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L’ALBERO DELLA DIAIRESI LIBRO III

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EPITTETO

nuovamente tradotto

da

FRANCO SCALENGHE

I quattro libri delle Diatribe di Epitteto sono né Dialoghi costruiti da Platone a tavolino né Orazioni scritte per sfoggio da Isocrate, ma la fedele registrazione -ad opera di Arriano- di un parlato dal vivo. Io ho cercato di conservare anche in italiano questa loro peculiarità e mi sono mantenuto molto aderente al testo greco. Chi legge lo tenga presente, e legga semplicemente con il “tempo giusto”.

LIBRO III

Οον γάρ στιν ατν ατ δύνασθαι επεν “νν ο λλοι ν τας σχολας σεμνολογοσιν κα παραδοξολογεν δοκοσι, τατα γ πιτελ: κκενοι καθήμενοι τς μς ρετς ξηγονται κα περ μο ζητοσιν κα μ μνοσιν.

“Che gran cosa è poter dire a se stessi: ciò di cui gli altri parlano solennemente nelle scuole reputando di dire paradossi, io lo realizzo. Seduti, essi spiegano le mie virtù e ricercano su di me, inneggiano a me”. ( III,24,111)

CAPITOLO 1
SULL ‘ ABBELLIMENTO 

Ogni creatura ha una sua perfezione o virtù (1-5)

[III,1,1] Quando gli andò davanti un giovanotto studente di retorica, la chioma acconciata con leziosaggine e gli indumenti tutti agghindati Dimmi, diceva Epitteto, se non reputi che dei cani alcuni siano magnifici e così dei cavalli e di ciascuno degli altri animali. [III,1,2] -Lo reputo, diceva lo studente- Pertanto anche delle persone alcune sono belle ed altre brutte? -E come no?- Dunque noi, secondo lo stesso criterio, diamo a ciascuna di queste creature l’appellativo di bella del medesimo genere di bellezza oppure bella di una bellezza peculiare a ciascuna? [III,1,3] Così lo vedrai. Siccome vediamo il cane nato per una certa cosa, il cavallo per un’altra e per un’altra, caso mai, l’usignolo; in generale non sarebbe assurdo dichiarare che ciascuno è bello allorquando si trova all’eccellenza della sua natura, e dacché la natura di ciascuno è differente, reputo che ciascuno di essi è bello differentemente, o no? -Lo ammetteva- [III,1,4] Dunque quanto fa magnifico il cane fa laido il cavallo, e quanto fa magnifico il cavallo fa laido il cane, se appunto differenti sono le loro nature? –Così somiglia- [III,1,5] Giacché, credo, quanto fa magnifico un pancraziaste non fa buono un lottatore e fa ridicolissimo un corridore. Ed il magnifico per il pentatlo è, proprio costui, il più laido per la lotta? -Così è, diceva- 

E l’essere umano? Qual è la sua perfezione? Non è essere uomo? (6-7)

[III,1,6] Cosa dunque fa bello l’essere umano se non quanto fa magnifico, nel suo genere, il cane ed il cavallo? -E’ questo, diceva lo studente- Cosa, dunque, fa magnifico il cane? La presenza della virtù propria del cane. Cosa il cavallo? La presenza della virtù propria del cavallo. E l’essere umano? Non è forse la presenza della virtù propria dell’uomo? [III,1,7] Tu dunque, se disponi di essere bello, giovanotto, prodigati su questo, sulla virtù dell’uomo. -E qual è essa?- 

Non sai quale sia la virtù dell’uomo? Chi lodi quando lodi spassionatamente? Traine le conseguenze (8-9)

[III,1,8] Vedi chi lodi qualora proprio tu lodi spassionatamente qualcuno. Lodi i giusti o gli ingiusti? -I giusti- I temperanti o gli impudenti? -I temperanti- I padroni di sé oppure i non padroni di sé? -I padroni di sé- [III,1,9] Dunque, facendoti siffatto sappi che ti farai bello; ma finché trascurerai ciò, è necessario che tu sia brutto, anche se escogiterai di tutto per apparire magnifico.

Qualora tu sia venuto da me con l’animo con cui si deve andare da un filosofo, ecco i rimproveri che meriterei se non ti parlassi (10-14)

[III,1,10] Di qui in poi non so più come parlare. Giacché se dirò quel che pregio ti infastidirò e, una volta uscito, probabilmente non rientrerai. Se non parlerò, vedi quel che faccio quando tu vieni da me per trarre un giovamento ed io non ti giovo per nulla; quando tu vieni da me come da un filosofo ed io nulla ti dico da filosofo. [III,1,11] Che crudezza nei tuoi confronti l’essere sbadato a non rettificarti! Successivamente, se avrai buonsenso, a ragione mi incolperai: [III,1,12] “Scorgendomi entrare da lui siffatto, in uno stato così brutto, cosa vide in me Epitteto da non badarmi né dirmi mai verbo? Così disperò di me? [III,1,13] Non ero un giovane? Non ero atto ad ascoltare un ragionamento? Quanti altri giovani, per l’età, commettono molti sbagli siffatti? [III,1,14] Sento dire che un certo Polemone, da giovanotto impudente ebbe una eccezionale trasformazione. Sia; non credeva che io sarò un Polemone, ma poteva almeno correggermi quanto alla chioma, togliere d’intorno la mia chincaglieria, poteva farmi cessare di spelarmi; invece scorgendomi avere un abito -di chi dire?- taceva”. 

