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Isocrate – Areopagitico

Nel 355 a.C. terminò con la sconfitta di Atene la deplorevole guerra che essa combatteva ormai da circa due anni contro Chio, Cos, Rodi e Bisanzio, ossia contro alcuni dei suoi stessi più potenti alleati, dei quali fu quindi costretta a riconoscere l’indipendenza. Nonostante la sconfitta, con la pace si diffuse ad Atene un generale senso di sollievo e di falsa sicurezza. Questo è il momento che parve opportuno ad Isocrate per indirizzare agli Ateniesi un’Orazione sulla salvezza dello Stato. Se è vero, afferma in essa Isocrate, che la forza di uno Stato non consiste nelle mura che lo circondano e nelle armi di cui dispone, bensì nella qualità dei suoi cittadini; allora Atene è ben lontana dall’essere sicura com’era duecentotrenta anni prima, ai tempi d’oro della democrazia di Solone e di Clistene, quando la suprema autorità dello Stato era rappresentata dal Consiglio dell’Areopago. Ed è l’autorità di questa istituzione che va ristabilita, se Atene intende allontanarsi dai mali di cui soffre ed essere nuovamente la salvezza non soltanto di se stessa ma di tutti i Greci. 

Traduzione
di
Franco Scalenghe

Traduzione
di
Giacomo Leopardi

Credo che molti di voi si domandino meravigliati in base a quale convinzione io abbia chiesto di intervenire in assemblea per parlarvi della salvezza dello Stato: come se lo Stato stesse correndo dei pericoli o il suo attuale governo fosse malsicuro; quando invece esso possiede più di duecento triremi, il suo territorio è in pace, comanda sul mare, e poi ha molti alleati pronti a venirgli in aiuto in caso di bisogno e molti di più che pagano i contributi dovuti e fanno quanto viene loro ordinato. Questi essendo i fatti, verosimilmente uno direbbe a noi di stare tranquilli, visto che siamo ben lontani dai pericoli; e direbbe invece ai nostri nemici che devono essere loro ad avere timore e a prendere delle decisioni circa la propria salvezza. Io so dunque che voi, usando questo ragionamento, sghignazzate del mio intervento qui e sperate di poter dominare tutta la Grecia con la potenza militare di cui disponete. Ma sono proprio queste valutazioni la causa del mio timore, giacché vedo che gli Stati i quali credono di godere ottima fortuna sono quelli che prendono le decisioni politiche peggiori, e quelli che si sentono più sicuri si trovano esposti al maggior numero di pericoli. Causa di ciò è che nessun bene e nessun male sopravviene agli uomini da sé solo, ma alla ricchezza e al potere assoluto sono state congiunte e conseguono la stolidezza e con essa l’impudenza; mentre alla mancanza di mezzi e alla bassa condizione, la temperanza e una grande misuratezza; sicché è arduo vagliare quale delle due parti si accetterebbe di lasciare in eredità ai propri figli. Noi infatti vedremmo che dalla condizione che sembra essere la peggiore, le imprese civili e militari progrediscono il più delle volte al meglio; mentre da quella che appare la migliore, esse solitamente precipitano verso il peggio. Di ciò posso portare moltissimi esempi tratti da vicende private, giacché queste vanno incontro a frequentissimi rovesci di fortuna; e nondimeno ben più grandi e più chiaramente noti a chi mi ascolta sono gli esempi che si possono trarre dalle vicissitudini accadute a noi e ai Lacedemoni. Infatti noi Ateniesi, dopo che la nostra città era stata ridotta in rovine dai barbari, poiché eravamo timorosi di sbagliare e dedicavamo ogni attenzione agli affari di governo, giungemmo a primeggiare tra i Greci. Successivamente, poiché credemmo di possedere una schiacciante superiorità militare, per poco non fummo ridotti in schiavitù. A loro volta i Lacedemoni, mossisi anticamente da cittaduzze insignificanti e miserabili, poiché scelsero un regime di vita guidato dalla temperanza e dalla disciplina militare, ottennero il controllo del Peloponneso. Dopodiché, messisi in capo progetti più grandi del dovuto e raggiunta la completa supremazia militare sia per terra che per mare, si trovarono esposti agli stessi pericoli conosciuti da noi. 

Pertanto chiunque ha piena fiducia nel presente stato di cose, pur conoscendo i tantissimi rovesci di fortuna avvenuti e che forze militari enormi sono state sbriciolate così rapidamente, è persona assai dissennata; specialmente perché il nostro Stato si trova oggi in una condizione di molto maggiore debolezza rispetto a quei tempi, e perché l’odio verso di noi degli altri Greci e l’inimicizia da parte del gran Re, che allora ci portarono ad una rovinosa sconfitta, si sono nuovamente riaccesi. A questo punto io sono incerto su quale concepire delle due: o non vi importa nulla delle questioni politiche; oppure ve ne preoccupate, ma siete giunti ad un punto tale di insensibilità che vi sfugge del tutto il grado di sconquasso al quale è ridotto lo Stato. A me, infatti, voi sembrate uomini disposti in quest’ultimo modo, visto che siete coloro i quali hanno perduto il controllo di tutte le città della Tracia, coloro che hanno speso vanamente più di mille talenti per arruolare truppe mercenarie, coloro che hanno provocato discredito e calunnie contro di noi tra i Greci e ci hanno fatto diventare nemici dei barbari; e, se ciò non bastasse, coloro che ci hanno costretto a salvare gli amici dei Tebani e fatto perdere i nostri propri alleati. E per queste belle imprese noi abbiamo già due volte offerto sacrifici agli dei come per delle buone notizie, e ci raduniamo adesso in assemblea per discuterne con un distacco e una tranquillità superiore a quella di chi stia eseguendo tutto ciò che deve. 

Ed è naturale che noi subiamo le conseguenze di quel che facciamo, giacché è impossibile che le cose vadano per il verso giusto a quanti non hanno ben deliberato sulla forma di governo dello Stato nel suo complesso. Infatti, se pure essi ottenessero buoni successi in certe imprese civili e militari, o per fortuna o grazie alla virtù di un uomo solo, passato un po’ di tempo si troverebbero di nuovo nelle stesse incertezze e difficoltà: come si potrebbe riconoscere dai fatti accaduti a noi stessi. Quando tutta la Grecia era caduta in nostro potere, dopo la vittoriosa battaglia navale di Conone e la campagna delle forze di terra comandate da Timoteo, noi non fummo capaci, neppure per breve tempo, di tenerci stretti quei fortunati successi, ma li sfregiammo e li dissolvemmo, poiché non abbiamo né ricerchiamo seriamente quella forma di Stato che sarebbe capace di gestire rettamente gli affari di governo. Eppure noi tutti sappiamo che i buoni successi sono duraturi ed arridono non a quanti si sono circondati delle mura più belle e più grandiose, né a quanti si sono raccolti con il maggior numero di uomini nel medesimo luogo, ma a coloro che meglio e più saggiamente governano il proprio Stato. L’animo di una città, infatti, altro non è che la sua forma Statuale, la quale ha tanto potere quanto ne ha la mente in un corpo. È infatti la mente che delibera su tutto, che ci fa preservare i beni e rifuggire le sventure. Ed è necessario che alla forma dello Stato si conformino le leggi, coloro che parlano in pubblico e i privati cittadini; e che così faccia ciascuno, quale appunto sarà lo Stato che avrà. Noi però non ci preoccupiamo affatto se la forma dello Stato è pervertita e guasta, e non prendiamo in considerazione il modo in cui la si potrebbe rettificare. Stando invece seduti davanti alle botteghe, lanciamo accuse contro la Costituzione vigente e diciamo che, quali cittadini, in democrazia non abbiamo mai vissuto peggio; ma nei fatti e nei pensieri abbiamo questa più cara di quella che ci lasciarono i nostri avi. È proprio sulla forma dello Stato che io intendo discutere e che mi sono iscritto per intervenire in assemblea. 

Se vorremo infatti tenerci lontani dai pericoli futuri ed allontanarci dai mali presenti, io trovo che l’unica via possibile sia questa: ristabilire quella democrazia di cui Solone, il personaggio più favorevole al popolo che sia esistito, dettò le leggi e che Clistene, lo scacciatore dei tiranni e l’uomo che ridiede il potere al popolo, restaurò dalle fondamenta. Sarebbe impossibile trovare una forma di Stato più di questa favorevole al popolo ed utile alla città; e di ciò è prova grandissima il constatare che quanti utilizzarono la democrazia, dopo avere effettuato molte e magnifiche imprese ed avere ottenuto il plauso di tutti gli uomini, presero il comando dei Greci con il deliberato consenso degli stessi; mentre coloro che desiderarono la forma di Stato che noi abbiamo adesso, odiati da tutti e dopo avere subito molte e terribili traversie, per poco non caddero nelle sventure più estreme. Come si può lodare questa forma di Stato e mostrare apprezzamento per quella che è stata in passato causa di mali così grandi, e che adesso ci porta verso il peggio anno dopo anno? Come si può non avere timore che avvenendo un siffatto continuo peggioramento, non si finisca da ultimo per sbattere contro vicende ancor più dure di quelle di allora? Ma affinché voi possiate fare una scelta e prendere una determinazione tra una forma di Stato e l’altra, non dopo avere ascoltato un’esposizione sommaria ma con conoscenza esatta del problema, è compito vostro quello di fare molta attenzione alle mie parole, mentre io proverò a discorrere per voi il più concisamente possibile circa entrambe le forme di Stato. 

