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STOICORUM VETERUM FRAGMENTA LIBRO I

Tutti i frammenti greci e latini

Nuovamente tradotti da Franco Scalenghe

Libro I

1. Zenone (c. 333-261 a.C.)

Vita, costumi, scritti, testimonianze

Frammenti n. 1-44

SVF I, 1

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 1-2. [I,3,3] Zenone, figlio di Mnasea (o di Demea) veniva da Cizio, cittadina greca dell’isola di Cipro che aveva avuto coloni fenici. [I,3,5] Come afferma Timoteo di Atene nel suo libro ‘Sulle vite’, aveva il collo storto. Apollonio di Tiro afferma che era allampanato, piuttosto alto, di colorito bruno -per cui qualcuno lo chiamava ‘clematide egizia’, come dice Crisippo nel primo libro dei ‘Proverbi’- gonfio di gambe, fiacco, debole; e perciò, nei suoi ‘Ricordi conviviali’, [I,3,10] Persèo afferma che egli schivava la maggior parte dei pranzi cui era invitato. Dicono, invece, che si rallegrasse di mangiare fichi freschi e di prendere il sole. Come è stato già detto fu discepolo di Cratete. Dicono anche che abbia poi ascoltato le lezioni di Stilpone e, secondo Timocrate nel suo ‘Dione’, quelle di Senocrate per dieci anni, nonché quelle di Polemone. Ecatone, come pure Apollonio [I,3,15] di Tiro nel primo libro ‘Su Zenone’, afferma che quando egli consultò l’oracolo sul cosa fare per vivere nel miglior modo possibile, il dio gli rispose: “Che stesse a contatto con i cadaveri”. Ond’egli capì bene di dover leggere le opere degli antichi. Il suo incontro con Cratete avvenne in questo modo. Mentre trasportava per commercio della porpora dalla Fenicia, fece naufragio nei pressi del Pireo. Aveva ormai trent’anni, e salendo ad Atene [I,3,20] si sedette nella bottega di un libraio. Mentre quello leggeva il secondo libro dei ‘Memorabili’ di Senofonte, Zenone, godendo della lettura, cercò di sapere da lui dove potessero vivere uomini del genere.

SVF I, 2

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 3-5. Passava di lì, davvero tempestivamente, Cratete; e il libraio, mostrandoglielo, gli disse: “Tieni dietro a quest’uomo”. Da quel momento Zenone fu discepolo di Cratete: un discepolo tutto teso alla [I,3,25] vita filosofica, ma altrimenti vergognoso della sfacciataggine Cinica. Laonde Cratete, deciso a curarlo anche di ciò, gli dà una pentola di lenticchie da portare attraverso il Ceramico; e poiché vede che per la vergogna lui cerca di tenerla coperta, batte la pentola col suo bastone e la manda in pezzi. Mentre Zenone fugge via [I,4,1] e le lenticchie gli colano lungo le gambe, Cratete gli fa: “Perché fuggi via, o bel Fenicio? Nulla di terribile hai sperimentato!”. Per un po’ egli fu dunque discepolo di Cratete e, poiché in quel tempo scrisse ‘La repubblica’, alcuni solevano per gioco dire che egli l’avesse scritta ‘sulla coda del cane’. [I,4,5] Oltre a ‘La repubblica’ Zenone scrisse anche le seguenti opere […]. Da ultimo, se ne andò via da Cratete; e si fece discepolo dei predetti filosofi per vent’anni, sicché si racconta che dicesse: “Ho fatto una buona navigazione quando ho fatto naufragio”. Alcuni sostengono che egli abbia detto questo al tempo della sua frequentazione di Cratete. Altri sostengono invece che egli dimorasse ad Atene quando udì del naufragio e che dicesse: “La fortuna [I,4,10] fa proprio bene a spingerci di forza alla vita filosofica”. Taluni poi sostengono che egli si volgesse alla vita filosofica dopo avere disposto, in Atene, del carico della nave. Deciso a far sì che il luogo non fosse contornato di gente, teneva i suoi discorsi andando su e giù sotto il ‘Portico Dipinto’ (Stoa), chiamato anche ‘Portico’ di Pisianatte, e ‘Dipinto’ per la presenza delle pitture di Polignoto. È sotto questo portico che al tempo dei [I,4,15] Trenta Tiranni era stata decisa l’eliminazione di mille e quattrocento cittadini. Orbene la gente s’avvicinava per ascoltarlo e per questo essi furono chiamati ‘Stoici’. Ebbero similmente questo nome anche i suoi seguaci, dapprima chiamati ‘Zenoniani’ secondo quanto afferma Epicuro nelle sue ‘Lettere’ […] i quali ne accrebbero ancor più la fama.

SVF I, 3

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 6-13. [I,4,20] Gli Ateniesi tenevano in grande onore Zenone, tanto da commettergli le chiavi delle mura della città ed onorarlo con una corona d’oro e un’immagine in bronzo. Si dice che questo facessero anche i suoi concittadini, dal momento che ritennero un degno ornamento la sua immagine. Pure i Ciziesi di Sidone lo pretesero come uno di loro. Antigono Gonata approvava il modo di vivere di Zenone e quando gli capitava di giungere ad [I,4,25] Atene molte volte ascoltava le sue lezioni, invitandolo poi a recarsi presso di lui. Zenone schivò questi inviti e però inviò da lui Persèo, uno dei suoi conoscenti, figlio di Demetrio, nato a Cizio e in pieno fiore durante la CXXX Olimpiade (260-256 a.C.), quando Zenone era ormai vecchio. […] [I,4,30] Inviò dunque Persèo e Filonide di Tebe, entrambi i quali Epicuro, nella ‘Lettera al fratello Aristobulo’, rammenta come sodali di Antigono. […] Antigono di Caristo afferma che egli non negò mai di essere di Cizio. [I,4,35] E quando fu uno dei conferitori di fondi per il restauro di un bagno pubblico, poiché sulla stele risultava iscritto come ‘Zenone filosofo’, sollecitò di addizionarvi ‘di Cizio’. Una volta fece un coperchio cavo alla fiaschetta che per consuetudine portava in giro, [I,5,1] affinché il suo insegnante Cratete avesse pronta una soluzione per le sue necessità. Dicono pure che egli venisse in Grecia con più di mille talenti e che li prestasse a interesse contro garanzia della nave o del suo carico. Soleva mangiare piccoli pani, miele e bere un po’ di vinello aromatico. [I,5,5] Raramente aveva rapporti con giovanetti, e una o forse due volte li ebbe con una giovanetta, tanto per non sembrare misogino. Coabitava con Persèo, e una volta che questi gli introdusse in casa una giovane suonatrice di flauto, tirò un sospiro e la menò da Persèo. Dicono che fosse facilmente compiacente, sicché il re Antigono sopraggiungeva da lui a far baldoria e insieme a lui andava a far baldoria dal [I,5,10] citaredo Aristocle, seppure poi Zenone se la svignava.

SVF I, 4

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 14-16. Si dice che Zenone avversasse la calca, sicché soleva sedere all’estremità del sedile, guadagnandosi così di dimezzare il disturbo. Non passeggiava mai in compagnia di più di due o tre persone. Talvolta si faceva pagare dai circostanti una moneta di bronzo [sicché quelli, per non] dargliela, toglievano il disturbo, [I,5,15] come afferma Cleante nel suo libro ‘Sulla moneta di bronzo’. Quando poi i circostanti erano molti di più, Zenone mostrava all’estremità della Stoa il recinto ligneo dell’altare e diceva: “Un tempo questo altare giaceva nel mezzo della Stoa, ma poiché era d’intralcio fu posto in disparte. E così se voi vi toglierete di mezzo ci darete meno disturbo”. [I,5,20] Quando Zenone udì Democare, figlio di Lachete, ossequiarlo mostrandosi dell’avviso che poteva dire o scrivere ad Antigono qualunque cosa di cui avesse bisogno, ed affermare che Antigono gli avrebbe procurato tutto ciò, non volle più passare del tempo in sua compagnia. Si racconta anche che, dopo la morte di Zenone, Antigono dicesse: “Quale teatro ho perduto!” Laonde tramite Trasone, suo ambasciatore presso gli [I,5,25] Ateniesi, chiese per lui la sepoltura nel Ceramico. E quando gli fu domandato perché ammirava Zenone, Antigono rispose: “Benché io gli avessi fatto molti e grandi doni, egli non ne invanì mai né mai fu visto farsi servile”. Era un ricercatore ed un esatto ragionatore su tutto, laonde Timone nei suoi ‘Silli’ dice così: […]. Poneva poi grande solerzia nel misurarsi col dialettico [I,5,30] Filone e condivideva con lui gli studi filosofici; onde Filone era ammirato da Zenone, più giovane di lui, non meno che dal suo insegnate Diodoro. Come anche Timone afferma, gli stavano d’attorno individui nudi e sozzi […]. Era cupo e amaro, coi lineamenti del viso contratti. Spendeva pochissimo [I,5,35] e, col pretesto dell’economia, era di una spilorceria barbara. Qualora poi [I,6,1] decidesse di fare la stroncatura di qualcuno, la faceva succintamente e senza dilungarsi, con distacco […].

SVF I, 5

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 25-27. Secondo quanto afferma Ippoboto, Zenone passò del tempo in compagnia di Diodoro e con lui si prodigò nello studio della dialettica. Aveva già fatto dei progressi quando entrò nel seguito di [I,6,5] Polemone senza mostrare vanità alcuna; tanto che Polemone, secondo quanto raccontano, gli disse: “Non mi sfugge, o Zenone, che tu ti intrufoli qui dalle porte del giardino per rubarmi le dottrine e per riabbigliarle con vesti fenicie”. Al dialettico che gli mostrava come nel ragionamento del ‘Mietitore’ siano contenute sette forme elementari di dialettica, chiese quante dracme intendeva farsi pagare per compenso. E quando udì che egli ne voleva cento, gliene diede duecento; tanto era grande [I,6,10] il suo amore per l’apprendimento. <Dicono anche che> riscrivesse così i versi di Esiodo:

‘Ottimo su tutti è colui che ubbidisce a chi bene parla

e prode, a sua volta, è colui che da sé tutto capisce’.

Giacché chi è capace di ben ascoltare ciò che viene detto e di utilizzarlo, è migliore di colui che da se stesso di tutto si capacita. Infatti, propria di uno è [I,6,15] soltanto l’intelligente comprensione mentre l’altro, ben ubbidendo, vi congiunge anche la pratica. Dicono poi che alla domanda sul perché, pur essendo austero, indulgesse nel bere, egli rispose: “Anche i lupini, pur essendo amari, s’addolciscono se bagnati”. Ecatone, nel secondo libro dei suoi ‘Detti sentenziosi’, afferma che in occasione di tali incontri di società egli attenuava la sua austerità [seguono due sentenze]. [I,6,20] Aveva una grandissima forza d’animo ed era frugalissimo. Mangiava cibi non cotti ed indossava un mantello piuttosto sottile, sicché di lui si diceva:

‘Lui né l’inverno che agghiaccia, né un acquazzone senza fine,

né la vampa del sole lo doma; non un’orripilante malattia,

non una festa popolare. Egli invece, infaticabile,

[I,6,25] all’insegnamento notte e giorno sta teso’.

SVF I, 6

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 27-32. I poeti comici non si resero conto che con i loro scherni ne tessevano le lodi. È dove Filemone, nella sua commedia ‘I filosofi’, dice così:

‘Un pane, per pietanza un fico secco, e berci sopra dell’acqua.

Costui filosofa dunque una filosofia nuova:

[I,6,30] insegna ad avere fame eppure cattura discepoli’.

Secondo alcuni, però, questi versi sono di Poseidippo. Era ormai diventato una figura quasi proverbiale e pertanto, presolo a riferimento, si diceva di qualcuno che era ‘più padrone di sé di Zenone il filosofo’. Anche Poseidippo ne ‘I convertiti’ dice: ‘Sicché nel giro di dieci giorni sembrava essere diventato più padrone di sé di Zenone il filosofo’. E Zenone in realtà superava tutti [I,6,35] per questo aspetto ed anche per solennità e, per Zeus, per beatitudine. Morì all’età di novantotto anni, dopo una vita trascorsa senza malattie e in salute. [I,7,1] Nelle sue ‘Lezioni etiche’ Persèo afferma che egli morì all’età di settantadue anni e che era venuto ad Atene all’età di ventidue. Apollonio sostiene che fu Scolarca per cinquantotto anni. La sua morte avvenne così. Mentre andava via da scuola incespicò e [I,7,5] si ruppe un dito. Batté allora la terra con la mano e pronunciò quel verso della ‘Niobe’:

‘Vengo, perché mi chiami gridando?’

e, soffocato il grido, morì all’istante. Gli Ateniesi lo seppellirono nel Ceramico e lo onorarono secondo i decreti votati e già citati in precedenza, a testimonianza della sua virtù. […] [I,7,10] Nei suoi ‘Omonimi’, Demetrio di Magnesia afferma che il padre Mnasea, in quanto mercante, veniva spesso ad Atene e che portava a Zenone, ancora ragazzo, molti libri di filosofia Socratica; ragion per cui egli era già stato forgiato a queste dottrine quand’era ancora nella sua patria. Poi, quando venne ad Atene, ebbe l’incontro con Cratete. Sembra anche, afferma Demetrio, che sia stato lui a definire il ‘sommo bene’, mentre altri [I,7,15] andavano errando qua e là tra varie dichiarazioni. Dicono che solesse giurare ‘sul cappero’, proprio come Socrate ‘sul cane’.

SVF I, 7 e 8

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 10-12. Mi è sembrato opportuno scrivere qui di seguito il decreto votato a suo riguardo dagli Ateniesi. Ecco il testo.

‘Nel corso dell’Arcontato di Arrenide, quinta Pritania della tribù Acamantide, [I,7,20] undicesimo giorno del mese Mematterione, ventitreesimo della Pritania, assemblea generale.

Il Presidente Ippone, figlio di Cratistotele, del demo di Sipete, insieme con i copresidenti, mette ai voti. Trasone, figlio di Trasone, del demo di Anacea riferisce:

“Siccome Zenone di Cizio, figlio di Mnasea, nel corso di molti anni e con continuità

ha praticato la vita filosofica in questa città;

sotto ogni riguardo è stato uomo dabbene;

ha invitato alla virtù e alla temperanza [I,7,25] quei giovani che procedevano da lui per una raccomandazione, e li ha incitati alle mete più nobili;

ha esposto la propria vita come esempio per tutti, mantenendosi conseguente ai discorsi che faceva;

con buona fortuna il popolo ha ritenuto opportuno

di tributare pubblica lode a Zenone di Cizio, figlio di Mnasea;

di incoronarlo con una corona d’oro, secondo la legge, per la sua virtù [I,7,30] e la sua temperanza;

di edificare per lui, a spese pubbliche, una tomba nel Ceramico”.

Il popolo elegga per alzata di mano i cinque Ateniesi che avranno sollecitudine della fattura della corona e dell’edificazione della tomba. Il segretario del popolo faccia incidere il decreto votato su due stele ed abbia la potestà di collocarne una nell’Accademia e l’altra [I,7,35] nel Liceo. Il funzionario del governo spartisca la spesa sostenuta per le stele affinché tutti sappiano che il popolo di Atene onora i buoni sia vivi che morti. [I,8,1] Per l’edificazione della tomba e la fattura della corona sono stati eletti per alzata di mano: Trasone del demo di Anacea, Filocle del Pireo, Fedro di Anaflisto, Menone di Acarne, Micito di Sipaletto e Dione di Peania’.

SVF I, 9

Temistio ‘Orationes’ XXIII, p. 295d Hard. Circa Zenone, [I,8,5] è arcimanifesto e cantato in coro da molti che fu l’Apologia di Socrate a condurlo dalla Fenicia al Portico Dipinto.

SVF I, 10

Strabone ‘Geographia’ XIII, p. 614. Di Pitane è Arcesilao l’Accademico, condiscepolo di Zenone di Cizio presso Polemone.

SVF I, 11

Numenio presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XIV, 5, 11, p. 729b. Arcesilao e Zenone [I,8,10] appartennero alla cerchia dei discepoli di Polemone. […] Ricordo d’avere detto che Zenone frequentò la scuola di Senocrate, poi di Polemone, e che fece pure vita cinica con Cratete. Sia detto ora di lui che partecipò alle lezioni di Stilpone e che studiò le dottrine dei seguaci di Eraclito. Giacché quando frequentavano entrambi la scuola di Polemone, Arcesilao e Zenone gareggiavano ad emularsi ma in seguito, [I,8,15] nella lotta dell’uno contro l’altro, schierarono dalla propria parte, l’uno -ossia Zenone- Eraclito, Stilpone e insieme Cratete. Zenone prese da Stilpone la combattività, da Eraclito l’austerità e da Cratete il cinismo. Arcesilao invece […]

SVF I, 12

Numenio presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XIV, 6, 9, p. 732b. Ormai distanti uno dall’altro, Zenone e Arcesilao si scambiavano palesemente dei colpi; ma, dei due, era Arcesilao a colpire Zenone, il quale, [I,8,20] nella battaglia, manteneva un certo atteggiamento solenne e grave, se pur non migliore di quello del retore Cefisodoro […] Tuttavia proprio Zenone, una volta messo da parte Arcesilao, se non avesse polemizzato contro Platone, a mio giudizio si stava mostrando un filosofo di gran valore, proprio a motivo di questo suo atteggiamento pacifico. Si può controllare il fatto che Zenone era forse non ignaro delle dottrine di Arcesilao [I,8,25] ma che ignorava quelle di Platone, da ciò che egli scrisse contro quest’ultimo. E così fece anch’egli l’opposto, colpendo chi non conosceva, oltraggiando chi non bisognava oltraggiare in modo tanto infame e vergognoso, e facendo tutto ciò in modo più scellerato di quanto non convenisse ad un cinico. […] Del resto mostrò di avere preso le distanze da Arcesilao non per disinteresse, giacché rivolse [I,8,30] ‘la grande bocca dell’amara guerra’ da un’altra parte, cioè contro Platone, o per ignoranza o per timore delle dottrine di quello. Ma di ciò che Zenone scrisse, né bene né rispettosamente, per smania di novità contro Platone, dirò forse un’altra volta. […] Arcesilao, conoscendo con chiarezza che Zenone gli stava dinnanzi come un competitore e un concorrente alla vittoria, demoliva tutte le sue tesi [I,8,35] e non si peritava di nulla. […] Quando Arcesilao scorse che questo principio, formulato per primo da Zenone con il nome di ‘rappresentazione catalettica’, [I,9,1] godeva di buoni consensi in Atene, usò ogni accorgimento per confutarlo. Allora Zenone, che si trovava in posizione più debole, non potendo accontentarsi di starsene quieto, lasciò perdere Arcesilao pur avendo molte cose da dire (ma non volle, o forse fu piuttosto altrimenti), e si mise a [I,9,5] combattere contro un’ombra, ossia contro Platone che non era più tra i vivi. E dall’alto del suo carro, disturbava con schiamazzi tutto il corteo dei ragionamenti di Platone, visto che non c’era lui a difenderli e che a nessun altro interessava di parlare in sua difesa. E se la cose fosse interessata ad Arcesilao, Zenone credeva comunque di guadagnarci, perché avrebbe distornato Arcesilao dagli attacchi contro di sé.

SVF I, 13

[1] Cicerone ‘Academica’ I, 34. Zenone e Arcesilao erano stati assidui auditori di Polemone. Ma Zenone, più anziano di Arcesilao, [I,9,10] dialettico sottilissimo e pensatore acutissimo qual era, cercò di apportare correzioni alla dottrina.

[2] ‘De finibus’ IV, 3. Pertanto Zenone, dopo essere stato discepolo di Polemone, non aveva alcun motivo di dissentire da lui e dai predecessori.

SVF I, 14

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ XII, 7, 9. La colletta per Socrate consisteva in quanto gli serviva per il vivere quotidiano, mentre [I,9,15] Zenone, Cleante e Crisippo accettarono una paga dai discepoli.

SVF I, 15

Seneca ‘Ad Helviam’ 12, 4. È ben attestato che Omero ebbe un solo schiavo, Platone tre, e che Zenone, dal quale ebbe inizio la rigorosa e virile filosofia degli Stoici, non ne ebbe nessuno.

SVF I, 16

Seneca ‘De beneficiis’ IV, XXXIX, 1. [I,9,20] “Perché dunque”, obiettò quello, “il vostro Zenone, dopo avere promesso ad un tale un prestito di cinquecento denari, pur avendo avuto le prove della inaffidabilità di costui e nonostante gli amici cercassero di persuaderlo a non concederlo, glielo concesse comunque per la sola ragione che glielo aveva promesso?

SVF I, 17

Temistio ‘Orationes’ XXI, p. 252b Hard. Quando condonasti il debito a chi aveva preso del denaro in prestito, [I,9,25] proprio come fece Zenone di Cizio?

SVF I, 18

Sopatro phlyacogr. presso Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 160e-f.

‘Dopo avere ascoltato filosofeggiare e filologheggiare,

e che voi scegliete solertemente di mostrare fortezza,

prenderò da voi la prova di tali principi,

[I,9,30] in primo luogo affumicandovi. E se poi vedrò

che qualcuno di voi mentre arrostisce contrae la gamba,

costui sarà venduto per l’esportazione

ad un padrone Zenoniano, poiché ignora la saggezza’.

SVF I, 19

Eliano ‘Varia Historia’ IX, 33. Un adolescente di Eretria frequentò per parecchio tempo la scuola [I,9,35] di Zenone, finché giunse all’età adulta. Tornò in seguito ad Eretria e suo padre gli chiese che cosa di sapiente avesse imparato in così grande lasso di tempo. Egli rispose che glielo avrebbe mostrato, e non molto tempo dopo compì questo gesto. Poiché il padre era esasperato con lui e infine lo percuoteva, il giovane rimase tranquillo e si fece forza, [I,10,1] dicendogli di avere appunto imparato questo, ossia a sopportare l’ira dei padri e a non fremere.

SVF I, 20

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 22. Deciso a non tollerare gli approcci di un giovanotto di Rodi, avvenente e facoltoso ma altrimenti una nullità, Zenone lo fece sedere [I,10,5] in un primo tempo sui gradini pieni di polvere, così che si insudiciasse il mantellino, e poi nello spazio riservato ai poveracci, così che si strusciasse ai loro cenci. Finalmente il giovanotto se ne partì.

SVF I, 21

[1] Timone di Fliunte ‘Silli’ Fr. XX W.

‘Nel mentre aggregava un nugolo di gentaglia miserabile, di tutti quanti

[I,10,10] i più poveracci, e di quelli in città i mortali con la testa più leggera’.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 16. Come anche Timone afferma, gli stavano d’attorno individui nudi e sozzi:

‘Nel mentre <Zenone> aggregava un nugolo di gentaglia miserabile, di tutti quanti

i più poveracci, e di quelli in città i mortali con la testa più leggera’.

SVF I, 22

[1] Timone di Fliunte ‘Silli’ Fr. VIII W.

‘E vidi una vecchiarda golosa fenicia, d’una vanità ombrosa,

[I,10,15] vogliosa di tutto; le colava il paniere <dei denti>

perché piccolo, e aveva una mente da meno di una parola insensata’.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 15. <Zenone> era un ricercatore ed un esatto ragionatore su tutto, laonde Timone nei suoi ‘Silli’ dice così:

‘E vidi una vecchiarda golosa fenicia, d’una vanità ombrosa,

[I,10,15] vogliosa di tutto; le colava il paniere <dei denti>

perché piccolo, e aveva una mente da meno di una parola insensata’.

SVF I, 23

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 603d. [I,10,20] Il citaredo Aristocle era l’amato del re Antigono e su di lui Antigono di Caristo, nel libro sulla ‘Vita di Zenone’, scrive così: “Il re Antigono soleva sopraggiungere a far baldoria con Zenone e una volta, di giorno, venendo da un certo simposio, fece un salto su da Zenone e lo persuase ad andare con lui a fare baldoria dal citaredo [I,10,25] Aristocle, di cui il re era amantissimo”.

SVF I, 24

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. IX. Nei confronti di Arcesilao, come verso un suo pari ed un suo simile, l’ambizione di vittoria era per Zenone cosa piacevole e grata, ed egli ammirava e onorava immensamente Antigono. […] [I,10,30] […]

SVF I, 25

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. VIII. [….] farebbe quel che fa con i ragazzi che ciarlano e ci vengono incontro sulla porta. Poiché è assai incerto sul dove metterti, quasi quasi dice che ti istituirebbe ‘portinaio di bronzo’. E così [I,10,35] male questo non sarà per ammonire i falsificatori <di chiavi>”. Allora Zenone, volgendo lo sguardo agli ospiti asserì: “Che dite […]

SVF I, 26

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034a. [I,11,1] Zenone e Cleante non vollero diventare Ateniesi per non sembrare ingiusti verso la loro patria. Il fatto che, se costoro si sono comportati bene, allora bene non fece Crisippo ad iscriversi per tale cittadinanza, sia pretermesso.

SVF I, 27

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1033b. [I,11,5] Capita pertanto che molto sia stato scritto proprio da Zenone, pur nella sua concisione; molto da Cleante e ancora di più da Crisippo, sulla costituzione politica, sull’essere comandati e sul comandare, sull’amministrare la giustizia, sul parlare in pubblico. Ma nelle vite di nessuno di costoro è dato trovare un incarico di comando militare, una proposta di legge, un passaggio nell’Assemblea deliberativa, [I,11,10] la difesa di una causa davanti ai giudici, una campagna militare in difesa della patria, un’ambasceria, un donativo. Invece, in terra straniera, gustando ogni agio come fosse del loto, trascorsero tutta la vita, non breve ma lunghissima, tra i discorsi, i libri e le passeggiate. Ed è indubbio che vissero in un modo che è ammissibile con le dottrine professate e scritte da altri, più che da loro.

[2] p. 1033e. [I,11,15] Chi più di Crisippo, di Cleante, di Diogene, di Zenone e di Antipatro giunse alla tarda vecchiaia facendo questo tipo di vita dedicata allo studio? Loro che si lasciarono dietro le loro patrie senza incolparle di nulla ma, per passarsela in tranquillità a oziare e ad erudirsi nell’Odeon o allo Zostere?

SVF I, 28

[1] Dione Crisostomo ‘Orationes’ XLVII, 2. [I,11,20] Dapprima io mi stupivo di quei filosofi che si lasciano dietro le loro patrie senza che nulla li costringa a ciò, ma per la scelta di vivere presso altre genti; pur dichiarando che si deve onorare e far gran conto della patria e che partecipare agli affari pubblici e interessarsi dello Stato [I,11,25] è cosa, per l’uomo, secondo natura. Intendo riferirmi a Zenone, a Crisippo, a Cleante, nessuno dei quali rimase in patria, pur affermando queste cose.

[2] Seneca ‘De tranquillitate animi’ 1, 10. Senza esitare e con determinazione io seguo Zenone, Cleante e Crisippo, nessuno dei quali accedette a cariche pubbliche, e tuttavia nessuno dei quali si rifiutò di indirizzarvi altre persone.

SVF I, 29

Epitteto ‘Diatribe’ III, 21, 19. (Il dio) consigliava a Socrate [I,11,30] di avere l’ufficio di contestatore, a Diogene quello di re e di censore, a Zenone quello di insegnante e di teorico.

SVF I, 30

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. I. […] Onde chi cerca un segno della disposizione dell’animo suo (di Zenone) non potrebbe prenderne uno migliore [I,11,35] che quello dei giudizi che egli aveva sul bello e sul brutto, e similmente sul bene e sul male; giudizi che egli, dopo averli analizzati a fondo, inferì da questi. Infatti l’Epicureo Apollodoro, in 2 libri…. […] [I,11,40] […]

SVF I, 31

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. III. [I,12,1] […] l’epigrafe ‘Sul capo della mia Scuola’ e un’altra. Egli si è intrattenuto su questi argomenti per la maggior parte del libro, come rammentavamo in precedenza. Sul privato, ha scritto quel che voleva lui, e perciò che Zenone raramente si dava [I,12,5] alle compiacenze a causa della sua debolezza fisica, come in ….

SVF I, 32

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. VI. [I,12,10] […] ai fichi, e sopportava volentieri e di buona voglia i bagni di sole. E sarebbe degno di registrare ciò in un inno e addizionarvi la pubblica sepoltura….

SVF I, 32a

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ IX, p. 370c. Non è un paradosso se alcuni giuravano ‘per il cavolo’, [I,12,15] dal momento che Zenone di Cizio, il fondatore della Stoa, imitando il giuramento di Socrate ‘per il cane’ giurava lui stesso ‘per il cappero’, come afferma Empedo nei ‘Detti memorabili’.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 32. Dicono che solesse giurare ‘sul cappero’, proprio come Socrate ‘sul cane’.

SVF I, 33

Galeno ‘De differentia pulsuum’ III, 1, Vol. VIII, p. 642 K. [I,12,20] I principi provenienti dalla Stoa hanno il beneplacito di tutti questi <medici> chiamati ‘Pneumatici’. Siccome Crisippo li ha abituati alla controversia sui nomi, essi non si peritano a fare ciò anche con i termini medici. E Zenone di Cizio, ancora prima, ebbe l’audacia di innovare e di andare oltre [I,12,25] le usanze greche in fatto di nomi.

SVF I, 34

[1] Cicerone ‘De finibus’ III, 5. Per quanto gli Stoici, tra tutti i filosofi, furono quelli che introdussero più novità, Zenone, il loro capo, non fu tanto inventore di concetti quanto di nuove parole.

[2] 15. Se fu lecito a Zenone, ogni volta che scopriva qualcosa di nuovo, imporle anche un nome mai sentito prima, [I,12,30] perché lo stesso non dovrebbe essere concesso a Catone?

SVF I, 35

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ V, 34. Zenone di Cizio, uno straniero, indegno fabbricatore di parole, sembra che si sia infiltrato in un’antica filosofia.

SVF I, 36

Luciano ‘Macrobìoi’ 19. [I,13,1] Zenone, capostipite della filosofia Stoica, visse novantotto anni. Si racconta che mentre entrava nell’assemblea incespicò ed esclamò: “Perché mi chiami con alte grida?” Poi rincasò e pose fine alla sua vita astenendosi dal cibo.

SVF I, 36a

Filodemo ‘De Stoicis’ col IV, Neap. (= 3 Oxf.) [I,13,5] Durante l’Arcontato di Clearco ad Atene, su di lui ha scritto […] nella lettera includente le notizie su Antifonte […] che egli aveva [I,13,10] allora sessantadue anni. Dimostrerà pertanto che Zenone visse pressoché centouno anni. [I,13,15] Infatti dall’Arcontato di Clearco a quello di Arrenide durante il quale, nel mese di Sciroforione, Zenone morì, passano trentanove anni […] [I,13,20] […] [I,13,25]

SVF I, 36b

Pausania ‘Greciae descriptio’ I, 29, 15. Qui [nell’Accademia] giacciono anche [le tombe di] Zenone, figlio di Mnasea e di Crisippo di Soli.

SVF I, 37

Strabone ‘Geographia’ XXVI, p. 757. [Tra i filosofi famosi] di Tiro era Antipatro e, poco prima [I,13,30] dei miei tempi, Apollodoro, il quale pubblicò una tavola dei filosofi della scuola di Zenone e dei loro libri.

SVF I, 38

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 36-38. I discepoli di Zenone furono numerosi, ma i più accreditati furono Persèo di Cizio, figlio di Demetrio. […] Aristone di Chio, figlio di Milziade, quello che introdusse il concetto di ‘indifferente’. [I,13,35] Erillo di Calcedonia, quello che affermò come sommo bene la ‘scienza’. Dionisio il Ritrattatore, quello che affermò come sommo bene il piacere fisico; giacché, a causa di una fortissima oftalmia si peritò a chiamare ancora ‘indifferente’ il dolore fisico. Dionisio era di Eraclea. Sfero del Bosforo. Cleante di Asso, figlio di Fania, il successore [di Zenone] alla guida della Scuola; quello che [I,14,1] era assimilato alle tavolette per scrivere ricoperte di cera dura, sulle quali si scrive appena appena ma che serbano a dovere gli scritti. Dopo la morte di Zenone, Sfero del Bosforo fu discepolo di Cleante. […] Secondo Ippoboto erano discepoli di Zenone anche i seguenti: [I,14,5] Filonide di Tebe, Callippo di Corinto, Posidonio di Alessandria, Atenodoro di Soli, Zenone di Sidone.

SVF I, 39

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. X 2. Cleante di Asso, figlio di Fania, che assunse la direzione della Scuola [alla morte di Zenone]. Dionisio di Eraclea, il Ritrattatore, figlio di Teofanto, [I,14,10] come scrive Antigono. Aristone di Chio, figlio di Milziade, che dichiarò sommo bene ‘l’indifferenza’, ma che per il resto si crede abbia seguito il maestro.

[2] Col. XI 2. [I,14,15] Zenone di Sidone, anche detto […] come anche Crisippo, nel libro ‘Sull’ignoto…

[3] Col. XII Atenodoro di Soli […] Ecateo, figlio di Spintaro, [I,14,20] restituì….

SVF I, 40

Origene ‘Contra Celsum’ III, 54, Vol. I, p. 250, 3 K. A meno che anche noi siamo intenzionati a incolpare dei filosofi che hanno spronato alla virtù gente capace di rovinare una casa, come Pitagora fece con Zamolside e Zenone con Persèo?

SVF I, 40a

Plutarco ‘Vita Cleomenis’ 2. Sfero [I,14,25] era stato uno dei primi discepoli di Zenone di Cizio.

SVF I, 41

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 4. Oltre la ‘Repubblica’, [Zenone] scrisse anche le seguenti opere: ‘Sulla vita secondo natura’; ‘Sull’impulso o sulla natura umana’; [I,14,30] ‘Sulle passioni’; ‘Sul doveroso’; ‘Sulla legge’; ‘Sull’educazione greca’; ‘Sulla vista’; [I,14,35] ‘Sull’intero’; ‘Sui segni’; ‘Questioni Pitagoriche’; ‘Universali’; [I,15,1] ‘Sulle elocuzioni’; ‘Problemi Omerici (cinque libri)’; ‘Sull’ascolto della poesia’. Sono sue anche: ‘L’arte’; [I,15,5] ‘Soluzioni e Confutazioni (2 libri)’; ‘Detti Etici memorabili di Cratete’.

SVF I, 42

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. IV. [….] di coloro che hanno gettato vergogna e sospetto non solo su quest’opera, dicendo che essa è stata cucita insieme [da Zenone] [I,15,10] al modo che altrove si mostrerà a dito….

SVF I, 43

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 9, p. 680 Pott. [I,15,15] Anche gli Stoici dicono che dal primo di loro, ossia da Zenone, furono scritte alcune opere che essi non consentono facilmente di leggere a quei discepoli che non abbiano in precedenza dato prova di saper fare una genuina vita filosofica.

SVF I, 44

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ XII, I, 18. Seppure a questi uomini [I,15,20] mancò la virtù somma, a chi chiede se furono degli oratori risponderò come risponderebbero gli Stoici alla domanda se Zenone, Cleante e lo stesso Crisippo fossero sapienti: furono grand’uomini degni di venerazione, e tuttavia ancora non raggiunsero la somma perfezione della natura umana.

  1. Frammenti e massime di Zenone [I,15,25]

Frammenti n. 45-46

SVF I, 45

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 39. <Gli Stoici affermano che> la ragione insita nel cosmo è, secondo filosofia, tripartita. Una sua parte, infatti, è qualcosa di fisico, un’altra di etico e un’altra di logico. Così per primo la suddivise Zenone di Cizio nel suo libro ‘Sulla ragione’.

Cicerone ‘De finibus’ IV, 4. Gli antichi Accademici avevano suddiviso la filosofia [I,15,30] in tre parti, e noi vediamo che questa partizione è conservata da Zenone.

SVF I, 46

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 40. [I,16,1] Altri invece posizionano per prima la logica, per seconda la fisica e per terza l’etica. Tra questi vi è Zenone, nel suo libro ‘Sulla ragione’.

  1. Logica [I,16,5]

Frammenti n. 47-51

SVF I, 47

Cicerone ‘De finibus’ IV, 9. Di questi argomenti <logici>, seppure Crisippo trattò con ampiezza, Zenone si è occupato assai meno dei filosofi antichi.

SVF I, 48

Epitteto ‘Diatribe’ I, 17, 10-12. La logica […] è atta a [I,16,10] distinguere e ad esaminare le altre cose e, come uno direbbe, a misurarle e pesarle. Chi dice questo? Solamente Crisippo, Zenone e Cleante? Antistene non lo dice?

SVF I, 49

Stobeo ‘Eclogae’ II, 2, 12, p. 22, 12 W. Zenone soleva far rassomigliare le ‘arti dei dialettici’ ai giusti strumenti di misura, che però misurano non il frumento o [I,16,15] qualcos’altro di pregiato bensì lo strame e il letame.

SVF I, 50

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034f. Zenone soleva sciogliere i sofismi e intimare ai discepoli di assumere la dialettica come un’arte capace di fare ciò.

SVF I, 51

Epitteto ‘Diatribe’ IV, 8, 12. […] Del filosofo […] quali sono i principi generali? […] quelli che [I,16,20] dice Zenone ossia riconoscere gli elementi del discorso, qual è la natura di ciascuno di essi, come s’acconciano gli uni agli altri e quanto a questi è conseguente.

§ 1.Struttura della conoscenza: rappresentazione, sensazione, criterio di verità

 Frammenti n. 52-73

SVF I, 52

Cicerone ‘Academica’ II, 66. Arcesilao, [I,16,25] con l’assenso di Zenone, ritiene che la massima forza del saggio consista nel badare a non farsi sedurre e nel guardarsi dallo sbagliare.

SVF I, 53

Cicerone ‘Academica’ I, 42. <Zenone> rimuoveva dall’ambito della virtù e della saggezza l’errore, la precipitazione nel giudizio, l’ignoranza, l’opinione, l’approssimazione, [I,16,30] insomma tutto ciò che è estraneo ad un saldo e costante assenso.

SVF I, 54

[1] Cicerone ‘Pro Murena’ 61. Il saggio non opina, di nulla si pente, in nulla sbaglia, mai cambia avviso.

[2] ‘Academica’ II, 113. Il saggio nulla deve opinare, […] [I,17,1] ma nessuna di queste due posizioni fu difesa con serio impegno prima di Zenone.

[3] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 4. Pertanto se né si può conoscere qualcosa, come insegnò Socrate, né è d’uopo opinare, come insegnò Zenone, si toglie di mezzo tutta la filosofia.

[4] Agostino ‘Contra Academicos’ II, 11 Avendo essi accettato dallo medesimo Zenone [I,17,5] il principio che nulla è più vergognoso dell’opinare.

[5] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 11m, p. 112, 1 W. <Gli Stoici affermano che> il saggio nulla concepisce debolmente, ma piuttosto con sicurezza e con saldezza, e che perciò neppure opina….

[6] p. 113, 5. […] e concepiscono che chi ha accortezza non si pente […] non muta in alcun modo giudizio, non [I,17,10] ritratta e non inciampa.

[7] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. E ancora, che il sapiente non opinerà.

SVF I, 55

Cicerone ‘Academica’ I, 40. In quella terza parte della filosofia <Zenone> apportò cospicui cambiamenti, in primo luogo introducendo certe novità nel campo stesso degli organi di senso, che egli valutò capaci di combinarsi con un certo stimolo [I,17,15] proveniente dall’esterno, generando quello che egli chiamò φαντασία e che noi possiamo denominare ‘rappresentazione’.

SVF I, 56

Numenio presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XIV, 6, 13. Quando Arcesilao scorse che questo principio, formulato per primo da Zenone con il nome di ‘rappresentazione catalettica’, [I,9,1] godeva di buoni consensi in Atene, usò ogni accorgimento per confutarlo.

SVF I, 57

Galeno ‘De optima doctrina’ 1, Vol. I, p. 41 K. [I,17,20] […] vitupera i vocaboli Stoici: ‘catalettico’, ‘catalessi’, ‘rappresentazione catalettica’, ‘acatalettico’, ‘acatalessi’, come poco attici.

SVF I, 58

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 236. Qualora Zenone affermi che la rappresentazione è un’impronta nell’animo, bisogna intendere [per ‘animo’ non tutto l’animo, ma quella sua parte …. chiamata ‘egemonico’].

[2] VII, 230. [I,17,25] <Crisippo> dunque sottintende che Zenone usi il termine ‘impronta’ nel senso di ‘alterazione’.

SVF I, 59

[1] Cicerone ‘Academica’ II, 18. Negando che possa esistere qualcosa che sia comprensibile, […] ma se ci fosse sarebbe, come lo definisce Zenone, una certa rappresentazione ossia φαντασία […] impressa e prodotta da ciò da cui deriva [I,17,30] e che pertanto non potrebbe essere simile a ciò da cui non deriva; e questa definizione di Zenone sembra assolutamente ineccepibile […] ed è negando questo che Filone infirma es elimina […]

[2] II, 77. Poniamo che <Arcesilao> chiedesse a Zenone cosa accadrebbe se il saggio non potesse né percepire qualcosa né opinare. [I,17,35] Zenone, io credo, risponderebbe che il saggio non opinerà alcunché, poiché non c’è nulla che egli possa percepire. E cos’è che non c’è? La rappresentazione, io credo. E quale sorta di cosa è la rappresentazione? Allora <Zenone> la definirebbe così: la rappresentazione è l’impressione, il contrassegno, l’impronta che viene da ciò che esiste realmente e che gli è conforme. Dopo di che <Arcesilao> gli avrebbe chiesto se la rappresentazione vera e quella falsa abbiano identico aspetto. [I,18,1] Al che Zenone, con la sua acutezza, avrebbe risposto che non potrebbe esserci alcuna rappresentazione percepibile, se si ammette che la percezione di ciò che esiste non è diversa da quella di ciò che non esiste. Arcesilao fu d’accordo che questa aggiunta alla definizione era corretta.

[3] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 248. [I,18,5] […] Rappresentazione catalettica è quella rappresentazione che nasce da un oggetto esistente, che è stata ben ricalcata e sigillata in conformità all’esistente stesso ed è quale non potrebbe nascere da un oggetto inesistente.

[4]Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 50. [I,18,10] […. ben ricalcata] e ben modellata….

[5] Agostino ‘Contra Academicos’ III, 9, 18. Ma vediamo quel che dice Zenone. Certamente può essere compresa e percepita solo quella rappresentazione che non ha segni in comune con il falso.

SVF I, 60

Cicerone ‘Academica’ I, 41. <Zenone> [I,18,15] concedeva fiducia non a tutte le rappresentazioni ma solo a quelle che recassero in sé l’intrinseca evidenza degli oggetti visti, e questa rappresentazione discernibile per la sua intrinseca evidenza la chiamava ‘comprensibile’; me lo concedete questo termine? Senza dubbio, disse <Attico>, in quale altro modo potresti tradurre καταληπτόν ? La rappresentazione accettata ed approvata, la chiamava poi ‘comprensione’, [I,18,20] per analogia con quelle realtà che si prendono con le mani. Ecco da dove viene questo termine, che prima di allora non era mai stato usato in tale accezione. Abitualmente egli faceva uso di parecchie parole nuove; e d’altra parte diceva cose nuove. Chiamava sensazione ciò che è colto dai sensi; e se ciò era appreso in maniera tale da non poter essere sradicato dal ragionamento, lo chiamava scienza, [I,18,25] altrimenti non-scienza. Da quest’ultima trae origine anche l’opinione, che è malferma ed ha tratti in comune con ciò che è falso o non conosciuto. Fra la scienza e la non-scienza, egli collocava quella comprensione di cui ho detto, e la annoverava tra le cose né buone né cattive; dicendo che solo ad essa si doveva dare credibilità. Dal che si capisce anche che egli dava fiducia ai sensi, per il fatto che, [I,18,30] come ho già detto, la comprensione che origina dai sensi per lui era vera ed affidabile, non perché esaurisse tutti i caratteri che sono in una cosa, ma perché non perde alcun dato di quelli che sono di sua pertinenza: ragione per cui la natura ce l’ha data come principio e criterio della scienza. In seguito, dalla comprensione si imprimono negli animi le nozioni delle cose, grazie alle quali si aprirebbero [I,18,35] non solo i principi primi ma anche le vie maestre alla ricerca razionale. Egli dunque rimuoveva dall’ambito della virtù e della saggezza l’errore, la precipitazione nel giudizio, l’ignoranza, l’opinione, l’approssimazione, insomma tutto ciò che è estraneo ad un saldo e costante assenso.

SVF I, 61

Cicerone ‘Academica’ I, 40. A queste rappresentazioni [I,19,1] che in parte provengono dai sensi <Zenone> aggiunge l’assenso dell’animo, assenso che egli vuole sia posto in noi e volontario.

SVF I, 62

[1] Cicerone ‘Academica’ I, 41. Chiamava sensazione [I,19,5] ciò che è colto dai sensi.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 52. <Gli Stoici> chiamano ‘sensazione’ [lo pneuma che partendo dall’egemonico pervade i sensi] e anche l’apprensione che avviene attraverso di essi.

SVF I, 63

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VIII, 355. Epicuro disse che ogni oggetto sensibilmente percepito è saldamente esistente, mentre lo stoico Zenone utilizzava la diairesi […]

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 70. Arcesilao incalzava Zenone perché, mentre egli [I,19,10] sosteneva che tutte le sensazioni sono false, secondo Zenone non tutte lo sono ma soltanto alcune.

[3] ‘Academica’ I, 41. <Zenone> concedeva fiducia non a tutte le rappresentazioni.

SVF I, 64

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 373. [Cleante aveva affermato che la ‘rappresentazione’ è un’impronta [I,19,15] fatta di rientranze e di sporgenze]. Ma se è così <dice Crisippo>, allora è abolita la memoria in quanto tesaurizzazione di rappresentazioni [ed è anche abolita ogni arte].

SVF I, 65

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 136, 21 W. Di Zenone e dei suoi seguaci. [I,19,20] Essi affermano che le concettualizzazioni sono né ‘qualcosa’ né ‘qualità’, ma è come se fossero certe quali produzioni fantasmatiche dell’animo, quelle che gli antichi designavano col nome di ‘idee’. Le idee, infatti, sono enti che ricadono nel novero delle concettualizzazioni: per esempio, le idee di ‘uomini’, di ‘cavalli’ e, per dirlo più genericamente, di tutte le creature e tutte quelle altre cose delle quali si dice che esistano idee. I filosofi Stoici affermano che queste entità [I,19,25] non hanno un’esistenza propria e che esse partecipano di noi come i casi partecipano di quelli che essi chiamano ‘nomi’.

[2] Aezio ‘Placita’ I, 10, 5. Gli Stoici seguaci di Zenone affermarono che le idee sono nostre concettualizzazioni.

[3] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 61. La concettualizzazione è una produzione fantasmatica dell’intelletto, la quale è né un ‘qualcosa’ né una ‘qualità’, ma è come se fosse un ‘qualcosa’ e una ‘qualità’, [I,19,30] al modo per cui nasce l’impressione di un cavallo anche se il cavallo non c’è.

SVF I, 66

Cicerone ‘Academica’ II, 144. Zenone infatti nega […] che voi sappiate qualcosa. “Com’è possibile?”, dirai tu, “noi, infatti, difendiamo la tesi che anche l’insipiente comprende molte cose. Voi invece negate che qualcuno, al di fuori del saggio, conosca qualcosa”. Zenone traduceva questo in un gesto. Infatti quando mostrava la palma della mano con le dita aperte, diceva: [I,19,35] “Ecco la rappresentazione”. Poi, con le dita un po’ piegate, diceva: “Ecco l’assenso”. Infine, col pugno completamente chiuso, affermava che quella era [I,20,1] la ‘comprensione’. Ed è da questa similitudine che diede il nome ‘κατάληψιν’ ad una cosa prima inesistente. In seguito avvicinava la mano sinistra, e con essa stringendo nel dovuto modo e con forza il pugno, diceva che questa era la scienza, di cui nessuno, tranne il saggio, [I,20,5] ha il pieno possesso.

