF II, 41 = SVF II, 43 = Diogene Laerzio VII, 40-41
Gli Stoici fanno rassomigliare la filosofia ad un animale, assimilando la logica alle ossa e ai tendini, l’etica alle parti più carnose e la fisica all’animo. Oppure la fanno rassomigliare ad un uovo: la logica è il guscio dell’uovo, l’etica è la parte intermedia e la fisica è la parte più interna. Oppure la fanno rassomigliare ad un campo ferace: la logica è lo steccato di recinzione, l’etica è il frutto e la fisica è la terra e gli alberi. Oppure la fanno rassomigliare ad una città ben fortificata e governata secondo ragione. Nessuna delle tre parti della filosofia è separata dalle altre, come pure affermano alcuni di loro. Esse sono invece intimamente mescolate e gli Stoici ne facevano la trasmissione mista. Altri invece posizionano per prima la logica, per seconda la fisica e per terza l’etica. Tra questi vi sono Zenone, nel suo libro ‘Sulla ragione’, Crisippo, Archedemo ed Eudromo. Diogene di Tolemaide, invece, comincia dall’Etica; Apollodoro posiziona l’Etica per seconda; mentre Panezio e Posidonio cominciano dalla Fisica, secondo quanto afferma Fania, discepolo di Posidonio, nel primo libro delle ‘Lezioni di Posidonio’.

2. Fisica

2.1 Il cosmo

2.1.1 = Diogene Laerzio VII, 138
Si può chiamare cosmo la qualificazione qualitativa propria di tutta quanta la sostanza; oppure, come afferma Posidonio nei suoi ‘Elementi di Meteorologia’, cosmo è l’insieme formato dal cielo, dalla terra e dai corpi naturali in esso presenti; oppure è l’insieme di dei, di uomini e di tutte le cose nate per opera loro.

2.1.2 = SVF I, 163 = SVF II, 1022 = SVF III [AT], 44 = SVF III [BS], 3 = Diogene Laerzio VII, 148
Zenone afferma che sostanza della divinità sono il cosmo nella sua interezza e il cielo, e in modo simile parlano anche Crisippo nel primo libro ‘Sugli dei’ e Posidonio nel primo libro ‘Sugli dei’. E Antipatro nel settimo libro ‘Sul cosmo’ afferma che la sostanza della divinità è simile ad aria. Nella sua opera ‘Sulla natura’, Boeto sostiene che la sostanza della divinità è la sfera delle stelle fisse.

2.1.3 = Ario Didimo ‘Epitome’ fr. 20 = Stobeo ‘Eclogae’ I, 11, 5c; I, 133, 18 W.
Posidonio diceva che la sostanza dell’intero cosmo è un materiale privo di qualità e di forma in quanto non avente di per se stesso una sua propria figura né qualità definita, e però trovandosi esso sempre ad avere una certa figura e qualità. Diceva anche che la sostanza, quella reale, differisce dal materiale soltanto nel nostro pensiero.

2.1.4 = SVF I, 85 (1) = SVF I, 493 = SVF II, 299 = SVF II, 300 = SVF III [ArT], 12 = Diogene Laerzio VII, 134
Gli Stoici ritengono che i fondamenti del cosmo nella sua interezza siano due: quello che fa l’azione e quello che la sperimenta. Quello che sperimenta l’azione è la sostanza senza qualità, il materiale. Quello che fa l’azione è la ragione insita nel materiale, ossia la divinità. Poiché questa ragione sempiterna è connaturata a qualunque materiale, è essa a fabbricare tutte e singole le cose esistenti. A porre questo principio sono: Zenone di Cizio nel suo libro ‘Sulla sostanza’, Cleante nel suo libro ‘Sugli atomi’, Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’, verso la fine, Archedemo nel suo libro ‘Sugli elementi’ e Posidonio nel secondo libro della sua ‘Fisica’. Essi affermano che i fondamenti e gli elementi sono cose diverse, giacché i fondamenti sono ingenerati e imperituri, e gli elementi invece periscono nella conflagrazione universale. I fondamenti sono corporei privi di forma, mentre gli elementi sono corporei dotati di forma. 

2.1.5 = SVF III [AT], 43 = Diogene Laerzio VII, 140
Il cosmo è uno solo, finito e di figura sferica; giacché siffatta figura è la più acconcia al movimento, secondo quanto affermano Posidonio nel quinto libro ‘Sulla Fisica’ e i seguaci di Antipatro nei libri ‘Sul cosmo’. 

2.1.6 = SVF I, 97 (1) = SVF II, 531 = SVF III [AS], 11 = Diogene Laerzio VII, 143
Che il cosmo sia uno lo affermano Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo, Apollodoro nella ‘Fisica’ e Posidonio nel primo libro della ‘Fisica’.

2.1.7 = SVF II, 634 = Diogene Laerzio VII, 138
Secondo quanto affermano Crisippo nei suoi libri ‘Sulla Prònoia’ e Posidonio nel terzo libro ‘Sugli dei’, il cosmo è governato da mente e Prònoia. La mente ne pervade ogni parte, come fa l’animo in noi; ma ne pervade di più alcune parti e meno altre. In alcune, infatti, essa si fa spazio come forza di coesione: come accade per le ossa e i nervi. In altre invece si fa spazio come vera e propria mente, come accade con l’egemonico. 

2.1.8 = SVF II, 633 = SVF III [AS], 10 = Diogene Laerzio VII, 142-143
Che il cosmo sia una creatura vivente, razionale, animata e cognitiva, lo affermano anche Crisippo nel primo libro ‘Sulla Prònoia’, Apollodoro nella ‘Fisica’ e Posidonio. Creatura vivente nel senso che è una sostanza animata capace di sensazioni. La creatura vivente è migliore di quella non vivente, e nulla è migliore del cosmo. Dunque il cosmo è una creatura vivente. Ed esso è animato, com’è manifesto dall’animo nostro; il quale è una scintilla che di là viene. Boeto afferma invece che il cosmo non è una creatura vivente. 

2.1.9 = SVF I, 499 (3) = SVF II, 644 = Diogene Laerzio VII, 139
Così il cosmo intero, che è una creatura vivente, animata e razionale, ha come egemonico l’etere, come affermano Antipatro di Tiro nell’ottavo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo nel primo libro ‘Sulla Prònoia’ e Posidonio nel suo libro ‘Sugli dei’, quando affermano che l’egemonico del cosmo è il cielo, mentre secondo Cleante è il sole.

2.1.10 = Ps. Plutarco ‘De placitis’ II, 9
Secondo Posidonio il vuoto che sta al di fuori del cosmo non è infinito, ma grande quel tanto che è sufficiente per accogliere il cosmo quando esso si dissolve in fuoco.

2.1.11 = Stobeo ‘Eclogae’ I, 18, 4b; I, 160, 13 W.
Nel primo libro ‘Sul vuoto’ Posidonio afferma che il vuoto che sta al di fuori del cosmo non è infinito, ma grande quel tanto che è sufficiente per accogliere il cosmo quando esso si dissolve in fuoco. Aristotele afferma che non esiste il vuoto. Platone, a sua volta, dice che non esiste vuoto né all’interno né all’esterno del cosmo. 

2.1.12 = SVF I, 404 = SVF II, 543 = SVF III [AS], 5 =Diogene Laerzio VII, 140
Al di fuori del cosmo e intorno ad esso si spande il vuoto infinito, il quale è incorporeo; incorporeo nel senso che sarebbe capace di essere occupato da dei corpi ma non ne è occupato. Nel cosmo, invece, non c’è alcun vuoto, ed esso è unitario; giacché questo è il necessario risultato della cospirazione e della sintonia tra corpi celesti e corpi terrestri. Del vuoto parlano Crisippo nella sua opera ‘Sul vuoto’ e nel primo libro di quella ‘Sulle Scienze fisiche’, Apollofane nella ‘Fisica’, Apollodoro e Posidonio nel secondo libro ‘Sulla Fisica’.

2.1.13 = SVF I, 93 (1) = SVF III [AS], 8 = Ario Didimo ‘Epitome’ fr. 26 = Stobeo ‘Eclogae’ I, 8, 42; I, 105, 17 W.
Di Posidonio. Alcune cose sono infinite in senso assoluto, come il tempo inteso nella sua interezza. Altre invece lo sono in senso relativo, come il tempo passato e quello futuro; giacché sia l’uno che l’altro sono determinati come tali unicamente in relazione al tempo presente. Il tempo è definito così: il tempo è una dimensione del moto; oppure: il tempo è una misura della velocità e della lentezza. In relazione al ‘quando’, le modalità di divisamento del tempo sono: il passato, il futuro e il presente; presente che consiste di una certa parte di passato e di futuro, esattamente laddove c’è la loro determinazione distintiva: e proprio quest’ultima ne segna il tratto caratteristico. Nel caso di ‘adesso’ e di simili determinazioni temporali, il tempo è pensato con approssimazione e non con perfetta conformità. Si chiama anche ‘adesso’ l’istante di tempo più breve a percepirsi laddove c’è la determinazione distintiva del futuro e del passato.

2.1.14 = SVF I, 102 (3) = SVF II, 581 = SVF III [AT], 45 = Diogene Laerzio VII, 142
Il cosmo si genera quando la sostanza sia volta da fuoco in umidità passando attraverso uno stato aereo. Dopo di che la sua parte più densa si condensa e ne risulta la terra, mentre quella più finemente particellata diventa aria e quindi, rarefattasi ancora di più, rigenera del fuoco. In seguito, per mistura di questi elementi sono generati i vegetali, gli animali e gli altri generi di esseri. Della genesi e della rovina del cosmo parlano Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’, Posidonio nel primo libro ‘Sul cosmo’, Cleante e Antipatro nel decimo libro ‘Sul cosmo’.

2.1.15 = Ario Didimo ‘Epitome’ fr. 27 = Stobeo ‘Eclogae’ I, 20, 7; I, 177, 20 W.
Posidonio afferma che le distruzioni e le generazioni che avvengono dagli esseri agli esseri sono di quattro tipi giacché, come abbiamo detto in precedenza, egli disconobbe come impossibili a sussistere le trasformazioni a partire da esseri inesistenti e quelle risultanti in esseri inesistenti. Delle trasformazioni distruttive risultanti in esseri esistenti una è per ‘divisione’, una è per ‘alterazione’, una è per ‘fusione di qualità componenti’ ed una è quella detta per ‘generale dissoluzione’. Di queste trasformazioni distruttive quella per ‘alterazione’ interessa direttamente la sostanza, mentre le altre tre interessano le qualità della sostanza. Le generazioni, poi, avvengono in modi consequenziali alle distruzioni. La sostanza, infatti, né aumenta né diminuisce, per addizione o per sottrazione, ma muta soltanto aspetto, come avviene nel caso dei numeri e delle misure. Invece circa le qualità specifiche, come le qualità di Dione e di Teone, ci sono aumenti e diminuzioni. Perciò la qualità della sostanza di ciascun essere permane dalla generazione alla distruzione, come accade nel caso di quelli passibili di distruzione, quali gli animali, i vegetali e gli esseri a questi similari. Posidonio dice che quanto alle qualità specifiche sono due le parti capaci di accoglierle: la parte afferente alla realtà specifica della sostanza e la parte afferente quella della qualità. Quest’ultima, come abbiamo ripetuto più volte, è passibile di aumento e di diminuzione. La qualità specifica della sostanza e la sostanza dalla quale tale qualità risulta non sono la stessa cosa e neppure sono altro tra di loro. Non sono la stessa cosa semplicemente perché la qualità specifica della sostanza è parte della sostanza e ne occupa lo stesso luogo, mentre le stesse qualità specifiche di altra identica sostanza devono essere separate nello spazio, senza poter essere però pensate come distinte e a parte.

2.1.16 = Simplicio‘In Aristotelis de Caelo’ IV, 3, (310b 1)
La sintesi dell’intero discorso è questa: ciò che si muove verso il proprio ‘luogo naturale’ si muove verso il proprio contenitore; e ciò che si muove verso il proprio contenitore si muove verso ciò che gli è simile. Questo avviene, precisa Aristotele, poiché il luogo naturale ha per confine il limite dell’elemento contenitore, e l’estremità [i.e. la sfera delle stelle fisse] e il centro [i.e. la terra] contengono tutti gli elementi che si muovono, non con semplice moto circolare, ma che si muovono verso l’alto e verso il basso. Infatti il corpo che ha un moto circolare [i.e. la sfera delle stelle fisse] è l’estremità di se stesso, e solo i corpi che si muovono verso l’alto e verso il basso sono contenuti tra un’estremità ed un centro. Ciò, io credo, egli ha aggiunto non a caso, ma per mostrare che quando dei corpi si muovono verso l’alto, l’elemento sovrastante è il contenente di quello sottostante, come il fuoco lo è dell’aria; mentre quando dei corpi si muovono verso il basso il contenente è il sottostante, giacché essi si trovano più in vicinanza dei contenenti che dell’estremità e del centro. Egli dice poi che in qualche modo il contenitore diventa la forma del contenuto, e parla del contenuto come di ciò che gli sta ad immediato contatto, giacché se il luogo superiore dà la forma ai corpi che diventano leggeri allorquando si trovino nel luogo superiore, e il luogo inferiore dà la forma ai corpi che diventano pesanti; allora al fuoco la forma la dà l’estremo confine superiore [i.e. la sfera delle stelle fisse], giacché è qui che esso ha la propria perfezione; mentre è il fuoco a dare la forma all’aria poiché l’ascesa dell’aria giunge fino al confine del fuoco. A sua volta, è il centro a dare forma alla terra, mentre a dare forma all’acqua è la terra; poiché l’acqua che nasce dentro la terra, siccome ha preso la propria forma dalla terra, si separa dalla pesantezza di quella. I due elementi estremi [i.e. il fuoco e la terra], inoltre, sono analoghi per ‘forma’, in quanto produttori della forma degli elementi che sono a loro immediato contatto, mentre gli elementi centrali [i.e. l’aria e l’acqua] sono analoghi per ‘materia’, in quanto prodotti come forma dai precedenti. Infatti il fuoco cede all’aria la leggerezza, mentre la terra cede all’aria la pesantezza. Una cosa è questo modo di suddividere i quattro elementi in elementi che danno ‘forma’ e in elementi che fanno da ‘materia’. Un altro modo è quello di cui parlano, tra gli altri, lo stesso Aristotele, Teofrasto nel suo libro ‘Sulla generazione degli elementi’ e lo stoico Posidonio, che lo ha ha appreso da loro e lo utilizza ovunque nei suoi scritti: il modo è quello di suddividere i quattro elementi in elementi pesanti e freddi ai quali si dà il ruolo di materia, e in elementi leggeri e caldi ai quali si attribuisce il ruolo di dare la forma.

2.2 Il sole

2.2.1 = SVF II, 650 =Diogene Laerzio VII, 144
Il sole è di forma sferica, come affermano lo stesso Posidonio e i suoi discepoli, analogamente al cosmo. 

2.2.2 = SVF II, 650 =Diogene Laerzio VII, 144
Il sole è puro e limpido fuoco, come afferma Posidonio nel settimo libro ‘Sui fenomeni celesti’ ed è fuoco perché opera tutto ciò che opera il fuoco. 

2.2.3 = SVF II, 650 =Diogene Laerzio VII, 144
Il sole è più grande della terra, come afferma lo stesso Posidonio nel sesto libro della ‘Fisica’ ed è più grande della terra perché essa è tutta quanta illuminata da lui; ed esso illumina anche il cielo. Anche il fatto che la terra risulti avere un’ombra di forma conica significa che il sole è più grande di lei; e a causa della sua grandezza, il sole può essere scorto da ogni parte della terra. 

2.3 La luna

2.3.1 = SVF II, 671 = Aezio ‘Placita’ II, 25, 5 = Stobeo ‘Eclogae’ 1, 219, 16 W. 
Posidonio e la maggior parte degli Stoici sostengono che la luna è un misto di fuoco e d’aria. Che essa è più grande della terra, così come lo è anche il sole. Che essa ha forma sferica, e che prende diverse apparenze: luna piena, mezzaluna, luna convessa, luna falciforme.

2.3.2 = Diogene Laerzio VII, 145 
La luna, invece, capitandole di essere mischiata con dell’aria e di essere più prossima alla terra, è nutrita dalle acque potabili, come dice Posidonio nell’ottavo libro della ‘Fisica’. 

2.3.3 = SVF II, 678 (2) = Diogene Laerzio VII, 146 
La luna s’eclissa quando cade nel cono d’ombra della terra. Laonde essa s’eclissa soltanto nel corso dei pleniluni, anche se si trova ogni mese diametralmente opposta al sole. Infatti, muovendosi verso il sole obliquamente, si discosta da esso per latitudine o più verso nord o più verso sud. Tuttavia, quando la latitudine della luna diventa conforme a quella del sole nello zodiaco ed essa si trova diametralmente opposta al sole, allora si ha l’eclisse. La sua latitudine diventa conforme a quella dello zodiaco quando essa si trova nella costellazione del Cancro, dello Scorpione, dell’Ariete e del Toro, come sostengono Posidonio e la sua scuola. 

2.4 Dio, Pneuma, Destino

2.4.1 = Aezio ‘Placita’ I, 7, 19 = Stobeo ‘Eclogae’ 1, 34, 26 W. 
Secondo Posidonio dio è uno pneuma cognitivo ed igneo, privo di forma propria, capace di trasformarsi in ciò che vuole e di assomigliare a qualunque cosa.

2.4.2 = SVF II, 1063 = Giovanni Lido ‘De mensibus’ IV, 71, 48 
Cratete vuole che Zeus, il quale pervade ogni cosa, abbia avuto questo nome dal fatto che inzuppa la Terra, cioè la rende pingue. Posidonio, invece, perché è colui che governa ogni cosa. Crisippo perché tutto avviene per causa sua. Altri vogliono che il nome ‘Dio’ derivi da ‘dein’ legare, cioè tenere collegato, tenere coeso l’universo sensibile. Altri da ‘zen’ vivere. 

2.4.3 = Giovanni Lido ‘De mensibus’ IV, 81, 53 = Aezio ‘Placita’ I, 28, 5 
Secondo Posidonio la Prònoia è, in primo luogo, Zeus; in secondo luogo, la Natura; e in terzo luogo il Destino.

2.4.4 = SVF II, 915 = Diogene Laerzio VII, 149
Crisippo nei libri ‘Sul destino’, Posidonio nel secondo libro ‘Sul destino’, Zenone, e Boeto nel primo libro ‘Sul destino’ affermano che tutto avviene in armonia col destino. E il destino è la causa concatenante delle cose che sono, oppure la ragione in armonia con la quale il cosmo se la tragitta. 

2.5 La Divinazione e l’Astrologia

2.5.1 = SVF II, 1191 = Diogene Laerzio VII, 149
Gli Stoici dicono che se c’è la Prònoia ogni forma di mantica è fondata; e dichiarano, sulla base di certi esiti, che essa è un’arte, come affermano Zenone, Crisippo nel secondo libro ‘Sulla mantica’, Atenodoro e Posidonio nel secondo libro della ‘Fisica’ e nel quinto libro ‘Sulla mantica’. 

2.6 I fenomeni Meteorologici

2.6.1 = SVF III [AS], 6 = Diogene Laerzio VII, 135 
La ‘superficie’ è il limite di un corpo, ossia ciò che ha lunghezza e larghezza ma non profondità. Nel quinto libro ‘Sulle meteore’ Posidonio mette la superficie nel novero delle realtà sia divisate che sostanziali.

2.6.2 = SVF II, 702 = Diogene Laerzio VII, 153 
La grandine è una nuvola congelata trasformata in gragnola dal vento. La neve è umidità che precipita da una nuvola congelata, come dice Posidonio nell’ottavo libro della ‘Fisica’.

2.6.3 = SVF II, 692 = Diogene Laerzio VII, 152
L’arcobaleno è formato da raggi di luce che sono stati riflessi da nuvole umide; oppure, come afferma Posidonio nella sua ‘Meteorologia’, è il l’apparenza che prende una sezione del sole o della luna in una nube rorida, cava, visibile senza interruzione e che ci appare come in uno specchio sotto forma di un arco di cerchio.

2.7 I Terremoti

2.7.1 = Diogene Laerzio VII, 154
I terremoti avvengono quando il vento irrompe con irruenza nelle cavità della terra o allorché esso vi si trovi imprigionato, come afferma Posidonio nel settimo libro della ‘Fisica. Alcuni terremoti sono ondulatori, altri producono spaccature del suolo, altri ancora spostamenti orizzontali del suolo e altri, infine, sussultori.

3. Psicologia

3.1 Essenza dell’Animo

3.1.1 = SVF III [AT], 49 = Diogene Laerzio VII, 157 
Zenone di Cizio, Antipatro nei libri ‘Sull’animo’ e Posidonio affermano che l’animo è pneuma caloroso. È grazie a questo che noi siamo creature spiranti ed è da questo che noi siamo mossi.

3.2 Parti e Facoltà dell’Animo

3.2.1 = SVF I, 571 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ VIII, p. 652-653 M. 
In relazione a ciò io aggiunsi ai primi due libri altri tre libri, mostrando in essi per prima cosa che Panezio, il più scientifico degli Stoici grazie ai suoi studi di geometria, si discostò da Crisippo e nella sua trattazione ‘Sulle passioni’ dimostra che noi siamo governati da tre facoltà: la concupiscente, l’irascibile e la raziocinante. Posidonio mostrò poi che anche Cleante è della stessa opinione. Egli afferma pure che sulla base di queste fondamenta anche il discorso sulle virtù giunge a conclusioni corrette, e lo dimostra in un corposo trattato scritto da lui a parte.

3.2.2 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, p. 454-455 M. 
Aristotele e Posidonio ammettono che le facoltà dell’animo sono in numero di tre, e che grazie ad esse noi proviamo concupiscenza, ci adiriamo e siamo capaci di ragionare. È invece dottrina di Ippocrate e di Platone che le facoltà risiedano in luoghi separati, e che il nostro animo non soltanto possieda molte facoltà, ma anche che sia il risultato della composizione di parti eterogenee e differenti per sostanza.

4. Etica

4.1 Branche dell’Etica

4.1.1 = SVF III, 1 = Diogene Laerzio VII, 84
Gli Stoici dividono la parte Etica della filosofia in diversi ambiti di ricerca: quello dell’impulso, quello dei beni e dei mali, delle passioni, della virtù, del sommo bene, del primo valore, delle azioni, delle esortazioni e dissuasioni doverose. Così la suddividono i seguaci di Crisippo, di Archedemo, di Zenone di Tarso, di Apollodoro, di Diogene, di Antipatro e di Posidonio. Zenone di Cizio e Cleante, in quanto filosofi più antichi, discernettero circa queste faccende in modo più semplice. Costoro però divisero dal resto sia la Logica che la Fisica.

4.2 Le Passioni: essenza, origine, struttura

4.2.1 = SVF I, 571 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ IX, 1, p. 653 M. 
Nella sua trattazione ‘Sulle passioni’ Posidonio mostra che noi siamo governati da tre facoltà: la concupiscente, l’irascibile e la raziocinante. Posidonio mostrò poi che anche Cleante è della stessa opinione.

4.2.2 = SVF I, 209 (2) = SVF III, 462 (3) = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ IV, p. 377-379 M. 
Quando subito dopo passa ad esaminare se è d’uopo legittimare l’opinione che le passioni siano certe determinazioni oppure le conseguenze di certe determinazioni, su entrambi i punti Crisippo si discosta dagli antichi, e soprattutto ritiene valida l’ipotesi peggiore. In questo modo egli contraddice Zenone e molti altri Stoici, i quali concepiscono che le passioni dell’animo non siano le determinazioni dell’animo in quanto tali, ma le irragionevoli contrizioni e servilismi e strazi, come pure le esaltazioni ed effusioni a seguito di tali determinazioni. Posidonio, alla fine, si discostò completamente da entrambe le opinioni. Egli infatti, seguendo in tutto e per tutto l’antica spiegazione, ritiene che le passioni siano né determinazioni né affezioni che sopravvengono a delle determinazioni, bensì che esse nascano dalla facoltà irascibile e concupiscente dell’animo. Egli pertanto, nel suo trattato ‘Sulle passioni’ cerca non poche volte di sapere dai seguaci di Crisippo quale sia la causa dell’impulso eccessivo, giacché la ragione non potrebbe andare per eccesso al di là della propria ben misurata attività. È dunque evidente come la causa che fa andare l’impulso al di là dei ben misurati limiti posti dalla ragione sia una qualche altra facoltà irrazionale, così com’è una causa irrazionale, ossia il peso del corpo, quella che nella corsa ci fa andare al di là del ben misurato limite posto dalla proairesi. Il fatto sorprendente non è tuttavia che Crisippo affermi il contrario di quanto molti sostengono, e neppure che egli abbia fallito nella ricerca della verità -giacché si può ben perdonare un uomo che, in quanto tale, sbaglia- bensì il fatto che egli non abbia assolutamente messo mano a riconciliarsi con le affermazioni degli antichi filosofi e che egli litighi con se stesso, dal momento che ora legittima l’idea che le passioni nascano senza ragione e senza previa determinazione, ora è dell’avviso che le passioni non soltanto s’accompagnino a delle determinazioni ma che siano esse stesse determinazioni. Ora, il fatto che la passione non trovi il minimo appiglio in una determinazione è proprio l’esatto opposto dell’essere essa una determinazione; a meno che, per Zeus, volendo correre in soccorso di Crisippo uno non affermasse che il sostantivo ‘determinazione’ ha più di un significato e, nella spiegazione della definizione di ‘passione’, dicesse che determinazione significa ‘circospezione’; di modo che dire ‘senza determinazione’ equivalga a dire ‘senza circospezione’ e che, laddove invece ha detto che le passioni sono determinazioni, si chiamassero determinazioni gli impulsi e gli assensi. Ma se pure si accogliesse ciò, allora la passione sarà un assenso eccessivo e Posidonio domanderà nuovamente a Crisippo, oltre all’avere egli commesso un madornale errore nell’insegnarlo, la causa di questa eccessività. Se infatti la validità dell’analisi critica consiste proprio in questo, ossia nel dirimere i casi di omonimia e nel mostrare secondo quale significato le passioni nascono senza determinazione e secondo quale significato esse sono determinazioni, e se Crisippo non lo ha fatto in nessuno dei 4 libri che ha scritto ‘Sulle passioni’, come si potrebbe non biasimarlo giustamente? 

4.2.3 = SVF III, 481 = SVF III, 482 = SVF III, 466 = SVF III, 467 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ IV, p. 416-427 M.
Passerò ora ad alcune delle argomentazioni che Posidonio oppone a quelle di Crisippo. Posidonio afferma che questa definizione di ‘afflizione’, come anche molte altre definizioni delle passioni formulate da Zenone e messe per iscritto da Crisippo, confuta chiaramente il punto di vista di quest’ultimo, il quale afferma che l’afflizione è ‘opinione immediata e senza riserva che un male ci è presente’. Parlando a volte in modo più spiccio, Crisippo e i suoi seguaci proferiscono la definizione all’incirca così: ‘afflizione è opinione immediata e senza riserva della presenza di un male’, e dicono che ‘immediata’ significa ‘recente nel tempo’. Posidonio, a questo punto, li sollecita allora a spiegare la causa per cui l’opinione del male, quando è immediata, fa restringere l’animo e suscita l’afflizione; mentre invece, col passare del tempo, o non lo fa affatto più o comunque non in maniera simile. Eppure, se le dottrine di Crisippo sono vere, non ci sarebbe bisogno di interporre quell’ ‘immediata’ nella definizione. Secondo il suo punto di vista, infatti, si dovrebbe dire che l’afflizione è piuttosto opinione, come lui stesso è solito nominarla, di un male grande o non reggibile o defatigante. A questo riguardo l’obiezione di Posidonio a Crisippo è duplice. In riferimento a questa seconda definizione, gli rimemora dei saggi e di coloro che stanno facendo progressi nella virtù. I primi, infatti, si concepiscono attorniati dai massimi beni ed i secondi dai massimi mali, eppure né gli uni né gli altri sono per questo preda della passione. In riferimento alla prima definizione, poi, domanda quale sia la causa per cui non è l’opinione della presenza di un male a suscitare l’afflizione ma soltanto l’opinione immediata. E dice: “Perché tutto ciò che di inusitato e strano ci incoglie di botto, ci fa fuoriuscire e ritrarre dalle antiche determinazioni; e invece, quanto al muoverci in preda alla passione, tutto ciò che di usitato, consuetudinario, cronico ci incoglie, o non ci fa ritrarre affatto dalle antiche determinazioni o certamente ce ne fa ritrarre per poco”. Afferma perciò che bisogna familiarizzarsi a trattare le faccende non ancora presenti come se fossero presenti; e per Posidonio il termine ‘familiarizzarsi’ vuole significare qualcosa come plasmare e modellare in anticipo in noi stessi la faccenda prima che essa avvenga nel futuro, e farsene in breve un costume come se essa fosse già avvenuta. A tal proposito, perciò, egli ha assunto l’esempio di Anassagora il quale, ad uno che gli annunciava la morte del figlio, senza affatto scomporsi disse: ‘Sapevo di averlo generato mortale’. Anche Euripide fa suo questo pensiero e fa dire a Teseo:

‘Avendo imparato ciò da un uomo saggio,
io volgevo la mente a preoccupazioni e guai;
io, esule dalla mia patria, proponendo a me stesso in sorte
morti premature ed altre vie funeste; 
così che se sperimentassi qualcuna 
delle sventure che opinavo, le nuove, 
incogliendomi, non mi mordessero l’animo’.

Ed afferma che dicono così anche questi versi:

‘Se questo fosse il primo giorno delle mie sventure
e se già a lungo non avessi viaggiato nei dolori,
sarebbe verosimile che io mi dibattessi
come un puledro appena aggiogato e che or ora ha morso il freno.
Invece ormai sono frollo e affranto dai mali’.

E talora cita questi:

‘Il tempo lungo l’ammorbidirà; ora, però,
il male è ancora fresco’.

Nel secondo libro ‘Sulle passioni’, anche Crisippo testimonia che negli uomini le passioni s’ammorbidiscono col passare del tempo, pur permanendo in essi l’opinione che è loro accaduto un male, e scrive così: “Si potrebbero anche fare ricerche sul modo in cui avviene l’attenuazione della afflizione: se per spostamento di una certa opinione oppure, se tutte le opinioni restano tali, per quale causa ciò avvenga”. E poi in aggiunta afferma: “Io reputo che l’opinione di un male in quanto male presente, perduri; e che però col passare del tempo la contrizione trovi sollievo e che lo trovi pure, come credo, l’impulso alla contrizione. Ma se anche capita che l’opinione perduri, le azioni successive non le daranno retta, a causa del sopravvenire di una disposizione d’animo di qualità diversa, la quale non tiene razionalmente conto di ciò ch’è avvenuto. È così, infatti, che chi singhiozza smette di singhiozzare e che chi vuole trattenersi dal singhiozzare singhiozza, qualora gli oggetti che ha davanti, siano essi reali oppure no, producano simili rappresentazioni. È ragionevole pertanto pensare che, al modo in cui cessano lamenti funebri e singhiozzi, questo genere di cose capiti anche a proposito di quelle faccende che all’inizio emozionano di più, come dissi avvenire a proposito delle cose che suscitano il riso e di quelle simili a queste”. Lo stesso Crisippo ammette dunque che col tempo, pur perdurando l’opinione, le passioni cessano; anche se afferma che è difficile comprendere per quale causa ciò avvenga. Poi di seguito scrive di altri eventi similari circa i quali professa manifestamente di non conoscere la causa. Invece Posidonio, o caro Crisippo, non afferma affatto di ignorare le cause di siffatte passioni, bensì loda ed accoglie le tesi avanzate dagli antichi, tesi che qui di seguito dirò. Tu invece, senza ricordare quelle tesi e senza proporne una tu stesso, credi una questione risolta se ammetterai di ignorarne la causa? Eppure il tema che unifica l’intero Trattato delle ricerche logiche e quello Terapeutico delle passioni è null’altro che lo scovare le cause per cui esse nascono e per cui cessano. Giacché così, credo, si potrebbe impedire la loro genesi e farle cessare quando nascono, essendo ragionevole pensare, credo ancora, che insieme con la sparizione delle loro cause scompaiano anche simultaneamente la loro genesi e la loro sussistenza. Ma su queste questioni, stando al libro ‘Sulle passioni’, tu sei in imbarazzo e non sai scriverci qualcosa ponendo mente alla quale noi potremo impedire il sorgere di ciascuna passione e guarire quella che sia insorta. Eppure queste cose le aveva già scritte mirabilmente Platone; come segnala anche Posidonio, il quale è pieno di ammirazione per quell’uomo, lo chiama divino, tiene in gran conto la sua dottrina sulle passioni, sulle facoltà dell’animo e su quant’altro è stato da lui scritto circa il non far insorgere oppure, una volta insorte, circa il far rapidamente cessare le passioni dell’animo. Posidonio afferma anche che l’insegnamento delle virtù e quello del sommo bene è rannodato a queste questioni; e che, in complesso, tutte le dottrine etiche della filosofia sono legate come da un unico filo, che è quello della chiara cognizione delle facoltà dell’animo. Sempre lui dimostra che le passioni nascono dal rancore e dalla smania, e per quale causa nel corso del tempo esse si calmino; pur se nelle persone permangono le opinioni e le determinazioni relative al loro star male o all’essere loro accaduto un male. Ed a questo fine Posidonio sfrutta come testimone lo stesso Crisippo il quale, nel secondo libro ‘Sulle passioni’, scrive pressappoco così: “Quanto all’afflizione, alcuni paiono distornarsene come se ne fossero sazi, e queste sono appunto le parole di Omero su Achille che piange il lutto di Patroclo:

‘Ma quando fu satollo di singhiozzare e di rotolarsi’

e

‘A lui pervenne bramosia dai precordi e dalle membra’

ed ebbe l’impulso di chiamare a sé Priamo, per fargli riscontrare l’irrazionalità dell’afflizione”. Poi di seguito aggiunge questo: “Ragion per cui, col passare a questo modo del tempo sopra le vicende e attenuandosi l’infiammazione passionale, non si dovrebbe perdere la speranza che la ragione, intrudendosi e come prendendo spazio, faccia riscontrare l’irrazionalità della passione”. In questi passi Crisippo ammette in modo evidente che l’infiammazione passionale, pur permanendo la concezione e l’opinione, s’attenui col passare del tempo; che gli uomini si sazino dei moti passionali e, poiché la passione prende una certa pausa e s’acquieta, che la ragione riesca a prevalere. Queste cose sono vere, anche se alcune altre contraddicono le sue ipotesi, come le affermazioni di questo tenore: “Si dicono anche parole del genere circa la trasformazione delle passioni:

‘Del frigido pianto si è in fretta satolli’

e parole del genere rivolte a ciò che conduce all’afflizione:

‘Com’è dilettoso per chi ha cattiva sorte
singhiozzare e prorompere in lamenti sulla sorte’

e poi ancora di seguito:

‘Così disse; e in tutti fece insorgere bramosia di pianto’

ed anche

‘Ridesta il medesimo pianto, riprendi il canto che fa versare molte lacrime’.

È senza fallo possibile mettere assieme, traendole dai poeti, anche moltissime altre testimonianze del fatto che gli uomini si saziano di afflizione, di lacrime, di singhiozzi, di lamenti, di vittorie, di onori e di tutte le cose del genere, dalle quali non è arduo dedurre la causa per cui col tempo le passioni cessano e la ragione padroneggia gli impulsi. Infatti, come la parte passionale dell’animo prende di mira certi appropriati oggetti di desiderio, altrettanto essa, una volta centratili, se ne sazia; e con ciò s’arresta il loro moto, quello che padroneggiava l’impulso dell’animale e lo conduceva a proprio piacimento a ciò che lo fuorviava. Pertanto le cause delle passioni non sono inaccessibili alla ragione, come invece sostiene Crisippo, e sono del tutto chiare a chi non ha l’ambizione di mettersi a gareggiare con gli antichi filosofi. Nulla è così evidente quanto la presenza nei nostri animi di alcune facoltà le quali mirano per natura, una al piacere fisico ed un’altra al potere sugli altri e alla vittoria; facoltà che Posidonio afferma essere chiaramente visibili anche negli altri animali, come pure noi abbiamo dimostrato subito all’inizio del primo libro. Posidonio biasima rettamente l’affermazione di Crisippo secondo cui ‘a volte capita che pur in permanenza di un impulso, le azioni successive non gli corrispondano, a causa del sopravvenire di una disposizione qualitativamente differente’. È infatti inconcepibile, dice Posidonio, che sia presente l’impulso e però che l’atto corrispondente sia impedito da qualche altra causa. Laonde qualora Crisippo dica che ‘coloro i quali stanno singhiozzando smettono di singhiozzare e coloro i quali non vogliono singhiozzare si mettono invece a singhiozzare quando le circostanze oggettive producano in essi simili rappresentazioni’; Posidonio anche in questo caso gli chiede di spiegare la causa per cui molte persone che non vogliono singhiozzare, molte volte si mettono a singhiozzare e non sono capaci di trattenere le lacrime; mentre altre persone che vogliono ancora singhiozzare smettono invece di farlo ben prima di quanto vogliano. Ciò manifestamente avviene a causa del fatto che i moti passionali incalzano così violentemente da non poter essere dominati da parte della decisione razionale di non piangere, oppure perché essi sono cessati così completamente da non poter più essere ridestati dalla decisione razionale. Si scoprirà così la battagliera contrapposizione tra ragione e passione, ed evidentemente risulterà salvaguardata l’esistenza delle facoltà concupiscente ed irascibile dell’animo, giacché questi fenomeni avvengono non, per Zeus, come sostiene Crisippo, per cause illogiche bensì a causa di quelle facoltà delle quali parlano gli antichi filosofi. Infatti non erano soltanto Aristotele e Platone ad avere questa opinione. Prima di loro essa fu condivisa da altri filosofi e tra di essi da Pitagora; il quale, secondo Posidonio, fu il primo ad affermarla, mentre Platone la elaborò e la strutturò in modo più perfetto. Perciò sia le abitudini sia il tempo nel suo complesso appaiono avere la massima influenza sui moti passionali. La parte irrazionale dell’animo si familiarizza rapidamente con le abitudini delle quali sia nutrita. Poi, col passare del tempo, come è stato detto in precedenza, quando le facoltà irrazionali dell’animo si siano saziate degli oggetti per i quali in precedenza smaniavano, ecco che le passioni si acquetano. Invece sia le cognizioni logiche, sia le determinazioni, sia tutto il complesso delle conoscenze scientifiche ed artistiche, a causa del puro e semplice trascorrere del tempo non appaiono diventare difficili da eliminare, come sono invece le abitudini passionali, né difficili da ritrattare e da sospendere, come sono invece l’afflizione e le altre passioni. Chi mai, infatti, col passar del tempo si è saziato dell’idea che due volte due faccia quattro e perciò l’ha riposta in un canto e si è fatto un’altra opinione? Chi mai si è nauseato dell’idea che tutti i raggi di una circonferenza siano uguali? E anche degli altri teoremi nessuno si è saziato ed ha riposto in un canto l’antica opinione, come si ripongono invece in un canto il singhiozzare, l’affliggersi, il gemere, il mugugnare, il lamentarsi e tutte le altre manifestazioni di questo genere, pur restando identiche le concezioni degli eventi accaduti come ‘mali’. Senza fallo queste considerazioni sono sufficienti a dimostrare l’erroneità delle tesi di Crisippo sulle passioni dell’animo, ed ancor più a monte sulle facoltà che le suscitano. Nondimeno ho intenzione di tornare a discutere sulle tesi di Crisippo nel mio quinto libro, tralasciando però la maggior parte delle sue tesi erronee e ricordando soltanto quelle nelle quali egli contraddice se stesso ed ha l’ardire di pronunciare affermazioni contrarie alla più lampante evidenza. E in tale trattato ricorderò anche le critiche che Posidonio muove alle tesi di Crisippo.

4.2.4 = SVF III, 461 (2) = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, p. 429 M.
Nel primo libro ‘Sulle passioni’ Crisippo prova a dimostrare che le passioni sono determinazioni della parte raziocinante dell’animo; mentre Zenone legittimava invece l’idea che le passioni siano non le determinazioni come tali ma le contrizioni e le effusioni, le esaltazioni e le depressioni dell’animo che sopravvengono ad esse. Posidonio dissente da entrambe queste tesi e invece loda ed ammette per sé la dottrina di Platone, mentre ribatte ai seguaci di Crisippo mostrando che le passioni sono né determinazioni né affezioni che sopravvengono a delle determinazioni, bensì moti di certe altre facoltà irrazionali dell’animo cui Platone ha dato il nome di facoltà concupiscente e di facoltà irascibile.

4.2.5 = SVF I, 570 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, 6, p. 456 M. 
Egli afferma che il punto di vista di Cleante sulla parte passionale dell’animo appare da questi versi:

[Ragione] – Cos’è mai che vuoi, o Rancore? Dimmelo
[Rancore] – Che tu faccia, o Ragione, tutto ciò che io voglio
[Ragione] – Parli da re; però comunque ripetilo
[Rancore] – Che le cose per cui smanio, avvengano!’

Posidonio afferma che questo scambio di battute è di Cleante e che mostra con evidenza il suo punto di vista sulla parte passionale dell’animo, se appunto ha fatto dialogare l’un l’altro Ragione e Rancore.

4.2.6 = SVF III, 460 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, 6 (168), p. 448 M. 
“Il causativo delle passioni, cioè dell’operare in modo inammissibile con la natura delle cose e della vita infelice, sta proprio nel non accompagnarsi in tutto al demone che è in lui stesso, cui è congenere e che ha natura simile alla ragione che governa il cosmo intero; evitando nel contempo di portarsi verso la parte peggiore e animalesca dell’uomo. I seguaci di Crisippo trascurano invece ciò, e in questi libri non migliorano la nostra conoscenza della causa delle passioni, né opinano rettamente in quelli sulla felicità e sull’ammissibilità con la natura delle cose. Essi infatti non vedono che il primo requisito per la felicità è di non lasciarsi guidare in nessun caso dalla parte irrazionale, infelice e atea dell’animo”. Con queste parole Posidonio palesemente insegna quanto grandemente aberrino i seguaci di Crisippo, non soltanto nei ragionamenti circa le passioni ma anche in quelli circa il sommo bene; giacché il ‘vivere in modo ammissibile con la natura delle cose’ non è vivere come dicono loro ma come insegna Platone.

4.2.7 = SVF III, 229a = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, 5, p. 437 M. 
E in primo luogo metteremo mano alla trattazione del governo dei bambini. Infatti, non si può affermare che i loro impulsi siano sotto la tutela della ragione (giacché non hanno ancora la ragione), né che essi non provino rancore, afflizione, godimento; che non ridano, che non rompano in alti lamenti e non sperimentino miriadi di altre passioni del genere. Anzi, le passioni sono molte di più e più veementi nei bambini che negli adulti. Queste evidenze sono invero inconseguenti con i giudizi teorici di Crisippo ed anche col giudizio che non vi sia alcuna tendenza naturale all’appropriazione del piacere fisico ed all’estraniazione dal dolore fisico. Ci sono dunque per natura in noi questi tre tipi di appropriazione, corrispondenti a ciascuna specificità dei tre pezzi dell’animo: appropriazione del piacere fisico per via del pezzo concupiscente; appropriazione dell’essere vincenti per via del pezzo irascibile; appropriazione del bello per via del pezzo raziocinante. Epicuro osservò soltanto l’appropriazione del pezzo peggiore dell’animo e Crisippo quella del pezzo migliore, poiché ha affermato che noi siamo imparentati solo al bello, che è manifestamente anche il bene. Soltanto agli antichi filosofi fu dato di osservare tutte e tre le appropriazioni. Poiché dunque ha lasciato da parte le prime due, Crisippo dirà verosimilmente di difettare di una spiegazione della genesi del vizio, non potrà citarne la causa né i modi di sussistenza, e neppure potrà scovare come mai i bambini aberrino; tutte cose che ragionevolmente, io credo, anche Posidonio di lui biasima e confuta. Ma invero si vede che quand’anche un bambino sia nutrito di probe abitudini e sia convenientemente educato, comunque incappa in qualche aberrazione; e proprio questo fatto anche Crisippo lo ammette. Eppure era contingente per lui, che disdegna cose che appaiono evidenti, ammettere soltanto ciò ch’è conseguente con le sue ipotesi ed essere dell’avviso che se i bambini fossero ben condotti, essi diverrebbero comunque, con il passare del tempo, uomini saggi. Ma non ha avuto l’audacia di fare questa dichiarazione smentita dall’evidenza ed ha ammesso che se anche saranno educati solo da un filosofo e non osserveranno né ascolteranno giammai un esempio di vizio, ugualmente questi bambini non diventeranno di necessità filosofi. Duplice è infatti la causa del pervertimento: una è quella ingenerata dalla catechesi della maggioranza degli uomini, l’altra è ingenerata dalla stessa natura delle cose. Se Crisippo pare ammettere, non per le parole usate ma per la forza delle argomentazioni addotte, che vi sono in noi per natura un’appropriazione ed un’estraniazione verso ciascuna delle entità dette (cioè verso il piacere e il dolore fisico, verso l’onore e il disonore). Qualora infatti egli affermi che i pervertimenti circa i beni e i mali si ingenerano nei viziosi a motivo della persuasività delle rappresentazioni e della catechesi, bisogna domandargli quale sia la causa per cui il piacere fisico e la sofferenza ci mettono davanti un’immagine persuasiva, l’una del bene e l’altra del male. E allo stesso modo anche perché la vittoria alle Olimpiadi e l’erezione di statue siano cose lodate e giudicate beate dai più e da noi intese come beni; e invece, circa la sconfitta e il disonore, noi ci persuadiamo prontamente che siano mali. Nel presente il mio ragionamento si sofferma contro i seguaci di Crisippo, i quali non conoscono altro di ciò che attiene alle passioni; neppure che le mescolanze degli umori del corpo elaborano moti passionali appropriati a se stesse. In proposito, poi Crisippo in persona non soltanto nulla ha detto di decente, ma neppure ha lasciato dietro di sé a qualcuno dei seguaci risorse per il rinvenimento della verità, poiché ha posto a supporto del suo ragionamento uno zoccolo di cattiva qualità.

4.2.8 = SVF III, 465 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, 2, p. 411 M. 
Ancor più assurdamente di Posidonio, Crisippo conviene nell’idea che la malattia dell’animo non assomigli a quella di chi è affetto da malattie periodiche, come le febbri terzane e quartane, e scrive così: “Bisogna dunque sottintendere che la malattia dell’animo sia del tutto simile a quella condizione febbrile del corpo per la quale insorgono, non periodicamente ma disordinatamente, febbri e brividi indipendenti dalla nostra disposizione fisica e per il sopravvenire di piccole cause”. Non so poi sulla base di quale opinione Crisippo affermi che quanti hanno facilità di ammalarsi sono già ammalati e che invece quanti sono già ammalati non lo sono interamente.
In seguito Galeno paragona quanti piangono per un lutto o sono preda della passione amorosa o dell’invidia ai malati di febbri terzane e quartane e invece considera coloro nei quali non v’è lutto né sono presenti accenni di smania o di rancore pressoché uguali alle persone in salute, giacché taluni di costoro però vanno facilmente soggetti alle malattie, taluni no.

4.2.9 = SVF III, 469 = Galeno ‘De moribus animalium’ Ed. Bas. 1, 351, K., p. 820. 
Per questo motivo Posidonio, stando al suo trattato ‘Sulle passioni’, pensa cose del tutto opposte a Crisippo; e nel libro ‘Sulla differenza delle virtù’ biasima molte delle affermazioni fatte da Crisippo nelle sue ricerche logiche sulle passioni, e ancora di più quelle contenute nei libri sulle differenze delle virtù.

4.2.10 = SVF III, 480 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ IV, 5 (144), p. 368 M. 
Dianzi ho citato il passo tratto dal primo libro ‘Sulle passioni’ in cui Crisippo afferma che le passioni nascono all’infuori della determinazione. E che egli sia della medesima opinione anche nel suo libro ‘Terapeutico’, che è registrato anche come ‘Etico’, è possibile apprenderlo da questo passo: “Il motivo per cui le passioni si chiamano infermità non sta nel determinare che queste cose siano beni ma nell’esservi piombati sopra con maggior forza di quanto la natura richieda”. Se qualcuno avesse frainteso, il punto di vista di Crisippo sarà appalesato da quanto segue: “Donde si dice non irragionevolmente che alcuni ‘vanno pazzi per le donne’ e ‘vanno pazzi per gli uccelli’ ”. Ma, per Zeus, forse qualcuno potrebbe dire che il ‘pazzesco’ non nasce a causa di una facoltà irrazionale ma dall’avere noi estrovertito più di quanto convenga sia la determinazione che l’opinione, il che è come dire che le infermità nascono nell’animo non banalmente per avere concepito falsi giudizi su delle cose come beni o come mali, ma per il legittimarle come il massimo dei beni o dei mali. Infermità non è, infatti, l’opinione che la ricchezza di denaro sia un bene, ma il legittimarla come il sommo dei beni e il concepirsi indegno di vivere da parte chi ne sia privo. Giacché in ciò consistono l’avarizia e l’amore per il denaro, i quali sono infermità dell’animo. Ma a chi è di questo avviso Posidonio obietta e dice più o meno così: “Le cose dette da Crisippo… 

4.2.11 = SVF III, 259 = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ VII, (206,583) M. 
Non ci siamo soltanto dilungati a contestare i loro ragionamenti interrogativi sull’egemonico dell’animo, ma pure a contestare le cose scritte da Crisippo sulle passioni dell’animo nelle tre Memorie logiche e nel ‘Terapeutico’, dopo avere anche mostrato che egli litiga con se stesso. Abbiamo menzionato anche le compilazioni di Posidonio, nella quali questi loda l’antica dottrina e contesta le tesi erronee di Crisippo sulle passioni dell’animo e sulla differenza delle virtù. Crisippo, infatti, nello stesso modo in cui abolisce le passioni dell’animo, come se esistesse soltanto la parte raziocinante di esso e non anche la parte concupiscente e la parte irascibile, così pure abolisce tutte le restanti virtù ad eccezione della saggezza. Eppure anche qui, se si ripercorressero col ragionamento gli scritti di Crisippo ‘Sulla differenza delle virtù’ in 4 libri e si tormentassero le tesi da lui discusse anche in un altro libro nel quale, contestando il ragionamento di Aristone, mostra che le virtù sono qualità, non ci sarebbe bisogno di uno o due ma di tre o 4 libri. C’è a questo punto, invece, solo un mio breve e scientifico ragionamento che contesta Crisippo, in quanto non ambasciatore di verità e scrittore troppo prolisso. Al contrario, coloro che non hanno educazione al metodo dimostrativo e non sanno neanche lontanamente cosa esso sia, poiché pongono mente soltanto alla mole ed allo stuolo dei libri scritti da Crisippo, legittimano l’idea che in essi si trovino tutte verità. Ed effettivamente nella maggior parte di essi ci sono verità, soprattutto in quel libro in cui egli mostra che le virtù sono qualità. Ma il fatto è che le affermazioni fatte in questo libro contraddicono chi ipotizza esservi una sola facoltà dell’animo, quella che ha nome di facoltà logica e critica, e chi ne abolisce la parte concupiscente e la parte irascibile, proprio quelle che Crisippo ha abolito; e questo è ciò per cui uno potrebbe biasimarlo. Non lo si biasimerebbe, invece, per il fatto che la scuola di Aristone sia stata veramente abbattuta dai suoi scritti. Aristone, infatti, legittima l’idea che la virtù sia una sola, ma che sia chiamata con più nomi a seconda di ciò con cui è in relazione. Crisippo mostra, quindi, che lo stuolo delle virtù e dei vizi non si genera nella relazione con qualcosa ma, invece, nelle appropriate sostanze che cambiano qualitativamente, come voleva il ragionamento degli antichi filosofi. Tesi che, brevemente svolta, Crisippo ha discusso con altre parole nel libro ‘Le virtù sono qualità’, tuttavia con epicherèmi che non si confanno a chi ha proposto esservi soltanto la parte raziocinante dell’animo ed ha abolito la sua parte passionale. Come posso dunque essere io la causa della lunghezza di questi discorsi, se ora sono costretto a dimostrare che Crisippo ha verosimilmente abbattuto l’opinione di Aristone utilizzando epicherèmi di un’altrui scuola?

4.3 La virtù e il sommo Bene

4.3.1 = Diogene Laerzio VII, 84
Posidonio, nel primo libro della sua ‘Etica’, afferma che testimonianza dell’esistenza della virtù è il fatto che Socrate, Diogene, Antistene e i loro discepoli abbiano fatto in essa dei progressi. D’altra parte anche il vizio esiste realmente, perché si contrappone alla virtù.

4.3.2 = Diogene Laerzio VII, 86-87
Ma poiché agli animali è sopravvenuto in più l’impulso, adoperando il quale essi procedono verso gli scopi loro appropriati, ciò ch’è secondo natura per gli animali coincide col governarsi secondo l’impulso. E dal momento che, per un più perfetto reggimento, è stata data alle creature logiche la ragione, vivere rettamente secondo ragione diventa per queste ciò ch’è secondo la natura delle cose. La ragione, infatti, sopravviene in esse quale artista dell’impulso. E perciò Zenone per primo, nel suo libro ‘Sulla natura dell’uomo’ disse che il sommo bene è vivere in modo ammissibile con la natura, il che significa vivere secondo virtù; giacché è la nostra natura a condurci alla virtù. In modo simile parlano Cleante nel suo libro ‘Sul piacere fisico’, Posidonio ed Ecatone nei suoi libri ‘Sui sommi beni’.

4.3.3 = SVF III, 12 (1) = Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placitis’ V, 6, p. 450 M. 
Non accontentandosi di questo, Posidonio attacca i seguaci di Crisippo in maniera ancor più evidente e veemente per non avere rettamente spiegato il ‘sommo bene’. Il suo discorso è questo: “Una volta messo da parte ciò, alcuni riducono il ‘vivere in modo ammissibile con la ragione’ al fare tutto il fattibile per conseguire le cose primarie secondo natura, e lo assimilano all’esporsi come scopo il piacere della carne o l’assenza di fastidi o qualcos’altro del genere. In questa enunciazione è palese una contraddizione, e nulla che abbia relazione col bello e col felicitante. Le cose primarie secondo natura, infatti, sono di necessità concomitanti al ‘sommo bene’, ma non sono il ‘sommo bene’. Una volta che si abbia invece un retto discernimento del sommo bene, allora è possibile utilizzarlo per fare a fette le aporie che i sofisti avanzano. Non certo con definizioni del tipo ‘vivere secondo perizia delle cose che avvengono per natura intesa nel suo complesso’, che equivale a dire ‘vivere in modo ammissibile con la ragione’, dal momento che questa formulazione ha invece per intento, in misura non piccola, l’ottenimento di cose indifferenti.

4.3.4 = SVF I, 180 = SVF I, 552 (3) = SVF III [AT], 58 = SVF III [ArT] 21 = Clemente Alessandrino ‘Stromata’ II, 21, 129, 1-5
A sua volta lo Stoico Zenone ritiene che il sommo bene consista nel vivere secondo virtù. Cleante ritiene che il sommo bene sia il vivere in modo ammissibile con la natura. Diogene di Babilonia credeva che il sommo bene consista nell’operare razionalmente, la qual cosa egli discerneva consistere nella selezione delle cose che sono secondo natura. Antipatro, uno della cerchia dei discepoli di questo Diogene, concepisce che il sommo bene giaccia nel selezionare per noi, continuamente ed inviolabilmente, le cose che sono secondo natura e nello scartare quelle che sono contro natura. A sua volta Archedemo spiegava così il sommo bene: “Sommo bene è il vivere selezionando per sé le cose più grandi e principalissime secondo natura, che sono anche quelle oltre le quali è impossibile andare”. Oltre a questi, Panezio dichiarava essere ‘sommo bene’ il vivere in armonia con le risorse dateci dalla natura. Infine, secondo Posidonio, sommo bene è il vivere avendo chiara conoscenza del vero ordinamento del cosmo, facendo al possibile la nostra parte nello strutturarlo con il non lasciarci in nessun caso guidare dalla parte irrazionale dell’animo. Alcuni degli Stoici più recenti lo hanno definito così: ‘sommo bene’ è il vivere in modo conseguente alle caratteristiche strutturali dell’uomo.

4.3.5 = SVF III, 261 = SVF III [AT], 60 = Diogene Laerzio VII, 92 
Panezio afferma che la virtù è duplice: teoretica e pratica. Altri dicono che è triplice: logica, naturale ed etica. I seguaci di Posidonio affermano che le virtù sono quattro; i seguaci di Cleante, di Crisippo e di Antipatro che sono ancora di più. Apollofane sostiene invece che la virtù è una sola: la saggezza.

4.3.6 = SVF I, 567 = Diogene Laerzio VII, 91
Anche Crisippo, nel primo libro ‘Sul sommo bene’, Cleante, Posidonio nei ‘Protrettici’ ed Ecatone affermano che essa, dico la virtù, è insegnabile; e che sia insegnabile è manifesto dal fatto che degli insipienti diventano virtuosi.

4.4 Il Male

4.4.1 = Diogene Laerzio VII, 103
Ecatone, Apollodoro e Crisippo inoltre affermano che ciò di cui è possibile un uso buono o cattivo non è un bene. E siccome della ricchezza di denaro e della salute è possibile fare un uso buono o cattivo, ecco che né la ricchezza di denaro né la salute sono beni. Tuttavia Posidonio afferma che anche questi sono beni. 

4.4.2 = Diogene Laerzio VII, 127-128
Secondo quanto dicono Zenone, Crisippo nel primo libro ‘Sulle virtù’ ed Ecatone nel secondo libro ‘Sui beni’, la virtù è autosufficiente per la felicità. Tuttavia Panezio e Posidonio dicono che la virtù non è autosufficiente, e affermano che c’è bisogno anche di salute, di proventi e di vigore fisico. 

4.4.3 = SVF III, 367 = Diogene Laerzio VII, 129
Inoltre ha il loro beneplacito il dire che noi non abbiamo alcun obbligo di giustizia verso gli altri animali, a causa della dissomiglianza tra noi e loro, secondo quanto affermano Crisippo nel primo libro ‘Sulla giustizia’ e Posidonio nel primo libro ‘Su ciò ch’è doveroso’. 

4.4.4 = Diogene Laerzio VII, 124
Come affermano Posidonio nel primo libro ‘Sulle attività doverose’ ed Ecatone nel terzo libro ‘Sui paradossi’, gli stoici dicono che che il sapiente auspicherà postulando per sé dei beni da parte degli dei.

4.5 Frammenti di Logica

4.5.1 = SVF I, 631 = Diogene Laerzio VII, 54
Gli Stoici affermano che criterio della verità è la rappresentazione catalettica, cioè quella del realmente esistente, come dicono Crisippo nel secondo libro della ‘Fisica’, Antipatro e Apollodoro. Boeto ammette più criteri di verità: mente, sensazione, desiderio e scienza. Invece Crisippo, nel primo libro ‘Sulla ragione’ si differenzia da lui ed afferma che i criteri di verità sono la sensazione e la prolessi. La prolessi è un concetto naturale degli universali. Alcuni altri degli Stoici più antichi riservano invece la funzione di criterio di verità alla retta ragione, come afferma Posidonio nel suo libro ‘Sul criterio’. 

4.5.2 = SVF II, 122 = Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio VII, 62
La dialettica, come afferma Posidonio, è scienza del vero, del falso e di ciò ch’è né l’uno né l’altro. Essa è anche, come afferma Crisippo, scienza dei significanti e dei significati.

4.5.3 = Diogene Laerzio VII, 60
L’elocuzione poetica, come afferma Posidonio nella sua ‘Introduzione all’elocuzione’ è un’elocuzione in versi o ritmata, avente cioè una struttura che va al di là della forma discorsiva. Elocuzione ritmata è la seguente:

‘O terra immensa ed etere di Zeus’

L’elocuzione poetica dotata di significato in quanto ritrae delle faccende divine e umane è poesia. 

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PANEZIO di RODI

PANEZIO: LO STOICISMO COME UN IMPERIALISMO?

Qualche rapido cenno sulla vita di Panezio.
Panezio nacque a Lindo, nell’isola di Rodi, da una famiglia di nobili origini e politicamente in vista giacché suo padre, Nicagora, fu uno degli ambasciatori che l’isola inviò a Roma nel 169 a.C. L’anno di nascita di Panezio rimane incerto, ma può essere ragionevolmente fissato tra il 185 e il 180 a.C. Tra il 165 e il 150 a.C. egli fu allievo, tra gli altri, di Cratete di Mallo, di Diogene di Babilonia e di Antipatro di Tarso. L’evento più significativo della sua vita fu sicuramente la sua venuta a Roma e il contatto, tramite l’amico Polibio, con il circolo degli Scipioni: evento, questo, che può essere collocato negli anni compresi tra il 145 e il 141 a.C. Panezio dovette rimanere a Roma per una quindicina d’anni, cioè fino al 129 a.C., anno della morte di Scipione Emiliano, del quale era stato precettore e consigliere politico.  Dopo questa data tornò ad Atene e qui subentrò ad Antipatro nella guida della Scuola. Incerta è la data della sua morte, che viene comunque collocata tra il 110 e il 100 a.C. Delle sue opere possediamo qualche titolo e scarsissimi frammenti. La più nota, ossia quella ‘Sul doveroso’ (Περ το καθήκοντος), fu ampiamente utilizzata e parafrasata da Cicerone nel suo libro ‘Sui doveri’ (‘De officiis’).
 
Un brevissimo accenno al pensiero filosofico di Panezio.
Nel campo della ‘Fisica’, Panezio si mostra contrario alla tradizionale dottrina Stoica della ‘conflagrazione universale’, ossia della distruzione del cosmo nel fuoco e della sua rigenerazione ciclica dal fuoco; e sembra invece incline a privilegiare una sua generica incorruttibilità e quindi eternità. In conseguenza di ciò mostra di non riporre nella ‘divinazione’ quella fiducia che vi era riposta da altri maestri Stoici, i quali interpretavano le vicende umane come una catena di eventi causali strettamente interconnessi dal destino e per cui, grazie alla conoscenza di antecedenti ‘segni’ poteva darsi una previsione certa dei successivi ‘eventi’. Notevole è infine la sua netta presa di posizione a favore della mortalità dell’anima umana. 
In campo ‘Etico’, la posizione filosofica di Panezio non può non tenere conto della principale novità del suo tempo, ossia dal raggiunto e completo dominio di Roma su tutti i popoli mediterranei: dominio conseguente alla vittoria sui Macedoni a Pidna nel 168 a.C. e alla distruzione di Cartagine nel 146 a.C. La riflessione di Panezio al riguardo, almeno se ci rifacciamo alla dettagliata presentazione che nelle sue opere ce ne fa Cicerone, si concentra in particolare su tre ordini di questioni: sull’origine della società umana e dello Stato, sulla Costituzione politica mista e sul ruolo del cosiddetto ‘Princeps’. Laddove, partendo dall’analisi dei ‘doveri d’ufficio’ ossia di ciò che per l’uomo è confacente: a) in quanto semplice animale, b) in quanto animale inserito in un certo ambiente naturale e c) in quanto uomo in relazioni naturali e acquisite con altri uomini; il tutto si risolve poi, nella sostanza, in una sofisticata giustificazione della necessità storica dell’imperialismo romano. 

Una domanda
Pur se il civil gregge ammira Panezio, io oso chiedere quale rigore filosofico abbia, e come possa essere presa sul serio, l’opera di chi ha scritto libri e libri sulla virtù, sul buon governo del mondo e sulla giustizia quando è evidente che egli ha semplicemente chiacchierato di un ‘modello culturale’ di suo gradimento e non della vera ‘natura delle cose’? Ne sia prova la toccante stupidità del suo aedo Cicerone quando scrive la lode della giustizia in questi termini: “La forza della giustizia è tale che nemmeno chi si nutre di crimini e misfatti riesce a vivere senza di essa. Chi infatti sottrae o ruba qualcosa a uno che fa il ladro insieme a lui, non avrà più alcun posto nella banda e, se non ripartisce equamente il bottino, viene ucciso o abbandonato dai compagni” Cicerone ‘De officiis’ II,11,40.

Di personaggi di questo genere ecco cosa ne penserà Epitteto, due secoli dopo, in ‘Diatribe’ III,7,29-36:
-Ma io sono ricco di denaro e non ho bisogno di nulla- 
Perché dunque ti ostini a simulare di essere un filosofo? Ti bastano l’argenteria e l’oreficeria: che bisogno hai di principi filosofici? 
-Ma sono anche giudice dei Greci- 
Sai giudicare? Cosa t’ha dato questo sapere? 
-Cesare ha scritto per me un codicillo- 
Che te ne scriva pure un altro, affinché tu possa fare il giudice anche in questioni di musica! Che pro te ne viene? Inoltre, in che modo sei diventato giudice? Dopo avere baciato quale mano, quella di Sinforo o quella di Numenio? Dopo esserti coricato davanti alla camera da letto di chi? Dopo avere mandato doni a chi? E quindi non t’accorgi che il tuo essere giudice tanto vale quanto vale Numenio? 
-Ma posso buttare in prigione chi voglio- 
Sì, come un sasso. 
-Ma posso far prendere a legnate chi voglio- 
Sì, come un asino. Questo non è comandare uomini. Comandaci come creature proairetiche, mostrandoci quanto è utile, e noi ti seguiremo. Mostraci quanto utile non è, e noi ce ne distoglieremo. Strutturaci tuoi emuli, come faceva Socrate di sé. Lui era colui che ci comanda come uomini, colui che ci ha strutturato in modo che noi abbiamo subordinato ad essa, alla retta proairesi, il desiderio e l’avversione, l’impulso e la repulsione. “Fa’ questo, non fare quest’altro; se no, ti farò buttare in prigione”. Questo non è più comandarci come creature proairetiche. Dì invece: “Come Zeus costituì, questo fa’; se non lo farai sarai punito, sarai danneggiato”. Quale danno? Nessun altro se non quello di non fare quel che si deve. Manderai in malora l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, il cittadino del mondo che è in te. Non cercare altri danni più grandi di questi.

La mia scelta dei Frammenti greci di Panezio
Panezio è certo un professore ricco di cognizioni in ogni campo dello scibile e capace di dare una risposta su questioni storiche, matematiche e scientifiche; ma mi riesce difficile capire come possa essere considerato uno Stoico. Gliene mancano i presupposti. Non è certo un caso che sia lui che il suo allievo Posidonio non siano citati per nome neppure una sola volta da Epitteto.
Poiché non provo alcun interesse per la sua analisi e la sua giustificazione dell’imperialismo romano, la mia scelta di Frammenti greci che lo riguardano, che già di per sé sono pochissimi, si è sublimata in qualcosa di così sottile da diventare quasi evanescente.

La mia traduzione di Panezio

Per la traduzione ho utilizzato il testo curato da Emmanuele Vimercati ‘Panezio – Testimonianze e Frammenti’ Bompiani, 2002

PANEZIO

Frammenti greci scelti 

1. Frammenti certi

1.1. Fisica, Astrologia, Divinazione

1.1.1 = Diogene Laerzio VII, 41
Panezio e Posidonio cominciano <l’insegnamento della filosofia> dalla Fisica, secondo quanto afferma Fania, discepolo di Posidonio, nel primo libro delle ‘Lezioni di Posidonio’.

1.1.2 = Proclo ‘In Platonis Timaeum’ B 50 (= I, 162, 11-15 Diehl)
A proposito di fenomeni celesti, Panezio ed alcuni altri filosofi platonici erano al corrente del fatto che la mitezza del clima apporta con sé la mitezza dei saggi; sicché l’Attica, in ragione della mitezza delle sue stagioni dell’anno, è idonea alla generazione di uomini saggi.

1.1.3 = Anonimo ‘Comment. in Arat. Reliq.’ pag. 97 Maass
Alcuni filosofi, tra i quali lo stoico Panezio e l’accademico Eudoro affermano che la zona torrida <della terra> è abitata poiché vi avviene un certo mescolamento dell’aria, dovuto al fatto che i venti periodici sono colà più veementi e al fatto che, data l’evaporazione dell’immenso mare là presente, si mischiano la sua esalazione fredda e la vampa del calore. 

1.1.4 = Stobeo ‘Eclogae’ I, 20, p. 171, 5-7 Wachsmuth-Hence
Panezio ritiene più persuasiva ed è a lui più gradita l’ipotesi della eternità del cosmo invece di quella della trasformazione dell’intero cosmo in fuoco.

1.1.5 = SVF III [BS], 7 = Filone Alessandrino ‘De aetern. mundi’ 15, p. 248 Bern. p. 24, 20 Cum. 
Boeto di Sidone e Panezio, uomini solidamente formati nelle dottrine Stoiche, in quanto ispirati da Dio si lasciarono alle spalle le conflagrazioni universali e le palingenesi e disertarono armi e bagagli in favore di una dottrina più santa, ossia quella dell’essere il cosmo imperituro.

1.1.6 = Diogene Laerzio VII, 142
Della genesi e della rovina del cosmo parlano Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’, Posidonio nel primo libro ‘Sul cosmo’, Cleante e Antipatro nel decimo libro ‘Sul cosmo’. Panezio dichiara invece che il cosmo è imperituro.

1.1.7 = Epifanio ‘De fide’ 9, 45, C.G.S. III, p. 509 Holl.
Panezio di Rodi soleva dire che il cosmo è immortale e non soggetto ad invecchiamento; non riservava alcuna attenzione alla divinazione; levava di mezzo tutti i discorsi sugli dei e affermava che quanto si dice sulla divinità sono soltanto corbellerie.

1.1.8 = Diogene Laerzio VII, 149
Gli Stoici dicono che se c’è la Prònoia ogni forma di mantica è fondata; e dichiarano, sulla base di certi esiti, che essa è un’arte, come affermano Zenone, Crisippo nel secondo libro ‘Sulla mantica’, Atenodoro e Posidonio nel secondo libro della ‘Fisica’ e nel quinto libro ‘Sulla mantica’. Panezio afferma invece che la mantica è priva di fondamento.

1.2. Il Trattato ‘Sul Doveroso’
Περ το καθήκοντος

1.2.1 = Michael Apostolius ‘Praefatio’ 2 (II, 235 Leutsch)
Anche il sapiente Cicerone ha fatto suo il pensiero di Panezio, il quale compilò un trattato sugli atti doverosi senza però spiegare in alcun luogo di tale trattato cosa sia un atto doveroso.

1.3. Etica

1.3.1 = SVF III, 280 = Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 63, 10-64 Wachsmuth-Hence 
Le virtù differiscono però una dall’altra per punti capitali. Così punto capitale della saggezza è, cardinalmente, conoscere i principi generali di ciò che deve essere fatto ed effettuarlo; secondariamente, conoscere i principi generali di ciò che deve essere assegnato <di ciò che deve essere scelto e di ciò che deve essere retto> al fine di effettuare senza errori ciò che deve essere fatto. Punto capitale proprio della temperanza è, cardinalmente, procurare impulsi stabili e conoscerne i principi generali; secondariamente, conoscere ciò ch’è oggetto delle altre virtù, per condurci senza errori negli impulsi. In modo simile la virilità è, cardinalmente, conoscenza certa di tutto ciò che deve essere retto e, secondariamente, di ciò ch’è oggetto delle altre virtù. La giustizia è, cardinalmente, considerare ciascuna cosa secondo il merito e, secondariamente, anche il resto. Ogni virtù, infatti, guarda ai punti capitali di tutte le altre ed a ciò ch’è reciprocamente subordinato. Panezio soleva dire che quanto avviene riguardo alle virtù è simile a quanto avviene quando dinnanzi a molti arcieri giacesse un solo bersaglio, e questo avesse al proprio interno strisce di colore diverso. Ciascun arciere mirerebbe a centrare il bersaglio ma uno colpendo, caso mai, la striscia bianca, un altro la striscia nera, un altro ancora la striscia di qualche altro colore. Come costoro si danno quale fine supremo quello di centrare il bersaglio, seppure proponendosene il conseguimento chi in un modo e chi in un altro, così tutte le virtù si danno quale fine l’essere felice -il che sta nel vivere in modo ammissibile con la natura delle cose- e ciascuna lo centra a modo suo.

1.3.2 = Clemente Alessandrino ‘Stromata’ II, 21
Panezio dichiarava essere ‘sommo bene’ il vivere in armonia con le risorse dateci dalla natura. 

1.3.3 = Diogene Laerzio VII, 92 
Panezio afferma che la virtù è duplice: teoretica e pratica. 

1.3.4 = Diogene Laerzio VII, 127-128 
Secondo quanto dicono Zenone, Crisippo nel primo libro ‘Sulle virtù’ ed Ecatone nel secondo libro ‘Sui beni’, la virtù è autosufficiente per la felicità. [….] Tuttavia Panezio e Posidonio dicono che la virtù non è autosufficiente, e affermano che c’è bisogno anche di salute, di proventi e di vigore fisico.

1.3.5 = SVF III, 155 = SVF III [ArT], 22 = Sesto Empirico ‘Adv. Math.’ XI, 73 
<Epicuro afferma che il piacere della carne è un bene; chi dice “Possa io essere pazzo piuttosto che godere nella carne” afferma che è un male;> gli Stoici che è un indifferente e un non promosso; Cleante nega che esso sia secondo natura, al modo che non è secondo natura una spazzola, e che abbia valore nella vita; Archedemo che è secondo natura come i peli sotto l’ascella, e che non ha valore; Panezio che c’è qualche piacere della carne secondo natura e qualche altro contro natura.

1.3.6 = Plutarco ‘De cohibenda ira’ 16, 463 D.
Come soleva affermare anche Panezio, bisogna utilizzare il precetto di Anassagora e dire, come fece questi davanti alla morte del figlio: “Sapevo di avere generato un mortale”; questo dire di fronte agli altrui errori che ci esacerbano: “Sapevo di avere comprato uno schiavo e non un sapiente”; “Sapevo di possedere un amico che non è immune da errori”; e “Sapevo di avere per moglie una donna”. 

1.3.7 = Diogene Laerzio IX, 20
Demetrio Falereo nel suo libro ‘Sulla vecchiaia’ e lo stoico Panezio in quello ‘Sul buon umore” affermano che <Senofane> seppellì i figli con le sue stesse mani, proprio come fece anche Anassagora.

1.3.8 = Diogene Laerzio II, 86-87
Coloro che rimasero fedeli alla condotta di vita di Aristippo, ed ebbero l’appellativo di Cirenaici, lo fecero sulla base di opinioni del seguente genere. Essi sostenevano l’esistenza di due stati d’animo fondamentali: il dolore e il piacere. Nel piacere il moto dell’animo è soave, scorrevole; mentre nel dolore il moto è rude, aspro. [87] Non vi è alcuna differenza tra un piacere ed un altro, né esiste alcunché più piacevole di esso. Il piacere è valutato positivamente da tutti gli esseri viventi, mentre il dolore essi lo respingono lontano. Stando a quanto afferma anche Panezio nel suo libro ‘Sulle scuole filosofiche’, il piacere che essi intendono, e che ritengono anche essere il sommo bene, è tuttavia il piacere carnale; non il piacere catastematico, quello che consiste nella sparizione delle sofferenze ed è come un sollievo, che è invece il piacere che Epicuro approva e chiama anche ‘sommo bene’. Secondo loro c’è anche differenza tra il sommo bene e la felicità. Infatti essi affermano che sommo bene è il piacere carnale volta per volta, mentre la felicità è l’insieme formato dai singoli piaceri carnali particolari, nel cui numero essi computano anche quelli passati e quelli futuri. 

1.4. Psicologia

1.4.1 = Nemesio ‘De natura hominis’ 15
Il filosofo Panezio dice una cosa correttissima quando sostiene che la facoltà vocale sia una parte che è messa in moto da un impulso, mentre la facoltà sessuale non è una parte dell’animo ma della natura vegetale.

2. Frammenti attribuibili a Panezio

2.1. Etica

2.1.1 = SVF III, 264 = Stobeo ‘Eclogae’ II, 60, 9 W.
Il fine di tutte queste virtù è di vivere in modo conseguente alla natura; e ciascuna di esse, con le sue peculiarità, procura questo sommo bene all’uomo che la centra. Giacché l’uomo ha dalla natura risorse sia per il rinvenimento di quanto è doveroso, sia per la stabilità degli impulsi, sia per delle virili pazienze, sia per delle giuste assegnazioni. E ciascuna virtù, effettuando quanto è in armonia con le altre e quanto le è proprio, ci procura un uomo capace di vivere in modo conseguente alla sua natura.

2.1.2 = Plutarco ‘De tranquillitate animi’ 13, 473 A
Come <la natura> ha fatto in modo che il cibo sia diverso per bestie diverse, e dunque che non tutte siano carnivore oppure si nutrano di semi o scavino radici, così essa ha dato agli uomini un’ampia varietà di risorse per mantenersi in vita. [….] Bisogna pertanto che essi, dopo avere scelto il mestiere che loro si addice e conviene, lo coltivino e lascino perdere quelli che convengono ad altri.

2.1.3 = Plutarco ‘De tranquillitate animi’ 13, 472 C
Ragion per cui non tutti i mestieri sono adatti a tutti gli uomini; e dunque bisogna che l’uomo, ubbidendo al motto Delfico, decifri se stesso e poi si impegni in ciò per cui è nato; senza trascinarsi di qua e di là nel tentativo di emulare ora uno ora un altro modo di vita e così fare violenza alla propria natura.

2.2. Psicologia

2.2.1 = Nemesio ‘De natura hominis’ 26
Essi suddivono anche in un modo diverso le facoltà a seconda dell’essere vivente considerato, e dicono che alcune sono facoltà psichiche, altre facoltà della natura vegetale e altre ancora facoltà della natura animale. Psichiche sono le facoltà legate alla proairesi, mentre sono facoltà della natura vegetale e della natura animale quelle non connesse alla proairesi, ossia aproairetiche. Le facoltà psichiche sono di due tipi: il moto originato da un impulso proairetico e la sensazione. Specie di moti originati da un impulso proairetico sono lo spostarsi da un luogo all’altro, il movimento di ogni parte del corpo, l’emissione della voce, l’attività respiratoria. Infatti dipende da noi il fare o non fare queste cose. Le facoltà comuni con la natura vegetale ed animale non dipendono invece da noi in quanto avvengono sia che noi lo vogliamo oppure non lo vogliamo: com’è il caso della facoltà nutritiva, di quella dell’accrescimento e dell’attività riproduttiva, le quali sono facoltà comuni con la natura vegetale; e anche di quella del battito cardiaco, che è comune con la natura animale.

3. Frammenti di incerta o discussa attribuzione

3.1. Fisica

3.1.1 = SVF III [BS], 7 = Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 15, p. 248 Bern. p. 24, 20 Cum.
Boeto di Sidone e Panezio, uomini solidamente formati nelle dottrine Stoiche, in quanto ispirati da Dio si lasciarono alle spalle le conflagrazioni universali e le palingenesi e disertarono armi e bagagli in favore di una dottrina più santa, ossia quella dell’essere il cosmo imperituro.
I seguaci di Boeto hanno utilizzato le dimostrazioni più plausibili, che esporremo subito. Se il cosmo, essi affermano, fosse generato e perituro, qualcosa nascerebbe dal nulla, il che sembra essere del tutto assurdo anche agli Stoici. Perché? Perché non è possibile trovare alcuna causa agente di estinzione, né interna né esterna, la quale faccia sparire il cosmo. Fuori del cosmo non v’è nulla se non forse il vuoto, dato che integralmente tutti gli elementi trovano il loro posto nel cosmo. Dentro il cosmo, poi, non v’è alcuno stato morboso che potrebbe diventare causa di dissoluzione per una divinità di tale enorme grandezza. E se il cosmo perisce senza una causa è manifesto che la genesi della sua estinzione sarà originata dal nulla: cosa questa, che l’intelletto non accetterà mai. Essi affermano anche che i modi generici di estinzione sono tre: quello per divisione, quello per sparizione della qualità prevalente, quello per fusione di qualità componenti. Le cose formate da entità disparate come un gregge di capre, una mandria di buoi, i cori, gli eserciti o, ancora, i corpi compattati da elementi rannodati, si sciolgono per rottura o per divisione delle parti. Per sparizione della qualità prevalente si dissolve, per esempio, la cera quando sia modellata in una figura diversa; oppure quando sia così ammorbidita da non prestarsi più ad accogliere l’impronta di una forma diversa. Per fusione di qualità componenti, come nel caso del tetrafarmaco preparato dei medici; ossia quando le proprietà dei componenti che sono messi insieme spariscono, a favore della genesi di un unico particolare prodotto risultante. In quale di questi modi merita dire che il cosmo perisce? Nel modo per divisione? Ma il cosmo non è formato da entità disparate, così che le sue parti possano essere disperse; né da elementi rannodati, così che i loro legami possano essere dissolti; né è unitario allo stesso modo in cui lo sono i nostri corpi. Infatti questi ultimi sono intrinsecamente caduchi ed in potere di miriadi d’agenti che li danneggiano, mentre invece il cosmo è invitto poiché tiene assoggettata a sé ogni cosa con un grande sovrappiù di potenza. Per sparizione definitiva della qualità? Ma questo è inconcepibile, giacché pure secondo coloro che scelgono la tesi opposta, la qualità di essere il ‘buon ordine del cosmo’, sebbene bloccata in una sostanza in quantità minore, che è quella di Zeus, permane anche nel corso della conflagrazione universale. Per fusione di qualità componenti? Suvvia! Giacché allora bisognerà di nuovo accettare che l’estinzione del cosmo sia estinzione nel nulla. In grazia della genesi di quale particolare prodotto risultante? Se ciascun elemento sparisse parzialmente, una parte di esso potrebbe trasformarsi in qualcos’altro; ma poiché gli elementi sono fatti sparire tutti quanti e tutt’insieme nella fusione delle qualità componenti, sarebbe necessario sottintendere che avviene l’impossibile. Oltre a ciò, essi affermano, se ci fosse la conflagrazione universale che cosa effettuerebbe la divinità in quel lasso di tempo? Non effettuerebbe proprio nulla? Ma ciò è inverosimile. Adesso, infatti, la divinità riguarda ciascuna cosa e tutto essa tiene sotto la sua tutela come fa chi è genuinamente padre; e, se bisogna dire la verità, al modo di un auriga e di un pilota tiene le redini e il timone del tutto, prestando assistenza al sole, alla luna, agli altri corpi celesti erranti e non-erranti e inoltre all’aria ed alle ulteriori parti del cosmo, mentre nel contempo compie quanto serve alla sua sopravvivenza ed al suo intemerato governo secondo la retta ragione. Ma una volta che tutto sia sparito, Dio avrà una vita che non è più vita, per la sua straordinaria inerzia ed inazione. Cosa potrebbe essere più assurdo di questo? Sono titubante a dire ciò che non è lecito dire: che ne seguirà per Dio la morte, data la sua immobilità. Infatti, se tu fai sparire il suo essere sempre in movimento, avrai fatto del tutto sparire anche l’anima. Ora, per coloro che hanno opinioni contrarie alle nostre, l’animo del cosmo è la divinità.

