PANEZIO: LO STOICISMO COME UN IMPERIALISMO?
Qualche rapido cenno sulla vita di Panezio.
Panezio nacque a Lindo, nell’isola di Rodi, da una famiglia di nobili origini e politicamente in vista giacché suo padre, Nicagora, fu uno degli ambasciatori che l’isola inviò a Roma nel 169 a.C. L’anno di nascita di Panezio rimane incerto, ma può essere ragionevolmente fissato tra il 185 e il 180 a.C. Tra il 165 e il 150 a.C. egli fu allievo, tra gli altri, di Cratete di Mallo, di Diogene di Babilonia e di Antipatro di Tarso. L’evento più significativo della sua vita fu sicuramente la sua venuta a Roma e il contatto, tramite l’amico Polibio, con il circolo degli Scipioni: evento, questo, che può essere collocato negli anni compresi tra il 145 e il 141 a.C. Panezio dovette rimanere a Roma per una quindicina d’anni, cioè fino al 129 a.C., anno della morte di Scipione Emiliano, del quale era stato precettore e consigliere politico. Dopo questa data tornò ad Atene e qui subentrò ad Antipatro nella guida della Scuola. Incerta è la data della sua morte, che viene comunque collocata tra il 110 e il 100 a.C. Delle sue opere possediamo qualche titolo e scarsissimi frammenti. La più nota, ossia quella ‘Sul doveroso’ (Περὶ τοῦ καθήκοντος), fu ampiamente utilizzata e parafrasata da Cicerone nel suo libro ‘Sui doveri’ (‘De officiis’).
Un brevissimo accenno al pensiero filosofico di Panezio.
Nel campo della ‘Fisica’, Panezio si mostra contrario alla tradizionale dottrina Stoica della ‘conflagrazione universale’, ossia della distruzione del cosmo nel fuoco e della sua rigenerazione ciclica dal fuoco; e sembra invece incline a privilegiare una sua generica incorruttibilità e quindi eternità. In conseguenza di ciò mostra di non riporre nella ‘divinazione’ quella fiducia che vi era riposta da altri maestri Stoici, i quali interpretavano le vicende umane come una catena di eventi causali strettamente interconnessi dal destino e per cui, grazie alla conoscenza di antecedenti ‘segni’ poteva darsi una previsione certa dei successivi ‘eventi’. Notevole è infine la sua netta presa di posizione a favore della mortalità dell’anima umana.
In campo ‘Etico’, la posizione filosofica di Panezio non può non tenere conto della principale novità del suo tempo, ossia dal raggiunto e completo dominio di Roma su tutti i popoli mediterranei: dominio conseguente alla vittoria sui Macedoni a Pidna nel 168 a.C. e alla distruzione di Cartagine nel 146 a.C. La riflessione di Panezio al riguardo, almeno se ci rifacciamo alla dettagliata presentazione che nelle sue opere ce ne fa Cicerone, si concentra in particolare su tre ordini di questioni: sull’origine della società umana e dello Stato, sulla Costituzione politica mista e sul ruolo del cosiddetto ‘Princeps’. Laddove, partendo dall’analisi dei ‘doveri d’ufficio’ ossia di ciò che per l’uomo è confacente: a) in quanto semplice animale, b) in quanto animale inserito in un certo ambiente naturale e c) in quanto uomo in relazioni naturali e acquisite con altri uomini; il tutto si risolve poi, nella sostanza, in una sofisticata giustificazione della necessità storica dell’imperialismo romano.
Una domanda
Pur se il civil gregge ammira Panezio, io oso chiedere quale rigore filosofico abbia, e come possa essere presa sul serio, l’opera di chi ha scritto libri e libri sulla virtù, sul buon governo del mondo e sulla giustizia quando è evidente che egli ha semplicemente chiacchierato di un ‘modello culturale’ di suo gradimento e non della vera ‘natura delle cose’? Ne sia prova la toccante stupidità del suo aedo Cicerone quando scrive la lode della giustizia in questi termini: “La forza della giustizia è tale che nemmeno chi si nutre di crimini e misfatti riesce a vivere senza di essa. Chi infatti sottrae o ruba qualcosa a uno che fa il ladro insieme a lui, non avrà più alcun posto nella banda e, se non ripartisce equamente il bottino, viene ucciso o abbandonato dai compagni” Cicerone ‘De officiis’ II,11,40.