SVF I, 67

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 151. L’opinione è l’assenso debole e fallace.

SVF I, 68

[1] Cicerone ‘Academica’ I, 41. Se ciò era appreso in maniera tale da non poter essere sradicato dal ragionamento, lo chiamava scienza, altrimenti non-scienza.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 73, 19 W. [I,20,10] La scienza è apprensione sicura la cui immutabilità è a prova di ragionamento.

[3] p. 111, 20. L’ignoranza è un assenso volubile e debole.

[4] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 151. La scienza è apprensione sicura, salda e inamovibile ad opera di un ragionamento.

[5] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 47. E chiamano la [I,20,15] scienza stessa o apprensione sicura oppure postura dell’animo la cui immutabilità, nell’accettazione delle rappresentazioni, è a prova di ragionamento.

SVF I, 69

[1] Cicerone ‘Academica’ I, 42. Fra la scienza e la non-scienza, egli collocava la comprensione, […] e la annoverava tra le cose né buone né cattive.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 151. La scienza, l’opinione e l’apprensione, la quale è posizionata nella terra di confine [I,20,20] tra le due […] l’apprensione sta frammezzo a queste […]

[3] VII, 153 Arcesilao […] il quale mostra che l’apprensione non è affatto un criterio di verità che stia frammezzo alla scienza e all’opinione.

SVF I, 70

Calvisio Tauro presso Erone ‘Geometria’ p. 275 Hultsch. Esiste una memoria di [I,20,25] Tauro di Sidone sulla ‘Repubblica’ di Platone, nella quale vi sono queste affermazioni: Platone definiva la geometria […] Aristotele […] Zenone come postura nell’accettazione delle rappresentazioni la cui immutabilità è a prova di ragionamento.

SVF I, 71

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. <Zenone> soleva dire che nulla è più estraneo all’apprensione delle scienze della presunzione.

SVF I, 72

‘Scholia’ in Dyonis. Thrac. p. 118, 15-16 Hilgard. [I,20,30] Come manifesta anche Zenone quando dice: “L’arte è una postura a fare in modo sistemico”, cioè a fare qualcosa seguendo una strada definita e con metodo. [I,20,35] […] [I,21,1]

SVF I, 73

[1] Olimpiodoro ‘In Platonis Gorgiam’ p. 63, 11 Norvin. Zenone afferma che [I,21,5] l’arte è un insieme formato da apprensioni allenate in vista di un fine profittevole nelle cose della vita.

[2] Luciano ‘De parasito’ c. 4. L’arte è, come io ricordo di aver sentito dire da un certo sapiente, un insieme formato da apprensioni allenate in vista di un fine profittevole nelle cose della vita.

[3] ‘Scholia’ ad Aristoph. Nub. 317. Così noi definiamo l’arte, ossia un insieme [I,21,10] formato da apprensioni allenate, e quel che segue.

[4] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ II, 10. Pertanto ogni arte è un insieme formato da apprensioni allenate e che prendono riferimento da un fine profittevole alla vita.

[5] Sesto Empirico (vari altri luoghi). Gli Stoici definiscono [I,21,15] l’arte in questo modo: l’arte è un insieme inerente all’animo e formato da apprensioni allenate, eccetera.

[6] Quintiliano ‘Institutio oratoria’ II, 17, 41. Questa è la definizione (di ‘arte’) che gode di quasi universale approvazione: l’arte consiste di percezioni concordanti e cooperanti ad un fine utile alla vita.

[7] Cicerone ap. Diomed. II, p. 421 K. L’arte è una costruzione di percezioni ben esercitate e pertinenti ad un unico [I,21,20] fine utile alla vita.

[8] ‘Academica’ II, 22. Quale arte ci può essere se non quella che consta non di una o due ma di molte percezioni dell’animo?

[9] ‘De finibus’ III, 18. Le arti constano di cognizioni e contengono in sé un elemento fatto di ragione e metodo.

[10] ‘De natura deorum’ II, 148. A partire dalle percezioni, collegandole tra di loro e comparandole, costituiamo anche le arti, [I,21,25] che in parte soddisfano delle necessità pratiche.

§ 2. Retorica

 Frammenti n. 74-84

SVF I, 74

[1] Eustazio ‘In Iliadem’ XVIII, v. 506, p. 1158, 37 Bekker. Quando Omero parla in questo verso di ‘araldi le cui voci risuonano nell’aria’, anticipa la definizione di Zenone [I,21,30] quando afferma: ‘La voce è aria percossa’.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 55. La voce è aria percossa.

SVF I, 75

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ II, 7. Onde anche Zenone di Cizio, quando gli fu chiesto in che cosa si differenzi la dialettica dalla retorica, racchiuse la mano e poi di nuovo la dispiegò dicendo: “A questo”. Con la chiusura della mano, infatti, egli dava una forma [I,21,35] al peculiare carattere atticciato e conciso della dialettica, mentre con il suo dispiegamento e la distensione delle dita alludeva all’ampiezza della facoltà retorica.

[2] Cicerone ‘De finibus’ II, 17. “Questo è il pensiero dello Stoico Zenone”, aggiunsi. “Come già in precedenza aveva sostenuto Aristotele, [I,22,1] egli riteneva che tutta l’eloquenza si dividesse in due parti: la retorica, che era simile al palmo della mano; e la dialettica, che era simile al pugno; giacché i retori si esprimono in uno stile esteso, mentre i dialettici con più concisione”.

[3] ‘Orator’ XXXII, 113. Un certo Zenone, dal quale trae origine la filosofia degli Stoici, era solito dimostrare con la mano quale sia la differenza tra queste arti. [I,22,5] Infatti quando stringeva le dita e faceva il pugno, affermava che così era la dialettica; quando invece le distendeva e apriva la mano, diceva che l’eloquenza era simile al palmo di quella.

[4] Quintiliano ‘Institutio oratoria’ II, 20, 7. Pertanto ci son due generi di discorso, uno scorrevole che si chiama retorico, l’altro conciso che si chiama dialettico. Zenone vedeva una stretta relazione tra i due generi e diceva che la dialettica, [I,22,10] era simile alla mano chiusa a pugno, la retorica alla mano aperta.

SVF I, 76

Cicerone ‘De finibus’ IV, 7. Zenone e i suoi discepoli o non seppero o non vollero perseguire tutto questo genere di studi <concernenti la politica> e, comunque sia, lo abbandonarono.

SVF I, 77

[1] Cicerone ‘Epistulae ad familiares’ IX, 21, 1. Nell’esprimermi io amo [I,22,15] il perbenismo, tu invece la piena libertà di parola. E proprio questa piacque a Zenone, uomo certamente acuto, per Ercole, anche se tra lui e la nostra Accademia ci sono contrasti feroci. Ma, come dico, agli Stoici piace chiamare le cose con il loro nome; ed essi argomentano che nulla c’è di osceno o di indecente nelle parole che si pronunciano. Infatti, se ci fosse qualcosa di obbrobrioso nelle parole oscene, tale obbrobrio starebbe o nella cosa che si riferisce oppure nella parola che si impiega per riferirla: [I,22,20] non si dà una terza possibilità. Ma esso non è nella cosa, giacché il fatto in sé è esposto non solo nelle commedie […] ma anche nelle tragedie […]. Tu vedi dunque che, pur rimanendo identica la cosa significata, poiché le parole usate per significarla non sono indecenti, nulla appare indecente. Dunque l’indecenza non è nella cosa, e ancor meno è nelle parole. Infatti se ciò [I,22,25] che è significato dalla parola non è indecente, la parolache lo significa non può essere indecente […]. Pertanto se non è nella parola; e se d’altra parte ho mostrato che neanche è nella cosa, ne consegue che l’indecenza è da nessuna parte […]. Eccoti in poche parole la posizione della scuola Stoica: <il saggio chiamerà pane il pane> ὁ σοφὸς εὐθυρρημονήσει […]. Io osservo il perbenismo nel parlare. Pertanto ti ho scritto con parole velate quello che gli Stoici dicono con parole del tutto esplicite; [I,22,30] e tuttavia essi sostengono che anche i peti e i rutti debbano essere egualmente liberi.

[2] ‘De officiis’ I, 128. Non bisogna dare retta ai Cinici o a quegli Stoici, se ce ne furono, molto vicini ai Cinici, che ci rimproverano e ci deridono perché consideriamo obbrobriose cose che in realtà non sono indecenti, e invece altre cose che sono indecenti le chiamiamo col loro nome. [I,22,35] Rubare, defraudare, commettere adulterio sono di fatto cose indecenti, ma non è osceno menzionarle per nome. Fare quel che serve per mettere al mondo dei figli è in realtà una cosa onesta, ma il dirlo a parole è osceno. E gli Stoici portano molti argomenti dello stesso tenore contro il perbenismo nel parlare.

SVF I, 78

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034e. [I,23,1] A chi diceva:

‘non emettere un verdetto prima di avere ascoltato il racconto di entrambi’,

Zenone faceva obiezione usando un ragionamento di questo genere. Se il primo imputato che parla ha provato il suo punto, non c’è bisogno di ascoltare la deposizione del secondo, giacché la ricerca [I,23,5] ha termine qui. Oppure non ha provato il suo punto. Ma allora questo è lo stesso che il non aver dato retta alla convocazione oppure all’avervi dato retta ma poi essersi messi a cinguettare. Dunque o il primo ha provato il suo punto oppure non l’ha provato, e pertanto non c’è bisogno di ascoltare la deposizione del secondo.

SVF I, 79

Quintiliano ‘Institutio oratoria’ IV, 2, 117. Qui le parole dovranno essere esplicite e, come vuole Zenone, [I,23,10] cariche di senso.

SVF I, 80

Plutarco ‘Vita Phocionis’ V. Come diceva Zenone: “Il filosofo deve proferire le parole immergendole nella mente”.

SVF I, 81

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 18. Zenone era dell’avviso che i discorsi perfettamente rifiniti di coloro che parlano senza solecismi [I,23,15] fossero simili alle monete Alessandrine d’argento: di magnifico aspetto e dai contorni netti come quelle monete, ma non per questo migliori di altri. Zenone assimilava invece le espressioni di genere opposto alle tetradracme Attiche tagliate alla buona e grossolanamente, e che però hanno spesso più peso delle espressioni calligrafate.

SVF I, 82

[1] Zonara ‘Lexikon’, s.v. ‘Soloikizein’, col. 1662. [I,23,20] Solecizzare non è soltanto essere villani a voce e nel discorso ma anche, come dice Zenone, negli indumenti qualora ci s’abbigli da villani o si mangi sregolatamente o si cammini in modo scomposto.

[2] Cirillo ‘Lexikon’ ap. Cramer. Anecd. Paris IV, p. 190. Solecismo: quando si dialoga non a regola d’arte. Solecizzare non è soltanto [I,23,25] essere volgare nelle espressioni e nella voce, ma anche in ciò che si porta addosso; qualora ci s’abbigli da villani o si mangi sregolatamente o si cammini in modo scomposto, come dice Zenone di Cizio.

SVF I, 83

Anonimo ‘Ars rethorica’ Reth. Gr. I, p. 434, 23 Spengel. Zenone dice così: la narrazione è l’esposizione dei fatti contenuti nella premessa e che fluisce [I,23,30] da chi parla a chi gli sta di fronte.

SVF I, 84

Anonimo ‘Ars rethorica’ Reth. Gr. I, p. 447, 11 Spengel. Come dice Zenone: l’esempio è la menzione di una faccenda avvenuta per la sua somiglianza a ciò che si ricerca. [I,23,35]

  • Fisica I. [I,24,1]

I principi

La materia e lo pneuma – La causa – I corpi e i loro accidenti – Gli incorporei – Il tempo – Il vuoto

Frammenti n. 85-96

SVF I, 85

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 134. [I,24,5] <Gli Stoici> ritengono che i fondamenti del cosmo nella sua interezza siano due: quello che fa l’azione e quello che la sperimenta. Quello che sperimenta l’azione è la sostanza senza qualità, il materiale. Quello che fa l’azione è la ragione insita nel materiale, ossia la divinità. Poiché questa ragione sempiterna è connaturata a qualunque materiale, è essa a fabbricare tutte e singole le cose esistenti. È Zenone a porre questo principio nel suo libro ‘Sulla sostanza’.

[2] Aezio ‘Placita’ I, 3, 25 (Dox. Gr. p. 289). [I,24,10] Zenone di Cizio, figlio di Mnasea, pone a fondamenti: la divinità e il materiale. Di essi, la divinità è causa del fare, mentre il materiale è causa dello sperimentare l’azione. Gli elementi, poi, sono quattro.

[3] Achille ‘Isagoge’ 3, 1, p. 31 Maass. Zenone di Cizio chiama i fondamenti del cosmo nella sua interezza: la divinità e il materiale. Egli dice che la divinità è il fondamento che fa l’azione, il materiale quello che la subisce, e che da essi sono nati i quattro elementi.

[4] Filone Alessandrino ‘De providentia’ I, 22. Zenone, [I,24,15] figlio di Mnasea, […] l’aria, dio, la materia e i quattro elementi.

[5] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ IV, 2. Zenone di Cizio, figlio di Mnasea, frequentatore di Cratete, l’iniziatore della scuola Stoica, affermò essere fondamenti: la divinità e il materiale.

SVF I, 86

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 290. I più separano il materiale dall’essenza, come [I,24,20] fanno Zenone e Crisippo. Ma certamente dicono che il materiale è ciò che sta alla base di tutte le cose dotate di qualità, e che l’essenza prima di tutte le cose e il loro fondamento assolutamente originario, per sua natura senza volto e senza forma, è il materiale. Ad esempio, il bronzo, l’oro, il ferro e le altre realtà analoghe sono il materiale delle cose che sono prodotte a partire da essi, ma non ne sono l’essenza. [I,24,25] In effetti ciò che è causa dell’esistere sia di queste che delle altre realtà, è esso stesso la loro sostanza.

SVF I, 87

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, 11, 5a, p. 132, 26 W. Di Zenone. La sostanza <senza qualità> è il materiale primo di tutte le cose esistenti. Tutto questo materiale è sempiterno e non aumenta né diminuisce mentre [I,24,30] le sue parti, invece, non restano sempre identiche a se stesse ma si suddividono e si riconfondono. È attraverso questo materiale che la ragione universale, che alcuni chiamano ‘destino’, corre proprio come fa lo sperma nella generazione.

[2] Epifanio ‘Adversus haeres.’ I, 5 (Dox. Gr. p. 588). Anche Zenone è di questo avviso poiché, parimenti alle altre scuole, chiama il materiale ‘sincrono’ alla divinità. E afferma che il destino è [I,24,35] il codice genetico dal quale tutte le cose sono governate e che tutte sperimentano.

[3] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 150. [I,25,1] Come affermano <anche Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’ e> Zenone, <gli Stoici> dicono che la sostanza senza qualità è la materia prima di tutte le cose esistenti. <Essa è il materiale dal quale nasce qualsiasi cosa di qualsiasi genere.> Questa sostanza materiale si chiama così in duplice senso, ossia o nel senso di sostanza materiale di tutte le cose oppure nel senso di sostanza materiale di cose particolari. Nel primo senso, la sostanza materiale del cosmo nella sua interezza non aumenta né diminuisce; mentre la sostanza materiale di cose particolari, invece, può aumentare o diminuire.

[4] Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 294. Senza dubbio [I,25,5] gli Stoici ritengono che dio non sia una cosa diversa dal materiale, oppure una qualità non separabile da esso. E inoltre pensano che dio passi attraverso il materiale come il seme passa attraverso gli organi genitali.

SVF I, 88

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 292. In seguito Zenone sostiene che questa stessa essenza sia finita, e che sia sostanza unica e comune di tutte le cose che esistono, divisibile e mutabile in qualunque cosa. [I,25,10] Le sue parti si trasformano ma non vanno perdute, cosicché nulla di ciò che esiste finisce nel non-essere. Come nel caso delle innumerevoli e varie figure che può prendere la cera, così egli pensa non si deve attribuire nessuna forma o figura e neppure in senso proprio alcuna qualità al materiale che è sostrato di ogni realtà. E tuttavia questo materiale è sempre congiunto ed inseparabilmente associato ad una qualche qualità. [I,25,15] E dal momento che conosce né origine né fine, giacché né viene dal nulla né va nel nulla, per l’eternità mai è mancante di spirito e d’energia, i quali lo muovono secondo ragione talora nella sua totalità, qualche altra volta nelle sue parti, e sono la causa di una tanto frequente e veemente trasformazione di tutte le cose. Inoltre quello spirito attivo non sarebbe la natura [I,25,20] ma l’animo, anzi l’animo razionale che, conferendo la vita al mondo sensibile lo ha portato a quella bellezza che ancor oggi lo rende attraente. Spirito che chiamano un animale beato e dio.

SVF I, 89

Stobeo ‘Eclogae’ I, p. 138, 14 W. [I,25,25] Zenone afferma che il causativo è il ‘per cui’; mentre l’effetto è accidente. Il causativo è corpo, mentre l’effetto è predicato. Ed è impossibile che sia presente un causativo senza che esista l’effetto di cui esso è causativo. Quanto detto ha un significato di questo genere. Causativo è ciò a causa di cui qualcosa avviene: per esempio, a causa della saggezza avviene di essere saggi, a causa dell’animo avviene di vivere, e a causa [I,25,30] della temperanza avviene di essere temperanti. È infatti impossibile che, data la presenza della temperanza circa qualcosa, noi non si sia temperanti; oppure che, data la presenza dell’animo, noi non si viva; oppure ancora che, data la presenza della saggezza, noi non si sia saggi.

SVF I, 90

Cicerone ‘Academica’ I, 39. Zenone non era d’accordo nemmeno con questi <Peripatetici e Accademici>, poiché pensava [I,25,35] che una sostanza incorporea fosse incapace di qualunque attività […] mentre qualunque cosa capace di fare o di subire un’azione non poteva essere incorporeo.

SVF I, 91

[1] Aezio ‘Placita’ I, 10, 5 (Dox. Gr. p. 289). [I,26,1] Lo stoico Zenone ritiene che i colori siano le prime configurazioni delle materia.

[2] Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 27 (Dox. Gr. p. 612, 2). Lo stoico Zenone concepì i colori come colorazioni della materia.

SVF I, 92

[1] Galeno ‘In Hippocr. de humoribus’ 1, XVI, p. 32 K. [I,26,5] Zenone di Cizio legittimava l’idea che come si mescolano le qualità, così pure si mescolino le sostanze nel cosmo.

[2] ‘De nat. facult.’ I, 2, p. 5 K. È d’uopo legittimare l’idea che come si mescolano le qualità, così pure si mescolino interamente le sostanze, come successivamente dichiarò Zenone di Cizio.

SVF I, 93

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, 8, 40e, p. 104, 7 W. [I,26,10] Zenone disse che il tempo è una dimensione del moto e che è misura e criterio della velocità e della lentezza che ciascun corpo possiede. Secondo il tempo avvengono tutte le cose in divenire e quelle trascorse, e quelle che sono, sono.

[2] Simplicio ‘In Aristot. categ.’ p. 350, 15 Kalb. Tra gli Stoici, Zenone affermò [I,26,15] che il tempo è semplicemente la dimensione di ogni moto.

SVF I, 94

Temistio ‘In Aristot. Phys.’ II, p. 284, 10 Spengel. Il vuoto è separato e, raccolto tutto insieme in se stesso, circonda e include il cielo. Questo è quanto credevano dapprima alcuni degli antichi, e dopo di loro i seguaci di Zenone di Cizio.

SVF I, 95

[1] Aezio ‘Placita’ I, 18, 5-20, 1 (Dox. Gr. p. 316-317). Zenone [I,26,20] e i suoi seguaci affermano che all’interno del cosmo non esiste il vuoto, ma che all’esterno di esso il vuoto è infinito. Vi è differenza tra il ‘vuoto’, lo ‘spazio’ e il ‘dove c’è posto’. Il vuoto è l’assenza di corpi. Lo spazio è quello occupato da un corpo. Il dove c’è posto è ciò ch’è occupato parzialmente da un corpo, come nel caso [I,26,25] del vino dentro una botticella.

[2] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ IV, 14. All’interno del cosmo non vi è alcun vuoto, ma al di fuori di esso il vuoto è moltissimo, anzi infinito.

[3] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 140. Al di fuori e intorno ad esso si spande il vuoto infinito, il quale è incorporeo; incorporeo nel senso che sarebbe capace di essere occupato da dei corpi ma non ne è occupato. Nel cosmo, invece, non c’è alcun [I,26,30] vuoto.

SVF I, 96

Giovanni Filopono ‘In Aristot. Phys.’ p. 613, 23 Vitelli. Il vuoto non è stato disseminato nei corpi ma è continuo ed è fuori del cielo che esso esiste di per se stesso, come del resto vuole la rappresentazione dei più; la quale legittima l’esistenza di un vuoto infinito fuori del cielo. Anche i [I,26,35] Pitagorici parlavano così, come già si diceva. E s’afferma che abbiano opinato così anche i seguaci di Zenone di Cizio.

Fisica II. [I,27,1]

Il cosmo

Il cosmo è uno – Il cosmo è generato e destinato alla morte – Il cosmo occupa un solo spazio – Il cosmo è fatto di quattro elementi – La conflagrazione universale e la palingenesi – Il cosmo è un animale sapiente

Frammenti n. 97-114

SVF I, 97

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 143. [I,27,5] Che il cosmo sia uno lo afferma Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’.

[2] Aezio ‘Placita’ II, 1, 2 (Dox. Gr. p. 327b, 8). Zenone dice che il cosmo è uno.

SVF I, 98

Aristocle presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 14, 1-2. [I,27,10] (Sulla filosofia degli Stoici e come Zenone esplicava la dottrina dei fondamenti). Come Eraclito, gli Stoici affermano che ‘elemento’ delle cose che sono è il fuoco; e inoltre, come Platone, che ‘fondamenti’ del fuoco sono la divinità e il materiale. Ma mentre Zenone sostiene che tanto il fondamento che fa l’azione (ossia la divinità), quanto il fondamento che sperimenta l’azione (ossia il materiale) sono entrambi ‘corpo’; Platone afferma invece che il primo fondamento, quello che fa l’azione, la causa, è un ‘incorporeo’. [I,27,15] In seguito, e secondo certi tempi fatali, il cosmo nella sua totalità va incontro alla ‘conflagrazione universale’, dopo la quale esso torna a ridisporsi in buon ordine. Pertanto il fuoco primordiale è come una sorta di seme contenente in sé le ragioni di tutte le cose e le loro cause passate presenti e future. L’intreccio e la consequenzialità di queste cause è [I,27,20] destino, scienza, verità e legge, ineludibili ed inevitabili, delle cose che sono. In questo modo tutte le cose del cosmo sono governate oltremodo bene, come in uno Stato retto da ottime leggi.

SVF I, 99

Stobeo ‘Eclogae’ I, 19, 4, p. 166 W. [I,27,25] Di Zenone. Le diverse parti di quelli che sussistono come elementi naturali di tutte le cose esistenti nel cosmo, hanno un decorso che è diretto verso il mezzo del loro elemento nella sua interezza e, similmente, anche dello stesso cosmo. Perciò rettamente si dice che tutte le parti del cosmo hanno un decorso che è diretto verso il mezzo del cosmo, e questo vale soprattutto per gli elementi che hanno un peso. Identica è la causa sia della permanenza del cosmo all’interno del [I,27,30] vuoto infinito, sia similarmente della permanenza della terra all’interno del cosmo, dal momento che la terra è assisa in equilibrio nel suo centro. Però non sempre un corpo ha peso, giacché aria e fuoco non hanno peso. Ma anche questi elementi tendono a loro modo al mezzo della sfera cosmica nella sua interezza e s’assembrano alla sua periferia in quanto, essendo privi di peso, tendono per natura a portarsi verso l’alto. [I,27,35] Similarmente a questi, gli Stoici dicono che anche il cosmo è privo di peso, poiché l’intero suo assembramento risulta da elementi dotati di peso [I,28,1] e da elementi privi di peso. Essi ritengono poi che la terra nella sua interezza, vista la posizione che ha nello spazio mediano, abbia di per sé un peso; e che essa permanga in questo luogo giacché i corpi di questo genere hanno un decorso che è diretto verso il mezzo.

SVF I, 100

‘Scholia’ alla ‘Teogonia’ di Esiodo, 134 Gaisf. Gr. Poet. Min. II, 482. [I,28,5] Zenone dice che in genere sono chiamati Titani gli elementi del cosmo. Infatti ‘Kòio’ indica la ‘qualità’, secondo il rivolgimento eolico della lettera ‘p’ in ‘k’. ‘Kréio’ indica l’elemento regale ed egemonico. Iperione indica il movimento verso l’alto, dall’espressione ‘andare più in alto’. E poiché la natura di tutti gli elementi leggeri lasciati a se stessi [I,28,10] è quella di andare verso l’alto, egli chiamò questa parte di elementi ‘Giapeto’.

SVF I, 101

[1] Aezio ‘Placita’ I, 14, 6 (Dox. Gr. p. 313). Zenone era dell’avviso che il fuoco si muove in linea retta.

[2] I, 12, 4 (Dox. Gr. p. 311b). La luce terrestre si muove in linea retta, mentre quella celeste si muove circolarmente.

SVF I, 102

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, 17, 3, p. 152, 19 W. [I,28,15] Zenone così dichiara in termini precisi. A partire dalla sostanza senza qualità, nel corso di un ciclo regolare il buon ordine del cosmo dovrà essere di questo genere. Si ritiene che si generi il rivolgimento dal fuoco all’acqua passando attraverso uno stadio aereo e che la parte che è sottostante prenda la consistenza di terra mentre, per il rimanente, resta acqua. Dalla sua evaporazione si genera poi dell’aria e da una parte dell’aria si rattizza il fuoco. [I,28,20] Questa mescolanza avviene per la trasformazione degli elementi uno nell’altro, e così un corpo nel suo insieme attraversa anche gli stati di un altro.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 135-136. Una cosa sola sono la divinità, la mente, il destino, Zeus, i quali sono denominati anche con molti altri nomi. Da principio la divinità, sola con se stessa, passando attraverso uno stato aereo tramutò tutta la sostanza in umore umido; [I,28,25] e come la matrice generativa racchiude lo sperma così essa, che è la ragione seminale del cosmo, rimase racchiusa in quell’umido, rendendolo materia fatta apposta per la genesi tutte le cose seguenti. Di poi generò dapprima i quattro elementi: fuoco, acqua, aria e terra. Parla di essi Zenone, nel suo libro ‘Sul cosmo’.

[3] VII, 142. [I,28,30] Il cosmo si genera quando la sostanza sia volta da fuoco in umidità passando attraverso uno stato aereo. Dopo di che la sua parte più densa si condensa e ne risulta la terra, mentre quella più finemente particellata diventa aria e quindi, rarefattasi ancora di più, rigenera del fuoco. In seguito, per mistura di questi elementi sono generati i vegetali, gli animali e gli altri generi di esseri. Della [I,29,1] genesi e della rovina del cosmo parla Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’.

[4] Valerio Probo ‘Ad Verg.’ P. 10, 33 K. Gli Stoici Zenone di Cizio, Crisippo di Soli e Cleante di Asso affermano che tutte le cose sono poi formate [I,29,5] da questi quattro elementi.

SVF I, 103

[1] Valerio Probo in Virg. Ecl. VI, 31, p. 21, 14 Keil. Alcuni hanno assegnato a singoli elementi il ruolo di principi del tutto […]. Talete di Mileto, maestro di <Anassimene>, ha considerato quale principio l’acqua. E sembra che l’opinione di Talete provenga da Esiodo, il quale aveva detto: “Sia che il Caos sia esistito per primo oppure dopo”. Infatti Zenone di Cizio [I,29,10] interpreta Esiodo in questo modo: il Caos è chiamato acqua da χέεσθαι cioè ‘scorrere’. Del resto un’opinione analoga si deduce da Omero quando afferma: “Oceano è l’origine degli dei e Tetide ne è la madre”.

[2] Cornuto ‘Grec. Theol. comp.’ 17. ‘Caos’ è lo stato liquido [I,29,15] precedente il buon ordine cosmico, così denominato dalla parola χύσις ossia ‘effusione’.

SVF I, 104

‘Scholia’ in Apollonii Rodii ‘Argonautica’ I, v. 498, p. 44 Wendel. Zenone afferma che il termine ‘caos’ in Esiodo significa ‘acqua’. Essa, rapprendendosi, diventa mota la quale, compattandosi, s’indurisce in terra. Secondo Esiodo nacque per terzo elemento Eros, [I,29,20] per metterci nell’animo il fuoco: Eros è infatti la passione più focosa.

SVF I, 105

[1] ‘Scholia’ in Hesiodi ‘Theogoniam’ v. 117, p. 25 Di Gregorio. Lo Stoico Zenone afferma che il basamento terra proviene da un elemento liquido e che per terzo è nato Eros. Perciò il verso che segue è fuori posto.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 137. Basamento di tutti <gli elementi> è la terra, che è il centro di tutti.

SVF I, 106

Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 23-24, 117 segg., VI, p. 108 Cohn-Reiter. [I,29,25] Teofrasto afferma pertanto che quanti vanno predicando la generazione e l’estinzione del cosmo si ingannano su quattro punti capitali: l’irregolarità della superficie terrestre, l’arretramento del mare, il dissolvimento delle parti di un intero e l’estinzione di animali terricoli a seconda dei generi. Il primo punto [I,29,30] è strutturato così: “Se la terra non avesse preso inizio da un atto di generazione, non si vedrebbe più alcuna sua parte rilevata, tutte le montagne sarebbero ormai state spianate e tutte le alture livellate alla pianura. Infatti, anno dopo anno tali e tanti acquazzoni si portano sul terreno dal cielo sempiterno, e sarebbe verosimile supporre che delle terre che erano sollevate ad una certa altezza, alcune siano state schiantate dai torrenti in piena; altre, nell’abbassarsi, che siano state [I,29,35] sbriciolate; e che tutte dappertutto siano ormai state levigate. Ora, invece, le continue irregolarità e l’elevazione di moltissime montagne ad altezze eteree sono indizi del fatto che la terra non è il cielo sempiterno. Giacché già da un pezzo, come [I,30,1] dicevo, ad opera di inondazioni protratte per un tempo infinito, tutta la terra sarebbe diventata uno stradone pianeggiante. La natura dell’acqua, e soprattutto di quella che precipita giù da luoghi altissimi, è infatti quella di spingere via con violenza alcune rocce; incavarne altre, incidendole con la continua caduta delle gocce e di lavorare [I,30,5] il suolo duro e più sassoso non meno degli scavatori”. <Il secondo punto è strutturato così>: “E poi il livello del mare – essi dicono – è diminuito. Ne sono testimonianza le isole di più chiara fama: Rodi e Delo. Queste isole, infatti, allagate dai flutti erano anticamente sprofondate scomparendo sotto il mare. Successivamente, abbassandosi il livello marino e risollevatesi esse alquanto, nel tempo ricomparvero, come [I,30,10] svelano le storie scritte che le riguardano. Gli autori di queste storie denominarono l’isola di Delo anche Anafi (ossia intangibile) poiché, attraverso l’uso di entrambi i nomi, facevano fede di quanto detto; dal momento che, comparendo, l’isola era diventata (Delo, ossia) manifesta; mentre in antico essa era non manifesta ed invisibile. Oltre a questi fatti, grandi e profondi golfi di grandi mari, dopo essersi prosciugati si son trasformati in terraferma e, seminati e coltivati, sono diventati una [I,30,15] porzione non sterile del territorio limitrofo. In essi possono essere riscontrati quali segni dell’antica origine marina dei ciotoli, delle conchiglie e quanto, in modo simile, è solitamente rigettato dal mare sulle spiagge. Perciò anche Pindaro, a proposito di Delo, dice:

‘Salve, o edificata dagli dei, isola

[I,30,20] tanto desiderata per i figli di Latona dai lucenti capelli;

figlia del mare aperto, prodigio immobile di vasta terra; se i mortali

ti chiamano Delo, i beati nell’Olimpo

astro da lungi visibile di terra negra’

Pindaro ha infatti chiamato Delo ‘figlia del mare aperto’ alludendo a quanto detto. Se dunque il livello del [I,30,25] mare diminuisce, anche la terra diminuirà, e nel corso di lunghi periodi di anni sia l’uno che l’altro elemento saranno totalmente consumati; sarà spesa anche tutta quanta l’aria, la quale diminuirà a poco a poco e da essa tutti gli elementi saranno risolti in una sola sostanza: quella del fuoco”. Per la strutturazione del terzo punto essi utilizzano un ragionamento [I,30,30] di questo genere: “‘Perisce completamente ciò le cui parti sono tutte periture; ma tutte le parti del cosmo sono periture; dunque il cosmo è perituto’. È ora il momento di esaminare la questione che avevamo posposto. Quale parte della terra, per iniziare parlando di questa, grande o piccola che sia, non si dissolve col tempo? I sassi più duri forse non si sgretolano e non si sbriciolano? Infatti, a seconda della [I,30,35] debolezza della forza di coesione del loro stato fisico – giacché il tono del loro pneuma rappresenta un legame non tale da non poter essere rotto ma soltanto difficile da sciogliere – essi, una volta sminuzzati e scorsi via, si risolvono dapprima in fine polvere e poi, successivamente dilapidati, spariscono del tutto. E allora? Se l’acqua non fosse aerata dai venti ma fosse lasciata immobile, non è [I,31,1] resa morta dalla calma? Essa si trasforma e manda un pessimo odore, come un animale che resti privo dell’animo. Le corruzioni dell’aria, poi, sono manifeste a chiunque. L’aria può infatti per natura ammalare, deperire e, in un certo qual modo, morire. Giacché cosa direbbe chi non ha di mira il decoro dei nomi ma la verità, se non che la peste [I,31,5] è morte dell’aria, la quale spande intorno a sé la sua propria affezione per la rovina di tutti coloro cui è stato dato in sorte un animo? Perché andare per le lunghe a proposito del fuoco? Quando non sia alimentato esso si spegne lì per lì, e diventa – come dicono i poeti – di per sé zoppo. Finché trova un supporto, se ne sta ritto secondo la pastura fornitagli dal materiale acceso; ma quando questa sia sparita, si rende invisibile. [106a] Si racconta che anche i serpenti [I,31,10] dell’India sperimentino una cosa similare. Essi infatti s’inerpicano sui più grandi degli animali, gli elefanti; s’attorcigliano loro tutt’intorno tra dorso e ventre e poi, aperta la vena che capita, ne tracannano insaziabilmente il sangue, succhiandolo con un soffio violento ed un acuto sibilo. Per un certo tempo gli elefanti, pur debilitati, tengono testa e, in mancanza d’altre risorse, fanno dei balzi battendosi il fianco con la [I,31,15] proboscide nel tentativo di venire a capo dei serpenti. Poi, sempre più svuotati del liquido vitale fino a non poter più saltare, se ne stanno immobili in preda a forti tremori. Poco dopo, indebolitesi le zampe, crollano a terra e muoiono dissanguati. Cadendo però giù, anche quelli che hanno causato la loro morte muoiono nel modo seguente. I serpenti, non avendo più [I,31,20] cibo e bramosi ormai di uno scampo, tentano di sciogliere il legaccio che avevano stretto, ma sono oppressi e schiacciati dal peso degli elefanti; e ciò molto di più qualora il suolo sia indurito e sassoso. Contorcendosi e facendo di tutto per separarsi, essi sono però bloccati dalla violenza del peso che li schiaccia; e divincolandosi in molti modi [I,31,25] inconsulti e senza via d’uscita, si indeboliscono. Così, come coloro che sono lapidati oppure sono sorpresi dal subitaneo crollo di un muro che cade loro addosso, non potendo neppur più sollevare la testa muoiono soffocati. Se pertanto ciascuna delle parti del cosmo è peritura, è manifesto che anche il cosmo, in quanto risultato del compattamento di quelle, non è imperituro”. Dicono poi che il quarto ed ultimo ragionamento deve [I,31,30] essere precisato in questo modo: “Se il cosmo fosse sempiterno anche gli animali sarebbero sempiterni e molto di più lo sarebbe il genere umano, in quanto genere migliore degli altri. Ma a coloro che decidono di fare inchieste sui fatti della natura esso appare di nascita recente. Ed è verosimile, o piuttosto addirittura necessario, che le arti coesistano con gli uomini in quanto ne sono coeve; non soltanto perché l’agire secondo regole certe [I,31,35] è peculiare della natura razionale, ma anche perché non è dato vivere senza di esse. Guardiamo dunque i tempi di nascita di ciascuna delle arti senza tenere conto dei miti cantati in tragedia in onore degli dei. […] … se l’uomo non è sempiterno, come non lo è ogni altro animale, come non lo sono i luoghi [I,32,1] che ce li mostrano, come non lo sono terra, acqua e aria: è da ciò manifesto che il cosmo è perituro”.

SVF I, 107

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, 20, 1e p. 171, 2 W. Ha il beneplacito di Zenone, di Cleante e di Crisippo l’affermazione che il fuoco muti la sostanza [I,32,5] quasi in un seme; e che poi a partire da questo seme risulti di nuovo il buon ordine del cosmo tale e quale era in precedenza.

[2] Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 18, 3. Ha il beneplacito dei filosofi Stoici l’affermazione che la sostanza nella sua interezza muti in ‘fuoco’ quale elemento seminale; e che poi a partire da questo fuoco risulti di nuovo il buon ordine del cosmo tale e quale era in precedenza. Furono Zenone, Cleante e Crisippo, i primi e più anziani membri della scuola Stoica, a convalidare [I,32,10] questa dottrina.

[3] Arnobio ‘Adversus nationes’ II, 9. Chi minaccia a questo mondo il fuoco e, a tempo debito, la conflagrazione universale, non crede forse a Panezio, a Crisippo, a Zenone?

SVF I, 108

Filargirio ‘Ad Vergili Georgica’ II, 336. Zenone sostiene [I,32,15] che seppure in questo mondo alcune cose muoiono, tuttavia esso permane in perpetuo, giacché contiene in sé gli elementi dai quali si generano le varie materie. Così è certo possibile, dice lui, che questo mondo cresca, ma non che muoia, perché permangono quegli elementi dai quali risorgerà.

SVF I, 109

[1] Taziano ‘Adversus Graecos’ 5, p. 6 Whittaker. Zenone va deplorato [I,32,20] quando dichiara che dopo la conflagrazione universale risorgeranno di nuovo gli stessi individui per compiere le stesse azioni; dico Anito e Meleto per accusare, Busiride per ammazzare gli ospiti, Eracle per compiere di nuovo le sue fatiche.

[2] Nemesio ‘De natura hominis’ 148, P.G. XL, col. 760. Vi saranno di nuovo Socrate, Platone, e ciascun uomo con gli stessi amici [I,32,25] e con gli stessi cittadini. E sperimenterà le stesse cose, si imbatterà nelle stesse vicende, maneggerà gli stessi affari; e ogni città, ogni villaggio, ogni campagna sarà similmente ristabilita.

SVF I, 110

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 107. Quello che <Platone> pubblicò è potenzialmente lo stesso discorso di Zenone. Giacché anche Zenone dice che l’universo è opera bellissima condotta a perfezione [I,32,30] secondo natura; ed anche, secondo ogni verosimiglianza, creatura vivente animata, cognitiva, razionale.

SVF I, 111

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 104. E Zenone di nuovo dice: “Se ciò ch’è razionale è migliore di ciò ch’è non razionale; nulla è migliore del cosmo; dunque il cosmo è razionale”. E altrettanto dicasi di ciò che partecipa di cognitività e [I,32,35] di animalità. “Giacché ciò ch’è cognitivo è migliore di ciò ch’è non cognitivo; e ciò ch’è animato è migliore di ciò ch’è inanimato; nulla è migliore del cosmo; dunque il cosmo è cognitivo ed animato”.

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 21. Tutto ciò che ha l’uso della ragione è migliore [I,33,1] di ciò che ne è privo. Ma nulla è meglio del mondo, dunque il mondo fa uso della ragione.

SVF I, 112

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 22. Com’era solito fare, Zenone concluse [I,33,5] il ragionamento con questa similitudine: “Se da un olivo nascessero dei flauti che suonano armoniosamente, dubiteresti forse che nell’olivo sia insita l’arte di suonare i flauti? Cosa diresti se i platani producessero strumenti a corde che suonano a ritmo? Anche in questo caso senz’altro riterresti che nei platani è insita la musica. E perché allora non ritenere il mondo dotato d’animo e di sapienza, dato che da sé procrea esseri animati e [I,33,10] sapienti?”

SVF I, 113

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 110. Prendendone spunto da Senofonte, Zenone di Cizio argomenta interrogativamente così: “Il seme di una creatura razionale ceduto all’esterno è anch’esso razionale; il cosmo cede all’esterno un seme di natura razionale; dunque il cosmo è razionale”. E la sua esistenza è inclusa in esso.

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 22. Nulla che sia privo [I,33,15] di animo e di ragione può generare da sé un essere animato e dotato di ragione. Ma il mondo genera esseri provvisti d’animo e di ragione; dunque è esso stesso animato e razionale.

SVF I, 114

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 22. Zenone si esprime in questo modo: “Di nulla che sia privo di sensibilità, una parte [I,33,20] può essere senziente. Ma del mondo ci sono parti senzienti; dunque il mondo non è privo di sensibilità”.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 85. Ma la natura che include in sé anche le nature razionali è anch’essa senz’altro razionale, giacché non può l’intero essere peggiore della parte.

[I,33,25] Fisica III.

Il cielo e i fenomeni celesti

Frammenti n. 115-122

SVF I, 115

Achille ‘Isagoge’ 5, p. 36, 19 segg. Maass. Zenone di Cizio così lo definiva: “Il cielo è l’estremo confine dell’etere. Dal cielo e nel cielo tutto è palesemente contenuto. Esso include tutto eccetto se stesso, giacché [I,33,30] nulla lo include ma è lui ad essere inclusivo del resto”.

SVF I, 116

Aezio ‘Placita’ II, 11, 4 (Dox. Gr. p. 340). Zenone affermava che il cielo è igneo.

SVF I, 117

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 153-154. Il lampo è l’avvampamento di nubi che sfregano tra di loro e sono squarciate dal vento, come dice Zenone nel suo libro [I,33,35] ‘Sul cosmo’. Il tuono è il rumore prodotto dal loro sfregamento e dal loro [I,34,1] squarciamento. Il fulmine è l’avvampamento veemente prodotto da nubi che sfregano tra di loro e sono squarciate <dal vento>, e che cade con grande violenza sulla terra.

SVF I, 118

‘Scholia’ alla ‘Teogonia’ di Esiodo, 139 Gaisf. Gr. Poet. Min. II, 484. Ciclopi. [I,34,5] A sua volta Zenone afferma che i decorsi circolari sono assai più naturalmente chiamati così. È per questo che sono stati loro pubblicamente imposti i nomi di Bronte e di Sterope e di Arge, dacché si chiama così il corrusco fulmine. Li chiama poi figli del cielo, dacché tutti questi sono fenomeni celesti.

SVF I, 119

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 145. Il sole s’eclissa quando la luna [I,34,10] si frappone tra la nostra terra e il sole, come Zenone ha mostrato in diagramma nel suo libro ‘Sul cosmo’. Durante questa congiunzione di astri, la luna appare infatti sorgere alta nel cielo, celare il sole e poi di nuovo scostarsene. Si può riconoscere questo fenomeno grazie all’immagine riflessa in un bacile con dell’acqua. Invece la luna s’eclissa quando cade nel cono d’ombra della terra. Laonde essa s’eclissa soltanto nel corso dei pleniluni, [I,34,15] anche se si trova ogni mese diametralmente opposta al sole. Infatti, muovendosi verso il sole obliquamente, si discosta da esso per latitudine o più verso nord o più verso sud. Tuttavia, quando la latitudine della luna diventa conforme a quella del sole nello zodiaco ed essa si trova diametralmente opposta al sole, allora si ha l’eclisse.

 [I,34,20]

SVF I, 120

[1] Stobeo ‘Eclogae’ I, 25, 3, p. 213, 15 W. Zenone afferma che il sole, la luna e ciascuno degli altri astri è un essere cognitivo, saggio, igneo di fuoco artefice. Giacché due sono i generi di fuoco. Il fuoco ‘non artefice’, che muta in se stesso ciò che lo [I,34,25] nutre; e il fuoco ‘artefice’ capace di far crescere e conservare in vita, quale esiste nei vegetali e negli animali e che ne rappresenta natura ed animo. La sostanza degli astri è composta dal fuoco di questo genere. Il sole e la luna si muovono secondo due decorsi. Il decorso nella parte bassa del cosmo è quello che fanno un levante dopo l’altro. Il decorso nella parte alta del cosmo è quello che essi fanno spostandosi da un segno zodiacale all’altro. Le loro [I,34,30] eclissi avvengono in modo differente. L’eclisse di sole, in occasione delle congiunzioni di astri; quella di luna, in occasione dei pleniluni. Per entrambi si hanno eclissi maggiori e minori.

[2] I, 26, 1, p. 219, 12 W. Zenone affermò che la luna è un astro cognitivo, saggio, igneo di fuoco artefice.

SVF I, 121

[1] ‘Etymologicum Gudianum’ s.v. ‘élios’ [6]. [I,34,35] Il sole è chiamato dai poeti anche ‘heélios’ e ‘hàlios’ a [I,35,1] causa del sale (hals). Secondo lo Stoico Zenone il sole è una massa infuocata e cognitiva, scaturente dal <l’esalazione del> mare

[2] ‘Etymologicum Magnum’ s.v. ‘élios’ […] da ‘hals’ ‘halòs’ derivano ‘hàlios’ e ‘hélios’. [I,35,5] Gli studiosi della natura dicono che il sole attinge l’acqua dal mare, e infatti l’umidità si tira su in alto dal mare. Per cui anche il nome Poseidone viene dal mandar su in alto acqua da bere (pòsin) ad opera di una face (dàei), cioè del sole.

SVF I, 122

Seneca ‘Naturales Quaestiones’ VII, 19, 1. Il nostro caro Zenone è della opinione seguente: egli giudica possibile che delle stelle si avvicinino una all’altra e combinino i loro raggi, e che da questa concorrenza di luci si formi l’immagine di una stella [I,35,10] oblunga.

Fisica IV.

I fenomeni terrestri

Gli animali e l’uomo – L’origine degli animali – La materia del corpo e della mente – Lo sperma – Il sonno – Le malattie

Frammenti n. 123-133

SVF I, 123

Varrone ‘De re rustica’ II, 1, 3. Sia nel caso ci fosse stato [I,35,15] uno specifico principio generatore degli animali, come reputarono Talete di Mileto e Zenone di Cizio; o che, al contrario, non ne sia esistito alcuno, come credettero Pitagora di Samo ed Aristotele di Stagira.

SVF I, 124

Censorino ‘De die natali’ IV, 10. Zenone di Cizio, il fondatore [I,35,20] dello Stoicismo, reputò che uno specifico principio per il genere umano si costituì al momento della formazione del mondo e che i primi uomini furono generati soltanto per mezzo del fuoco divino, cioè della provvidenza divina.

SVF I, 125

Galeno ‘Adversus Iulianum’ 5, Vol. XVIII A, p. 269 K. Vi è disarmonia di opinioni circa il fatto che la natura del nostro [I,35,25] corpo risulti dal mescolamento in proporzione ben regolata di aria, fuoco, acqua e terra oppure di umido, secco, caldo e freddo. Questa disarmonia di opinioni non è però tanto grande quanto quella circa i ‘caratteri comuni’ di Tessalo, se appunto Platone e Zenone, Aristotele e Teofrasto, Eudemo, Cleante e [I,35,30] Crisippo ritengono quelle opinioni entrambe ammissibili.