3.2. Psicologia

3.2.1 = Galeno ‘De foetuum formatione’ 6, IV, p. 700 K. 
Nel plasmare l’embrione io vedo intervenire una facoltà sommamente sapiente che però non è l’animo presente nello sperma, bensì quello che i seguaci di Aristotele chiamano ‘vegetativo’, i seguaci di Platone ‘concupiscente’ e che i seguaci degli Stoici non chiamano neppure animo ma ‘natura’ o ‘facoltà vegetativa’, poiché ritengono che sia lei a plasmare l’embrione e che non soltanto non sia sapiente ma che anzi sia assolutamente irrazionale.

3.2.2 = Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 253
Gli Stoici più antichi affermano che criterio di verità è la rappresentazione catalettica, mentre gli Stoici più recenti vi hanno aggiunto anche ‘<quella> che non ha ostacoli’.

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PLUTARCO – GLI STOICI DICONO COSE PIU’ PARADOSSALI  DI QUELLE CHE RACCONTANO I POETI

ΠΑΡΑΔΟΞΟΤΕΡΑ ΟΙ ΣΤΩΙΚΟΙ 
ΤΩΝ ΠΟΙΗΤΩΝ ΛΕΓΟΥΣΙΝ

Questa operetta di Plutarco, che ha il notevole pregio di essere brevissima, è forse quanto rimane di un’opera che è probabilmente quella segnalata nel ‘Catalogo di Lampria’ con il numero 79.

§ 1. [1057C] Il Ceneo di Pindaro soleva subire l’accusa di non essere credibile giacché è rappresentato come un Lapite il cui corpo è insensibile a qualunque dolore, [1057D] che è invulnerabile alle armi di ferro, e che poi sprofonda nel sottosuolo immune da ferite ‘spezzando ritto in piedi la terra’. Ebbene, poiché è stato fabbricato dagli Stoici con il materiale adamantino dell’insensibilità, lo Stoico è un Lapite non immune da ferite, da malattie e da sofferenze, il quale però rimane capace di dominare la paura e l’afflizione, invitto ed impossibile da costringere con la violenza quando sia ferito, sofferente, torturato, tra i disastri della patria o nel mezzo delle sue sciagure private. Il Ceneo di Pindaro quand’anche venga colpito non è ferito, mentre invece il sapiente degli Stoici quand’anche sia ristretto in carcere non è impedito, [1057E] qualora sia buttato in un precipizio non è costretto, se torturato non è tormentato, se storpiato non è danneggiato, se atterrato mentre lotta è invitto, se bloccato entro quattro mura non è sotto assedio, se venduto come schiavo dai nemici non è catturato: insomma in nulla differisce da quelle navi battute dalla tempesta, fracassate, capovolte e affondate le quali però portano scritto sulla prora: ‘Buona navigazione’, ‘Provvidenza’, ‘Salvatrice’ o ‘Soccorso’.

Centauri e Lapiti

§ 2. Lo Iolao di Euripide, da debilitato ed attempato che era, grazie ad una certa preghiera diventa tutto d’un tratto giovane e pieno di marziale vigore. Ebbene, se ieri era la bruttezza e il vizio in persona, oggi tutt’a un tratto il sapiente degli Stoici s’è mutato [1057F] nella virtù in persona; e da rugoso, smorto e, per dirla con Eschilo, da

‘penoso vecchio con la lombalgia e il pieno d’ambasce’

che era, è diventato una persona inappuntabile, divino d’aspetto e bello di forme.

Ercole combatte con il leone di Nemea

§ 3. [1058A] Per far apparire Odisseo un bell’uomo, Atena gli fece sparire le rughe, la calvizie e il brutto aspetto. Invece il sapiente degli Stoici, senza che la vecchiaia ne abbandoni il corpo, anzi aggiuntivi ed accumulativi altri mali, pur rimanendo gobbo e, se capita, sdentato e guercio, non è brutto né deforme né laido di viso. <….> Il fatto è che, come si dice degli scarabei che essi evitano un oggetto profumato e invece vanno dietro agli oggetti maleodoranti, così la passione amorosa Stoica predilige la compagnia degli individui più infami e più deformi e da questi si allontana qualora essi, ad opera della sapienza, siano trasformati in persone belle d’aspetto e d’animo. 

§ 4. Secondo gli Stoici, un individuo che è viziosissimo la mattina può, se così capita, essere verso sera la persona più virtuosa che esiste. [1058B] E se si è addormentato essendo stupido, incolto, ingiusto, impudente e, per Zeus, pure schiavo e indigente: il giorno stesso si alza che è diventato re, ricco, opulento dei veri beni, temperante, giusto, ben saldo nei suoi giudizi e non più alla mercé delle opinioni. Non gli è spuntata la barba, né su di lui sono comparsi i segni della pubertà che compaiono in un corpo giovane e delicato, ma in un animo debole e delicato qual era il suo, non ancora virile, non saldo nei propri giudizi, egli trova ora una mente perfetta, il colmo della saggezza, una disposizione d’animo pari al quella di un dio, una conoscenza che non è più alla mercé delle opinioni, una postura abituale dell’animo immutabile. Insomma, senza che egli abbia prima smesso di cedere alla depravazione, egli si alza e scopre di essere diventato repentinamente, dalla peggiore delle belve che era, c’è poco da dire, una sorta di eroe, di demone, di dio. [1058C] Di colui che apprende la virtù dalla Stoa è infatti possibile affermare:

‘Se vuoi qualcosa, chiedilo: tutto sarà tuo’.

La virtù appresa dalla Stoa porta ricchezza, procura regalità, concede fortuna, rende gli uomini prosperi, bisognosi di nulla, autosufficienti anche se in casa non hanno una dracma.

§ 5. Il mito, poiché i poeti badano a salvaguardare la ragionevolezza di quelli che raccontano, in nessuna sua parte ci lascia intravedere un Eracle bisognoso delle cose necessarie per la sopravvivenza, anzi esse tutte quante, come da una fonte, affluiscono in abbondanza a lui ed a coloro che sono con lui dalla cornucopia di Amaltea. Invece colui che è entrato in possesso della cornucopia degli Stoici, è diventato un ricco eppure va mendicando cibo dagli altri; è un re, ma va risolvendo sillogismi dietro compenso; è il solo a possedere tutte le cose e però paga un affitto e compra della farina, [1058D] facendolo spesso con denaro preso a prestito o elemosinandolo da gente nullatenente.

§ 6. Il re degli Itacesi chiede l’elemosina poiché vuole tenere nascosto chi è, e si fa quanto più può 

‘simile ad un miserando mendicante’.

Invece quello degli Stoici mentre grida e gracchia: “Io soltanto sono un re, io soltanto sono un ricco”, si fa però spesso vedere sulle porte altrui mentre implora:

‘Date un mantello a Ipponatte, perché ho i brividi per il freddo
e sto battendo i denti’.

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PLUTARCO – SUI CONCETTI DI COMUNE BUONSENSO CONTRO GLI STOICI

De Communibus Notitiis
Adversus Stoicos

ΠΕΡΙ ΤΩΝ ΚΟΙΝΩΝ ΕΝΝΟΙΩΝ
ΠΡΟΣ ΤΟΥΣ ΣΤΩΙΚΟΥΣ

§ 1. [1058E] UN COMPAGNO. Diadoumeno, è verosimile che a te importi poco o nulla se a qualcuno la vostra [1058F] filosofia pare in contrasto con i concetti di comune buonsenso. Anche tu ammetti di non pregiare granché le sensazioni sulle quali si fondano quasi tutti i concetti di comune buonsenso; i quali certo, quanto alla fiducia per le apparenze fenomeniche, poggiano sicuramente su quelle. Ma poiché, come mi pare, sono giunto a questo riguardo a sentirmi pieno [1059A] di un grande e inspiegabile sconcerto: ti prego di non tardare a curarmi in proposito con qualche discorso ragionato o qualche scongiuro o qualche altra forma di lenimento che conosci. Sono stati gli Stoici a mettermi nello stato di agitazione che vedi e a farmi diventare titubante. Essi sono per il resto ottime persone e pure, per Zeus, miei amici intimi; ma contestano molto aspramente ed hanno un’avversione assai profonda per l’Accademia. Quando io ho fatto loro alcune obiezioni, poche e in modo molto rispettoso, essi (non dirò una falsità) hanno ribattuto con dignità e con mitezza; ma gli antichi Accademici li hanno chiamati con rabbia sofisti, persone che disonorano e insudiciano chi fa filosofia, gente che butta per aria dottrine che invece seguono sistematicamente un metodo; e dopo avere detto e ripetuto molte cose ancora più strambe di queste, [1059B] alla fine si sono diffusi a parlare dei concetti di comune buonsenso, sostenendo che gli Accademici apportano in questo ambito confusione e frammentazione. Dopo di che uno di loro ha affermato che si potrebbe quasi legittimare l’idea che Crisippo sia nato dopo Arcesilao e prima di Carneade non per divina opera della Fortuna ma della Prònoia; giacché di quelle due personalità, Arcesilao diede principio all’oltraggio e alla prevaricazione contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni, mentre Carneade rappresentò il fiore all’occhiello degli Accademici. Pertanto Crisippo, nascendo tra i due, con le sue repliche polemiche ad Arcesilao sbarrò anche il passo alla valentia dialettica di Carneade, poiché lasciò molti presidi a difesa della sensazione, come fossero aiuti in caso di assedio; ed eliminò del tutto i motivi di sommossa tra i preconcetti e i concetti, correggendo ciascuno e ponendolo al proprio posto; [1059C] di modo che quanti decidessero di sbattere un’altra volta fuori dalla porta i fatti oppure di violentarli, non concludessero nulla ma fossero contestati come malfattori e gente che sofisteggia. Io dunque, arroventato come sono stamattina da siffatti discorsi, ho bisogno di un estintore che mi levi l’incertezza dall’animo, come si trattasse di un’infiammazione acuta.

§ 2. DIADOUMENO. Ciò che hai sperimentato tu è simile a ciò che forse hanno sperimentato in molti. Ebbene, se i poeti riescono a persuaderti quando affermano che il sovvertimento e la distruzione dell’antica città di Sipilo avvenne per decisione della divina Prònoia, giacché gli dei intendevano in questo modo castigare Tantalo; allora credi pure ai tuoi compagni Stoici quando affermano che la Natura fece venire al mondo Crisippo non per opera della Fortuna bensì della Prònoia, [1059D] giacché essa Natura aveva bisogno di mettere sottosopra e soprasotto ogni cosa. Come Catone soleva dire che nessuna persona sobria e sana di mente, eccetto il famoso Giulio Cesare, s’era mai avvicinata agli affari pubblici allo scopo di gettare nello scompiglio più completo la Repubblica; così mi sembra che quest’uomo, dico Crisippo, sovverta e demolisca le comuni consuetudini con la massima solerzia e valentia, come talora testimoniano anche coloro che lo esaltano e però non sono d’accordo con lui a proposito del ragionamento detto del ‘Mentitore’. Giacché l’affermare che un assunto in forma indefinita, formato da proposizioni contrapposte e copulativamente coordinate non è a iosa falso; [1059E] ed inoltre l’affermare che esistono dei ragionamenti aventi premesse vere e linee di trattamento logico sane, per i quali ciononostante sono veri pure i contrapposti delle conchiusioni: quale concetto di dimostrazione o quale preconcetto di affidabilità non sovverte? Si dice che il polipo smangiucchi i suoi stessi tentacoli durante la stagione invernale; e allora la dialettica di Crisippo, la quale leva di mezzo rosicando torno torno le parti principali e le fondamenta di se stessa, quali altri concetti può mai lasciare al riparo dal sospetto? È certo che i piani superiori di un edificio filosofico non possono essere ritenuti poggiare su una base salda e ben fissa, quando i piani inferiori dello stesso non lo sono, essendo soggetti a tali aporie e a tali scossoni. [1059F] Come coloro che hanno corpi infangati o impolverati pensano che chi li tocca o si sfrega loro contro non rimuove ma aggiunge altra materia irritante, così gli Stoici accagionano gli Accademici e ritengono che siano loro a causare ciò di cui essi mostrano di essere imbrattati dalla testa ai piedi: poiché chi più degli Stoici perverte proprio i concetti di comune buonsenso? [1060A] Se sei d’accordo, tralasciando di muovere loro accuse ci difenderemo da ciò di cui essi ci incolpano. 

§ 3. UN COMPAGNO. Diadoumeno, oggi mi sembra d’essere diventato un uomo variegato e multiforme. Testé infatti, sentendo il bisogno d’una difesa, mi avvicinavo a te mogio mogio e con l’animo in tumulto. Adesso invece mi trasformo in accusatore e voglio godermi la vendetta di vedere contestati gli Stoici proprio sullo stesso punto, cioè quello di avere una filosofia che è in pieno contrasto con i concetti e i preconcetti di buonsenso, dai quali essi invece credono che la loro Scuola sia germogliata come da dei semi e che affermano essere la sola coerente con la natura. 
DIADOUMENO. È dunque il caso di cominciare il cammino da quei comuni e notori concetti che gli stessi Stoici, [1060B] prendendone alla leggera l’assurdità, denominano paradossi: su chi soltanto è re, su chi soltanto è ricco, per bene, cittadino e giudice? Oppure vuoi che questi paradossi li mettiamo da parte per il mercato dei concetti stantii e gelidi, e invece facciamo l’indagine della dottrina degli Stoici sui loro concetti quanto più possibile aderenti ai fatti pratici ed attentamente ragionati?
UN COMPAGNO. A me piace di più questa seconda strada; giacché delle contestazioni ai loro paradossi chi non ne ha ormai fin sopra i capelli?

§ 4. DIADOUMENO. Allora considera subito in primo luogo questo, cioè se sia un concetto di buonsenso e se siano coerenti con la natura coloro i quali legittimano come ‘indifferenti’ cose che sono secondo natura, e ritengono salute, benessere, avvenenza, [1060C] potenza del corpo cose che possono essere non scelte, anzi essere né giovevoli, né vantaggiose, né completive della nostra perfezione secondo natura; e ritengono che anche gli opposti come storpiature, sofferenze, laidezze, malattie possano essere non fuggiti ed essere non dannosi. Di tutte queste cose sono gli stessi Stoici a dire che verso le une la natura ci estrania e verso le altre essa ci imparenta; ed anche questo è davvero un concetto del tutto contrario al buonsenso, ossia concepire che la natura ci imparenti a cose né utili né buone e che ci estranei da cose che sono né cattive né dannose. Inoltre, e questa poi è la cosa più importante da notare, la natura ci estrania e ci imparenta ad esse a tal punto che coloro i quali non centrano ciò cui la natura ci imparenta e incappano in ciò da cui la natura ci estrania, escono fuor di vita [1060D] a ragion veduta e rinunciano ad essa. 

§ 5. Io ritengo che sia contrario al buonsenso affermare che la natura di per sé è indifferente, e però sostenere che il sommo bene consiste nel vivere secondo natura. Infatti virtuoso non è il conformarsi alla legge né l’obbedire alla ragione, se legge e ragione sono né virtuose né civili. Ma questo è il meno. Se poi, come ha scritto Crisippo nel primo libro dei ‘Discorsi esortativi’, soltanto nel vivere secondo virtù consiste il vivere felicemente e “tutto il resto”, egli dice, “è nulla per noi e non coopera al raggiungimento di questo scopo”; allora la natura è non soltanto indifferente, ma è anche dissennata e stupida, [1060E] in quanto ci imparenta a cose che sono nulla per noi. E stupidi siamo anche noi a credere che la felicità consista nel vivere secondo natura, quando proprio questa natura ci conduce verso cose che non cooperano affatto all’ottenimento della felicità. Eppure quale concetto è maggiormente in accordo con il comune buonsenso di questo: come le cose che scegliamo le scegliamo perché ci giovano, così le cose secondo natura sono quelle che ci servono per vivere secondo natura? Gli Stoici però non parlano così e invece, dopo avere stabilito che il nostro fine è quello di vivere secondo natura, ritengono che le cose secondo natura siano indifferenti.

§ 6. Un altro concetto non meno in contrasto col comune buonsenso è quello secondo cui l’uomo di senno, l’uomo saggio, non si comporta allo stesso modo verso beni di pari importanza; e invece mentre ad alcuni non dà valore, per altri è disposto a sopportare e subire qualunque cosa, [1060F] pur se essi sono né più piccolo né più grande uno dell’altro. Gli Stoici infatti sostengono che per chi è saggio sono la stessa cosa l’astenersi con temperanza dal contatto carnale con una Laide od una Frine, e il rifiutare con temperanza quello con una vecchia con un piede già nella fossa. Oppure il farsi forza e sopportare virilmente tagli e bruciature e il sopportare virilmente il morso di una mosca, giacché tutti e due gli individui compiono un’azione similmente retta. Eppure per le prime azioni, in quanto grandi e illustri, essi sarebbero disposti a morire; [1061A] mentre il darsi un’aria solenne per le seconde è secondo gli Stoici vergognoso e ridicolo. Anche Crisippo nella sua compilazione ‘Su Zeus’ e nel terzo libro ‘Sugli dei’ dice: “È una freddura, è assurdo, è improprio lodare cose del genere: ‘resse virilmente la puntura di una mosca’ e ‘con temperanza s’astenne da una vecchia con un piede già nella fossa’, come azioni derivanti dalla virtù”. Non è dunque forse vero che la filosofia degli Stoici è contraria al comune buonsenso, visto che essi si vergognano di lodare quelle azioni delle quali ammettono però che non esiste nulla di più bello? Dove sta un’azione degna di scelta ovvero come può un’azione essere approvabile se non è degna d’essere lodata né d’essere ammirata, anzi se gli Stoici ritengono coloro che la lodano dei fredduristi in vena di assurdità? 

§ 7. [1061B] Ed ancor più ti apparirà, io credo, contrario al concetto di comune buonsenso, il fatto che l’uomo saggio non si preoccupi né della presenza né dell’assenza dei più grandi beni e che invece si comporti riguardo ad essi esattamente al modo in cui si comporta nel trattamento e nella amministrazione delle cose indifferenti. Tutti noi certo

‘quanti ci nutriamo del frutto della spaziosa terra’

capiamo che questo frutto è degno di scelta, buono e giovevole quando la sua presenza ci è di conforto e la sua assenza ci è causa di un senso come di carenza e di desiderio; mentre capiamo che è indifferente il frutto per cui nessuno si darebbe da fare neppure per scherzo o per infingardaggine. Grazie a nessun altro criterio, infatti, noi definiamo l’uomo laborioso distinguendolo da colui che si occupa di sciocchezze pur essendo assai attivo, [1061C] se non perché quest’ultimo si affatica indiscriminatamente per cose del tutto futili, mentre invece il primo lo fa per cose utili e vantaggiose. Ma questi qua pensano il contrario. Per gli Stoici, infatti, fra molte apprensioni certe e ricordi di apprensioni certe, l’uomo diventato sapiente e saggio ritiene che poche lo riguardino direttamente; e senza preoccuparsi delle altre crede di avere né di meno né di più se si rammenta che l’anno scorso ebbe l’apprensione certa di Dione che starnutiva o di Teone che giocava a palla. Seppure, nell’uomo sapiente, ogni apprensione certa e ogni ricordo sicuro e saldo siano anche direttamente scienza e un bene grande, anzi sommo. [1061D] E dunque in modo simile, quando la sua salute viene meno, i suoi sensi si ottundono e le sue sostanze vanno in malora, il sapiente non è preoccupato e ritiene che tutto ciò sia nulla per lui? Oppure: “Quando è ammalato paga l’onorario ai medici, e allo scopo di fare denaro naviga per raggiungere Leucone, sovrano nel Bosforo; e si mette in viaggio per recarsi presso Idantirso lo Scita”? Non è forse Crisippo ad affermare: “Delle sensazioni, ve ne sono alcune perdendo le quali il sapiente non sopporta più di vivere”? Perché dunque gli Stoici non ammettono che la loro filosofia è contraria al comune buonsenso, dal momento che essi si danno industriosamente da fare per delle cose indifferenti e invece sono indifferenti alla presenza e all’assenza di grandi beni?

§ 8. [1061E] Un’altra dottrina contraria ai concetti di comune buonsenso è che lo Stoico, il quale è pur sempre un uomo, non si rallegri quando abbia fatto il passaggio dai più grandi mali ai più grandi beni. Questo infatti sperimenta il sapiente Stoico: giacché quando egli si trasforma passando dal colmo del vizio al colmo della virtù e sfugge la più meschina delle vite mentre acquisisce la più beata, una così enorme trasformazione non comporta alcun segno manifesto di gioia, non lo esalta e non lo smuove pur se egli si è allontanato da ogni sorta di infelicità e di depravazione ed è pervenuto al sicuro e saldo culmine dei beni. Inoltre è contrario al comune buonsenso che l’immutabilità e la saldezza delle determinazioni sia il massimo dei beni, ma che chi si muove [1061F] verso la vetta del progresso morale non abbia bisogno di ciò né gli dia importanza quando gli è presente; e che spesso egli non protenda neppure un dito al fine di ottenere questa sicurezza e questa saldezza da loro legittimata come un bene grande e perfetto. I nostri Stoici non dicono soltanto questo, ma affermano pure che l’aggiunta del tempo non accresce il bene, [1062A] e che se uno sarà saggio anche per un solo istante in nulla resterà indietro, quanto a felicità, rispetto a chi eternamente usa virtù ed in essa beatamente vive. Dopo avere con così giovanile baldanza insistito su ciò, essi però poi affermano che una virtù di breve durata non è di alcun pro: “Che pro, infatti, viene a colui cui la saggezza sopravverrà mentre è sul punto di naufragare o di essere gettato in un precipizio? Che pro per Lica, se egli muterà dal vizio alla virtù nell’attimo in cui è scagliato in mare da Eracle come il sasso da una fionda?”. Queste sono tesi non soltanto in contrasto con i concetti di comune buonsenso, ma di filosofi che fanno un guazzabuglio delle loro stesse dottrine, quando ritengono che il possedere per breve tempo la virtù non sia cosa da meno del colmo della felicità e [1062B] contemporaneamente che questo breve possesso non abbia assolutamente alcun valore.

§ 9. Ciò che degli Stoici ti stupirebbe in particolar modo non è comunque questo, bensì la loro credenza che quando virtù e felicità sono diventate presenti, chi ne entra in possesso spesso non ne ha contezza e rimane all’oscuro del fatto che se poco prima egli era la persona più meschina e più stolta, del pari adesso è diventato una persona saggia e beata. È del tutto inconsistente, infatti, non soltanto che il saggio sia l’unico a non tenere in pregio proprio questo, ossia l’essere saggio, e che non riconosca la scomparsa della sua ignoranza; ma anche che, per dirla tutta, gli Stoici facciano del bene qualcosa privo di peso, qualcosa di evanescente, visto che quando esso si è reso presente non genera la sensazione di se stesso. Secondo gli Stoici, infatti, esso non è per natura impercepibile; [1062C] e Crisippo afferma in termini precisi nei libri ‘Sul sommo bene’ che il bene è un’entità sensibile e, com’egli crede, lo dimostra anche. Pertanto, qualora la presenza del bene rimanga ignorata e non percepita da coloro che lo possiedono, la sola spiegazione che rimane è che esso sfugga alla percezione dei sensi a causa della sua debolezza e piccolezza. Inoltre, se è assurdo ritenere che degli oggetti bianchissimi sfuggano alla vista che percepisce la presenza di oggetti debolmente e moderatamente bianchi, e che il tatto che rileva la presenza di oggetti tiepidi e tenuemente caldi sia insensibile alla presenza di quelli caldissimi; è ancora più assurdo che una persona la quale ha il concetto di cosa il comune buonsenso ritiene essere secondo natura, ad esempio la salute e la buona complessione fisica, [1062D] ignori però la presenza della virtù, che gli Stoici pongono quale cosa specialmente ed eminentemente secondo natura. Come può non essere contrario al buonsenso l’afferrare la differenza tra la salute e la malattia e però non afferrare quella tra la saggezza e la stoltezza, e invece credere presente quella che si è allontanata e ignorare che è presente quella che si possiede? Ora, poiché gli Stoici sostengono che è al colmo del progresso morale che gli uomini vanno incontro a quella trasformazione che li fa diventare felici e virtuosi, necessariamente delle due l’una: o il progresso morale è né vizio né infelicità, oppure la virtù non si diversifica molto dal vizio né la felicità dall’infelicità, ed è piccola ed insensibile la differenza tra i mali e i beni; [1062E] giacché altrimenti agli uomini non sfuggirebbe di avere gli uni invece degli altri. 

§ 10. Qualora gli Stoici non vogliano abiurare nessuna delle loro proposizioni contraddittorie ed insistano invece ad asserire che esse sono tutte coerenti: ossia che coloro i quali stanno facendo progressi sono dissennati e viziosi; che coloro i quali sono saggi e virtuosi non hanno contezza di esserlo; che esiste una grande differenza tra la saggezza e la stoltezza: ebbene ti sembra forse che in questo modo essi stiano rinsaldando splendidamente l’intrinseca coerenza teorica della loro dottrina? Ed inoltre che la stiano rinsaldando soprattutto nei fatti, quando dichiarano che i non sapienti sono tutti altrettanto viziosi, ingiusti, sleali e stolti; e invece alcuni di costoro [1062F] li scansano, ne provano disgusto, quando li incontrano non rivolgono loro la parola; mentre ad altri danno in gestione del denaro, affidano incarichi di comando, danno in spose le figlie? Se queste cose gli Stoici le dicono per scherzo, allora che abbassino il loro cipiglio. Se le dicono sul serio e ne fanno la loro filosofia, allora è contrario ai concetti di comune buonsenso [1063A] il denigrare e vilipendere similmente tutti gli uomini e poi trattarne alcuni come persone equilibrate ed altre come sentine dei peggiori vizi; essere colmi di ammirazione per Crisippo e invece ridicolizzare Alessino; credere che tutti gli uomini siano fuori di testa né di più né di meno uno dell’altro. “Sì” essi dicono, “ma come chi è un braccio al di sotto della superficie del mare annega non meno di chi è affondato cinquecento tese, così coloro che stanno approssimandosi alla virtù sono non meno nel vizio di coloro che ne sono ben lungi. E come i ciechi sono ciechi anche qualora siano sul punto di recuperare poco dopo la vista, così i progredenti restano dissennati e depravati fino a che non apprendano la virtù”. [1063B] Che coloro i quali stanno facendo progressi non somiglino a ciechi bensì a gente che ci vede di meno, né a gente annegata bensì a dei nuotatori prossimi ad arrivare in porto, lo testimoniano gli Stoici stessi nella loro pratica. Essi, infatti, non utilizzerebbero consiglieri, generali, legislatori per farsi condurre per mano da dei ciechi e non emulerebbero le opere, le azioni, i discorsi, le vite di taluni uomini se li vedessero tutti annegati allo stesso modo nella stoltezza e nella depravazione. A parte ciò, stupisciti pure del modo in cui neppure dai paradigmi della loro stessa dottrina gli Stoici imparano a buttare nella spazzatura quei sapienti a loro insaputa, che sono sapienti anche se non capiscono né si rendono conto [1063C] che hanno cessato di annegare, che vedono della luce, che sono diventati superiori al vizio e che sono tornati a respirare.

§ 11. È contro il comune buonsenso pensare che per un uomo al quale sono presenti tutti i beni e al quale nulla manca di ciò che serve per la felicità e la beatitudine, sia doveroso suicidarsi se non gli sopravverrà qualcuna delle cose che sono, per Zeus, indifferenti; ed ancor più pensare che un uomo il quale non possiede né possiederà mai alcun bene e cui anzi sono presenti e saranno presenti fino alla fine tutte le cose più terribili, più spiacevoli e tutti i mali, sia doveroso non sciogliersi dalla vita. Eppure, questa è la legislazione vigente nella Stoa; e gli Stoici suggeriscono a molti saggi di trapassar di vita, giudicando meglio cessare di vivere mentre si è felici. Rattengono invece in vita molti insipienti, giudicando per loro doveroso che vivano essendo infelici. [1063D] Eppure il sapiente è opulento dei veri beni, beato, interamente felice, sicuro, al riparo dai pericoli; mentre l’insipiente è invece tanto dissennato da poter dire: 

‘trabocco di mali e non v’è più dove se ne possano mettere’.

Nonostante questo, gli Stoici credono che per costoro sia doverosa la permanenza in vita e invece, per quegli altri, che lo sia il trapassar di vita. “E ciò è verosimile” afferma Crisippo, “giacché la vita non va parametrata ai beni e ai mali ma a ciò ch’è secondo la natura delle cose ed a ciò ch’è contro la natura delle cose”. Questo è il modo in cui gli Stoici salvaguardano la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni e praticano una filosofia che sostengono sia conforme ai concetti di comune buonsenso. Che ne dici? Colui che prende in considerazione le questioni di vita e di morte non deve considerare

‘quel che di cattivo e di buono c’è nella magione’ 

ed appurare, come mettendole su una bilancia, [1063E] quali siano le cose distintive che più giovano alla felicità o all’infelicità? Oppure deve fare i conti circa il continuare a vivere o meno, sulla base delle cose che né giovano né danneggiano? Dinanzi a siffatta alternativa fondamentale, chi sceglierà come doverosa per sé la vita alla quale non manca una sola delle cose da evitare; e rifuggirà la vita nella quale sono presenti tutte le cose che meritano d’essere scelte? Eppure, mio caro compagno, se è illogico rifuggire la vita quando non si sia incappati in alcun male, ancora più illogico è il buttar via il bene perché non s’è ottenuto qualcosa che è di per sé indifferente: come fanno gli Stoici i quali, buttano nella spazzatura [1063F] la felicità e la virtù presente in cambio di una salute e di una integrità del corpo che neppure ottengono. 

‘Allora, però, il Cronide Zeus tolse a Glauco il senno’

poiché egli stava per scambiare armi d’oro del valore di cento buoi con armi di bronzo del valore di nove buoi soltanto. Eppure le armi di bronzo erano di utilità ai combattenti non meno di quelle d’oro, mentre invece né la bella apparenza del corpo né la salute sono secondo gli Stoici di utilità alcuna né di alcun conforto in vista della felicità: [1064A] e nonostante ciò essi sono disposti a permutare la saggezza con la salute. Anche per Eraclito e Ferecide, essi affermano, sarebbe stato doveroso, se l’avessero potuto, tralasciare virtù e saggezza pur di disfarsi dei pidocchi e dell’idropisia. E di Circe che mescesse due farmaci, uno che rendeva stolti i saggi lasciando loro l’aspetto umano; e un altro che trasformava gli uomini in asini saggi, ad Odisseo sarebbe convenuto bere il farmaco che rendeva stolti piuttosto che mutare forma e prendere aspetto animale pur conservando la saggezza, ed evidentemente insieme con la saggezza anche la felicità. Essi affermano poi che la saggezza stessa lo fa capire e lo dice quando esorta: [1064B] “Lasciami e spregiami pure, dal momento che vado in malora e mi rovino prendendo l’aspetto di un asino”. Ma, dirà qualcuno, se la saggezza e la felicità sono un bene, e invece l’andarsene in giro con un brutto aspetto è cosa indifferente, la saggezza che prescrive una cosa del genere è la saggezza di un asino. Si dice che esista una popolazione Etiope presso la quale a regnare è un cane, che ha l’appellativo di re ed ha diritto alla parte di bottino e agli onori riservati ad un re; mentre gli uomini effettuano le funzioni spettanti ai capi militari e ai magistrati delle città. In modo simile, non è forse vero che per gli Stoici il nome e il rango di ‘bene’ appartengono alla virtù, che soltanto la virtù essi chiamano degna di scelta, giovevole ed utile; e che poi però essi tutto effettuano, [1064C] e filosofano, e vivono e muoiono come se obbedissero alle ingiunzioni delle cose indifferenti? Eppure mentre nessun Etiope uccide quel regale cane, ed esso siede solennemente sul trono mentre loro gli si prostrano innanzi, gli Stoici mandano in malora e rovinano la loro stessa virtù, aggrappandosi unicamente alla salute e all’assenza di dolore fisico.

§ 12. Il tocco finale che Crisippo stesso ha apposto alle sue dottrine sembra dispensarci dalla necessità di aggiungere ulteriori parole sull’argomento. Giacché esistendo in natura dei beni, dei mali, e delle cose che stanno frammezzo a questi e che sono chiamate indifferenti: [1064D] non c’è uomo il quale non voglia il bene piuttosto che l’indifferente e <l’indifferente piuttosto che> il male. Di ciò facciamo testimoni anche gli dei, giacché con le nostre preghiere noi chiediamo di ottenere da loro soprattutto il possesso dei beni e, se ciò non è fattibile, di poter sfuggire ai mali; e non vogliamo ottenere ciò ch’è né bene né male al posto del bene, mentre lo vogliamo ottenere al posto del male. Crisippo invece, capovolgendo la natura e rivoltando l’ordine delle cose, trasloca ciò ch’è mediano dal posto centrale e lo pone all’ultimo posto; prende l’ultimo e lo colloca nel posto centrale, come fanno i tiranni i quali danno i posti privilegiati ai malvagi; poi stabilisce per legge che per primo bisogna perseguire il bene, per secondo il male e ritenere ciò ch’è né male né bene [1064E] l’ultima e peggior cosa da perseguire; come se uno ponesse subito dopo le cose celesti quelle dell’Ade e sospingesse la terra e gli astri che le stanno intorno nel Tartaro

‘lontanissimo, dove il baratro sotto la terra è più fondo’.

Nel terzo libro ‘Sulla natura’, dopo avere detto che è vantaggioso vivere da stolto piuttosto che non vivere pur se si dovesse non diventare mai saggio, Crisippo soggiunge testualmente: “Per gli uomini i beni sono siffatti che, in un certo modo, anche i mali vengono per importanza prima delle cose intermedie. Ma quelli che per importanza vengono prima non sono questi ma la ragione, con la quale piuttosto spetta a noi vivere anche se saremo stolti”; il che manifestamente significa: anche se saremo ingiusti, fuorilegge, nemici degli dei e infelici, [1064F] giacché nessuna di queste caratteristiche manca a coloro che vivono da stolti. Secondo Crisippo agli uomini spetta dunque essere infelici piuttosto che non esserlo, subire danno piuttosto che non subirlo, commettere ingiustizie piuttosto che non commetterle e trasgredire la legge piuttosto che non trasgredirla: cioè spetta fare ciò che spetta non fare, ed è doveroso vivere anche in contrasto con ciò ch’è doveroso? “Sì, giacché è peggio essere privi di ragione ed insensibili piuttosto che essere stolti”. Dopodiché, sperimentando tutti questi mali, perché gli Stoici non ammettono che vi è un male peggiore del male? Perché dichiarano che il solo male da fuggirsi è la stoltezza, [1065A] se quella che ci spetta fuggire di più e non di meno, è la disposizione che non accoglie la stoltezza quale sua condizione permanente?

§ 13. Ma chi se la prenderebbe a male per queste parole, se appena costui ricorda quelle che Crisippo ha scritto nel secondo libro ‘Sulla natura’ e con le quali dichiara che la generazione del vizio non è stata improficua per il cosmo nella sua interezza? Merita apprendere questa teoria dalle parole di Crisippo stesso, affinché tu impari quale posto riservano al vizio e quali ragionamenti pronunciano su di esso coloro i quali accusano Senocrate e Speusippo di non ritenere la salute un indifferente e la ricchezza una cosa del tutto futile: “Rispetto alle pur terribili disavventure accidentali, il vizio ha una sua peculiare ragione, giacché anch’esso nasce [1065B] in un certo senso in armonia con la ragione della natura e, per dir così, non è improficuo in relazione al cosmo nella sua interezza, dal momento che altrimenti non esisterebbero neppure le opere virtuose”. Pertanto negli dei non esiste alcun bene poiché neppure esiste alcun male. E qualora Zeus abbia risolto in sé tutta la materia diventando l’Uno ed eliminando ogni differenza, non essendo presente alcun male, anche allora non c’è alcun bene. Ma il canto di un coro è ben intonato quando nessuno dei suoi membri stona, e la salute del corpo si ha quando nessuno dei suoi pezzi è malato. Invece la virtù non ha genesi senza il vizio. E come il veleno del serpente e il fiele della iena sono necessari in taluni dei rimedi medici, [1065C] così l’idoneità di Meleto alla depravazione era funzionale alla giustizia di Socrate, e l’idoneità di Cleone all’improntitudine era funzionale alla virtuosità di Pericle. E come avrebbe potuto Zeus trovare il modo di far nascere Eracle e Licurgo, se non avesse fatto nascere per noi anche Sardanapalo e Falaride? È ora che gli stoici dicano che la tisi viene all’uomo per migliorarne la complessione e la podagra per farlo correre più veloce, e che Achille non avrebbe una folta chioma se Tersite non fosse calvo. In cosa differiscono da questi vaneggiamenti e da queste chiacchiere, quanti affermano che l’impudenza non è senza proficuità per la padronanza di sé e l’ingiustizia per la giustizia? A questo fine [1065D] preghiamo allora gli dei che esistano sempre la depravazione

‘le menzogne, i discorsi insinuanti e il carattere astuto e ingannevole’

giacché se queste cose spariscono la virtù si dilegua e va in rovina.

§ 14. Vuoi essere messo al corrente della straordinaria finezza di Crisippo e della sua capacità persuasiva? Ecco quel che dice: “Come le commedie contengono delle battute ridicole che di per sé sono triviali ma conferiscono una certa grazia all’opera nel suo insieme, così il vizio di per se stesso tu lo denigreresti, ma esso non è senza proficuità per il cosmo nella sua interezza”. In primo luogo, che il vizio sia venuto al mondo per opera della provvidenza divina, come la battuta triviale per volontà del suo autore, è qualcosa che va al di là di ogni immaginabile assurdità. [1065E] Perché mai, allora, gli dei saranno dispensatori più di beni che di mali? Come potrà più il vizio essere nemico agli dei e ad essi inviso? Cosa avremo noi più da dire contro blasfemie di questo genere:

‘il dio tra i mortali fa germogliare una colpa,
quando voglia assolutamente far del male ad un casato’

ed anche

‘e quale degli dei fece venire a contesa e combattersi i due?’

In secondo luogo, la battuta triviale abbellisce la commedia e coopera all’ottenimento del suo fine, giacché essa mira a far ridere o comunque a gratificare gli spettatori. Ma Zeus padreterno, sommo signore, giusto giudice e, secondo Pindaro, artefice sopraffino, creando il cosmo non come un grande, intricato e sensazionale spettacolo teatrale, [1065F] bensì come una città comune di dei e di uomini che vivranno insieme con giustizia e virtù, concordemente e beatamente: ebbene, per questo bellissimo e solennissimo fine perché avrebbe avuto bisogno di pirati, di omicidi, di parricidi e di tiranni? Il vizio non è nato quale elegante interludio gradito alla divinità; [1066A] e non è per la sua inconsistenza, perché fa ridere, perché è una buffonata che l’ingiustizia si è appiccicata alle faccende umane: vizio e ingiustizia a causa dei quali non ci è possibile vedere neppure il sogno della coerenza con la natura cui inneggiano gli Stoici. Inoltre, la battuta triviale è soltanto una frazione dell’opera, occupa comunque un piccolo spazio nella commedia e i versi che le contengono non abbondano né rovinano o guastano la grazia dei versi che appaiono ben scritti. Del vizio sono invece zeppe tutte le faccende umane; e tutta la vita, subito dalla prima entrata in scena fino al suo coronamento, indecente com’è, degenerata, piena di sconcerti, priva di una qualunque parte pulita e irreprensibile, come dicono gli Stoici, [1066B] è di tutti i drammi il più vergognoso e il più sgradevole.

§ 15. Laonde io chiederei con piacere di sapere da Crisippo per che cosa il vizio sia stato proficuo al cosmo nella sua interezza. Egli certo non dirà che lo è stato per le cose celesti e divine. Sarebbe infatti ridicolo sostenere che se tra gli uomini non fossero nati e non esistessero il vizio, l’insaziabilità, la menzogna e se noi non ci recassimo a vicenda danni e rovine, non ci calunniassimo e ci uccidessimo, il sole non percorrerebbe il suo corso ordinato, il cosmo non utilizzerebbe le sue divisioni di tempo e i suoi cicli periodici, e la terra, la quale occupa il centro dell’universo, non darebbe principio ai venti e alle piogge. Rimane quindi la possibilità che il vizio sia nato per essere proficuo a noi e alle nostre cose: e forse è questo che gli Stoici affermano. [1066C] Siamo noi forse più in salute o abbiamo maggiore abbondanza delle cose che ci sono necessarie perché siamo viziosi? Il vizio è stato proficuo in vista della nostra bellezza o della nostra prestanza fisica? Gli Stoici dicono di no. Dove sta allora la proficuità del vizio su questa terra? Oppure il vizio è ‘soltanto un nome e una vacua sembianza di visioni notturne’? Ma il vizio è una visione ben reale che sta davanti a tutti ed è chiara agli occhi di tutti; e nulla c’è che sia meno proficuo del vizio per condividere qualcosa con la virtù, per gli dei, per la quale invece siamo nati. E poi non è strano che mentre le cose proficue all’agricoltore, al pilota e all’auriga sono favorevoli e cooperano al raggiungimento del fine di ciascuno di loro, ciò che il dio ha generato per la virtù ha invece rovinato e distrutto la virtù? [1066D] Ma forse è ormai tempo di volgersi ad un altro argomento e lasciare da parte questo.

§ 16. UN COMPAGNO. Per amor mio, caro amico, non farlo. Smanio dalla voglia di sapere in che modo i signori Stoici possano dare la precedenza ai mali rispetto ai beni, e al vizio rispetto alla virtù. 
DIADOUMENO. Ne vale, caro compagno, senza dubbio la pena. Dopo molto blablabla, alla fine quel che essi dicono è che la saggezza, essendo scienza dei beni e dei mali, sarebbe integralmente abolita se fossero aboliti i mali; e così come, essendoci il vero, è impossibile che non ci sia anche il falso, similarmente essi credono che, se esistono i beni, conviene che esistano anche i mali.
[1066E] UN COMPAGNO. Di questa loro affermazione io credo che una parte non sia sbagliata; però neppure mi sfugge l’altra. Infatti vedo una differenza tra le due parti, differenza per la quale se ciò ch’è non vero è ipso facto falso, ciò ch’è non bene non è ipso facto male. Laonde mentre nulla c’è di intermedio tra le cose vere e le cose false, le cose indifferenti sono invece intermedie tra i beni e i mali. E dunque non è necessario che questi coesistano con quelli, giacché basterebbe che la natura abbia il bene, non avendo alcun bisogno del male poiché già comprende in sé le cose che sono né bene né male. Se da parte vostra si dice qualcosa contro il ragionamento degli Stoici citato prima, è il caso di ascoltarlo.

§ 17. DIADOUMENO. Sono numerose le critiche che noi facciamo agli Stoici, ma tra di esse dobbiamo ora servirci soltanto di quelle necessarie. In primo luogo è da sempliciotti credere che la genesi dei mali e dei beni, sia la realtà sottostante al progetto di rendere possibile il conseguimento della saggezza. [1066F] Infatti, essendo i beni e i mali delle realtà esistenti di per sé, la saggezza sopravviene allo stesso modo in cui nasce l’arte medica, la quale nasce perché esistono di per sé degli stati di malattia e di salute. Dunque il bene e il male non sono realtà esistenti al fine di far nascere la saggezza, bensì è stata denominata saggezza la capacità grazie alla quale noi distinguiamo ciò ch’è bene e ciò ch’è male in quanto realtà esistenti di per sé. Così è anche nel caso della vista, la quale è il senso capace di percepire e distinguere gli oggetti bianchi da quelli neri. Ma questi oggetti non sono stati creati affinché noi avessimo la vista, bensì piuttosto siamo noi [1067A] che abbiamo bisogno della vista per distinguere gli oggetti di quel genere. In secondo luogo, quando fanno entrare il cosmo in conflagrazione universale, gli Stoici sostengono che esso non si lascia dietro alcun male, e che anzi allora è tutt’intero saggio e sapiente. Dunque la saggezza c’è anche in assenza del male, e non è necessario che esista il male perché sia possibile la saggezza. Comunque, se davvero bisogna assolutamente che la saggezza sia conoscenza certa dei beni e dei mali, cosa c’è di strano nel pensare che, essendo stati eliminati i mali, non ci sarà più la saggezza ma avremo al posto di quella un’altra virtù, che non è più quella dei beni e dei mali ma è la conoscenza certa dei soli beni? È come se tra i colori sparisse completamente il nero e in seguito a ciò uno si sentisse forzato a credere [1067B] che è sparita anche la vista, poiché non c’è più la sensazione degli oggetti bianchi e di quelli neri. Cosa impedisce di dire a costui: non c’è nulla di strano se noi non abbiamo più quella che tu chiami vista, ma al suo posto abbiamo un altro senso della vista, ossia una facoltà con la quale riusciamo a cogliere gli oggetti bianchi e quelli che sono di colori diversi dal bianco? Per parte mia io non credo che il senso del gusto svanirebbe se sparissero le cose amare, né il senso del tatto qualora si eliminassero le sofferenze, né la saggezza se fosse assente il male; ma credo che quei sensi permarrebbero, e con loro permarrebbe la capacità di cogliere le sensazioni delle cose dolci e piacevoli e di quelle che tali non sono; e quella saggezza che è conoscenza certa delle cose che sono beni e di quelle che sono non beni. [1067C] E coloro ai quali così non pare, si portino pure via il nome e lascino a noi la sostanza della faccenda.

§ 18. A parte ciò, cosa impedirebbe che vi sia intellezione del male, ma tanto intellezione che reale esistenza del bene? Così, io credo, accade tra gli dei, per i quali la salute è realtà presente, mentre della febbre e della pleurite essi hanno intellezione; giacché anche noi tutti, cui sono presenti in grande abbondanza i mali e nessun bene, come dicono gli Stoici, non siamo stati incapacitati per natura ad avere la cognizione della saggezza, del bene e della felicità. Stupefacente è anche il fatto che se ci sono coloro i quali insegnano che sorta di cosa è la virtù, pur in sua assenza, e ne infondono l’apprensione certa; allora del vizio, se esso fosse inesistente, neppure sarebbe possibile acquisire l’intellezione. [1067D] Ora, guarda un po’ di cosa vogliono persuaderci coloro i quali affermano che la loro filosofia è in pieno accordo con i concetti di comune buonsenso: che noi comprendiamo cos’è la saggezza solo grazie alla stoltezza, e che la saggezza senza la stoltezza è per natura incapace di comprendere tanto se stessa quanto la stoltezza.

§ 19. Se la natura avesse davvero assolutamente bisogno della genesi del male, uno o due modelli esemplari di vizio sarebbero sufficienti. Oppure, se proprio vuoi, dovrebbero esserci al mondo dieci, o mille o diecimila uomini malvagi, ma non esserci una profusione del vizio la cui moltitudine è tale che

‘i granelli di sabbia o la polvere o le piume degli uccelli dai variegati colori
non si innalzerebbero ad un numero così grande’,

mentre della virtù non c’è traccia neppure in sogno. [1067E] A Sparta i curatori incaricati delle mense comuni introducono a bella posta al banchetto due o tre iloti che hanno bevuto smodate quantità di vino puro e che quindi sono ubriachi, ed in questo modo mostrano ai giovani Spartani cosa voglia dire ubriacarsi, allo scopo che essi se ne tengano alla larga e siano temperanti. Nella vita la maggior parte delle nostre abitudini sono diventate modelli esemplari di vizio e neppure uno di noi è sobrio ed ha di mira la virtù, bensì camminiamo tutti ciondolando, ci comportiamo in modo indecente e siamo in preda all’infelicità. Essendo noi a questo punto, il discorso degli Stoici ci inebria, ci riempie di grande agitazione, ci fa vaneggiare così come avvenne alle cagne che, secondo il racconto di Esopo, mirando a cibarsi di certe pelli che galleggiavano sul mare, cominciarono a berlo, [1067F] col risultato di scoppiare prima di riuscire ad addentare quelle. Infatti noi speriamo di diventare in futuro felici grazie alla ragione e di essere da essa portati alla virtù, ma purtroppo essa ci ha già rovinato e distrutto ben prima di raggiungere la virtù, sovraccarichi come siamo di tanta pura ed amara viziosità; se è vero, come dicono gli Stoici, che anche per coloro i quali sono all’apice del progresso morale non c’è alleggerimento, non c’è sollievo, non c’è respiro dalla scempiaggine e dall’infelicità.

§ 20. [1068A] Colui il quale afferma che la genesi del vizio non è stata affatto improficua, guarda un po’ quale dimostrazione dà del fatto che per i viziosi esso è un bene utile e stabile. Infatti, nei libri ‘Sulle azioni rette’ Crisippo scrive: “Il vizioso non ha bisogno di nulla e non manca di nulla. Nulla gli è proficuo, nulla gli è appropriato, nulla gli è acconcio”. Come potrebbe dunque essere profittevole il vizio, in compagnia del quale neppure la salute è proficua, né lo sono la ricchezza di denaro né il progresso morale? Non si ha alcun bisogno di quelle cose che sono indifferenti promossi, di quelle che sono cose prendibili se offerte, di quelle che sono, per Zeus, profittevoli, e di altre che sono secondo natura, come le chiamano gli Stoici? E poi di queste cose nessuno ha bisogno, a meno che non sia diventato sapiente? Dunque il vizioso neppure ha bisogno di diventare sapiente. [1068B] Ma gli uomini non hanno sete e non hanno fame anche prima di diventare sapienti? E se hanno sete non hanno bisogno d’acqua, e di pane se hanno fame?

‘Voi siete simili ad ospiti miti
che approfittano soltanto di un tetto e del fuoco’.

Quest’uomo non ha mai avuto bisogno di ospitalità? Né di un mantello quell’uomo che dice:

‘Date un mantello a Ipponatte, perché ho i brividi per il freddo’.

Tu però vuoi dire qualcosa di paradossale, di straordinario e di originale? Allora dì che il sapiente non ha bisogno di nulla né manca di alcunché. Lui, il sapiente, è opulento dei veri beni, lui è il non bisognoso, lui è autosufficiente, beato, perfetto. Ora, che vertigine è mai questa, [1068C] per la quale chi di nulla è carente ha però bisogno dei beni che possiede; mentre il vizioso, che è carente di molte cose, di nulla ha bisogno? Questo infatti dice Crisippo, ossia che: “I viziosi non hanno bisogni e però sono carenti di molte cose”. Tu rialloghi i concetti di comune buonsenso come se si trattasse dei pezzi su una scacchiera. Infatti, tutti gli uomini legittimano l’idea che l’avere bisogno di qualcosa venga prima dell’esserne carente, ritenendo che sia carente colui il quale ha bisogno di cose che non ha a disposizione né può facilmente procurarsi. Pertanto nessun uomo è carente di corna o di ali, giacché di esse egli neppure ha bisogno; e invece diciamo che gli uomini sono carenti di armi, di denaro e di vestiti quando essi, giunti ad averne bisogno, non avendoli neppure riescano a procurarseli. Gli Stoici però smaniano a tal punto di apparire sempre coloro che dicono [1068D] cose contrarie ai concetti di comune buonsenso, che spesso si dipartono dalle loro stesse dottrine per smania di dire delle novità, come in questo caso.

§ 21. Adesso cerca di portarti più in alto e considera un poco questo. Una delle affermazioni che si fanno e che è contraria ai concetti di comune buonsenso, è che nessun vizioso può ricevere un giovamento. Eppure molti di noi quando siano educati fanno dei progressi, se sono schiavi vengono liberati, se sono assediati si salvano, se sono storpi vengono condotti per mano e se sono ammalati sono curati. “Ma quando capitino loro queste cose i viziosi non ne traggono giovamento né sperimentano alcunché di positivo, e neppure hanno benefattori né li trascurano”. Quindi i viziosi non sono ingrati, e invero neppure gli uomini assennati lo sono. [1068E] Dunque l’ingratitudine è inesistente, giacché questi ultimi non mancano di gratitudine quando ricevano una grazia, mentre i primi non sono nati per ricevere una grazia. Ora, guarda cosa dicono al riguardo gli Stoici. Essi affermano che la gratitudine pertiene agli atti intermedi e che il giovare ed il trarre giovamento è proprio dei sapienti, mentre capita anche ai viziosi di essere riconoscenti e grati. In tal caso coloro ai quali spetta essere grati non sono coloro ai quali è toccata un’utilità? E quando ci si mostra grati, non è in riferimento a qualcosa di proficuo per noi personalmente? Cos’altro rende un servigio un fatto degno di gratitudine, se non che chi ha reso quel servigio ha fatto una cosa profittevole a chi ne aveva bisogno? 

§ 22. UN COMPAGNO. Per ora mettiamo da parte queste questioni. Cos’è, invece, questo tanto decantato giovamento [1068F] che gli Stoici riservano ai sapienti quale loro grande ed esclusivo appannaggio, non concedendo ai non sapienti neppure l’uso di tale nome?
DIADOUMENO. Se mai un solo sapiente, dove che sia, protenderà un dito a motivo della sua saggezza, tutti i sapienti in giro per il mondo ne traggono giovamento. Ciò è opera dell’amicizia tra di loro e questa è l’opera che le virtù dei sapienti portano a compimento con i comuni giovamenti che essi si recano. [1069A] Vaneggiava dunque Aristotele, vaneggiava Senocrate quando dichiaravano che gli uomini traggono giovamento dagli dei, traggono giovamento dai genitori, traggono giovamento dai maestri, perché ignoravano lo stupefacente giovamento col quale i sapienti si giovano l’un l’altro muovendosi secondo virtù, anche nel caso non siano insieme e capiti che non si conoscano. Invero, qualora si tratti di cose proficue e giovevoli, tutti gli uomini concepiscono come proficue e giovevoli le azioni di selezione, di conservazione e di amministrazione di esse; e il riccone fa comperare delle chiavi, [1069B] fa sorvegliare i suoi magazzini ma:

‘la dilettissima cassaforte la disserra con la sua propria mano’.

Invece il fare opera di selezione su cose che sono per nulla giovevoli, il conservarle con cura ed a costo di grandi fatiche è un’azione né solenne né bella, ma del tutto ridicola. Se dunque Odisseo, che aveva imparato da Circe a fare quello speciale nodo, avesse con esso suggellato nell’arca non i doni ricevuti da Alcinoo: tripodi, bacili, vesti preziose, oro; bensì dello strame, dei sassi e dopo avere messo insieme altri oggetti del genere avesse ritenuto il loro trattamento, la loro acquisizione e la loro conservazione un’opera conducente alla felicità e beata: chi avrebbe inteso emulare una tale dissennata previdenza e una così frivola diligenza? [1069C] Ma questo è proprio il bello, il solenne, il beato della Stoica coerenza con la natura: null’altro che la selezione e la conservazione delle cose del tutto futili e indifferenti. Giacché siffatti sono gli indifferenti secondo natura e ancor più gli oggetti esterni; se appunto gli Stoici paragonano la più grande ricchezza di denaro a frange dorate e pitali d’oro e, quando loro capiti, per Zeus, pure a delle fiaschette. Poi, come coloro i quali pensano bene di oltraggiare e di ingiuriare in modo oltracotante gli altari di certi dei o di certi demoni, ma appena cambiano opinione subito si prostrano, si fanno piccini piccini e si sperticano in lodi del divino e ne esaltano la grandezza; così gli Stoici i quali fanno un gran baccano urlando che la sola cosa nobile, bella, solenne è la selezione e l’amministrazione delle cose indifferenti, quando incappano in una sorta di nemesi per questa loro iattanza [1069D] e il loro vuoto parlare sono a loro volta smentiti proprio da queste cose indifferenti e che per loro sono di nessun valore, giacché non ottenendole dichiarano che la vita non è più degna di essere vissuta e che, pur esprimendo molti ringraziamenti alla virtù, è però meglio tagliarsi la gola o lasciarsi morire di inedia. E quindi gli Stoici ritengono Teognide una persona infame e piccina perché afferma:

‘Per fuggire la povertà di denaro è d’uopo anche gettarsi
nello smisurato mare e da rupi scoscese, o Cirno’

e fa così [1069E] il codardo davanti alla povertà di denaro, che è invece una cosa indifferente. Ma essi prescrivono con un discorso terra terra le stesse identiche cose, dicendo che quando si tratta di fuggire una malattia grave e una sofferenza intensa, delle quali né l’una né l’altra sono cose dannose, né sono un male, e neppure cose sconvenienti né rendono infelici coloro che vi incappano, se non si ha a disposizione una spada o della cicuta, è d’uopo buttarsi in mare o gettarsi giù dalle rocce.

§ 23. Crisippo dice: “Da dove, dunque, comincerò? E quale principio di ciò ch’è doveroso e quale materiale della virtù prendere, se tralascio la natura e ciò ch’è secondo natura?” Da dove cominciano Aristotele, mio caro, e Teofrasto? E cosa prendono quali principi Senocrate e Polemone? E Zenone non seguì forse costoro [1069F] che suggerivano la natura e l’armonia con la natura quali elementi della felicità? Tuttavia quei maestri rimasero fermamente dell’idea che degne di scelta, buone e giovevoli sono le cose secondo natura. Aggiunsero inoltre che la virtù operava con esse, utilizzandone ciascuna in modo appropriato; e credevano che a partire da esse si potesse completare e conchiudere una vita perfetta ed integra, restituendoci così una coerenza con la natura che alla natura è davvero conforme e consona. Essi non propugnavano la sconcertante confusione di coloro che fanno salti per aria e poi ricadono di nuovo a terra denominando le medesime cose, [1070A] come cose che possono essere prese se offerte ma che possono essere non scelte; appropriate ma non beni; del tutto futili ma profittevoli; cose che sono nulla in relazione a noi ma che sono fondamenti di quanto è doveroso. Invece, quale era la dottrina tale era la vita di quei maestri, ed essi facevano sì che le loro azioni fossero esattamente corrispondenti ed in armonia con i discorsi che facevano. Invece la scelta degli Stoici è come quella della donna di cui Archiloco dice:

‘con una mano portava dell’acqua,
quella meditatrice di inganni, e con l’altra del fuoco’,

giacché con alcune delle loro dottrine essi mettono in primo piano la natura, mentre con altre la spingono fuori scena; e soprattutto quando si tratta di opere e di faccende pratiche essi tengono per buone e degne di scelta le cose secondo natura, ma quando si tratta di nomi e di frasi le cose secondo natura essi le rigettano e le coprono di fango come indifferenti, improficue e [1070B] prive di peso per il conseguimento della felicità.

§ 24. Poiché tutti gli uomini senza distinzione alcuna concepiscono il bene come qualcosa di rallegrante, auspicabile, fortunato, dotato di grandissimo valore, autosufficiente e bisognoso di nulla: mettigli accanto il bene come lo concepiscono gli Stoici e guardalo. Protendere il dito a motivo della propria saggezza è forse ‘rallegrante’? Cosa? È ‘auspicabile’ una saggia tortura? È ‘fortunato’ chi si butta in un precipizio ragionevolmente? È ‘di grandissimo valore’ ciò che spesso la ragione sceglie di abbandonare invece di abbandonare ciò che un bene non è? È perfetto e ‘autosufficiente’ quel bene pur in presenza del quale gli Stoici, qualora non ottengano delle cose indifferenti, né vogliono né sopportano più di vivere? C’è mai stata al mondo un’altra dottrina dalla quale la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni sia stata più ingiustamente maltrattata, [1070C] che le abbia portato via e strappato dal seno, quali figli legittimi, i genuini concetti di comune buonsenso e gliene abbia attaccati altri, figli bastardi, concetti bestiali e d’altra specie, costringendola ad allevare ed a nutrire affetto per questi invece che per quelli? E tutto ciò è avvenuto nell’ambito delle questioni riguardanti i beni e i mali, ciò ch’è degno di scelta e ciò ch’è da fuggirsi, ciò ch’è nostro proprio e ciò ch’è allotrio: tutte cose nelle quali ci dovrebbe essere un’evidenza ancor più luminosa di quella riguardante le cose calde e fredde, e le bianche e le nere. Le rappresentazioni di queste ultime, infatti, si fanno strada e diventano sensazioni provenendo dall’esterno, mentre le rappresentazioni dei beni e dei mali hanno una genesi da principi che sono in noi connaturati. Gli Stoici, tuttavia, affrontando la discussione sulla felicità armati di quella dialettica [1070D] con la quale affrontano i ragionamenti sul ‘Mentitore’ e sul ‘Dominatore’, non hanno risolto alcuna ambiguità ed anzi ne hanno introdotto miriadi.

§ 25. Nessuno ignora che di due beni: il ‘fine’ e ‘ciò che mira al fine’; il maggiore e più perfetto è il ‘fine’. Anche Crisippo riconosce questa differenza, come è manifesto nel terzo libro ‘Sui beni’, quando egli dissente dall’opinione di coloro che ritengono essere la scienza il ‘fine’ e stabilisce che essa è un bene in vista di un fine e per ciò stesso non è un fine. Nei libri ‘Sulla giustizia’ Crisippo non crede che si possa salvaguardare la giustizia se si suggerisse che il piacere della carne è il ‘fine’, mentre crede che ciò sia possibile se si suggerisse che esso è non il fine ma semplicemente un ‘bene’. E non credo che tu abbia bisogno di udirmi esporre le sue parole, dal momento che il terzo dei suoi libri ‘Sulla giustizia’ [1070E] è disponibile dovunque. Pertanto, amico caro, qualora gli Stoici ripetano che nessun bene è più grande o più piccolo di un altro bene, ma che quello che non è il fine è pari al fine, essi si mostrano in contraddizione non soltanto con i concetti di comune buonsenso ma anche con le loro stesse dottrine. Inoltre, se ci sono due mali a causa di uno dei quali noi diventiamo peggiori qualora esso divenga presente, mentre l’altro ci danneggia sì ma non ci rende peggiori: è contro il comune buonsenso affermare che il male a causa del quale noi diventiamo peggiori sia non maggiore di quello che ci reca danno ma non ci rende peggiori, e negare che sia più funesto il danno che risulta renderci più malvagi. E Crisippo ammette che vi sono certe paure, afflizioni, inganni i quali ci danneggiano, ma che non ci rendono peggiori. Leggi a caso il primo dei libri scritti da lui contro Platone [1070F] ‘Sulla giustizia’ giacché, anche per altri motivi, merita investigare lì la speciosità dell’uomo, una speciosità che schiettamente non ha riguardo per i fatti e per i giudizi, sia propri che altrui. 

§ 26. È contro il comune buonsenso sostenere che la vita abbia due fini o scopi e che il riferimento di tutte le azioni che noi effettuiamo non sia ad uno solo di essi. [1071A] Ancor più contrario al comune buonsenso è credere che il fine sia una certa cosa, e che invece ciascuna delle nostre azioni faccia riferimento a qualcos’altro; ed è necessario che gli Stoici accettino di scegliere o l’una o l’altra di queste alternative. Se infatti le cose per natura primarie sono non beni, ed invece lo sono la loro selezione razionale e la nostra presa di possesso di esse, e che ciascuno faccia tutto ciò che può per centrare le cose per natura primarie, allora bisogna che tutte le nostre azioni facciano riferimento a quello scopo che è il centrare le cose per natura primarie. Non sarebbe infatti possibile avere il fine di centrarle se noi non le tenessimo come bersaglio e non le prendessimo di mira, e qualora il sommo bene fosse diverso dalle cose alle quali le nostre azioni devono fare riferimento, ossia se avessimo di mira la loro selezione e non le cose per natura primarie in quanto tali. [1071B] Il sommo bene, insomma, è quello di selezionare e prendere saggiamente possesso delle cose per natura primarie, mentre invece le cose per natura primarie in quanto tali e il centrarle non è il sommo bene, ma una sorta di materiale soggiacente e dotato di un valore degno di selezione. Questa, io credo, è la formulazione con la quale, parlando e scrivendo, essi mostrano la differenza. 
UN COMPAGNO. Col coraggio di un vero uomo hai menzionato ciò che gli Stoici dicono e come lo dicono.
DIADOUMENO. Considera che gli Stoici sperimentano la stessa cosa che sperimentano coloro i quali mirano a saltare aldilà della propria ombra, giacché essi non si lasciano affatto alle spalle quell’assurdità che se ne sta distantissima dai concetti di comune buonsenso, ma se la trasportano dietro ben dentro la loro dottrina. Se qualcuno dicesse che un arciere fa tutto ciò ch’è in suo potere non per centrare il bersaglio [1071C] bensì per fare tutto ciò ch’è in suo potere, sembrerebbe uno che fa discorsi mostruosi e simili ad enigmi. Allo stesso modo i rimbambiti i quali vogliono per forza che il fine di mirare alle cose secondo natura non sia quello di ottenere le cose secondo natura bensì quello di prenderle di mira e di selezionarle per noi stessi; i quali vogliono per forza che per ciascuno di noi il mirare alla salute e l’inseguimento di essa non finiscano con il suo ottenimento bensì, tutt’al contrario, che quando si parla di essere in salute ci si riferisca al semplice aver di mira ed inseguire la salute; i quali fanno diventare certe passeggiate, degli esercizi vocali, delle operazioni chirurgiche e pure, per Zeus, l’uso razionale dei farmaci i fini della salute, e non invece la salute il fine di tutte queste azioni: ebbene tutti costoro vaneggiano come colui che dice:

‘orsù mangiamo al fine di sacrificare agli dei, al fine di fare un bagno purificatore’.

[1071D] Il personaggio che recita questo verso altera qualcosa di solito e di legittimato dall’uso capovolgendone l’ordine, mentre le dottrine che gli Stoici sostengono hanno la caratteristica di rappresentare un completo sovvertimento e di introdurre una totale confusione nelle nostre faccende pratiche: “Noi non ci prendiamo la briga di fare una passeggiata al momento opportuno per poter digerire il cibo, bensì digeriamo il cibo per poter fare una passeggiata al momento opportuno”. Senza dubbio, dunque, la natura ha creato la salute per l’uso dell’elleboro e non l’elleboro per ottenere la salute. Cos’altro resta agli Stoici da dire per colmo di paradosso, più che vaneggiare affermazioni di questo genere? Colui il quale afferma che la selezione dei farmaci, la loro composizione e il loro utilizzo sono da scegliersi più della salute stessa, in cosa differisce da chi dice che [1071E] la salute è stata creata per l’uso dei farmaci e non i farmaci per l’ottenimento della salute? E per di più ritiene che la salute non sia il vero oggetto degno d’essere scelto e così pone il fine nel trattamento di quei farmaci, e quindi dichiara che il fine è l’avere di mira il conseguimento e non invece il conseguire ciò che si ha di mira: “Giacché, per Zeus, il ‘razionalmente’ e il ‘saggiamente’ appartengono all’avere di mira”? Noi diremo dunque certamente corretta questa affermazione se lo Stoico intendesse quale fine l’ottenimento e il possesso delle cose che persegue; ma in caso contrario il mirare a qualcosa perde ogni razionalità giacché si riduce semplicemente al fare tutto il possibile per ottenere ciò il cui ottenimento è né solenne né beato.

§ 27. [1071F] Poiché siamo giunti a questo punto del discorso, cosa diresti tu essere più contrario al comune buonsenso del fatto che gli Stoici prendano di mira e perseguano il bene senza avere afferrato e senza attenersi al concetto di buonsenso del bene? Tu vedi, infatti, che anche Crisippo caccia Aristone in questo vicolo cieco, dal momento che i fatti non ci permettono di pensare la ‘indifferenza’ verso ciò ch’è né bene né male, se noi non abbiamo già pensato in precedenza cosa è bene e cosa è male. In tal modo, se è impossibile avere la cognizione di ‘indifferenza’ senza avere prima avuto la cognizione di ciò ch’è ‘bene’, [1072A] l’indifferenza appare preesistere a se stessa: ma allora essa soltanto e null’altro è ‘bene’. Orsù considera come e da dove questa che la Stoa nega essere indifferenza e chiama invece ‘coerenza con la natura’ sia riuscita a far avere di se stessa la cognizione di essere un bene. Se infatti senza la cognizione del bene è impossibile pensare l’indifferenza verso il non bene, a maggior ragione la saggezza in fatto di cose nobili e buone non concede il divisamento di se stessa a coloro che non hanno prima pensato il bene. E come la cognizione dell’arte in fatto di cose salutari e di cose malsane non nasce in coloro i quali non abbiano prima acquisito la cognizione di esse, così non è possibile afferrare il concetto di scienza dei beni e dei mali se non a coloro che hanno prima concepito [1072B] cosa siano i beni e cosa siano i mali.
UN COMPAGNO. E dunque cos’è il bene?
DIADOUMENO. Null’altro che la saggezza. 
UN COMPAGNO. E cos’è la saggezza?   
DIADOUMENO. Null’altro che la scienza dei beni. 
UN COMPAGNO. Dunque molto ‘Corinto, figlio di Zeus’ si è intrufolato nella dottrina degli Stoici.
DIADOUMENO. Lascia stare ‘i giri del pestello nel mortaio’, affinché non paia che tu stia schernendo gli Stoici; seppure si tratta proprio di una malattia simile al ‘Corinto, figlio di Zeus’ quella che affligge la loro dottrina. È infatti evidente che per avere la cognizione del bene, lo Stoico ha bisogno di avere la cognizione della saggezza; e che, a sua volta, ricercando la saggezza nella cognizione del bene, è costretto ad inseguire continuamente l’una e poi l’altra e così finisce per lasciarsi dietro sia la precedente che la seguente, giacché ha bisogno di avere una cognizione precedente, della quale però egli non può avere cognizione se è sprovvisto della seguente. C’è anche un altro modo che permette di discernere a fondo [1072C] non tanto la perversione ma la vera e propria stortura della dottrina degli Stoici, e finalmente il suo ridursi a nulla. Gli Stoici pongono infatti la sostanza del bene nella selezione razionale delle cose che sono secondo natura; e una selezione non è razionale se non avviene in vista di un qualche fine, come è già stato detto in precedenza. Qual è dunque questo fine? Null’altro, essi affermano, che l’operare razionalmente nella selezione delle cose che sono secondo natura. In primo luogo, pertanto, qui il concetto di buonsenso del bene è sparito e risulta fuggito chissà dove, giacché il procedere razionalmente nella selezione è nient’affatto un accidente fortuito ma nasce invece da una postura abituale dell’animo a procedere razionalmente. Perciò, siccome noi siamo costretti ad avere la cognizione di procedere razionalmente dal fine che ci poniamo, e però non si dà una cognizione del fine senza il procedere razionalmente, ecco che ci viene meno [1072D] la cognizione di entrambi. In secondo luogo, ed è la cosa più importante, a stretto rigor di logica la selezione razionale dovrebbe essere selezione di beni che sono giovevoli e che cooperano verso il fine; giacché come può essere razionale il selezionare per sé cose né utili né onorevoli e, in complesso, neppure oggetto di scelta? Sia dunque concesso trattarsi, come essi dicono, di una selezione razionale delle cose dotate di valore in vista dell’essere felici. Guarda allora come il loro ragionamento giunga così al suo punto capitale bellissimo e solenne. Infatti, come sembra, secondo loro, il ‘fine’ diventa l’operare razionalmente nella selezione delle cose che hanno valore al fine di operare razionalmente. 
UN COMPAGNO. Se espressa in questi termini, caro compagno, la formulazione suona assai stramba agli orecchi di chi ascolta. [1072E] Inoltre ho bisogno di comprendere bene come tutto ciò accada.
DIADOUMENO. Allora fa’ bene attenzione, giacché risolvere un enigma non è cosa che possa fare il primo che capita. Ascolta e rispondimi. Dunque, secondo gli Stoici il fine non è forse l’operare razionalmente nella selezione delle cose che sono secondo natura? 
UN COMPAGNO. Sì, essi così dicono.
DIADOUMENO. Le cose secondo natura sono selezionate in quanto sono beni, o cose dotate di un certo valore o degne d’essere promosse in vista di un certo fine, oppure sono selezionate in vista di qualche altra cosa? 
UN COMPAGNO. Non ritengo che lo siano in vista di qualcos’altro, bensì in vista del fine.
DIADOUMENO. Bene, allora renditi conto che hai già disvelato ciò che accade agli Stoici, ossia il fatto che per essi il fine è l’operare razionalmente nella selezione delle cose che hanno valore al fine di operare razionalmente. Infatti i nostri uomini affermano che il bene e la felicità non hanno, e non si può pensare che abbiano, altra sostanza [1072F] che questa tanto onorata razionalità nella selezione delle cose dotate di valore. Tuttavia vi sono alcuni i quali credono che questa obiezione sia rivolta contro il solo Antipatro e non contro tutta la scuola Stoica: in quanto Antipatro, sotto la pressione di Carneade, si sarebbe squagliato in queste ragioni speciose. 

§ 28. I concetti filosofici sulla passione amorosa elaborati nell’ambito della Stoa sono contrari ai concetti di comune buonsenso e hanno tutti dell’assurdo. [1073A] Infatti gli Stoici affermano che i giovani sono brutti poiché sono viziosi e dissennati; mentre belli sono i giovani sapienti; e che nessuno di quei giovani belli è oggetto di passione amorosa né è degno di passione amorosa. Ma non è ancora questa la parte terribile, giacché essi dicono pure che coloro i quali provano passione amorosa per dei giovani brutti, cessano di amarli se essi diventato belli. Chi mai conosce una passione amorosa del genere, la quale alla vista della depravazione del corpo e insieme dell’animo, si sostenta e s’infiamma; mentre quando s’ingenera la bellezza e insieme la saggezza accompagnata da giustizia e temperanza, la passione amorosa si estingue ed appassisce? Simili amanti io credo che non differiscano affatto dalle zanzare, giacché esse si deliziano di feccia e d’aceto, mentre volano lontano dal buon vino e lo evitano. [1073B] In primo luogo non è plausibile che quello che essi chiamano e denominano ‘palesamento della bellezza’ sia ciò che trasporta all’amore, giacché nei giovani più brutti e più viziosi non potrebbe avvenire palesamento alcuno della bellezza; se appunto, come essi dicono, la depravazione del carattere infetta anche l’aspetto. In secondo luogo, è completamente contrario al buonsenso che il giovane brutto sia degno di passione amorosa perché un giorno forse avrà o si suppone che otterrà la bellezza, e che una volta acquisitala e diventato bello e virtuoso non sia più oggetto della passione amorosa di alcuno.
UN COMPAGNO. Essi affermano che la passione amorosa è caccia ad un adolescente imperfetto certo, ma con una disposizione da purosangue alla virtù. 
DIADOUMENO. Ma, mio caro, cos’altro stiamo noi adesso facendo se non contestare la scuola Stoica per il suo sforzo di [1073C] distorcere e di stravolgere i nostri concetti di comune buonsenso attraverso l’indicazione di comportamenti inverosimili e l’introduzione di termini bislacchi ed inauditi? Nessuno impedirebbe di designare come ‘caccia’ o ‘stringere amicizia’ l’attenzione piena di premure dei sapienti verso i giovani, quando a questa non sia congiunta la passione. Ma bisognerebbe chiamare ‘passione amorosa’ quello che tutti gli uomini e tutte le donne capiscono e chiamano con questo nome:

‘e bramarono tutti di stendersi in letto con lei’

ed anche

‘mai così desiderio di dea o di donna mortale
mi vinse, spandendosi dappertutto nel petto’.

§ 29. Inoltre gli Stoici, mentre scacazzano la loro Etica su faccende di questo genere

‘cose distorte, e nulla di sano ma tutto <pensando> in modo tortuoso’

svillaneggiano e dileggiano gli altri filosofi, sostenendo di essere loro i soli a rimettere la Fisica sulla retta via: via che, com’è d’uopo, è quella della comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni; e poi istituendo [1073D] di rifiutare ogni altra Logica e di riportare ciascuno di noi con le sue mire, i suoi perseguimenti e i suoi impulsi alla condizione di uomo che gli è appropriata. Però la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni, una volta diventata un filtro della Dialettica, nulla di utile né di sano ha fatto loro ritrarre da essa, e come un senso dell’udito malsano la loro Dialettica è stata invece riempita di durezza d’udito e di incertezza di suoni ad opera di vuoti echi. Circa la Logica, se vuoi, discuteremo però un’altra volta cominciando da un diverso punto di partenza. Adesso passiamo invece in rassegna nei suoi punti cruciali la Fisica degli Stoici la quale, non meno della loro dottrina sui fini, mette a soqquadro i preconcetti di comune buonsenso.

§ 30. In generale, è assurdo e contrario ad ogni concetto di comune buonsenso sostenere che qualcosa è, e che però è un non-ente. [1073E] Che gli Stoici dicano che qualcosa è, e che però è un non-ente, diventa il colmo dell’assurdità quando ciò sia detto dell’universo. Dopo avere messo una cintura di vuoto infinito al di fuori del cosmo, essi infatti affermano che l’universo è né un corpo né un incorporeo. A ciò s’accompagna l’affermazione che l’universo è un non-ente, giacché essi chiamano enti soltanto i corpi; e siccome proprietà dell’ente è quella di fare o subire un’azione, l’universo è un non-ente: sicché esso né farà né subirà mai qualcosa. Ma allora esso neppure sarà in un certo luogo, giacché ciò che occupa un luogo essendo necessariamente un corpo e l’universo essendo un non-corpo, l’universo è in nessun luogo. Inoltre, il corpo cui è accaduto di occupare sempre lo stesso luogo è quello che permane in quiete: sicché l’universo non permane in quiete giacché non occupa un luogo. Ma esso neppure si muove: in primo luogo, perché il corpo in moto abbisogna di un luogo entro cui muoversi e quindi di uno spazio che gli faccia da substrato, [1073F] in secondo luogo perché un corpo che si muove, per natura o si muove da sé oppure subisce l’azione di un altro corpo. Pertanto il corpo che si muove da sé ha di per se stesso certe inclinazioni e certe propensioni a seconda della sua pesantezza o leggerezza: pesantezza e leggerezza le quali sono stati relativi o facoltà o differenze in ogni caso di un corpo; mentre l’universo è un non-corpo: [1074A] sicché di necessità esso è né pesante né leggero e neppure ha di per se stesso un principio di moto. Ma l’universo neppure è mosso da qualcos’altro, giacché nulla vi è che sia altro dall’universo: sicché è necessario che gli Stoici dicano quel che dicono, ossia che l’universo né permane in quiete né è in moto. Insomma, poiché secondo gli Stoici non è assolutamente lecito chiamare corpo l’universo, e però sono corpi il cielo, la terra, gli animali, i vegetali, gli uomini e le pietre: quello che è un non-corpo avrà come sue parti dei corpi, e di quello che è un non-ente saranno parti degli enti; ciò che è non-pesante utilizzerà pezzi pesanti, e ciò che è non-leggero dei pezzi leggeri. Tutte fantasticherie delle quali neppure nei sogni è possibile trovare equivalenti maggiormente in contrasto con i concetti di comune buonsenso. [1074B] Eppure nulla è così evidente ed aderente ai concetti di comune buonsenso quanto il dire che se qualcosa è non-animato, esso è inanimato; e a sua volta che se qualcosa è non-inanimato, esso è animato. Gli Stoici quindi sovvertono questa evidenza ed ammettono, invece, che l’universo sia né inanimato né animato. A parte ciò, nessuno pensa imperfetto quel tutto cui non manca parte alcuna; mentre invece gli Stoici affermano che l’universo è non-perfetto, giacché perfetto è qualcosa di definito; mentre l’universo è indefinito per la sua infinità e pertanto, secondo loro, è qualcosa che è né imperfetto né perfetto. Ma l’universo non è una parte, giacché nulla è più grande di esso; e neppure è l’intero; [1074C] giacché, come essi dicono, è in riferimento a qualcosa di fisso e ben posizionato che si usa il predicato ‘intero’, mentre invece l’universo, a causa della sua infinità è indefinito e senza una posizione fissa. Quanto all’agente causativo, non c’è qualcos’altro che sia causativo dell’universo, poiché non esiste altro oltre l’universo; e l’universo non è causativo d’altro né di se stesso. Esso non è nato per il ‘fare’, mentre il causativo è pensato tale per la sua capacità di ‘fare’. Orsù, ammettiamo adesso che a tutti gli uomini sia chiesto quale cognizione abbiano del ‘niente’ e quale divisamento se ne facciano. Non risponderebbero tutti che ciò che non esiste come causa né ha una causa, è né intero né parte, né perfetto né imperfetto, né animato né inanimato, né in moto né in quiete da qualche parte, è né corpo né incorporeo: [1074D] questo e nient’altro è il niente? Pertanto, qualora tutti quanti quelli che il resto dell’umanità asserisce essere predicati del niente, per gli Stoici soltanto siano invece predicati dell’universo: è verosimile che gli Stoici appaiano identificare l’universo col niente. Ma allora si devono chiamare ‘niente’ anche il tempo, il predicato, la proposizione, il periodo ipotetico e quello copulativamente coordinato: insomma gli strumenti di cui essi soprattutto, tra i filosofi, si servono, proprio loro dicono che sono ‘inesistenti’. Sostenere che la realtà vera né c’è né esiste e che però possa essere afferrato e sia afferrabile e degno di fiducia ciò che non partecipa della sostanza dell’essere, come può dirsi che non vada oltre ogni assurdità? 

§ 31. Tuttavia, affinché non sembri che l’assurdità di queste dottrine Stoiche sia principalmente di carattere logico, atteniamoci all’assurdità delle loro dottrine fisiche. [1074E] Poiché come dicono loro:

‘Zeus in principio, Zeus a mezzo, Zeus di tutto è il compimento’;

ove qualcosa di sconcertante o di erroneo si fosse ingenerato nei concetti di comune buonsenso circa gli dei, bisognerebbe soprattutto che gli Stoici procedessero ad aggiustarli e a riportarli sulla retta via al loro meglio; e altrimenti che li lasciassero così come ciascun popolo li ha, ossia ossequienti alla legge e alla comune consuetudine verso il divino

‘giacché non ora e non ieri, ma sempre vivono queste cose 
e nessuno sa da quando esse apparvero’.

Gli Stoici, invece, come hanno cominciato a smuovere dalle fondamenta le istituite ed avite consuetudini e credenze circa gli dei così, per dirla in breve, non hanno lasciato sano ed integro alcun concetto di comune buonsenso. [1074F] Quale creatura diversa dagli uomini c’è o ci fu mai, la quale non abbia la cognizione che il divino è imperituro e sempiterno? Nessun’altra voce ha mai detto poeticamente ed in modo coerente con i preconcetti di comune buonsenso circa gli dei, parole più elevate di queste:

‘là il giorno intero godono beati gli dei’

e queste,

‘degli dei immortali e degli uomini che camminano sulla terra’

e queste altre [1075A]

‘essi infatti sono al riparo dalla malattia e dalla vecchiaia
né hanno esperienza di dolori, essi cui mai toccherà
la traversata cupa di grida dell’Acheronte’.