Di personaggi di questo genere ecco cosa ne penserà Epitteto, due secoli dopo, in ‘Diatribe’ III,7,29-36:
-Ma io sono ricco di denaro e non ho bisogno di nulla-
Perché dunque ti ostini a simulare di essere un filosofo? Ti bastano l’argenteria e l’oreficeria: che bisogno hai di principi filosofici?
-Ma sono anche giudice dei Greci-
Sai giudicare? Cosa t’ha dato questo sapere?
-Cesare ha scritto per me un codicillo-
Che te ne scriva pure un altro, affinché tu possa fare il giudice anche in questioni di musica! Che pro te ne viene? Inoltre, in che modo sei diventato giudice? Dopo avere baciato quale mano, quella di Sinforo o quella di Numenio? Dopo esserti coricato davanti alla camera da letto di chi? Dopo avere mandato doni a chi? E quindi non t’accorgi che il tuo essere giudice tanto vale quanto vale Numenio?
-Ma posso buttare in prigione chi voglio-
Sì, come un sasso.
-Ma posso far prendere a legnate chi voglio-
Sì, come un asino. Questo non è comandare uomini. Comandaci come creature proairetiche, mostrandoci quanto è utile, e noi ti seguiremo. Mostraci quanto utile non è, e noi ce ne distoglieremo. Strutturaci tuoi emuli, come faceva Socrate di sé. Lui era colui che ci comanda come uomini, colui che ci ha strutturato in modo che noi abbiamo subordinato ad essa, alla retta proairesi, il desiderio e l’avversione, l’impulso e la repulsione. “Fa’ questo, non fare quest’altro; se no, ti farò buttare in prigione”. Questo non è più comandarci come creature proairetiche. Dì invece: “Come Zeus costituì, questo fa’; se non lo farai sarai punito, sarai danneggiato”. Quale danno? Nessun altro se non quello di non fare quel che si deve. Manderai in malora l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, il cittadino del mondo che è in te. Non cercare altri danni più grandi di questi.
La mia scelta dei Frammenti greci di Panezio
Panezio è certo un professore ricco di cognizioni in ogni campo dello scibile e capace di dare una risposta su questioni storiche, matematiche e scientifiche; ma mi riesce difficile capire come possa essere considerato uno Stoico. Gliene mancano i presupposti. Non è certo un caso che sia lui che il suo allievo Posidonio non siano citati per nome neppure una sola volta da Epitteto.
Poiché non provo alcun interesse per la sua analisi e la sua giustificazione dell’imperialismo romano, la mia scelta di Frammenti greci che lo riguardano, che già di per sé sono pochissimi, si è sublimata in qualcosa di così sottile da diventare quasi evanescente.
La mia traduzione di Panezio
Per la traduzione ho utilizzato il testo curato da Emmanuele Vimercati ‘Panezio – Testimonianze e Frammenti’ Bompiani, 2002
PANEZIO
Frammenti greci scelti
1. Frammenti certi
1.1. Fisica, Astrologia, Divinazione
1.1.1 = Diogene Laerzio VII, 41
Panezio e Posidonio cominciano <l’insegnamento della filosofia> dalla Fisica, secondo quanto afferma Fania, discepolo di Posidonio, nel primo libro delle ‘Lezioni di Posidonio’.
1.1.2 = Proclo ‘In Platonis Timaeum’ B 50 (= I, 162, 11-15 Diehl)
A proposito di fenomeni celesti, Panezio ed alcuni altri filosofi platonici erano al corrente del fatto che la mitezza del clima apporta con sé la mitezza dei saggi; sicché l’Attica, in ragione della mitezza delle sue stagioni dell’anno, è idonea alla generazione di uomini saggi.
1.1.3 = Anonimo ‘Comment. in Arat. Reliq.’ pag. 97 Maass
Alcuni filosofi, tra i quali lo stoico Panezio e l’accademico Eudoro affermano che la zona torrida <della terra> è abitata poiché vi avviene un certo mescolamento dell’aria, dovuto al fatto che i venti periodici sono colà più veementi e al fatto che, data l’evaporazione dell’immenso mare là presente, si mischiano la sua esalazione fredda e la vampa del calore.
