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DIONE CRISOSTOMO

Brevi cenni sulla vita di Dione Crisostomo (40-120 d.C. circa)

Dione, coevo di Epitteto, era nato in Bitinia (Asia Minore) nella città di Prusa. Con i suoi fratelli ereditò dal padre, Pasicrate, una larga fortuna ma anche molti debiti. Divenne presto un abile oratore; in acerba polemica con i filosofi, da lui giudicati elementi ostili allo Stato. Nel corso di uno dei suoi viaggi giunse a Roma, allora sotto l’impero di Vespasiano. Qui, non si sa esattamente in quale anno, ebbe modo di ascoltare, come Epitteto, le lezioni di Musonio Rufo, e ciò gli fece cambiare atteggiamento nei confronti della filosofia. Fortemente critico nei confronti dell’imperatore Domiziano, nell’anno 82 d.C. fu esiliato e gli fu impedito di soggiornare sia in Italia che in Bitinia. Egli si trovò quindi costretto a girovagare qua e là in povertà, soprattutto nella regione del Danubio e della desolata Scizia. Sappiamo che nel 97 d.C. parlò in pubblico ai Greci riuniti ad Olimpia, che fu accolto amichevolmente dal nuovo imperatore Nerva a Roma, e che ebbe modo di ristabilirsi a Prusa. Tornato a Roma un paio di anni dopo in occasione di una ambasceria, entrò in stretta amicizia con l’imperatore Traiano. Coinvolto in un processo legato a dei progetti di ricostruzione edilizia nella sua città natale, nel 112 d.C. egli ebbe occasione di difendersi davanti a Plinio il giovane, allora Governatore romano della Bitinia. Poco si sa del resto della sua vita, nel corso della quale ebbe a subire la perdita della moglie e di un figlio.

– Il testo greco delle Orazioni XIV e XV ‘Sulla schiavitù e la libertà’ di Dione Crisostomo

Il testo greco delle due Orazioni da me tradotte è quello pubblicato nella Collana ‘The Loeb Classical Library’, 1977. 

– Perché la scelta di proporre la traduzione di queste due Orazioni

Dione Crisostomo, che è coevo di Epitteto, è una sorta di volgarizzatore e propagandista dello Stoicismo sul quale Epitteto ha un giudizio preciso e tagliente. Egli lo esprime in un lungo e articolato passaggio del Capitolo XXIII del III Libro delle sue Diatribe (§ 9-38). Detto in estrema sintesi, Dione Crisostomo rappresenta secondo Epitteto un modello di conferenziere insipiente; disprezzato, in cuor loro, dai suoi uditori; che bada soltanto alla ‘audience’ ed allo ‘share’; che cerca elogi, e il cui stile è né protrettico né confutatorio né didascalico bensì ‘per ostentazione’.

Ho scelto di tradurre le due Orazioni nelle quali Dione Crisostomo discute di libertà e di schiavitù appunto affinché chi vuole possa farsi un giudizio personale al riguardo, paragonando le parole di Dione a quelle di Epitteto, che nel Capitolo I del IV Libro delle sue Diatribe tratta lo stesso identico argomento.

Orazione n. 14

SULLA SCHIAVITU’ E LA LIBERTA’   I

(1) Gli uomini, sopra ogni altra cosa, smaniano d’essere liberi ed affermano che la libertà è il sommo dei beni, mentre la schiavitù è la più vergognosa e peggior fortuna che possa capitare; e però non sanno proprio questo, ossia cos’è ‘essere libero’ o cos’è ‘essere schiavo’. Pertanto essi neppure fanno mai qualcosa per sfuggire, come si dice, ciò ch’è vergognoso ed infesto, ossia la schiavitù; o per acquisire ciò che reputano di gran valore, ossia la libertà. Anzi, tutt’al contrario essi effettuano quelle azioni la pratica delle quali di necessità li costringe poi a passare tutto il tempo in stato di schiavitù ed a non centrare mai la libertà. (2) Ma forse non vale neppure la pena di stupirsi se costoro non possono né impadronirsi di né proteggersi da ciò che sono nella condizione di ignorare. Se essi, ad esempio, si trovassero davanti una pecora e un lupo ed ignorassero qual è l’uno e qual è l’altra, e però fossero al corrente che uno dei due è di giovamento e buono da possedere mentre l’altro è dannoso ed inutile, non ci sarebbe da stupirsi se a volte essi avessero paura e fuggissero la pecora come se fosse un lupo ed invece si avvicinassero al lupo e lo aspettassero ritenendolo una pecora. Giacché l’ignoranza ha effetti di questo genere su coloro che non sanno, e li costringe a fuggire e ad inseguire cose contrarie a quel che vogliono ed a ciò che è loro utile. (3) Orbene, analizziamo se i più sanno con chiarezza cosa siano la libertà e la schiavitù; giacché forse noi li accusiamo senza ragione, quando essi, invece, queste cose le sanno benissimo. (4) Se dunque qualcuno chiedesse loro cosa significa essere libero, essi forse affermerebbero che significa non ascoltare nessuno e fare semplicemente quel che ci pare. Se però uno ponesse a chi ha risposto così questa seconda domanda, ossia se crede che agisca bene e che sia un uomo libero colui che da corista in un coro non presta attenzione al capocoro e non lo ascolta, ma canta in tono e fuori tono come gli salta in mente; e se ritenga vergognoso e degno di uno schiavo il comportamento opposto, cioè il prestare attenzione ed obbedire al capocoro cominciando e smettendo di cantare quando quello lo comanda: ebbene, io credo che egli non si direbbe d’accordo. (5) Credo anche che egli non si direbbe d’accordo quando gli si domandasse se ritiene che per chi naviga sia un comportamento da uomo libero quello di non preoccuparsi del pilota e di non fare qualunque cosa questi dica di fare. Per esempio, restare in piedi sulla nave, soltanto perché questo gli è saltato in testa, quando invece il pilota ordina di sedersi. E credo che neppure chiamerebbe libero e degno d’emulazione l’uomo che, quando il pilota comanda di buttare fuori dalla nave l’acqua accumulatasi nella sentina o di tirare giù le vele, invece né svuota la sentina né mette mano alle funi perché in questo modo lui fa quel che gli pare. (6) Di certo, poi, uno non chiamerebbe schiavi i soldati perché ascoltano il generale, perché si levano in piedi quando egli ne dà l’ordine, perché consumano il cibo, prendono le armi, si dispongono in formazione, attaccano e si ritirano non altrimenti che come e quando il generale lo comanda. E quando obbediscono ai medici, gli ammalati non diranno certo di essere per questo degli schiavi. (7) Eppure essi obbediscono loro in cose né spicciole né facili, giacché i medici ingiungono a volte di digiunare e di astenersi da qualunque bevanda. Quando poi il medico ritenga di dover legare il paziente, ecco che immediatamente egli è legato; e se ritiene di dover operare un taglio e di cauterizzare, ecco che egli sarà tagliato e cauterizzato per quanto pare al medico. Se invece il paziente non obbedisce, tutti i presenti in casa fanno da assistenti al medico; e non soltanto gli uomini liberi ma spesso i domestici stessi dell’ammalato legano strettamente il padrone, recano il fuoco così che egli possa essere cauterizzato e si prestano per tutti gli altri servizi. (8) Non diresti dunque che quest’uomo, il quale sopporta molte cose spiacevoli per ordine di un altro, è un uomo libero? Certamente non diresti che non era un uomo libero Dario, il gran re dei Persiani, poiché, essendo caduto da cavallo nel corso di una battuta di caccia ed essendosi slogato una caviglia, diede ascolto ai medici, ed erano medici che venivano dall’Egitto, i quali gli tiravano e torcevano il piede per rimettere a posto l’articolazione. A sua volta, non diresti che non era un uomo libero Serse, quando, ritirandosi dalla Grecia e colto da una tempesta mentre era in nave, obbedì in tutto e per tutto al pilota e non si permise né di fare un cenno col capo né di cambiare posto contro il parere del pilota. Pertanto non si affermerà più che la libertà consiste nel non dare alcun ascolto ad altre persone o nel fare qualunque cosa si voglia. (9) Ma forse i più diranno che questi individui ascoltano gli ordini perché sono ordini che mirano al loro utile, com’è il caso dei passeggeri col pilota della nave. Ed è per questo motivo che i soldati obbediscono al generale ed i pazienti al medico, giacché costoro null’altro ingiungono se non ciò ch’è utile a chi esegue i loro ordini. 
– Invece i padroni non ordinano ai loro schiavi ciò che sarà utile a questi ultimi, bensì ciò che i padroni credono (10) essere vantaggioso per loro stessi. 
– Ma che dici? È forse utile al padrone che il suo domestico muoia o che si ammali o che sia un schiavo malvagio? Nessuno direbbe questo. Ben al contrario, io credo, è utile al padrone che il domestico viva, sia in salute e sia un buon servo. Queste stesse cose parranno utili anche al domestico; sicché il padrone, se è assennato, ingiungerà di fare ciò che è non meno utile al servo, giacché queste sono le cose che paiono utili anche al padrone stesso. 
– (11) Ma l’uomo, chiunque sia, per il cui acquisto uno abbia versato del denaro, è necessariamente uno schiavo.
– Eppure molti non hanno forse pagato del denaro per tanti uomini che erano liberi cittadini, alcuni dando il prezzo del riscatto ai nemici, altri ai briganti? E altri ancora non hanno forse pagato il prezzo del loro riscatto ai padroni? E questi padroni non sono di certo schiavi di se stessi.
– (12) Però qualora uno abbia la potestà di frustare un altro, di metterlo in catene, di eliminarlo o di fare di lui qualunque altra cosa voglia, allora quest’individuo è schiavo di quello.
– Che dici? I briganti non hanno la potestà di fare ciò a coloro che hanno catturato? E nondimeno questi prigionieri non sono degli schiavi. E allora? I giudici non hanno la potestà di comminare il carcere, la morte o qualunque altra pena vorranno a molti dei giudicati? E costoro non sono certo degli schiavi. E se anche lo fossero per un giorno, quello nel quale ciascuno di loro è giudicato, ciò non significherebbe nulla; giacché chi ha mai sentito dire che un uomo è stato schiavo per un giorno solo? 
– (13) Ma invero bisogna pur dichiarare, per dirlo in poche parole, che chiunque ha la potestà di fare ciò che vuole è un uomo libero, mentre invece chi non ha questa potestà è uno schiavo.
– No, tu non potrai dire questo di chi naviga, né degli ammalati, né di chi è impegnato in una campagna militare, né di quanti stanno imparando le lettere, o a suonare la cetra, o i movimenti della lotta, o qualche altra arte. A costoro, infatti, è concesso di effettuare non le azioni che vogliono, bensì quelle che comandano il pilota, il medico o l’insegnante. E neppure gli altri uomini hanno la potestà di fare quel che vogliono, giacché chi effettuerà qualcosa che va contro le leggi in vigore sarà punito.
– (14) Dunque, chi ha la potestà di effettuare oppure no, e come vuole lui, quanto è compreso entro l’ambito di ciò che è stato né proibito né ordinato dalle leggi è un uomo libero; mentre chi, al contrario, non ha questa potestà è uno schiavo.
– Che dici? Credi tu di avere la potestà di effettuare tutto ciò che non è espressamente proibito dalle leggi ma che peraltro gli uomini reputano vergognoso e fuori luogo: intendo, per esempio, fare l’esattore d’imposte, il tenutario di un bordello o altre attività simili?
– No, per Zeus. Io direi anzi che siffatte attività non sono neanche concesse a chi è libero, giacché esse comportano quale pena d’essere odiati ed abominati dagli uomini.
– (15) E allora? Nel caso degli spudorati, quanto costoro fanno a causa della loro impudenza; nel caso dei dissennati, quanto costoro fanno a causa della loro sconsideratezza, trascurando le loro sostanze o il loro corpo o trattando gli altri uomini ingiustamente e scriteriatamente: ebbene, tutte queste cose non sono altrettante penalità per coloro che le fanno? Infatti essi ne vengono danneggiati o nel corpo o nelle sostanze o, penalità più grande di tutte, nel loro animo.
– Questo che dici è vero.
– Pertanto neppure è lecito effettuare queste cose.
– Certo che no.
– (16) In una parola, non è lecito effettuare azioni viziose, assurde e inutili; mentre è d’uopo affermare che è conveniente e lecito effettuare quelle giuste, utili e virtuose?
– A me sembra che sia così.
– Dunque, per nessuno è senza punizione il fare azioni viziose e sconvenienti, sia egli greco o barbaro …. e neppure se ha pagato un prezzo in denaro per l’acquisto di chiunque?
– Certo che no.
– A tutti è però similmente accordata la possibilità di fare il contrario, e coloro che effettuano queste azioni trascorrono la vita senza punizione alcuna, mentre coloro che effettuano le azioni vietate sono puniti.(17) A te sembra che quanti effettuano le azioni lecite siano diversi da coloro che hanno scienza di esse, e che quanti effettuano le azioni contrarie siano diversi dagli ignoranti? 
– In nessun modo diversi da costoro.
– Pertanto tutto ciò che gli uomini saggi decidono di effettuare è loro lecito. Invece tutto ciò che le persone stolte decidono, non è lecito a chi mette mano ad effettuarlo. Cosicché è necessario che i saggi siano uomini liberi e che sia loro lecito fare ciò che dispongono, mentre è invece necessario che i dissennati siano individui schiavi e che facciano proprio ciò ch’è loro non lecito. 
– Forse è così.
– (18) Dunque è d’uopo anche chiamare la libertà scienza delle cose che è accordato effettuare e di quelle che è impedito effettuare; e chiamare la schiavitù ignoranza delle cose lecite e di quelle illecite. Da questo discorso discende la conclusione che nulla impedirebbe che il Gran Re, pur portando sulla testa una grandissima tiara, sia uno schiavo e che non gli sia lecito effettuare nessuna delle cose che fa, giacché quelle che effettua comportano per lui altrettante penalità e sono tutte altrettanto inutili. Se ne conclude anche che invece un altro individuo, che sembra uno schiavo e che così è chiamato; che è stato venduto non una volta sola ma, se così capita, molte volte; che, se così dovesse avvenire, porta pesantissimi ceppi, è più libero del Gran Re.
– (19) A me sembra del tutto assurdo che un uomo il quale porta dei ceppi, che è marchiato o che fa girare la macina in un mulino, sia più libero del Gran Re.
– Che dici? Sei mai stato in Tracia?
– Io sì, certo.
– Dunque là hai visto le donne di condizione libera piene di marchi, e con un numero di simili tatuaggi tanto maggiore e tanto più vari quanto più esse sono nobili e di nobile casata.
– E cosa significa questo?
– (20) Significa che nulla impedisce, com’è verosimile, che la regina sia marchiata. Credi tu di poter impedire un re? Tu quindi non hai sentito parlare di quel popolo presso il quale il re è custodito in un’altissima torre ed a cui non è lecito scendere dalla torre? Se ne avessi sentito parlare, sapresti che è possibile essere re anche se si è tenuti in completo isolamento. E se tu narrassi loro del Re dei Persiani, caso mai sentiresti quegli uomini manifestare grande stupore e non credere affatto che possa esistere un re che se ne va in giro su un carro e che va dove vuole.
– Però tu non potrai dimostrare che uno in catene è un re.
– Forse un re degli uomini, no. Ma il re degli Dei, il primo e più antico re è stato, come si racconta, messo in catene; almeno se bisogna credere ad Esiodo, ad Omero e ad altri uomini sapienti i quali questo dicono di Crono. E fu incatenato, per Zeus, non ingiustamente ad opera di un suo nemico personale; ma subì questo trattamento da parte del suo figlio più caro, il quale stava manifestamente riservando al padre un trattamento regale e a lui conveniente. (22) Però gli uomini ignorano questi fatti e non crederebbero mai che un poveraccio, qualcuno in catene o una persona screditata possa essere un re; seppure sentano raccontare che Odisseo, quand’era un poveraccio e un postulante presso i pretendenti, era nondimeno il re e il padrone di casa; mentre Antinoo ed Eurimaco, che Omero denominava re, erano persone meschine e preda della malasorte. Questi fatti, come dicevo, gli uomini li ignorano e si cingono, quali segni regali, di tiare, di scettri e di diademi, affinché non sfugga a nessuno che essi sono dei re; come, io credo, fanno i padroni quando marchiano il bestiame affinché esso sia facilmente distinguibile. (23) È appunto per questo che il re dei Persiani si preoccupava di essere l’unico a portare la tiara diritta; e se qualcun altro lo faceva, subito il re ordinava di mandarlo a morte, come se fosse né bene né utile che tra tante decine di migliaia di uomini ce ne fossero due che portavano in capo la tiara diritta. E però non gli importava un bel nulla di avere retta l’intelligenza e che (24) nessun altro avesse una mente più saggia della sua. Io dunque non vorrei che come esistevano allora siffatti segni del potere regale, dovessero esistere anche oggi simboli del genere per la libertà; e che si dovesse incedere portando in testa un berretto di feltro, perché altrimenti non potremo riconoscere l’uomo libero dallo schiavo. 