SVF I, 126

Varrone ‘De lingua latina’ V, 59. Oppure, come dice Zenone di Cizio, il seme degli animali è quel fuoco che è animo e mente.

SVF I, 127

Rufo Efesio ‘De nomin. par. corp. hum.’ 228, p. 166, 9 segg. Daremberg-Ruelle. Zenone afferma che calore e pneuma sono la stessa cosa. [I,35,35]

SVF I, 128

[1] Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 20, 1. [I,36,1] Zenone afferma che lo sperma che l’uomo eiacula è pneuma in forma fluida, parte e scintilla dell’animo, miscela dello sperma degli avi e miscuglio che riunisce le varie parti dell’animo. [I,36,5] Poiché contiene in sé le medesime ragioni seminali del corpo nella sua interezza, quando sia rilasciato nell’utero esso viene concepito da un altro pneuma, che è parte dell’animo femminile; e divenutone connaturato, nascosto dov’è, germoglia, mosso e rinfocolato da quello, aggiungendo sempre a se stesso del liquido ed accrescendosi grazie ad esso.

[2] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ V, 25. Zenone di [I,36,10] Cizio, il quale fu capo di questa Scuola, insegnò ai suoi familiari frequentatori ad avere queste opinioni circa l’animo. Poiché il seme genitale umano è in forma fluida e partecipa dello pneuma, egli disse che esso è una parte e scintilla dell’animo, una miscela dello sperma degli avi e un miscuglio ragunato di tutte le parti dell’animo.

[3] Plutarco ‘De cohib. ira’ p. 462f. [I,36,15] Come soleva dire Zenone, lo sperma è una commistura e una miscela delle facoltà dell’animo spiccata da esso.

[4] Aezio ‘Placita’ V, 4, 1 (Dox. Gr. p. 417). Zenone dice che lo sperma è ‘corpo’, giacché è una scintilla dell’animo.

[5] Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 108 (Dox. Gr. p. 640). Lo sperma dell’uomo, [I,36,20] quello che l’uomo eiacula in forma fluida, è rapimento di una parte dell’animo e commistura del genoma degli avi, quale esso era di per sé e quale fu commisto e secreto.

[6] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 158. <Gli Stoici dicono> che lo sperma dell’uomo, quello che l’uomo eiacula in forma fluida, viene mescolato insieme a partire dalle parti dell’animo e in armonia con il miscuglio delle ragioni seminali degli avi. [I,36,25]

SVF I, 129

[1] Aezio ‘Placita’ V, 5, 2 (Dox. Gr. p. 418). Zenone dice che le femmine cedono all’esterno un materiale umido come se fossero sudori di un allenamento, ma che non si tratta di sperma attivo.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 159. <I seguaci di Sfero> dichiarano che il liquido seminale delle femmine è sterile.

SVF I, 130

Cicerone ‘De divinatione’ II, 119. Zenone reputava [I,36,30] che l’animo si contraesse, quasi uno scivolare e un collassare, e che in ciò appunto consistesse il sonno.

SVF I, 131

Galeno ‘Method. med.’ II, 5, X, p. 111 K. [I,36,35] Non soltanto Ippocrate o moltissimi altri medici, ma anche [I,37,1] Platone, Aristotele, Teofrasto, Zenone, Crisippo e tutti i filosofi tenuti in gran conto si prestano a testimoniare che le specie di discrasia insalubre sono molte e che, per ciascuna, la terapia è differente. Inoltre tutti i filosofi e i medici che ho appena detto [I,37,5] si presteranno non ad ingiungere […] ma a dimostrare che senza che sia stata indagata e trovata la precisa natura del corpo è impossibile scovare alcunché circa le differenze tra gli stati morbosi né avere per essi conveniente abbondanza di medicine.

SVF I, 132

Galeno ‘Adversus Iulianum’ 4, Vol. XVIII A, p. 257 K. Queste sono [I,37,10] le parole dell’illustrissimo sofista il quale è dell’avviso che i medici Metodici seguano Zenone Aristotele e Platone. Allora noi gli rimemoreremo un’altra volta che ciascuno di questi filosofi, insieme a molti dei suoi successori, ritiene che la salute sia la buona temperie di caldo e di freddo, di umido e di secco; e che gli stati morbosi, a seconda [I,37,15] del regime di vita, insorgano quando uno dei detti elementi sia in eccesso o sia in difetto; e che nel corpo vi sono degli umori, alcuni umidi e secchi al possibile, alcuni invece caldi o freddi, che si raffrontano agli stati morbosi. Così riconoscevano Platone insieme con tutti i suoi seguaci, così Aristotele insieme con tutti i Peripatetici, così Zenone e Crisippo insieme con [I,37,20] gli altri Stoici.

SVF I, 133

Censorino ‘De die natali’ XVII, 2. Quanti ritennero che la durata media della vita fosse di trent’anni, hanno errato molto. Eraclito è l’autore che ha chiamato questo tempo ‘generazione’, perché in questo intervallo si colloca un ciclo vitale. Egli chiama ciclo vitale quello che la natura impiega a tornare, da seme umano, a seme umano. Ma questo tempo della generazione c’è chi lo definisce in un modo e chi in un altro. [I,37,25] Erodico scrive che sono venticinque anni, Zenone trenta.

Fisica V.

L’animo umano

L’animo è pneuma – L’animo è corporeo – L’animo è un’esalazione – Le parti dell’animo – L’animo permane [I,37,30] dopo la morte ma non è eterno – L’egemonico – La voce – I sensi

Frammenti n. 134-151

SVF I, 134

[1] Cicerone ‘Academica’ I, 39. <Zenone> stabiliva che il fuoco è la natura stessa, la quale è generatrice di qualunque cosa, anche della mente e dei sensi.

[2] ‘De finibus’ IV, 12. Nella discussione su un tema assai difficile, e cioè se esista un quinto elemento, origine [I,37,35] della ragione e dell’intelligenza, [I,38,1] e nel corso della quale ci si chiedeva anche da quali elementi fossero costituiti gli animi, Zenone dichiarò che questo elemento era il fuoco.

[3] ‘Tusculanae disputationes’ I, 19. Per lo Stoico Zenone l’animo è fuoco.

SVF I, 135

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 157. Zenone di Cizio […] affermò che l’animo è pneuma caloroso. È grazie a questo che noi siamo creature spiranti ed è da questo [I,38,5] che noi siamo mossi.

SVF I, 136

Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 24, (Dox. Gr. p. 613). Alcuni affermarono, come Platone, che la sostanza dell’animo è incorporea; altri invece, come Zenone e i suoi seguaci, che esso mette in movimento i corpi. Essi sottintesero infatti che l’animo sia pneuma.

SVF I, 137          

[1] Tertulliano ‘De anima’ 5. Da ultimo Zenone, [I,38,10] nel definire l’animo come ‘pneuma trapiantato’, lo argomenta in questo modo: “Ciò che con la sua uscita determina la morte, è corpo. Ora, quando esce lo pneuma trapiantato, l’animale muore. Dunque lo pneuma trapiantato è corpo. Ma lo pneuma trapiantato è l’animo; pertanto l’animo è corpo”.

[2] Macrobio ‘In somnium Scipionis’ I, 14, 19. Zenone diceva [I,38,15] che l’animo è pneuma concresciuto al corpo.

[3] Nemesio ‘De natura hominis’ c. 2, p. 33. La morte è separazione dell’animo dal corpo. Nulla di incorporeo si separa dal corpo, giacché un incorporeo non trova appiglio in un corpo. Ma l’animo s’appiglia al corpo e si separa dal corpo. Dunque l’animo è corpo.

SVF I, 138

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 220. Così Zenone cerca di sostenere [I,38,20] la dottrina che l’animo è pneuma: “Ciò che al suo ritirarsi dal corpo determina la morte dell’animale, è certamente animo; ma quando lo pneuma naturale si ritira l’animale muore; dunque l’animo è pneuma naturale”.

SVF I, 139

[1] Longino presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 21, 3. Uno potrebbe giustamente sdegnarsi con Zenone [I,38,25] e con Cleante per avere discorso dell’animo in modo così fortemente oltraggioso, e per avere entrambi affermato la stessa cosa, ossia che l’animo è un’esalazione del corpo solido.

[2] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ V, 27, (p. 129 Rae). Entrambi (Zenone e Cleante) infatti affermano che l’animo è un’esalazione del corpo solido.

SVF I, 140

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 8, p. 248 M. [I,38,30] Se egli (Diogene di Babilonia) seguisse Cleante, Crisippo e Zenone quando affermano che l’animo trae nutrimento dal sangue e che la sua sostanza è pneuma….

SVF I, 141

Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 20, 2. [I,39,1] Quando Cleante sistema uno accanto all’altro i giudizi di Zenone e i giudizi degli altri filosofi della natura a proposito dell’animo e li paragona, afferma che Zenone chiama l’animo un’esalazione dotata di sensibilità, proprio come diceva Eraclito. [I,39,5] Volendo infatti palesare che gli animi esalati sono sempre cognitivi, Eraclito li rassomigliò ai fiumi, dicendo così: “Negli stessi fiumi altre sono le acque che affluiscono e altre quelle che defluiscono”. Ed anche: “Gli animi esalano da umori umidi”. Zenone dichiara dunque, similmente ad Eraclito, che l’animo è un’esalazione; e che esso sia dotato di sensibilità [I,39,10] lo afferma per questo, ossia perché la sua parte capeggiante può rimanere modellata, attraverso gli organi di senso, dalle cose che hanno reale esistenza ed accettarne le impressioni. Queste sono le peculiarità dell’animo.

SVF I, 142

Giamblico presso Stobeo ‘Eclogae’ I, 49, 33, p. 367 W. [I,39,15] Ma i seguaci di Crisippo e di Zenone, e tutti quanti hanno cognizione dell’animo come ‘corpo’, accomodano tutte insieme le sue facoltà come qualità in un sottostante, e pongono l’animo come sostanza che serve da sottostante alle facoltà. Dall’una e dall’altra cosa combinano così una natura composta da elementi dissimili.

SVF I, 143

[1] Nemesio ‘De natura hominis’ 96, P.G. XL, col. 669. [I,39,20] Lo Stoico Zenone afferma che l’animo è composto di otto parti e lo suddivide così: la parte chiamata ‘egemonico’, i cinque sensi, la parte concernente la fonazione, la parte concernente lo sperma e le attività sessuali.

[2] Giamblico presso Stobeo ‘Eclogae’ I, 49, 34, p. 369 W. I seguaci di Zenone sono dell’opinione che l’animo sia composto di otto parti e, quanto alle facoltà, che esse siano [I,39,25] molteplici. Ad esempio nell’egemonico ci sono: rappresentazione, assenso, impulso e ragione.

SVF I, 144

Tertulliano ‘De anima’ c. 14. <L’animo> è diviso in parti: ora in due, come da Platone; ora in tre, come da Zenone.

SVF I, 145

Temistio ‘In Aristot. De anima’ f. 68, II, p. 30, 17 Sp. Quanti dicono [I,39,30] che l’animo è pneuma e che gli attribuiscono movimento locale, non potrebbero infatti convenire che, una volta uscito, esso vi rientri di nuovo. Sbagliato, mio caro […] Ma se l’animo, in quanto corpo, esce dal corpo, perché non può di nuovo rientrarvi? […] Purtuttavia una qualche difesa ancora [I,40,1] sopravanza a Zenone; difesa consistente nell’essere dell’avviso che l’animo nella sua interezza sia mescolato al corpo nella sua interezza e nel fare l’ipotesi che l’uscita dell’animo dal corpo non possa avvenire senza la rovina della sostanza composta.

SVF I, 146

[1] Epifanio ‘Adversus haeres.’ III, 2, 9 (Dox. Gr. p. 592, 21). Zenone di Cizio, lo Stoico, soleva affermare che bisogna non edificare sacrari agli dei ma avere [I,40,5] la divinità nella nostra mente soltanto, e ancor di più ritenere dio la mente. Giacché è immortale….

[2] III, 2, 9 (Dox. Gr. p. 592, 26). Soleva anche dire che dopo la separazione dal corpo [….] e chiamava l’animo pneuma longevo, ma diceva che non è affatto imperituro. Esso infatti, nel corso di molto tempo, viene consunto fino all’invisibilità, come dice lui.

[3] Agostino ‘Contra Academicos’ III, 17, 38. Perciò Zenone [I,40,10] si compiaceva di quella sua dottrina del mondo e soprattutto dell’animo, sul quale invece la vera filosofia è cauta. Diceva infatti che l’animo è mortale, che nulla c’è oltre questo mondo sensibile, e che nulla in esso agisce se non è corpo: infatti riteneva che dio stesso fosse fuoco.

SVF I, 147

[1] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VII, 7, 20. Lo Stoico Zenone [I,40,15] insegnava che gli inferi esistono e che in essi le sedi degli uomini pii e degli empi sono separate: o pii abitato regioni quiete e dilettevoli; gli empi scontano le pene in luoghi di tenebra e in orrende voragini di melma.

[2] Tertulliano ‘De anima’ c. 54. Ciò che mi stupisce davvero è che costoro, da prudenti filosofi, situano rasoterra gli animi, pur affermando [I,40,20] che sono eruditi da saggi i cui animi abitano invece in regioni di gran lunga superiori. Ad una così grande distanza di alberghi, dove si troverà la sede della scuola? In che modo i discepoli s’aduneranno coi maestri, separati come sono gli uni dagli da un intervallo tanto grande? E che pro, che vantaggio traggono dall’erudizione dell’ultimissima ora coloro che sono lì lì per perire nella conflagrazione universale? [I,40,25] I restanti animi, poi, li gettano giù negli inferi.

SVF I, 148

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 5, p. 201 M. Il ragionamento di Zenone, ammirato dagli Stoici […] è questo. “La voce si fa spazio attraverso la gola. Se essa si facesse spazio dal cervello non si farebbe spazio attraverso la gola. Ora, donde si fa spazio il discorso, di là pure [I,40,30] si fa spazio la voce. Ma il discorso si fa spazio dall’intelletto, sicché l’intelletto non è nel cervello”.

SVF I, 149

[1] ‘Scholia’ ‘In Plat. Alcibiad.’ I, p. 121, E. Come affermano Aristotele, Zenone e Alcmeone il Pitagorico, la ragione si esibisce in noi perfetta all’età di quattordici anni.

[2] Giamblico presso Stobeo ‘Eclogae’ I, 48, 8, p. 317 W. [I,40,35] Quindi circa la mente e le migliori facoltà dell’animo, gli Stoici dicono che la ragione non ci è subito connaturata ma che essa si raguna successivamente a partire dalle sensazioni e [I,41,1] dalle rappresentazioni, intorno ai quattordici anni.

[3] Aezio ‘Placita’ IV, 11, 4 (Dox. Gr. p. 400). La ragione, in armonia con la quale noi siamo designati come esseri razionali, si dice che si completi a partire dalle prolessi nel corso dei primi sette anni di vita.

SVF I, 150

Aezio ‘Placita’ IV, 21, 4 (Dox. Gr. p. 411). [I,41,5] Quello che da Zenone è detto ‘il vocale’ e che chiamano anche ‘la voce’, è pneuma che si estende dall’egemonico fino al faringe, alla lingua e agli organi attinenti.

SVF I, 151

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 5, p. 208 M. Affinché la creatura vivente abbia una sensazione, Zenone e Crisippo, insieme con tutto il coro dei loro seguaci, vogliono che [I,41,10] il movimento che s’ingenera in una parte del corpo ad opera di ciò che l’incoglie dall’esterno sia distribuito fino alla causa prima dell’animo.

Fisica VI.

Teologia

[I,41,15] Gli dei esistono – L’etere è il sommo dio – Dio è uno e insieme tanti dei – La natura e la Prònoia – La mantica – Il destino

Frammenti n. 152-177

SVF I, 152

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 133. Zenone soleva prospettare questo ragionamento: “Ragionevolmente si onorerebbero gli dei; ma quelli che sono non dei si onorerebbero irragionevolmente; dunque gli dei esistono”.

[I,41,20]

SVF I, 153

[1] Ippolito ‘Refutat.’ 21, 1 (Dox. Gr. p. 571). Crisippo e Zenone, i quali anch’essi ipotizzarono che dio è il principio di tutte le cose, essendo un corpo purissimo la cui Prònoia pervade tutte le cose.

[2] Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 16 (Dox. Gr. p. 608). [I,41,25] Quando Platone e lo Stoico Zenone discussero della sostanza della divinità, non la pensarono in modo simile. Platone infatti pensò dio incorporeo; Zenone, invece, lo pensò ‘corpo’; benché nulla essi abbiano detto della sua conformazione.

SVF I, 154

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 36. Altrove Zenone afferma che dio è etere.

[2] Tertulliano ‘Adversus Marcionem’ I, 13. Alcuni proclamarono [I,41,30] dei l’aria e l’etere, come Zenone.

[3] Minucio Felice ‘Octavius’ c. 19, 10. Di giorno l’etere è il principio di tutte le cose.

[4] Cicerone ‘Academica’ II, 126. Zenone e quasi tutti gli altri Stoici pensano che l’etere sia il sommo dio, dotato di una mente dalla quale tutte le cose sono rette.

SVF I, 155

[1] Tertulliano ‘Ad nationes’ II, 4. Ecco infatti che anche Zenone [I,42,1] separa la materia, in quanto profana, da dio; e dice che dio trascorre attraverso di essa come il miele nei favi.

[2] ‘Adversus Hermogenem’ 44. Gli Stoici vogliono che dio scorre attraverso la materia come il miele nei favi.

SVF I, 156

Tertulliano ‘De praescriptione haereticorum’ 7. Laddove si equipara [I,42,5] la materia dio: ecco la dottrina di Zenone.

SVF I, 157

[1] Aezio ‘Placita’ I, 7, 23 (Dox. Gr. p. 303). Zenone, lo Stoico, dichiarò che la divinità è mente ignea del cosmo.

[2] Agostino ‘Contra Academicos’ III, 17, 38. <Zenone> reputava [I,42,10] che dio stesso fosse fuoco.

SVF I, 158

Temistio ‘In Aristot. De anima’ p. 35, 32-33 Heinze. Probabilmente l’opinione che la divinità bazzichi la sostanza nella sua interezza è consonante anche a quella dei seguaci di Zenone, giacché essi pongono che la divinità sia in un dove mente, in un dove animo, in un dove natura e in un dove forza di coesione.

SVF I, 159

[1] Taziano ‘Adversus Graecos’ c. 3, p. 143 C. [I,42,15] E così Dio sarà dimostrato, secondo Zenone, essere fattore di mali, dal momento che si intrattiene nelle fogne, nei vermi e in altre opere innominabili.

[2] Clemente d’Alessandria ‘Protrept.’ p. 58 Pott. Non passerò certo sotto silenzio gli Stoici, i quali dicono che il divino pervade ogni materiale, anche il più disonorevole; [I,42,20] Stoici che imperitamente svergognano la filosofia.

[3] Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 218. Gli Stoici <dicono che la divinità è> uno pneuma pervasivo anche delle cose schifose e fetide.

SVF I, 160

[1] Lattanzio ‘De vera sapientia’ 9. Zenone sostiene che il logos (λόγος) è l’ordinatore della natura delle cose e l’artefice dell’universo; e gli dà anche il nome di fato, necessità delle cose, dio, anima di Giove.

[2] Tertulliano ‘Apologeticus’ XXI, 10. Anche secondo i vostri sapienti λόγος, ossia il discorso e la ragione, risulta essere l’artefice dell’universo. Infatti Zenone lo determina come il facitore che avrebbe dato forma ed ordinata disposizione ad ogni cosa; e lo chiama pure fato, dio, anima di Giove [I,42,30] e necessità di tutte le cose.

[3] Minucio Felice ‘Octavius’ c. 19, 10. Zenone [I,42,25] chiama dio la ragione.

SVF I, 161

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 36. <In altri libri Zenone> reputa che la ragione insita nella natura di tutte le cose contenga in sé la forza divina.

[2] Epifanio ‘Adversus haereses’ III, 36 (DDG p. 592). Soleva dire che il divino pervade tutto il cosmo.

SVF I, 162

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 36. Zenone ritiene che la legge naturale sia divina e che la sua forza stia nel comandare le cose giuste e proibire quelle contrarie.

[2] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ I, 5. Similmente Zenone dà il nome dio alla legge divina e naturale.

[3] Minucio Felice ‘Octavius’ c. 19, 10. Zenone [I,42,35] afferma che la legge naturale e divina è principio di tutte le cose.

[4] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 88. [I,43,1] Legge comune, la quale è retta ragione che tutto pervade e che è identica a Zeus, guida e capo del governo delle cose.

[5] ‘Scolio’ a Lucano II, 9. È allineato con le dottrine degli Stoici chi afferma che il mondo è reso saldo dalla virtù e dalla legge, [I,43,5] che esso stesso dio, e che è legge a se stesso.

SVF I, 163

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 148. Zenone afferma che sostanza della divinità sono il cosmo nella sua interezza e il cielo.

SVF I, 164

[1] Lattanzio ‘De ira dei’ cp. 11. Antistene […] disse che il dio naturale è uno solo, quantunque le genti e le città ne abbiano dei propri secondo le credenze popolari. Una dottrina [I,43,10] non dissimile sostengono Zenone e i suoi Stoici.

[2] Filodemo ‘De pietate’ p. 84 Gomp. Tutti i seguaci di Zenone, anche se lasciavano da parte il demone […] dicono che vi è un solo dio.

SVF I, 165

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 36. Zenone attribuisce forza divina agli astri, agli anni, ai mesi e alle stagioni dell’anno.

SVF I, 166

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 63. Una gran moltitudine di dei [I,43,15] discesero poi da un’altra teoria razionale di carattere fisico; dei che, vestiti in forma umana, rifornirono i poeti di favole e riempirono la vita degli uomini d’ogni genere di superstizione. Questo tema, trattato da Zenone fu poi abbondantemente spiegato e chiarito da Cleante e da Crisippo.

SVF I, 167

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 36. Nell’interpretare [I,43,20] la Teogonia, cioè l’origine degli dei, di Esiodo, <Zenone> elimina del tutto le usate e tradizionali concezioni degli dei. Egli infatti non annovera tra gli dei né Giove né Giunone né Vesta, né altri che abbiano appellativi analoghi; ma insegna che questi nomi sono stati assegnati allegoricamente a cose inanimate e prive di parola.

SVF I, 168

Filodemo ‘De pietate’ cp. 8 (DDG 542b). [I,43,25] […] Afrodite, è la forza capace di collegare propriamente le parti l’una all’altra….

SVF I, 169

Minucio Felice ‘Octavius’ c. 19, 10. Quando Zenone stesso interpreta Giunone come aria, Giove come cielo, [I,43,30] Nettuno come mare e Vulcano come fuoco, e dimostra al volgo che in modo simile anche altri dei sono elementi, egli sta discutendo seriamente e confutando un errore diffuso.

SVF I, 170

Filodemo ‘De pietate’ col. 8. […] i Dioscuri, retti discorsi e virtuose disposizioni.

SVF I, 171

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 57. Zenone [I,44,1] quindi così definisce la natura: “La natura è fuoco artefice che procede con metodo alla generazione”. Egli sostiene infatti che è compito specifico dell’arte creare e generare; e che ciò che nei prodotti delle nostre arti è fatto dalla mano, con arte assai più fine questo lo produce la natura, ossia, [I,44,5] come ho detto, il fuoco artefice che è maestro di ogni altra arte.

[2] ‘Academica’ I, 39. <Zenone> stabiliva che il fuoco è la natura stessa.

[3] ‘De natura deorum’ III, 27. […] <non> della natura che procede <quale fuoco> artefice, come dice Zenone.

[4] Tertulliano ‘Ad nationes’ II, 2. Zenone vuole che la natura sia sinonimo di fuoco

[5] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 156. La natura è fuoco artefice [I,44,10] che incede metodicamente alla generazione.

SVF I, 172

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 58. Secondo questo ragionamento ogni singola natura è artefice, giacché ha un metodo ed un indirizzo che segue; ma la natura del mondo, che racchiude e contiene in sé tutte le cose, dallo stesso Zenone [I,44,15] è chiamata non solo ‘artefice’ ma propriamente ‘l’artista’, consultrice com’è di tutte le utilità e provvida di tutte le opportunità. Inoltre, come le singole nature sono generate, crescono e sono contenute entro i propri semi, così la natura del mondo ha tutti i moti volontari, i conati e gli impulsi che i Greci chiamano ὁρμαί ed a questi adatta le azioni confacenti come facciamo noi che siamo mossi dall’animo e dai sensi. Ecco dunque com’è ‘la mente del mondo’, [I,44,20] e per tale motivo essa può rettamente chiamarsi saggezza o provvidenza (quello che i Greci chiamano πρόνοια) la quale specialmente provvede e si occupa al massimo: in primo luogo di far sì che il mondo abbia in sé le condizioni di una stabile esistenza; in secondo luogo, che non manchi di nulla; in terzo luogo e in misura particolare, che sia dotato d’una superlativa bellezza e di ogni ornamento.

SVF I, 173

Cicerone ‘De divinatione’ I, 6. Quasi tutti gli Stoici [I,44,25] difendevano <quelle pratiche divinatorie>, giacché Zenone aveva sparso nei suoi commentari una sorta di semi […]

SVF I, 174

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 149. <Gli Stoici dicono che> se c’è la Prònoia ogni forma di mantica è fondata; e [I,44,30] dichiarano, sulla base di certi esiti, che essa è un’arte, come afferma Zenone.

SVF I, 175

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 149. Crisippo […], Posidonio […], Zenone […] affermano che tutto avviene in armonia col destino […]. E il destino è la causa concatenante delle cose che sono, oppure la ragione in armonia con la quale il cosmo se la tragitta.

SVF I, 176

[1] Aezio ‘Placita’ I, 27, 5 (Dox. Gr. p. 322b 9). [I,44,35] Lo Stoico Zenone nel suo libro ‘Sulla natura’ chiama il destino facoltà cinetica della materia che, proprio allo stesso modo, non fa differenza chiamare Prònoia o natura.

[2] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ VI, 14, p. 153 Ra. Zenone di Cizio [I,45,1] ha chiamato il destino <facoltà> cinetica della materia e gli diede nome di Prònoia o natura.

SVF I, 177

Epifanio ‘Adversus haeres.’ III, 2, 9 (Dox. Gr. p. 592). Le [I,45,5] cause delle faccende in parte sono in nostro esclusivo potere, in parte sono non in nostro esclusivo potere; cioè alcune faccende sono in nostro esclusivo potere, altre invece sono in non nostro esclusivo potere.

  • Ethica

Frammento n. 178

SVF I, 178

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 84. <Gli Stoici> dividono la parte Etica della filosofia in diversi ambiti: quello dell’impulso, quello dei beni e dei mali, delle passioni, della virtù, del sommo bene, [I,45,10] del primo valore, delle azioni, delle esortazioni e dissuasioni doverose. Così la suddividono i seguaci di Crisippo […] Zenone di Cizio e Cleante, in quanto filosofi più antichi, discernettero circa queste faccende in modo più semplice.

§ 1.Sul sommo bene [I,45,15]

Quale sia il sommo bene

Frammenti n. 179-184

SVF I, 179

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 87. [I,45,20] E perciò Zenone per primo, nel suo libro ‘Sulla natura dell’uomo’ disse che il sommo bene è vivere in modo ammissibile con la natura, il che significa vivere secondo virtù; giacché è la nostra natura a condurci alla virtù.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 75, 11 W. Zenone così esplicitò il sommo bene: “Vivere in modo ammissibile <con la ragione>” cioè in consonanza ed armonia con una ragione sola, [I,45,25] poiché quanti vivono in contraddizione sono infelici.

[3] Cicerone ‘De finibus’ IV, 14. Questo <gli Stoici> dicono che sia il sommo bene per Zenone, il quale dichiara quello che hai detto tu: vivere in modo conveniente alla natura.

[4] III, 21. Il sommo […] bene sta in ciò che gli Stoici chiamano ὁμολογία e che noi chiamiamo convenienza.

[5] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 7. Per Zenone il sommo bene [I,45,30] è vivere in modo congruente con la natura.

[6] III, 8. Ascoltiamo dunque Zenone, giacché di tanto in tanto egli sogna la virtù. Il sommo bene, egli afferma, è vivere in modo consentaneo alla natura.

[7] Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 470, 27 Mang. E così essi raggiungeranno quel fine benaugurate che non è più Zenoniano che ispirato dall’oracolo di Delfi: vivere in modo conseguente alla natura.

SVF I, 180

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, 21, p. 496 Pott. [I,46,1] A sua volta lo Stoico Zenone ritiene che il sommo bene consista nel vivere secondo virtù.

SVF I, 181

Cicerone ‘Academica’ II, 131. Zenone, il primo degli Stoici e il fondatore di questa Scuola, stabilì che il sommo bene è [I,46,5] vivere nel modo moralmente onesto che deriva dall’essere conciliati con la natura.

SVF I, 182

Epitteto ‘Diatribe’ I, 20, 14. Eppure la dottrina cardinale dei filosofi è anche troppo corta. Per riconoscerlo leggi Zenone e vedrai. Cos’ha di lungo il dire: “Sommo bene è accompagnarsi agli dei; sostanza del bene è l’uso quale si deve delle rappresentazioni”? Dimmi: “Cos’è [I,46,10] dunque dio e cos’è rappresentazione? E cos’è natura del particolare e cos’è natura dell’intero?” Già diventa una cosa lunga.

SVF I, 183

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1069f. E Zenone non seguì forse costoro (i Peripatetici) i quali suggerivano quali elementi della felicità la natura e l’armonia con la natura?

SVF I, 184

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 77, 20 W. [I,46,15] Zenone definì la felicità in questo modo: felicità è il sereno fluire dell’esistenza.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 30. E la felicità, come esplicitarono i seguaci di Zenone, di Cleante e di Crisippo, è il sereno fluire dell’esistenza.

Soltanto il vizio è male

Frammento n. 185

SVF I, 185

[1] Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ II, 29. Nulla è male, dice [I,46,20] <Zenone>, se non ciò che è moralmente deforme e vizioso. […] <Provare dolore fisico o non provarlo>, egli dice, non fa mai la minima differenza ai fini della vita beata, la quale è riposta totalmente nella virtù; e però il dolore fisico è cosa da respingere. Perché? Perché è aspro, è contro natura, difficile da sopportare, cupo e duro.

[2] V. 27. <Va bene > se lo dicesse [I,46,25] Zenone lo Stoico, il quale riteneva che nulla è male se non ciò ch’è vizioso.

La virtù va ricercata per se stessa

Frammento n. 186

SVF I, 186

Agostino ‘Contra Academicos’ III, 7, 16. Zenone proclama, e tutta la Stoa strepita, che l’uomo non per altro è nato che per l’integrità morale; che questa, con il suo splendore, attira a sé gli animi senza bisogno di vantaggi esteriori o la lusinga di un compenso; [I,46,30] che il piacere del famoso Epicuro è comune solo tra il bestiame; e che sarebbe nefasto associare l’uomo sapiente alle bestie.

Per la vita felice è sufficiente la virtù

Frammenti n. 187-189

SVF I, 187

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 127. Secondo quanto dice Zenone, la virtù è autosufficiente per la felicità.

[2] Cicerone ‘De finibus’ V, 79. Zenone [I,46,35] questo lo annuncia magnificamente, quasi venisse da un oracolo: “Per una vita beata la virtù basta a se stessa”.

[3] Agostino ‘De trinitate’ XIII, 5, 8. Noi dicemmo che essi porrebbero la vita beata là dove ne ricavassero il massimo diletto […] come fece Zenone con la virtù.

SVF I, 188

[1] Cicerone ‘Academica’ I, 35. Zenone dunque era nient’affatto [I,47,1] il tipo, com’era invece Teofrasto,che tronca i nervi della virtù, ma al contrario riponeva tutto ciò che pertiene alla vita beata unicamente in essa, null’altro annoverava tra i beni, e la chiamava onestà intellettuale ed il semplice, il solo e l’unico bene.

[2] I, 7. Se infatti vuoi diventare seguace di Zenone, [I,47,5] è una grande impresa capire cosa sia quel suo bene vero e semplice che è inseparabile dall’onestà intellettuale.

SVF I, 189

[1] Cicerone ‘De finibus’ IV, 47. Erra Zenone quando afferma che in nessuna condotta c’è propensione alcuna, neppur minima, al conseguimento del sommo bene se non nella virtù; e che seppur le altre condotte non spingono affatto [I,47,10] alla vita beata, tuttavia in esse c’è una spinta ad acquisire certe cose.

[2] IV, 60. Al contrario, Zenone chiama bene soltanto ciò che ha un sua peculiare specificità che lo rende appetibile, e chiama vita beata solo quella che si conduce virtuosamente.

[3] IV, 48. Una volta conosciuto il sommo bene, cos’è meno consentaneo ad esso del ritornare indietro alla natura, come dicono <gli Stoici>, [I,47,15] per chiederle la condotta da tenere, cioè quale sia il loro dovere?

§ 2. I beni e i mali

 Frammento n. 190

SVF I, 190

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 57, 18 W. Zenone afferma che queste sono [I,47,20] le cose che partecipano della sostanza. E delle cose che sono alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti. Beni sono cose di questo genere: saggezza, temperanza, giustizia, virilità e tutto ciò ch’è virtù o partecipa della virtù. Mali sono cose di questo genere: stoltezza, intemperanza, ingiustizia, viltà e tutto ciò ch’è vizio o partecipa del vizio. Indifferenti sono cose di questo genere: vita, morte, reputazione, [I,47,25] discredito, dolore fisico, piacere fisico, ricchezza di denaro, povertà di denaro, malattia, salute e le cose simili a queste.

§ 3.Gli indifferenti

La nozione di indifferente

Frammento n. 191 [I,47,30]

SVF I, 191

Cicerone ‘Academica’ I, 36. Circa le altre cose, per quanto fossero né mali né beni, tuttavia Zenone ne definiva alcune secondo natura, altre contrarie a natura; e poi, oltre a queste, ne enumerava altre interposte e medie. Egli insegnava che le cose secondo natura vanno accettate e stimate di un certo valore, e che per le altre vale l’opposto; [I,48,1] mentre quelle neutre occupano una posizione intermedia. Queste ultime per lui non avevano assolutamente alcuna capacità di spingere ad una scelta.

Indifferenti promossi e indifferenti ricusati

Frammenti n. 192-194

SVF I, 192

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 84, 21 W. Degli indifferenti dotati di valore, alcuni ne hanno molto, altri poco. Similmente, degli indifferenti che hanno disvalore, [I,48,5] alcuni ne hanno molto, altri poco. Ora, gli indifferenti dotati di molto valore sono detti ‘promossi’, mentre quelli aventi molto disvalore sono detti ‘ricusati’; e fu Zenone per primo a porre alle faccende in questione questi nomi. <Gli Stoici> chiamano ‘promosso’ quell’indifferente che selezioniamo per noi secondo un ragionamento di prima istanza. Un discorso simile vale per l’indifferente ‘ricusato’ e [I,48,10] gli esempi sono, per analogia, gli stessi. Invece nessuno dei beni è un ‘promosso’, giacché i beni hanno il massimo valore. L’indifferente ‘promosso’, pur essendo una faccenda di secondo rango e valore, s’approssima in qualche modo alla natura dei beni. A corte, infatti, il re non appartiene ai ‘promossi’, mentre lo sono quelli posizionati dopo di lui. Gli indifferenti si dicono dunque ‘promossi’ non [I,48,15] perché conferiscano qualcosa in vista della felicità o cooperino ad essa, ma perché necessariamente noi li selezioniamo a scapito degli indifferenti ‘ricusati’.

SVF I, 193

Cicerone ‘Academica’ I, 37. Delle cose degne di scelta, alcune hanno molto valore, altre meno: quelle di molto valore le chiamava [I,48,20] ‘promosse’, quelle di minor valore ‘ricusate’.

SVF I, 194

Cicerone ‘De finibus’ III, 51. Sarebbe il caso, affinché si capisca più facilmente il significato del termine, di esporre il ragionamento di Zenone nel coniarlo. Infatti, egli dice, come nessuno in una reggia direbbe che il re è stato promosso a tale dignità, giacché questo significa προηγμένον, ma si dice questo dei dignitari di alto rango, che sono prossimi [I,48,25] alla posizione del re ma secondi ad esso; così nella vita si parla delle cose promosse, cioè προηγμένα, non in riferimento a quelle di primo rango ma a quelle di secondo rango.

I singoli indifferenti

Frammenti n. 195-196

SVF I, 195

Aulo Gellio ‘Noctes atticae’ IX, 5, 5. Zenone giudicò che il piacere fosse un indifferente, cioè neutro, ossia né bene né male, quello che egli stesso chiamò [I,48,30] con parola greca ἀδιάφορον.

SVF I, 196

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXII, 9. Il nostro caro Zenone utilizza questo sillogismo: “Nessun male è glorioso; ma la morte è gloriosa; dunque, la morte non è un male”.

§ 4.L’appropriazione originaria

Frammenti n. 197-198

SVF I, 197

[I,48,35]

[1] Porfirio ‘De abstin.’ III, 19. Fondamento di ogni appropriazione e di ogni estraniazione è l’avere una sensazione. E i seguaci di Zenone [I,49,1] pongono l’appropriazione <di sé> come fondamento della giustizia.

[2] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1038c. Infatti, l’appropriazione sembra essere la sensazione di ciò ch’è appropriato e la sua [I,49,5] presa d’atto.

SVF I, 198

Cicerone ‘De finibus’ IV, 45. A me sarebbe sembrato più equo che Zenone, nella polemica con Polemone, dal quale aveva comunque appreso quali fossero gli istinti naturali primari; avanzando dai principi iniziali comuni riconoscesse dov’era la prima discordanza da chiarire e donde nascesse la causa della loro controversia; senza schierarsi dalla parte di coloro che neppure definivano i loro sommi beni originati da istinti naturali, [I,49,10] utilizzando gli stessi argomenti che usavano quelli e addirittura le medesime formulazioni.

§ 5.La virtù

 Frammenti n. 199-204

SVF I, 199

Cicerone ‘Academica’ I, 38. Per quanto i filosofi precedenti non riponessero ogni virtù nella ragione, ma affermassero che alcune virtù trovano la loro [I,49,15] perfezione nella natura o nel costume, Zenone le poneva tutte nella ragione. E mentre quei pensatori ritenevano possibile che i generi di virtù di cui ho parlato potessero essere disgiunti dalla ragione, questi ne negava categoricamente la possibilità; e sosteneva che non solo l’uso continuo della virtù, come pensavano i predecessori, ma il suo mero esercizio momentaneo era di per sé un atto preclaro, [I,49,20] seppure non potesse dirsi virtuoso se non chi utilizzava costantemente la virtù.

SVF I, 200

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034c. Zenone, come Platone, ci lascia in eredità una pluralità di virtù distinte come la saggezza, la virilità, la temperanza, la giustizia; e ce le lascia come inseparabili ma diverse e differenti una dall’altra. Quando definisce ciascuna di esse, afferma che [I,49,25] la virilità è saggezza….[nelle cose cui si deve resistere, la temperanza è saggezza nelle cose che si devono scegliere, la saggezza in senso proprio è saggezza]….nelle attività da svolgere, la giustizia è saggezza nelle cose da distribuire. E’ come se una fosse la virtù seppure, nelle sue relazioni con le faccende, sembri differire a seconda delle attività.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 161. <Aristone> non introduceva molteplici virtù, come fece invece Zenone.

SVF I, 201

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 441a. [I,49,30] Sembra che anche Zenone di Cizio si lasci in un certo senso trarre a questa opinione, poiché definisce la saggezza nelle cose che si devono assegnare, giustizia; quella nelle cose che si devono scegliere, temperanza; quella nelle cose che si devono reggere, virilità; e i suoi difensori sono del parere che in queste definizioni la conoscenza certa sia stata da Zenone chiamata col nome di saggezza.

SVF I, 202

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 441c. [I,49,35] Tutti costoro [I,50,1] <ossia gli Stoici Aristone, Zenone, Crisippo> in comune ipotizzano che la virtù sia una disposizione durevole dell’egemonico dell’animo e una facoltà originata dalla ragione, o piuttosto che essa stessa sia la ragione in quanto ammessa come tale, ben salda ed immutabile. Essi legittimano anche l’idea che la parte passionale e [I,50,5] irrazionale non sia distinta dalla parte razionale per una differenza di natura ma che sia la stessa identica parte dell’animo, che chiamano appunto ‘intelletto’ o ‘egemonico’, la quale si rigira e muta completamente nel caso delle passioni e delle trasformazioni di postura o di disposizione d’animo, diventando sia vizio che virtù senza avere però in sé nulla d’irrazionale. E inoltre che si dica ‘irrazionale’ qualora, per l’eccedere [I,50,10] dell’impulso divenuto così potente da farla da padrone, essa sia portata fuori controllo verso qualcosa di assurdo e in contrasto con la ragione che sceglie. La passione, infatti, è ragione malvagia e impudente, originata da una determinazione insipiente e sbagliata cui s’aggiungono veemenza e vigoria.

SVF I, 203

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 1, p. 38, 15 W. I seguaci dello Stoico Zenone dicono metaforicamente che [I,50,15] il costume morale è fonte di vita, una fonte dalla quale scorrono le singole azioni particolari.

SVF I, 204

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 173. Secondo Zenone il costume morale si può riconoscere dall’aspetto esteriore.

[2] Aezio ‘Placita’ IV, 9, 17 (Dox. Gr. p. 398). Gli Stoici affermano che si può riconoscere in modo irrefutabile il sapiente a colpo d’occhio, dal suo solo aspetto esteriore.

§ 6.Le passioni

 Frammenti n. 205-215 [I,50,20]

SVF I, 205

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 110. Secondo Zenone, la passione è un moto dell’animo irrazionale e contro natura o un impulso eccessivo.

[2] Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 11. Questa è la definizione che Zenone dà della passione: la passione, che egli chiama πάθος, è un sommovimento innaturale dell’animo [I,50,25] avverso alla retta ragione. Più brevemente, alcuni dicono che la passione è una brama spasmodica.

[3] IV, 47. La definizione di passione della quale si è servito Zenone, credo correttamente, è questa: la passione è un sommovimento innaturale dell’animo avverso alla retta ragione. Più brevemente: la passione è una brama spasmodica, dove con ‘spasmodica’ [I,50,30] si intenda quella che è ben lungi da ogni naturale equilibrio.

[4] ‘De officiis’ I, 136. Le passioni cioè moti eccessivi dell’animo che non obbediscono a ragione.

[5] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 2, p. 44, 4 W. Ogni passione è un impulso eccessivo.

[6] II, 7, 10, p. 88, 8 W. <Gli Stoici> affermano che la passione è un impulso eccessivo e disobbediente alla ragione [I,50,35] che opera la scelta [proairesi], oppure un moto dell’animo contrario alla natura delle cose.

SVF I, 206

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 1, p. 39, 5 W. Come la definì lo Stoico Zenone: la passione è un impulso eccessivo. Non dice: “la cui natura è di essere eccessivo”, [I,51,1] ma che è adesso in eccesso; non dunque in potenza, ma piuttosto in atto. Egli la definì anche così: “la passione è una palpitazione dell’animo”; poiché guardò al frullio dei volatili e ne fece l’immagine della facilità al movimento della passionalità.

[2] II, 7, 10, p. 88, 11 W. Perciò ogni palpitazione è una passione e, viceversa, ogni passione [I,51,5] è una palpitazione.

SVF I, 207

Cicerone ‘Academica’ I, 38. Mentre <i filosofi precedenti> non intendevano escludere dall’animo umano la passione […] ma rimpicciolirla e ridurla a poca cosa, Zenone volle che il saggio fosse privo di qualunque passione, quasi esse fossero delle malattie. E mentre gli antichi sostenevano che le passioni erano conformi a natura e nulla avevano a che fare con la ragione, e quindi collocassero la cupidigia in una parte dell’animo [I,51,10] e la ragione in un’altra, Zenone non era d’accordo con loro. Pensava infatti che le passioni fossero volontarie e che fossero suscitate da un giudizio congetturale, ed era convinto che madre di tutte le passioni fosse una smodata intemperanza.

SVF I, 208

Temistio ‘In Aristot. De anima’ 90b Spengel II, 197, 24. [I,51,15] I seguaci di Zenone non fecero male a proprorre che le passioni dell’animo umano siano pervertimenti della ragione e determinazioni aberranti della ragione.

SVF I, 209

[1] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 1, p. 405 M. Zenone legittimava l’dea che le passioni dell’animo non siano le determinazioni di per sé, bensì le [I,51,20] contrizioni e le effusioni, le esaltazioni e le depressioni che sopravvengono ad esse.

[2] IV, 3, p. 348 M. Con ciò egli contraddice Zenone e molti altri Stoici, i quali concepiscono che le passioni dell’animo non siano le determinazioni dell’animo in quanto tali, ma le irragionevoli contrizioni e i servilismi e gli strazi, come pure le irragionevoli esaltazioni ed [I,51,25] effusioni a seguito di tali determinazioni.

SVF I, 210

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 5, p. 299 M. Non c’è più bisogno da parte nostra di ricercare un’altra dimostrazione del fatto che le paure, le afflizioni e tutte quante le passioni di questo genere abbiano la loro sede nel cuore. Questo è preso per ammesso [I,51,30] anche dagli Stoici; giacché non soltanto Crisippo, ma anche Cleante e Zenone lo pongono prontamente per scontato.

SVF I, 211

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 110. Secondo quanto afferma Zenone nel libro ‘Sulle Passioni’, le passioni supreme sono di quattro generi: afflizione, paura, smania, ebbrezza.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 10, p. 88, 14 W. Primarie [I,51,35] per genere sono queste quattro passioni: la smania, la paura, l’afflizione e l’ebbrezza.

SVF I, 212

[1] Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 74-75. Mi sembra abbastanza assodato che l’afflizione è l’opinione [I,52,1] della presenza di un male, e che in questa opinione è insito il giudizio che sia d’uopo sentirsi afflitti. A questa definizione Zenone rettamente aggiunge: e che quell’opinione della presenza di un male sia freschissima.

[2] Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IV, 7, p. 391 M. [I,52,5] “Questa definizione” afferma <Posidonio> “di afflizione, come anche molte altre definizioni delle passioni formulate da Zenone e messe per iscritto da Crisippo, confuta chiaramente il punto di vista di quest’ultimo, il quale afferma che l’afflizione è ‘opinione immediata e senza riserva che un male ci è presente’. Parlando a volte in modo più spiccio, <Crisippo e i suoi seguaci> proferiscono la definizione all’incirca così: ‘l’afflizione è [I,52,10] opinione immediata e senza riserva della presenza di un male”.

SVF I, 213

[1] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 23. Zenone colloca la misericordia tra i vizi e le malattie.

[2] ‘Epist ad Pentad.’ 38. Zenone, maestro degli Stoici, loda la virtù ma giudica la misericordia […] una malattia dell’animo.

SVF I, 214

Cicerone ‘Pro Murena’ 61. Non c’è indulgenza che muova il saggio, [I,52,15] né perdono per alcun delitto; perché solo lo stolto e lo sciocco provano misericordia: non è da uomo il farsi pregare e placare.

SVF I, 215

Seneca ‘De ira’ I, 16, 7. Però, come dice Zenone, pur se la ferita è sanata, anche nell’animo del saggio resta la cicatrice. Pertanto, egli sentirà [I,52,20] come delle suggestioni ed ombre di passione, pur se ne sarà esente.