1.1.4 = Stobeo ‘Eclogae’ I, 20, p. 171, 5-7 Wachsmuth-Hence
Panezio ritiene più persuasiva ed è a lui più gradita l’ipotesi della eternità del cosmo invece di quella della trasformazione dell’intero cosmo in fuoco.
1.1.5 = SVF III [BS], 7 = Filone Alessandrino ‘De aetern. mundi’ 15, p. 248 Bern. p. 24, 20 Cum.
Boeto di Sidone e Panezio, uomini solidamente formati nelle dottrine Stoiche, in quanto ispirati da Dio si lasciarono alle spalle le conflagrazioni universali e le palingenesi e disertarono armi e bagagli in favore di una dottrina più santa, ossia quella dell’essere il cosmo imperituro.
1.1.6 = Diogene Laerzio VII, 142
Della genesi e della rovina del cosmo parlano Zenone nel suo libro ‘Sul cosmo’, Crisippo nel primo libro della ‘Fisica’, Posidonio nel primo libro ‘Sul cosmo’, Cleante e Antipatro nel decimo libro ‘Sul cosmo’. Panezio dichiara invece che il cosmo è imperituro.
1.1.7 = Epifanio ‘De fide’ 9, 45, C.G.S. III, p. 509 Holl.
Panezio di Rodi soleva dire che il cosmo è immortale e non soggetto ad invecchiamento; non riservava alcuna attenzione alla divinazione; levava di mezzo tutti i discorsi sugli dei e affermava che quanto si dice sulla divinità sono soltanto corbellerie.
1.1.8 = Diogene Laerzio VII, 149
Gli Stoici dicono che se c’è la Prònoia ogni forma di mantica è fondata; e dichiarano, sulla base di certi esiti, che essa è un’arte, come affermano Zenone, Crisippo nel secondo libro ‘Sulla mantica’, Atenodoro e Posidonio nel secondo libro della ‘Fisica’ e nel quinto libro ‘Sulla mantica’. Panezio afferma invece che la mantica è priva di fondamento.
1.2. Il Trattato ‘Sul Doveroso’
Περὶ τοῦ καθήκοντος
1.2.1 = Michael Apostolius ‘Praefatio’ 2 (II, 235 Leutsch)
Anche il sapiente Cicerone ha fatto suo il pensiero di Panezio, il quale compilò un trattato sugli atti doverosi senza però spiegare in alcun luogo di tale trattato cosa sia un atto doveroso.
1.3. Etica
1.3.1 = SVF III, 280 = Stobeo ‘Eclogae’ II, 7, p. 63, 10-64 Wachsmuth-Hence
Le virtù differiscono però una dall’altra per punti capitali. Così punto capitale della saggezza è, cardinalmente, conoscere i principi generali di ciò che deve essere fatto ed effettuarlo; secondariamente, conoscere i principi generali di ciò che deve essere assegnato <di ciò che deve essere scelto e di ciò che deve essere retto> al fine di effettuare senza errori ciò che deve essere fatto. Punto capitale proprio della temperanza è, cardinalmente, procurare impulsi stabili e conoscerne i principi generali; secondariamente, conoscere ciò ch’è oggetto delle altre virtù, per condurci senza errori negli impulsi. In modo simile la virilità è, cardinalmente, conoscenza certa di tutto ciò che deve essere retto e, secondariamente, di ciò ch’è oggetto delle altre virtù. La giustizia è, cardinalmente, considerare ciascuna cosa secondo il merito e, secondariamente, anche il resto. Ogni virtù, infatti, guarda ai punti capitali di tutte le altre ed a ciò ch’è reciprocamente subordinato. Panezio soleva dire che quanto avviene riguardo alle virtù è simile a quanto avviene quando dinnanzi a molti arcieri giacesse un solo bersaglio, e questo avesse al proprio interno strisce di colore diverso. Ciascun arciere mirerebbe a centrare il bersaglio ma uno colpendo, caso mai, la striscia bianca, un altro la striscia nera, un altro ancora la striscia di qualche altro colore. Come costoro si danno quale fine supremo quello di centrare il bersaglio, seppure proponendosene il conseguimento chi in un modo e chi in un altro, così tutte le virtù si danno quale fine l’essere felice -il che sta nel vivere in modo ammissibile con la natura delle cose- e ciascuna lo centra a modo suo.