Orazione n. 15

SULLA SCHIAVITU’ E LA LIBERTA’   II

(1) Poco tempo fa, posso assicurarvi, fui presente ad una lunghissima discussione tra due persone che dibattevano circa la schiavitù e la libertà, non davanti a dei giudici né sulla pubblica piazza, ma in casa e a loro agio, avendo ciascuno dalla sua parte non pochi degli astanti. Secondo me era capitato che in precedenza essi avevano dibattuto altre questioni, e che uno dei due, trovatosi nel corso del dibattito sconfitto e a corto di argomenti, s’era dato ad ingiuriare l’altro, come suole accadere spesso, e gli aveva rinfacciato di non essere un uomo libero. Al che l’altro sorrise con grande mitezza e disse:
– (2) E da cosa sei in grado di dirlo? È possibile, mio caro, sapere chi è schiavo e chi è libero? 
– Sì, per Zeus, rispose quello; io so bene di essere un uomo libero e che liberi sono tutti i presenti, mentre tu con la libertà non c’entri proprio nulla.
Alcuni degli astanti risero, ma l’altro non provò punto vergogna. E come i galli da combattimento davanti alla botta subita si scuotono e prendono coraggio, così lui pure, davanti all’ingiuria, si scosse e prese coraggio, domandandogli donde gli veniva questa conoscenza riguardo a loro due.
– (3) Dal fatto che io so per certo che mio padre è Ateniese quant’altri mai, mentre il tuo è un servo domestico del tale – e ne disse il nome.
– Se è così, disse allora l’altro, che cosa m’impedisce di fare gli esercizi ginnici e di ungermi d’olio nel Cinosarge insieme ai figli bastardi, visto che mi capita d’essere nato da una madre di condizione libera, e forse addirittura cittadina Ateniese, e dal padre di cui parli tu? Non è forse vero che molte cittadine Ateniesi, a causa dell’isolamento e della penuria di maschi, sono rimaste incinte alcune ad opera di stranieri ed altre di schiavi, alcune ignorando questo fatto ma altre anche ben sapendolo? Nessuno dei figli generati così è schiavo, ma soltanto non è cittadino Ateniese.
– (4) Ma io so bene, disse quello, che anche tua madre è una serva domestica come tuo padre.
– E sia pure, rispose l’altro; ma tu sai chi è tua madre?
– Lo so benissimo: è cittadina Ateniese, figlia di Ateniesi e che ha anche portato al marito una bella dote.
– Potresti tu affermare sotto giuramento di essere figlio dell’uomo che dice tua madre? Telemaco, come sai, non riteneva affatto il caso di sostenere con tutte le sue forze, in difesa di Penelope figlia di Icario, la quale era reputata una moglie della massima castigatezza di costumi, che ella dice la verità quando dichiara che Odisseo è suo padre. Tu invece giureresti non soltanto in difesa tua e di tua madre, ma se qualcuno te lo intimasse giureresti, a quanto pare, anche a proposito di non importa quale schiava, come tu affermi essere mia madre, di sapere ad opera di chi rimase incinta. (5) Ti sembra impossibile che ella sia rimasta incinta ad opera di un altro uomo, di un libero cittadino o del suo stesso padrone? Non sono molti gli Ateniesi che hanno rapporti sessuali con le loro ancelle, alcuni di nascosto ma altri anche apertamente? Tutti gli Ateniesi, infatti, non sono certo migliori di Eracle, il quale non stimò indegno avere rapporti sessuali con la schiava di Iardano, dalla quale nacquero i re di Sardi. (6) Non ti pare che Clitennestra, figlia di Tindareo e moglie di Agamennone, abbia avuto rapporti coniugali, com’è verosimile, con suo marito Agamennone; e che quando questi se ne andò lontano abbia avuto rapporti sessuali con Egisto? Non ti pare che Aerope, la moglie di Atreo, abbia accettato le profferte di Tieste; e che molte altre mogli di uomini celebri e ricchi, sia anticamente che di questi tempi, abbiano avuto rapporti sessuali con altri uomini, e che a volte abbiano avuto da essi dei figli? Tu invece sei sicuro che l’ancella di cui parli abbia custodito la propria fedeltà a suo marito così precisamente da non avere avuto rapporti sessuali con nessun altro. (7) Per di più tu garantisci, a tuo ed a mio riguardo, che ciascuno di noi due è figlio di colei che sembra e si dice essere nostra madre. Eppure potresti dire il nome di molti Ateniesi, e dei più conosciuti, dei quali fu in seguito acclarato non soltanto che non erano figli del padre, ma neppure della madre che si diceva; trattandosi di bambini allevati da qualche parte come figli suppositizi. Queste vicende le vedi mostrate e raccontate ogni volta dagli scrittori di commedie e nelle tragedie; e tu nondimeno insisti egualmente a dire, a tuo ed a mio riguardo, di sapere bene le circostanze della nostra nascita e da chi siamo nati. (8) Non sai, concluse, che la legge permette di intentare un processo per calunnia contro colui che diffama qualcuno senza poter dimostrare chiaramente nulla di ciò di cui parla?
– Io so bene, disse quello, che se non hanno figli perché non riescono a rimanere incinte, le donne di condizione libera fanno spesso passare un figlio altrui come proprio; volendo ciascuna di esse tenersi stretto il proprio marito e conservare la casa, e poiché nel contempo non mancano loro i mezzi coi quali allevare i bambini. So anche che delle schiave, al contrario, alcune abortiscono; ed altre, se possono tener ciò nascosto e a volte anche con la complicità dei mariti, uccidono il bambino dopo il parto per non avere fastidi e non essere costrette, oltre al lavoro servile, anche ad allevare il neonato. 
– (9) Sì, per Zeus, disse l’altro, se però si eccettua quella schiava di Oeneo, figlio bastardo, si diceva, di Pandione. Infatti, il pastore di Oeneo e sua moglie, che vivevano ad Eleutere, non soltanto non esponevano i figli da loro generati, ma raccoglievano anche neonati non loro che trovavano per strada, senza sapere di chi fossero; li allevavano come figli loro e mai in seguito ammisero volontariamente che fossero figli altrui. Tu invece forse copriresti d’ingiurie anche Zeto ed Anfione, prima che la loro identità diventasse chiara; e circa dei figli di Zeus giureresti che sono degli schiavi.
– (10) Quello allora rise molto ironicamente e disse: ‘E tu chiami testimoni gli scrittori di tragedie?’
– Sì, disse l’altro, chiamo a testimoniare coloro nei quali i Greci hanno fiducia. Giacché quelli che i tragediografi ci mostrano come eroi, ebbene è a costoro che i Greci offrono sacrifici come ad eroi; ed è possibile vedere che i sacrari degli eroi sono stati edificati in loro onore. E fatti lo stesso concetto, se vuoi, anche della schiava Frigia di Priamo, la quale, presolo dal marito che era un bovaro, allevò Alessandro sul monte Ida come figlio suo, e portò innanzi l’allevamento del bambino senza esserne affatto incomodata. I Greci raccontano anche che Telefo, il figlio di Auge e di Eracle, non fu allevato da una donna ma da una cerva. E a te sembra che una cerva avrebbe più compassione di un neonato e proverebbe più desiderio di allevarlo di un essere umano, pur se costui è una schiava? (11) Orsù, per gli Dei! E se io pur ammettessi con te che i miei genitori sono quelli che tu dici, come fai tu a sapere che sono degli schiavi? Oppure tu conoscevi con assoluta certezza anche i loro genitori, e sei pronto a giurare a loro proposito che entrambi erano nati da genitori tutti e due schiavi, e che ciò vale anche per le generazioni precedenti e così per tutti loro fin dal principio? È infatti manifesto che qualora un membro della discendenza sia di condizione libera, non è più permesso né corretto legittimare i suoi discendenti come schiavi. Ciò non è possibile, mio caro, perché è impossibile, come si dice, che da tutta l’eternità esista una generazione di uomini nella quale non siano nati un numero sconfinato di individui di condizione libera, e in numero non minore individui di condizione schiava; e poi che non vi siano stati tiranni, re, prigionieri, schiavi marchiati, bottegai, calzolai e addetti a tutte quante le altre attività umane: tutta gente passata attraverso ogni sorta di lavoro, ogni sorta di vita, ogni sorta di fortuna e di guai. (12) Non sai che è questo il motivo per cui i poeti fanno risalire direttamente agli Dei la discendenza dei cosiddetti eroi, di modo che non si possa indagare più oltre il personaggio? Essi affermano anche che la maggior parte di tali eroi sono discendenti di Zeus, affinché i loro re, i loro fondatori di città e i loro eroi eponimi non si imbattano in situazioni tali che agli uomini sembrano essere vergognose e disonorevoli. Pertanto, se lo stato delle cose umane è questo che diciamo noi e che dicono altri più sapienti di noi, quanto a discendenza a te non si converrebbe più libertà, ed a me più schiavitù, di quanta ne convenga a chiunque di coloro che sembrano essere puri e semplici servi domestici, a meno che anche tu non faccia in fretta risalire i tuoi progenitori a Zeus o a Poseidone o ad Apollo.
– (13) Lasciamo dunque stare, disse quello, la faccenda della discendenza e degli antenati, poiché a te sembra una questione così difficile da appurare e poiché forse ne risulterà addirittura che tu sei come un Anfione, uno Zeto o come Alessandro, il figlio di Priamo. Quanto a te proprio, però, noi tutti sappiamo che sei di condizione servile.
– Ma che dici? continuò l’altro. A te sembra che tutti gli individui di condizione servile siano degli schiavi? Molti di essi non sono uomini liberi ingiustamente tenuti in schiavitù? Alcuni di questi, infatti, hanno adito i tribunali ed hanno dimostrato di essere uomini liberi. Altri, invece, sopportano di restare per sempre in stato servile poiché non hanno modo di dimostrare chiaramente la loro libertà, oppure affinché i cosiddetti padroni non siano duri e violenti con loro. (14) Orsù, prendi Eumeo, figlio di Ctesia, a sua volta figlio di Ormeno. Eumeo era figlio di un uomo assolutamente libero e ricco, eppure non svolgeva forse mansioni servili ad Itaca, presso Odisseo e Laerte? E pur essendogli permesso di navigare spesso verso casa, se così voleva, non ritenne mai il caso di farlo. E allora? Molti Ateniesi catturati in Sicilia, pur essendo uomini liberi non rimasero come schiavi in Sicilia e nel Peloponneso? E dei prigionieri di guerra catturati in molte altre battaglie, alcuni non rimasero schiavi per qualche tempo, ossia fino a che non trovarono chi pagava il loro riscatto; mentre altri lo rimasero per sempre? (15) Sembra che anche il figlio di Callia sia stato schiavo per lungo tempo in Tracia, dopo la battaglia nei pressi di Acanto nella quale gli Ateniesi furono sconfitti. Sicché successivamente, essendo riuscito a fuggire dalla prigionia ed a tornare a casa, egli avanzò pretese sull’eredità del padre e procurò molti fastidi ai parenti. Quello era però, io credo, un falso figlio di Callia, in quanto non ne era il figlio ma lo stalliere, simile soltanto di vista al figlio adolescente di Callia, cui invece era capitato di morire in battaglia. Egli, inoltre, parlava greco correttamente e conosceva le lettere; (16) ma miriadi di altre persone hanno sofferto vicende simili; poiché anche ora, di coloro che sono schiavi qui dove ci troviamo io non disconosco che molti sono uomini liberi. Se infatti un libero cittadino Ateniese preso prigioniero in guerra, sarà condotto in Persia oppure, per Zeus, portato in Tracia o in Sicilia e colà venduto, noi non diremo che costui è uno schiavo. Se invece sarà portato qui un Trace o un Persino, non soltanto nato colà da genitori di condizione libera ma pure figlio di qualche principe o di qualche re, noi non ammetteremo che costui sia un uomo libero. (17) Non sai, continuò, che ad Atene e in molti altri Stati, la legge non permette a chi è schiavo di partecipare dei diritti di cui godono i cittadini? Nessuno invece avrebbe sollecitato di escludere dalla cittadinanza Ateniese il figlio di Callia, se davvero egli si salvò dopo la cattura e giunse qui dalla Tracia dopo esservi vissuto per lunghi anni ed esservi stato spesso frustato. Sicché in certi casi anche la legge afferma perentoriamente che quanti sono tenuti ingiustamente in condizione servile non sono per questo diventati schiavi. (18) Per gli Dei, cosa sai tu che io faccio o subisco, per affermare di sapere che io sono uno schiavo?
– Io so che tu sei nutrito dal tuo padrone, che lo segui, che fai qualunque cosa egli ti ingiunga; e che se non la fai sei picchiato.
– Dicendo così, rispose l’altro, tu stai dichiarando che anche i figli sono schiavi dei loro padri. Infatti i figli seguono i padri, soprattutto se poveri, e vanno con loro in palestra o a pranzo. Tutti i figli sono nutriti dai padri, sono spesso da loro picchiati ed ubbidiscono a qualunque cosa i padri ingiungano loro di fare. (19) E a motivo dell’ubbidire e del prendere botte, allora tu dirai che quanti imparano le lettere sono servi domestici dei loro maestri di grammatica; e che gli istruttori di ginnastica o gli insegnanti di qualcos’altro sono padroni dei loro allievi, giacché in effetti essi ingiungono loro certe cose e li battono quando non ubbidiscono.
– Per Zeus, disse quello, così è; però né gli istruttori di ginnastica né gli altri insegnanti possono imprigionare i loro allievi né venderli, e neppure possono sbatterli in un mulino a far girare la macina; mentre tutte queste punizioni sono invece permesse ai padroni.
– (20) Forse tu non sai che in molti Stati retti da buonissime leggi, le cose che tu dici sono nella potestà dei padri verso i figli. I padri, infatti, possono imprigionare i figli quando vogliono, possono venderli e, cosa ancor più dura e violenta, possono ucciderli senza far loro un processo e senza neppure incriminarli di qualcosa. Eppure nondimeno essi non sono gli schiavi dei padri, ma i figli. E se io pur fossi uno schiavo quant’altri mai e giustamente schiavo fin dalla nascita; cosa impedisce, continuò l’altro, che io sia adesso nondimeno un uomo libero e che tu a tua volta, pur se fossi nato da genitori liberissimi, sia al contrario schiavo più di chiunque altro?
– (21) Io, disse quello, non vedo come potrò mai essere uno schiavo. Non è invece impossibile che tu divenga un uomo libero se il tuo padrone ti emancipa.
– O carissimo, rispose l’altro, che dici mai? Davvero nessuno schiavo potrebbe diventare libero se non per emancipazione dal proprio padrone?
– E come, se no? chiese quello.
– In questo modo: dopo la battaglia di Cheronea, gli Ateniesi decretarono che i servi domestici i quali avessero in futuro preso parte alla guerra sarebbero diventati uomini liberi. Se dunque la guerra fosse continuata e Filippo non avesse fatto pace con loro troppo presto, molti o praticamente tutti i servi domestici Ateniesi sarebbero oggi uomini liberi, senza essere stati emancipati uno per uno dal loro padrone.
– Sia pur così, se lo Stato ti libererà a sue spese.
– (22) Ma che dici? Ti pare che io non potrò liberarmi da solo?
– Sì, se verserai al tuo padrone il denaro che hai trovato da qualche parte.
– Non intendo in questo modo, ma nel modo in cui Ciro liberò non soltanto se stesso ma anche tutti i Persiani, una folla così numerosa di persone, senza versare ad alcuno del denaro e senza essere liberato dal proprio padrone. Non sai che Ciro era un vassallo di Astiage, e che quando poté e gli parve il momento divenne libero e re dell’Asia intera?
– E sia. Ma come fai a dire che io potrei diventare schiavo?
– (23) Io dico che in effetti miriadi di uomini liberi vendono se stessi per lavorare come schiavi a contratto, a volte a condizioni non solo inique ma durissime.

Fino a questo punto i presenti avevano prestato attenzione ai discorsi dei due come a cose dette non tanto sul serio quanto per scherzo. Successivamente, però, i due entrarono in una seria disputa, giacché sembrò loro assurdo che non si potesse invocare una prova certa grazie alla quale distinguere in modo incontestabile lo schiavo dall’uomo libero; e che invece fosse facilmente possibile in qualunque caso mettere in piedi una controversia ed obiettare polemicamente. (24) Lasciata pertanto cadere la considerazione dello specifico caso della schiavitù o meno di uno dei due, essi presero a considerare chi sia in generale lo schiavo. E parve ad essi che qualora uno entri in pieno e incondizionato possesso di un essere umano, così com’è padrone assoluto di qualunque altro dei suoi beni o dei suoi capi di bestiame, tanto da avere la potestà di servirsene come vuole, allora quest’essere umano può rettamente essere chiamato, e di fatto è, schiavo del suo possessore.
Ma a questo punto quello cui era stato rinfacciato di essere uno schiavo mise di nuovo in piedi una controversia, obiettando polemicamente di voler sapere cosa fosse il ‘pieno e incondizionato possesso’. (25) Giacché, diceva, era già venuto chiaramente in luce come molti di coloro che da lungo tempo possedevano una casa, un podere, un cavallo o un bue, e taluni avendoli ricevuti dai propri padri, non godevano di tale possesso secondo giustizia; e pertanto, allo stesso modo, era possibile anche l’ingiusto possesso di un essere umano. Infatti, come nel caso di tutti gli altri beni, tra i beni che si acquisiscono ci sono anche i servi domestici, che alcuni padroni prendono da altri possessori o per cessione gratuita, o per eredità, o per acquisto oneroso; mentre altri schiavi essi li possiedono fin dal principio, in quanto sono stati generati presso gli stessi padroni e sono quelli che si chiamano schiavi nati in casa. Il terzo modo di acquisire uno schiavo è quando si prenda qualcuno prigioniero in guerra, oppure lo si rapisca e lo si riduca in schiavitù; modo, questo, che io credo sia il più antico di tutti. Non è infatti verosimile che i primi individui diventati schiavi siano nati da uomini fin dal principio per natura schiavi, bensì che per rapimento o per cattura in guerra alcuni individui siano poi stati costretti alla schiavitù da coloro che li avevano catturati. (26) Dunque questo antichissimo modo dal quale tutti gli altri dipendono è, quanto a giustizia, debolissimo e per nulla fondato; sicché qualora quegli schiavi possano fuggire, nulla impedisce che essi siano di nuovo uomini liberi; e poiché erano ingiustamente schiavi ne consegue che essi non erano schiavi neppure prima. A volte, poi, questi schiavi non soltanto fuggirono dalla schiavitù ma ridussero in schiavitù i loro stessi padroni. Anche in questo caso, come si dice, a seconda di come cade e si rivolta il coccio, tutto diventa il contrario di com’era prima. A questo punto uno dei presenti disse che forse quelli non potrebbero essere chiamati schiavi in senso proprio, ma che ai loro figli e a quelli di seconda e terza generazione potrebbe convenire in senso proprio il nome di schiavi. 
– (27) Ma com’è possibile ciò? Se infatti a fare uno schiavo è la cattura, questo nome converrebbe a coloro che sono stati catturati ben più che ai loro discendenti. Se invece a fare uno schiavo è la nascita da genitori schiavi, poiché i catturati sono manifestamente degli uomini liberi, i loro discendenti non potrebbero essere dei servi domestici. Noi ad esempio vediamo che dopo tanti anni i famosi Messeni recuperarono non soltanto la libertà ma anche le loro terre. (28) Quando infatti gli Spartani furono sconfitti a Leuttra dai Tebani, questi ultimi e i loro alleati entrarono militarmente nel Peloponneso, costrinsero gli Spartani a cedere la Messenia e reinsediarono a Messene quanti erano originari di quella regione, e che in precedenza erano tenuti in schiavitù dagli Spartani e chiamati Iloti. E nessuno afferma che i Tebani abbiano compiuto queste imprese contro giustizia, bensì del tutto onorevolmente e secondo giustizia. Se pertanto questo modo, dal quale tutti gli altri originano, di entrare in possesso di un uomo non è giusto, si rischia che nessun altro lo sia, e dunque che effettivamente la parola ‘schiavo’ non sia pronunciata secondo verità. (29) Può tuttavia darsi che la parola ‘schiavo’ non sia stata da principio pronunciata in questo senso, ossia a proposito di colui per il cui corpo qualcuno abbia versato del denaro; oppure, come ritengono i più, che schiavo sia chi è nato da genitori schiavi; ma che il termine ‘schiavo’ indicasse piuttosto chi è d’animo non libero ed incline al servilismo. Noi infatti ammetteremo che dei cosiddetti schiavi molti sono certamente uomini d’animo libero, e che invece molti dei cosiddetti uomini liberi sono persone del tutto inclini al servilismo. Ciò vale anche per le persone ‘di nobile indole’ e ‘bennate’. Dapprima gli uomini chiamarono così coloro che mostravano d’essere nati per la virtù, senza impicciarsi di sapere di chi fossero figli. Successivamente, però, i discendenti di famiglie d’alta reputazione e d’antica ricchezza furono da alcuni chiamati ‘bennati’. (30) Di ciò rimane un segno chiarissimo nel fatto che la designazione ‘di razza’, quale era stata applicata anche agli uomini in tempi antichi, si è conservata nel caso dei galli, dei cavalli e dei cani. Chi infatti vede un cavallo focoso, fiero, ben dotato per la corsa, senza cercare di sapere se il padre sia uno stallone proveniente dall’Arcadia o dalla Media o dalla Tessaglia, lo giudica per le sue doti e dice che è un cavallo ‘di razza’. Similmente, se chi è esperto di cani vede una cagna veloce, piena di slancio e sagace nel seguire le orme, non va a cercare se sia di un genere proveniente dalla Caria, dalla Laconia o da qualche altra regione, ma dice che è una cagna ‘di razza’. La stessa cosa vale nel caso di un gallo e degli altri animali. (31) È dunque manifesto che la faccenda starebbe in questi termini anche nel caso degli uomini. Sicché chi sarà bennato per la virtù, costui conviene che sia chiamato di nobile indole, anche se nessuno conosce i suoi genitori né i suoi antenati.
– Ma non è proprio possibile che uno sia ‘di nobile indole’ e che non sia ‘bennato’, né che sia ‘bennato’ e che non sia un uomo ‘libero’: sicché è anche del tutto necessario che chi è ‘ignobile’ sia uno ‘schiavo’. Dunque s’intende che se ci fosse l’abitudine di parlare della libertà e della schiavitù come se ne parla nel caso dei cavalli, dei galli e dei cani, noi non diremmo che alcuni sono ‘di razza’ ed altri invece sono ‘liberi’, né  che alcuni sono ‘schiavi’ ed altri invece sono ‘ignobili’.
– (32) Allo stesso modo, anche nel caso degli uomini non è verosimile chiamare alcuni ‘di nobile indole’ e ‘bennati’ ed altri invece ‘liberi’, giacché deve trattarsi delle stesse identiche persone; e così pure è inverosimile chiamare alcuni ‘ignobili’ e ‘servi nell’animo’ ed altri invece ‘schiavi’.
– Così il ragionamento rende palese che a fare un cattivo uso dei nomi non sono i filosofi bensì la maggioranza degli uomini dissennati, per la loro inesperienza in materia.

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PILOTINA STOICA USS 10

Temperanza

Aristone di Chio ritenne la virtù sostanzialmente una sola e la chiamò salute. Soltanto in senso relativo vi sono differenti e plurime virtù, come se uno volesse chiamare la nostra visione, quando coglie oggetti bianchi, con il nome di ‘biancovisione’ e quando coglie oggetti neri, di ‘nerovisione’ o qualcos’altro di simile. Giacché la virtù, quando sopravveda quanto va fatto e quanto non va fatto, è stata chiamata saggezza; quando dà compostezza alla smania e definisce quanto è equilibrato ed opportuno nei piaceri fisici è stata chiamata temperanza; quando è in relazione con affari e transazioni con altre persone è stata chiamata giustizia. Così come il coltello è uno ma spartisce di volta in volta cose differenti; e come il fuoco, che è attivo su materiali diversi pur fruendo di una sola natura.
167/375 = SVF 1, 86, 8
Plutarco ‘De Virt. Morali’ p. 440 f.

La saggezza pone dei limiti nell’ambito di quanto va fatto; la virilità li pone alle cose cui si deve resistere; la temperanza a quelle che si devono scegliere; la giustizia a quelle che si devono distribuire.
1095/263(2) = SVF 3, 63, 36
Filone ‘Leg. Alleg.’ I §65

Giacché la temperanza è, nella scelta e nel rifiuto, l’attitudine a salvaguardare le determinazioni della saggezza.
1103/274 (6) = SVF 3, 67, 35
Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 174

Zenone di Cizio sembra essere trascinato in qualche modo a ciò quando definisce la saggezza nelle cose da distribuire come giustizia, la saggezza nelle cose che si devono scegliere come temperanza, nelle cose cui si deve resistere come virilità. Coloro che lo difendono sostengono che in queste definizioni la scienza è da Zenone denominata saggezza.
95/201 = SVF 1, 49, 30
Plutarco ‘De virtute morali’ 2 p.441 a

Aristone, ritenendo dunque che la facoltà dell’animo fosse una sola, quella con cui ragioniamo, suppose anche una sola virtù dell’animo: la scienza dei beni e dei mali. Qualora l’animo nostro debba scegliere i beni e fuggire i mali, Aristone chiama questa scienza temperanza. Qualora debba effettuare il bene e non effettuare il male, saggezza. Qualora debba affrontare con coraggio alcune cose ed altre fuggire, la chiama virilità. Qualora distribuisca a ciascuno secondo il merito, giustizia. In una parola, l’animo è sapienza e scienza quando conosce, senza effettuarli, beni e mali. Quando invece perviene alle azioni della vita, l’animo prende i plurimi nomi sopraddetti e si chiama saggezza, temperanza, giustizia e virilità. Siffatta è l’opinione di Aristone circa le virtù dell’animo.
165/374 = SVF 1, 85, 34
Galeno ‘De Hipp. et Plat. Decr.’ VII 2 (208, 591 M)

Saggezza è la scienza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e di quanto è udetero; oppure è la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri in rapporto alla natura di un animale politico. Così poi prescrivono di intendere circa le restanti virtù. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Giustizia è la scienza di distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Stoltezza è l’ignoranza dei beni, dei mali e degli udeteri; oppure è l’ignoranza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e degli udeteri. Impudenza è l’ignoranza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Ingiustizia è l’ignoranza nel distribuire a ciascuno secondo il merito. Viltà è l’ignoranza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Coloro che si attengono a quanto detto, definiscono in modo somigliante anche le altre virtù e vizi. Ed in genere affermano che la virtù è l’armoniosa disposizione di un animo con se stesso per tutta la vita.
1095/262 = SVF 3, 63, 23
Stobeo ‘Eclogae’ II 59, 4 W

Definiscono dunque la virilità come scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è intermedio. Temperanza è la stabile attitudine, nella scelta e nel rifiuto, a salvaguardare le determinazioni della saggezza. Affine alla virilità è quella resistenza che chiamano fortezza. Essa è la scienza di quanto va mantenuto saldo e di quanto non va mantenuto saldo. Magnanimità è la scienza che ci solleva al di sopra di quanto avviene. Affine alla temperanza è la cautela, che è una avversione attuantesi con ragione. [……….] Chi possiede una virtù sola, a causa della loro implicazione reciproca, le possiede tutte. Ora, la padronanza di sé è una disposizione a non superare i limiti di quanto appare secondo retta ragione. Chi dunque rattiene gli impulsi contrari alla retta ragione è padrone di sé, così come lo è chi rattiene se stesso in modo da non impellere contrariamente alla retta ragione.
1103/275 = SVF 3, 67, 37
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ II p.470 Pott.