Qualcuno potrebbe forse imbattersi in popolazioni barbare e selvagge le quali non hanno la cognizione di dio, ma mai è nato anche un solo uomo il quale, avendo la cognizione di dio, non lo pensi come imperituro e sempiterno. Ora, questi che furono designati quali filosofi Atei: i Teodoro, i Diagora e gli Ippone, non ebbero l’ardire di sostenere che il divino sia perituro, ma erano bensì convinti che nulla esistesse di imperituro. In questo modo, non lasciando alcuno spazio all’esistenza dell’imperituro, quegli Atei si ponevano in realtà a difesa del comune preconcetto di dio. Ma Crisippo e Cleante dopo avere a parole, per così dire, infarcito di dei [1075B] il cielo, la terra, l’aria e il mare; a nessuno di tali e tanti personaggi hanno riservato vita imperitura e sempiterna, ad eccezione di Zeus, nel quale essi fanno consumare tutti gli altri. Sicché a Zeus è anche congiunta la caratteristica di far perire, che è cosa non più giusta e conveniente dell’essere fatto perire. Infatti, è certo una sorta di debolezza quella per cui una divinità perisce trasformandosi in una diversa, e quella diversa si preserva essendo nutrita dalle altre divinità che periscono e in essa si consumano. Queste, come molte altre, non sono assurdità che noi deduciamo come insite nelle loro premesse e conseguenti alle loro dottrine. Sono loro stessi, invece, nei loro scritti sugli Dei, la Prònoia, il Destino e la Natura, ad affermare a gran voce e in termini precisi che tutti gli altri dei [1075C] sono stati soggetti a nascita nel passato e saranno soggetti a perire in futuro nel fuoco, dal momento che secondo loro essi sono fusibili come fossero di cera o di stagno. Pertanto, com’è contrario al concetto di comune buonsenso sostenere che l’uomo sia immortale, altrettanto lo è il sostenere che dio sia mortale: insomma io non vedo più quale sarà la differenza tra dio e l’uomo se anche dio è un animale razionale e perituro. Qualora poi gli Stoici contrappongano questa sapiente e bella finezza, cioè affermino che l’uomo è mortale, mentre dio è non-mortale ma perituro, guarda un po’ cosa ne consegue per loro: infatti, essi staranno dicendo o che dio è contemporaneamente immortale e perituro, oppure che dio è né mortale né immortale. Affermazioni delle quali è impossibile oltrepassare l’assurdità neppure plasmando a bella posta [1075D] concetti altri e diversi, contrari al comune buonsenso. Intendo impossibile per altri filosofi, giacché non c’è alcuna delle affermazioni più assurde che gli Stoici abbiano pretermesso di pronunciare o di argomentare dialetticamente. Inoltre Cleante, nella sua gara a favore della conflagrazione universale, afferma che il sole assimilerà a sé e trasformerà in se stesso la luna e tutti i restanti astri. Ma allora gli astri, che pure sono dei, mentre danno il loro contributo alla conflagrazione universale cooperano con il sole alla loro rovina. Sarebbe pertanto ben ridicolo che noi li supplicassimo per la nostra salvezza e li legittimassimo come salvatori degli uomini, quando per natura essi affrettano [1075E] la loro stessa rovina e la loro eliminazione. 

§ 32. Invero, in polemica contro Epicuro, gli Stoici non tralasciano alcun ‘ah! ah! oh! oh!’ e gridano che egli, levata di mezzo la Prònoia, mette in confusione i comuni preconcetti che noi abbiamo degli dei. Infatti, non basta anticipare e pensare dio immortale e beato soltanto, ma bisogna anche concepirlo filantropo, provvido e giovevole: il che è vero. Se però coloro i quali, non ammettendo l’esistenza della Prònoia, fanno sparire il comune preconcetto che noi abbiamo di dio; cosa fanno coloro i quali sostengono che gli dei provvedono sì a noi, ma non ci giovano; non sono datori di beni bensì di cose indifferenti; non elargendoci la virtù, ci elargiscono bensì la ricchezza, la salute, la generazione di figli e cose di questo genere, [1075F] neppure una sola delle quali è tuttavia giovevole, vantaggiosa e degna di scelta? Non è forse vero che mentre gli Epicurei fanno sparire i concetti di comune buonsenso circa gli dei, gli Stoici questi dei li oltraggiano in modo indegno e li espongono al ludibrio affermando che un certo dio è Epicarpio ossia Guardiano dei frutti, Genetlio ossia Protettore delle nascite, Peana ossia Soccorritore, Oracolare ossia Profetico; [1076A] quando né la salute né la generazione né l’abbondanza di frutti sono beni, bensì delle cose indifferenti e del tutto futili per coloro che le ottengono?

§ 33. La terza caratteristica saliente del concetto di comune buonsenso che differenzia gli dei dagli uomini, è che in nulla gli dei tanto differiscono da noi quanto in felicità e in virtù. Ma secondo Crisippo non resta agli dei neppure questa superiorità: “Giacché, quanto a virtù, Zeus è non più eminente di Dione. E Zeus e Dione, poiché sono sapienti, si recano l’un l’altro un giovamento simile, qualora uno dei due si imbatta nei movimenti dell’altro”. Infatti, questo e null’altro è il bene che esiste e che scorre dagli dei verso gli uomini e dagli uomini, quando siano diventati sapienti, verso gli dei. Gli Stoici sostengono inoltre che l’uomo il quale non si sia privato della virtù [1076B] è nient’affatto in difetto di felicità; e che l’uomo sfortunato il quale si toglie la vita a causa di una malattia cronica o di una grave menomazione corporale, a patto che sia un sapiente è altrettanto beato quanto lo è Zeus Salvatore. Ora, questo sapiente non si trova da nessuna parte su questa terra né mai è nato, mentre invece vi si trovano innumerevoli decine di migliaia di uomini i quali sono tutti sommamente infelici, pur essendo essi cittadini della repubblica che è sotto il comando di Zeus ed ha in assoluto il miglior governo possibile. Eppure cosa potrebbe essere più contrario al comune buonsenso del concetto che mentre Zeus ci governa nel miglior modo possibile, noi ce la passiamo nel peggior modo possibile? Se dunque, cosa che neppure è lecito dire, Zeus decidesse di essere non più Salvatore né Meilichio ossia Benigno, né Alessicaco ossia Allontanatore dei Mali, ma tutto il contrario [1076C] di questi belli appellativi, non vi sarebbe comunque la possibilità di assommare altri mali a quelli già esistenti, né per numero né per grandezza; visto che, come affermano gli Stoici, tutti gli uomini vivono al colmo della meschinità e della depravazione e che il vizio non è passibile di accrescimento né l’infelicità di innalzamento.

§ 34. La stranezza più grande non sta però qui, bensì nel fatto che gli Stoici si stizziscano con Menandro quando a teatro fa dire:

‘Massima causa dei mali tra gli uomini
è l’eccesso di beni’.

Essi sostengono, infatti, che quest’affermazione è contraria al buonsenso; e poi sono invece proprio loro a fare del buon dio il principio basilare dei mali. Infatti, non è stata la materia a procurare, traendolo da se stessa, il male; giacché la materia è priva di qualità, e tutte le differenziazioni che accoglie le ha avute [1076D] da ciò che la fa muovere e la foggia. Ed a muoverla e foggiarla è la ragione che esiste in lei, in quanto per sua natura essa è incapace di muovere e di foggiare se stessa. Sicché è necessario che il male esistente: se non ha causa, sia stato prodotto da ciò che è un non-ente; se la causa è un principio che lo muove, sia stato prodotto da dio. Infatti, se credono che Zeus non abbia completa padronanza delle sue stesse parti e che non utilizzi ciascuna di esse in armonia con la sua propria ragione, gli Stoici stanno parlando contro il comune buonsenso e plasmano una creatura vivente molti pezzi della quale sfuggono alla di lei volontà, giacché mettono in opera attività ed azioni di loro propria iniziativa, alle quali la creatura intera non dà impulso né delle quali ordina per prima il movimento. Nessuna delle creature [1076E] dotata di anima è mai stata messa insieme talmente male che contro la sua volontà i piedi si mettono a camminare, la lingua a pronunciare dei suoni, le corna a dare di cozzo o i denti a mordere. Eppure è necessario che dio sperimenti passivamente la maggior parte di queste azioni se contro la sua volontà ma essendone parti, i malvagi dicono menzogne, agiscono sconsideratamente, scassinano e si ammazzano l’un l’altro. Se, come afferma Crisippo, nulla può stare, neppure nel suo minimo particolare, altrimenti che in armonia con la decisione di Zeus, ma ogni essere animato è nato per stare e muoversi così come Zeus lo conduce, lo fa voltare, lo fa stare e lo fa disporre, allora

‘questo suono non è più esiziale di quello’.

[1076F] Sarebbe infatti diecimila volte più opportuno dire che dalla debolezza e impotenza di Zeus le sue parti si trovano per forza spinte a compiere molte azioni assurde e contrarie alla di lui natura e volontà, che invece affermare che non esiste non padronanza di sé né cattiveria della quale Zeus non sia causa. Invero essi dicono anche che il cosmo è una città e che gli astri ne sono i cittadini. Se è così, allora è manifesto che ci sono anche dei membri della Tribù e degli Arconti; che il Sole è un membro del Consiglio e che Espero è un Pritano [1077A] o un membro della Polizia Urbana. Io non so davvero se chi contesta affermazioni di questo genere non si dimostri così più assurdo di coloro che le dichiarano parlando.

§ 35. Delle affermazioni più strettamente fisiche degli Stoici, non è forse contrario al concetto di comune buonsenso il dire che un seme è qualcosa di più e di più grande di ciò che da esso si genera? Noi vediamo infatti nel caso di tutti gli esseri viventi che la natura prende quale origine per la generazione delle creature più grandi, sia animali che vegetali, tanto domestiche quanto selvatiche, degli elementi piccoli, glutinosi ed a stento visibili. Essa infatti non dà soltanto origine ad una spiga di grano da un granello né ad una vite da un vinacciolo, ma da un nocciolo o da una ghianda sfuggiti ad un uccello, come da una piccola scintilla essa attizza e fomenta la generazione di un virgulto di rovo, [1077B] di una quercia o di una palma o di un pino altissimo. Perciò gli Stoici affermano che lo sperma prende questo nome dalla ‘agglomerazione’ di una grande quantità in una piccola mole; e che la natura si chiama così perché è il rigonfiamento e l’effusione delle ragioni o numeri che da essa sono aperti e sciolti. D’altra parte gli Stoici affermano che il fuoco è come il seme del cosmo, e che nel corso della conflagrazione universale esso, mutato in seme, partendo da una massa corporea più piccola va incontro ad una grande effusione e s’espande occupando un’immensa regione di vuoto e pascendosene per la sua crescita. Quando poi per il cosmo è il momento d’una nuova generazione, [1077C] allora la sua grandezza impiccolisce e scema, poiché la materia sprofonda e si raccoglie in se stessa nel corso della generazione.

§ 36. È quindi possibile ascoltarli, e leggerli in molti loro scritti, litigare con gli Accademici gridando che questi confondono ogni cosa con la loro dottrina delle ‘indistinguibilità’, poiché forzano l’esistenza di un’unica qualità nel caso di due sostanze. Eppure non c’è uomo il quale, al contrario, non pensi e creda stupefacente e paradossale che nel corso di tutto il tempo non vi sia mai stato un colombo identico ad un altro colombo, un’ape ad un’ape, un chicco di grano ad un chicco di grano, il fico del racconto ad un altro fico. [1077D] In effetti è invece contrario ad ogni concetto di comune buonsenso quel che plasmano fittiziamente questi Stoici, i quali affermano che in una sola sostanza ci possono essere due peculiari qualificazioni qualitative, e che la medesima sostanza avente una sola e peculiare qualificazione qualitativa ne può accogliere in seguito un’altra e custodirle intatte entrambe. Giacché se si tratta di due, allora in una sola sostanza esse potranno anche essere tre o quattro o cinque o tante quante uno vuole a piacere: e intendo non in parti differenti della sostanza, ma infinite qualificazioni qualitative tutte similmente presenti nella totalità della stessa. Crisippo, in ogni caso, afferma che “Zeus e il cosmo sono simili al corpo dell’uomo e la Prònoia al suo animo. Quando avviene la conflagrazione universale, poiché Zeus è l’unico dio imperituro, egli arretra e si raccoglie in Prònoia; dopo di che, [1077E] resisi omogenei, entrambi persistono in un’unica sostanza che è l’etere”. 

§ 37. Mettiamo ora in un canto il discorso sugli dei e, dopo avere auspicato che essi donino agli uomini il comune buonsenso e un comune modo di pensare, vediamo come, secondo gli Stoici, stanno le cose per quanto riguarda gli elementi. È contrario al concetto di comune buonsenso il sostenere che un corpo sia spazio per un corpo diverso; che un corpo si faccia spazio attraverso un altro corpo, quando nessuno dei due include in sé alcun vuoto; che vi sia del pieno che s’insinua nel pieno; che ciò che non ha rotture né posto al proprio interno per via della sua continuità, accolga quel che gli viene mescolato. Coloro che comprimono in un solo corpo non uno né due né tre né dieci corpi, ma che sbattono dentro ogni singolo corpo, qualunque sia, [1077F] tutte le parti del cosmo ridotto in spiccioli; e sono dell’avviso che il menomo oggetto sensibile non perda il confronto rispetto al più grande, sono mossi da giovanilismo acuto giacché, come accade loro in molti altri casi, gli Stoici fanno delle loro ipotesi, qualora siano contestate in quanto contraddicenti i concetti di comune buonsenso, un dogma dottrinario. Per immediata conseguenza di questo modo di ragionare, coloro i quali mescolano totalmente interi corpi con altri corpi interi, devono accettare delle conseguenze mostruose ed inusitate, [1078A] tra le quali vi è anche che ‘il tre è quattro’. Gli altri filosofi dicono questo per iperbole, come esempio di cose assolutamente impensabili. Secondo gli Stoici, invece, accade questo: un ciato di vino mescolato con due ciati di acqua, se il vino è destinato ad essere non da meno ed a pareggiarsi con l’acqua, distribuendosi in essa tutta e confondendosi con essa, pur essendo un ciato solo ne diventa due grazie al pareggiamento della sua mescolanza con l’acqua. Infatti il ciato di vino che rimane uno ma che si coestende a due ciati d’acqua equivale al pareggiarsi del singolo al doppio. E se ciò che misura uno, per pervenire nella mescolanza al due, nella sua effusione diventa della misura due, questa mescolanza è contemporaneamente della misura tre e della misura quattro: tre, perché ai due ciati di acqua s’è mischiato un ciato di vino; e quattro perché il vino, una volta mischiatosi ai due ciati di acqua, è diventato di misura pari alla quantità d’acqua con la quale si è mischiato. [1078B] Questo è il bel risultato che ottengono coloro i quali infilano corpi dentro corpi, e l’impensabile che è contenuto implicitamente nelle loro definizioni. Poiché nel mescolamento i corpi si fanno spazio reciprocamente uno nell’altro, è necessario che uno dei due non sia quello che include e l’altro quello che è incluso, uno quello che accoglie e l’altro quello che è accolto; giacché allora questo non sarà ‘mescolamento’ bensì tocco e contatto di superfici: quella interna come superficie rivestita e quella esterna come superfice che include, mentre le altre parti interessate rimangono invece intatte e fuori della mischia. Quando, secondo il loro parere, avviene la ‘compenetrazione’, è necessario che i corpi mischiati diventino gli uni gli altri, e del pari che l’essere incluso dell’uno sia identico all’essere accolto dell’altro, e che l’includere dell’uno sia identico all’accogliere [1078C] dell’altro. Accade allora che nessuno dei due possa di nuovo esistere singolarmente, poiché la mescolanza forza entrambi i corpi ad attraversarsi, a non lasciarsi dietro alcun pezzo di sé ed a riempirsi del tutto l’un l’altro. A questo punto, per calpestare e coprire di ridicolo le assurdità degli Stoici può entrare in scena a proposito la famosa gamba di Arcesilao, diventata addirittura un luogo comune nelle discussioni. Infatti, se le mescolanze sono di interi corpi con altri corpi interi, data una gamba amputata, in avanzato stato di putrefazione, scagliata in mare ed in questo dissoltasi completamente: cosa impedisce che attraverso quella gamba navighi non soltanto la flotta di Antigono, come soleva dire Arcesilao; ma che vi avvenga la battaglia navale tra le milleduecento triremi di Serse [1078D] e le trecento dei Greci? Il corpo più piccolo, infatti, non ometterà certo di iniziare a mescolarsi con il corpo più grande né smetterà di procedere nella mescolanza. Altrimenti essa avrà un limite e da ultimo, dove il corpo più piccolo ha il contatto di mescolamento con il corpo più grande, tale contatto non procederà oltre verso l’intero corpo più grande e sarà così impedito ai due corpi di mischiarsi. Se invece i due corpi si saranno mischiati intero con intero, non ci sarà bisogno di una intera gamba, per Zeus, per procurare ai Greci lo spazio per una battaglia navale, giacché a questo fine c’è bisogno della sua putrefazione e conseguente trasformazione. Di essa un solo ciato o una sola goccia cadendo nel mare Egeo o nel mare di Creta si estenderanno fino all’Oceano e al mare Atlantico, non entrando in contatto con essi soltanto superficialmente a pelo d’acqua [1078E] bensì espandendosi e compenetrandosi con essi completamente: in profondità, per il largo e per il lungo. Subito all’inizio del primo libro delle ‘Ricerche Fisiche’, Crisippo accetta queste argomentazioni, quando afferma che nulla preclude che una sola stilla di vino temperi il mare e, affinché noi non ci si stupisca di questo fatto, afferma che la stilla s’estende, col mescolamento, all’intero cosmo. Non so dire quale di queste affermazioni appaia più assurda. 

§ 38. È contrario ad ogni concetto di comune buonsenso sostenere che nella natura dei corpi non vi sia un’estremità, né alcuna prima ed ultima parte entro le quali la grandezza del corpo sia conclusa; e invece, qualunque parte di esso sia presa in considerazione, che appaia sempre qualcosa che ne va al di là e rimanda l’oggetto materiale nell’infinito e nell’indefinito. [1078F] Dati due corpi, infatti, se per i costituenti di entrambi accade di poter similmente procedere all’individuazione di un numero infinito di parti, sarà impossibile pensare la grandezza di uno come minore o maggiore di quella dell’altro. Ma in questo modo sparisce la natura della loro ineguaglianza, giacché di due corpi pensati ineguali, è per le estremità non coincidenti che uno cede in grandezza e l’altro ne acquista una diversa e superiore. E se l’ineguaglianza è inesistente, ne consegue che neppure esistono l’irregolarità o la ruvidezza di un corpo; giacché l’irregolarità è l’ineguaglianza [1079A] di parti diverse di una stessa superficie, mentre la ruvidezza è irregolarità accompagnata da durezza. Nessuna di queste due è invece lasciata sussistere da coloro che nessun corpo fanno terminare in una sua parte estrema, ma che con una moltitudine di parti estendono tutti i corpi all’infinito. Eppure, come può non essere evidente che l’uomo consiste di un numero maggiore di pezzi di quelli che costituiscono un suo dito e che il cosmo, a sua volta, consiste di un numero maggiore di pezzi di quelli che costituiscono un uomo? Queste cose le sanno e le pensano tutti, a meno che non diventino Stoici. Ma una volta diventati Stoici, essi dicono però l’opposto ed opinano che l’uomo non abbia più parti del suo dito, né il cosmo dell’uomo; giacché la divisione in parti incrementa i corpi [1079B] e negli infiniti non ci sono un più e un meno. Una moltitudine non è mai troppa, e le parti del corpo restante non cesseranno di poter essere ulteriormente divise in parti e quindi di procurare da se stesse una moltitudine qualsivoglia.
UN COMPAGNO. E allora? Gli Stoici non si difendono da queste aporie? 
DIADOUMENO. Accuratamente se ne difendono, con ingegnosità e coraggio. Infatti, quando ci viene domandato se abbiamo delle parti e quante esse siano, e di quali e quante parti constino a loro volta questi componenti, Crisippo dice che noi utilizzeremo una distinzione e quindi, mantenendoci sulle generali, diremo di constare di testa, torace e gambe; giacché in questo consisteva tutto ciò ch’era ricercato e incerto. Se però passeranno oltre fino a chiedere delle parti ultime: “Nulla, egli afferma, v’è da concepire di siffatte parti, ma sarà il caso di dire semplicemente che noi non consistiamo di tali parti ultime, senza far parola di quali né, [1079C] similmente, quante esse siano, e se siano infinite o in numero finito”. Credo di avere fatto bene ad utilizzare le sue stesse parole, affinché tu possa notare il modo in cui Crisippo custodiva intatti i concetti di comune buonsenso, ordinandoci di pensare che ciascun corpo consta né di quali né di quante parti, né queste di un numero infinito o finito di componenti. Infatti se esiste un’entità intermedia tra il finito e l’infinito, così come l’indifferente è un’entità intermedia tra il bene e il male, allora Crisippo dovrebbe sciogliere l’aporia dicendo cos’è questo elemento intermedio. Se invece noi pensiamo che il non-finito sia per ciò stesso infinito, così come pensiamo che il non-uguale sia per ciò stesso disuguale e il non-perituro sia imperituro, allora il dire che un corpo consta di un numero di parti né finito né infinito equivale a sostenere, io credo, [1079D] che un discorso si regge su assunti né veri né falsi, né semplici né non-semplici.

§ 39. Oltre a ciò, con giovanile baldanza Crisippo afferma che le facce della piramide sono costituite da triangoli; che lungo le loro linee di contatto scendendo verso la base queste facce sono disuguali; e che però non sono soprammisura dove sono più grandi. Questo era il suo modo di preservare intatti i concetti di comune buonsenso. Infatti, se qualcosa è più grande ma non è soprammisura, qualcos’altro sarà più piccolo ma non sottomisura, sicché qualcosa sarà disuguale pur essendo né soprammisura né sottomisura, cioè qualcosa di uguale sarà disuguale, qualcosa di più grande sarà non più grande e qualcosa di più piccolo sarà non più piccolo. [1079E] Guarda inoltre in che modo Crisippo ha replicato a Democrito il quale, da studioso della natura che coglie nel segno, era assai incerto sulla seguente questione: “Se un cono fosse tagliato da un piano parallelo alla sua base, cos’è d’uopo pensare delle superfici di queste sezioni? Sono esse uguali una all’altra o sono disuguali? Se sono disuguali, esse renderanno il cono un solido irregolare, con molte incisioni a gradino ed asperità. Se le superfici sono uguali, le sezioni saranno uguali ed il cono apparirà avere preso le proprietà del cilindro, il quale consta di sezioni uguali e non disuguali; il che è però del tutto assurdo. A questo proposito, dopo aver dichiarato che Democrito è un ignorante, Crisippo afferma [1079F] che le superfici sono né uguali né disuguali. Disuguali sono i corpi, per il fatto che le superfici sono né uguali né disuguali. Ora, legislare che se le loro superfici sono né uguali né disuguali allora i corpi sono disuguali, è caratteristico soltanto di un uomo che si concede la strabiliante potestà di scrivere qualunque cosa gli salti in testa. È di tutta evidenza, infatti, che il ragionamento ci permette di pensare il contrario, ossia che le superfici dei corpi disuguali sono disuguali [1080A] e che la superficie del corpo più grande è maggiore; a meno che la soprammisura per cui esso è più grande sia priva di superficie; giacché se le superfici dei corpi più grandi sono non più grandi delle superfici dei corpi più piccoli ma cedono loro in grandezza, di un corpo avente un limite ci sarà una parte priva di limite ossia illimitata. Se poi Crisippo intende per forza sostenere che pensare le superfici in questo modo salva il cono, ebbene egli si smentisce da solo quando è dell’avviso che: “le scalfiture a gradino torno torno al cono che Democrito ha in sospetto, le fa di sicuro la disuguaglianza dei corpi e non la disuguaglianza delle superfici”. Ma è ridicolo attribuire una riconosciuta irregolarità ai corpi eccettuandone però le superfici. E se prenderemo per buona l’ipotesi di Crisippo: cosa c’è di più contrario [1080B] al comune buonsenso che il plasmare congetture di questo genere? Se infatti porremo una superficie né uguale né disuguale ad un’altra superficie, sarà possibile affermare ciò anche per una grandezza rispetto ad un’altra grandezza, e dire che un numero è né uguale né disuguale ad un altro numero: e tutto ciò senza che noi si abbia modo di dire il nome e neppure di avere una cognizione di questo ente intermedio tra l’uguale e il disuguale e che è né l’uno né l’altro. Inoltre, se delle superfici sono né uguali né disuguali, cosa ci impedisce di pensare cerchi né uguali né disuguali? Le superfici delle sezioni del cono sono di sicuro dei cerchi, e se sono dei cerchi bisogna supporre che anche i diametri dei vari cerchi siano né uguali né disuguali. Ma se è così, bisogna supporre la stessa cosa valida anche per gli angoli, i triangoli, i parallelogrammi, [1080C] i parallelepipedi e i volumi dei corpi. Se infatti le lunghezze sono né uguali né disuguali una all’altra, né uguali né disuguali saranno anche le profondità e le larghezze, e quindi anche i corpi. Dopo di che, come possono gli Stoici avere l’ardire di rimproverare di contraddizione coloro che introducono e ipotizzano certi movimenti comuni e indivisibili che sono né di moto né di quiete; proprio loro che dichiarano essere falsi gli enunciati: ‘Se certe cose non sono uguali una all’altra, quelle cose sono disuguali una dall’altra’ e ‘non si dà che queste cose siano uguali una all’altra e però si dà che siano non disuguali una all’altra’? Poiché Crisippo sostiene che esiste qualcosa che è più grande ma che è non soprammisura, vale la pena di essere incerti se questi corpi si corrispondano esattamente l’un l’altro. Infatti, se si corrisponderanno esattamente [1080D] come può uno essere più grande dell’altro? E se non si corrisponderanno esattamente come può non essere necessario che uno dei due sia in soprammisura e l’altro in sottomisura? Oppure nessuno dei due sarà in soprammisura e non corrisponderà esattamente al più grande, o è l’altro che corrisponderà esattamente al più grande? È necessario che coloro i quali non difendono i concetti di comune buonsenso si trovino poi in mezzo ad aporie di questo genere.

§ 40. Invero, dire che nulla tocca nulla è contrario ad ogni concetto di comune buonsenso; e non lo è di meno il dire che i corpi si toccano sì, ma si toccano con nulla. Eppure è necessario che accettino ciò coloro i quali non lasciano questa proprietà alle parti minime del corpo, ma prendono sempre in considerazione una parte che è subito prima di quella che sembra toccare e non cessano più di procedere al di là. [1080E] L’obiezione principale che gli Stoici formulano contro i sostenitori dell’esistenza degli ‘indivisibili’ è che il contatto non è di interi con interi, né di parti con parti. Quello di interi con interi non fa un ‘contatto’ ma una ‘mescolanza’. Quello di parti con parti è impossibile, perché gli indivisibili non hanno parti. Com’è allora che essi non incappano in questa impossibilità, proprio loro che non lasciano sussistere parti, né prime né ultime? Perché, per Zeus, essi dicono che i corpi entrano in contatto reciproco ‘per limiti’ e non ‘per parti’, e che il limite è un non-corpo. Pertanto, corpo toccherà corpo con un incorporeo, ma nel contempo non lo toccherà giacché c’è di mezzo un incorporeo. Se però lo toccherà, il corpo farà e subirà un’azione ad opera di un incorporeo, [1080F] giacché è natura dei corpi quella di fare e di subire l’azione di altri corpi per contatto. E se il corpo è in stato di contatto per l’intervento di un incorporeo, allora si avranno: contatto o mescolanza o connaturazione di parti. Nei casi di contatto e di mescolanza di parti è necessario che i limiti dei corpi o permangano tali oppure che non permangano e che siano distrutti: ma entrambe queste cose sono contrarie al comune buonsenso, giacché gli Stoici non lasciano sussistere la distruzione e la generazione degli incorporei e, d’altro canto, la mescolanza e il contatto di parti [1081A] di corpi entro i loro propri limiti neppure potrebbero avvenire, poiché il limite definisce e stabilisce la natura del corpo. E se le mescolanze non sono semplici accostamenti di parti con parti ma sono, come sostengono gli Stoici, corpi che si mescolano e si confondono interamente gli uni con gli altri, allora bisogna lasciar sussistere la distruzione dei limiti nelle mescolanze e successivamente la loro genesi nel corso delle segregazioni dei componenti: processi questi, dei quali nessuno potrebbe farsi facilmente una cognizione. Ora, ciò grazie a cui i corpi si toccano l’un l’altro è anche ciò grazie a cui i corpi sono compressi, schiacciati, frantumati uno dall’altro; mentre è impossibile, e neppure pensabile, che un incorporeo possa fare o subire queste azioni: eppure questo è ciò che gli Stoici vogliono per forza che noi pensiamo. [1081B] Se infatti la sfera tocca il piano in un punto, è manifesto che essa rotola sul piano toccando una successione di punti; e qualora la superficie della sfera sia stata spalmata di minio essa lascerà quale traccia sul piano una linea rossa; qualora la sfera sia stata riscaldata, riscalderà il piano; ed è contrario a qualunque concetto di comune buonsenso che un corpo possa essere colorato o riscaldato da un’entità incorporea. Se poi noi immagineremo che una sfera di coccio o di vetro cada dall’alto sopra una superficie di pietra, è irragionevole pensare che essa non si frantumi, essendovi un impatto contro un corpo resistente all’urto; ed è ancora più assurdo pensare che essa sia frantumata perché impatta contro un limite e un punto incorporeo. Sicché in ogni caso è necessario che vadano a gambe all’aria [1081C] o ancor meglio che rovinino in macerie i preconcetti di coloro che ai corpi e agli enti incorporei associano molte nozioni impossibili. 

§ 41. È contrario ad ogni concetto di comune buonsenso sostenere che ‘tempo’ è quello futuro e quello trascorso, e che invece il presente è un non-tempo; che il testé e lo ieri sono presupposti e che l’adesso non c’è affatto. Ma proprio questo accade agli Stoici, i quali non ammettono l’esistenza di un tempo minimo né vogliono che l’istante presente sia privo di parti, e sono invece dell’avviso che nell’istante in cui uno crede di star pensando al presente, esso è già il futuro o il trascorso del presente. Sicché se il tempo chiamato presente viene spartito [1081D] in pezzetti assegnati al futuro e in pezzetti assegnati al passato, neppure un pezzetto del tempo presente rimane coincidente con l’adesso. Ora delle due cose, o l’una o l’altra: o gli Stoici pongono come vera la proposizione ‘il tempo era e il tempo sarà’ e allora avviene loro di rendere falsa la proposizione ‘il tempo è’; oppure pongono come vera la proposizione ‘il tempo presente è’ e di esso un istante è il passato ed un istante è il futuro, e allora avviene loro di sostenere che una parte del tempo esistente è il tempo futuro e una parte è il tempo trascorso, e che dell’adesso una parte è precedente l’adesso ed una parte è successiva all’adesso: sicché l’adesso risulta essere il non ancora adesso e il non più adesso, giacché il tempo trascorso non è più adesso e il futuro non è ancora adesso. Poiché gli Stoici fanno queste distinzioni, è necessario che essi dicano: l’oggi è in parte ieri e in parte domani; quest’anno è in parte l’anno scorso e in parte l’anno prossimo; la simultaneità è in parte il prima e in parte il dopo. [1081E] E quando essi impastano i ‘non ancora’ e ‘già’ e ‘non più’ e ‘adesso’ e ‘non adesso’ ne sortiscono dei pasticci per nulla più ragionevoli. Tutti gli altri uomini, invece, pongono come vero, ne hanno la cognizione e legittimano l’idea che il ‘poco fa’ e il ‘tra poco’ siano pezzi di tempo ben diversi da ‘adesso’ e che l’uno viene dopo e l’altro viene prima di quest’ultimo. Tuttavia, tra gli Stoici, quando Archedemo dice che ‘l’ora presente’ è una giuntura e commessura del tempo trascorso e del tempo a venire, pare sfuggirgli che egli sta in questo modo abolendo il tempo intero. Se, infatti, l’ora presente non è un tempo ma il limite del tempo passato e futuro e se ogni pezzetto del tempo è tal quale l’ora presente, il tempo nella sua interezza [1081F] appare non avere parti ma risolversi al tutto in limiti, commessure e giunture. Crisippo poi, quando decide di lavorare con arte sulla suddivisione del tempo, nel libro ‘Sul vuoto’ e in altri suoi libri afferma che la parte trascorsa e quella futura del tempo non esistono davvero ma sono presupposte, e che soltanto il presente esiste davvero. Nel terzo, nel quarto e nel quinto libro ‘Sulle parti’ egli sostiene però che, del tempo presente, una parte è futuro e una parte è passato. [1082A] Sicché gli avviene di suddividere la parte esistente del tempo in parti che sono inesistenti e in quella che esiste, o piuttosto di lasciare esistente assolutamente nulla del tempo, se il presente non ha una parte che non sia o futuro o passato. 

§ 42. Se l’intellezione del tempo che hanno gli Stoici equivale al tentativo di tenere in mano dell’acqua: acqua che invece, quanto più la mano la stringe, ci scorre e ci scivola via tra le dita; circa le azioni e i movimenti, la dottrina degli Stoici comporta la più completa confusione dell’evidenza. Infatti, se lo ‘adesso’ viene suddiviso in una parte che è passato ed in una che è futuro, è necessario che il movimento di un corpo nell’adesso consista in parte di un movimento che c’è già stato e in parte di un movimento che ci sarà; che siano stati aboliti il termine e il principio di qualunque movimento; che di nessuna opera ci sia stato un principio [1082B] né ci sarà mai una fine, visto che le azioni sono scompartite secondo il tempo. Infatti, siccome gli Stoici sostengono che del tempo presente una parte è passato e una parte è futuro, si può ben dire che delle azioni in effettuazione una parte è già stata effettuata e una parte sarà effettuata. Fare colazione, scrivere, incedere: quando mai ebbero principio e quando mai avranno fine; se chiunque stia facendo colazione la stava già facendo e facendola starà; e chi sta incedendo stava già incedendo e incedendo starà? E poi la più vituperosa e trista, come si dice, di tutte le cose vituperose e triste: se alla creatura vivente tocca d’essere già stata vivente e d’essere vivente in futuro, il suo vivere né ebbe inizio né avrà mai fine, e ciascuno di noi, a quanto pare, è venuto al modo senza che il suo vivere abbia avuto un inizio e morirà senza mai smettere di vivere. Infatti, se nessuna parte della sua vita è l’estrema, [1082C] ma sempre qualcosa dell’attualità presente dell’essere vivente si estende nel futuro, la proposizione ‘Se Socrate è vivente, sarà in vita’ non diventa mai falsa. E ogni volta che sarà vera la proposizione ‘Socrate è vivente’ altrettante volte sarà falsa la proposizione ‘Socrate è morto’. Sicché se la proposizione ‘Socrate sarà vivente’ è vera per infinite parti di tempo, in nessuna parte di tempo sarà vera la proposizione ‘Socrate è morto’. Tuttavia, cosa potrebbe diventare il termine finale di un’opera, dove potrebbe terminare l’opera iniziata se ogni volta che è vera l’affermazione ‘è in corso di effettuazione’, altrettante volte è vera l’affermazione ‘sarà in corso di effettuazione’? Dirà pertanto una falsità chi afferma di Platone che sta scrivendo o dialogando, che ad un certo punto Platone smetterà di scrivere o di dialogare; [1082D] giacché non è mai falso affermare di chi sta dialogando che ‘starà dialogando’, né di chi sta scrivendo che ‘starà scrivendo’. Inoltre, se nessuna parte di ciò che sta avvenendo è tale che non sia già avvenuta e che avverrà, cioè che sia passato o futuro; e se di ciò che è avvenuto e che avverrà, del tempo trascorso e del tempo a venire non c’è sensazione: semplicemente di nulla esiste una sensazione. Infatti, noi né vediamo il tempo trascorso né quello a venire, né abbiamo qualche altra sensazione delle cose già avvenute o di quelle che avverranno. Nulla, dunque, neppure in sua presenza è un oggetto sensibile, poiché di ciò che è presente sempre una parte ‘sta per’ e una parte ‘è trascorsa’, ossia una parte ‘è avvenuta’ e una parte ‘avverrà’.

§ 43. [1082E] Invero, proprio gli Stoici dicono che Epicuro fa un’affermazione scellerata e violentemente contraria ai concetti di comune buonsenso quando sostiene che tutti i corpi si muovono con la stessa velocità, e non ne lascia neppure uno essere più veloce di un altro. Ma molto più orribile e scellerata di questa ed ancor più discosta dai concetti di comune buonsenso è l’affermazione secondo cui nessun corpo in movimento può essere raggiunto da un altro corpo in movimento, neppure se si trattasse, come dice il proverbio, di una tartaruga inseguita dal veloce cavallo di Adrasto. Eppure è giocoforza che questo accada ai corpi in avanzamento verso il corpo che li precede se, come sostengono gli Stoici, gli intervalli che essi percorrono sono divisibili all’infinito. Infatti, ammesso che la tartaruga preceda il cavallo anche soltanto di un plettro, coloro i quali dividono all’infinito questa distanza e fanno muovere entrambi [1082F] da un punto precedente al punto successivo, non riusciranno mai a mettere l’animale più veloce davanti a quello più lento, giacché il più lento precederà sempre l’altro di un certo intervallo, visto che la distanza tra i due può essere suddivisa in infiniti intervalli. Come può non essere contrario ad ogni concetto di comune buonsenso affermare che l’acqua che viene versata da una coppa o da un calice non sarà mai versata fuori completamente? E come si potrà dire che simile affermazione non è una conseguenza delle dottrine che gli Stoici sostengono? [1083A] Infatti, essendo gli intervalli che i corpi percorrono divisibili all’infinito, non è pensabile che l’avanzamento di un corpo verso il corpo che lo precede possa essere portato integralmente a termine, giacché residuerà sempre un qualche spazio divisibile. E così ogni versamento, ogni scivolamento, ogni scorrimento di un corpo liquido, ogni spostamento di un corpo solido e ogni caduta di un peso lasciato a se stesso saranno sempre movimenti parziali e incompleti. 

§ 44. Adesso metto però da parte le molte assurdità sostenute dagli Stoici e mi attengo alla discussione di quelle contrarie ai concetti di comune buonsenso. Il discorso sull’accrescimento è antico, giacché è stato prospettato interrogativamente, come afferma Crisippo, già da Epicarmo. Ora, dato che gli Accademici credono trattarsi di una questione non facile e di non pronta soluzione, gli Stoici hanno urlato loro contro, accusandoli di levare di mezzo le prolessi e di propugnare una filosofia contraria ai concetti di comune buonsenso: [1083B] proprio gli Stoici, i quali non difendono affatto i concetti di comune buonsenso, ed anzi stravolgono anche il modo di intendere le sensazioni. La questione comunque è semplice, e gli Stoici convengono con le premesse gli Accademici. Entrambi infatti assumono: che tutte le sostanze particolari siano in scorrimento e in spostamento, giacché talune parti di sé esse le emettono verso l’esterno, e talune altre provenienti dall’esterno esse le accolgono in sé; che questo andirivieni di parti non permanga costante né per numero né per quantità ma che sia variabile; e che questo permetta così ad ogni particolare sostanza di variare, grazie ai predetti processi di entrata e di uscita di parti. Entrambi sostengono poi che è ingiustamente invalsa la comune consuetudine di chiamare queste trasformazioni ‘accrescimento’ e ‘deperimento’, quando invece converrebbe chiamarle ‘generazioni’ e ‘distruzioni’, perché si tratta di trasformazioni che traghettano i corpi [1083C] da un certo stato ad uno stato diverso, mentre l’accrescimento e la diminuzione sono trasformazioni di un corpo che permane e che le subisce passivamente. E così, una volta dette queste cose e posti questi assunti da parte degli Accademici e degli Stoici, cosa ti sollecitano a credere questi vindici dell’evidenza, questi archipendoli dei concetti di comune buonsenso? Che ciascuno di noi è gemellare, che ha due nature e che è doppio, -non come i poeti credono che siano i Molionidi, ossia unificati per certe parti del corpo e separati per altre- che ha due corpi di identico colore, di identica figura, peso e spazio occupato: cose che prima di loro nessun uomo ha mai visto, giacché sono soltanto gli Stoici ad avere visto questa sintesi, questa duplicità, questa ambiguità per cui ciascuno di noi è due soggetti corporei: [1083D] uno, la sostanza; l’altro, <la qualità>. E che uno dei due sempre scorre ed è portato qua e là, senza aumentare né diminuire pur non restando affatto quello che è. L’altro invece che perdura, s’accresce e diminuisce e sperimenta cose speculari a quelle che sperimenta l’altro, pur essendogli connaturato, conciliato e confuso insieme, ed anche se non ci procura mai da nessuna parte la possibilità di toccare coi sensi la differenza. Eppure si racconta che il famoso Linceo vedeva attraverso le rocce e gli alberi; che un tale, stando in Sicilia, da una torre di osservazione riusciva a vedere le navi Cartaginesi, distanti un giorno e una notte di navigazione, che uscivano dal porto. Si racconta anche che i seguaci di Callicrate e di Mirmecide [1083E] sapessero costruire carri capaci di essere nascosti dalle ali di una mosca, e scrivere col cesello dei versi di Omero su un seme di sesamo. Questa alterità che è in noi, questa differenza, nessuno l’ha mai distinta né sceverata; e noi non abbiamo affatto la sensazione di essere doppi, giacché per un verso siamo sempre in uno stato di flusso ma per un altro verso dalla nascita alla morte rimaniamo sempre gli stessi. Io qui semplifico al massimo la dottrina degli Stoici, giacché essi per la verità individuano in ciascuno quattro soggetti corporei, o piuttosto fanno di ciascuno di noi quattro persone diverse: ma ne bastano già due per rendersi conto dell’assurdità di quanto essi sostengono. Quando nella tragedia noi sentiamo Penteo, [1083F] fuor di senno com’è e con la mente sconvolta, dire che sta vedendo due soli ed una doppia Tebe, non diciamo noi forse non che egli vede ma che ha le traveggole? E non daremo l’addio a questi Stoici i quali suppongono che non una città ma tutti gli uomini, gli animali, tutte le piante, le suppellettili, gli strumenti, i vestiti tutti sono doppi e di doppia natura, e così ci costringono alla paranoia piuttosto che a pensare? Forse in questo caso si possono [1084A] scusare gli Stoici se plasmano soggetti corporei di natura diversa giacché non appare loro possibile altro accorgimento, visto che si fanno un punto d’onore di salvaguardare e serbare intatta l’esistenza dei fenomeni di accrescimento. 

§ 45. Quando gli Stoici fabbricano specie diverse di corpi -ho poco bisogno di dirlo- in numero infinito, uno non avrebbe modo di dire se essi lo facciano perché sperimentano qualcosa nel loro animo oppure, al contrario, se lo facciano semplicemente abbellendo delle ipotesi altrui Tuttavia si può ben affermare che essi sfrattano, o meglio ancora aboliscono completamente e trucidano, i concetti di comune buonsenso e la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni, e al loro posto introducono in casa concetti orribili e stranieri. È del tutto assurdo che gli Stoici, mentre fanno delle virtù e dei vizi, e oltre a questi delle arti e di tutti i ricordi, e inoltre delle rappresentazioni, delle passioni, degli impulsi e degli assensi, mentre fanno di tutte queste cose [1084B], ripeto, dei corpi; affermino però che essi non giacciono in alcun corpo né che esiste per essi un luogo, riservando loro soltanto quel poro puntiforme nel cuore dove costipano l’egemonico dell’animo, il quale rattiene in sé una tale quantità di corpi che una gran moltitudine di essi è sfuggita a quanti reputano di demarcarli e distinguerli uno dall’altro. Il farne poi non soltanto dei corpi ma anche degli esseri animati dotati di ragione e il confinare nei nostri cuori uno sciame tanto grande di creature né amichevoli né mansuete ma una turba avversa ed ostile, e il far apparire ciascuno di noi come un grande parco, una fattoria, un cavallo di legno o qualunque cosa uno possa pensare per designare le creature che gli Stoici plasmano, è un fatto di iperbolica illegalità ai danni della evidenza e della comune consuetudine. Gli Stoici sostengono poi che siano esseri viventi non soltanto le virtù e i vizi, non soltanto le passioni, le ire, le invidie, [1084C] le afflizioni, il godimento per i mali altrui, né le apprensioni certe, le rappresentazioni, le ignoranze, le arti; ma che lo siano anche la calzoleria e la metallurgia. Oltre a queste, gli Stoici fanno diventare corpi ed esseri viventi pure le attività: la passeggiata è un essere vivente; lo sono la danza, il mettersi le scarpe, il saluto e l’ingiuria. A queste s’accompagnano e sono esseri viventi anche la risata e il lamento. E se lo sono queste cose, è di tutta evidenza che lo sono anche la tosse, lo sternuto, il gemito e sicuramente lo sputo, il soffiarsi il naso e così via. Gli Stoici non siano dunque malcontenti d’essere condotti a queste conclusioni da un ragionamento passo passo; memori che Crisippo, nel primo libro delle ‘Ricerche fisiche’ [1084D] così s’appressa alle sue: “Non è che la notte è corpo, mentre invece la sera, l’alba e la mezzanotte non sono corpi. Né è corpo il giorno e invece non sono corpi il primo, il dieci, il quindici e il trenta del mese. Il mese è corpo, e lo sono anche l’estate, l’autunno e l’anno”.

§ 46. Queste conclusioni vanno per forza contro i preconcetti di comune buonsenso, ma quelle altre vanno contro i loro stessi preconcetti, giacché gli Stoici fanno generare l’entità più calda da un forte raffreddamento, e quella più finemente particellare da un infittimento. Infatti, l’animo è appunto l’entità più calda e più finemente particellare, che essi fanno però nascere da un forte raffreddamento e infittimento del corpo, [1084E] visto che lo pneuma si trasforma per tempra, diventando da pneuma vegetale pneuma animale. Essi dicono che anche il sole diventa ‘animato’ quando l’umidità si trasforma in fuoco cognitivo. Sembra proprio il caso di pensare che anche il sole sia generato da un forte raffreddamento. Una volta Senofane, quando un tale stava raccontando d’avere visto delle anguille che vivevano in acque calde, gli disse: “Dunque le faremo bollire in acqua fredda”. Secondo gli Stoici questa battuta sarebbe conseguente, se appunto il forte raffreddamento genera le cose più calde e se è per infittimento che si generano le cose più leggere; dal calore, a loro volta, si generano le cose fredde, per effusione le cose fitte e per diradamento le cose pesanti: giacché è con l’irrazionalità che gli Stoici preservano la intrinseca coerenza teorica delle loro dottrine. 

§ 47. [1084F] Ma ciò che gli Stoici suppongono sostanza e genesi del concetto stesso non è già contrario al comune buonsenso? Il concetto è infatti una rappresentazione, e la rappresentazione è una impronta nell’animo. Natura dell’animo è quella di essere un’esalazione che è difficile e laboriosa da modellare a causa della sua radezza, ed è impossibile che essa serbi l’impronta che ha accolto. Infatti, poiché trae il suo nutrimento e la sua genesi da sostanze umide, [1085A] l’animo è in continua accrezione e in continua spendita; e la mistione del respiro con l’aria fa sempre nuova l’esalazione, che si altera e tramuta ad opera del canale d’aria che dal di fuori vi affluisce e poi ne defluisce. Infatti si potrebbe pensare che una corrente d’acqua in movimento conservi intatte fattezze, impronte e forme molto meglio di uno pneuma che si sposta su e giù entro vapori umidi e che si mescola continuamente con uno pneuma inerte ed estraneo proveniente dall’esterno. Ma gli Stoici sono così disattenti a quel che dicono, da definire i concetti come delle intellezioni messe bene in disparte, i ricordi come impressioni durature e stabilizzate; [1085B] da fissare assolutamente le scienze come conoscenze dotate di immutabilità e saldezza, e poi da sottoporre loro come base e come sede una sostanza lubrica e dispersa, sempre portata su e giù e sempre in fluire.

§ 48. Il concetto di comune buonsenso di ‘elemento’ o ‘principio’ che in tutti gli uomini è -per dir così- innato, è che esso sia semplice, pretto, incomposto: giacché né elemento né principio può essere ciò ch’è mescolato bensì ciò di cui una miscela risulta composta. Invece gli Stoici che fanno di dio, il quale è un principio, un corpo cognitivo ed una mente insita nella materia, lo rivelano con ciò né semplice, né puro, né incomposto, ma come un principio risultante da altro e attraverso altro. La materia invece, di per sé alogica e priva di qualità, [1085C] possiede il carattere di principio semplice e primigenio. Dunque dio, dato che è né incorporeo né immateriale, ha partecipato della materia come principio. Ora, se la materia e il logos sono un’unica e identica cosa, essi non hanno fatto bene a definire la materia come qualcosa di alogico. Se invece la materia e il logos sono cose distinte, dio potrebbe essere una sorta di dispensiere di entrambi, e non sarebbe semplice ma composto, avendo aggiunto alla cognitività la corporeità presa dalla materia. 

§ 49. Benché designino col nome di primi elementi i quattro corpi: terra, acqua, aria e fuoco; io non so come gli Stoici possano fare degli uni, elementi puri e semplici; e degli altri, invece, corpi composti e mischiati. Infatti, essi affermano che la terra e l’acqua [1085D] non sono in grado di tenere insieme né se stesse né altro, e che serbano intatta la loro unità grazie alla partecipazione della forza propria di uno pneuma igneo. L’aria e il fuoco, invece, sono in grado di tenersi insieme grazie alla loro eutonia e, frammischiandosi a quegli altri due elementi, forniscono loro tono, durata e sostanzialità. Come può ancora essere considerato un elemento la terra, o l’acqua, se non è semplice né primo né bastante a se stesso, ma sempre bisognoso di ciò che dall’esterno la tiene insieme e la salvaguarda in essere? Gli Stoici non hanno lasciato una loro precisa nozione di ‘sostanza’, e così il discorso sulla terra come di per sé un corpo definito ma non una sostanza, resta circondato da molta confusione e oscurità. Inoltre, se è di per sé terra, come fa ad avere bisogno dell’aria che la consolida e la tiene coesa? [1085E] Ma tali non sono di per sé né la terra né l’acqua. Invece, la materia diventa ‘terra’ quando l’aria la combina ed infittisce in un certo modo; e diventa, al contrario, ‘acqua’ quando sia dissolta e rammollita in un certo modo. Nessuno di questi due è dunque un elemento, se è qualcos’altro a procurare ad entrambi sostanza e genesi. 

§ 50. Essi dicono inoltre che la sostanza o materia fa da sostegno alle qualità, sì che questo fatto quasi ce ne dà la definizione; e poi fanno delle qualità, a loro volta, sostanze e corpi. Ciò è molto sconcertante. Infatti, se le qualità hanno una loro peculiare sostanza grazie alla quale sono chiamate e sono ‘corpi’, non hanno alcun bisogno di un’altra sostanza giacché posseggono già la loro. [1085F] Se invece fa loro da sostegno quest’unica entità comune che essi chiamano sostanza o materia, è manifesto che le qualità partecipano del ‘corpo’ ma non sono ‘corpi’, giacché ciò che fa da sostegno ed accoglie necessariamente è differente da ciò ch’è accolto e cui fa da sostegno. Essi insomma guardano solo alla metà dei fatti, giacché chiamano la materia ‘priva di qualità’ [1086A] e poi non vogliono chiamare le qualità ‘immateriali’. Tuttavia, com’è possibile pensare un corpo senza qualità, se non si pensa ad una qualità senza corpo? Infatti, il ragionamento che intreccia un corpo ad ogni qualità vieta all’intelletto di concepire un corpo che sia privo di una qualche qualità. Quindi sembra che chi si oppone all’incorporeità della qualità si oppone anche all’assenza di qualità della materia; oppure che chi esclude l’una dall’altra separa doppiamente entrambe. Il ragionamento che alcuni di loro ci mettono innanzi, denominando la sostanza ‘priva di qualità’ non perché ad essa manchi ogni qualità ma perché le ha tutte, è contrarissimo ad ogni concetto di comune buonsenso. [1086B] Nessuno infatti pensa privo di qualità ciò che le ha tutte, né impassibile ciò ch’è nato per sperimentare ogni passione, né immobile ciò che può muoversi in ogni direzione. E se la materia è sempre pensata associata ad una qualità, il pensarla altra e differente dalla qualità rimane tuttavia sempre possibile. 

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PLUTARCO – SULLE CONTRADDIZIONI DEGLI STOICI

De Stoicorum repugnantiis
Περὶ Στωικῶν ἐναντιωμάτων

GLI STOICI FANNO AFFERMAZIONI CONTRASTANTI LE UNE CON LE ALTRE E NON RISPETTANO NELLA PRATICA LA LORO STESSA TEORIA

“Il mio l’obiettivo non è quello di indagare se gli Stoici dicano cose sbagliate, bensì quello di evidenziare il cumulo di affermazioni contradittorie che fanno”. 

Plutarco 1049B

§ 1. Nella vita delle persone, in primo luogo io chiedo che sia osservata l’intima coerenza con i propri principi teorici; giacché se il retore e la legge, come dice Eschine, devono parlare lo stesso linguaggio, [1033B] è ancor più necessario che la vita del filosofo sia in piena armonia con la sua dottrina. La dottrina del filosofo è infatti una legge che egli stesso ha personalmente scelto; o almeno così è se davvero gli Stoici ritengono la filosofia non uno specioso giochetto di parole fatto per ottenerne fama bensì, com’è vero, un’opera meritevole della massima industriosità. 

§ 2. Capita pertanto che molto sia stato scritto proprio da Zenone, pur nella sua concisione; molto da Cleante e ancor più da Crisippo, sulla costituzione politica, sull’essere comandati e sul comandare, sulla amministrazione della giustizia, sul parlare in pubblico. Ma nella vita di nessuno di costoro è dato trovare un incarico di comando militare, una proposta di legge, un passaggio nell’Assemblea deliberativa, la difesa di una causa davanti ai giudici, [1033C] una campagna militare in difesa della patria, un’ambasceria, un donativo. Invece, in terra straniera, gustando gli agi dello studio come fosse del loto, essi trascorsero tutta la vita, non breve ma lunghissima, tra i discorsi, i libri e le passeggiate. Ed è indubbio che essi vissero in un modo che è ammissibile con le dottrine professate e scritte da altri più che da loro; campando in quella completa quiete che è lodata da Epicuro e da Ieronimo di Rodi. Nel quarto dei libri ‘Sulle vite’ Crisippo stesso crede che la vita da studioso non differisca per nulla dalla vita di piacere. Citerò le sue parole: “A me sembra che sbaglino fin da principio quanti concepiscono [1033D] che ai filosofi spetti soprattutto la vita da studioso, sottintendendo che bisogna fare ciò per passarsela in un certo modo o per un qualche altro scopo similare, e tirare avanti così la vita intera. Ma fare ciò, a vederlo chiaramente, significa passarsela ‘piacevolmente’, giacché non deve sfuggirci ciò che costoro sottintendono, anche se alcuni lo dicono chiaramente e non pochi altri in modo più dubbio”. Chi più di Crisippo, di Cleante, di Diogene, di Zenone e di Antipatro giunse alla tarda vecchiaia facendo questo tipo di vita dedicata allo studio? Proprio loro, che si lasciarono dietro [1033E] le loro patrie senza incolparle di nulla ma per passarsela in tranquillità ad oziare e ad erudirsi nell’Odeon o allo Zostere! Aristocreonte, appunto il discepolo e familiare di Crisippo, fece innalzare su una stele un’immagine in bronzo di lui e vi fece scrivere questo distico:

‘Aristocreonte dedicò quest’immagine dello zio Crisippo,
recisore dei lacci degli Accademici’.

Questo è Crisippo, il vecchio, il filosofo, quello che loda la vita del re e la vita del politico, e crede che la vita dello studioso non differisca per nulla dalla vita di piacere.

§ 3. Quanti poi di loro si avvicinano alla politica ancor di più contraddicono i loro stessi principi, giacché amministrano, [1033F] giudicano, consigliano, legislano, decretano pene ed onori in qualità di consiglieri degli Stati al governo dei quali partecipano, in qualità di giudici, di strateghi estratti a sorte e in ogni caso in nome delle leggi istituite da Clistene, da Licurgo e da Solone, che essi però affermano essere stati persone vili e prive di senno. Sicché anche quando si interessano di affari pubblici gli Stoici si contraddicono.

§ 4. Invero Antipatro, [1034A] nel suo libro sulle differenze tra Cleante e Crisippo, riferisce che Zenone e Cleante non vollero diventare Ateniesi per non sembrare ingiusti verso la loro patria. Il fatto è che se costoro si sono comportati bene, allora non fece bene Crisippo a registrarsi come cittadino di Atene. Ma lasciamo stare ciò. Però è sommamente contraddittorio ed ha dell’illogico che essi, dopo essere espatriati corpo ed anima così lontano dalle loro terre natie, ne abbiamo però conservati i nomi. È come se qualcuno, dopo avere abbandonato la moglie e mentre convive con un’altra, mentre ci va a letto ed ha da quest’altra dei figli, non contraesse matrimonio per non sembrare ingiusto con la prima. 

§ 5. Nel libro ‘Sulla retorica’ Crisippo, [1034B] di nuovo lui, quando scrive che il sapiente parlerà in pubblico e parteciperà alla vita politica, parla come se anche la ricchezza di denaro fosse un bene e tali fossero pure la fama e la salute; ammettendo dunque che i suoi discorsi sono senza sbocco e senza costrutto politico e che i suoi giudizi non sono acconci né ai bisogni né alle azioni.

§ 6. Per di più, è dottrina di Zenone quella di non edificare sacrari agli dei, giacché un sacrario di poco valore neppure è santo, e nessuna opera di muratori e di artigiani è di gran valore. Gli Stoici però, mentre lodano queste dottrine come buone, si fanno poi iniziare ai misteri nei sacrari, salgono all’Acropoli, riveriscono le statue, incoronano i templi: [1034C] che sono tutte opere di muratori e di artigiani. Eppure ritengono che gli Epicurei si contestino da soli quando offrono sacrifici agli dei; mentre sono loro a contestarsi ancora di più quando offrono sacrifici agli dei su altari e sacrari che essi richiedono che non esistano e che non siano edificati.

§ 7. Zenone, come Platone, ci lascia in eredità una pluralità di virtù distinte come la saggezza, la virilità, la temperanza, la giustizia; e ce le lascia come inseparabili ma diverse e differenti una dall’altra. Quando definisce ciascuna di esse, afferma che la virilità è saggezza [nelle cose cui si deve resistere, la temperanza è saggezza nelle cose che si devono scegliere, la saggezza in senso proprio è saggezza] nelle attività da svolgere, la giustizia è saggezza nelle cose da distribuire. E’ come se una fosse la virtù seppure, nelle sue relazioni con le faccende, sembri differire a seconda delle attività. [1034D] Non soltanto Zenone appare contraddirsi su questo argomento, ma è così anche per Crisippo in quanto egli incolpa Aristone d’avere affermato che tutte le virtù sono forme di relazione di una sola virtù, e difende la causa di Zenone, il quale aveva però definito ciascuna delle virtù proprio in questo modo. Cleante, negli ‘Appunti di Fisica’ afferma che “il tono è una botta di fuoco; ed esso, quando diventi nell’animo tale da essere sufficiente a realizzare i progetti, si chiama potenza e potere”. Poi aggiunge testualmente: “Questa potenza e questo potere, se si ingenera in circostanze nelle quali manifestamente ci si deve mantenere saldi, è padronanza di sé; se in circostanze nelle quali bisogna resistere, è virilità; [1034E] nei casi che coinvolgono meriti, è giustizia; nel caso di scelte e di avversioni è temperanza”.

§ 8. A chi diceva: 

‘non emettere un verdetto prima di avere ascoltato il racconto di entrambi’,

Zenone faceva obiezione usando un ragionamento di questo genere. Se il primo imputato che parla ha provato il suo punto, non c’è bisogno di ascoltare la deposizione del secondo, giacché la ricerca ha termine qui. Oppure non ha provato il suo punto. Ma allora questo è lo stesso che il non aver dato retta alla convocazione, oppure all’avervi dato retta ma poi essersi messi a cinguettare. Dunque o il primo ha provato il suo punto oppure non l’ha provato, e pertanto non c’è bisogno di ascoltare la deposizione del secondo. Dopo avere prospettato questo ragionamento, Zenone continuava però a scrivere contro ‘La repubblica’ di Platone, a sciogliere i sofismi e ad intimare ai discepoli di assumere la dialettica come un’arte capace di fare ciò. [1034F] Eppure, o Platone aveva dimostrato le sue tesi oppure non le aveva dimostrate; e dunque non c’era alcuna necessità di scrivere contro di lui né in un caso né nell’altro, essendo ciò del tutto superfluo e sciocco. E la stessa cosa può essere detta anche a proposito dei sofismi. 

§ 9. Crisippo [1035A] crede che i giovani debbano ascoltare per prime le lezioni di logica, per seconde quelle di etica, dopo di queste quelle di fisica e, al pari di queste discipline, familiarizzarsi per ultimo con il discorso sugli dei. Poiché queste cose egli le ha dette spesso, basterà citare le sue testuali parole nel quarto libro dell’opera ‘Sulle vite’: “In primo luogo io reputo, in armonia con le rette affermazioni degli antichi, che le principali dottrine generali del filosofo siano di tre generi: la dottrina logica, quella etica e quella fisica. In secondo luogo reputo che la logica debba essere posta in prima posizione, l’etica in seconda e la fisica in terza; e che ultimo tra i discorsi di fisica debba essere quello sugli dei. [1035B] È per questo che gli antichi chiamavano pubblicamente la trasmissione di questo discorso ‘iniziazione’ ”. Ma questo discorso sugli dei, che Crisippo afferma dover essere posizionato per ultimo, egli invece lo posiziona abitualmente per primo e lo antepone ad ogni ricerca etica. Nel suo libro sui sommi beni, in quelli sulla giustizia, sui beni e sui mali, sul matrimonio e l’allevamento dei figli, sulla legge e sulla costituzione politica, egli non pronuncia una parola sola se non non ha prima scritto di Zeus, del Destino, della Prònoia, e che il cosmo è tenuto insieme da una forza sola essendo uno e finito; proprio come fanno i responsabili della promulgazione dei decreti cittadini, i quali li fanno precedere dalla scritta: ‘Con Buona Fortuna’. [1035C] E nessuno di questi testi riesce convincente se non per chi abbia una profonda padronanza delle dottrine fisiche. Ascolta cosa afferma Crisippo nel terzo libro ‘Sugli dei’: “Non è dato trovare altro principio né altra genesi della giustizia se non quella che viene da Zeus e dalla natura delle cose; giacché è qui che tutto ciò deve avere il suo fondamento, se intendiamo dire qualcosa sul bene e sul male”. Di nuovo, nelle sue ‘Questioni di Fisica’ Crisippo dice: “Non vi è altro né più appropriato modo per affrontare il discorso sui beni e sui mali, sulle virtù e sulla felicità, che quello di prendere le mosse dalla natura delle cose e dal governo del cosmo”. E poi prosegue: [1035D] “Giacché a questi bisogna collegare il discorso sui beni e sui mali, non essendovi per essi altro fondamento né riferimento migliore, e non essendo la teoria fisica da assumersi a motivo d’altro che per la distinzione dei beni e dei mali”. Secondo Crisippo la dottrina fisica viene dunque ad un tempo ‘prima e dopo’ il discorso sull’etica. Ma questa sorta di sua disposizione circolare non lascia aperta alcuna via d’uscita, se bisogna disporre ‘dopo’ le nozioni senza le quali è impossibile capire qualcosa; ed è più che evidente la contraddizione di chi comanda che la teoria fisica sia posta quale fondamento del discorso sui beni e sui mali, e che però essa sia insegnata non prima ma dopo. [1035E] Se qualcuno dirà che Crisippo ha scritto nel suo libro ‘Sull’uso del ragionamento’ che: “Chi ha intrapreso per primo lo studio della logica non deve assolutamente astenersi dallo studio della fisica e dell’etica, ma deve intraprendere lo studio anche di queste secondo le circostanze date”, dirà una verità e però rinforzerà l’accusa. Infatti Crisippo si contraddice quando comanda di apprendere la dottrina sugli dei quale ultima e finale -ed è per questo che essa si chiama anche ‘iniziazione’- e però dice pure che essa deve essere appresa tra le prime; giacché l’ordinata disposizione dei soggetti sparisce, se bisognerà comprendere di tutto in tutti. Ma ancora più grave è il fatto che Crisippo, [1035F] dopo avere fatto della dottrina sugli dei il fondamento di quella sui beni e sui mali, non comanda a chi comincia questi studi di apprendere l’etica a partire dalla teologia, bensì che essi, apprendendo l’etica comprendano la teologia secondo il possibile, e in seguito di passare alla teologia dall’etica, senza la quale teologia egli però afferma che non si dà alcun fondamento né alcun adito all’etica. 

§ 10. Crisippo dice di non rifiutare in generale di argomentare, come avviene nei tribunali, sia contro una tesi che contro la tesi opposta; ma esorta a servirsi di questa pratica con cautela, ossia senza fare l’avvocato delle tesi opposte [1036A] ma dissolvendone la plausibilità. “Fare questo, egli afferma, cioè argomentare sia contro una tesi che contro la tesi opposta, spetta a coloro che praticano la sospensione del giudizio su tutto, e ciò coopera allo scopo che essi si prefiggono. Al contrario, a coloro che inculcano la scienza in armonia con la quale noi vivremo in modo ammissibile con la natura delle cose, spetta dare ai principianti gli elementi e istruirli dettagliatamente dal principio alla fine sugli argomenti trattando i quali ci sarà anche l’opportunità, come avviene nei tribunali, di ricordare i discorsi contrari e di dissolverne la plausibilità”. Queste cose egli le ha dette testualmente. Che poi sia assurdo che dei filosofi credano si debba argomentare l’antitesi senza però farne la difesa, ma al modo di arringatori che cercano di fare danno e gareggiano non per la verità [1036B] ma per la vittoria: ebbene questo è stato già detto da me contro Crisippo in altri scritti. Che non in pochi ma in molti luoghi Crisippo abbia strutturato dei ragionamenti opposti a quelli che valuta corretti e che l’abbia fatto vigorosamente, con tanta industriosità ed ambizione d’onore che non è da tutti il decifrare a quali egli desse il suo beneplacito, gli Stoici lo dicono esplicitamente, ammirando la valentia di quell’uomo. Essi credono anche che Carneade nulla dica di suo proprio, ma che attacchi i ragionamenti di Crisippo prendendo spunto dalle argomentazioni che Crisippo stesso aveva approntato a sostegno dell’opinione contraria; e che l’inciso che Carneade spesso pronuncia ‘O mio signore, la tua vitalità ti perderà’, significa che Crisippo dà grandi risorse contro se stesso a coloro che vogliono rovesciarne [1036C] i principi dottrinali e calunniarli. A proposito dei libri pubblicati da Crisippo ‘Contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni’, gli Stoici alzano la cresta e si esprimono in termini talmente magniloquenti da sostenere che i ragionamenti di tutti quanti gli Accademici messi assieme sul medesimo argomento non sono degni di essere paragonati a quelli che Crisippo scrisse per screditare le sensazioni. Ciò è segno dell’inesperienza e dell’amor proprio di coloro che lo affermano; mentre è vero invece che quando egli decise di parlare a sostegno della comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni risultò inferiore a se stesso, e che questo trattato non fu all’altezza del trattato precedente. Sicché Crisippo è in contraddizione con se stesso [1036D] quando comanda di prospettare sempre la tesi opposta senza farne gli avvocati ma dimostrandone la falsità -in effetti egli è più abile come accusatore che come difensore delle sue stesse dottrine- e quando ammonisce gli altri a stare in guardia contro i ragionamenti contrari, in quanto distraenti dall’apprensione certa; e poi proprio lui ambisce di più l’onore di comporre quelli che la fanno sparire, invece delle argomentazioni che quell’apprensione rinsaldano. Eppure, che questo sia ciò di cui ha paura, egli lo indica chiaramente nel quarto libro ‘Sulle vite’, dove scrive queste parole: “Non bisogna accogliere i ragionamenti contrari o dare gli opposti per plausibili così come capita, ma con grande cautela; affinché non accada che quanti [1036E] s’imbattono in essi ne siano distratti e buttino via le apprensioni certe che possiedono; oppure che, essendo incapaci di cogliere a sufficienza la forza delle soluzioni che li confutano, apprendano in un modo che è facile da spazzar via. D’altra parte, anche coloro la cui apprensione degli oggetti sensibili e degli altri dati provenienti dalle sensazioni ricalca la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni, abbandonano facilmente tali cognizioni quando sono attratti dalle argomentazioni filosofiche dei Megarici o da altre argomentazioni ancora più numerose e più potenti”. Io cercherei con piacere di sapere dagli Stoici se essi ritengono le argomentazioni dei Megarici più potenti di quelle scritte da Crisippo nei sei libri ‘Contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni’. O questo bisogna cercare di saperlo da Crisippo in persona? [1036F] Considera, infatti, ciò che proprio lui ha scritto sulle argomentazioni Megariche nel suo libro ‘Sull’uso del ragionamento’: “Qualcosa di simile è avvenuto anche ai ragionamenti di Stilpone e di Menedemo. Essendo essi infatti divenuti celeberrimi per sapienza, al giorno d’oggi quei ragionamenti si sono capovolti a loro onta, essendo alcuni di essi più che grossolani, altri patentemente sofistici”. [1037A] Ora, mio caro Crisippo, tu temi ugualmente che questi ragionamenti -che adesso tu deridi e che chiami onte per coloro che li hanno proposti, in quanto manifestamente viziati- siano però capaci di distrarre alcune persone dall’apprensione certa di qualcosa; mentre proprio tu, che hai scritto una tale quantità di libri ‘Contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni’ nei quali proponevi qualunque cosa ti fosse venuta in mente, poiché ti facevi un punto d’onore d’essere superiore ad Arcesilao, non hai mai supposto che abbiano gettato nello sconcerto qualcuno di coloro che si sono imbattuti in essi? Crisippo, infatti, non utilizza contro la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni dei meri epicheremi ma, come fosse in un processo, trasportato dalla passione afferma sovente che essa dice stupidaggini e s’affatica a vuoto. E così, per non lasciarci neppure il minimo dubbio sul fatto che egli si stia contraddicendo, [1037B] nelle ‘Questioni di Fisica’ Crisippo ha scritto questo: “Anche quando hanno l’apprensione certa di una tesi, si darà il caso che gli Accademici mettano mano a sostenere la tesi opposta, facendone la difesa per quanto possibile. Qualche volta, invece, si darà il caso che essi parlino delle possibilità di entrambe le tesi pur senza avere l’apprensione certa di nessuna delle due”. Nel suo libro ‘Sull’uso della ragione’, dopo avere detto che non bisogna utilizzare la forza della ragione, come neppure quella delle armi, là dove non spetta farlo, Crisippo ha soggiunto questo: “Giacché la forza della ragione va utilizzata per il rinvenimento delle verità e di ciò ch’è loro congenere, non dei loro contrari; benché molti facciano proprio questo”. E quando parla di ‘molti’ forse si riferisce a coloro che professano la sospensione del giudizio. [1037C] Ma quelli, non avendo l’apprensione certa né di una tesi né dell’altra, mettono mano ad entrambe perché, se l’apprensione certa di qualcosa è possibile, pensano che soltanto o principalmente in questo modo la verità possa procurarci un’apprensione certa di se stessa. Proprio tu invece, che sei il loro accusatore, scrivendo circa la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni tesi opposte a quelle di cui hai l’apprensione certa e così inducendo anche altri a farne gli avvocati, ammetti di usare la facoltà di ragionare in modi non proficui ma dannosi, spintovi propriamente dalla ambizione di fare un figurone. 

§ 11. Gli Stoici affermano che l’azione retta è quella che la legge ingiunge, mentre l’aberrazione è quella che la legge vieta, e che perciò la legge vieta molte cose agli insipienti [1037D] ma non ingiunge loro nulla, giacché essi non sono capaci di compiere azioni rette. E chi non sa che chi è incapace di compiere azioni rette è impossibile che non aberri? Essi fanno dunque della legge qualcosa di autocontraddittorio, poiché essa ingiunge le azioni che gli insipienti non possono fare e proibisce quelle dalle quali essi non possono astenersi. Infatti, l’uomo incapace di essere temperante non può non essere impudente, e quello che non può essere assennato, non può non essere dissennato. Gli Stoici stessi invero dicono che quanti proibiscono qualcosa stanno dicendo una cosa, ne stanno proibendo un’altra e ne stanno ingiungendo un’altra ancora. Infatti, chi sta dicendo ‘Non rubare’, dice di non rubare; [1037E] ma sta anche proibendo di rubare e ingiungendo di non rubare. Pertanto la legge nulla proibirà agli insipienti senza anche ingiungere loro qualcosa. Essi dicono che anche il medico ingiunge al discepolo che taglierà e cauterizzerà, omettendo di specificare ‘quando e quanto sia opportuno’. Anche il musicista ingiunge al discepolo di suonare la lira e di cantare, omettendo di specificare ‘nel rispetto della melodia e dell’armonia’. E pertanto essi redarguiscono coloro che fanno queste cose male e non a regola d’arte, giacché fu loro ingiunto di farlo rettamente ed essi invece non lo hanno fatto rettamente. Ebbene, quando il sapiente ingiunge ad un inserviente di dire o di effettuare qualcosa e lo redarguisce qualora egli lo effettui intempestivamente o in modo indebito, manifestamente gli ingiunge di fare non un’azione retta ma un’azione intermedia. E se i sapienti [1037F] ingiungono agli insipienti di fare azioni intermedie, cosa impedisce che anche le ingiunzioni della legge siano dello stesso genere? L’impulso, secondo Crisippo, è la ragione dell’uomo in quanto imperativa del fare, come ha scritto in ‘Sulla legge’. Pertanto, anche la repulsione è ragione in quanto proibitiva, e anche l’avversione lo è. La cautela, poi, è avversione ragionevole. [1038A] Quindi la cautela è ragione in quanto proibitiva di qualcosa al sapiente, giacché l’essere cauti è proprio dei sapienti e non degli insipienti. Se, dunque, la ragione del sapiente è una cosa e la legge è un’altra, i sapienti hanno cautela quando la ragione sia in conflitto con la legge. Se, invece, la legge è non altro che la ragione del sapiente, allora si trova che la legge stessa proibisce ai sapienti di fare ciò che essi sono cauti a fare. 

§ 12. Crisippo afferma che nulla è proficuo per gli insipienti e che l’insipiente non ha bisogno di nulla e non manca di nulla. Una volta detto questo, nel primo libro ‘Sulle azioni rette’, dice poi che la proficuità e la gratitudine pertengono agli atti intermedi, nessuno dei quali è, secondo loro, proficuo; [1038B] ed afferma che davvero nulla è appropriato ed acconcio all’insipiente con queste parole: “Secondo lo stesso criterio, nulla è allotrio al virtuoso e nulla è familiare all’insipiente; dacché il bene appartiene al primo e il male al secondo”. Dunque, come mai Crisippo continua ad intronarci scrivendo in ogni libro di Fisica, per Zeus, e di Etica che: “Noi ci appropriamo di noi stessi appena nati, delle parti del nostro corpo e della nostra progenie”? Nel primo libro ‘Sulla giustizia’, Crisippo poi afferma che anche le belve sono state imparentate in modo appropriato e ben regolato ai bisogni della loro progenie; eccetto che nel caso dei pesci, giacché i loro avannotti si nutrono da se stessi. Ma non si dà sensazione per gli esseri per i quali nulla è sensibile, [1038C] né si dà appropriazione per gli esseri per i quali nulla è appropriato. L’appropriazione, infatti, sembra essere la sensazione di ciò ch’è appropriato e la sua presa d’atto. 

§ 13. Questa dottrina è una conseguenza dei loro principi fondamentali, e anche se ha scritto molte cose contrarie, Crisippo manifestamente aderisce alla tesi che non vi sia un vizio od una aberrazione che sia più eminente di un altro vizio o di un’altra aberrazione, e neppure una virtù od un’azione retta che sia più eminente di un’altra virtù o di un’altra azione retta. Egli lo afferma nel terzo libro ‘Sulla natura’: “Come a Zeus conviene fare il solenne con sé e con la propria vita pregiandoli grandemente e, per dir così, anche essere orgoglioso, essere fiero e vantarsi di vivere una vita degna di vanto; così questo conviene a tutti gli uomini buoni, [1038D] giacché essi non sono sopravanzati in nulla da Zeus”. Ma di nuovo proprio Crisippo, nel terzo libro ‘Sulla giustizia’ afferma che quanti propongono come ‘sommo bene’ il piacere fisico, aboliscono la giustizia; mentre quanti affermano che è solo un ‘bene’ non la aboliscono. Queste sono le sue testuali parole: “Forse, una volta lasciato il piacere della carne nel novero di ciò ch’è ‘bene’ ma non è il ‘sommo bene’, poiché anche il bello è una delle cose che possono essere scelte per se stesse, potremmo salvaguardare la giustizia, lasciando il bello e il giusto nel novero di ciò ch’è ‘bene maggiore’ del piacere della carne”. Tuttavia, se solo il bello è buono, chi dichiara che il piacere fisico è un bene, aberra; ma aberra meno di chi fa del piacere fisico anche un ‘sommo bene’. Infatti quest’ultimo abolisce la giustizia, mentre il primo la salvaguarda ancora; [1038E] quest’ultimo fa dileguare e sparire la società, mentre il primo lascia ancora uno spazio alla bontà e alla filantropia. Inoltre tralascio il fatto che, nella compilazione ‘Su Zeus’, Crisippo afferma: “Le virtù sono suscettibili di accrescimento e di avanzare a grandi passi”. Lo faccio per non sembrare uno che s’abbranca ai nomi, seppure Crisippo morda amaramente, in questo genere di cose, Platone e gli altri, giacché quando intima di non lodare qualunque azione effettuata secondo virtù, egli palesa esservi una certa differenza tra le azioni rette. Nella compilazione ‘Su Zeus’ egli dice così: [1038F] “Quantunque le opere secondo virtù siano appropriate, portate ad esempio ci sono anche opere di questo genere. Per esempio: protendere virilmente il dito; astenersi con padronanza di sé da una vecchiarda con un piede già nella fossa; stare a sentire fino alla fine e senza precipitoso assenso che il tre non è il quattro. Chi pone mano a lodare ed encomiare della gente attraverso esempi del genere, non si palesa un freddurista?” [1039A] Crisippo ha detto cose simili a queste nel terzo libro ‘Sugli dei’. Infatti egli afferma: “Inoltre io credo che le lodi per cose del genere di ‘astenersi da una vecchiarda che ha un piede già nella fossa’ e di ‘reggere con fortezza la puntura di una mosca’, ci estranieranno da quelle per azioni che derivano dalla virtù”. Quale altro accusatore delle sue stesse dottrine sta ancora aspettando Crisippo? Giacché se chi loda queste azioni è un freddurista, ancor più lo è chi ipotizza ciascuna di esse come un’azione retta non solo grande ma grandissima. Infatti, se sopportare virilmente il morso di una mosca e dar prova di temperanza astenendosi da una vecchiarda sono azioni pari a quelle di sopportare virilmente tagli e bruciature e dar prova di tolleranza astenendosi da una Laide o da una Frine, io credo che non faccia differenza che il virtuoso sia lodato per queste azioni o per quelle. Inoltre, [1039B] nel secondo libro ‘Sull’amicizia’, insegnando che non bisogna dissolvere le amicizie in seguito ad un’aberrazione qualunque dell’amico, Crisippo usa queste parole: “Conviene che alcune aberrazioni siano messe del tutto da parte; che alcune incontrino da parte nostra una piccola pensosità; che alcune ne incontrino una maggiore e che alcune aberrazioni siano da noi valutate come cause del tutto degne di dissoluzione dell’amicizia”. E, quel che è più importante, egli afferma nello stesso libro: “Inoltre noi conferiremo di più con alcuni e di meno con altri, sicché saremo maggiormente amici di alcuni e meno di altri. Se questo divario dura a lungo, alcuni diventeranno degni di un certo grado di amicizia, altri di un altro grado; e alcuni saranno da noi valutati degni di un certo grado di fiducia e cose simili, altri di un altro grado”. [1039C] Con queste affermazioni, cos’altro ha fatto Crisippo se non stabilire che anche in queste faccende vi sono delle grandi differenze? E nel libro ‘Sul bello’, per dimostrare che soltanto il bello è buono, Crisippo ha usato questi argomenti: “Il buono è scelto, ciò ch’è scelto è gradito, ciò ch’è gradito è lodevole, ciò ch’è lodevole è bello”. E di nuovo: “Il buono è rallegrante, ciò ch’è rallegrante è solenne, ciò ch’è solenne è bello”. Questi ragionamenti sono in contraddizione con quello citato prima. Infatti, se tutto ciò ch’è buono è lodevole, anche dar prova di temperanza astenendosi da una vecchiarda sarebbe cosa lodevole; oppure questo non è lodevole, nel qual caso non sarebbe vero che tutto ciò ch’è buono è solenne e dilettevole, e pertanto il ragionamento va a gambe all’aria. Com’è infatti possibile che sia una freddura [1039D] il lodare altri per azioni siffatte e non essere ridicolo il rallegrarsi e il fare il solenne a seguito di siffatte azioni?

§ 14. In molte occasioni questo è il modo di agire di Crisippo, ma è quando replica alle tesi altrui che egli meno si preoccupa di non fare affermazioni contraddittorie e tra di loro discordanti. Nei libri ‘Sull’esortare’, prendendosela con Platone per avere detto che per chi non impara e non sa vivere conviene morire, Crisippo dice testualmente: “Un discorso siffatto è contraddittorio e ben poco esortativo. In primo luogo, infatti, additando che per noi è molto meglio non vivere e sollecitandoci, in un certo senso, a morire, ci sprona piuttosto [1039E] ad altro che al vivere la filosofia; giacché non si può vivere la filosofia se non si è in vita, e neppure è possibile diventare saggio se non dopo essere sopravvissuti per molto tempo nel vizio e nell’inesperienza”. Proseguendo poi afferma: “È doveroso anche per gli insipienti rimanere in vita”. E poi testualmente: “In primo luogo, la mera virtù non è un motivo perché noi si viva, così come il vizio non è un motivo perché noi si debba andarcene dalla vita”. Non è qui il caso di aprire e scorrere altri libri di Crisippo per mostrare le sue contraddizioni. In questi stessi libri di discorsi esortativi, una volta, facendo le lodi di Antistene, Crisippo mostra che bisogna acquisire per sé o una buona mente o un cappio; e cita il verso di Tirteo:

‘Sospingersi ai confini della virtù prima che della morte’.

Eppure questi [1039F] versi cos’altro vogliono mostrare se non che per i viziosi e i dissennati il non vivere è più vantaggioso del vivere? Un’altra volta, rettificando Teognide, afferma che non si dovrebbe dire:

‘Per fuggire la povertà di denaro è d’uopo’

ma piuttosto:

‘Per fuggire il vizio è d’uopo anche gettarsi nei profondi
abissi del mare e da rupi scoscese, o Cirno’.

[1040A] Parlando così cos’altro sembrerebbe che Crisippo stia facendo se non paragrafare fraudolentemente gli stessi precetti e le stesse dottrine che egli vuole però cancellare quando a scriverle sono gli altri? Perché fa a Platone una colpa del fatto di mostrare che il non vivere è più vantaggioso del vivere da vizioso e da ignorante; quando invece consiglia a Teognide di buttarsi in un precipizio o di affogarsi in mare pur di rifuggire il vizio? E quando loda Antistene perché spinge i dissennati ad impiccarsi, Crisippo si sta denigrando da solo, giacché è proprio lui a dire che l’essere viziosi non è un motivo sufficiente per allontanarsi dalla vita.