§ 7.Il sapiente e l’insipiente

Il sapiente

Frammenti n. 216-223a

SVF I, 216

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 11, p. 99, 3 W. [I,52,25] Ha il beneplacito di Zenone e dei filosofi Stoici suoi seguaci l’esistenza di due generi di individui: gli uomini virtuosi e gli esseri umani insipienti. Il genere dei virtuosi pratica per tutta la vita le virtù e quello degli insipienti i vizi; laonde il primo opera sempre rettamente in tutto ciò cui s’applica, [I,52,30] mentre il secondo aberra. Poiché utilizza le sue esperienze di vita in ciò che effettua, il virtuoso fa tutto bene, ossia in modo saggio, con temperanza e in armonia con le altre virtù; mentre l’insipiente, al contrario, fa tutto male. Inoltre il virtuoso è grande, massiccio, d’elevato sentire, potente. Grande, perché è capace di ottenere [I,52,35] le cose proairetiche che si è proposto; massiccio, perché è cresciuto in ogni senso; d’elevato sentire, perché condivide l’altezza d’animo [I,53,1] che spetta all’uomo nobile e sapiente; potente, perché si è procacciata la potenza che gli spetta, dal momento che è invitto e senza antagonisti. Perciò egli è non costretto da alcuno né costringe alcuno, è non impedito né impedisce, non subisce violenza da alcuno né la esercita su alcuno, è non dispotico [I,53,5] né subisce il dispotismo altrui, non maltratta alcuno né è maltrattato, non incappa nei mali <né vi fa incappare un altro>, è non ingannato e non inganna un altro, è non mendace, non ignora, è non occulto a se stesso e, in generale, non concepisce il falso. È al massimo grado felice, fortunato, beato, opulento dei veri beni, pio, [I,53,10] caro agli dei, di gran pregio, regale, dotato di capacità strategica, politico, amministratore, atto a fare denari. Gli insipienti, invece, hanno qualità tutte opposte a queste.

SVF I, 217

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, 158b. È un giudizio stoico che il sapiente farà bene ogni cosa e che condirà con saggezza anche un piatto di lenticchie. Per questo, Timone [I,53,15] di Fliunte diceva di un tale:

‘che non ha imparato a lessare saggiamente le lenticchie alla Zenone’;

come se le lenticchie non potessero essere lessate in un modo diverso dalla ricetta di Zenone, il quale diceva:

‘di aggiungere alle lenticchie un dodicesimo di semi di coriandolo’.

SVF I, 218

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 45, Mang. [I,53,20] Merita ribadire quel detto di Zenone nel quale s’afferma che faresti più in fretta a tenere immerso un otre pieno d’aria che a costringere con la violenza un qualunque uomo virtuoso a compiere suo malgrado qualcosa che non ha deciso. Infatti non cede ed è invitto quell’animo che la retta ragione innerva con consolidati giudizi.

SVF I, 219

Plutarco ‘De aud. poet.’ p. 33d. [I,53,25] Zenone, rettificando quei versi di Sofocle:

‘chi ha mercato col tiranno ne è servo,

pur se libero da lui sia giunto’

riscrisse:

‘non è servo, se libero da lui sia giunto’ [I,53,30]

giacché egli intende così associare all’uomo libero la connotazione di uomo che non ha paura, disinteressato, alieno dal servilismo.

SVF I, 220

[1] Cicerone ‘De finibus’ V, 84. Se la povertà è un male, nessun mendicante può essere beato seppur fosse saggio. Ma Zenone ha avuto il coraggio di dire [I,53,35] che egli non solo è beato ma pure ricco.

[2] ‘Pro Murena’ 61. Soltanto i saggi sono ricchi, pur se poverissimi.

SVF I, 221

[1] Cicerone ‘Pro Murena’ 61. Solo i saggi sono belli, anche se affetti da ogni deformità.

[2] ‘De finibus’ III, 75. Rettamente <il saggio> [I,54,1] sarà chiamato bello, giacché i lineamenti dell’animo sono più belli di quelli del corpo.

SVF I, 222

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 33. E di nuovo ne ‘La repubblica’ <Zenone> fa riscontrare che cittadini e amici e familiari e liberi sono [I,54,5] soltanto gli uomini virtuosi.

SVF I, 223

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 14, 95, p. 703 Pott. Lo Stoico Zenone, prendendo spunto da Platone, il quale a sua volta l’aveva preso dalla filosofia barbarica, dice che tutti gli uomini virtuosi sono amici fra di loro.

SVF I, 223a

Plutarco ‘Vita Arati’ XVIII. Quando successivamente teneva scuola, a chi gli diceva [I,54,10] che secondo lui soltanto il sapiente è stratega, si racconta che <Persèo> rispondesse: “Ma, per gli dei, tra tutti i giudizi di Zenone anch’io una volta gradivo specialmente proprio questo”….

Le aberrazioni sono pari

Frammento n. 224

SVF I, 224

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 120. Ha il loro beneplacito il ritenere, stando alle affermazioni di […] Zenone, che tutte le aberrazioni siano pari.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 422. [I,54,15] Prendendo impulso da qui, i seguaci di Zenone insegnavano che tutte le aberrazioni sono pari.

[3] Cicerone ‘Pro Murena’ 61. Tutti i crimini si equivalgono.

[4] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 23. Chi approva la dottrina di Zenone sulla parità di tutti i crimini?

L’insipiente

Frammenti n. 225-229

SVF I, 225

Cicerone ‘Pro Murena’ 61. Ogni delitto è una scellerata nefandezza, [I,54,20] né delinque in minor misura chi uccide un pollo quando non si dovrebbe, rispetto a chi ha strangolato il padre.

SVF I, 226

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 32. <Per lo Scettico Cassio> Zenone afferma che tutti coloro che sono non virtuosi sono nemici personali, nemici di guerra, servi, estranei gli uni agli altri; [I,54,25] e lo sono anche i genitori dei figli, i fratelli dei fratelli, i familiari dei familiari.

SVF I, 227

Cicerone ‘Pro Murena’ 61. E poi noi che non siamo saggi, a loro detta, siamo schiavi fuggitivi, esuli, nemici e da ultimo folli.

SVF I, 228

Filone Alessandrino ‘Quod omnis probus liber’ II, p. 453, 26 Mang. [I,54,30] Zenone, che si condusse con virtù quant’altri mai, dà una dimostrazione piuttosto elementare del fatto che gli insipienti non hanno eguale diritto di parola a fronte delle persone urbane e civili. Dice infatti: “Se farà un’obiezione al virtuoso, l’insipiente non si metterà a mugugnare? Dunque l’insipiente non ha eguale diritto di parola a fronte del virtuoso”.

SVF I, 229

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXIII, 9. Zenone, uomo eccellente e fondatore della fortissima e integerrima scuola Stoica, ci vuole tenere lontano dall’ubriachezza. [I,54,35] Ascolta dunque in quale modo egli dimostri che il saggio non sarà mai ubriaco: “Ad un ubriaco nessuno confida un segreto, mentre invece lo confida ad un uomo saggio. Dunque, il saggio non sarà ubriaco”.

[2] Filone Alessandrino ‘De plantat. Noe’ II, p. 176 Wendl. [I,55,1] Se è vero che uno non commetterebbe un segreto ad un ubriaco, mentre essi invece si commettono al sapiente; allora ne consegue che la persona urbana e civile non si ubriaca.

§ 8.I doveri intermedi

 Frammenti n. 230-232

[I,55,5]

SVF I, 230

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 107-108. Inoltre essi affermano che ‘doveroso’ è ciò che quando sia effettuato ha una giustificazione ragionevole: per esempio, ciò che consegue all’essere in vita e che pertiene anche a vegetali e ad animali, giacché anche per questi sono contemplati atti doverosi. Il ‘doveroso’ è stato denominato così da Zenone per primo, [I,55,10] questa denominazione essendo stata derivata dall’espressione ‘incombere ad alcuni’.

[2] VII, 25. Dicono che <Zenone> sia stato il primo a dargli il nome di ‘doveroso’ e ad avere fatto un discorso a suo riguardo.

[3] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 8, p. 85, 13 W. Il doveroso è definito così: ‘Ciò che consegue al fatto di essere in vita e che, quando effettuato, ha una giustificazione ragionevole’. In modo opposto si definisce ciò ch’è non doveroso. [I,55,15] Questa definizione pertiene anche alle creature sprovviste di ragione, giacché esse pure hanno attività conseguenti alla loro natura. Ma per esse si rende così: ‘Ciò che consegue al fatto di essere in vita’.

[4] Cicerone ‘De finibus’ III, 58. È atto doveroso ciò che è fatto in modo tale che della sua effettuazione si possa dare razionalmente una spiegazione lodevole.

SVF I, 231

Cicerone ‘Academica’ I, 37. Così come [I,55,20] aveva cambiato tali cose non tanto nella sostanza quanto nella terminologia, tra l’azione retta e il crimine Zenone collocò sia l’atto doveroso che quello non doveroso, considerandoli realtà intermedie. Pose solo le azioni rette tra i beni, e solo le azioni malvage, cioè i crimini, tra i mali; ritenendo intermedi <come ho appena detto> gli atti doverosi sia effettuati che non effettuati.

SVF I, 232

Cicerone ‘De finibus’ IV, 56. E poi quel tuo [I,55,25] piccolo Fenicio -sai bene che i tuoi clienti di Cizio provengono dalla Fenicia- uomo pertanto d’acuto ingegno, vedendo che stava perdendo la causa contro la Natura che gli si opponeva, si mise a rivoltare le parole e, in prima istanza, concesse a quelle cose che noi chiamiamo buone il titolo di ‘degne di stima’ e di ‘conformi a natura’, e poi cominciò ad ammettere che anche il saggio, cioè l’uomo in sommo grado felice, [I,55,30] starebbe meglio se possedesse queste cose che pure egli non aveva il coraggio di chiamare beni, ma che ammette essere conformi a natura. Nega poi che Platone, se pur non è saggio, sia coinvolto nella stesso processo nel quale si giudica il tiranno Dionisio, per il quale la miglior cosa sarebbe la morte perché disperatamente stolto; mentre per Platone sarebbe la vita, perché può ancora sperare di diventare saggio. Inoltre per <Zenone> i crimini di Platone sono in parte tollerabili e in parte no; perché con alcuni di essi egli ha [I,55,35] mancato al dovere in molteplici modi, mentre con altri solo in parte minore. Così alcuni stolti sono [I,56,1] tali che in nessun modo potrebbero pervenire alla sapienza; altri invece se solo si dessero da fare avrebbero la possibilità di conseguirla.

§ 9.Precetti di vita

[I,56,5] Precetti vari

Frammenti n. 233-246

SVF I, 233

Galeno ‘De cogn. morb.’ 3, V, p. 13 K. E così Zenone ci sollecitava a fare tutto con sicurezza, per essere in grado, [I,56,10] di lì a poco, di giustificarci davanti ai pedagoghi. Quell’uomo dava il nome di ‘pedagoghi’ alla maggior parte delle persone, poiché esse sono pronte a rimproverare il prossimo anche se nessuno le chiama in causa.

SVF I, 234

Plutarco ‘Quom. quis in virt. sent. prof.’ 12, p. 82f. Guarda anche quale sia il significato dell’affermazione di Zenone. Giacché egli sollecitava ciascuno [I,56,15] a prendere consapevolezza del proprio stato di progresso dai sogni che fa. Se cioè nel sonno egli si veda non più godere di qualcosa di vergognoso, né ammettere per sé o effettuare qualcosa di terribile o di assurdo; e invece la parte immaginativa e passionale del suo animo, rasserenata dalla ragione, risalti in bella evidenza tal quale il fondale di un mare in bonaccia e non battuto dal vento.

SVF I, 235

[1] Proclo ad Hesiod. Op. et D. 291. [I,56,20] Lo Stoico Zenone scambiava i versi dicendo:

‘Ottimo su tutti è colui che ubbidisce a chi bene parla

e prode, a sua volta, è colui che da sé tutto capisce’.

e dava così il primo posto all’obbedienza e il secondo alla saggezza.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 25-26. [I,56,25] <Dicono anche che Zenone> riscrivesse così i versi di Esiodo [(si tratta dei due versi appena citati)]. Giacché chi è capace di ben ascoltare ciò che viene detto e di utilizzarlo, è migliore di colui che da se stesso di tutto si capacita. Infatti, propria di uno è soltanto l’intelligente comprensione mentre l’altro, ben ubbidendo, vi congiunge anche la pratica.

[3] Temistio ‘Orationes’ VIII, p. 108c. A me è assai gradito Zenone di Cizio [I,56,30] quando dichiara che l’obbedienza è una virtù più regale della perspicacia, e rialloga l’ordine di importanza dato loro da Esiodo….

[4] XIII, p. 171d. Zenone di Cizio concepiva rettamente che l’obbedienza è più regale della perspicacia.

SVF I, 236

Massimo di Tiro ‘Floril.’ c. 6. [I,56,35] L’agricoltore che voglia trarre abbondante e buon frutto dalle piante che coltiva, procura di essere loro giovevole, ne è sollecito [I,57,1] in ogni modo e ne ha cura. Ancor di più questo vale per gli uomini, i quali per natura sono grati a coloro che sono loro giovevoli e per natura si industriano soprattutto per uomini di tal fatta. In ciò nulla vi è di strano. Giacché noi pure abbiamo sollecitudine soprattutto di quelle parti del corpo che legittimiamo come più giovevoli [I,57,5] per il servizio che ci rendono. Laonde, in modo simile, bisogna essere giovevoli con i fatti e non a parole, a coloro dai quali sollecitiamo di sperimentare un bene. Neppure l’olivo, infatti, va superbo di sé con l’agricoltore che ne ha cura, ma lo persuade ad essere di lui sollecito con il produrre abbondanti e buoni frutti.

SVF I, 237

Stobeo ‘Florilegium’ 14, 4. [I,57,10]

‘Controlla te stesso, chiunque tu sia, non per ottenere un favore:

ascolta, elimina la libertà di parola degli adulatori’

SVF I, 238

Stobeo ‘Florilegium’ IV, 106. Zenone soleva dire che è ridicolo non prestare attenzione alle prescrizioni di ciascun singolo su come bisogna vivere, [I,57,15] come se nessuno lo sapesse; e poi invece infatuarsi della lode di chiunque, come se essa avesse il valore di un verdetto.

SVF I, 239

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VI, p. 233b-c. Lo Stoico Zenone appare avere ritenuto indifferenti tutte le altre cose, eccezion fatta per il loro uso legittimo e buono. Egli ha detto di no sia alla scelta e sia alla fuga da tali cose indifferenti, ed ha [I,57,20] comunque ingiunto di utilizzare principalmente cose frugali e senza eccessi. In questo modo gli uomini, poiché hanno una disposizione d’animo lontana da paure e da infatuazioni per tutto ciò ch’è indifferente e dunque né bello né brutto, per la maggior parte usano queste cose secondo natura, e s’astengono dalle contrarie per ragionamento e non per paura, giacché non hanno più timore di nulla.

SVF I, 240

Stobeo ‘Florilegium’ VI, 20. [I,57,25] Zenone accagionava la maggioranza degli esseri umani dicendo: “Pur avendo la potestà di tirar fuori piaceri dai dolori, essi vanno a prenderli dalle cucine”.

SVF I, 241

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, 20, 125 p. 180 St. Parlava bene Zenone quando, a proposito degli Indiani, affermava che avrebbe voluto [I,57,30] vedere un Indiano avvolto dalle fiamme piuttosto che imparare tutte le dimostrazioni relative al dolore.

SVF I, 242

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 565d. Il celebre sapiente Zenone, come lo chiama Antigono di Caristo, presagendo da indovino, com’è verisimile, le vostre vite e il mestiere che vi arrogate, diceva che coloro i quali fraintendono i suoi discorsi e non li capiscono bene, saranno individui sozzi e [I,58,1] non liberi. Proprio come i traviati della scuola di Aristippo saranno individui dissoluti e sfrontati.

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ III, 77. Se è vero quel che soleva dire Aristone di Chio, ossia che i filosofi nuocciono agli ascoltatori che interpretano male le loro giuste affermazioni, allora [I,58,5] dalla Scuola di Aristippo possono davvero uscire dei dissoluti e da quella di Zenone dei burberi immaturi.

SVF I, 243

Musonio presso Stobeo ‘Eclogae’ III, 6, 24, p. 289-290 Hense. È dunque ben detto, affermava <Musonio>, quanto diceva Zenone: cioè che ci si deve tagliare i capelli per la stessa ragione per cui bisogna lasciarli crescere, ossia per vivere secondo natura, affinché uno non sia rallentato né infastidito dalla chioma [I,58,10] in nessuna attività.

SVF I, 244

Origene ‘Contra Celsum’ VII, 63, p. 213 K. Quanti vivono secondo la filosofia di Zenone di Cizio avversano l’adulterio […] giacché esso non è un’azione socievole; ed è contro la natura delle cose, per una creatura logica, rendere adultera una donna già legalmente maritata ad un altro e rovinare la famiglia di un [I,58,15] altro uomo.

SVF I, 245

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 22. <Zenone> diceva che i giovani devono usare la massima compostezza nell’andatura, nei gesti e negli indumenti. Soleva di continuo proferire i versi di Euripide su Capaneo, la cui vita era tale che:

[I,58,20] ‘non si pavoneggiava affatto per la sua opulenza

e non aveva disegni più grandiosi di quelli di un pover’uomo’.

SVF I, 246

Clemente d’Alessandria ‘Paedag.’ III, 11, 74, p. 296 Pott. Sembra che Zenone di Cizio stia qui delineando la figura di un giovanotto e così la scolpisce. Sia, dice, puro il viso; le ciglia non abbassate e gli occhi [I,58,25] né spalacati né socchiusi; il collo non piegato all’indietro; le membra del corpo non rilassate e quelle superiori ben toniche; mente retta nel ragionare, acuta e ritentiva di quanto è detto rettamente; pose e movimenti che nulla concedono alla speranza degli impudenti. Fioriscano in lui [I,58,30] il rispetto di sé e degli altri e il contegno maschio; si tenga perciò lungi dalla dissipazione di profumerie, oreficerie, botteghe di lana e di altre botteghe nelle quali, adornati come delle etere e seduti come in postriboli, si usa passare il giorno.

L’amore per i ragazzi

Frammenti n. 247-249

SVF I, 247

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 563e. <Voi siete dei corruttori di ragazzi, in questo soltanto> emuli [I,58,35] del vostro fondamento di sapienza, Zenone il Fenicio; il quale non se la fece mai con una donna ma sempre con dei ragazzi, come Antigono di Caristo [I,59,1] ha investigato nel suo libro sulla vita di Zenone. Voi infatti blaterate che “bisogna amare non i corpi ma l’animo”, proprio voi che andate dicendo che si devono praticare gli amati fino all’età di ventotto anni.

SVF I, 248

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 129. Il sapiente proverà trasporto amoroso per quei [I,59,5] giovani i quali palesano nel loro aspetto un’attitudine da purosangue per la virtù, come afferma Zenone ne ‘La repubblica’.

SVF I, 249

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 200. E cosa vi è di stupefacente in ciò, laddove anche i filosofi Cinici e i seguaci di Zenone di Cizio, di Cleante e di Crisippo affermano che questo (cioè l’omosessualità maschile) [I,59,10] è un ‘indifferente’?

Frammenti sul Cinismo

Frammenti n. 250-257

SVF I, 250

[1] Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 245. Per esempio, il loro scolarca Zenone nelle ‘Diatribe’, circa l’educazione dei ragazzi dice altre cose simili a queste che seguono: “Metterlo tra le cosce a ragazzi o non ragazzi, a femmine o maschi è né più né meno lo stesso. Giacché si fanno ai ragazzi o ai non ragazzi, [I,59,15] alle femmine o ai maschi cose non diverse, ma le stesse identiche cose che si confanno e che sono confacenti”.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 190. E circa l’educazione dei ragazzi, nelle ‘Diatribe’ lo scolarca Zenone entra in particolari di questo genere (seguono le parole del frammento precedente).

SVF I, 251

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 190. E poi di nuovo. “L’hai messo tra le cosce [I,59,20] del tuo amato?” “Io no” “E non smaniavi forse di metterlo?” “Tantissimo” “Smaniavi che egli si prestasse a te ma hai avuto paura di intimarglielo?” “Per Zeus!” “Ma glielo intimasti?” “Assolutamente si” “E però lui non ti ha fatto il servizio?” “Ecco, no”.

SVF I, 252

Plutarco ‘Quaest. Conviv.’ III, 6, 1, p. 653e. Quanto a me, [I,59,25] per il cane, io vorrei -diceva- che, da parte di Zenone, al metterlo fra le cosce fosse stato assegnato un posto in qualche convito o festino piuttosto che in una compilazione di tale industriosità come ‘La repubblica’.

SVF I, 253

Epifanio ‘Adversus haereses’ III, 36 (DDG p. 592). Zenone di Cizio, lo Stoico, diceva […] che è d’uopo buttare i morti in pasto agli animali [I,59,30] oppure nel fuoco; e usare dei ragazzi amati senza impedimenti.

SVF I, 254

[1] Teofilo ‘Ad Autolycum’ III, 5, p. 119c. Cosa te ne pare dei giudizi che i libri di Zenone o di Diogene o di Cleante abbracciano; libri che insegnano il cannibalismo, che i figli lesseranno e ingeriranno le carni dei loro padri e, se uno decidesse di non farlo oppure decidesse di scaraventare via un membro di questo [I,59,35] fiero pasto, a divorare chi si rifiuta di mangiare?

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. …. <e che il virtuoso> in certe circostanze gusterà carne umana.

[3] VII, 188. Nel libro ‘Sul giusto’, [I,60,1] per un migliaio di righe <Crisippo> intima di divorare i morti.

SVF I, 255

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 206. Zenone non rifiuta la masturbazione, [I,60,5] che per noi è invece una pratica deprecabile.

SVF I, 256

[1] Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 246. Circa il sacrosanto rispetto verso i genitori, lo stesso uomo <ossia Zenone> afferma che nella vicenda di Giocasta e di Edipo non sarebbe da considerarsi una cosa terribile il massaggiare la propria madre. Se, infatti, Edipo avesse massaggiato con le mani Giocasta, poiché ella s’era indebolita in qualche altra parte del corpo, e ciò le fosse stato di giovamento, [I,60,10] nulla di vergognoso avrebbe commesso. Se invece Edipo, massaggiando altre parti del corpo di sua madre, la allieta poiché ne fa cessare le doglianze e ne fa nascere figli di razza, allora questo è ritenuto vergognoso.

[2] ‘Adversus Mathematicos’ XI, 191. Zenone, dopo avere proposto ed investigato la vicenda di Giocasta e di Edipo, afferma che non vi era nulla di terribile nel massaggiare la madre. Infatti, se Edipo le avesse recato giovamento massaggiandole con le mani il corpo che si era indebolito, [I,60,15] nulla di vergognoso avrebbe commesso. Se invece egli la massaggia con un’altra parte di sé, grazie alla quale trova che ne fa cessare le doglianze facendone pure nascere dei figli di razza, cosa vi sarebbe in ciò di vergognoso?

[3] ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 205. Ma anche Zenone di Cizio afferma che non è assurdo massaggiare il sesso della madre con il proprio sesso, appunto come nessuno direbbe che è vizioso massaggiare [I,60,20] con la mano un’altra parte del suo corpo.

SVF I, 257

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 33. <Zenone> intima che uomini e donne usino il medesimo vestito e che nessun pezzo del corpo debba essere tenuto celato.

Sulla morte in armonia con la ragione

Frammento n. 258

SVF I, 258

Seneca ‘Epistulae morales’ CIV, 21. Se vivere tra i Greci è cosa di giovamento, passa del tempo con Socrate e con Zenone: il primo ti insegnerà a morire, se sarà necessario; [I,60,25] il secondo anche prima che sia necessario.

La Costituzione politica

Frammenti n. 259-271

SVF I, 259

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 32. Alcuni poi, <tra i quali i discepoli di Cassio lo Scettico>, accusano Zenone per molte sue affermazioni. In primo luogo perché, all’inizio della sua ‘Repubblica’, egli dichiara improficua l’educazione enciclopedica.

SVF I, 260

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034f. [I,60,30] Dopo avere prospettato interrogativamente questo ragionamento, <Zenone> scrisse contro ‘La repubblica’ di Platone….

SVF I, 261

Plutarco ‘Vita Lycurg.’ XXXI. Anche Platone prese a riferimento [I,60,35] questa ipotesi di costituzione politica, e così fecero Diogene, Zenone e tutti quanti sono lodati per avere messo mano a dire qualcosa al riguardo, benché essi abbiano lasciato dietro di sé soltanto lettere e discorsi.

SVF I, 262

[1] Plutarco ‘De Alex. virt.’ p. 329a. La molto ammirata [I,61,1] ‘Repubblica’ di Zenone, il fondatore della scuola Stoica, ha per scopo quest’unico obiettivo capitale, cioè che noi ci amministriamo né per Stati né per Popoli ciascuno definito da principi di giustizia propri, ma perché riteniamo tutti gli uomini nostri compaesani e concittadini e vi sia una sola ordinata convivenza, [I,61,5] come accade nel caso di una moltitudine di persone che vivono associate e che insieme si nutrono di una legge comune. Questo Zenone scrisse, dando così forma al sogno ad occhi aperti o al disegno astratto di un buon governo filosofico e della sua costituzione politica.

[2] ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1033b. Capita pertanto che molto sia stato scritto proprio da Zenone, pur nella sua concisione …. sulla costituzione politica, sull’essere comandati e sul comandare, sull’amministrare la giustizia, sul parlare in pubblico.

[3] Giovanni Crisostomo ‘Hom.’ I in Matth. 4. [I,61,10] Non come Platone, il quale compose quella risibile ‘Repubblica’; non come Zenone né come chi altro scrisse una costituzione politica ed ha composto leggi.

SVF I, 263

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 561c. Ponziano diceva che Zenone di Cizio concepiva Eros come il dio dell’amicizia e della libertà, ed inoltre come apprestatore di concordia e di null’altro. Perciò nella sua [I,61,15] ‘Repubblica’ Zenone affermava: “Eros è un dio che esiste per cooperare alla salvezza della città”.

[2] Plutarco ‘Vita Lycurg.’ 31. Allora non era invero questo l’obiettivo capitale di Licurgo, ossia di lasciare la sua città a capo di molte altre bensì, poiché riteneva legittimamente che come nella vita di un uomo solo anche nella vita di un intero Stato [I,61,20] la felicità si ingenera a partire dalla virtù e dalla concordia al proprio interno, quello di prescrivere e di conciliare ogni sua disposizione al fine che essi (gli Spartani), una volta diventati liberi, autosufficienti e temperanti, continuassero a rimanere tali per il maggior tempo possibile. Anche Platone prese a riferimento questa ipotesi di costituzione politica, e così fecero Diogene e Zenone.

SVF I, 264

[1] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 12, 76, p. 691 Pott. [I,61,25] Zenone, il costruttore della scuola Stoica, nel suo libro ‘La repubblica’ sostiene che non bisogna fare né templi né simulacri, giacché nessuno di essi è una struttura degna degli dei. E non ebbe paura di scriverlo con le parole seguenti: “Non bisognerà affatto edificare sacrari, giacché è d’uopo legittimmare l’idea che un sacrario di poco valore e [I,61,30] santità è nulla; e che nulla di gran valore e santità è opera di muratori e di artigiani”.

[2] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034b. È giudizio di Zenone quello di non edificare sacrari degli dei. Un sacrario è infatti cosa di poco valore e santità poiché nessuna opera di muratori e di artigiani è di gran valore.

[3] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ III, 74, p. 89, 7 Ra. [I,61,35] Notando ciò, nel suo libro ‘La repubblica’ Zenone di Cizio vieta anche di edificare templi e fare simulacri lignei, giacché afferma che nessuna di queste [I,62,1] strutture è degna degli dei.

[4] Epifanio ‘Adversus haeres.’ III, 36. Lo Stoico Zenone di Cizio affermava che non bisogna edificare sacrari agli dei.

SVF I, 265

Origene ‘Contra Celsum’ I, 5, Vol. I, p. 59, 3 K. Addizioneremo anche noi che Zenone di Cizio nella sua ‘Repubblica’ [I,62,5] afferma: “Non bisognerà affatto edificare sacrari, giacché è d’uopo legittimmare l’idea che un sacrario è nulla; e che nulla di gran valore e santità è opera di muratori e di artigiani”.

SVF I, 266

Stobeo ‘Florilegium’ 43, 88 Mein. Zenone soleva affermare che le città si devono abbellire non con doni votivi ma con le virtù degli abitanti.

SVF I, 267

Cassio ‘Scettico’ presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 33. [I,62,10] <Alcuni rimproverano a Zenone> di nutrire per duecento righe il giudizio che non si debbano edificare nelle città sacrari, tribunali e ginnasi.

SVF I, 268

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 33. <Alcuni rimproverano a Zenone> di avere scritto così circa la moneta: “Bisogna pensare di battere moneta né a scopo di cambio [I,62,15] né di viaggi all’estero”.

SVF I, 269

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 131. Ha il beneplacito degli Stoici il pensiero che presso i sapienti le donne debbano essere comuni, di modo che l’uomo saggio che capita possa avere relazioni con la donna saggia che capita, come afferma Zenone ne ‘La repubblica’.

[2] VII, 33. <Alcuni rimproverano Zenone> perché egli, similmente a Platone, nella ‘Repubblica’ nutre il giudizio che le donne debbano essere comuni.

SVF I, 270

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 121. [I,62,20] <Il saggio> si sposerà, come afferma Zenone nella sua ‘Repubblica’ e farà dei figli.

SVF I, 271                                                                                      

[1] Seneca ‘De otio’ 3, 2. Zenone afferma: “Il saggio può accedere a delle cariche pubbliche, a meno che qualche causa glielo impedisca”.

[2] ‘De tranq. animi’ 1, 10. Senza esitare e con determinazione io seguo Zenone, Cleante e Crisippo, nessuno dei quali accedette [I,62,25] a cariche pubbliche e tuttavia nessuno dei quali si rifiutò di indirizzarvi altre persone.

§ 10.Cratete, Omero, Esiodo

Frammenti n. 272-276

SVF I, 272

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VI, 91. Nelle sue ‘Sentenze’, Zenone di Cizio afferma che una volta Cratete, con tutta noncuranza, appiccò [I,62,30] un vello di pecora al mantello.

SVF I, 273

Stobeo ‘Florilegium’ 95, 21 Mein. Zenone raccontava che una volta Cratete, seduto nella bottega di un calzolaio, leggeva il ‘Protrettico’ di Aristotele, libro che questi scrisse per Temisone, re di Cipro, asserendo che nessuno possedeva più beni di lui per vivere da filosofo, giacché era ricchissimo di denaro [I,63,1] da prodigare a questo scopo ed era inoltre un uomo di fama. Zenone raccontava anche che il calzolaio, mentre Cratete leggeva ad alta voce, prestava attenzione alle sue parole e intanto continuava a cucire. Allora Cratete ad un certo punto disse: “Ritengo, caro Filisco, che scriverò io un ‘Protrettico’ per te, giacché vedo che, per vivere da filosofo, tu possiedi beni maggiori di quelli di cui [I,63,5] scrisse Aristotele”.

SVF I, 274

Dione Crisostomo ‘Orationes’ LIII, 4-5. Anche il filosofo Zenone ha scritto sull’Iliade, sull’Odissea e intorno al Margite; ed a lui sembra che quest’ultimo poema sia il parto di un Omero più giovane, che mette alla prova la sua attitudine naturale alla poesia. Zenone nulla denigra [I,63,10] di Omero, benché nel contempo esponga ed insegni che Omero ha scritto alcune cose secondo opinione ed altre secondo verità, affinché non appaia che egli si contraddica nel caso di certe vicende che sembrano narrate in modo opposto. Questo discorso, ossia che alcune vicende sono state narrate dal poeta secondo opinione e altre secondo verità, fu fatto per primo da Antistene. Ma questi non lo elaborò, mentre Zenone lo rese [I,63,15] manifesto in tutti i suoi particolari.

SVF I, 275

[1] Strabone ‘Geographia’ I, p. 41. Molte cose sono state dette circa gli Erembi, e più plausibili sono coloro che legittimano l’idea che si parli degli Arabi. Anche il nostro caro Zenone scrive così: “Giunsi tra gli Etiopi, i Sidonii e gli Arabi”. Non è dunque necessario cambiare questa grafia, che è antica….

[2] VII, p. 299. [I,63,20] Se non bisogna prestare attenzione al filosofo Zenone quando scrive…

[3] XVI, p. 784. Piuttosto la ricerca concerne gli Erembi, sia che si debba sottintendere che essi sono i Trogloditi […] sia che essi sono gli Arabi. Il nostro caro Zenone riscrive così: “…. Sidoni e Arabi”.

SVF I, 276

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VIII, 48. [I,63,25] <Si dice che Pitagora> sia stato il primo a chiamare il cielo ‘cosmo’ e la terra ‘sferica’. Ma per Teofrasto il primo fu Parmenide, e per Zenone il primo fu Esiodo.

Sentenze di Zenone

 Frammenti n. 277-332

SVF I, 277

[1] Plutarco ‘De cap. ex inim. utilit.’ p. 87a. Quando Zenone seppe che la nave della quale era armatore aveva fatto naufragio, disse: “Fai proprio bene, o fortuna, [I,63,30] a spingerci tutti insieme verso il mantello <del filosofo>”.

[2] ‘De tranq. animi’ p. 467d. [I,64,1] A Zenone di Cizio rimaneva una sola nave da carico, e quando egli venne a sapere che essa, sommersa dai flutti, aveva perso il carico, disse: “Fai proprio bene, o fortuna, a spingerci tutti insieme verso il mantello <del filosofo>”.

[3] ‘De exilio’ p. 603d. Quando Zenone venne a sapere che l’unica nave che gli rimaneva era stata ingoiata dal mare con tutto il carico, disse: “Fai proprio bene, o fortuna, a spingerci tutti insieme verso il mantello e la vita del filosofo”.

[4] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 5. [I,64,5] Altri sostengono invece che egli dimorasse ad Atene quando udì del naufragio e che dicesse: “La fortuna fa proprio bene a spingerci di forza alla vita filosofica”.

[5] Seneca ‘De tranquillitate animi’ 14, 2. Il nostro caro Zenone, quando gli fu annunciato il naufragio e quindi capì che tutta la sua mercanzia era finita in fondo al mare, disse: “La sorte impone che io mi dia più speditamente alla filosofia”.

SVF I, 278

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 24. [I,64,10] Apollonio di Tiro afferma che quando Cratete cercava di trascinarlo via da Stilpone tirandolo per il manto, Zenone disse: “O Cratete, la presa destra dei filosofi è quella che avviene attraverso le orecchie. Trascinami dunque per le orecchie, persuadendomi. Ma se mi usi violenza, il corpo sarà con te ma l’animo sarà con Stilpone”.

SVF I, 279

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 25. [I,64,15] Al dialettico che gli mostrava come nel ragionamento del ‘Mietitore’ siano contenute sette idee di dialettica, chiese quante dracme intendeva farsi pagare per compenso. E quando udì che egli ne voleva cento, gliene diede duecento.

SVF I, 280

[1] Plutarco ‘De prof. in virt.’ p. 78e. Vedendo che [I,64,20] Teofrasto era ammirato per avere molti discepoli, Zenone soleva dire: “Il suo coro è più grande, ma il mio è più armonioso”.

[2] ‘De se ipsum citra invid. laud.’ p. 545f. A proposito dello stuolo di discepoli di Teofrasto, Zenone soleva dire così: “Il suo coro è più grande, ma il mio è più armonioso”.

SVF I, 281

‘Gnomologium Vaticanum’ 275, p. 113 Sternb. [I,64,25] Poiché alcuni asserivano che egli diceva cose contrarie all’opinione comune, il filosofo Zenone replicò: “Ma non contrarie alla legge <della ragione>”.

SVF I, 282

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 5, p. 288 M. A coloro che lo redarguivano perché portava alla bocca ogni [I,64,30] sorta di ricerche, Zenone disse: “Ma non tutte le ingoio”.

SVF I, 283

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 24. Quando gli fu domandato come si comportava davanti all’ingiuria, <Zenone> disse: “Proprio come quando un ambasciatore venisse inviato via senza risposta”.

SVF I, 284

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 24. Poiché durante un convito se ne giaceva reclinato in silenzio, [I,64,35] gliene fu chiesta la causa. A chi gli faceva di ciò una colpa, <Zenone> disse allora di annunciare al re che era lì presente qualcuno che conosceva la scienza del tacere. Coloro che gli avevano posto la domanda erano ambasciatori giunti da parte di Tolomeo e che volevano apprendere [I,65,1] cosa dovessero dire di lui al re.

[2] Stobeo ‘Florilegium’ 33, 10 (Vol. I, p. 680 Hense). Avendo Antigono mandato degli ambasciatori ad Atene, Zenone, insieme ad altri filosofi, fu da loro invitato a pranzo. E mentre gli altri, tra una bevuta e l’altra, avevano fretta di sfoggiare il loro possesso del sapere, lui invece taceva. [I,65,5] Quando gli ambasciatori ricercarono cosa dovessero annunciare da parte sua ad Antigono, Zenone disse: “Proprio quello che scorgete”. La parola è infatti di tutte le cose la più difficile da dominare.

[3] Plutarco ‘De garrulitate’ p. 504a. Ad Atene, un tale che teneva a banchetto degli ambasciatori reali si fece un punto d’onore di riunire nello stesso luogo insieme a loro, visto che trattavano affari seri, anche dei filosofi. Mentre gli ospiti si davano segni di amicizia, scambiavano brindisi e gli altri filosofi colloquiavano e davano il loro contributo alla generale conversazione, [I,65,10] Zenone se ne stava quieto e zitto. “E da parte tua, o Zenone” chiesero gli ambasciatori “cos’è d’uopo che noi riferiamo al re?” “Null’altro” rispose Zenone “se non che ad Atene c’è un anziano signore che è capace, tra una bevuta e l’altra, di tacere”.

SVF I, 285

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ II, p. 55f. [I,65,15] Perciò Zenone di Cizio, pur essendo burbero e rancoroso con i conoscenti, soprattutto quando trincava del vino diventava piacevole e blando. A coloro che cercavano di sapere il perché della sua differenza di modi, Zenone diceva di sperimentare quello che sperimentano i lupini. Anch’essi, infatti, sono amarissimi prima di essere ammolliti in acqua e invece, dopo essere stati abbeverati, diventano dolci e gradevolissimi.

[2] Galeno ‘De mort. animi’ 3, IV, p. 777 K. [I,65,20] Zenone, come raccontano, soleva dire che come gli amari lupini diventano dolci se inumiditi in acqua, così anche lui era disposto dal vino.

[3] Eustazio ‘In Homeri Odyss.’ XXI, v. 293, p.1910, 42 segg. (II, p. 261 Bekker). Dicono dunque che Zenone, pur essendo altrimenti burbero con coloro coi quali aveva consuetudine, purtuttavia [I,65,25] se tracannasse un po’ più di vino diventava piacevole e blando, e asseriva di sperimentare la stessa cosa dei lupini, i quali sono più amari prima di essere ammolliti in acqua e invece, dopo essere stati abberevati diventano dolci e più gradevoli.

[4] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 26. Dicono poi che alla domanda sul perché, pur essendo austero, indulgesse nel bere, egli rispose: “Anche i lupini, pur essendo amari, s’addolciscono se bagnati”.

SVF I, 286

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 17. [I,65,30] Mentre si trovava in uno stato di eccitazione sessuale per Cremonide, accanto al quale si era seduto assieme a Cleante, Zenone s’alzò in piedi. Ed a Cleante che ne rimase stupito disse: “Ascolto i buoni medici: il rimedio più possente per i nostri organi turgidi è quietarsi”.

SVF I, 287

Musonio ‘De victu’ presso Stobeo ‘Eclogae’ III, 17, 42, p. 506 Hense. [I,65,35] Zenone di Cizio reputava di non doversi accostare ad un cibo raffinato neppure da malato, e poiché il medico che lo curava gli intimava di mangiare una colombella, se ne astenne e gli disse: “Curami come curi lo schiavo Manes”. Con ciò egli sollecitava, io credo, che nella sua cura non ci fosse alcun cibo più delicato di quello previsto per un qualunque schiavo ammalato.

SVF I, 288

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 28. [I,66,1] La sua morte avvenne così. Mentre andava via da scuola incespicò e si ruppe un dito. Batté allora la terra con la mano e pronunciò quel verso della ‘Niobe’:

‘Vengo, perché mi chiami gridando?’

e, [I,66,5] soffocato il grido, morì all’istante.

[2] Stobeo ‘Florilegium’ VII, 44 (Vol. I, p. 321 Hense). Zenone, quand’era già vecchio, incespicò, cadde a terra ed esclamò: “Vengo, perché mi chiami gridando?”. Ed entrato in casa, si trasse fuor di vita.

[3] Luciano ‘Macrobìoi’ 19. Zenone, […] si racconta che mentre entrava nell’assemblea incespicò ed esclamò: “Perché mi chiami con alte grida?” [I,66,10] Poi rincasò e pose fine alla sua vita astenendosi dal cibo.

SVF I, 289

Eliano ‘Varia Historia’ IX, 26. Il re Antigono soleva trattare Zenone di Cizio con grande rispetto e premura. Una volta, riempito oltre il limite di vino, sopraggiunse a far baldoria da Zenone, e mentre lo baciava e lo abbracciava lo sollecitò ad ingiungergli di fare qualcosa, giurando e spergiurando [I,66,15] con giovanile baldanza che avrebbe esaudito la sua richiesta. Allora Zenone gli disse: “Va fuori a vomitare”; contestando in questo modo insieme solenne e disinteressato la sua ubriachezza e risparmiandogli di crepare per l’eccesso di vino.

SVF I, 290

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VIII, p. 345c. Secondo quanto racconta Antigono di Caristo nella sua ‘Vita di Zenone’, questo fu il comportamento di Zenone di Cizio, il costruttore della scuola Stoica, nei confronti dell’ingordo mangione con il quale conviveva da parecchio tempo. [I,66,20] Accadde per caso che, senza che fosse preparato altro, fosse servito in tavola un grosso pesce e che Zenone, presolo tutto intero dal piatto di portata, si mettesse a divorarlo tal quale era. Al mangione che gli lanciava terribili sguardi, Zenone allora disse: “Cosa credi dunque che sperimentino i tuoi conviventi, se tu non sei capace di sopportare per un giorno solo [I,66,25] la mia ingordigia?”.

SVF I, 291

Ateneo ‘Deipnosophistai’ V, p. 186d. Non appena fu servito in tavola un pesce, immediatamente uno degli ingordi mangioni presenti ne rase via la parte superiore. Allora Zenone rigirò il pesce e fece anche lui la stessa cosa soggiungendo:

‘e Ino finì il lavoro dall’altra parte’.

[I,66,30]

SVF I, 292

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 17. Durante un simposio, due convitati giacevano uno un po’ più in alto dell’altro; e quello accanto a Zenone infastidiva quello più in basso a colpi di piede. Allora Zenone gli diede una ginocchiata. Costui si rivoltò <e Zenone gli disse>: “Cosa credi che stia sperimentando quello che giace sotto di te?”

SVF I, 293

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 16-17. [I,66,35] Per esempio, ciò che egli disse una volta a proposito di un tale tutto imbellettato. Giacché costui si peritava ad oltrepassare un canaletto, <Zenone> disse: “Giustamente costui guarda con sospetto il fango, poiché non vi è modo di rispecchiarsi in esso”.

SVF I, 294

Stobeo ‘Florilegium’ 15, 12 (Vol. I, p. 479 Hense). [I,67,1] A quanti si giustificano per la loro dissolutezza e affermano di spendere soltanto qualcosa’ del molto che rimane, <Zenone> soleva dire: “Allora forse voi perdonerete anche i cuochi, se diranno di avere fatto pietanze salatissime perché avevano [I,67,5] a disposizione quantità enormi di sale?”.

SVF I, 295

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 18. Di un tale che era amante di ragazzotti, <Zenone> diceva che né questi hanno buon senso né gli insegnanti che passano tutto il tempo in affari coi ragazzotti.

SVF I, 296

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 17. Quando un certo Cinico, dopo avere detto che non aveva più olio [I,67,10] nella sua fiaschetta, andò oltre e gliene chiese, <Zenone> gli rispose che non glielo avrebbe dato. Partendosene quello, Zenone gli intimò di analizzare chi dei due avesse minore rispetto di sé e degli altri.

SVF I, 297

Origene ‘Contra Celsum’ VIII, 35, p. 768. A chi affermava: “Possa io andare in malora se non mi vendicherò di te”; <Zenone> diceva: “Io invece, se non ti acquisirò come amico”.

SVF I, 298

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. [I,67,15] Si racconta che un servo veniva frustato per un furto. Il servo diceva: “Era mio destino rubare”. E Zenone a lui: “Anche essere scorticato”.

SVF I, 299

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 443a. Eppure raccontano che anche Zenone, mentre saliva al teatro dove Amebeo cantava suonando la cetra, dicesse ai suoi discepoli: “Andiamo a decifrare quale accordo armonioso di suono e di canto rilascino budella e nervi, [I,67,20] legno e osso, quando partecipano di ragione, di numero e di ordine”.

SVF I, 300

Stobeo ‘Florilegium’ 36, 26 (Vol. I, p. 696 Hense). Zenone era dell’avviso che dei discepoli alcuni amano il ragionamento filosofico, altri invece il chiacchiericcio filosofico.

SVF I, 301

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 37. Cleante di Asso, quello che era assimilato alle [I,67,25] tavolette per scrivere ricoperte di cera dura, sulle quali si scrive appena appena ma che serbano a dovere gli scritti.

SVF I, 302

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 18. Poiché il suo discepolo Aristone faceva molte volte discorsi sconci ed alcune volte pure in modo precipitoso e sfrontato, Zenone soleva dire: “È impossibile che tuo padre ti abbia generato se non quand’era ubriaco”. [I,67,30] Laonde, essendo lui di poche parole, soprannominò Aristone ‘il garrulo’.

SVF I, 303

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Quando Dionisio il Ritrattatore gli chiese perché correggesse tutti gli altri meno che lui soltanto, <Zenone> rispose: “Perché non ho fiducia in te”.

SVF I, 304

[1] Stobeo ‘Florilegium’ 36, 23 (Vol. I, p. 696 Hense). [I,67,35] Nell’Accademia, un certo giovanotto disquisiva da stolto sui mestieri. Al che Zenone gli disse: “Se tu disquisirai senza avere prima fatto macerare la lingua nella mente, ebbene stonerai ancora di più nei tuoi discorsi”.

[2] Plutarco ‘Vita Phoc.’ V. [I,68,1] Zenone soleva dire che il filosofo deve proferire la parola dopo averla immersa nella mente.

[3] ‘Suida’ s.v. ‘Aristoteles’ ….Intingendo la penna nella mente.

SVF I, 305

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 19. Un tale affermava di non gradire la maggior parte [I,68,5] delle opere di Antistene. Allora Zenone gli fece menzione del trattatelo di Antistene su Sofocle e gli chiese se a suo parere esso contenesse anche qualcosa di buono. Poiché quel tale rispose di non saperlo, Zenone gli replicò: “Dunque, se qualcosa è stato detto male da Antistene tu non ti vergogni di selezionarlo e di rammentarlo, mentre se invece Antistene dice qualcosa di buono non progetti di rattenerlo?”.

SVF I, 306

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 20. [I,68,10] Quando un tale gli disse, a proposito di Polemone, che questi aveva proposto un argomento e poi invece aveva parlato d’altro, Zenone s’accigliò e gli chiese: “Ma quanto ti hanno soddisfatto le cose che ti sono state date?”.