Delle virtù alcune sono primarie, altre sono subordinate alle primarie. Le primarie sono quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia. La saggezza si occupa di quanto è doveroso, la temperanza degli impulsi dell’essere umano, la virilità delle sue resistenze, la giustizia delle sue distribuzioni. Di quelle che a queste virtù sono subordinate, alcune sono subordinate alla saggezza, altre alla temperanza, altre alla virilità, altre alla giustizia. Alla saggezza sono subordinate il buon consiglio, la ragionevolezza, la perspicacia, il buon senso, [la sagacia], l’ingegnosità. Alla temperanza sono subordinate la disciplina, la compostezza, il rispetto, la padronanza di sé. Alla virilità sono subordinate la fortezza, il coraggio, la magnanimità, l’ardimento, la laboriosità. Alla giustizia sono subordinate la pietà, la bontà, la socievolezza, l’affabilità. Buon consiglio è dunque la scienza del cosa e del come effettuare utilmente quanto effettuiamo. Ragionevolezza è la scienza capace di equilibrare e riassumere avvenimenti e risultati. Perspicacia è la scienza capace di trovare sul momento quanto è doveroso. Buon senso è la scienza del peggio e del meglio. Sagacia è la scienza di centrare lo scopo in ogni circostanza. Ingegnosità è la scienza capace di trovare una via d’uscita in ogni faccenda. Disciplina è la scienza del quando si deve effettuare una cosa, di cosa si deve effettuare dopo che cosa e, in generale, dell’ordine delle azioni. Compostezza è la scienza dei movimenti confacenti e non confacenti. Rispetto è la scienza che ci cautela da un retto rimprovero. Padronanza di sé è la scienza che ci fa non oltrepassare i limiti di quanto appare essere in accordo con la retta ragione. Fortezza è la scienza che ci mantiene fedeli alle rette determinazioni. Coraggio è la scienza grazie alla quale sappiamo che non incapperemo in nulla di terribile. Magnanimità è la scienza che ci fa essere superiori a quanto, per natura delle cose, accade sia ai virtuosi che agli insipienti. Ardimento è la scienza di un animo che procura a se stesso di essere invitto. Laboriosità è la scienza che elabora il proponimento senza esserne impedita dalla fatica. Pietà è la scienza di accudire gli dei. Bontà è la scienza del fare bene. Socievolezza è la scienza della parità in società. Affabilità è la scienza di intrattenere rapporti irreprensibili con chi abbiamo dintorno. Il fine di tutte queste virtù è di vivere coerentemente alla natura delle cose; e ciascuna di esse, con le sue peculiarità, procura questo fine all’uomo che la centra. Giacché l’uomo ha dalla natura risorse sia per il rinvenimento di quanto è doveroso, sia per la stabilità degli impulsi, sia per delle virili resistenze, sia per delle giuste distribuzioni. E ciascuna virtù, effettuando quanto è in armonia con le altre e quanto le è proprio, procura all’uomo una vita coerente con la natura delle cose.
1097/264 = SVF 3, 64, 14
Stobeo ‘Eclogae’ II 60. 9 W

Se dunque considerassimo bene, la virtù è –potenzialmente- una sola. Poi quando si ingeneri in queste faccende, le accade di chiamarsi saggezza; in queste altre faccende, temperanza; in queste altre ancora, virilità o giustizia. Allo stesso modo noi diciamo che una medesima dracma, quando sia data all’armatore di una nave, si chiama nolo; quando sia data ad un esattore, si chiama tassa; ad un proprietario di casa, affitto; ad un maestro di scuola, onorario; ad un venditore, caparra. Ciascuna virtù, pur chiamata con lo stesso nome di virtù, è però cagione soltanto del risultato che le è proprio, e l’uso congiunto di tutte le virtù diventa il vivere felicemente. Giacché noi non ci felicitiamo davvero per i nomi, quando chiamiamo felicità la vita retta e felice chi ha adornato virtuosamente l’animo suo.
167/376 = SVF 1, 86, 18
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ I p.376 Pott

Questo è quanto Zenone dice partecipare della sostanza. E delle cose che sono alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti. Beni sono queste: saggezza, temperanza, giustizia, virilità e tutto ciò che è virtù o partecipa di virtù. Mali sono queste: stoltezza, impudenza, ingiustizia, viltà e tutto ciò che è vizio o partecipa del vizio. Indifferenti sono queste: vita, morte, reputazione, discredito, dolore fisico, piacere fisico, ricchezza di denaro, povertà di denaro, malattia, salute e le cose simili a queste.
91/190 = SVF 1, 47, 19
Stobeo ‘Eclogae’ II p. 57, 18 W

Dei beni alcuni sono virtù, altri no. Dunque la saggezza, la temperanza, la giustizia, la virilità sono virtù. Invece la gioia, la letizia, il coraggio, la decisione e le cose somiglianti non sono virtù. Delle virtù alcune sono scienza ed arte di qualcosa, altre no. Saggezza, temperanza, giustizia e virilità sono scienza ed arte di certe cose. Invece magnanimità, vigore e forza d’animo non sono scienza né arte di qualcosa. Analogamente anche dei mali alcuni sono vizi, altri no. Stoltezza, ingiustizia, viltà, piccineria ed incapacità sono vizi. Invece afflizione, paura e le cose somiglianti non sono vizi. Dei vizi alcuni sono ignoranza e carenza di arte per certe cose, altri no. Stoltezza, impudenza, ingiustizia e viltà sono ignoranza e carenza di arte per certe cose. Piccineria ed incapacità non sono ignoranza né carenza di arte per certe cose.
1015/95 = SVF 3, 23, 22
Stobeo ‘Eclogae’ II p. 58, 5 W

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PILOTINA STOICA USS 09

Virilità

Zenone, come Platone, ci lascia in eredità una pluralità di virtù distinte come la saggezza, la virilità, la temperanza, la giustizia; e ce le lascia come inseparabili ma diverse e differenti una dall’altra. Quando definisce ciascuna di esse, afferma che la virilità è saggezza…..[ nelle cose cui si deve resistere, la temperanza è saggezza nelle cose che si devono scegliere, la saggezza in senso proprio è saggezza]…..nelle attività da svolgere, la giustizia è saggezza nelle cose da distribuire. E’ come se una fosse la virtù seppure, nelle sue relazioni con le faccende, sembri differire a seconda delle attività.
95/200 (1) = SVF 1, 49, 21
Plutarco ‘De Stoic. Repugn.’ 7 p.1034 c

Zenone di Cizio sembra essere trascinato in qualche modo a ciò quando definisce la saggezza nelle cose da distribuire come giustizia, la saggezza nelle cose che si devono scegliere come temperanza, nelle cose cui si deve resistere come virilità. Coloro che lo difendono sostengono che in queste definizioni la scienza è da Zenone denominata saggezza.
95/201 = SVF 1, 49, 30
Plutarco ‘De virtute morali’ 2 p.441 a

Con questo decide di delineare le virtù particolari. Esse sono in numero di quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia.
1095/263(1) = SVF 3, 63, 36
Filone ‘Leg. Alleg.’ 1 § 63 Vol. I p. 77, 12 Wendl

Aristone, ritenendo dunque che la facoltà dell’animo fosse una sola, quella con cui ragioniamo, suppose anche una sola virtù dell’animo: la scienza dei beni e dei mali. Qualora l’animo nostro debba scegliere i beni e fuggire i mali, Aristone chiama questa scienza temperanza. Qualora debba effettuare il bene e non effettuare il male, saggezza. Qualora debba affrontare con coraggio alcune cose ed altre fuggire, la chiama virilità. Qualora distribuisca a ciascuno secondo il merito, giustizia. In una parola, l’animo è sapienza e scienza quando conosce, senza effettuarli, beni e mali. Quando invece perviene alle azioni della vita, l’animo prende i plurimi nomi sopraddetti e si chiama saggezza, temperanza, giustizia e virilità. Siffatta è l’opinione di Aristone circa le virtù dell’animo.
165/374 = SVF 1, 85, 34
Galeno ‘De Hipp. et Plat. Decr.’ VII 2 (208, 591 M)

Saggezza è la scienza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e di quanto è udetero; oppure è la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri in rapporto alla natura di un animale politico. Così poi prescrivono di intendere circa le restanti virtù. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Giustizia è la scienza di distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Stoltezza è l’ignoranza dei beni, dei mali e degli udeteri; oppure è l’ignoranza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e degli udeteri. Impudenza è l’ignoranza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Ingiustizia è l’ignoranza nel distribuire a ciascuno secondo il merito. Viltà è l’ignoranza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Coloro che si attengono a quanto detto, definiscono in modo somigliante anche le altre virtù e vizi. Ed in genere affermano che la virtù è l’armoniosa disposizione di un animo con se stesso per tutta la vita.
1095/262 = SVF 3, 63, 23
Stobeo ‘Eclogae’ II 59, 4 W

Saggezza è dunque la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto non va scelto e degli udeteri. Giustizia è l’attitudine stabile a distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e degli udeteri.
1099/266 = SVF 3, 65, 21
Andronico ‘Sulle Passioni’ p.19 Schuchardt

Se uno ha virilità, ha la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è intermedio.
1103/274(2) = SVF 3, 67, 26
Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 153

Definiscono dunque la virilità come scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è intermedio. Temperanza è la stabile attitudine, nella scelta e nel rifiuto, a salvaguardare le determinazioni della saggezza. Affine alla virilità è quella resistenza che chiamano fortezza. Essa è la scienza di quanto va mantenuto saldo e di quanto non va mantenuto saldo. Magnanimità è la scienza che ci solleva al di sopra di quanto avviene. Affine alla temperanza è la cautela, che è una avversione attuantesi con ragione. [……….] Chi possiede una virtù sola, a causa della loro implicazione reciproca, le possiede tutte. Ora, la padronanza di sé è una disposizione a non superare i limiti di quanto appare secondo retta ragione. Chi dunque rattiene gli impulsi contrari alla retta ragione è padrone di sé, così come lo è chi rattiene se stesso in modo da non impellere contrariamente alla retta ragione.
1103/275 = SVF 3, 67, 37
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ II p.470 Pott.

Sanno coloro che non sono totalmente digiuni di educazione che virilità è la virtù avente a che fare con quanto è terribile; e se brevemente si accosteranno alla cultura sapranno che virilità è la scienza delle cose cui si deve resistere.
1109/286 = SVF 3, 70, 22
Filone ‘De sept. et fest. dieb.’ Vol. II Mang. P. 360

Delle virtù alcune sono primarie, altre sono subordinate alle primarie. Le primarie sono quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia. La saggezza si occupa di quanto è doveroso, la temperanza degli impulsi dell’essere umano, la virilità delle sue resistenze, la giustizia delle sue distribuzioni. Di quelle che a queste virtù sono subordinate, alcune sono subordinate alla saggezza, altre alla temperanza, altre alla virilità, altre alla giustizia. Alla saggezza sono subordinate il buon consiglio, la ragionevolezza, la perspicacia, il buon senso, [la sagacia], l’ingegnosità. Alla temperanza sono subordinate la disciplina, la compostezza, il rispetto, la padronanza di sé. Alla virilità sono subordinate la fortezza, il coraggio, la magnanimità, l’ardimento, la laboriosità. Alla giustizia sono subordinate la pietà, la bontà, la socievolezza, l’affabilità. Buon consiglio è dunque la scienza del cosa e del come effettuare utilmente quanto effettuiamo. Ragionevolezza è la scienza capace di equilibrare e riassumere avvenimenti e risultati. Perspicacia è la scienza capace di trovare sul momento quanto è doveroso. Buon senso è la scienza del peggio e del meglio. Sagacia è la scienza di centrare lo scopo in ogni circostanza. Ingegnosità è la scienza capace di trovare una via d’uscita in ogni faccenda. Disciplina è la scienza del quando si deve effettuare una cosa, di cosa si deve effettuare dopo che cosa e, in generale, dell’ordine delle azioni. Compostezza è la scienza dei movimenti confacenti e non confacenti. Rispetto è la scienza che ci cautela da un retto rimprovero. Padronanza di sé è la scienza che ci fa non oltrepassare i limiti di quanto appare essere in accordo con la retta ragione. Fortezza è la scienza che ci mantiene fedeli alle rette determinazioni. Coraggio è la scienza grazie alla quale sappiamo che non incapperemo in nulla di terribile. Magnanimità è la scienza che ci fa essere superiori a quanto, per natura delle cose, accade sia ai virtuosi che agli insipienti. Ardimento è la scienza di un animo che procura a se stesso di essere invitto. Laboriosità è la scienza che elabora il proponimento senza esserne impedita dalla fatica. Pietà è la scienza di accudire gli dei. Bontà è la scienza del fare bene. Socievolezza è la scienza della parità in società. Affabilità è la scienza di intrattenere rapporti irreprensibili con chi abbiamo dintorno. Il fine di tutte queste virtù è di vivere coerentemente alla natura delle cose; e ciascuna di esse, con le sue peculiarità, procura questo fine all’uomo che la centra. Giacché l’uomo ha dalla natura risorse sia per il rinvenimento di quanto è doveroso, sia per la stabilità degli impulsi, sia per delle virili resistenze, sia per delle giuste distribuzioni. E ciascuna virtù, effettuando quanto è in armonia con le altre e quanto le è proprio, procura all’uomo una vita coerente con la natura delle cose.
1097/264 = SVF 3, 64, 14
Stobeo ‘Eclogae’ II 60. 9 W

Cleante, nei ‘Commentari alla Fisica’ afferma che “il tono è una botta di fuoco e che, quando diventi nell’animo tale da essere sufficiente a realizzare i progetti, si chiama potenza e potere”. Poi aggiunge testualmente: “Questa potenza e questo potere, se si ingenera in circostanze nelle quali manifestamente ci si deve mantenere saldi, è padronanza di sé; se in circostanze nelle quali bisogna resistere, è virilità; nei casi che coinvolgono meriti, è giustizia; nel caso di scelte e di avversioni è temperanza”.
251/563(1) = SVF 1, 128, 32
Plutarco ‘De Stoic. Rep.’ Cp.7 p. 1034 d

Se dunque considerassimo bene, la virtù è, potenzialmente, una sola. Poi quando si ingeneri in queste faccende, le accade di chiamarsi saggezza; in queste altre faccende, temperanza; in queste altre ancora, virilità o giustizia. Allo stesso modo noi diciamo che una medesima dracma, quando sia data all’armatore di una nave, si chiama nolo; quando sia data ad un esattore, si chiama tassa; ad un proprietario di casa, affitto; ad un maestro di scuola, onorario; ad un venditore, caparra. Ciascuna virtù, pur chiamata con lo stesso nome di virtù, è però cagione soltanto del risultato che le è proprio, e l’uso congiunto di tutte le virtù diventa il vivere felicemente. Giacché noi non ci felicitiamo davvero per i nomi, quando chiamiamo felicità la vita retta e felice chi ha adornato virtuosamente l’animo suo.
167/376 = SVF 1, 86, 18
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ I p.376 Pott

Certe azioni sono effettuate anche da coloro che non hanno retta conoscenza dei beni e dei mali, ma non sono effettuate secondo ragione. E’ il caso, ad esempio, della virilità. Alcuni individui sono per natura focosi ma, nutrendo questa loro dote senza vincolarla alla ragione, impellono irrazionalmente alla maggior parte delle faccende e fanno cose simili a chi ha virilità, così da compiere –a volte- le medesime azioni di successo e, ad esempio, resistere alle torture come se niente fosse. Ma essi non muovono dalla stessa causa da cui muove chi ha retta conoscenza né si propongono il medesimo fine, neppure se sacrificassero tutto il corpo. Ogni azione operata da chi è scienziato di beni e di mali è una azione di successo, mentre se è operata da chi non è scienziato di beni e di mali è un fallimento, anche se salvaguarda una risoluzione. Giacché quest’ultimo non si comporta virilmente partendo da un ragionamento, né dirige la sua azione a qualcosa di proficuo che vada a terminare in una virtù o che da una virtù si svolga. Il medesimo discorso vale anche per le altre virtù. 
1245/511 = SVF 3, 138, 4
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ VII 10 p. 867 Pott

….. che soltanto costui è sapiente, soltanto costui è bello, soltanto costui è giusto, virile, re, oratore, ricco, legislatore.
1287/622 = SVF 3, 159, 35
Luciano ‘Vitarum auctio’ 20

Questo è quanto Zenone dice partecipare della sostanza. E delle cose che sono alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti. Beni sono queste: saggezze, temperanza, giustizia, virilità e tutto ciò che è virtù o partecipa di virtù. Mali sono queste: stoltezza, impudenza, ingiustizia, viltà e tutto ciò che è vizio o partecipa del vizio. Indifferenti sono queste: vita, morte, reputazione, discredito, dolore fisico, piacere fisico, ricchezza di denaro, povertà di denaro, malattia, salute e le cose simili a queste.
91/190 = SVF 1, 47, 19
Stobeo ‘Eclogae’ II p. 57, 18 W

E nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ afferma espressamente che: “Ogni azione di successo è anche una azione conforme alla legge e alla giustizia. Giacché quanto è effettuato secondo padronanza di sé, fortezza, saggezza e virilità è una azione di successo. Sicché è anche una azione giusta”.
1115/297 = SVF 3, 73, 13
Plutarco ‘De Stoic. Rep.’ Cp 15 p. 1041 a

Dei beni alcuni sono virtù, altri no. Dunque la saggezza, la temperanza, la giustizia, la virilità sono virtù. Invece la gioia, la letizia, il coraggio, la decisione e le cose somiglianti non sono virtù. Delle virtù alcune sono scienza ed arte di qualcosa, altre no. Saggezza, temperanza, giustizia e virilità sono scienza ed arte di certe cose. Invece magnanimità, vigore e forza d’animo non sono scienza né arte di qualcosa. Analogamente anche dei mali alcuni sono vizi, altri no. Stoltezza, ingiustizia, viltà piccineria ed incapacità sono vizi. Invece afflizione, paura e le cose somiglianti non sono vizi. Dei vizi alcuni sono ignoranza e carenza di arte per certe cose, altri no. Stoltezza, impudenza, ingiustizia e viltà sono ignoranza e carenza di arte per certe cose. Piccineria ed incapacità non sono ignoranza né carenza di arte per certe cose.
1015/95 = SVF 3, 23, 22
Stobeo ‘Eclogae’ II p. 58, 5 W

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PILOTINA STOICA USS 08

Saggezza

Apollofane afferma che vi è una sola virtù: la saggezza.
175/406 = SVF 1, 90, 19
Diogene Laerzio VII, 92

Zenone, come Platone, ci lascia in eredità una pluralità di virtù distinte come la saggezza, la virilità, la temperanza, la giustizia; e ce le lascia come inseparabili ma diverse e differenti una dall’altra. Quando definisce ciascuna di esse, afferma che la virilità è saggezza…..[ nelle cose cui si deve resistere, la temperanza è saggezza nelle cose che si devono scegliere, la saggezza in senso proprio è saggezza]…..nelle attività da svolgere, la giustizia è saggezza nelle cose da distribuire. E’ come se una fosse la virtù seppure, nelle sue relazioni con le faccende, sembri differire a seconda delle attività.
95/200 (1) = SVF 1, 49, 21
Plutarco ‘De Stoic. Repugn.’ 7 p.1034 c

Zenone di Cizio sembra essere trascinato in qualche modo a ciò quando definisce la saggezza nelle cose da distribuire come giustizia, la saggezza nelle cose che si devono scegliere come temperanza, nelle cose cui si deve resistere come virilità. Coloro che lo difendono sostengono che in queste definizioni la scienza è da Zenone denominata saggezza.
95/201 = SVF 1, 49, 30
Plutarco ‘De virtute morali’ 2 p.441 a

Con questo decide di delineare le virtù particolari. Esse sono in numero di quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia.
1095/263(1) = SVF 3, 63, 36
Filone ‘Leg. Alleg.’ 1 § 63 Vol. I p. 77, 12 Wendl

Aristone, ritenendo dunque che la facoltà dell’animo fosse una sola, quella con cui ragioniamo, suppose anche una sola virtù dell’animo: la scienza dei beni e dei mali. Qualora l’animo nostro debba scegliere i beni e fuggire i mali, Aristone chiama questa scienza temperanza. Qualora debba effettuare il bene e non effettuare il male, saggezza. Qualora debba affrontare con coraggio alcune cose ed altre fuggire, la chiama virilità. Qualora distribuisca a ciascuno secondo il merito, giustizia. In una parola, l’animo è sapienza e scienza quando conosce, senza effettuarli, beni e mali. Quando invece perviene alle azioni della vita, l’animo prende i plurimi nomi sopraddetti e si chiama saggezza, temperanza, giustizia e virilità. Siffatta è l’opinione di Aristone circa le virtù dell’animo.
165/374 = SVF 1, 85, 34
Galeno ‘De Hipp. et Plat. Decr.’ VII 2 (208, 591 M)

Saggezza è la scienza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e di quanto è udetero; oppure è la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri in rapporto alla natura di un animale politico. Così poi prescrivono di intendere circa le restanti virtù. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Giustizia è la scienza di distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Stoltezza è l’ignoranza dei beni, dei mali e degli udeteri; oppure è l’ignoranza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e degli udeteri. Impudenza è l’ignoranza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Ingiustizia è l’ignoranza nel distribuire a ciascuno secondo il merito. Viltà è l’ignoranza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Coloro che si attengono a quanto detto, definiscono in modo somigliante anche le altre virtù e vizi. Ed in genere affermano che la virtù è l’armoniosa disposizione di un animo con se stesso per tutta la vita.
1095/262 = SVF 3, 63, 23
Stobeo ‘Eclogae’ II 59, 4 W

Saggezza è dunque la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto non va scelto e degli udeteri. Giustizia è l’attitudine stabile a distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e degli udeteri.
1099/266 = SVF 3, 65, 31
Andronico ‘Sulle Passioni’ p.19 Schuchardt

Definiscono dunque la virilità come scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è intermedio. Temperanza è la stabile attitudine, nella scelta e nel rifiuto, a salvaguardare le determinazioni della saggezza. Affine alla virilità è quella resistenza che chiamano fortezza. Essa è la scienza di quanto va mantenuto saldo e di quanto non va mantenuto saldo. Magnanimità è la scienza che ci solleva al di sopra di quanto avviene. Affine alla temperanza è la cautela, che è una avversione attuantesi con ragione. [……….] Chi possiede una virtù sola, a causa della loro implicazione reciproca, le possiede tutte. Ora, la padronanza di sé è una disposizione a non superare i limiti di quanto appare secondo retta ragione. Chi dunque rattiene gli impulsi contrari alla retta ragione è padrone di sé, così come lo è chi rattiene se stesso in modo da non impellere contrariamente alla retta ragione.
1103/275 = SVF 3, 67, 37
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ II p.470 Pott.