1.3.2 = Clemente Alessandrino ‘Stromata’ II, 21
Panezio dichiarava essere ‘sommo bene’ il vivere in armonia con le risorse dateci dalla natura.
1.3.3 = Diogene Laerzio VII, 92
Panezio afferma che la virtù è duplice: teoretica e pratica.
1.3.4 = Diogene Laerzio VII, 127-128
Secondo quanto dicono Zenone, Crisippo nel primo libro ‘Sulle virtù’ ed Ecatone nel secondo libro ‘Sui beni’, la virtù è autosufficiente per la felicità. [….] Tuttavia Panezio e Posidonio dicono che la virtù non è autosufficiente, e affermano che c’è bisogno anche di salute, di proventi e di vigore fisico.
1.3.5 = SVF III, 155 = SVF III [ArT], 22 = Sesto Empirico ‘Adv. Math.’ XI, 73
<Epicuro afferma che il piacere della carne è un bene; chi dice “Possa io essere pazzo piuttosto che godere nella carne” afferma che è un male;> gli Stoici che è un indifferente e un non promosso; Cleante nega che esso sia secondo natura, al modo che non è secondo natura una spazzola, e che abbia valore nella vita; Archedemo che è secondo natura come i peli sotto l’ascella, e che non ha valore; Panezio che c’è qualche piacere della carne secondo natura e qualche altro contro natura.
1.3.6 = Plutarco ‘De cohibenda ira’ 16, 463 D.
Come soleva affermare anche Panezio, bisogna utilizzare il precetto di Anassagora e dire, come fece questi davanti alla morte del figlio: “Sapevo di avere generato un mortale”; questo dire di fronte agli altrui errori che ci esacerbano: “Sapevo di avere comprato uno schiavo e non un sapiente”; “Sapevo di possedere un amico che non è immune da errori”; e “Sapevo di avere per moglie una donna”.
1.3.7 = Diogene Laerzio IX, 20
Demetrio Falereo nel suo libro ‘Sulla vecchiaia’ e lo stoico Panezio in quello ‘Sul buon umore” affermano che <Senofane> seppellì i figli con le sue stesse mani, proprio come fece anche Anassagora.
1.3.8 = Diogene Laerzio II, 86-87
Coloro che rimasero fedeli alla condotta di vita di Aristippo, ed ebbero l’appellativo di Cirenaici, lo fecero sulla base di opinioni del seguente genere. Essi sostenevano l’esistenza di due stati d’animo fondamentali: il dolore e il piacere. Nel piacere il moto dell’animo è soave, scorrevole; mentre nel dolore il moto è rude, aspro. [87] Non vi è alcuna differenza tra un piacere ed un altro, né esiste alcunché più piacevole di esso. Il piacere è valutato positivamente da tutti gli esseri viventi, mentre il dolore essi lo respingono lontano. Stando a quanto afferma anche Panezio nel suo libro ‘Sulle scuole filosofiche’, il piacere che essi intendono, e che ritengono anche essere il sommo bene, è tuttavia il piacere carnale; non il piacere catastematico, quello che consiste nella sparizione delle sofferenze ed è come un sollievo, che è invece il piacere che Epicuro approva e chiama anche ‘sommo bene’. Secondo loro c’è anche differenza tra il sommo bene e la felicità. Infatti essi affermano che sommo bene è il piacere carnale volta per volta, mentre la felicità è l’insieme formato dai singoli piaceri carnali particolari, nel cui numero essi computano anche quelli passati e quelli futuri.
1.4. Psicologia
1.4.1 = Nemesio ‘De natura hominis’ 15
Il filosofo Panezio dice una cosa correttissima quando sostiene che la facoltà vocale sia una parte che è messa in moto da un impulso, mentre la facoltà sessuale non è una parte dell’animo ma della natura vegetale.
2. Frammenti attribuibili a Panezio
2.1. Etica
2.1.1 = SVF III, 264 = Stobeo ‘Eclogae’ II, 60, 9 W.