SVF I, 307

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 21. E faceva menzione di quelle parole di Cafisia il quale, quando uno dei suoi discepoli s’applicò a suonare forte, lo bacchettò dicendogli [I,68,15] che il bene non sta nel grande, ma che nel bene sta il grande.

[2] Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIV, 629a. Non parlò male il flautista Cafisia il quale, quando uno dei suoi discepoli s’applicò a suonare forte il flauto e studiava come riuscirci, lo bacchettò dicendogli che il bene non sta nel grande, ma che nel bene sta il grande..

SVF I, 308

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 20. [I,68,20] Come se fossero eccellenti opere artigianali, alle frasi ben tornite non bisogna lasciar spazio d’essere osservate con ammirazione. Al contrario, l’ascoltatore deve disporsi verso ciò che sente dire in modo da non avere neppure il tempo di prenderne nota.

[I,68,25]

SVF I, 309

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 22. Non bisogna far diventare memorabili le voci e le parole. Bisogna invece che la mente si impegni circa la nostra disposizione della loro utilità, non come se si trattasse di un cibo già cotto e imbandito.

SVF I, 310

[1] Stobeo ‘Florilegium’ 36, 19 (Vol. I, p. 694 Hense). Ad un tale che voleva [I,68,30] più cianciare che ascoltare, Zenone disse: “Giovanotto, la natura ci ha dotato di una sola lingua e di due orecchie affinché noi ascoltiamo il doppio di quanto parliamo”.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Ad un adolescente chiacchierone, disse: “Per questo abbiamo due orecchie e una sola bocca: per ascoltare di più e parlare di meno”.

[3] Plutarco ‘De garrulitate’ p. 502c. [I,68,35] L’impotenza a tacere è infatti una sordità per scelta propria degli uomini i quali, io credo, [I,69,1] biasimano <la natura> perché hanno una sola lingua e due orecchie.

[4] ‘De recta rat. aud.’ p. 39b. Per lodare Epaminonda, Spintaro diceva che non è facile incontrare un altro uomo che conoscesse di più e che pronunciasse meno parole. E si dice che la natura dia due orecchie [I,69,5] e una sola lingua come se a ciascuno di noi giovasse meno parlare che ascoltare.

SVF I, 311

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 21. Se un giovanotto cianciava molto, <Zenone> soleva dirgli: “Le tue orecchie ti sono confluite nella lingua”.

SVF I, 312

Stobeo ‘Florilegium’ 57, 12. Zenone, il filosofo Stoico, vedendo uno dei suoi conoscenti tratto fuor di sé dalla selvatichezza, gli disse: “Se tu non manderai lei in malora, [I,69,10] lei manderà in malora te”.

SVF I, 313

Plutarco ‘De vit. pud.’ p. 534a. Un fatto di Zenone. Zenone incontrò un certo giovanotto della sua cerchia consueta, il quale incedeva quieto quieto lungo le mura. Informato che egli stava fuggendo un amico che lo sollecitava a testimoniare il falso in suo favore, Zenone così lo apostrofò: “Scempio! Che vai dicendo? Quello non ha temuto e non si vergogna di operare da scriteriato e da ingiusto nei tuoi confronti, [I,69,15] e tu invece non hai il coraggio di metterlo sotto in difesa della giustizia?”

SVF I, 314

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 19. Quando un adolescente gli prospettò interrogativamente un quesito troppo indiscreto per la sua età, Zenone lo fece appressare ad uno specchio e gli ingiunse di guardarvi dentro. Dopodichè gli domandò se gli sembrava che [I,69,20] siffatti quesiti fossero acconci ad una vista siffatta.

SVF I, 315

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 21. Se un giovanotto disquisiva con troppa sfrontatezza, Zenone gli diceva: “Giovincello, non oserei dirti quello che mi sta saltando in testa”.

SVF I, 316

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 21. Al bel ragazzo il quale sosteneva che secondo lui il sapiente mai sarà un amante, Zenone diceva: “Infatti nulla mai sarà più meschino [I,69,25] di voi, bei ragazzi”.

SVF I, 317

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 22. Soleva asserire che la cosa di tutte meno confacente è la vanità, e soprattutto quella dei giovani.

SVF I, 318

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Ad un tale che si era frizionato con olio odoroso, Zenone chiese: “Chi è che puzza di donna?”.

SVF I, 319

Stobeo ‘Eclogae’ II, 31, 81, p. 215, 13 W. [I,69,30] Interrogato su come un giovane qualunque potesse aberrare il minimo possibile, Zenone rispose: “Tenendo davanti agli occhi coloro che più onora e di fronte ai quali più si vergogna”.

SVF I, 320

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Osservando che lo schiavetto di uno dei suoi conoscenti [I,69,35] era coperto di lividi, gli disse: “Vedo le tracce del tuo rancore”.

SVF I, 321

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. <Zenone> soleva dire che nulla è, più della presunzione, estraneo all’apprensione delle scienze.

SVF I, 322

Gnomologium Monacense 198. [I,70,1] Zenone soleva dire che la visione prende la luce dall’aria e l’animo, invece, prende la luce dalle nozioni certe.

SVF I, 323

[1] Stobeo ‘Florilegium’ 98, 68 Mein. Zenone diceva che di nulla noi [I,70,5] siamo così poveri come del tempo. Ed in effetti breve è la vita, l’arte invece lunga da apprendere, soprattutto l’arte capace di medicare le malattie dell’animo.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Di nulla noi siamo così carenti come del tempo.

SVF I, 324

[1] Gnomologium Monacense 197. Proprio Zenone, interrogato su cosa sia un amico, rispose: “Un altro tal quale io sono”.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Interrogato su [I,70,10] cosa sia un amico, Zenone rispose: “Un altro io”.

SVF I, 325

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 26. Lo stare bene è per poco, ma è invero non poca cosa.

SVF I, 326

Massimo Confessore ‘Semones’ XXIV, I, p. 450 Boissonnade. [I,70,15] Di Zenone. Vivi, o uomo, non soltanto per mangiare e per bere, ma per far uso della vita al fine di vivere bene.

SVF I, 327

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 20. Zenone diceva che chi dialoga a tono deve, come fanno gli attori, tenere piena la voce e la sua forza [I,70,20] senza però spalancare la bocca; il che invece fanno coloro che cianciano sostenendo molte cose che sono però impossibili.

SVF I, 328

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 20. Poiché un tale asseriva che le argomentazioni logiche dei filosofi gli parevano stringate, Zenone gli rispose: “Tu dici il vero. E devono essere brevi, se possibile, anche le loro sillabe”.

SVF I, 329

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 26. [I,70,25] Zenone affermava che è meglio andare sul lubrico con i piedi che con la lingua.

SVF I, 330

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Zenone chiamò ‘fiore’ l’avvenenza della voce; [I,70,30] ma secondo altri chiamò ‘la voce’ fiore dell’avvenenza.

SVF I, 331

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 21. [I,70,35] Zenone soleva ripetere che la maggior parte dei filosofi è, quanto a molte cose, gente stolida; e, quanto a cose piccole e fortuite, gente incolta.

SVF I, 332

Frammento spurio, erroneamente attribuito a Zenone, e del quale pertanto si omette la traduzione. [I,71,1]

APPENDICE

*Frammenti di Zenone riferiti ai singoli libri

Questa Appendice, contenuta nelle pagine 71 (parte) e 72 del Volume I, contiene la nuda lista dei titoli delle opere di Zenone già citate nei vari frammenti e dei riferimenti numerici ad esse dei frammenti appena presentati. Si tratta quindi della semplice ridisposizione di materiale già incontrato e tradotto. Giudicando che essa abbia un interesse esclusivamente filologico, non se ne duplica qui la traduzione.

I DISCEPOLI DI ZENONE

1. Aristone di Chio [I,75,1] (320-250 aC.)

§ 1.La vita

Frammenti n. 333-350

SVF I, 333

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 160-164. Aristone di Chio, il Calvo, soprannominato ‘Sirena’. Così filosofando e tenendo discorsi nel Cinosarge, fu in stato d’essere tenuto per un caposcuola. Milziade e [I,75,5] Difilo erano pertanto designati come ‘Aristonei’. Era una persona convincente e fatta per le folle. Laonde Timone dice di lui:

‘e un tale, che trae la sua discendenza dal seduttivo Aristone’.

Diocle di Magnesia afferma che quando Zenone incappò in una lunga infermità, Aristone si confrontò con Polemone e quindi ritrattò. Gli si attribuiscono questi [I,75,10] libri. ‘Protrettico’ (2 libri); ‘La dottrina di Zenone’; ‘Dialoghi’; [I,75,15] ‘Lezioni’ (6 libri); ‘Diatribe sulla sapienza’ (7 libri); ‘Diatribe erotiche’; ‘Memorie sulla vanagloria’; ‘Memorie’ (25 libri); [I,75,20] ‘Memorabili’ (3 libri); ‘Detti sentenziosi’ (11 libri); ‘Contro i retori’; ‘Contro le accuse di Alessino’; ‘Contro i dialettici’ (3 libri); [I,75,25] ‘Contro Cleante’; ‘Lettere’ (4 libri). Panezio e Sosicrate affermano sue soltanto le ‘Lettere’ ed attribuiscono tutti gli altri libri ad Aristone il Peripatetico. Si racconta che, essendo calvo, fu vittima di un’insolazione e che per questo morì.

[2] Cf. prooem. 16. [I,76,1] Certi filosofi hanno lasciato delle ‘Memorie’, ma certi altri non compilarono alcuno scritto; come fecero, secondo alcuni, Socrate, Stilpone, Filippo, Menedemo, Pirrone […] e, secondo altri, Pitagora e Aristone di Chio, salvo poche lettere.

SVF I, 334

Temistio ‘Orationes’ XXI, p. 255 Hard. [I,76,5] Poiché il vero luminoso riluce nella filosofia, tutti coloro che quest’opera imprendono ne ritraggono un vantaggio senza dover spargere del sangue. Per questo Aristone ossequiava Cleante ed aveva alunni in comune con lui.

SVF I, 335

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXIII. Riguardo ad Aristone [I,76,10] di Chio….

[2] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXIV. Della tragedia….una sola cosa può forse essere detta da noi….

[I,76,15]

SVF I, 336

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXV. [I,76,20] Spirava dai suoi discorsi una tale vitalità, un tale empito del cuore, come dice il poeta di Atena, che ciascuno….

SVF I, 337

Eliano ‘Varia Historia’ III, 33. Il flautista Satiro era spesso un uditore del filosofo Aristone, [I,76,25] e poiché ne era ammaliato, a ciò che sentiva dire soleva soggiungere:

‘se io non ponessi questi archi nel fuoco lucente’.

Egli alludeva ai flauti, ed in un certo modo svalutava così la sua arte a confronto con l’arte di vivere una vita filosofica.

SVF I, 338

Strabone ‘Geographia’ I, p. 15. [I,76,30] <Eratostene> afferma che in questo tempo, come non era mai avvenuto, entro una sola cinta di mura ed in una sola città, avvenne la fioritura dei filosofi seguaci di Aristone e di Arcesilao. […] Egli dunque pone Arcesilao ed Aristone quali corifei dei filosofi che fiorirono al suo tempo. […] Proprio con queste sue dichiarazioni <Eratostene> palesa a sufficienza [I,77,1] la debolezza del suo punto di vista; in quanto, pur essendo divenuto uno della cerchia di Zenone di Cizio ad Atene, non ricorda nessuno dei suoi successori, mentre quelli che si differenziarono da Zenone e dei quali nessuna linea di successione salva i nomi, ebbene proprio costoro egli afferma che fiorirono al suo tempo.

SVF I, 339

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 182. [I,77,5] Quando un tale gli rinfacciò di non frequentare, insieme a molti altri, la scuola di Aristone, <Crisippo> gli rispose:

“Se prestassi attenzione alla maggioranza non avrei fatto una vita filosofica”.

SVF I, 340

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 18. Poiché il suo discepolo Aristone faceva molte volte discorsi sconci ed alcune volte pure in modo precipitoso e sfrontato, Zenone soleva dire: “È impossibile [I,77,10] che tuo padre ti abbia generato se non quand’era ubriaco”. Laonde, essendo lui di poche parole, soprannominò Aristone ‘il garrulo’.

SVF I, 341

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VII, p. 281c. Pure alcuni degli Stoici s’appigliarono, insieme ad altri, a queste ebbrezze della carne. Infatti Eratostene il Cirenaico, il quale fu discepolo dello Stoico Aristone di Chio, [I,77,15] nell’opera intitolata ‘Aristone’ rappresenta palesemente il maestro che successivamente impelle all’effeminatezza, dicendo così: “Già alcune volte ho rintracciato anche costui mentre perforava il muro divisorio tra le ebbrezze della carne e la virtù, per poi comparire dalla parte delle ebbrezze della carne”.

SVF I, 342

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VI, p. 251b. Timone di Fliunte, nel terzo libro dei [I,77,20] ‘Silli’ afferma che Aristone di Chio, discepolo di Zenone di Cizio, divenne un adulatore di Persèo, e che questi era compagno del re Antigono.

SVF I, 343

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ IV, 33. <Arcesilao> s’atteneva al metodo dialettico e si rifaceva ai ragionamenti degli Eretriaci. Laonde Aristone [I,77,25] soleva dire di lui:

‘Davanti Platone, dietro Pirrone e in mezzo Diodoro’

SVF I, 344

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ I, 234. Perciò Aristone diceva di Arcesilao:

‘Davanti Platone, dietro Pirrone e in mezzo Diodoro’

giacché egli [I,77,30] sfruttava la dialettica di Diodoro, ma visto di faccia appariva un Platonico.

SVF I, 345

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ IV, 40. <Arcesilao> usava farsela con gli adolescenti ed era portato ai piaceri della carne. Perciò gli Stoici della cerchia di Aristone l’avevano soprannominato, facendogliene colpa, sciupagiovani e sfrontato cinedologo. [I,77,35] Si racconta che egli fosse per molto tempo l’amante di quel Demetrio che navigò fino a Cirene, e di Cleocare di Mirlea; essendo in compagnia del quale una volta disse ad una banda di gente in [I,78,1] baldoria che egli voleva loro aprire la porta, ma che Cleocare glielo impediva. Amanti di Cleocare erano anche Democare figlio di Lachete e Pitocle figlio di Bugelo, e quando egli li pigliava sul fatto usava dire che avessero la pazienza di fare spazio anche a lui. Per questo i predetti filosofi lo mordevano e lo schernivano [I,78,5] come ‘amante dell’affollamento’ e come vanitoso. Soprattutto gli davano addosso quando si ritrovavano presso Geronimo il Peripatetico, ogni volta che questi riunisse gli amici in occasione del compleanno di Alcioneo, figlio di Antigono; occasione nella quale Antigono inviava una quantità di denaro sufficiente a far festa. Qui Arcesilao schivava ogni volta di dare, tra una coppa e l’altra, spiegazioni filosofiche; e ad Aridelo che gli porgeva un certa questione teorica e lo [I,78,10] sollecitava a discuterne disse: “Ma proprio questo è peculiare della filosofia, ossia la conoscenza certa del momento opportuno d’ogni cosa”.

SVF I, 346

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 162. <Aristone> si stava dilungando a parlare contro Arcesilao quando, osservando un toro mostruoso per la presenza di un utero, disse: “Ohimé, è stato dato ad Arcesilao un epicherema contro l’evidenza”.

[I,78,15] All’Accademico il quale affermava di nulla afferrare con certezza, Aristone disse: “Dunque neppure vedi chi ti è dintorno e ti è seduto accanto?”. E poiché quello negava di vederlo, continuò: “Chi ti accecò, chi ti sottrasse i fulgidi raggi del sole?”.

SVF I, 347

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 162. <Aristone> s’attenne soprattutto al principio Stoico che il sapiente non ha opinioni. Ma Persèo, [I,78,20] per contrastare questo principio, fece sì che di due fratelli gemelli uno desse ad Aristone del denaro in deposito, e che in seguito fosse però l’altro gemello a ritirarlo. Egli oppugnò così quel principio e lasciò Aristone nell’incertezza <dell’opinione>.

SVF I, 348

Cicerone ‘De natura deorum’ III, 77. Se è vero quel che soleva dire Aristone di Chio, ossia che i filosofi nuocciono agli ascoltatori che interpretano male le loro giuste affermazioni, allora [I,78,25] dalla Scuola di Aristippo possono davvero uscire dei dissoluti e da quella di Zenone dei burberi immaturi.

SVF I, 349

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ II, 79-80. <Aristippo> usava dire che quanti sono a parte dell’educazione enciclopedica ma restano lontani dalla vita filosofica, sono simili <ai pretendenti di Penelope>. Una cosa simile affermava anche Aristone, giacché quando Odisseo è sceso [I,78,30] nell’Ade ha avuto modo di imbattersi e vedere quasi tutti i morti; ma la regina dell’Ade in persona, quella non ha potuto rimirarla.

SVF I, 350

[1] Stobeo ‘Florilegium’ 4, 109, Vol. I, p. 246 Hense. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Aristone di Chio diceva che quanti s’affaticano intorno alle nozioni enciclopediche ma trascurano la vita filosofica sono [I,78,35] simili ai pretendenti di Penelope, i quali falliscono la conquista di lei pur riuscendo in quella delle sue ancelle.

[2] 4, 110. [I,79,1] Lo stesso filosofo (Aristone) faceva rassomigliare la maggioranza degli esseri umani a Laerte il quale, mentre era sollecito di tutto ciò che riguardava il suo campo, ben poco si curava di se stesso. Infatti, queste moltitudini hanno la massima sollecitudine dei loro possessi materiali, mentre sono sbadate circa gli animi loro che invece sono ripieni di selvatiche passioni.

§ 2. Massime[I,79,5]

Frammenti n. 351-403

SVF I, 351

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 160-161. Aristone di Chio […] affermava che il sommo bene è vivere mantenendosi indifferenti verso le cose che stanno frammezzo alla virtù e al vizio, senza lasciarsi andare all’ammissione di un qualunque divario tra di esse e serbando identica la nostra disposizione verso ciascuna di esse. Il sapiente è infatti simile al provetto attore il quale, tanto se impersona [I,79,10] Tersite quanto se impersona Agamennone, recita la sua parte come si conviene. Aristone levava di mezzo tanto lo studio della Fisica che quello della Logica, dicendo che la Fisica è al di sopra delle nostre capacità di comprensione e che la Logica non ci riguarda, mentre è soltanto l’Etica che ha a che fare con noi. Diceva poi che i ragionamenti dialettici somigliano alle tele di ragno, le quali seppur sembrano palesare una certa capacità artistica, nulla hanno di proficuo. [I,79,15] Egli non introduceva molteplici virtù, come fece invece Zenone; né una sola virtù chiamata con molti nomi, come i Megarici; ma una virtù che è in relazione al modo in cui si sta avendo di mira qualcosa.

SVF I, 352

Stobeo ‘Eclogae’ II, 8, 13 W. Di Aristone. Aristone affermava che delle cose oggetto delle ricerche dei filosofi alcune hanno a che fare con noi, altre non ci riguardano e [I,79,20] altre ancora sono al di sopra delle nostre capacità di comprensione. Quelle che hanno a che fare con noi sono le ricerche Etiche; quelle che non ci riguardano sono le ricerche Dialettiche, poiché esse nulla ci conferiscono per la rettificazione della nostra vita; al di sopra delle nostre capacità di comprensione sono le ricerche fisiche, giacché riguardano cose impossibili da comprendere e non ci procurano utilità alcuna.

SVF I, 353

Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 62, 7. Questo pensava [I,79,25] Socrate. Dopo di lui, i seguaci di Aristippo il Cirenaico e, in seguito, quelli di Aristone di Chio impresero a dire come degni di riflessione filosofica siano soltanto i ragionamenti concernenti l’Etica, giacché questi trattano cose possibili e giovevoli. Invece i ragionamenti sulla natura sono, tutt’al contrario, né afferrabili né, seppur fossero colti dalla nostra mente, di alcun pro. Nulla di più [I,79,30] ci verrà da questi ragionamenti; neppure se, una volta sollevati più in alto di Persèo,

‘sopra i flutti d’aperto mare e sopra le Pleiadi’

potessimo con i nostri stessi occhi vedere sotto di noi tutto il cosmo e, finalmente, quale sia la natura delle cose che sono. Non per questo, infatti, noi saremo uomini più saggi, [I,79,35] o più giusti, o più virili o più temperanti; e neppure potenti, belli, ricchi di denaro, tutte cose senza le quali [I,80,1] è impossibile essere felici. Laonde rettamente parlava Socrate quando mostrava come, delle cose che sono, alcune siano al di sopra delle nostre capacità di comprensione e come altre non ci riguardino. Egli infatti affermava che i fenomeni naturali sono al di sopra delle nostre capacità di comprensione; che le cose susseguenti alla morte non ci riguardano, e che a riguardarci sono soltanto le vicende umane. Per questa via si racconta che egli dicesse addio alle ricerche sulla natura di Anassagora e [I,80,5] di Archelao, per darsi soltanto alla ricerca di “quel che di cattivo e di buono c’è nella magione”. D’altra parte i ragionamenti sulla natura non sono soltanto esasperanti ed impossibili, ma anche empi e profondamente contrari alle tradizioni. Alcuni filosofi, infatti, sostengono che gli dei non esistono affatto; altri filosofi sostengono che essi siano l’infinito, [I,80,10] o l’ente, o l’uno, o qualunque altra cosa piuttosto che gli dei tradizionali. A sua volta, inoltre, enorme è la disarmonia tra costoro, giacché alcuni dichiarano che il tutto è infinito, altri invece che è finito; alcuni sostengono che il tutto è in movimento, altri che non è assolutamente così.

SVF I, 354

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VI, 103. Ha il beneplacito [I,80,15] <dei Cinici> e similmente quello di Aristone di Chio, la rimozione dall’ambito filosofico della Logica e della Fisica, e l’attenzione alla sola Etica.

SVF I, 355

Cicerone ‘Academica’ II, 123. Esenti da tale irrisione sono Socrate e Aristone di Chio, i quali ritengono che nulla si possa sapere di questi corpi celesti.

SVF I, 356

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 12. [I,80,20] Aristone di Chio non soltanto, come si dice, deplorava lo studio teorico della Fisica e della Logica in quanto futile e nocivo per coloro che fanno vita filosofica; ma anche nell’ambito dell’Etica circoscriveva insieme alcuni campi, come il parenetico e l’ammonitorio. Egli diceva che questi due campi potrebbero ricadere nell’interesse di balie e di [I,80,25] pedagoghi, mentre per vivere beatamente basta il ragionamento che ci fa imparentare con la virtù, che ci fa estraniare dal vizio e che ci fa inveire contro le cose che stanno frammezzo a queste due, e per le quali i più vanno in palpitazione e si rendono infelici.

SVF I, 357

Seneca ‘Epistulae morales’ LXXXIX, 13. Aristone di Chio disse che la logica e la fisica sono parti della filosofia non soltanto superflue ma contrarie a quella etica. [I,80,30] Anche l’etica, che è la sola parte della filosofia che lasciò salva, egli la circoscrisse; giacché eliminò la sezione riguardante le ammonizioni, sostenendo che si tratta di materia da pedagoghi e non da filosofi: come se il saggio fosse qualcos’altro che il pedagogo del genere umano.

SVF I, 357a

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ VII, 7. Aristone espose la dottrina secondo cui gli uomini nascono per impadronirsi [I,80,35] della virtù.

SVF I, 358

Seneca ‘Epistulae morales’ XCIV, 1. Della filosofia, alcuni accettano solo quella parte che fornisce precetti specifici per i casi singoli, ma non stabilisce quale sia la natura delle cose ed il posto che spetta all’uomo nell’universo: e quindi consiglia al marito come trattare la moglie, al padre come allevare i figli, al padrone come governare i servi […] Lo stoico Aristone considera [I,81,1] invece questa parte poco rilevante e incapace di scendere al cuore dei problemi. Piuttosto che a una tale precettistica da vecchiette, egli dice che a procurare grandissimo profitto sono di per sé stessi i principi cardine della filosofia e la definizione del sommo bene, perché chi l’ha bene intesa e ben imparata, sa poi da sé quello che si deve fare [I,81,5] in ogni circostanza.

SVF I, 359

Seneca ‘Epistulae morales’ XCIV, 5. Quelli che vogliono fornire la prova dell’assoluta inutilità di questa parte, ossia della precettistica, così argomentano. Se c’è qualcosa davanti agli occhi che impedisce la vista, va tolto. Finché è lì davanti, è tempo perso ordinare: ‘cammina così, stendi la mano a quell’oggetto là’. Allo stesso modo, [I,81,10] quando qualcosa acceca l’animo e gli impedisce la percezione della gerarchia dei doveri, non conclude nulla chi prescrive: ‘Così si vive col padre, così con la moglie’. Queste indicazioni non serviranno a nulla, finché l’errore fa velo alla mente, ma, se questo velo sarà squarciato, allora a ciascuno apparirà chiaro qual è il suo dovere. Altrimenti insegnerai, sì, come deve agire un uomo sano, ma non renderai sano nessuno. [I,81,15] Tu mostri ad un povero come ci si comporta da ricchi: ma come potrà egli comportarsi in tal modo, finché resta in povertà? Tu esponi ad un affamato quello che dovrebbe fare da sazio? Pensa piuttosto a togliergli la fame che gli sta piantata nelle budella. Lo stesso dico a te in relazione ad ogni vizio: bisogna rimuovere i vizi, non ordinare ciò che non può realizzarsi finché quei vizi permangono. Se non espellerai le false opinioni che ci fanno soffrire, l’avaro non comprenderà come si deve usare il denaro, [I,81,20] e neppure il pavido come sprezzare il pericolo. È necessario far sì che egli capisca che il denaro è né un bene né un male, e che tu gli esponga quanto siano miseri i ricchi. È necessario far sì che egli capisca quanto poco sia da temere -certo meno di quel che ne dica la fama- ciò che in generale temiamo: il dolore e la morte. Circa la morte, che ognuno deve inesorabilmente subire, è spesso una grande sollievo sapere che essa non torna mai due volte; [I,81,25] e circa il dolore sarà un rimedio la saldezza dell’animo, il quale ha il potere di alleggerire qualsiasi avversità sia sopportata con forza. Inoltre, la natura del dolore è particolarmente benevola, perché non può esserci un dolore duraturo che sia acuto, né un dolore acuto che sia duraturo. E quindi tutti gli eventi che la necessità che governa il mondo ci impone, sono da sopportarsi con forza d’animo. Quando, per via di questi principi, avrai condotto uno alla consapevolezza della sua condizione [I,81,30] e alla coscienza che non la vita di piacere è beata, ma la vita secondo natura; e poi quando uno si sarà innamorato dell’unico bene dell’uomo, cioè della virtù, e sarà rifuggito dall’unico male, cioè dal vizio; e, da ultimo, quando avrà riconosciuto che tutto il resto, ricchezze, onori, buona salute, vigore, potere, sono realtà intermedie da computarsi né fra i beni né fra i mali, allora finalmente non sentirà la necessità di chi lo ammonisca caso per caso dicendogli: “Va’ avanti così, pranza così; [I,81,35] questo tocca all’uomo, questo alla donna, questo al maritato e quest’altro al celibe”. Del resto, quelli che con tanta diligenza distribuiscono ammonimenti, poi loro stessi non li sanno attuare. Sono questi i consigli che il maestro dà al bambino e la nonna al nipote; eppure mentre discetta sul fatto che non ci si deve adirare il maestro è furibondo. Se entrerai in una scuola elementare, ti renderai conto che i principi che i filosofi con tanta supponenza vanno esibendo, già si trovano nei dettati dei bambini. [I,82,1] E poi insegnerai principi dubbi o chiari? Perché le cose che si impongono per l’evidenza non hanno bisogno di ammonitori; e d’altra parte a chi insegna cose dubbie non si presta orecchio, e dunque è inutile insegnarle. Impara dunque questo. Se fai ammonimenti ambigui e poco chiari, ci sarà bisogno di prove; ma se devi ricorrere a prove, queste hanno [I,82,5] di per sé più valore e questo basta.“Tratta così l’amico, il cittadino, il compagno”. Perché? Perché è giusto. Ma questo me lo dice la sezione della filosofia che si occupa della giustizia: è qui che scopro che l’equità va ricercata per se stessa, e che ad essa non può costringerci la paura e neppure condurci una ricompensa; e che non è giusto chi è attratto da qualcosa in questa virtù che non sia la virtù stessa. E una volta che mi sono convinto di queste verità e le ho assimilate, [I,82,10] a che giovano questi precetti che insegnano a chi sa già? Fornire insegnamenti a chi sa già è inutile, e a chi non sa è insufficiente. Uno deve sentirsi dire non solo quel che gli viene prescritto, ma anche il perché. Mi chiedo: opinioni vere sui beni e sui mali sono necessarie a chi le ha o a chi non le ha? Chi non le ha certo non sarà aiutato da te, perché nelle sue orecchie risuonano voci opposte alle tue esortazioni; e d’altra parte chi possiede un giudizio preciso [I,82,15] su quanto va fuggito e su quanto va ricercato, sa come comportarsi anche se tu stai zitto. Pertanto, tutta questa parte della filosofia può essere abolita.

Due sono le cause dei nostri errori: o nell’animo alberga una malvagità contratta da opinioni perverse, oppure, anche se l’animo non è occupato da opinioni false, è però ad esse propenso, e in breve può essere corrotto da quelle apparenze che lo portano fuori strada. [I,82,20] Non ci resta quindi che curare la mente malata e liberarla dai vizi, oppure, ammesso che ne sia ancora sgombra ma sia prona al peggio, prenderne possesso prima che il peggio arrivi. Ebbene, i principi della filosofia fanno una cosa e l’altra. Ne segue che un tal genere di esortazioni non serve a niente. Se poi pretendiamo di dare consigli caso per caso, allora la nostra impresa è sconfinata: altri infatti sono i consigli da dare [I,82,25] all’usuraio, altri al coltivatore, altri ancora al negoziante, a chi persegue l’amicizia dei re, a chi si affeziona ai suoi pari, o a quelli che gli sono sottomessi. In caso di matrimonio darai suggerimenti sul come convivere con la moglie quand’essa sia giunta vergine al matrimonio, o quando sia già stata con un altro uomo prima delle nozze, o quand’essa sia provvista di dote o priva di dote. Inoltre, non pensi che si debba distinguere [I,82,30] fra una donna sterile e una feconda, fra una avanti con gli anni ed una ancora adolescente, fra una madre e una matrigna? Non possiamo comprendere tutti i casi, eppure ognuno di essi esigerebbe una trattazione specifica; mentre invece le leggi della filosofia sono concise e contemplano ogni caso. Aggiungi ancora che i principi della saggezza devono essere in numero finito e certi: se questi non possono essere definiti nel numero, si pongono al di fuori dell’ambito della sapienza, la quale conosce bene i limiti delle cose. [I,82,35] Pertanto bisogna eliminare dalla filosofia la parte precettistica, perché quel che promette a pochi essa non può garantirlo a tutti, mentre la saggezza si offre a tutti. Fra la follia diffusa tra la gente e quella che si affida alle cure mediche, non c’è altra differenza se non che in un caso la follia viene dalla malattia, nell’altro da false opinioni; in un caso causa della pazzia è lo stato di salute; nell’altro caso la causa è il cattivo stato di salute dell’animo. [I,83,1] Se ad un tale che ha un attacco di follia uno desse consigli sulla buona creanza nel parlare, o nel camminare o nel comportamento in pubblico e in privato, sarebbe più pazzo lui di quello che vuole ammonire. Piuttosto è la bile nera che va curata, e quella da rimuovere è la causa stessa della pazzia. Lo stesso bisogna fare con l’altro genere di follia, quella dell’animo: essa va proprio distrutta, altrimenti finiranno nel nulla le parole di chi ammonisce. Ecco dunque qual è il punto di vista di Aristone. [I,83,5]

SVF I, 360

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ Vol. I, p. 497 Pott. Quanto ad Aristone, cosa potrei dirti in dettaglio? Costui affermava che il sommo bene è l’indifferenza: insomma l’indifferente lo lascia assolutamente indifferente.

SVF I, 361

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 63. Aristone di Chio affermava che la [I,83,10] salute, e tutto ciò che le è similare, non è un indifferente promosso. Infatti, dire che essa è un indifferente promosso equivale ad essere del parere che essa è un bene, e quindi in pratica a ridurre la differenza ad una questione di nomi. Tra le cose indifferenti che stanno frammezzo alla virtù e al vizio non vi è, in generale, divario alcuno; né alcune sono per natura promosse ed altre invece ricusate, ma [I,83,15] a seconda delle differenti circostanze del momento, né quelle che si dice siano state promosse diventano in ogni caso promosse, né quelle che si dice siano state ricusate continuano ad essere necessariamente ricusate. Infatti, se fosse imposto che tutti gli individui in salute si mettessero al servizio di un tiranno e, a causa di ciò, fossero poi levati di mezzo; e invece i malati, essendo per questo esentati dal servizio al tiranno, scampassero contemporaneamente all’eliminazione fisica; [I,83,20] ebbene il sapiente, in questo momento preciso, sceglierebbe piuttosto di ammalarsi che di restare in salute. In questo modo è chiaro che né la salute è in ogni caso un indifferente promosso, né la malattia è in ogni caso un indifferente ricusato. Pertanto, come nel caso della scrittura dei nomi noi preordiniamo una volta in un modo e un’altra in un altro i caratteri dell’alfabeto e li giustapponiamo a seconda delle differenti circostanze, usando così quale capolettera la ‘Delta’ quando scriviamo il nome ‘Dione’, [I,83,25] la ‘Iota’ quando scriviamo il nome ‘Ione’ e la ‘Omega’ quando scriviamo il nome ‘Orione’, senza che sia per natura predeterminato che alcune lettere vadano scritte prima delle altre, ed è invece il momento preciso della scrittura a costringerci a fare ciò; così nelle faccende che stanno frammezzo alla virtù e al vizio non vi è una predeterminazione naturale di indifferenti promossi o ricusati invece di altri, ma ciò avviene piuttosto a seconda delle circostanze.

SVF I, 362

[1] Cicerone ‘Academica’ II, 130. Aristone, che era stato discepolo di Zenone, [I,83,30] diede la prova pratica di ciò che Zenone diceva a parole, ossia che non esiste altro bene se non la virtù, né altro male se non ciò che è contrario alla virtù. Egli ritenne infatti che non ci siano verso le cose intermedie quelle spinte ad agire che invece Zenone ammetteva. Per Aristone il sommo bene consiste nel non lasciarsi trascinare da queste cose né da una parte né dall’altra, atteggiamento che lui stesso definiva ἀδιαφορία.

[2] ‘Tusculanae disputationes’ V, 27. Aristone di Chio [I,83,35] […] riteneva che nulla è male se non ciò ch’è vizioso.

SVF I, 363

[1] Cicerone ‘De finibus’ II, 35. Infatti, Pirrone, Aristone ed Erillo [I,84,1] li abbiamo abbiamo già da un po’ messi da parte.

[2] V, 23. Le screditate ed ormai abbandonate dottrine di Pirrone, di Aristone e di Erillo, che non possono rientrare nell’ambito che abbiamo circoscritto, non furono neppure da prendersi in considerazione.

[3] ‘Tusculanae disputationes’ V, 85. Queste sono dottrine dotate di una certa consistenza, visto che quelle di Aristone, di Pirrone, di Erillo [I,84,5] e di non pochi altri svanirono nel nulla.

[4] ‘De officiis’ I, 6. […] le dottrine di Aristone, di Pirrone e di Erillo sono state rigettate già da tempo. Essi avrebbero avuto il diritto di trattare del dovere, se solo avessero lasciato all’uomo una possibilità qualsiasi di preferire delle cose ad altre, così da lasciare aperta una strada al rinvenimento degli atti doverosi.

SVF I, 364

[1] Cicerone ‘De finibus’ II, 43. Poiché ad Aristone [I,84,10] e Pirrone questi <beni esterni> parvero di nessun valore, sicché a loro avviso non ci sarebbe alcuna differenza tra l’essere in perfetta salute e l’essere gravemente malati, si è rettamente smesso già da tempo di discutere contro di essi. Col loro voler ridurre tutto alla sola virtù, così da spogliarla d’ogni possibilità di scelta e da impossibilitarla ad avere una base da cui sorgere e su cui poggiare, hanno tolto di mezzo proprio [I,84,15] quella virtù che si tenevano tanto stretta.

[2] IV, 47. Come è già stata rigettata la dottrina di Aristone, il quale dice non esserci differenza tra una cosa intermedia e un’altra, e non esserci alcuna cosa, [I,84,20] al di fuori delle virtù e dei vizi, tra le quali ci sarebbe qualche diversità; <così>…

[3] V, 23. Quei filosofi […] che nei casi non riconducibili all’integrità morale o al vizio, negano che esista un motivo per anteporre una cosa intermedia ad un’altra, e reputano che fra di esse non ci sia diversità alcuna.

SVF I, 365

Cicerone ‘De finibus’ III, 50. Nel seguito è spiegata la differenza [I,84,25] fra le cose, giacché se negassimo questa differenza, la vita sprofonderebbe tutta nella confusione, come nel caso di Aristone; e neppure si troverebbero un compito ed una funzione specifica per la saggezza, dato che fra le cose pertinenti alla condotta di vita non ci sarebbe diversità alcuna, e quindi non sarebbe necessario applicare alcuna scelta.

SVF I, 366

Cicerone ‘De finibus’ V, 73. Gli antichi ne dissero tante [I,84,30] su ciò che va disprezzato o trascurato nelle vicende umane; ed Aristone si attenne a quest’unico principio: al di fuori dei vizi e delle virtù egli negò che vi fosse alcunché da rifuggire o da perseguire.

SVF I, 367

[1] Cicerone ‘De legibus’ I, 38. […] o anche se essi hanno seguito la difficile e severa, put tuttavia già divisa e confutata, Scuola di Aristone, collocando [I,84,35] ciò che è né virtù né vizio su un piano di assoluta parità.

[2] I, 55. <Se Zenone> avesse detto, come Aristone di Chio, che bene è soltanto ciò ch’è moralmente onesto e male soltanto ciò ch’è vizioso, allora tutte le altre cose starebbero chiaramente sullo stesso piano, né farebbe la minima differenza la loro presenza oppure assenza.

SVF I, 368

Cicerone ‘De finibus’ IV, 69. Interroga dunque Aristone [I,85,1] e chiedigli se gli paiano beni questi: assenza di dolore, ricchezza di denaro, salute. Lo negherà. E allora, forse che i contrari sono dei mali? Neanche per idea. […] Sorpresi, chiediamogli allora in che modo possiamo condurre la nostra vita, se reputiamo che per noi non fa differenza l’essere sani o malati, esenti o tormentati dal dolore, [I,85,5] il riuscire ad allontanare il freddo e la fame oppure no. E Aristone risponde: “Vivrai magnificamente e alla grande: farai quel che ti pare: mai un’angustia, mai un desiderio, mai un timore”.

SVF I, 369

Cicerone ‘De finibus’ IV, 43. A me sembra che quanti hanno sostenuto che il sommo bene consiste nel vivere in modo moralmente onesto abbiano errato, chi più chi meno. [I,85,10] Pirrone certo più di tutti, […] ma poi Aristone, il quale non osò fare terra bruciata e introdusse pertanto quali motivi per il saggio in sommovimento di bramare qualcosa: ‘qualsiasi cosa gli venga in mente’ o ‘qualsiasi cosa gli capiti’. In ciò egli fu migliore a Pirrone, perché per lo meno concesse al saggio un qualche genere di brama, [I,85,15] ma fu inferiore al altri perché prese nettamente le distanze dalla natura.

SVF I, 370

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, 20, 108 p. 172 St. Laonde, come usava dire Aristone di Chio, contro l’intero tetracordo formato da ebbrezza, afflizione, paura e smania, c’è bisogno di molto esercizio pratico e di molta lotta.

SVF I, 371

Plutarco ‘De exilio’ p. 600e. [I,85,20] Tale è il tuo presente cambio di dimora da quella che tu ritieni essere la tua patria. Infatti, come usava dire Aristone, per natura non esiste patria; non esistono casa, fondo coltivato, fucina, studio medico. Ciascuna di queste cose tale diventa, e soprattutto tale è nominata e chiamata, sempre in relazione a chi l’abita o l’utilizza.

SVF I, 372

Seneca ‘Epistulae morales’ CXV, 8. Allora riusciremo a capire [I,85,25] quanto siano spregevoli le cose che ammiriamo: noi, del tutto simili a bambini che apprezzano ogni giocattolo e tengono di più a monili di poco prezzo che ai genitori e ai fratelli. Qual è la differenza tra noi e loro, dice Aristone, se non che noi facciamo follie per quadri e statue, mostrandoci così bambocci ma più a caro prezzo? Quelli almeno provano diletto in qualche ciottolo variopinto raccolto sulla spiaggia; [I,85,30] noi invece nelle venature dei marmi di grandiose colonne.

SVF I, 373

Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034d. Crisippo incolpa Aristone d’avere affermato che tutte le virtù sono forme di relazione di una sola virtù.

SVF I, 374

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ VII, 2, (208,591) M. Dunque Aristone, [I,85,35] poiché legittimava l’idea che la facoltà dell’animo sia una sola, quella con cui ragioniamo, pose anche l’esistenza di una sola virtù dell’animo: la scienza dei beni e dei mali. Qualora l’animo nostro debba scegliere i beni e fuggire i mali, Aristone chiama questa scienza temperanza. Qualora debba effettuare il bene [I,86,1] e non effettuare il male, saggezza. Qualora debba affrontare con coraggio alcune cose ed altre fuggire, la chiama virilità. Qualora distribuisca a ciascuno secondo il merito, giustizia. In una parola, l’animo è sapienza e scienza quando conosce, senza effettuarli, beni e mali. Quando invece perviene alle azioni della vita, [I,86,5] l’animo prende i plurimi nomi sopraddetti e si chiama saggezza, temperanza, giustizia e virilità. Siffatta è l’opinione di Aristone circa le virtù dell’animo.

SVF I, 375

Plutarco ‘De virtute morali’ p. 440f. Anche Aristone di Chio faceva delle virtù, in sostanza, una sola virtù cui dava il nome di ‘salute’. Le virtù sono differenti e plurime [I,86,10] soltanto per il modo della loro relazione con qualcosa, come se si volesse chiamare la nostra visione, quando coglie oggetti bianchi ‘biancovisione’ e quando coglie oggetti neri ‘nerovisione’, o qualcos’altro del genere. Giacché la virtù, quando sopravveda quanto va fatto e quanto non va fatto, è stata chiamata saggezza; quando dà compostezza alla smania e definisce quanto è equilibrato ed opportuno nei piaceri fisici è stata chiamata temperanza; quando concerne relazioni d’affari [I,86,15] e contratti tra persone è stata chiamata giustizia. Così come il coltello, che è uno ma spartisce di volta in volta cose differenti; e il fuoco, che ha una sola natura pur essendo attivo su materiali differenti.

SVF I, 376

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 376 Pott. Se dunque ben considerassimo la cosa, la virtù è potenzialmente una sola. Quando però essa si ingenera in queste faccende, [I,86,20] le è avvenuto d’essere chiamata saggezza; in queste altre faccende, temperanza; in queste altre ancora, virilità o giustizia. […] Allo stesso modo noi diciamo che una sola e medesima dracma, quando sia data all’armatore di una nave, si chiama nolo; quando sia data ad un esattore, si chiama tassa; ad un proprietario di casa, affitto; ad un maestro di scuola, onorario; ad un venditore, caparra. Ciascuna di esse, pur chiamata con il sinonimo [I,86,25] ‘virtù’, è però cagione soltanto del risultato che le è proprio, e il vivere felicemente nasce dall’uso congiunto di tutte queste virtù. E quando noi chiamiamo felicità la vita retta e chiamiamo uomo felice colui che ha adornato virtuosamente l’animo suo, non facciamo certo della felicità una questione di nomi.

SVF I, 377

Porfirio ‘De anim. facult.’ presso Stobeo ‘Eclogae’ I, 347, 21 W. [I,86,30] L’obiettivo è ora quello di delineare le facoltà dell’animo. Una volta ripercorsi, in primo luogo, i riferimenti storici a quanto decretato dagli antichi filosofi e dai successivi maestri, e dopo avere posto l’esistenza di una facoltà percettiva dell’animo, Aristone la suddivide in due parti. Egli è dell’avviso [I,86,35] che una parte sia messa in moto quasi sempre da uno degli organi di senso ed egli la chiama parte ‘sensibile’, poiché è principio e sorgente delle particolari sensazioni. La parte invece che è sempre presente a se stessa ed è sprovvista di organi, parte che nel caso delle creature prive di ragione non ha nome -o perché in loro essa manca del tutto, oppure perché in loro essa è debolissima [I,87,1] e oltremodo ottusa- ebbene questa parte, presente nelle creature dotate di ragione ed in esse soprattutto o esclusivamente apparente, è designata ‘mente’.

SVF I, 378

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 37. Fra i discepoli di Zenone, la dottrina di Aristone non è meno errata. Egli infatti pensa che non si possa conoscere la forma divina, [I,87,5] afferma che gli dei non hanno sensazioni e lascia completamente nel dubbio la questione se dio sia un essere animato oppure no.

SVF I, 379

Giamblico ‘De anima’ presso Stobeo ‘Eclogae’ II, 382, 18 W. Circa la comunanza degli animi umani con gli dei sorse una controversia, giacché secondo alcuni è impossibile che gli dei si mischino [I,87,10] agli animi che sono ancora rattenuti nei corpi; mentre altri sostengono energicamente che una sola è la comune cittadinanza degli animi puri con gli dei, pur se gli animi vivono ancora nei corpi. Alcuni, poi, ipotizzano tale comunanza in vista di una comune convivenza soltanto tra démoni ed eroi. Secondo Platone alcune vite sono migliori e possono essere giudicate tali dalla purezza, [I,87,15] elevatezza e perfezione dell’animo, mentre altre sono peggiori poiché sono definite da caratteri opposti a questi. Secondo gli Stoici, le migliori e le peggiori vite si giudicano dalla comunanza degli animi umani con gli dei e da quella bellezza che è sempre intimamente connessa alla natura. Secondo i Peripatetici da quel proporzionato equilibrio che è secondo natura e dal fatto che esse si distinguono per una vita cognitiva che va oltre la semplice natura umana. Secondo Erillo, dalla scienza. Secondo Aristone, [I,87,20] dall’indifferenza. Secondo Democrito, dal decoro. Secondo altri filosofi, da qualche aspetto del bello morale: o dall’indisturbata tranquillità dell’animo, secondo Ieronimo; oppure da qualcuno di quegli altri modi di trascorrerla i quali esprimono la scelta che si è fatta, e dai quali si generano un infinito numero di vite particolari, suddivise riguardo alla loro genesi….

SVF I, 380

Plutarco ‘Vita Demosth.’ XXX. Aristone [I,87,25] afferma che <Demostene> prese il farmaco da una cannuccia, come si racconta.

SVF I, 381

Plutarco ‘Vita Demosth.’ X. Aristone di Chio ha riferito una certa opinione di Teofrasto sugli oratori. Infatti quando gli fu domandato che tipo di oratore gli pareva fosse Demostene, Teofrasto rispose: “Uno degno della città”; e Demade: “Uno al di sopra della città”. [I,87,30] Lo stesso filosofo riferisce che Polieucto di Sfetto, uno dei politici di allora ad Atene, dichiarava che Demostene era l’oratore più grande; ma che Focione era il più potente, giacché riusciva ad enunciare moltissimo contenuto intelligente in elocuzioni estremamente concise.

SVF I, 382

Plutarco ‘Maxime cum princ. philos. esse disser.’ p. 776c. [I,87,35] Quando Aristone di Chio sentiva parlar male di sé da parte [I,88,1] dei sofisti perché dialogava con tutti coloro che lo volevano, ribatteva: “Volesse il cielo che anche le belve riuscissero a comprendere i ragionamenti capaci di smuovere alla virtù!”.