Delle virtù alcune sono primarie, altre sono subordinate alle primarie. Le primarie sono quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia. La saggezza si occupa di quanto è doveroso, la temperanza degli impulsi dell’essere umano, la virilità delle sue resistenze, la giustizia delle sue distribuzioni. Di quelle che a queste virtù sono subordinate, alcune sono subordinate alla saggezza, altre alla temperanza, altre alla virilità, altre alla giustizia. Alla saggezza sono subordinate il buon consiglio, la ragionevolezza, la perspicacia, il buon senso, [la sagacia], l’ingegnosità. Alla temperanza sono subordinate la disciplina, la compostezza, il rispetto, la padronanza di sé. Alla virilità sono subordinate la fortezza, il coraggio, la magnanimità, l’ardimento, la laboriosità. Alla giustizia sono subordinate la pietà, la bontà, la socievolezza, l’affabilità. Buon consiglio è dunque la scienza del cosa e del come effettuare utilmente quanto effettuiamo. Ragionevolezza è la scienza capace di equilibrare e riassumere avvenimenti e risultati. Perspicacia è la scienza capace di trovare sul momento quanto è doveroso. Buon senso è la scienza del peggio e del meglio. Sagacia è la scienza di centrare lo scopo in ogni circostanza. Ingegnosità è la scienza capace di trovare una via d’uscita in ogni faccenda. Disciplina è la scienza del quando si deve effettuare una cosa, di cosa si deve effettuare dopo che cosa e, in generale, dell’ordine delle azioni. Compostezza è la scienza dei movimenti confacenti e non confacenti. Rispetto è la scienza che ci cautela da un retto rimprovero. Padronanza di sé è la scienza che ci fa non oltrepassare i limiti di quanto appare essere in accordo con la retta ragione. Fortezza è la scienza che ci mantiene fedeli alle rette determinazioni. Coraggio è la scienza grazie alla quale sappiamo che non incapperemo in nulla di terribile. Magnanimità è la scienza che ci fa essere superiori a quanto, per natura delle cose, accade sia ai virtuosi che agli insipienti. Ardimento è la scienza di un animo che procura a se stesso di essere invitto. Laboriosità è la scienza che elabora il proponimento senza esserne impedita dalla fatica. Pietà è la scienza di accudire gli dei. Bontà è la scienza del fare bene. Socievolezza è la scienza della parità in società. Affabilità è la scienza di intrattenere rapporti irreprensibili con chi abbiamo dintorno. Il fine di tutte queste virtù è di vivere coerentemente alla natura delle cose; e ciascuna di esse, con le sue peculiarità, procura questo fine all’uomo che la centra. Giacché l’uomo ha dalla natura risorse sia per il rinvenimento di quanto è doveroso, sia per la stabilità degli impulsi, sia per delle virili resistenze, sia per delle giuste distribuzioni. E ciascuna virtù, effettuando quanto è in armonia con le altre e quanto le è proprio, procura all’uomo una vita coerente con la natura delle cose.
1097/264 = SVF 3, 64, 14
Stobeo ‘Eclogae’ II 60. 9 W

Se dunque considerassimo bene, la virtù è –potenzialmente- una sola. Poi quando si ingeneri in queste faccende, le accade di chiamarsi saggezza; in queste altre faccende, temperanza; in queste altre ancora, virilità o giustizia. Allo stesso modo noi diciamo che una medesima dracma, quando sia data all’armatore di una nave, si chiama nolo; quando sia data ad un esattore, si chiama tassa; ad un proprietario di casa, affitto; ad un maestro di scuola, onorario; ad un venditore, caparra. Ciascuna virtù, pur chiamata con lo stesso nome di virtù, è però cagione soltanto del risultato che le è proprio, e l’uso congiunto di tutte le virtù diventa il vivere felicemente. Giacché noi non ci felicitiamo davvero per i nomi, quando chiamiamo felicità la vita retta e felice chi ha adornato virtuosamente l’animo suo.
167/376 = SVF 1, 86, 18
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ I p.376 Pott

E nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ afferma espressamente che: “Ogni azione di successo è anche una azione conforme alla legge e alla giustizia. Giacché quanto è effettuato secondo padronanza di sé, fortezza, saggezza e virilità è una azione di successo. Sicché è anche una azione giusta”.
1115/297 = SVF 3, 73, 13
Plutarco ‘De Stoic. Rep.’ Cp 15 p. 1041 a

Dei beni alcuni sono virtù, altri no. Dunque la saggezza, la temperanza, la giustizia, la virilità sono virtù. Invece la gioia, la letizia, il coraggio, la decisione e le cose somiglianti non sono virtù. Delle virtù alcune sono scienza ed arte di qualcosa, altre no. Saggezza, temperanza, giustizia e virilità sono scienza ed arte di certe cose. Invece magnanimità, vigore e forza d’animo non sono scienza né arte di qualcosa. Analogamente anche dei mali alcuni sono vizi, altri no. Stoltezza, ingiustizia, viltà piccineria ed incapacità sono vizi. Invece afflizione, paura e le cose somiglianti non sono vizi. Dei vizi alcuni sono ignoranza e carenza di arte per certe cose, altri no. Stoltezza, impudenza, ingiustizia e viltà sono ignoranza e carenza di arte per certe cose. Piccineria ed incapacità non sono ignoranza né carenza di arte per certe cose.
1015/95 = SVF 3, 23, 32
Stobeo ‘Eclogae’ II p. 58, 5 W

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PILOTINA STOICA USS 07

Giustizia

Giustizia è la virtù che sa distribuire secondo il merito e non è stata posizionata né di fronte a chi accusa né di fronte a chi si difende ma di fronte al giudice. Sicché il giudice non ha prescelto né di vincere qualcuno né di combatterlo e neppure di opporglisi ma, quando pronuncia una sentenza, decide il giusto. Così la giustizia, senza essere avversaria di nessuno, assegna a ciascuna faccenda il merito che le spetta.
1097/263 (5) = SVF 3, 64, 8
Philo ‘Legum Allegoria’ I §87 / Vol. I p.84, 2 Wendland

Zenone, come Platone, ci lascia in eredità una pluralità di virtù distinte come la saggezza, la virilità, la temperanza, la giustizia; e ce le lascia come inseparabili ma diverse e differenti una dall’altra. Quando definisce ciascuna di esse, afferma che la virilità è saggezza…..[ nelle cose cui si deve resistere, la temperanza è saggezza nelle cose che si devono scegliere, la saggezza in senso proprio è saggezza]…..nelle attività da svolgere, la giustizia è saggezza nelle cose da distribuire. E’ come se una fosse la virtù seppure, nelle sue relazioni con le faccende, sembri differire a seconda delle attività.
95/200 (1) = SVF 1, 49, 21
Plutarchus ‘De Stoicorum Repugnantiis’ §7 p.1034 c

Zenone di Cizio sembra essere trascinato in qualche modo a ciò quando definisce la saggezza nelle cose da distribuire come giustizia, la saggezza nelle cose che si devono scegliere come temperanza, nelle cose cui si deve resistere come virilità. Coloro che lo difendono sostengono che in queste definizioni la scienza è da Zenone denominata saggezza.
95/201 = SVF 1, 49, 30
Plutarchus ‘De virtute morali’ §2 p.441a

Con questo decide di delineare le virtù particolari. Esse sono in numero di quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia.
1095/263(1) = SVF 3, 63, 36
Philo ‘Legum Allegoria’ I §63 / Vol. I p.77, 12 Wendland

Aristone, ritenendo dunque che la facoltà dell’animo fosse una sola, quella con cui ragioniamo, suppose anche una sola virtù dell’animo: la scienza dei beni e dei mali. Qualora l’animo nostro debba scegliere i beni e fuggire i mali, Aristone chiama questa scienza temperanza. Qualora debba effettuare il bene e non effettuare il male, saggezza. Qualora debba affrontare con coraggio alcune cose ed altre fuggire, la chiama virilità. Qualora distribuisca a ciascuno secondo il merito, giustizia. In una parola, l’animo è sapienza e scienza quando conosce, senza effettuarli, beni e mali. Quando invece perviene alle azioni della vita, l’animo prende i plurimi nomi sopraddetti e si chiama saggezza, temperanza, giustizia e virilità. Siffatta è l’opinione di Aristone circa le virtù dell’animo.
165/374 = SVF 1, 85, 34
Galenus ‘De Hippocr. et Plat. Decr.’ VII 2 (208.591 M.)

Saggezza è la scienza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e di quanto è udetero; oppure è la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri in rapporto alla natura di un animale politico. Così poi prescrivono di intendere circa le restanti virtù. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Giustizia è la scienza di distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Stoltezza è l’ignoranza dei beni, dei mali e degli udeteri; oppure è l’ignoranza di ciò che va fatto, di ciò che non va fatto e degli udeteri. Impudenza è l’ignoranza di quanto va scelto, di quanto va fuggito e di quanto è udetero. Ingiustizia è l’ignoranza nel distribuire a ciascuno secondo il merito. Viltà è l’ignoranza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e di quanto è udetero. Coloro che si attengono a quanto detto, definiscono in modo somigliante anche le altre virtù e vizi. Ed in genere affermano che la virtù è l’armoniosa disposizione di un animo con se stesso per tutta la vita.
1095/262 = SVF 3, 63, 22
Stobaeus ‘Eclogae’ II 59, 4 W.

Saggezza è dunque la scienza dei beni, dei mali e degli udeteri. Temperanza è la scienza di quanto va scelto, di quanto non va scelto e degli udeteri. Giustizia è l’attitudine stabile a distribuire a ciascuno secondo il merito. Virilità è la scienza di quanto è terribile, di quanto non è terribile e degli udeteri.
1099/266 = SVF 3, 65, 21
Andronicus ‘Sulle Passioni’ p.19 Schuchardt

Delle virtù alcune sono primarie, altre sono subordinate alle primarie. Le primarie sono quattro: saggezza, temperanza, virilità, giustizia. La saggezza si occupa di quanto è doveroso, la temperanza degli impulsi dell’essere umano, la virilità delle sue resistenze, la giustizia delle sue distribuzioni. Di quelle che a queste virtù sono subordinate, alcune sono subordinate alla saggezza, altre alla temperanza, altre alla virilità, altre alla giustizia. Alla saggezza sono subordinate il buon consiglio, la ragionevolezza, la perspicacia, il buon senso, [la sagacia], l’ingegnosità. Alla temperanza sono subordinate la disciplina, la compostezza, il rispetto, la padronanza di sé. Alla virilità sono subordinate la fortezza, il coraggio, la magnanimità, l’ardimento, la laboriosità. Alla giustizia sono subordinate la pietà, la bontà, la socievolezza, l’affabilità. Buon consiglio è dunque la scienza del cosa e del come effettuare utilmente quanto effettuiamo. Ragionevolezza è la scienza capace di equilibrare e riassumere avvenimenti e risultati. Perspicacia è la scienza capace di trovare sul momento quanto è doveroso. Buon senso è la scienza del peggio e del meglio. Sagacia è la scienza di centrare lo scopo in ogni circostanza. Ingegnosità è la scienza capace di trovare una via d’uscita in ogni faccenda. Disciplina è la scienza del quando si deve effettuare una cosa, di cosa si deve effettuare dopo che cosa e, in generale, dell’ordine delle azioni. Compostezza è la scienza dei movimenti confacenti e non confacenti. Rispetto è la scienza che ci cautela da un retto rimprovero. Padronanza di sé è la scienza che ci fa non oltrepassare i limiti di quanto appare essere in accordo con la retta ragione. Fortezza è la scienza che ci mantiene fedeli alle rette determinazioni. Coraggio è la scienza grazie alla quale sappiamo che non incapperemo in nulla di terribile. Magnanimità è la scienza che ci fa essere superiori a quanto, per natura delle cose, accade sia ai virtuosi che agli insipienti. Ardimento è la scienza di un animo che procura a se stesso di essere invitto. Laboriosità è la scienza che elabora il proponimento senza esserne impedita dalla fatica. Pietà è la scienza di accudire gli dei. Bontà è la scienza del fare bene. Socievolezza è la scienza della parità in società. Affabilità è la scienza di intrattenere rapporti irreprensibili con chi abbiamo dintorno. Il fine di tutte queste virtù è di vivere coerentemente alla natura delle cose; e ciascuna di esse, con le sue peculiarità, procura questo fine all’uomo che la centra. Giacché l’uomo ha dalla natura risorse sia per il rinvenimento di quanto è doveroso, sia per la stabilità degli impulsi, sia per delle virili resistenze, sia per delle giuste distribuzioni. E ciascuna virtù, effettuando quanto è in armonia con le altre e quanto le è proprio, procura all’uomo una vita coerente con la natura delle cose.
1097/264 = SVF 3, 64, 14
Stobaeus ‘Eclogae’ II 60. 9 W

Cleante, nei ‘Commentari alla Fisica’ afferma che “il tono è una botta di fuoco e che, quando diventi nell’animo tale da essere sufficiente a realizzare i progetti, si chiama potenza e potere”. Poi aggiunge testualmente: “Questa potenza e questo potere, se si ingenera in circostanze nelle quali manifestamente ci si deve mantenere saldi, è padronanza di sé; se in circostanze nelle quali bisogna resistere, è virilità; nei casi che coinvolgono meriti, è giustizia; nel caso di scelte e di avversioni è temperanza”.
251/563 (1) = SVF 1, 128, 32
Plutarchus ‘De Stoicorum Repugnantiis’ §7 p. 1034 d

Se dunque considerassimo bene, la virtù è –potenzialmente- una sola. Poi quando si ingeneri in queste faccende, le accade di chiamarsi saggezza; in queste altre faccende, temperanza; in queste altre ancora, virilità o giustizia. Allo stesso modo noi diciamo che una medesima dracma, quando sia data all’armatore di una nave, si chiama nolo; quando sia data ad un esattore, si chiama tassa; ad un proprietario di casa, affitto; ad un maestro di scuola, onorario; ad un venditore, caparra. Ciascuna virtù, pur chiamata con lo stesso nome di virtù, è però cagione soltanto del risultato che le è proprio, e l’uso congiunto di tutte le virtù diventa il vivere felicemente. Giacché noi non ci felicitiamo davvero per i nomi, quando chiamiamo felicità la vita retta e felice di chi ha adornato virtuosamente l’animo suo.
167/376 = SVF 1, 86, 18
Clemente Alessandrino ‘Stromata’ I p.376 Pott

Questo è quanto Zenone dice partecipare della sostanza. E delle cose che sono alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti. Beni sono queste: saggezze, temperanza, giustizia, virilità e tutto ciò che è virtù o partecipa di virtù. Mali sono queste: stoltezza, impudenza, ingiustizia, viltà e tutto ciò che è vizio o partecipa del vizio. Indifferenti sono queste: vita, morte, reputazione, discredito, dolore fisico, piacere fisico, ricchezza di denaro, povertà di denaro, malattia, salute e le cose simili a queste.
91/190 = SVF 1, 47, 18
Stobaeus ‘Eclogae’ II p. 57, 18 W

E nelle ‘Dimostrazioni sulla giustizia’ afferma espressamente che: “Ogni azione di successo è anche una azione conforme alla legge e alla giustizia. Giacché quanto è effettuato secondo padronanza di sé, fortezza, saggezza e virilità è una azione di successo. Sicché è anche una azione giusta”.
1115/297 = SVF 3, 73, 13
Plutarchus ‘De Stoicorum Repugnantiis’  §15 p. 1041a

Dei beni alcuni sono virtù, altri no. Dunque la saggezza, la temperanza, la giustizia, la virilità sono virtù. Invece la gioia, la letizia, il coraggio, la decisione e le cose somiglianti non sono virtù. Delle virtù alcune sono scienza ed arte di qualcosa, altre no. Saggezza, temperanza, giustizia e virilità sono scienza ed arte di certe cose. Invece magnanimità, vigore e forza d’animo non sono scienza né arte di qualcosa. Analogamente anche dei mali alcuni sono vizi, altri no. Stoltezza, ingiustizia, viltà piccineria ed incapacità sono vizi. Invece afflizione, paura e le cose somiglianti non sono vizi. Dei vizi alcuni sono ignoranza e carenza di arte per certe cose, altri no. Stoltezza, impudenza, ingiustizia e viltà sono ignoranza e carenza di arte per certe cose. Piccineria ed incapacità non sono ignoranza né carenza di arte per certe cose.
1015/95 = SVF 3,23,22
Stobaeus ‘Eclogae’ II p. 58, 5 W

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PILOTINA STOICA USS 06

Natura delle Cose

-Non so, diceva.- Invero ignorare il criterio dei colori, degli odori ed ancora dei sapori non è, caso mai, gran punizione; ma reputi piccola la punizione per chi ignora quello del bene e del male, del secondo la natura delle cose e del contro la natura delle cose per l’uomo? -La massima, dunque.-
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 11, § 11

Vengo e ricerco cosa dice questo interprete della natura delle cose. Inizio a non capire cosa dice e cerco il commentatore. “Ecco, esamina… Com’è detto bene questo, appunto come in latino!” Qua, dunque, quale giustificazione ha il cipiglio del commentatore? Neppure giustamente di Crisippo stesso, se soltanto spiega il piano della natura e lui non lo segue. Quanto più ciò vale per il suo commentatore? Giacché non abbiamo bisogno di Crisippo per Crisippo, ma per comprendere la natura delle cose. Né abbiamo bisogno del sacrificatore per il sacrificatore, ma perché attraverso quello crediamo di capire l’avvenire e quanto è significato dagli Dei. Né abbiamo bisogno delle viscere per le viscere, ma perché attraverso quelle è significato qualcosa. Né ammiriamo il corvo o la cornacchia, ma Zeus che significa attraverso queste creature. Vengo quindi da questo interprete e sacrificatore e dico: “Esaminami le viscere, cosa mi significano”. Lui le prende, le sbroglia, poi spiega: “Uomo, tu hai una proairesi per natura non soggetta ad impedimenti  e non soggetta a costrizioni. Qui, nelle viscere, questo è stato scritto. Te lo mostrerò innanzitutto nell’ambito dell’assenso. Può forse qualcuno impedirti di annuire al vero? Neppur uno. Può forse qualcuno costringerti ad accettare il  falso? Neppur uno. Vedi che  in questo ambito il proairetico l’hai non soggetto ad impedimenti, non soggetto a costrizioni, disimpacciato? Orsù, è diverso nell’ambito del desiderio e dell’impulso? Chi può vincere un impulso se non un altro impulso? Chi un desiderio ed un’avversione se non un altro desiderio ed un’altra avversione?” “Se,” qualcuno dice, “uno mi appresserà la paura della morte, mi costringe”. “Non è quanto viene appressato a costringerti, ma è che reputi meglio fare una di queste cose che morire. Di nuovo dunque il tuo giudizio ti costrinse; ossia proairesi costrinse proairesi. Se infatti la parte peculiare che Zeus ci diede spiccandosela, egli avesse strutturato soggetta ad impedimenti o costrizioni  sue o di qualcun altro, non sarebbe più materia immortale né sarebbe sollecita di noi nel modo dovuto. Questo trovo” dice, “nelle vittime sacrificali. Questo ti significano. Se lo disporrai sei libero. Se lo disporrai non biasimerai nessuno, non incolperai nessuno, tutto sarà secondo l’intelligenza insieme tua e quella di Zeus”. Per questo dono divinatorio vengo da questo sacrificatore e filosofo, non ammirando lui per la spiegazione ma quello che spiega.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 17, § 16-29

O uomo, se devi  disporti contro la natura delle cose circa i mali allotrii, commiseralo piuttosto che odiarlo. Lascia questa facoltà atta ad offendersi e ad odiare.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 18, § 9