§ 15. Nei libri ‘Sulla giustizia’ scritti proprio contro Platone, al principio Crisippo salta subito al discorso sugli dei e afferma: “Cefalo aberra quando fa della paura degli dei un deterrente contro l’ingiustizia. Un simile ragionamento è facile da screditare e induce, [1040B] al contrario, molte distrazioni e persuasività che pongono obiezioni al discorso sui castighi divini, in quanto essi non sarebbero differenti dalle storielle di Acco e di Alfito, ossia le storielle con le quali le donne reprimono i bambini dalle impertinenze”. Dopo avere così schernito i libri di Platone, in altri Crisippo loda di nuovo e proferisce molte volte queste parole di Euripide:

‘Ma essi esistono, anche se qualcuno a parole li deride;
Zeus e gli dei, che han gli occhi sulle passioni umane’.

Similmente, nel primo libro ‘Sulla giustizia’, dopo avere citato questi versi di Esiodo

[1040C] ‘Ad essi dal cielo il Cronide spinse contro una calamità grande:
fame e peste; e soccombevano i popoli’

Crisippo afferma che gli dei fanno questo affinché, visti castigati i malvagi, servendosi di questi esempi gli uomini che restano in vita mettano meno spesso mano a fare cose del genere. Per contro, dopo avere rimarcato nei libri ‘Sulla giustizia’ che, per quanti valutano il piacere della carne un ‘bene’ ma non il ‘sommo bene’ è ancora fattibile salvaguardare la giustizia, e una volta posto ciò, Crisippo ha detto testualmente: “Forse, una volta lasciato il piacere della carne nel novero di ciò ch’è ‘bene’ ma non è il ‘sommo bene’, poiché anche il bello è una delle cose che possono essere scelte per se stesse, potremmo salvaguardare la giustizia, lasciando il bello e il giusto nel novero di ciò ch’è ‘bene maggiore’ del piacere della carne”. Ciò egli afferma [1040D] in questi libri circa il piacere della carne. Nei libri contro Platone § ad esempio ‘La giustizia’), mentre lo accusa di far mostra di lasciare la salute nel novero dei beni, Crisippo afferma: “Non soltanto la giustizia, ma sono abolite anche la magnanimità, la temperanza e tutte le altre virtù se lasceremo nel novero dei beni il piacere della carne o la salute o qualunque altra cosa non bella”. Ora, quel che c’è da dire a difesa di Platone e contro Crisippo è stato da me scritto in altri libri. La contraddizione di Crisippo è però palese laddove, in un caso, egli afferma che chi ipotizza che il piacere fisico, insieme con il bello, è anche un bene, salvaguarda l’esistenza della giustizia; e in un altro caso accusa quanti non ammettono che solo il bello è buono, [1040E] di abolire l’esistenza di tutte le virtù. E per non tralasciare giustificazione alcuna alle sue polemiche, scrivendo contro Aristotele a proposito di giustizia, Crisippo dice: “Egli parla non rettamente quando afferma che, se il piacere della carne è il sommo bene, la giustizia è abolita e che ciascuna delle altre virtù è abolita insieme con la giustizia. Giacché la giustizia è in verità abolita da coloro che ritengono il piacere della carne il sommo bene, ma nulla impedisce che le altre virtù continuino a sussistere e siano pur sempre beni e virtù, anche se non scelti per se stessi”. Le chiama poi ciascuna per nome. Ma la miglior cosa è riprendere le sue parole: “Se, dice Crisippo, secondo siffatto ragionamento [1040F] il piacere della carne si palesa essere un sommo bene, io però non reputo che ciò abbracci tutte queste implicazioni. Perciò bisogna dire che nessuna delle virtù è scelta per se stessa né alcun vizio per se stesso fuggito, ma che tutte queste cose vanno riferite allo scopo soggiacente. Tuttavia nulla impedirà che, per loro, virilità, saggezza, padronanza di sé, fortezza e le virtù simili a queste continuino ad essere dei beni e che gli opposti siano fuggiti”. [1041A] Quale altro pensatore è stato più protervo e più sconclusionato di Crisippo nei ragionamenti? Egli infatti ha incolpato due dei maggiori filosofi, facendo ad uno la colpa di abolire ogni virtù poiché non mantiene saldo il principio che solo il bello è buono; e all’altro la colpa di ritenere che ogni virtù, eccetto la giustizia, è preservata se il piacere fisico è un sommo bene. Infatti, mentre le faccende in discussione sono identiche, è strabiliante la capacità di Crisippo di utilizzare per la sua critica di Aristotele argomentazioni la cui validità lui stesso nega quando accusa Platone. E nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ Crisippo afferma espressamente: “Ogni azione retta è azione conforme alla legge e pratica della giustizia. Giacché quanto è effettuato secondo padronanza di sé o [1041B] fortezza o saggezza o virilità è un’azione retta. Sicché è anche pratica della giustizia”. Com’è dunque possibile che alle azioni alle quali egli accorda la qualità di essere sagge, virili, fatte con padronanza di sé, non lascia però la qualità di essere giuste; e poi a quante di esse sono rette secondo le suddette virtù lascia anche, per ciò stesso, la qualità di essere azioni effettuate con giustizia? 

§ 16. Siccome Platone afferma che l’ingiustizia, in quanto rovina dell’animo e conflitto intestino, non perde la propria forza neppure negli stessi ingiusti e mette il malvagio alle prese con se stesso, lo mette in urto con se stesso, lo rende preda dello sconcerto; Crisippo, nei libri contro Platone ‘Sulla giustizia’, gli fa colpa di ciò e dice: “È assurdo affermare che si sia ingiusti con se stessi; giacché l’ingiustizia è rivolta contro altri, non contro se stessi”. Ma Crisippo si dimentica di queste cose [1041C] e nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ daccapo afferma: “Qualora commetta ingiustizia contro un’altra persona, l’ingiusto è vittima di un’ingiustizia da parte di se stesso e insieme autore di un’ingiustizia contro se stesso, poiché diviene causa a se stesso d’illegalità e danneggia se stesso contro il merito”. Nei libri contro Platone, circa il dire che l’ingiustizia è rivolta contro un’altra persona e non contro se stessi, Crisippo ha affermato questo: “Gli ingiusti, presi singolarmente, non constano di una pluralità di persone che dicono cose opposte, mentre invece l’ingiustizia è ottenuta proprio quando una pluralità di persone fossero tra di loro così disposte. Ma nulla del genere riguarda il singolo, almeno fino a che egli è così disposto verso chi ha dintorno”. Nelle ‘Dimostrazioni’, circa il fatto [1041D] che l’ingiusto sia anche vittima di un’ingiustizia che egli commette contro se stesso, Crisippo ha proposto argomenti di questo genere: “La legge proibisce di diventare complici di un’illegalità ed il commettere ingiustizia è un’illegalità. Pertanto chi diventa complice di se stesso nell’ingiustizia che commette, opera un’illegalità verso se stesso, e colui che opera un’illegalità verso qualcuno commette anche un’ingiustizia contro di lui. Dunque chi commette ingiustizia contro chiunque, commette ingiustizia anche contro se stesso”. E ancora: “L’aberrazione fa parte dei detrimenti e chiunque aberra, aberra contro di sé. Dunque chiunque aberra danneggia se stesso contro il merito e, se è così, allora commette anche un’ingiustizia contro se stesso”. E pure così: “Chi si giudica danneggiato da un altro, danneggia se stesso e si danneggia contro il merito. Ma questo equivale a commettere ingiustizia. Dunque chi giudica di subire [1041E] un’ingiustizia da chiunque sia, commette in ogni caso ingiustizia contro se stesso”. 

§ 17. Del ragionamento sui beni e sui mali che egli stesso introduce e valuta, Crisippo dice: “È perfettamente in armonia con la vita e quello che meglio si rifà alle prolessi innate”. Così egli ha affermato nel terzo libro dei ‘Discorsi esortativi’. Nel primo libro di essi Crisippo però dice: “Questo ragionamento estirpa dall’uomo tutto il resto, come se esso fosse nulla in relazione a noi e non cooperasse affatto alla felicità”. Considera dunque come possa essere in armonia con se stesso chi prescinde dall’essere in vita, dalla salute, dall’assenza di dolore, dalla integrità degli organi di senso ed è dell’avviso che tutto ciò sia nulla per noi -quando sono invece proprio queste [1041F] le cose che noi chiediamo agli dei- e come possa dichiarare queste sue dottrine massimamente in armonia con la vita e con i comuni preconcetti degli esseri umani. Ma affinché non si possa negare che egli si contraddice, nel terzo libro ‘Sulla giustizia’ Crisippo ha affermato: “Perciò, a causa dell’enormità della grandezza e della bellezza § del sapiente), sembra che noi si stia dicendo cose fittizie e non conformi all’uomo ed alla natura delle cose umane”. [1042A] Vi può mai essere un modo più chiaro di questo col quale uno ammetterebbe di autocontraddirsi, ossia di riconoscere che a causa dell’enormità di quanto si afferma, potrebbe sembrare che uno stia parlando di cose fittizie e al di là dell’uomo e della natura umana; e poi essere dell’avviso che proprio queste affermazioni sono in armonia con la vita e si adattano sommamente ai preconcetti innati degli uomini? 

§ 18. In ogni suo libro di Fisica e di Etica, Crisippo dichiara che essenza dell’infelicità è il vizio, e scrivendone sostiene energicamente che vivere nel vizio è la stessa cosa che vivere infelicemente. Nel terzo libro ‘Sulla natura’ Crisippo rimarca che è vantaggioso vivere da stolto piuttosto che non vivere, anche se non si dovesse mai diventare saggi, e poi soggiunge: [1042B] “Per gli uomini i beni sono siffatti che, in un certo modo, anche i mali vengono per importanza prima delle cose intermedie”. Tralascio il fatto che in altri libri egli abbia detto che nulla è vantaggioso per gli stolti, mentre qui egli afferma che sia vantaggioso vivere da stolti. Siccome però, per gli Stoici, le cose cosiddette ‘intermedie’ sono né bene né male, affermando che i mali primeggiano per importanza egli null’altro sta dicendo se non che i mali primeggiano per importanza su quelli che mali non sono, e che l’essere infelici è più vantaggioso del non esserlo: di modo che Crisippo ritiene il non essere infelici meno vantaggioso dell’esserlo. Ma se ciò è meno vantaggioso è anche più dannoso, e dunque il non essere infelici è più dannoso dell’essere infelici. Volendo dunque appianare quest’assurdità, [1042C] Crisippo soggiunge circa i mali: “Quelli che primeggiano per importanza non sono però questi mali bensì la ragione, con la quale piuttosto spetta a noi vivere anche se saremo stolti”. Una prima volta, dunque, egli chiama ‘male’ il vizio e ciò che partecipa del vizio e null’altro. Ma il vizio ha a che fare con la ragione, o piuttosto è la ragione che aberra; e per conseguenza il vivere con la ragione da stolti, null’altro è che vivere nel vizio. In secondo luogo il vivere da stolti è vivere nell’infelicità. In che senso, allora, questo modo di vivere ha più importanza di quello che dà importanza alle cose intermedie? Giacché Crisippo non starà certo affermando che l’essere infelici ha più importanza dell’essere felici. Ma, affermano gli Stoici, Crisippo non crede assolutamente che la permanenza in vita [1042D] vada parametrata ai beni e il trapassar di vita ai mali, bensì che esse vadano parametrate alle entità intermedie secondo natura. Perciò anche per gli uomini felici diventa a volte doveroso trapassar di vita, e invece rimanere in vita per le persone infelici. Quale autocontraddizione a proposito di scelta e di rifiuto è allora maggiore di questa, ossia di quella per cui per coloro che sono al culmine della felicità diventa doveroso distornarsi dai beni loro presenti, a causa della mancanza di cose che sono di per sé indifferenti? Eppure gli Stoici ritengono che nessuna delle cose indifferenti sia da scegliersi o da fuggirsi, e che da scegliersi sia soltanto il bene e da fuggirsi soltanto il male. Sicché a loro avviene di dirigere il raziocinio sulla cui base agiscono, non verso le cose che scelgono e quelle che rifuggono bensì di averne di mira altre, [1042E] le quali essi né rifuggono né scelgono e però di vivere e di morire sulla base di queste ultime.

§ 19. Crisippo ammette che beni e mali siano del tutto differenti; e ciò è necessario se i mali rendono subito estremamente infelici coloro ai quali si presentano mentre i beni, invece, li rendono felici al massimo grado. Inoltre egli afferma che beni e mali sono entità sensibili, scrivendo nel primo dei due libri ‘Sul sommo bene’: “Che beni e mali siano entità sensibili è possibile affermarlo anche sulla base di queste considerazioni. Non soltanto, infatti, le passioni sono entità sensibili nelle loro specie, come l’afflizione, la paura e cose similari; ma è possibile accorgersi anche della ruberia, [1042F] dell’adulterio e cose simili; e, in generale, accorgersi della stoltezza, della viltà e di altri non pochi vizi; e non soltanto della gioia, dei benefici e di molte altre azioni rette, ma anche della saggezza, della virilità e delle restanti virtù”. Tralasciamo pure ogni altra assurdità di queste affermazioni; ma chi non ammetterebbe che esse contraddicono quelle che gli Stoici fanno a proposito del sapiente ‘a sua insaputa’? Se infatti il bene è un’entità sensibile grandemente differente da quella del male, [1043A] cosa c’è di più assurdo del sostenere che un individuo vizioso può ignorare di essere diventato virtuoso e non accorgersi della presenza della virtù, anzi credere di essere ancora impegolato nel vizio? Infatti, o nessuno che possieda tutte quante le virtù può ignorare di averle o credere di non averle; oppure la differenza tra la virtù e il vizio, tra la felicità e l’infelicità, tra la vita più nobile e la vita più abietta è minutissima e difficilissima da riconoscere, se appunto ad uno sfugge di avere acquisito le prime ed abbandonato le seconde.

§ 20. Quello ‘Sulle vite’ è un trattato in 4 libri. Nel quarto, Crisippo dice che il sapiente è un uomo lontano dagli affari pubblici, che si occupa di poche cose e che si fa gli affari suoi. Questo è il testo: “Giacché io credo [1043B] che il saggio sia un uomo lontano dagli affari pubblici, che si occupi di poche cose e che si faccia gli affari suoi; e che similmente siano virtuose tanto l’autodeterminazione pratica quanto l’occuparsi di poche cose”. Affermazioni quasi simili egli ha fatto nel libro ‘Sulle cose che possono essere scelte per se stesse’, con queste parole: “Giacché in effetti la vita tranquilla appare possedere qualcosa che la rende al riparo dai pericoli e sicura, anche se pochissimi sono capaci di notarlo”. È manifesto che una simile affermazione non stona sulla bocca di Epicuro, il quale leva di mezzo la Prònoia attraverso la dottrina che la divinità non si occupa affatto delle vicende umane. Ma proprio Crisippo, nel primo libro ‘Sulle vite’ dice: “Il sapiente si farà deliberatamente carico del potere regale e ricaverà denari da esso. [1043C] E qualora non possa regnare convivrà con un re e parteciperà alle sue campagne militari, re quali erano Idantirso lo Scita o Leucone il Pontico”. Citerò di lui anche questo passo affinché, come l’armonia nasce dal suono della corda più bassa e della corda più alta, così noi si possa capire che la coerenza della vita di un uomo consiste nella scelta del disinteresse completo o parziale per gli affari pubblici e poi nel cavalcare insieme con gli Sciti e nel curare per una necessità qualunque gli affari dei tiranni del Bosforo. Afferma infatti Crisippo: “Attenendoci al giudizio che il sapiente parteciperà alle campagne militari e vivrà con i reali, noi esamineremo di nuovo l’argomento, [1043D] dato che alcuni neppure lo sottintendono possibile quando fanno simili computi, e noi lo abbiamo lasciato da parte per ragioni similari”. E poco dopo aggiunge: “Non soltanto con coloro che hanno fatto progressi di un certo rilievo sia nel loro sistema educativo sia acquisendo certe abitudini, come alla corte di Leucone e di Idantirso”. Alcuni incolpano Callistene di essersi recato da Alessandro per via di mare nella speranza di risollevare le sorti di Olinto, come Aristotele aveva fatto per Stagira; e però lodano Eforo, Senocrate e Menedemo per avere declinato gli inviti di Alessandro. Ma per fare denari, Crisippo sospinge il sapiente a testa in giù e piedi per aria fino a Panticapeo e alla desolata Scizia. Che il sapiente faccia questo per lavoro e per fare denari egli [1043E] lo ha manifestato in precedenza, ipotizzando tre modi di fare denari che sono specialmente acconci al sapiente: quello legato all’essere re, quello legato agli amici e quello legato al vivere la vita del sapiente. Eppure Crisippo sovente loda questi versi fino a diventare molesto:

‘Peraltro di che han bisogno i mortali salvo queste due cose sole:
del grano di Demetra e dell’acqua corrente da bere?’

E nei libri ‘Sulla natura’ afferma: “Quand’anche il sapiente perdesse le più grandi sostanze, reputerebbe d’avere buttato via una dracma”. Mentre nel libro ‘Sulla natura’ lo estolle e gonfia di lodi, qui di nuovo Crisippo abbatte il sapiente a livello di un lavoratore mercenario e di un sofista. Egli, infatti, richiederà e si farà anticipare il compenso dal discepolo, [1043F] in alcuni casi subito all’inizio, e in altri casi dopo un certo lasso di tempo; pratica, quest’ultima, che Crisippo afferma essere più costumata, e che però più sicuro è il compenso anticipato, in quanto questo campo è compatibile con comportamenti ingiusti. Egli dice così: “Gli uomini assennati si fanno pagare il compenso non da tutti allo stesso modo, ma in modo diverso da persona a persona a seconda dei casi, e senza professare di farne degli uomini virtuosi, e per di più nel giro di un solo anno; ma, per quanto sta a loro, che faranno tutto ciò per il lasso di tempo concordato”. [1044A] E poi prosegue: “L’uomo assennato saprà se il momento è opportuno per riscuotere il compenso subito all’entrata nella scuola, come hanno l’abitudine di fare i più, oppure di dar loro del tempo; cosa, questa, maggiormente compatibile con comportamenti ingiusti, anche se sembrerebbe essere più costumata”. Come può il sapiente spregiare i quattrini, quando ha firmato un contratto con il quale si impegna a trasmettere la virtù dietro un compenso in denaro; e qualora non la trasmetta pretende comunque di essere pagato asserendo di avere fatto ciò che gli spettava fare? O come può il sapiente sentirsi superiore al danno, quando fa bene attenzione a non essere raggirato circa la paga pattuita? Nessuno subisce un’ingiustizia se non subisce un danno. Laonde Crisippo, dopo avere dichiarato in altri luoghi che il sapiente non subisce ingiustizia, [1044B] qui afferma che il sapiente è passibile di qualche ingiustizia.

§ 21. Nel libro ‘La repubblica’ Crisippo afferma: “I cittadini nulla faranno né appresteranno in vista del piacere fisico”. Loda quindi Euripide per avere proferito queste parole:

‘Peraltro di che han bisogno i mortali salvo di queste due cose sole:
del grano di Demetra e dell’acqua corrente da bere?’

Proseguendo, loda poi poco dopo Diogene, il quale si masturbava sotto gli occhi di tutti e diceva agli astanti: “Magari potessi sbarazzare così il ventre dalla fame!”. Che senso ha lodare chi ripudia il piacere fisico e lodare, nelle stesse pagine, chi fa certe cose per ottenerne un piacere fisico e per di più impegnandosi in simili oscenità? [1044C] Dopo avere scritto nei libri ‘Sulla natura’ che “molti degli animali la natura li ha messi al mondo per via della loro bellezza, giacché la natura è amante del bello e si rallegra della varietà”; Crisippo soggiunge, con argomentazione quanto mai inopinata e illogica, che “il pavone è nato a motivo della sua coda, per via della bellezza della sua coda”. Però un’altra volta, ne ‘La repubblica’ egli ha rimproverato con veemenza gli allevatori di pavoni e di usignoli, in questo modo legiferando in contrasto con il legislatore del cosmo e deridendo la natura, la quale mostra invece di amare la bellezza di quegli animali ai quali il sapiente nega diritto di cittadinanza nella città. Com’è possibile che non sia un’assurdità quella di incolpare e dare addosso a chi alleva animali che egli invece loda quando è la Prònoia a generarli? [1044D] Nel quinto libro ‘Sulla natura’ Crisippo dice poi: “Le pulci ci fanno assai profittevolmente ridestare; i topi attirano la nostra attenzione sulla necessità di non riporre le nostre cose in modo trascurato; ed è verosimile che la natura ami il bello giacché essa si rallegra della varietà”, e quindi dice testualmente: “Evidenza palese di questo fatto potrebbe essere soprattutto la coda a ruota del pavone. Qui la natura dà infatti a vedere che l’animale è venuto al mondo a motivo della sua coda a ruota e che non è il contrario, dato che la femmina è venuta dopo la nascita del maschio”. Nel libro ‘La repubblica’ Crisippo dice che “Siamo vicini a dipingere anche i cessi”. E poco dopo afferma che: “Alcuni abbelliscono la campagna con rampicanti e con mirti; allevano pavoni, piccioni, pernici, per udire i loro canti, [1044E] e anche usignoli”. A questo punto mi piacerebbe cercar di sapere da lui in quale pregio tiene le api e il miele, giacché sarebbe del tutto coerente con la sua affermazione che le pulci esistono per recarci un gran profitto se egli affermasse che invece le api non ce ne recano alcuno. E se egli dà spazio alle api e al miele nel suo Stato, perché esclude i cittadini da quanto è delizioso all’udito e alla vista? In generale, come dice delle assurdità colui il quale biasima i commensali perché si servono delle varie portate, del vino e delle pietanze, e al contempo loda il padrone di casa che li ha invitati e che ha fatto preparare questi cibi; così, a quanto pare, non fa parola di autocontraddirsi colui che encomia la Prònoia [1044F] perché ci procura pesci, uccelli, miele e vino: cibi che abbiamo a portata di mano e che la natura ha fatto apposta per nutrirci; e però incolpa coloro che non trascurano questi cibi e che non si accontentano del grano di Demetra e dell’acqua corrente da bere. 

§ 22. Nel [….] dei ‘Discorsi esortativi’, Crisippo dice che si calunnia senza ragione l’accoppiarsi con madri o sorelle o figlie, il mangiare certi cibi e il procedere verso un luogo sacro venendo da una puerpera o da un morto. Ed afferma che bisogna volgere lo sguardo alle belve, [1045A] ed arguire dai loro comportamenti che nessuna cosa di quel genere è assurda o contro natura. Al riguardo, infatti, sono tempestivi i paralleli con gli altri animali, per evidenziare che essi non contaminano il divino né quando s’accoppiano né quando partoriscono né quando muoiono in luoghi sacri. A sua volta, nel quinto libro ‘Sulla natura’ dice: “Esiodo fa bene a vietare di orinare nei fiumi e nelle sorgenti. E ancor più ci si deve astenere dall’orinare sugli altari o su un’effigie divina. Non è infatti un’azione ragionevole, anche se i cani, gli asini e i bambini infanti [1045B] lo fanno perché non se ne danno alcun pensiero e non si rendono razionalmente conto delle cose di questo genere”. Ma è assurdo definire opportuna, nel primo caso, l’osservazione di ciò che fanno gli animali privi di ragione, e invece nel secondo caso definirla illogica.

§ 23. Taluni filosofi, ritenendo in questo modo di provvedere agli impulsi un proscioglimento dall’essere necessitati in modo inderogabile ad opera delle cause esterne, strutturano la presenza nell’egemonico di un certo movimento ‘avventizio’ il quale diventa evidente e manifesto soprattutto nel caso di alternative tra loro indistinguibili. Infatti, qualora sia necessario prendere una decisione su due alternative di pari forza e simili per stato, non essendoci causa alcuna che conduca a scegliere una delle due poiché esse in nulla differiscono una dall’altra, ecco che proprio questa facoltà ‘avventizia’ dell’animo [1045C] trae da se stessa un’inclinazione per una delle due e spezza così l’aporia. Nelle sue obiezioni contro questi filosofi, Crisippo sostiene che essi violentano la natura quando pongono l’esistenza di processi privi di causa, e in molti passi cita l’astragalo, la bilancia e molte di quelle cose che non possono prendere una flessione e una propensione ora in un modo ora in un altro senza qualche causa o differenza presente in loro o al loro esterno. Infatti, gli eventi incausati ed automatici sono secondo lui interamente inesistenti, mentre nei movimenti che taluni plasmano con l’immaginazione e chiamano ‘avventizi’ si insinuano cause oscure e dubbie che guidano a nostra insaputa l’impulso verso una delle due alternative. Queste affermazioni [1045D] sono ripetute molte volte nei suoi discorsi più conosciuti. Ma le cose che proprio lui a sua volta ha detto in opposizione a queste, poiché non sono ugualmente accessibili a tutti, le citerò con le sue stesse parole. Infatti, nel terzo dei libri ‘Sull’amministrare la giustizia’ egli ipotizza il caso di due corridori che taglino contemporaneamente il traguardo, ed è assai incerto su cosa sia doveroso fare al giudice arbitro. “Forse è possibile, egli dice, che il giudice arbitro dia la palma della vittoria a quello dei due che vuole, in dipendenza della rispettiva maggiore o minore consuetudine con lui, come se egli qui, in un certo modo, lo gratificasse di qualcosa di suo proprio; oppure piuttosto, essendo la palma della vittoria divenuta proprietà comune di entrambi i corridori, è possibile che egli la dia, come per sorteggio, [1045E] secondo una sua inclinazione casuale? Dico ‘inclinazione casuale’ per dire quella che capita quando di due dracme proposteci e simili per tutto il resto, noi ne prendiamo una seguendo la nostra inclinazione”. Nel sesto libro ‘Sul doveroso’, dopo avere affermato che: “Vi sono faccende che non meritano davvero molta trattazione né attenzione”, Crisippo crede che noi si debba lasciarci andare all’inclinazione come capita dell’intelletto, affidando la scelta in merito alla sorte, e dice: “Per esempio, se di coloro che valutano queste certe due dracme alcuni dicessero che buona è questa e altri invece dicessero che buona è quella, e se bisognasse prendere una delle due; allora, tralasciando di ricercare oltre, noi prenderemo quella che capita [1045F] affidando la scelta alla sorte secondo una ragione non evidente, anche a rischio di prendere proprio la dracma cattiva”. Con le parole ‘sorteggio’ e ‘inclinazione come capita dell’intelletto’ egli introduce pertanto la presa per sé senza causa alcuna di cose indifferenti.

§ 24. Nel terzo libro ‘Sulla dialettica’ dopo avere rimarcato che: “Platone s’industriò sulla dialettica, come Aristotele e i loro successori [1046A] fino a Polemone e a Stratone, e soprattutto come Socrate”; e dopo avere ribadito che: “Uno sarebbe disposto anche ad aberrare in compagnia di questa quantità di personaggi di tale qualità”; Crisippo aggiunge testualmente: “Se essi avessero parlato di tale soggetto in modo accessorio, forse uno potrebbe trattare la materia con dileggio; ma poiché essi ne hanno parlato con tale solerzia come se la dialettica fosse tra le arti e facoltà più grandi e più necessarie, non è plausibile che essi si sbaglino di così tanto, dal momento che sono nel complesso le personalità che noi sottintendiamo che siano”. Perché dunque proprio tu, o Crisippo, potrebbe dire qualcuno, non smetti mai di combattere e di contestare uomini di tale qualità e di tale grandezza, tu che li ritieni [1046B] sbagliare sulle questioni assolutamente principali e più importanti? Giacché essi di sicuro non scrissero con tanta serietà della dialettica e invece alla leggera e per scherzo del principio, del sommo bene, degli dei e della giustizia: tutti argomenti sui quali invece tu chiami il loro ragionamento cieco, contraddittorio e pieno di miriadi di altri errori. 

§ 25. [Nel primo libro ‘Sulle azioni rette’], Crisippo afferma che il godimento per i mali altrui è inesistente, giacché nessuno dei virtuosi si rallegra per i mali altrui, mentre nessuno degli insipienti assolutamente si rallegra. Nel secondo libro ‘Sul bene’, spiegando che l’invidia “è afflizione per i beni altrui, propria di coloro che vogliono svilire chi hanno dintorno per farsi eminenti loro”, Crisippo invece rannoda all’invidia [1046C] il godimento per i mali altrui: “…. e congiunto costantemente all’invidia nasce il godimento per i mali altrui, il quale è proprio di coloro che vogliono, per motivi simili, che chi hanno dintorno sia svilito; mentre la commiserazione nasce invece quando essi sono sviati secondo altre pulsioni naturali”. È dunque manifesto che egli lascia qui esistere, come l’invidia e la commiserazione, anche il godimento per i mali altrui, mentre in altri luoghi afferma che il godimento per i mali altrui è inesistente, così come sono inesistenti l’odio della malvagità e la vergogna per il guadagno illecito.

§ 26. Crisippo, dopo avere detto in molti luoghi che coloro i quali sono felici per la maggior parte del loro tempo, non sono più felici bensì felici allo stesso modo e allo stesso grado di coloro i quali partecipano della felicità per un solo istante; in molti altri per contro ha detto: [1046D] “Non sarebbe doveroso porgere neppure il dito per una saggezza momentanea che ci attraversa come un lampo”. Basterà citare quel che egli ha scritto in proposito nel sesto libro delle ‘Ricerche etiche’. Dopo avere rimarcato che: “Non ogni bene finisce parimenti in gioia né ogni retta azione in parole solenni”, ha inferito questo: “E infatti, se si trattasse soltanto di ottenere la saggezza per un istante o per l’estremo nostro momento, allora non sarebbe doveroso neppure protendere il dito a motivo di una saggezza presente a questo modo”. Eppure coloro che sono felici non lo sono di più perché lo sono per la maggior parte del tempo; né la felicità, perché eterna, diventa preferibile a quella istantanea. [1046E] Se dunque egli ritenesse, come Epicuro, la saggezza un bene produttivo della felicità, bisognerebbe prendersela soltanto con l’assurdità e la paradossalità di una simile affermazione. Invece la saggezza, secondo Crisippo, è non altra cosa dalla felicità ma la felicità stessa; e dunque come può non essere contraddittorio affermare che la felicità istantanea e quella eterna sono da scegliersi allo stesso grado e poi dire che la felicità istantanea non vale nulla?

§ 27. Gli Stoici dicono che le virtù hanno implicazione reciproca non soltanto nel senso che chi ne possiede una le possiede tutte, ma anche nel senso che chi agisce secondo una di esse agisce secondo tutte. [1046F] E non è uomo perfetto chi non ha tutte le virtù, né è azione perfetta quella che non è effettuata in armonia con tutte le virtù. Ma nel sesto libro delle ‘Ricerche etiche’ Crisippo afferma: “Non sempre l’uomo urbano si comporta virilmente né l’insipiente si comporta vilmente così che, all’apparire di certe rappresentazioni, uno mantenga le proprie determinazioni e l’altro invece se ne distorni”. [1047A] Ed afferma anche: “È plausibile che l’insipiente non sempre sia intemperante”. Se pertanto l’essere virile è qualcosa del genere: ‘praticare la virilità’; e l’essere vili del genere: ‘praticare la viltà’; fanno affermazioni contraddittorie quanti dicono che chi ha una virtù o un vizio agisce secondo tutte le virtù o tutti i vizi, e poi sostenere che l’uomo urbano non sempre si comporta virilmente e che l’insipiente non sempre si comporta vilmente. 

§ 28. La retorica è definita arte dell’ordinata disposizione del discorso parlato, ed inoltre nel suo primo libro Crisippo ha scritto queste parole: “Io credo che bisogna darsi pensiero non soltanto dell’ordine semplice e privo di forzature dei discorsi, ma anche dell’appropriato modo di recitarli in relazione alle estensioni di voce [1047B] loro spettanti ed agli atteggiamenti del viso e delle mani”. A questo punto, una volta diventato persino eccessivo nella ricerca della perfezione del discorso, nello stesso libro, mentre rimarca la questione degli iati, afferma: “Che noi dobbiamo attenerci a faccende ben più importanti di quella e tralasciare non soltanto simile questione ma anche quella di certe oscurità, ellissi e, per Zeus, solecismi, dei quali non pochi altri si vergognerebbero”. Ora, l’arrivare a concedere agli oratori -una volta- di disporre in buon ordine del loro discorso fino a dettagli riguardanti il decoro delle mani e della bocca; e poi arrivare a concedere loro -un’altra volta- di non darsi alcun pensiero né delle ellissi né delle oscurità e di non vergognarsi neppure dei solecismi: finalmente tutto ciò è proprio di un uomo che dice qualunque cosa gli salti in mente. 

§ 29. [1047C] Nelle sue ‘Questioni di fisica’ Crisippo esorta caldamente, circa le questioni che richiedono perizia ed acquisizione di informazioni, a prendersela con calma, ove non si abbia nulla di meglio e di più evidente da dire. “Per non -dice- sottintendere, in modo similare a Platone, che il cibo umido si porta nel polmone e il cibo secco nell’intestino; né incorrere in altre similari cadute in errore”. A me pare che la più grande e la più vergognosa delle cadute in errore sia quella di incolpare gli altri di qualcosa e poi di cadere negli stessi errori che si rimproverano loro, senza ben guardarsi dal fare affermazioni in intimo contrasto reciproco. Infatti proprio Crisippo afferma che il numero di combinazioni ottenibile mediante dieci proposizioni oltrepassa il milione, senza peraltro avere fatto al riguardo accurate ricerche personali né riferendo informazioni vere [1047D] di esperti. Almeno Platone ha dalla sua parte come testimoni i medici più accreditati, Ippocrate, Filistione, Dioxippo l’Ippocratico, e tra i poeti Euripide, Alceo, Eupoli, Eratostene, i quali tutti affermano che le bevande passano attraverso i polmoni. Invece tutti i matematici contestano Crisippo; e tra di essi vi è Ipparco, il quale dimostra che il suo errore di conteggio è stragrande, se appunto la proposizione affermativa produce centotremilaquattrocentonove combinazioni di proposizioni copulativamente coordinate, e la proposizione negativa ne produce a sua volta [1047E] trecentodiecimilanovecentocinquantadue. 

§ 30. Alcuni dei filosofi più anziani solevano dire che accade a Zenone ciò che era accaduto a quel tale il cui vino era diventato acido, sicché non poteva più venderlo né come aceto né come vino. Infatti per Zenone lo ‘indifferente promosso’ ha lo stato né di un ‘bene’ né di un ‘indifferente’. Ma Crisippo ha reso la faccenda ancora più intricata. Talora, infatti, dice: “Sono pazzi coloro che tengono in nessun conto la ricchezza di denaro, la salute, l’assenza di dolore, l’interezza e l’integrità del corpo e non s’attengono a siffatti obiettivi”. Talaltra, citando il verso di Esiodo

‘Lavora, Perse, prosapia divina’

ha esclamato che è pazzia ammonire l’opposto 

[1047F] ‘Non lavorare, Perse, prosapia divina’.

Nei libri ‘Sulle vite’ egli afferma poi che il sapiente, allo scopo di fare denari, starà con i re; e che vivrà la vita del sapiente per denaro, prendendolo da alcuni discepoli in anticipo e con altri stipulando un accordo al riguardo. Nel settimo libro ‘Sul doveroso’, afferma che il sapiente farà tre capriole, se per questo ottiene in cambio un talento. [1048A] Nel primo libro ‘Sui beni’, in un certo modo Crisippo ne conviene e concede il punto a coloro che vogliono chiamare ‘beni’ gli ‘indifferenti promossi’ e ‘mali’ i loro opposti, con queste parole: “Se uno vuole, in conformità a siffatte diversificazioni linguistiche, chiamare ‘bene’ un ‘indifferente promosso’ e chiamare ‘male’ un ‘indifferente ricusato’, una volta che abbia portato la faccenda su questo terreno e non vada altrimenti errando può procedere, a patto di non cadere in errore nei significati e, per il resto, di avere di mira la consuetudine in fatto di terminologia”. Così, dopo avere avvicinato in questo passo l’indifferente promosso al bene ed averli mescolati insieme, in altri luoghi dice di nuovo: “Questi indifferenti promossi sono assolutamente nulla in relazione a noi, e anzi la ragione ci spicca e ci distoglie [1048B] da tutte le cose di questo genere”. Questo, infatti, ha scritto nel primo libro dei ‘Discorsi esortativi’. E nel terzo libro ‘Sulla natura’ egli dice che certi regnanti e certe persone ricche di denaro sono chiamate ‘beate’, come se si chiamassero beati coloro che usano pitali d’oro e frange dorate. Per il virtuoso, invece, perdere le sostanze è come perdere una dracma; ed ammalarsi è come un intoppo. In conseguenza di ciò egli ha riempito non soltanto la virtù ma anche la Prònoia di incombenze in intimo contrasto reciproco, per cui la virtù appare essere qualcosa che dà un peso enorme a delle inezie, priva di senso, che si dà da fare per faccende come quelle citate e che per causa loro impone al sapiente di navigare fino al Bosforo e di fare le capriole. [1048C] Zeus, poi, diventa ridicolo se si rallegra di essere designato Ctesio, Epicarpio e Caridote, ossia colui che gratifica i viziosi con pitali d’oro e frange dorate, e i virtuosi con cose del valore di una dracma qualora essi diventino ricchi per volere della Prònoia di Zeus. E ancor più ridicolo diventa Apollo, se siede tra frange e pitali dorati vaticinando sulla liberazione dalle pietre in cui si può inciampare.

§ 31. Inoltre, nella dimostrazione gli Stoici rendono ancora più appariscente l’intimo contrasto delle loro affermazioni. Essi affermano, infatti, che ciò di cui è possibile fare un uso buono o cattivo è né un bene né un male. Tutti i dissennati fanno cattivo uso della ricchezza di denaro, della salute, della vigoria del corpo: [1048D] perciò nessuna di queste cose è un bene. Se dunque la divinità non dà agli uomini la virtù, ma il bello è libera scelta dell’uomo, la divinità però dà ricchezza di denaro e salute sprovviste di virtù a gente che le utilizzerà non bene ma male, ossia in modo dannoso, vergognoso e sciagurato. Eppure, se gli dei possono procurare la virtù, sono non probi se non la procurano. Se, invece, non possono rendere gli uomini virtuosi, neppure possono loro giovare, dal momento che null’altro è buono e giovevole. Non conta nulla, infatti, che essi giudichino per virtù e potenza coloro che sono divenuti virtuosi per altra via, giacché anche i virtuosi giudicano gli dei per virtù e potenza. [1048E] Sicché gli dei recano un giovamento non maggiore di quanto ne ricevano dagli uomini. E se invero Crisippo non dichiara virtuoso se stesso né alcuno dei suoi conoscenti o maestri, gli Stoici cosa pensano degli altri se non quello che appunto affermano? Ossia che sono tutti pazzi, fuori di testa, sacrileghi, gente che vive nell’illegalità ed è giunta al culmine della cattiva sorte e d’ogni infelicità. E poi le vicende nostre, di noi che ce la passiamo così meschinamente, sarebbero governate dalla Prònoia degli dei? Se dunque gli dei, mutando avviso, volessero recarci danno, maltrattarci, pervertirci e ulteriormente stritolarci, non potrebbero disporci peggio di come stiamo adesso, come Crisippo dichiara, né la nostra vita mancare del più alto grado [1048F] di vizio e di infelicità, tanto che se essa avesse la voce direbbe le parole di Eracle:

‘Trabocco di mali e non v’è più dove se ne possano mettere’

Chi potrebbe trovare delle dichiarazioni più contraddittorie circa gli dei e gli uomini di quelle di Crisippo, il quale afferma che gli dei [1049A] provvedono a noi nel miglior modo possibile e che gli uomini agiscono nel peggior modo possibile? 

§ 32. A proposito dei galli, alcuni Pitagorici incolpano Crisippo di avere scritto nei libri ‘Sulla giustizia’: “Essi sono nati per uno scopo a noi proficuo, giacché ci svegliano, eliminano gli scorpioni e con i loro combattimenti ci attirano, infondendoci una certa emulazione per il loro vigore. E comunque è pur necessario che divoriamo anche loro, affinché la moltitudine dei pulcini non superi il bisogno”. Crisippo deride però a tal punto coloro che lo incolpano sulla base di queste obiezioni, da scrivere, a proposito di Zeus salvatore, genitore e padre di Giustizia, Eunomia e Pace, nel terzo libro ‘Sugli dei’, le seguenti parole: [1049B] “Come gli Stati che hanno un eccesso di abitanti ne allontanano una stuolo nelle colonie e muovono guerra ad un altro popolo; così il dio dà origine a rovine e distruzioni”. Egli porta a testimoni di ciò Euripide e altri scrittori, i quali affermano che la guerra di Troia sarebbe stata suscitata dagli dei per far sgombrare la moltitudine degli uomini in sovrappiù. Lascia stare le altre assurdità contenute in queste affermazioni § giacché il mio l’obiettivo non è quello di indagare se gli Stoici dicano cose sbagliate, bensì quello di evidenziare il cumulo di affermazioni contradittorie che fanno) e tieni in considerazione il fatto che Crisippo applica sempre a dio epiteti nobili e denotanti amicizia per l’uomo, ma gli attribuisce poi opere selvatiche, barbare e degne dei Galati. Le immense rovine e distruzioni e i massacri di uomini [1049C] quali quelli compiuti nel corso della guerra di Troia, delle guerre Persiane e della guerra del Peloponneso non somigliano certo alla fondazione di colonie, a meno che gli Stoici sappiano di certe città fondate nell’Ade e sotto terra. Eppure Crisippo fa del Galata Deiotaro una sorta di dio. Proprio Deiotaro il quale, poiché gli erano nati molti figli e voleva lasciare il regno e le sostanze ad uno solo di essi, fece sgozzare tutti gli altri, come se si trattasse di potare e rimpicciolire i germogli di una vite affinché l’unico rimasto diventi forte e grande. Tuttavia il vignaiuolo fa ciò con i sarmenti quando essi sono ancora piccoli e deboli; ed anche noi, per risparmiare la madre, le sottraiamo la maggior parte dei cagnolini quando sono appena nati e sono ciechi. [1049D] Invece Zeus non soltanto senza far caso al fatto di averli lasciati raggiungere l’età adulta, ma dopo averli lui stesso fatti nascere e crescere, massacra gli uomini di bastonate ed escogita pretesti per rovine e distruzioni ed eccidi, mentre invece dovrebbe non fornire causa ed origine per la loro generazione.

§ 33. Quest’ultimo è un punto minore, mentre il punto maggiore è quello precedente. Nessuna guerra tra gli uomini nasce senza che essa origini da un qualche vizio. A scatenarne una sarà la brama di piaceri, un’altra l’avidità di guadagno, un’altra la brama di gloria, un’altra ancora la brama di comandare. Se pertanto il dio fa scoppiare le guerre, sarà ancora lui a far nascere anche i vizi, esacerbando e pervertendo gli uomini. Eppure nel libro ‘Sull’amministrare la giustizia’ [1049E] e pure nel secondo libro ‘Sugli dei’, Crisippo dice: “Non è ragionevole che le divinità diventi complice di atti vergognosi. Al modo in cui la legge non potrebbe mai diventare complice di atti illegali, gli dei non potrebbero mai diventare complici di atti empi; e pertanto è ragionevole che essi non possano essere complici di alcun atto vergognoso”. E cos’è più vergognoso per gli uomini della rovina e della distruzione reciproca, i principi delle quali Crisippo dice che è il dio ad instillarli in noi? Ma per Zeus, dirà qualcuno, a sua volta egli loda però Euripide quando dice:

‘Se gli dei compissero qualcosa di vergognoso, non sono dei’

e

‘Hai detto la cosa più facile di tutte: accagionare gli dei’.

Come se noi adesso facessimo altro che evidenziare quanto le sue parole e le sue concezioni siano le une opposte alle altre.

§ 34. [1049F] Nondimeno il verso appena ora da lui lodato sarà da usare contro Crisippo non una volta sola, né due, né tre, ma miriadi di volte:

‘Hai detto la cosa più facile di tutte: accagionare gli dei’. 

Innanzitutto, nel primo libro ‘Sulla natura’, dopo aver fatto somigliare la perpetuità del movimento cosmico a un guazzabuglio che rivoltola e scompiglia in modi differenti le differenti realtà che vengono in essere, Crisippo ha detto questo: “Poiché l’economia del cosmo [1050A] procede in questo modo, è necessario che noi si stia come stiamo; tanto se per condizione personale siamo ammalati, o siamo storpi, oppure siamo diventati dei grammatici o dei musici”. Poi nuovamente poco dopo dice: “In armonia con questo discorso, diremo cose similari tanto della nostra virtù quanto del nostro vizio; tanto circa l’insieme delle nostre arti quanto della nostra imperizia nelle arti, come dicevo”. E poco dopo, levando di mezzo ogni ambiguità, dice: “Infatti nulla può stare, neppure nel suo minimo particolare, altrimenti che in armonia con la natura universale e con la sua ragione”. Che poi la natura a tutti comune e la ragione universale della natura [1050B] siano il ‘destino’, la ‘Prònoia’ e ‘Zeus’, non può sfuggire neppure a coloro che vivono agli Antipodi; giacché questo gli Stoici lo vanno blaterando ovunque. Anche l’affermazione:

‘…. la deliberazione di Zeus giungeva a perfezione’

Crisippo afferma che Omero l’ha fatta rettamente, in riferimento al destino e alla natura del cosmo, in armonia con la quale tutto è governato. Come può dunque accadere che il dio, da un lato non sia concausa di nulla di vergognoso, e dall’altro lato che la neppur minima cosa possa avvenire altrimenti che in armonia con la natura comune a tutte le cose e la sua legge? Tra tutti gli eventi che accadono sono infatti compresi anche eventi vergognosi. E mentre Epicuro, al fine di non lasciare senza censura il vizio, si dà pensiero di questo fatto e si ingegna per escogitare in una maniera qualunque il modo di liberare l’azione volontaria [1050C] e scioglierla dal vincolo rappresentato dall’eterno movimento; Crisippo concede invece piena ed incondizionata libertà di azione alla malvagità, considerandola non soltanto necessaria e in armonia col destino, ma anche un prodotto in armonia con la ragione divina e la perfezione della natura. Anche ciò è visibile in queste sue testuali parole: “Poiché la comune natura s’estende a tutte le realtà, qualunque cosa di qualunque genere accade nel cosmo e in una qualunque delle sue parti, bisognerà che sia in armonia con tale natura e, per conseguenza immediata, con la sua ragione; a causa del fatto che nulla potrà ostacolare dall’esterno l’economia del cosmo, [1050D] né alcuna delle sue parti avrà modo di muoversi o starà altrimenti che in armonia con la natura a tutti comune”. Quali sono, dunque, gli stati e i movimenti delle parti? È manifesto che ‘stati’ sono i vizi e gli stati morbosi come l’avidità di denaro, la brama di piaceri e quella della fama, la viltà e l’ingiustizia; che ‘movimenti’ sono gli adulteri, i furti, i tradimenti, gli omicidi e il parricidio. Ebbene, Crisippo crede che nessuno di questi sia né poco né tanto contrario alla ragione, alla legge, alla giustizia e alla Prònoia di Zeus. Sicché la violazione della legge non avviene contro la legge, né il commettere ingiustizia avviene contro la giustizia e neppure il malfare è contrario alla Prònoia.

§ 35. Crisippo afferma che dio castiga il vizio [1050E] e fa molte cose per castigare i malvagi. Ad esempio nel secondo libro ‘Sugli dei’ egli dice: “A volte accadono ai virtuosi molti incomodi, non però a mo’ di castigo come accade per i viziosi ma in accordo con un’economia di più ampio respiro, come accade negli Stati”. Poi in questi libri di nuovo dice: “In primo luogo per mali si devono intendere quelli dei quali si è parlato prima, e inoltre che essi sono assegnati in armonia con la ragione di Zeus, o come castigo o secondo un’economia di più ampio respiro che è in funzione del cosmo nella sua interezza”. Ora, già è strabiliante che la nascita del vizio ed il suo castigo siano in armonia con la ragione di Zeus. Ma nel secondo libro ‘Sulla natura’ Crisippo esacerba [1050F] ulteriormente il carattere contraddittorio delle precedenti affermazioni scrivendo quanto segue: “Rispetto alle pur terribili disavventure accidentali, il vizio ha una sua peculiare ragione, giacché anch’esso nasce in un certo senso in armonia con la ragione della natura e, per dir così, non è improficuo in relazione al cosmo nella sua interezza, dal momento che altrimenti non esisterebbero neppure le opere virtuose”. Sicché a rimproverare coloro che [1051A] argomentano a loro volta le tesi opposte è proprio chi, mosso dalla volontà di dire ad ogni costo qualcosa di originale e fuori dall’ordinario su qualunque argomento, afferma che fare il tagliaborse, fare il sicofante e l’andare fuori di testa non sono cose inutili, e che non è inutile che esistano le persone inutili, quelle dannose e quelle malefiche. Quindi che razza di Zeus è, dico lo Zeus di Crisippo, quello che castiga una cosa che non nasce da se stessa e che non manca di utilità? Il vizio, infatti, secondo il ragionamento di Crisippo è qualcosa di assolutamente incolpevole, mentre quello che si deve incolpare è Zeus: se il vizio è inutile, perché l’ha creato; e se l’ha creato utile, perché lo castiga.

§ 36. Di nuovo nel primo libro ‘Sulla giustizia’, parlando degli dei che oppongono resistenza a talune ingiustizie, Crisippo dice che non è possibile rimuovere [1051B] interamente il vizio e che non sta bene che esso sia rimosso. Io qui non ne faccio una questione di indagare se non sta bene che siano rimosse l’illegalità, l’ingiustizia e la scempiaggine. La questione che faccio è che Crisippo, poiché attraverso la sua opera filosofica rimuove, per quanto è in suo potere, il vizio, vizio che invece non sta bene che sia rimosso, sta facendo qualcosa che è in contraddizione con la ragione e con la divinità. Oltre a ciò, affermando che il dio oppone resistenza a talune ingiustizie, egli offre di nuovo una prova palese della disparità delle aberrazioni umane. 

§ 37. Inoltre, benché Crisippo abbia spesso scritto sul fatto che al cosmo non vi sono da fare incolpazioni né biasimi giacché tutti gli eventi vi sono introdotti e rappresentati secondo la migliore natura possibile, vi sono però luoghi delle sue opere nei quali egli lascia trasparire certe incolpazioni di trascuratezza in faccende né piccole né da poco. [1051C] Per esempio, nel terzo libro dell’opera ‘Sulla sostanza’, dopo avere ricordato che cose siffatte coinvolgono anche uomini retti e virtuosi, dice: “Se avvengono delle trascuratezze, ciò capita come capita nelle grandi case allorché della crusca o una certa quantità di grano va smarrita, anche se la casa nel suo complesso è ben amministrata; oppure capita perché a cose del genere sopravvedono dei demoni sciocchi, i quali si lasciano effettivamente andare a trascuratezze degne di incolpazione?”. Ora, io lascio perdere la sua disinvolta faciloneria nell’equiparare le accidentali disavventure di uomini probi e virtuosi, come la condanna a morte di Socrate, Pitagora arso vivo dai Cilonei, l’eliminazione con la tortura di Zenone ad opera del tiranno Demilo e quella di Antifonte ad opera di Dionisio, [1051D] alla crusca che va smarrita. Ma il fatto che la Prònoia possa istituire dei demoni sciocchi a siffatte soprintendenze, come può non essere un’incolpazione al dio come ad un re il quale delega i governi a satrapi e generali malvagi e tonti, senza badare al fatto che gli uomini migliori sono da costoro trascurati e maltrattati? Invero, se alle faccende si trova mescolata una grande dose di necessità, ciò significa che il dio non le padroneggia tutte né che tutte sono governate secondo la sua ragione.

§ 38. Partendo dai concetti che noi abbiamo degli dei, ossia che li divisiamo quali esseri benefici e filantropi, Crisippo combatte soprattutto [1051E] contro Epicuro e contro coloro che levano di mezzo la Prònoia. Siccome queste cose sono scritte e dette dagli Stoici ad ogni pié sospinto, non è il caso di citare le loro parole. È tuttavia naturale nutrire il preconcetto che non tutti gli dei siano buoni. Guarda quali idee hanno degli dei i Giudei e i Siriani e guarda di quante superstizioni sono piene le opere dei poeti. Nessuno però pensa che dio sia, per dirlo a questo modo, perituro e generato. Tralasciando di parlare di tutti gli altri, nel suo libro ‘Sugli dei’ Antipatro di Tarso scrive testualmente questo: “Come preliminare al discorso nel suo insieme, faremo brevemente un rendiconto dell’evidenza che abbiamo del concetto di divinità. Noi abbiamo cognizione della divinità [1051F] come di un essere vivente beato, imperituro, beneficente verso gli uomini. Di poi, spiegando dall’inizio ciascuno di questi attributi dice così: e tutti li ritengono imperituri”. Secondo Antipatro, Crisippo non è uno dei ‘tutti’, giacché crede che, ad eccezione del fuoco, nessuno degli dei sia imperituro, [1052A] ma che tutti siano nati in passato e siano destinati a perire in futuro. Questo egli lo afferma, per dir così, ovunque. Citerò un brano dal terzo libro ‘Sugli dei’: “Secondo un altro modo di ragionare, alcuni dei sono detti generati e perituri, altri ingenerati; e l’illustrazione di questa tesi dall’inizio è piuttosto un argomento di fisica. Il sole, la luna e gli altri dei che hanno una ragion d’essere similare sono generati, mentre Zeus è invece sempiterno”. E poi proseguendo afferma: “Si diranno cose simili anche circa il deperire e il divenire sia a proposito degli altri dei sia a proposito di Zeus, giacché gli uni sono perituri mentre le parti di Zeus sono imperiture”. A queste affermazioni di Crisippo voglio inoltre paragonare [1052B] alcune piccole asserzioni tra quelle fatte da Antipatro: “Quanti dispogliano gli dei dell’attributo di essere beneficenti verso gli uomini, confliggono in parte col preconcetto che noi abbiamo di essi; per la stessa ragione per cui confliggono quanti legittimano l’idea che essi partecipino di generazione e di estinzione”. Se pertanto chi ritiene che gli dei siano perituri dice un’assurdità pari a quella di chi crede gli dei né provvedenti né filantropi, Crisippo è caduto nello stesso errore di Epicuro; giacché Epicuro priva gli dei della prerogativa di essere benefici, Crisippo di quella di essere imperituri. 

§ 39. Circa il modo di nutrirsi degli altri dei, nel terzo libro ‘Sugli dei’ Crisippo dice: “Gli altri dei utilizzano tutti il cibo in modo similare e si sostentano grazie ad esso. [1052C] Invece Zeus e il cosmo si sostentano in modo diverso dagli dei che sono consumati e che nascono dal fuoco”. Qui egli dunque dichiara che, eccezion fatta del cosmo e di Zeus, tutti gli altri dei si nutrono; ma nel primo libro ‘Sulla Prònoia’ Crisippo afferma che Zeus s’accresce fino a consumare in sé tutti i corpi. “Poiché la morte è separazione dell’animo dal corpo, mentre l’animo del cosmo non si separa bensì continua ad accrescersi fino a consumare in sé la materia, non si deve dire che il cosmo muoia”. Ora, chi potrebbe mostrare di fare affermazioni in maggiore contrasto una con l’altra di colui il quale va dicendo che il medesimo dio ora si accresce e ora non si alimenta? Questa conclusione non c’è neppure bisogno di dedurla, giacché Crisippo nello stesso libro ha scritto chiaramente: “Soltanto il cosmo è detto essere autosufficiente, giacché esso soltanto contiene in sé [1052D] tutto ciò di cui ha bisogno; e pertanto si nutre di se stesso e s’accresce grazie al concambio delle sue differenti parti l’una nell’altra”. Egli è dunque in contraddizione con se stesso non soltanto allorquando dichiara che, eccezion fatta del cosmo e di Zeus, gli altri dei si nutrono, e poi invece afferma che il cosmo si nutre; ma è ancor di più in contraddizione con se stesso allorquando afferma che il cosmo si accresce nutrendosi di se stesso. Sarebbe invece verosimile il contrario, ossia che sia soltanto il cosmo a non accrescersi poiché ha come cibo la consumazione di se stesso, mentre per gli altri dei che sono nutriti dall’esterno vi sono approvvigionamento e crescita; e che è soprattutto a loro favore che il cosmo si consuma, [1052E] se appunto al cosmo è accaduto di nutrirsi di se stesso e agli dei di prendere sempre da esso qualcosa per nutrirsi. 

§ 40. In secondo luogo, il concetto che si ha degli dei include quelli di ‘felice’, ‘beato’, ‘completo’. Perciò gli Stoici lodano Euripide quando dice:

‘Giacché il dio, se è davvero dio, di nulla manca.
Gli altri sono miseri discorsi dei poeti’.

Ma proprio Crisippo, nelle citazioni che abbiamo già messo in evidenza, afferma che ad essere autosufficiente è soltanto il cosmo; giacché esso è l’unico ad avere in se stesso ciò di cui abbisogna. Qual è la conseguenza del fatto che il cosmo soltanto sia autosufficiente? Ne consegue che né il sole né la luna né alcun altro degli dei è autosufficiente. E se essi non sono autosufficienti, neppure potrebbero essere felici e beati.

§ 41. Crisippo ritiene che il feto sia nutrito dalla natura nell’utero come un vegetale. [1052F] Quando poi è partorito, allora lo pneuma, raffreddato dall’aria e temprato, si trasforma e diventa ‘animale’. Laonde non fuor di modo esso è stato denominato ‘animo’ a causa del suo ‘raffreddamento’. Ancora lui ritiene, contraddicendosi, che “l’animo è lo pneuma della facoltà vegetativa, ma più diradato e più finemente particellare”. [1053A] Com’è infatti possibile che uno stato diradato e finemente particellare origini da uno particellato grossolanamente, a seguito di un raffreddamento e di un infittimento? E per di più, come può lo stato ‘animato’ originare per raffreddamento, se Crisippo dichiara di ritenere il sole un essere animato, fatto di fuoco e nascente dall’esalazione che si trasforma in fuoco? Egli dice, infatti, nel primo libro ‘Sulla natura’: “La trasformazione del fuoco è del seguente genere. Attraverso l’aria esso si tramuta in acqua e da questa, mentre verso il basso si condensa la terra, esala l’aria. Al ridursi dell’aria in fini particelle, l’etere si spande circolarmente tutt’intorno, e insieme col sole dal mare s’accendono gli astri”. Cosa dunque contrasta più intimamente con l’accensione del raffreddamento, o con l’effusione dell’infittimento? [1053B] Raffreddamento e infittimento producono acqua e terra da fuoco e aria, mentre accensione ed effusione volgono l’umido e il terroso in aria e fuoco. E nonostante ciò Crisippo pone all’origine dello stato ‘animato’ in un caso l’accensione e nell’altro il raffreddamento. Egli afferma inoltre che quando avviene la conflagrazione universale il cosmo è tutt’intero vivente e animato, e che quando poi un’altra volta si spegne e s’addensa, esso si tramuta in forma corporea, ossia in acqua e in terra. Egli dice nel primo libro ‘Sulla Prònoia’: “Quando il cosmo è tutt’intero igneo, esso è direttamente l’animo e l’egemonico di se stesso. Quando, invece, mutando in umido e nell’animo in esso racchiuso, esso in un certo modo mutò in corpo ed animo così da consistere di questi, esso contenne in sé un’altra ragione”. [1053C] Qui egli sta chiaramente affermando che con la conflagrazione universale anche gli stati inanimati del cosmo diventano stati animati, giacché poi con lo spegnimento anche l’animo del cosmo s’attenua e s’inumidisce mutando in corporeo. Appare pertanto assurdo che grazie al raffreddamento una volta egli faccia diventare ‘animati’ degli stati privi di sensibilità, e un’altra volta faccia invece trasformare in stati privi di sensibilità e inanimati la maggior parte dell’animo del cosmo. A parte questo, il suo ragionamento sulla genesi dell’animo ha una dimostrazione che ne contraddice i principi dottrinali. Infatti, egli afferma che l’animo nasce quando il feto è partorito, come se lo pneuma si trasformasse per tempra ad opera del forte raffreddamento; [1053D] e poi utilizza come dimostrazione della nascita dell’animo e del suo essere generato per ultimo, soprattutto il fatto che per modi e carattere i figli assomigliano ai genitori. Si vede bene l’intimo contrasto di queste affermazioni. Infatti non è possibile che l’animo, il quale è prodotto dopo il parto, abbia modi e caratteri che sono stati prodotti invece prima del parto; altrimenti accadrà che la somiglianza ai genitori appartiene già all’animo prima ancora che questo sia stato prodotto, ossia accadrà che l’animo esiste per la sua somiglianza ai genitori ma contemporaneamente non esiste perché non è ancora stato prodotto dal forte raffreddamento. Se poi uno affermasse che la somiglianza ai genitori s’ingenera dalle mescolanze dei corpi e che gli animi nati si trasformano, manda in rovina la prova della generazione dell’animo, giacché allora è fattibile sostenere che l’animo non è generato, ma che esso, quando sopraggiunge ed entra nel corpo del neonato, si trasforma [1053E] per influenza della mescolanza costitutiva della somiglianza.

§ 42. A volte Crisippo afferma che l’aria tende a salire verso l’alto e che è leggera mentre altre volte dice che è né pesante né leggera. Nel secondo libro ‘Sul movimento’ dice che il fuoco, non avendo peso, tende a salire verso l’alto e che un movimento similare a questo ha l’aria; e che mentre l’acqua tende di più ad associarsi con la terra, l’aria si associa di più col fuoco. Nel trattato ‘Sulle Scienze fisiche’, invece, propende per un’opinione diversa, quella che di per sé l’aria abbia né peso né leggerezza.

§ 43. Inoltre Crisippo dice che l’aria è per natura tetra, ed a prova di ciò utilizza il suo essere primariamente fredda; ed afferma anche che la sua tetraggine si contrappone alla radiosità, e il suo freddo al calore, del fuoco. [1053F] Egli muove queste argomentazioni nel primo libro delle ‘Ricerche fisiche’, e di nuovo nei libri ‘Sulle forze di coesione’, affermando che le forze di coesione non sono altro che ‘aria’. Del fatto che ciascuno dei corpi che sono tenuti insieme da tale legame abbia una qualificazione qualitativa è causativo l’aria che li tiene insieme: aria che chiamano ‘durezza’ nel ferro, ‘compattezza’ nella pietra e ‘bianchezza’ nell’argento. [1054A] Queste affermazioni contengono molte assurdità e molte contraddizioni. Se infatti l’aria rimane quale essa è per natura, come può ciò che è nero diventare bianchezza in ciò che non è bianco, ciò che è molle diventare durezza in ciò che non è duro, ciò che è rado diventare fittezza in ciò che non è fitto? Se l’aria, mischiandosi con questi corpi altera le proprie caratteristiche e si conforma alle loro, come può ancora essere forza di coesione o facoltà o causa coesiva di corpi dalle cui qualità è invece dominata? Siffatta trasformazione per la quale l’aria perde le proprie qualità, è tipica di un elemento passivo, non attivo; non di un elemento che tiene coesi i corpi bensì di uno che li indebolisce. Tuttavia gli Stoici dichiarano ovunque che il materiale soggiace di per sé inerte e immobile alle qualità, e che le qualità sono pneumi [1054B] e toni aeriformi i quali danno forma e figura specifiche a ciascuna di quelle parti del materiale nel quale s’ingenerino. Ma non è loro permesso fare queste affermazioni, visto che essi ipotizzano essere tali per natura le qualità dell’aria. Infatti, se l’aria è forza coesiva e ‘tono’, essa farà somigliare a sé ciascuno dei vari corpi, di modo che esso sia nero e molle. Se invece l’aria, nella mescolanza con essi, acquista caratteristiche contrarie a quelle che ha per natura, essa è in un certo modo un ‘materiale del materiale’ e non più una causa né una facoltà. 

§ 44. Crisippo dice spesso che il vuoto all’esterno del cosmo è infinito e che l’infinito non ha inizio, né metà, né fine. Ed è soprattutto con questo argomento che gli Stoici eliminano quello che Epicuro chiama il decorso di per sé verso il basso degli atomi, [1054C] non essendovi nell’infinito differenza alcuna per cui si possa pensare ad un alto e ad un basso. Ma nel quarto libro ‘Sui possibili’ Crisippo ipotizza l’esistenza di uno ‘spazio’ e di un ‘dove c’è posto’ intermedi, ed afferma che qui ha sede il cosmo. Queste sono le sue parole: “Perciò io credo ci sia bisogno d’una ragione per dire del cosmo che è perituro. Nondimeno a me pare che la faccenda stia in questi termini. È come se assai cooperasse a favore dell’incorruttibilità del cosmo l’occupazione da parte sua d’un posto tale da essere in posizione mediana; poiché se il cosmo fosse pensato altrove, potrebbe definitivamente toccargli l’estinzione”. E poco dopo di nuovo afferma: [1054D] “Così in un certo modo anche la sostanza si trova ad avere occupato accidentalmente per l’eternità lo spazio mediano; ed è pertanto tale che, per un altro verso, le è anche toccata la sorte di non essere passibile di estinzione, e per questo motivo di essere sempiterna”. Queste affermazioni contengono un primo chiaro ed evidente contrasto tra di loro, poiché si ammette l’esistenza nell’infinito di un luogo mediano e di una regione mediana, ma contengono anche un secondo contrasto più nascosto e più illogico ancora. Ritenendo infatti che il cosmo non potrebbe permanere imperituro se gli fosse toccato di avere le proprie fondazioni in qualche altra parte del vuoto, manifestamente Crisippo teme che avvenga la dissoluzione e l’estinzione del cosmo, a meno che le parti della sostanza non si portino in una posizione mediana nell’universo. [1054E] Egli non avrebbe paura di ciò, a meno che non ritenga che i corpi, provenendo da ogni dove, si portino per natura verso il mezzo non della sostanza, ma del ‘dove c’è posto’ nel quale è inclusa la sostanza. A proposito di ciò egli ha spesso detto trattarsi di cosa impossibile e contro natura, giacché nel vuoto non esiste quella differenza per cui i corpi s’appressino qui piuttosto che qui, e che invece è la sintassi stessa di questo cosmo la causa del movimento di tutto ciò che, provenendo da ogni dove, accenna a portarsi verso il centro e il mezzo di esso. Al riguardo basta citare un passo dal secondo libro ‘Sul movimento’, nel quale Crisippo rimarca che: [1054F] “Il cosmo è un corpo perfetto, mentre perfette non sono le sue parti, giacché queste non sono realtà a sé stanti ma modalità di relazione con l’intero”. Discutendo poi del suo movimento e sostenendo che quello del cosmo attraverso tutte le sue parti è un movimento per natura mirante alla sua permanenza e continuità, e non alla sua dissoluzione e sminuzzamento, egli ha detto: “In questo modo, siccome l’intero è in tensione ed in movimento in una singola direzione, e siccome le parti posseggono questo movimento grazie alla natura del corpo in cui sono, [1055A] è plausibile che il primo e naturale movimento sia per tutti i corpi quello diretto verso il centro del cosmo; trattandosi così per il cosmo di un movimento verso se stesso, e per le sue parti di un movimento in quanto ne sono parti”. Dopo di che qualcuno potrebbe dire: “Uomo mio caro, cos’è successo che ti ha fatto dimenticare questi discorsi, tanto da dichiarare il cosmo soggetto ad estinzione e perituro se non occupasse per fortuna la regione mediana dell’universo?” Se infatti il cosmo per natura accenna sempre a portarsi verso la sua zona mediana e centrale e le sue parti tendono da qualunque posizione verso tale zona, in qualunque regione del vuoto il cosmo sia riallocato, esso, poiché si compatta e così si contrae, [1055B] permarrà imperituro e non sminuzzato; giacché i corpi che sono sminuzzati e dispersi subiscono questo processo per frammentazione e dissoluzione di ciascuna delle loro parti, le quali si dipartono dal luogo contro natura che occupavano e vanno verso quello loro appropriato. Tu invece, poiché credi che se il cosmo fosse posto in qualche altra parte del vuoto, ciò sia connesso alla sua assoluta e totale rovina, poiché lo affermi e poiché per questo motivo cerchi un centro in un infinito che invece per natura non ha alcun centro, hai lasciato perdere come incapaci di garantirgli alcuna salvezza quelle famose ‘tensioni’, ‘coesioni’ e ‘tendenze’ ed hai attribuito l’intera causa della permanenza del cosmo alla sua occupazione del posto centrale nell’universo. Alle parole dette prima, tu Crisippo rannodi tuttavia queste altre, come colui che si fa un punto d’onore di confutare se stesso: “È ragionevole che il modo in cui ciascun pezzo del cosmo si muove quando è connaturato al resto, [1055C] sia lo stesso anche quando esso si muovesse come realtà a se stante se, tanto per dire, lo pensassimo ipoteticamente trovarsi entro un qualche vuoto di questo cosmo. Infatti, come quand’era tenuto coeso in ogni direzione si muoveva verso il mezzo del cosmo, esso manterrebbe questo movimento pur se, tanto per dire, si facesse repentinamente intorno ad esso il vuoto”. Pertanto, una parte qualunque del cosmo che sia circondata dal vuoto non perde la propensione a condursi verso il centro di esso, e invece il cosmo stesso, qualora una causa spontanea ed automatica non metta a sua disposizione il centro dell’universo, perde la tensione che lo tiene insieme e le varie parti della sua sostanza se ne vanno chi qua e chi là in tutte le direzioni. 

§ 45. Se le parole di Crisippo contengono affermazioni grandemente contrastanti tra di loro in relazione alla dottrina della natura, [1055D] ciò diventa vero anche in relazione alla dottrina di dio e della prònoia, per il fatto che egli attribuisce a dio e alla prònoia un ruolo infimo col togliere loro quello dominante e maggiore. Cosa c’è infatti di più importante del permanere del cosmo e del fatto che la sostanza di esso, unificata in tutte le sue parti, mantenga la propria intima coesione? Invece secondo Crisippo tutto ciò è accaduto in modo spontaneo ed automatico. Se infatti l’occupazione della regione centrale dell’universo è causa della incorruttibilità del cosmo e se ciò è avvenuto per puro caso, è manifesto che la salvaguardia dell’intero cosmo è opera di un insieme di circostanze casuali e non del destino e della prònoia. 

§ 46. Il discorso di Crisippo sui ‘possibili’ non è, in certo modo, in contraddizione con il suo discorso sul ‘destino’? Infatti, se il possibile non equivale, [1055E] come voleva invece Diodoro, a ciò ch’è o sarà vero bensì a tutto ciò che accoglie in sé la possibilità di diventare vero anche se non lo diventerà, saranno possibili molte cose che non sono scritte nel destino. Pertanto o il destino perde la sua forza invincibile, ineluttabile, che ha il sopravvento su tutto; oppure, se il destino è tal quale Crisippo è del parere che sia, ciò che accoglie in se la possibilità di diventare vero perterrà spesso all’impossibile; tutto ciò che è vero sarà necessario, essendovi costretto dalla necessità più dominante di tutte, ed ogni falsità sarà impossibile, essendo la massima delle cause avversa al suo diventare verità. [1055F] Come può essere suscettibile di morire in terra colui il cui fato è di morire in mare? Com’è possibile che chi è a Megara venga ad Atene se ne è impedito dal destino? 

§ 47. Ma anche le sue affermazioni sulle rappresentazioni contrastano brutalmente con quelle sul destino. Infatti, volendo dimostrare che la rappresentazione non è la causa decisiva dell’assenso, Crisippo ha detto: “Se le rappresentazioni fossero decisive nel far nascere gli assensi, i sapienti farebbero un danno infondendo false rappresentazioni. Spesso, infatti, i sapienti utilizzano contro gli insipienti falsi enunciati e pongono loro innanzi [1056A] una rappresentazione persuasiva, che non certo per questo è causa dell’assenso, poiché altrimenti essa sarebbe causa anche della falsa concezione e dell’inganno”. Se uno traspone queste parole dal sapiente al destino ed afferma che gli assensi non avvengono per destino, poiché altrimenti anche i falsi assensi, le false concezioni e gli inganni avverrebbero per destino, e dunque gli uomini sarebbero danneggiati per destino; allora la dottrina la quale esclude che il sapiente possa recare danno a qualcuno dimostra contemporaneamente che il destino non è la causa di tutti gli eventi. Pertanto, se gli uomini non si formano delle opinioni per destino e non sono danneggiati per destino, è manifesto che essi neppure ‘per destino’ compiono azioni rette, [1056B] pensano, si formano salde concezioni o giovano a se stessi. E però allora non rimane più nulla della dottrina secondo la quale il destino è la causa di tutte le cose. Chi dice che Crisippo faceva del destino non una causa decisiva di queste cose bensì soltanto una causa predisponente, lo dimostrerà di nuovo in contraddizione con se stesso là dove egli loda in modo sperticato Omero, quando dice di Zeus:

‘Perciò tenetevi quel che di male manda a ciascuno di voi’

oppure di bene. E quando loda Euripide:

‘O Zeus, e perché dovrei chiamare pensanti
i disgraziati mortali? Noi a te siamo agganciati,
e compiamo le cose che a te capita di pensare’.

Lui stesso scrive molte cose del tutto coerenti con queste espressioni, [1056C] ed infine afferma che nulla sta o si muove, neppure di pochissimo, altrimenti che in armonia con la ragione di Zeus, che è identica al destino. Inoltre, il causativo predisponente è più debole di quello decisivo e non perviene all’effetto quando sia tenuto fermo da altri causativi che gli si levano contro. Invece il destino è una causa che egli dichiara invincibile, non soggetta a impedimenti, rigidamente fissata e che lui stesso chiama Atropo, Adrastea, Necessità, Fato, come entità che frappone un limite a tutto. Dunque dobbiamo dire che gli assensi, le virtù, i vizi, le azioni rette, le aberrazioni non sono in nostro esclusivo potere; [1056D] oppure dobbiamo dire che il destino è deficiente, che il Fato è indeterminato e che gli stati di moto e di quiete di Zeus sono inconcludenti? Queste sono le conseguenze del fatto che, in un caso, il destino sia una causa completa e fine in se medesima, e che invece nell’altro caso esso sia soltanto una causa predisponente. Infatti se il destino è causa di tutte le cose, ciò leva di mezzo la possibilità che qualcosa sia in nostro esclusivo potere ed elimina la libera determinazione dell’uomo. Se invece il destino è soltanto una causa predisponente, allora sparisce la possibilità che esso non sia soggetto ad impedimenti e che sia capace di mandare qualcosa a pieno effetto. Non una o due volte soltanto bensì ovunque in tutti i suoi libri di ‘Fisica’, Crisippo ha scritto che per le nature e i movimenti particolari si danno ostacoli e impedimenti, ma non per la natura e il movimento del cosmo nella sua interezza. [1056E] Ma il movimento del cosmo nella sua interezza, il quale si estende a tutti i singoli movimenti particolari, qualora questi siano intralciati ed impediti, come fa a non essere soggetto ad intralci e a non essere soggetto ad impedimenti? L’uomo non è soggetto ad intralci se non sono soggetti ad intralci il suo piede o la sua mano; e neppure il movimento della nave è soggetto ad impedimenti, a meno che non abbiano impedimenti le attività concernenti le vele o il remeggio. A parte questo, se le rappresentazioni non nascono per destino, come può il destino essere causa dei nostri assensi? Se gli Stoici dicono che ciò avviene perché il destino fa rappresentazioni idonee a condurci all’assenso, come può il destino, spesso e su questioni della massima importanza, non essere in contraddizione con se stesso, [1056F] visto che fa nascere in noi rappresentazioni differenti e distrae l’intelletto su giudizi opposti? Quando questo succede, essi dicono che coloro i quali si applicano ad una o all’altra rappresentazione invece di sospendere l’assenso, aberrano. Infatti, se cedono il passo ad immagini dubbie sono precipitosi; se cedono il passo ad immagini false sono mendaci, e se cedono il passo ad immagini genericamente inafferrabili sono opinanti. E tuttavia, essendoci tre alternative possibili, bisogna: o che non ogni rappresentazione sia opera del destino; o che ogni accettazione di una rappresentazione ossia ogni assenso sia al riparo dall’aberrazione; o che neppure il destino in persona sia irreprensibile. [1057A] Io non so infatti come possa essere incensurabile un’entità che fa nascere rappresentazioni tali che si diventa censurabili quando, invece di contraddirle e di essere loro renitenti, le si segue e si cede loro il passo. Nelle polemiche contro gli Accademici, sia per Crisippo che per Antipatro la maggior disputa su cos’era? Sulla possibilità di: “Effettuare un’azione o impellere a qualcosa essendovi inassenzienti; e sul fatto che raccontano favole e fanno vuote ipotesi quanti stimano che, data una rappresentazione appropriata, vi sia subito l’impulso senza che ad essa noi abbiamo ceduto il passo o abbiamo dato l’assenso”. E in appresso Crisippo dice: “La divinità infonde delle rappresentazioni fallaci, e anche il sapiente lo fa, senza che vi sia il bisogno di dare, da parte nostra, assenso o di cedere ad esse il passo, ma soltanto [1057B] di effettuare qualcosa o di impellere a quel che appare. Noi, invece, in quanto siamo insipienti, a causa della nostra debolezza diamo il nostro assenso a siffatte rappresentazioni”. Non è difficile riconoscere la confusione e il mutuo disaccordo di queste dottrine. Chi, sia esso dio oppure il sapiente, non ha bisogno di assensi ma soltanto di azioni da parte di coloro ai quali dà le rappresentazioni, sa che per agire bastano le rappresentazioni e che gli assensi sono ridondanti. Sicché se, pur conoscendo che ad un impulso all’azione non fa riscontro una rappresentazione senza assenso, egli instilla rappresentazioni fallaci e persuasive, è causa volontaria del comportamento precipitoso [1057C] e dell’aberrare di coloro che assentono a rappresentazioni non catalettiche.

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PLUTARCO

UNA BREVE PRESENTAZIONE

Contemporaneo di Epitteto, Plutarco era nato verosimilmente nel 45 d.C. a Cheronea, città della Beozia nei pressi del celeberrimo santuario di Delfi e del luogo dove il mito vuole che avvenisse il fatale incontro tra Edipo e suo padre Laio. Di famiglia illustre e facoltosa, Plutarco fu educato ad Atene in un ambiente prevalentemente platonizzante. Viaggiò molto ed in molti paesi: Asia minore, Egitto, Italia; e soggiornò per lungo tempo a Roma, dove ricoprì vari incarichi, tenne applaudite conferenze ed entrò in amicizia con molti personaggi romani di altissimo rango, come Q. Sosio Senecione (Console nel 99 e nel 107) Mestrio Floro, Giunio Aruleno Rustico (Pretore nel 69) e Minucio Fundano. Intorno al 95 d. C., con già alle spalle quella che si chiama comunemente una vita di successo: un’educazione di prim’ordine, lunghi viaggi, missioni diplomatiche, una certa fama letteraria, Plutarco tornò a vivere in Grecia, a Cheronea. Qui esercitò la carica di sacerdote nel tempio di Apollo a Delfi e si dedicò alla redazione delle sue numerose e ben note opere letterarie. Morì intorno al 120 d.C.
Il valore filosofico delle critiche che Plutarco muove alle tesi Stoiche da lui riferite in questa operetta è quasi nullo, giacché tra Plutarco e la Filosofia esiste una, come dire, naturale incomunicabilità. È invece vero che per molte opere, in particolare di Crisippo, le citazioni polemiche che egli ne fa qui sono le uniche fonti a tutt’oggi sopravvissute.

Quello che segue è un mio breve sommario dei capitoletti dei quali si compone la sua opera sulle ‘Contraddizioni degli Stoici’, opera che offro alla lettura di chi sentisse il bisogno di ascoltare su questo sito una voce accesamente ostile allo Stoicismo.

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INDICE RAGIONATO

I 73 termini filosofici dei quali si offre una presentazione ragionata sono i seguenti:

* Aberrazione
* Afflizione
* Allotrio
* Al riparo dall’inganno
* Appropriazione di sé
* Aproairetico
* Assenso
* Assimilarsi alla divinità
* Assomigliarsi
* Avere successo
* Avvenenza
* Avversione
* Buona fortuna
* Cattiva fortuna
* Cautela
* Che non incappa in ciò che avversa
* Comprensione
* Concetto
* Concezione
* Conflagrazione dell’universo
* Controdiairesi
* Dei
* Desiderio
* Diairesi
* Dio
* Dissentire
* Dominio sull’afflizione
* Dominio sulla paura
* Dominio sulle passioni
* Dominio sullo sconcerto
* Ebbrezza
* Eccezione
* Educazione all’uso della diairesi
* Egemonico
* Felicità
* Fortuna
* Giudizio
* Iddio
* Impulso
* Incultura
* Indifferenza
* Indifferente
* Inganno
* Insubordinabile
* Intelletto
* Irragionevole
* Libertà
* Logico
* Logos
* Materia
* Materia Immortale
* Materiale
* Mente della Materia Immortale
* Natura
* Natura delle cose
* Necessità
* Non soggetto ad intralci
* Non soggetto ad impacci
* Non soggetto a impedimenti
* Opere della proairesi
* Piacere fisico
* Pre-concetto
* Proairesi
* Proairetico
* Pronoia
* Ragione
* Ragionevole
* Repulsione
* Rispetto di sé e degli altri
* Soggetto a costrizione
* Smania
* Stoltezza
* Zeus

Per ognuno di questi termini sono anche segnalati i passi dell’opera di Epitteto nei quali essi ricorrono. Il primo numero (in cifre romane) indica il Libro, il secondo numero indica il capitolo e il terzo numero indica il paragrafo dove il passo compare. Per l’indicazione dei passi compresi nel Manuale uso la lettera E seguita dal numero del capitolo e del paragrafo. Per i passi contenuti nei frammenti uso la sigla Fr. seguita dal numero del frammento in cifre romane.