Coloro che a quel tempo governarono la città, istituirono dunque una forma di Stato non nominalmente designato imparzialissimo e moderatissimo ma che nelle sue imprese civili e militari non appariva affatto tale a coloro cui capitava di farne parte, né una forma di Stato che educava i cittadini in modo tale che ritenessero l’impudenza essere la democrazia, l’illegalità la libertà, il linguaggio sfrontato la parità di diritti, e la potestà di fare tutto ciò la felicità; ma una forma di Stato che odiando e castigando siffatti comportamenti, rese tutti i cittadini migliori e più saggi. Ora, ciò che contribuì grandissimamente alla loro buona amministrazione dello Stato fu questo: dei due tipi di eguaglianza ritenuti esistenti -quello che assegna a tutti nella stessa misura, e quello che assegna a ciascuno ciò che gli spetta- essi non ignoravano quale fosse il tipo più proficuo, e quindi rifiutarono come ingiusta quell’eguaglianza che ritiene gli uomini probi e quelli malvagi degni del medesimo trattamento; prescelsero invece il tipo di eguaglianza che onora e castiga ciascuno secondo il merito, e di questo servendosi amministrarono lo Stato; senza quindi affidare gli impieghi Statali per estrazione a sorte tra tutti i cittadini, ma selezionando per ciascun ufficio i cittadini migliori e i più idonei, giacché speravano che anche gli altri avrebbero acquisito il carattere di quelli preposti agli affari di governo. Inoltre essi ritenevano che questa condizione fosse più favorevole al popolo di quella che derivava dall’estrazione a sorte, giacché in quest’ultima l’arbitro è la fortuna, e spesso le cariche vanno a coloro che desiderano assai uno Stato oligarchico; mentre con la selezione preventiva dei più capaci, il popolo è padrone di scegliere coloro che hanno più cara la presente forma di Stato. 

Del gradimento di cui questo ordinamento godeva presso la maggioranza e che non ci fossero contese per gli impieghi Statali, era causa l’essere i cittadini avvezzi a lavorare ed a risparmiare; a non disinteressarsi della roba propria per tendere invece insidie a quella altrui; a non provvedere alle proprie finanze con i fondi pubblici, anzi, se ci fosse stato bisogno, a sovvenire alle necessità comuni con i fondi propri di ciascuno; a non conoscere le entrate derivanti dagli impieghi Statali meglio e più esattamente di quelle rivenienti loro dal proprio autonomo lavoro. Essi si astenevano poi con tale puntiglio dall’uso dei fondi dello Stato, che a quel tempo trovare gente vogliosa di ricoprire posti di comando era più arduo di quanto sia ora trovare qualcuno che non ne faccia richiesta. Si riteneva, infatti, che il prendersi cura degli affari pubblici fosse non un commercio bensì un servizio reso alla comunità, e coloro che entravano in servizio non cercavano di scoprire fin dal primo giorno se quanti avevano avuto quell’incarico in precedenza avessero lasciato a portata di mano una qualche fonte di guadagno, ma piuttosto se avevano trascurato qualche affare di governo che richiedeva di essere sbrigato urgentemente. Per dirla in breve, quei nostri avi si erano resi conto che il popolo, quale sovrano dotato di potere assoluto, deve attribuire le cariche di comando, stabilire le pene per i delinquenti, procedere alle opportune determinazioni nei casi controversi; mentre quanti ne hanno tempo ed agio e possiedono adeguati mezzi di sussistenza debbono prendersi cura dei pubblici affari quali servitori del popolo, essere lodati se sono stati giusti e mostrare apprezzamento per questo onore che viene loro fatto; mentre se hanno governato male non devono ottenere alcun perdono, ma anzi incappare nelle massime punizioni. Come si potrebbe trovare una democrazia più salda e più giusta di questa, la quale incarica delle imprese civili e militari i cittadini più capaci e di questi medesimi fa sovrano assoluto il popolo? 

Siffatto era dunque per loro l’ordinamento costituzionale dello Stato, e da ciò si evince facilmente che giorno dopo giorno essi sbrigavano le normali faccende quotidiane rettamente e nel pieno rispetto della legge, giacché è necessario che coloro i quali hanno posto solide fondamenta alla condotta degli affari di governo nel loro insieme, anche nei particolari si comportino poi allo stesso modo. In primo luogo parliamo allora del culto degli Dei, giacché è giusto cominciare di qui. In proposito, quei nostri avi onoravano gli Dei e ne celebravano i riti in modo né irregolare né disordinato; qualora così paresse loro, non mandavano al sacrificio trecento buoi né capitava che tralasciassero di fare i sacrifici istituiti dai loro padri; non celebravano con enorme sfarzo le festività importate da paesi stranieri ed alle quali fosse associato un banchetto, mentre intanto, invece, nei più sacri dei templi offrivano sacrifici a prezzi pattuiti. A loro interessava serbare intatta una cosa soltanto: ossia non disciogliersi in nulla dai patrii costumi, né introdurre riti diversi da quelli legittimati dalla tradizione, giacché ritenevano che la pietà non consiste nello sperperare risorse ma nel nulla alterare dei riti loro tramandati dagli avi. Così operando, gli Dei dispensavano loro le stagioni non irregolarmente né a capriccio, bensì al momento opportuno tanto per lavorare la terra quanto per raccoglierne i frutti. 

Similare a quello verso gli Dei era il modo che essi avevano di governare i loro rapporti reciproci. Essi, infatti, andavano d’accordo non soltanto sulle questioni politiche, ma anche nella vita privata manifestavano gli uni per gli altri una previdenza tanto grande quanta è quella che s’addice ad uomini assennati ed a compatrioti. I cittadini più poveri, infatti, si astenevano a tal punto dal provare invidia per i più possidenti, che avevano a cuore le fortune delle grandi casate come fossero le loro proprie, ritenendo che il benessere di quelle significava la prosperità per loro. A loro volta, i possessori di molte sostanze non guardavano dall’alto in basso i più indigenti, e poiché concepivano essere per loro una vergogna il difetto di mezzi di sussistenza dei cittadini, venivano in soccorso ai loro bisogni e davano ad alcuni un terreno da coltivare per un affitto ragionevole, altri li inviavano all’estero per commerciare e ad altri ancora fornivano le risorse per attività diverse. Essi, poi, non avevano il timore di andare incontro ad uno di questi due inconvenienti: la perdita di tutto il denaro investito oppure, dopo molto brigare, il recupero soltanto parziale di quello anticipato; ché anzi essi nutrivano per il denaro dato in prestito la stessa sicura fiducia che avevano per quello che tenevano in casa. Essi vedevano infatti che i giudici incaricati di far rispettare i contratti non indulgevano a criteri soggettivi di equità, ma ubbidivano strettamente alle leggi; che essi, emettendo sentenze nelle cause altrui, non procacciavano a se stessi la potestà di operare poi ingiustamente, ma anzi che infierivano contro i debitori morosi più severamente di quanto richiesto dalle stesse persone offese; che essi ritenevano che quanti non onoravano i contratti sottoscritti recassero maggior danno ai cittadini poveri che a quelli facoltosi in quanto questi ultimi, se avessero cessato di prestare denaro si sarebbero privati di modesti introiti, mentre i poveri, se fossero venuti a mancare quanti li sovvenivano, sarebbero stati ridotti alla più estrema indigenza. A causa di questa convinzione, nessuno teneva celate le proprie sostanze né si peritava di prestare del denaro, e tutti vedevano chi chiedeva dei prestiti con maggior piacere di chi li restituiva. Ai cittadini facoltosi accadevano dunque entrambe le cose che gli uomini di mente sana vorrebbero: essi giovavano ai propri cittadini e contemporaneamente rendevano produttivo il proprio denaro. Il risultato capitale della loro ottima convivenza reciproca era quindi il seguente: la proprietà del patrimonio era sicura e garantita per coloro che ne avevano il legittimo possesso, mentre l’utilizzazione di queste risorse era comune ed aperta a tutti i cittadini che ne avessero bisogno. 

A questo riguardo, qualcuno potrebbe forse rimproverarmi perché lodo il corso delle cose come avvenivano a quei tempi, ma non mi esprimo sulle cause per cui i nostri avi regolavano così bene le relazioni tra di loro e altrettanto bene governavano lo Stato. Io credo di avere già detto qualcosa in proposito, e nondimeno proverò a discorrere ulteriormente e più chiaramente su di esse. Poiché gli Ateniesi di allora avevano la potestà di fare quel che volevano soltanto dopo essere stati esaminati ed ammessi tra gli uomini, non erano molte le persone che avevano cura di loro e li sorvegliavano negli anni della fanciullezza; sicché essi erano oggetto di attenzione e di controllo ben maggiore quand’erano nel pieno del loro vigore rispetto a quand’erano fanciulli. I nostri avi, infatti, ponevano un’enfasi così forte sulla temperanza del vivere che istituirono il Consiglio dell’Areopago affinché esso si prendesse cura del buoncostume dei cittadini. Dell’Areopago non potevano far parte che cittadini di nascita nobile e che avevano dimostrato grande eccellenza e sobrietà di vita; sicché, com’era verosimile accadesse, questo Consiglio si differenziò da tutte le altre assemblee della Grecia. Quale segnale dei costumi allora vigenti si potrebbe utilizzare anche ciò che avviene al presente. Ancora oggi, infatti, benché siano state dismesse tutte le regole circa la scelta e l’esame dei suoi membri, noi potremmo vedere che coloro i quali hanno in altre faccende dei modi di fare intollerabili, qualora salgano all’Areopago si peritano di indulgere alla loro natura e si attengono agli usi colà tradizionali piuttosto che dare sfogo alla propria viziosità. Tanto grande è la paura che i membri dell’Areopago ispiravano alle persone depravate, e così profondo è il ricordo che essi lasciarono in quel luogo della loro eccellenza di vita e della loro temperanza. 