Cos’è dunque educarsi a diairesizzare? Imparare ad adattare i naturali pre-concetti alle particolari sostanze in modo consono alla natura delle cose e, orbene, a discriminare che, delle cose, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. Sono in nostro esclusivo potere la proairesi e tutte le opere della proairesi; non sono in nostro esclusivo potere il corpo, le parti del corpo, patrimoni, genitori, fratelli, figlioli, patria, insomma i soci. Dove porremo dunque il bene? A quale sostanza lo adatteremo?
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 1, Capitolo 22, § 9-11

Tu che te ne vai al processo, vedi cosa vuoi serbare e dove vuoi concludere. Giacché se disponi di serbare la proairesi in accordo con la natura delle cose, hai ogni sicurezza, ogni facilitazione, non hai fastidi. Disponendo infatti di serbare incondizionato quanto è in tuo esclusivo potere e quanto è libero per natura e di questo accontentandoti, di cosa ti impensierisci ancora? Chi è suo Signore, chi può sottrartelo? Se disponi di essere rispettoso di te e degli altri e leale, chi non te lo permetterà? Se disponi di non essere impedito né costretto, chi ti costringerà a desiderare ciò che non reputi; chi ad avversare ciò che non ti pare? Però uno ti effettuerà cose che sembrano paurose. E come può far anche che tu le sperimenti con avversione? Qualora dunque sia in tuo esclusivo potere desiderare ed avversare, di cosa ti impensierisci ancora?
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 2, § 1-6

Ma il grande è questo: riservare a ciascuna cosa la facoltà che ha e, riservatala, vedere il valore della facoltà. Decifrare poi cos’è più possente e questo perseguire in ogni circostanza, su questo industriarsi, dopo avere fatto il resto accessorio e facendo  tuttavia del proprio meglio per non trascurarlo. Giacché bisogna esser solleciti degli occhi, ma non come della cosa più possente; piuttosto, anche degli occhi in funzione di quanto è più possente. Perché quello non starà secondo la natura delle cose altrimenti che operando razionalmente con questi e scegliendo certi oggetti invece di altri.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 23, § 34-35

O uomo, il proponimento era di strutturarti ad usare secondo la natura delle cose le rappresentazioni che ti incolgono; nel desiderio non fallendo il segno; nell’avversione non incappando in quanto avversi; mai sfortunato, mai preda di cattiva fortuna, libero, non soggetto ad impedimenti, non soggetto a costrizioni; conciliato al governo di Zeus, a questo governo ubbidiente, di questo governo compiacendoti; non biasimando nessuno, non accagionando nessuno, potendo dire queste righe dall’animo intero: *Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato*.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 2, Capitolo 23, § 42

-Ma non sono un erudito?- Ed a che scopo ti erudisci? Schiavo! Non è per essere sereno? Non è per essere stabile? Non è per stare e spassartela in accordo con la natura delle cose? Cosa impedisce che chi ha la febbre abbia l’egemonico in accordo con la natura delle cose? Qua è il controllo della faccenda, la valutazione di chi fa filosofia. Giacché è parte della vita anche questo, cioè la febbre, come una passeggiata, come un viaggio per mare o per terra.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 10, § 10-11

“Come uso le rappresentazioni che mi incolgono? Secondo la natura delle cose o contro la natura delle cose? Come rispondo loro? Come si deve o come non si deve? Soggiungo all’aproairetico che nulla è per me?” Giacché se non state ancora così, fuggite le abitudini di prima, fuggite le persone comuni, se intendete iniziare una volta ad essere qualcuno.  
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 3, Capitolo 16, § 15-16

Se invece riferirà la fatica al proprio egemonico, per averlo e spassarsela secondo la natura delle cose, allora soltanto lo dico laborioso. Non lodate e non  denigrate mai in base ai luoghi comuni, ma in base ai giudizi. Sono infatti questi il  peculiare di ciascuno e sono essi che fanno le azioni brutte o belle.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Libro 4, Capitolo 4, § 43-44 

Delle cose che sono, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere sono concezione, impulso, desiderio, avversione e, in una parola, quanto è opera nostra. Non sono in nostro esclusivo potere il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche e, in una parola, quanto non è opera nostra. Le cose in nostro esclusivo potere sono per natura libere, non soggette ad impedimenti, non soggette ad impacci; mentre le cose non in nostro esclusivo potere sono deboli, serve, soggette ad impedimenti, allotrie. Ricorda dunque che se crederai libero quanto per natura delle cose è servo, e peculiare quanto è allotrio, sarai intralciato, piangerai, sarai sconcertato, biasimerai dei ed uomini. Se invece crederai tuo solo quanto è tuo ed allotrio, com’è, l’allotrio; nessuno mai ti costringerà, nessuno ti impedirà; non biasimerai nessuno, non incolperai nessuno, non effettuerai neppure una sola cosa tuo malgrado, non avrai nemici personali, nessuno ti danneggerà giacché non sperimenterai nulla di dannoso. Prendendo dunque di mira cose così rilevanti, ricorda che bisogna accostarsi ad esse non equilibratamente mossi ma che si deve tralasciarne alcune totalmente ed altre, per il presente, posporle. Se vorrai tanto queste cose quanto occupare cariche ed essere ricco di denaro, per il fatto di prendere di mira anche le precedenti non centrerai, caso mai, neppure queste; ma fallirai affatto quelle attraverso cui soltanto promanano libertà e felicità. Subito dunque, ad ogni rappresentazione scabrosa studia di soggiungere che “Sei una rappresentazione e non affatto quanto appari”. Poi indagala e valutala con questi canoni che hai, ed innanzitutto e soprattutto con questo: se è di cose in nostro esclusivo potere o di cose non in nostro esclusivo potere. E se sarà di qualcuna delle cose non in nostro esclusivo potere, ti sia a portata di mano che “Nulla è per me”.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Il Manuale, § 1

Qualora stia per accostarti ad un’opera, richiamati alla memoria qual è la natura dell’opera. Se te ne andrai per fare un bagno caldo, mettiti davanti gli avvenimenti alle terme: quelli che spruzzano, quelli che spintonano, quelli che ingiuriano, quelli che rubano. E così ti accosterai all’opera più sicuramente se subito soggiungerai: “Dispongo di fare un bagno caldo, ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose”. E fa’ allo stesso modo per ciascuna opera. Giacché così, se qualcosa diverrà un intralcio a fare un bagno caldo, avrai a portata di mano che: “Io non disponevo solo questo, ma anche di serbare la mia proairesi in accordo con la natura delle cose; e non la serberò se fremerò davanti agli avvenimenti”.
Epitteto: “L’albero della diairesi”  Il Manuale, § 4 

Qualora uno faccia il solenne perché può capire e commentare i libri di Crisippo, fra te e te di’: “Se Crisippo non avesse scritto con poca chiarezza, costui non avrebbe nulla per cui fare il solenne”. Io cosa decido? Di decifrare la natura delle cose ed accompagnarmi a lei. Cerco dunque chi è il commentatore e, sentito dire che è Crisippo, vengo da lui. Ma non ne capisco gli scritti. Cerco dunque il commentatore di Crisippo. E fin qui non v’è ancora nulla di solenne. Qualora trovi il commentatore, avanza di usare le prescrizioni: questo solo è solenne. Se invece ammirerò il fatto in sé di commentare, che altro risulto se non un grammatico invece che un filosofo? Eccetto che invece di Omero so commentare, appunto, Crisippo. Qualora uno mi dica: “Rileggimi Crisippo”, io dunque piuttosto arrossirò, qualora non possa sfoggiare opere simili ed in armonia con i suoi discorsi.
Epitteto: “L’albero della diairesi” Il Manuale, § 49

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PILOTINA STOICA USS 05 

Felicità

Dei beni alcuni sono necessari per la felicità, altri no. Necessarie sono tutte le virtù e le attività che le utilizzano. Non necessarie sono la gioia, la letizia, occupazioni e mestieri. Somigliantemente dei mali, alcuni sono necessari come mali che generano infelicità, altri no. Necessari sono tutti i vizi e le attività che ne discendono. Non necessarie sono tutte le passioni, le affezioni e cose somiglianti.
1023/113 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 27, 11
Stobaeus  ‘Eclogae’ II 77, 6

E perciò gli uomini dabbene sono sempre assolutamente felici e gli insipienti, invece, infelici. La felicità dei primi non differisce dalla felicità divina né, dice Crisippo, quella di un istante differisce dalla felicità di Zeus. Né la felicità di Zeus è preferibile o più bella o più solenne di quella degli uomini sapienti.
997/54(3) = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 14, 8
Stobaeus ‘Eclogae’ II 98, 17 W

Gli Stoici chiamano ‘indifferenti’ le cose che stanno in mezzo tra i beni ed i mali e affermano che possono essere pensate in due modi. Secondo un modo, ‘indifferente’ è ciò che non è né bene né male, né da scegliersi né da fuggirsi. Secondo un altro modo, ‘indifferente’ è ciò che non muove né ad impulso né a repulsione. In questo senso alcune cose sono anche dette ‘definitivamente indifferenti’, come l’avere in testa un numero pari o dispari di capelli, oppure il protendere il dito così o cosà, oppure il levare di mezzo qualche intralcio, sterpaglia o fogliame. Nel primo senso, bisogna dire che si chiamano indifferenti le cose che stanno in mezzo tra la virtù ed il vizio [……………] certamente non per una elezione ed un rifiuto, giacché alcune hanno un valore che le fa eleggere, altre un disvalore che le fa rifiutare, ma in nessun modo un valore che sia di contributo alla vita felice
1025/118 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 28, 19
Stobaeus ‘Eclogae’ II 79, 1 W

Di Crisippo. Chi è al culmine del profitto adempie completamente tutto quanto è doveroso e non omette nulla. Crisippo afferma che la vita di costui non è ancora felice, ma che la felicità gli sopravviene qualora a queste azioni intermedie si aggiungano saldezza ed abitualità, ed esse prendano una loro solidità.
1243/510 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 137, 43
Stobaeus ‘Florilegium’ 103, 22

Dicono gli Stoici che tutte le virtù, siano esse scienze od arti, hanno comuni principi generali e, come si dice, medesimo fine, e perciò sono inseparabili. Chi ne ha una le ha tutte, e chi opera secondo una opera secondo tutte. Le virtù differiscono però una dall’altra per punti capitali. Così punto capitale della saggezza è, cardinalmente, conoscere i principi generali di ciò che va fatto ed effettuarlo; secondariamente, deputare ciò che si deve deputare, grazie al fatto di effettuare senza sbagli ciò che va fatto. Punto capitale peculiare della temperanza è, cardinalmente, procurare impulsi stabili e conoscerne i principi generali; secondariamente conoscere ciò che è oggetto delle altre virtù, per il fatto di condurci senza sbagli negli impulsi. Ugualmente la virilità è, cardinalmente, il resistere a tutto ciò cui si deve resistere e, secondariamente, il conoscere ciò che è oggetto delle altre virtù. Anche la giustizia è, cardinalmente, il considerare ciò che è secondo il merito di ciascuno e, secondariamente, anche il resto. Ogni virtù, infatti, guarda ai punti capitali di tutte le altre ed a ciò che è reciprocamente subordinato. Panezio soleva dire che quanto avviene riguardo alle virtù è simile a quanto avviene quando innanzi a molti arcieri giacesse un solo bersaglio, e questo avesse al proprio interno strisce di colore diverso. Ciascun arciere mirerebbe a centrare il bersaglio ma uno colpendo, caso mai, la striscia bianca, un altro la striscia nera, un altro ancora la striscia di qualche altro colore. Come costoro si danno quale fine supremo il centrare il bersaglio, seppure proponendosene il conseguimento chi in un modo chi in un altro, così tutte le virtù si danno quale fine l’essere felice –il che sta nel vivere coerentemente con la natura delle cose- e ciascuna lo centra a modo suo.
1107/280 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 69, 4
Stobaeus ‘Eclogae’ II 63, 6 W

Delle cose che hanno valore alcune ne hanno molto, altre poco. Ugualmente, delle cose che hanno disvalore alcune ne hanno molto, altre poco. Ora, le cose che hanno molto valore sono dette ‘preferibili’, mentre quelle che hanno molto disvalore sono dette ‘rifiutabili’; e fu Zenone a dare per primo alle faccende della vita questi nomi. Si dice ‘preferibile’ quella faccenda che è indifferente ma che noi eleggiamo in prima istanza. Un discorso simile vale per le faccende ‘rifiutabili’ e gli esempi sono, per analogia, gli stessi. Invece nessuno dei beni è preferibile, giacché i beni hanno il massimo valore. Il ‘preferibile’, pur essendo una faccenda di secondo rango e valore, si approssima però in un certo modo alla natura dei beni. A corte, infatti, il re non è dei preferibili, ma lo sono quelli posizionati dopo di lui. Si dicono dunque faccende preferibili non perché conferiscano qualche felicità o cooperino ad essa, ma perché ci è necessario eleggere esse invece di quelle rifiutabili.
93/192 = 1031/128 = Stoicorum Veterum Fragmenta 1, 48, 3 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 31, 10
Stobaeus ‘Eclogae’ II 84, 21 W 
Stobaeus ‘Eclogae’ II 84, 18

Dicono che il fine è l’essere felici e che questo è ciò per cui tutto si effettua, mentre l’essere felici è effettuato in vista di null’altro. Questo consiste nel vivere secondo virtù, nel vivere coerentemente ed anche, il che è lo stesso, nel vivere secondo natura. Zenone definì la felicità in questo modo: felicità è il sereno fluire dell’esistenza. Anche Cleante usa questa definizione nei suoi trattati. La usa anche Crisippo. E lo fanno tutti i loro successori, dicendo che la felicità non è altro che una vita felice, seppure affermino che la felicità è proposta come scopo, mentre centrare la felicità è il fine, il che appunto è lo stesso che essere felici. E’ dunque da ciò manifesto che ‘vivere secondo natura’, ‘vivere da bello’, ‘vivere bene’ e ancora ‘ciò che è dabbene’, ‘la virtù e quanto partecipa della virtù’ sono termini equivalenti. E poi tutto quanto è buono è anche bello, e similmente tutto quanto è brutto è anche male. Anche perciò il fine stoico può parificarsi ad una vita secondo virtù.
981/16 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 6, 7
Stobaeus ‘Eclogae’ II 77, 16 W

La virtù è una disposizione d’animo ammissibile con la ragione e scelta per se stessa, non a causa di qualche paura o speranza o cosa esteriore. Nella virtù, in quanto è animo fatto per l’ammissibilità dell’intera la vita con la ragione, consiste la felicità.
991/39 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 11, 37
Diogene Laerzio VII 89

Io lodo la baldanza e l’apertura mentale degli Stoici, i quali affermano che nessuna delle cose estrinseche è di impedimento alla felicità e che l’uomo virtuoso è beato anche se il toro di Falaride lo avrà bruciato.
1277/586 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 154, 1
Gregorius Nazianzienus Epist. 32

Perciò anche Cleante, nel secondo libro sul ‘Piacere fisico’ dice che Socrate insegnava in particolare come uno e medesimo sono l’uomo giusto e l’uomo felice, e che malediva chi per primo aveva spartito il giusto dall’utile, perché aveva compiuto un’empietà. Giacché sono effettivamente empi coloro che separano l’utile dal giusto secondo la legge.
249/558 = Stoicorum Veterum Fragmenta 1, 127, 20
Clemens Alex. Strom II 22, 131 p.499 P

Gli stoici chiamano felice chi ha resistito a guai degni di Priamo. 
1275/585  = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 153, 38
Stephanus Frag. Comment. in Aristot. Rhet. III p. 325, 13 Rabe


In molti luoghi Crisippo ha affermato che per il fatto di esserli per molto tempo noi non siamo più felici, bensì che lo siamo ugualmente ed altrettanto a coloro che partecipano per un istante della felicità.
997/54(2) = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 14, 5
Plutarchus ‘De Stoicorum Repugnantiis’ §26 p. 1046c


E Zenone non seguì forse costoro (i Peripatetici) i quali ipotizzavano come elementi della felicità la natura delle cose e quanto è secondo la natura delle cose?
89/183 = Stoicorum Veterum Fragmenta 1, 46, 12
Plutarchus ‘De communibus notitiis adversus Stoicos’ p. 1069f


Gli Stoici non dicono soltanto questo ma dicono inoltre che l’aggiunta del tempo non accresce il bene, e che se uno diverrà saggio anche per un solo istante in nulla resterà indietro, quanto a felicità, rispetto a chi eternamente usa virtù ed in essa beatamente vive.
997/54(1) = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 13, 38
Plutarchus ‘De comm. Not.’ §8 p. 1061f


Se, come ha scritto Crisippo nel primo libro del ‘Protrettico’, soltanto il vivere secondo virtù è vivere felicemente e nessun’altra cosa, dice, ci riguarda od a questo coopera…
1037/139(3) = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 34, 9
Plutarchus ‘De comm. Not.’ p. 1060D


Vi erano poi quelli che dicevano essere ‘il bene’ ciò che si sceglie per sé e non per altro. Alcuni dicono così: ‘Bene è quanto soccorre per la felicità’. Altri affermano che: ‘Bene è quanto completa la felicità’. E la felicità, come assunsero le scuole di Zenone, di Cleante e di Crisippo, è il sereno fluire dell’esistenza.
1005/73 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 18, 12
Sextus ‘Adversus Mathematicos’ XI, 30


La felicità promana dalla saggezza, la saggezza si muove tra azioni di successo e l’azione di successo è ciò che, quando effettuato, ha una giustificazione ragionevole.
1109/284 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 70, 7
Sextus ‘Adversus Mathematicos’ VII, 158

I primi stoici chiamarono colmo della felicità il riuscire a vivere consequenzialmente alla natura delle cose.
977/7 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 4, 16
Philo ‘De plantatione Noe’ §49 Vol. II p. 143,20 Wendland

Quando i filosofi Stoici chiamano identica la virtù di un uomo e di un dio, e soprattutto se affermeranno che dio non è più felice di chi, secondo loro, è tra gli uomini sapiente ma che pari è la felicità di entrambi, ebbene Celso non deride…
1087/248 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 59, 7
Origenes ‘Contra Celsum’ VI, 48 Vol. II p.119, 16 Ko


Se l’animo loro diventerà cosciente e la loro mente dabbene e saranno in grado di effettuare rettamente le proprie faccende e quelle altrui, ebbene è necessario che costoro vivano anche felicemente, perché hanno centrato il buon genio e sono amici degli dei. Giacché è inverosimile che i saggi non siano esperti delle faccende umane e che chi riflette sulle faccende umane non rifletta su quelle divine e che chi è scienziato di cose divine non sia santo e che chi è santo non sia caro agli dei. Né è verosimile che alcuni individui siano stolti e però che siano altri ad ignorare le faccende doverose per loro, né è verosimile che chi ignora le proprie faccende conosca quelle divine, né che chi ha concezioni da insipiente circa il divino non sia sacrilego. Neppure è verosimile che gli individui sacrileghi siano tali da essere cari agli dei, e chi non è caro agli dei è inverosimile che non abbia cattiva fortuna.
1275/584 = Stoicorum Veterum Fragmenta 3, 153, 21
Dione Crisostomo Oraz. LXIX § 4

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PILOTINA STOICA USS 04

Educazione alla Diairesi

Un diverso ragionevole ed irragionevole, appunto come pure un diverso bene e male, ed utile e inutile incolgono persone diverse. Per questo soprattutto abbiamo bisogno di educazione a diairesizzare, così da imparare ad adattare il pre-concetto di ragionevole ed irragionevole alle particolari sostanze in armonia con la natura delle cose.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 2 , § 5-6

Giacché grande facoltà ed arte è quella di argomentare e persuadere, soprattutto se godesse di frequente allenamento e dalle locuzioni aggiungesse a sé anche una certa confacenza. E poi che in generale ogni facoltà ed arte che sopravvenga ai non educati a diairesizzare ed ai deboli nell’uso della diairesi, è malsicura riguardo all’imbaldanzirne ed invanirne.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 8, § 7-8

Chi poi si sta educando a diairesizzare, è tenuto a venire ad educarsi con questo progetto: “Come accompagnarmi in ogni circostanza agli dei, come compiacermi del governo della materialità, come diventare libero?”
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 12, § 8

Ma educarsi a diairesizzare è questo imparare a disporre ciascuna cosa così come accade. E come accade? Come la costituì il costitutore. Costituì che vi fossero estate ed inverno, profusione e penuria, virtù e vizio e tutte le opposizioni siffatte per l’armonia dell’intero; ed a ciascuno di noi diede un corpo, delle parti del corpo, un patrimonio e dei soci.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 12, § 15-16

Memori dunque di questa costituzione, bisogna venire ad educarsi a diairesizzare non per cambiare le premesse (giacché ciò non ci è dato né è meglio), ma perché stando le cose intorno a noi come stanno e come sono per natura, noi teniamo la nostra intelligenza conciliata agli avvenimenti. E che? E’ fattibile fuggire le persone? E com’è possibile? Stando con loro, cambiarle? E chi ce lo dà? Cosa dunque avanza o quale accorgimento si trova per usare con esse? Un uso siffatto per cui quelle faranno quanto loro pare e noi nondimeno staremo in accordo con la natura delle cose.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 12, § 17-19

Cos’è dunque educarsi a diairesizzare? Imparare ad adattare i naturali pre-concetti alle particolari sostanze in modo consono alla natura delle cose e, orbene, a discriminare che, delle cose, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. Sono in nostro esclusivo potere la proairesi e tutte le opere della proairesi; non sono in nostro esclusivo potere il corpo, le parti del corpo, patrimoni, genitori, fratelli, figlioli, patria, insomma i soci. Dove porremo dunque il bene? A quale sostanza lo adatteremo? A quella in nostro esclusivo potere? -E poi  non sono beni salute del corpo, integrità fisica, vita e neppure figlioli, genitori, patria?- E chi ti tollererà? Alloghiamolo dunque di nuovo qua. E’ fattibile che sia felice chi subisce danno e fallisce il bene? -Non è fattibile.- E che serbi verso i soci la condotta che si deve? E com’è fattibile? Giacché io sono nato per il mio utile. Se mi è utile avere un fondo, mi è utile anche sottrarre quello di chi mi è dintorno; se mi è utile avere una toga, mi è utile anche rubarla alle terme. Di qua guerre, conflitti civili, tirannie, insidie.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 19, § 9-14