INDICE RAGIONATO DI 73 TERMINI FILOSOFICI DI PARTICOLARE RILIEVO IN EPITTETO

ABERRAZIONE: traduce il sostantivo μάρτημα (‘amàrtema’). L’aberrazione è l’opposto del κατόρθωμα (‘katòrthoma’), ossia dell’atteggiamento diairetico della proairesi, dunque del retto giudizio e della retta azione. Aberrare significa pertanto voler andare contro la natura delle cose, atteggiando la nostra proairesi in modo controdiairetico. Ma questo equivale ad ignorare di disporre così la propria infelicità, giacché ogni aberrazione dell’essere umano include una contraddizione. La contraddizione è per natura delle cose invisa ad ogni animo razionale, ma finché questo non comprenderà di essere in contraddizione, nulla impedisce che faccia cose contraddittorie e sia infelice.
I,7,31; I,7,33; I,18,4; II,13,17-18; II,21,6; II,24,20; II,26,1; III,25,9-10; IV,4,7; IV,6,2; IV,12,1; IV,12,19; Fr. XV

AFFLIZIONE: traduce il sostantivo λύπη (‘lùpe’). L’afflizione è l’opinione immediata e senza riserva che un male ci è presente. Poiché, però, bene e male sono unicamente giudizi proairetici, la proairesi in stato di afflizione altro non sta facendo che dichiarare se stessa ‘male’. Oltre ad essere una prova decisiva della validità dell’intellettualismo Socratico, l’afflizione testimonia l’infinita libertà della proairesi umana e la verità della ‘controdiairesi’, ossia della capacità che la proairesi ha di affermare in suo esclusivo potere ciò che invece non è in suo esclusivo potere, oppure di negare che sia in suo esclusivo potere ciò che invece è in suo esclusivo potere.
I,9,7; I,23,4; II,1,24; II,12,7-8; II,16,45; III,7,7; III,22,61; III,24,1; III,24,23; III,24,82; III,24,90; III,24,114; IV,1,84; Fr. III; Fr. XX; Fr. XXVIIIb; E16; E26; 

ALLOTRIO, ossia ‘in potestà d’altri’ traduce l’aggettivo λλότριος (‘allòtrios’): Chi non è soggetto a impedimenti? Chi non prende di mira alcunché di allotrio. Cos’è allotrio? Ciò che non è in nostro esclusivo potere avere o non avere od avere con certe qualità od in un certo stato. Tutto ciò ch’è aproairetico è tale. Pertanto allotrio è il corpo, allotrie sono le parti del corpo, allotrio è il patrimonio. Chi si strugge per qualcuna di queste cose come sua peculiare, pagherà il fio che merita chi prende di mira l’allotrio. 
I,1,32; I,18,9; I,18,12; I,24,11; I,25,4; I,28,23; I,29,11; II,4,10; II,5,5-6; II,6,8; II,6,24; II,9,14; II,13,8; II,13,18; II,15,1; II,16,10; II,16,27-28; II,16,45; II,19,19; II,19,28; III,7,11; III,7,21; III,10,17; III,10,20; III,18,7; III,22,32; III,22,38; III,22,97; III,22,99; III,22,102; III,24,3-4; III,24,22-23; III,24,39; III,24,68; IV,1,66; IV,1,75-77; IV,1,81; IV,1,83; IV,1,87; IV,1,107; IV,1,129-130; IV,1,159; IV,1,172; IV,5,5; IV,5,7; IV,5,15; IV,5,35; IV,6,9; IV,10,6; IV,10,19; IV,10,29; IV,12,15; E1,2-3; E11,1; E14,1; E24,2

AL RIPARO DALL’INGANNO: traduce l’aggettivo νεξαπάτητος  (‘anexapàtetos’). Secondo Epitteto, tre sono i campi nei quali specialmente deve esercitarsi la proairesi dell’uomo che dispone di vivere in armonia con la natura delle cose. Il primo è quello del desiderio e dell’avversione, per non fallire il segno nell’uno e non incappare nell’oggetto dell’altra. Il secondo è quello degli impulsi e delle repulsioni, per essere al riparo dalle aberrazioni. Il terzo è quello della proposizione e della sospensione dell’assenso, per essere al riparo dall’inganno e dai sofismi
I,4,11; I,7,26; III,2,7-8

APPROPRIAZIONE DI SÉ: traduce il sostantivo οκείωσις (‘oikéiosis’). L’appropriazione di sé è unico e medesimo fondamento per tutte le creature del cosmo. Che ogni essere agisca per se stesso è un fatto universale e non negativo, giacché la Materia Immortale struttura ogni creatura, e ne permette la sopravvivenza, in modo tale che questa non possa centrare il proprio bene senza fornire un qualche giovamento comune. Nel caso dell’uomo, colui che si appropria di chi l’uomo davvero è per natura, ha fatto anche l’azione più doverosa e socialmente utile che si possa fare: azione che in questo caso si risolve nell’uso sistematico della diairesi e nel conseguimento della virtù, ossia del retto uso delle rappresentazioni: il che diventa identico all’azione di assimilarsi alla divinità (q.v.), ossia a Zeus.
I,19,15

APROAIRETICO: traduce l’aggettivo προαίρετος (‘aproàiretos’). Aproairetico è tutto ciò che non è in esclusivo potere della proairesi umana. La proairesi (q.v.) umana è libera, infinita, inasservibile e insubordinabile ma non onnipotente. Delle quattro cause basilari delle vicende cosmiche, tre sono aproairetiche: natura, necessità, fortuna.
I,4,2; I,4,27; I,18,21; I,19,16; I,28,18; I,29,24; I,29,49; I,30,3; II,1,4-6; II,1,9-10; II,1,12; II,1,29; II,1,39-40; II,10,8; II,10,16; II,13,10; II,16,1; II,17,24; II,22,28; II,23,19; III,2,13; III,3,14-15; III,3,19; III,5,4; III,7,5; III,7,7; III,7,10; III,8,1-2; III,12,1; III,12,5-6; III,16,15; III,19,2; III,25,12; III,24,56-57; III,24,106; III,24,112; IV,1,23; IV,1,40; IV,1,84; IV,1,110; IV,4,3; IV,4,39; IV,6,9-10; IV,7,8; IV,7,10; IV,10,1-2; IV,10,8; IV,13,21; E7,1; E11,1

ASSENSO: traduce il sostantivo συγκατάθεσις (‘sunkatàthesis’). L’assenso è la quinta delle sei opere cardinali della proairesi, ed è l’opposto del ‘dissentire’ (q.v.). L’assenso è un’entità proairetica ed è un’azione per natura libera, non soggetta a impedimenti e non soggetta a costrizioni. Le rappresentazioni dell’animo da cui la mente di un essere umano è subito colpita non appena le giunge l’apparenza di alcunché, non sono soggette né al suo libero giudizio né al suo controllo ma si fanno strada quasi con violenza, onde essere da lui conosciute. Invece gli assensi con cui le rappresentazioni medesime sono riconosciute, sono liberi giudizi e soggiacciono al controllo dell’uomo. Per questo, quando si verifica qualche rumore spaventoso, è necessario che anche l’animo del saggio per un momento ne sia scosso e si contragga, non per la previsione di qualche male ma per la presenza di certi moti rapidi ed irriflessi i quali prevalgono sulle normali funzioni della proairesi. Nondimeno, subito dopo, il sapiente non dà il proprio assenso a quelle certe rappresentazioni (ossia alla spaventosità di queste rappresentazioni del suo animo) ma le scaccia e le respinge, non vedendo in esse nulla che egli debba temere. Questa, appunto, è la differenza tra l’animo del sapiente e quello dell’insipiente. Questo ritiene veramente tremende e crudeli le cose che così gli sono apparse alla prima impressione e in seguito, come se fossero realmente terribili, dà loro anche il suo assenso. Il sapiente, al contrario, dopo essere per un breve istante e fuggevolmente mutato di colore e d’espressione non dà il proprio assenso, ma conserva saldamente e con vigore il giudizio che aveva sempre avuto circa tali rappresentazioni, cioè che non sono affatto temibili e che spaventano con una falsa apparenza e con vana paura. 
I,4,9; I,18,1; I,21,2; II,8,29; II,17,15; III,2,1-2; III,9,18; III,12,14; III,22,104; IV,1,69; IV,1,72; IV,4,13; Fr. IX

ASSIMILARSI ALLA DIVINITÀ: vedi ASSOMIGLIARSI

ASSOMIGLIARSI (a Zeus): traduce il verbo ξομοιόω (‘exhomoiòo’). “Tu sei un dio, uomo; tu hai grandi progetti!” Sono queste le parole che Epitteto rivolgerebbe ad un giovane che avesse davvero fatto progressi in tutti e tre gli ambiti principali della filosofia. Quella che viene comunemente chiamata ‘assimilazione alla divinità’, non è dunque un tentativo dell’uomo di assomigliarsi a qualcuno degli dei, ma quello di assomigliarsi a Zeus in lealtà, in libertà, in rettitudine di giudizi, in rispetto della natura delle cose. Questa operazione è negata e impossibile alla proairesi atteggiata controdiaireticamente, mentre è perfettamente realizzata dalla proairesi atteggiata diaireticamente. Quando ciò accade, uomo e Zeus sono su un piano di parità e la divinità e felicità dell’uno è indistinguibile da quella dell’altro.
I,2,18; II,14,12; III,16,1

AVERE SUCCESSO: traduce il verbo κατορθόω (‘katorthòo’). Quando la proairesi si dispone in armonia con la natura delle cose essa dispone così il proprio bene e il proprio successo, giacché ogni aberrazione dell’essere umano include una contraddizione. Κατορθόω è l’opposto dei verbi μαρτάνω e ποτυγχάνω (‘apotunkàno’) che significano entrambi ‘aberrare’, ‘fallire l’obiettivo’. Per avere successo in qualunque caso specifico e pratico bisogna inevitabilmente attraversare tre passaggi. Il primo e fondamentale è l’azione proairetica di eliminare in noi ogni potenziale atteggiamento controdiairetico e di aprirci al confronto con tutto ciò ch’è aproairetico con coraggio, coscienti della esplicita riserva che il risultato di questo confronto (ecco il secondo passaggio) è cosa aproairetica, non in nostro esclusivo potere. Il terzo passaggio, nuovamente azione proairetica, è il retto giudizio che dal risultato del confronto, sia nel caso di successo che nel caso di insuccesso, come non può esserci venuto alcun bene, altrettanto non può esserci venuto alcun male. 
I,17,15; I,27,8; I,28,30; II,3,4; II,23,28; II,26,1; III,9,2

AVVENENZA: traduce il sostantivo κάλλος (‘kàllos’). L’avvenenza, come la magnificenza o la grandiosità, nulla hanno che fare con la bellezza. Avvenenza e bellezza sono entrambi giudizi proairetici di chi osserva, ma mentre la prima concerne aspetti esteriori dell’osservato, la seconda è da riferirsi unicamente agli atteggiamenti in armonia con la natura delle cose della proairesi dell’osservato. Un essere umano, pertanto, può apparirci avvenente e al contempo stolto. Da migliaia di anni è invece invalso in Occidente l’uso di chiamare ‘belli’ oggetti esterni ed aproairetici, invece di riservare l’aggettivo ‘bello’, com’è corretto fare, esclusivamente alla virtù e alle sue opere. 
I,18,11; II,23,32; IV,9,1; Fr. XXXVI

AVVERSIONE: traduce il sostantivo κκλισις (‘ékklisis’). L’avversione è la seconda delle sei opere cardinali della proairesi ed è l’opposto del desiderio (q.v.) La sua azione si svolge nel vastissimo campo del ‘bene’ e del ‘male’, nel quale si gioca la partita della nostra ‘virtù’ o del nostro ‘vizio’. L’avversione è ‘proairetica’ e può essere rivolta tanto contro ciò ch’è aproairetico quanto contro ciò ch’è proairetico. Ma l’avversione senza riserva contro ciò ch’è aproairetico, per inviolabile legge della natura delle cose non ha alcuna certezza di avere successo e inevitabilmente, prima o poi, colui che avversa qualcosa di aproairetico è destinato ad incappare in ciò che avversa. Epitteto, pertanto, scongiura ripetutamente il principiante in filosofia a non avversare mai qualcosa di aproairetico: ad esempio, la morte fisica, la povertà di denaro, le malattie del corpo; e di limitarsi unicamente ad avversare ciò che, tra quanto è proairetico, conosce bene, ha finora praticato ed è contro la natura delle cose: ad esempio, ira, sdegno, invidia, commiserazione.
I,1,31; I,4,1-2; I,4,9; I,4,11; I,17,24; I,19,2; II,1,12; II,1,31; II,7,10; II,8,29; II,13,7; II,13,12; II,14,8; II,14,22; II,17,24; II,23,42; III,2,1; III,2,3; III,6,6; III,7,34; III,12,1; III,12,4-8; III,12,13; III,12,16; III,14,10; III,22,13; III,22,36; III,22,48; III,22,61; III,22,104; III,23,9; III,23,12; III,24,54; III,26,14; IV,1,1; IV,1,81; IV,4,6; IV,4,16; IV,4,18; IV,4,28; IV,4,33; IV,4,37; IV,5,27; IV,8,20; IV,10,5; IV,11,26; IV,12,6; E1,1; E2,1-2; E32,2; E48,3; Fr. I; Fr. XXVII

BUONA FORTUNA: traduce il sostantivo ετυχία (‘eutukìa’). La fortuna (q.v.), in quanto una delle cause basilari di tutte le vicende del cosmo, è un’entità aproairetica. La buona fortuna, invece, dipende esclusivamente da noi; è un giudizio interamente proairetico. Lo stesso vale per la ‘cattiva fortuna’, ossia la δυστυχία (‘dustukìa’). Dice Epitteto che a causa di nessuno ci conviene avere cattiva fortuna bensì buona fortuna a causa di tutti, soprattutto della Materia Immortale che per questo ci ha strutturato.
I,4,29; III,22,84; III,25,3

CATTIVA FORTUNA: vedi BUONA FORTUNA
I,4,23; III,3,18; III,22,84; III,24,25

CAUTELA e ‘con cautela’: traducono il sostantivo ελάβεια (‘eulàbeia’) e l’avverbio ελαβς (‘eulabòs’). La cautela sembrerebbe l’opposto del coraggio -afferma Epitteto- ma non vi è affatto contraddizione tra i due termini. Se infatti è vero che la sostanza del bene consiste nel retto uso delle rappresentazioni e quella del male nel loro uso scorretto, poiché ciò ch’è aproairetico non accoglie in sé natura né di bene né di male, il suggerimento va inteso nel senso di avere coraggio là dove si tratta di confrontarsi con ciò ch’è aproairetico; mentre si deve essere cauti là dove si maneggia ciò ch’è proairetico.
II,1,1-3; II,1,6-7; II,1,12; II,1,14; II,1,29; II,12,12; III,16,1; III,16,3; III,16,9;

CHE NON INCAPPA IN CIO’ CHE AVVERSA: traduce l’aggettivo περίπτωτος(‘aperìptotos’). Soltanto la proairesi che opera sistematicamente la diairesi; che si avvicina a ciò ch’è aproairetico senza paura poiché si fornisce della esplicita eccezione (q.v.) di mantenersi in ogni caso in armonia con la natura delle cose: ebbene soltanto la proairesi così disposta è capace di non incappare in ciò che avversa. La proairesi che invece cerca di non incappare in quanto avversa tremando e piangendo, è in armonia con la natura ma non certo con la natura delle cose.
I,1,31; I,4,11-12; I,19,2; II,8,29; II,23,42; III,12,5; IV,1,1; IV,1,5; IV,6,26

COMPRENSIONE: traduce il sostantivo παρακολούθησις (‘parakoloùthesis’). Molto è comune agli uomini e alle creature sprovviste di ragione. La differenza degli uni rispetto alle altre sta nel fatto che entrambi usiamo le rappresentazioni, ma soltanto noi uomini abbiamo la comprensione dell’uso che facciamo delle rappresentazioni. Agli altri animali, ad esempio, basta mangiare, bere, riposarsi, montare e fare quant’altro realizza ciascuna loro necessità; mentre per noi tutto ciò non è più bastevole, giacché se non lo effettueremo a modo, con posizionamento, conseguentemente alla nostra natura, non centreremo più il nostro fine. Questo è il motivo per cui è brutto, per l’uomo, esaurirsi laddove lo fanno anche le creature sprovviste di ragione. Piuttosto noi dobbiamo iniziare di qua ed esaurirci là dov’è la nostra meta, ossia nella conoscenza della diairesi, nella comprensione della natura delle cose e nel tragittarcela in armonia con essa.
I,4,17; I,6,11; I,6,13; I,6,21; I,16,18; II,8,6; II,8,8; II,14,15

CONCETTO: traduce il sostantivo ννοια (‘énnoia’). Noi veniamo al mondo senza avere per natura alcun concetto del triangolo rettangolo o del semitono diesis, ma impariamo ciascuno di questi concetti grazie ad una certa istruzione tecnica, e per questo coloro che non li conoscono neppure credono di conoscerli. Ma chi di noi non ha un concetto innato, naturale, di bene e di male, di bello e di brutto, di confacente e di non confacente, di felicità, di conveniente, di spettante, di quanto bisogna fare e di quanto non bisogna fare? Ecco come Epitteto spiega la differenza tra ‘concetto’ e ‘pre-concetto’ (q.v.).
II,11,2-3; II,11,7; II,12,6; II,12,9; II,17,7; II,17,11; II,24,12; III,13,2; IV,1,24

CONCEZIONE: traduce il sostantivo πόληψις (‘hupòlepsis’). Possiamo chiamare ‘concezione’ il complesso di giudizi e teorie relative ad un argomento, ed Epitteto distingue sempre le concezioni dai giudizi. In un caso solo [IV,1,140] egli usa il diminutivo πόληψείδιον (‘hupolepséidion’), tradotto con ‘concezioncella’, come sinonimo di ‘giudizio’(q.v.). Le concezioni sono ‘proairetiche’, possono essere rette, potenti; oppure avventate e mentitrici e quindi non rette, come fossero di cera.
I,11,33; I,18,1; II,6,21; II,9,14; II,14,22; III,16,9-10; III,16,13; IV,1,140; IV,6,14; E1,1; E20,1, E31,1

CONFLAGRAZIONE DELL’UNIVERSO: traduce il sostantivo κπύρωσις (‘ekpùrosis’). È noto che per gli Stoici, come per Eraclito, l’elemento primordiale è il fuoco, e che gli altri tre elementi del cosmo: aria, acqua e terra, sono generati per trasformazione di esso. In seguito, e secondo certi tempi fatali, il cosmo nella sua totalità va incontro alla ‘conflagrazione universale’, e tutti i suoi elementi si trasformano di nuovo in puro fuoco. Il numero di questi cicli di formazione e di conflagrazione è infinito e il fuoco primordiale, chiamato anche Zeus, è come una sorta di seme contenente in sé le ragioni di tutte le cose e le loro cause passate presenti e future, mentre l’intreccio e la consequenzialità di queste cause è legge ineludibile ed inevitabile.
III,13,14-15

CONTRODIAIRESI: vedi DIAIRESI
IV,1,65

DEI, (Gli): traduce il sostantivo plurale ο θεοί (‘òi theòi’). A differenza di Zeus, che è Materia Immortale (q.v.) e dunque un’entità aproairetica che si identifica con il cosmo, gli ‘dei’ sono libere creazioni della proairesi umana e sono pertanto entità esclusivamente proairetiche. Proprio per il fatto di essere entità proairetiche essi possono essere creature della nostra diairesi (q.v.) oppure della nostra controdiairesi (q.v.). E siccome diairesi e controdiairesi sono sempre esistite e sempre esisteranno, giacché sono le due sole possibilità di atteggiarsi della proairesi umana, unica è l’origine tanto degli dei del politeismo che del Dio del monoteismo: la proairesi umana che usa in modo scorretto le rappresentazioni e vede il proprio bene e il proprio male fuori di sé, in ciò ch’è aproairetico. A fronte di un ricchissimo Pantheon di dei buoni e cattivi, diversi da cultura a cultura e da paese a paese, quando sia invece usata rettamente la proairesi dell’uomo è capace di concepire di sé e della Materia Immortale delle rappresentazioni felicitanti, generose, liberatorie ed aderenti alla natura delle cose, che sono appunto quelle alle quali Epitteto ci sollecita continuamente ad aderire.
I,1,6-8; I,1,13; I,3,1; I,3,3; I,4,9; I,4,24; I,6,38; I,9,1; I,9,10-11; I,9,22; I,9,25; I,12,1; I,12,8; I,12,21; I,12,26-27; I,12,32; I,13,1-2; I,13,5; I,16,7; I,17,18; I,18,17; I,19,25; I,20,15; I,27,13; I,30,6; II,5,18; II,5,26; II,8,10; II,14,11; II,17,25-26; II,17,31; II,18,20; II,18,22; II,19,15; II,19,24; II,20,9; II,20,20; II,20,27; II,22,5; II,22,17; III,1,36; III,1,39; III,3,16; III,13,15; III,19,3; III,20,8; III,21,12; III,22,69; III,22,91; III,22,95; III,23,35; III,24,7; III,24,11; III,24,53; III,24,60; IV,1,47; IV,1,151; IV,1,154; IV,4,47; IV,9,18; IV,11,1; IV,11,3; IV,11,24-25; Fr. XVII; Fr. XXIV; E1,3; E15,1; E29,2; E31,1; E31,4; E32,2; E53,3

DESIDERIO: traduce il sostantivo ρεξις (‘òrexis’). Il desiderio è la prima delle sei opere cardinali della proairesi, ed è l’opposto dell’avversione (q.v.) La sua azione si svolge nel vastissimo campo del ‘bene’ e del ‘male’, nel quale si gioca la partita della nostra ‘virtù’ o del nostro ‘vizio’. Il desiderio è ‘proairetico’ e può essere rivolto tanto verso ciò ch’è aproairetico quanto verso ciò ch’è proairetico. Ma il desiderio senza riserva di ciò ch’è aproairetico, per la inviolabile legge della natura delle cose, non ha alcuna certezza di avere successo e inevitabilmente, prima o poi, colui che desidera qualcosa di aproairetico è destinato a fallire l’ottenimento di ciò che desidera. E qualora poi lo ottenesse ne invanirebbe e si esalterebbe, traendone la falsa conclusione di avere potere su ciò ch’è aproairetico. Epitteto, pertanto, suggerisce al principiante in filosofia di astenersi completamente dal desiderio, in quanto non è ancora in condizione di comprendere come si deve la differenza tra proairetico ed aproairetico e, per conseguenza, gli è impossibile sapere cosa, di ciò ch’è in nostro esclusivo potere, è contrario alla natura delle cose.
I,1,31; I,4,1; I,4,9; I,4,11; I,17,24; I,18,1; I,19,2; II,1,31; II,7,10; II,8,29; II,13,1; II,13,7; II,13,12; II,14,8; II,14,22; II,17,24; II,23,42; II,24,16; III,2,1; III,2,3; III,6,6; III,7,34; III,9,18; III,9,22; III,12,1; III,12,4-6; III,12,8; III,12,13; III,12,16; III,13,21; III,14,10; III,22,13; III,22,36; III,22,48; III,22,61; III,22,104; III,23,9; III,23,12; III,24,54; III,26,14; IV,1,1; IV,1,77; IV,1,81; IV,1,84; IV,1,102; IV,4,6; IV,4,16; IV,4,18; IV,4,28; IV,4,32-33; IV,4,35; IV,5,27; IV,8,20; IV,10,4; IV,11,26; IV,12,6; E1,1; E2,1-2; E15,1; E32,2; E48,3; Fr. I; Fr. XXVII

DIAIRESI: traduce il sostantivo διαίρεσις (‘diàiresis’). La diairesi è il supergiudizio (ossia il giudizio di un giudizio) che sa distinguere in qualunque circostanza quanto è in esclusivo potere dell’uomo, ossia ‘proairetico’ e quanto non lo è, ossia è ‘aproairetico’. La diairesi è il supergiudizio esattamente opposto alla ‘controdiairesi’, la quale è invece il supergiudizio che afferma in mio esclusivo potere quanto non è in mio esclusivo potere, ossia ciò ch’è ‘aproairetico’, e/o non essere in mio esclusivo potere quanto invece è in mio esclusivo potere, ossia è ‘proairetico’. Epitteto non usa un sostantivo specifico per indicare la controdiairesi, ma accenna esplicitamente ad essa in un breve passaggio del IV libro delle ‘Diatribe’, quando pone all’interlocutore questa domanda: “Vedi dunque: abbiamo noi nulla in nostro esclusivo potere, oppure tutto è in nostro esclusivo potere, oppure alcune cose sono in nostro esclusivo potere ed altre in potere d’altri?” Che nulla di proairetico e di aproairetico sia in nostro potere oppure che tutto ciò ch’è proairetico e tutto ciò ch’è aproairetico sia in nostro potere, è con tutta evidenza una definizione della ‘controdiairesi’ tirata all’estremo per amor di chiarezza, ma comprensibile e nemmeno troppo imprecisa. Ed è ragionevole supporre, sebbene impossibile da provare, che nei quattro di libri delle Diatribe che sono andati perduti Epitteto sviluppasse da par suo anche il tema della ‘controdiairesi’. In ogni caso egli mostra chiaramente di intendere che l’uomo è uomo quando la sua proairesi è illuminata dalla diairesi, mentre scade ad animale bruto quando la sua proairesi si fa guidare dalla controdiariresi. 
I,1,6; I,1,13; I,1,17; I,1,25; I,1,27; I,2,11; I,2,18; I,4,17; I,8,10; I,9,9; I,12,7; I,12,16; I,12,21; I,22,8; I,22,16; I,29,55; I,29,63; II,1,20; II,5,5; II,5,22; II,6,5; II,6,19; II,6,24; II,9,2; II,9,7; II,9,12; II,10,13; II,13,8; II,13,15; II,16,10; II,19,10; II,19,15; II,22,1; III,16,6; III,18,1; IV,2,1; IV,3,3; IV,5,6; IV,7,5; E1,1;

DIO: traduce il sostantivo singolare  θεός (‘o theòs’). Si chiamino Apollo, o Osiride, o Rama, o si tratti del Dio personale e trascendente dei monoteismi rivelati, dunque il Dio di Mosè, di Gesù Cristo e di Maometto, la sostanza non cambia. Esso è un’entità proairetica che non fu e non sarà mai Materia Immortale ma che sempre è, giacché è fatto in ogni tempo esistere dall’atteggiamento controdiairetico della proairesi degli uomini. È ben per questo che un Dio simile non ha bisogno di esistere per essere creduto. È a questa modalità di intendere il divino che Epitteto si riferisce nei passi di seguito citati.
I,10,3; I,12,1; I,13,1; I,20,16; I,29,37; II,5,18; II,7,12; II,8,12; II,14,13; II,14,19; II,16,13; II,19,26-27; II,20,31; II,22,16; III,1,36-37; III,3,4; III,5,16; III,7,26; III,10,13; III,21,11; III,21,18; III,22,2; III,22,13; III,22,48; III,22,53; III,24,58; IV,8,17; Fr. X

DISSENTIRE: traduce il verbo νανεύω (‘ananéuo’). Dissentire è la sesta ed ultima delle opere cardinali della proairesi, ed è l’opposto dell’assenso (q.v.). Anche il dissentire è un’azione proairetica per natura libera, non soggetta a impedimenti e non soggetta a costrizioni. Fondamento del dissentire è il giudicare che una certa rappresentazione ci dà l’immagine di qualcosa che non c’è oppure ch’è falsa. Ad esempio, il saggio dissentirà sempre dalla rappresentazione di qualcosa di aproairetico come ‘bene’ o come ‘male’.
I,14,7; I,18,1; II,24,19; II,26,3; III,2,1; III,3,2; III,12,13

DOMINIO SULL’AFFLIZIONE: traduce il sostantivo λυπία (‘alupìa’). Tanto il virtuoso quanto l’insipiente hanno esperienza di moti istintivi d’afflizione. Ma mentre il primo sa immediatamente dominarli ed opera in modo da mantenere la propria proairesi in armonia con la natura delle cose, la proairesi del secondo si lascia andare ad essi senza riserva.
III,22,48; III,24,116-117; IV,3,7; IV,6,16; Fr. XXVIIIb; E12,1

DOMINIO SULLA PAURA: traduce il sostantivo φοβία (‘afobìa). Tanto il sapiente quanto l’insipiente sperimentano ed hanno esperienza di moti di paura. Ma mentre il primo sa dominarla ed opera in modo da mantenere la propria proairesi in armonia con la natura delle cose, la proairesi del secondo davanti alla paura si fa serva e se ne lascia vincere.
II,1,21; III,24,116; IV,3,7; IV,6,16; IV,7,1

DOMINIO SULLE PASSIONI: traduce il sostantivo πάθεια (‘apàtheia’) e il sostantivato τ παθές (‘to apathés’). Siccome è impossibile che l’uomo sia immune come una statua ai moti passionali, se ne deve dedurre che tanto il sapiente quanto l’insipiente, tanto il virtuoso quanto il vizioso, hanno di essi naturale esperienza. Il virtuoso, pertanto, non si differenzia dal vizioso per l’assenza delle passioni, bensì per la capacità che la sua proairesi ha acquisito, grazie alla pratica sistematica della diairesi, di dominare le passioni. Come il buon auriga, soltanto il saggio sa come tenere salde le redini del cavallo che gli è stato affidato dalla sorte, così da indirizzarlo e da mantenerlo sul corretto percorso.
I,4,1; I,4,3; I,4,28; III,15,12; III,26,13; IV,3,7; IV,6,34; IV,10,13; IV,10,22; E12,2; E29,7

DOMINIO SULLO SCONCERTO: traduce il sostantivo ταραξία (‘ataraxìa’). Come nel caso del dominio sulla paura e su altre passioni, il saggio sa cos’è lo sconcerto ma sa anche dominarlo. Per Epitteto è uno dei frutti più belli della diairesi.
I,10,2; II,1,21; II,1,33; II,2,1; II,5,2; II,5,7; II,18,28; III,13,13; III,15,12; III,24,79; III,26,13; IV,3,7; IV,8,30; IV,10,22; E12,2; E29,7

EBBREZZA: vedi PIACERE FISICO. 
II,11,19-22; E34,1

ECCEZIONE: traduce il sostantivo πεξαίρεσις (‘hupexàiresis’). Come è già stato illustrato in una nota precedente, per ‘avere successo’ (q.v.) in qualunque caso pratico si devono attraversare tre passaggi, due dei quali sono proairetici mentre uno è aproairetico. Il primo passaggio proairetico è quello che incorpora l’esplicita eccezione di cui qui è questione. Nel quarto paragrafo del ‘Manuale’ Epitteto, per illustrare questa ‘eccezione’ che il saggio sempre fa, usa l’esempio di una persona che dispone di andare alle terme per fare un bagno caldo. Prima di avviarsi alle terme, costui deve avere davanti agli occhi quel che accade alle terme: gente che ti spruzza, ti strattona, ti ingiuria, che ruba. Pertanto egli, se è saggio, si avvierà alle terme dicendo a se stesso: “Dispongo di fare un bagno caldo, ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose. E tale non la serberò se fremerò davanti a certi avvenimenti”. Questo è l’unico modo corretto di accostarci a qualunque cosa aproairetica e di serbarci liberi.
E2,2; Fr. XXVII

EDUCAZIONE ALL’USO DELLA DIAIRESI o ‘educazione a diairesizzare’: traduce il sostantivo παιδεία (‘paidéia)’. Ha poco senso tradurre il sostantivoπαιδείαcon il semplice termine ‘educazione’. Infatti, di quale educazione si intende parlare? Il benpensante e il malpensante sono tutti e due educati a qualcosa: il primo a certe idee morali e politiche, il secondo a idee diverse da quelle. Ma si tratta in entrambi i casi di modelli culturali i quali hanno i loro difensori e le loro ragioni. In filosofia, invece, c’è bisogno di un canone che non sia un semplice modello culturale, ma che faccia riferimento a qualcosa di invariante e valido senza eccezione alcuna per tutti gli esseri umani, a qualunque cultura essi appartengano. Questo canone esiste ed è rappresentato, come Epitteto mostra di continuo, dalla infinita libertà della proairesi umana nell’uso delle rappresentazioni, ossia dalla infinita libertà della proairesi umana di atteggiarsi diaireticamente oppure controdiaireticamente. Pertanto la παιδεία va sempre qualificata come ‘educazione all’uso della diairesi’, giacché questa è la sola interpretazione coerente con l’impianto generale della filosofia di Epitteto ed è anche chiaramente lo scopo che egli si dà e ribadisce di sé come educatore. Soltanto in tre casi (I,17,12; II,20,26; III,21,15) Epitteto lascia correre il termine παιδεία con un riferimento leggermente meno stringente.
I,2,6; I,8,1; I,8,8; I,9,12; I,9,18; I,12,8; I,12,15; I,12,17; I,19,1; I,22,9; I,27,2; I,29,33; I,29,44; I,29,54-55; II,1,21-22; II,1,25; II,2,13; II,15,1; II,16,23; II,17,22; II,17,26-27; II,19,29; III,2,10; III,26,28; IV,4,32; IV,5,7; E5,1

EGEMONICO: traduce l’aggettivo sostantivato τ γεμονικόν (‘to hegemonikòn’). Il cosiddetto ‘egemonico’ è, secondo la classica suddivisione stoica, l’ottava parte dell’animo umano: la sua anima direttiva, il nostro ‘sovrano interiore’. Cosa impedisce che chi ha la febbre abbia l’egemonico in accordo con la natura delle cose? Qua è il controllo della faccenda, la valutazione di chi fa filosofia. Giacché è parte della vita anche questo, cioè la febbre, come una passeggiata, come un viaggio per mare o per terra. L’uso che Epitteto fa di questo termine è del tutto intercambiabile con quello del sostantivo ‘Proairesi’ (q.v.). Una certa sua preferenza per il termine ‘Proairesi’ sembrerebbe legata alla geniale e brillantissima risposta che egli oppone alle critiche che gli Aristotelici del tempo muovevano agli Stoici circa la libertà o la servitù della proairesi umana, all’interno della catena di rigidissima causalità della quale facevano colpa a questi ultimi. Come l’animo umano ha il suo ‘Egemonico’, così pure il cosmo ha il suo egemonico, che è la ‘Prònoia’ (q.v.).
I,15,4; I,20,11; I,26,12; I,26,15; II,1,39; II,18,8-9; II,18,30; II,22,25; II,26,7; III,3,1; III,5,3; III,6,3; III,9,11; III,10,11; III,10,16; III,15,13; III,21,3; III,22,19; III,22,33; III,22,93; IV,4,38; IV,4,43; IV,5,1; IV,5,4; IV,5,6; IV,7,40-41; IV,10,25; E29,7; E38,1

FELICITA’: traduce il sostantivo εδαιμονία (‘eudaimonìa’). L’essere umano è l’unico responsabile della propria felicità; e la felicità sta nella retta proairesi, là dove c’è in noi qualcosa che è libero per natura. Dove sono sconcerti, afflizioni, paure, desideri imperfetti, avversioni che incappano in quanto avversano, invidie, gelosie, là che passaggio vi può avere la felicità? L’uomo felice deve infatti avere tutto quel che dispone, deve somigliare ad un essere sazio, al quale non è congiunta né sete né fame. 
I,4,3; I,4,32; I,9,10; II,1,20; II,8,5; II,9,2; II,9,7; II,11,3; II,14,9; II,20,31; II,23,29; III,22,37; III,22,59-61; III,22,84; III,23,34; III,24,17; III,25,1; III,25,3; IV,1,122; IV,8,30; IV,10,19; IV,12,18; E1,4; E50,1

FORTUNA: traduce il sostantivo τύχη (‘tùke’). La fortuna è una delle quattro cause basilari di tutti gli eventi del cosmo. È una causa ‘aproairetica’ ed è pertanto di natura divina. In Epitteto, il riferimento alla ‘fortuna’ intesa come causa basilare, è esplicito soltanto nei tre casi qui segnalati.
II,7,9; IV,1,109; Fr. II

GIUDIZIO: traduce il sostantivo δόγμα (‘dògma’). Il giudizio è un’operazione proairetica che sottostà a tutte le altre opere della proairesi (q.v.). I giudizi possono essere retti oppure non retti. Sono retti quando rispettano la natura delle cose (q.v.), e sono non retti quando non la rispettano. Nel primo caso essi fanno la proairesi buona; nel secondo la fanno pervertita e cattiva. In quanto opera della proairesi, un giudizio non può essere vinto che da un altro giudizio, mentre nulla di aproairetico può vincerlo. Nel campo del bene e del male, ad esempio, bene è il giudizio che il denaro è né un bene né un male. Male il giudizio che esso sia un bene oppure che esso sia un male. 
I,1,25; I,3,1; I,11,29; I,11,33; I,11,35; I,11,38-39; I,12,26; I,17,26; I,18,2; I,18,16; I,18,20; I,19,6; I,19,8; I,19,15-16; I,25,25; I,25,28; I,28,21; I,28,25; I,29,8; I,29,11; I,29,13; I,29,19; I,29,22; I,29,49; II,1,14; II,1,21; II,1,32; II,9,14; II,16,1; II,16,22-24; II,16,26-28; II,16,40; II,18,7; II,18,11; II,18,18; II,19,6; II,19,10-11; II,19,14; II,19,19; II,19,23; II,20,16; II,20,26; II,21,15; II,22,24; II,22,28; II,22,33-34; II,22,37; III,1,42; III,2,12-13; III,3,13; III,3,18-19; III,5,4; III,7,4; III,7,7-8; III,7,17; III,7,20; III,7,22; III,7,29; III,9,1-6; III,9,8-9; III,9,12-13; III,9,17-18; III,10,1; III,10,5; III,16,1; III,16,6-8; III,16,10; III,17,9; III,19,3; III,20,17-18; III,22,59; III,22,61; III,23,9; III,24,1; III,24,21; III,24,38-39; III,24,53; III,24,55; III,24,87; III,26,32; III,26,34-35; IV,1,58; IV,1,86; IV,1,112; IV,1,137; IV,1,139; IV,1,170; IV,1,175-176; IV,4,44; IV,5,17; IV,5,20; IV,5,24; IV,5,26; IV,5,28-29; IV,5,32; IV,5,35; IV,6,14; IV,6,21-25; IV,6,28-29; IV,7,1; IV,7,14; IV,7,21; IV,7,35-36; IV,7,38; IV,8,1; IV,8,3-4; IV,8,41; IV,9,1; IV,10,30; IV,10,36; IV,11,4; IV,11,8; IV,11,33; IV,13,15; IV,13,20; IV,13,23; Fr. XVI; Fr. XXVIIIb; E5,1; E16,1; E20,1; E45,1

IDDIO: vedi DIO
II,16,13

IMPULSO: traduce il sostantivo ρμή (‘hormé’). L’impulso è la terza delle sei opere cardinali della proairesi, ed è l’opposto della repulsione (q.v.) Impulso è il nome che prende il desiderio quando l’azione umana sia considerata limitatamente al campo del ‘doveroso’, ossia là dove si gioca la partita di ciò che per l’uomo è confacente: a) in quanto semplice animale, b) in quanto animale inserito in un certo ambiente naturale e c) in quanto uomo in relazioni naturali o acquisite con altri uomini; giacché tutti gli uomini sono figli o figlie, padri o madri, fratelli o sorelle, mogli o mariti e così via; tutti gli uomini fanno parte della società civile e, una volta raggiunta la maggiore età, hanno diritti politici. Anche l’impulso è ‘proairetico’, e di esso dobbiamo servirci così da essere al riparo dalle aberrazioni, per agire con posizionamento, con razionalità, senza trascuratezza, né fuori tempo, né fuori luogo e salvaguardare la nostra cooperatività nelle relazioni con le proairesi dei nostri simili.
I,4,9; I,4,11; I,4,14; I,17,24; I,18,1; I,19,3; I,19,25; I,21,2; II,8,29; II,13,7; II,14,22; II,17,15; III,2,1-2; III,7,34; III,9,18; III,12,13; III,22,36; III,22,104; IV,1,1; IV,1,89; IV,1,100; IV,4,16; IV,4,18; IV,4,28; IV,6,18; IV,6,26; IV,8,35; IV,11,26; IV,12,14; E1,1; E48,2; Fr. I; Fr. VI; Fr. XXVII

INCULTURA: traduce il sostantivo μαθία (‘amathìa’). Com’è noto, per Epitteto la sola incultura di vero rilievo è l’ignoranza della diairesi (q.v.), ossia l’ignoranza della fondamentale azione proairetica che consiste nel riconoscere la natura delle cose e nel distinguere ciò ch’è in nostro esclusivo potere e ciò che non lo è.
I,11,14; II,1,16; II,3,5

INDIFFERENZA: traduce il sostantivo διαφορία (‘adiaforìa’). Indifferenza non significa affatto assenza di percezione o disconoscimento delle diverse qualità che ineriscono a qualcosa, bensì giudizio proairetico che qualunque oggetto esterno ed aproairetico è né un bene né un male. 
II,1,14; II,5,20; II,6

INDIFFERENTE: traduce l’aggettivo διάφορον (’adiàforon’). Qualunque cosa aproairetica è ‘indifferente’, in quanto è né un bene né un male per la proairesi. Indifferenti sono cose di questo genere: vita, morte, reputazione, discredito, dolore fisico, piacere fisico, ricchezza di denaro, povertà di denaro, malattia, salute e le cose simili a queste. 
I,9,13; I,20,12; I,30,3; II,5,1; II,5,3; II,5,7; II,6,1-2; II,9,15; II,19,13; E32,1-2

INGANNO: traduce il sostantivo πάτη (‘apàte’). Nell’ambito degli assensi e della sospensione degli assensi, dice Epitteto, le determinazioni che noi prendiamo possono essere scienza od opinione o inganno. S’inganna colui che dà il proprio assenso ad una rappresentazione prima di averla a fondo e correttamente analizzata. Il virtuoso, dunque, non s’inganna e non si lascia ingannare.
I,4,27; II,6,1; III,20,3

INSUBORDINABILE: traduce l’aggettivo νυπότακτος (‘anupòtaktos’). Chi è l’uomo? L’uomo è una creatura mortale atta ad usare le rappresentazioni in armonia con la natura delle cose; una creatura che nulla ha di più dominante della proairesi (q.v.), e tutte le altre sue facoltà subordinate a questa, mentre essa è inasservibile e insubordinabile.
II,10,1; IV,1,161

INTELLETTO: traduce il sostantivo διάνοια (‘diànoia’). L’accezione nella quale Epitteto usa questo termine è prevalentemente quella comune. Con esso egli indica, dunque, il complesso delle facoltà che permettono all’uomo di intendere, sottrarre, addizionare e variamente comporre i dati sensibili dell’esperienza o entità astratte. Tuttavia è altrettanto evidente e sicuro che in certi casi egli lo usa quale puro e semplice sinonimo di ‘proairesi’ (q.v.).
I,4,32; I,6,7; I,6,10; I,18,1; I,26,14; I,28,2; II,2,13; II,2,20-21; II,16,45; II,21,22; III,4,5; III,9,17; III,9,19; III,22,20; IV,1,135; IV,5,15; Fr. XV; E7,1

IRRAGIONEVOLE, ossia ‘senza ragione’, ‘sprovvisto di ragione’: traduce l’aggettivo λογος (‘àlogos’). Il termine, inteso nel senso di ‘incapace di discorso ragionato’ è usato per indicare genericamente gli animali bruti. Secondo Epitteto, la differenza tra questi e l’uomo va ricercata nel fatto che mentre i bruti possiedono l’ ‘uso delle rappresentazioni’, soltanto il secondo possiede, oltre all’uso, anche la ‘comprensione dell’uso delle rappresentazioni’. La comprensione dell’uso delle rappresentazioni si identifica con l’autoteoreticità della ‘ragione’; con la capacità umana di riconoscere la ‘natura delle cose’, cioè la bipartizione fondamentale di tutte le realtà in cose che sono in nostro esclusivo potere e cose che non sono in nostro esclusivo potere; e con la presenza in noi di una ‘proairesi’ capace di ‘diairesi’. ‘Irragionevoli’ diventano allora anche le proairesi umane quando si atteggiano in contrasto con la natura delle cose, quando operano la ‘controdiaresi’ e così si abbrutiscono.
I,2,1; I,2,4-7; I,6,12; I,6,20; I,9,9; II,8,3; II,15,6; II,15,19; III,24,7; IV,1,84; IV,6,27; Fr. III

LIBERTÀ: traduce il sostantivo λευθερία (‘eleutherìa’). La libertà è il frutto che pende dai rami dell’albero della diairesi, così come la schiavitù è il frutto che pende dai rami dell’albero della controdiairesi. Nessuno decide di vivere aberrando, nella paura, nell’afflizione e nello sconcerto. Dunque nessuno che aberri, che abbia paura, sia afflitto, sia sconcertato è libero. La libertà è il difficile linguaggio in cui è scritta la natura delle cose (q.v.), ed è un linguaggio del tutto indipendente dalla proairesi umana: è la lingua universale che la nostra proairesi deve imparare a leggere e a comprendere, ma che non ha alcuna possibilità di modificare. 
I,12,10; I,12,12; I,12,15; I,12,21; I,24,8; II,1,20-21; II,1,23; II,16,41; II,18,28; II,20,31; III,15,12; III,22,84; III,22,92; III,22,96; III,24,66-67; III,26,38; IV,1,5; IV,1,23-24; IV,1,27-28; IV,1,30; IV,1,52; IV,1,54; IV,1,56; IV,1,109; IV,1,113; IV,1,117; IV,1,131; IV,1,144; IV,1,171-172; IV,1,175; IV,3,7; IV,9,11; Fr. IV; Fr. XIV; Fr. XXXVI; E1,4; E19,1; E29,7

LOGICO, ossia ‘razionale’: traduce l’aggettivo λογικός (‘logikòs’). È l’opposto di λογος. Soltanto l’uomo, non l’animale bruto, è una creatura logica. In un altro contesto, l’aggettivo viene sostantivato ed utilizzato per indicare la ‘Logica’ in quanto branca della filosofia. La facoltà logica dell’uomo, in quanto facoltà che può scegliere di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente prende il nome di ‘proairesi’. Per Epitteto, quando nell’uomo siano recisi il rispetto di sé e degli altri ed il senso della decenza mentre non è mozzata la logicità, ecco che la sua proairesi si è abbrutita.
I,1,4; I,2,1; I,5,9; I,6,12; I,9,4; I,10,10; I,16,21; I,17,1; I,17,6; I,17,10; I,19,13; I,27,6; II,1,39; II,9,2; II,9,4; II,20,7; II,25,1; II,26,3; II,26,7; III,1,25-26; III,7,33; III,7,35; IV,6,34; IV,7,7

LOGOS: vedi RAGIONE

MATERIA: vedi MATERIA IMMORTALE

MATERIA IMMORTALE: traduce il sostantivo θεός (‘theòs’). Il cosmo è soggetto a continue trasformazioni ma non è soggetto a nascita o morte, giacché è composto di Materia Immortale, la quale segue le leggi ben precise del Logos (q.v.) nei suoi passaggi di stato. Materialità è sinonimo di divinità. Tutto ciò ch’è materiale è θεον (‘thèion’)ossia ‘divino’, e la divinità altro non è che la Materia Immortale. Per conseguenza, anche tutto ciò ch’è aproairetico è divino: divini sono i sassi e le piante, il fango e gli animali, gli astri e gli escrementi, la natura, la necessità, la fortuna, la prònoia, e così via. E nell’uomo? Composto di Materia Immortale è dell’uomo il corpo, e divina è la capacità di questo corpo di esprimere da se stesso una facoltà autoteoretica come la ‘proairesi’. Proairesi che è capace di assomigliarsi (q.v.) a Zeus quando si atteggia diaireticamente. Insomma, noi siamo circondati dal divino e siamo noi stessi divini; salvo che, grazie alla infinita libertà della nostra proairesi, siamo anche gli unici esseri al mondo capaci di negare di esserlo.
I,1,9; I,3,1-2; I,3,4; I,4,32; I,6,1-2; I,6,18; I,6,42; I,9,1; I,9,4; I,12,1; I,13,1; I,14,4; I,14,6; I,14,10; I,14,15; I,16,1; I,16,5-6; I,16,7; I,16,14-16; I,16,19-20; I,17,27; I,19,13; I,29,4; I,29,48; II,1,25; II,6,9; II,8,1; II,8,8; II,8,11; II,8,14; II,8,20; II,10,3; II,14,8; II,14,11; II,14,24; II,16,13; II,16,27; II,16,44; II,17,33; II,23,1-2; II,23,5; II,23,23; III,3,5; III,5,8; III,8,5; III,10,8; III,11,1; III,13,8; III,13,12; III,15,14; III,17,1; III,17,5; III,22,34; III,22,46; III,22,56; III,24,2; III,24,21; III,24,24; III,24,63; III,24,65; III,24,95; III,24,114; III,26,28; III,26,37; IV,1,82; IV,1,89; IV,1,98; IV,1,100-101; IV,1,104; IV,1,108; IV,1,172; IV,4,18; IV,4,32; IV,5,34-35; IV,6,21; IV,7,6-7; IV,7,9; IV,7,11; IV,7,17; IV,8,31-32; IV,10,14; Fr. IV; Fr. XIII; Fr. XXIII

MATERIALE: traduce il sostantivo λη (‘ùle’). Epitteto si serve sempre del termine ‘ùle’non per indicare genericamente la ‘Materia Immortale’ (q.v.), bensì per riferirsi al concreto materiale sul quale di volta in volta si svolge un’azione qualunque. Ad esempio, materiale del falegname è il legno e dello scultore di statue il bronzo, tanto quanto materiale dell’uomo che dispone di essere virtuoso è la sua propria proairesi. Questi materiali possono pertanto essere sia aproairetici (legno, bronzo) che proairetici (giudizi, desideri, ecc.). Quando i materiali siano aproairetici l’uomo che ha retti giudizi deve trattarli con la massima cura ma non infatuarsene tanto da diventarne servo.
I,4,20; I,6,34; I,7,2; I,15,2-3; I,18,11; I,20,3; I,26,2; I,29,2-3; I,29,41; II,5,1; II,5,5; II,5,7; II,5,9; II,5,21-22; II,6,1-2; II,16,18; II,19,31; II,21,17; III,2,7; III,3,1; III,4,9; III,7,25; III,20,8; III,22,20; III,22,40; IV,1,117; IV,4,10; IV,5,6; IV,7,5; IV,7,15; IV,8,11-12; IV,11,4; Fr. VIII

MENTE DELLA MATERIA IMMORTALE: traduce il sostantivo πρόνοια (‘prònoia’). Il sostantivo Prònoia va reso in questo modo per tenere saldamente in evidenza l’inscindibile legame che unisce Logos (q.v.) e Materia (q.v.). Invano si cercherebbero in Epitteto tracce del Provvidenzialismo caratteristico delle religioni monoteiste.
I,6,1-2; I,16,1; I,16,7; I,16,14-16; III,15,14; III,17,1; III,17,5; Fr. XIII

NATURA: traduce il sostantivo φύσις (‘fùsis’). La ‘natura’ è una delle quattro cause basilari di tutti gli eventi del cosmo, è divina ed è onnicomprensiva, nel senso che qualunque comportamento umano è naturale. La ‘natura delle cose’ è invece la essenziale bipartizione di tutto l’esistente in cose proairetiche ed in cose aproairetiche. Si tratta di una questione di fondamentale importanza, giacché i concetti di ‘Natura delle cose’, di ‘Proairesi’ e di ‘Diairesi’, sono tre pilastri fondamentali della filosofia di Epitteto che sono stati finora drammaticamente sottovalutati o addirittura completamente trascurati. Epitteto sa benissimo quanto sia facile equivocare in proposito, spacciando per ‘natura’ quelli che invece sono dei semplici ‘modelli culturali’, e si guarda bene dal farlo. Ogni volta che il termine ‘natura’ si presta a simili ambiguità egli dunque le evita, mostrando ed affermando con estrema decisione che esiste una ‘natura delle cose’ e che questa è invariante, inviolabile e valida per tutti gli esseri umani senza eccezioni. È in relazione al rispetto oppure al tentativo di violazione della ‘natura delle cose’ che gli uomini si dividono in virtuosi e viziosi, in felici ed infelici, in liberi e schiavi, in pace vivente oppure in guerra vivente. 
I,2,7; I,4,14; I,4,18; I,4,29; I,6,15; I,6,18; I,6,21; I,11,5; I,11,7-8; I,11,10-11; I,11,15; I,11,17-18; I,12,3; I,12,7; I,12,19; I,15,4; I,15,6; I,16,4; I,16,9; I,16,11; I,17,12; I,17,17; I,17,21; I,18,8-9; I,19,7; I,19,13; I,19,25; I,20,5; I,20,16; I,21,2; I,22,9; I,23,21; I,25,22; I,26,1-2; I,27,12; I,28,2; I,29,19; II,1,4; II,2,2-3; II,2,10; II,2,14; II,5,6; II,5,22; II,5,24-25; II,6,5; II,6,9; II,8,14; II,8,23; II,10,23; II,11,2; II,11,7; II,14,11; II,14,22; II,15,1; II,16,7; II,16,43; II,19,32-33; II,20,13-14; II,20,18; II,20,21; II,20,31; II,21,1; II,21,4; II,23,19; II,23,33; II,23,35; II,23,42; II,24,12; II,24,14; II,24,19; II,26,1; II,26,3; III,1,3; III,1,23; III,1,25; III,1,28; III,1,35; III,3,1; III,4,9; III,5,3; III,6,3-4; III,7,28; III,9,11; III,9,17; III,9,19; III,10,10-11; III,10,15; III,12,1; III,12,15; III,13,5; III,13,20; III,16,15; III,17,6; III,22,41; III,23,12; III,24,1; III,24,11-12; III,24,101-102; IV,1,51; IV,1,78; IV,1,126; IV,3,10; IV,4,14; IV,4,28; IV,4,38; IV,4,43; IV,5,5-6; IV,5,30; IV,6,11; IV,7,8; IV,8,12; IV,8,42; IV,10,7-8; IV,10,19; IV,10,26; IV,11,1; IV,11,3; IV,11,9-10; IV,12,2; Fr. I; Fr. VI; Fr. VIII; Fr. XIV; Fr. XXIII; Fr. XXVIIIb; E1,1-3; E1,3; E2,1-2; E3,1; E4,1; E6,1; E9,1; E13,1; E26,1; E27,1; E30,1; E48,3; E49,1

NATURA DELLE COSE: vedi NATURA 

NECESSITA’: traduce il sostantivo νάγκη (‘anànke’). La necessità è una delle quattro cause basilari di tutti gli eventi del cosmo. È una causa ‘aproairetica’ ed è pertanto di natura divina. In Epitteto, il riferimento alla ‘necessità’ intesa come causa basilare è esplicito soltanto nei tre casi qui segnalati.
II,6,16; III,22,100; E53,2

NON SOGGETTO AD INTRALCI: traduce l’aggettivo νεμπόδιστος (‘anempòdistos’). Quella di non essere soggetta ad intralci è una caratteristica naturale della proairesi umana.
I,4,18; II,19,32; III,22,41; IV,1,1; IV,1,69; IV,1,100; IV,4,5

NON SOGGETTO AD IMPACCI, ‘disimpacciato’ ‘senza impacci’: traducono l’aggettivo παραπόδιστος (‘aparapòdistos’) e la sua forma avverbiale παραποδιστς(‘aparapodìstos’). Secondo gli Stoici, non soggette ad impacci sono unicamente la proairesi umana e la prònoia del cosmo. 
I,1,10; I,6,40; I,17,23; I,25,3; I,25,31; II,13,21; II,17,29; II,19,29; III,3,10; III,14,10; III,22,39-40; III,24,39; III,24,79; IV,1,63-64; IV,4,22; IV,8,20; E1,2

NON SOGGETTO A IMPEDIMENTI: traduce l’aggettivo κόλουθος (‘akòlutos’). Questa è una caratteristica fondamentale della proairesi umana. Tutto ciò ch’è aproairetico è soggetto a impedimenti, giacché può essere impedito da qualsivoglia agente più potente di lui. Non esiste invece alcun agente che possa impedire alla proairesi di decidere un certo oppure un cert’altro uso delle rappresentazioni a sua disposizione. Cos’è dunque per natura capace di condizionare la proairesi? Nulla di aproairetico bensì soltanto essa, quando sia pervertita, se stessa. Per questo la proairesi diventa solo vizio o sola virtù.
I,1,31; I,4,18; I,6,40; I,17,21; I,17,23; I,19,2; I,25,3; II,19,29; II,19,32; II,23,18; II,23,42; III,3,10; III,5,7; III,12,4; III,22,43; III,24,3; III,24,69; III,24,96; III,26,24; III,26,35; IV,1,27; IV,1,62-64; IV,1,69; IV,1,73; IV,1,75; IV,1,81; IV,1,83; IV,1,100; IV,1,128-129; IV,4,22; IV,4,40; IV,5,34; IV,6,16; IV,6,23; IV,7,6; IV,7,8-9; IV,10,13; IV,13,24; E1,2

OPERE DELLA PROAIRESI: traduce le due espressioni equivalenti προαιρετικά ργα(‘proairetikà èrga’) e ργα προαιρέσεως (‘èrga proairéseos’). Per Epitteto, sono tre i campi in cui deve esercitarsi chi intende vivere bene, in armonia con la natura delle cose: a) quello dei desideri e delle avversioni, per non fallire desiderando e, avversando, per non incappare in quanto avversa; b) quello degli impulsi e delle repulsioni, ossia quello del doveroso, per agire con posizionamento, con razionalità, senza trascuratezza; c) quello del riparo dall’inganno, dall’errore logico, dalla casualità di giudizio e insomma quello degli assensi e dei dissensi. Sono pertanto sei le opere cardinali della proairesi: desiderio (q.v.), avversione (q.v.), impulso (q.v.), repulsione (q.v.), assenso (q.v.), e dissenso (q.v.). Nel primo campo la proairesi dell’uomo gioca la partita del bene e del male. Nel secondo campo la partita delle relazioni sociali, naturali e acquisite. Nel terzo campo la partita della sicurezza nell’uso delle rappresentazioni e nei ragionamenti. Secondo Epitteto, inoltre, l’ordine di importanza per l’uomo dei tre campi è lo stesso dell’ordine in cui egli li elenca.
I,18,1; I,22,10; II,1,12

PIACERE FISICO: traduce il sostantivo δονή (‘hedoné’). Il semplice piacere fisico è distinguibile dal piacere fisico in quanto passione, e quest’ultimo è tradotto con ‘ebbrezza’, la quale è un’esaltazione irrazionale della proairesi per la presenza di quello che si opina essere un bene. Il piacere fisico è l’opposto del πόνος (‘pònos’), cioè del dolore fisico. Il piacere fisico, come il dolore fisico, è una realtà del tutto aproairetica, e dunque qualcosa ch’è né bene né male. Se è vero che dolore e piacere fisico non sono giudizi, è altrettanto vero che la nostra proairesi avrà sempre un giudizio su ciascun particolare piacere e dolore fisico. E questo giudizio, non il dolore ed il piacere fisico, è proairetico, è in nostro esclusivo potere. A questo va subordinato il piacere fisico come ministro, come servitore che può ottimamente assisterci nelle nostre opere in armonia con la natura delle cose. Si usa dire giustamente che il piacere fisico è un ottimo servitore ma un pessimo padrone.
I,2,16; I,18,16; I,24,7; I,29,60; II,17,12; II,19,13; II,20,9; II,22,7; III,7,28; III,12,7; III,24,37; III,24,71; Fr. XIV

PRE-CONCETTO: traduce il sostantivo πρόληψις (‘pròlepsis’). Mentre il ‘concetto’ (q.v.) va appreso, noi veniamo al mondo con dei concetti naturali, innati, di bene e di male, di bello e di brutto, di confacente e di non confacente, di felicità, di conveniente, di spettante, di quanto bisogna fare e di quanto non bisogna fare. Poiché i pre-concetti sono comuni a tutti gli uomini, pre-concetto non contraddice mai pre-concetto; ma non è possibile adattare i pre-concetti alle sostanze consone senza articolarli ed analizzare proprio questo, cioè quale sostanza sia da subordinarsi a ciascuno di essi. E siccome tutte le sostanze possibili rientrano soltanto in due categorie: quella di ciò ch’è proairetico e quella di ciò ch’è aproairetico, noi dobbiamo imparare ad adattare i pre-concetti alle sostanze in armonia con la particolarità di ciascuna, ossia in armonia con la natura delle cose.
I,2,6; I,7,29; I,22,1-2; I,22,6-9; I,25,6; I,27,6; I,28,28; II,1,32; II,11,1; II,11,4-6; II,11,9; II,11,11; II,11,18; II,17,1; II,17,7; II,17,9-10; II,17,12,14; III,5,8; III,13,13; III,22,1; III,22,39; IV,1,41-45; IV,4,26; IV,8,6; IV,8,10; IV,10,15

PROAIRESI: traduce il sostantivo προαίρεσις (‘proàiresis’). Epitteto è di evidenza solare nel mostrare che la proairesi, o ‘egemonico’ (q.v.), è la facoltà logica dell’uomo in quanto facoltà capace di atteggiarsi diaireticamente oppure controdiaireticamente. La proairesi non è un giudizio o un progetto, come tende a pensare Aristotele, né una scelta; e tantomeno una scelta morale di fondo. La proairesi è un codice scritto in determinate sequenze di nucleotidi e presente unicamente nel DNA umano. Le quattro caratteristiche fondamentali della proairesi sono queste: essa è libera, infinita, inasservibile e insubordinabile. Pertanto, la corretta definizione scientifica della nostra specie non è quella usualmente accettata di ‘Homo sapiens’. Infatti, a ben vedere, la stragrande maggioranza di noi apparterrebbe piuttosto alla specie ‘Homo insipiens’. Il vero nome della nostra specie è ‘Homo proaireticus’, giacché questa è la sola definizione che ci incorpora tutti: sapienti e insipienti, virtuosi e viziosi, colti e stolti, galantuomini e criminali. Delle quattro cause basilari delle vicende cosmiche, tre sono aproairetiche: natura (q.v.), necessità (q.v.), fortuna (q.v.), ed una sola, appunto la proairesi, ha per natura, per necessità e per fortuna il destino di essere il destino di se stessa.
I,1,22-23; I,2,32-33; I,4,18; I,6,40; I,8,10; I,8,16; I,12,3; I,12,7; I,12,9; I,17,21; I,17,26; I,18,1; I,18,8; I,18,16-17; I,19,8; I,19,15; I,22,10; I,25,1; I,27,10; I,28,21; I,29,1-3; I,29,8; I,29,12; I,29,47; I,30,1; I,30,4; II,1,6; II,1,12; II,2,2; II,5,3; II,5,5-6; II,6,25; II,8,15; II,10,1; II,10,25; II,10,27; II,10,29; II,15,1; II,16,1; II,16,16; II,21,7; II,21,10; II,21,12; II,21,19-20; II,21,26; II,21,29; II,23,4; II,23,11; II,23,15-17; II,23,19-20; II,23,22; II,23,40-41; III,1,39-40; III,1,42; III,2,1; III,2,13; III,3,4; III,3,8; III,3,10; III,4,9; III,5,2; III,5,7; III,10,18; III,14,7; III,14,10; III,16,1; III,18,3; III,19,2; III,22,41; III,22,102-103; III,22,105; III,23,5; III,23,10; III,24,1; III,24,75; III,25,5; III,26,23-24; III,26,33; III,26,35; IV,4,22-23; IV,5,5; IV,5,11; IV,5,23; IV,5,32; IV,7,28; IV,12,7; IV,12,12; IV,13,14; IV,13,21; E4,1; E5,1; E9,1; E10,1; E13,1; E27,1; E30,1

PROAIRETICO: traduce l’aggettivo προαιρετικός (‘proairetikòs). Tutto ciò ch’è proairetico è in nostro esclusivo potere e nessuno può sottrarcelo né procacciarci quel che di esso noi non disponiamo. Beni e mali dell’uomo sono entità esclusivamente proairetiche.
 I,4,1; I,17,23; I,19,23; I,22,18; I,28,18; II,1,5; II,1,9; II,1,29; II,1,40; II,10,8; II,13,10; II,23,9-10; II,23,12-13; II,23,15; II,23,23; II,23,25; II,23,27; III,3,14-15; III,3,19; III,5,4; III,6,7; III,7,4-5; III,8,1; III,11,2; III,12,8; III,18,1; III,22,13; IV,1,40; IV,1,84; IV,1,100; IV,4,18; IV,4,33; IV,7,8; IV,10,8; IV,12,15

PRÒNOIA: vedi MENTE DELLA MATERIA IMMORTALE

RAGIONE, ma anche ‘citazione’, ‘discorso’, ‘dottrina’, ‘facoltà logica’, ‘lezione’, ‘linguaggio’, ‘parola’, ‘ragionamento’: in contesti diversi traducono il sostantivo λόγος(‘lògos’). Per gli Stoici, com’è noto, il cosmo nella sua interezza è retto dal Lògos; e il Lògos può essere inteso come un movimento incausato, eterno, inarrestabile, che inerisce a qualunque forma di essere, dal più semplice ed infimo fino al più grande e complesso, vivente e non vivente. Può, dunque, qualcosa non essere permeato dal Lògos? No, nulla può esserlo. Per fare un esempio: nei minerali il Lògos prenderà il nome di ‘forza coesiva’; nei vegetali di ‘facoltà vegetativa’; negli animali bruti di ‘animo’; nell’uomo di ‘proairesi’; nel cosmo di ‘prònoia’.
I,3,3; I,5,1-2; I,7,1; I,7,5; I,7,8-9; I,7,11-12; I,7,22; I,7,26-27; I,7,30; I,7,33; I,8,1; I,8,10; I,9,5; I,9,23; I,10,6; I,12,26; I,16,15; I,17,1-3; I,20,1; I,20,5; I,20,14; I,20,19; I,25,11; I,27,6; I,29,28; I,29,56; I,30,7; II,2,16; II,2,20; II,8,2; II,8,8; II,9,21; II,10,2; II,12,1; II,12,14; II,15,1; II,15,4; II,16,2; II,16,7; II,17,30; II,17,39; II,18,8; II,18,29; II,19,1; II,19,17; II,20,26; II,20,31; II,20,34-36; II,21,12; II,21,22; II,22,21; II,23,1; II,23,14; II,23,40; II,24,19; II,24,26; II,25,2; II,26,4; III,1,13; III,1,36; III,2,3; III,2,10; III,2,17; III,6,1; III,6,9; III,9,18-20; III,12,13; III,13,8; III,13,11-12; III,17,1; III,23,14; III,23,19-20; III,23,28; III,24,7; III,24,16; III,24,22; III,24,38; III,24,76; III,24,103; III,24,108; III,24,110; III,24,116; III,26,15; III,26,39; IV,1,104; IV,1,133; IV,1,140; IV,1,143; IV,1,170; IV,3,4; IV,5,21; IV,6,12-13; IV,6,31; IV,7,6; IV,7,38; IV,8,12; IV,9,5; IV,9,8; IV,9,10; IV,11,3-4; IV,11,26; IV,11,29-30; IV,11,33; IV,12,23; E1,1; E16,1; E32,3; E33,3; E33,16; E44,1; E46,2; E48,3; E49,1; E51,1; E51,3; Fr. I

RAGIONEVOLE: traduce l’aggettivo ελογος (‘éulogos’). Ragionevole è tutto ciò che non contraddice se stesso. Siccome nella natura non esistono contraddizioni, tutto ciò ch’è aproairetico è ragionevole; così com’è ragionevole tutto ciò che di proairetico è in armonia con la natura delle cose.
I,2,2-8; I,6,31; III,1,11; III,7,7; III,13,21; IV,6,25; IV,6,28; Fr. III

REPULSIONE: traduce il sostantivo φορμή (‘aformé’). In contesti diversi, che in questa breve nota non sono però tenuti in considerazione, il sostantivo φορμήsignifica invece ‘movente’, o ‘risorsa’. La repulsione è la quarta delle sei opere cardinali della proairesi, ed è l’opposto dell’impulso (q.v.) Repulsione è il nome che prende l’avversione quando l’azione umana sia considerata limitatamente al campo del ‘doveroso’, ossia là dove si gioca la partita di ciò che per l’uomo è confacente a) in quanto semplice animale, b) in quanto animale inserito in un certo ambiente naturale e c) in quanto uomo in relazioni naturali o acquisite con altri uomini. Anche la repulsione è ‘proairetica’, e di essa dobbiamo servirci correttamente così da essere al riparo dalle aberrazioni, per agire con posizionamento, con razionalità, senza trascuratezza, né fuori tempo, né fuori luogo e salvaguardare così la nostra cooperatività nelle relazioni con i nostri simili: ad esempio, nella pulizia personale, o nella stoltezza di rispondere con l’offesa all’offesa di un nostro fratello, senza tenere minimamente conto della relazione naturale che ci lega a lui.
I,4,9; I,4,11; I,21,2; III,2,1-2; III,7,34; III,12,13; III,22,36; IV,4,28; IV,12,14; Fr. I

RISPETTO DI SÉ E DEGLI ALTRI: traduce il sostantivoαδώς (‘aidòs). La proairesi è rispettosa di sé e degli altri allorquando opera la diairesi (q.v.) e dunque si mantiene in armonia con la natura delle cose (q.v.). La proairesi che perde il rispetto degli altri, ossia il retto giudizio su tutto ciò che aproairetico, perde automaticamente e nello stesso istante il rispetto di se stessa. Ed è vero anche il contrario, giacché la proairesi che perde il rispetto di sé, perde con ciò stesso il rispetto degli altri. Nella riproduzione sessuale, i vegetali e gli altri animali, tanto per fare un esempio, fondono cellule a ciò per natura destinate dei rispettivi rispettabilissimi corpi viventi. Ma soltanto gli uomini virtuosi sanno intrecciare le loro libere proairesi e i loro corpi palpitanti.
I,3,4; I,5,5; I,5,9; I,25,4; I,28,20-21; II,20,25; II,22,30; III,3,9; III,14,13; III,22,15; IV,5,21; IV,8,33; IV,9,9; Fr. X

SOGGETTO A COSTRIZIONE: traduce l’aggettivoναγκαστός (‘anankastòs’). Tutto ciò ch’è aproairetico è soggetto a costrizione, ossia a subire la forza coercitiva di qualunque cosa più potente di lui. Qualora alcuni individui sentano questi discorsi, ossia che si deve esser saldi e che la proairesi è qualcosa di libero per natura e di non soggetto a costrizioni mentre il resto è soggetto a impedimenti, a costrizioni, è servo, è allotrio; ebbene immaginano di dover mantenere inviolabilmente ogni loro determinazione. 
I,17,27; II,5,8; II,15,1; III,24,3; IV,1,58; IV,1,78; IV,4,33

SMANIA: traduce il sostantivo πιθυμία (’epithumìa’). La smania è ‘proairetica’ ed è riconosciuta come una delle passioni fondamentali del tetracordo, laddove le altre tre sono: afflizione, ebbrezza e paura. La smania è un’anticipazione, ed è il desiderio inquieto, violento, senza riserva, irrazionale di quello che si opina essere in prospettiva un bene. Qualora poi si centrino le cose per le quali smaniavamo, alla smania subentra un’altra passione, ossia l’ebbrezza (q.v.). Tutte queste passioni sono il risultato di un atteggiamento della proairesi in contrasto con la natura delle cose. 
II,1,10; II,16,45; II,18,8-9; III,9,21; III,15,7; III,15,11; III,19,5; IV,1,174-175; IV,4,1; IV,9,5; IV,13,22; E29,3

STOLTEZZA: traduce il sostantivo φροσύνη (‘afrosùne’). In Epitteto il termine ‘stoltezza’ è sistematicamente citato insieme col, ed opposto al, termine ‘saggezza’. Stoltezza è l’azione della proairesi umana che dichiara non essere in suo esclusivo potere ciò ch’è proairetico, ed essere in suo esclusivo potere ciò ch’è aproairetico.
I,20,6; III,13,19

ZEUS: vedi MATERIA IMMORTALE. 
Ζεύς : Zeus è semplicemente il nome che Epitteto e gli Stoici danno all’insieme di tutta la Materia Immortale di cui è formato il cosmo, ossia la divinità.
I,1,9-10; I,1,16-17; I,1,23; I,3,1-2; I,4,31; I,5,5; I,6,10; I,6,13; I,6,24; I,6,37; I,6,40; I,7,26; I,9,1; I,9,5-7; I,9,13; I,9,16; I,9,24; I,12,6; I,12,25; I,13,3-4; I,14,1; I,14,3; I,14,6; I,14,9-11; I,14,14; I,16,7; I,16,14; I,16,17; I,16,20; I,17,15; I,17,19; I,17,27-28; I,18,1; I,19,9; I,19,11; I,22,15-16; I,24,1; I,25,3; I,25,5; I,27,8; I,27,13; I,29,13; I,29,17-19; I,29,29; I,29,46; II,1,7; II,5,12; II,7,11; II,7,13; II,8,1-2; II,8,7-8; II,8,14; II,8,17-19; II,8,22-23; II,8,26; II,11,7; II,12,20-21; II,16,26; II,16,42; II,16,44; II,16,46; II,17,22; II,17,25; II,17,29; II,18,13; II,18,19; II,18,29; II,19,26-27; II,19,29; II,20,23; II,20,27; II,22,6; II,23,3; II,23,5; II,23,42; II,24,25; III,1,29; III,1,37; III,3,10; III,4,7-8; III,7,19; III,7,36; III,8,6; III,11,3-6; III,13,4-5; III,13,7; III,20,4; III,21,18; III,22,23; III,22,34; III,22,56-57; III,22,59; III,22,69; III,22,82; III,22,95; III,24,16; III,24,19; III,24,24; III,24,65; III,24,110; III,24,112; III,24,117; III,25,3; III,26,30-31; IV,1,90; IV,1,98-99; IV,1,131; IV,3,9; IV,4,7; IV,4,21; IV,4,29; IV,4,34; IV,4,39; IV,4,48; IV,5,15; IV,6,5; IV,7,20; IV,7,35; IV,8,30; IV,8,32; IV,12,11; Fr. IV; Fr. VIII; E22,1; E53,1

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La proairesi e il mistero della “Pala di Brera”

La proairesi e il mistero della “Pala di Brera” di Piero della Francesca (circa 1470)

Un frammento del libro XI° dei “Ricordi” di Marco Aurelio è particolarmente significativo per dare una nuova interpretazione del famoso e misterioso uovo che pende dal catino absidale della Pala di Brera.

La cosiddetta ‘Pala di Brera’ è un celebre dipinto su tavola attribuito a Piero della Francesca o alla sua scuola, databile intorno al 1470 e raffigurante la Madonna col Bambino, sei santi, quattro angeli e il duca Federico II da Montefeltro. Il dipinto pervenne a Brera nel 1810 dalla chiesa di San Bernardino a Urbino.

Varie ipotesi sono state proposte sul significato del misterioso uovo di struzzo sospeso al catino absidale, che sarebbe da intendere come simbolo cristiano dei quattro elementi (secondo vari accenni in tal senso contenuti nella letteratura medioevale) e simbolo della creazione, poiché con questo valore viene usualmente appeso nelle chiese dell’Abissinia e dell’Oriente cristiano. Di conseguenza, nel dipinto sarebbe evidente l’allusione alla nascita di Guidobaldo da Montefeltro la cui madre, Battista Sforza, morta nel 1472, fu sepolta proprio in San Bernardino.

Sempre a proposito del mistero dell’uovo, non è da tacere che esso richiama pure l’idea rinascimentale dello spazio centralizzato, perfettamente armonico e simmetrico. Anche il ripristino ideale della struttura originaria della Pala trova sostegno nel fatto che l’uovo appeso sopra il trono si qualifica come centro geometrico della composizione completa: a ribadire, in certo modo, il collegamento con l’assoluta simmetria vagheggiata dai rinascimentali.

Si legga ora il frammento di Marco Aurelio e si tenga a mente che l’italiano ‘di fulgida luce’ traduce l’aggettivo greco ‘augoeidès’ il quale significa basilarmente ‘che ha la natura della luce’ e quindi ‘luminoso’, ‘splendente’, ‘fulgido’.

“Sfera di fulgida luce è l’animo quando non si distenda su qualcosa, non si contragga in sé, non si esalti, non si deprima ma brilli di quella luce con la quale vede la verità delle cose tutte e quella che in lui è”.

Marco Aurelio, libro XI° dei “Ricordi”, frammento.

L’aggettivo ‘augoeidès’ è usato sei volte -delle quali però soltanto due sono rilevanti ai fini del presente discorso- negli Stoicorum Veterum Fragmenta.

In un primo frammento di Galeno (SVF II,219,10) il quale fu, tra l’altro, medico personale di Marco Aurelio, l’aggettivo è riferito al sostantivo ‘astri’, per dire: ‘gli astri hanno natura e sono fonte di luce, sono secchi e dotati di estrema intelligenza’.

In un secondo frammento sempre di Galeno (SVF II,231,20), l’aggettivo è riferito al sostantivo ‘pneuma’, per dire: ‘la facoltà visiva si dissolve quando lo pneuma che ha natura di luce cessi di affluire, in parte o del tutto, (agli occhi) dalla sua causa (arkè) cerebrale’.

Ora, come è stato ben dimostrato da molti studiosi, l’elenco canonico delle 4 cause (arkài) basilari di tutti gli eventi del cosmo, in Aristotele e nella seguente tradizione filosofica, è questo: proairesi (proàiresis), natura (fùsis), necessità (anànke), fortuna (tùke).

È del tutto evidente che il secondo frammento di Galeno avvalora l’interpretazione che ad avere natura di luce e dunque ad essere sorgente di essa non sono le tre restanti cause basilari, ma la causa basilare ‘proairesi’, che viene anche correttamente localizzata come avente sede nel cervello. È dunque la ‘proairesi’ dell’uomo ad essere ‘augoeidès’.

Il primo frammento di Galeno, poi, conferma questa interpretazione in quanto, secondo la tradizione filosofica cui ci stiamo riferendo, anche il cosmo ha una ‘proairesi’ avente la stessa natura di luce. È questa ‘proairesi’ del cosmo che fa splendere gli astri, li fa intelligenti; come quella dell’uomo ne fa splendere gli occhi e gli permette vista e intelligenza. Se ne può concludere che ad essere ‘augoeidès’ è anche la ‘proairesi’ del cosmo.

Chiediamoci ora: come rappresentare pittoricamente questa concezione della ‘proairesi’ del cosmo e dell’uomo? Certamente, nella pittura antica, come una sfera di fulgida luce.

Passano dodici secoli. Mutano genti e linguaggi e l’oblio stende le sue ali inesorabili.

È fuori discussione che nel Quattrocento fosse in pieno sviluppo in Occidente il poderoso movimento di recupero della tradizione greca, legato alle critiche vicende che attraversava in quel periodo Costantinopoli, assediata e conquistata dagli Ottomani. Ci si risveglia, dunque, dopo secoli e ci viene insegnato che in greco moderno e popolare ‘avgà’ indica adesso le ‘uova’ e l’aggettivo ‘avgoeidès’ significa ‘che ha forma di uovo’, ‘ovale’.

I pittori non devono fare anche i filologi. Se Piero della Francesca o chi per lui, tramite i suoi più che colti amici, è venuto a conoscenza del fatto che l’uomo e il cosmo hanno una ‘proairesi’, ne ha compreso il valore e se, nel corso di tante discussioni gli è stata sempre offerta la ovvia e popolare traduzione dell’aggettivo ‘avgoeidès’, perché avere dei dubbi? Dipingerà la Pala di Brera e metterà al suo centro, tanto geometrico che filosofico, l’oggetto-simbolo di ciò che nell’uomo e nel cosmo è più possente e li fa splendere.

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I RICORDI – COMMENTO

COMMENTO A MARCO AURELIO

[ I,1 ] La famiglia di Marco Annio Vero, nonno paterno di Marco Aurelio, era originaria di Succubi, nei dintorni di Cordova, in Spagna. M. Annio Vero era nato probabilmente intorno al 65 d.C., apparteneva al rango senatoriale e fu per ben tre volte console: console sostituto nel 97 d.C. sotto l’impero di Nerva; nel 121 e nel 126 d.C. console ordinario sotto quello di Adriano. Fece inoltre stabilmente parte, per parecchi decenni, del circolo dei consiglieri più intimi dell’imperatore. 
Sposò Rupilia Faustina e ne ebbe tre figli: Marco Annio Vero, del quale Marco Aurelio sarà figlio nel 121 d.C.; Marco Annio Libone e Annia Galeria Faustina. Quest’ultima, dunque zia di Marco Aurelio, sposerà il futuro imperatore Antonino Pio ed è comunemente indicata come ‘Faustina maggiore’. 
M. Annio Vero era una persona economicamente ricchissima e politicamente molto influente. All’origine della sua potenza economica stavano le numerose fabbriche di laterizi delle quali era proprietario, ed è certamente questa potenza che portò poi la famiglia degli Antonini al potere imperiale nel 138 d.C. Se si ragiona comunemente e si considera che M. Annio Vero fu suocero di un imperatore -Antonino Pio-, e nonno di un altro -Marco Aurelio-, non si può non ammettere che la sua carriera sia stata uno straordinario successo politico. 
Oltre che abilissimo nel gioco della politica, sappiamo che M. Annio Vero era un fuoriclasse anche nel gioco della palla (gioco in cui si dilettò volentieri anche Marco Aurelio da giovane), tanto da essere considerato uno dei migliori giocatori del suo tempo.
Quando il padre di Marco Aurelio morì, questi fu adottato proprio da M. Annio Vero, suo nonno, e con lui convisse a lungo nel suo palazzo di Roma, nei pressi del Laterano.
M. Annio Vero morì quasi certamente nel 138 d.C.

[ I,2 ] Il padre di Marco Aurelio si chiamava, esattamente come il nonno, Marco Annio Vero. A differenza del nonno, del padre di Marco Aurelio si sa pochissimo. Non l’anno della nascita e neppure l’anno della morte, poiché alcuni datano quest’ultima al 124 d.C., anno in cui egli ricoprì la carica di Pretore, mentre altri la datano intorno al 129 d.C. Sappiamo che sposò Domizia Lucilla e che da lei ebbe due figli: nel 121 d.C. Marco Aurelio e poco dopo una bambina, cui fu dato il nome di Annia Cornificia Faustina. 
Le parole di questo frammento sono in ogni caso una testimonianza inequivocabile del fatto che Marco Aurelio non ha un ricordo cosciente, diretto, di suo padre.

[ I,3 ] Domizia Lucilla, la madre di Marco Aurelio, apparteneva ad una famiglia la cui fortuna economica, come quella di M. Annio Vero, era legata alle fabbriche di laterizi.
Tutto era cominciato circa un secolo prima con Cneo Domizio Afro, oratore assai noto ed originario della città di Nimes, nella Gallia. Quando egli morì, nel 59 d.C., ad ereditarne tutte le proprietà furono i suoi due figli adottivi: Cneo Domizio Lucano e Cneo Domizio Tullo. Nessuno poteva allora immaginare che le fabbriche di laterizi rappresentassero una vera e propria miniera d’oro e invece, a partire dal 64 d.C., col famoso incendio di Roma sotto Nerone e poi, nei decenni successivi, fino a Traiano e ad Adriano, tutte le attività di costruzione e di ricostruzione di Roma, e non soltanto di essa, conobbero un periodo di espansione permanente e prodigiosa. Ma andiamo con ordine.
C. Domizio Lucano sposò una figlia di Curtilio Mancia, uomo di grande ricchezza economica e di rango consolare, e da questo matrimonio nacque una bambina, Domizia Lucilla, futura nonna materna di Marco Aurelio. Accadde poi che per motivi ignoti, anche se immaginabili, il suocero Curtilio Mancia prese a detestare il genero C. Domizio Lucano ed entrò con lui in un dissidio tanto grave da legare tutta la sua fortuna in eredità alla nipote Domizia Lucilla a patto che essa fosse emancipata e dunque uscisse dalla potestà del padre, l’odiato C. Domizio Lucano. 
Domizia Lucilla fu effettivamente emancipata, ma fu allora adottata da C. Domizio Tullo, fratello, come abbiamo detto, di C. Domizio Lucano. E così rimase frustrato il proposito di Curtilio Mancia poiché i due fratelli, mantenendo indivise le loro proprietà, attraverso l’adozione riportarono Domizia Lucilla e la sua larga fortuna sotto il controllo del padre. Insomma, questi due fratelli sembravano destinati ad essere coperti d’oro da coloro che invece avevano scopi del tutto contrari.
C. Domizio Lucano morì intorno al 94 d.C., lasciando unico erede il fratello C. Domizio Tullo. Questi, a sua volta, morì intorno al 108 d.C., e lasciò unica erede la figlia adottiva Domizia Lucilla, la quale venne così a trovarsi in possesso di una fortuna immensa. Quando a Roma succedevano queste cose, come ci informa dettagliatamente in una sua lettera Plinio il giovane, a lungo non si pettegolò d’altro. 
Questa ricchissima ereditiera, Domizia Lucilla (indicata anche come ‘maggiore’ e nonna materna di Marco Aurelio) sposò in seconde nozze Calvisio Tullo, anch’egli persona di rango consolare. Dal loro matrimonio nacque una figlia che prese lo stesso nome della madre, Domizia Lucilla, e che sarà appunto la madre di Marco Aurelio. Sarebbe difficile immaginare un matrimonio d’interesse meglio assortito di quello tra M. Annio Vero e Domizia Lucilla ‘minore’. Alla coppia non dovevano certo fare difetto né le proprietà né i mezzi finanziari.
Quando M. Annio Vero morì, Domizia Lucilla non si risposò e rimase sempre vicina al figlio Marco Aurelio. Ella morì tra il 155 e il 161 d.C., senza vedere suo figlio diventare imperatore.