I nostri avi, come dicevo, fecero dell’Areopago la suprema autorità in fatto di buona condotta dei cittadini. Questo Consiglio riteneva che siano ignoranti quanti credono che gli uomini sono migliori in quegli Stati nei quali le prescrizioni della legge sono espresse con la massima esattezza; giacché, in questo caso, nulla impedirebbe che i Greci avessero tutti leggi conformi, vista la facilità di prendere i testi di legge gli uni degli altri. Riteneva inoltre che lo sviluppo dell’eccellenza morale non sia elargito dalle leggi ben scritte, ma che promana dall’applicazione quotidiana della virtù, giacché la maggior parte degli uomini riesce conforme al costume morale al quale ciascuno di essi è stato educato. Di poi, che la pletora delle leggi e la loro minuziosità siano segnali che uno Stato è abitato da pessimi cittadini, giacché per fare argine ai crimini i suoi governanti sono costretti ad emanare molte leggi. Che quanti vivono da buoni cittadini non abbisognano di portici ripieni di leggi scritte, ma che hanno ‘il giusto’ scolpito nell’animo, giacché gli Stati sono ben governati non dalle votazioni ma dai costumi morali; e che gli uomini allevati male hanno l’audacia di trasgredire anche le leggi accuratamente scritte, mentre quanti sono stati bene educati vorranno attenersi anche a quelle buttate giù alla buona. Riflettendo su ciò, i membri dell’Areopago non presero per prima cosa in considerazione quali strumenti usare per castigare i cittadini che si comportavano male, ma di quali mezzi dotarsi per fare sì che essi non commettessero alcun crimine degno di pena; poiché ritenevano che questa fosse l’opera loro spettante, mentre il darsi da fare per ottenere la punizione del colpevole era affare dei nemici personali di quest’ultimo. 

Pertanto si preoccupavano di tutti i cittadini e soprattutto dei più giovani, giacché vedevano che gli individui di tale età sono preda di un turbine di passioni, traboccano di moltissime smanie e i loro animi hanno bisogno d’essere domati attraverso l’impegno in mestieri onorati e in fatiche gratificanti. Infatti, è soltanto a queste occupazioni che possono dedicarsi quanti sono stati nutriti alla libertà e sono abituati a pensare in grande. Non era però possibile indirizzare tutti alle medesime occupazioni, poiché l’esistenza di ciascuno trascorreva in condizioni di vita ben diverse. Essi allora disposero che ciascuno svolgesse un’attività acconcia alle sostanze di cui disponeva. Così indirizzarono all’agricoltura e al commercio quanti erano più scarsi di mezzi, sapendo che il difetto di mezzi di sussistenza nasce dall’inazione, e i crimini dal difetto di mezzi di sussistenza. Levando di mezzo la radice dei vizi, essi credevano così di tenere lontani i cittadini dagli altri crimini che nascono da quella radice. Essi impegnarono poi quanti possedevano sufficienti mezzi per vivere a praticare l’equitazione, la ginnastica, la caccia e la filosofia, vedendo che in queste attività alcuni riescono a distinguersi e ad eccellere, mentre altri si astengono così dalla maggior parte dei vizi. 

Una volta stabilite queste leggi, per il tempo restante essi non si abbandonarono al menefreghismo; anzi, dopo avere suddiviso la città in quartieri e il contado in demi, osservavano e giudicavano la vita di ciascun cittadino e portavano quelli scostumati davanti al Consiglio dell’Areopago, il quale ne richiamava verbalmente alla ragione alcuni, altri li minacciava, e altri ancora li castigava come conveniva. Essi, infatti, sapevano bene che sono solo due le modalità che incentivano gli uomini all’ingiustizia e altrettante quelle che li fanno cessare d’essere malvagi; giacché negli Stati in cui non è istituito il carcere per le azioni delittuose e non si fanno giusti processi, anche le nature di per sé buone tendono a guastarsi; mentre negli Stati in cui per gli ingiusti non è facile nascondersi né ottenere il perdono quando siano stati scoperti, qui le cattive abitudini tendono a svanire. Conoscendo queste modalità, essi tenevano i cittadini lontani dai crimini con entrambe, ossia tanto con punizioni esemplari che con una stretta vigilanza; e coloro che avevano commesso qualche crimine erano così lontani dal passare inosservati che essi si accorgevano in anticipo anche di coloro che avevano soltanto l’intenzione di compiere qualche malefatta. 

Pertanto i più giovani non passavano il tempo nelle bische o tra le suonatrici di flauto o con quel genere di compagnie con le quali adesso passano tutto il giorno, ma erano stabilmente impegnati nei mestieri ai quali erano stati assegnati, ammirando e cercando di emulare coloro che in essi primeggiavano. E rifuggivano talmente la piazza del Mercato che se qualche volta erano costretti ad attraversarla, mostravano di farlo con grande modestia e decenza. Replicare polemicamente alle persone più anziane o ingiuriarle, essi la reputavano una mancanza più terribile di quanto sia oggi ritenuto il mancare di rispetto ai propri genitori. Nessuno, neppure un domestico per bene, avrebbe poi avuto l’ardire di mangiare o bere in una bettola; giacché essi studiavano d’avere modi contegnosi, non di fare i buffoni; e le persone scurrili ed abili a motteggiare, che oggi chiamano spiritose, essi invece le ritenevano dei disgraziati. 

E nessuno creda che io sia maldisposto verso i giovani di quest’età, anzi sono consapevole che in grande maggioranza essi si rallegrano ben poco della situazione presente, in virtù della quale hanno la potestà di occupare il tempo in queste scostumatezze. Sicché, com’è verosimile, io non rimprovererei i giovani bensì, molto più giustamente, coloro che hanno governato lo Stato poco prima di noi. Sono stati costoro ad incentivare le giovani generazioni a questo menefreghismo e ad annullare il potere dell’Areopago; giacché quando a comandare era questo Consiglio, lo Stato non traboccava di processi, di querele, di imposte, di povertà e di guerre, ma i cittadini avevano tra di loro relazioni tranquille e convivevano in pace con tutti gli altri Stati. Gli Ateniesi, infatti, si mostravano leali con i Greci ed incutevano timore ai barbari, giacché erano stati i salvatori dei primi ed avevano punito così severamente i secondi, che questi avevano caro il semplice fatto di non subire da loro qualche altro male. Appunto perciò i nostri avi se la passavano in una sicurezza tale che le abitazioni e le masserizie situate nei campi erano più belle e di maggior valore di quelle situate entro le mura, e che molti cittadini non scendevano in città per le festività, ma preferivano rimanere tra i loro beni privati piuttosto che venire a godersi quelli pubblici. Anche in ciò che aveva a che fare con le processioni rituali, per prendere parte alle quali si veniva in città, essi procedevano senza stravaganze e senza fasto ma con buonsenso, giacché non valutavano il benessere cittadino dall’aspetto dei cortei, né dalle contese per superarsi l’un l’altro nella sontuosità dei cori o da altre siffatte cialtronerie, ma dal saper amministrare saggiamente la vita giorno dopo giorno e dal fatto che nessuno mancasse del necessario per vivere. Sono questi i segnali dai quali è opportuno giudicare se i cittadini vivono nel benessere e non come degli zotici. Poiché al giorno d’oggi quale persona benpensante non proverebbe dolore per come vanno le cose, qualora veda che molti cittadini Ateniesi davanti ai tribunali aspettano l’estrazione a sorte per sapere se avranno oppure non avranno il necessario per vivere, e però ritengono opportuno nutrire a proprie spese qualunque Greco voglia servire da rematore sulle navi da guerra di Atene; e qualora veda gente che partecipa ai cori vestita con manti dorati e però passa l’inverno in abiti di cui non voglio parlare; e qualora veda altri siffatte contraddizioni nel governo, le quali gettano un’enorme vergogna sullo Stato? Nessuna di queste cose accadeva quando a comandare era l’Areopago. Esso, infatti, allontanò i poveri dal difetto dei mezzi di sussistenza, dando loro dei lavori da fare e con il contributo dei cittadini possidenti; allontanò i più giovani dalle scostumatezze dando loro un mestiere e con la stretta vigilanza; allontanò i funzionari pubblici dallo spirito di soperchieria con punizioni esemplari e con la impossibilità per i colpevoli di passare inosservati; allontanò le persone più anziane dallo scoramento con onorificenze pubbliche e con l’assistenza dei più giovani. E invero come potrebbe nascere una forma di Stato più degna di questa, che si è presa cura così bene di tutte le faccende importanti? Abbiamo così discorso dello stato di allora della maggior parte delle cose, e da quanto ho riferito è facile capire che quelle di cui ho tralasciato di parlare stavano allo stesso modo. 

Ora, taluni che mi hanno sentito discorrere di questi fatti, ne hanno tessuto lodi sperticate ed hanno definito beati quei nostri avi per avere governato lo Stato a questo modo; e però hanno creduto che voi non vi convincerete mai a servirvi di un governo simile, ma che per consuetudine sceglierete di soffrire tutti i mali legati ai governi presenti piuttosto che condurre una vita migliore entro una forma di Stato più perfetta. E mi dissero anche che correvo il pericolo, consigliandovi per il meglio, di apparire come un odioso nemico del popolo e di cercare di gettare lo Stato nelle braccia di un governo oligarchico. Ora, se io stessi ragionando di un governo sconosciuto e non democratico, ed a questo riguardo vi stessi incitando ad eleggere i membri di una Costituente o quelli di un comitato ristretto per la sua costituzione, che è la via attraverso la quale la forma democratica dello Stato fu disciolta in precedenza, verosimilmente mi meriterei questa accusa. Io però non ho affatto detto una cosa del genere, ma ho discusso di un governo non occulto ai più bensì di uno a tutti palese, uno che tutti voi conoscete, che fu quello dei nostri avi, un governo che divenne causa di moltissimi beni sia per noi Ateniesi che per gli altri Greci, e le cui leggi, inoltre, furono stabilite e che fu istituito da uomini di levatura tale che non esiste persona al mondo la quale non ammetta essere stati quelli i cittadini in assoluto più amici del popolo. Sicché a me accadrebbe la cosa più strabiliante di tutte se, raccomandando l’introduzione di una siffatta forma di Stato, fossi reputato smaniare per la installazione di un governo rivoluzionario. Quale poi sia il mio pensiero è facile riconoscerlo anche da questo: dall’esame dei moltissimi discorsi che ho pronunciato risulterà infatti chiaro che io rimprovero i governi oligarchici e le soperchierie, e invece lodo l’eguaglianza politica e i governi democratici; certo non tutti, ma quelli stabiliti come si deve, ossia non alla cieca bensì legalmente e razionalmente. Io so che i nostri avi si sono molto distinti dagli altri popoli per la loro Costituzione, e che a questo riguardo i Lacedemoni sono oggi splendidamente governati perché si trovano a vivere in uno Stato democratico. Infatti, nella scelta dei magistrati, nella vita di ogni giorno e nelle altre occupazioni noi potremmo constatare che presso di essi vigono eguaglianza politica e rappresentatività più che tra tutti gli altri popoli; pratiche contro le quali i governi oligarchici combattono mentre quelli democratici le utilizzano costantemente. Ora, se vorremo indagare bene la faccenda, troveremo che i governi democratici sono quelli che più e meglio dei governi oligarchici si rivelano utili ai più noti e più grandi tra gli Stati; ed anche la nostra attuale forma di Stato, quella che tutti criticano, se la paragoniamo non a quella dei nostri avi della quale ho parlato, ma a quella istituita dai Trenta, non c’è persona al mondo che non la legittimerebbe come una creazione divina. Perciò, anche se alcuni affermeranno che vado fuori dal seminato, io voglio adesso mostrare e discorrere di quanto differisca lo Stato di oggi da quello dei Trenta, affinché nessuno creda che io vado indagando con troppa precisione tutti gli errori della democrazia e invece, se essa ha realizzato qualcosa di buono e di importante, questo lo trascuro bellamente. Il discorso non sarà lungo né senza giovamento per chi mi ascolta. 