Anche qua. “Prendi l’imperio!” Lo prendo e, presolo, mostro come si conduce un uomo che è stato educato a diairesizzare. “Deponi il laticlavio ed indossando dei cenci vieni innanzi in siffatto personaggio!” E dunque? Non mi è stato dato di portarmi dentro una magnifica voce? “Dunque, come sali ora sulla scena?”Come testimone chiamato da Zeus. “Vieni tu, e rendimi testimonianza. Giacché tu meriti di essere promosso da me come testimone. E’ forse qualcuno degli oggetti esterni alla proairesi, bene o male? Danneggio forse qualcuno? Feci forse quanto a ciascuno giova in esclusivo potere d’altri o di lui stesso?” Che testimonianza dai alla materia immortale? “Sono in difficoltà terribili, Signoreedho cattiva fortuna; nessuno si impensierisce per me, nessuno mi dà nulla, tutti mi denigrano e parlano male di me”. Questo sei per testimoniare e per svergognare la chiamata che ti ha fatto; perché ti onorò di questo onore e ritenne degno che ti appressassi per una testimonianza così rilevante?
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 29, § 44-49

Ma chi ne ha la potestà dichiarò: “Ti giudico empio e sacrilego “. Che ti è accaduto? “Fui giudicato empio e sacrilego”. Nient’altro? “Niente”.E se di una  proposizione ipotetica colui avesse decretato e data dichiarazione “Il ‘se è giorno c’è luce’ lo giudico falso” cosa sarebbe accaduto alla proposizione ipotetica? Chi è qui giudicato? Chi è stato condannato? La proposizione ipotetica o chi si è ingannato su di lei? Chi mai  è costui che ha la potestà di dichiarare qualcosa su di te? Sa cos’è il pio o l’empio? L’ha studiato? Ha imparato? Dove? Da chi? E poi un musicista non si impensierisce se colui dichiarasse che la corda più bassa è la più alta; né uno studioso di geometria se decreterà che i segmenti che dal centro incolgono la circonferenza non sono di pari lunghezza. E chi  davvero è stato educato a diairesizzare si impensierirà per un individuo non educatovi, il quale decreta qualcosa sul sacrosanto e sul sacrilego, sull’ingiusto e sul giusto? Che ingiustizia da parte degli educati a diairesizzare! Queste cose le imparasti qui?
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 1, Capitolo 29, § 50-55

Qual è dunque il frutto di questi giudizi? Quello che dev’essere il più bello ed appropriato per coloro che effettivamente sono educati a diairesizzare: dominio sullo sconcerto e sulla paura, libertà. Giacché non bisogna su questo fidarsi dei più, i quali dicono che soltanto i cittadini liberi hanno la potestà di essere educati; ma piuttosto dei filosofi, i quali dicono che soltanto gli educati a diairesizzare sono liberi. -Come questo?- Così: ora, la libertà è qualcos’altro dalla potestà di spassarcela come decidiamo? “Nient’altro”. Ditemi, o uomini: decidete di vivere aberrando? “Non lo decidiamo”. Quindi nessuno che aberri è libero. Decidete di vivere avendo paura, decidete di vivere afflitti, decidete di vivere sconcertati? “Nient’affatto!” Proprio nessuno che abbia paura, sia afflitto, sia sconcertato è libero; mentre chiunque si è allontanato da afflizioni, paure e sconcerti ebbene costui, per la stessa strada, si è allontanato anche dall’essere servo. Dunque come potremo ancora affidarci a voi, o carissimi legislatori, che non consentite di essere educati se non ai cittadini liberi?  I filosofi infatti dicono che non consentiamo di essere liberi se non a coloro che sono stati educati a diairesizzare, cioè che è la materia immortale a non consentirlo. 
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 2, Capitolo 1, § 21-25

Orbene, perché sali a Roma come a cose grandiose? Sono più piccole della tua preparazione, tanto da far dire ad un giovane purosangue: “Non meritava tanto avere ascoltato cotante lezioni, avere scritto cotanto, essere stati seduti per cotanto tempo accanto ad un vecchietto che non vale granché”. Tu soltanto ricordati di quella diairesigrazie alla quale si definisce quanto è in tuo esclusivo potere e quanto non lo è.  Non pretendere mai alcunché di allotrio. Tribuna e prigione sono, l’una e l’altra, un posto; la tribuna, elevato; la prigione, miserabile. Ma la proairesi può essere custodita pari, se pari disporrai di custodirla nell’uno e nell’altro posto.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 2, Capitolo 6, § 23-25

Gratifica il tuo desiderio e la tua avversione con povertà di denaro e ricchezza di denaro: fallirai, incapperai in quanto avversi. E con salute del corpo: avrai cattiva fortuna;  con cariche, onorificenze, patria, amici, figli, insomma con qualcosa di aproairetico. Gratificalo invece a Zeus, agli altri dei; trasmettilo ad essi; essi  pilotino; sia stato posizionato con essi. E dove ancora non sarai sereno? Ma se invidi, o indolente, ed hai pietà e sei geloso e tremi e non smetti un giorno solo di singhiozzare disperato di te e degli Dei, perché asserisci di essere stato educato a diairesizzare? Quale educazione a diairesizzare, o uomo? Che effettuasti sillogismi, ragionamenti equivoci? Non vuoi, se possibile, disimparare tutto questo ed iniziare daccapo, dopo aver preso consapevolezza del fatto che finora neppure hai toccato la faccenda e, orbene, iniziando da qua edificarvi in aggiunta il seguito: come nulla sarà contro la tua disposizione e, disponendolo tu, nulla non sarà?
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 2, Capitolo 17, § 24-28

Mostra come sei solito allenarti su un bastimento. Ti ricordi di questa diairesi qualora la vela rumoreggi e, mentre tu sbraiti, un dispettoso passeggero che ti sta accanto ti dica: “Dimmi, per gli dei, quel che dicevi l’altro giorno: forse che naufragare è un vizio, è forse qualcosa che partecipa del vizio?” Sollevato un legno, non glielo scuoterai addosso? “Che c’è fra noi e te, uomo? Andiamo in malora e tu vieni a scherzare?” Se Cesare ti farà convocare perché sei accusato, ti ricordi della diairesi? Se uno, mentre entri e sei  pallido ed insieme tremante, verrà innanzi a dire: “Perché tremi, o uomo? Per quali faccende è la tua citazione? Forse che lì dentro Cesare dà a chi entra virtù o vizio?” “Perché ti burli di me anche tu, oltre i miei mali?” “Ugualmente, o filosofo, dimmi: perché tremi? Il pericolo che corri non è morte o carcere o dolore del corpo o l’esilio od il discredito? E cos’altro? E’ forse vizio, forse qualcosa che partecipa del vizio? Tu dicevi essere cosa questo?” “Che c’è fra me e te, uomo? Mi bastano i miei mali”. E dici bene. Giacché a te bastano i tuoi mali: la grettezza, la viltà, la cialtroneria che cialtroneggiavi seduto a scuola. Perché ti abbellivi di giudizi allotrii? Perché ti dicevi stoico?
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 2, Capitolo 19, § 15-19

Ed ora io sono chi vi educa a diairesizzare, mentre voi a ciò vi educate presso di me. Io ho questo progetto: farvi risultare non soggetti ad impedimenti, non soggetti a costrizioni, non soggetti ad impacci, liberi, sereni, felici, che tengono gli occhi su Zeus in ogni circostanza, sia piccola che grande; e voi presenziate per imparare e studiare questo. Perché dunque non concludete l’opera, se avete anche voi il progetto che si deve ed io la preparazione che si deve per il progetto? Cos’è che manca? Qualora io veda un falegname cui giace accanto il materiale, mi aspetto l’opera. Anche qua c’è il falegname, c’è il materiale. Cosa ci manca? La faccenda non è insegnabile? E’ insegnabile. Non è dunque in nostro esclusivo potere? Anzi è la sola fra tutte le altre. Né la ricchezza di denaro né la salute del corpo né la reputazione né altro insomma sono in nostro esclusivo potere, eccetto il retto uso delle rappresentazioni. Soltanto questo è per natura delle cose non soggetto ad impedimenti, non soggetto ad intralci. Perché dunque non concludete? Ditemi la cagione. Giacché o nasce da me o da voi o dalla natura della faccenda. La faccenda in sé è fattibile e solo in nostro esclusivo potere. Orbene la cagione sta in me o in voi o, che è più vero, in entrambi. E dunque? Volete che iniziamo una volta a trasferire qui siffatto progetto? Tralasciamo quel che è stato finora. Solo iniziamo, fidatevi di me, e vedrete.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 2, Capitolo 19, § 29-34

E così, anche cresciuti ci mostriamo bimbi. Giacché bamboccio in musica è il digiuno di musica; in grammatica il digiuno di grammatica; in vita il non educato a diairesizzare.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 3, Capitolo 19, § 6

Un uomo dabbene ha paura che gli manchi il cibo? Il cibo non manca ai ciechi, non manca agli zoppi. Mancherà ad un uomo dabbene? Non manca chi dà il soldo ad un soldato dabbene né ad un operaio né ad un calzolaio. E mancherà a chi è dabbene? A tal punto la materia immortale trascura i suoi felici successi, i ministri, i testimoni, coloro che soli usa come paradigmi nei confronti dei non educati a diairesizzare per mostrare che esiste, che ben governa l’intero, che non trascura le faccende umane e che per l’uomo dabbene non c’è male né in vita né in morte? -E dunque qualora non procuri cibo?- Che altro significherà se non che, come un buon stratega, mi ha significato la ritirata?  Ubbidisco, la seguo glorificando il leader, inneggiando alle sue opere. Giacché venni quando lei lo reputò e di nuovo me ne vado quando lei lo reputa. Vivendo, questa era l’opera mia: inneggiare a Zeus, sia io per me stesso che con un altro o con molti. 
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 3, Capitolo 26, § 27-30

Tu ricordati soltanto dei principi universali: “Cos’è mio, cosa non è mio? Cosa mi è dato? Cosa Zeus dispone che io ora faccia, cosa non dispone?” Poco fa disponeva che tu oziassi, parlassi con te stesso, scrivessi su questi principi, che leggessi, ascoltassi, ti preparassi: avesti tempo sufficiente per questo. Ora ti dice: “Vieni ormai in gara, mostraci cosa imparasti, come ti cimentasti. Fino a quando ti allenerai da solo? E’ ormai tempo di riconoscerti, se sei un atleta degno di vittoria oppure uno di quelli che vanno in giro per la terra abitata da vinti”. Perché dunque fremi? Nessuna gara accade senza trambusto. Devono essere molti i preparatori atletici, molti quelli che strepitano, molti i soprintendenti, molti gli spettatori. -Ma io vorrei passarmela in quiete.- Mugugna, quindi, e gemi come meriti. Giacché quale altra punizione per chi non è educato a diairesizzaree disubbidisce alle costituzioni della materia immortale è maggiore di questa, cioè dell’affliggersi, piangere, invidiare, insomma del non avere fortuna ed avere cattiva fortuna? Non vuoi allontanarti da questo? 
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 4, Capitolo 1, § 29-32

Se invece vorrà che il figlio o la moglie non aberrino, egli vuole che l’allotrio non sia allotrio. Ed educarsi a diairesizzare è questo: imparare quanto è nostro peculiare e quanto è allotrio.
Epitteto: ‘L’albero della diairesi’ Libro 4, Capitolo 5, § 7

Sconcertano gli esseri umani non le faccende, ma i giudizi sulle faccende. Per esempio, la morte nulla è di terribile, dacché questo sarebbe parso anche a Socrate; ma il giudizio sulla morte, che sia terribile, quello è il terribile. Qualora dunque siamo intralciati o sconcertati od afflitti, non accagioniamo mai altro che noi stessi, cioè i nostri giudizi. Incolpare altri per ciò per cui lui finisce male è opera del non educato a diairesizzare. Incolpare se stessi è opera di chi ha iniziato a diairesizzare. Non incolpare né un altro né se stesso, di chi è stato educato a diairesizzare.
Epitteto: ‘Il Manuale’ Capitolo 5

Ed a quale tempo ancora rimandi il meritarti l’ottimo ed il non violare in nulla la ragione che opera la diairesi? Hai assunto i principi filosofici generali con i quali dovevi metterti alle prese e ti sei messo alle prese. Quale insegnante dunque paventi ancora, per posporre a lui di fare la tua rettificazione
Epitteto: ‘Il Manuale’ Capitolo 51

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THE DIARESIS TREE – THE MANUAL OF EPICTETUS

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EPICTETUS

Newly Translated 

by

FRANCO SCALENGHE

Εἰ μὲν τὸ σῶμά σού τις ἐπέτρεπε τῷ ἀπαντήσαντι, ἠγανάκτεις ἄν: ὅτι δὲ σὺ τὴν γνώμην τὴν σεαυτοῦ ἐπιτρέπεις τῷτυχόντι, ἵνα, ἐὰν λοιδορήσηταί σοι, ταραχθῇ ἐκείνη καὶ συγχυθῇ, οὐκ αἰσχύνῃ τούτου ἕνεκα;

“If someone handed over your body to anyone you meet, you would be vexed. And that you hand over your intelligence to any chance comer so that, if you are reviled, it is disconcerted and confused; for this are you not ashamed?”

Manual, 28

E1

There are things that are by nature free and things that are by nature slave. Diairesis is the Superjudgement able to understand and distinguish what is free and what is slave. Counterdiairesis is the Superjudgement that misunderstands what is slave as though it were free and what is free as though it were slave.

[E1,1] Among the things that are, some are in our exclusive power while others are not in our exclusive power. In our exclusive power are conception, impulse, desire, aversion and, in a word, what is our own work. Not in our exclusive power are our body, our estate, reputation, offices and, in a word, what is not our own work. [E1,2] Furthermore the things in our exclusive power are by nature free, unhampered, unimpeded, while the things not in our exclusive power are weak, servant, hampered, are another’s. [E1,3] Remember, then, that if you think free what is by nature servant and your peculiar what is another’s, you will be hindered, you will mourn, you will be disconcerted, you will blame both gods and men. If, on the contrary, you think yours only what is yours and what is another’s, as it is, another’s; no one will ever constrain you, no one will hamper you; you will blame no one, you will bring charges to no one, you will perform absolutely nothing without consent, you will have no personal enemies, no one will damage you, for you will experience nothing harmful. [E1,4] Having such important aims remember, then, that you must undertake them not moderately stirred but that you must totally give up some things and defer others for the time being. If you want this so important attainment and at the same time to hold office and be wealthy in money, because you aim also at the former you will not obtain, perhaps, even these latter; but you will at any rate fail those through which only freedom and happiness ensue. [E1,5] Straightaway, then, study to say to every harsh impression “You are an impression and non at all what you appear to be”. After that inquire and evaluate it with these standards that you have, and in the first place and especially with this: whether it concerns things in our exclusive power or things not in our exclusive power. And if it concerns some of the things that are not in our exclusive power, have ready at hand that “It is nothing to me”.

E2

Misfortunes and ill fortunes.

[E2,1] Remember that the profession of desire is to hit the mark of what you desire and that the profession of aversion is to not stumble on what is averted. He who fails in desire is misfortuned, while he who stumbles on what he averts has ill fortune. If, then, among what is in your exclusive power, you avert only what is not in accord with the nature of things, you will stumble on nothing of what you avert. But if you avert sickness or death or poverty in money, you will have ill fortune. [E2,2] Remove, then, your aversion from all that is not in our exclusive power and transpose it on what, among the things that are in our exclusive power, is not in accord with the nature of things. For the time being, totally abolish your desire. For if you desire something of what is not in our exclusive power, it’s necessary for you to be misfortuned, while nothing of what is in our exclusive power and would be beautiful to desire is as yet present to you. Use only your impulse and your repulsion, yet lightly, with reservation and mildly.

E3

The nature of things.

For any of the things by which your soul is won or that provides you with some utility or that you cherish, remember to say to yourself, beginning from the smallest, which is its nature. If you cherish a pot, say “I cherish a pot”; for when it is broken you will not be disconcerted. If you kiss your child or your wife, say that you kiss a human being; for when he dies you will not be disconcerted.

E4

Proairesis: the logic faculty of human beings as our only faculty able to assume a diairetic or a counterdiairetic attitude.

When you are going to undertake a work, remind yourself which is the nature of the work. If you go away for a warm bath, put in front of you the events at the baths: those who sprinkle, those who jostle, those who revile, those who steal. And thus you will undertake the work more safely, if at once you will say: “I dispose to take a warm bath but also to keep my proairesis in accord with the nature of things”. And behave in the same way for each work. For thus, if any hindrance to take a warm bath happens, you will have ready at hand that: “Yet I did not dispose only this, but also to keep my proairesis in accord with the nature of things; and I’ll not so keep it, if I am vexed at the events”.

E5

We are proairesis; that is, we are our judgements.

It is not the things themselves that disconcert the human beings, but their judgements about these things. For example, death is nothing terrible, or else it would have appeared such also to Socrates; but the judgement upon death, that it’s terrible, this is the terrible thing. When, then, we are hindered or disconcerted or grieved, let’s never impute anyone else but ourselves, that is our judgements. To bring charges to other people for what he fares ill is the work of the uneducated to diairesize. To bring charges to himself is the work of the one who has begun to diairesize. To bring charges neither to another nor to himself is the work of the man educated to diairesize. 

E6

The excellence of human nature is nothing else but the right use, that is, in accord with the nature of things, of our impressions.

Be not elated at any primacy that is not your own. If a horse in his elation said: “I am beautiful”, it would be bearable; but when you say elated: “I have a beautiful horse”, know that you are elating at the goodness of a horse. What is, then, yours? The use of impressions. Therefore at that time be elated when you behave in accord with the nature of things in the use of impressions; for then you will be elated at some goodness of yourself.

E7

All that is aproairetic, earlier or later has to be given back.

Precisely as during a sea-voyage, when the vessel has anchored, if you should go out to fetch fresh water, along the way you will pick up for yourself a small snail or a small bulb, yet your intellect has to be intent upon the vessel and you have to turn it constantly to the possible call of the steersman; and if he calls, you have to give up all those things, that you may avoid being thrown on board fettered as the sheep; in like manner in life too, if, instead of a small bulb and a small snail, are given you a wife and a child, nothing will prevent you to pick them up for yourself; but if the steersman calls, run to the vessel, giving up all those things and without turning your mind to them. And if you are old, do not be far from the vessel, that you may not be left out when he calls.

E8

Error, vice, unhappiness.

Do not seek to have the events happen as you want, but dispose for the events to happen as they happen and you will be serene. 

E9

Only our proairesis is by nature free from any hindrance.

Sickness is a hindrance of the body, not of proairesis, if our proairesis does not dispose so. Lameness is a hindrance of the leg, not of proairesis. And say this for each occurrence, for you will find that it hinders something else but not you.

E10

A proairesis able to keep itself free in every circumstance.

For each of the events that befall us, remember to turn the mind to yourself and to seek which faculty you have for its use. If you see a handsome younker or a handsome girl, you will find that the faculty for these things is self-restraint. If a pain is laid upon you, you will find fortitude. If reviling, you will find patience. And accustomed in this way, the impressions will not sweep you away.

E11

All that is aproairetic, earlier or later has to be given back. 2

Never say about anything “I lost it”, but “I gave it back”. Did the child die? He was given back. Did the wife die? She was given back. “The farm was confiscated”. This also, then, was given back. “But the one who confiscated it is a vicious person”. What do you care through whom the giver demanded it back? And till the giver gives it to you, take care of it as of something that is another’s; as the passers-by of the inn.

E12

Men, prices and profit.

[E12,1] If you dispose to profit, give up the reckonings of this sort: “If I neglect my own affairs, I’ll have no means of subsistence”. “If I don’t punish the boy, he will be a knavish fellow”. For it’s better for you to die of hunger once able to control grief and fear rather than to live in the abundance being prey to disconcertment. It’s better for your boy to be a bad fellow than for you to be unhappy. Begin, therefore, from small things. [E12,2] Some oil is spilled; some wine is stolen. Say: “This is the price of self control, this is the price of undisconcertment”. Nothing ensues free of charge. When you call the boy, brood that he may not heed you or heed you but do nothing of what you want: yet he is not in such a mighty position that your undisconcertment is in his exclusive power!

E13

This or that are they the same for me?

If you dispose to profit, submit to seem crazy and silly with regard to external objects and do not decide to seem someone who has science of anything. And if some people think that you are somebody, distrust yourself. For know that it is not easy to guard your proairesis working in accord with the nature of things and the external objects, but if you take care of the first one it’s inevitable for you to neglect the others.

E14

Can anything that is in another’s power free us?

[E14,1] If you want that your offspring and wife and friends live forever, you are silly; for you want that what is not in your exclusive power be in your exclusive power and that what is another’s be yours. In like manner if you want that the boy be unaberrating, you are stupid; for you want that the vice be not vice but something else. Yet if you dispose to be unfailing in desire, this you can. [E14,2] Exercise, then, this that you can. Each person’s lord is the one who has the power to secure or subtract the things that the person wants or does not want. Whoever, then, decides to be free let him neither want nor avoid anything that is in the power of other people. Otherwise, it’s necessary for him to be servant.

E15

The banquet.

Remember that you must conduct yourself as in a banquet. A course has been carried in front of you: stretch out the hand and take a share decently. It passes on: do not withhold it. It does not yet come along: do not fling your desire onwards, but await till it is not in front of you. So towards offspring, so towards a wife, so towards offices, so towards money’s wealth: and at some time you will be a fellow-drinker worthy of the gods. And when the courses are placed beside you but you do not take and disdain them, then you will not only be a fellow-drinker of the gods but you will rule with them. For by so doing Diogenes, Heracleitus and similar men deservedly were and were called gods.