Il fine di tutte queste virtù è di vivere in modo conseguente alla natura; e ciascuna di esse, con le sue peculiarità, procura questo sommo bene all’uomo che la centra. Giacché l’uomo ha dalla natura risorse sia per il rinvenimento di quanto è doveroso, sia per la stabilità degli impulsi, sia per delle virili pazienze, sia per delle giuste assegnazioni. E ciascuna virtù, effettuando quanto è in armonia con le altre e quanto le è proprio, ci procura un uomo capace di vivere in modo conseguente alla sua natura.
2.1.2 = Plutarco ‘De tranquillitate animi’ 13, 473 A
Come <la natura> ha fatto in modo che il cibo sia diverso per bestie diverse, e dunque che non tutte siano carnivore oppure si nutrano di semi o scavino radici, così essa ha dato agli uomini un’ampia varietà di risorse per mantenersi in vita. [….] Bisogna pertanto che essi, dopo avere scelto il mestiere che loro si addice e conviene, lo coltivino e lascino perdere quelli che convengono ad altri.
2.1.3 = Plutarco ‘De tranquillitate animi’ 13, 472 C
Ragion per cui non tutti i mestieri sono adatti a tutti gli uomini; e dunque bisogna che l’uomo, ubbidendo al motto Delfico, decifri se stesso e poi si impegni in ciò per cui è nato; senza trascinarsi di qua e di là nel tentativo di emulare ora uno ora un altro modo di vita e così fare violenza alla propria natura.
2.2. Psicologia
2.2.1 = Nemesio ‘De natura hominis’ 26
Essi suddivono anche in un modo diverso le facoltà a seconda dell’essere vivente considerato, e dicono che alcune sono facoltà psichiche, altre facoltà della natura vegetale e altre ancora facoltà della natura animale. Psichiche sono le facoltà legate alla proairesi, mentre sono facoltà della natura vegetale e della natura animale quelle non connesse alla proairesi, ossia aproairetiche. Le facoltà psichiche sono di due tipi: il moto originato da un impulso proairetico e la sensazione. Specie di moti originati da un impulso proairetico sono lo spostarsi da un luogo all’altro, il movimento di ogni parte del corpo, l’emissione della voce, l’attività respiratoria. Infatti dipende da noi il fare o non fare queste cose. Le facoltà comuni con la natura vegetale ed animale non dipendono invece da noi in quanto avvengono sia che noi lo vogliamo oppure non lo vogliamo: com’è il caso della facoltà nutritiva, di quella dell’accrescimento e dell’attività riproduttiva, le quali sono facoltà comuni con la natura vegetale; e anche di quella del battito cardiaco, che è comune con la natura animale.
3. Frammenti di incerta o discussa attribuzione
3.1. Fisica
3.1.1 = SVF III [BS], 7 = Filone Alessandrino ‘De aeternitate mundi’ 15, p. 248 Bern. p. 24, 20 Cum.
Boeto di Sidone e Panezio, uomini solidamente formati nelle dottrine Stoiche, in quanto ispirati da Dio si lasciarono alle spalle le conflagrazioni universali e le palingenesi e disertarono armi e bagagli in favore di una dottrina più santa, ossia quella dell’essere il cosmo imperituro.