Ti parlerò, anche se so che non ti convincerò; o mi sbaglio? Farò come Apollo con Laio (15-18)

[III,1,15] Io non dico di chi è quest’abito; tu allora lo dirai qualora venga a capo di te stesso e riconoscerai qual è e chi lo affetta. [III,1,16] Se di questo mi incolperai successivamente, cosa avrò da dire in mia difesa? Sì, ma parlerò e non ubbidirà. E Laio ubbidì ad Apollo? Non partì e, ubriacatosi, disse addio all’oracolo? E dunque? Nonostante ciò Apollo non gli disse la verità? [III,1,17] Eppure io non so se tu mi ubbidirai o no, mentre Apollo sapeva precisissimamente che Laio non avrebbe ubbidito ed ugualmente parlò. [III,1,18] -Perché parlò?- Perché è Apollo. Perché dà oracoli. Perché a questo rango ha assegnato se stesso, così da essere indovino e fonte della verità e perché vengano da lui le genti di tutta la terra abitata. Perché è stato scritto davanti al suo tempio “Riconosci te stesso”, anche se nessuno lo capisce.

Farò come Socrate. Forse che Socrate riusciva a convincere tutti coloro con i quali parlava? (19-21)

[III,1,19] Socrate persuadeva ad esser solleciti di se stessi tutti coloro che avvicinava? Neppure la millesima parte. Ma ugualmente, siccome fu assegnato a questo posizionamento dal genio, come dice lui, non si eclissò più. Ma anche ai giudici, cosa dice? [III,1,20] “Se mi rilascerete,” dice, “a patto che io non effettui più quel che effettuo ora, ebbene io non lo tollererò né mi placherò; ma venendo da un giovane, da uno più anziano e insomma da chiunque sempre incontro, cercherò di sapere quel che cerco di sapere anche adesso; e soprattutto da voi, dice, cittadini, perché mi siete più vicino per genere”. [III,1,21] Sei così indiscreto, Socrate, ed impiccione? Che t’importa quel che facciamo? “Ma che dici? Essendo mio socio e congenere trascuri te stesso, procuri alla città un cattivo cittadino, ai congeneri un cattivo congenere, ai vicini un cattivo vicino?” 

Eppure doveva, perché era colui cui importa degli uomini (22)

[III,1,22] “Tu dunque chi sei?” Qui è grandioso dire: “Questo io sono, colui cui deve importare degli uomini”. Giacché un giovenco qualunque non ha l’audacia di contrastare un leone; ma se il toro verrà a contrastarlo digli, se lo reputerai: “E tu chi sei?” e “Che t’importa?” 

Perché era l’uomo fra gli esseri umani, perché era il filo rosso della toga (23)

[III,1,23] O uomo, in ogni genere germoglia qualche singolarità: tra i buoi, tra i cani, tra le api, tra i cavalli. Non dire alla singolarità: “Tu dunque cosa sei?”. Se no, prendendo voce da qualche dove ti dirà: “Io siffatto sono quale la porpora nella toga. Non sollecitarmi ad essere simile agli altri e non lagnarti della natura perché mi fece differente dagli altri”.

Dunque ti parlerò… (24)

[III,1,24] E dunque? Io siffatto? Donde? E sei tu siffatto da ascoltare la verità? Magari! Ed ugualmente, dacché fui come condannato ad avere barba canuta e mantello e tu entri da me come da un filosofo, non userò con te crudezza né disperazione ma dirò: giovanotto, chi disponi di fare bello?

…e ti dirò: riconosci chi sei. Tu sei un animale mortale, atto ad usare le rappresentazioni logicamente (25)

[III,1,25] Riconosci innanzitutto chi sei e così adornati. Sei un essere umano: cioè una creatura mortale atta ad usare le rappresentazioni logicamente. Cos’è il logicamente? Ammissibilmente con la natura delle cose e perfettamente.

Dov’è la tua specificità? Esclusivamente nell’elemento razionale. Questo e nient’altro tieni in ordine ed abbellisci (26-35)