E16

The grief of another person.

When you see someone crying and mourning either because one if his offspring sets off or because he has lost his property, pay attention not to be swept away by the impression that he finds himself in an evil plight because of the external objects. But straightaway have ready at hand that “This fellow is not oppressed by what has occurred (for it does not oppress another) but by his judgement about it”. Yet till so far as words are concerned, do not hesitate to be complaisant with him and, perhaps, to groan over the thing together with him. Yet pay attention to not sigh also from within.

E17

You are an actor.

Remember that you are an actor of a drama, the sort of which is disposed by the director. If he disposes the drama to be short, of a short one; if long, of a long one. If he disposes for you to play the part of a beggar, he does this in order that you may play this too as a thoroughbred actor; and the same for the part of a lame, of a magistrate, of a private citizen. For yours is to play well the given role; to select it is another’s business.

E18

My own good is in my own hands.

When a crow croaks inauspiciously, be not swept away by that impression but straightaway, you within yourself, discriminate and say: “None of these things omens to me, but either to my body or to my estate or to my reputation or to my offspring or wife. To me all signs given are auspicious, if I dispose so; for whatever comes about it is in my exclusive power to benefit from it”.

E19

Invincible in the freedom’s contest.

[E19,1] You can be invincible if you never descend into a contest in which victory is not in your exclusive power. [E19,2] When you see someone honoured above you or a tycoon or someone who wins applause, behold not to bless him, swept away by the impression. For if the substance of the good is in what is in our exclusive power, then neither envy nor jealousy have country there; and you will neither want to be general nor official nor consul but a free man. One only is the way leading to this: the contempt of what is not in our exclusive power.

E20

The outrage.

Remember that it’s not the fellow who reviles or strikes that outrages you, but your judgement about these acts as outrageous. When, then, one provokes you, know that your conception has provoked you. In the first place, therefore, try not to be swept away by the impression, for once you have obtained some time and some delay, you will be more easily master of yourself.

E21

The death.
 
Let death, exile and everything that appears terrible be before your eyes every day. Most of all death. And you will never brood anything slave-minded nor crave excessively for anything.

E22

The derision and the admiration of human beings.

If you crave for philosophy, prepare immediately to be mocked, to be derided from many people who will say: “Suddenly this fellow is returned home philosopher!” and “Whence does this frown come?” You do not have the frown, but cleave to what appears to you the best as a man positioned to this task by Zeus. Remember that if you remain fixed to the same judgements, those who first mocked you, these same people will later admire you; but if you are defeated by them, you will add to the first a second derision.

E23

To appear and to be.

If, owing to the decision to please someone, it ever happens to you to turn yourself outside, know that you lost your institute of life. Be content, then, in every circumstance to be a philosopher. And if you decide also to seem one, appear a philosopher to yourself and that will be sufficient.

E24

To sacrifice our life for the sake of “the Cause” at the cost of losing our true goods?

[E24,1] Let not these considerations oppress you: “I’ll live lacking honours and will be nobody anywhere”. For if the lack of honours is an evil, you cannot be in evil because of another person, no more than in shame. Is it perhaps your work to obtain an office or to be invited to a dinner-party? Not at all. How is this, then, any longer a lack of honours? How is it that you will be nobody anywhere, when you have to be somebody only in the things that are in your exclusive power, wherein you have the power to be of the greatest value? [E24,2] But will your friends be helpless? Why do you say “helpless”? They will not have from you small coins nor you will make them Roman citizens. And who told you that these things are among those in our exclusive power and not another’s work? Who can give to another person what he does not himself have? “Get them for yourself, then”, someone says, “so that we too may have them”. [E24,3] If I can get them keeping myself self respecting, faithful, high-minded, show me the way and I’ll get them. But if you are urging me to lose my goods so that you may secure what are not goods, you see for yourselves how unfair and unintelligent you are. What do you decide better to have? Some money or a faithful and self respecting friend? Take rather part with me in this, then, and do not urge me to perform actions by which I’ll throw away my very faithfulness and self respect. [E24,4] “But my fatherland, as long as it is in my power”, someone says, “will be helpless”. Again, of what kind is this help? It will have, thanks to you, neither roofed colonnades nor baths. And what is this? For neither does it have shoes thanks to the smith nor weapons thanks to the cobbler. It is sufficient, instead, if anyone fulfils his own work. If you structured for it another faithful and self respecting citizen, would you be of no benefit to your fatherland? “Yes”. Therefore you would not be futile to it. “Which task”, someone says, “will I have, then, in town?” The one that you can have, guarding at the same time the faithful and self respecting man. [E24,5] But if, having decided to benefit your town, you will throw away this, of what avail would you be to it coming out disrespectful and faithless?

E25

Flunkeys and arse-lickers.

[E25,1] Was anyone honoured above you at a dinner-party or on occasion of an address or in being invited for a counsel? If these are goods, you must rejoice that he obtained them. If, instead, they are evils, do not take offence because you did not obtain them. Remember that you cannot, not doing the same things that he does in order to obtain what is not in our exclusive power, deserve an equal share in it. [E25,2] For how can have an equal share, the one who does not frequent the doors of someone and the one who frequents them? The one who does not accompany someone and the one who accompanies him? The one who does not praise and the one who praises? You will be, then, unjust and insatiate if, while not turning over the things in exchange of which those are retailed, you would decide to get them free of charge. [E25,3] At what price are the heads of lettuce retailed? Perhaps, one obol. If, then, turning over one obol a fellow gets the lettuce and you, not turning over the obol will not get it, do not think that you have less than the fellow who got it. For as he has the head of lettuce, so you have the obol that you did not give. [E25,4] In the same way it is also here. Were you not invited to somebody’s dinner-party? For you did not give the host the price for which he sells his dinner. And he sells it for praises, for personal assistance. Give him, then, the price for which it is sold, if it’s advantageous for you. But if you want not to turn over that and yet to get this, you are insatiate and ignoble. [E25,5] Have you nothing, then, in exchange of the dinner? You have that you did not praise the fellow you did not want to praise; that you had not to tolerate his doorkeepers.

E26

The grief of another person. 2

It is possible to decipher the plan of nature from the consideration of the points in which we do not differ from one another. For example, when another’s boy breaks the drinking-cup, you have straightaway ready at hand the words: “These are things that happen!” Know, then, that when your drinking-cup too is broken, you must be the same person you were when the other drinking-cup was broken. In like manner, transpose this principle also to greater things. Another’s offspring or wife has died. No one but would say: “It’s a human thing!” Yet when somebody’s own child dies, straightaway: “Woe’s me! Wretched me!”. But it would be compulsory to remember what we experience when we hear this event befalling other people.

E27

Good and evil do not exist outside of our proairesis.

As a target is not set in order to fail it, so neither the nature of evil exists in the World.

E28

The rape of intelligence.

If someone handed over your body to anyone you meet, you would be vexed. And that you hand over your intelligence to any chance comer so that, if you are reviled, it is disconcerted and confused; for this are you not ashamed?

E29

Please, give up philosophy.

[E29,1] Consider the antecedents and the consequents of each work and at that point come to it. Otherwise, at first you will come along with spirited vigour, inasmuch as you have brooded nothing of what follows next but later, when some difficulties will be shown forth, you will desist shamefully. [E29,2] Do you want to win the Olympic games? So do I, by the gods, for it is a fine thing. But consider the antecedents and the consequents, and at that point undertake the work. You must obey discipline, eat by regimen, abstain from delicacies, train under compulsion, at a fixed hour, in burning heat, in cold; you must not drink cold water nor wine haphazardly; in short you must have committed yourself to the supervisor as to a physician. And then in contest to dig in beside your opponent, sometimes to dislocate a hand, to sprain your ankle, to gulp down much sand, possibly to be whipped and, after all this, to be defeated. [E29,3] Once you have examinated this, if you still want it, come to the trial. Otherwise, you will have conducted yourself as the children, who now play the wrestlers, now the gladiators, now blow trumpets and then croon. So you too are now athlete, now gladiator and then orator and then philosopher but with your entire soul nothing. Like an ape you imitate whatever spectacle you see and are pleased with something that is always different. For you did not come to anything after an analysis or a diligent study but at random and according to a cold craving. [E29,4] In this way some people, once they have observed a philosopher and heard someone speaking like Euphrates (and yet who can speak like him?), want they too to do philosophy. [E29,5] You sir, examine first what is the business and then decipher also your nature, if you can bear it. Do you decide to be a pentathlete or a wrestler? See your arms, your thighs, decipher your loins. [E29,6] For one is born for one thing, another for another one. Do you think that doing this you can eat in the same way, drink in the same way, similarly desire, similarly be ill pleased? You must stay awake, toil, depart from your household, be despised by a young boy, be mocked by those you meet, have less in every circumstance: in honour, in office, in court, in every small business. [E29,7] Examine these issues, if you dispose to give that in exchange for self control, freedom, undisconcertment. Otherwise do not bring yourself near philosophy, that you may not be, like the children, now a philosopher and later a tax collector and then an orator and then a Procurator of Caesar. These things do not harmonize. You must be one person only, either good or bad. You must work at your ruling principle or at the external objects; elaborate artfully your inside or things outside; that is to have the position of a philosopher or of a layman.

E30

About social relationships.

The proper deeds are generally calibrated upon our social relationships. He is a father: what is dictated is to take care of him, to give him way in everything, to tolerate him if he reviles, if he smites. “But he is a bad father”. Were you made by nature kinsman to a good father? No, but simply to a father. “My brother does me wrong”. Keep, therefore, your position with regard to him and do not consider what he does but what you do in order to have your proairesis in accord with the nature of things. For another person will not damage you, if you do not dispose so. And then you will have been damaged, when you conceive that you are damaged. In like manner, then, you will find what is the proper deed of a neighbour, of a citizen, of a general, if you accustom yourself to know the general principles of your social relationships.

E31

On men and gods.

[E31,1] About the piety towards the gods, know that the dominant issue is to have right conceptions of them, as existing and governing the whole well and justly; and to have appointed yourself to obey them, to make way to any of them and to follow them purposely as brought to completion by our best intelligence. For in this way you will never blame the gods nor you will bring charges to them for neglecting you. [E31,2] And it’s impossible for this to happen, otherwise than removing the good and the evil from what is not in our exclusive power and setting it only into what is in our exclusive power. For if you conceive any of those things to be good or evil it’s inevitable for you, when you fail what you want and you stumble on what you do not want, to blame and hate the causes of this outcome. [E31,3] For every creature is born to flee and turn aside from what appears harmful and from its causes, and to go in quest of and give value to what is beneficial and to its causes. It’s unmanageable, then, for the one who thinks to be damaged, to rejoice at what he thinks to damage him, as it’s also impossible to rejoice of the damage itself. [E31,4] Hence it comes that the father is reviled from the son when he does not give him a share of those things that the boy thinks are good. And this made Eteocles and Polyneices enemies of one another: to think tyranny to be a good thing. For this reason the farmer reviles the Gods, and so does the sailor, so does the merchant, so do those who lose their wives and their offspring. For where the useful is, there is also the pious. So that whoever takes care of desiring and averting as one ought, at the same time he is taking care also of the piety. [E31,5] It befits on each occasion to make libations and sacrifices, to offer the first-fruits after the manner of our fathers; doing it with purity, neither carelessly nor niggardly nor beyond our faculties.

E32

The indifferent divination.

[E32,1] When you approach divination, remember that you don’t know what will come about but that you came in order to know it from the seer. Yet you came knowing what’s the nature of the thing that will come about, if indeed you are a philosopher. For if it’s something that is not in our exclusive power, it’s inevitable for it to be neither good nor evil. [E32,2] Do not bring, then, to the seer desire or aversion and do not approach him trembling, but having screened that everything will come about is indifferent and nothing to you; and that whatever it is, it will be possible to use it well and that nobody can prevent this. Come, then, confidently to the gods as to counsellors. Well then, when some counsel is given to you, remember whom you assumed as counsellors and whom you will misunderstand if you disobey. [E32,3] Come to divination, precisely as Socrates urged, in those cases in which every analysis has reference to the outcome and neither from reasoning nor from any other art are given resources in order to discover the issue in question. So that, when you have to run risks with a friend or with your fatherland, do not divine whether you have run them. For if the seer foretells you that the sacred victims have been unfavourable, it’s plain that this means death or lameness of some part of the body or exile. But reason chooses, also with these risks, to stand by side of the friend and to run risks with the fatherland. Pay attention, then, to the greatest seer, to Pythian Apollo, who cast out of his temple the fellow who did not help the friend who was being cleared out.

E33

Some suggestions.

[E33,1] Position by now for yourself a certain style and pattern, that you will guard whether you are by yourself or are meeting with people. [E33,2] And be silent for the most part or chat the necessary and with few words. Rarely, and when the right time invites you to talk, talk indeed, but not about what you chance upon: not about gladiatorial combats, or horse-races, or athletes, or foodstuff or drinks or such trivialities and especially not about people, censuring or praising or comparing. [E33,3] If, then, you are able, with your discourses bring over also those of the fellows who are with you to what is befitting. If by chance you are taken apart among aliens, keep silent. [E33,4] Do not laugh much nor at many things nor coarsely. [E33,5] Spurn an oath, if possible, at all; otherwise, as far as it is contingent. [E33,6] Decline dinner-parties with outsiders and laymen. If ever the right time for this happens, pay much attention not to glide into any vulgarity. Know, indeed, that if the fellow is defiled, also the one who rubs against him must of necessity defile himself, even if he is by chance clean. [E33,7] With respect to the body, employ things like food, drink, clothing, house, servitude, till the satisfaction of the mere need; and set limits to everything which is for reputation or effeminacy. [E33,8] About sexual pleasures before marriage, one must keep oneself clean; and the one who touches them must take a share of the lawful ones. Yet don’t become rude nor challenging with those who indulge and do not quote repeatedly that you do not indulge. [E33,9] If someone reports to you that So-and-so speaks ill of you, do not speak in your defence against what is said but answer that “So-and-so ignored the others vices that are joined to me, since he would not speak, then, of these only!” [E33,10] To go to the theatre is, for the most part, not necessary. If it is ever the right time, show to be eager for none but yourself, that is dispose for that only to happen that happens, and for him only to win who wins: for in this way you will not be hindered. Abstain totally from shouting and mocking at anyone or from exciting yourself for long. Once you are far from the theatre, do not argue a great deal about what has happened, except in so far as this brings to your rectification; for such a behaviour discloses that you admired the spectacle. [E33,11] Do not go at random nor easily to people’s lectures. If you go, guard yourself solemn, stable and at the same time not rude. [E33,12] When you are about to confer with somebody, especially one of those thought “Excellence”, put in front of you what would Socrates or Zeno have done in this case and you will not be at a loss for using befittingly of the occurrence. [E33,13] When you frequent any tycoon, put in front of you that you will not find him in, that you will be shut outside, that his doors will be slammed in your face, that he will not worry about you. And if, despite this, it is a proper deed to come, come and bear with the events and never say to yourself: “It was not worth that much trouble!”; for this is typical of the layman and of one who has been filled with suspicion and resentment against the external events. [E33,14] In your conversations keep yourself far away from remembering for long certain works of yours or, beyond measure, certain dangers that you have run. For as it’s pleasant for you to remember your dangers, it is not so pleasant for other people to hear about the dangers that have occurred to you. [E33,15] Keep yourself also far away from moving laugh, for the way that brings into vulgarity is slippery and at the same time sufficient to lessen the respect of those who are nearby towards you. [E33,16] Unsafe is also to step forth towards smutty talk. When, then, something of this sort occurs, if it’s a well-timed occasion rebuke also the person who stepped forth to it. Otherwise, cease speaking and be silent and blush and be sullen, so displaying your dislike at the discourse.

E34

The strength of our impressions.

When you get the impression of some ecstasy, precisely as for the other impressions guard yourself against being swept away by it. Let the thing, then, wait for you, and take some delaying. Next recollect both the times: the time in which you will enjoy the ecstasy and the time when, later, after enjoying it, you will repent and revile yourself. Set against this how you will rejoice in abstaining from it and how you will praise yourself. However, if it appears to you the right time to undertake the work, pay attention not to be defeated by its enticement and pleasantness and attractiveness. But set against this how better is for you the cognition of having won this victory.

E35

About decision.

When you, having screened that a certain thing has to be done, do it; never avoid to be seen performing it, even though the multitude is going to conceive something different about it. For if you do it unrightly, avoid the work itself. If rightly, why do you fear those who will rebuke you unrightly?

E36

A clash of interests.

As the statements “It is day” and “It is night” have a great value for a disjunctive clause but lack value for a coordinate clause, so let to select the greater part of a course have value for your body, but it lacks value to the purpose of guarding as one ought the sociability at a dinner-party. When, then, you eat with another person, remember to look not only at the value for your body of the courses that lie nearby, but also at guarding your respect towards the banquet-giver.

E37

Out of the lines.

If you interpret a role that is above your faculties, in this you were indecent and you omitted to fulfill the role that you could have fulfilled.

E38

The damage.

Precisely as in walking you pay attention not to step on a nail or to twist your foot, so pay attention not to damage your ruling principle. And if we are on our guard about this in each work, we will undertake it more safely.

E39

The measure and above.

Each person’s body is a measure for his estate, as the foot is a measure for his shoe. If, then, you abide by this principle, you will guard the measure. If you go beyond it, well, then it’s necessary to be brought like along a cliff. Precisely as for the shoe, if you go beyond the foot, the shoe becomes gilded and then purple and then embroidered. For there is no limit to what is once above the measure.

E40

Ladies whose only good is their cunt.

Straightaway from the age of fourteen the females are called by the males “Ladies”. Seeing, therefore, that nothing else is joined to them but to be bed-fellows of the males, they begin to embellish themselves and to devote all their hopes to that. It is worth, then, to pay attention so that they may realize to be honoured for nothing else but for appearing well-regulated and self respecting.

E41

Shitting and fucking.

It’s a scum’s sign to linger fondly on things that concern our body, like training oneself for long, for long to eat, for long to drink, for long to shit, to fuck. These things must be done as accessory works. All thoughtfulness has to be for our intelligence.

E42

Who is the damaged one?

When somebody treats you ill or speaks ill of you, remember that he does or says so, thinking this to be a proper deed for himself. It is not, then, possible for him to follow what appears to you but what appears to him, so that if his opinion is wrong, the damaged one is the deceived one. For if one conceives false a true coordinate clause, it is not the coordinate clause that has been damaged but the one who was deceived. Taking, then, impulse from this, you will be meek with the reviler. For to every reviling exclaim: “He thought it!”

E43

The two handles of the business.

Every business has two handles: a bearable one and an unbearable one. If your brother wrongs you, do not take the business from here, that he wrongs (for this is its unbearable handle), but rather from there, that he is your brother, that he has lived in common with you; and you will take the business from the bearable handle.

E44

Discourses that cannot fit together.

These are discourses that cannot fit together: “I am money’s wealthier than you, so I am better than you”; “I am more eloquent than you, so I am better than you”. These discourses, rather, can be combined: “I am money’s wealthier than you, so my estate is better than yours”; “I am more eloquent than you, so my elocution is better than yours”. But you are indeed neither estate nor elocution.

E45

Reality and appearance.

Somebody bathes hastily; do not say that he bathes badly but hastily. Somebody drinks much wine; do not say that he drinks badly but that he drinks much. Before screening the judgements, whence do you know whether he is doing it badly? Thus it will not occur to you that you seize the cataleptic impressions of certain things and assent to others.

E46

On being philosophers.

[E46,1] In no place call yourself philosopher and for the most part do not chat among laymen of general philosophical principles, but do what follows from those principles. At a banquet, for example, do not say how one ought to eat but eat as one ought. For remember that Socrates had so eliminated from all quarters the showing off, that people came to him and wanted to be recommended by him to the philosophers; and he used to bring them along. To such a point he tolerated its underestimation! [E46,2] And if a discourse about some general philosophical principle runs into laymen, for the most part keep silent; for great is the danger to vomit straightaway what you did not yet digest. And when someone tells you that you know nothing and you are not bitten by this, then know that you are beginning the real business. Since also the sheep do not show off to the shepherds how much they ate by bringing them the fodder but, once they have digested the pasturage within themselves, they bring outside wool and milk. You too, therefore, do not show off the general philosophical principles to laymen but, after digesting them, the works.

E47

On ostentation.

When you have suited yourself, with regard to the body, to cheap living, do not embellish yourself with this and, if you drink water, do not seek every motive to say that you drink water. If you dispose to exercise yourself to toil, do it for yourself and not for outsiders to behold. Do not embrace statues, but when you have a vehement thirst draw upon yourself some fresh water and then spit it, without telling anybody.

E48

Human beings and men.

[E48,1] Station and style of a layman: he never expects benefit or damage from himself but from external things. Station and style of a philosopher: he expects every benefit and damage from himself. [E48,2] These are the signs of the one who profits: he censures nobody, praises nobody, blames nobody, brings charges to nobody, says nothing about himself as though he were somebody or knew something. When he is hindered in something or hampered, he brings charges to himself. If anyone praises him, he mocks within himself the one who praises; and if he is censured, he does not speak in his defence. He goes around like an invalid, cautious to move, before they take solidity, any of the parts that are being reconstituted. [E48,3] He has removed from himself every desire and has transposed aversion only upon what, among what is in our exclusive power, is not in accord with the nature of things. Towards everything he uses the impulse mildly. If he is thought to be silly or uncultured, he does not worry about. In a word, he is in his guard against himself as against a treacherous personal enemy.

E49

Solemnity of being philosophers or of commenting on philosophers.