[ I,4 ] Si ammette comunemente che il bisnonno del quale parla qui Marco Aurelio sia il bisnonno materno Catilio Severo. Ma esattamente per via di quale parentela Catilio Severo possa esserlo stato è un problema che gli storici e gli eruditi non hanno ancora risolto, e che probabilmente rimarrà per sempre un mistero. In ogni caso, è lo stesso Marco Aurelio ad assicurarci che questo bisnonno ha giocato un ruolo decisivo nella sua educazione.
Catilio Severo apparteneva ad una famiglia originaria della Bitinia. Prima del 110 d.C. ricoprì varie cariche di modesto prestigio ma poi, a partire da quell’anno, la sua figura emerse in primissimo piano. Fu console sostituto nel 110 d.C., legato di Traiano in Armenia e Cappadocia, governatore della Siria nel 117 d.C., console ordinario con Antonino Pio nel 120 d.C., prefetto di Roma tra il 134 e il 138 d.C. e, quest’anno, addirittura possibile successore di Adriano.
Lo speciale interesse che Adriano manifestò per il giovane Marco Aurelio, da lui soprannominato ‘Verissimus’, si spiega verosimilmente anche con il fatto che Marco Aurelio aveva come nonno M. Annio Vero e come bisnonno Catilio Severo, due figure di assoluto rilievo nel circolo degli intimi dell’imperatore.

[ I,5 ] Nulla ci è noto di questo precettore di cui non conosciamo neppure il nome, e che doveva vegliare sulla salute fisica e morale di Marco Aurelio bambino. 
Verde ed Azzurro erano i colori di due delle principali scuderie che si contendevano la vittoria nelle corse dei cavalli. Palmulari e Scutari erano due delle categorie in cui erano suddivisi i gladiatori del Circo.

[ I,6 ] L’educazione elementare di Marco Aurelio fanciullo continuò sotto la guida di Diogneto, dal quale sappiamo che imparò a dipingere. Anche di questo suo primo maestro poco o nulla è noto, salvo che egli non è identificabile con il destinatario di un’operetta apologetica cristiana intitolata ‘Lettera a Diogneto’.
Pochissimo sappiamo anche dei tre personaggi dei quali a Roma Marco Aurelio, per suggerimento di Diogneto, frequentò le conferenze pubbliche. Bacchio è con ogni probabilità un filosofo di scuola platonica originario della città di Pafo, nell’isola di Cipro. Tantaside e Marciano, se si tratta di nomi esatti, sono personaggi o sconosciuti o non identificabili. 

[ I,7 ] Giunio Rustico era uno dei massimi eredi e depositari della grande tradizione stoica in onore presso una parte dell’aristocrazia romana. Ad esempio suo nonno, Giunio Aruleno Rustico, era stato addirittura condannato a morte e fatto uccidere da Domiziano nel 93 d.C. per avere osato difendere la memoria di Trasea Peto scrivendo la verità sulle vicende che lo portarono al suicidio.
Nato probabilmente intorno al 100 d.C., sappiamo che Giunio Rustico fu console sostituto nel 133 d.C., prefetto di Roma dal 160 al 168 d.C. e console ordinario nel 162 d.C. 
Grazie alle notizie contenute nella corrispondenza di Marco Aurelio con Frontone, è verosimile supporre che Giunio Rustico abbia iniziato ad esercitare un’influenza significativa su Marco Aurelio nel 146 d.C. Da quell’anno in poi -essendo Marco Aurelio già ‘Cesare’, marito di sua cugina Annia Galeria Faustina, padre, diretto collaboratore dell’imperatore Antonino Pio- i loro rapporti si fecero molto stretti e continui, anche se essi furono a volte assai burrascosi. È sicuramente grazie a Giunio Rustico che Marco Aurelio ebbe il fondamentale incontro con l’insegnamento di Epitteto, ossia la rivelazione di cosa sia davvero la filosofia. Ed è addirittura possibile, benché non provato, che Giunio Rustico fosse stato uno dei tanti giovani allievi romani di Epitteto a Nicopoli, e che le ‘Memorie’ che Marco Aurelio qui cita siano in realtà gli appunti che Giunio Rustico aveva preso personalmente a quelle lezioni.

[ I,8 ] La reputazione di Apollonio doveva essere notevole se fu scelto da Antonino Pio per dare una formazione filosofica a Marco Aurelio. Apollonio era molto probabilmente originario di Calcedonia, città della Bitinia non lontana dall’attuale Costantinopoli. Filosofo stoico di professione e non uomo di Stato, pare che il suo insegnamento a Marco Aurelio, insegnamento del quale nulla conosciamo nei dettagli, sia da situare negli anni intorno al 150 d.C.
Nel corso del suo viaggio verso l’Italia, sappiamo che Apollonio sostò ad Atene e che, una volta giunto a Roma, si rifiutò però di recarsi a tenere le sue lezioni nel palazzo di Tiberio sul Palatino, dove Marco Aurelio abitava, affermando: ‘Il maestro non deve andare dal discepolo, ma è il discepolo che deve andare dal maestro’. Al che si racconta che l’imperatore Antonino Pio abbia argutamente fatto notare: ‘Per Apollonio è stato più facile venire da Calcedonia a Roma che venire da casa al palazzo di Tiberio’.

[ I,9 ] Sesto era un greco originario di Cheronea, città della Beozia non molto lontana da Delfi. Sappiamo anche con certezza che uno dei suoi zii era il famoso poligrafo Plutarco, scrittore di tendenze platoneggianti ed acerrimo nemico degli Stoici, autore delle notissime ‘Vite parallele’.
Filosofo e non uomo di Stato, Sesto fu maestro di Marco Aurelio intorno al 161 d.C., ossia subito prima e subito dopo l’ascesa di quest’ultimo al potere imperiale. Marco Aurelio, allora quarantenne, parla di sé in quegli anni come di un uomo che comincia ad invecchiare, ed un aneddoto ci racconta la risposta che egli diede ad un altro filosofo, di nome Lucio, al quale era capitato di incontrarlo mentre si recava, con al collo le tavolette di cera degli studenti, a lezione da Sesto. Alla richiesta di dove si recasse e per quale scopo, Marco Aurelio rispose: ‘Vado da Sesto per imparare quello che ancora non so’.
Sullo stoicismo di Sesto, sul suo stampo derivato da Epitteto e sul rilievo che il suo insegnamento ebbe per Marco Aurelio abbiamo molte testimonianze. Quando un personaggio notissimo, che aveva visto la morte della figlia Panatenaide e della moglie Regilla, perse anche la figlia Elpinice e piangendo disperatamente chiedeva quali offerte potesse ormai consacrarle e cosa potesse seppellire con lei, si racconta che Sesto dicesse: ‘Le farai una grande offerta se, nel lutto, manterrai la padronanza di te stesso’.

[ I,10 ] Si ritiene che l’attuale città turca di Kütahya sia situata là dove sorgeva un tempo l’antica Cozieo, nella Frigia Ellespontica. Questa è, se non quella d’origine, sicuramente la città nella quale Alessandro aveva la sua scuola di grammatica greca, di esegesi dei testi e di critica letteraria. Conosciamo anche il nome, e sono giunte fino a noi alcune delle opere, di almeno uno dei suoi più celebri allievi. La fama della scuola era dunque tale che non è sorprendente se essa giunse fino a Roma. Alessandro ‘il grammatico’ fu così scelto da Antonino Pio per insegnare la lingua e la letteratura greca a Marco Aurelio allora quattordicenne, intorno al 135 d.C.
Alessandro ‘il grammatico’ morì probabilmente intorno al 150 d.C. 

[ I,11 ] Marco Cornelio Frontone era di almeno vent’anni più anziano di Marco Aurelio. Era nato a Cirta, l’odierna città algerina di Costantina e allora colonia romana, poco prima del 100 d.C. Dopo gli studi ad Alessandria d’Egitto venne a Roma, dove seppe farsi largo acquistando presto rinomanza come avvocato ed oratore. Raggiunto il rango senatoriale, ricoprì alcuni incarichi pubblici, ma soprattutto si acquistò il favore di Adriano e di Antonino Pio tanto che intorno al 135 d.C. gli fu affidata l’educazione letteraria e retorica in lingua latina di Marco Aurelio, allora quattordicenne. Certamente fu questo suo ruolo ad aprirgli più tardi le porte di un breve consolato, nell’estate del 143 d.C.
Frontone godette presso i contemporanei la fama di sommo oratore e gli fu assegnato, nella storia dell’eloquenza latina, un posto secondo, forse, soltanto a quello di Cicerone. Nonostante ciò, delle sue opere si era da millenni completamente persa ogni traccia fino alla fortunata scoperta da parte di Angelo Mai, agli inizi del 1800, di alcuni libri della sua corrispondenza privata con Marco Aurelio ed altri personaggi politici di primo piano. Questa corrispondenza copre gli anni che vanno dal 139 al 167 d.C. ed è stata di grande importanza per svelarcene un po’ meglio le qualità professionali ed umane. Frontone morì intorno al 170 d.C.

[ I,12 ] L’Alessandro che qui Marco Aurelio chiama “il Platonico” era in realtà meglio conosciuto con il soprannome di “Platone d’argilla”, ed era originario di Seleucia della Cilicia, l’attuale città turca di Silifke. Sappiamo che Alessandro era individuo di un fascino certamente non comune: gradevolissimo d’aspetto, curato nella persona fino ai minimi particolari e di grandissima abilità oratoria. Era un perfetto esemplare dei sofisti allora alla moda: viaggiatore indefesso, conversatore brillantissimo, capace di tenere conferenze di città in città sugli argomenti più disparati e spesso scelti all’ultimo momenti dagli stessi uditori. 
Anche se alieno a questo genere di declamazioni, Marco Aurelio non dovette essere insensibile alle qualità di Alessandro, tanto che lo nominò suo segretario personale ‘ab epistulis graecis’, ossia incaricato di tutta la corrispondenza imperiale in lingua greca. Questo ufficio fu con ogni probabilità ricoperto da Alessandro tra il 170 e il 175 d.C., che viene anche comunemente ritenuto l’anno della sua morte.

[ I,13 ] Di Cinna Catulo non conosciamo altro che la citazione che qui ne fa Marco Aurelio, ed una seconda che lo indica puramente e semplicemente come filosofo stoico. 
Domizio potrebbe essere, ma al riguardo non vi è alcuna certezza, Cneo Domizio Afro, il famoso oratore e lontano progenitore della madre di Marco Aurelio.
Atenodoto è invece sicuramente una persona di cui Frontone parla nelle sue lettere e di cui si sa che fu, come Epitteto, discepolo di Musonio Rufo.

[ I,14 ] Claudio Severo Arabiano era nato molto probabilmente nel 113 d.C., mentre il padre era Governatore romano della Provincia d’Arabia. La famiglia, di rango senatoriale, era originaria di Pompeiopoli di Paflagonia, città dell’entroterra turco non lontana dalla moderna Sinop. Sappiamo che egli fu console ordinario sotto Antonino Pio nel 146 d.C. e, forse, Prefetto della città di Roma.
Claudio Severo era un filosofo di scuola aristotelica e quando Marco Aurelio decise di familiarizzarsi con la filosofia peripatetica, che allora significava essenzialmente familiarizzarsi con gli studi che oggi si chiamerebbero di ‘Scienze Naturali’ (Botanica, Zoologia, Anatomia Comparata, ecc.), prese lezioni da lui. D’altra parte il celebre Galeno, che fu medico personale di Marco Aurelio, ci conferma che anche il figlio di questo Claudio Severo assisteva alle sue lezioni di anatomia. Proprio questo figlio di Claudio Severo sposò, intorno al 163 d.C., la figlia primogenita di Marco Aurelio, figlia che portava anch’essa il nome di sua madre e di sua nonna ossia quello di Annia Galeria Faustina. Questo matrimonio fece dunque sì che i legami tra le due famiglie, com’è verosimile, diventassero assai stretti. 

[ I,15 ] Claudio Massimo è un personaggio storicamente assai ben conosciuto. Nato probabilmente intorno al 100 d.C., filosofo stoico, senatore, tra il 132 e il 155 d.C. ricoprì molte e diverse cariche pubbliche, essendo console sostituto nel 141-142 d.C. e proconsole d’Africa nel 158-159 d.C. In quanto proconsole d’Africa fu lui a giudicare nel famoso processo ‘per magia’ intentato contro Apuleio di Madaura.
Nel corso degli anni in cui visse a Roma, Claudio Massimo sembra essere stato intimamente legato alla famiglia imperiale, e la sua morte avere rappresentato un avvenimento intensamente vissuto da Marco Aurelio.

[ I,16 ] Successore di Adriano, l’imperatore Antonino Pio era nato nell’86 d.C. a Lanuvio, poco a sud di Roma, ai piedi dei Colli Albani. Fu, tra molti altri incarichi, console nel 120 d.C. e proconsole d’Asia nel 135-136 d.C. Adriano lo adottò pochi mesi prima di morire, nel 138 d.C., ed Antonino Pio resse l’impero per 23 anni, fino al 161 d.C. 
Era sposato con Faustina ‘maggiore’, zia di Marco Aurelio, il quale fu da lui adottato nel 138 d.C. per espressa volontà di Adriano. Da allora Marco Aurelio, che era rimasto orfano di padre in tenerissima età, lo considerò e lo onorò a tutti gli effetti come il proprio padre.

[ I,17 ] Cos’è immortale nel cosmo? Null’altro che il cosmo stesso ossia la Materia della quale esso è costituito. E nell’uomo? Il suo corpo, in quanto Materia Immortale del cosmo eternamente destinata a continue trasformazioni e combinazioni. Se usata rettamente, la ragione umana è allora in grado di concepire di sé e del cosmo quelle rappresentazioni felicitanti, generose, liberatorie ed aderenti alla natura delle cose che si possono anche chiamare ‘dei’.

*****

[ II,1 ] La giornata di un imperatore, sembra dirci Marco Aurelio, non è molto diversa da quella di uno qualunque di voi.
Tutti i vizi degli esseri umani, infatti, sono forme del giudizio che bene e male sono entità esterne ed aproairetiche, così come tutte le loro virtù sono forme del sapere che bene e male sono unicamente giudizi ossia entità proairetiche. Questa è la natura delle cose: inviolabile, eterna, invariante; e pertanto l’uomo non può fare del bene o del male ad altri che a se stesso.
Da stoico, Marco Aurelio ha chiara coscienza del fatto che tutti gli esseri umani sono partecipi di una medesima ragione, che sono tutti congeneri e destinati alla cooperazione, non all’odio reciproco. 
Pur vivendo tutti secondo natura, la differenza tra saggi ed insipienti consiste allora in ciò: che il virtuoso vive secondo natura e in armonia con la natura delle cose, mentre il vizioso vive secondo natura ma in contrasto con la natura delle cose.

[ II,2 ] ‘Proairesi’ nella prevalente terminologia di Epitteto, ed ‘egemonico’ nella prevalente terminologia di Marco Aurelio, sono sostantivi del tutto equivalenti e intercambiabili. 
Cos’è la proairesi? La proairesi, o egemonico, è la facoltà logica degli esseri umani in quanto facoltà autoteoretica capace di atteggiarsi in armonia con la natura delle cose ossia ‘diaireticamente’, oppure in contrasto con la natura delle cose ossia ‘controdiaireticamente’. Essa è la causa basilare di tutte le azioni responsabili dell’uomo ed è, in un certo senso, l’uomo stesso. Tra tutti gli esseri viventi, finora l’unico animale ad essere ‘proairetico’ è proprio l’uomo. 
Marco Aurelio lo afferma con decisione e riafferma qui che la proairesi, o egemonico, è l’unica facoltà umana capace di parlare a se stessa, di esaminarsi e di decidere se essere serva ed infelice oppure libera e felice.

[ II,3 ] Cos’è la Prònoia? Molti sono i modi in cui la Prònoia può essere definita: come mente della Materia Immortale; come la proairesi, o egemonico, del cosmo; come il ‘logos’ che lo pervade; come le leggi inviolabili, eterne, invarianti che manifesta; come la razionalità che gli inerisce e che da esso è inseparabile come sono inseparabili i poli positivo e negativo di un magnete.
Nel solco della tradizione fissata da Aristotele e condivisa dagli stoici, in questo frammento anche Marco Aurelio sottoscrive il giudizio che quattro sono le cause basilari degli eventi cosmici e le presenta nella loro sequenza tradizionale: Proairesi umana e Prònoia cosmica, Natura, Necessità, Fortuna. 
Queste quattro cause basilari e le loro relazioni reciproche potrebbero forse essere illustrate con un esempio di questo genere: che un seme sia un seme è Prònoia; che un seme di grano generi una pianticella di grano è Natura; che una pianticella di grano sia distrutta da una furiosa grandinata è Necessità; che la grandine cada proprio su quella pianticella è Fortuna.

[ II,4 ] L’uomo che rimanda di fare questi conti e non li fa in questa vita, non avrà più una seconda possibilità. Quali conti? 
Se le parole del frammento non fossero ancora abbastanza eloquenti, basta riflettere su parole come queste di Epitteto: ‘Voi vi mettete in viaggio per Olimpia per vedere lo Zeus di Fidia e ciascuno di voi crede una sfortuna morire senza averlo visto. E laddove non c’è neppure bisogno di mettersi in viaggio, ma dove Zeus è già e presenzia con le opere, queste non smanierete di osservarle e di capirle? Quindi non vi accorgerete né di chi siete, né del per che cosa siete nati, né di cos’è quest’opera alla cui visione siete stati invitati?’

[ II,5 ] L’uomo può essere in vita, ma può affermare in senso proprio di ‘vivere’ unicamente ‘da quando a quando’ la sua proairesi si afferma per quello che è per natura: libera, infinita, inasservibile, insubordinabile. Per affermarsi ‘vivente’ alla proairesi basta dunque fare una operazione sola: quella di atteggiarsi diaireticamente, ossia operare la diairesi. 
Cos’è la diairesi? Basterà dire, come Epitteto ha insegnato anche a Marco Aurelio, che la diairesi è un supergiudizio e precisamente il giudizio che sa distinguere quanto è in nostro esclusivo potere e quanto invece non è in nostro esclusivo potere. 
Dobbiamo allora usare gli oggetti esterni, quanto non è in nostro esclusivo potere, insomma i normali materiali dell’esistenza, casualmente e con trascuratezza o addirittura rifiutare di usarli? Nient’affatto! Anzi, dobbiamo imparare ad usarli con estrema solerzia, poiché il loro uso non è indifferente, e insieme con stabilità di giudizio e dominio sullo sconcerto, poiché il materiale non fa differenza.
Siccome una e medesima è la ragione del cosmo e la ragione dell’uomo, la diairesi innalza pertanto l’uomo al livello di un dio e ‘vivere’ non può che diventare sinonimo di ‘vivere da dio’.

[ II,6 ] È noto che per gli Stoici l’animo umano può essere distinto in otto parti: i cinque sensi (vista, udito, olfatto, gusto, tatto), la parte legata alla fonazione, la parte legata alla sessualità e la proairesi o egemonico.
Con caratteristico procedimento retorico, Marco Aurelio impiega in questo frammento, e userà più volte in seguito, una sineddoche, e indica il tutto (l’animo) per indicare la parte (la proairesi). È infatti incontrovertibile che la sola facoltà autoteoretica dell’animo umano è la proairesi e che soltanto essa è in grado di scegliere di oltraggiarsi. 
Quando la proairesi oltraggia se stessa? Quando si afferma per quello che per natura non è, ossia quando si atteggia controdiaireticamente.
E cos’è la controdiairesi? Basterà anche qui dire che è il supergiudizio, esattamente contrario alla diairesi, che afferma in nostro esclusivo potere quanto non è in nostro esclusivo potere oppure non essere in nostro esclusivo potere quanto invece è in nostro esclusivo potere. 
Porre nelle proairesi altrui la propria buona sorte, ossia far dipendere la propria felicità dagli altri è caratteristico di una proairesi che si atteggia controdiaireticamente e questo, appunto, non può che renderci schiavi.

[ II,7 ] La vita in senso proprio dell’uomo è strettamente legata allo stato della sua proairesi. Egli, infatti, ‘vive’ quando la sua proairesi è atteggiata diaireticamente, mentre è ‘in vita’ quando la sua proairesi è fisiologicamente spenta, come nel sonno, oppure ‘da quando a quando’ essa si nega per quello che è, e si atteggia controdiaireticamente. Marco Aurelio ci offre qui la rappresentazione di due modi a lui ben noti, da imperatore, in cui la proairesi si atteggia controdiaireticamente, ossia di due modi di essere ‘in vita’ senza ‘vivere’. 
Il primo è quello di lasciarci talmente distrarre dagli avvenimenti esteriori da immedesimarci in essi, giudicandoli in nostro esclusivo potere. Il secondo è quello di estraniarcene al punto tale da decidere di perdere ogni contatto con essi. Chi legge attentamente il frammento si accorgerà che Marco Aurelio suggerisce nel contempo anche i corrispondenti rimedi.

[ II,8 ] L’uomo, finora unico tra tutti gli animali, non soltanto usa le rappresentazioni ma ha anche la comprensione del loro uso, giacché è stato dotato dalla natura di ragione, è ‘Homo proaireticus’. Questo lo pone nella condizione di conoscere bene e male, felicità e infelicità, a seconda dell’uso che la sua proairesi fa di se stessa. 
Se i vegetali non hanno rappresentazioni, gli altri animali hanno invece certamente rappresentazioni e le usano ma, pur facendo di esse un uso anche raffinatissimo, non hanno la comprensione dell’uso che ne fanno. Essi sono pertanto creature aproairetiche, esseri non dotati di ragione. Questo esclude che si possa parlare a loro riguardo di bene e di male, di felicità e infelicità.

[ II,9 ] La natura esiste ed essa fu, è, sarà eternamente onnicomprensiva. Con l’uomo viene all’esistenza anche la ‘natura delle cose’, che consiste nella essenziale bipartizione di quel tutto eternamente onnicomprensivo che è la natura o cosmo, in entità aproairetiche ed in entità proairetiche. La peculiare natura dell’uomo è tutt’uno con la conoscenza e la pratica delle conseguenze di questa fondamentale diairesi. 
Marco Aurelio poi afferma, in verità più da imperatore che da filosofo, che nessuno può impedirci di fare o dire ciò che consegue alla nostra natura di uomini. Dovrebbe invece dire, con Epitteto, che non soggetto ad impedimento è soltanto il desiderio, o l’impulso, o l’assenso a fare e dire ciò che consegue alla nostra natura di uomini, giacché laddove vi è bisogno del corpo e della sua collaborazione noi possiamo sempre esserne impediti dalle più svariate e imprevedibili circostanze. 

[ II,10 ] È noto che secondo gli Stoici tutte le aberrazioni degli uomini sono ugualmente gravi. Se, infatti, non c’è una verità che sia più vera di un’altra, non ci sarà neppure una falsità che sia più falsa di un’altra, e lo stesso vale per le aberrazioni. E così non si trova a Nicopoli tanto chi ne dista un miglio quanto chi ne dista cento, ed è destinato ad annegare tanto chi resta un metro quanto chi resta cinque metri sott’acqua.
Marco Aurelio invece, più da seguace di Aristotele che di Crisippo, mostra qui di concordare con Teofrasto, il quale vede una differenza tra l’aberrazione di una proairesi come quella di Medea, che aberra per rancore, ed una, come quella di Fedra, che aberra per smania. 
Teofrasto è il noto filosofo di Ereso, nell’isola di Lesbo, nato intono al 372 a.C. e morto intorno al 286 a.C., che successe ad Aristotele nella direzione della scuola Peripatetica.

[ II,11 ] La natura è immortale. L’uomo è mortale. Al perenne flusso della divina natura, di cui l’uomo è parte, inerisce una razionalità, la Prònoia o Logos, della quale la ragione dell’uomo partecipa con la Proairesi. L’armonia dell’uomo con la natura non può pertanto stabilirsi che quando la proairesi sia in armonia con la Prònoia. 
È possibile questa armonia? Questa armonia è possibile quando la proairesi dell’uomo si atteggia diaireticamente, ossia quando riconosce la differenza tra ciò che è aproairetico e ciò che è proairetico: nel presente caso, tra natura e Prònoia (entità aproairetiche) ed i giudizi che essa ha su natura e Prònoia (entità proairetiche). Se la proairesi giudicasse che natura e Prònoia sono ‘male’, in quanto la destinano alla morte, implicherebbe per sé il progetto di contrastare qualcosa che essa stessa invece ha già definito incontrastabile. Se giudicasse che esse sono ‘bene’, in quanto l’hanno chiamata alla vita, implicherebbe l’esistenza al di fuori di sé di un bene da lei stessa già definito irraggiungibile, così come la parte non può essere il tutto. Dunque la retta proairesi deve giudicare che natura e Prònoia non sono né bene né male, ma ‘indifferenti’ per la propria felicità o infelicità, e comportarsi di conseguenza. 
Ed è possibile la disarmonia? La disarmonia dell’uomo con la natura delle cose, ossia della proairesi con la Prònoia, è facilissima da ottenere. Basta giudicare che natura e Prònoia siano ‘male’ o siano ‘bene’. E dunque anche, ancora più semplicemente, che vita, gloria, piacere fisico, ricchezza di denaro siano ‘bene’, con le inevitabili disillusioni conseguenti; e che i loro contrari: morte, discredito, dolore fisico, povertà di denaro, siano ‘male’, con l’inevitabile infelicità che li accompagna. 

[ II,12 ] Epitteto afferma che tutte le cose aproairetiche sono deboli, serve, soggette ad impedimenti, periture e, soprattutto, che non sono né beni né mali, ma materiali indifferenti dai quali la proairesi può trarre il proprio bene o il proprio male a seconda dell’uso che ne fa.
Tra le cose aproairetiche rientra anche la morte, la paura della quale è tutt’uno con il giudizio che essa sia un male. La morte, invece, non soltanto è un’opera della divina natura ma è anche utile ad essa. L’uomo la cui proairesi è atteggiata diaireticamente e che quindi non ha paura della morte sarà anche, per conseguenza, divinamente atteggiato.

[ II,13 ] Per vivere bene, in modo eticamente adeguato, non basta imparare la sostanza del bene e del male, le misure di desideri ed avversioni, di impulsi e repulsioni, di assensi e dissensi e, usando queste come canoni, governare quotidianamente i fatti della vita? Non sono, in un certo senso, da commiserare coloro che giudicano indispensabile conoscere se esiste il bosone di Higgs per vivere bene? 
Nessuna scoperta può dare alla proairesi, al demone che è dentro di noi, la felicità che le viene dal sapere di nutrire retti giudizi e di essere per natura libera, infinita, inasservibile e insubordinabile.
La citazione poetica viene da un frammento di Pindaro (V° secolo a.C.).

[ II,14 ] Siccome né il passato né il futuro ci appartengono e noi viviamo in un eterno presente, non si può essere felici che nella vita che si vive. E si può esserlo anche nel corso di una vita brevissima, così come si può non esserlo anche nel corso di una vita lunghissima.

[ II,15 ] Monimo il cinico era nato a Siracusa e visse nel IV° secolo a.C. Fu allievo di Diogene e seguì molto da vicino anche Cratete, avendone gli stessi propositi. Conquistò tale reputazione che il poeta comico Menandro ne fece menzione in una commedia della quale Marco Aurelio cita qui un frammento. Monimo, si racconta, si sentì superiore alla gloria ed ebbe il gusto di dire e di sentir dire soltanto la verità.

[ II,16 ] Poiché il cosmo è natura onnicomprensiva, nessuna particolare natura in esso compresa può essergli estranea o contraria. Pertanto nulla di ciò che accade nel cosmo può avvenire e dirsi ‘contro natura’. La vita è ‘secondo natura’ tanto quanto lo è la morte, e sono secondo natura tanto la salute quanto la malattia, tanto un ascesso quanto un tumore. 
Questo vale pienamente anche nel caso dell’uomo. Inveire contro gli avvenimenti, cercare di danneggiare un altro, lasciarsi vincere dal piacere o dal dolore, fingere, mentire, agire a casaccio, ma anche uccidere per piacere, torturare per lucro, inquinare l’ambiente, e così via non sono affatto atteggiamenti ‘contro natura’ ma pienamente ‘secondo natura’ ed ai quali il cosmo assiste con sovrana, eterna indifferenza, senza esserne minimamente scalfito. 
Ma esiste, allora, una peculiare natura dell’uomo? E se essa esiste qual è? 
Se l’uomo è, come in effetti è, ‘Homo proaireticus’, la sua peculiare natura sarà da ricercarsi in ciò che lo differenzia da tutti gli altri animali: e questa differenza è la proairesi. Natura della proairesi è quella di essere libera, infinita, inasservibile e insubordinabile, ed essa salvaguarda questa sua peculiare natura soltanto mantenendosi in tale stato. Per mantenersi in tale stato la proairesi deve scegliere di atteggiarsi diaireticamente, ossia deve scegliere di riconoscere pienamente la differenza tra ciò che è in suo esclusivo potere e ciò che non lo è, e dunque rispettare la ‘natura delle cose’.
È in esclusivo potere della proairesi anche atteggiarsi controdiaireticamente, negare la propria natura, aberrare, oltraggiarsi. Oltraggiarsi è ‘contro natura’? Assolutamente no. Oltraggiarsi è ‘secondo natura’. Ma la proairesi che si oltraggia è esattamente la proairesi che fallisce la diairesi tra ciò che è in suo esclusivo potere e ciò che non lo è, che fallisce il rispetto della ‘natura delle cose’, che aberra. E la ‘natura delle cose’ non è stata scritta né dall’uomo né dalla sua proairesi, ma è la legge inviolabile scritta da quella che qui Marco Aurelio chiama ‘ragione e statuto della città e del regime primigenio’, ossia la Prònoia del cosmo, ovvero dalla mente della Materia Immortale, e che può essere letta e interpretata soltanto dall’uomo.

[ II,17 ] Questo frammento finale del secondo libro è con tutta evidenza strutturato in due parti ben distinte, corrispondenti ai due possibili atteggiamenti del demone interiore dell’uomo, ossia della sua proairesi; parti che ruotano intorno ad un asse rappresentato dalla domanda che ne sta al centro.
Nella prima parte la proairesi confessa, con tono accorato e dolente, come essa vede se stessa e il mondo quando è atteggiata controdiaireticamente. In questo stato si potrebbe dire che essa non ha altra certezza che quella di non avere certezze: tutto è instabile, degradato, incomprensibile, vano. In tre parole: male e infelicità.
Ora, siccome ogni proairesi cerca per sua inviolabile natura il proprio bene e non il proprio male, essa è necessitata a porsi la domanda centrale: esiste la scienza della felicità?
La seconda parte del frammento è la risposta a questa domanda. La scienza della felicità non soltanto esiste, ma è addirittura l’unica vera scienza concessa all’uomo. Basta che la proairesi muti i propri giudizi aberranti e pervertiti in retti giudizi e riconosca di essere per natura libera, infinita, inasservibile, insubordinabile, atteggiandosi diaireticamente.
Se nella prima parte la proairesi era schiacciata sull’infelicità in quanto atteggiata secondo natura ma contro la natura delle cose, la felicità della seconda parte consegue al suo atteggiamento secondo natura e secondo la natura delle cose.

*****

[ III,1 ] Appare esservi una sostanziale differenza tra il ‘vivere’ e l’essere ‘in vita’. Affinché l’uomo ‘viva’, la sua proairesi deve essere pienamente funzionante ed atteggiata diaireticamente. L’uomo è invece semplicemente ‘in vita’ quando la sua proairesi è fisiologicamente spenta, come nel sonno; quando è pienamente funzionante ma è atteggiata controdiaireticamente; e quando un trauma o una qualunque malattia degenerativa alteri radicalmente o impedisca il funzionamento della proairesi in quanto facoltà, pur assistendosi alla permanenza di tutte o molte delle altre facoltà vegetative ed animali. Già per Marco Aurelio, il quale parla qui non in astratto ma di se stesso, il deperimento e la morte della proairesi dell’uomo possono precedere la morte del corpo.

[ III,2 ] La natura si mostra maestra inarrivabile anche in particolari del tutto accessori delle proprie opere. 
Con sovrana imparzialità essa dona a Marco Aurelio una disastrosa inondazione del Tevere che distrugge molte case di Roma, fa annegare un gran numero di animali, causa una severa carestia e il vezzoso sorriso dei fanciulli; gli orrori di una guerra contro i Quadi e i Marcomanni e i colori dell’autunno; i raccapriccianti spettacoli di una epidemia di peste e le screpolature del pane fragrante; la schiuma e il sangue che gorgogliano da gole strozzate e le spighe di grano mature e incurvate fino al suolo. 
Con eguale sovrana indifferenza, la natura dà a ciascuno di noi le risorse necessarie per odiarla, maledirla ed esecrarla oppure giudicare in ogni circostanza dove stiano il bene ed il male.

[ III,3 ] Ti sei imbarcato, hai navigato, sei approdato: è ora di sbarcare. Quello che adesso tocca a Marco Aurelio è toccato e toccherà a tutti gli uomini, sapienti e insipienti, virtuosi e viziosi. Come sappiamo, per lo stoico la morte non è né un bene né un male, in quanto fatto aproairetico che si disegna nel quadro di eventi necessari e naturali da non temere.
Di fronte alla morte non è dunque la proairesi, qui chiamata ‘mente e demone’, del sapiente Marco Aurelio ma piuttosto la proairesi del Marco Aurelio che dorme intruppato fra le turbe degli insipienti quella che può parlare con sufficienza e con disprezzo del corpo umano, ossia della Materia Immortale che esprime la proairesi stessa, come di un sozzo e spregevole recipiente. 
Tutti i personaggi citati nel frammento sono notissimi e non richiedono precisazioni.

[ III,4 ] ‘Un desiderio che non fallisce e un’avversione che non incappa in quanto intende evitare. Un impulso conveniente, che sa accordarsi abilmente con ciò che è doveroso e una repulsione secondo la natura delle cose, libera dall’errore. Un assenso non precipitoso né sconsiderato e un dissenso meditato e fermo’.
Ecco il ritratto dell’uomo virtuoso, di colui che ha imparato ad usare quotidianamente la diairesi.

[ III,5 ] Dentro di me una proairesi raggiante, atteggiata diaireticamente e dunque dotata delle risorse per accettare qualunque sfida.

[ III,6 ] Chi giudica che i delinquenti, i ladri, i politicanti, i ricchi di denaro siano uomini giusti, veritieri, temperanti, virili, ha l’obbligo di fare di tutto per diventare come loro ed essere il primo dei delinquenti, il primo dei ladri, il primo dei politicanti e un Creso.
Chi, invece, giudica che le virtù proprie dell’uomo stiano in una proairesi rettamente operante, capace di disciplinarne gli assensi, i desideri e gli impulsi e che in questo consistano giustizia, verità, temperanza e virilità, fa inevitabilmente altre scelte.
Dove cercare il canone che permette di portare a termine questa indagine con sicurezza e scegliere la strada giusta? Da nessun’altra parte che nella natura delle cose, laddove la ragione umana sa leggere quello che la Prònoia vi ha scritto e riconoscere la differenza fra ciò che è utile all’uomo in quanto semplice animale e ciò che gli è utile in quanto creatura razionale. 

[ III,7 ] La natura concede all’uomo di far assumere alla sua acropoli interiore, la proairesi, uno schieramento controdiairetico ossia contrario alla natura delle cose, oppure diairetico cioè in armonia con la natura delle cose. Le armi della controdiairesi sono slealtà, odio, sospetti, ipocrisia. Quelle della diairesi sono franchezza, libertà, serenità, felicità.

[ III,8 ] Nell’acropoli dei retti giudizi nulla è purulento, sudicio o fradicio. La retta proairesi, che Marco Aurelio designa qui con il semplice termine ‘intelletto’ è ‘natura viva’, e soltanto colui che ha atteggiato la sua proairesi diaireticamente, anche una sola volta nel corso dell’esistenza, può dire di avere conosciuto la vita. 

[ III,9 ] A fare retta la proairesi è la concezione di retti giudizi. Retti sono i giudizi in armonia con la natura delle cose, senza precipitazione nell’assentire, senza avversione per gli uomini, senza repulsione per ciò che è immortale.

[ III,10 ] Se non si getta alle spalle tutti i giudizi errati, la proairesi che rimanda a domani, poi a dopodomani, quindi a postdopodomani l’uso della diairesi non conquista un terreno neutro ma rimane saldamente in terreno controdiairetico. Sappiamo che l’assillo della fama presente e postuma, dell’opinione che gli altri hanno e avranno di noi era fortissimo in Marco Aurelio. Ed esso è caratteristico di una proairesi atteggiata controdiaireticamente, giacché fa dipendere il proprio bene e il proprio male da cose per noi aproairetiche come i giudizi altrui.

[ III,11 ] È noto che gli stoici hanno abbandonato al loro destino numerosi capisaldi della filosofia classica facendo svanire, ad esempio, l’autonomia del concetto e la trascendenza delle idee, la distanza tra l’essenza dei fenomeni e la loro conoscenza sensibile. Per gli stoici, la definizione di un oggetto o di un evento è tutt’uno con la sua descrizione e raggiunge l’essenza di esso, che risiede nel nesso causale tra il singolo evento e la totalità degli eventi cosmici. Per gli stoici, dunque, la corretta descrizione di un oggetto o di un evento di cui abbiamo la rappresentazione non afferra soltanto i suoi aspetti esteriori (dimensioni, modalità, tempi, ecc.) ma coglie insieme l’ordine causale, ossia la trama universale in cui il singolo oggetto o evento è inscritto e nel quale si definisce. 
Essenziale affinché la proairesi dell’uomo operi secondo la natura delle cose è pertanto il suo saper riconoscere dinanzi ad ogni oggetto od evento da quale delle quattro cause basilari esso provenga: dalla divinità o natura, dalla necessità, dalla fortuna, dalla proairesi; così da potersi atteggiare correttamente di fronte ad esso. Qualora, un evento provenga a noi da un’altrui proairesi atteggiata controdiaireticamente e dunque ignorante della natura delle cose -ad esempio un insulto che ci viene rivolto da un’altra persona-, la retta proairesi descrive a se stessa che qualcuno ci sta insultando ma non da il suo assenso alla rappresentazione che qualcuno ci stia facendo del male. Perciò non se ne lascia sconvolgere e non si sposta a sua volta in terreno controdiairetico ribattendo all’insulto con l’insulto, ma si mantiene saldamente in terreno diairetico e tratta ciò che è aproairetico, ossia tanto l’autore dell’insulto quanto l’insulto, secondo il suo valore. 

[ III,12 ] Chi vive bene? Se il falegname diventa falegname imparando certe cose e il pilota diventa pilota imparando certe cose, vivrà bene colui che impara le cose necessarie per vivere bene. Per vivere bene l’uomo deve conoscere la natura delle cose ed essere in armonia con essa. La natura delle cose è la inviolabile, maschia, ‘romana’, come la chiama qui da imperatore Marco Aurelio, verità. Essa è verità con la quale è essenziale che la nostra proairesi sia in armonia eseguendo qualunque attività. E siccome la proairesi è per natura libera, infinita, inasservibile, insubordinabile, nulla e nessuno può impedirle di atteggiarsi come essa dispone: tant’è vero che turbe sterminate di esseri umani rifiutano di riconoscere la natura delle cose e vivono il male.

[ III,13 ] Occorre tenere sempre ben presente che delle quattro cause basilari degli eventi cosmici, tre sono divine ossia non in nostro esclusivo potere: natura, fortuna, necessità; e una è in nostro esclusivo potere: la proairesi.

[ III,14 ] Forse è il caso di abbandonare tutte le vuote speranze e di soccorrere se stessi.

[ III,15 ] Vedere con gli occhi della testa e vedere con gli occhi della proairesi.

[ III,16 ] Il caldo e il freddo, il dolce e l’amaro sono sensazioni percepite da qualunque animale. Gli stimoli a bere, a mangiare, a dormire, ad accoppiarsi sono propri di tutti gli animali. Propria ed esclusiva dell’essere umano è invece quella facoltà autoteoretica, la proairesi, che lo fa capace di comprendere l’uso delle rappresentazioni ed alla quale tutte le altre facoltà sono subordinate. Pertanto il peggior delinquente e l’uomo virtuoso hanno entrambi come signora e duce la loro proairesi. La differenza tra di loro consiste unicamente nel modo in cui la usano. 

*****

[ IV,1 ] L’insipiente va a fare un bagno e s’infuria e si consuma in frivole altercazioni con coloro che sulla spiaggia spruzzano, spintonano, ingiuriano. Il saggio va a fare un bagno dicendo prima a se stesso: ‘Dispongo di fare un bagno ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose: e tale non la serberò se m’infurio e mi consumo in frivole altercazioni con coloro che spruzzano, spintonano, ingiuriano’. 
Questa è la ‘riserva’ che contraddistingue la diairesi, ed è per questo che la proairesi del saggio, atteggiata secondo diairesi, è puro fuoco interiore capace di trarre dagli avvenimenti luce, felicità e bellezza; laddove la proairesi dell’insipiente, atteggiata secondo controdiairesi, è invece una lucerna destinata a languire ed essere spenta dal trambusto e dal fracasso degli eventi aproairetici che le si accumulano sopra. 

[ IV,2 ] Chi dispone di apprendere l’arte di vivere bene non deve imparare altro che l’uso quotidiano e sistematico della diairesi.

[ IV,3 ] Dove stanno felicità ed infelicità? Le turbe di insipienti microimperatori che vanno sotto il nome di cittadini credono fermamente che l’infelicità stia dentro l’uomo e sia causata da eventi a lui esterni ed aproairetici e che la felicità stia fuori dell’uomo e si trovi nel possesso di cose anch’esse esterne ed aproairetiche da ricercarsi in campagna, ai monti, al mare oppure nel diventare imperatore.
La natura delle cose è invece diversa e vieta inviolabilmente che felicità e infelicità stiano altrove che nella proairesi degli esseri umani. Questo è il motivo per cui il mero fatto di essere imperatore non equivale ad essere felice e per cui anche un imperatore, puramente e semplicemente come tale può, e forse deve, essere insipiente tanto quanto quei suoi concittadini. 
Marco Aurelio non potrebbe fare e non fa eccezione. E però egli ammette di aver sentito dire da Epitteto che, per un imperatore cui manca il coraggio di dire pubblicamente come stanno le cose, l’unico modo per trovare qualche momento di felicità è quello di avere retti giudizi sull’impero e quindi di ritirarsi il più spesso possibile da uomo libero, da cittadino del mondo, nel campicello della propria proairesi; dove potrà riscoprire continuamente che a fare infelice l’uomo non sono né l’insipienza di quei microimperatori, né gli accidenti assegnatigli dalla fortuna, né le passioni del corpo né la scarsità delle lodi altrui bensì il giudizio che queste cose esterne ed aproairetiche possano essere bene o male. 
Soltanto chi ha imparato ad atteggiare la propria proairesi in modo diairetico, ossia secondo quei retti giudizi che soli definiscono e rispettano la natura delle cose, trova le brevi e semplici massime indispensabili per vivere bene in questo mondo di microimperatori e di imperatori, anche se dovesse passare gli anni abbandonato e occulto tra uno stuolo di malevoli.

[ IV,4 ] Se, come l’uomo continuamente sperimenta, nulla viene dal nulla e neppure ritorna nel nulla, allora ciò che esiste ha perenne sussistenza e dunque il cosmo è Materia Immortale le cui trasformazioni non comportano né creazione né annullamento. Il movimento incausato, eterno, inarrestabile, generativo di queste continue trasformazioni è appunto quella dimensione della Materia Immortale che può essere correttamente chiamata logos o mente o Prònoia o egemonico o proairesi del cosmo e della quale la proairesi ragionante dell’uomo è come un’immagine, avendone la medesima natura.
Una volta assodata la mente come una delle facoltà della Materia, che poi la cosmologia di Marco Aurelio si fondi sull’esistenza di soli quattro elementi: terra, aria, acqua e fuoco; invece che di circa un centinaio di specie atomiche presenti nell’universo in percentuali quantitativamente variabili, fa assai poca differenza. 

[ IV,5 ] La nascita e la morte di qualunque cosa sono eventi opposti ma non contraddittori, e rappresentano l’eterna aggregazione e dissoluzione dei medesimi elementi e della medesima energia senza la scomparsa di neppure un solo quanto di essi.

[ IV,6 ] Il cosmo è tale per cui ogni cosa che in esso vi nasce è necessariamente destinata a morire, e da ogni cosa che vi muore un’altra è necessariamente destinata a nascerne.

[ IV,7 ] Il danno è, per l’uomo, il giudizio di essere stato danneggiato.

[ IV,8 ] Ciò che è aproairetico può uccidere la proairesi umana ma non farle danno, e dunque nulla di aproairetico ha il potere di rendere un individuo peggiore o migliore.

[ IV,9 ] La proairesi sceglie sempre ed inviolabilmente ciò che ad essa appare essere il proprio utile.

[ IV,10 ] Il solo retto giudizio che la proairesi umana può e deve pronunciare dinanzi a qualunque evento aproairetico in quanto tale è che esso è indifferente, che esso non è né bene né male. Pertanto, ad esempio, l’eruzione del Vesuvio che seppellì Pompei circa un secolo prima che Marco Aurelio scrivesse questo frammento può certamente essere concepita come ‘conseguenza’ di leggi naturali, ma certamente né a queste né all’eruzione del Vesuvio si attaglia l’attribuzione di essere ‘giusta’ o ingiusta, secondo ‘giustizia’ o in contrasto con la giustizia. 
Laddove invece tutto ciò che accade come ‘conseguenza’ accade anche secondo ‘giustizia’ e mai secondo ingiustizia, è nell’ambito degli eventi proairetici. Qui, nella proairesi dell’essere umano e soltanto in essa, tutto ciò che accade accade giustamente, in quanto premio e punizione, virtù e vizio, felicità e infelicità sono tutt’uno con l’atteggiamento, diairetico o controdiairetico, che essa assume. Pertanto la proairesi che rifiuta di riconoscersi per natura delle cose libera, infinita, inasservibile, insubordinabile e si atteggia in modo controdiairetico ha con ciò stesso già snaturato e punito se stessa. 

[ IV,11 ] Che differenza c’è tra chi oltraggia e chi è oltraggiato se le loro proairesi sono entrambe mosse dalla controdiairesi?

[ IV,12 ] Giulio Capitolino racconta nella ‘Storia Augusta’ che nel 138 d.C., quando l’allora diciassettenne Marco Aurelio seppe di essere stato adottato da Adriano fu atterrito e non allietato dalla notizia; e che quando gli fu intimato di recarsi ad abitare nella casa privata di Adriano lasciò la casa materna con estrema riluttanza. Ed a chi gli chiedeva perché egli fosse triste per l’adozione imperiale, Marco Aurelio enumerò le disgrazie e i mali che può contenere in sé il potere imperiale. È dunque certo, grazie anche altre evidenze, che Marco Aurelio non ambì all’impero ma che fu scelto dalla sorte per quella carica. 
Ora, chi giudica che diventare imperatore sia un bene in quanto intrinsecamente produttivo di felicità propria e altrui, come giudicano le turbe di microimperatori insipienti che non sanno di cosa parlano e vanno sotto il nome di cittadini, smanierà e bramerà, benché invano, una simile carica e toccherebbe il cielo con un dito se gli toccasse di ricoprirla. 
Chi giudica che diventare imperatore sia un male, in quanto intrinsecamente ostativo alla felicità propria e altrui, farà di tutto per evitare tale carica per sé e soprattutto, senza avere coscienza della terribile contraddizione in cui si dibatte, riterrà giusto che la aborrano gli altri e tenderà ad istituirsi come minoranza fanaticamente regicida fino all’esilio o alla morte. 
Chi giudica invece che l’impero, come qualunque altra cosa esterna e aproairetica, non sia di per sè né un bene né un male, accetterà eventualmente la decisione della sorte e dimostrerà, se ne è capace, come si conduce in simili circostanze un uomo educato ad usare la diairesi e capace di vivere da libero in questo mondo. 
Questo è il rischio che Marco Aurelio, a diciassette anni e con il batticuore, ha accettato di correre. Pur non essendo dotato, come egli stesso ammette, di un intelletto particolarmente brillante, vivendo a corte egli deve avere nel corso del tempo capito che la sorte lo aveva immerso in una fogna maleodorante, mefitica e che gli aveva affidato un lavoro più sporco di quello del pulitore dei più sudici cessi. Sul fatto che egli sia riuscito o meno a rendere decorosamente pulite le chiaviche che la sorte gli aveva affidato in custodia ognuno ha il diritto di avere la propria opinione. In ogni caso Marco Aurelio non ha rifiutato il lavoro, e le testimonianze storiche sono prevalentemente concordi nel valutare positivamente il suo operato, dandogli atto che egli, con le capacità che aveva, nelle condizioni e nei tempi che gli erano concessi, primo e forse unico nella storia si è sforzato di interpretare il proprio ruolo di augusto custode del merdaio, come quello di colui che può giovare agli uomini principalmente creando loro il minor numero di difficoltà e di complicazioni possibili in vista di un retto uso della proairesi e che è pronto ad accogliere qualunque suggerimento si dimostri il migliore a questo scopo.

[ IV,13 ] Per essere liberi, ossia felici, è sufficiente avere una retta proairesi.

[ IV,14 ] Tu sei un refolo di vento nell’aria di primavera. C’è qualcosa di strano in questo?

[ IV,15 ] Tu sei una fiammella nel caminetto. C’è qualcosa di strano in questo?

[ IV,16 ] Tu sarai venerato come un dio dagli insipienti se userai, come loro e più di loro, la controdiairesi. C’è qualcosa di strano in questo?

[ IV,17 ] La virtù, come il vizio, è soltanto nel presente.

[ IV,18 ] Il virtuoso è apportatore di luce, di vitalità, di semplicità, di chiarezza, di calore.

[ IV,19 ] La fama presso i posteri è qualcosa di proairetico o di aproairetico? È essa in mio esclusivo potere o non è in mio esclusivo potere? A queste domande chiunque risponderebbe correttamente che la fama presso i posteri è qualcosa di aproairetico, qualcosa che non è in mio esclusivo potere. È dunque da sapienti o da insipienti trascurare lo stato della propria proairesi per preoccuparsi della propria fama presso i posteri?

[ IV,20 ] Questa preziosa testimonianza di Marco Aurelio certifica che ormai da migliaia di anni è invalso comunemente in Occidente l’uso di chiamare ‘belli’ oggetti esterni ed aproairetici, invece di riservare l’aggettivo ‘bello’, com’è corretto fare, esclusivamente alla virtù e alle sue opere, ossia alla proairesi atteggiata diaireticamente. Questo accade perché e quando è spezzato nelle turbe degli esseri umani il collegamento tra virtù ed atti di giudizio. Essi credono che l’infelicità sia causata dagli oggetti esterni e rechi l’impronta della loro inevitabilità, giacché hanno perso il senso della verità seguente: non la morte mi fa infelice, bensì l’errato giudizio che la morte sia un male. 
L’uso di massa scorretto e improprio dell’aggettivo ‘bello’ segnala inoltre drammaticamente la devastante contraddizione nella quale si dibatte la proairesi umana atteggiata controdiaireticamente, giacché essa tradisce in questo modo la sua perdita di contatto con la natura delle cose, la quale stabilisce invariabilmente ed inviolabilmente per chiunque che il giudizio di lode o di biasimo di un evento o di un oggetto qualunque non può mai diventare una sua qualità. 

[ IV,21 ] Marco Aurelio mostra spesso, nelle sue riflessioni, un’acuta attenzione alle questioni cosmologiche e di tipo fisico-naturalistico, indubbiamente derivata anche dal suo interesse per la filosofia peripatetica e dagli studi condotti sotto la guida di Claudio Severo Arabiano. Per esempio, egli si chiede qui cosa accadrebbe se gli animi di tutte le creature viventi sopravvivessero dopo la morte. Potrebbe l’elemento aria esserne ad un certo punto saturato e non avere più spazio per il loro numero continuamente crescente? Senza bisogno di discostarsi dalla cosmologia del suo tempo, gli basta l’osservazione empirica del destino degli alimenti e dei cadaveri a convincerlo delle possibili reciproche trasformazioni dei quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco; e a permettergli di dare in questo modo risposta alla domanda.
Notevole è l’uso che Marco Aurelio fa qui per la prima volta del sostantivo ‘diairesi’, sostantivo che egli impiega soltanto tre volte in tutta l’opera. Esso significa, in questo caso, ‘distinzione’ concettuale, proairetica, tra la componente materiale, ossia i quattro elementi suddetti, e la componente causale, ossia il logos, i quali sappiamo però essere entità inseparabili in quanto aventi tra di esse lo stesso rapporto che esiste tra i due poli di un magnete.

[ IV,22 ] Per meritare l’assenso di una retta proairesi una rappresentazione deve essere catalettica, essere cioè dotata di perfetta evidenza e certezza. Se vediamo qualcuno fare un bagno frettolosamente dobbiamo assentire alla rappresentazione che qualcuno fa un bagno frettolosamente, non alla rappresentazione che qualcuno fa male il bagno. Se vediamo qualcuno bere molto vino dobbiamo assentire alla rappresentazione che qualcuno beve molto vino, non alla rappresentazione che qualcuno beve male. Prima di averne vagliato i giudizi, infatti, come possiamo sapere se sta facendo bene o male? In questo modo non ci avverrà di avere rappresentazioni catalettiche di certe cose e di assentire ad altre. Non ‘divagare’ significa appunto, in questo frammento, non perdere il contatto con la natura delle cose; il che si sostanza, nell’ambito degli impulsi e delle repulsioni, con l’esplicare ciò che Epitteto chiama in modo filosoficamente rigoroso il ‘doveroso’ e che Marco Aurelio indica qui come il ‘giusto’ e, nell’ambito degli assensi e dei dissensi, il ‘catalettico’. 

[ IV,23 ] Diceva Epitteto: “Che altro posso io, vecchio zoppo, se non inneggiare a Zeus? Se fossi un usignolo farei quel che fa un usignolo; se fossi un cigno, quel che fa un cigno. Ora, sono una creatura logica: bisogna che inneggi alla Materia Immortale. Questa è l’opera mia“. 
Il frammento poetico citato è di Aristofane e la città di Cecrope è Atene.

[ IV,24 ] La proairesi atteggiata controdiaireticamente vede il proprio bene e il proprio male fuori di sé, nelle cose esterne ed aproairetiche, e questo la costringe ad una prodigiosa moltiplicazione dell’inutile e del superfluo. Il che fa tutt’uno con la nostra incapacità di usare la diairesi e di distinguere quel poco che ci è davvero utile e necessario per vivere bene. 
Il detto proverbiale che apre il frammento è attribuito a Democrito. 

[ IV,25 ] Dopo avere fatto tanta esperienza della tragica catena di controdiairesi, vizio e infelicità, prova una buona volta ad usare la diairesi; prova a seguire le orme di un uomo virtuoso e felice!

[ IV,26 ] Gli esseri umani usano la proairesi ogni giorno e ogni ora del giorno, sia nel bene che nel male. Dunque dipende esclusivamente da me sconcertarmi o non sconcertarmi di fronte ad un avvenimento, comprenderne o fraintenderne l’origine e il significato, essere giusto o ingiusto con qualcuno.

[ IV,27 ] Un ordine immutabile, razionale, perfetto e necessario che governa e sorregge infallibilmente tutte le cose e le fa essere e conservarsi quelle che sono. Questa è, secondo Marco Aurelio, la rappresentazione del cosmo cui conducono il rigoroso materialismo e il rigoroso monismo degli Stoici. Egli la condivide e guarda al cosmo come ad un’unità organizzata e indivisibile dotata di un logos o Prònoia o egemonico del quale la proairesi o egemonico dell’uomo è come un’immagine, un riflesso del quale il virtuoso ha esperienza empirica quando, usando la diairesi, si sente ordinato e bello dentro.
Nel contempo, Marco Aurelio mostra di intendere l’ipotesi atomistica di Democrito e di Epicuro, che pure poggia anch’essa su basi rigorosamente materialistiche, come radicalmente alternativa a quella stoica, come un’ipotesi negatrice del cosmo e che prospetta l’esistente come un guazzabuglio intrinsecamente disordinato, casuale e privo di unità.

[ IV,28 ] Non c’è uno solo, fra di voi che leggete, che non sappia di chi si parla: dunque è inutile fare nomi.

[ IV,29 ] Un individuo risiede da tanto tempo in una città me ne ignora le leggi e le abitudini. Non sa di cosa qui si ha potestà e di cosa non si ha potestà. Usa desiderio ed avversione, impulso e repulsione, assenso e dissenso a casaccio, come capita e senza tener conto della natura delle cose. Vuole quanto non è dato avere e non vuole quanto è necessario. Crede di potere impunemente trasgredire il confine che separa quanto è suo peculiare e quanto è allotrio. Chi, dunque, è straniero nel cosmo?

[ IV,30 ] Il frammento evidenzia in modo esplicito e drammatico la terribile differenza che intercorre tra il vivere filosoficamente e il chiacchierare di tesi filosofiche dall’alto di una cattedra o di un trono.
Epitteto soleva ripetere che vergognoso non è non avere una tunica, un libro, di che mangiare, bensì avere una ragione incapace di liberarci dall’afflizione e dalla paura di non avere una tunica, un libro, di che mangiare. 
Io invece, pare confessare Marco Aurelio, ho tuniche, libri, pane eppure sento serrarmi il cuore, sento di non riuscire a consolarmi del tutto del mio destino quando ripenso al giorno in cui fui chiamato a scegliere tra l’accettare o il rifiutare l’adozione imperiale e la mia proairesi scelse, avevo diciassette anni e forse fu per paura e per viltà, di accettare.

[ IV,31 ] Se la mia proairesi scelse allora come scelse, parrebbe continuare Marco Aurelio, essa ha però imparato poi a coltivare l’albero della diairesi, albero dai cui rami pende anche un frutto che contiene la piccola arte di governare quanto si può e come si deve. A questa coltura essa rimarrà ormai fedele a qualunque prezzo, anche se nessuno capisce di cosa io stia parlando ed anche se nessuno mi crede.

[ IV,32 ] Tutto, infatti, è nella sua essenza sempre uguale dappertutto e noi siamo venuti al mondo non per cambiarlo ma per farvi vivere l’albero della diairesi, che cresce egualmente bene in qualunque uomo, ed esservi felici.

[ IV,33 ] Se la fama presso i posteri è puro vuoto, ecco a cosa dobbiamo rivolgere la nostra industria nell’ambito degli assensi, degli impulsi e dei desideri.

[ IV,34 ] L’offerta di sé a Cloto, la filatrice dello stame della vita umana.

[ IV,35 ] Come qualunque altra creatura, anche noi siamo esseri inevitabilmente precari.

[ IV,36 ] Tutto è in continua trasformazione.

[ IV,37 ] Tra poco sarai morto e devi riconoscere di non essere ancora al riparo da tante aberrazioni.

[ IV,38 ] Mostrami i giudizi della tua proairesi e ti dirò chi sei.

[ IV,39 ] Nulla di ciò che avviene nel cosmo può essere contro natura. Soltanto la proairesi dell’uomo può atteggiarsi non contro natura bensì contro la natura delle cose, generando così il proprio male; oppure secondo la natura delle cose, generando così il proprio bene.

[ IV,40 ] Il cosmo è un’unità, una sola creatura vivente.

[ IV,41 ] Chi può dire del corpo umano vivente, il quale è una macchina naturale meravigliosa, straordinariamente sofisticata e complessa, che è null’altro che ‘cadavere’? 
Chi può dire della proairesi che il corpo umano è capace di esprimere, la quale è per natura libera, infinita, inasservibile, insubordinabile, che è ‘animuzza’ da nulla? 
Pare di sentire queste parole uscire dalla bocca dei generali francesi i quali, vedendosi sconfitti militarmente dalle armate tedesche nel giugno del 1940, per spingere il governo del loro paese alla capitolazione e staccarlo dalla decisione britannica di continuare la resistenza contro la Germania nazista fino alla fine e a qualunque costo, assicuravano il loro Primo Ministro che nel giro di tre settimane Hitler avrebbe tirato il collo all’Inghilterra come ad un pollo. Assicurazione che il capo del Governo inglese Winston Churchill, parlando al Parlamento Canadese un anno e mezzo dopo, il 30 Dicembre 1941, poteva commentare con queste due semplici battute riferite al proprio paese: “Che pollo! che collo!” ; come se qui Epitteto dicesse: “Che animuzza! che cadavere!”
Queste sono dunque parole che si possono intendere messe da Epitteto in bocca agli insipienti, ma non sarà mai esclusa la possibilità di intenderle compuntamente come una penetrante meditazione nella quale, con immagine icastica, si raffigura il vivere come una fragile animuncola che trasporta un cadavere. Quel cadavere che sarebbe, ovviamente, l’uomo.

[ IV,42 ] Nulla di aproairetico è male o è bene.

[ IV,43 ] Lo spettacolo che abbiamo davanti è quello di un incessante e tumultuoso scorrere di eventi, nel quale la nostra proairesi può scoprire il modo di trovarsi perfettamente a proprio agio.

[ IV,44 ] Come le rose a primavera e la frutta d’estate, gli insipienti si allieteranno o si affliggeranno sempre di ciò che è esterno ed aproairetico: del pane e della morte, dei porci e della maldicenza.

[ IV,45 ] Il tema di questo frammento è certamente la generale connessione logica esistente tra premesse e conseguenze, tra antecedenti e conseguenti, ma l’indeterminatezza in cui è lasciato il soggetto ne rende ardua una comprensione univoca, lasciandolo aperto a varie interpretazioni possibili. La più semplice potrebbe essere rappresentata dall’interpretarlo come diretta continuazione del pensiero precedente e dunque come una presa d’atto del fatto, secondo Marco Aurelio inspiegabile nei termini dell’ipotesi puramente atomistica e meccanicistica di Democrito e di Epicuro, che una rosa genera sempre delle rose, un melo delle mele, e gli stupidi generano sempre infelicità. 
L’osservazione e la relativa domanda paiono ovvie e banali, ma così non è; giacché se è vero che già Marco Aurelio era in grado di rispondere scientificamente alla domanda sul perché gli stupidi sono sempre generatori di infelicità, sarebbero dovuti passare migliaia di anni prima che si riuscisse a rispondere con altrettanto rigore alla domanda sul come una rosa generi sempre delle rose e un melo dei meli.

[ IV,46 ] I vari detti di Eraclito qui ricordati da Marco Aurelio si prestano bene a condensare due tesi fondamentali degli Stoici. Il primo detto richiama l’unitarietà e la continua trasformazione del cosmo. Il filo conduttore che lega i restanti cinque è rappresentato dal corretto uso che la proairesi deve fare della ragione e richiama la tesi stoica per cui la proairesi grazie alla quale siamo felici è la stessa grazie alla quale siamo infelici.

[ IV,47 ] Le folle che fanno da sfondo in questo frammento sono quelle di coloro che non hanno mai sperimentato in vita loro cosa sia un giudizio virtuoso né cosa siano libertà e felicità, e che proiettano costantemente nel futuro l’accadere di tali ‘miracoli’ oppure li rimandano infingardamente ad un’altra vita che essi fantasticano di vivere dopo la morte. Virtù e vizio, felicità e infelicità, libertà e schiavitù sono invece nel presente, non sono questioni di tempo ma di atteggiamento della nostra proairesi.

[ IV,48 ] Molti credono che la vita umana non abbia un frutto e sia un’inutile miseria. La vita dell’uomo, invece, ha un frutto, non è un’inutile miseria. Inutile miseria è l’ignoranza che ci spinge al vizio e l’infelicità che ci fa credere di essere nulla o di essere immortali. Il frutto della vita dell’uomo è la sua libertà, la sua felicità, la sua virtù. 
Se un’oliva diventata matura potesse parlare, cadrebbe elogiando la natura che l’ha apportata e rendendo grazie all’albero che l’ha generata. All’ombra dell’albero della diairesi, anche la vita dell’uomo è un tempo irripetibile e fruttuoso che merita di essere attraversato mantenendo la nostra proairesi in armonia con la natura delle cose.

[ IV,49 ] Esclusi soltanto il primo e l’ultimo paragrafo, per convincenti ragioni principalmente lessicografiche questo frammento è da molti studiosi ritenuto una citazione autentica e diretta di parole di Epitteto, tratta da qualche opera che non ci è pervenuta. E non vi si può non ammirare lo straordinario vigore e l’incisività mozzafiato con la quale vi si rappresentano la natura delle cose e dell’uomo, e si evidenzia la proairesi nei suoi due atteggiamenti possibili di fronte a ciò che è esterno e aproairetico. 
Di Marco Aurelio sono invece la potente immagine della retta proairesi come roccioso e saldo promontorio contro il quale i flutti del mare infine si calmano e l’ammonimento finale a non credere sfortuna ciò che invece è una fortuna saper sopportare nobilmente.

[ IV,50 ] Un aiuto semplice ed efficace per non avere paura della morte è quello di comprendere fino in fondo che, tra fatiche e difficoltà di ogni genere, il fine della vita umana è quello di conoscere la natura delle cose e quindi vivere in modo ammissibile con essa, virtuosamente e felicemente. Quando questo fine sia raggiunto, non vi è differenza tra chi lascia la vita essendovi pervenuto dopo un dato numero di anni e chi lascia la vita essendovi pervenuto dopo il triplo di anni. E neppure vi è differenza tra chi muore dopo un dato numero di anni senza avere mai raggiunto quel fine e chi muore, senza averlo mai raggiunto, dopo un numero triplo di anni. Anni che sono comunque ben poca cosa rispetto all’eternità.
Cecidiano, Fabio, Giuliano e Lepido sono nomi qualunque di persone verosimilmente longeve. Nestore è il personaggio omerico, re di Pilo, cui il mito attribuisce una vita lunghissima.

[ IV,51 ] Un pressante invito di Marco Aurelio ad usare la diairesi e gli ovvi vantaggi che quest’uso comporta.

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[ V,1 ] Il silenzioso colloquio con se stesso di un essere umano nel quale si fronteggiano due principi in contrasto: uno, che lo spinge a badare unicamente al proprio ‘piacere’; e un altro, che si appella alla ‘realtà’ e cerca giudiziosamente di convincerlo ad assolvere il compito per il quale è al mondo. Alla fine, le ragioni della realtà prevalgono su quelle del piacere ed inizia così una nuova giornata di ordinario lavoro. Questa interpretazione, comunemente proposta per la comprensione del frammento, è la sola possibile? Le cose stanno davvero così? 
Chi è intimamente convinto dell’utilità e della bontà del lavoro che gli tocca fare, come una madre la quale non si lamenta mai di dover vegliare o di doversi svegliare a qualunque ora della notte per allattare al seno il suo bimbo appena nato, vivrebbe l’intimo contrasto che qui ci è testimoniato? La risposta certa ed univoca è: no! La natura delle cose, infatti, vieta inviolabilmente di ritenere una cosa giusta e di farne un’altra, di vedere un bene e di non desiderarlo, di vedere un male e di non fuggirlo. 
Se dunque Marco Aurelio è drammaticamente riluttante ad iniziare la sua giornata di ordinario lavoro è perché in realtà giudica che si tratti di un’ennesima giornata di ordinaria follia, la cui unica giustificazione risiederebbe nel fare, da imperatore, ‘azioni socievoli’ e volte al ‘bene comune’. 
Qual è, invece, la menzogna del ‘bene comune’? Qual è la menzogna insita necessariamente nel ‘potere’ e nelle ‘istituzioni’, che Marco Aurelio incarna e qui ci testimonia? 
La menzogna del ‘potere’ e delle ‘istituzioni’ è né più né meno la menzogna della controdiairesi, laddove essa proclama in suo esclusivo potere ciò che invece, per inviolabile natura delle cose, non è in suo esclusivo potere; e dunque laddove il potere e l’istituzione propongono se stessi come portatori di bene comune, di libertà e di felicità per il genere umano. La proairesi di Marco Aurelio, quando e in quanto stoicamente orientata, non può che ribellarsi continuamente all’uso della controdiairesi alla quale si costringe accettando di sedere sul trono di un grande impero, e pertanto vive la maggior parte del suo tempo in drammatica contraddizione con se stessa. 

[ V,2 ] La proairesi è per natura capace, ed è fatta per avere il dominio delle rappresentazioni, non per esserne dominata.

[ V,3 ] Conoscere la natura delle cose significa saperne riconoscere la essenziale bipartizione e la sua inviolabilità, dunque praticare la diairesi, giudicandoci degni di dire e fare tutto ciò che è in accordo con essa. E quando tu, vagliato che una cosa è da fare, la faccia; non fuggire mai dall’essere visto effettuarla anche se il gregge che hai intorno concepirà qualcosa di diverso al riguardo. Giacché se non operi rettamente, fuggi l’opera stessa. Se operi rettamente, perché hai paura di coloro che censureranno non rettamente?

[ V,4 ] È noto che nella cosmologia stoica il fuoco è il principio generativo, origine e fine degli altri tre elementi (aria, acqua, terra) che da esso si generano e che in esso sono destinati a riconfluire nella conflagrazione finale che segna la fine di un ciclo cosmico e l’inizio di uno nuovo.
Ed è altrettanto noto che il principale rito funebre del tempo era la cremazione. Grazie ad essa Marco Aurelio, con intensa commozione, descrive qui i primi passi del suo ritorno al fuoco primordiale. 

[ V,5 ] Un uomo corre più velocemente di un altro. Diremo che il primo è un uomo e che il secondo non lo è? L’uomo è definito dalla capacità della sua proairesi di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente e non dalla velocità della sua corsa o dalla brillantezza del suo intelletto; velocità o brillantezza che, come il colore degli occhi o l’altezza, non sono proairetiche ma legate a fattori esterni ed aproairetici.
Chi prende atto del suo scarso acume, se davvero è così, come prenderebbe atto di correre meno velocemente di un altro e non si affligge quando riconosce che altri sono più veloci di lui o hanno un intelletto più brillante del suo, mostra di usare la diairesi, di saper mantenere la propria proairesi libera, infinita, inasservibile, insubordinabile e dunque felice.
Chi invece si affligge del suo scarso acume, come Marco Aurelio qui confessa apertamente di se stesso, lo fa perché vuole che sia in suo esclusivo potere una brillantezza di intelletto che non è in suo esclusivo potere avere. Egli tradisce così, da imperatore e non da stoico, la sua quotidiana pratica della controdiairesi, che rende la sua proairesi serva, preda di giudizi scorretti, che lo fa vivere in contraddizione con se stesso. Ulteriore esempio di come, se non ci si corregge, si possa sedere su un trono imperiale, fraintendere il proprio ruolo ed essere schiavi e infelici.

[ V,6 ] Quando si identifica con lo stoico che è in lui, Marco Aurelio dice: “Se è vero che bene e male sono entità proairetiche, giudizi della proairesi, allora virtù e vizio, premio e punizione sono insiti nelle nostre deliberazioni e nelle conseguenti azioni che compiamo, e non vanno attesi come contraccambio dall’esterno”. Ma subito l’imperatore che è in lui risponde: “Voglio che le deliberazioni che quotidianamente prendo siano riconosciute come beni, e il mio virtuoso operato al servizio della comunità sia lodato”. Come se non bastasse, Giulio Capitolino riferisce che Marco Aurelio era sempre preoccupatissimo della propria reputazione e che chiedeva continuamente ai suoi collaboratori cosa si dicesse in giro di lui, giustificandosi col desiderio di emendare i propri difetti laddove riconoscesse fondate alcune critiche. 

[ V,7 ] Come si deve auspicare? 
È impossibile dire da dove Marco Aurelio abbia preso il testo qui riferito.

[ V,8 ] Tutto ciò che non è in nostro esclusivo potere, ossia tutto ciò che è aproairetico, va riconosciuto e trattato come tale grazie all’uso sistematico della diairesi. 
La malattia, la perdita di un figlio, la morte sono entità aproairetiche. E come vanno trattate? Come le lettere dell’alfabeto di una lingua che non siamo stati noi ad inventare ma che impariamo stando al mondo. Scriviamo forse la parola “Dione” a casaccio, secondo l’impulso del momento? No, ma impariamo a disporre le lettere affinché sia scritta come si deve. Cosa facciamo con le note musicali? Allo stesso modo. Cosa facciamo, in generale, laddove è in gioco un’arte od una scienza? Altrimenti, di nessun valore sarebbe l’avere scienza di qualcosa, se ciò si acconciasse alle decisioni di ciascuno. Qui dunque, soltanto su quanto è massimo e sommamente dominante, sulla libertà e sulla felicità, ci è stato accordato di volere come capita? Nient’affatto! Ma educarsi a diairesizzare è appunto questo imparare a disporre ciascuna cosa così come accade. E come accade? Come da sempre la costituisce quell’insieme di tutte le cause che si può chiamare natura o necessità o destino o Zeus. Ed esso costituì che vi fossero estate ed inverno, profusione e penuria, virtù e vizio, diairesi e controdiairesi, e tutte le opposizioni siffatte per l’armonia dell’intero e che ognuno di noi, imparandone la lingua, potesse scrivere correttamente, se così dispone, la parola “Felicità”.
Asclepio è il dio greco della medicina, figlio di Apollo e di Coronide, che il mito vuole sia stato ucciso da Zeus con un fulmine perché aveva resuscitato dalla morte alcuni uomini.

[ V,9 ] La filosofia stoica è la sola filosofia esistente la cui essenza non sia normativa. Come una buona madre, essa non ci insegna a riconoscere altro che ciò che ineluttabilmente dispone la nostra natura di uomini, ed educa alla diairesi quella sola facoltà che in noi è comprensione e scienza di noi stessi e delle cose che accadono, ossia la proairesi.

[ V,10 ] Di fronte all’enigmaticità della realtà, alla pochezza e caducità di tutti gli oggetti materiali, ai violenti contrasti e alle guerre mortali che gli uomini conducono gli uni contro gli altri, alla volubilità delle loro idee e al sudiciume dei loro costumi, la maggioranza dei filosofi ha decretato la incomprensibilità del tutto e le ideologie hanno fatto bancarotta. 
Gli unici a non spaventarsi di questa situazione e ad avere trovato la chiave per capire la realtà e portare la libertà in questo mondo sono stati, e sono ancora oggi, gli stoici i quali si sono chiesti se, in tale flusso e in tali tenebre, tutto ciò che esiste sia in nostro esclusivo potere, oppure nulla di ciò che esiste sia in nostro esclusivo potere, oppure se di ciò che esiste alcune cose siano in nostro esclusivo potere ed altre non lo siano. Essi hanno così potuto dimostrare definitivamente che delle cose che sono, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere sono, ad esempio, giudizi, valutazioni, progetti, desideri, impulsi ed hanno chiamato queste entità ‘proairetiche’. Non sono invece in nostro esclusivo potere cose come il corpo, il denaro, la reputazione, il lavoro, che vanno definite entità ‘aproairetiche’. Ed hanno altrettanto definitivamente dimostrato che questa è sempre stata, è, e sempre sarà la ‘natura delle cose’, la quale è universalmente valida, invariante e inviolabile.
Se la diairesi è il giudizio che ci fa capaci di distinguere in qualunque circostanza quanto è in nostro esclusivo potere e quanto invece non lo è, allora l’uomo conosce il segreto per trovare il giusto comportamento in ogni situazione, giacché non ci potrà avvenire nulla che non sia in armonia con la natura, ed è in esclusivo potere della nostra proairesi fare sì che noi non facciamo nulla che sia in contrasto con la natura delle cose.

[ V,11 ] È la proairesi o egemonico la parte costitutiva capace di comandare all’animo. E, a seconda dei giudizi retti o scorretti presenti nella proairesi, del suo atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente, l’animo dell’uomo sarà libero dalle passioni o preda delle passioni, sarà quello di un sapiente o quello di un insipiente.

[ V,12 ] Anche quella contenuta in questo frammento è una preziosa testimonianza del fatto che da migliaia di anni si chiamano comunemente ‘beni’ gli oggetti esterni ed aproairetici, invece di riservare il temine, com’è corretto fare, esclusivamente alla virtù e alle sue opere, ossia alla proairesi atteggiata diaireticamente. 
La constatazione che per le turbe umane ‘beni’ e ‘mali’ sono oggetti esterni e aproairetici non sposta di una virgola la verità che felicità e infelicità non sono qualità di ciò che è aproairetico e che ‘beni’ e ‘mali’ sono per invariante, eterna, inviolabile natura delle cose entità proairetiche. Questo null’altro segnala che la assenza di contatto delle turbe, se mai contatto vi fu, dalla natura delle cose, la quale comunque rimane quella che fu, è, e sarà sempre, senza che spetti ad essa di darsi la minima cura di dove gli uomini cacano o non cacano.
Il frammento poetico citato è tratto da una commedia di Menandro.

[ V,13 ] La componente causale è la proairesi o egemonico, la componente materiale è rappresentata dagli elementi naturali (aria o pneuma, acqua, terra e fuoco) che compongono l’uomo. 
Bisogna stare in guardia dal compiere l’errore di intendere la componente causale, la proairesi, come ‘res cogitans’ e la componente materiale come ‘res extensa’, secondo un dualismo che ha avuto ed ha ancora grande successo di massa, ma che è del tutto infondato, come dimostra a iosa la moderna neurobiologia molecolare, e completamente alieno allo stoicismo antico ed a Marco Aurelio. Componente causale e componente materiale sono come il magnete con i suoi due poli, sono entrambe ‘corpo’, Materia Immortale dalle cui trasformazioni eternamente nasce, muore e rinasce tutto l’esistente.

[ V,14 ] Siccome quanto articola le altre conoscenze è la logica ed essa non può né essere né rimanere disarticolata, da che cosa sarà articolata? E’ manifesto che lo sarà o da se stessa o da qualcos’altro. Questo o è una seconda logica o qualcos’altro migliore della logica, il che però è impossibile. Se, pertanto, è una seconda logica chi, di nuovo, articolerà questa? Giacché se questa si autoarticola, anche la prima lo può. Se, infatti, ci fosse bisogno di una seconda logica, ci sarebbe poi bisogno di una terza a poi di una quarta logica, e il processo diventerebbe infinito. La ragione, pertanto, è la sola facoltà umana autoteoretica in quanto la logica, muovendosi con metodi e principi che le consentono di distinguere formalmente i ragionamenti corretti da quelli scorretti, è autonoma dalla materia alla quale è applicata.

[ V,15 ] Le turbe considerano che la ricchezza di denaro, i colpi di fortuna che portano lusso e fama oppure, al contrario, la povertà di denaro e la malattia, siano un bene o un male. Se fosse vero che gli oggetti esterni ed aproairetici sono bene o male, tutti gli uomini dovrebbero concordare nel ritenere bene e male le stesse cose, così come concordano nel ritenere luminoso il sole e che i cani abbaiano. Essendo invece gli uomini in continuo e feroce contrasto tra di loro riguardo a ciò che considerano bene o male, è impossibile sostenere che bene e male siano qualità oggettive di ciò che è esterno e aproairetico. 
Se è così, ciò che spetta all’uomo in quanto uomo, ciò che ne definisce la natura, va ricercato non fuori dell’uomo ma dentro l’uomo stesso. E si può trovare? Sì. E dov’è? Nella proairesi. Infatti, è dimostrato che spettano all’uomo in quanto uomo unicamente i suoi giudizi su di sé e su ciò che è aproairetico. Soltanto questi giudizi, che sono proairetici, opera della sua proairesi, possono a buon diritto essere considerati propri dell’uomo in quanto uomo e sono soltanto essi ad essere il suo bene o il suo male. 

[ V,16 ] Si può, si deve ed è inevitabile che l’uomo abbia a che fare con le cose esterne e aproairetiche. Ma quando egli si dà da fare intorno ad esse senza riserva, come se fossero in suo esclusivo potere mentre invece, per inviolabile natura delle cose, esse non lo sono; ecco che l’uomo perde se stesso.
Chi, dunque, può affermare che essendoci dato di vivere a corte ci è anche dato, per ciò stesso e senza ulteriori precisazioni, di vivere bene a corte; tacendo il fatto che non si può vivere laddove e quando c’è troppo fumo e dunque che vivere bene a corte può anche essere impossibile?
La creatura razionale ha come fine cardinale quello di mantenere la propria proairesi in accordo con la natura delle cose. Chi dunque può affermare, senza ulteriori distinzioni, che la creatura razionale è nata per la vita in società e per operare il bene comune, se non chi vede il bene principalmente fuori di sé, nel dominio di ciò che è esterno e aproairetico?
Certamente le creature razionali hanno facoltà che altre creature non hanno. Ma chi può ritenersi superiore a tutti gli altri esseri quando anche i lupi, nel loro linguaggio, ringraziano certamente la Prònoia di avere fatto gli uomini così stupidi da massacrarsi l’un l’altro a milioni per offrire loro, in questo modo, dei lauti banchetti?
Se il frammento è anche soltanto parzialmente autobiografico, è difficile sfuggire alla sensazione che Marco Aurelio lo sprema dalla falsa coscienza di un insipiente che ha il problema di giustificare ex post le proprie scelte di vita, e che la sua autocritica sia rappresentata, né più né meno, dalle parole del frammento immediatamente successivo.

[ V,17 ] Il fine cardinale della vita degli insipienti è quello di far volare gli asini e di cavare sangue dalle rape.

[ V,18 ] Come mai la controdiairesi è una pratica di massa? È certamente difficile convincere qualcuno ad abbracciare la saggezza quando il suo guadagnarsi da mangiare dipende dal rimanere insipiente. La saggezza, pertanto, sarà sempre merce rarissima dovunque e finché la stabilità di un lavoro o di un incarico a corte, è fatto strettamente dipendere dalla stabilità della propria ignoranza della natura delle cose e della propria piaggeria. 

[ V,19 ] Dei nostri giudizi è padrona la proairesi, non le cose esterne ed aproairetiche.