[III,1,26] Cos’hai dunque di singolare? La creatura? No. Il mortale? No. L’usare le rappresentazioni? No. La logicità hai singolare: questa adorna ed abbellisci. Lascia la chioma a chi la plasmò come volle. [III,1,27] Orsù, quali altri appellativi hai? Sei maschio o femmina? -Maschio- Abbellisci dunque il maschio, non la femmina. Quella è nata, per natura, liscia ed effeminata. E se avrà molti peli è un mostro ed è mostrata a Roma tra i mostri. [III,1,28] La stessa mostruosità è, per un maschio, il non averne. E se per natura non li avrà è un mostro, ma se lui stesso si raderà e depilerà, che ne faremo? Dove lo mostreremo e cosa gli scriveremo davanti? “Vi mostrerò un maschio che vuole piuttosto essere femmina che maschio”. [III,1,29] Che strano spettacolo! Uno neppure si stupirà dell’insegna. Sì, per Zeus, credo che quanti si depilano fanno quel che fanno senza comprendere che proprio di questo si tratta! [III,1,30] O uomo, cos’hai da incolpare alla tua natura? Che ti generò maschio? E dunque? Dovrebbe generare tutte femmine? E che pro ti sarebbe dell’adornarti? Per chi ti adorneresti se tutti fossero femmine? [III,1,31] Ma non gradisci l’affaruccio? Fallo intero per intero: rimuovi -cos’è mai quello?- il causativo dei peli. Fatti per sempre femmina, affinché non erriamo e tu non sia per metà maschio e per metà femmina. [III,1,32] A chi vuoi essere gradito? Alle femminucce? Sii loro gradito da maschio. “Sì, ma si rallegrano dei visi lisci”. Non ti impiccherai? E se si rallegrassero dei cinedi, diventeresti un cinedo? [III,1,33] Questa è l’opera tua, per questo fosti generato, perché le femmine impudenti si rallegrino di te? [III,1,34] Che siffatto ti poniamo cittadino di Corinto, e caso mai astinomo o capo degli efebi o stratega o agonoteta? [III,1,35] Orsù, anche da sposato sei per depilarti? Per chi e per cosa? Ed avendo fatto dei marmocchi, ce li introdurrai poi agli affari cittadini depilati anch’essi? Magnifico cittadino e consigliere ed oratore! Siffatti giovani dobbiamo auspicarci che germoglino e siano allevati?

Lo farai? La natura delle cose ti ha parlato attraverso di me (36-39)

[III,1,36] No, per gli dei, giovanotto! Ma una volta ascoltati questi discorsi, partendo dì a te stesso: “Non Epitteto mi ha detto queste parole -e donde gli venivano?-, bensì attraverso di lui un qualche dio ben disposto. Ad Epitteto non sarebbe saltato in testa di dire queste cose, lui che è solito non dirle a nessuno. [III,1,37] Orsù, ubbidiamo dunque a Zeus, per non essere oggetti del suo disgusto”. No; ma se un corvo gracchiando ti significherà qualcosa, non è il corvo a significare ma Dio attraverso di lui. E se significherà qualcosa attraverso la voce di un uomo, tu farai finta che sia l’uomo a dirti questo, per ignorare la facoltà del genio che significa agli uni così ed agli altri cosà ma che, sulle questioni più grandi e dominanti, significa attraverso il messaggero più bello? [III,1,38] Che altro dice il poeta? *Giacché noi lo avvisammo mandando Ermete messaggero, uccisore di Argo, di non uccidere lui e di non volerne la sposa.* [III,1,39] Sceso, Ermete era per dire questo ad Egisto; ed a te, ora, gli dei questo dicono: *mandando Ermete messaggero, uccisore di Argo* di non stravolgere e di non ingerirti in quanto sta bene com’è, ma di lasciare il maschio maschio, la femmina femmina, il bello uomo bello, il brutto essere umano brutto. 

Tu non sei carne né capelli ma proairesi, come diceva Socrate ad Alcibiade (40-42)

[III,1,40] Perché non sei un pezzo di carne né peli ma proairesi: se avrai questa bella allora sarai bello. [III,1,41] Finora non ho l’audacia di dirti che sei brutto, giacché reputo che tutto vuoi sentir dire fuorché questo. [III,1,42] Ma vedi cosa dice Socrate al più magnifico e più giovanilmente fiorente di tutti, ad Alcibiade: “Prova dunque ad essere bello”. Che gli dice? “Plasmati la chioma e depilati le gambe?” Non sia mai! Ma: “Adorna la tua proairesi, estirpa i giudizi insipienti”. 

Intendo forse con ciò affermare che bisogna trascurare quanto non è proairesi, cioè il corpo e tutto il resto? (43-45)

[III,1,43] Il corpo dunque, come tenerlo? Com’è per natura. Ad un altro importò di questo; delegalo a lui. [III,1,44] -E dunque? Devo essere sporco?- Non sia mai! Ma chi sei e chi sei per natura, questo ripulisci: il maschio che sia pulito da maschio, la femmina da femmina, il bimbo da bimbo. [III,1,45] No; ma depiliamo anche la chioma del leone, affinché non sia sporco; e la cresta del gallo, giacché anche questo deve essere pulito! Ma da gallo, e quello da leone, ed il cane da caccia da cane da caccia.

CAPITOLO 2
IN COSA DEVE ESERCITARSI CHI FARÀ PROFITTO, E CHE NOI TRASCURIAMO LE QUESTIONI DOMINANTI

I tre campi nei quali si esercita la proairesi: desiderio ed avversione, impulso e repulsione, assenso e dissenso (1-4)

[III,2,1] Sono tre i campi in cui deve esercitarsi chi intende essere virtuoso: quello dei desideri e delle avversioni, per non fallire desiderando e, avversando, per non incappare in quanto avversa; [III,2,2] quello degli impulsi e delle repulsioni e insomma quello del doveroso, per agire con posizionamento, con razionalità, senza trascuratezza; terzo è quello del riparo dall’inganno, dalla casualità di giudizio e in complesso quello degli assensi. [III,2,3] Di questi il più dominante e soprattutto urgente è quello delle passioni: giacché la passione non nasce altrimenti che da un desiderio che fallisce o da un’avversione che incappa in quanto avversa. Questo è l’apportatore di sconcerti, trambusti, sfortune e cattive fortune; il fattore di lutti, mugugni, invidie, paure e gelosie; per cui neppure possiamo ascoltare la ragione. [III,2,4] Secondo è quello del doveroso: giacché io non devo avere il dominio che delle passioni ha una statua, ma serbare le relazioni sociali naturali ed acquisite da uomo pio, da figlio, da fratello, da padre, da cittadino.