When one takes a solemn air because he is able to comprehend and explain the books of Chrysippus, say to yourself: “If Chrysippus had not written obscurely, this fellow would have nothing about which to take a solemn air”. What do I decide? To decipher the nature of things and to stay in her company. I seek, then, the one who explains it and, having heard that Chrysippus does so, I come to him. But I do not comprehend his writings. I seek, then, the one who explains them. And down to this point there is nothing solemn. When I find the commentator, what is left behind is to use the prescriptions: this only is solemn. But if I admire this mere fact of commenting, what else do I come out if not a grammarian instead of a philosopher? Except that instead of Homer I can comment, indeed, Chrysippus. When one tells me: “Read me Chrysippus again”, I, then, rather blush, when I am unable to show off works similar and in harmony with his discourses.

E50

What is at stakes is happiness.

Remain fixed to what is proposed to you as to laws, as if you would commit an impiety in violating it. And do not turn your mind towards whatever thing one says about you; for this is no longer yours.

E51

Olympia is now.

[E51,1] And to what kind of time do you still delay to think yourself worth of the best thing and to violate in nothing the reason that performs the diairesis? You have assumed the general philosophical principles with which you had to match and you have matched with them. What kind of teacher, then, do you still expect, that you may defer to him your rectification? You are no longer a lad but by now a perfect adult. If you are now neglectful and lazy and make deferment after deferment and define one after the other the day when you will pay attention to yourself, it will escape your notice that you are not making profit and will continue to live and die as a layman. [E51,2] Urge yourself by now, then, to live as a perfect man and a man who profits; and let everything that appears best, be for you an inviolable law. If something painful or pleasant is brought near you, bringing good reputation or ill reputation, remember that the contest is now, that the Olympic games are by now before you, that it is no longer possible to delay and that in a day only and a contest only your profit is lost or safeguarded. [E51,3] Socrates came out the man he was because, in all that was brought near him, he used to pay attention to nothing but his reason. And even if you are not yet Socrates, you are bound to live as one who decides to be a Socrates.

E52

The three fields of philosophy.

[E52,1] In philosophy, the first and more necessary topic is the one concerning the use of general principles: for example, non to lie. The second is the one concerning the demonstrations: for example, whence is it that one ought not to lie? The third is the one that strengthens and articulates these issues: for example, whence does it come that this is a demonstration? For what is demonstration, what is logical consequence, what is contradiction, what is truth, what is falsehood? [E52,2] Therefore the third topic is necessary because of the second and the second because of the first. But the most necessary one and the one in which we must rest is the first. We instead do the things backwards; for we pass our time in the third topic and all our eagerness is given to this one, while we neglect totally the first. Therefore we lie, but how to demonstrate that one ought not lie, this we have ready at hand

E53

Who takes side with Socrates?

[E53,1] In every occasion we must have ready at hand these words: “Lead me, Zeus, and you indeed, Destiny, to that goal long ago to me assigned. Resolute, I’ll stay in your company; and if I don’t want so, becoming vicious, nevertheless I’ll stay in your company”. [E53,2] “Whoever has complied as a virtuous man with necessity, for us is wise and knows what is divine”. [E53,3] “Well, O Crito, if so it pleases the gods, so be it”. [E53,4] “Anytus and Meletus can kill me but not damage me”.

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THE DIARESIS TREE- FRAGMENTS

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EPICTETUS

Newly Translated 

by

FRANCO SCALENGHE

Εἰδέναι χρή, ὅτι οὐ ῥᾴδιον δόγμα παραγενέσθαι ἀνθρώπῳ, εἰ μὴ καθ’ ἑκάστην ἡμέραν τὰ αὐτὰ καὶ λέγοι τις καὶἀκούοι καὶ ἅμα χρῷτο πρὸς τὸν βίον.

“It is compulsory to know that a judgement does not become easily present to a person unless he should every day say and hear the same judgements and at the same time use them for life”. (Fr. XVI)

Stobaeus “Eclogae” 2, 1, 31. 


From Arrian, pupil of Epictetus. To the one who meddled in the problem of substance.

What do I care, Epictetus says, whether the things that are consist of atoms or of homoeomeries or of fire and earth? Is it not sufficient to learn the substance of good and evil things, the measures of desires and aversions and, further, of impulses and repulsions and using these as standards to govern the affairs of life, dispensing with the issues that are beyond us? Issues that are, perhaps, out of the grasp of human intelligence, and even if one stated that they are very well within our grasp, what would be the avail of grasping them? Ought we not to say that have troubles in vain those who ascribe these issues as necessary to the definition of philosopher? Is it, then, also the prescription at Delphi redundant: “Recognize yourself”? -This is not, he says- Which is, then, its meaning? If one bade a chorus-singer to recognize himself, would he not pay attention to the precept by turning his mind both towards his chorus-fellows and his harmony with them? -Yes- And if one bade a sailor? And a soldier? And you deem the human being a creature made for himself or for society? -For society- By what? -By nature- What is nature and how it governs the whole and whether it exists or not, these are issues it is no longer necessary to meddle in.

II

Stobaeus “Eclogae” 4, 44, 65.
From Arrian, pupil of Epictetus. 

He who dislikes what is present and has been given him by fortune is, in point of life, a layman. But he who bears with this generously and works rationally with what comes out of it, deserves to be legitimized a good man. 

III

Stobaeus “Eclogae” 4, 44, 66.
From the same.

All things heed and do service to the World: earth and sea, sun and the other stars, vegetables and animals of the earth. Our body too heeds to it, being sick and being healthy when it disposes so, and being young and getting old and going across the other transformations. Therefore it is reasonable that also what is in our exclusive power, that is the determination, should not contend alone against it. For it is potent and superior to us and has taken about us the better counsel and governs us together with the whole. Besides this the resistance to it means to side with unreason and making nothing more that to fidget in vain, makes us to stumble on sorrows and grieves.

IV

Stobaeus “Eclogae” 2, 8, 30. 
Musonius, Fragment 38 Hense.
Of Rufus. From the remarks of Epictetus on friendship.

Of the things that are, Zeus set some in our exclusive power, others not in our exclusive power. In our exclusive power is the most beautiful and worth of the most earnest attention, the one by which he himself is happy, that is the use of impressions. For when this use occurs rightly there are freedom, serenity, cheerfulness, stability of judgements. Right use of the impressions is also justice, law, temperance and virtue all at once. All the rest he did not made in our exclusive power. Therefore it is compulsory that we too become men voting unanimously with Matter Immortal and, discriminating the things in this way, that we lay claim in all manner on what is in our exclusive power and entrust what is not in our exclusive power to the World, and that we merrily give way to it, would it need our children, our fatherland, our body or anything whatsoever.

V

Stobaeus “Eclogae” 3, 19, 13.
Musonius, Fragment 39 Hense.
Of Rufus. From Epictetus on friendship.

Who among us does not admire the words of Lycurgus the Lacedaemonian? For crippled to an eye from one of the citizens, he assumed the younker from the populace, that he may take vengeance upon him as he decided. Yet he abstained from this, but he educated him and after declaring him a good man, brought him to the theatre. To the amazed Lacedaemonians “When I got him”, he said, “from you, this fellow was outrageous and violent. I give him back to you acquiescent and friend to people”.

VI

Stobaeus “Eclogae” 3, 20, 60.
Musonius, Fragment 40 Hense.
Of Rufus. From Epictetus on friendship.

But above all else, the work of nature is to tie and reconcile our impulse to the impression of befitting and beneficial.

VII

Stobaeus “Eclogae” 3, 20, 61.
Musonius, Fragment 41 Hense.
From the same.

To think that we will be contemptible in another’s eye if we do not damage in every way our first personal enemies, is typical of very mean and crazy people. For we say that the contemptible person is identified also by his impossibility to damage, but much more he is identified by his impossibility to benefit.

VIII

Stobaeus “Eclogae” 4, 44, 60.
Musonius, Fragment 42 Hense.
Of Rufus. From the remarks of Epictetus on friendship.

Such was, is and will be the nature of the World, and it’s impossible for the events to happen otherwise than they do now. And not only the human beings and the other creatures on earth have taken a share into this development and transformation, but also what is material takes a share in it and, by Zeus, the four elements themselves turn upside down and transform and the earth becomes water, the water air and this again is transformed into ether. And the same is the manner of transformation from above downwards. If one attempts to lean his mind to this truth and persuades himself to admit purposely what is necessary, he will live a very well-balanced and harmonious life.

IX

Gellius “Noctes Atticae” 19, 1, 14-21.

A well-known philosopher of the Stoic school….brought out of his handbag the fifth book of the “Discourses” of the philosopher Epictetus, gathered by Arrian and no doubt in agreement with the writings of Zeno and of Chrysippus. In that book, obviously written in Greek, we read a passage so conceived: “The impressions (that the philosophers call fantasìai) by which the mind of a human being is at once struck as soon as the appearance of anything comes to it, are subject neither to his free judgement nor to his control but they find their way almost with violence, in order to be known by him. On the contrary the assents (that the philosophers call sunkatathéseis) with which the same impressions are recognized, are free judgements and are subject to the control of the human being. For this reason, when some terrifying noise comes either from the sky or from the collapse of a building, or the sudden new of some danger is given or something else of this sort happens, it is necessary also for the mind of the wise man to be shaken for a while and for him to shrink and turn pale, not because of any prevision of some evil but because of the presence of certain swift and unconsidered motions that prevail over the normal functions of mind and reason. Soon, however, the wise man does not give his assent (this means où sunkatatìthetai oudé prosepidoxàzei) to those impressions (that is, to the frightfulness of those impressions of his mind) but rejects and drives them back, and sees in them nothing dreadful. And this, they say, is the difference between the mind of the wise man and that of the insipient person. This last believes truly awful and cruel the things that so appeared to him at his first impression and afterwards, as if they were really terrible, he gives also his assent and makes it to become his own opinion (prosepidoxàzei is the verb that Stoics use when talking about this). The wise man, on the contrary, after having briefly and fleetly changed his color and his expression où sunkatatìthetai, that is he does not give his assent, but keeps firmly and with vigour the judgement that he always had about such impressions, as not dreadful and frightening with a false appearance and with a vain fear”. In the above-mentioned book we read that this is what thinks and says Epictetus, according to the doctrines of the Stoics.

X

Gellius “Noctes Atticae” 17, 19.
“Tolerate another’s intolerance” and “Abstain from intemperance”.

I heard Favorinus say that the philosopher Epictetus observed how most of those who seem to philosophize are philosophers of the kind: “àneu toù pràttein, mékri toù léghein” (that means: apart from practice, as far as words). There is also another more vehement expression that Epictetus was accustomed to use and that Arrian has recorded in the books he wrote gathering the ‘Discourses’ of his teacher. When Epictetus realized, Arrian says, that a person who had lost his self respect, who spent his energies in a disorderly life, who had depraved habits, who was bold, impudent in speech and concerned with everything but his mind, well, he says, when he saw such kind of person handling the philosophical works and disciplines, undertaking physics, studying dialectic and trying to know and inquire many principles of this order of studies, then he called as witness god and men’s faithfulness and often shouting he would tell off the fellow with these words: “O man, and where do you throw this stuff? Analyse first whether the container has been cleaned. For if you throw it where there is conceit, it is lost. And if it rots away it becomes urine or vinegar or something worse than these things”. There are certainly no words weightier nor truer than these, with which the greatest the of philosophers declared that philosophical literature and doctrines, when poured in a false and depraved fellow, like in a dirty and defiled container, turn, change, are spoiled and, as he said more cynically, become urine or something dirtier than urine. The same Epictetus, as I heard from Favorinus, used to say that there are two vices far more severe and disgusting than all others, that is intolerance and intemperance. Intolerance, when we are unable to tolerate or bear with offences that we must bear with; intemperance, when we are unable to restrain ourselves from the things and pleasures from which we must restrain. “Therefore”, he said, “if one would take to heart these two words and would worry about making them his own regulating and governing principles, then he would never make mistakes and would live a very peaceful life”. These were the two words that he said: “anékou” and “apékou”

XI

Stobaeus “Eclogae” 4, 33, 28.
From the hortatory conversations of Arrian.

Yet Socrates, when Archelaus sent for him with the promise of making him wealthy in money, summoned to announce to him that “At Athens four choenixes of barley-meal can be purchased with an obol and there are springs of running water”. For even if what I have is not sufficient, I am sufficient for it and in this way it too is sufficient for me. Or don’t you see that Polus did not play the part of Oedipus the Tyrant with a better and more pleasant voice than the Oedipus, wanderer and beggar, at Colonus? And then will the generous man show himself worse than Polus, and not play well any part with which his gene clothes him? And will he not imitate Odysseus, who stood out no less in rags than in a woolly purple wrapper?

XII

Stobaeus “Eclogae” 3, 20, 47.
From Arrian.

There are great-hearted people who perform, with a quiet meekness and as without anger, what those vehemently drifted by wrath do. We must be on our guard, then, against their oversight, because it is much worse of the furious anger of the others. For these are quickly sated with revenge, while the first prolong it like those who have a slight persistent fever.

XIII

Stobaeus “Eclogae” 1, 3, 50.
From the Memoirs of Epictetus.

But I see, someone says, also the virtuous men perishing from hunger and shivers- 
And don’t you see those who are not virtuous perishing from effeminacy, brag, ignorance of the beautiful? 
-But it’s a shameful thing to be fed by another!- 
And which other thing, O unhappy fellow, feeds by itself except the World? Therefore whoever brings charges to Matter Immortal’s mind because knavish people do not pay the penalty and because they are strong and wealthy in money, does something similar as he said that, once they have lost their eyes, they nevertheless have not paid the penalty because their finger-nails are sound. And I say that there is much more difference between virtue and estate than between eyes and finger-nails.

XIV

Stobaeus “Eclogae” 3, 6, 57.
From the Memoirs of Epictetus.

and bring forward those ill-tempered philosophers who think pleasure not to be in accord with nature but to supervene to things in accord with nature, as justice, temperance, freedom. Why, then, does the soul rejoice and find peace through the body’s goods, that are smaller, as Epicurus says, while it does not delight in its own goods, that are the greatest? Yet nature has given me self respect and many times I blush, when I conceive something shameful to say. This motion does not allow me to set physical pleasure as good and end of life.

XV

Stobaeus “Eclogae” 3, 6, 58.
From the Memoirs of Epictetus.

At Rome the ladies have in their hands the “Republic” of Plato, because it would urge the ladies to be common. They are paying attention to the phrases, not to the intellect of the philosopher; because he does not summon to marry and dwell together one male with one female, and then decides the ladies to be common, but eradicates such a marriage and brings in another form of it. Generally the human beings rejoice in providing defenses for their aberrations. Since philosophy says that it does not befit to stretch out at random not even the finger!

XVI

Stobaeus “Eclogae” 3, 29, 84.
From the Memoirs of Epictetus.

It is compulsory to know that a judgement does not become easily present to a person unless he should every day say and hear the same judgements and at the same time use them for life.

XVII

Stobaeus “Eclogae” 3, 4, 91.
From Epictetus.

When, then, we are invited to a banquet, we use what is present. If one would summon his host to place beside him fish or cakes, he would be regarded as eccentric. Yet in the World we ask the gods for what they don’t give, even if there are many things that they have actually given us.

XVIII

Stobaeus “Eclogae” 3, 4, 92.
From the same.

They are amusing, he said, those who have high thoughts about what is not in our exclusive power! “I” one says, “am better than you because I have many lands, while you are tormented by hunger”. Another says: “I am of consular rank”. Another: “I am a procurator”. Another: “I have woolly hair”. Yet a horse does not say to another horse: “I am better than you because I have plenty of fodder and of barley, my bits are golden and my saddlecloths are multicoloured”, but it says “I run faster than you”. And every creature is better or worse according to its own virtue or vice. Only for the human being, then, there is no virtue and we must have in view the hair and the robes and the grandfathers?

XIX

Stobaeus “Eclogae” 3, 4, 93.
From the same.

The patients take offence with the physician who advises nothing to them and believe to be despaired by him. And why should not one be disposed in like manner towards the philosopher, so as to think to be despaired by him with regard to temperance, if he would tell one nothing profitable?

XX

Stobaeus “Eclogae” 3, 4, 94.
From the same.

Those whose body is well disposed abide patiently burning heat and cold weather. So also those whose mind is virtuously disposed abide patiently anger, grief, great joy and the other passions.

XXI

Stobaeus “Eclogae” 3, 7, 16.
From Epictetus.

For this reason it is right to praise Agrippinus, because, although being a man of the greatest value, he never praised himself but, if someone else praised him, he blushed. This was such a man, Epictetus said, as to always write a praise of the difficulty that occurred to him. If he had a fever, of the fever; if he had ill reputation, of ill reputation; if he went into exile, of exile. And once, he said, while he was going to lunch, someone stood by his side and told that Nero summoned him to go into exile. “Well”, he said, “then we shall lunch at Aricia!”

XXII

Stobaeus “Eclogae” 4, 7, 44.
From Agrippinus.

When Agrippinus was governor, he used to try to persuade those who were sentenced by him that it befitted them to be sentenced. For, he said, I do not cast down the pebble against them as against enemies or robbers, but as a curator and tutor; as also the physician consoles the one who needs surgery and persuades him to submit to the operation.

XXIII

Stobaeus “Eclogae” 4, 53, 29.
From Epictetus.

Amazing is nature and, as Xenophon says, fond of her creatures. At all events we cherish and look after our body, the thing most unpleasant and filthy of all. For if, for five days only, we had to look after the body of our neighbour, we would have submit to this. Just see what sort of thing is to set up in the morning and brush another’s teeth; then, after doing something necessary, to wash clean those parts. It’s indeed amazing to have a predilection for a thing for which we perform so many services every day. I stuff this sack and then I evacuate: what is heavier than this? But I must do service to Matter Immortal. For this reason I remain and I tolerate to bathe this shabby body, to fodder it, to shelter it. When I was younger, it enjoined me also something else and yet I tolerated it. When nature, that gave us the body, takes it off why, then, don’t you tolerate it? 
-I love it- someone says
But, as I was saying now, is it not nature that has given you also this very love? And nature says: “Give it up by now and have no more troubles”.

XXIV

Stobaeus “Eclogae” 4, 53, 30.
From the same.

If one ends his life when young, he brings charges to the gods… [because he is carried off before his time. If, when old, one is slow in dying, also in this case he brings charges to the gods…] because, being for him by now time to rest, he has troubles. Nonetheless, when he approaches death, he decides to live and sends for the physician and entreats him to leave behind neither zeal nor diligence. Amazing, he said, are the human beings who want neither live nor die.

XXV

Stobaeus “Eclogae” 3, 20, 67.
From Epictetus.

When you assault anyone with a threatening vehemence, remember to foretell yourself that you are a tame creature; and having done nothing wild, you will go through life unrepentant and free from liability.

XXVI

Marcus Aurelius 4, 41.

You are a little soul that bears a corpse, as Epictetus used to say.

XXVII

Marcus Aurelius 11, 37.

We must, he said, find an art about assenting and, in the topic of impulses, we must guard to keep attention, that they may be with reservations, sociable and as it’s worth. And we must abstain altogether from desire and use aversion towards nothing of what is not in our exclusive power.

XXVIII

Marcus Aurelius 11, 38.

The contest, then, is not on what we chance upon, he said, but on being mad or not mad.

XXVIIIa

Marcus Aurelius 11, 39.

Socrates used to say: “What do you decide? To have the soul of rational creatures or of creatures lacking reason?” “Of rational ones”. “And which kind of rational creatures? Sound or insipient ones?” “Sound”. “Why, then, don’t you look for that?” “Because we have it”. “Why, then, do you struggle and quarrel?”

XXVIIIb

Marcus Aurelius 4, 49, 2-6.

Misfortuned me, because this occurred to me!” Say not so, but: “Fortunate that I am, because, although this has occurred to me, I continue to be able to control grief, being neither shattered by the present nor in fear of whatever will come”. For something of this sort could occur to anyone, but not everyone would have continued to be able to control grief. Why, then, is that one a misfortune rather than this one a fortune? Generally do you call misfortune of a man what is not a failure of man’s nature? And do you think a failure of man’s nature what is not against the plan of his nature? What then? You have learned the plan of man’s nature. Does what has occurred prevent you to be just, magnanimous, temperate, judicious, not precipitate, not deceitful, self respecting, free and the other things thanks to the presence of which man’s nature has what is peculiar to it? Well then, in the face of anything that promotes you to a grief, remember to use this judgements: “Not that this is a misfortune but that to bear generously with it is a good fortune”.

EPICTETUS – DOUBTFUL AND SPURIOUS FRAGMENTS

XXIX

Stobaeus “Eclogae” 3, 35, 10.
From the Manual of Epictetus.

In every circumstance mind of nothing as of safety; for to keep silent is safer than to speak. And do not allow yourself to say what will be crazy and full of censure.

XXX

Stobaeus “Eclogae” 4, 46, 22.
From Epictetus.

We ought neither anchor the ship to one anchor only, nor our life to one hope only.

XXXI

Stobaeus “Eclogae” 4, 46, 23.
From the same.

Both with our legs and with our hopes we must cross over what we can.

XXXII

Stobaeus “Eclogae” 4, 46, 23.
From Epictetus.

It is more necessary to heal the soul than the body, for it’s better to die than to live viciously.

XXXIII

Stobaeus “Eclogae” 3, 6, 59.
Democritus, Fragment 232 Diels.

Of the pleasures, the rarest ones gladden to the highest degree.

XXXIV

Stobaeus “Eclogae” 3, 6, 60.
Democritus, Fragment 233 Diels.

If a man should overpass the moderation, the more delicious things would become the less attractive.

XXXV

Florilegium, Cod. Paris. 1168

No man is free if he is not the master of himself.

XXXVI

Antonius Diogenes 1, 21.

The truth is an immortal and everlasting stuff, that provides us neither with a prettiness that withers with time nor with a freedom of word that can be subtracted by a lawsuit, but with what is just and lawful, distinguishing it from what is unjust and refuting it.