SVF I, 383

Stobeo ‘Florilegium’ 13, 40 (Vol. I, p. 462 Hense). Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Eliminare la piena libertà di parola nei discorsi è [I,88,5] come eliminare il sapore penetrante e pungente nell’assenzio.

SVF I, 384

Stobeo ‘Florilegium’ 13, 57 (Vol. I, p. 465 Hense). Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Ad un tale gli diceva: “Tu mi schernisci troppo”, <Aristone> rispose: “E infatti ai malati di milza i cibi acidi e amari sono giovevoli, mentre quelli dolci sono dannosi”.

SVF I, 385

Plutarco ‘De recta rat. aud.’ p. 42b. [I,88,10] Aristone afferma che “né un bagno né un discorso sono di alcun pro se non ci ripuliscono”.

SVF I, 386

Stobeo ‘Florilegium’ 79, 44 Mein. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Quanti sono testé giunti alla filosofia e contestano tutti [I,88,15] a partire dai loro genitori, sperimentano ciò che sperimentano anche i cuccioli di cane, i quali non abbaiano soltanto agli estranei ma anche a quei di casa.

SVF I, 387

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 215, 20 W. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. <Aristone> afferma che il cumino deve essere seminato lanciando imprecazioni blasfeme, giacché in questo modo germoglia ottimamente. Ed è d’uopo educare i giovani schernendoli, giacché in questo modo [I,88,20] essi saranno domani uomini proficui.

SVF I, 388

Seneca ‘Epistulae morales’ XXXVI, 3. Aristone diceva di preferire un giovane triste ad uno allegro e di compagnia. Infatti, diventa buono il vino che sembrava da novello duro e asprigno, mentre non sopporta l’invecchiamento quello di buon sapore già nella botte.

SVF I, 389

Plutarco ‘De tuenda sanit. praec.’ p. 133c. [I,88,25] <Queste sono> parole da massaggiatori e ragionamenti da istruttori di ginnastica, i quali ogni volta ripetono che fare discorsi eruditi a pranzo rovina il cibo ed appesantisce la testa, e che allora bisogna avere paura quando a pranzo ci salta in mente di risolvere ‘l’Indo’ oppure di disquisire sul ‘Dominatore’.[…] Ma se essi non ci permetteranno di ricercare [I,88,30] o discutere filosoficamente o leggere qualcuna di quelle cose che, nell’ambito di ciò ch’è bello e giovevole, hanno in sé una parte seducente e dolce per il piacere che procurano, allora intimeremo loro di non importunarci e di andare nel ginnasio coperto e nelle palestre a fare questi discorsi agli atleti giacché, per avere escluso costoro dai libri e per l’abituarli a passare sempre il giorno tra scherni e volgari buffonate, li hanno fatti assomigliare, come [I,88,35] usava dire il raffinato Aristone, alle colonne del ginnasio: sontuose e di pietra.

SVF I, 390

Plutarco ‘Amatorius’ p. 766f. Un costume morale innocente e [I,89,1] composto diventa trasparente nella grazia fiorente dell’aspetto esteriore, proprio come un calzare ben fatto mostra la buona conformazione naturale di un piede.

SVF I, 391

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 24, 8 W. Di Aristone. Aristone faceva rassomigliare i ragionamenti dei dialettici alle ragnatele, che sono per noi di nessuna proficuità [I,89,5] pur essendo mirabili opere d’arte.

SVF I, 392

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 22, 22 W. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Quanti s’approfondiscono nella dialettica somigliano a coloro che masticano granchi, gente che per quel po’ che è cibo si impegna attorno al molto che è ossame.

SVF I, 393

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 23, 15 W. Di Aristone. Aristone usava dire [I,89,10] che la dialettica somiglia al fango delle strade, poiché anch’esso è per nulla proficuo e riduce in cattivo stato chi vi incede.

SVF I, 394

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 24, 12 W. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. L’elleboro, se preso tutto intero, ripulisce; se invece è preso finemente tritato, soffoca. Così è pure per l’eccessiva cavillosità in filosofia.

SVF I, 395                                                                                                                                 

Stobeo ‘Florilegium’ 20, 69 Mein. Di Aristone. [I,89,15] L’ira appare generatrice di turpiloquio, e pertanto è una madre incivile.

SVF I, 396

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 218, 7 W. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Un pilota non soffre il mal di mare né su una nave grande né su una piccola; [I,89,20] mentre gli inesperti di mare lo soffrono in entrambi i casi. Allo stesso modo, chi è stato educato non soffre sconcerti né in ricchezza né in povertà; mentre chi è rimasto ineducato li soffre in entrambi i casi.

SVF I, 397

Stobeo ‘Florilegium’ 94, 15 Mein. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Pur bevendo la medesima quantità di vino, alcuni danno in escandescenze mentre altri, invece, diventano miti. Allo stesso modo anche la ricchezza….

SVF I, 398

Plutarco ‘Vita Catonis’ XVIII. [I,89,25] Infatti i più considerano una sottrazione della ricchezza l’impedimento del suo sfoggio; e di di sfoggiare il superfluo, beninteso, non il necessario. Fatto del quale si dice che massimamente si stupiva il filosofo Aristone, ossia che siano ritenuti beati quanti posseggono il superfluo invece che quanti [I,89,30] sono ben forniti di ciò ch’è necessario e proficuo.

SVF I, 399

Stobeo ‘Florilegium’ 119, 18 Mein. Dalle ‘Similitudini’ di Aristone. Molti sapienti, quando sono ormai vecchi amano la vita. Infatti, come coloro che si sposano tardi amano la vita per poter tirare su i figli, così questi sapienti venuti tardi in possesso della virtù, mirano anch’essi a tirarla su.

SVF I, 400

Stobeo ‘Florilegium’ 67, 16 Mein. Dalle opere di Aristone. [I,89,35] La legge degli Spartani fissa delle punizioni: la prima è per i celibi, la seconda per chi si sposa tardi, la terza e maggiore è per chi fa un cattivo matrimonio.

SVF I, 401

Plutarco ‘De curiositate’ p. 516f. Eppure, come afferma Aristone: [I,90,1] “Noi siamo malcontenti soprattutto delle ventate che ci sollevano gli indumenti. Ora, l’impiccione non spoglia il prossimo soltanto delle toghe e delle tuniche ma anche dei muri, dischiude le porte…. ”.

SVF I, 402

Plutarco ‘Praec. ger. rei publ.’ p. 804e. [I,90,5] Aristone afferma che il fuoco non fa fumo e la fama non fa invidia se subitanei velocemente rilucono, ma quando essi s’accrescono lenti a poco a poco, allora chi dall’uno e chi dall’altra sono abbrancati.

SVF I, 403

Plutarco ‘Aqua an ignis utilior’ p. 958d. Siccome [I,90,10] agli uomini è stato dato poco tempo di vita, Aristone afferma che il sonno, come un gabelliere, ce ne sottrae la metà. Io invece….

1a. Apollofane

Frammenti n. 404-408

SVF I, 404

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 140. Del vuoto parla Crisippo nella sua opera ‘Sul vuoto’ e nel primo libro di quella ‘Sulle Scienze fisiche’, [I,90,15] e anche Apollofane nella ‘Fisica’.

SVF I, 405

Tertulliano ‘De anima’ c. 14. <L’animo> è diviso in parti: ora in due, come da Platone, […] in otto da Crisippo, e in nove da Apollofane.

SVF I, 406

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 92. Apollofane sostiene [I,90,20] che <la virtù> è una sola: la saggezza.

SVF I, 407

‘Frag. Hercul.’ Pap. 19-698, p. 271 Scott. ….tempi, che la sensazione giudica le cose una per una e che essa partecipa del ricordo. Apollofane, ingannato dalla plausibilità dell’ipotesi, da una parte fu trattenuto dal ritegno ad [I,90,25] accostare il ricordo alle sensazioni, ma dall’altra accettò che il ricordo partecipi di un’analogia con esse, tanto da dare alle sensazioni la percezione anche di ciò ch’è inesistente; come se, per salvaguardare un’evidenza, ci fosse bisogno di aggiungere altre evidenze.

SVF I, 408

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VII, p. 281d. E Apollofane, che era anch’egli un conoscente di Aristone, nell’opera ‘Aristone’, giacché anche lui [I,90,30] intitolò così la sua compilazione, fa trasparire l’amore del maestro per le ebbrezze della carne.

2. Erillo di Calcedonia (floruit c. 260 a.C.) [I,91,1]

Frammenti n. 409-421

SVF I, 409

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 165-166. Erillo di Calcedonia. […] I suoi sono libri di poche righe, ma sono pieni di forza ed includono controversie con Zenone. [I,91,5] Si racconta che da ragazzo ebbe un buon numero di amanti, ma Zenone, deciso a tenerli lontano, costrinse Erillo a radersi il capo e così essi si tennero lontani da lui. Questi sono i suoi libri: ‘Sull’esercizio pratico’, [I,91,10] ‘Sulle passioni’, ‘Sulle concezioni’, ‘Il legislatore’, ‘L’ostetrico’, ‘L’oppositore’, [I,91,15] ‘L’insegnante’, ‘Il revisore’, ‘Il controllore’, ‘Ermes’, ‘Medea’, [I,91,20] ‘Tesi etiche’.

SVF I, 410

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXVI. Erillo, come afferma Apollonio, oltremodo insigne….

SVF I, 411

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 165. Erillo di Calcedonia sostenne che ‘sommo bene’ è [I,91,25] la scienza, il che significa vivere riferendo sempre ogni cosa al fine di vivere con scienza e non traviati dall’ignoranza. Affermava poi che la scienza è quella postura dell’animo che, nell’accettare le rappresentazioni, non è mutabile da un ragionamento. A volte usava dire che non vi è un fine, ma che esso cambia a seconda delle circostanze e dello svolgersi dei fatti, così come il medesimo bronzo diventa una statua di Alessandro [I,91,30] o di Socrate. Sosteneva anche che vi è differenza tra sommo bene e fini secondari. Anche i non sapienti hanno di mira questi ultimi, mentre soltanto il sapiente ha di mira il sommo bene. Inoltre, tutto ciò che sta frammezzo alla virtù e al vizio, è indifferente.

SVF I, 412

Cicerone ‘De finibus’ IV, 40. In nessun modo può la virtù aver luogo in noi, se tutte le entità intermedie che l’animo nostro sceglierà e rigetterà non daranno essa soltanto come somma totale. Infatti, se noi non terremo in alcun conto le entità intermedie, incapperemo nei difetti e negli errori di Aristone e ci dimenticheremo [I,91,35] dei principi che abbiamo posto a fondamento della virtù stessa. Se teniamo invece conto delle entità intermedie e però [I,92,1] non le riferiamo al fine del sommo bene, allora non ci allontaneremo molto dalla superficialità di Erillo, giacché ci toccherà in tal caso assumere due istituti di vita. Erillo infatti fissa due separati beni finali, che però per essere veri avrebbero dovuto essere congiunti. Invece stanno lì separati e disgiunti, [I,92,5] e nulla può essere più stravagante di ciò.

SVF I, 413

Cicerone ‘Academica’ II, 129. Tralascio quelle dottrine che appaiono ormai abbandonate, com’è il caso di Erillo, il quale pone il sommo bene nell’avere delle cognizioni e nella scienza. Erillo fu uditore di Zenone, ma vedi bene quanto abbia dissentito da lui e quanto poco da Platone.

SVF I, 414

[1] Cicerone ‘De finibus’ II, 43. Riducendo tutto alla scienza, [I,92,10] Erillo vide un certo bene, ma né ottimo né tale che una vita possa da esso essere governata. E così già da tempo egli stesso è stato messo da parte, e dopo Crisippo di lui non si parla proprio più.

[2] ‘De oratore’ III, 62. Ci furono anche altri generi di filosofi che tutti, chi più chi meno, si proclamavano Socratici: [I,92,15] gli Eretriaci, i seguaci di Erillo, i Megarici, i Pirroniani. Ma queste scuole sono state ormai da tempo fatte a pezzi e tolte di mezzo dalla forza delle confutazioni loro mosse dalle scuole citate in precedenza.

SVF I, 415

Cicerone ‘De finibus’ III, 31. Ma dicono delle pure assurdità sia i filosofi che identificano il bene ultimo nel vivere con scienza, sia quelli che negano qualsiasi differenza fra le cose, ed affermano che il saggio sarà beato se in nessun momento [I,92,20] anteporrà qualche cosa a qualche altra.

SVF I, 416

Cicerone ‘De finibus’ IV, 36. È come se, nell’ambito dell’animo stesso, come fece Erillo, costoro si tenessero ben stretti alla facoltà cognitiva e abbandonassero a se stessa quella di agire.

SVF I, 417

[1] Cicerone ‘De finibus’ V, 23. Ed Erillo, se davvero intese sostenere che non v’è altro bene che la scienza, [I,92,25] eliminò ogni motivo di chiedere un consiglio ed ogni possibilità di rinvenire quale sia l’atto doveroso.

[2] V, 73. Preso da questa idea fissa, Erillo difese la dottrina della scienza come sommo bene e sostenne che nessun’altra cosa è da ricercarsi di per sé.

SVF I, 418

Cicerone ‘De officiis’ I, 6. […] le dottrine di Aristone, di Pirrone e di Erillo sono state rigettate già da tempo. Essi avrebbero avuto il diritto di trattare del dovere, se solo avessero lasciato all’uomo una possibilità qualsiasi di preferire delle cose ad altre, così da lasciare aperta una strada al rinvenimento degli atti doverosi.

SVF I, 419

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, p. 179 Sylb., Vol. I, p. 497 Pott. Che metta di mezzo le dottrine di Erillo? Erillo pone il sommo bene [I,92,35] nel vivere secondo scienza.

SVF I, 420

Giamblico ‘De anima’ presso Stobeo ‘Eclogae’ II, 382, 18 W. Secondo Platone alcune vite sono migliori e possono essere giudicate tali dalla purezza,elevatezza e perfezione dell’animo, mentre altre sono peggiori poiché sono definite da caratteri opposti a questi. Secondo gli Stoici, le migliori e le peggiori vite si giudicano dalla comunanza [I,93,1] degli animi umani con gli dei e da quella bellezza che è sempre intimamente connessa alla natura. […] Secondo Erillo, dalla scienza.

SVF I, 421

Lattanzio ‘Divinae institutiones’ III, 7. Il sommo bene di Erillo è la scienza; quello di Zenone è vivere in modo congruente con la natura; per certi Stoici è [I,93,5] conseguire la virtù.

3. Dionisio di Eraclea, detto il Ritrattatore (c. 330-250 a.C.)

Frammenti n. 422-434

SVF I, 422

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 166-167. A causa dell’avversa circostanza di un’oftalmia, Dionisio il Ritrattatore sostenne che sommo bene è il piacere fisico. Infatti, poiché aveva un [I,93,10] terribile male agli occhi egli si peritò a chiamare ‘indifferente’ il dolore fisico. Era figlio di Teofanto e nativo della città di Eraclea. Secondo quanto afferma Diocle, egli fu discepolo dapprima del concittadino Eraclide, in seguito di Alessino e di Menedemo e poi, da ultimo, di Zenone. Essendo amante delle lettere, da principio mise mano ad ogni sorta di composizioni poetiche, ma poi accolse Arato come modello e cercò di emularlo. [I,93,15] Una volta prese le distanze da Zenone, fu attratto dai Cirenaici e quindi usava entrare nei lupanari e darsi alle altre forme di sensualità senza nascondersi. Dopo avere vissuto fino ad ottant’anni si lasciò morire d’inedia. I libri che di lui si ricordano sono i seguenti: ‘Sul dominio delle passioni (2 libri)’, [I,93,20] ‘Sull’esercizio pratico (2 libri)’, ‘Sul piacere fisico (4 libri)’, ‘Sulla ricchezza di denaro, la grazia e la punizione’, ‘Sull’uso degli uomini’, ‘Sulla buona fortuna’, [I,93,25] ‘Sugli antichi re’, ‘Sulle cose lodate’, ‘Sulle abitudini dei barbari’.

SVF I, 423

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 23. Quando Dionisio il Ritrattatore gli chiese perché correggesse tutti gli altri meno che lui soltanto, <Zenone> rispose: “Perché [I,93,30] non ho fiducia in te”.

SVF I, 424

‘Vita Arati’. Viveva al tempo di Tolomeo Filadelfo e fu scolaro di Dionisio di Eraclea….

SVF I, 425

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ V, 92. Inoltre Dionisio il Ritrattatore (oppure Spintaro, secondo alcuni), dopo avere scritto il ‘Partenopeo’, lo intitolò come opera di Sofocle. Eraclide Pontico, [I,93,35] fidandosi dell’attribuzione, in una delle proprie [I,94,1] compilazioni usò l’opera tra le testimonianze di Sofocle. Quando Dionisio se ne accorse, gli rivelò l’accaduto. Poiché quello negava e diffidava, gli mandò a dire di osservare l’acrostico dei primi versi. Esso formava il nome ‘Pancalo’, e Pancalo era appunto il nome del ragazzo amato da Dionisio. Siccome Eraclide diffidava ancora ed affermava fattibile che le cose stessero così [I,94,5] per puro caso, Dionisio gli mandò di nuovo a dire: “E troverai anche questi versi acrostici. A) Una vecchia scimmia non si lascia mettere in trappola. B) Si lascia mettere in trappola; col tempo si lascia mettere in trappola. E oltre a questi, C) Eraclide non conosce le lettere e non se ne vergogna”.

SVF I, 426

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXIX. [I,94,10] Dionisio il Ritrattatore….

[2] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXX. ….nel mezzo a gran voce, e soprattutto quando vedeva che gli altri tacevano ed erano assai timorosi. Allo stesso modo senza cessare e agitandosi….

[I,94,15]

SVF I, 427

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXII. ….il dolore è da fuggirsi, [I,94,20] mentre il piacere è scopo e fine. Fu dunque un poligrafo e produsse circa ottantamila righe di opere. Sembrava a molti né un fallito né un incapace, come si dice, e….

SVF I, 428

Ateneo ‘Deipnosophistai’ X, p. 437e. Antigono di Caristo nella sua [I,94,25] ‘Vita di Dionisio di Eraclea, soprannominato il Ritrattatore’ racconta che Dionisio, mentre festeggiava insieme ai suoi domestici la festa dei Congi, poiché non riusciva, a causa della vecchiaia, ad avere un rapporto sessuale completo con un’etera che essi avevano invitato, si rivolse ai commensali e disse:

‘Io non ce la faccio a tenderlo, dunque la prenda un altro’.

SVF I, 429

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXIII. [I,94,30] ….dopo avere ossequiato gli amici ed essersi seduto nella bara, morì.

SVF I, 430

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ VII, p. 281d. E cosa bisogna dire a proposito di Dionisio di Eraclea? Senza altre mediazioni, denudatosi della tunica della virtù egli [I,94,35] si rivestì di fiori e si rallegrò di essere chiamato il Ritrattatore sebbene avesse preso le distanze dalle dottrine Stoiche e fosse saltato nel giardino di Epicuro ormai da vecchio. Su di lui non senza grazia Timone diceva:

‘Quando bisognerebbe tramontare, lui comincia ora a darsi ai piaceri;

ma c’è un’ora per amare, un’ora per sposarsi e un’ora per smetterla’.

[2] Luciano ‘Bis accus.’ 20, 21. [I,95,1] Fino alla comparsa della malattia, egli sperava che i ragionamenti sulla fortezza d’animo gli fossero di qualche giovamento; ma quando cominciò a sentirsi male, ad essere malato, e il dolore più vero lo raggiunse, vedendo che il suo corpo praticava una filosofia antitetica a quella della Stoa ed aveva giudizi contrari ad essa, egli prestò fede [I,95,5] più a lui che a costoro….

SVF I, 431

Cicerone ‘De finibus’ V, 94. A noi pare scandaloso che Dionisio di Eraclea abbia defezionato dagli Stoici per il dolore agli occhi. Quasi avesse imparato da Zenone che sentire dolore non è doloroso! Certamente aveva sentito dire che il dolore non è un male perché è una cosa non moralmente deforme e dunque va sopportata da uomo, [I,95,10] ma questa lezione non l’aveva imparata.

SVF I, 432

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ II, 60. Uomo di poca fermezza, Dionisio di Eraclea, imparò da Zenone ad essere forte ma lo disimparò dal dolore. Soffrendo di reni, fra grida lamentevoli andava urlando che erano false le dottrine sul dolore che egli aveva prima fatte sue. E poiché il condiscepolo Cleante [I,95,15] gli chiedeva ragione del suo cambiamento di opinione, rispose: “Perché, se pur avendo io profuso un grande impegno nella filosofia non riuscissi a sopportare il dolore, questo sarebbe una prova sufficiente che il dolore è un male. Ebbene, io ho effettivamente speso parecchi anni nello studio della filosofia, eppure non riesco a sopportarlo: dunque il dolore è un male”.

SVF I, 433

Cicerone ‘Academica’ II, 71. Dionisio di Eraclea [I,95,20] aveva dato il suo assenso […] alla dottrina che per molti anni tenne per vera fidandosi del suo maestro Zenone, e cioè che solo quanto è moralmente onesto è bene, oppure aveva assentito a quella che in seguito difese, ossia che ‘moralmente onesto’ è un vuoto nome, e che il sommo bene è il piacere?

SVF I, 434

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 18. Non sono sciocche le osservazioni di Dionisio di Eraclea sulle lamentele che [I,95,25] Omero mette in bocca ad Achille che si esprime più o meno così:

‘e il cuore mi si gonfia di nera ira, quando ricordo

d’esser stato derubato d’ogni dignità e gloria’

Forse che una mano in stato di gonfiore è in buono stato? E non è anormale lo stato di un qualsiasi altro membro quando sia tumefatto e turgido? [I,95,30] Allo stesso modo un animo infiammato e gonfio è in una condizione di vizio. Ma l’animo del saggio è sempre privo di vizi, mai è turgescente, mai è gonfio. Invece l’animo della persona irata è in questa condizione, e quindi il saggio non si adira mai. Infatti, se si adira, concupisce; giacché è proprio dell’uomo irato il desiderio di causare a chi, a suo avviso, l’ha offeso, [I,95,35] il massimo dolore possibile. E chi ha questo violento desiderio, una volta che esso sia stato esaudito, è necessariamente portato a provare grande soddisfazione, il che fa sì che egli goda del male altrui. Ma poiché il saggio non cade in ciò, [I,96,1] neppure cade nell’ira. Se il saggio cadesse in afflizione, cadrebbe anche nell’ira, ma siccome è privo di questa è privo anche dell’afflizione. E se mai il saggio incappasse nell’afflizione, allora potrebbe incappare anche nella misericordia e nel sentimento di invidia, […] giacché chi si duole delle disgrazie altrui [I,96,5] si duole anche delle fortune altrui. Infatti, Teofrasto, mentre piange per la morte del suo amico Callistene si angustia per la fortuna di Alessandro, e per questo motivo sostiene che Callistene era incappato in un uomo di grande potenza e grande fortuna, il quale però ignorava come utilizzarle nelle circostanze favorevoli. Dunque, come la misericordia è afflizione prodotta dalle disgrazie [I,96,10] altrui, così il sentimento di invidia è afflizione originata dai successi altrui. A chi capita di provare misericordia, capita anche di provare il sentimento di invidia; ma il saggio non incappa nel sentimento di invidia, dunque neppure nella misericordia. E poi se egli fosse avvezzo a provare afflizione, sarebbe avvezzo anche a provare misericordia. Il saggio pertanto non conosce afflizione.

[I,96,15]

4. Persèo di Cizio

Frammenti n. 435-462

SVF I, 435

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 36. I discepoli di Zenone furono numerosi, e tra i più accreditati vi fu Persèo di Cizio, figlio di Demetrio. Secondo alcuni Persèo era un suo conoscente, secondo altri uno dei domestici mandatigli da [I,96,20] Antigono in funzione di scrivano e che era precettore del figlio di Antigono, Alcioneo. Una volta Antigono, deciso a metterlo alla prova, fece in modo che gli fosse data la notizia fittizia che i suoi poderi gli erano stati sottratti dai nemici. E poiché Persèo s’accigliò, Antigono gli disse: “Lo vedi che la ricchezza non è un indifferente?” [I,96,25] Gli si attribuiscono questi libri: ‘Sul regno’, ‘La costituzione di Sparta’, ‘Sul matrimonio’, ‘Sull’empietà’, [I,96,30] ‘Tieste’, ‘Sugli amori’, ‘Discorsi protrettici’, [I,97,1] ‘Diatribe’, ‘Detti sentenziosi (4 libri)’, ‘Detti memorabili’, ‘Contro ‘Le leggi’ di Platone (7 libri)’.

SVF I, 436

‘Suida’ s. v. [I,97,5] Persèo, di Cizio, filosofo Stoico. Fu anche soprannominato Doroteo. Visse al tempo di Antigono Gonata. Era figlio di Demetrio, e fu discepolo e allievo del filosofo Zenone. Storia….

SVF I, 437

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XII, 3. Dei suoi discepoli, Zenone [I,97,10] amava soprattutto Persèo, con il quale pure conviveva. Persèo era stato anche allevato da lui, come alcuni affermano, giacché era un servo nato in casa. Diogene….

SVF I, 438

Aulo Gellio ‘Noctes Atticae’ II, 18, 8. Anche Pompilo, servo del Peripatetico Teofrasto, e il servo di Zenone chiamato Persèo [I,97,15] […] vissero da filosofi di un certo rango.

SVF I, 439

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 6. [1] Antigono Gonata approvava il modo di vivere di Zenone e quando gli capitava di giungere ad Atene, molte volte ascoltava le sue lezioni, invitandolo poi a recarsi presso di lui. Zenone schivò questi inviti e però inviò da lui Persèo, uno dei suoi conoscenti, figlio di Demetrio, [I,97,20] nato a Cizio e in pieno fiore durante la CXXX Olimpiade (260-256 a.C.), quando Zenone era ormai vecchio.

[2] 9. Inviò dunque Persèo e Filonide di Tebe, entrambi i quali Epicuro, nella ‘Lettera al fratello Aristobulo’, rammenta come sodali di Antigono.

[3] 13. Coabitava con Persèo, e una volta che questi gli introdusse in casa una giovane [I,97,25] suonatrice di flauto tirò un sospiro e la menò da Persèo.

[4] Eliano ‘Varia Historia’ III, 17. Io chiamerei politica anche l’attività di Persèo, se fu appunto lui ad educare Antigono.

SVF I, 440

‘Vita Arati’. Arato fu scolaro del filosofo Persèo [I,97,30] ad Atene ed andò con lui in Macedonia quando questi vi fu convocato da Antigono. Intervenne così al matrimonio di Antigono e Fila.

SVF I, 441

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XIII. Causa di ciò fu l’essere separato da Zenone, lo stare a lungo con Antigono e, una volta scelta la vita del cortigiano e non quella del filosofo, l’andare errando di qua e di là insieme con lui. Perciò [I,97,35] dei loro uomini e delle città….

[2] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XIV. ….che Antigono, quando <Persèo> si mise in viaggio…. e che Aristofonte, quando egli supplicò il perdono….

[I,98,1]

SVF I, 442

[1] Pausania ‘Greciae descriptio’ II, 8, 4. Quando Antigono aveva il controllo di Corinto e vi era installata una guarnigione Macedone, <Arato di Sicione> colse di sopresa i Macedoni [I,98,5] con un attacco fulmineo e, avuto il sopravvento in battaglia, fece perire tra gli altri anche Persèo, che era a capo della guarnigione; quel Persèo che aveva frequentato Zenone figlio di Mnasea per apprendere la filosofia.

[2] VII, 8, 3. Arato e i Sicioni scacciarono la guarnigione dalla Rocca di Corinto e uccisero Persèo, che era stato messo da Antigono [I,98,10] a capo della guarnigione.

SVF I, 443

[1] Plutarco ‘Vita Arati’ XVIII. Allora Antigono, [come è stato detto], una volta conquistata la Rocca di Corinto vi poneva di guardia, insieme ad altri uomini dei quali aveva la massima fiducia, anche Persèo, il filosofo, dopo averlo messo a capo di essi.

[2] 23. Dei generali di Antigono <Arato> rilasciò Archelao […] [I,98,15] invece Persèo, una volta catturata la Rocca, trovò scampo nel porto di Cencrea. Quando successivamente teneva scuola, a chi gli diceva che secondo lui soltanto il sapiente è stratega, si racconta che <Persèo> rispondesse: “Ma, per gli dei, tra tutti i giudizi di Zenone anch’io una volta gradivo specialmente proprio questo. Adesso invece, dopo essere stato smentito da quel giovanotto di Sicione, ho mutato avviso”. [I,98,20] A proposito di Persèo, sono in molti a raccontare queste vicende.

SVF I, 444

Polieno ‘Stratag.’ VI, 5. Arato riuscì ad impossessarsi della Rocca di Corinto, che era presidiata da una guarnigione postavi da Antigono e della quale erano a capo Persèo, il filosofo, e il generale Archelao. Quando la Rocca fu catturata, il filosofo Persèo trovò rifugio nel porto di Concrea e poi di là [I,98,25] se ne andò da Antigono.

SVF I, 445

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XV. Difendendosi con questi mezzi, <Persèo> riuscì a scacciare i Traci. Ma quando essi, ancora in maggior numero, lo attaccarono e lo circondarono da ogni parte, subite molte ferite <s’arrese> e perse la vita. Alcuni dicono che dalla zona…. [I,98,30] su una nave…. verso….

SVF I, 446

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXXI. ….sopportava….di dare ascolto e ritrattare. Perciò una volta Persèo disse ad alcuni di avere appreso che <Dionisio> aveva mutato avviso sul piacere [I,98,35] poiché aveva prima voluto dare ascolto al dolore e, come si dice, provare a morire per l’acutezza delle doglie….

SVF I, 447

Epifanio ‘Adversus haeres.’ III, 38 (Dox. Gr. p. 592. 34). [I,99,1] Persèo nutrì gli stessi giudizi teorici di Zenone.

SVF I, 448

[1] Filodemo ‘De pietate’ cp. 8 (DDG 544b, 28). È manifesto che Persèo […] fa sparire il divino oppure nulla [I,99,5] sa di esso, dal momento che nel suo libro ‘Sugli dei’ afferma come non gli appaiono inverosimili le cose scritte da Prodico circa l’essere state legittimate ed onorate come dei, in primo luogo le entità che ci nutrono e ci giovano e, dopo queste, coloro che hanno trovato o cibi o ripari o le altre arti, come Demetra, Dioniso e….

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 38. Persèo, uditore [I,99,10] dello stesso Zenone, sostiene che furono ritenuti dei quanti inventarono cose sommamente utili al nostro tenore vita, e che anzi le stesse cose utili e salutari abbiano assunto il nome di dei; e dice questo per non chiamarle opera di dei ma divine esse stesse. Cosa c’è di più assurdo che conferire a cose vili e di nessun valore l’onore di essere dei, oppure annoverare fra gli dei uomini [I,99,15] già consumati dalla morte, per i quali l’unica forma di culto è il cordoglio?

SVF I, 449

Temistio ‘Orationes’ XXXII, p. 358 Hard. Una volta Persèo di Cizio si meritò una risata da parte di Antigono. Infatti Persèo, il compagno di Zenone, [I,99,20] faceva vita comune con il re Antigono quando quest’ultimo, siccome lo sentiva continuamente gonfiarsi e blaterare in gran numero queste graziose bambocciate della Stoa – cioè che il sapiente è invitto dalla fortuna, è integerrimo, capace di dominare le passioni -, mise mano a contestare nei fatti tutta la sua cialtroneria. Antigono fa dunque in modo che giungano [I,99,25] da Cipro e dalla Fenicia dei mercanti, dopo averli in precedenza istruiti su cosa debbano dire in presenza di Persèo. Comincia quindi ad interrogarli cercando di avere notizie, in primo luogo, delle navi, della flotta, dei soldati di stanza a Cipro; e fa tutte quelle domande che i re solitamente fanno. Poi fa cadere senza scosse il discorso su come stiano le faccende della casa di Persèo a Cizio. A questo punto i mercanti, appena sentono parlare di Persèo, [I,99,30] s’accigliano e abbassano il capo, ed è manifesto che stanno per rispondere dando notizie nient’affatto buone. Allora tutta quanta la sfrontatezza di Persèo se ne scorre via, e siccome l’uomo insiste e scongiura, i mercanti rispondono a denti stretti che davvero sua moglie, mentre era in viaggio per mare alla volta di Argo, è stata fatta schiava da certi pirati egiziani; che il suo giovane figlio diletto è stato sgozzato e che i suoi soldi, i suoi schiavi, tutto è andato in malora. Da quel momento per Persèo sparì [I,99,35] Zenone, sparì Cleante; e la natura contestò le chiacchiere, poiché [I,100,1] le sue erano davvero chiacchiere vuote, deboli e non testimoniate dai fatti.

SVF I, 450

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 120. Ha il loro beneplacito il ritenere, stando alle affermazioni di Crisippo, […] Persèo e Zenone, che tutte le aberrazioni siano pari.

SVF I, 451

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 607a. [I,100,5] Eppure Persèo di Cizio nei suoi ‘Ricordi conviviali’ lo grida, e afferma che bevendo del vino è acconcio ricordare argomenti sessuali giacché, quando beviamo alquanto, noi siamo propensi a questi piaceri. Egli dice che “in tale contesto bisogna lodare coloro che dei piaceri sessuali fanno un uso mansueto ed equilibrato ed invece denigrare coloro che ne fanno [I,100,10] un uso belluino ed insaziabile”. Dice anche che “se dei dialettici, convenuti in simposio, si mettessero a discutere di sillogismi, si potrebbe ben concepire che essi facciano qualcosa di estraneo all’occasione del momento”. Inoltre egli dice che “l’uomo virtuoso potrebbe ubriacarsi; e quanti, nel corso dei simposi sono decisi ad essere ultratemperanti, serbano un simile proposito fino ad un certo punto ma poi, una volta che il vinello scorra loro dentro, [I,100,15] allora essi sfoggiano tutta la loro indecenza. Il che avvenne recentemente con gli osservatori giunti presso Antigono dall’Arcadia. Infatti tali osservatori, come credevano di dover fare, pasteggiavano tutti accigliati e pieni di decoro, senza volgere lo sguardo nonché verso qualcuno di noi, neppure guardandosi tra di loro. Quando però le bevute andavano ormai avanti ed entrarono in scena, tra gli altri intrattenimenti musicali, proprio [I,100,20] le danzatrici Tessale le quali, com’è loro costume, usano danzare nude nei loro perizomi, allora quegli uomini non riuscirono più a trattenersi e slanciandosi dai loro letti gridavano di star assistendo ad uno spettacolo stupefacente, proclamavano beato il re perché può fruire di questi spettacoli e facevano molte altre cose del tutto da carrettieri a queste similari. [I,100,25] Quando poi una flautista si mosse verso uno dei filosofi che bevevano con noi e, poiché vi era dello spazio libero accanto a lui voleva sederglisi accanto, egli non lo consentì ma fece con la ragazza la parte del duro. Successivamente, com’è costume che avvenga nei simposi, la flautista fu messa in vendita. Nel comprare, quel filosofo era assai baldanzoso ed entrò in controversia con il venditore, il quale l’aveva assegnata ad un altro [I,100,30] troppo in fretta, affermando che la vendita non era avvenuta. Alla fine quel duro filosofo venne addirittura ai pugni, lui che all’inizio neppure aveva consentito alla flautista di sederglisi accanto”. Può darsi che chi giunse al pugilato per la flautista sia lo stesso Persèo. Lo afferma Antigono di Caristo quando nel suo libro ‘Su Zenone’ scrive [I,100,35] così: “Quando Persèo, durante un simposio, comprò una flautista ma temeva assai di introdurla in casa perché coabitava con Zenone di Cizio, quest’ultimo, avuta consapevolezza della cosa, trascinò dentro la ragazza e la chiuse in casa con Persèo”.

SVF I, 452

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 162b. [I,101,1] <Voi avete in ossequio> i ‘Dialoghi Conviviali’ del buon filosofo Persèo, composti con materiale tratto dai ‘Memorabili’ di Stilpone e di Zenone. Affinché i convitati [I,101,5] non cadano addormentati, Persèo ricerca in essi come si debbano utilizzare le libagioni, in quale momento debbano essere introdotti nel simposio i ragazzi e le ragazze in fiore, quando si debba accettare che essi mostrino le loro grazie e quando invece li si debba respingere trascurandoli. Egli tratta anche di pietanze, di pani e di altri argomenti, tra i quali tutto quanto il filosofo figlio di Sofronisco ha detto alquanto indiscretamente a proposito dei baci. Pur girando [I,101,10] e rigirando nell’intelletto sempre questi argomenti, Persèo, come afferma Ermippo, ebbe in affidamento da Antigono il comando della Rocca di Corinto. Bevuto cionco com’era, egli fu però cacciato via dalla stessa Corinto dalle superiori capacità militari di Arato di Sicione. E pensare che in precedenza proprio Persèo, nei ‘Dialoghi’, aveva fatto a gara con Zenone nel sostenere che il sapiente sarebbe in ogni caso un ottimo generale. Davvero [I,101,15] al buon domestico di Zenone è mancato soltanto di confermare ciò con i fatti! Bione di Boristene, dopo avere osservato una sua statua di bronzo recante l’epigrafe: “Persèo di Zenone, di Cizio”, aveva amenamente detto che chi aveva scritto l’epigrafe aveva errato, giacché essa doveva dire così: “Persèo di Zenone, servo”. E Persèo era in realtà un servo nato in casa di Zenone, come [I,101,20] raccontano Nicia di Nicea nella sua ‘Storia dei filosofi’ e Sozione di Alessandria nelle sue ‘Successioni’. Abbiamo così incontrato due brani tratti da questo sapiente trattato di Persèo intitolato ‘Dialoghi conviviali’.

SVF I, 453

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 1. <Zenone era> debole; [I,101,25] e perciò, nei suoi ‘Ricordi conviviali’,Persèo afferma che egli schivava la maggior parte dei pranzi cui era invitato.

SVF I, 454

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 140e. Circa i dopopasto, nella ‘Costituzione di Sparta’ Persèo scrive così: “<L’incaricato> sanziona immediatamente le persone facoltose a procurare i dopopasto, dove per ‘dopopasto’ si intendono i dessert serviti a fine pasto. [I,101,30] Egli ordina invece alle persone non facoltose di fornire una cannuccia o uno stuoino o delle foglie d’alloro dai quali, dopo il pasto, prendere e mangiare i dopopasto, i quali consistono di farinate spruzzate d’olio d’oliva. Nel suo insieme questa è una piccola norma di pubblica amministrazione, giacché sia chi giace in prima fila o in seconda o chiunque siede sul lettuccio tutti devono fare cose del genere in vista dei dopopasto”. [I,101,35] Cose simili le racconta anche Dioscuride.

SVF I, 455

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 140b. I porcellini da latte non si chiamano ‘orthagoriscoi’, [I,102,1] come afferma Polemone, bensì ‘orthragoriscoi’ giacché se ne fa commercio all’alba, come raccontano Persèo nella ‘Costituzione di Sparta’, Dioscuride nel secondo libro della ‘Repubblica’ e Aristocle nel primo libro, lui pure, della ‘Costituzione di Sparta’.

SVF I, 456

Dione Crisostomo ‘Orationes’ LIII, 4. [I,102,5] Anche il filosofo Zenone ha scritto sull’Iliade e sull’Odissea […] e, affinché non appaia che <Omero> si contraddice, insegna che egli ha scritto alcune cose secondo opinione ed altre secondo verità, […]. Inoltre anche Persèo, il discepolo di Zenone, ha scritto seguendo questa stessa [I,102,10] ipotesi e pure molti altri.

SVF I, 457

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ II, 61. Persèo invece afferma che la maggior parte dei sette <dialoghi> sono di Pasifonte di Eretria, benché siano assegnati ad Eschine Socratico.

SVF I, 458

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 28. Nelle sue [I,102,15] ‘Lezioni etiche’ Persèo afferma che <Zenone> morì all’età di settantadue anni e che era venuto ad Atene all’età di ventidue.

SVF I, 459

Bione presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ IV, 47. Questa è la mia storia. Persèo [I,102,20] e Filonide smettano dunque di raccontarla. Tu considerami invece per quello che sono davvero.

SVF I, 460

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ II, 143. <Menedemo> era in guerra accanita soltanto con Persèo, giacché gli sembrava che quando Antigono era deciso a ristabilire, grazie a lui, il governo democratico ad Eretria, Persèo lo impedì. Perciò una volta, durante un simposio, Menedemo confutò le argomentazioni di Persèo [I,102,25] e, tra le altre cose, disse anche: “Sarà pure un filosofo, ma come uomo è il peggiore di quanti sono e saranno”.

SVF I, 461

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 162. <Aristone> s’attenne soprattutto al principio Stoico che il sapiente non ha opinioni. Ma Persèo, per contrastare questo principio, fece sì che di due fratelli gemelli uno [I,102,30] desse ad Aristone del denaro in deposito, e che in seguito fosse però l’altro gemello a ritirarlo. Egli oppugnò così quel principio e lasciò Aristone nell’incertezza <dell’opinione>.

SVF I, 462

‘Suida’ s. v. Ermagora di Amfipoli, filosofo, discepolo di Persèo. I suoi dialoghi: ‘Il nemico del cane’ ovvero sulle sfortune; ‘Ecchito’ cioè l’ovoscopia; ‘Sulla sofistica’ contro gli Accademici.

5. Cleante di Asso (331-232 a.C.)

§ 1.Vita e costumi

Frammenti n. 463-480

SVF I, 463

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 168. Cleante figlio di Fania, di Asso. Dapprima faceva il pugile, come afferma Antistene nelle sue ‘Successioni’. Dopo essere giunto [I,103,5] ad Atene con in tasca quattro dracme, come sostengono alcuni, e dopo essersi confrontato con Zenone, iniziò a fare vita filosofica con grandissima nobiltà e rimase sempre dei medesimi principi. Andava per le bocche di tutti la sua laboriosità giacché, povero in canna com’era, ne aveva preso impulso per guadagnarsi un salario. Così di notte attingeva e versava acqua negli orti e di giorno s’allenava nei ragionamenti; laonde fu chiamato anche ‘Pozzante’. Dicono inoltre che [I,103,10] fu condotto in tribunale affinché desse ragione, essendo talmente forte e vigoroso, dei suoi mezzi di sussistenza; e che egli ne uscì assolto dopo avere portato come testimoni il giardiniere presso il quale attingeva e versava l’acqua e la venditrice di farina presso la quale impastava le farine. Quando i giudici dell’Areopago approvarono la sua assoluzione, votarono che gli fossero date dieci mine; ma Zenone gli vietò di prenderle. Si dice anche che Antigono gli desse [I,103,15] tremila dracme. Una volta che da capo degli efebi li conduceva ad un certo spettacolo, una folata di ventò lo denudò, e si vide che non portava la tunica; per la qual cosa ebbe dagli Ateniesi l’onore di un applauso, secondo quanto afferma Demetrio di Magnesia nei suoi ‘Omonimi’. Egli fu dunque ammirato anche per questo. Si racconta che una volta Antigono era suo uditore e che cercò di sapere da lui perché attingesse e versasse acqua. Al che Cleante rispose: “Attingo e verso soltanto [I,103,20] acqua? E non zappo anche? E non irrigo e non faccio forse tutto ciò per amore della filosofia?”. Alla filosofia lo allenava Zenone, il quale gli intimò di versargli un obolo del suo salario a titolo di risarcimento. Messi poi insieme questi spiccioli, una volta Zenone li portò in mezzo ai suoi seguaci e disse: “Cleante potrebbe nutrire un altro Cleante, se lo decidesse. Invece coloro che [I,103,25] hanno di che nutrirsi ricercano le provviste da altri, facendo così una vita filosofica davvero scadente”. Laonde Cleante usava anche essere chiamato secondo Eracle. Era un faticatore indefesso, con scarsissime doti filosofiche naturali e oltremodo lento. Perciò di lui Timone dice così:

‘Chi è costui che come un montone passa in rivista le schiere degli uomini,

[I,103,30] smidollatore di parole, pietra di Asso, mortaio senza pestello?’

Tollerava di essere schernito dai condiscepoli ed accettava di sentirsi chiamare ‘asino’, dicendo di essere il solo capace di sorreggere il carico di Zenone.

[2] VII, 174. Dicono che Cleante scrivesse su cocci e su scapole di bue quello che ascoltava da Zenone, per difetto [I,103,35] degli spiccioli necessari per comprare la carta. Poiché era un uomo siffatto, fu lui a prevalere nella successione alla guida della scuola [I,104,1] benché pure molti altri discepoli di Zenone ne fossero degni.

SVF I, 464

Plutarco ‘De recta rat. aud.’ p. 47e. Come Cleante e Senocrate, che erano ritenuti d’ingegno meno brillante dei loro compagni di scuola, ma non per questo [I,104,5] se la davano a gambe dall’imparare né ne facevano una malattia. Usavano invece prevenire gli altri nel prendersi gioco di se stessi, rassomigliandosi a vasi dalla bocca stretta ed a tavolette di bronzo, capaci di accogliere con difficoltà i ragionamenti ma poi di serbarli sicuri e saldi.

SVF I, 465

Plutarco ‘De vitando aere alieno’ p. 830d. Che animo saggio [I,104,10] quello di Cleante! Dal mulino e dalla madia, con la mano che impasta e che macina, arriva a scrivere sugli dei, sulla luna, sugli astri e sul sole!

SVF I, 466

[1] Seneca ‘Epistulae morales’ XLIV, 3. Cleante attingeva l’acqua dal pozzo e lavorava dietro compenso alla irrigazione di un orto.

[2] VI, 6. Cleante non sarebbe stato un’immagine vivente di Zenone se ne avesse soltanto ascoltato le lezioni. Egli partecipò invece alla sua vita, ne scrutò a fondo quella privata, [I,104,15] lo osservò attentamente per capire se Zenone vivesse secondo i principi che professava.

SVF I, 467

*Frammento di Quintiliano ‘Institutio oratoria’

SVF I, 468

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XIX. “Non hai portato con te, disse <Cleante>, la somma che ti fu ingiunto di portare”. [I,104,20] E discorse in modo simile anche per l’appresso, fino a che non procurò che quello gli portasse l’intera somma. Di poi, resagliene ricevuta, intimò di rimandarlo dai suoi genitori. Perciò alcuni lo biasimavano come avido di denaro, essendo lui non ricco….

SVF I, 469

Stobeo ‘Florilegium’ XVII, 28 (Vol. I, p. 496 Hense). [I,104,25] Dalla ‘Storia varia’ di Eliano. Crisippo di Soli riusciva a vivere con ben poco, e Cleante ancora con meno.

SVF I, 470

Plutarco ‘Quom. adul. ab amico internosc.’ p. 55c. Arcesilao espulse dalla scuola Batone, quando questi compose un verso [I,104,30] da commedia contro Cleante. E la riconciliazione avvenne soltanto dopo che Batone ebbe persuaso Cleante d’essersi ravveduto.

SVF I, 471

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXII. <Batone> scongiurava <Arcesilao> di consentirgli di frequentare di nuovo la scuola. <Cleante> ne discorse con Arcesilao e affermò che il primo atto di un giorno lieto è quello di considerare quali siano le cose che dipendono da noi soli, indicando ad Arcesilao [I,104,35] il punto di vista che conveniva. Ma nessuno dei due s’impicciò di Sositeo….

SVF I, 472

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXIV. [I,105,1] E per questo conversava con la maggior parte delle persone. Sicché, presa la parola, uno riferiva:

‘Questo è Cleante: uno che per un po’ liba [I,105,5] a ciascuno per venire a patti,

ma poi non vuole ampliare il discorso o non può’.