Lo studio del terzo campo conviene soltanto a chi ha già fatto progressi nei primi due (5-10)

[III,2,5] Il terzo campo spetta a coloro che fanno già profitto e concerne la sicurezza nei primi due, affinché neppure nel sonno, neppure quando si è brilli o malinconici, una rappresentazione pervenga a sfuggire senza essere stata sottoposta ad indagine. -Questo, dice, è al di sopra delle nostre forze- [III,2,6] I filosofi di adesso, invece, tralasciando il primo ed il secondo campo si intrattengono nel terzo: ragionamenti equivoci, concludenti, ipotetici, del tipo del “Mentitore”. [III,2,7] -Giacché bisogna, dice, che si guardi dall’inganno anche su questi materiali- Chi? -L’uomo virtuoso- [III,2,8] A te dunque manca questo? Ti sei prodigato sugli altri? Sul quattrinello sei al riparo dall’inganno? Se vedrai una magnifica pupattola, tieni testa alla rappresentazione? Se il tuo vicino erediterà, non sei morso? Ora non ti manca altro che l’immutabilità? [III,2,9] Sciagurato! Proprio queste cose le impari tremando, con l’ansia che ti si spregi e cercando di sapere cosa si dice di te. [III,2,10] E se uno verrà a dirti: “Caduto il discorso su chi è il filosofo più eccelso, un astante diceva che solo filosofo è il tale,” l’animuzza tua invece che di un dito è diventata di due cubiti. Se invece un altro astante dirà: “Tutte storie! Non merita essere uditore del tale. Cosa sa, infatti? Ha le prime risorse e nulla più,” sei frastornato, sei impallidito, subito strilli: “Gli mostrerò io chi sono, che sono un grande filosofo!” 

Il semplice gesto con cui Diogene mette alla prova Demostene ci permette di decidere immediatamente se quest’ultimo diairesizza o controdiairesizza (11-12)

[III,2,11] Si ravvisa proprio da queste parole. Cosa vuoi mostrare con altre? Non sai che Diogene mostrò un certo sofista così, sporgendogli il dito medio? E poiché quello andò in furie, “Questo è il tale,” diceva Diogene, “ve lo mostrai”. [III,2,12] Giacché una persona non si mostra con un dito, come un sasso od un bastone; ma qualora uno ne mostri i giudizi, allora lo ha mostrato come persona.

Noi siamo i nostri giudizi. Mostrami dunque i tuoi giudizi e ti dirò chi sei (13-17)

[III,2,13] E scrutiamo i tuoi giudizi.Non è manifesto che tu poni nel nulla la tua proairesi e che scruti fuori a ciò che è aproairetico, a cosa dirà il tale e chi sembrerai essere, seun erudito, se uno che ha letto Crisippo od Antipatro? Se hai letto anche Archedemo, hai proprio tutto! [III,2,14] Perché hai ancora l’ansia di mostrarci chi sei? Vuoi ti dica chi ti mostrasti a noi? Un essere umano con l’animo servo, lagnoso sulla propria sorte, arcigno, vile, che tutto biasima, incolpa tutti, non ha mai quiete, frivolo: questo ci mostrasti. [III,2,15] Ora parti e leggi Archedemo: e se poi un topolino cadrà giù e farà rumore, tu muori. Giacché ti rimane una morte siffatta a quella di… -chi era mai quello?- di Crini. Anche lui faceva gran pregio di capire Archedemo. [III,2,16] Sciagurato! Non vuoi lasciare queste cose che non ti riguardano? Esse si confanno a coloro che possono impararle prescindendo dallo sconcerto, che hanno la potestà di dire: “Non mi adiro, non mi affliggo, non invidio, non sono impedito, non sono costretto. Che mi resta? Ne ho la comodità, sono quieto. [III,2,17] Vediamo come ci si deve condurre con le premesse equivoche dei ragionamenti; vediamo come uno, prendendo una ipotesi non sarà menato ad un’assurdità”.

Tu sei uno che alza la vela maestra nel mare in tempesta (18)

[III,2,18] Loro sono questi studi. Appiccare il fuoco, fare colazione e, caso mai, anche cantare e ballare si confà a coloro che si sentono bene. Mentre il bastimento sta inabissandosi, tu mi vieni invece a dispiegare le vele più alte.