I seguaci di Boeto hanno utilizzato le dimostrazioni più plausibili, che esporremo subito. Se il cosmo, essi affermano, fosse generato e perituro, qualcosa nascerebbe dal nulla, il che sembra essere del tutto assurdo anche agli Stoici. Perché? Perché non è possibile trovare alcuna causa agente di estinzione, né interna né esterna, la quale faccia sparire il cosmo. Fuori del cosmo non v’è nulla se non forse il vuoto, dato che integralmente tutti gli elementi trovano il loro posto nel cosmo. Dentro il cosmo, poi, non v’è alcuno stato morboso che potrebbe diventare causa di dissoluzione per una divinità di tale enorme grandezza. E se il cosmo perisce senza una causa è manifesto che la genesi della sua estinzione sarà originata dal nulla: cosa questa, che l’intelletto non accetterà mai. Essi affermano anche che i modi generici di estinzione sono tre: quello per divisione, quello per sparizione della qualità prevalente, quello per fusione di qualità componenti. Le cose formate da entità disparate come un gregge di capre, una mandria di buoi, i cori, gli eserciti o, ancora, i corpi compattati da elementi rannodati, si sciolgono per rottura o per divisione delle parti. Per sparizione della qualità prevalente si dissolve, per esempio, la cera quando sia modellata in una figura diversa; oppure quando sia così ammorbidita da non prestarsi più ad accogliere l’impronta di una forma diversa. Per fusione di qualità componenti, come nel caso del tetrafarmaco preparato dei medici; ossia quando le proprietà dei componenti che sono messi insieme spariscono, a favore della genesi di un unico particolare prodotto risultante. In quale di questi modi merita dire che il cosmo perisce? Nel modo per divisione? Ma il cosmo non è formato da entità disparate, così che le sue parti possano essere disperse; né da elementi rannodati, così che i loro legami possano essere dissolti; né è unitario allo stesso modo in cui lo sono i nostri corpi. Infatti questi ultimi sono intrinsecamente caduchi ed in potere di miriadi d’agenti che li danneggiano, mentre invece il cosmo è invitto poiché tiene assoggettata a sé ogni cosa con un grande sovrappiù di potenza. Per sparizione definitiva della qualità? Ma questo è inconcepibile, giacché pure secondo coloro che scelgono la tesi opposta, la qualità di essere il ‘buon ordine del cosmo’, sebbene bloccata in una sostanza in quantità minore, che è quella di Zeus, permane anche nel corso della conflagrazione universale. Per fusione di qualità componenti? Suvvia! Giacché allora bisognerà di nuovo accettare che l’estinzione del cosmo sia estinzione nel nulla. In grazia della genesi di quale particolare prodotto risultante? Se ciascun elemento sparisse parzialmente, una parte di esso potrebbe trasformarsi in qualcos’altro; ma poiché gli elementi sono fatti sparire tutti quanti e tutt’insieme nella fusione delle qualità componenti, sarebbe necessario sottintendere che avviene l’impossibile. Oltre a ciò, essi affermano, se ci fosse la conflagrazione universale che cosa effettuerebbe la divinità in quel lasso di tempo? Non effettuerebbe proprio nulla? Ma ciò è inverosimile. Adesso, infatti, la divinità riguarda ciascuna cosa e tutto essa tiene sotto la sua tutela come fa chi è genuinamente padre; e, se bisogna dire la verità, al modo di un auriga e di un pilota tiene le redini e il timone del tutto, prestando assistenza al sole, alla luna, agli altri corpi celesti erranti e non-erranti e inoltre all’aria ed alle ulteriori parti del cosmo, mentre nel contempo compie quanto serve alla sua sopravvivenza ed al suo intemerato governo secondo la retta ragione. Ma una volta che tutto sia sparito, Dio avrà una vita che non è più vita, per la sua straordinaria inerzia ed inazione. Cosa potrebbe essere più assurdo di questo? Sono titubante a dire ciò che non è lecito dire: che ne seguirà per Dio la morte, data la sua immobilità. Infatti, se tu fai sparire il suo essere sempre in movimento, avrai fatto del tutto sparire anche l’anima. Ora, per coloro che hanno opinioni contrarie alle nostre, l’animo del cosmo è la divinità.
3.2. Psicologia
3.2.1 = Galeno ‘De foetuum formatione’ 6, IV, p. 700 K.
Nel plasmare l’embrione io vedo intervenire una facoltà sommamente sapiente che però non è l’animo presente nello sperma, bensì quello che i seguaci di Aristotele chiamano ‘vegetativo’, i seguaci di Platone ‘concupiscente’ e che i seguaci degli Stoici non chiamano neppure animo ma ‘natura’ o ‘facoltà vegetativa’, poiché ritengono che sia lei a plasmare l’embrione e che non soltanto non sia sapiente ma che anzi sia assolutamente irrazionale.
3.2.2 = Sesto Empirico ‘Adversus Mathematicos’ VII, 253
Gli Stoici più antichi affermano che criterio di verità è la rappresentazione catalettica, mentre gli Stoici più recenti vi hanno aggiunto anche ‘<quella> che non ha ostacoli’.