Poi, quando gli capita di vederlo, dicendo qualcosa sulla prima [I,105,10] tesi….

SVF I, 473

‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XX. [I,105,15] …. e combattere in modo conforme. Anche Zenone ha parlato e scritto di argomenti del genere; anche Zenone, parlando però urbanamente dei precedenti filosofi e…. gratificati….

[I,105,20]

SVF I, 474

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 176. <Cleante> morì in questo modo. Gli si rigonfiarono le gengive, e poiché i medici gli proibivano il cibo, se ne astenne per due giorni. In qualche modo questa cura andò bene, sicché i medici gli consentirono di riprendere la dieta consueta. Lui però non s’attenne al loro parere e, dicendo d’avere ormai [I,105,25] fatto la sua strada, s’astenne dal cibo anche nei giorni restanti fino a morire, secondo le affermazioni di alcuni, alla stessa età di Zenone, dopo aver vissuto ottant’anni ed avere ascoltato le lezioni di Zenone per diciannove anni.

SVF I, 475

Luciano ‘Macrobìoi.’ 19. Cleante, il discepolo e successore di Zenone, giunto all’età di novantanove anni ebbe [I,105,30] un tumore ad un labbro. Stava lasciandosi morire d’inedia quando gli giunsero delle lettere da parte di alcuni compagni. Egli allora prese del cibo e fece ciò che gli amici lo sollecitavano a fare. Ma poi s’astenne un’altra volta dal cibo e lasciò la vita.

SVF I, 476

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXVI. ….poco prima di morire gli capitò di avere un esantema [I,105,35] al labbro, che ai medici sembraba essere maligno…. [I,106,1] cosa indecente sopportare, disse a Dionisio che era il momento di concludere la vita. …. gli amici consueti e i conoscenti….

[2] Col. XXVII. ….non ricercare….non degno di lui….amante della vita o servo nell’animo, e ciò dicendo, rimanendo felice….

[I,106,5]

SVF I, 477

[1] ‘Index Stoicorum Herculanensis’ Col. XXVIII, 8. [I,106,10] Dopo avere non poco penato s’allontanò dalla vita, nell’arcontato di Giasone….

[2] XXIX. Cleante era nato nell’arcontato di Aristofane e resse la scuola per trentadue anni….

[I,106,15]

SVF I, 478

Galeno ‘Qualit. immat.’ 2, Vol XIX, p. 467 K. Io affermo che non si debba legittimare il contenitore uno e identico al contenuto. [I,106,20] Cleante non era un tumore, dacché è avvenuto che il tumore rappresentasse il suo stato morboso. Crisippo ed Epicuro non erano la stranguria, siccome accadde loro di perdere la vita a causa di questa affezione. Pertanto neppure un colpo d’aria è l’aria….

SVF I, 479

Strabone ‘Geographia’ XIII, p. 610. Era di qui <di Asso> Cleante, [I,106,25] il filosofo Stoico, il successore di Zenone di Cizio alla guida della scuola e colui che la lasciò a Crisippo di Soli.

SVF I, 480

Cicerone ‘Academica’ II, 73. Eppure chi non antepone questo filosofo (Democrito) ad un Cleante, un Crisippo o ad altri più recenti? Paragonati a quello, mi sembrano filosofi di quinta classe.

§2.Scritti[I,106,30]

Frammento n. 481

SVF I, 481

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 174. Lasciò libri splendidi, che sono i seguenti: ‘Sul tempo’, ‘Sulla filosofia della natura di Zenone, 2 libri’, [I,106,35] ‘Esegesi di Eraclito, 4 libri’, ‘Sulla sensazione’, ‘Sull’arte’, [I,107,1] ‘Contro Democrito’, ‘Contro Aristarco’, ‘Contro Erillo’, ‘Sull’impulso’, [I,107,5] ‘Archeologia’, ‘Sugli dei’, ‘Sui giganti’, ‘Sulle nozze’, ‘Sul poeta’, [I,107,10] ‘Sul doveroso, tre libri’, ‘Sul buon consiglio’, ‘Sulla gratitudine’, ‘Protrettico’, ‘Sulle virtù’, [I,107,15] ‘Sulla buona disposizione naturale’, ‘Su Gorgippo’, ‘Sull’invidiosità’, ‘Sulla passione amorosa’, ‘Sulla libertà’, [I,107,20] ‘Arte erotica’, ‘Sull’onore’, ‘Sulla fama’, ‘Politico’, ‘Sul consiglio’, [I,107,25] ‘Sulle leggi’, ‘Sull’amministrare la giustizia’, ‘Sul sistema educativo’, ‘Sulla logica, tre libri’, ‘Sul sommo bene’, [I,107,30] ‘Sul bello’, ‘Sull’azione’, ‘Sulla scienza’, ‘Sul regno’, ‘Sull’amicizia’, [I,107,35] ‘Sul convito’, ‘Sul fatto che identica è la virtù dell’uomo e della donna’, ‘Sul fatto che il sapiente usa sofismi’, ‘Sui detti sentenziosi’, ‘Diatribe, 2 libri’, [I,108,1] ‘Sul piacere’, ‘Sulle proprietà’, ‘Sulle aporie’, ‘Sulla dialettica’, [I,108,5] ‘Sui tropi’, ‘Sui predicati’. Questi sono i suoi libri.

§3.Massime

Frammento n. 482

SVF I, 482

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 41. [I,108,10] Cleante afferma che le parti della filosofia sono sei: dialettica, retorica, etica, politica, fisica, teologia.

  1. *Frammenti di Logica e di Retorica

§ 1. Utilità della Logica

Frammento n. 483

SVF I, 483

Epitteto ‘Diatribe’ I, 17, 10. [I,108,15] <Se dunque uno pur concedesse questo> bastevole è il fatto che la logica è atta a distinguere e ad esaminare le altre cose e, come uno direbbe, a misurarle e pesarle. Chi dice questo? Solamente Crisippo, Zenone e Cleante? Antistene non lo dice?

§ 2. Sulla vista

Frammento n. 484

SVF I, 484

[1] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 228. [I,108,20] Secondo loro la rappresentazione è un’impronta nell’animo. Ma su di essa <gli Stoici> ben presto si dispararono. Infatti Cleante intese ‘l’impronta’ fatta di rientranze e di sporgenze, com’è l’impronta fatta dagli anelli nella cera.

[2] VII, 372. Se infatti la rappresentazione è un’impronta nell’animo, o si tratta di un’impronta [I,108,25] fatta di sporgenze e di rientranze, come legittimano i seguaci di Cleante; oppure essa nasce per mera alterazione.

[3] VIII, 400. Cleante intese per ‘impronta’ principalmente quella che si capisce constare di rientranze e di sporgenze.

[4] ‘Pyrrh. Hypot.’ II, 70. Ora, poiché l’animo e l’egemonico sono pneuma oppure, come essi dicono, qualcosa di ancor più sottile dello pneuma; sarà impossibile divisare [I,108,30] l’impronta in esso come qualcosa che consta di rientranze e di sporgenze, come vediamo nel caso dei sigilli, o come la miracolosa ‘trasformazione alterativa’ della quale essi parlano.

§ 3. Sui significanti [I,109,1]

Frammenti n. 485-487

SVF I, 485

[1] Varrone ‘De lingua latina’ V, 9. Anche se non attingerò il sommo grado, tuttavia oltrepasserò il secondo; giacché ho studiato non solo al lume della lucerna di Aristofane [I,109,5] ma anche di quella di Cleante.

[2] 7. Fin là è salita la grammatica antica, quando mostra in che modo il poeta forgia ogni parola, come la dispone e come la declina.

SVF I, 486

Filodemo ‘De musica’ col. 28, 1, p. 79 Kemke. Se pur non vorranno dire [I,109,10] ciò che dice Cleante, il quale afferma che gli esempi poetici e musicali sono superiori per efficacia alla discorsività filosofica, che è capace di divulgare le cose divine e umane ma non possiede espressioni adatte alla purezza delle grandezze divine; mentre i versi, i canti, i ritmi giungono [I,109,15] il più possibile vicino alla verità della chiara conoscenza del divino.

SVF I, 487

Seneca ‘Epistulae morales’ CVIII, 10. Infatti, come diceva Cleante, al modo in cui il nostro soffio produce un suono più squillante quando sia incanalato in un tubo lungo e stretto e poi fuoriesca da un orifizio che si allarga molto alla fine, [I,109,20] così le stringenti regole della poesia rendono più chiara l’espressione dei nostri pensieri.

§ 4. Sui significati

Frammenti n. 488-490

SVF I, 488

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VIII, 9, 26, p. 930 Pott. Cleante e Archedemo [I,109,25] chiamano i predicati ‘esprimibili’.

SVF I, 489

[1] Epitteto ‘Diatribe’ II, 19, 1-4. L’argomento “Dominatore” pare essere stato proposto interrogativamente a partire da certe proposizioni moventi di questo genere, essendovi mutua contraddizione delle terze con le altre due: tutto quanto veramente è avvenuto è necessario; (b) l’impossibile non consegue al possibile; (c) [I,109,30] possibile è quanto non è né sarà vero. Notando questa contraddizione, Diodoro adoperò la persuasività delle prime due proposizioni per apporre che nulla, che non è né sarà vero, è possibile. Orbene uno serberà, delle coppie di proposizioni, questa: (c) possibile è quanto non è né sarà vero, e (b) l’impossibile [I,109,35] non consegue al possibile, ma non tutto quanto veramente è avvenuto è necessario, come appunto sembra sostenere la scuola di Cleante, che [I,110,1] Antipatro a lungo difese. Altri serberanno invece le altre due proposizioni, ossia (c) possibile è quanto non è né sarà vero, e tutto quanto veramente è avvenuto è necessario, ma allora l’impossibile consegue al possibile. E’ inconcepibile però serbare le tre proposizioni, essendovi mutua contraddizione tra di loro.

[2] Cicerone ‘De fato’ VII, 14. Tutto ciò [I,110,5] che nel passato è veramente avvenuto è necessario, come piace dire a Crisippo in dissenso dal suo maestro Cleante, perché è immutabile, e il passato non può convertirsi da vero in falso.

SVF I, 490

Olimpiodoro ‘In Platon. Gorgiam.’ p. 63, 3-4 Norvin. Cleante dice che l’arte è postura abituale dell’animo [I,110,10] che tutto conclude seguendo un metodo.

*Frammento di Quintiliano ‘Institutio oratoria’

§ 5. La Retorica

Frammenti n. 491-492

SVF I, 491

*Frammento di Quintiliano ‘Institutio oratoria’ [I,110,15]

SVF I, 492

Cicerone ‘De finibus’ IV, 7. È vero che Cleante ha scritto un libro di retorica, […] e in modo tale che se uno volesse ammutolire [I,110,20] non avrebbe da leggere null’altro.

  • *Frammenti di Fisica e di Teologia

§ 1. I fondamenti della Fisica

Frammenti n. 493-504

SVF I, 493

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 134. [I,110,25] <Gli Stoici> ritengono che i fondamenti del cosmo nella sua interezza siano due: quello che fa l’azione e quello che la sperimenta. Quello che sperimenta l’azione è la sostanza senza qualità, il materiale. Quello che fa l’azione è la ragione insita nel materiale, ossia la divinità. Poiché questa ragione sempiterna è connaturata a qualunque materiale, è essa a fabbricare tutte e singole le cose esistenti. A porre questo principio è […] e Cleante nel suo libro ‘Sugli atomi’.

SVF I, 494

Siriano ‘In Aristot. Methaph.’ p. 105, 28-29 Kroll. [I,110,30] Le forme ideali non erano riportate da parte di questi uomini divini all’uso abituale dei nomi, come successivamente credettero Crisippo, [I,111,1] Archedemo e la maggior parte degli Stoici […] né le idee sono, secondo loro, delle concettualizzazioni, come ha poi affermato Cleante.

SVF I, 495

Ermia ‘Irrisio gent. philos.’ 14, (Dox. Gr. p. 654). Ma Cleante, [I,111,5] una volta rialzata la testa dal pozzo, attinge i veri principi: il divino e il materiale; poi che la terra muta in acqua; l’acqua in aria; che l’aria si porta in alto; che il fuoco spazia fin torno torno la terra; che l’animo pervade l’intero cosmo, animo partecipando del quale noi siamo esseri animati.

SVF I, 496

Valerio Probo in Virg. Ecl. VI, 31, p. 10. Keil. A Virgilio importa spiegare che le cose di natura, qualunque forma abbiano, [I,111,10] erano dapprima disperse in una massa tenuissima e leggerissima; che questa si condensò poi nei quattro elementi; e che da essi successivamente tutto prese il proprio aspetto. Questo tramandano Zenone di Cizio e Crisippo di Soli, nonché Cleante di Asso.

SVF I, 497

Stobeo ‘Eclogae’ I, 17, 3, p. 153, 7 W. [I,111,15] Cleante dice più o meno così: una volta conflagrato in fuoco l’universo, per prima si rapprende la sua parte mediana, poi le parti attigue si spengono interamente. Quando l’universo diventa acqua, il fuoco residuale, dato che la parte mediana gli oppone resistenza, si volge di nuovo in direzione contraria [I,111,20] cioè si volge, dice Cleante, ad elevarsi verso l’alto ed inizia così a produrre il buon ordine cosmico; e poiché il fuoco compie sempre un ciclo regolare siffatto e produce questo buon ordine cosmico, il tono della sostanza dell’intero cosmo non cessa mai. Infatti, come tutte le parti di un qualcosa si generano da semi nei dovuti tempi, così pure le parti del cosmo si generano nei dovuti tempi, [I,111,25] e tra queste parti capita che siano compresi anche gli animali e i vegetali. E come alcune ragioni seminali delle parti di un essere vivente si mischiano quando convengono insieme a formare lo sperma per poi distinguersi un’altra volta quando nascono le parti, così dall’uno nascono tutte le parti e da tutte le parti si combina l’uno, percorrendo un ciclo regolare con metodo e con armonia.

SVF I, 498

Aezio ‘Placita’ I, 14, 5 (Dox. Gr. p. 312b). Cleante è il solo degli Stoici [I,111,30] a dichiarare che il fuoco ha forma conica.

SVF I, 499

[1] Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 15, 7. [I,112,1] L’affermazione che il sole sia l’egemonico del cosmo ebbe il beneplacito di Cleante, giacché il sole è il più grande degli astri e più d’ogni altro contribuisce al governo dell’intero cosmo, dal momento che fa il giorno e l’anno e le altre stagioni.

[2] Ps. Censorino I, 4. P. 75,14 Jahn. Il mondo è costituito da quattro elementi: [I,112,5] terra, acqua, fuoco e aria. Alcuni tengono per certo, come Cleante, che la sua parte direttiva sia il sole.

[3] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 139. Lo Stoico Cleante affermò che l’egemonico del cosmo è nel sole.

[4] Cicerone ‘Academica’ II, 126. Cleante, che è uno Stoico quasi della prima generazione, uditore diretto di Zenone, ritiene che il sole sia signore e padrone delle cose.

SVF I, 500

Plutarco ‘De facie in orbe lunae’ p. 923a. [I,112,10] Cleante credeva che i Greci dovessero processare Aristarco di Samo per empietà, poiché quell’uomo aveva provato a salvare le apparenze dei fenomeni spostando il focolare del cosmo ed ipotizzando che il cielo rimanga fisso mentre la terra si muove in cerchio secondo l’eclittica e contemporaneamente [I,112,15] ruota sul proprio asse.

SVF I, 501

[1] Aezio ‘Placita’ II, 20, 4. (Dox. Gr. p. 349b). Cleante riteneva che il sole sia una massa infuocata e cognitiva <che scaturisce> dal mare.

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ III, 37. E che? Non siete voi a ritenere che ogni fuoco abbisogna di pastura e che non può in alcun modo sussistere [I,112,20] se non è alimentato? E poi che il sole, la luna e gli altri astri lo sono, alcuni dalle acque dolci e altri da quelle salmastre? Questa è la causa che Cleante adduce per cui il sole torna indietro e non va oltre l’orbita solstiziale estiva ed invernale, e cioè per non allontanarsi troppo dal cibo.

[3] Macrobio ‘Saturnalia’ I, XXIII, 2. E infatti, come affermano anche Posidonio e Cleante, il moto del sole non si scosta mai dalla zona chiamata torrida, [I,112,25] perché sotto di essa corre l’oceano che circonda e separa la terra.

[4] Aezio ‘Placita’ II, 23, 5. (Dox. Gr. p. 353a). Gli Stoici sostengono che il sole procede in armonia con la distanza dell’oggetto che gli fornisce il nutrimento, oceano o terra, della cui esalazione si pasce.

SVF I, 502

[1] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 8, 48, p. 674 Pott. Costoro non hanno letto [I,112,30] il filosofo Cleante, il quale chiama il sole senz’altro ‘plettro’. Quando infatti esso sorge, figgendo i suoi fulgidi raggi come se percotesse il cosmo, lo conduce ad una marcia armoniosa.

[2] Plutarco ‘De Pythiae oraculis’ p. 402a. Successivamente essi dedicarono alla divinità un plettro d’oro riferendosi, come sembra, a Scitino che dice [I,112,35] della lira:

‘quella che accorda il figlio di Zeus, il bell’Apollo che abbraccia

 ogni principio e fine ed ha come radioso plettro la luce del sole’.

SVF I, 503

Cornuto ‘Gr. Theol. Comp.’ 32, p. 67 Lang. [I,113,1] Egli (Apollo-Sole) è stato rappresentato come musicista e citarista, in veste di chi fa risuonare col suo tocco ogni parte del cosmo e lo rende consonante in tutte le sue parti, giacché nessuna loro dissonanza è visibile nelle cose esistenti. Egli conserva al massimo grado [I,113,5] la simmetria dei tempi nel rapporto reciproco delle parti del cosmo, come avviene nei ritmi cadenzati. Egli inoltre, col rendere proficuamente secca l’aria, rende possibili le voci degli animali come pure i rumori degli altri corpi e divinamente fa sì che essi s’acconcino ai vari uditi.

SVF I, 504

Cicerone ‘De natura deorum’ II, 40. Cleante ritiene che la testimonianza di due sensi confermi la natura ignea [I,113,10] di tutte quelle stelle: il tatto e la vista. Infatti la luminosità del sole supera quella di ogni altro fuoco, visto che esso emette luce in lungo e in largo nell’immenso mondo, e che il suo contatto non intiepidisce soltanto ma spesso abbrucia: cose che non potrebbe fare, né l’una né l’altra, se non fosse igneo. ‘Ora’, egli sostiene, ‘poiché il sole è di natura ignea e si alimenta delle esalazioni dell’Oceano, e poiché [I,113,15] nessun fuoco può permanere vivo senza una qualche pastura, è necessario che esso sia simile o al fuoco d’uso domestico e alimentare, oppure a quello che è contenuto nei corpi viventi. Ma il fuoco richiesto per i nostri bisogni vitali, disperde e consuma ogni cosa, e dovunque si diffonde lascia distruzione e rovina. Per contro, il fuoco corporeo è vitale e salutare, conserva ogni cosa, la nutre, [I,113,20] la fa crescere, la sostenta e le conferisce sensibilità’. Cleante pertanto nega ogni dubbio circa a quale dei due tipi di fuoco sia simile quello del sole, perché anch’esso fa sì che ogni cosa fiorisca e si sviluppi secondo la sua specificità. Di conseguenza, siccome il fuoco del sole è simile a quelli presenti nei corpi viventi, è necessario che anche il sole sia un vivente, e che lo siano anche i restanti astri che sorgono nella celeste vampa chiamata [I,113,25] etere o cielo.

§ 2. Il cosmo e i fenomeni celesti

Frammenti n. 505-514

SVF I, 505

Gemino ‘Elem. Astron.’ p. 172, 13 Manitius. Alcuni degli antichi, [I,113,30] tra i quali vi è anche il filosofo Stoico Cleante, dichiararono che l’oceano si spande al di sotto della fascia torrida, frammezzo ai tropici.

SVF I, 506

Stobeo ‘Eclogae’ I, 26, 1, p. 219, 14 W. Per Cleante la luna è ignea ed ha un aspetto a cappello.

SVF I, 507

[1] Aezio ‘Placita’ II, 16, 1 (Dox. Gr. p. 345a). [I,113,35] Anassagora, Democrito e [I,114,1] Cleante ritengono che tutti gli astri si portino da oriente a occidente.

[2] Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 58 (Dox. Gr. p. 625). Anassagora, Democrito e Cleante ritengono che gli astri si portino da oriente a occidente.

SVF I, 508

[1] Aezio ‘Placita’ II, 14, 2 (Dox. Gr. p. 343). Gli altri Stoici ritengono che gli astri [I,114,5] siano sferici; Cleante, invece, che siano conici.

[2] Ps. Galeno ‘Hist. philos.’ 56a (Dox. Gr. p. 624). Cleante ritiene gli astri conici.

[3] Achille Tat. p. 133c. Cleante afferma che gli astri hanno forma conica.

[4] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ IV, 20, p. 105, 15 Ra. Lo Stoico Cleante ritiene gli astri conici.

SVF I, 509

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 48 (p. 79 Aucher). Orsù, facciamo fra di noi l’ipotesi che l’universo [I,114,10] sia ingenerato ed eterno, secondo quanto suggeriscono filosofi di chiara fama e quanto sottoscrivono Parmenide, Empedocle, Zenone, Cleante ed altri uomini divini: insomma un vero e proprio sacro consesso. Ebbene, cos’abbiamo da stupirci se da una materia ingenerata una certa sua parte si rigenera o si corrompe, [I,114,15] talora per effetto della provvidenza divina, talaltra per ossequio all’ordine delle cose? Infatti degli altri artefici neppur uno genera materia di suo, bensì essi tutti danno forma e figura secondo i canoni di un’arte alla materia che prendono per sé […] Pertanto, secondo questa ipotesi, dio non generò una prima materia uguale a se stessa per l’eternità , ma prese la materia che gli serviva, [I,114,20] e la usò per fare il cielo, la terra, le specie animali e vegetali e tutto il resto […] Ma ciò, non impedisce in alcun modo che esista una provvidenza, anche se si suppone che il mondo, insieme con la materia, sia ingenerato. […] In che modo? Perché caratteristico della provvidenza è non solo di creare e generare materia, ma anche di conservare e di tenere in ordine [I,114,25] quello che è stato fatto.

SVF I, 510

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1075d. Inoltre Cleante, nella sua gara a favore della conflagrazione universale, afferma che il sole assimilerà a sé e trasformerà in se stesso la luna e tutti i restanti astri. Ma allora gli astri, che pur sono dei, mentre danno il loro contributo alla conflagrazione universale cooperano [I,114,30] con il sole alla loro rovina. Sarebbe pertanto ben ridicolo che noi li supplicassimo per la nostra salvezza e li legittimassimo come salvatori degli uomini, quando per natura essi affrettano la loro stessa rovina e la loro eliminazione.

SVF I, 511

Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 18, VI, p. 100 Cohn-Reiter. [I,114,35] Al momento della conflagrazione universale il cosmo necessariamente muta, o in vampata o in raggi di luce: in vampata, come credeva Cleante; o in raggi di luce, come credeva Crisippo.

SVF I, 512

Stobeo ‘Eclogae’ I, 20, 1e, p. 171 W. [I,115,1] Ha il beneplacito di Zenone, di Cleante e di Crisippo l’affermazione che il fuoco muti la sostanza quasi in un seme; e che poi a partire da questo seme risulti di nuovo il buon ordine del cosmo tale e quale era in precedenza.

SVF I, 513

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 24. Quanto grande sia la massa di calore presente in ogni corpo è cosa che Cleante insegna anche con argomentazioni aggiuntive. [I,115,5] Egli infatti nega che vi sia alcun cibo così pesante da non essere digerito in un giorno e una notte; e sostiene che parte di questo calore è ancora presente negli escrementi che la natura elimina.

[2] 23. La faccenda sta in modo che tutte le cose che si alimentano e crescono contengono in sé una massa di calore, [I,115,10] senza la quale non potrebbero né alimentarsi né crescere. Infatti tutto ciò che è caldo ed igneo si muove ed agita di moto proprio, mentre ciò che è alimentato e s’accresce utilizza una qualche sorgente stabile e costante di moto la quale, quanto a lungo rimane in noi, tanto a lungo durano in noi vita e sensibilità, mentre quando il calore si raffredda e si estingue, allora noi moriamo e ci [I,115,15] estinguiamo.

SVF I, 514

Cornuto ‘Gr. Theol. Comp.’ 31, p. 62 Lang. Eracle è il tono presente in ogni cosa e per il quale la natura è potente, possente, invincibile, indomita, dispensatrice di potenza e di vigore anche alle singole parti […] [I,115,20] tanto che diventa difficile distinguere ciò ch’è proprio degli dei da ciò che le storie raccontano a proposito degli eroi. Forse la pelle di leone e la clava attribuitegli dall’antica teologia sarebbero state metafore di ciò. […] Ciascuna delle due sarebbe un simbolo di vigoria e di generosità d’animo, giacché il leone è il più vigoroso degli animali [I,115,25] e la clava la più forte delle armi. Anche la divinità sarebbe rappresentata come arciere per il fatto di penetrare ovunque e per il fatto che il decorso delle frecce ha in sé qualcosa di vibrante. […] Appropriatamente gli abitanti di Cos hanno tramandato che egli [Eracle] coabita con Ebe, come per dire che il corpo è più completo quando sia in compagnia dell’intelletto. Come infatti dice Euripide:

[I,115,30] le mani dei giovani sono più energiche nel compiere qualcosa,

ma gli animi dei più vecchi sono molto migliori’.

Io sotto sotto intendo come molto plausibile che ad Eracle convenga il servaggio presso la regina Onfale, poiché grazie ad esso gli antichi palesano che anche i più potenti fisicamente debbono subordinarsi alla ragione e fare ciò che da questa, cioè dalla voce divina, [I,115,35] è ingiunto; pur se ci tocca fare qualcosa che secondo una conoscenza teorica ed un’analisi logica pare assai femmineo. Voce divina che si potrebbe opinare non assurdamente essere designata appunto [I,116,1] con il nome di Onfale. Ed è fattibile ricondurre anche le dodici fatiche alla divinità, come fece pure Cleante; giacché non si deve ritenere che lo specioso ragionare ricopra ovunque il rango di ambasciatore.

§ 3. Gli animali

Frammenti n. 515-517

SVF I, 515

[1] Plutarco ‘De sollertia animalium’ p. 967e. [I,116,5] Pur essendo dell’avviso che gli animali non partecipano della ragione, Cleante soleva raccontare di essere capitato davanti ad uno spettacolo di questio genere. Alcune formiche venivano ad un formicaio che non era il loro, portando il cadavere di una formica. Allora diverse formiche risalivano dal formicaio come per avere un abboccamento con esse e poi vi ridiscendevano. Ciò accadde [I,116,10] due o tre volte, finché alcune formiche portarono su dal formicaio una larva, quale riscatto della formica morta.A quel punto le altre formiche sollevarono la larva e, dopo avere restituito il cadavere, se ne andarono con essa.

[2] Eliano ‘De nat. anim.’ VI, 50. Una storia di questo genere, si racconta, costrinse Cleante di Asso, suo malgrado ed a dispetto delle sue fortissime obiezioni contrarie, a fare una concessione agli animali e ad ammettere che anch’essi non sono destituiti di capacità di ragionare. [I,116,15] Capitò a Cleante d’essere seduto per una sosta altrimenti più lunga del solito, ed un gran numero di formiche gli stava intorno ai piedi. Cleante vede dunque che lungo un certo sentierino alcune formiche stanno trasferendo il cadavere di una formica alla dimora di formiche diverse e d’altra famiglia. Vede anche che mentre le formiche con il cadavere si fermano sulla soglia del formicaio, altre formiche [I,116,20] risalgono dal basso, si uniscono alle straniere come per uno scopo, poi ridiscendono giù; e questo fanno parecchie volte. Alla fine portano su una larva, come fosse il riscatto. Quelle lo prendono e consegnano il cadavere che avevano portato. A quel punto le altre formiche lo accolgono di buon grado, come se assistessero un figlio o un fratello.

SVF I, 516

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ VII, 6, 33, p. 849 Pott. [I,116,25] Perciò anche Cleante afferma che i maiali hanno un animo che tiene il luogo del sale, affinché le loro carni non imputridiscano.

SVF I, 517

Stobeo ‘Florilegium’ 4, 90, Vol. I, p. 240 Hense. Cleante soleva affermare che gli individui non educati <all’uso della diairesi> differiscono dalle belve soltanto per l’aspetto.

[I,116,30]

§ 4. L’animo umano

Frammenti n. 518-526

SVF I, 518

[1] Tertulliano ‘De anima’ c. 5. Cleante vuole che le somiglianze tra genitori e figli corrispondano come in uno specchio, non solo quanto ai lineamenti del corpo, ma anche quanto ai connotati dell’animo, ossia ai costumi, all’intelligenza e agli affetti. Somiglianza e dissomiglianza egli vuole che concernano ciò ch’è corpo, [I,116,35] e dunque che anche l’animo, in quanto corpo, sia soggetto a somiglianze e dissomiglianze. Parimenti egli vuole che ciò ch’è corpo e ciò ch’è incorporeo non possano agire l’uno sull’altro. Pertanto egli vuole che l’animo condivida le sofferenze del corpo, con il quale patisce quando questo sia leso da colpi, da ferite o da ulcerazioni; e che anche il corpo soffra con l’animo quando questo sia afflitto da preoccupazioni, angoscia o amore, a causa dell’indebolimento del compagno, come dimostranoil rossore del pudore e il pallore della paura. Pertanto, dal [I,117,5] fatto che l’animo comunica con le affezioni del corpo, si conclude ch’esso è corpo.

[2] Nemesio ‘De natura hominis’ p. 32. Cleante intreccia il seguente sillogismo. Non soltanto, egli afferma, noi diventiamo simili ai nostri genitori quanto al corpo, ma anche quanto all’animo: nelle nostre passioni, nei nostri caratteri e nelle nostre disposizioni. [I,117,10] Ma somiglianza e dissomiglianza concernono ciò ch’è corporeo, non ciò ch’è incorporeo. Pertanto l’animo è corpo […] Inoltre Cleante afferma: nulla di incorporeo è consentaneo ad un corpo, né lo è un corpo ad un incorporeo, bensì soltanto un corpo ad un corpo. Ora, l’animo è consentaneo al corpo quando questo è ammalato o tagliato; e il corpo è consentaneo all’animo, giacché esso arrossisce quando l’animo prova vergogna, e impallidisce quando l’animo prova paura. Pertanto l’animo è corpo.

[3] Tertulliano ‘De anima’ c. 25. Dato che, [I,117,15] secondo la testimonianza di Cleante, a causa della somiglianza dell’animo noi corrispondiamo come in uno specchio ai nostri genitori anche per intelligenza: ti prego, donde viene ciò se noi non siamo il prodotto di un seme dell’animo?

SVF I, 519

Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 20, 2. Quando Cleante sistema uno accanto all’altro i giudizi di Zenone e i giudizi degli altri filosofi della natura a proposito dell’animo e [I,117,20] li paragona, afferma che Zenone chiama l’animo un’esalazione dotata di sensibilità, proprio come diceva Eraclito. Volendo infatti palesare che gli animi esalati sono sempre cognitivi, Eraclito li rassomigliò ai fiumi, dicendo così: “Negli stessi fiumi altre sono le acque che affluiscono e altre quelle che defluiscono”. Ed anche: “Gli animi esalano [I,117,25] da umori umidi”. Zenone dichiara dunque, similmente ad Eraclito, che l’animo è un’esalazione; e che esso sia dotato di sensibilità lo afferma per questo….

SVF I, 520

[1] Longino presso Eusebio ‘Praeparatio evangelica’ XV, 21, 3. Uno potrebbe giustamente sdegnarsi con Zenone e con Cleante per avere discorso dell’animo [I,117,30] in modo così fortemente oltraggioso, e per avere entrambi affermato la stessa cosa, ossia che l’animo è un’esalazione del corpo solido.

[2] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ V, 27, p. 130, 2 Rae. Entrambi (Zenone e Cleante) infatti affermano che l’animo è un’esalazione del corpo solido.

SVF I, 521

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ II, 8, p. 248 M. [I,117,35] Se egli (Diogene di Babilonia) seguisse Cleante, Crisippo [I,118,1] e Zenone quando affermano che l’animo trae nutrimento dal sangue e che la sua sostanza è pneuma….

SVF I, 522

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 157. Cleante sostiene che tutti gli animi continuano ad esistere fino alla conflagrazione universale; per Crisippo, invece, [I,118,5] soltanto gli animi dei sapienti.

SVF I, 523

Aezio ‘Placita’ IV, 5, 11 (Dox. Gr. p. 392b). Pitagora, Anassagora, Platone, Senocrate, Cleante affermano che la mente fa il suo ingresso dall’esterno.

SVF I, 524

‘Scholia’ ad Nicol. Ther. 447, p. 36, 13 Keil. I denti che [I,118,10] spuntano successivamente si chiamano ultimi molari poiché mandano ad effetto e compimento l’età matura. Questi denti spuntano infatti quando noi siamo ormai giovanotti. Cleante li chiama però denti del giudizio. Ora, denti semplicemente lo sono. Del giudizio, perché quando essi vengono su ci spunta anche l’assennatezza della mente.

SVF I, 525

Seneca ‘Epistulae morales’ CXIII, 23. Tra Cleante [I,118,15] e il suo discepolo Crisippo non c’è accordo su cosa sia l’atto del ‘camminare’. Cleante afferma che è uno spirito vitale spedito dall’egemonico fino ai piedi; Crisippo invece che è l’egemonico stesso che si estende fino ai piedi.

SVF I, 526

Apollonio ‘Lex. Homer.’ p. 114 Bekker. Il filosofo Cleante afferma che la parola ‘molu’ va spiegata allegoricamente, [I,118,20] come ciò grazie a cui gli impulsi e le passioni sbolliscono.

§ 5. Il destino

Frammento n. 527

SVF I, 527

[1] Epitteto ‘Manuale’ c. 53.

“Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato,

[I,118,25] là dove sono stato da voi una volta ordinato.

Intrepido a voi m’accompagnerò; e se poi non vorrò,

divenuto cattivo, nondimeno a voi m’accompagnerò”.

[2] Seneca ‘Epistulae morales’ CVII, 10. Ed ora rivolgiamoci a Giove, dal cui governo è retta l’immensa mole del mondo, [I,118,30] come fece Cleante in versi assai eleganti; versi che io mi permetto di tradurre in latino sull’esempio di quell’uomo eloquentissimo che fu Cicerone. [I,119,1] Se ti piaceranno, ti saranno buoni consiglieri; se ti dispiaceranno, riconoscerai almeno che in ciò ho seguito l’esempio di Cicerone:

“Conducimi o padre dominatore dell’alto cielo

dovunque ti piaccia: io non esiterò un istante ad ubbidirti.

Eccomi a te sollecito. Se mi opponessi,

ti dovrei comunque seguire, [I,119,5] ma tra i gemiti,

e subirei da vizioso ciò che m’era lecito fare da virtuoso.

Ecco, il fato guida chi lo segue di buon grado

 e trascina a viva forza chi gli è riluttante.

§ 6. La natura degli dei

Frammenti n. 528-547

SVF I, 528

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ II, 13. Il nostro Cleante [I,119,10] parlò di quattro cause che nell’animo umano originarono le nozioni riguardanti gli dei. La prima causa egli la pose nell’idea di cui ho appena parlato, che sorgerebbe dalla premonizione degli eventi futuri. La seconda l’avremmo desunta dalla consistenza dei benefici che godiamo per la mitezza del clima, la fertilità del terreno e l’abbondanza di tante altre condizioni favorevoli. [I,119,15] La terza deriva dal terrore che nell’animo inducono i fulmini, le tempeste, le nuvole, le nevi e le grandinate, la devastazione, le pestilenze, i terremoti e i frequenti bradisismi; le piogge di pietre e di gocce di sangue, smottamenti e sprofondamenti del terreno e di tanto in tanto la nascita di forme mostruose e innaturali sia fra gli uomini sia fra gli animali; e poi ancora dal terrore suscitato dalla visione [I,119,20] di fuochi celesti o di quelle stelle che i Greci chiamano comete e noi a ricciolo […] o di un doppio sole […]: tutte cause per le quali gli uomini, sgomenti, sospettarono l’esistenza di una forza celeste e divina. La quarta e più rilevante causa, fu la regolarità dei moti e delle rivoluzioni del cielo, la distinta varietà e l’ordinata bellezza del sole, della luna e di tutti i corpi celesti, il cui stesso aspetto indicherebbe trattarsi di entità frutto non del caso.

[2] III, 16. Infatti Cleante, come tu dicevi, ritiene che siano quattro i modi in cui nell’animo umano hanno preso forma le nozioni riguardanti degli dei. Il primo modo è […] è quello suscitato dalla premonizione degli eventi futuri; il secondo dagli spaventi che suscitano le tempeste e gli altri cataclismi; il terzo dalla comodità ed abbondanza di cose [I,119,30] a nostra disposizione; mentre il quarto è legato ai movimenti ordinati degli astri ed alla regolarità dei cieli.

SVF I, 529

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ IX, 88. Cleante usava argomentare interrogativamente in questo modo. Se esiste una natura migliore di un’altra, allora potrebbe esistere una natura migliore di tutte le altre. Se esiste un animo migliore di un altro, allora potrebbe esistere un animo migliore di tutti gli altri. E pertanto se esiste un animale [I,119,35] migliore di un altro, allora potrebbe esistere un animale più eccellente di tutti. Le cose di questo genere, infatti, sono per natura tali da non ricadere nell’ambito di serie infinite. Dunque né la natura, né [I,120,1] l’animo, né l’animale potrebbero migliorare all’infinito. Però esiste un animale migliore di un altro: per esempio, un cavallo è migliore di, tanto per dire, una tartaruga; un toro di un asino, un leone di un toro. E l’uomo a sua volta soverchia per eccellenza quasi tutti gli animali terrestri [I,120,5] quanto a disposizione fisica e d’animo. Pertanto l’uomo potrebbe essere l’animale più eccellente e migliore di tutti. Eppure l’uomo può anche essere un animale nient’affatto eccellente, come quando procede nel vizio e passa tutto, o almeno la maggior parte del suo tempo, in esso (e se mai raggiunge la virtù, la raggiunge tardi e al ponente della vita); un animale caduco, debole, bisognoso di miriadi [I,120,10] di soccorsi quali cibo, ricoveri, e di varie altre cure per il corpo. Corpo il quale ci sta sopra al modo di un crudele tiranno che richiede il tributo giornaliero e che minaccia malattie e morte se noi non procurassimo di lavarlo, ungerlo, vestirlo e cibarlo. Sicché l’uomo non è un animale perfetto [I,120,15] ma imperfetto, anzi molto lontano dalla perfezione. Dunque se l’animale perfetto e migliore di tutti esistesse, esso sarebbe migliore dell’uomo, completamente ricolmo di tutte le virtù e non suscettibile di un qualunque vizio. Ma questo non differirà da dio, anzi è dio.

SVF I, 530

Cicerone ‘De natura deorum’ I, 37. Cleante, che era stato uditore di Zenone, [I,120,20] in accordo con <Aristone> che ho appena nominato, una volta dice che il mondo stesso è dio, un’altra riserva questo nome alla mente e all’animo della natura intesa nella sua interezza; un’altra ancora non esita ad affermare che dio è l’ardore ultimo e altissimo, dovunque circonfuso ed estremo, che tutto cinge e comprende e che viene chiamato etere [I,120,25] . Sempre lui, quasi delirando, nei libri che scrisse ‘Contro il piacere’, a volte dà agli dei una forma e un aspetto, a volte attribuisce tutta la divinità agli astri, un’altra ancora ritiene che [I,120,30] nulla sia più divino della ragione.

SVF I, 531

[1] Filodemo ‘De pietate’ cp. 9 (DDG 544). Ragione capeggiante gli eventi del cosmo….

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 37. <Cleante> un’altra volta ritiene che nulla sia più divino della ragione.

[I,120,35]

SVF I, 532

[1] Aezio ‘Placita’ I, 7, 17 (DDG p. 302b). Diogene, Cleante ed Enopide <sostengono> che la divinità è l’animo del cosmo.

[2] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 37. <Cleante> un’altra volta [I,121,1] riserva questo nome alla mente e all’animo della natura intesa nella sua interezza.

[3] Minucio Felice ‘Octavius’ c. 19, 10. Teofrasto, Zenone, Crisippo e Cleante danno una molteplicità di definizioni di dio, però tutti si rifanno all’unico principio della provvidenza. Cleante, infatti, talora parla di dio come intelletto, talora come animo, oppure etere, [I,121,5] oppure, e questa è la definizione più frequente, come ragione.

SVF I, 533

Tertulliano ‘Apologeticus’ XXI, 10. Tutte queste denominazioni Cleante le riassume nella parola ‘pneuma’, che afferma permeare l’universo.

SVF I, 534

[1] Cicerone ‘De natura deorum’ I, 37. <Cleante> un’altra volta non esita ad affermare che dio è l’ardore ultimo e altissimo, dovunque circonfuso ed estremo, che tutto cinge e comprende e che viene chiamato etere.

[2] Lattanzio ‘Divinae institutiones’ I, 5. Cleante [I,121,10] ed Anassimene sostengono che il sommo dio è l’etere.

SVF I, 535

[1] Plutarco ‘Quom. adol. poet. aud. debeat’ p. 31e. Bisogna poi prestare orecchio senza trascuratezza alle parole <dei poeti>, ma anche schivare la puerilità di un Cleante. Giacché egli è in vena d’ironia quando, simulando di commentare il verso [I,121,15]

‘Zeus padre e signore dell’Ida’

e il verso

‘Zeus signore di Dodona’

propone di unire le due ultime parole del secondo verso [‘ana’ e ‘Dodona’] in una sola, come se l’aria che esala dalla [I,121,20] terra, a causa della ‘su-dazione’, fosse ‘su-dativa’.

[2] ‘Scholia’ BL Hom. XVI, 233.

‘Zeus signore <di> Dodona’

Alcuni leggono ‘anadodoneo’, in una sola parola, in relazione alla ‘su-dazione’ dei beni.

SVF I, 536

Plutarco ‘De communibus notitiis’ p. 1075a-c. Ma Crisippo [I,121,25] e Cleante dopo avere, per così dire, infarcito a parole di dei il cielo, la terra, l’aria e il mare; a nessuno di tali e tanti personaggi hanno riservato vita imperitura e sempiterna, ad eccezione di Zeus, nel quale essi fanno consumare tutti gli altri. […] Queste assurdità non […] conseguono alle loro dottrine. Sono loro stessi, invece, nei loro scritti sugli Dei, la Prònoia, il Destino [I,121,30] e la Natura, a dire a gran voce e in termini precisi che tutti gli altri dei sono stati soggetti a nascita nel passato e saranno soggetti a perire in futuro nel fuoco, dal momento che secondo loro essi sono fusibili come fossero di cera o di stagno.

SVF I, 537

Stobeo ‘Eclogae’ I, 1, 12, p. 25 W. Di Cleante.

‘Tu degli immortali il più glorioso, dai molti nomi, onnipotente sempre,

[I,121,35] o Zeus, autore primo della natura, che ogni cosa con la legge piloti,

salve! Per tutti i mortali è normale rivolgerti la parola:

del tuo genere siamo, noi, messi per sorte a parte della ragione,

[I,122,1] noi soli, tra quante creature mortali vivono e si muovono sulla terra.

A te perciò io leverò il mio inno e di te sempre canterò il potere;

a te, cui questo cosmo intorno alla terra ruotante tutto ubbidisce,

 dovunque lo conduca; e di buon grado che si lascia da te padroneggiare.

[I,122,5] Di tal fatta hai ministro sotto le invincibili mani,

forcuta, fiammante, sempreviva la folgore,

sotto il cui colpo le opere tutte di natura soccombono;

con cui tu indirizzi la comune ragione che tutto frequenta,

commista dei grandi e piccoli astri al fulgore

[I,122,10] e per cui divenisti re supremo e sì grande per sempre.

Nessuna opera sulla terra si compie senza di te, o nume,

né alcuna nell’etereo cielo divino e neppure sul mare;

tranne quanto i viziosi operano con le loro follie.

E però tu ben sai il troppo a misura ridurre,

[I,122,15] il disordine all’ordine; e caro t’è anche il non caro.

Così tutte le cose hai conciliato in unità, le buone alle malvagie;

sicché la sempre vivente ragione di tutte è diventata una sola.

Ma quanti tra i mortali sono viziosi, la ragione abbandonano fuggendo;

sventurati! che pur sempre bramando il possesso dei beni

[I,122,20] non vedono dentro di loro la legge divina comune per tutti, né danno ascolto

a ciò cui ubbidendo con intelligenza potrebbero avere una buona vita.

Essi invece, insensati, impellono chi ad un male chi ad un altro:

alcuni, per amor di fama, industriandosi in funeste contese,

altri al lucro rivolti senza compostezza alcuna,

[I,122,25] altri ancora ai sollazzi e alle piacevolezze del corpo.

<Poi, odiando i virtuosi,> essi si trascinano da un male all’altro

e diventano in fretta l’assoluto opposto di questi.

Ma tu, o Zeus, d’ogni dono datore, delle nere nubi adunatore, dalla vivida folgore,

preserva gli uomini dalla rovinosa ignoranza;

[I,122,30] disperdila, padre, dall’animo e fa sì che esso raggiunga

[I,123,1] la sapienza; nella quale fidente, tutto con giustizia tu piloti.

Affinché, da te onorati, possiamo ricambiarti l’onore

levando inni continui alle tue opere, come si conviene

a chi è mortale; giacché non v’è distinzione maggiore per gli uomini

[I,123,5] né per gli dei che quella di inneggiare nella giustizia alla legge comune sempre per tutti.

SVF I, 538

Epifanio ‘Adversus haeres.’ III, 2, 9 (Dox. Gr. p. 592). Cleante afferma che virtù sono i piaceri. Egli usava chiamare ‘uomo’ soltanto l’animo. Affermava che gli dei sono figure mistiche e sacre invocazioni. Era dell’avviso che il sole sia un portatore di fiaccola e il cosmo una realtà mistica. [I,123,10] Soleva anche dire che quanti possiedono il divino sono officianti di misteri.

SVF I, 539

Filodemo ‘De pietate’ cp. 13 (DDG 547b). Nel secondo libro ‘Sugli dei’ Crisippo, così come pure Cleante, si sforza di conciliare le proprie opinioni con quelle che fanno riferimento ad Orfeo e Museo [I,123,15] ed alle opere di Omero, Esiodo, Euripide e di altri poeti.

SVF I, 540

Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVII, 8. Cleante <disse che il sole è chiamato Apollo> ‘perché il sole sorge in zone del sole sempre diverse’ cioè in greco ἀπ’ἄλλων καὶ ἄλλων

SVF I, 541

Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVII, 36. Cleante osserva che Apollo è chiamato Licio, perché come i lupi (in greco λύκοι) rapiscono le pecore, [I,123,20] così anch’egli con i suoi raggi rapisce l’umidità.

SVF I, 542

[1] Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVII, 31. Secondo Enopide <Apollo-Sole> viene chiamato ‘Loxìas’ perché procede muovendosi lungo un’orbita obliqua da occidente ad oriente. [I,123,25] Oppure, come scrive Cleante, perché si muove lungo percorsi ad elica, che sono anch’essi obliqui.

[2] Achille ‘Isagoge’ 169A. Lo zodiaco è chiamato da alcuni ‘Loxìas’ poiché il sole procede in esso lungo percorsi obliqui. E si crede che Apollo, che i poeti chiamano ‘Loxìas’, sia nel sole.