CAPITOLO 3
QUAL E’ IL MATERIALE DELL’UOMO DABBENE ED IN CHE COSA CI SI DEVE SOPRATTUTTO ESERCITARE

Natura delle cose ed invarianza della natura dell’animo umano e dei suoi moti (1-4)

[III,3,1] Materiale del virtuoso è il proprio egemonico, il corpo lo è del medico e del massaggiatore, il fondo è materiale dell’agricoltore. Opera del virtuoso è usare le rappresentazioni secondo la natura delle cose. [III,3,2] Ogni animo è nato tanto per annuire al vero, dissentire dal falso, sospendere il giudizio nel dubbio, quanto per muoversi con desiderio verso il bene, con avversione verso il male e neutramente verso il né male né bene. [III,3,3] Giacché come né il banchiere né il verduriere hanno la potestà di rifiutare la moneta di Cesare, ma se la mostrerai egli deve, lo voglia o no, cederti in cambio la merce venduta; così stanno le cose anche per l’animo. [III,3,4] Appena il bene appare, subito muove l’animo verso di sé; il male, lontano da sé. L’animo non rifiuta mai la rappresentazione evidente di un bene, non più che la moneta di Cesare. Di qua è stato agganciato ogni moto e d’uomo e di dio.

Nessuno ama il prossimo, bensì il proprio bene. Ma dov’è il bene? Il bene è soltanto nella retta proairesi (5-10)

[III,3,5] Per questo il bene predetermina ogni legame di parentela. Nulla vi è tra me e mio padre, ma tra me ed il bene. “Sei così duro?” Sono così per natura. Questa moneta mi ha dato la Materia Immortale, ovvero la Pronoia. [III,3,6] Per questo, se il bene è altro dal bello e dal giusto, spariscono padre, fratello, patria e tutte le faccende. [III,3,7] Che io disdegni il mio bene perché tu l’abbia, per dare spazio a te? In cambio di cosa? “Sono tuo padre!” Ma non il bene. “Sono tuo fratello”. Ma non il bene. [III,3,8] Se però lo porremo in una retta proairesi, lo stesso serbare le relazioni diventa un bene e chi recede da certi oggetti esterni, costui centra il bene. [III,3,9] “Il padre si porta via la roba”. Ma non danneggia che sé. “Il fratello avrà il più del fondo”. Quanto ne vuole! E dunque pure di rispetto di sé e degli altri, di lealtà, di fraternità? [III,3,10] Giacché chi può espellere da questa sostanza? Neppure Zeus. Che neppure lo dispose, ma la fece in mio esclusivo potere e me la diede quale l’aveva egli stesso, non soggetta a impedimenti, non soggetta a costrizioni, non soggetta ad impacci.

Cosa accade, invece, quando il bene è posto altrove che nella retta proairesi (11-13)

[III,3,11] Qualora dunque la moneta sia diversa da persona a persona, uno la mostra e ne ha quanto viene smerciato in cambio. [III,3,12] E’ venuto nella provincia un proconsole ladro. Che moneta usa? Denaro. Mostralo e porta via quanto vuoi. E’ venuto un adultero. Che moneta usa? Pupattole. “Prendi,” dice, “la moneta e vendimi l’affaruccio”. Dà e compra. [III,3,13] Un altro si industria per dei pupattoli. Dagli la moneta e prendi quanto vuoi. Un altro ama la caccia. Dagli un magnifico cavallino od un cagnolino: pur mugugnando e gemendo, ti venderà in cambio quel che vuoi. Giacché un altro lo costringe dal di dentro, chi ha posizionato questa moneta.

Diairesi e controdiairesi in atto, giudizio per giudizio (14-19)

[III,3,14] Soprattutto per questo aspetto ci si deve allenare. Subito avanzando all’alba, chi vedrai, chi sentirai, indaga, rispondi come ad una domanda. Cosa vedesti? Un magnifico giovanotto od una magnifica ragazza? Applica il canone. E’ aproairetico o proairetico? Aproairetico: rimuovi fuori. [III,3,15] Cosa vedesti? Piangere per la fine di un figliolo? Applica il canone. La morte è aproairetica: rimuovi di mezzo. Ti venne incontro un console? Applica il canone: quale cosa è il consolato? Aproairetica o proairetica? Aproairetica: rimuovi anche questo, non è valido; buttalo via, non ti riguarda. [III,3,16] Se facessimo questo ed a questo ci esercitassimo ogni giorno, dall’alba fino a notte, qualcosa accadrebbe, per gli dei! [III,3,17] Ora invece, subito siamo presi a bocca aperta da ogni rappresentazione e soltanto a scuola, se proprio è così, ci risvegliamo un poco. E poi usciti, se vedremo qualcuno piangere diciamo: “Andò in malora!”. Se vedremo un console: “Beato lui!”. Se un confinato: “Disgraziato!”. Se uno povero di denaro: “Meschino, non ha donde mangiare!”. [III,3,18] Questi malvagi giudizi bisogna stroncare, su questo concentrarsi. Giacché cos’è singhiozzare e mugugnare? Un giudizio. Cos’è la cattiva fortuna? Un giudizio. Cos’è conflitto, cos’è divergenza, cos’è biasimo, cos’è accusa, cos’è empietà, cos’è chiacchiere? [III,3,19] Questi sono tutti giudizi e null’altro, e giudizi su ciò che è aproairetico come bene e male. Uno alloghi questi su quanto è proairetico ed io mi obbligo con lui che rimarrà stabile, comunque starà quel che lo circonda.

Il mare dall’alto (20-22)

[III,3,20] Quale un bacile d’acqua, tale è l’animo; quale il raggio di luce che incoglie l’acqua, tali sono le rappresentazioni. [III,3,21] Qualora dunque l’acqua sia smossa, sembra che anche il raggio di luce sia smosso, pur se smosso non è. [III,3,22] E qualora quindi uno sia rabbuiato, non le arti e le virtù si confondono, ma lo pneuma in cui sono: ricostituendosi questo, si ricostituiscono anche quelle.