Perdute dunque che avemmo le nostre navi da guerra in Ellesponto e incappato lo Stato in quei disastri che ne conseguirono, quale dei cittadini oggi più anziani non sa che i cosiddetti ‘democratici’ erano pronti a sopportare qualunque sacrificio pur di non fare quanto ci era ingiunto dai vincitori, giacché ritenevano spaventoso che la città che aveva preso la testa di tutti i Greci fosse vista in ginocchio ai piedi di altri Greci; e che invece i fautori di un governo ‘oligarchico’ erano pronti ad abbattere anche le mura della città e a sopportare pure la schiavitù? Chi non sa che quando il popolo aveva il controllo degli affari di governo, noi avevamo delle nostre guarnigioni di stanza nelle acropoli delle altre città; e che invece, dopo la presa del governo da parte dei Trenta, furono i nemici a presidiare la nostra acropoli? Chi non sa che al tempo in cui i Lacedemoni erano padroni assoluti in casa nostra, i cittadini Ateniesi esiliati ritornarono ed ebbero l’audacia di combattere per la libertà e Conone vinse quella battaglia navale, vennero qui degli ambasciatori inviati dai Lacedemoni i quali offrirono ad Atene la signoria del mare? Quale dei miei coetanei non ricorda che il governo democratico adornò a tal punto la città con templi e con edifici pubblici, che ancora adesso i forestieri che giungono qui reputano Atene degna non soltanto di comandare su tutti i Greci ma anche su tutti gli altri popoli; mentre invece i Trenta lasciarono gli edifici pubblici in completo abbandono, spogliarono e saccheggiarono i templi e, affinché fossero demolite, vendettero le darsene del Pireo per tre talenti, quando per costruirle la città aveva speso non meno di mille talenti? E per certo nessuno potrebbe secondo giustizia lodare il governo dei Trenta per essere stato più moderato di quello democratico. Infatti i Trenta, quando presero per decreto il potere, fecero uccidere senza processo millecinquecento cittadini, e ne costrinsero più di altri cinquemila a rifugiarsi al Pireo. I democratici, invece, quando si impadronirono della città muovendo in armi contro i Trenta, levarono di mezzo soltanto i cittadini che avevano le maggiori responsabilità per le stragi avvenute, e governarono il resto così bene secondo la legge che coloro i quali avevano esiliato altri non ebbero meno di coloro che erano tornati dall’esilio. Ma la più nobile e più grande prova della bontà e ragionevolezza del popolo è la seguente. Per poter proseguire l’assedio di coloro che si erano rifugiati al Pireo, i cittadini rimasti in Atene avevano contratto con i Lacedemoni un prestito di cento talenti; e quando si poté riunire l’Assemblea generale del popolo per trattare della restituzione del denaro, molti sostennero che, secondo giustizia, a liquidare la somma ai Lacedemoni dovevano essere coloro che avevano contratto il prestito e non gli assediati: e però la decisione popolare fu che la restituzione fosse fatta in comune. Con questa intelligente deliberazione essi fecero nascere tra di noi una tale concordia e crescere a tal punto il prestigio dello Stato, che mentre ai tempi del governo oligarchico non passava quasi giorno senza che i Lacedemoni ci ingiungessero cosa fare, ai tempi del governo democratico essi venivano da noi per supplicarci e pregarci di non permettere che fossero cacciati fuori dalle loro case. Dunque, il punto capitale del programma politico degli uni e degli altri era questo: i fautori dell’oligarchia volevano comandare sui cittadini e ubbidire come schiavi ai nemici; i fautori della democrazia volevano comandare sugli altri Stati e avere la parità tra i cittadini. Ho discorso su questo argomento per due motivi. Il primo è che ho inteso dimostrare di desiderare né governi oligarchici né soperchierie, bensì una forma di Stato giusta e ben ordinata. Il secondo è che ho inteso dimostrare come le democrazie, pur se mal costituite, siano causa di un minor numero di disastri rispetto a quelli causati dalle oligarchie; e come le democrazie ben governate siano ancora superiori, in quanto più giuste, più imparziali e più accettabili per quanti vivono in esse. 

Probabilmente qualcuno potrebbe chiedersi meravigliato cosa voglio quando, al posto di una forma di Stato che ha effettuato tante e così belle cose, cerco di persuadervi ad istituirne un’altra; e per quale motivo, avendo appena fatto l’encomio della democrazia, a mio capriccio cambio opinione e rimprovero ed accuso il presente ordine costituito. Dei privati cittadini io biasimo quanti fanno bene poche cose e male invece molte, e li ritengo persone più sciocche e da poco del dovuto. Inoltre, quando si tratta di discendenti di uomini virtuosi, i quali siano un po’ più per bene di gente che li supera in malvagità e però molto peggiori dei loro padri, costoro io li ingiurio e, dandosene l’occasione, consiglierei loro di smettere di essere tali. Ho la stessa convinzione anche per quanto concerne la politica, giacché credo che noi dobbiamo né vantarci né aver caro d’essere stati più rispettosi delle leggi di quanto lo siano stati uomini posseduti da cattivi demoni ed in preda alla pazzia, bensì molto più fremere di rabbia e dolerci se fossimo peggiori dei nostri avi. Noi infatti dobbiamo contendere con la virtù di quelli e non con la malvagità dei Trenta, visto specialmente che si conviene a noi di essere i migliori di tutti gli uomini. Io faccio questo ragionamento non adesso per la prima volta, ma l’ho già fatto spesso e davanti a molte persone. Infatti, io so con certezza che in altri luoghi s’ingenerano specie di frutti, di alberi e di animali che sono peculiari di ciascuno di essi e che sono molto diverse le una dalle altre; e so altrettanto che la nostra terra è capace di produrre e di nutrire uomini che sono dei fuoriclasse non solo nelle arti, nelle imprese civili e militari e nei discorsi, ma che eccellono anche per virilità d’animo e per virtù. Ciò si può giustamente arguire dalle antiche lotte che li opposero alle Amazzoni, ai Traci e ai Peloponnesi tutti, e dai pericoli che essi affrontarono durante le guerre Persiane; nel corso delle quali, da soli e con i Peloponnesi, in battaglie per terra e per mare, vincendo i barbari furono giudicati degni del primo premio del valore. E nessuna di queste imprese essi avrebbero potuto effettuare se non fossero stati di una natura molto superiore a quella degli altri. Ma nessuno creda che questo solenne elogio convenga a noi cittadini di oggi, anzi è tutto il contrario. Parole del genere, infatti, valgono a lode di quanti hanno dato prova d’essere degni della virtù degli avi, e suonano invece a condanna di quanti disonorano la nobiltà della stirpe cui appartengono con la loro ignavia e la loro codardia. E se si dice che questo è quel che noi facciamo, si dirà la verità. Infatti, pur esistendo in noi una così nobile natura, noi non l’abbiamo custodita intatta, ma siamo scaduti nella stolidezza, nella confusione e nella smania per delle malvagità. Ma continuando a rimproverare e condannare il presente corso delle cose, temo di divagare troppo e di allontanarmi dal mio proposito. Su questo ho già discorso in precedenza, e parlerò di nuovo se non mi riuscirà di persuadervi ad abbandonare i gravi errori politici che state commettendo. Dirò ancora brevemente qualcosa sull’oggetto iniziale del mio discorso e poi lascerò il posto a coloro che vogliono darvi ulteriori consigli sull’argomento. 

Infatti, se noi continuiamo a governare lo Stato come facciamo ora, non c’è per noi altra possibilità che quella di continuare a deliberare, a fare le guerre, a vivere, e in sostanza a subire e ad effettuare pari pari tutto ciò che facciamo adesso e che abbiamo fatto in passato. Se invece cambieremo la forma dello Stato, è manifesto che per la stessa ragione il nostro governo sarà uguale a quello dei nostri avi; giacché necessariamente dalle stesse istituzioni politiche discendono sempre imprese civili e militari simili o similari. Bisogna quindi porre le une accanto alle altre le grandi imprese civili e militari nostre e dei nostri avi, e poi deliberare quali scegliere. Per prima cosa analizziamo quale atteggiamento gli altri Greci e i barbari presero verso quella forma di Stato e quale atteggiamento essi hanno oggi verso di noi, giacché non è minimo il contributo che questi atteggiamenti danno al nostro benessere, qualora si tratti di una disposizione favorevole nei nostri confronti. Gli altri Greci avevano dunque una tale fiducia nei nostri governanti di allora che la maggior parte di essi si mise volontariamente nelle mani del nostro Stato. Quanto ai barbari, essi si astenevano a tal punto dall’impicciarsi degli affari degli Stati Greci che non navigavano mai con le loro navi da guerra al qua della città di Faselide, con le truppe di terra non attraversavano mai il fiume Alis e quindi se ne stavano del tutto calmi e tranquilli. Adesso invece, il governo ha preso una piega tale che gli altri Greci ci odiano e i barbari ci disprezzano. Circa l’odio dei Greci avete ascoltato la relazione che ne hanno fatto i nostri comandanti militari in persona. La disposizione che il Gran re ha verso di noi, l’ha manifestata lui stesso nelle lettere che ci ha inviato. Inoltre, dalla disciplina regnante a quei tempi i cittadini erano così educati alla virtù che non si molestavano tra di loro, e che vincevano in battaglia tutti coloro che invadevano il loro territorio. Noi invece facciamo il contrario: non lasciamo passare giorno senza infliggerci l’un l’altro qualche male, e ormai ci siamo a tal punto disinteressati della guerra che abbiamo l’ardire di non partecipare neppure alle rassegne militari se non siamo prima pagati con denaro sonante. Poi viene la cosa più importante di tutte. Allora nessun cittadino mancava del necessario per vivere, e non gettava vergogna sullo Stato chiedendo l’elemosina a coloro che incontrava. Adesso invece sono più i cittadini indigenti di quelli possidenti e vale davvero la pena di perdonare gli indigenti se non si interessano delle questioni politiche e prendono in considerazione soltanto il modo di tirare avanti giorno per giorno. 