[3] Cornuto ‘Grec. Theol. comp.’ 32. [I,123,30] Essendo obliqui e duri da capire i suoi responsi oracolari, <Apollo> ha avuto il nome di ‘Loxìas’. Oppure dall’obliquità della marcia del sole nello zodiaco.

SVF I, 543

[1] Fozio ‘Biblioth.’ s.v. ‘leskai’ . Cleante dice che sono state dedicate ad Apollo pubbliche gallerie, simili ad esedre, [I,123,35] e che da alcuni egli è stato soprannominato ‘Leschenorio’.

[2] Cornuto ‘Grec. Theol. comp.’ 32, p. 69. [I,124,1] […] e diedero <ad Apollo> l’appellativo di ‘Leschenorio’, perché di giorno gli uomini stanno insieme nelle pubbliche gallerie per conversare, mentre di notte essi si riposano ognuno a casa propria.

SVF I, 544

‘Scholia’ in Hom. Iliad. III, 64. [I,124,5] Cleante dice che in Lesbo si onora un’Afrodite d’oro.

SVF I, 545

Ateneo ‘Deipnosophistai’ XIII, p. 572f. Presso gli Abideni, come afferma Panfilo, vi è un tempio di Afrodite prostituta. Neante [Cleante] racconta infatti nelle sue ‘Leggende’ che quando la città era tenuta in schiavitù, [I,124,10] i soldati di guarnigione, dopo avere offerto sacrifici ed essersi ubriacati, presero anche con sé molte cortigiane. Una di queste, quando li vide addormentati, tolse loro le chiavi, oltrepassò il muro ed avvisò gli abitanti di Abido. Essi subito arrivarono in armi, levarono di mezzo le guardie, si impossessarono delle mura e, una volta divenuti padroni della propria libertà, in segno [I,124,15] di ringraziamento alla prostituta innalzarono il tempio di Afrodite prostituta.

SVF I, 546

Macrobio ‘Saturnalia’ I, XVIII, 14. Per questo Cleante scrive che <Dioniso> fu denominato così da ‘dianùsai’ (=compiere), perché [I,124,20] nella sua corsa quotidiana da oriente ad occidente, dando origine al giorno e alla notte, compie tutto il percorso del cielo.

SVF I, 547

Plutarco ‘De Iside et Osiride’ 66 p. 377d. Cleante afferma da qualche parte che Persefone è lo pneuma che si porta e si distrugge nei frutti della terra.

[I,124,25] § 7. La Prònoia e la mantica

Frammenti n. 548-551

SVF I, 548

Filone Alessandrino ‘De providentia’ II, 74 (p. 94 Aucher). La moltitudine dei pianeti serve all’universo; seppure è vero che sono soli gli uomini che dispongono di tempo libero a poter enumerare l’utilità di ciascuno di essi. Queste utilità ci sono note non soltanto grazie alla ragione ma anche grazie ai sensi perché, come dicono [I,124,30] Crisippo e Cleante, la provvidenza nulla trascurò di quanto pertiene alla più certa ed opportuna distribuzione delle utilità. Perché se fosse stato meglio distribuire diversamente le cose del mondo, la provvidenza avrebbe composto il mondo a quel modo per cui nulla fosse da impedimento a dio.

SVF I, 549

[1] ‘Scholia’ in Hom. Odis. I, 52 (Cramer Anecd. Oxon. III, 416). [I,124,35] Cleante legge la parola ‘oloòfronos’ con lo spirito aspro: ‘di colui che si dà pensiero dell’intero cosmo’.

[2] Eustazio in Hom. p. 1389, 55. Atlante […] alcuni lo intendono come allegoria [I,125,1] della Prònoia instancabile, infaticabile, causa di tutto; e pensano un siffatto Atlante darsi pensiero dell’intero cosmo, così come ritenevano preoccuparsi dell’intero cosmo chi di esso si dà pensiero. Perciò si dice che anche Cleante pronunciasse con lo spirito aspro la ‘o’ iniziale della parola.

[3] Cornuto c. 26. Atlante è detto [I,125,5] ‘darsi pensiero dell’intero cosmo’ perché di esso si preoccupa e provvede alla salvezza di tutte le sue parti.

SVF I, 550

Cicerone ‘De divinatione’ I, 6. Quasi tutti gli Stoici difendevano <quelle pratiche divinatorie>, giacché Zenone aveva sparso nei suoi commentari una sorta di semi, che Cleante rese poi ancor più fertili.

SVF I, 551

Calcidio ‘In Timaeum’ cp. 144. Da ciò deriva che quanto avviene [I,125,10] secondo il fato, avviene anche secondo provvidenza; e parimenti ciò che avviene per provvidenza accade anche secondo il fato, così almeno pensa Crisippo. Per altri, invece, è vero che quanto avviene per decreto della provvidenza avviene fatalmente, ma non è vero che quanto avviene fatalmente derivi dalla provvidenza. Quest’ultima è la posizione di Cleante.

C. [I,125,15] Frammenti di Etica

§ 1. Il sommo bene

Frammenti n. 552-556

SVF I, 552

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 6a, p. 76, 3 W. Cleante […] così la restituì: “ ‘Sommo bene’ è il vivere in modo ammissibile con la ragione e la natura”.

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 87. [I,125,20] Zenone […] disse che il sommo bene è vivere in modo ammissibile con la natura, il che significa vivere secondo virtù; giacché è la nostra natura a condurci alla virtù. Similmente parla Cleante nel suo libro ‘Sul piacere’.

[3] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, 21, 129 p. 497 Pott. Cleante <ritiene che il sommo bene sia> il vivere in modo ammissibile con la natura *** nell’operare razionalmente, la qual cosa egli discerneva giacere nella [I,125,25] selezione delle cose che sono secondo natura.

SVF I, 553

[1] Cicerone ‘De finibus’ II, 69. Ti farà vergognare, dico, il quadro che con vera maestria Cleante soleva dipingere a parole. Egli sollecitava infatti gli ascoltatori ad immaginare il Piacere ritratto in un dipinto, assiso in trono, con uno stupendo vestito e ornamenti sfarzosi. A sua disposizione quali ancelle ci sono le virtù, [I,125,30] che altro non farebbero ed a nessun altro compito si dedicherebbero che a servire il piacere; e che ogni tanto gli bisbigliano all’orecchio (se si potesse sentire quello che esse dicono nel dipinto) di stare attento, di non fare qualche imprudenza capace di offendere l’animo degli uomini, o qualcosa dal quale sorgerebbe un dolore. ‘Noi virtù siamo nate per servirti e non abbiamo altro compito’.

[2] Agostino ‘De civitate dei’ V, 20. I filosofi che pongono [I,125,35] il sommo bene dell’uomo nella sola virtù, per svergognare quei filosofi che approvano le virtù, [I,126,1] ma ne commisurano il fine ai piaceri del corpo, e che quindi ritengono i piaceri del corpo appetibili di per sé e le virtù soltanto in vista di essi, sogliono dipingere a parole un certo quadro. In questo quadro il piacere è assiso su un trono regale come una sensuale regina e le virtù le sono sottomesse come ancelle in attesa di un cenno per eseguire i suoi ordini. [I,126,5] Essa comanda alla prudenza di vigilare assiduamente affinché il piacere regni e sia sano e salvo; alla giustizia di dispensare tutti i favori che può per procurare le amicizie necessarie ai comodi del corpo e di non offendere nessuno, per evitare che il piacere non possa più vivere al sicuro per avere trasgredito le leggi; alla fortezza, nel caso essa regina, cioè il piacere, incorresse [I,126,10] in un dolore corporale che non sia causa di morte, di trattenerla saldamente in stato di coscienza così da lenire le punture del dolore presente con il ricordo delle sue trascorse delizie; alla temperanza di prendere solo moderate quantità di cibo, pur essendo alcuni allettanti, affinché, per via di smodatezza, qualcosa di nocivo non turbi la salute e comprometta gravemente il piacere, [I,126,15] che gli Epicurei dichiarano essere sommo quando il corpo è sano. Ecco dunque le virtù, con tutta la gloria del loro rango ridotte a servire il piacere sotto forma di un’imperiosa e disonesta donnicciola. Questi filosofi dicono che nulla c’è di più ignominioso e deforme di questa raffigurazione, né vista meno sopportabile agli occhi dei virtuosi: e dicono la verità.

SVF I, 554

[1] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 6e, p. 77, 21 W. [I,126,20] Felicità è il sereno fluire dell’esistenza. Anche Cleante usa questa definizione nelle sue compilazioni. La usa anche Crisippo, e lo fanno tutti i loro successori, dicendo che la felicità è non altro che una vita felice, seppure affermino che la felicità è esposta come ‘scopo’, mentre [I,126,25] centrare la felicità è il ‘fine’, il che appunto è lo stesso che essere felici.

[2] Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 30. E la felicità, come esplicitarono i seguaci di Cleante, è il sereno fluire dell’esistenza.

SVF I, 555

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 89. Per natura delle cose alla quale bisogna vivere in modo conseguente, Crisippo intende sia quella comune alle cose tutte, sia quella peculiarmente umana. [I,126,30] Cleante invece intende per natura cui conformarsi soltanto quella a tutte le cose comune, e non anche quella particolare dell’individuo.

SVF I, 556

Stobeo ‘Florilegium’ 6, 66 Vol. I, p. 304 Hense. Cleante usava dire che se il ‘fine’ è il piacere fisico, allora la saggezza è stata data agli uomini per il loro male.

[I,126,35] § 2. Soltanto il bene è utile

Frammenti n. 557-558

SVF I, 557

[1] Clemente d’Alessandria ‘Protrept.’ VI, 72, p. 61 Pott. Cleante di Asso, il filosofo Stoico, che ci mostra non una teogonia poetica [I,127,1] ma una verace teologia, non celò quale fosse il suo pensiero sul divino:

‘Tu mi domandi quale cosa sia il bene? Allora ascolta:

quel che è ben posizionato, giusto, sacrosanto, pio,

[I,127,5] padrone di se stesso, proficuo, bello, doveroso,

austero, franco, utile sempre,

capace di dominare la paura e l’afflizione, vantaggioso, calmante,

giovevole, di cui compiacersi, sicuro, amico,

onorevole, <grato>, ammissibile con la ragione,

 [I,127,10] glorioso, non vanitoso, solerte, mite, veemente,

cronico, irreprensibile, sempre perdurante’.

[2] ‘Stromata’ V, 14, 110, p. 715 Pott. In un poema sul divino, lo Stoico Cleante ha scritto queste parole. Ascolta…

[I,127,15]

SVF I, 558

[1] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ II, 22, 131, p. 499 Pott. [I,127,20] Perciò Cleante, nel secondo libro ‘Sul piacere’, afferma che Socrate insegnava in ogni occasione come l’uomo giusto e l’uomo felice siano la stessa e identica persona, e inoltre che malediceva il primo essere umano che aveva discriminato il giusto dall’utile, poiché aveva compiuto un’operazione empia. E davvero empi sono coloro che separano l’utile [I,127,25] dal giusto secondo la legge.

[2] Cicerone ‘De officiis’ III, 11. E così ci è stato tramandato che Socrate soleva esecrare quanti per primi opinarono di poter fare a brani l’unità di queste cose che sono invece per natura inseparabili. E sulla linea di Socrate si posero poi gli Stoici, per i quali tutto ciò che è moralmente onesto è anche utile, e per i quali non esiste cosa utile che non sia anche moralmente onesta.

[3] ‘De legibus’ I, 33. Rettamente Socrate [I,127,30] soleva esecrare chi per primo aveva disgiunto l’utile dal diritto naturale: questa, si lamentava, è l’origine di tutti i mali.

§ 3. Gli indifferenti

Frammenti n. 559-562

SVF I, 559

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 3, 17, p. 655 Pott. In un certo qual modo [I,127,35] nel carme poetico del filosofo Cleante sono scritte cose simili:

‘Non guardare all’opinione della maggioranza, volendo diventare di colpo sapiente,

e non temere le dicerie spregiudicate e spudorate dei più.

[I,128,1] La moltitudine, infatti, ha determinazioni né intelligenti, né giuste,

né belle; in pochi uomini questo potresti trovare’.

SVF I, 560

Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ V, 14, 110, p. 715 Pott. Proprio Cleante, per screditare tacitamente l’idolatria delle maggioranze, [I,128,5] aggiunge:

‘Chiunque bada all’opinione della maggioranza

come se, grazie ad essa, egli potesse centrare un qualche bene,

non è un uomo libero’.

SVF I, 561

‘Mantiss. Proverb. cent.’ I, 85; ‘Paroem. Graec.’ II, p. 757. Di Cleante.

[I,128,10] ‘È meglio sentir parlar male di sé che parlar male’.

SVF I, 562

[1] Plutarco ‘De aud. poet.’ p. 33c. [I,128,15] Onde sono non maldestre le correzioni di cui si servirono sia Cleante che Antistene. Quest’ultimo […]; Cleante, invece, a proposito della ricchezza di denaro, i versi (di Euripide):

‘dare agli amici e, se il corpo cade in una malattia,

salvarlo con spese’

li [I,128,20] cambiò così:

‘dare alle prostitute e, se il corpo cade in una malattia,

aggravarla con spese’

[2] Dione Crisostomo ‘Orationes’ VII, 102. Proprio a questi versi (di Euripide) ha obiettato uno [I,128,25] dei maggiori filosofi; e nessuno, a mio parere, potrebbe affermare che egli abbia obiettato ad essi e a quelli di Sofocle sulla ricchezza di denaro, per ambizione di vittoria. A quelli (di Euripide) egli ha obiettato un poco, a quelli di Sofocle un po’ di più; e non, come stiamo facendo noi ora, a lungo, in quanto lì per lì egli non aveva molta potestà di dilungarsi, ma ne scriveva nei libri.

[I,128,30] § 4. La virtù

Frammenti n. 563-569

SVF I, 563

[1] Plutarco ‘De Stoicorum repugnantiis’ p. 1034d. Cleante, negli ‘Appunti di Fisica’ afferma che “il tono è una botta di fuoco; ed esso, quando diventi nell’animo tale da essere sufficiente a realizzare i progetti, [I,128,35] si chiama potenza e potere”. Poi aggiunge testualmente: “Questa potenza e questo potere, se si ingenera in circostanze nelle quali manifestamente ci si deve mantenere saldi, [I,129,1] è padronanza di sé; se in circostanze nelle quali bisogna resistere, è virilità; nei casi che coinvolgono meriti, è giustizia; nel caso di scelte e di avversioni è temperanza”.

[2] Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 5, p. 62, 24 W. E similmente, come la potenza del corpo è un idoneo tono dell’apparato neuromuscolare, così pure [I,129,5] la potenza dell’animo è un tono idoneo nel determinare e nell’effettuare qualcosa oppure no.

SVF I, 564

[1] Temistio ‘Orationes’ II, p. 27c. Se, a sua volta, qualcuno dicesse che è adulazione paragonare un re ad Apollo Pizio, Crisippo e Cleante non ne converrebbero con voi; e neppure l’intera etnia filosofica degli Stoici, i quali sono dell’avviso che identiche siano la virtù e la verità [I,129,10] dell’uomo e di dio.

[2] Proclo ‘In Platonis Timaeum’ p. 106 F. Gli Stoici hanno affermato che la virtù degli dei e degli uomini è identica.

[3] Cicerone ‘De legibus’ I, 25. La virtù è la stessa nell’uomo e in dio, e non è presente in alcun’altra creatura.

SVF I, 565

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 92. [I,129,15] I seguaci di Cleante, di Crisippo e di Antipatro affermano che le virtù sono più di quattro.

SVF I, 566

Stobeo ‘Eclogae’ II, p. 65, 7 W. Nulla vi è frammezzo alla virtù e al vizio. Tutti gli uomini hanno dalla natura le risorse per la virtù e, secondo Cleante, è come se avessero la ragione dei versi semigiambi. [I,129,20] Laonde quando sono imperfetti, sono insipienti; mentre quando sono perfetti, sono virtuosi.

SVF I, 567

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 91. Crisippo nel primo libro ‘Sul sommo bene’, Cleante e Posidonio nei ‘Protrettici’ affermano che la virtù è insegnabile.

SVF I, 568

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 127. Per Crisippo la virtù [I,129,25] si può buttar via. Cleante, invece, sostiene che non si può buttar via. Secondo Crisippo la si può buttar via per ubriachezza e malinconia. Secondo Cleante essa non può esser buttata via a causa della saldezza delle apprensioni certe.

SVF I, 569

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 128. Ha il loro beneplacito anche l’uso della virtù in ogni circostanza, come affermano i seguaci di Cleante. Infatti essa non può essere persa; e l’uomo virtuoso usa, in ogni tempo, un animo che è perfetto.

[I,129,30] § 5. Le passioni

Frammenti n. 570-575

SVF I, 570

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ V, 6, p. 456 M. Egli afferma che il punto di vista di Cleante sulla parte passionale dell’animo appare da questi versi:

[I,129,35] [Ragione] – Cos’è mai che vuoi, o Rancore? Dimmelo

[Rancore] – Che tu faccia, o Ragione, tutto ciò che io voglio

[I,130,1] [Ragione] – Parli da re; però comunque ripetilo

[Rancore] – Che le cose per cui smanio, avvengano!’

Posidonio afferma che questo scambio di battute è di Cleante e che mostra con evidenza il suo punto di vista sulla parte passionale dell’animo, [I,130,5] se appunto ha fatto dialogare l’un l’altro Ragione e Rancore.

SVF I, 571

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ IX, 1, p. 653 M. Nella sua trattazione ‘Sulle passioni’ Posidonio mostra che noi siamo governati da tre facoltà: la concupiscente, l’irascibile e la raziocinante. Posidonio mostrò poi che anche [I,130,10] Cleante è della stessa opinione.

SVF I, 572

Galeno ‘De Hippocratis et Platonis placita’ III, 5, p. 299 M. Non soltanto Crisippo, ma anche Cleante e Zenone sono pronti a ribadire che le paure, le afflizioni e tutte quante le passioni di questo genere hanno la loro sede nel cuore.

SVF I, 573

Stobeo ‘Florilegium’ 6, 3, Vol. I, p. 281 Hense. [I,130,15]

‘Chiunque tollera di smaniare per una brutta azione

certo la farà, qualora ne abbia l’occasione’.

SVF I, 574

Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ XI, 74. Cleante nega che il piacere della carne sia secondo natura, al modo che non è secondo natura una spazzola, e che esso [I,130,20] abbia valore nella vita.

SVF I, 575

Stobeo ‘Florilegium’ 108, 59 Mein. Cleante soleva dire che l’afflizione è una paralisi dell’animo.

§ 6. La consolazione

Frammenti n. 576-577

SVF I, 576

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 76. Ci sono persone che reputano quale unico dovere di chi intende consolare qualcuno il dirgli che ‘Quello non è affatto un male’, come [I,130,25] soleva fare Cleante.

SVF I, 577

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ III, 77. Cleante in verità consola il sapiente, il quale di consolazione non manca. Difatti, se tu persuadessi chi è in lacrime che nulla è male se non ciò ch’è moralmente deforme, tu gli sottrarresti della stoltezza ma non del lutto: altro è il tempo per insegnarglielo. Non mi sembra che Cleante abbia pienamente compreso ciò, [I,130,30] ossia che talvolta l’afflizione può essere suscitata proprio da ciò di cui Cleante stesso parlava come di un sommo male.

§ 7.Il dovere

Frammenti n. 578-586

SVF I, 578

[1] Seneca ‘De beneficiis’ VI, XII, 2. Colui che bada soltanto a se stesso e ci giova perché questo è il solo modo che ha di giovare a se stesso, [I,130,35] secondo me si comporta come chi …. fa diventare i propri schiavi ben pasciuti allo scopo di venderli con maggiore profitto [I,131,1] …. giacché, come afferma Cleante, c’è una gran differenza tra beneficio e compravendita.

[2] II, 31, 2. Chi fa un beneficio non voleva che gliene venisse qualcosa in cambio; altrimenti non di un beneficio si tratta bensì di una compravendita.

SVF I, 579

Seneca ‘De beneficiis’ VI, X, 2. La semplice e nuda volontà [I,131,5] non reca di per sé ad effetto un beneficio, giacché non si dà beneficio se alla pur ottima e piena volontà di effettuarlo viene a mancare il concorso di fortuite circostanze esteriori; così come, allo stesso modo, non si dà beneficio se la piena volontà non ha anticipato le circostanze esteriori. Che tu m’abbia giovato non è motivo sufficiente perché io sia in obbligo verso di te: bisogna che tu l’abbia fatto con il deliberato proposito di giovarmi. Cleante si serve di un esempio di questo genere. “Ho mandato due ragazzi”, racconta, “a cercare Platone ed a chiedergli di venire qui dall’Accademia. [I,131,10] Uno dei due ha scrutato in tutti gli angoli del porticato ed ha perlustrato anche altri luoghi nei quali sperava di trovarlo, dopo di che è tornato a casa tanto stanco quanto deluso. L’altro ragazzo invece s’è accostato al primo perdigiorno che ha trovato e mentre scherzando se ne andava a zonzo con della gentaglia, ecco che ti incontra proprio Platone, il quale passava di lì e che egli neppure cercava. [I,131,15] Ebbene -dice Cleante- noi loderemo il ragazzo che ha fatto quanto gli era stato comandato di fare al meglio delle sue possibilità; e invece castigheremo il secondo, che nulla ha fatto ed è stato soltanto fortunato”.

SVF I, 580

Seneca ‘De beneficiis’ V, XIV, 1. Le espressioni di Cleante sono anche più veementi, giacché egli dice: “Posto anche che quello ricevuto non sia un beneficio, chi l’ha ricevuto resta pur sempre un ingrato, perché non l’avrebbe ricambiato neppure se l’avesse ricevuto. [I,131,20] Così l’uomo è un brigante ancor prima di macchiarsi le mani di sangue, giacché è già armato per uccidere ed ha la volontà di depredare e di assassinare. La malvagità si esercita e si manifesta apertamente nelle opere, ma non inizia con esse. Infatti si infliggono pene ai sacrileghi, anche se nessuno di essi riesce a stendere la mano fino agli dei”. [I,131,25]

SVF I, 581

Stobeo ‘Florilegium’ 28, 17, Vol. I, p. 621 Hense. Cleante affermava che chi giura è fedele al giuramento oppure spergiuro già nel momento in cui giura. Infatti, se egli giura con la determinazione di realizzare quel che ha giurato, è fedele al giuramento; se invece ha il proposito di non realizzarlo è spergiuro.

SVF I, 582

Seneca ‘Epistulae morales’ XCIV, 4. Cleante giudica utile [I,131,30] anche quella parte della filosofia (ossia quella che fornisce precetti specifici per i casi singoli, ma non stabilisce quale sia la natura delle cose ed il posto che spetta all’uomo nell’universo: e quindi consiglia al marito come trattare la moglie, al padre come allevare i figli, al padrone come governare i servi) e tuttavia la ritiene debole e insufficiente qualora non discenda dalla conoscenza della natura delle cose e se ignora [I,131,35] i principi cardine stessi della filosofia.

SVF I, 583

Stobeo ‘Florilegium’ 6, 4, Vol. I, p. 281 Hense. [I,132,1]

‘Donde nasce dunque la genia degli adulteri?

Dall’individuo che s’abbuffa di piaceri sessuali’.

SVF I, 584

Teofilo ‘Ad Autolycum’ III, 5, p. 196 Otto. Cosa te ne pare dei giudizi che i libri di Zenone [I,132,5] o di Diogene o di Cleante abbracciano; libri che insegnano il cannibalismo, che i figli lesseranno e ingeriranno le carni dei loro padri e, se uno decidesse di non farlo oppure decidesse di scaraventare via un membro di questo fiero pasto, a divorare chi si rifiuta di mangiare?

SVF I, 585

Sesto Empirico ‘Pyrrh. Hypot.’ III, 199-200. Presso di noi è turpe, [I,132,10] e per di più è ritenuta illegale, l’omosessualità maschile. Presso i Germani, invece, si dice che sia una pratica non turpe […] Cosa vi è di stupefacente in ciò, laddove anche i Cinici e i seguaci di Zenone di Cizio, di Cleante e di Crisippo affermano che questa pratica è un ‘indifferente’?

SVF I, 586

Stobeo ‘Florilegium’ 42, 2, Vol. I, p. 760 Hense.

[I,132,15] ‘Non c’è opera più malefica della calunnia:

di nascosto essa inganna chi se ne lascia persuadere

e plasma odio contro chi non ne è causa’.

§ 8. La città

Frammenti n. 587-588

SVF I, 587

Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, 111, p. 103, 12 W. Sul fatto che la città sia un’entità pregiata, [I,132,20] Cleante ha validamente prospettato un ragionamento di questo genere. Se la città è una struttura stanziale rifugiandosi nella quale è possibile dare e ottenere giustizia, non è forse la città una cosa pregiata? Ma la città è proprio questa struttura stanziale. Dunque la città è una cosa pregiata.

SVF I, 588

Seneca ‘De tranquillitate animi’ 1, 10. Senza esitare e con determinazione io seguo Zenone, [I,132,25] Cleante e Crisippo, nessuno dei quali accedette a cariche pubbliche e tuttavia nessuno dei quali si rifiutò di indirizzarvi altre persone.

§ 9. Frammenti vari

Frammenti n. 589-591

SVF I, 589

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 14. <Zenone> talvolta si faceva pagare dai circostanti una moneta di bronzo [sicché quelli, per non] dargliela, toglievano il disturbo, [I,132,30] come afferma Cleante nel suo libro ‘Sulla moneta di bronzo’.

SVF I, 590

Filodemo ‘De philosophis’ Vol. Hercul. VIII, col. 13, 18. E Cleante, nel suo libro ‘Sulla stele’, la rammenta come opera di Diogene, la loda, e poco dopo, in questo stesso libro [I,133,1] come altrove, fa l’esposizione di alcuni suoi brani.

SVF I, 591

[1] Ateneo ‘Deipnosophistai’ XI, p. 467d. Il filosofo Cleante, nel suo libro ‘Sulla commutazione’ afferma che la coppa Tericlea e la coppa Diniade [I,133,5] sono state chiamate così dai nomi dei rispettivi fabbricanti.

[2] p. 471b. Nella sua trattazione ‘Sulla commutazione’, Cleante afferma: “I nomi delle invenzioni di uomini come Tericle, Dinia, Ificrate, e quante altre sono dello stesso genere, sono facilmente comprensibili. Infatti questi nomi si rifacevano in un primo tempo a quello degli inventori, e questo appare anche ora. Se così non è, il nome potrebbe essere stato un poco mutato. [I,133,10] Ma, com’è stato detto, non è il caso di fidarsi del primo che capita”.

§ 10.Frammenti spuri

Frammenti n. 592-596

SVF I, 592

[1] ‘Certamen Homer. et Hesiod.’ p. 4, 18 ed. Nietzsch. Ellanico e Cleante dicono che padre di Omero fu Meone.

[2] Proclo vit. Hom. ap. Gaisford. Hephaestion p. 516. Quanti dunque [I,133,15] dichiarano che <Omero> è di Smirne, dicono che suo padre è Meone.

[3] p. 517. <Ellanico, Damaste e Ferecide> affermano che il padre di Omero fu Meone.

SVF I, 593

[1] Porfirio ‘Vita Pythag.’ 1, 2. Nel quinto libro delle sue [I,133,20] ‘Leggende’ Neante [Cleante] afferma che <Mnesarco, padre di Pitagora> era siriano, originario di Tiro di Siria. Quando una carestia colpì gli abitanti di Samo, Mnesarco navigò alla volta dell’isola per commerciare grano, lo vendette all’ingrosso e fu per questo tenuto in grande onore dalla cittadinanza. Poiché fin da bambino Pitagora mostrava ottima disposizione ad ogni sorta di apprendimento, Mnesarco lo menò a Tiro. Lì gli raccomandò di [I,133,25] unirsi ai Caldei e di trarre da costoro il massimo vantaggio. Una volta ritornato di là nella Ionia, Pitagora fu dapprima alunno di Ferecide di Siria e poi, a Samo, di Ermodamante Creofileo, ormai avanti negli anni. Neante dice poi che vi sono altri i quali dichiarano che suo padre era uno dei colonizzatori di Lemno, di origine tirrenica, [I,133,30] il quale di là era venuto a Samo per affari, vi aveva sostato e ne era diventato cittadino. Quando Mnesarco navigò alla volta dell’Italia, che era un paese molto prospero, Pitagora, allora giovane, navigò con lui e successivamente vi fece ritorno. <Nearco> elenca anche due fratelli più anziani di lui, Eunosto e Tirreno.

[2] Clemente d’Alessandria ‘Stromata’ I, p. 129 S. [I,134,1] Secondo Neante, Pitagora era di Siria o di Tiro.

[3] Teodoreto ‘Graecarum affectionum curatio’ I, 24, p. 11, 13 Ra. Neante denomina Pitagora ‘di Tiro’.

SVF I, 594

Ps. Plutarco ‘De fluviorum nominibus’ V, 3. Accanto gli giace [I,134,5] il monte Caucaso, che prima si chiamava Letto di Borea per un motivo di questo genere. Borea, dopo avere per smania erotica rapito Chione, figlia di Arturo, la portò su una certa cresta montuosa chiamata Nifante e da essa generò il figlio Irpace, quello che poi successe sul trono di Enioco. Il monte cambiò così il nome in ‘Letto [I,134,10] di Borea’. Fu poi designato con il nome di ‘Caucaso’ per una circostanza di questo genere. Dopo la battaglia dei Giganti e per scansare le minacce di Zeus, Crono fuggì verso la sommità del Letto di Borea e qui si nascose trasformandosi in un coccodrillo. Un giorno <Prometeo>, aperto il cadavere di Caucaso, che era uno dei pastori del luogo, e capendo la disposizione delle sue viscere, disse che [I,134,15] i nemici non erano lontani. Allora Zeus si dette a vedere, legò suo padre Crono con una corda di lana e lo gettò nel Tartaro. Dopo avere cambiato il nome della montagna in ‘Caucaso’ in onore del pastore, Zeus vi legò a sua volta Prometeo e lo costrinse ad essere tormentato da un’aquila che gli divorava le viscere, poiché aveva contravvenuto alla legge nell’osservazione delle viscere, come riferisce Cleante nel terzo libro della sua ‘Teomachia’.

SVF I, 595

Ps. Plutarco ‘De fluviorum nominibus’ V, 4. [I,134,20] Nel Caucaso cresce un’erba chiamata ‘erba di Prometeo’ che, raccolta e ridotta in polvere, Medea usava come rimedio contro le sofferenze del padre, secondo quanto riferisce lo stesso <Cleante>.

SVF I, 596

Ps. Plutarco ‘De fluviorum nominibus’ XVII, 4. Sul monte Taigeto cresce [I,134,25] un’erba chiamata ‘Carisia’ che, all’inizio di primavera, le donne s’appendono attorno al collo e così sono amate dagli uomini con più passione.

Sentenze di Cleante

Frammenti n. 597-619

SVF I, 597

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 169. Si racconta che una volta Antigono era suo uditore e [I,134,30] che cercò di sapere da lui perché attingesse e versasse acqua. Al che Cleante rispose: “Attingo e verso soltanto acqua? E non zappo anche? E non irrigo e non faccio forse tutto ciò per amore della filosofia?”. Alla filosofia lo allenava Zenone, il quale gli intimò di versargli un obolo del suo salario a titolo di risarcimento.

[2] Plutarco ‘De vitando aere alieno’ p. 830c. Il re Antigono, rivedendo Cleante ad Atene [I,134,35] dopo un certo tempo, gli domandò: “Macini ancora, Cleante?”. “Macino -rispose Cleante- o maestà; e lo faccio per non distornarmi da Zenone e dalla filosofia”.

SVF I, 598

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 171. Poiché giudicava il proprio modo di vivere [I,135,1] preferibile a quello delle persone ricche di denato, Cleante soleva dire che nel terreno in cui quelli giocano a palla lui lavora, zappando il terreno duro e infruttuoso.

SVF I, 599

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 170. Tollerava di essere schernito dai condiscepoli ed accettava di sentirsi chiamare ‘asino’, dicendo di essere il solo [I,135,5] capace di sorreggere il carico di Zenone.

SVF I, 600

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 171. Una volta gli fu rinfacciata la sua timidezza, e Cleante disse: “È per questo che aberro poco”.

SVF I, 601

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 174. A chi gli rinfacciava la sua vecchiaia, soleva dire: “Anch’io me ne voglio andare; ma quando mi considero da ogni parte e mi vedo [I,135,10] in salute, in grado di scrivere e di leggere, allora rimango”.

SVF I, 602

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 171. Spesso <Cleante> s’autocensurava. Aristone lo sentì farlo e gli disse: “Chi stai censurando?”. E lui gli rispose: “Un vecchio che ha la canizie ma non accortezza”.

SVF I, 603

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 173. Quando il poeta Sositeo, in teatro, [I,135,15] pronunciò in sua presenza il verso

‘<persone> che la stupidaggine di Cleante cacciano innanzi come buoi’

egli non mutò contegno. Gli ascoltatori, ammirati di questo suo atteggiamento, applaudirono Cleante ed espulsero Sositeo dal teatro. Quando poi Sositeo provò rimorso per le sue ingiurie, Cleante ne accettò le scuse, dicendo assurdo che Dioniso ed [I,135,20] Eracle non s’adirassero quando erano oggetto delle chiacchiere dei poeti e che egli, invece, facesse il malcontento per un’occasionale maldicenza.

SVF I, 604

Stobeo ‘Florilegium’ 7, 54, Vol. I, p. 325 Hense. Cleante non poteva più ingerire cibo per via dell’insorgenza di una piaga sulla lingua. Quando gli divenne più facile deglutire e il medico gli fece apprestare del cibo, Cleante gli disse: “Io [I,135,25] ho ormai compiuto la maggior parte della strada, e tu vuoi che io torni indietro per venire di nuovo da principio fin qui lungo la stessa strada?”. E così uscì di vita.

SVF I, 605

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 171. A chi affermava che Arcesilao non faceva mai parola dei doveri, Cleante diceva: “Smettila, e non denigrarlo. Se infatti abolisce il dovere a parole, però lo pratica nei fatti”. [I,135,30] Arcesilao dice: “Io non mi lascio adulare”. Al che Cleante rispondeva: “Sì, ma la mia adulazione consiste nel dire che tu dici una cosa ma ne fai un’altra”.

SVF I, 606

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 173. Cleante soleva dire che i Peripatetici sperimentano qualcosa di simile a quel che accade alle lire, le quali emettono un gran suono ma non possono ascoltarlo.

SVF I, 607

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ II, 60. <Tra quei filosofi> [I,135,35] Dionisio di Eraclea, uomo di poca fermezza, imparò da Zenone ad essere forte ma lo disimparò dal dolore. [I,136,1] Soffrendo di reni, fra grida lamentevoli andava urlando che erano false le dottrine sul dolore che egli aveva prima fatte sue. E poiché il condiscepolo Cleante gli chiedeva ragione del suo cambiamento di opinione, rispose: “Perché, se pur avendo io profuso un grande impegno nella filosofia [I,136,5] non riuscissi a sopportare il dolore, questo sarebbe una prova sufficiente che il dolore è un male. Ebbene, io ho effettivamente speso parecchi anni nello studio della filosofia, eppure non riesco a sopportarlo: dunque il dolore è un male”. Allora Cleante, picchiando per terra col piede, si riporta che recitasse un verso delle ‘Epigoni’:

‘Senti quel che dice costui, Anfiarao, sottoterra celato?’

e si riferiva a [I,136,10] Zenone, dolendosi che Dionisio tralignasse dai suoi insegnamenti.

SVF I, 608

Stobeo ‘Florilegium’ 82, 9 Mein. Quando a Cleante fu domandato perché presso gli antichi, pur essendo non molti coloro che praticavano la filosofia, erano molti più di adesso quelli che brillavano in essa, egli rispose: “Perché allora ci si esercitava nelle opere, oggi invece nelle parole”.

SVF I, 609

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 172. [I,136,15] Mentre aveva un rapporto sessuale con un adolescente, una volta Cleante gli chiese se provasse qualche sensazione. Poiché quello diceva di sì, Cleante disse: “Perché dunque io non provo la sensazione che tu provi una sensazione?”.

SVF I, 610

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 172. Quando un tale gli domandò quale ammaestramento doveva suggerire a suo figlio: “Quello di Elettra, rispose Cleante, ‘taci, taci, lieve sia l’orma’ ”.

[I,136,20]

SVF I, 611

[1] Musonio presso Stobeo ‘Eclogae’ II, 31, 125, p. 243 Wachsm. Non era di questo genere anche il famoso ragazzo spartano che domandò al filosofo Cleante se la fatica è un bene? In questo modo egli si mostrò dotato di buona natura e ben cresciuto in vista della virtù, tanto da ritenere la fatica più prossima [I,136,25] alla natura del bene che a quella del male. Chi infatti ammette che la fatica non è un male, cerca di sapere se essa sia per caso un bene. Laonde Cleante, preso da ammirazione per il ragazzo, gli disse:

‘sei di buon sangue, ragazzo mio, visto come parli!’

[2] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 172. Quando uno Spartano dichiarò [I,136,30] che la fatica è cosa buona, Cleante si sciolse di gioia e disse:

‘sei di buon sangue, ragazzo mio’.

SVF I, 612

Stobeo ‘Eclogae’ II, 31, 63 Wachsm. Ad un compagno che stava per andarsene e gli domandava come potesse fare per aberrare il meno possibile, Cleante rispose: “Se reputerai che io sia presente a ciascuna delle azioni che effettuerai,”.

[I,136,35]

SVF I, 613

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 172. [I,137,1] Nei suoi ‘Detti sentenziosi’ Ecatone racconta che quando un formoso adolescente disse: “Se chi lo sbatte sulla pancia, colpisce la pancia; e chi lo sbatte sulle cosce, colpisce le cosce”; Cleante replicò: “Ragazzo, tu abbiti i tuoi ‘fracosce’, ma vocaboli analoghi non sempre [I,137,5] significano azioni analoghe”.

SVF I, 614

Plutarco ‘Vita Alcib.’ VI. Cleante soleva dire che lui il suo amato lo teneva stretto per le orecchie, e che lasciava invece agli amanti rivali molte prese da lui non toccate, intendendo la pancia, gli organi sessuali e la gola.

SVF I, 615

Stobeo ‘Florilegium’ 33, 8 (Vol. I, p. 679 Hense). [I,137,10] Una volta Cleante taceva e un tale gli chiese: “Perché sei silenzioso? Invero è piacevole conversare con gli amici”. Al che lui rispose: “È piacevole, ma quanto più è piacevole tanto più bisogna cedere posto per esso agli amici”.

SVF I, 616

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 174. Ad un individuo solitario [I,137,15] che parlava tra sé e sé, Cleante soleva dire: “Non parli ad un uomo insipiente”.

SVF I, 617

Stobeo ‘Florilegium’ 95, 28 Mein. Interrogato sul come si potrebbe essere ricchi, Cleante rispose: “Se si fosse poveri di smanie”.

SVF I, 618

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 173. In accordo con Zenone, Cleante era dell’avviso che il carattere di una persona sia afferrabile dal suo aspetto. Si racconta perciò che alcuni giovanotti buontemponi gli portarono dinnanzi un cinedo [I,137,20] dall’aspetto aspro e indurito dalla vita in campagna, e che lo sollecitarono a dichiararne il carattere. Nell’incertezza, egli ordinò all’individuo di andarsene e costui, mentre se ne andava, starnutì. Al che Cleante disse: “Ce l’ho! È un effeminato”.

[I,137,25]

SVF I, 619

Epitteto ‘Diatribe’ IV, 1, 173. I filosofi dicono forse paradossi, come affermava anche Cleante, ma non certo illogicità.

APPENDICE

[I,137,30] *Frammenti di Cleante riferiti ai singoli libri

Questa Appendice, contenuta nelle pagine 137 (in fine), 138 e 139 (parte) del Volume I, contiene la nuda lista dei titoli delle opere di Cleante già citate nei vari frammenti e dei riferimenti numerici ad esse dei frammenti appena presentati. Si tratta quindi della semplice ridisposizione di materiale già incontrato e tradotto. Giudicando che essa abbia un interesse esclusivamente filologico, non se ne duplica qui la traduzione.

[I,139,15] Sfero di Boristene

Frammenti n. 620-630

SVF I, 620

[1] Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 177. Anche Sfero di Boristene fu allievo, dopo Zenone, di Cleante; e quando ebbe fatto sufficiente progresso negli studi filosofici se ne andò ad Alessandria, alla corte di Tolomeo Filopatore. [ [2] VII, 178. Egli scrisse [I,139,20] i seguenti libri:

‘Sul cosmo (2 libri)’, ‘Sugli elementi’, ‘Sullo sperma’, ‘Sulla fortuna’, [I,139,25] ‘Sui minimi’, ‘Contro gli atomi e le immagini astratte’, ‘Sugli organi di senso’, ‘Cinque lezioni su Eraclito’, ‘Diatribe’, [I,139,30] ‘Sulla costituzione etica’, ‘Sul doveroso’, ‘Sull’impulso’, ‘Sulle passioni (2 libri)’, ‘Sul regno’, [I,140,1] ‘Sulla Costituzione di Sparta’, ‘Su Licurgo e Socrate (tre libri)’, ‘Sulla legge’, ‘Sulla mantica’, [I,140,5] ‘Dialoghi erotici’, ‘Sui filosofi Eretriaci’, ‘Sui simili’, ‘Sulle definizioni’, ‘Sulla postura dell’animo’, [I,140,10] ‘Sulle obiezioni (tre libri)’, ‘Sulla ragione’, ‘Sulla ricchezza’, ‘Sulla fama’, ‘Sulla morte’, [I,140,15] ‘Sull’arte dialettica (2 libri)’, ‘Sui predicati’, ‘Sui termini ambigui’, ‘Lettere’.

SVF I, 621

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 185. Quando Tolomeo scrisse a Cleante [I,140,20] di venire di persona alla sua corte oppure di mandare qualcuno, Sfero partì mentre Crisippo, invece, non badò all’invito.

SVF I, 622

Plutarco ‘Vita Cleomenis’ II. Si dice che Cleomene partecipasse alle discussioni filosofiche quand’era ancora adolescente, al tempo in cui Sfero di Boristene fece un viaggio a Sparta e non trascurò di passare molto tempo in compagnia dei giovani e [I,140,25] degli efebi. Sfero era stato uno dei primi discepoli di Zenone di Cizio, e sembrò aver cara la mascolinità della natura di Cleomene ed attizzarne l’ambizione di onori. […] La filosofia Stoica ha un che di malsicuro e d’arrischiato per le nature grandi e acute ma quando [I,140,30] si mescola ad un carattere profondo e mite, allora soprattutto ne fa sortire il bene che le è proprio.

SVF I, 623

Plutarco ‘Vita Cleomenis’ XI. <Cleomene> si volse poi all’istruzione militare dei giovani e al recupero del sistema educativo di una volta, nel ristabilimento della maggior parte del quale Sfero, che era presente <a Sparta>, lo aiutò. Ben presto essi ripresero così il conveniente e ordinato sistema degli esercizi fisici e delle mense pubbliche comuni, [I,140,35] restringendosi, in pochi per costrizione ma la maggior parte di buon grado, al parsimonioso e famoso tenore di vita spartano.

SVF I, 624

Ateneo ‘Deipnosophistai’ VIII, p. 354e. Non è priva di grazia la risposta di Sfero, che fu condiscepolo di Crisippo presso Cleante, il quale, convocato [I,141,1] ad Alessandria alla corte del re Tolomeo, una volta che durante il pranzo furono serviti in tavola degli uccelli di cera, mentre stendeva la mano verso di essi fu trattenuto dal re in quanto stava dando il suo assenso ad una falsa rappresentazione. La risposta di Sfero, infatti, colse nel segno, giacché egli disse che stava dando il suo assenso non alla rappresentazione che essi fossero uccelli ma [I,141,5] a quella della ragionevolezza che esse fossero uccelli. Vi è infatti differenza tra la rappresentazione catalettica e la rappresentazione della ragionevolezza di qualcosa. La prima, infatti, non è mendace; mentre per la ragionevolezza di qualcosa può succedere altrimenti.

SVF I, 625

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 177. Sfero se ne andò dunque ad Alessandria, alla corte di Tolomeo Filopatore. Una volta il discorso cadde sulla questione [I,141,10] se il sapiente avrà delle opinioni, e Sfero sosteneva che il sapiente non opinerà. Il re volle però contestarlo ed ordinò che fossero servite in tavola delle melagrane di cera. Poiché Sfero ne fu tratto in inganno, il re gridò ad alta voce che egli aveva dato l’assenso ad una falsa rappresentazione. Ma la risposta di Sfero colse nel segno, giacché egli affermò di avere dato il suo assenso non alla rappresentazione che esse fossero melagrane ma a quella [I,141,15] della ragionevolezza che esse fossero melagrane. Vi è infatti differenza tra la rappresentazione catalettica e la rappresentazione della ragionevolezza di qualcosa. A Mnesistrato che lo accusava di affermare che Tolomeo non era re, [Sfero replicò]: “Dato che Tolomeo è un individuo siffatto, è anche re”.

SVF I, 626

Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 159. [I,141,20] I seguaci di Sfero affermano che lo sperma discende dalla totalità dei componenti dei corpi, in quanto è generativo di tutte le parti del corpo. Invece dichiarano che il liquido seminale delle femmine è sterile giacché, come afferma Sfero, esso è atono, scarso ed acquoso.

SVF I, 627

Aezio ‘Placita’ VI, 15, 1 (Dox. Gr. p. 405b, 26). [I,141,25] Lo Stoico Sfero afferma che il buio è visibile. Dalla nostra vista, infatti, si effonde verso di esso qualche raggio.

SVF I, 628

Cicerone ‘Tusculanae disputationes’ IV, 53. Dunque, la fortezza è una disposizione dell’animo ad ottemperare alla suprema legge nel sopportare gli eventi; oppure la capacità di conservare un giudizio saldo nelle circostanze che suscitano paura, [I,141,30] al fine di allontanarle o evitarle; oppure la scienza di ciò che suscita paura, del suo contrario e di ciò ch’è del tutto trascurabile, la quale conserva di queste cose un giudizio stabile. Più brevemente si potrebbe dare la definizione di Crisippo, giacché le definizioni precedenti erano di Sfero, che gli Stoici reputano fra i migliori nel dare definizioni. Si tratta di formulazioni tutte molto simili [I,142,1] che esprimono, più o meno, nozioni comuni a tutti loro.

SVF I, 629

Plutarco ‘Vita Lycurg.’ V. Aristotele afferma che tale era il numero dei senatori istituiti, in quanto, pur essendo dapprima in trenta con Licurgo, [I,142,5] due di loro avevano disertato l’impresa per mancanza di coraggio. Sfero afferma invece che questo era fin dall’inizio il numero di coloro che partecipavano del punto di vista <di Licurgo>.

SVF I, 630

Ateneo ‘Deipnosophistai’ IV, p. 141c. Nel terzo libro della ‘Costituzione di Sparta’, Sfero scrive: “I partecipanti alle mense pubbliche comuni vi portano i dopopasto. I più vi portano [I,142,10] talora delle cose cacciate da loro stessi; le persone facoltose vi portano però del pane e primizie di stagione dai campi; giusto quanto serve per il banchetto, poiché ritengono che approntarne più del sufficiente sia di troppo e quindi che non è il caso di portarlo”.

Alcuni degli Stoici più antichi

Frammento n. 631

SVF I, 631

Diocle di Magnesia presso Diogene Laerzio ‘Vitae philosophorum’ VII, 54. Alcuni [I,142,15] altri degli Stoici più antichi riservano la funzione di criterio di verità alla retta ragione, come afferma Posidonio nel suo libro ‘Sul criterio’.