CAPITOLO 4
A CHI IN TEATRO PARTEGGIÒ SCOMPOSTAMENTE

Prendere partito per cose che non dipendono esclusivamente da noi ci metterà necessariamente in conflitto prima con altri e poi con noi stessi (1- 5) 

[III,4,1] Quando il procuratore dell’Epiro parteggiò molto scompostamente per un attore di commedia e fu per questo pubblicamente ingiuriato, e poi in seguito gli annunciò di essere stato ingiuriato e fremeva contro gli ingiuriatori E che male, diceva Epitteto, facevano? [III,4,2] Parteggiavano anche costoro come te. Quando quello disse Così dunque si parteggia? Scorgendo te, diceva Epitteto, che li comandi, amico e procuratore di Cesare, parteggiare così, non erano anch’essi per parteggiare così? [III,4,3] Giacché se non si deve parteggiare così, non parteggiare neppure tu. Se invece si deve, perché ti esasperi se essi ti imitarono? Chi hanno da imitare i più, se non voi gente eminente? Su chi devono tenere gli occhi quando vengono a teatro se non su di voi? [III,4,4] “Vedi come il procuratore di Cesare assiste allo spettacolo. Ha strillato: quindi strillerò anch’io. E’ balzato su: balzerò su anch’io. I suoi servi seduti qua e là stanno strillando. Io non ho dei servi: strillerò quanto posso da solo per tutti”. [III,4,5] Qualora entri a teatro, devi dunque sapere che vi entri da canone e paradigma, per gli altri, del come essi devono assistere allo spettacolo. 

La passione o, come più comunemente si dice la volontà, è una patologia dell’intelletto (6-12)

[III,4,6] Perché dunque ti ingiuriavano? Perché ogni persona odia quanto lo intralcia. Quelli volevano che fosse incoronato il tale, tu un altro. Quelli intralciavano te e tu loro. Tu ti trovavi ad essere più potente; quelli facevano quel che potevano, ed ingiuriavano chi intralciava. [III,4,7] Che vuoi, dunque? Fare tu quel che vuoi e quelli neppur dire quanto vogliono? Che c’è di stupefacente? Gli agricoltori non ingiuriano Zeus, qualora siano da lui intralciati? I marinai non ingiuriano? La gente cessa mai di ingiuriare Cesare? E dunque? [III,4,8] Zeus non lo sa? Quanto detto non è annunciato a Cesare? E che cosa fa? Sa che se facesse castigare tutti gli ingiuriatori non avrebbe più su chi comandare. [III,4,9] E dunque? Entrando a teatro bisognerebbe dire questo “Orsù, facciamo che sia incoronato Sofrone”? No, ma quell’ “Orsù, facciamo di serbare, su questo materiale, la mia proairesi in accordo con la natura delle cose”. [III,4,10] Nessuno mi è più amico di me. Dunque è ridicolo che io danneggi me perché vinca uno che fa il commediante. [III,4,11] -Chi dunque dispongo che vinca?- Il vincitore; e così vincerà sempre chi dispongo io. -Ma io voglio che sia incoronato Sofrone- A casa celebra quante gare vuoi e proclamalo vincitore ai giochi Nemei, ai Pitici, agli Istmici, agli Olimpici; ma sotto gli occhi di tutti non prevaricare e non carpire quanto è comune. [III,4,12] Se no, tollera d’essere ingiuriato; giacché qualora tu faccia lo stesso che i più, ti istituisci loro pari.

CAPITOLO 5
A QUANTI SI ALLONTANANO PER MALATTIA

Malattie e malattia dell’insipienza (1-6)

[III,5,1] –Qua, dice, sono ammalato e voglio andarmene a casa- [III,5,2] Giacché a casa eri al riparo dalla malattia? Non consideri se qua fai qualcuna delle cose che portano alla rettificazione della tua proairesi? Giacché se non concludi nulla, è superfluo che tu sia venuto. [III,5,3] Vattene; sii sollecito delle faccende di casa. Se infatti il tuo egemonico non può stare in accordo con la natura delle cose, lo potrà il fondicello: accrescerai il quattrinello, assisterai il vecchio padre, ti aggirerai per la piazza, occuperai cariche. Cattivo come sei, che cosa mai del seguito non farai malamente? [III,5,4] Se invece comprendi tra te e te che butti via dei giudizi insipienti e ne apprendi altri al posto loro; che hai allogato la tua stazione da ciò che è aproairetico a ciò che è proairetico; che se dirai “Ohimè” non lo dici per colpa del padre o del fratello ma “per colpa mia” ebbene, computi ancora la malattia? [III,5,5] Non sai che malattia e morte sono tenute a pigliarci mentre qualcosa facciamo? L’agricoltore lo pigliano mentre coltiva; il navigante mentre naviga. [III,5,6] E tu vuoi essere pigliato mentre fai che cosa? Giacché devi essere pigliato mentre fai qualcosa. Se puoi essere pigliato mentre fai qualcosa di migliore di questo, fallo. 