Io ho chiesto di intervenire in assemblea ed ho pronunciato questo discorso poiché ritengo che se noi imiteremo i nostri avi, ebbene allontaneremo noi stessi dai mali di cui ho parlato e diventeremo i salvatori non soltanto del nostro Stato ma anche di tutti i Greci. Dopo avere ragionato su tutto ciò, votate ciò che a voi sembrerà più utile per Atene. 

Io stimo che molti di voi si meraviglino e non intendano che pensiero sia stato il mio di proporvi a deliberare della salute pubblica, non altrimenti che se la città fosse in pericolo o che il suo stato barcollasse, e quasi che ella non avesse per lo contrario più che dugento galee, pace nel suo territorio, la signoria del mare, non pochi confederati i quali, al bisogno, ci soccorrerebbero prontamente, e molti più che pagano la loro parte delle contribuzioni e fanno ogni nostro comando. Per le quali cose parrebbe in verità che a voi si convenisse stare coll’animo sicuro, come lontani da ogni pericolo, e che ai vostri nemici piuttosto si appartenesse di temere e di consultare della salute propria. Ed io so bene che voi, discorrendo tra voi medesimi in questa forma, vi ridete della mia proposta, e sperate di dovere colle vostre forze e facoltà presenti, ridurre e tenere alla vostra divozione tutta la Grecia. Ora da queste considerazioni medesime io prendo materia di temere. Perciocché io veggo quelle città che si pensano essere in migliore stato, peggio consigliarsi, e quelle che più si confidano e più baldanza hanno, essere sottoposte a maggior numero di pericoli. La cagione è che nessun bene e nessun male interviene agli uomini da se solo, ma colla ricchezza e colla potenza è congiunta, e tien loro dietro, la follia, e con questa insieme i petulanza; colla povertà e colla bassezza dello stato vengono la costumatezza e la moderazione. Tanto che malagevolmente si può conoscere quale delle due fortune debba l’uomo più volentieri lasciare ai figliuoli. Imperocché noi veggiamo da quella delle due che è tenuta per la migliore, le cose mutarsi il più delle volte in meglio, e per l’opposto da quella che mostra di essere la migliore, voltarsi in peggio. Esempi di ciò si possono raccorre in grandissimo numero dalle cose private, dove le mutazioni sogliono essere frequentissime, ma più manifesti e più grandi si possono prendere da quello che si vede essere avvenuto a noi medesimi e ai Lacedemoni. Imperocché noi dall’un canto, distruttaci dai Barbari la città, per aver temuto e posto cura, conseguimmo nella Grecia il primo luogo. Dall’altro canto, poiché ci credemmo essere tanto forti da non potere essere superati, ci recammo a tale che per poco non fossimo ridotti in ischiavitù. Similmente i Lacedemoni per antico, nati di terricciuole piccole e umili, vivendo modestamente e a uso d’uomini di guerra, ottennero il Peloponneso. Poi levàti in troppa superbia e baldanza, e fatti signori della terra e del mare, vennero in quegli stessi pericoli che eravamo venuti noi. Coloro per tanto i quali, comeché sappiano sì fatte grandissime mutazioni essere accadute, e grandissime potenze essere venute meno in sì piccolo spazio, pure si fidano del presente; per certo sono stolti: massime che la nostra città si trova oggi in molto minore stato che ella non si trovava nel predetto tempo; e che la mala volontà dei Greci verso di noi e la inimicizia del re di Persia, le quali allora ci vinsero, ora sono tornate in piede. Veramente io non so quale io mi debba credere delle due, o che a voi non caglia delle cose comuni né molto né poco, o vero che quantunque elle vi sieno a cuore, voi siate ciechi e insensati di modo che non veggiate in quanto disordine sieno ora i fatti del comune. Imperocché voi siete pur quelli che avendo perdute tutte le città che tenevate nella Tracia, speso invano in gente d’arme forestiera più di mille talenti, i Greci pieni verso voi di mal animo, il Barbaro inimico; oltre di ciò necessitati a salvare gli amici dei Tebani, e perduti i vostri confederati propri; per queste sì fatte cose avete sacrificato due volte solennemente, come è l’uso per le buone novelle, e ne venite e ne state a consiglio con quella medesima trascuraggine che voi potreste fare quando tutte le cose vostre procedessero prosperamente. Ma egli è ben ragione che tutto questo ci avvenga. Imperocché mai niuna cosa può procedere per acconcio modo là dove gli uomini hanno male deliberato di tutta la forma della repubblica. E quando pure questi tali riescano a buon fine di qualche negozio o per caso o per virtù di alcuna persona, passato poco tempo, ricaggiono nelle difficoltà di prima, siccome si può vedere da quello che è avvenuto a noi medesimi. I quali, essendo, dopo la vittoria navale di Conone e di nuovo dopo le imprese condotte da Timoteo, recata alla nostra soggezione tutta la Grecia, non potemmo pure per un picciolo spazio di tempo conservare queste felicità, ma in poco d’ora le dissipammo e perdemmo. Perocché noi non abbiamo, né anche cerchiamo di avere, uno stato di repubblica atto a bene maneggiare le cose. E per certo niuno è che non sappia come le cose prospere sogliono più che agli altri sopravvenire e durare non mica a quelli che hanno le mura più belle e più grandi, o che hanno la città più copiosa di popolo, ma sì a quelli che meglio e più regolatamente l’amministrano. Imperciocché l’anima delle città non è altro che lo stato, o vogliamo dire gli ordini della repubblica, i quali hanno tanto valore in quelle, quanto nei corpi la prudenza. Essendo che il deliberare di ciascuna cosa, e il conservare i beni e lo schifare i mali, non altro si appartenga che al reggimento; col quale anco è forza che si conformino le leggi, i dicitori e i privati, e che tali sieno le condizioni e tali gli andamenti di ciascheduno, quale è la forma della loro repubblica. La qual forma essendo ora qui appresso di noi pervertita e guasta, noi pure non ce ne diamo un pensiero al mondo, e non cerchiamo modo di rassettarla; anzi, se bene nelle corti e nei luoghi della ragione, vituperiamo lo stato presente delle cose e diciamo che mai, sotto il reggimento del popolo, non avemmo peggior condizione di vita civile, in fatti nondimeno e in pensieri abbiamo più in grado questa forma guasta, che non quella che ci lasciarono i nostri antichi. Della quale intendo di dover dire in questo ragionamento, siccome per iscritto ve la ho proposta a deliberarne. Imperocché io trovo che a volere ovviare ai pericoli futuri e riscuoterci dei mali presenti, non ci ha se non una via, cioè se noi vorremo riporre in piede quello stato di popolo il quale fu prima ordinato e constituito da Solone, uomo popolano quanto qualsivoglia altro, poi ristabilito da quel Clistene discacciatore dei tiranni e restitutore del popolo, e per se stesso è tale che noi non potremmo trovare uno stato né più popolare né che più conferisse al bene della città. Della qual cosa abbiamo un argomento grandissimo, che quelli che usarono il detto stato, condotte a fine molte ed egregie opere, e ottenuta fama e lode da tutti gli uomini, furono dai Greci volontariamente esaltati alla maggioria; e quelli per lo contrario a cui piacque lo stato presente, venuti in odio all’universale, e spesso afflitti da miserie gravissime, di poco mancò che non caddero nelle ultime disavventure. E per verità come si può egli lodare, anzi comportare, un reggimento che per addietro è stato cagione di tante calamità, e ora d’anno in anno va peggiorando di continuo? e come non si ha egli a temere che con questo tanto peggioramento, per ultimo non ci avvenga di trovarci a più duri partiti che non furono quelli d’allora? Ma perché voi possiate giudicare e scegliere tra l’uno stato e l’altro con distinta e particolare contezza, e non per cose dette sommariamente, io per la mia parte m’ingegnerò di esporvi, con quella brevità che io saprò maggiore, quanto appartiene al diritto conoscimento di ambedue gli stati, e voi converrà che dal canto vostro ponghiate attenzione a quello che io sono per dire.  Coloro per tanto che a quei tempi amministrarono la repubblica, ordinarono uno stato, non mica tale che con portare un nome popolarissimo e dolce, in fatto e alla prova riuscisse molto diverso; né anche ammaestravano i cittadini in maniera che eglino si riputassero la licenza essere stato di popolo; il dispregio delle leggi, libertà; la sfrenatezza del dire, egualità civile: e la facoltà di fare tutte queste cose, felicità; ma per lo contrario il detto stato, odiando e gastigando chi le facesse, rendeva i cittadini migliori e più costumati. E una cosa conferì grandissimamente alla loro prosperità, che prendendosi la egualità civile in due modi, l’uno per quella che dispensa con una misura a tutti, l’altro per quella da cui ciascheduno riceve secondo il merito, essi non ignorarono quale delle due veramente fosse più per giovare, ma riprovarono la prima come non giusta, perciò che ella tratta i buoni e i malvagi in un modo, e l’altra elessero, quale secondo il merito premia e punisce, e questa usarono al governo della città, non distribuendo i magistrati per sorte a qualunque si fosse indifferentemente di tutta la cittadinanza, ma preponendo a ciascuno ufficio i migliori e più atti. Perocché stimavano che ancora gli altri sarebbono stati tali, quali fossero quelli che reggessero le cose pubbliche. Anche pareva loro che questa così fatta dispensazione dei magistrati fosse più popolare di quella che si fa per sorte; considerando che in questa giudica il caso, e può spesse volte avvenire che i magistrati tocchino agli amatori della signoria di pochi, ma nella elezione de’ più acconci, egli è in facoltà del popolo di scegliere quelli che maggiormente amano lo stato presente. Che tali fossero i giudizi della moltitudine, e che niuno volesse contendere per