[ V,20 ] I giudizi, così come i desideri, gli impulsi, gli assensi della mia proairesi sono entità proairetiche. Anche i giudizi della proairesi di un altro uomo sono entità proairetiche. Proairetiche per lui, ma per me sono entità aproairetiche tanto quanto lo sono i miei giudizi per lui, giacché la natura delle cose vieta inviolabilmente che qualcuno sia padrone della proairesi di un altro. Questo significa anche che nessuna proairesi può essere intralciata da un’altra proairesi e tanto meno da ciò che è esterno e aproairetico. 
Ora: quando vi è bisogno della collaborazione di qualcosa di esterno ed aproairetico per la realizzazione pratica di un’entità proairetica, questa realizzazione pratica è proairetica o aproairetica? 
Sentiamo la risposta di Epitteto: “E dunque se mentre io desidero camminare, un altro me lo impedirà? -Cosa impedirà di te? Forse il desiderio?- No, ma il corpo. E però io non cammino più. -E chi ti ha mai detto che camminare è opera tua non soggetta ad impedimenti? Giacché io dicevo non soggetto ad impedimenti, ossia proairetico, soltanto il desiderio. Dove invece c’è bisogno del corpo e della sua cooperazione, sai bene da tempo che nulla è tuo”.
Così come un altro uomo è per me un oggetto esterno e aproairetico, anche la realizzazione di un progetto proairetico è qualcosa di aproairetico, in quanto non è in mio esclusivo potere. La retta proairesi, pertanto, è retta in quanto tiene conto della natura delle cose e subordina sempre i propri comandi ad una clausola di riserva laddove per la loro realizzazione ci sia bisogno della collaborazione di qualcosa di aproairetico come il corpo.

[ V,21 ] Delle quattro cause basilari operanti nel cosmo, quella cui Marco Aurelio qui allude più direttamente è la Prònoia, cui la Proairesi umana è omogenea, in quanto espressione entrambe del medesimo ‘logos’, e della quale è come un’immagine. 

[ V,22 ] Morte, malattia, disastri naturali sono eventi del tutto fisiologici per quella città che è il cosmo e non lo danneggiano affatto, ma rappresentano semplici momenti delle sue incessanti trasformazioni. Perché dunque la proairesi dell’uomo dovrebbe giudicarli come mali dai quali ritenersi danneggiata? 
Se il cosmo è indenne da qualunque danneggiamento, la proairesi dell’uomo può invece danneggiare se stessa, qualora trascuri di attenersi alla natura delle cose e di rispettarla attraverso l’uso della diairesi. 

[ V,23 ] Il movimento incausato, perpetuo, inarrestabile della Materia immortale che tutto trasforma in rapidissima sequenza.

[ V,24 ] L’uomo è piccolissima parte della sostanza del cosmo e un istante appena della sua immortalità; ma egli, grazie alla proairesi, ha un ruolo decisivo nel proprio destino.

[ V,25 ] Se un altro agisce per offendere me, quella disposizione offensiva è proairetica o aproairetica? Ovviamente essa è aproairetica per me e proairetica per l’altro. Se è per me aproairetica, secondo saggezza io non devo vedere in essa né un bene né un male per me. Bene e male rimangono affare dell’altro, in quanto quella disposizione a offendere è propria della sua proairesi, non della mia. 
C’è qualcosa di proairetico, di mio proprio, in questa situazione? Certamente. La mia proairesi entra in gioco nel giudizio che ho della disposizione della proairesi e delle azioni dell’altro. E qui la mia proairesi può assumere due diversi atteggiamenti. Se prende l’atteggiamento diairetico non mi sentirò offeso e cercherò anzi di far capire all’altro l’aberrazione che sta commettendo contro se stesso. Se invece prende l’atteggiamento controdiairetico mi sentirò offeso e quindi reagirò all’offesa con l’offesa.
Vi è una operazione matematica che è aberrante: quella di dividere per zero. Ecco, in molti casi l’uso della controdiairesi può essere paragonato all’esecuzione dell’operazione suddetta. 

[ V,26 ] Le sensazioni fisiche che l’uomo prova (il dolce e l’amaro, il caldo e il freddo, il piacere sessuale, il dolore fisico) sorgono indipendentemente dalla nostra proairesi e sono, dunque, entità aproairetiche. Proairetico è invece il giudizio che la nostra proairesi dà di esse quando ne sia stata raggiunta, non in quanto piacevoli o dolorose ma in quanto bene o male. 
Siccome bene e male sono per natura delle cose unicamente giudizi della nostra proairesi, la proairesi che si atteggia controdiaireticamente giudica le sensazioni fisiche essere bene o male, mentre la retta proairesi che si atteggia diaireticamente le riconoscerà ugualmente piacevoli o dolorose ma le giudicherà essere né bene né male.

[ V,27 ] Il demone che ci portiamo dentro e che è capace di farci convivere con gli dei, è la nostra proairesi.

[ V,28 ] Ecco la diairesi all’opera. 
Al contrario, due personaggi emblematici che non mettono mai in opera la diairesi bensì si ostinano sistematicamente a dividere per zero quello che loro capita, sono quelli indicati da Marco Aurelio nell’ultimo paragrafo: i protagonisti delle tragedie e chi prostituisce il proprio corpo, simboli entrambi della proairesi che prostituisce se stessa attraverso l’uso della controdiairesi.

[ V,29 ] Queste sono le parole di Epitteto: “Uno ha fatto fumo nella stanza? Se il fumo è in quantità moderata, rimarrò; se è troppo, esco. Giacché si deve ricordare e tenere ben fermo che la porta è sempre aperta. Mi si ordina: ‘Non abitare a Nicopoli’. Non ci abito. ‘Neppure ad Atene’. Non abito ad Atene. ‘Neppure a Roma’. Non abito a Roma. ‘Abita a Giaro!’ Ci abito. Ma abitare a Giaro mi appare come abitare dove c’è troppo fumo. Mi ritiro laddove nessuno mi impedirà di abitare, giacché quella dimora è aperta a tutti”.
In questo frammento Marco Aurelio riprende esattamente il tema di un frammento precedente ma, questa volta, in accordo con la prospettiva correttamente stoica secondo la quale il fine cardinale della proairesi è quello di mantenere se stessa in armonia con la natura delle cose: libera, infinita, inasservibile, insubordinabile; e per cui il saggio, pertanto, per vivere può scegliere di morire. Paradosso soltanto apparente, ed eterno scandalo per le turbe insipienti e stolte che hanno paura di morire perché hanno paura di vivere e che vivono la morte credendo di vivere la vita.

[ V,30 ] Ovviamente non tutti gli esseri viventi si prestavano ad essere inseriti con facilità nel finalismo e nell’antropocentrismo di tradizione stoica. Ma l’acutezza di Crisippo, che echeggia nello sguardo di Marco Aurelio quando si incanta a guardare il cosmo, trovò sempre una via d’uscita: leoni, orsi, leopardi, cinghiali esistono per allenare i germi di coraggio presenti nell’uomo; i denti velenosi dei serpenti per fornire medicamenti; i topi ci abituano a stare attenti nel riporre le provviste di cibo; le cimici provvedono a che non dormiamo troppo e il pavone è stato generato in ragione della sua coda, perché noi possiamo ammirare lo splendore della sua coda.
Anche i Parti, i Quadi e i Marcomanni dovevano essere stati creati dalla Prònoia per qualcosa su cui però Marco Aurelio preferisce non soffermarsi.

[ V,31 ] Il frammento può certo sembrare il bilancio di una vita. Ma può anche essere inteso come l’invito ad un continuo riesame dello stato della propria proairesi e ad individuare e correggere l’eventuale ‘anomalia’ rappresentata da quell’atteggiamento della proairesi contrario alla natura delle cose che si chiama controdiairesi, ed a rallegrarsi di avere saputo usare la diairesi in tante occasioni.
Il verso citato è tratto dall’Odissea, libro IV°. Sono parole che Omero fa pronunciare a Penelope in riferimento ad Odisseo, quando Mentore sta per avvertirla che i Proci tramano un agguato mortale contro Telemaco.

[ V,32 ] Queste sono le parole di Epitteto sulle quali Marco Aurelio sembra riflettere: “Perché dunque quelli sono più potenti di voi? Perché quelli enunciano i loro schifosi discorsi da giudizi, mentre voi proferite i vostri raffinati discorsi dalle labbra. Per questo essi sono atoni e cadaverici; ed è possibile che a chi ascolta le vostre esortazioni e sente parlare di quella disgraziata virtù della quale blaterate su e giù, venga il ribrezzo. Così le persone comuni vi vincono: giacché ovunque il giudizio è potente, il giudizio è invincibile. […] Finché avrete le concezioni di cera, statevene dunque da qualche parte lontano dal sole”. 

Si può avere arte e scienza soltanto di due cose: di ciò che è proairetico e di ciò che è aproairetico. 
Proairetiche sono unicamente la proairesi e le opere della proairesi: desideri e avversioni, impulsi e repulsioni, assensi e dissensi, giudizi, progetti, concezioni. Insomma quell’unico gruppo di cose che è in esclusivo potere dell’uomo e che può diventare virtù, libertà, felicità. L’arte e la scienza di questo gruppo di cose si chiama scienza della felicità o Cultura. Sui poveri stracci che la Cultura sventola sta scritta la inviolabilità della natura delle cose, ossia l’ordine cosmico legato al governo del logos e l’ordine interiore, legato al governo della diairesi, che regna nella proairesi dell’uomo.
Ciò che è aproairetico si frammenta invece in miriadi di competenze diverse, giacché miriadi sono gli oggetti e i gruppi di oggetti esterni e aproairetici dei quali l’uomo può avere arte e scienza. L’arte e la scienza di tutto ciò che è aproairetico si chiama Pseudocultura. Essa ha come unico scopo il dominio dell’uomo su tutto ciò che è esterno e aproairetico (altri uomini compresi), obiettivo che essa persegue celandosi in vario modo dietro i veli di Maia rappresentati da ‘politica’, da ‘religione’, da ‘economia’, da ‘scienza’ e così via. Ma un simile scopo, come qualunque altro scopo, è e non può che essere proairetico, e dunque la Pseudocultura si adagia e coincide necessariamente, per inviolabile natura delle cose, con quell’atteggiamento della proairesi che va sotto il nome di controdiairesi. Sulle bandiere della Pseudocultura si proclama non essere in esclusivo potere dell’uomo ciò che invece è in suo esclusivo potere (ossia la virtù, la libertà, la felicità) ed essere in esclusivo potere dell’uomo ciò che invece non è in suo esclusivo potere (ossia tutto ciò che è esterno e aproairetico).
Coloro che in questo frammento Marco Aurelio chiama animi imperiti e incolti -e s’intende che sono turbe immense- sono imperiti e incolti di diairesi ma sono peritissimi e coltissimi di controdiairesi. E siccome la forza delle persone sta nella saldezza dei loro giudizi, davanti alla Pseudocultura di gente con una controdiairesi d’acciaio non c’è scampo per la presunta Cultura di filosofi con una diairesi di cera. 

[ V,33 ] Lavorare per ottenere riconoscimenti e fama da una turba di individui viziosi, disonesti, turpi, che praticano sistematicamente la controdiairesi? Oltre che contraddittorio non sarebbe neppure un affare, perché il guadagno non coprirebbe le spese. Se gli esseri umani hanno scelto per se stessi questa misera sorte, è vizioso anche imprecare o scandalizzarsene. Bisogna lasciarli al loro destino badando, giacché questo è in nostro esclusivo potere, ad astenerci dal desiderare o avversare ciò che non è in nostro esclusivo potere, ossia essere temperanti; ed a sopportare l’intemperanza altrui giacché da essa, per inviolabile natura delle cose, in ogni caso non può venirci alcun male.
Il verso citato è tratto da “Le Opere e i Giorni” di Esiodo. Esiodo lo riferisce, esattamente come Marco Aurelio, al Rispetto di sé e degli altri e alla Nemesi che abbandonano gli esseri umani dell’odierna età del ferro al misero destino che essi hanno forgiato per sé.

[ V,34 ] La felicità è cosa proairetica, è il giudizio di essere felici. A disporlo in modo inviolabile e invariante per tutti gli uomini è la natura delle cose, la quale dispone anche in modo altrettanto inviolabile e invariante che è il logos o Prònoia a stabilire le leggi cui ubbidisce tutto ciò che è aproairetico. 
Mentre la Prònoia non si mette mai in armi contro la Proairesi, la Proairesi dell’uomo, atteggiandosi controdiaireticamente, può mettersi in armi contro la Prònoia. Ma siccome la proairesi umana è parte del cosmo e non può violarne le leggi, la sua ribellione è destinata a quella sconfitta che prende appunto il nome di ‘infelicità’.
Due sono dunque le caratteristiche principali della Prònoia e della Proairesi: entrambe non possono essere intralciate altro che da se stesse, per entrambe il bene consiste nel rispetto della natura delle cose.

[ V,35 ] I retti giudizi sono i giudizi della proairesi che pratica la diairesi. Essi non portano danno.

[ V,36 ] Ubbidire alla natura delle cose è un conto, ma l’ubbidienza o la disubbidienza ad un’autorità qualunque diversa dalla natura delle cose non deve essere pronta, cieca e assoluta, bensì commisurata alle proprie capacità e al valore di quel che è richiesto. Allo stesso modo l’aiuto che altri richiedono non va concesso o negato sempre, comunque e a tutti i costi, ma commisurato anch’esso ai dati delle situazioni concrete, che sono sempre diverse una dall’altra. Se infatti si ubbidisce o disubbidisce a qualcuno oppure si aiuta o non si aiuta qualcuno lasciandosi semplicemente rapire dalla rappresentazione che ‘ubbidire’ e ‘aiutare’ sono ‘bene’ o sono ‘male’ noi stiamo ponendo il bene e il male fuori di noi stessi, stiamo subordinando il proairetico all’aproairetico, stiamo operando viziosamente.

*****

[ VI,1 ] Non esiste il male nel cosmo. Il male esiste soltanto nella proairesi degli esseri umani viziosi. La Prònoia che governa il cosmo, infatti, è legge razionale e verità, ossia natura delle cose, universalmente valida, invariante, inviolabile e tale legge non può essere contemporaneamente una ed il proprio opposto. Questo significa anche non esiste il bene nel cosmo. Il bene esiste soltanto nella proairesi degli uomini virtuosi. 

[ VI,2 ] Siccome vivere significa atteggiare la proairesi diaireticamente, le circostanze esteriore non fanno al riguardo alcuna differenza, dato che questa operazione è in nostro esclusivo potere. Anche morire diventa così, per l’uomo virtuoso, un momento di vita.

[ VI,3 ] Chi guarda come si deve dentro un qualunque oggetto esterno vedrà che si tratta di qualcosa di aproairetico che è, per natura delle cose, debole, servo, soggetto ad impedimenti, finito. 
Chi guarda dentro di sé come si deve, vi troverai una proairesi che è, per natura delle cose, libera, infinita, inasservibile, insubordinabile.
Il frammento invita a riconoscere proprio questa differenza.

[ VI,4 ] Nella cosmologia stoica, il destino di tutti gli elementi che compongono il cosmo è, da ultimo, quello di trasformarsi in fuoco primordiale, dal quale prenderà nuovamente inizio un nuovo ciclo cosmico. Se la sostanza del cosmo, invece, non fosse una ma fosse plurima, allora i suoi elementi potrebbero andare incontro a dispersione.

[ VI,5 ] Poiché la proairesi umana è facoltà autoteoretica, è legittimo chiedersi se anche la Prònoia del cosmo sia autoteoretica. Marco Aurelio, in questo frammento, da una risposta positiva a simile domanda, in accordo con una tradizione che non è soltanto stoica ma risale almeno al V° secolo a.C. Tale tradizione si basa su un ragionamento di questo genere: “Se nel cosmo non ci fosse l’elemento terreste, in te non vi sarebbe traccia di terra; e se non ci fosse l’elemento umido, in te non ci sarebbe traccia di acqua; e lo stesso vale per l’aria e per il fuoco. E dunque, se nel mondo non vi fosse intelletto, neppure in te ci sarebbe; ma c’è, e dunque c’è anche nel cosmo. Pertanto il cosmo è intelligente, e se è intelligente è anche dio”. 

[ VI,6 ] Queste sono le parole con le quali Epitteto bolla a fuoco l’insipienza di rispondere all’offesa con l’offesa: “E dunque? Non danneggerò chi mi danneggia? Innanzitutto vedi cos’è danno e ricordati di quanto hai sentito dire dai filosofi. Infatti, se il bene è nella proairesi ed il male allo stesso modo nella proairesi, scruta se quel che stai dicendo non è qualcosa del genere: ‘E dunque? Siccome quello ha danneggiato se stesso commettendo un’ingiustizia contro di me, io non danneggerò me stesso commettendo un’ingiustizia contro di lui?’ ”

[ VI,7 ] L’azione più socievole che l’uomo possa fare è quella di atteggiare diaireticamente la propria proairesi e di invitare anche gli altri a fare lo stesso. Infatti, chi si appropria di colui che l’uomo davvero è per natura delle cose, ha fatto anche l’azione più socialmente utile e dunque anche divina che si possa fare.

[ VI,8 ] La proairesi dell’uomo è la sua unica facoltà autoteoretica e fa di lui un saggio o in insipiente, un vizioso o un virtuoso, a seconda di come si atteggia nei confronti di ciò che proairetico e di ciò che è aproairetico.

[ VI,9 ] Tutto ciò che avviene, avviene in armonia con la natura, la quale è una e onnicomprensiva.

[ VI,10 ] Se il cosmo è un guazzabuglio senza legge, l’intrattenermi in esso non può avere altro scopo che quello di intrattenermici il più a lungo possibile, cercando di piegarlo il più rudemente possibile alla mia volontà di potenza, qualunque forma essa prenda. Infatti, non avrei da perdere altro se non quello che perderò comunque, mentre tutto il resto è per me un guadagno. 
Marco Aurelio intende così, come assenza di ordine e di finalità, ossia di Prònoia o Logos quale legge immanente e razionale del divenire cosmico, l’ipotesi atomistica e meccanicistica di Epicuro anche se una simile interpretazione ne fraintende sostanzialmente il pensiero. Egli comunque può considerare seria questa prospettiva, giacché sarebbero dovuti ancora passare circa millecinquecento anni prima che Galileo, definendo le leggi di alcuni moti, dimostrasse per primo, empiricamente e inconfutabilmente, che il cosmo non è un guazzabuglio senza legge e ponesse così la Fisica su basi del tutto nuove.

[ VI,11 ] Il passaggio dalla diairesi alla controdiairesi può essere fisiologicamente causato da rappresentazioni alle quali la proairesi dell’uomo si trova momentaneamente impreparata. Non bisogna avere timore di questi sbandamenti in quanto la proairesi bene allenata può operare il passaggio inverso, dalla controdiairesi alla diairesi, con estrema rapidità.

[ VI,12 ] La filosofia è il luogo della diairesi ossia della generazione della vita. La corte imperiale è il luogo della controdiairesi. Quali parole più esplicite avrebbe potuto trovare Marco Aurelio?

[ VI,13 ] Per gli stoici la rappresentazione catalettica è, com’è noto, la rappresentazione che ha caratteri tali da meritare il nostro assenso come quella che non potrebbe venire da un oggetto diverso. Chi vede unicamente del fumo deve assentire alla rappresentazione che c’è del fumo e non a quella che c’è un incendio, potendo il fumo avere molte altre origini diverse da un incendio. Chi ha la rappresentazione di certi organi sessuali in azione, non ha la rappresentazione di persone che provano piacere e tanto meno di persone felici. Così, sembra dirci Marco Aurelio, chi incontra qualcuno che siede sul trono imperiale di Roma deve assentire alla rappresentazione che ha visto l’imperatore, non che ha visto un filosofo intelligente e tanto meno uno stoico. Spessissimo, poi, l’unica vera differenza tra una rappresentazione catalettica e una rappresentazione non catalettica è la nostra vanità.
Il significato dell’ultimo paragrafo non è decifrabile, in quanto ne rimane ignoto l’oggetto. Il Cratete qui citato è probabilmente il cinico allievo del famoso Diogene di Sinope, vissuto nel III° secolo a.C. Senocrate dovrebbe essere allora il suo coetaneo, originario di Calcedonia, che fu secondo successore di Platone alla guida dell’Accademia.

[ VI,14 ] A cosa volgono gli occhi gli esseri umani per trovare ciò che è più degno di ammirazione? Alcuni li fissano sull’oro, su turbe di cavalieri, altri sui vegetali, altri sugli animali, altri sulla persona che si ama o su persone capaci di opere ingegnose. Tutti, comunque, lo cercano fuori di sé, in ciò che è esterno e aproairetico.
Chi invece conosce la natura delle cose sa che la cosa più degna, la ricchezza più grande e più degna di ammirazione sta dentro l’uomo, nella sua proairesi atteggiata secondo diairesi. 

[ VI,15 ] Flussi e cambiamenti continui di tutto ciò che è esterno e aproairetico rinnovano incessantemente non soltanto il cosmo ma il nostro stesso organismo. 

[ VI,16 ] L’uomo traspira, respira, usa le rappresentazioni, ha impulsi e repulsioni. Ma tutto ciò non è peculiare dell’uomo. Qual è, dunque, l’opera propriamente umana? Affinché l’uomo risulti idoneo all’opera per la quale è stato strutturato dalla natura, la sua unica, vera e fondamentale educazione è quella al rispetto della natura delle cose e all’onore per la propria proairesi, ossia alla comprensione e all’uso della diairesi.

[ VI,17 ] I movimenti e le reciproche trasformazioni dei quattro elementi naturali (fuoco, aria, acqua, terra) sono già stati ricordati più volte da Marco Aurelio. Il movimento dalla diairesi alla controdiairesi e viceversa, e la trasformazione della proairesi umana da virtù a vizio e viceversa, non segue invece regole semplici ed è impossibile da prevedere.

[ VI,18 ] Aproairetico per aproairetico: come mai l’insipiente è in ansia soltanto per la sua immortalità futura e non anche per quella pregressa?

[ VI,19 ] L’uso sistematico della diairesi non soltanto è possibile ma è anche facilmente accessibile.

[ VI,20 ] Siccome l’avversione è qualcosa di proairetico, in mio esclusivo potere, Epitteto soleva dire che il malvagio è cattivo per se stesso ma per me è buono, giacché allena le mie virtù. 
Queste sono le sue parole: “-E’ dunque possibile trarre giovamento da questo?- Da tutto. -Anche da chi ingiuria?- Che giova all’atleta il preparatore atletico? Il massimo. E pure costui diventa mio preparatore atletico: allena la mia capacità di tolleranza, il mio dominio sull’ira, la mia mitezza. Chi avvinghia il mio collo e mi rimette in ordine lombi e spalle mi giova; ed il maestro di ginnastica fa bene a dirmi ‘Solleva il pestello con entrambe le mani’; e quanto più quello è pesante tanto più io ne traggo giovamento. E se uno mi allena al dominio sull’ira non mi giova? Questo è non saper trarre giovamento dagli esseri umani. Un cattivo vicino? Per lui stesso, ma per me è buono: allena la mia buona intelligenza, l’acquiescenza. Un cattivo padre? Per lui stesso, ma per me è buono”.

[ VI,21 ] Quando io ti dico che i tuoi desideri soffrono di infiammazione, che le tue avversioni sono da servo nell’animo, che i tuoi progetti sono incoerenti, che hai impulsi in disarmonia con la natura delle cose, concezioni avventate e mendaci, perché ti ritieni oltraggiato? 
Ti ho dimostrato che ti mancano le cose più necessarie e grandi per la felicità, che fino a questo momento di tutto sei stato sollecito tranne che di quel che conviene, che tu non sai né cos’è proairesi né cos’è diairesi né cos’è bene né cos’è male e che sei ignorante di te stesso, di chi è un uomo, perché ti esasperi? 
Ti ho detto soltanto la verità. A meno che lo specchio non rechi danno a chi è laido, mostrandogli qual è. A meno che il medico non oltraggi l’ammalato quando gli dice: ‘Tu reputi di non avere nulla ma hai la febbre; oggi prendi gli antibiotici e stai a letto’.

[ VI,22 ] Uno dei campi fondamentali nei quali deve esercitarsi l’uomo che conosce la natura delle cose è quello degli impulsi e delle repulsioni, al fine di agire con posizionamento, con razionalità, senza trascuratezza verso ciò che è inanimato, animato ma privo di ragione e verso gli altri esseri umani, anche insipienti. L’uomo, infatti, non è chiamato ad avere il dominio che di sé ha una statua, ma a serbare anche le sue relazioni sociali, naturali ed acquisite, da virtuoso.

[ VI,23 ] L’uomo, creatura razionale, può usare tutto ciò che è aproairetico: oggetti, esseri irrazionali, esseri razionali, finché gli è dato; ma con la riserva di mantenere comunque la sua proairesi, qualunque uso faccia di essi, in accordo con la natura delle cose. E siccome dall’uso che di essi fa dipende il suo bene o il suo male, una buona vita sarà sinonimo di un uso che tenga conto delle loro peculiarità e differenze, e dunque di un uso attento, equilibrato, rispettoso, tale da non comprometta la naturale libertà della proairesi. 
E qual è l’atteggiamento che l’uomo deve avere verso gli dei? Nel cosmo, dei e uomini condividono la stessa ragione e, in questo frammento, gli dei sono concepiti da Marco Aurelio come entità di perfezione superiore a quella umana cui è opportuno rivolgersi come ad esseri benevoli, con invocazioni di devota venerazione.

[ VI,24 ] Se la morte uguaglia tutti gli esseri riducendoli ai loro componenti fondamentali, Marco Aurelio ribadisce di intendere come radicalmente alternative la concezione stoica e la concezione epicurea del loro successivo percorso.

[ VI,25 ] La coscienza che abbiamo della complessità dei fenomeni che avvengono nel nostro corpo e nella nostra mente ci prepara ad accettare quella dei fenomeni che avvengono nell’immensità dell’universo.

[ VI,26 ] Ecco come il saggio porta a termine ciò che la sua proairesi ha giudicato doveroso fare.

[ VI,27 ] Diceva Epitteto che questa è la giustificazione che bisognerebbe dare ai genitori che fremono perché i figlioli studiano filosofia: “Dunque aberro, padre, e non so quel che mi spetta e conviene. Ma se questo non è né imparabile né insegnabile, perché mi incolpi? Se è insegnabile, insegnamelo; e se tu non puoi, lascia che io lo impari da coloro che dicono di sapere. Peraltro, cosa pensi? Che io incappi nel male e fallisca il bene perché lo voglio? Non è così! Cos’è, allora, causa del mio aberrare? L’ignoranza. Non vuoi che mi liberi dell’ignoranza? A chi mai l’ira insegnò l’arte di pilotare una nave o la musica? E tu reputi che io imparerò l’arte di vivere grazie alla tua ira?”

[ VI,28 ] Mentre la proairesi può morire mentre il corpo rimane ancora in vita, con la morte del corpo muore anche la proairesi.

[ VI,29 ] Capitolazione del corpo o capitolazione della proairesi? Capitolazione della proairesi è il suo negarsi come libera, infinita, inasservibile, insubordinabile, e il suo atteggiarsi controdiaireticamente.

[ VI,30 ] ‘Cesarificare’ se stessi vuol dire abbandonare la diairesi ed usare quotidianamente e sistematicamente la controdiairesi: dunque, al mondo succede che vi siano degli imperatori ma anche che vi siano miliardi di microimperatori, di ‘piccoli Cesari’. 
Il frammento contiene un lungo riferimento ad Antonino Pio come al modello di imperatore che invece non si è ‘cesarificato’, e potrebbe essere una bozza della trattazione, più lunga ed articolata, dello stesso personaggio in [ I,16 ].

[ VI,31 ] Nel sonno la proairesi è spenta. I sogni, dunque, sono entità aproairetiche e come tali non sono né bene né male, né virtuosi né viziosi. Ma aproairetica, e con le stesse caratteristiche, è anche la realtà che abbiamo davanti quando siamo svegli e la proairesi è attiva.
Se, dunque, un sogno ci ha sconcertato, quando la nostra proairesi si risveglia ci rendiamo però conto di non avere alcun motivo di sgomento e tiriamo un sospiro di sollievo. Allo stesso modo possiamo guardare senza alcun motivo di sgomento alla realtà che abbiamo davanti, giacché essa è un materiale indifferente del quale possiamo fare un uso che, però, è in nostro esclusivo potere.

[ VI,32 ] Tutto ciò che è aproairetico è indifferente quanto ad essere male e bene. Anche l’attività passata o futura della proairesi, in quanto priva della dimensione del presente, è qualcosa di aproairetico. L’attività presente della mia proairesi è invece in mio esclusivo potere, è cosa proairetica e può essere bene o male. 

[ VI,33 ] Il dolore fisico non è contrario alla natura: esso è cosa aproairetica e dunque per l’uomo non è né un male né un bene, poiché male è soltanto ciò che è proairetico e contrario alla natura delle cose.

[ VI,34 ] Se anche gli insipienti possono godere dei piaceri della carne, allora il piacere fisico non può essere che un’entità aproairetica, un indifferente, qualcosa che non è né bene né male. 

[ VI,35 ] Tutti i comuni lavori manuali, come quello del falegname, del pescatore, dell’architetto o del medico possono essere definiti come opere dell’Antidiairesi. Infatti, proairetica è la decisione di costruire una sedia, di uscire a pesca, di edificare una casa, di curare un ammalato, di rapinare una banca, di uccidere un uomo; ma la realizzazione di queste decisioni avviene poi sempre attraverso una serie di operazioni standard guidate da giudizi che rimangono subordinati alla decisione originaria. 
L’antidiairesi può dunque essere proficuamente definita come l’insieme di giudizi subordinati operante su quanto non è in nostro esclusivo potere e che, in quanto complementare alla diairesi o alla controdiairesi, è competente a realizzare il progetto dell’una o dell’altra.
L’antidiairesi, il nostro comune quotidiano lavoro, può essere immaginata come il tronco di un albero. Diairesi e controdiairesi sono allora come le radici dell’albero. Insieme al lavoro finito, libertà e felicità oppure schiavitù e infelicità sono come i frutti che pendono dai rami dell’albero, a seconda che alla radice noi vi abbiamo posto la diairesi oppure la controdiairesi.
Se gli artigiani sanno che per realizzare come si deve un lavoro qualunque occorre seguire strettamente le indicazioni dell’antidiairesi e non tener conto dei giudizi degli incompetenti, è stupefacente come noi invece ignoriamo che la realizzazione di noi stessi come uomini, ossia la saggezza, significa rispetto della natura delle cose, ossia mettere la diairesi alla radice dell’antidiairesi.

[ VI,36 ] Il cosmo è uno ed uno è il suo egemonico. Sappiamo già che alla domanda cruciale se l’egemonico del cosmo sia da considerarsi autoteoretico come la proairesi umana oppure no, Marco Aurelio ha risposto affermativamente. 
Così come gli è impossibile pensare che se un oggetto si muove uniformemente in linea retta non vi sia una forza che lo spinge, per lui è impossibile pensare che la ragione provenga da una materia che non contenga già in sé la ragione ‘come tale’ nei propri elementi, e dunque che la Prònoia o Logos del cosmo non sia autoteoretica visto che egli pensa al cosmo, secondo la tradizione stoica, come ad un organismo vivente e in continua trasformazione molto più grande e più perfetto del semplice uomo e della sua proairesi. Se la Prònoia è autoteoretica, pensa inoltre Marco Aurelio, essa non può contenere in sé nulla di contraddittorio e dunque dai suoi buoni e solenni impulsi è derivato anche tutto ciò che a noi può apparire deleterio o cattivo.

[ VI,37 ] La natura delle cose è invariante: essa fu, è, e sarà sempre la stessa per qualunque essere umano di qualunque cultura.

[ VI,38 ] Uno sguardo che vede il cosmo come un unico organismo vivente.

[ VI,39 ] La retta proairesi non chiede compiti diversi da quelli che la sorte le ha assegnato, giacché sa di poter fare uso corretto di qualunque materiale le sia dato di lavorare.

[ VI,40 ] Con un coltello si può tagliare il salame oppure uccidere un uomo. Dunque l’uso del coltello non è incluso nel suo essere coltello. Grazie alla proairesi, l’uso che l’uomo fa di se stesso è invece incluso nel suo essere uomo, in quanto vivere in armonia con la natura umana significa vivere virtuosamente e vivere virtuosamente significa vivere in armonia con la natura delle cose.

[ VI,41 ] Chi pone il bene e il male negli oggetti esterni ed aproairetici deve ineluttabilmente accettarne le terrificanti conseguenze; e sono conseguenze che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.

[ VI,42 ] Comunque si atteggi la proairesi dell’uomo, in modo diairetico o controdiairetico, essa è sempre atteggiata secondo natura e coopera in ogni caso al succedersi degli eventi cosmici. Tuttavia la proairesi atteggiata diaireticamente è anche atteggiata in armonia con la natura delle cose, mentre la proairesi atteggiata controdiaireticamente è atteggiata in contrasto con la natura delle cose. Ma questo contrasto è vano, vizioso e stupido perché ha di mira l’impossibile, in quanto intenderebbe mutare la natura delle cose che invece è e rimane invariante, eterna, inviolabile. Mentre la proairesi atteggiata in armonia con la natura delle cose ottiene così felicità, quella atteggiata contro la natura delle cose ottiene infelicità e Plutarco riferisce che Crisippo paragonava l’infelicità, la viziosità, la stupidità umana alle battute scherzose e alle facezie che sono in sé prive di valore ma che sono utili all’andamento generale di uno spettacolo.

[ VI,43 ] Ogni cosa ha nel cosmo un compito diverso, ma tutte collaborano per un medesimo fine.

[ VI,44 ] Si può discutere all’infinito sul fatto che gli dei esistano o non esistano; che essi esistano ma non deliberino nulla oppure deliberino qualcosa; che essi deliberino bene o male sul cosmo oppure anche su di me personalmente. Quello che io so però con certezza, sembra dire Marco Aurelio, è di avere una proairesi che mi permette di deliberare su me stesso e su ciò che mi è utile in quanto creatura razionale e politica, in quanto imperatore di Roma e cittadino del mondo.

[ VI,45 ] La proairesi dell’uomo, quando operi rettamente, è capace di rendere utile qualunque cosa ci accada.

[ VI,46 ] E’ possibile che la felicità venga a noia? È possibile preferire, per sazietà, l’infelicità alla felicità?

[ VI,47 ] Dovunque volga lo sguardo, l’uomo scopre che la sola cosa davvero degna di lui è la virtù.
Filistione, Febo e Origanione sono personaggi del tutto sconosciuti.
Eraclito di Efeso (V° secolo a.C.), Pitagora di Samo (circa 570-496 a.C.) e Socrate di Atene (470-399 a.C.) sono personaggi notissimi e per essi non è il caso di spendere ulteriori parole.
Eudosso di Cnido (circa 391-338 a.C.), Ipparco di Nicea (II° secolo a.C.) e Archimede di Siracusa (287-212 a.C.) sono celebri matematici ed astronomi.

[ VI,48 ] Bella è soltanto la virtù e quanto della virtù partecipa.

[ VI,49 ] Le vite sono peggiori o migliori a seconda che siano brevi o lunghe?
Una libbra è l’equivalente di 327 grammi, e dunque 300 libbre corrispondono a 98,1 chilogrammi.

[ VI,50 ] Usare l’impulso ‘con riserva’ significa desiderare qualcosa e insieme, grazie all’uso della diairesi, desiderare di mantenere la propria proairesi in accordo con la natura delle cose. 
Per chi decide di fare i primi passi sulla strada che porta alla virtù, è fondamentale imparare ad usare l’avversione esclusivamente nell’ambito di ciò che è proairetico e ad usare ‘con riserva’ il desiderio nell’ambito di ciò che è aproairetico.

[ VI,51 ] Bisogna porre il nostro bene e il nostro male in ciò che aproairetico, come la fama e l’oscurità, il piacere e il dolore fisico, o in ciò che è proairetico, nelle opere della nostra proairesi? Bisogna porre la felicità e l’infelicità in mani altrui o nelle nostre?

[VI,52 ] I giudizi sono entità proairetiche, in assoluto nostro dominio. Infatti, le cose esterne ed aproairetiche come tali non hanno accesso alcuno alla nostra proairesi poiché devono, in ogni caso, sempre essere prima trasformate nelle corrispondenti rappresentazioni mentali.

[VI,53 ] Nessuna sciatteria verso ciò che è aproairetico, giacché dall’uso che di esso facciamo dipende il nostro bene o il nostro male, la nostra libertà o la nostra schiavitù.

[VI,54 ] Ciò che è utile all’ape è utile anche allo sciame. Se dunque è utile all’uomo mantenere la sua proairesi in accordo con la natura delle cose: libera, infinita, inasservibile, insubordinabile; ciò sarà anche utile alla società. La politica è questo. Ragion per cui, visto in quest’ottica vera, il grande politico era Socrate, non Pericle; Diogene, non Alessandro Magno; Epitteto, non Marco Aurelio.

[ VI,55 ] Dov’è la salvezza dell’uomo? Gli Stoici hanno ampiamente dimostrato che tutto ciò che è aproairetico non può essere né bene né male e che soltanto ciò che è proairetico può essere tale.
La Natura, il Cosmo, il Fato, la Prònoia, la Materia Immortale, il Dio delle religioni monoteiste e così via, sono entità proairetiche o aproairetiche? 
Se essi esistono indipendentemente da me, se non sono in mio esclusivo potere, essi sono entità aproairetiche. E se tali sono, nessuna di esse può e deve essere per me bene o male. 
Infatti, se io le giudicassi essere un bene, ponendo il bene fuori di me farei inevitabilmente dipendere da esse e dal loro volere la mia libertà e la mia felicità e dunque le odierei e le bestemmierei quando ritenessi di non ottenere da esse quei beni dei quali le faccio depositarie. Se le giudicassi essere un male, ponendo il male fuori di me cercherei inevitabilmente di avversarle in ogni modo, ma farei comunque dipendere da esse e dal loro volere la mia libertà e la mia felicità, giacché le odierei e le bestemmierei quando incappassi in qualcuno dei mali dei quali le faccio depositarie.
Il solo atteggiamento corretto di fronte a tutte queste entità è dunque quello di riconoscere che esse non sono e non possono essere altro per me che né bene né male. Il che significa che l’uomo può benissimo immaginare di provare l’esistenza di un Dio malvagio come Arimane, ma resta il fatto che questo è affar suo, è affare di Arimane. 
Come Epitteto ha insegnato a Marco Aurelio, e come invece Marco Aurelio continuamente mostra di fraintendere, Arimane o Zeus possono benissimo essere entità malvagie o buone ma per l’uomo virtuoso, per l’uomo che usa correttamente la proairesi e la diairesi, essi sono malvagi o buoni per se stessi ma comunque buoni per il virtuoso. La divinità può benissimo essere pensata non soltanto buona ma anche connotata dalla malvagità, da una provvidenzialità perversa che ha di mira il nostro danno. In quel caso l’uomo virtuoso perdona Dio ed usa con lui la bacchetta di Ermete e gli dice: ‘Tu, divinità, porta quel che vuoi ed io, uomo, ne farò un bene. Porta malattia, morte, difetto di mezzi di sussistenza, ingiurie, una condanna ingiusta. Io, uomo, ne farò un bene, una cosa attraverso cui mostrare nei fatti cos’è una creatura che comprende il tuo piano. Tutto ciò che mi darai lo farò beato, felicitante, solenne, da emulare’.
Allo stesso modo, abbiamo miriadi di esempi tutt’altro che immaginari di medici che non sono affatto interessati alla salute dei pazienti e di piloti la cui preoccupazione non è affatto l’attenzione alle esigenze dei passeggeri.
Sto per fare un viaggio per mare. Cosa mi è possibile? Mi è possibile scegliere la nave con cui partire e dunque, in un certo senso, il pilota e i marinai; il giorno; il porto da cui partire. Succede poi che una tempesta si abbatta sulla nave. Quale altra parte posso fare? La parte che mi spettava io l’ho già assolta. La tempesta è ipotesi di altri, del pilota e dell’equipaggio. Ma la nave affonda pure! E cosa posso fare per evitarlo? Quel che posso, questo soltanto faccio. E se non posso null’altro, affogo senza avere paura né strillando né incolpando Dio o la natura o chi altro, ma sapendo che quanto nasce deve anche perire. Giacché non sono eterno; sono un uomo, una parte del tutto, come un’ora di un giorno. Io devo come l’ora venire e come un’ora trapassare. C’è differenza sostanziale se trapasso annegando o per la febbre? Giacché per qualcosa devo pur morire.
È dunque controdiairetico, è da schiavi, è vizioso è stupido credere nell’esistenza di un Dio aproairetico e giudicarlo buono, provvidente, amoroso o il contrario di questi attributi.

[ VI,56 ] La morte, anche quella delle persone più care, è ineluttabile. 

[ VI,57 ] Gli oggetti esterni ed aproairetici non hanno come tali accesso diretto alla nostra proairesi e sono sempre prima trasformati nelle corrispondenti rappresentazioni mentali. Ciò è tanto vero, che gli stessi oggetti sono valutati diversamente da persone diverse.
La controdiairesi, d’altra parte, è il supergiudizio non adeguato alla natura delle cose, sia proairetiche che aproairetiche, perché le assume in una prospettiva diversa da quella che effettivamente loro compete; ed è la più terribile delle malattie dell’uomo, perché è capace di ucciderlo pur mantenendolo in vita.

[ VI,58 ] L’uomo può vivere in modo contrario alla natura delle cose ma non può mai vivere in modo contrario alla natura.

[ VI,59 ] Prima ancora che sia il tempo a cancellarne la memoria, dice Marco Aurelio, meglio stendere un velo pietoso sui cortigiani che ho intorno.

*****

[ VII,1 ] Di una malattia del corpo a decorso rapido, violento, tumultuoso si dice che è una malattia acuta. Così, un episodio acuto di quella malattia della proairesi che è la controdiairesi va chiamato ‘aberrazione’. 
Di una malattia ad andamento prolungato, con scarsa tendenza alla guarigione si dice che è una malattia cronica. Così, la scarsa o nulla tendenza alla guarigione, ossia alla diairesi, di quella malattia della proairesi che è la controdiairesi va chiamata ‘vizio’. 
Tutti i differenti vizi non sono altro che forme di abitudine inveterata, di pratica sistematica della controdiairesi in contesti diversi. È sempre la stessa storia.

[ VII,2 ] Se la malattia della controdiairesi non è cronica, la proairesi può facilmente riprendersi da un accesso acuto ossia da un’aberrazione. Rappresentazioni catalettiche, retti giudizi, diairesi sono infatti in esclusivo potere della nostra proairesi. Inoltre, il timore di non potersi riprendere è intrinsecamente contraddittorio giacché si tratta di un’operazione proairetica, nella quale gli oggetti esterni e aproairetici non hanno alcun potere. La natura ha dato alla proairesi, quasi araba fenice, la possibilità di rivivere da se stessa, dalle proprie ceneri.

[ VII,3 ] Diceva Epitteto che se noi fossimo concentrati sulla nostra proairesi così energicamente come i senatori, a Roma, sono concentrati sulle cose esterne ed aproairetiche per le quali si industriano, probabilmente concluderemmo qualcosa anche noi. I senatori tutto il giorno e tutti i giorni consigliano, dibattono, votano su forniture di grano, su proprietà immobiliari, su profitti ottenuti o attesi. 
In un certo senso, le faccende di quei senatori sono simili alle nostre, giacché ricevere da qualcuno una lettera e leggere: ‘Ti prego di delegarmi l’ esportazione di una certa quantità grano in cambio del mio voto favorevole alla tua elezione a quella certa carica’ non è diverso dal riceverne un’altra e leggervi ‘Ti prego di esaminare qual è per Crisippo il governo dell’ordine del mondo e quale ufficio vi ha l’animale logico; esamina anche chi sei tu e cosa sono il tuo bene ed il tuo male’. Si tratta di istanze diverse quanto agli oggetti ma che hanno bisogno di eguale impegno.
Lo zelo che i senatori pongono nelle loro faccende non sarebbe, dunque, degno di opere migliori? Alla fin fine ognuno di noi tanto vale quanto vale ciò su cui si industria.

[ VII,4 ] Nel caso dell’uomo, nessun progresso verso la virtù è possibile se egli usa parole del cui significato non ha piena comprensione e dà spazio ad impulsi all’azione che contrastano con quanto è per lui doveroso.

[ VII,5 ] Se io sono cittadino del mondo, qual è l’opera che la natura della quale sono figlio richiede da me? 
Che io rispetti la natura delle cose serbando la mia proairesi libera, infinita, inasservibile e insubordinabile. 
Se io sono anche cittadino di una città più piccola che è parte del mondo, qual è l’opera che questa seconda città richiede da me? Che io rispetti le leggi che essa si dà per promuovere la pacifica convivenza tra i suoi cittadini.
Il fatto che il rispetto della natura delle cose sia intrinsecamente in mio esclusivo potere e dunque che la mia proairesi sia sempre adeguata a quest’opera; e soprattutto la possibilità che qualcun altro possa compiere l’opera in questione al mio posto, porta ad escludere che Marco Aurelio, in questo frammento, pensi alla prima città. Egli si riferisce evidentemente alla seconda città, alle sue leggi e al suo ruolo in essa; ruolo che, a seconda delle contingenze, egli porterà a termine, da imperatore, in uno dei tre modi che qui dettaglia. 

[ VII,6 ] La virtù è premio a se stessa. Lasciate che scompaiano i virtuosi, e anche la fama della virtù è destinata a scomparire.

[ VII,7 ] Chi non capisce cosa siano proairesi, diairesi, controdiairesi e antidiairesi non deve vergognarsi di ammetterlo e, se ha bisogno di aiuto, deve accettare che qualcuno lo aiuti a comprendere chi è e che cos’è venuto a fare in questo mondo. 

[ VII,8 ] Se la morte dell’uomo è cancellazione della sua proairesi, il problema non si pone neppure. Se la proairesi invece permanesse, essa sarebbe comunque capace di dominare lo sconcerto domani, come lo è oggi e lo era ieri.

[ VII,9 ] Il cosmo è un’unica sostanza e un’unica polis.

[ VII,10 ] Tutto è sottoposto a rapide trasformazioni.

[ VII,11 ] Qualunque azione umana è in accordo con la natura, ma non tutte le azioni umane sono in accordo con la natura delle cose ossia con la ragione.

[ VII,12 ] Dice il proverbio che l’occasione fa l’uomo ladro. Meglio sarebbe dire che essa rivela il ladro. Rettitudine o soltanto correttezza?

[ VII,13 ] Socrate affermava che Anito e Meleto potevano farlo uccidere ma non fargli del male.
Senza bisogno di attribuirgli la profondità del sapiente stoico, se Socrate giudica rettamente che nessun uomo può fare dal male ad altri che a se stesso, allora giudicherà anche che nessun altro può fargli del male. Ma è altrettanto evidente che nessun uomo può fare del bene ad altri che a se stesso, e che dunque nessuno può fargli del bene.
Questo accade poiché bene e male esistono soltanto nella proairesi dell’uomo, laddove ‘bene’ è il retto uso delle rappresentazioni, che significa -in questo caso- libertà e infinità della proairesi di Socrate; e ‘male’ l’uso scorretto delle rappresentazioni, che significa schiavitù e miseria delle proairesi di Anito e Meleto. 
Dove nasce dunque l’aberrazione di giudicare che il bene e il male siano entità aproairetiche e, ancor peggio, che esista qualcosa come il ‘bene comune’? Ancora e sempre nella proairesi dell’uomo.
Infatti, ‘bene comune’ e ‘male comune’ non hanno maggiore realtà dell’esistenza di un fantomatico ‘pene comune’. Sono pure e vere contraddizioni in termini, concetti aberranti usati per giustificare se stessi e il proprio operato da menti deboli, immature, infantili, non sviluppate, anche se sui loro volti ondeggiassero barbe lunghe due spanne, anche se sedessero su un trono.

[ VII,14 ] Il dolore fisico è un’entità aproairetica, l’afflizione è un’entità proairetica. Il dolore fisico non è né un bene né un male. L’afflizione è un male.

[ VII,15 ] Se l’oro rimane oro pur frammisto ad altri materiali, la proairesi può e deve rimanere virtuosa anche quando sia circondata da proairesi viziose.

[ VII,16 ] Marco Aurelio parla, in questo frammento, di due diversi egemonici o proairesi. 
Nei primi due paragrafi il soggetto è la Prònoia, l’egemonico di quell’unico essere vivente che è il cosmo. Sappiamo che egli la concepisce come autoteoretica e non è difficile capire che la Prònoia, comunque muovesse il cosmo, lo muoverebbe verso il proprio bene, poiché qualunque essere fa sempre quello che giudica essere il proprio bene e mai il proprio male. E ovviamente nulla e nessuno potrebbe deviare la Prònoia del cosmo dal suo corso. 
I paragrafi seguenti sono invece riferiti all’uomo, che Marco Aurelio vede composto, come ha già detto in precedenti frammenti, di: corpo, animo o pneuma, ed egemonico.
Il corpo può patire, provare dolore o piacere, ma non ha la capacità di esprimere giudizi su quello che prova. L’animo può avere reazioni istintive di paura o di afflizione che precedono la formazione dei giudizi da parte della proairesi, semplicemente perché esse sono reazioni animali rapidissime, utili all’individuo per sfuggire determinati pericoli e che gli conferiscono pertanto dei vantaggi di sopravvivenza. La proairesi è invece autoteoretica, è essa e soltanto essa quella che produce i giudizi ai quali corpo e animo ubbidiranno. E l’egemonico dell’uomo, quando operi rettamente è, sempre secondo Marco Aurelio, una fedele immagine dell’egemonico del cosmo.

[ VII,17 ] Non si deve confondere ciò che ci viene in mente con ciò che pensiamo. Le rappresentazioni scabrose sono una cosa; l’assenso ad esse o il dissenso da esse è un’altra e la proairesi rettamente operante non confonde le due cose.

[ VII,18 ] Il cosmo del quale siamo parte è un’unità in spontaneo, continuo e inarrestabile mutamento.

[ VII,19 ] Di quanti Crisippo, di quanti Socrate, di quanti Epitteto ha bisogno il mondo?

[ VII,20 ] Dà un certo conforto sentire Marco Aurelio dichiararsi risoluto a non usare la controdiairesi.

[ VII,21 ] Come il lento richiudersi di un vecchio cofano.

[ VII,22 ] Le aberrazioni sono figlie dell’ignoranza e dunque chiunque può uccidermi, ma nessuno può recarmi danno.

[ VII,23 ] Nulla si crea e nulla si distrugge.

[ VII,24 ] I vizi altrui possono indignarci e l’indignazione trasparire nel nostro volto. Ma il giudizio che l’aberrazione altrui debba essere motivo di indignazione fino a diventare infelicità per me è, a sua volta, male. E quando io non mi renda più conto che essendo infelice sto aberrando, ho passato il confine che separa il ‘vivere’ dall’ ‘essere in vita’.

[ VII,25 ] Per il cosmo nel suo complesso il tempo non esiste e dunque esso è l’unico essere vivente non soggetto ad invecchiamento.

[ VII,26 ] Chi trascura la natura delle cose e dunque aberra, è in contraddizione e diventa nemico di se stesso. Deve pertanto essere considerato per quello che è in simile stato: un infelice che non merita né stupore né ira da parte di una retta proairesi ma quel distacco che si confà a chi invece rispetta la natura delle cose.

[ VII,27 ] Rallegrati pure di ciò che è aproairetico, ma con riserva; ossia non tanto da essere infelice per la sua mancanza.

[ VII,28 ] La proairesi, quando opera rettamente, è pace vivente.

[ VII,29 ] In questa sorta di breve memorandum Marco Aurelio ricorda a se stesso, tra altre cose, di disciplinare l’assenso alle rappresentazioni, l’impulso all’azione, il desiderio e l’avversione. Di particolare rilievo è il pressante invito alla diairesi tra ciò che è proairetico, che qui egli chiama ‘componente causale’ e ciò che è aproairetico, che egli chiama ‘componente materiale’. 

[ VII,30 ] È importante comprendere da quali cause basilari siano prodotti gli eventi. E noi sappiamo che anche per Marco Aurelio queste cause basilari sono quattro: Prònoia o Proairesi, Natura, Necessità, Fortuna.

[ VII,31 ] Vestiti di virtù.
Il filosofo cui la citazione si riferisce è Democrito.

[ VII,32 ] Il frammento ripropone le due prospettive che Marco Aurelio concepisce come radicalmente alternative: l’atomismo di Democrito ed Epicuro, che egli considera inaccettabile; e la visione stoica, che egli tende a colorare di un forte finalismo e di un intenso provvidenzialismo.

[ VII,33 ] Di dolore fisico acuto si può morire? Epicuro pensa di sì. E il dolore fisico cronico, che Epicuro giudica sopportabile, come va affrontato? 
Ricordiamoci che il dolore fisico è un’entità aproairetica e che proairetico è invece il giudizio che la proairesi ha di esso.
Ora, se la proairesi giudicasse il dolore fisico essere di per sé un bene, essa lo ricercherebbe attivamente, cosa che invece nessuna proairesi vediamo fare. Ma anche se lo facesse si tratterebbe di una aberrazione, in quanto la proairesi si sarebbe atteggiata in modo contrario alla natura delle cose, la quale stabilisce inviolabilmente che bene e male siano entità proairetiche e non oggetti esterni e aproairetici come il dolore fisico.
Se la proairesi giudicasse il dolore fisico essere di per sé un male, essa lo avverserebbe in ogni modo; ma anche in questo caso si tratterebbe di una aberrazione, in quanto la proairesi si sarebbe atteggiata in modo contrario alla natura delle cose, secondo la quale il dolore fisico è invariantemente un’entità aproairetica, non in esclusivo potere della proairesi: tant’è vero che essa vi è incappata suo malgrado.
Qual è allora l’atteggiamento della retta proairesi dinanzi al dolore fisico? A diairesi operata, ossia dopo avere correttamente giudicato che il dolore fisico non è né un bene né un male ma un ‘indifferente’, la proairesi ha il dovere di mantenere se stessa libera, infinita, inasservibile e insubordinabile; dunque ha il dovere di comandare all’antidiairesi di allontanare, secondo le circostanze e per quanto è possibile, un dolore fisico che esige per se stesso un’attenzione abnorme e che si propone niente meno che come agente limitante le caratteristiche naturali della proairesi. La retta proairesi fa dunque quel che può per allontanare il dolore fisico, senza trasformarlo in un motivo di paura e di afflizione (che sono proairetiche e male) né in noncuranza e trascuratezza (che sono anch’esse proairetiche e male). E lo fa con riserva, giacché sa che il successo in questa operazione non è in suo esclusivo potere. E quando l’opera dell’antidiairesi avesse fatto sparire il dolore fisico, la retta proairesi continuerebbe a serbare retti giudizi su di esso, senza inorgoglirsi e senza sentirsene per sempre al riparo. Quando invece fosse il dolore a sposarsi con la morte e ad avere il sopravvento, ebbene la retta proairesi farebbe vivere i suoi retti giudizi sulla morte e potrebbe salutare degnamente la fine della sua avventura con le parole che Socrate rivolgeva all’amico di una vita: ‘Critone, siamo debitori di un gallo ad Asclepio. Dateglielo e non ve ne dimenticate’.

[ VII,34 ] Proairesi che inseguono e fuggono cose aproairetiche ed in esse pongono il loro bene ed il loro male: una fama fatta di sabbia.

[ VII,35 ] In quanto entità aproairetiche, vita e morte non sono né un bene né un male.
Salvo un pronome ed un sostantivo, il frammento è la citazione testuale di un brano della ‘Repubblica’ di Platone nel quale Socrate, dialogando con Glaucone, spiega come gli uomini capaci di giungere all’apprensione di ciò che sempre permane invariabilmente costante siano filosofi di una filosofia, mentre coloro che non vi giungono ma vanno errando e si arrestano alla molteplicità del variabile siano filosofi di un’altra filosofia. 

[ VII,36 ] L’uomo che sa di bene operare non si duole di sentir parlar male di sé. Come tale, Marco Aurelio invita se stesso a non affliggersi delle maldicenze che corrono al suo riguardo.
Epitteto nelle ‘Diatribe’ cita le parole del frammento come parole che Antistene rivolge al persiano Ciro. 
Amico e compagno di Socrate, Antistene è la grandissima personalità filosofica cui possono essere fatti risalire i fondamenti del cinismo e, in un certo senso, dello stesso stoicismo.

[ VII,37 ] Quando Epitteto intendeva richiamare qualcuno alla verità che la nostra proairesi può atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente, gli diceva: ‘Se qualcuno ti imponesse di prostituire il tuo corpo al primo individuo che casualmente ti viene incontro, ne fremeresti. E che tu prostituisca la tua proairesi al primo che capita così che, se sarai ingiuriato, essa ne sia sconcertata e confusa: per questo non ti vergogni?’

[ VII,38 ] Il brano è un frammento dal ‘Bellerofonte’ di Euripide, e si può immaginare dedicato alle schiere dei combattenti contro i mulini a vento.

[ VII,39 ] Il frammento è tratto da un’opera di autore sconosciuto.

[ VII,40 ] Il frammento proviene dalla ‘Ipsipile’ di Euripide.

[ VII,41 ] Il frammento proviene dalla ‘Antiope’ di Euripide. 

[ VII,42 ] La citazione è un frammento di un’opera sconosciuta di Euripide.

[ VII,43 ] Il frammento proviene dall’opera di un autore sconosciuto. È comunque irresistibile la tentazione di intitolarlo: ‘Cent’anni di piagnistei’.

[ VII,44 ] Marco Aurelio cita parole di Socrate, come le riferisce Platone nella sua ‘Apologia’.

[ VII,45 ] Altre parole di Socrate, come le riferisce Platone nella sua ‘Apologia’.

[ VII,46 ] Anche per Socrate, la vita di per se stessa non è né un bene né un male.
Il frammento è una citazione proveniente dal ‘Gorgia’ di Platone.

[ VII,47 ] Soltanto il nitore della saggezza, simboleggiata dal moto ordinato dei corpi celesti e dalle regolari trasformazioni dei quattro elementi, è capace di ripulire la sudiceria prodotta dall’insipienza umana.

[ VII,48 ] Un invito a guardare le vicende umane dall’alto della natura delle cose e della diairesi.

[ VII,49 ] Quando si sia seguito l’invito del frammento precedente, cosa si potrà vedere domani più di quanto si sia visto oggi?

[ VII,50 ] Il frammento proviene dal ‘Crisippo’ di Euripide.

[ VII,51 ] Il primo frammento proviene dalla ‘Supplici’ di Euripide. Il secondo frammento è di autore ignoto.

[ VII,52 ] Colui che vince una competizione ha anche, per il semplice fatto di avere vinto, retti giudizi sulla vittoria? E se non li ha, pur avendo primeggiato ha perso la gara fondamentale e decisiva della saggezza e della virtù.

[ VII,53 ] Comune agli uomini e agli dei è la ragione. L’attività che ha libero corso ed è in armonia con la nostra struttura è la diairesi. Dall’uso della diairesi non può certamente venire alcun male.

[ VII,54 ] Giusti desideri ed avversioni, doverosi impulsi e repulsioni, retti assensi e dissensi. Così una proairesi è libera dinnanzi agli eventi, agli uomini ed a se stessa.

[ VII,55 ] La proairesi è una facoltà naturale nata per primeggiare poiché, avendo essa soltanto la conoscenza della natura delle cose, essa soltanto è in grado di disciplinare correttamente i desideri e le avversioni, gli impulsi e le repulsioni, gli assensi e i dissensi dell’uomo in vista del suo perseguimento della felicità.
Se è vero che l’uomo è finora l’unica creatura razionale esistente nel cosmo, è falso che il possesso della proairesi significhi per lui ‘ipso facto’ garanzia di felicità. E mentre tutti gli altri esseri viventi coniugano la loro assenza di proairesi con l’assenza del problema di essere felici o infelici, l’autoteoreticità dell’uomo gli lascia la possibilità di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente e dunque gli apre anche le porte dell’infelicità.
Lasciandosi scivolare lungo il piano inclinato della necessità di giustificare, innanzi tutto a se stesso, il proprio ruolo di ‘imperatore’ e non insensibile al canto delle Sirene che lo attorniano, Marco Aurelio colora a volte il suo stoicismo di un acceso finalismo provvidenzialistico e di un futile antropocentrismo, ripetendo luoghi comuni della scuola che forse non ha neppure ben capito. 
Marco Aurelio, infatti, dimentica o finge di dimenticare che gli uomini sono gli unici animali nel cosmo che si massacrano l’un l’altro a milioni e che, per fare soltanto un minimo esempio, le formiche, le api e i lupi sono animali molto più socievoli e socialmente organizzati dell’uomo. 
È persino stucchevole ricordare la mistificazione che si nasconde nel concetto di ‘bene comune’. La socievolezza dell’uomo, infatti, non consiste nel votarsi a perseguire un fantomatico e inesistente ‘bene comune’, che comunque sarebbe qualcosa di aproairetico e dunque non potrebbe neppure mai essere di per sè un ‘bene’. E neppure nel votarsi a scongiurare, perchè ‘male’, il fatto aproairetico che gli uomini si massacrino l’un l’altro a milioni. 
La socievolezza dell’uomo consiste nel riconoscere la libertà, infinità, inasservibilità, insubordinabilità delle proairesi altrui e nel salvaguardare con tali caratteristiche la propria. E la stessa manifesta impossibilità di eliminare universalmente l’uso della controdiairesi è semplicemente un altro modo per qualificare l’inesistenza del bene comune, così come l’impossibilità di annichilare la diairesi qualifica l’inesistenza del male comune.
Per comprendere fino in fondo cos’è in gioco, merita ascoltare al riguardo queste parole di Epitteto, che si possono benissimo immaginare rivolte ad un imperatore: “-Ma io posso far prendere a legnate chi voglio- Certo tu puoi farlo, come faresti prendere a legnate un asino. Sappi dunque che questo tuo comando non è un comando da uomo che comanda uomini. Comandaci invece come creature logiche, mostrandoci quanto è utile, e noi ti seguiremo. Mostraci quanto non è utile e noi ce ne distoglieremo. Fa di noi dei tuoi emuli, come faceva Socrate di sé. Socrate era colui che comandava gli uomini come uomini, poiché li invitava a subordinare ad essa, alla ragione, il loro desiderio, l’avversione, l’impulso, la repulsione. Tu invece dici: ‘Fa questo, non fare questo; se no, ti farò buttare in prigione’. Questo non è più comando di noi come creature logiche. Dì piuttosto: ‘Come Zeus ha costituito per natura delle cose, questo fa. Se non lo farai sarai punito, sarai danneggiato’. Chiedi quale sia il danno? Nessun altro se non quello di non fare quel che si deve. Infatti, avrai mandato in malora l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, il cittadino del mondo che è in te. E non cercare altri danni più grandi di questi”.

[ VII,56 ] Marco Aurelio ci confessa, forse addirittura esagerando, di avere finora vissuto come se fosse morto.

[ VII,57 ] Natura, fortuna, necessità e Prònoia intessono tutto ciò che di aproairetico avviene all’uomo. Ma anche la proairesi è una delle cause basilari del nostro destino.

[ VII,58 ] I casi della vita sono materiale per la nostra proairesi e una proairesi pervertita li trasforma inevitabilmente in male. Se anche tu vuoi fare così non hai che da accomodarti. La natura non ti frapporrà alcun impedimento, e sappi che non te lo frapporrà neppure se deciderai di trasformali in bene.

[ VII,59 ] La fonte del bene, come del male, è dentro l’uomo ed è la sua proairesi.

[ VII,60 ] Anche l’atteggiamento del corpo può rispecchiare lo stato della nostra proairesi.

[ VII,61 ] Le giuste competizioni alle quali, nel corso della vita, non dobbiamo rifiutarci di partecipare.

[ VII,62 ] Vuoi essere lodato dagli insipienti?

[ VII,63 ] L’aberrazione della proairesi è ignoranza della diairesi, di cos’è bene di cos’è male.
La citazione che apre il frammento è molto nota e proviene da Epitteto il quale, a sua volta, la mutua da Platone.

[ VII,64 ] Finché la facoltà proairetica non è compromessa, un qualunque intralcio del nostro corpo va correttamente giudicato come cosa aproairetica, e dunque non è un intralcio di proairesi.

[ VII,65 ] Le proairesi atteggiate diaireticamente praticano il retto uso delle rappresentazioni. Chi pratica il retto uso delle rappresentazioni si chiama ‘uomo’. Gli uomini sono ‘pace vivente’.
Le proairesi atteggiate controdiaireticamente praticano l’uso scorretto delle rappresentazioni. Chi pratica l’uso scorretto delle rappresentazioni si chiama ‘essere umano’. Gli esseri umani non possono che odiare e odiarsi a vicenda: essi sono ‘inimicizie viventi’. 

[ VII,66 ] Poiché i giudizi dai quali procedono i comportamenti delle persone non sempre si desumono facilmente dalle apparenze esterne, si può cautamente affermare di conoscere un uomo soltanto quando se ne conoscano a fondo i giudizi. 
In questo frammento Socrate e Telauge sono presi da Marco Aurelio a modelli emblematici del filosofo noto e del filosofo ignoto, al fine di rilevare che la notorietà non è indizio, e tanto meno prova, di eccellenza interiore.
Un filosofo di nome Telauge è effettivamente citato, come figlio di Pitagora, nelle ‘Vite dei filosofi’ scritte da Diogene Laerzio nel III° secolo d.C.
Le vicende della vita di Socrate sono troppo note per meritare ulteriori precisazioni.

[ VII,67 ] Anche se hai avuto la sventura di sedere su un trono imperiale, sembra dire Marco Aurelio a se stesso, ricorda che comunque continui ad avere la proairesi che la natura ti ha dato e che essa è libera, infinita, inasservibile, insubordinabile; mentre il trono su cui siedi è schiavo di ambizioni viziose e cortigiane, finito nei suoi confini, asservibile da ogni sorta di nemici, subordinabile da popoli più ricchi e potenti.
Tutti ti conoscono come imperatore e nessuno, spesso neppure tu stesso, ti riconosce per chi tu davvero sei.

[ VII,68 ] La proairesi umana è una delle quattro cause basilari degli eventi del cosmo ed è grazie al corretto uso di essa che l’uomo può essere felice in questa vita.
In questo frammento Marco Aurelio dettaglia il funzionamento della sua propria proairesi atteggiata diaireticamente davanti ad un evento esterno e aproairetico quale, ad esempio, le rabbiose urla di disapprovazione che gli sono rivolte contro da uno dei suoi più intimi collaboratori. Il processo è analizzato in tappe che soltanto per comodità di esposizione sono successive e che sono sommariamente, pur con qualche leggera imprecisione, riassumibili così.
Poiché nulla di ciò che è esterno ed aproairetico ha accesso diretto ad essa, innanzitutto la proairesi assume la rappresentazione di ciò che è esterno ed aproairetico e lo lavora fino a produrne una rappresentazione catalettica cui dà il proprio assenso (‘Avidio urla contro di me’). Immediatamente dopo, impiegando la diairesi, essa passa al retto uso della rappresentazione (‘le urla di Avidio non sono nulla per me, non sono né bene né male’) e decide se desideri o impulsi che scaturiscono da quel giudizio di assenso e dal responso della diairesi, implicano operazioni che sono in suo esclusivo potere (‘taccio’; ‘prendo la parola per spiegare perché Avidio si sbaglia’) oppure non sono in suo esclusivo potere (‘convincerò Avidio che si sbaglia’). Se sono in suo esclusivo potere essa le mette immediatamente in pratica. Se non sono in suo esclusivo potere essa formula, con riserva, quei i giudizi che chiamerà poi l’antidiairesi a mettere in pratica ove, quando, e come possibile.

[ VII,69 ] La retta proairesi sa essere felice, e dunque può fare di ogni giorno il nostro potenziale ultimo giorno.

[ VII,70 ] Quando gli dei decidono di punire gli insipienti non fanno altro che esaudirne i desideri. Come un dio, l’uomo che usa la diairesi sa sopportare coloro che non la usano.

[ VII,71 ] La diairesi ci dice che nostri vizi sono per noi cosa proairetica e dunque evitabili, mentre i vizi altrui sono per noi cosa aproairetica e dunque inevitabili.

[ VII,72 ] Anche per negare l’utilità della proairesi e delle sue opere ci sarebbe bisogno della proairesi.

[ VII,73 ] La proairesi è autoteoretica: dunque è essa stessa premio o punizione a se stessa. 

[ VII,74 ] Una retta proairesi accetta ben volentieri l’aiuto di un’altra proairesi, quando quest’ultima sia retta ossia non pretenda di diventare padrona della proairesi che aiuta. 

[ VII,75 ] Se la Prònoia, ossia l’egemonico del cosmo, fosse una entità irrazionale, non riuscirei a spiegarmi come mai io, Marco Aurelio, sono una creatura razionale.

*****

[ VIII,1 ] L’uomo può certamente vivere facendo a meno di molti oggetti esterni ed aproairetici, ma può vivere facendo a meno della proairesi? Ovviamente no, poiché ‘vivere’ è, in ogni caso e per qualunque uomo di qualunque cultura, sinonimo di uso della proairesi. Uso della proairesi è elaborazione di assensi, giudizi, desideri, impulsi, progetti, regole, visioni del mondo e così via; ossia approntamento e quindi traduzione nella pratica del vivere di tutto ciò che di proairetico è a questo fine pregiudiziale e indispensabile. Quale pratica del vivere? Quella che per l’uomo è bene e lo conduce alla felicità. E questa, sia detto chiaramente, non è altro che una delle possibili veraci definizioni di filosofia! 
Se dunque la filosofia è la ricerca e la pratica dell’arte di vivere bene e se per vivere comunque, bene o male, felicemente o infelicemente, bisogna necessariamente usare la proairesi; allora sono filosofi tutti gli esseri umani, anche coloro che non sanno o non credono di esserlo. Filosofi, tutt’al più, di filosofie differenti ma pur sempre filosofi, in quanto qualunque modo di vivere dell’essere umano, anche il più primitivo, il più biasimevole, il più rozzo, implica una teoresi.
Marco Aurelio è dunque cattivo filosofo e inganna se stesso quando afferma di essere ben lontano dalla filosofia. Egli non è lontano dalla filosofia, ma è filosofo di un’altra filosofia: una filosofia che egli afferma, con parole accorate, di disprezzare e di rifuggire ma della quale invece, nei fatti, egli è garante e custode. 
Si possono dunque intendere rivolte anche a lui le parole che Epitteto mette in bocca ad un vecchio canuto con alle dita molti anelli d’oro il quale, dopo avere guardato negli occhi un figlio adottivo ed avere scosso la testa, gli aveva detto: “Ascoltami, figliolo: si deve anche fare filosofia, ma si deve anche avere cervello: queste sono stupidaggini. Tu dai filosofi impari il sillogismo, ma cosa tu debba fare, lo sai meglio tu dei filosofi”. 
Il fatto è che i modi basilari in cui l’uomo può usare la proairesi non sono infiniti e non sono nemmeno pochi: sono soltanto due. Il primo è la diairesi, il secondo è la controdiairesi. Dunque tutte le teoresi e tutte le filosofie possibili possono essere fatte rientrare in una o nell’altra di queste due modalità filosofiche. 
Diventa così facilissimo e chiarissimo capire di cosa Marco Aurelio si lamenti, cosa sogni invano, cosa si rimproveri e rimpianga e riprometta.

[ VIII,2 ] La natura delle cose è inviolabile: gli uomini sono dotati di proairesi, le istituzioni non hanno e non possono avere proairesi. Ogni volta che un’istituzione incontra delle resistenze oppure le regole di due diverse istituzioni entrano in frizione, che ne è degli uomini delle istituzioni? Quando simili conflitti si verificano, basta qualche manciata di parole di propaganda, di slogan affannosamente consolatori? 
Si sa che presidenti, re e imperatori iniziano dal benessere e fanno inghirlandare e imbandierare i palazzi. Poi però, al terzo o quarto atto del dramma li senti gemere: ‘Ah, Citerone, perché m’accoglievi?’. Le corone sono sparite, le guardie del corpo non servono più a nulla.
Chi si avvicina ad un imperatore, un re, un presidente deve dunque sapere che si avvicina ad un personaggio tragico, non ad un attore ma ad Edipo in persona. Anche Edipo era ben lontano dal sapere di essere la causa della peste di Tebe. 

[ VIII,3 ] La differenza basilare tra Alessandro Magno, Cesare, Pompeo e Diogene, Eraclito, Socrate sta tutta nel fatto che, pur con sfumature diverse, gli ultimi tre sono filosofi della diairesi, mentre i primi tre sono filosofi della controdiairesi.

[ VIII,4 ] Com’è ben noto, nessuno può essere padrone della proairesi altrui.

[ VIII,5 ] Chi ormai conosce la natura umana, fa quel che essa richiede.

[ VIII,6 ] Il cosmo è in eterna trasformazione.

[ VIII,7 ] La natura umana esiste ed è tale che qualunque essere umano tende ad ottenere per sé ciò che giudica bello, giusto, buono ed a fuggire da quanto giudica per sé brutto, ingiusto, cattivo. Siamo pertanto autorizzati a definire la natura umana come una natura che tende alla felicità e non al suo contrario. E la proairesi centra questo fine quando conosce e rispetta la natura delle cose nei desideri e nelle avversioni, negli impulsi e nelle repulsioni, negli assensi e nei dissensi; lo fallisce quando ignora la natura delle cose.

[ VIII,8 ] Anche quando la lettura e lo studio ci sono impossibili, la nostra proairesi è pienamente attiva e funzionante.

[ VIII,9 ] Scrivendo queste parole circa le delizie della vita di corte, Marco Aurelio doveva certo avere sott’occhio queste altre di Epitteto: ‘Punto capitale: ricordati che la porta è aperta. Non essere più vile dei bambini ma come quelli, quando non gradiscono più una faccenda dicono: “Non giocherò più”; anche tu, quando certe cose ti paiano di quel genere, dicendo: “Non giocherò più”, allontanati. Se però rimani, non lamentarti’.

[ VIII,10 ] Il piacere fisico non è né un bene né un male, e dunque il saggio lo conosce, ne ha pratica ma non lo ricerca come un bene né lo fugge come un male.

[ VIII,11 ] Queste sono le domande che vanno rivolte a ciò che è proairetico ed a ciò che è aproairetico.

[ VIII,12 ] La retta proairesi si vede già dal mattino.

[ VIII,13 ] Quella che Marco Aurelio ripete qui è la classica tripartizione stoica della filosofia in: fisica, etica, logica.

[ VIII,14 ] Dimmi che giudizi hai e ti dirò chi sei.

[ VIII,15 ] Di che cosa ti sbalordisci? Di essere un uomo?

[ VIII,16 ] Libero è colui cui tutto accade secondo proairesi, quindi colui che sa anche correggere i propri errori. La libertà, infatti, è retto uso delle rappresentazioni, obbedienza alla natura delle cose; e nulla ha a che fare con il volere che succeda tutto quanto abbiamo reputato a casaccio, con la cieca ostinazione o con la follia.

[ VIII,17 ] L’afflizione è cosa proairetica e quindi in nostro esclusivo potere. Ed è tanto vizioso l’affliggersi e il biasimare quanto è virtuoso il cercare, con riserva, di correggere chi sbaglia o il suo errore. Ma se questo non è possibile, perché fare del male a se stessi affliggendosi?

[ VIII,18 ] Immortalità e trasformazioni del cosmo.

[ VIII,19 ] L’uomo non è nato né per godere nella carne né per aborrire di godere nella carne.

[ VIII,20 ] Come la semplice morte dell’uomo non è un male, così la sua semplice nascita non è un bene.

[ VIII,21 ] Soltanto grazie ad una retta proairesi l’uomo può sopportare la vita e il declino del proprio corpo.

[ VIII,22 ] Cosa accade se la virtù è un domani destinato a non arrivare mai?

[ VIII,23 ] Essere un uomo nel cosmo significa rispettare la natura delle cose.

[ VIII,24 ] La diairesi è come un bagno caldo che ci ripulisce di ogni bruttura.

[ VIII,25 ] Gli uomini passano su questa terra come le nuvole nel cielo; e questo paragone valga come un complimento sia per le nuvole che per gli uomini.
Lucilla e Vero sono la madre e il padre di Marco Aurelio. Massimo è il già citato Claudio Massimo e Seconda è, verosimilmente, la moglie. Epitincano e Diotimo sono personaggi ignoti. Antonino è Antonino Pio, padre adottivo di Marco Aurelio e Faustina è Faustina maggiore, zia di Marco Aurelio e moglie di Antonino Pio. Caninio Celere e Claudio Adriano sono due retori coetanei di Marco Aurelio. Carace, Demetrio ed Eudemone sono personaggi difficilmente identificabili con certezza. 

[ VIII,26 ] Cos’è peculiare dell’uomo?

[ VIII,27 ] Essere un uomo nel mondo.

[ VIII,28 ] Nulla di esteriore ha accesso, come tale, alla nostra proairesi. Se anche il dolore fisico fosse un male per il corpo, la sua traduzione in afflizione, che è cosa proairetica, non è però irriflessa ed automatica ma è operazione sulla quale la proairesi ha il più completo controllo. 

[ VIII,29 ] La retta proairesi ricorda continuamente a se stessa ciò che è in suo esclusivo potere e come utilizzare, con riserva e secondo il suo valore, ciò che non è in suo esclusivo potere.

[ VIII,30 ] La retta proairesi si muove dovunque con naturalezza, senza ricercatezze e senza sotterfugi. 

[ VIII,31 ] Viste con certi occhi -e sappiamo bene quali-, le vicende delle stirpi umane sono un unico, vero, immenso, continuo macello. 
Marco Aurelio cita come emblematici, in proposito, i lutti della famiglia dell’imperatore Augusto (63 a.C. – 14 d.C). I personaggi citati sono nell’ordine: la terza moglie Livia Drusilla; la figlia avuta dalla seconda moglie Scribonia, Giulia, che egli fece confinare a Ventotene per immoralità e che morì nel 14 d.C.; il nipote Marcello, figlio di sua sorella Ottavia e primo marito di Giulia, morto nel 23 a.C.; i nipoti Caio e Lucio, figli di Giulia e di Marco Agrippa, da lui adottati e che morirono nel giro di diciotto mesi: Caio in Licia nel 2 d.C. e Lucio a Marsiglia nel 4 d.C.; i figliastri Tiberio e Druso (morto nel 9 a.C.), figli di Livia Drusilla e del suo primo marito Tiberio Claudio Nerone; la sorella Ottavia, morta nell’11 a.C.; Marco Agrippa, morto nel 12 a.C.; Ario Didimo, filosofo della corte augustea e il celebre Mecenate, morto nell’ 8 a.C. 

[ VIII,32 ] Siccome la proairesi è la facoltà che usa le rappresentazioni, l’uomo è padrone assoluto unicamente dei propri giudizi e di quanto da quei giudizi discende. 
Non si possono non ricordare qui le parole di Epitteto in proposito: ‘Vengo dunque da questo interprete e sacrificatore e gli chiedo: “Esaminami le viscere, dimmi cosa mi significano”. Allora lui le prende, le sbroglia e poi mi spiega: “Uomo, tu hai una proairesi per natura non soggetta ad impedimenti e non soggetta a costrizioni. Qui, nelle viscere, questo vedo scritto. Te lo farò capire innanzitutto nell’ambito dell’assenso. Può qualcuno impedirti di dire di sì a ciò che è vero? Nessuno lo può. Può qualcuno costringerti a dire di sì a ciò che è falso? Nessuno lo può. Vedi dunque che in questo ambito ciò che è proairetico non è soggetto ad impedimenti, non è soggetto a costrizioni, è senza impacci? Orsù, e le cose stanno diversamente nell’ambito del desiderio e dell’impulso? Chi può vincere un impulso se non un altro impulso? Chi un desiderio ed un’avversione se non un altro desiderio ed un’altra avversione?” Ma qualcuno dice che se uno mi minaccia di morte, io sono costretto ad ubbidire e non sono più libero. “Non è la minaccia a costringerti e a toglierti la libertà, ma è il giudizio che tu reputi meglio fare quel che ti viene imposto invece che morire. Dunque a costringerti è stato il tuo giudizio; ossia è stata la tua proairesi che ha costretto se stessa. Questo è scritto nelle tue viscere e questo è il suo significato. Se lo disporrai sei libero. Se lo disporrai non biasimerai nessuno, non incolperai nessuno, tutto accadrà secondo l’intelligenza insieme tua e di Zeus’. 
Ecco il piano della natura, ecco quanto è scritto nel DNA umano.

[ VIII,33] Questa è la regola d’oro e queste sono le parole di Epitteto alle quali Marco Aurelio si riferisce in questo frammento: ‘E qual è la legge divina? Serbare il peculiare e non pretendere ciò che è allotrio, ma usare quanto ci è dato senza bramare quanto non ci è dato. Quando ci sia sottratto qualcosa, restituirlo con scioltezza ed immediatamente, riconoscenti per il tempo dell’uso, se decidiamo di non ridurci a invocare la balia e la mamma’. 

[ VIII,34 ] Gli arti mozzati dei Quadi e le teste mozzate dei Romani non hanno più la possibilità di essere riattaccati al corpo. 
La proairesi dell’uomo, invece, può atteggiarsi secondo diairesi oppure secondo controdiairesi e passare liberamente dall’una all’altra.

[ VIII,35 ] Ragione e proairesi sono capacità insite nella Materia e che da essa scaturiscono. E come la natura ingloba e comprende tutto ciò che esiste, la proairesi riesce a fare di ogni apparente impedimento, materiale per il raggiungimento del fine verso cui si muove. 

[ VIII,36 ] Le difficoltà, le fatiche, le sfide dell’esistenza sono sopportabili se la proairesi si rende conto di essere superiore ad esse. 

[ VIII,37 ] Non rifiutare di vivere, accampando la scusa che non sei immortale e che sei destinato a diventare putredine.
Pantea potrebbe essere il nome di una concubina di Lucio Vero. Pergamo, Cabria e Diotimo potrebbero essere nomi di liberti. 

[ VIII,38 ] Anche la putredine è secondo natura, e dalla cosiddetta putredine scaturisce anche la proairesi.

[ VIII,39 ] Parlando dell’incoerenza degli esseri umani nei loro giudizi circa beni e mali, Epitteto afferma che essi ammettono facilmente certi loro difetti, mentre altri non li ammettono facilmente. Per esempio nessuno ammette di essere stolto o ingiusto, ma ammette facilmente di essere timido o geloso perchè immagina che vi sia in ciò qualcosa di involontario. 
Ora, se la giustizia è una virtù, ogni virtù è bene; e un bene non può contraddire un altro bene. Il piacere fisico, invece, non è una virtù, ma qualcosa che non è né bene né male, un materiale lavorando il quale la proairesi potrà centrare il proprio bene o il proprio male.

[ VIII,40 ] Il dolore fisico è cosa aproairetica. L’afflizione è cosa proairetica. Essere o non essere proairesi? Questo è il problema. 