Le parole di Epitteto morente (7-11)

[III,5,7] A me accada di essere pigliato mentre di null’altro sono sollecito che della mia proairesi, con lo scopo di saper dominare la passione, di non essere soggetto ad impedimenti, non essere soggetto a costrizioni, di essere libero. [III,5,8] Questo affettando dispongo di essere trovato, per poter dire alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia: “Violai forse le tue istruzioni? Usai forse per altri fini le risorse che mi desti? Usai forse balordamente le sensazioni, i pre-concetti? Ti incolpai forse mai? Biasimai forse il tuo governo? [III,5,9] Mi ammalai quando tu lo disponesti: anche gli altri, ma io di buon grado. Divenni povero di denaro perché tu lo disponesti, ma rallegrandomi. Non occupai cariche perché non lo disponesti: non smaniai mai per delle cariche. Mi vedesti forse per questo più cupo? Non ti venni mai innanzi col viso raggiante, pronto ai tuoi ordini, ai tuoi significati? [III,5,10] Ora disponi che io parta dalla sagra: me ne vado ed ho per te ogni grazie perché mi sollecitasti ad essere con te alla sagra, a vedere le opere tue ed a comprendere con te il tuo governo”. [III,5,11] Possa la morte pigliarmi mentre pondero queste cose, questo scrivo, questo leggo. 

Invece tu dici: “Voglio certe cure… voglio certi letti” (12-13)

[III,5,12] -Ma mia madre non stringerà la testa di me ammalato!- Vattene quindi da tua madre, giacché meriti di essere ammalato con la testa stretta da qualcuno. [III,5,13] -Ma a casa giacevo su un grazioso lettuccio- Vattene al tuo lettuccio; meriti di star bene giacendo su un lettuccio siffatto. Quindi non perdere quel che puoi fare là. 

L’esempio di Socrate (14-19)

[III,5,14] Ma Socrate che dice? “Come uno”, dice, “si rallegra di migliorare il proprio fondo, un altro il cavallo, così io mi rallegro ogni giorno comprendendo di diventare migliore”. [III,5,15] -Per cosa? Per delle elocuzioncelle?- O uomo, zitto! -Forse per i principi generali della filosofia?- Che fai? [III,5,16] -E davvero non scorgo cos’altro è ciò su cui si impegnano i filosofi- Reputi essere nulla il non incolpare mai nessuno, né dio né uomo; non biasimare nessuno; portare dentro e fuori sempre lo stesso viso? [III,5,17] Questo era quanto sapeva Socrate ed ugualmente non disse mai di sapere od insegnare qualcosa. Se qualcuno gli chiedeva elocuzioncelle o principi filosofici generali, li menava da Protagora, da Ippia. Giacché se qualcuno fosse venuto a cercare ortaggi, lo avrebbe menato dall’ortolano. [III,5,18] Chi di voi ha questo progetto? Dacché se l’aveste, sareste ammalati, soffrireste la fame, morireste con piacere. [III,5,19] Se uno di voi fu mai innamorato di una pupattola graziosa, sa che dico la verità.

CAPITOLO 6
DETTI SPARSI

Si fa profitto solamente in ciò in cui ci si impegna (1-4)

[III,6,1] Quando uno cercò di sapere come mai, pur essendosi ora maggiormente prodigato sulla logica, i maggiori profitti c’erano stati prima, [III,6,2] In cosa, diceva, ci si è prodigati ed in cosa maggiori erano allora i profitti? Giacché in ciò su cui ci si è prodigati ora, profitti in questo si troveranno anche ora. [III,6,3] Ora ci si prodiga per risolvere sillogismi, e dei profitti ci sono. Allora invece ci si prodigava per serbare l’egemonico in accordo con la natura delle cose, e dei profitti c’erano. [III,6,4] Non scambiare dunque una cosa per l’altra e non cercare, qualora ti prodighi in un campo, di profittare in un altro. Vedi se uno di noi non fa profitto, quando si dedica a fare in modo di stare e tragittarsela in accordo con la natura delle cose. Non ne troverai nessuno.

Il virtuoso è invincibile solo nella virtù (5-7)

[III,6,5] L’industrioso nella virtù è invitto, giacché non gareggia dove non è migliore. [III,6,6] “Se vuoi quel che riguarda il fondo, prendilo; prendi i domestici, prendi la carica, prendi il corpo. Ma non farai fallito il mio desiderio né la mia avversione incappare in quanto avversa”. [III,6,7] Egli si lancia soltanto in questa gara, quella intorno a ciò che è proairetico. Come dunque non è per essere invitto?

La comune mente (8)

[III,6,8] Quando uno cercò di sapere cos’è la comune mente, “Come, dice, si potrebbe chiamare udito comune l’udito atto solamente a distinguere voci, mentre quello atto a distinguere gli intervalli musicali non è più comune ma artistico, così vi sono cose che quanti non sono integralmente pervertiti vedono in virtù delle comuni risorse degli esseri umani. Siffatta condizione si chiama comune mente.

Il ragionamento è cibo per giovani di belle qualità, non per rammolliti (9-10)

[III,6,9] Non è facile spronare dei giovani rammolliti, come non lo è prendere del formaggio con un amo. Invece i purosangue, anche se li tratterrai, ancor più si attengono alla ragione. [III,6,10] Perciò anche Rufo, il più delle volte, tratteneva ed usava questo criterio per valutare i giovani purosangue ed i bastardi. Diceva, infatti: “Come il sasso, anche se lo butterai in alto verrà portato giù a terra in virtù della propria struttura, così anche il purosangue, quanto più uno lo spinge indietro, tanto più accenna a ciò per cui è nato”.