l’acquisto dei magistrati, nasceva dall’essere i cittadini assuefatti alla fatica ed alla parsimonia, non trascurare la roba propria e in un medesimo tempo uccellare all’altrui, non sostenere colle facoltà del comune le case loro, anzi delle facoltà proprie, sempre che bisognasse, sovvenire al comune; e non conoscere meglio i proventi degli uffizi civili, che quelli che ciascheduno ritraeva dalle cose sue. Ed erano per sì fatto modo astinenti da quello del pubblico, che più malagevole era a trovare a quei tempi chi volesse ricevere i magistrati, che non è oggi a trovare chi non li voglia. Imperocché stimavano che la cura delle cose pubbliche non fosse, come a dire, un traffico, ma un servigio che la persona presta alla comunità; e non istavano insino dal primo giorno a cercare se mai per avventura quelli che erano stati per innanzi nell’ufficio, avessero pretermesso qualche guadagnuzzo da poter fare, ma sì bene se eglino avessero trascurato qualche negozio il quale si convenisse espedire sollecitamente. E a dire in breve, gli uomini di quel tempo erano di opinione che al popolo si appartenesse di eleggere i magistrati, punire i delinquenti, definire i piati e le controversie, come signore e principe; e quelli che avessero ozio e possessioni da vivere, dovessero attendere al maneggio delle cose pubbliche con quella cura medesima che se elle fossero loro proprie e familiari; e portatisi dirittamente, avessero a essere lodati e tenersi contenti di questo premio; avendo male amministrato l’ufficio, dovessero, senza commiserazione o grazia veruna, severissimamente essere puniti. Ora quale altro stato di popolo si potrebbe trovare che fosse o più giusto o più saldo di uno il quale preponga alle amministrazioni pubbliche i più sufficienti, e di questi medesimi costituisca signore il popolo? L’ordine per tanto di quello stato era così come io vi ho detto. Dalle quali cose potete comprendere di leggeri che gli uomini di quei tempi, eziandio in ciò che apparteneva al vivere di ciascun giorno, si portavano bene e ordinatamente; imperocché ragion vuole che a quelli che hanno gittato i fondamenti buoni circa alla forma del tutto, anco le parti riescano allo stesso modo. E per cominciare (come io credo che sia ragionevole) da quello che ha riguardo agli Dei, non erano i cittadini di allora né dissomiglianti da se medesimi né disordinati nel culto divino o nella celebrazione delle cose sacre, né secondo la voglia e la fantasia, tal volta, ponghiamo caso, menavano a sacrificare trecento buoi, tal altra pretermettevano insino ai sacrifici propri e consueti della città, o vero in alcuna festa nuova e forestiera ove si banchettasse, usavano magnificenza grande, e poi per contrario in alcun tempo de’ più santi sacrificavano del ritratto delle allogagioni; anzi avevano solamente l’occhio, così a non preterire in alcuna parte la consuetudine antica della città, come a non aggiungervi cosa alcuna; giudicando che la pietà non si dovesse misurare dalla grandezza delle spese, ma dal niente innovare nelle costumanze trasmesse dagli antenati. E vedesi veramente che per simil modo il cielo dispensava loro le stagioni e le qualità dell’anno, non iscompigliatamente e quasi alla cieca, ma opportune ed accomodate così alla coltivazione delle loro terre, come alle ricolte dei frutti. Né dissimile da quello verso gli Dei si era il modo che eglino tenevano insieme tra loto. Imperciocché oltre a essere concordi nelle cose pubbliche, ancora nelle private tanta cura prendevano gli uni degli altri, quanta si conviene a ben consigliati uomini e di patria compagni. Poiché dall’una parte i più poveri, non tanto che portassero invidia a quelli che avevano più, ma eglino intendevano alla conservazione e alla prosperità delle case dei grandi non meno che delle proprie, stimando che la ricchezza di quelli fosse quasi fonte che in loro medesimi si derivasse; e all’incontro i ricchi, non che usassero coi poveri superbamente, anzi recando a propria vergogna la inopia dei cittadini, soccorrevano alle loro necessità, dando a questi o a quelli terreno da coltivare per fitti ragionevoli, alcuni mandando a mercatantare, e a chi somministrando di che potessero per altre vie procacciare di loro guadagni. E facendo questo, non temevano che dovesse loro incontrare l’una delle due cose, o di perdere il tutto, o vero dopo molta briga ricuperare solo una parte di quello che avessero dato a usare; anzi non si tenevano meno sicuri di quanto al prestato, che fossero in quanto a quello che eglino si serbavano riposto in casa, vedendo coloro che amministravano la ragione sopra tali materie, non fare abuso di dolcezza e benignità, ma ubbidire alle leggi, e non si procacciare nelle cause altrui la facoltà di operare essi medesimi ingiustamente, anzi più sdegno prendere contro quelli che frodavano i creditori, che non prendevano le stesse persone offese, e credere che da coloro che falsavano la fede dei contratti, ricevessero maggior danno i poveri che i facoltosi. I quali quando si fossero rimasti dallo accomodare di loro danari o di loro roba, sarebbero privati di piccioli emolumenti; dove che i poveri, non avendo chi gli accomodasse del suo, sarebbono ridotti alla ultima necessità. E per tanto egli non ci aveva persona, che tenesse celate le sue ricchezze, o che di bonissimo animo non s’inducesse a fare accordi e contratti, tanto che i ricchi vedevano più volentieri chi veniva dimandando in prestanza, che non chi rendeva il prestato. Poiché dall’accomodare altrui di loro avere, intervenivano loro a un medesimo tempo due beni i quali sarebbono avuti cari da ogni uomo di sano conoscimento; l’uno, che essi facevano beneficio ai loro cittadini, l’altro, che mettevano la loro roba a guadagno. E in fine (quello che è la somma del buono e beato convivere cittadinesco) la possessione della roba, a quelli che possedevano di ragione, era salva e sicura, ma gli usi della medesima erano comuni indifferentemente a ogni cittadino al quale facessero di mestieri. Ma qui potranno essere alcuni che mi riprendano che lodando io le cose e i fatti di quei tempi, io non dica altresì le cagioni perché quegli uomini usassero così bene insieme, e governassero la città per sì acconcio modo. A me pare aver già toccato alquanto di questa materia, ma pure io vedrò di trattarla più per inteso e più divisamente. Coloro dunque, in cambio di avere nella fanciullezza molti sopraccapi, e poi così tosto come fossero dichiarati uomini, poter fare ogni loro piacere, più diligentemente erano sopravveduti nel fiore della età che nella puerizia. Imperocché i nostri passati ebbero sì fattamente a cuore la costumatezza, che a procurarla e custodirla ordinarono il consiglio dell’Areopago, nel quale non poteva sedere chi non fosse bennato, e nei fatti e negli andamenti non avesse dato segni di molta virtù e modestia. Onde esso consiglio ragionevolmente vinse di degnità e fama tutti gli altri che erano nella Grecia. E quale fosse egli a quei tempi, si può giudicare anco da ciò che noi veggiamo al presente. Perocché se bene ora sono dismesse tutte le pratiche antiche circa la elezione e le disamine di quelli che avessero a essere del predetto consiglio, nientedimeno si veggono eziandio quelli che nel resto della loro vita sono intollerabili, come salgono all’Areopago, non si sapere indurre a usar la loro natura, e piuttosto osservare gli ordini di quel luogo, che seguitare le proprie tristizie. Tanto timore posero quegli antichi negli animi dei malvagi, e tal memoria lasciarono della loro virtù e modestia in quella loro sede. Questo sì fatto consiglio dunque constituirono curatore e conservatore della costumatezza, avendo per fermo che sieno molto ingannati colori i quali si persuadono, là essere gli uomini migliori, dove le leggi sono più accuratamente fatte. La quale opinione se fosse vera, niuna cosa aver potuto impedire che i Greci non fossero tutti conformi, come quelli che potevano agevolmente prendere il tenore e i vocaboli delle leggi gli uni dagli altri. Veramente non per le buone leggi, ma per gli studi e gli esercizi quotidiani, la virtù prosperare e crescere; tale di necessità riuscendo la più parte degli uomini, quale si fu l’educazione e la instituzione loro. Di più, la moltitudine e la minuta squisitezza delle leggi essere indizio di città male accostumata. La quale affaticandosi di porre argini e serragli alle colpe, necessariamente divenire la quantità delle leggi grande. Richiedersi al buono e ordinato vivere cittadino, non le logge piene di scritte, ma la rettitudine stabilita negli animi. Non consistere esso nei bandi, ma nei costumi; e gli uomini male allevati facilmente muoversi e contraffare anco alle leggi accuratamente scritte, dove che i bene instituiti volere osservare eziandio le non bene ordinate. Per sì fatta guisa discorrendo e affermando seco medesimi, essi non si volsero a cercare prima di tutto, in che modo avessero a gastigare quelli che trasandassero nelle opere o nei costumi, ma con quali rimedi potessero conseguire che niuno s’inducesse a cosa meritevole di gastigo; questo giudicando essere ufficio loro, laddove lo ingegnarsi molto intorno alle pene, essere atto convenevole agl’inimici. Per tanto avevano cura di tutti i cittadini, ma principalmente dei giovani, vedendo quella età essere più turbolenta di qualunque altra e piena di maggior numero di appetiti, e gli animi giovanili aver maggior bisogno di essere disciplinati nell’amore dei buoni studi e nelle fatiche non disgiunte da piaceri. Alle quali cose sole, quando eglino fossero liberalmente nutriti, ed accostumati all’altezza del sentimento, giudicavano che essi avrebbero voluto attendere anco per innanzi. Ora, perciocché tutti non si potevano educare negli stessi esercizi, considerata