[ VIII,41 ] Nei vegetali e negli animali privi di ragione hanno continuamente luogo miriadi di stimoli e controstimoli del tutto aproairetici che provocano reazioni organiche o spingono l’organismo a soddisfare determinate necessità fisiologiche. Marco Aurelio, usando la figura retorica dell’iperbole, chiama ‘male’ per la natura tutto ciò che è capace di intralciare tali stimoli e controstimoli, dimenticando di avere invece già ribadito più volte che bene e male esistono soltanto nella proairesi dell’uomo. Fuori di retorica, dunque, tutto ciò che è capace di intralciare tali stimoli e controstimoli può essere considerato come un impedimento non, si badi, della natura vegetale o animale ma del funzionamento fisiologicamente ordinario di quel certo specifico vegetale o animale. 
Non vi è differenza alcuna tra l’uomo e gli altri esseri viventi quanto ai suddetti stimoli e controstimoli. Essi continuano ad essere del tutto aproairetici anche nell’uomo e sono alla base della sua sopravvivenza: si pensi soltanto, per esempio, al sofisticatissimo ed autonomo controllo del ritmo cardiaco di base, della frequenza del respiro, e così via.
L’uomo è però un animale dotato di ragione, proairetico. Questo significa che tutta una serie di stimoli aproairetici, come il piacere e il dolore fisico, attraverso i sensi diventano materiale per sua la proairesi, la quale è dotata per natura della capacità di elaborare giudizi su di essi. Sono questi giudizi che danno poi luogo a impulsi all’azione, a desideri e così via, ossia a tutta quella gamma di attività proairetiche cui continuamente Marco Aurelio fa riferimento. 
Due sono, infine, le caratteristiche della proairesi che egli sottolinea in questo frammento e che sono anche le fondamentali. La prima è la sua assoluta autoteoreticità ossia il fatto che soltanto essa può intralciare se stessa; la seconda, la sua capacità di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente. 

[ VIII,42 ] La mia afflizione, comincia correttamente Marco Aurelio, è qualcosa in mio esclusivo potere, è proairetica, dipende esclusivamente da me, non può essere causata da nulla di aproairetico. Poi immediatamente dopo afferma di poter essere, lui, causa dell’afflizione altrui; come se l’afflizione, dunque, non fosse più qualcosa di proairetico ma qualcosa di aproairetico. È un po’ come se l’imperatore proclamasse con sussiego: ‘La virtù è proairetica perché è aproairetica’, e ai suoi sudditi toccasse il compito di sviscerare la profondità del pensiero sulla base del pregiudizio che un imperatore non può dire delle castronerie.
Il frammento appare dunque come una specie di sconclusionato ossimoro che Marco Aurelio, in un momento di scarsa padronanza delle sue facoltà logiche oppure semplicemente in vena di figure retoriche, mette insieme contraddicendo nella seconda parte quello che ha affermato nella prima.
Sia detto con buona pace di tutti coloro che ancora non lo credono oppure credono il contrario: si può mettere al mondo, salvare la vita o uccidere qualcuno, ma è impossibile fargli del bene o del male e dunque tanto meno causargli felicità o afflizione.

[ VIII,43 ] Felicità non è il possesso di un qualunque oggetto esterno ed aproairetico ma una proairesi rettamente operante.

[ VIII,44 ] E’ desiderabile la mia fama presso i posteri a scapito della mia felicità nel presente?

[ VIII,45 ] Questa sorta di minidiscorso dell’Areopago dell’uomo libero si rifà certamente al seguente brano di Epitteto: “O uomo sii demente ormai, come si dice, per la serenità, per la libertà, per la magnanimità. Drizza una volta il collo come allontanato dalla servitù; abbi l’audacia di levare lo sguardo a Zeus e dire: orbene, usami per quanto disporrai; cointelligo con te; sono tuo pari; nulla schivo di quanto reputi; dove disponi, conduci; del vestito che disponi, cingi. Disponi che io occupi cariche, sia un privato cittadino, rimanga, vada in esilio, sia povero di denaro, sia ricco di denaro? Per tutto questo io parlerò in tua difesa di fronte alle genti; mostrerò qual è la natura di ciascuna cosa”. 

[ VIII,46 ] Epitteto dice chiaramente che per l’uomo c’è qualcosa di insopportabile: ‘Per la creatura logica, insopportabile è ciò che è irragionevole’. 
E cos’è irragionevole? Tutto ciò che contraddice se stesso. Può qualcosa di aproairetico contraddire se stesso? Non può, giacché neppure può semplicemente contraddire. Tutto ciò che di aproairetico accade all’uomo può dunque essere conflittuale ma mai contraddittorio. Pertanto esso è pur sempre sopportabile, fino alla morte. 
Ciò che è proairetico, invece, può essere contraddittorio e irragionevole. Salvo l’essere, proprio per questo, insopportabile per la proairesi, la quale non ha per natura la possibilità di fermarsi al bivio ma deve sempre sciogliere, e sempre scioglie, la contraddizione scegliendo l’alternativa che giudica per sé, magari aberrando, ragionevole e non contraddittoria. 
Se al bue, alla vite e alla pietra non possono dunque accadere contraddizioni, all’uomo esse possono accadere e sono per lui insopportabili; mentre anche per lui, come per il bue, la vite e la pietra, le avversità aproairetiche sono sopportabili. 

[ VIII,47 ] Se la nostra proairesi usa la diairesi e dunque distingue ciò che è in suo esclusivo potere da ciò che non lo è, le avversità aproairetiche sono e rimangono avversità aproairetiche. Se invece la proairesi usa la controdiairesi, dimentica di avere in proprio esclusivo potere i giudizi su ciò che è aproairetico e pronuncia così giudizi inadeguati sulla natura delle cose, essa trasforma inevitabilmente se stessa in afflizione ed infelicità.

[ VIII,48 ] Che la proairesi sia autodeterminativa è attestato anche dal fatto che essa può disporsi contro la natura delle cose e dunque, in un certo senso, contro se stessa quando sceglie di atteggiarsi controdiaireticamente. Alla proairesi è permesso aberrare in questo modo proprio perché essa è libera, infinita, inasservibile e insubordinabile da tutto ciò che le è esterno. 
Vale per la proairesi dell’uomo quello che valeva per la città di Ilio assediata dagli Achei: essa è sempre e comunque un’acropoli inespugnabile dall’esterno.

[ VIII,49 ] Le rappresentazioni cui dare il nostro assenso sono, come sappiamo, le rappresentazioni catalettiche. Le rappresentazioni cui negarlo sono quelle che la proairesi aggiunge di suo impropriamente, giacché non corrispondono a nulla di obiettivo se non alla possibilità della proairesi stessa di atteggiarsi controdiaireticamente, ossia di scotomizzare la diairesi tra ciò che è in suo esclusivo potere e ciò che non lo è. Quest’ultima operazione, com’è noto, è all’origine di tutte le passioni e di tutti i vizi.

[ VIII,50 ] La natura è onnicomprensiva, non ha nulla al di fuori di sé e dunque nulla, assolutamente nulla, può essere contro natura.

[ VIII,51 ] La nostra proairesi è una sorgente perenne di acqua pura quando riconosca se stessa per quello che è per natura: una facoltà capace di lavorare con arte e di trasformare in virtù qualunque materiale le venga sottoposto.

[ VIII,52 ] C’è qualcuno qui che applaude?

[ VIII,53 ] Ti ripeto la domanda: vuoi essere lodato dagli insipienti?

[ VIII,54 ] Paragonando l’aria alla Prònoia che pervade il cosmo e che egli vede dappertutto, Marco Aurelio invita a cointelligere con la mente della Materia Immortale così come respiriamo l’aria che ci circonda.

[ VIII,55 ] Sul frontone del tempio di Apollo a Delfi era scritto: ‘Riconosci te stesso’. 
Riconoscere se stessi significa riconoscere che il cosmo è immune da qualunque bene e da qualunque male, giacché essi non esistono altro che nella proairesi degli esseri umani. 
La proairesi, pertanto, non può fare del male o del bene né al cosmo né ad un’altra proairesi ma soltanto ed unicamente a se stessa.

[ VIII,56 ] Abbiamo già avuto modo di notare che Marco Aurelio definisce l’essere umano come la sintesi di tre componenti: una componente corporea risultante di terra e di acqua, una componente pneumatica derivata dall’aria e dalla quale risultano tutte le funzioni animali, e una componente proairetica derivata dal fuoco e che qualifica l’uomo come finora unico essere razionale nel cosmo. 
La natura delle cose, inoltre, inviolabilmente dispone che nessuna proairesi possa essere padrona della proairesi altrui e che soltanto in questa stiano il bene ed il male. Dunque nessuno è signore né di procacciarmi il bene né di precingermi del male, ma io solo ho potestà su di me a questo riguardo.

[ VIII,57 ] Le caratteristiche della luce del sole che permea e riscalda la nostra atmosfera sono avvicinate da Marco Aurelio a quelle della Prònoia che permea e dà le sue leggi al cosmo. 
L’etimologia che Marco Aurelio dà della parola ‘raggi’ è comunque errata.

[ VIII,58 ] La morte, essendo un evento aproairetico come la nascita, non è né un bene né un male e, come tale, non va né desiderata né temuta.

[ VIII,59 ] Cosa siete venuti al mondo a fare? 

[ VIII,60 ] Il volo della freccia e il volo della mente tendono sempre ad un obiettivo.

[ VIII,61 ] Mostrami i tuoi giudizi e ti dirò chi sei. Guarda i miei giudizi e capirai chi sono.

*****

[ IX,1 ] Nella natura non esistono contraddizioni di sorta ma soltanto contrasti, contrarietà, conflitti, opposizioni reali. Così il dolore non contraddice il piacere ma è altra cosa, opposta ad esso. La morte non contraddice la vita ma è il suo contrario; il dolce non contraddice l’amaro né il ruvido il liscio, tant’è vero che due qualità opposte non possono coesistere allo stesso tempo nella medesima entità.
Neppure esiste nella natura qualcosa che possa essere chiamato falso, in quanto la sua mera esistenza fa di esso un ente la cui verità è per ciò stesso automaticamente e intrinsecamente qualificata. La natura fa dunque soltanto cose vere e, considerata come la più comprensiva e primigenia delle divinità, può essere chiamata Verità e fonte di ogni Verità.
Se essa fa soltanto cose vere, saranno altrettanto naturali e veri tanto il dolore che il piacere, il freddo ed il caldo ed ogni altra sorta di opposti, che saranno da considerarsi per natura equivalenti e da porsi sullo stesso piano.
Della natura fa parte anche l’uomo, che essa ha generato vero come qualunque altra sua opera. All’uomo la natura ha però dato qualcosa che, per quanto è finora a nostra conoscenza, non ha dato a nessun’altra creatura: la comprensione dell’uso delle rappresentazioni ovvero la proairesi, la capacità di distinguere il bene dal male, la possibilità di essere felice oppure infelice.
Comunque l’uomo usi la sua proairesi, evidentemente quest’uso sarà sempre, per definizione, naturale e non potrà mai essere contrario a natura. Se, infatti, questo fosse possibile, significherebbe che la natura ha generato qualcosa che natura non è più, ossia che l’uomo non è più parte della natura che l’ha generato: il che è assurdo. 
È grazie alla proairesi fornitagli dalla natura che l’uomo è capace di riconoscere, nell’ambito dell’unico tutto da essa rappresentato e del quale egli è parte, un fatto empirico, constatabile, evidente: l’esistenza di due classi di cose. La prima classe è rappresentata dall’insieme di tutti quegli enti, come il corpo, che non sono in suo esclusivo potere. La seconda dall’insieme di tutti quegli enti, come i giudizi, che sono invece in suo esclusivo potere. Della prima classe fa parte tutto ciò che è aproairetico. Della seconda classe tutto ciò che è proairetico.
Questa bipartizione fondamentale delle cose, questa diairesi che le suddivide in due classi distinte e distintamente riconoscibili è naturale, è scritta nelle cose, è completamente indipendente dalla proairesi umana e la nostra proairesi ha soltanto la capacità di riconoscerla ma nessuna capacità di modificarla.
Questa struttura empiricamente vera della natura, così come essa si presenta alla proairesi umana può essere allora correttamente chiamata ‘natura delle cose’. La Verità della natura appare alla proairesi umana come esistenza della ‘natura delle cose’ e questa può essa stessa essere chiamata Verità. 
È in relazione a questa verità, ossia alla natura delle cose, che l’uomo può disporsi in armonia oppure in contrasto; mentre qualunque atteggiamento l’uomo prenda esso sarà sempre e comunque in armonia con la natura. È in relazione alla natura delle cose che l’uomo prende, e non può non prendere, ogni istante posizione; che egli vive la sua virtù e il suo bene quando è in armonia con essa e la sua viziosità e il suo male quando è in contrasto con essa. 
Siccome la natura è onnicomprensiva, diairesi e controdiairesi, virtù e vizio, giustizia e ingiustizia, menzogna e sincerità e insomma qualunque altra coppia di opposizioni possibili sono pienamente naturali. E siccome la natura delle cose non è neppur minimamente in nostro potere ed è per noi inviolabile, l’uomo può commettere i peggiori misfatti e nutrire le viziosità più perverse nella più completa e totale indifferenza, al riguardo, della natura e della natura delle cose, le quali proseguono imperterrite il loro cammino assorbendo e metabolizzando qualunque iniziativa umana.
L’ingiustizia e la menzogna, per fermarci ai primi due casi che Marco Aurelio cita nel frammento, sono empietà perché sono entrambe forme della negazione dell’esistenza della natura delle cose; poiché equivalgono a giudicare ed operare come se fosse in mio esclusivo potere ciò che in mio esclusivo potere non è, oppure come se non fosse in mio esclusivo potere ciò che invece è in mio esclusivo potere.
È soltanto l’uomo, e non la natura, a subire il contraccolpo della propria negazione della natura delle cose. Questo contraccolpo ha un nome: contraddizione. E contraddizione è sinonimo di aberrazione, passione, schiavitù, infelicità.
Medea entrò in contraddizione con se stessa perchè voleva Giasone ma contemporaneamente non voleva Giasone sposo di Glauce e re di Corinto. Limitandoci al caso specifico, Giasone invece non era in contraddizione con se stesso perché voleva Medea così com’era, donna e madre dei suoi figli. Le contraddizioni sono esclusivamente interne alla testa degli uomini, sono individuali e sono insopportabili. Credere che qualcosa sia contemporaneamente e nei medesimi riguardi giusto e ingiusto è impossibile. Epitteto al riguardo è, come al solito, chiarissimo quando afferma che volere in violazione della natura delle cose è ignorare di disporre così la propria infelicità, giacché ogni aberrazione dell’essere umano include una contraddizione. Chi aberra, infatti, non ha l’intenzione di aberrare ma di avere successo: dunque è manifesto che egli non fa ciò che vuole. Cosa vuole infatti effettuare il ladro? Il proprio utile, che egli identifica col rubare: ma rubare è appunto una forma di negazione dell’esistenza della natura delle cose. E dunque se rubare non gli è utile, non fa quanto vuole. La contraddizione è per natura delle cose invisa ad ogni animo razionale, ma finché questo non comprenderà di essere in contraddizione, nulla impedisce che faccia cose contraddittorie. Ma comprendendolo, è del tutto necessario che si distorni dalla contraddizione e la fugga; così com’è amara necessità per chi si accorge che una cosa è falsa, dissentire dalla falsità. Finché però non lo immagina, le assentirà come ad una cosa vera.

[ IX,2 ] L’ignoranza delle cause della peste uccide uomini e animali. Vi è una peste che uccide la proairesi e lascia l’uomo in vita: si chiama controdiairesi o ignoranza o negazione della natura delle cose. 
Quando la proairesi abbia raggiunto la sua maturità fisiologica e l’essere umano abbia quindi appreso l’esistenza della natura delle cose, della diairesi e della controdiairesi, bisogna immaginare l’esistenza umana come composta da tante cellule di vita più o meno piccole i cui confini temporali sono segnati dai più diversi ed imprevedibili eventi aproairetici e che sono qualificate al loro interno, nella loro durata, dall’atteggiamento che vi ha assunto la proairesi. Se la proairesi vi ha assunto un atteggiamento diairetico si tratta di cellule virtuose, mentre se la proairesi vi ha assunto un atteggiamento controdiairetico si tratta di cellule viziose.
Ciò che Marco Aurelio si auspica in questo frammento è che tutte le cellule di vita siano virtuose. Ma è facile vedere che ciò, se non impossibile in astratto è però praticamente impossibile. Sarebbe come auspicare che tutti i pezzi di ferro fossero calamite o che al mondo non esistessero gli insipienti. Non è dunque né contro natura né decisivo il fatto che anche il saggio entri a volte in cellule di vita da stolto: l’importante è che la proairesi dell’uomo conservi la naturale qualità di spostarsi il più rapidamente possibile dalla controdiairesi alla diairesi e qui rimanga finché gli è possibile e dato. 
Come la Sfinge pose ad Edipo la domanda rispondendo alla quale Edipo divenne re di Tebe e la Sfinge perì, così ogni cellula di vita pone sotto forme nuove e diverse sempre la stessa domanda, sapendo rispondere correttamente alla quale l’uomo diventa padrone di se stesso, almeno fino al prossimo errore.

[ IX,3 ] Come è stato già più volte ribadito, la morte è un evento del tutto naturale al pari della nascita, della crescita, della maturità della proairesi. La proairesi matura e retta non brama la morte e non la giudica un bene, così come non la aborre e non la giudica un male. Le proairesi di quasi tutti coloro che Marco Aurelio ha intorno la giudicano invece un male e si comportano in conseguenza. La compagnia di queste persone non è quella che si chiamerebbe la più auspicabile e il separarsi da loro con la morte non sarà un evento che si tingerà di rimpianto.

[ IX,4 ] Poiché bene e male sono giudizi e i giudizi sono entità proairetiche, l’uomo può fare del male soltanto a se stesso, non certo alla natura né ad un altro individuo.

[ IX,5 ] Chi capisce che omettere un’azione non è un ‘non fare’ ma il farne un’altra capirà anche facilmente quanto sia insensato omettere di farsi del bene.

[ IX,6 ] Di cosa c’è bisogno? C’è bisogno di un assenso, di un impulso, di un desiderio in accordo con la natura delle cose, quale soltanto la retta proairesi sa fornire all’uomo.

[ IX,7 ] La proairesi è signora assoluta dei nostri desideri, dei nostri impulsi e dei nostri assensi.

[ IX,8 ] L’unità del cosmo.

[ IX,9 ] Tutto ciò che partecipa di una comune natura ha la potente tendenza a riunirsi con ciò che gli è congenere. Così fa ciascuno dei quattro elementi e così fanno tutte le forme di vita, uomo compreso. 
Siccome però la proairesi è una formidabile facoltà umana che ha tuttavia la caratteristica di essere a doppio taglio, in quanto può atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente, questa tendenza coesiste nell’uomo con una tendenza opposta ad allontanarsi dai suoi simili. 
Notevole, nel frammento, è la spiegazione della combustione con la nota teoria chimica del ‘flogisto’, che avrà corso fino al tardo Medio Evo e oltre.

[ IX,10 ] Mentre sono altri a fruire dei frutti dei vegetali, il frutto della proairesi è fruito dalla proairesi stessa, in quanto capace di rendere se stessa tale quale decide di essere. Questo vale per il cosmo, ossia dio, su scala generale; e per l’uomo, come parte del cosmo, su scala individuale.

[ IX,11 ] La retta proairesi ha in se stessa le risorse per fronteggiare qualunque situazione ed essere pace vivente. 
Allo stesso tempo bisogna aver chiaro che se la proairesi non è rettamente atteggiata essa si è gia comunque punita da se stessa, in quanto infelice per non essere riuscita a soddisfare i propri desideri. 
E va anche ricordato che essa sarebbe comunque altrettanto infelice pur se gli dei ne avessero esaudito i desideri, in quanto non avrebbe retti giudizi su ciò che ha ricevuto e quindi ne farebbe un uso aberrante. 

[ IX,12 ] Augia aveva una sterminata ricchezza di greggi e di armenti ed Eracle ebbe da Euristeo l’ordine di ripulire in un solo giorno le stalle di Augia dalla enorme quantità di letame che vi si era accumulata. Cosa che egli, come il mito racconta, riuscì a fare; e l’impresa è annoverata come una delle dodici fatiche di Eracle. 
L’impresa cui Marco Aurelio si era assoggettato, ossia quella di ripulire almeno parzialmente l’impero dall’immensa quantità di merda che lo ricopriva, era impossibile e non ebbe successo. Perciò potrebbe ben essere chiamata ‘la tredicesima fatica di Eracle’. 

[ IX,13 ] Dove stanno di casa le circostanze difficili? Esse non stanno fuori della proairesi ma dentro di essa, nel giudizio che quelle circostanze siano difficili.

[ IX,14 ] Che cosa mi sia trovato davanti e che odore abbia sentito quando ho aperto la porta dell’impero, lo lascio dire a voi.

[ IX,15 ] Le cose esterne ed aproairetiche non parlano mai da sole. È la proairesi dell’uomo che mette loro in bocca le parole.

[ IX,16 ] Passività è per Marco Aurelio sinonimo di cose esterne e aproairetiche; attività sinonimo di cose proairetiche ossia in nostro esclusivo potere. Bene e male dell’uomo, dunque, sono entità proairetiche.

[ IX,17 ] È evidente, è solare che per tutto ciò che è aproairetico non esistono né bene né male.

[ IX,18 ] Tutti gli insipienti sono esseri che hanno reso se stessi vili, schiavi, infelici. Perché, dunque, temere il giudizio di chi non sa rettamente giudicare né gli altri né se stesso?

[ IX,19 ] Il cosmo, come è già stato spesso ribadito, è in perenne trasformazione; e il corpo stesso dell’uomo vivente è in continua distruzione e ricostruzione.

[ IX,20 ] Un ordine morale in cui un individuo faccia il male e sia un altro, che non vi ha alcuna responsabilità, a subirlo è inconcepibile.

[ IX,21 ] Non la morte, ma il giudizio che la morte sia qualcosa di male e di terribile: questo è il male terribile.

[ IX,22 ] 10, 100, 1000 egemonici congeneri e parti dell’unico cosmo. 
La proairesi incline alla giustizia è ovviamente quella atteggiata diaireticamente. Pare altrettanto ovvio che la proairesi sia ignoranza se atteggiata controdiaireticamente e sia invece intelligenza se atteggiata diaireticamente.

[ IX,23 ] Quanto all’essere animali proairetici, ossia capaci di diairesi e di controdiairesi, non v’è alcuna differenza tra un imperatore e un comune cittadino. Ma non vi è alcuna differenza tra di essi anche per quanto attiene alle loro funzioni fisiologiche e quindi quanto all’essere produttori di escrementi. Una data società composta da un dato numero di individui produrrà mediamente una data quantità di escrementi in un dato tempo. 
Epitteto dedica un intero capitolo delle ‘Diatribe’ alla ‘pulizia’ del naso, dei piedi, dei denti, della pelle e così via per far comprendere come la produzione di escrementi sia normale, inevitabile e vada correttamente giudicata, in quanto aproairetica, come né un bene né un male; e come sia altrettanto doveroso, e dunque proairetico, trattarla in modo razionale, senza eccentricità e senza stravaganza, per fare opera da uomo e non infastidire gli altri uomini. Sono dunque aberrazioni tanto la coprofilia quanto la coprofobia. 
La metafora escrementizia è particolarmente adatta a far comprendere cosa siano in realtà il sistema politico e la vita politica, nella quale sono sempre ed esclusivamente in gioco entità proairetiche come giudizi, ambizioni, programmi, progetti e così via. Infatti, se è vero, com’è vero, che non v’è differenza alcuna tra cittadini qualsiasi e imperatore quanto a capacità proairetica e se è altrettanto vero che il ‘male’ è l’uso scorretto delle rappresentazioni e dunque l’atteggiamento controdiairetico della proairesi, sarà anche vero che la quantità di male e di bene in una data società sarà altamente variabile in funzione del numero delle proairesi impegnate nella controdiairesi e nella diairesi e del rilievo relativo che i giudizi di proairesi diverse, con il loro esempio, possono avere sul funzionamento del sistema politico. 
Limitiamoci a considerare unicamente l’uso della controdiairesi e lasciamoci ancora guidare nell’analisi da Epitteto: ‘Ma non troveresti l’impurezza dell’animo visibile come quella del corpo, poiché quale altra impurezza dell’animo troveresti se non quanto lo fa sozzo nelle sue opere? Ora, opere dell’animo sono impellere, repellere, desiderare, avversare, prepararsi, progettare, assentire. Cos’è mai, dunque, che procura un animo sozzo ed impuro in queste opere? Null’altro che le sue determinazioni depravate. Sicché impurezza dell’animo sono i malvagi giudizi, mentre è purificazione l’infusione di giudizi quali devono essere. Puro è l’animo che ha giudizi quali deve, giacché soltanto questo è senza confusione e sudiciume nelle proprie opere’. 
È evidente, e non richiede più spiegazioni del sorgere del sole, il fatto che in qualunque società una percentuale variabile di proairesi saranno comunque sempre atteggiate controdiaireticamente. Bisogna dunque trovare innanzitutto pace nel giudizio che il male e le aberrazioni, sotto le forme più varie, sono realtà socialmente ineliminabili. Male che comunque ciascun cittadino fa a se stesso. Ma mentre fa quel male a se stesso, il cittadino, nel medesimo momento, produce qualcos’altro, ossia delle azioni, le quali sono entità aproairetiche per coloro che gli stanno intorno, e questi sono a loro volta necessariamente obbligati a tenerne conto. 
Queste azioni sudice, in quanto derivanti da giudizi aberranti e depravati, sono gli escrementi della metafora. 
Bene sarà allora il giudizio che ci spinge a fare un certo uso di questi escrementi, rimanendo in terreno diairetico col seppellirli senza toccarli e lasciando che la natura li conduca al loro destino. Male sarà il giudizio che ci spinge a cibarcene, ossia l’atteggiare controdiaireticamente la nostra proairesi e pascere a nostra volta altri individui, stabilendo così quella catena magica di merda che si chiama comunemente sistema politico e vita politica. Sistema politico e vita politica i quali, travestiti, truccati, occultati nella loro essenza e propagandati come appetibili, non possono che condurre necessariamente, prima o poi, alla guerra civile, alla guerra fra nazioni, a inevitabili stermini di massa.
Di quale fine socievole, infatti, si può parlare per l’uomo se questo fine non è un fine riferito al rispetto della natura delle cose e alla libertà della proairesi? Soltanto il cittadino che si appropria di colui che l’uomo è davvero per natura delle cose ha fatto l’azione più socialmente utile che si possa fare. 
Un sistema politico sano è dunque quel sistema politico in cui vi è da parte dei cittadini un uso di massa della diairesi, un’assunzione di responsabilità individuale a livello molecolare, una difesa della libertà della proairesi a qualunque prezzo e che pertanto necessita anche di un ridotto, anzi ridottissimo, numero di ‘leggi’. Soltanto in questo modo la produzione di escrementi è contenuta entro limiti ragionevoli. 
Un sistema politico è, ovviamente, malato e inquinato quando accade il contrario, e coloro che hanno poteri e responsabilità più ampie dei comuni cittadini operano attivamente per moltiplicare invece che per diminuire la quantità degli escrementi prodotti: moltiplicazione che Marco Aurelio, in questo frammento, si augura, forse invano, di poter scongiurare.

[ IX,24 ] L’evocazione dei morti e la pratica della controdiairesi.

[ IX,25 ] Nel sonno la nostra proairesi è spenta.

[ IX,26 ] È impossibile non pagare il prezzo che la controdiairesi esige.

[ IX,27 ] La verace e virtuosa benevolenza consiste appunto nel fare presente agli insipienti il lezzo che le loro proairesi emanano. 
Quanto agli dei, quando essi decidono di punire gli insipienti non fanno altro che esaudirne i desideri.

[ IX,28 ] I mutamenti continui e incessanti cui il cosmo e le sue creature vanno soggetti non sono altro che ondate successive di trasformazioni dell’unica Materia Immortale che lo sostanzia. 
Di fronte a questa evidente realtà, la domanda che Marco Aurelio sempre si pone è la seguente: “Questo mutamento è guidato da un egemonico oppure risulta dalla pura casualità dei movimenti degli atomi?”. 
Si tratta, come sappiamo, della classica alternativa tra la prospettiva finalistico-provvidenzialistica e quella materialistico-meccanicistica; e sappiamo anche che Marco Aurelio rifiuta la seconda, propria di Democrito e di Epicuro, in quanto gli riesce impossibile immaginare che qualunque moto non abbia una causa, che la materia organica derivi da quella inorganica e che la mente sia una ‘dimensione’ della Materia Immortale. 
All’interno, dunque, della prima prospettiva e senza prendere al riguardo una posizione netta, egli si chiede allora se l’egemonico del cosmo abbia dato un impulso iniziale al mutamento una volta sola oppure se intervenga di volta in volta nel succedersi dei singoli eventi. 
Ai suoi occhi, in ogni caso, la garanzia dell’esistenza di una proairesi del cosmo riposa sulla constatazione empirica dell’esistenza della proairesi umana. Questo fa sì che, anche se il cosmo fosse irrazionalità pura, l’uomo godrebbe però del privilegio di poter operare razionalmente. 
Ma per operare razionalmente la proairesi dell’uomo deve usare la diairesi ossia riconoscere, secondo le parole con le quali si apre il ‘Manuale’ di Epitteto, che: “Delle cose che sono, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere sono concezione, impulso, desiderio, avversione e, in una parola, quanto è opera nostra. Non sono in nostro esclusivo potere il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche e, in una parola, quanto non è opera nostra. Le cose in nostro esclusivo potere sono per natura libere, non soggette ad impedimenti, non soggette ad impacci; mentre le cose non in nostro esclusivo potere sono deboli, serve, soggette ad impedimenti, allotrie.” E che pertanto chi è dotato di una proairesi per natura libera, non soggetta ad impacci e ad impedimenti può giudicarsi superiore a tutto ciò che è debole, servo e soggetto ad impedimenti.

[ IX,29 ] I celebri e celebrati Alessandro Magno, suo padre Filippo di Macedonia, Demetrio -‘Falereo’ secondo alcuni o ‘Poliorcete’ secondo altri studiosi-, sono qui presi da Marco Aurelio a simboli eminenti di chi?
Di quei filosofi della controdiairesi i quali proclamano che l’ordine della natura è ingiusto e dunque che essi sono venuti al mondo per cambiarlo. Nella più totale ignoranza della differenza tra ‘natura’ e ‘natura delle cose’ essi e i loro seguaci promettono ai popoli di costruire la Repubblica di Platone e di portare libertà e giustizia a genti e popoli che gemono e simulano di obbedire. Mocciosi cialtroni tanto gli uni quanto gli altri, in quanto si ostinano a non imparare, e forse non impareranno mai, a distinguere ciò che è proairetico da ciò che è aproairetico.
Nel cosmo, invece, tutto avviene in armonia con la natura e la natura è radicalmente indifferente al bene e al male, al vizio e alla virtù, alla felicità e all’infelicità di esseri umani che essa potrebbe annientare e far sparire in qualunque momento senza neppure accorgersene.
E allora che fare? Certo non mettere mano a ciò che è impossibile, ossia a persuadere tutti gli esseri umani di quali siano i beni ed i mali. Ma a quello soltanto che è possibile e ci è stato dato: persuadere noi stessi dell’esistenza della natura delle cose, educarci ad operare la diairesi ed imparare l’arte di essere felici nel mondo così com’è.
Alessandro Magno e Filippo di Macedonia sono personaggi troppo noti perché vi sia bisogno di precisazioni. Demetrio Falereo visse tra il 345 e il 283 a.C. Fu allievo di Teofrasto e resse il governo di Atene dal 317 al 307 a.C., quando ne fu scacciato da Demetrio Poliorcete. Quest’ultimo visse tra il 337 e il 283 a.C. quando morì ad Apamea, in Siria. Ebbe vita avventurosissima e fu al centro delle vicende politiche e militari che coinvolsero in quegli anni la Grecia, il vicino Oriente e l’Africa.

[ IX,30 ] Lo spettacolo della enorme varietà delle vicissitudini umane è un’immagine dell’immensità del cosmo e una incontrovertibile testimonianza del fatto che la memoria di qualunque avvenimento è comunque destinata a scomparire.

[ IX,31 ] Dominio sullo sconcerto davanti agli eventi esteriori ed aproairetici, e conformità alla virtù per quelli che originano nella nostra proairesi.

[ IX,32 ] Soltanto l’uomo ha il privilegio di quello sguardo dall’alto che gli permette di abbracciare il cosmo intero e di riconoscere come felicità ed infelicità siano in suo proprio esclusivo potere.

[ IX,33 ] Come ogni cosa, anche l’Impero Romano è destinato inevitabilmente a scomparire. Poi la stessa sorte toccherà a ciò che l’avrà sostituito e così via all’infinito.

[ IX,34 ] Intorno a me, sembra dire Marco Aurelio, la controdiairesi è una pratica di massa.

[ IX,35 ] La morte è trasformazione naturale tanto quanto la vita, e siccome nulla di ciò che avviene nel cosmo può dirsi contro natura è evidente che al di fuori della proairesi umana non esistono né bene né male. Neppure alla proairesi umana è dato di atteggiarsi contro ‘natura’, ma soltanto in armonia o contro la ‘natura delle cose’ generando così il proprio bene o il proprio male.

[ IX,36 ] L’uomo è la sua proairesi, ma l’uomo non è soltanto proairesi bensì anche Materia immortale in continua trasformazione.

[ IX,37 ] Pure se tre sarebbero già anche troppi, gli insipienti scelgono sempre per se stessi almeno cent’anni di solitudine e di sconcerti. 

[ IX,38 ] Bene e male abitano soltanto nella nostra proairesi, non in ciò che è aproairetico.

[ IX,39 ] Poiché è una facoltà autoteoretica, la proairesi può anche dubitare di se stessa.

[ IX,40 ] La preghiera in senso proprio può essere definita come una forma di relazione ‘senza riserva’ che la proairesi dell’essere umano pratica nei confronti di entità che immagina onnipotenti al fine di ottenere, in ogni caso, qualcosa di esterno ed aproairetico che non è in suo esclusivo potere. Qualunque preghiera, pertanto, implica l’atteggiamento compiutamente controdiairetico della proairesi e su di esso si fonda.
Alcuni individui, ad esempio, pregano una entità che chiamano ‘Padre’. Dopo averne definito la residenza ‘nei cieli’ e dunque lontano dalla terra che abitano, invocano l’avvento del suo ‘regno’, con ciò implicando che di esso non vedono traccia alcuna intorno a loro. Quindi passano subito ad esplicite e pressanti richieste di prestazioni ed oggetti esterni ed aproairetici simboleggiati dal ‘pane quotidiano’, dalla ‘remissione dei debiti’, dal ‘non essere indotti in tentazione’ e dall’essere ‘liberati dal male’. 
L’auspicio, a sua volta, può essere definito in senso proprio come una forma di relazione ‘con riserva’ che la proairesi dell’essere umano pratica nei confronti di se stessa al fine di introdursi all’ottenimento di qualcosa di interiore e proairetico che è in suo esclusivo potere. L’auspicio implica, pertanto, l’atteggiamento compiutamente diairetico della proairesi e su di esso si fonda.
Se pregare dicendo: ‘Dacci oggi il nostro pane quotidiano’ definisce una civiltà; allora auspicare dicendo: ‘Possa io non avere paura di non avere il pane quotidiano’ ne definisce una diversa. La vita di ciascuno di noi non è altro che la pratica del giudizio su quale delle due civiltà ci meritiamo. 

[ IX,41 ] Nel sublime passo di Epicuro che Marco Aurelio non esita qui a citare, abbiamo l’esempio di un comportamento esemplare nella malattia e, in genere, nelle circostanze difficili. Ed è corretto e sufficiente intendere ‘intelletto’ come equivalente del termine ‘proairesi’, per rendersi conto di quanto affini siano epicureismo e stoicismo su questioni nient’affatto secondarie.

[ IX,42 ] Lo sfacciato, il furbastro, le persone sleali fanno comunque opere possibili e dunque altrettanto naturali di quelle di chi è virtuoso. E come sarebbe insensato richiedere che quanto è naturale non accada, così sarebbe aberrante richiedere che accada l’impossibile. 
Ora, poiché la natura delle cose inviolabilmente dispone che premio e pena, bene e male, felicità e infelicità siano incorporati, per ciascuno di noi, nei suoi stessi atti di pensiero, il saggio ha pienamente ragione di non affliggersi delle aberrazioni altrui e di farle anzi diventare altrettante occasioni, da un lato, per eventualmente correggere la sua superficialità o la sua imprudenza al riguardo e, dall’altro, per fare opera di filosofica educazione alla diairesi nei confronti di chi ha aberrato. Con riserva, ovviamente: ossia senza pretenderne una qualunque ricompensa né dolersi di non essere ascoltato o di essere frainteso.

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[ X,1 ] Socrate dice ad Anito e Meleto: “Voi potete farmi uccidere ma non potete farmi del male”. Identiche sono le parole che la proairesi dell’uomo può rivolgere a tutto ciò che è aproairetico. 
Essa, infatti, è per natura libera, infinita, inasservibile, insubordinabile e ciò che è aproairetico può spegnerla, cancellarla, estinguerla ma non farle del male né traviarla. Essa soltanto può traviare se stessa e rendersi schiava, finita, asservibile e subordinabile. 
Come? Atteggiandosi controdiaireticamente, ossia negando l’esistenza della natura delle cose e rifiutando la diairesi in cose in nostro esclusivo potere e cose non in nostro esclusivo potere. Natura delle cose per la quale tutto ciò che è aproairetico è, per la nostra proairesi, indifferente e dunque né bene né male: natura, cosmo e Zeus compresi.
Nel presente frammento Marco Aurelio descrive se stesso come lontano da questo stato di naturale perfezione. Perfezione che comunque attesta di conoscere molto bene, giacché egli non soltanto diagnostica con esattezza la malattia da cui è affetta la sua proairesi ma ne propone anche la prognosi e i rimedi necessari per curarla. 

[ X,2 ] Natura inanimata, natura animale e natura razionale possono e devono coesistere armoniosamente nell’uomo.

[ X,3 ] L’uomo può agevolmente tollerare tutto ciò di cui è in grado di concepire la tollerabilità. Per la creatura logica intollerabile è soltanto ciò che è irragionevole ossia tale da contraddire se stesso. Tutto ciò che non contraddice se stesso, invece, è tollerabile. 
Dunque le opposizioni reali tra entità aproairetiche diverse sono tollerabili, mentre le contraddizioni tra giudizi nell’ambito di una singola proairesi sono intollerabili. 
Perciò noi abbiamo bisogno di educazione alla diairesi soprattutto per questo: per imparare ad adattare il preconcetto di tollerabile e di intollerabile ad ogni particolare circostanza in armonia con la natura delle cose. 

[ X,4 ] Ogni aberrazione dell’essere umano include una contraddizione. 
Pur tenendo ben salda la verità che nessuno è padrone della proairesi altrui, il saggio ha però la pazienza di additare a chi glielo richieda la contraddizione per cui aberra, facendogli riscontrare chiaramente come egli stia compiendo, per dir così, qualcosa che non vuole. 

[ X,5 ] Prestabilito fin dall’eternità è l’evento con il quale la tua proairesi dovrà confrontarsi, ma non il come la tua proairesi si atteggerà di fronte ad esso.

[ X,6 ] Nulla nel cosmo può mai essere contro natura ed io, Marco Aurelio oppure uomo qualunque, sono una parte dell’insieme governato dalla natura. 
Che poi la proairesi degli uomini si atteggi diaireticamente o controdiaireticamente, ossia in armonia con la natura delle cose oppure contro la natura delle cose, è del tutto indifferente per il cosmo. 
Un simile evento, infatti, ha rilievo unicamente in relazione alla felicità o infelicità degli uomini come parti individuali dell’insieme cosmico alla cui perfezione, comunque, essi collaborano inevitabilmente anche quando credessero di poterla ostacolare o danneggiare.

[ X,7 ] Bene e male esistono soltanto nella proairesi dell’uomo, il quale è materia immortale destinata, come tutte le altre parti del cosmo, ad una continua e incessante trasformazione. 

[ X,8 ] L’uomo è un essere capace di mettersi in viaggio verso le Isole dei Beati oppure verso le popolarissime isole dei Disperati. 
In queste ultime, gente incosciente e pusillanime, mezza divorata dalle belve, piena di ferite e di sangue coagulato implora nondimeno di essere conservata in vita per la caccia dell’indomani e di essere offerta in quello stato agli stessi artigli e agli stessi morsi ferini. 

[ X,9 ] Sacra è la diairesi ossia il supergiudizio che ci fa capaci di distinguere ciò che è in nostro esclusivo potere e ciò che non lo è, ciò che è proairetico e ciò che è aproairetico. Può ciò che è aproairetico essere superiore a ciò che è proairetico? Può ciò che è superiore essere vinto da ciò che è inferiore? La natura delle cose lo vieta in modo assoluto, tanto quanto la natura vieta la possibilità che un corpo materiale in moto superi la velocità della luce nel vuoto. 
Nei suoi stucchevoli e anche troppo frequenti momenti di sbandamento e di debolezza, una proairesi come quella di Marco Aurelio lo dimentica e, affacciandosi sulle quotidiane vicende del mondo, intona su se stessa queste stupide e penose litanie, come se non fosse lei la sola ed unica responsabile di ciò di cui si lamenta.

[ X,10 ] Di cosa si vantano gli insipienti? Dei loro successi in tutte quelle attività che hanno di mira oggetti esterni ed aproairetici. 
Ingannarsi, essere precipitosi, desiderare con smania viziosa non fa per essi differenza alcuna, se soltanto la imbroccheranno in ciò che è aproairetico. Dove invece ci sono morte o esilio o dolore o discredito, là essi arretrano, là entrano in agitazione. 
Perciò, com’è verosimile che accada a coloro che sbagliano nelle questioni più grandi, ciò che nell’uomo è naturalmente coraggioso essi lo strutturano sfrontato, demenziale, protervo, sfacciato; mentre ciò che in noi è naturalmente cauto e rispettoso di sé e degli altri, lo strutturano vile e miserabile e pieno di paure e di sconcerti.

[ X,11 ] L’uomo virtuoso non si vanta e non ha alcun bisogno di vantarsi, ma se si vantasse di cosa si vanterebbe? Certamente di far vivere la saggezza nel campo di ciò che è proairetico e dunque di mostrare accettazione e gratitudine alla sorte nell’ambito di tutto ciò che è aproairetico.

[ X,12 ] La diairesi è il nostro sole.

[ X,13 ] Subito dopo il risveglio, a Marco Aurelio tocca fare ogni giorno un bagno di folla.

[ X,14 ] Queste sono le parole che il saggio, l’uomo educato alla diairesi, rivolge alla natura.

[ X,15 ] Vivere in armonia con la natura delle cose è possibile dappertutto, a patto di capire che vi sono luoghi o incarichi laddove l’unico modo per vivere in armonia con la natura delle cose è quello di abbandonare il luogo, l’incarico o la vita.

[ X,16 ] Questa è, in poche parole, la differenza che passa tra il cibo e il vomito, tra il sangue e le chiacchiere.

[ X,17 ] Rispetto alla totalità del cosmo, un normale oggetto esterno ed aproairetico ci appare certo, nelle sue dimensioni, un semino di fico e, nella sua durata, un giro di trapano. Salvo che per la proairesi dell’uomo la stessa totalità del cosmo è un oggetto esterno ed aproairetico, proprio come un semino di fico e un giro di trapano.

[ X,18 ] Noi viviamo in un cosmo nel quale c’è sempre, per ogni cosa, un altro giro di giostra.

[ X,19 ] Dagherrotipo dei politicanti e degli uomini di potere, con incorporato autoritratto di Marco Aurelio.

[ X,20 ] Bene e male, utile e dannoso non sono cose aproairetiche ma giudizi proairetici. 

[ X,21 ] La natura delle cose è inviolabile ed essa accoglie l’egemonico dell’uomo, quando sia atteggiato diaireticamente, come la sposa accoglie il suo diletto sposo. Dunque, l’egemonico che tentasse di violentare la natura delle cose atteggiandosi controdiaireticamente non otterrebbe altro risultato che quello di evirare se stesso.
La prima citazione proviene da un frammento di Euripide.

[ X,22 ] Queste sono le tre alternative di vita, tanto semplici quanto chiare, che Marco Aurelio mostra di vedere dinanzi a sé. E il fatto che la seconda, quella centrale, sia esplicitamente rappresentata dal volontario abbandono del trono imperiale certifica in modo inconfutabile la viltà della prima e la stupidità della terza. 
Una proairesi che fa ciò che non vuole e vuole ciò che non fa, tanto per usare un modo di dire inappropriato ma universalmente comprensibile, ha davvero di che stare allegra!

[ X,23 ] La differenza circa la vivibilità di un posto oppure di un altro non la fa il posto stesso, la vera differenza la fa la proairesi.
La citazione, molto brachilogica e di complessa interpretazione, proviene dal ‘Teeteto’ di Platone.

[ X,24 ] La proairesi pone sempre a se stessa delle domande. Queste domande e le corrispondenti risposte sono l’esempio di cosa si debba intendere per ‘cose proairetiche’.

[ X,25 ] L’afflizione, l’ira, la paura sono entità proairetiche: frutti aberranti di una proairesi che presume di poter violare la natura delle cose.

[ X,26 ] Una è la Materia Immortale ed una è la forza che la plasma incessantemente in forme diverse e ne produce meraviglie di fronte alle quali è giustificato il nostro stupore. Ancor più straordinaria è la meraviglia rappresentata dall’intelletto umano fatto capace di cogliere, non con gli occhi ma con non minore evidenza, l’unicità di quella Materia e di quella forza.

[ X,27 ] Le aberrazioni delle quali è capace la proairesi umana sono sempre le stesse: cambiano soltanto i nomi dei personaggi che le compiono.
Adriano, Antonino, Filippo di Macedonia e Alessandro Magno sono personaggi già citati in precedenza. Creso è il ricchissimo sovrano salito al trono della Lidia intorno al 560 a.C. Egli fu l’ultimo re della regione prima della conquista persiana del 547 a.C. 

[ X,28 ] Il destino guida chi lo segue di buon grado e trascina a viva forza chi gli è riluttante.

[ X,29 ] La morte è terribile perché ci priva di qualcosa di esterno ed aproairetico? 

[ X,30 ] L’aberrazione di una proairesi non può mai essere il danno di un’altra.

[ X,31 ] I materiali delle vita sono altrettante occasioni di esercizio per la nostra proairesi. Ed è dall’uso che di essi noi facciamo che ne conseguiremo felicità o infelicità, bene o male.
Nessuno dei personaggi citati è identificabile con certezza. Tenendo conto del contesto nel quale essi vengono citati, parrebbe trattarsi di membri della corte imperiale.

[ X,32 ] Si può chiamare davvero ‘vita’ quella che fanno gli insipienti?

[ X,33 ] Il retto uso della proairesi è, per l’uomo virtuoso, fonte di vera e sublime gioia. Retto uso della proairesi è sinonimo di retti giudizi e dai retti giudizi discendono le azioni rette. 
Vi è tuttavia una differenza sostanziale tra giudizi ed azioni. I giudizi sono entità proairetiche sempre e comunque in nostro esclusivo potere mentre le azioni, potendo incontrare gli impedimenti più svariati, non sono in nostro esclusivo potere e dunque vanno classificate come entità aproairetiche.
Aberra pertanto chiunque affermi, senza la dovuta ‘riserva’ riferita agli eventuali impedimenti, di avere la potestà di fare o dire una certa cosa; anche se si intuisce che la carica ricoperta potrebbe indurre Marco Aurelio a commettere un simile grossolano errore.
Bisogna allora intendere il ‘fare’ e il ‘dire’ di cui qui si tratta, come riferentisi entrambi strettamente ed esclusivamente all’attività che la proairesi opera su se stessa, sotto forma di ‘fare una certa operazione proairetica’ e di ‘dire a se stessa’. Soltanto questa interpretazione permette di evitare la contraddizione e dà al testo un significato coerente.
Ciò è confermato dal paragone conclusivo del frammento, nel quale entrano in gioco la città, il cittadino e la legge. Senza entrare in analisi più sottili e più complesse, basti qui considerare l’assurdità di sostenere che se Atene subisce un danno ad opera di Sparta, Socrate ne ha subito un danno; poiché sarebbe come sostenere che ciò che è aproairetico può recare danno alla proairesi. Questo è invece impossibile, giacché ciò che è aproairetico può bensì uccidere la proairesi ma non può in alcun modo recarle anno. Ragion per cui appare evidente che ‘città’ è sinonimo di ‘proairesi’, ‘cittadino’ è sinonimo di ‘diairesi’ e ‘legge’ è sinonimo di ‘natura delle cose’.

[ X,34 ] Soltanto i retti giudizi ci fanno capaci di dominare afflizione e paura, ed il virtuoso li ha continuamente a portata di mano.
Le citazioni provengono da un celebre e notissimo passo dell’Iliade di Omero.

[ X,35 ] La retta proairesi è pronta a confrontarsi con qualunque evento aproairetico.

[ X,36 ] Se la morte di un uomo saggio è comunque salutata da molti con intima soddisfazione, cosa accadrà a te che saggio non sei? 
Tralasciando ogni altra considerazione, è irresistibile la tentazione di leggere questo frammento di Marco Aurelio in chiave strettamente autobiografica. Non è richiesto un grande sforzo per vederlo circondato di cortigiani che se la ridono di quelle che considerano le sue manie pedagogiche mentre simulano di lodarle; di generali che ubbidiscono a colui che hanno soprannominato ‘vecchiarella filosofa’; e di un figlio, Commodo, da poco associato all’Impero e che mostra già le inclinazioni nefande cui darà pieno sfogo nel corso del suo regno. 

[ X,37 ] Cos’ha di mira quel tale? È egli cosciente del fatto che può correttamente avere di mira qualcosa di aproairetico ma che deve allora sempre accompagnare questo progetto con una ‘riserva’, ossia con la ferma determinazione di conservare in ogni caso la sua proairesi in armonia con la natura delle cose: libera, infinita, inasservibile, insubordinabile, leale, rispettosa di sé e degli altri?
E io cos’ho di mira?

[ X,38 ] La proairesi.

*****

[ XI,1 ] Quello che Marco Aurelio chiama ‘animo razionale’ è, ovviamente, la proairesi atteggiata diaireticamente, della quale sono ben note le principali caratteristiche: libertà, infinità, inasservibilità, insubordinabilità. 
Ad essa si possono ben adattare le due note locuzioni latine ‘Frangar non flectar’ e ‘Omnia mea mecum sunt’, che possono essere approssimativamente tradotte: ‘Mi spezzo ma non piego’ e ‘Ho con me tutti i miei beni’. 
È anche facile notare come l’uso della diairesi ponga la proairesi fuori dallo spazio-tempo, dandole quel ‘respiro’ e quello ‘sguardo dall’alto’ che sono caratteristiche prettamente umane.
Tutto ciò, tuttavia, non vale per la proairesi che si atteggia controdiaireticamente. Allora, infatti, ognun vede come ad essa si adattino piuttosto altre due locuzioni, opposte alle precedenti: ‘Non mi spezzo perché sono pronta a piegarmi ed asservirmi’ e ‘Tutti i miei beni sono fuori di me’ ovvero ‘Flectar non frangar’ e ‘Omnia mea mecum non sunt’.

[ XI,2 ] L’uso della diairesi permette alla nostra proairesi di distinguere infallibilmente ciò che è proairetico da ciò che è aproairetico e di giudicarsi superiore a quest’ultimo.

[ XI,3 ] Ecco lo spettacolo della infinità della proairesi umana. 
L’accenno ai Cristiani, se non si tratta di una interpolazione, è fatto da Marco Aurelio per rilevare come ciò che può apparire esteriormente un comportamento virtuoso possa a volte derivare non da razionalità ma da fede irrazionale, da cieca ostinazione, dal credere non perché se ne comprende la necessità logica ma perché è assurdo. 

[ XI,4 ] Soltanto quando davvero giova a se stesso, l’uomo è utile anche alla società. Dunque l’azione più socievole che l’uomo possa fare è quella di atteggiare la sua proairesi secondo diairesi.

[ XI,5 ] L’arte di essere felici è un’arte che si può apprendere. Essa consiste nel riconosce la natura delle cose e nell’atteggiare diaireticamente la nostra proairesi.

[ XI,6 ] Questo breve excursus di Storia della Letteratura Greca serve a Marco Aurelio per ribadire in un’ottica stoica che cosa, secondo lui, in quella letteratura è eternamente vivo e proficuo e che cosa non lo è. 
Anche Epitteto afferma esplicitamente che Omero ha composto le sue opere a bella posta affinché noi vediamo che nulla impedisce agli individui di stirpe più nobile, ai più forti fisicamente, ai più ricchi di denaro, ai più formosi di essere, qualora non abbiano i retti giudizi che si devono avere, individui meschini, infelici, preda di cattiva fortuna.
I frammenti qui citati sono tratti, nell’ordine, da: l’Edipo re di Sofocle, l’Antiope di Euripide, il Bellerofonte di Euripide, l’Ipsipile di Euripide.

[ XI,7 ] Felice è colui che può affermare di non avere trascorso tutta la vita a cercare invano, ma di avere trovato.

[ XI,8 ] Le relazioni che nella proairesi umana intercorrono tra diairesi, antidiairesi e controdiairesi possono essere facilmente esemplificate pensando alle relazioni che intercorrono tra le radici, il tronco e i rami fruttiferi di un albero.
Se la diairesi è la radice dell’albero e l’antidiairesi ne è il tronco, dai suoi rami pendono frutti che si chiamano libertà, felicità, pace. Se, invece, la controdiairesi è la radice dell’albero e l’antidiairesi ne è il tronco, dai suoi rami pendono frutti che si chiamano infelicità, servitù, guerra. 
Nel periodo in cui un individuo defeziona da chi l’uomo è per natura delle cose, ossia mentre impiega sistematicamente la controdiairesi, la pace cessa per lui di esistere, in quanto gli altri uomini non gli appaiono più come esseri proairetici capaci di diairesi e di retti giudizi ma unicamente come oggetti esterni ed aproairetici qualsiasi da manipolare, da dominare, da uccidere, da vendere e da comprare.
È tuttavia peculiare della natura umana il fatto che sia sufficiente riatteggiare diaireticamente la proairesi per rientrare a buon diritto nella società degli uomini e nella pace, anche se l’operazione diventa via via più difficile quanto maggiore è il tempo che si trascorre in atteggiamento controdiairetico. 

[ XI,9 ] L’essere miti non contraddice l’essere determinati e la pace non va confusa con l’arrendevolezza. 
Sulle bandiere della pace sta scritto: ‘Ora e sempre resistenza a tutti i tiranni, quelli di fuori e quelli di dentro’. 
Infatti, non c’è pace senza diairesi.

[ XI,10 ] La giustizia, come ogni altra virtù, è figlia della diairesi tanto quanto l’ingiustizia ed ogni altro vizio sono figli della controdiairesi. Ma la diairesi presuppone la proairesi umana operante e dunque la giustizia implica necessariamente l’esistenza di uomini giusti, senza i quali essa non viene al mondo e non vive.
Ora, è noto che per la tradizione classica l’arte è imitazione della natura e che l’opera di un vero artista è l’opera di un allievo che imita il maestro. Se dunque la proairesi dell’uomo è l’opera più eccellente della natura, l’uomo imiterà la natura se farà dell’uso quale deve essere della proairesi la sua opera più eccellente. Ma quest’opera è precisamente la virtù, che è riconoscimento della natura delle cose e pratica della diairesi.
D’altra parte non sorprende che Marco Aurelio, da imperatore chiamato quotidianamente a prendere delle decisioni tenda a privilegiare, tra le quattro virtù cardinali, la giustizia. 

[ XI,11 ] Come dice Epitteto, a sconcertarci non sono le cose ma il giudizio della nostra proairesi che esse siano sconcertanti.

[ XI,12 ] La proairesi e il mistero della ‘Pala di Brera’.
La cosiddetta ‘Pala di Brera’ è un celebre dipinto su tavola attribuito a Piero della Francesca o alla sua scuola, databile intorno al 1470 e raffigurante la Madonna col Bambino, sei santi, quattro angeli e il duca Federico II da Montefeltro. Il dipinto pervenne a Brera nel 1810 dalla chiesa di San Bernardino a Urbino. 
Varie ipotesi sono state proposte sul significato del misterioso uovo di struzzo sospeso al catino absidale, che sarebbe da intendere come simbolo cristiano dei quattro elementi (secondo vari accenni in tal senso contenuti nella letteratura medioevale) e simbolo della creazione, poiché con questo valore viene usualmente appeso nelle chiese dell’Abissinia e dell’Oriente cristiano. Di conseguenza, nel dipinto sarebbe evidente l’allusione alla nascita di Guidobaldo da Montefeltro la cui madre, Battista Sforza, morta nel 1472, fu sepolta proprio in San Bernardino.
Sempre a proposito del mistero dell’uovo, non è da tacere che esso richiama pure l’idea rinascimentale dello spazio centralizzato, perfettamente armonico e simmetrico. Anche il ripristino ideale della struttura originaria della Pala trova sostegno nel fatto che l’uovo appeso sopra il trono si qualifica come centro geometrico della composizione completa: a ribadire, in certo modo, il collegamento con l’assoluta simmetria vagheggiata dai rinascimentali.
Si legga ora il frammento di Marco Aurelio e si tenga a mente che l’italiano ‘di fulgida luce’ traduce l’aggettivo greco ‘augoeidès’ il quale significa basilarmente ‘che ha la natura della luce’ e quindi ‘luminoso’, ‘splendente’, ‘fulgido’.
L’uso dell’aggettivo ‘augoeidès’ si riscontra soltanto due volte negli ‘Stoicorum Veterum Fragmenta’.
In un primo frammento di Galeno (SVF II,219,10) il quale fu, tra l’altro, medico personale di Marco Aurelio, l’aggettivo è riferito al sostantivo ‘astri’, per dire: ‘gli astri hanno natura e sono fonte di luce, sono secchi e dotati di estrema intelligenza’. 
In un secondo frammento sempre di Galeno (SVF II,231,20), l’aggettivo è riferito al sostantivo ‘pneuma’, per dire: ‘la facoltà visiva si dissolve quando lo pneuma che ha natura di luce cessi di affluire, in parte o del tutto, (agli occhi) dalla sua causa (arkè) cerebrale. 
Ora, come è stato ben dimostrato da molti studiosi, l’elenco canonico delle 4 cause (arkài) basilari di tutti gli eventi del cosmo, in Aristotele e nella seguente tradizione filosofica, è questo: proairesi (proàiresis), natura (fùsis), necessità (anànke), fortuna (tùke).
È del tutto evidente che il secondo frammento di Galeno avvalora l’interpretazione che ad avere natura di luce e dunque ad essere sorgente di essa non sono le tre restanti cause basilari, ma la causa basilare ‘proairesi’, che viene anche correttamente localizzata come avente sede nel cervello. È dunque la ‘proairesi’ dell’uomo ad essere ‘augoeidès’.
Il primo frammento di Galeno, poi, conferma questa interpretazione in quanto, secondo la tradizione filosofica cui ci stiamo riferendo, anche il cosmo ha una ‘proairesi’ avente la stessa natura di luce. È questa ‘proairesi’ del cosmo che fa splendere gli astri, li fa intelligenti; come quella dell’uomo ne fa splendere gli occhi e gli permette vista e intelligenza. Se ne può concludere che ad essere ‘augoeidès’ è anche la ‘proairesi’ del cosmo.
Chiediamoci ora: come rappresentare pittoricamente questa concezione della ‘proairesi’ del cosmo e dell’uomo? Certamente, nella pittura antica, come una sfera di fulgida luce.
Passano dodici secoli. Mutano genti e linguaggi e l’oblio stende le sue ali inesorabili. 
È fuori discussione che nel Quattrocento fosse in pieno sviluppo in Occidente il poderoso movimento di recupero della tradizione greca, legato alle critiche vicende che attraversava in quel periodo Costantinopoli, assediata e conquistata dagli Ottomani. Ci si risveglia, dunque, dopo secoli e ci viene insegnato che in greco moderno e popolare ‘avgà’ indica adesso le ‘uova’ e l’aggettivo ‘avgoeidès’ significa ‘che ha forma di uovo’, ‘ovale’.
I pittori non devono fare anche i filologi. Se Piero della Francesca o chi per lui, tramite i suoi più che colti amici, è venuto a conoscenza del fatto che l’uomo e il cosmo hanno una ‘proairesi’, ne ha compreso il valore e se, nel corso di tante discussioni gli è stata sempre offerta la ovvia e popolare traduzione dell’aggettivo ‘avgoeidès’, perché avere dei dubbi?
Dipingerà la Pala di Brera e metterà al suo centro, tanto geometrico che filosofico, l’oggetto-simbolo di ciò che nell’uomo e nel cosmo è più possente e li fa splendere.

Per un ulteriore chiarimento sul profondo significato filosofico e fisico-matematico di questo frammento XI,12 di Marco Aurelio clicca qui

[ XI,13 ] La diairesi insegna all’uomo virtuoso che il disprezzo o l’odio altrui nei suoi confronti sono cose aproairetiche, e dunque vanno giudicate essere né un bene né un male. Sarà poi l’uso che egli farà di esse a diventare il suo proprio bene o il suo proprio male.
Una biografia di Focione fu scritta da Plutarco e fa parte delle sue ‘Vite parallele’. Generale e politico dell’Atene del IV secolo a.C., Focione ebbe fama di probità e di sopportazione delle ingratitudini altrui. 

[ XI,14 ] Dagherrotipo del popolo dei micropoliticanti e delle élites dei macropoliticanti.

[ XI,15 ] Chi si scusa di qualcosa senza esserne stato richiesto, con ciò stesso si accusa di ciò di cui intenderebbe scusarsi. La virtù, dunque, non ha bisogno né di tante né di poche parole, giacché parla da sola.

[ XI,16 ] Per vivere il meglio possibile bisogna cercare e trovare il proprio vero bene. E il nostro proprio vero bene sta nella conoscenza della natura delle cose e in una proairesi rettamente operante in armonia con essa.
 
[ XI,17 ] Il destino di tutto ciò che è aproairetico. 

[ XI,18 ] Memorandum in dieci punti per Marco Aurelio.

[ XI,19 ] Quattro pervertimenti della proairesi ai quali la proairesi stessa deve porre rimedio.

[ XI,20 ] Pur essendo di per sé distinti e separabili, i quattro elementi naturali (fuoco, aria, terra e acqua) possono essere disposti e mescolati in infiniti modi senza che neppur uno di tali modi vada considerato contro natura. 
La proairesi dell’uomo non può atteggiarsi in infiniti modi ma in due soltanto: diairesi e controdiairesi; ma anche in questo caso nessuno dei due modi può essere considerato contro natura. 
Se diairesi e controdiairesi sono entrambi modi egualmente naturali di atteggiarsi della proairesi, essi sono però modi ben diversi e del tutto opposti di atteggiarsi nei confronti della natura delle cose. 
Con la diairesi, infatti, la proairesi riconosce ed accetta la natura delle cose e la sua fondamentale bipartizione in cose che sono in nostro esclusivo potere e cose che non lo sono, ottenendone libertà e felicità. 
Con la controdiairesi essa invece nega questa bipartizione e mentre proclama in nostro esclusivo potere cose che non sono in nostro esclusivo potere oppure non essere in nostro esclusivo potere cose che invece sono in nostro esclusivo potere, procura inevitabilmente a se stessa infelicità e schiavitù.

[ XI,21 ] Anche un assassino, anche un politicante è un individuo secondo natura ed è perfettamente capace di rimanere per tutta la vita un assassino e un politicante. Dunque non basta avere per tutta la vita uno scopo qualunque per essere degno di chiamarsi uomo, ma bisognerà avere per tutta la vita lo scopo specifico di essere e di rimanere un uomo. 
Si giudica forse ciascun essere dalla sua mera conformazione? Se così fosse, allora anche quella di cera sarebbe una mela. Invece deve anche averne la fragranza ed il gusto, non basta il connotato esteriore. Neppure naso ed occhi sono dunque adeguati a fare l’uomo, se non avrà giudizi da uomo. 
E quali giudizi fanno un uomo? I giudizi che fanno un uomo sono la conoscenza della natura delle cose, il suo rispetto grazie alla diairesi, il retto uso delle rappresentazioni. 
Soltanto questo diventa anche bene comune ed è socialmente utile.

[ XI,22 ] L’accenno del frammento è ad una celebre favola dell’antichità che, nella redazione di Esopo, contrappone la vita frugale e senza sconcerti alla vita lussuosa tra continue paure ed affanni. 
Non è difficile vedervi il richiamo allegorico alla proairesi atteggiata diaireticamente ed a quella atteggiata controdiaireticamente.

[ XI,23 ] Nella tradizione popolare, le ‘lamie’ erano mostri che si diceva succhiassero il sangue dei bambini. 
Anche Epitteto riferisce espressamente che Socrate considerava spauracchi per bambini l’afflizione per cose aproairetiche come il dolore fisico e la morte.

[ XI,24 ] Quella che potrebbe apparire semplice cortesia spartana serve invece a Marco Aurelio come allegoria della retta proairesi: squisita con gli altri, capace di accettare gli eventi aproairetici e di trarne serenità e fortezza.

[ XI,25 ] L’episodio è citato anche da Aristotele e da Seneca, secondo i quali però l’invito a Socrate partì non da Perdicca ma da suo figlio Archelao. 
L’interpretazione di Seneca è che la risposta di Socrate fu motivata dal suo rifiuto di diventare un cortigiano e di cacciarsi in volontaria servitù. Se, infatti, già la patria Atene faceva fatica a sopportare la sua libera proairesi, cosa sarebbe successo a Socrate alla corte di un re?

[ XI,26 ] Una nobile prescrizione epicurea sulla quale anche gli stoici non possono non essere d’accordo.

[ XI,27 ] Le stelle non hanno bisogno di vestiti, sono nude: come la verità.

[ XI,28 ] Anche Socrate era rimasto nudo, dopo che sua moglie Santippe s’era portata via i suoi vestiti. Quali furono allora le parole che la proairesi di Socrate disse a se stessa?
L’episodio non ci è noto da altre fonti.

[ XI,29 ] Siccome la virtù è conoscenza della natura delle cose e questa conoscenza non è innata, i buoni maestri ci sono essenziali.

[ XI,30 ] Il frammento si presta a molte interpretazioni possibili. Una delle più semplici consiste nel riferirlo a qualunque essere privo di ragione.

[ XI,31 ] Questa risata omerica è una citazione proveniente dal IX libro dell’Odissea.

[ XI,32 ] Lo spettacolo della virtù fa esasperare gli insipienti. 
La citazione proviene da ‘Le opere e i giorni’ di Esiodo.

[ XI,33 ] Volere un fico d’inverno è, anche per Marco Aurelio, una cosa da pazzi. 
Il frammento è una citazione di Epitteto, proveniente dal capitolo 24 del III libro delle Diatribe.

[ XI,34 ] La natura delle cose e le parole di malaugurio. 
Anche questa citazione proviene dal capitolo 24 del III libro delle Diatribe di Epitteto.

[ XI,35 ] Nel cosmo il nulla non esiste, e la Materia Immortale semplicemente si trasforma. 
Questa citazione, come le due precedenti, proviene dal capitolo 24 del III libro delle Diatribe di Epitteto.

[ XI,36 ] La nostra proairesi è al riparo da qualunque possibile rapina. 
La citazione proviene dal capitolo 22 del III libro delle Diatribe di Epitteto.

[ XI,37 ] Questo frammento è attribuito all’opera di Epitteto con il numero XXVII. 

[ XI,38 ] Anche questo frammento è attribuito all’opera di Epitteto con il numero XXVIII. 

[ XI,39 ] Queste parole di Socrate non sono riferite da nessun’altra fonte e potrebbero essere una citazione autentica tratta da uno dei libri di Epitteto che non ci sono pervenuti. 
Si noti come Socrate definisca correttamente ‘razionali’ anche gli animi degli ‘insipienti’ ossia di coloro la cui proairesi è atteggiata controdiaireticamente.

*****

[ XII,1 ] Non bisogna avere paura di morire ma di non avere mai neppure cominciato a vivere in armonia con la natura delle cose.

[ XII,2 ] La proairesi dell’uomo è la meraviglia delle meraviglie delle quali è stato finora capace Zeus ossia la Materia Immortale. 
Quali sono le parole di Epitteto al riguardo? Eccole: “O uomo, non essere ingrato né immemore delle cose migliori; ma per il vedere, il sentire, per lo stesso vivere e per quanto ad esso coopera, per i frutti secchi, per il vino, per l’olio ringrazia la Materia Immortale. E ricorda che essa ti ha dato qualcos’altro migliore di tutto questo: quanto le userà, le valuterà, conteggerà il valore di ciascuna. Cos’è infatti che dichiara per ciascuna di queste facoltà, quanto una di esse merita? Forse ciascuna facoltà lo fa da sé? Hai mai sentito la facoltà visiva dire qualcosa di se stessa? Forse quella uditiva? Esse sono invece state posizionate per essere servitrici, come ministre e serve, della facoltà atta ad usare le rappresentazioni”.

[ XII,3 ] All’interno del rigoroso monismo caratteristico degli stoici, il quale presuppone la completa equivalenza di materia ed energia, vi è ovviamente posto per gli aggregati materiali più diversi. 
Certi specifici aggregati materiali permettono l’emersione dalla materia di caratteristiche che altrimenti sono normalmente celate. È il caso dell’uomo la cui proairesi, lungi dall’essere una straniera giunta da un altro mondo (il mondo dello spirito) per essere incarcerata nella materia, come pretenderebbero le teorie dualistiche, è invece l’arcobaleno che appare nella quiete dopo la tempesta. 
L’uomo, tuttavia, non è soltanto proairesi, così come l’arcobaleno non è soltanto luce di diversi colori. L’uomo è anche, per Marco Aurelio, il corpo che ha in comune con minerali e vegetali; e il soffio vitale, o pneuma, che egli ha in comune con tutti gli altri animali, seppure sia evidente che a caratterizzarlo e qualificarlo come uomo non sono questi due ultimi componenti bensì la proairesi.
E, in verità, neppure soltanto la proairesi senza altre specificazioni, ma la proairesi rettamente operante cioè la proairesi che sa donde è venuta, che conosce se stessa e la natura delle cose.

[ XII,4 ] Qual è l’opera cardinale della proairesi rettamente operante? Opera cardinale della proairesi rettamente operante è quella di conservare se stessa in armonia con la natura delle cose grazie all’uso della diairesi. Ossia quella di conservare, in ogni circostanza, se stessa tale e quale è per natura: libera, infinita, inasservibile, insubordinabile.
Si può dire che una proairesi così operante ‘ama’ se stessa? Certamente, giacché si deve intendere per ‘amore’ di qualcosa il dare a quella cosa il suo giusto valore. Il che significa che soltanto il saggio è capace di amare, giacché amare implica inevitabilmente la conoscenza del valore di ogni cosa e dunque la capacità di distinguere tra ciò che è proairetico e può essere bene o male, e ciò che è aproairetico e invece non può mai essere né bene né male.
Dunque l’insipiente è ben lontano dall’amare se stesso giacché, tutto al contrario, è campione olimpico nel dividere per zero e nel prendere fischi per fiaschi: ossia nell’usare sistematicamente la controdiairesi. E usare sistematicamente la controdiairesi vuol dire disprezzare la propria proairesi giudicandola, ad esempio, inferiore a qualcosa di aproairetico come il giudizio di un altro su di noi.
Pertanto lo stupore di Marco Aurelio, ammesso che sia sincero, risulta piuttosto fuori luogo e testimonierebbe, in questo specifico caso, un momento di sua scarsa capacità di comprensione logica ed analisi creativa di un aspetto non secondario ma cruciale di quella dottrina stoica che pure professa di voler seguire.

[ XII,5 ] Desiderare l’immortalità della proairesi umana è una stolida assurdità, appena si rifletta sul fatto ovvio, evidente e certo che ad essere immortale è già la materia che forma il corpo umano e dalla quale la proairesi è espressa. 
Il desiderio della vittoria sulla morte, poi, è una stupida volgarità in quanto implica il giudizio che la nascita dell’uomo sia un bene in sé e che la morte sia un male in sé: concezioni entrambe caratteristiche degli insipienti sia in cielo che in terra.

[ XII,6 ] L’abitudine è una forza potente, che tende scorrettamente ad essere sottovalutata. 
Nulla è tanto produttivo di felicità quanto il maturo esercizio quotidiano e sistematico della diairesi; e nulla spiega meglio l’infelicità del genere umano quanto il rifiuto di imparare dai propri errori e l’ostinazione nel praticare in massa l’infantile controdiairesi.

[ XII,7 ] Lontano dalla preoccupazione di essere letto, Marco Aurelio può permettersi di registrare anche i suoi momenti peggiori: quelli in cui la sua proairesi dubita di se stessa, è preda dello sgomento davanti alla morte, si scorge nuda di virtù, inorridisce dinanzi all’abisso d’eternità che le si spalanca dinanzi e alle spalle, si sente di una debolezza estrema.

[ XII,8 ] E questa è la immediata reazione di Marco Aurelio alle confessioni del frammento precedente: come il tentativo di risveglio da un incubo, il disperato sforzo di darsi uno scossone e quindi di far riprendere alla sua proairesi il posto che le spetta.

[ XII,9 ] La nostra proairesi deve e può avere sempre a portata di mano i giudizi adeguati ad ogni circostanza.

[ XII,10 ] Ciò che Marco Aurelio indica, in questo frammento, come il ‘materiale’ è certamente rappresentato da tutto ciò che è aproairetico. La ‘causa’ va sicuramente riferita all’elenco delle quattro cause basilari di tutti gli eventi cosmici: proairesi, natura, necessità, fortuna. Il ‘riferimento’ va fatto, verosimilmente, all’impiego, che è proairetico, della diairesi o della controdiairesi.

[ XII,11 ] Tutto ciò che è proairetico è in nostro esclusivo potere e tutto ciò che è aproairetico non è in nostro esclusivo potere.

[ XII,12 ] Nelle opere della natura non si dà aberrazione alcuna. 
E per parte loro gli uomini, anche quando aberrano, fanno sempre ed esclusivamente ciò che a loro appare bene.

[ XII,13 ] Che c’è dunque di strano se gli asini non volano, se dalle rape è impossibile cavare sangue e se le immense masse degli insipienti, ricchi o poveri di denaro, si ostinano a dividere qualunque cosa per zero, col risultato di produrre infelicità per se stessi?

[ XII,14 ] Qualunque cosa ne possa dire qualunque filosofo, qualunque sia l’organizzazione del cosmo, è certo che l’uomo è un essere proairetico e che la proairesi dell’uomo, come ben dice Epitteto, ‘neppure Zeus può vincerla’.
Del resto, a ben riflettere, non ha fondamento alcuno la polemica di quanti affermavano, e affermano ancora, che se tutto fosse governato dal destino allora la proairesi dell’uomo non sarebbe più libera. Non vi è affatto contraddizione tra l’esistenza di un destino che governa rigidamente e ineluttabilmente ogni cosa e la libertà della proairesi. Qual è, infatti, il destino che governa la proairesi umana, ossia il nostro destino di uomini? Il nostro destino di uomini è, per l’appunto, quello di essere liberi, cioè di essere il destino di noi stessi.

[ XII,15] O invece la luce della lucerna risplende e non perde fulgore finché non sia spenta, mentre la verità, la giustizia, la temperanza che sono in te si estingueranno prima?

[ XII,16 ] Come può non essere insipiente chi si fa sistematicamente guidare dalla controdiairesi? E come può non essere infelice l’insipiente, il quale desidera e non ottiene mai ciò che desidera, avversa ed incappa sempre in ciò che intende avversare?
Tu stesso, poi, proprio tu che immagini di poter persuadere tutti gli esseri umani di quali siano i beni ed i mali sei, per ciò stesso, un insipiente.

[ XII,17 ] Stabilità nella diairesi e dunque nella virtù.

[ XII,18 ] Nella nostra proairesi, le rappresentazioni possono essere originate da un’entità proairetica o da un’entità aproairetica.

[ XII,19 ] Nell’uomo, la proairesi è la facoltà superiore a tutte le altre facoltà e quella alla quale tutte le altre facoltà sono sottoposte.

[ XII,20 ] Il fatto che la proairesi sia una facoltà tanto potente vuol forse dire che essa è onnipotente? Nient’affatto, e perciò essa non va usata a casaccio.

[ XII,21 ] Un’eterna trasformazione delle cose che adesso esistono, non nel nulla ma in cose che adesso non esistono.

[ XII,22 ] I giudizi e le concezioni sono in nostro esclusivo potere, sono entità proairetiche, parlano.  Gli oggetti esterni non sono in nostro esclusivo potere, sono entità aproairetiche, sono muti.
Prova a disciplinarti secondo questa verità e vedi che effetto ti fa. 

[ XII,23 ] Poiché bene e felicità sono semplicemente due modi per indicare lo stesso stato della proairesi umana è poiché gli insipienti non sono felici pur condividendo la vita con i saggi, ne consegue che il puro e semplice essere in vita non può essere definito di per sé un bene. 
Se poi si osserva che la morte coglie tanto i saggi, i quali vivono nel bene e sono felici, quanto gli insipienti, i quali vivono nel male e sono infelici; e inoltre si tiene presente che non possono patire alcun male coloro che vivono nel bene: ne consegue che la morte di per sé non può essere definita un male. 
Pertanto sia la nascita dell’uomo quanto la sua morte vanno correttamente giudicati come eventi aproairetici, non in suo esclusivo potere; e dunque tanto la nascita che la morte vanno concepiti come qualcosa che non è né un bene né un male.
Quale vita e quale morte, allora, potranno essere giudicate un bene? La risposta è semplice: una vita e una morte virtuose come quelle di Socrate, illuminate dalla diairesi e dal rispetto della natura delle cose.
E quale vita e quale morte potranno, al contrario, essere giudicate un male? Una vita e una morte viziose come quelle dei carnefici di Socrate, oscurate dalla controdiairesi e dalla negazione dell’esistenza della natura delle cose.

[ XII,24 ] Le tre considerazioni che Marco Aurelio si invita a tenere a portata di mano sono, nell’ordine, le seguenti: la prima concerne la distinzione tra ciò che è proairetico e ciò che è aproairetico, e l’uso della diairesi. 
La seconda concerne le caratteristiche della Materia Immortale di cui siamo composti e il fatto che da essa si esprime anche la nostra proairesi. 
La terza concerne la vastità del cosmo e l’infinita molteplicità delle sue vicende, paragonata al fatto che la proairesi dell’uomo può atteggiarsi soltanto ed esclusivamente in due modi diversi: diairesi o controdiairesi. 

[ XII,25 ] L’infelicità, a ben pensarci, non è altro che il giudizio di essere infelici.

[ XII,26 ] Tanto il saggio quanto l’insipiente vivono secondo natura, ma l’insipiente non sa, o ha dimenticato, o finge di non sapere qual è la natura delle cose e di avere una proairesi per natura libera, infinita, inasservibile e insubordinabile.

[ XII,27 ] È straordinaria la bassezza di ciò verso cui la controdiairesi spinge le turbe dei fortunati e degli sfortunati.
I personaggi citati (fatta eccezione per Tiberio imperatore e per Velio Rufo, destinatario di una lettera di Frontone) sono sconosciuti e i dettagli delle vicende cui si accenna nel frammento ci sono del tutto ignoti.

[ XII,28 ] Il rigoroso panteismo degli stoici fa sì che Zeus, ossia la Materia Immortale, sia dappertutto. Dunque, gli dei sono visibili anche a occhio nudo.

[ XII,29 ] Detto fra di noi: l’uomo stoico è l’unico che sappia davvero godersi la vita perché è l’unico attrezzato per comprenderla.

[ XII,30 ] Il frammento ribadisce il saldo monismo stoico e la sostanziale unità della Materia Immortale. 
Unità della sostanza del cosmo, che discende dal fuoco generatore e nel fuoco è destinata periodicamente a risolversi; unità della vita di tutti gli esseri privi di ragione; unità di natura e di funzionamento delle proairesi degli esseri dotati di ragione. Quanto agli altri elementi (aria, acqua e terra) essi sono privi di sensazioni ma pure tendono ad unirsi tra di loro per effetto della gravità.
Questa è certamente una lettura possibile del frammento. 
Ma è curioso che ne sia possibile anche un’altra, legata al fatto che tanto le osservazioni astronomiche di Claudio Tolomeo, le quali avvengono tra il 127 e il 151 d.C., quanto la pubblicazione del suo celebre ‘Grande Sistema di Astronomia’ o ‘Almagesto’ sono coeve di Marco Aurelio, e che dunque non sembra azzardato supporre che quest’ultimo ne conoscesse l’opera. 
Il presente frammento si presta infatti anche ad essere letto come una breve sintesi di cosmologia Tolemaica, lumeggiante la distribuzione degli elementi nei vari cieli e l’affinità della proairesi umana con il fuoco.
Se il riferimento di Marco Aurelio è qui davvero al sistema geocentrico tolemaico, allora la terra va posta al centro dell’universo e ruotano intorno ad essa, nell’ordine, i seguenti corpi celesti con i relativi cieli: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle Fisse. 
La Terra e il cielo sublunare sono ritenuti sede dei quattro elementi: acqua, terra, aria e fuoco; e sono soggetti al cambiamento, alla nascita e alla morte. I corpi celesti e i cieli oltre la Luna, invece, sono immuni da tali fenomeni, non ospitano né acqua né terra né aria, e sono composti di un fuoco sempre più puro man mano che si sale verso il cielo delle Stelle Fisse. Dei quattro elementi, inoltre, quello generatore di tutti gli altri e quello in cui essi sono destinati periodicamente a risolversi è il fuoco.
Nella prima metà del frammento, la parte di universo in cui una sola è la comune sostanza separata in molti corpi diversi e uno solo è l’animo separato in nature diverse, potrebbe allora essere un chiaro riferimento al Sole, ai Pianeti e alle Stelle dell’universo sopralunare la cui comune ed unica sostanza è il fuoco. Si tratta di corpi celesti dotati anche di un unico animo cognitivo, di un intelletto del quale fanno fede i loro moti diversi ma perfetti ed eterni.
Nella seconda metà del frammento, la restante parte di universo è rappresentata dalla Terra e dal cielo sublunare, nella quale compaiono, oltre a piccole quantità di fuoco, anche l’aria o pneuma e poi gli elementi terra e acqua che hanno tendenza a congiungersi verso il basso. 
Infine la proairesi dell’uomo, che è considerata una scintilla di puro fuoco divino sulla terra e che con esso tende a ricongiungersi. 

[ XII,31 ] Il desiderio dell’immortalità personale non è un desiderio da uomini liberi che conoscono la natura delle cose, ma da schiavi stolti che la ignorano.

[ XII,32 ] Vivere da uomini e morire da uomini.

[ XII,33 ] La proairesi è autoteoretica ed è infinita libertà, mentre ciò che è aproairetico è cadavere e fumo.

[ XII,34 ] Quando c’è la proairesi non c’è la morte e quando c’è la morte non c’è la proairesi.

[ XII,35 ] A chi la morte non fa paura.

[ XII,36 ] Un addio pacificato.