la diversità delle fortune; essi governandosi secondo che comportavano le sostanze, chiunque di roba era poco agiato indirizzavano alla coltivazione e alla mercatura, sapendo che dalla oziosità nasce la indigenza, e dalla indigenza procedono i maleficii. Per la qual cosa rimovendo il principio dei mali, si pensavano ovviare ai misfatti che vengono appresso a quelli. A coloro poi che copia di beni avevano a sufficienza, assegnavano la cavalleria, gli esercizi del corpo, la caccia, la letteratura, e a queste cose gli costringevano a dare opera; vedendo che per sì fatti mezzi, alcuni riescono uomini di gran valore, altri sono tenuti lontani da infinite malvagità. Né si contentarono di fare cotali statuti e poi non vi porre niuna cura, ma divisa la città per contrade o quartieri, e il contado per villate o vero castella, osservavano i portamenti di ciascheduno, e chiunque vedevano che disordinasse, menavanlo dinanzi al Consiglio. Il quale riprendeva gli uni, minacciava gli altri, e tali, a proporzione del merito, gastigava. Imperocché sapevano bene come egli ci ha due modi che dispongono gli uomini a male operare, e due che gli ritraggono dalle cattività. Cioè a dire che là ove contro alle dette cose, da un lato non si fa guardia, dall’altro non è posta pena e non si procede per giudizi accuratamente, quivi anco le nature si guastano. Ma ove i malfat tori non possono leggermente restare occulti, né scoprendogli, essere perdonati, colà i perversi costumi al tutto si spengono. Per le quali considerazioni eglino con ambedue le cose cioè colle pene e colla vigilanza, contenevano i cittadini. E non che potesse schifar di venire alla loro notizia niuno che avesse commesso alcuna malvagia opera, ma eglino presentivano eziandio quelli che avevano pure in animo di malfare. E per tanto a quei tempi non si vedevano i giovani per le bische, né per le case delle sonatrici di flauto, né per tali raddotti dove oggi spendono tutto il dì; ma erano intenti ciascheduno a quell’arte o quello esercizio che gli era stato assegnato, con molta osservanza onorando e seguitando quelli che in tale esercizio o vero arte erano eccellenti. E fuggivano il Mercato in guisa, che se per alcuna occorrenza talvolta bisognava loro passare di colà, facevanlo con segni di verecondia e modestia grande. Contraddire ai più vecchi, o con male parole mordergli, reputavano maggiore enormità che non istimano adesso l’offendere i genitori. Di mangiare o di bere nelle taverne, non che altri, ancora un famiglio da bene non si sarebbe ardito. E per ultimo studiavano di essere contegnosi e gravi, e non già di fare del buffone e del giocolare, tanto che gli uomini beffardi e motteggiatori, che oggi si chiamano ingegnosi, essi gli avevano per isciagurati. Né si pensasse per avventura alcuno, che io fossi occupato da qualche sinistra disposizione dell’animo verso i giovani. Imperocché, oltre che io non gli stimo autori né colpevoli di quello che noi veggiamo avvenire al presente, eziandio so per cosa certa che i più di loro non amano a modo alcuno questo sì fatto stato per virtù del quale è lecito loro di vivere in tali scostumatezze. Di modo che essi con ragione non possono essere ripresi; ma ben più convenevolmente si deono biasimare coloro che ressero la città poco prima di noi. Perciò che essi furono quelli che diedero principio a questa presente negligenza, e spensero l’autorità e la forza del consiglio dell’Areopago, sotto il cui reggimento la città non era piena di liti, di accuse, d’imposte, di povertà, di guerre, ma tranquilla dentro e in pace al di fuori, come quella che era fida e leale ai Greci, formidabile ai Barbari, avendo salvati gli uni, e degli altri presa tale vendetta, che non pareva loro poco, se dai nostri fossero lasciati stare senza altra offesa. Adunque per queste cagioni vivevasi a quei tempi in una tanta sicurtà, che nelle ville si vedevano le case e le masserizie più belle e di più prezzo che dentro alle mura, e non pochi cittadini ci aveva che mai non venivano alla città, né anco per le feste, volendo innanzi stare a godersi i beni propri, che partecipare dei comuni. Perocché nello appartenente agli spettacoli, i quali avrebbero potuto muovere le persone a venire, si procedeva allora assennatamente, senza punto d’insolenza o di fasto; avvengaché non si misurava la felicità dalla pompa delle processioni, né dai gareggiamenti nella sontuosità dei cori, né da altre sì fatte borie, ma dalla modestia nel comunicare insieme, e dal tenore della vita giornaliera, e dall’essere ciascun cittadino sufficientemente fornito del bisognevole, dalle quali cose si vogliono prendere i veri argomenti del buono e prospero stato e del non odioso convivere cittadino. Poiché oggi, a dir vero, io non so come possa fare niuno che buon giudizio abbia, a non si attristare considerando lo stato delle cose, e veggendo alcuni cittadini, dinanzi alle curie, trarre a sorte se essi avranno o non avranno da vivere per se stessi, e questi medesimi volere che si conducano a soldo e si mantengano rematori greci, e certi danzare in drappi d’oro, e passare poi la vernata io non vo’ dire in che panni; e altre somiglianti contrarietà che occorrono nello stato presente, con grande ignominia pubblica. Niuna delle quali cose accadeva a tempo della signoria del Consiglio. Il quale sollevava i poveri dalla inopia coi benefizi del comune, e coi sussidi che erano prestati loro dai ricchi; ritraeva i giovani dalla licenza col sopravvegliarli che faceva, e cogli studi in che gli teneva occupati; gli ufficiali della repubblica dalle ingiustizie e soperchierie co’ gastighi e con fare che tortamente operando, niuno potesse restare occulto; i vecchi dall’ignavia colle dignità civili e colla riverenza e osservanza della gioventù. E in vero, quale altro più bello e più commendevole reggimento si può trovare di uno che per sì acconcio modo provvedeva a ogni cosa? Dunque dello stato di allora noi abbiamo detto il più, e ciascuno potrà di leggeri intendere che quanto si è tralasciato di dire, fu conforme e corrispondente a quello che si è ragionato. Ora avendomi alcune persone udito recitare le predette cose, mi diedero quelle maggiori lodi che si potevano, e dissero degni d’invidia essere i nostri antichi per avere usato questa forma di reggimento; ma in un medesimo tempo giudicarono che voi non potreste essere indotti a praticarla, ma che lasciandovi guidare alla usanza, torreste di voler prima patire i danni e le incomodità dello stato presente, che godervi con migliori ordini una vita migliore. Anche dicevano che io consigliandovi il vostro meglio, porterei pericolo di parere inimico del popolo, e darei materia di sospettare che io m’industriassi di ridurre la città sotto la signoria di pochi. Ora, se i miei ragionamenti fossero stati di cose sconosciute e nuove, e che io vi avessi confortato a eleggere consiglieri o dettatori che di quelle dovessero deliberare, nel qual modo fu spenta la podestà del popolo ai tempi addietro, io potrei ragionevolmente incorrere nelle dette imputazioni. Dove che io non ho detto cosa di cotal fatta, ma ho ragionato di un governo, non mica occulto, ma palese; il quale tutti sapete essere stato adoperato dai nostri antichi, e avere partorito innumerabili beni, non che alla nostra patria, eziandio agli altri Greci; oltre di ciò essere stato prescritto e stabilito da uomini i quali è forza che ciascuno si accordi a tenere per li cittadini più popolani che sieno stati mai. Di modo che ella sarebbe pur dura e indebita cosa che per confortarvi di ripigliare questo così fatto ordine di repubblica, io fossi riputato cupido di novità. Senza che di leggeri voi potete conoscere il mio sentimento anche da questo, che nella più parte delle aringhe e dei discorsi detti da me insino a ora, io condanno le signorie di pochi, le prepotenze, i privilegi; e lodo le ugualità e gli stati di popolo, come che non tutti, ma solo i bene ordinati, con rettitudine e buono accorgimento, e non alla cieca. E lodogli perciocché io trovo che i nostri antichi con un sì fatto stato si avvantaggiarono di gran lunga dagli altri popoli, e che i Lacedemoni hanno la più bella repubblica che sia di questi tempi, perché si reggono più popolarmente. E che questo sia vero, veggiamo che nella elezione dei magistrati, nell’uso del vivere quotidiano, e in qual si sia studio e instituto, seguono la egualità e la conformità più che gli altri popoli, cose combattute sempre dalle signorie di pochi, e sempre usate da quelli che si reggono per istato popolare bene acconcio. Così se noi vorremo por mente alle altre città, riandando un poco, troveremo che alle grandi e più rilevate, meglio conferiscono i reggimenti del popolo che quei di pochi. Essendo che questo medesimo stato nostro che tutti riprendono, se noi lo paragoniamo, non più con quello che io v’ho raccontato innanzi, ma con quello che fu al tempo dei Trenta, quasi che egli ci parrà una cosa divina. Io voglio, quando anche sieno per dire che io mi dilungo alquanto dal mio soggetto, ricordare qui e dimostrare quanta differenza sia dallo stato presente a quello di allora; acciò niuno dica che io vo molto sottilmente cercando e discutendo i falli del popolo e da altro lato se egli si trova pure che quello abbia fatta alcuna bella o nobile e degna opera, che io la passo in silenzio. Non sarà questa parte del mio ragionare né troppo lunga né senza qualche profitto degli ascoltanti. Perduto dunque che avemmo il nostro navilio nelle marine dello Ellesponto, e venuto il comune in quelle disavventure che ne seguirono, sanno bene i più vecchi che quelli che erano chiamati popolani o di parte di popolo, si dimostrarono apparecchiati a dovere innanzi sostenere ogni peggior cosa, che ubbidire ad altri; riputando grandissima indegnità che quel popolo che aveva avuto in mano il governo della Grecia, fosse veduto sottoposto alla dominazione altrui. E che questi tali furono esclusi dall’accordo. All’incontro quelli che volevano lo stato di pochi, disfatte con pronto animo le mura, agevolmente si acconciarono alla servitù. E laddove al tempo che il reggimento era in potestà del popolo, i nostri avevano in mano le fortezze degli altri, venuta la repubblica sotto i Trenta, la nostra fortezza medesima fu in possessione degl’inimici. E sanno ancora che a quel tempo la città fu serva dei Lacedemoni; ma poiché i fuorusciti, tornando, si ardirono a combattere per la libertà, e da Conone fu vinta quella battaglia marittima, essi Lacedemoni ci mandarono per loro ambasciatori cedendo la signoria del mare. E anco de’ miei coetanei chi è che non si ricordi come lo stato popolare da un lato, con tempii e con sacrifici, rendette adorna e splendida la città per modo che anche al presente la foresteria che vi capita la giudica degna di comandare a tutto il mondo, non che alla Grecia; e dall’altro lato i Trenta spogliarono i tempii, trascurarono i sacrifici, e furono allora venduti e dati a disfare gli arsenali per tre talenti, dove che la città ve ne aveva speso insino a mille? Né anche si troverà niuno che in quanto si è alla lode della mansuetudine, voglia anteporre al reggimento del popolo quelli di costoro. I quali recatasi in mano per virtù di un decreto la potestà della repubblica, mille e cinquecento cittadini ammazzarono senza forme giuridiche, e più di cinquemila sforzarono a rifuggirsi come esuli nel Pireo. I popolani in contrario, ricuperata la patria per virtù di armi e di vittorie, tolti solo di mezzo i principali autori delle calamità passate, composero le cose intra i cittadini con tanta giustizia e onestà, che i ripatriati non istettero pure di un menomo vantaggiuzzo al di sopra di quelli che gli avevano posti in bando. Abbiamo eziandio questo sopra tutti gli altri bellissimo e grandissimo testimonio della bontà del popolo, che avendo quelli di dentro pigliato a interesse dai Lacedemoni la somma di cento talenti per cagione dell’assedio del Pireo, che si teneva per gli usciti, ragunato il popolo per deliberare della restituzione di detta somma, e dicendo molti che il soddisfare ai Lacedemoni si apparteneva di ragione a chi aveva improntato i danari e non agli assediati, il popolo determinò che la restituzione si facesse in comune. Con sì fatti modi ci recarono a tanta concordia e tanto avanzarono la città, che i Lacedemoni, i quali a tempo dei Trenta ci mandavano, si può dire, ogni dì ordinando quello che piaceva loro, poi rimesso in istato il popolo, vennero chiamando mercede e pregando che non gli lasciassimo distruggere dai Tebani. E per dire in somma, le intenzioni delle due parti furono così fatte, che quella voleva comandare ai cittadini e servire ai nemici, questa comandare agli altri, e coi cittadini serbare l’ugualità. Queste cose mi è paruto toccare per due cagioni; prima per dare ad intendere che io non sono vago né di signorie di pochi né di prepotenze, ma di una buona e ben composta repubblica; poi per dimostrare che gli stati di popolo, eziandio se male ordinati, sono manco nocivi; e quando poi si reggono per buoni ordini, sono migliori e più degni che qualunque altre, per essere più giusti, più accomunati, e fare la vita più dolce. Forse non mancheranno di quelli che si maraviglino come io vi conforti a lasciare questo reggimento, che si trova avere operato tanti e così begli effetti; e in iscambio di quello, prendere un altro; e come avendo ora lodato si magnificamente lo stato di popolo, poi d’ora in ora, mutata opinione, io lo condanni e mi dolga delle cose presenti. Ora voi dovete sapere che se io veggo anche una persona privata fare alcune poche cose bene e molte male, io la riprendo, e tengo che ella sia da manco che non si conviene: e più, se questo tale è disceso di assai valent’uomini, e che egli sia pure un poco migliore che la schiuma degli scellerati, ma peggiore assai che gli antichi di sua famiglia, in caso tale io lo biasimo, e dandosi la occasione, io lo consiglierei di lasciare così fatto essere. Con ciò sia dunque che anco delle comunità io giudichi per gli stessi termini, stimo che a noi non si convenga troppo pregiarci né tener paghi se noi siamo stati migliori e più leali che alcuni sciagurati e matti, ma più presto sdegnare e avere per male se noi ci troviamo essere peggiori che i nostri passati; colla virtù dei quali e non colla malvagità dei Trenta ci abbiamo a paragonare: massime che a noi si conviene essere primi in eccellenza fra tutti gli uomini. Io non dico ora questa cosa per la prima volta, ma io l’ho detta già in molte occasioni e a molti, che al modo che noi veggiamo negli altri luoghi generarsi dove una dove altra qualità di frutti, di arbori e di animali, propria di quella cotal terra e molto eccellente fra quelle che nascono nelle altre parti, così medesimamente il nostro terreno ha virtù di produrre e nutrire uomini, non solo di natura attissimi alle arti e opere della vita, ma di singolare disposizione eziandio per rispetto alla virilità dell’animo e alla virtù. Si conosce questa cosa manifestamente sì per le antiche battaglie fatte dai nostri colle Amazzoni, coi Traci e con tutte le genti del Peloponneso, e sì per le guerre avute coi re di Persia, dove i nostri, ora soli e ora con quelli del Peloponneso, per terra e per mare, combattendo e vincendo, riportarono i premii e gli onori principali delle vittorie. Le quali cose per certo non avrebbero potuto fare se essi non fossero stati da molto più che gli altri uomini di natura. E niuno si pensi che pervenga da ciò alcuna eziandio menoma lode a noi cittadini di oggidì; anzi per lo contrario. Perocché queste simili, sono lodi verso chi si dimostra degno della virtù degli antecessori, ma verso quelli che colla loro ignavia e cattività svergognano la eccellenza della loro stirpe, elle sono riprensioni e biasimi. Siccome (vaglia il vero) facciamo noi, che sì fatta natura avendo, non l’abbiamo saputa serbare, ma siamo caduti in grande ignoranza e confusione e in molte cattive cupidità. Ma se io volessi, seguitando questa materia, mordere e accusare i fatti di questi tempi, dubito che io non dovessi trascorrere troppo lungi dal mio proposito. Però di questi fatti lasceremo stare al presente, se non che siccome io già ne ho ragionato per addietro, così per l’avvenire altre volte ne ragionerò, se non mi sarà venuto fatto di rivocarvi da cotesti andamenti torti e nocevoli. Ora tornando in sul proposito primo di questo ragionamento, dette che io ne avrò certe poche cose, darò luogo a quelli che volessero altresì esporre la loro sentenza sopra questa materia. Dico adunque che se noi vorremo continuare a reggere la città nella forma che si usa oggi, egli non ci ha rimedio alcuno che noi possiamo fare altro che tutto giorno stare in consulte e in guerre, e vivere così come ora e di questi tempi addietro, e patire e operare tutti gli stessi mali. All’incontro, ripigliando la forma usata in antico, manifesto è che per la ragione medesima, quella condizione e quello andare avranno le cose nostre che ebbero quelle degli antenati. Perciocché dagli stessi ordini di repubblica necessaria cosa è che risultino i fatti o conformi o simili. Dei quali fatti prendendo i più riguardevoli, si vuol porgli a riscontro, e così risolvere quali ci sia più in acconcio di eleggere, o gli uni o gli altri. E prima veggiamo la condizione di quello e di questo reggimento verso i Greci e i Barbari, essendo che non piccola parte conferiscano costoro al ben essere della città, ogni volta che procedano le cose per opportuno modo tra loro e noi. I Greci dunque avevano tanta fede al reggimento di quei tempi, che la più parte di loro volontariamente si diedero nelle mani della città; e i Barbari, non che s’impacciassero dei fatti della Grecia ma essi non si ardivano di scorrere colle galee fin presso a Faselide, e colle genti di terra non passavano di qua dali fiume dell’Ali, e in fine attendevano a star quieti. Oggi sono ridotte le cose in sì fatti termini che quelli ci portano odio e questi dispregio. Dell’odio dei Greci avete udito dalla bocca dei capitani; e il re di Persia che disposizione abbia verso di noi, bene esso lo ha dato ad intendere per le lettere che ha mandate. Oltre di ciò da quei buoni ordini erano i cittadini per cotal guisa informati a procedere virtuosamente, che essi tra loro da un lato nessuna offesa e nessuna molestia facevano gli uni agli altri, e all’incontro, se alcuno di fuori veniva con armata mano sopra il contado, essi valorosamente combattendo, sempre riuscivano vittoriosi. Noi per contrario non lasciamo passare un dì che l’un cittadino all’altro non faccia male, e da altra parte nelle cose di guerra usiamo una tanto strabocchevole negligenza, che infino alle rassegne non vogliamo andare se non pagati. Per ultimo, e questa è cosa sopra tutte di gran momento, non era a quei tempi un cittadino che avesse disagio del necessario, e che si vedesse, limosinando per le vie, fare onta e vituperio alla città; laddove ora sono più i poveri che gli agiati: e bene è da perdonare a questi cotali bisognosi se eglino niuna cura hanno delle cose pubbliche, ma si vanno pure ogni dì argomentando del come trovar modo a durare insino a domani. Tenendo io dunque che se noi vorremo imitare gli antichi, saremo liberi da questi presenti mali, e cagione anco di salute, non alla città solamente, anzi a tutta la Grecia, ho messa innanzi questa deliberazione e detto questo ragionamento. Voi considerata bene ogni cosa che avete udita, fate quella risoluzione che crederete essere in maggior benefizio della città.