CAPITOLO 7
AL CORRETTORE DELLE CITTÀ LIBERE, CHE ERA EPICUREO

Domande ad un altissimo funzionario della città che governa il mondo: cosa vi è di più possente in relazione all’essere umano? Animo? Carne? Oggetti esterni? (1-4)

[III,7,1] Quando entrò da lui il Correttore (era un epicureo) Merita, diceva Epitteto, che noi persone comuni cerchiamo di sapere da voi filosofi -appunto come fanno coloro che vengono in una città straniera e cercano di averne notizie dai cittadini e da chi sa-, cos’è più possente nell’ordine del mondo; affinché anche noi ne andiamo in cerca per visitarlo ed osservarlo, come quelli con le opere più eccellenti nelle città. [III,7,2] Quasi nessuno obietta che tre cose concernono l’essere umano: animo, corpo, oggetti esterni. Orbene, è compito vostro rispondere quale sia la più possente. [III,7,3] Che diremo alla gente? La carne? E per questa Massimo insieme al figlio navigò in scorta, d’inverno, fino a Cassiope, per godere nella carne? [III,7,4] Ma quello lo negava dicendo: non sia mai! Non conviene parteggiare per quanto è più possente? -Conviene più di tutto- Cos’abbiamo dunque più possente della carne? -L’animo, diceva il Correttore. – I beni del più possente sono migliori di quelli del più insipiente? –Sono migliori quelli del più possente- 

Per alcuni, i retti giudizi sul nostro corpo (salute, integrità fisica, ecc…) e sugli oggetti esterni (lavoro, denaro, ecc…) sono i beni dell’animo e quindi le fonti del piacere dell’animo; così come i corrispondenti giudizi non-retti sono i mali dell’animo e le fonti del suo dispiacere. Beni e mali dell’animo sono dunque proairetici (5-7)

[III,7,5] Ed i beni dell’animo sono proairetici od aproairetici? -Proairetici- Il piacere dell’animo è dunque proairetico? -Sì, diceva l’altro- [III,7,6] E questo piacere in seguito a che cosa accade? In seguito a se stesso? Ma è impensabile; giacché deve sottostare una qualche sostanza cardinale del bene, centrando la quale godremo nell’animo. -Ammetteva anche questo- [III,7,7] Dunque in seguito a che cosa godremo questo piacere dell’animo? Se, infatti, lo godremo in seguito ai beni dell’animo, è stata trovata la sostanza del bene. Giacché non può essere altro il bene ed altro ciò per cui ci esaltiamo ragionevolmente né, se il cardinale non è un bene, che la risultante sia un bene. Affinché sia ragionevole la risultante, il cardinale deve essere un bene.

Per altri, non i retti giudizi sulla salute, sull’integrità fisica, sul lavoro, sul denaro, ecc… bensì la salute stessa, l’integrità fisica stessa, il lavoro di per sé, il denaro di per sé, oppure i loro contrari sono i beni od i mali dell’animo e quindi le fonti del suo piacere o della sua afflizione. Beni e mali dell’animo sono dunque aproairetici (8-10)

[III,7,8] Ma non c’è pericolo che voi lo diciate, se avete buonsenso; altrimenti direte cose inconseguenti con Epicuro e con gli altri vostri giudizi. [III,7,9] Orbene, ne sopravanza che il piacere dell’animo si goda in seguito alla presenza dei beni del corpo: quelli diventano di nuovo cardinali e sostanza del bene. [III,7,10] Per questo Massimo fece cosa stolta se navigò per qualcos’altro che per la carne, cioè per quanto è più possente.

Suvvia, un po’ di coerenza! Se i beni dell’animo sono aproairetici ed il denaro è un bene, perché non rubare? (11-16)

[III,7,11] E fa cosa stolta anche se, quando è giudice, si astiene da averi allotrii potendo prenderli. Ma, se lo reputerai, analizziamo soltanto come debba fare affinché ciò accada nascostamente, in sicurezza ed uno non lo riconosca. [III,7,12] Né lo stesso Epicuro dichiara male il rubare, bensì l’imbattersi in chi ci scopre; e poiché è impossibile avere malleveria di sfuggire alla scoperta, per questo dice: “Non rubate”. [III,7,13] Invece io ti dico che se accadrà in modo elegante ed occulto, sfuggiremo; e poi abbiamo a Roma amici che possono, ed amiche; inoltre i Greci sono fannulloni: nessuno avrà l’audacia di salire su per questo. [III,7,14] Perché ti astieni dal tuo peculiare bene?Questo è stolto, è sciocco. Neppure se mi dirai che te ne astieni, mi fiderò di te. [III,7,15] Giacché com’è impossibile assentire a quanto appare falso e stornarsi dal vero, così è impossibile distornarsi da quanto pare bene. La ricchezza di denaro è un bene e, quale che sia, certo il più fattivo di ebbrezze. [III,7,16] Perché non te lo procaccerai? Perché non rovineremo la moglie del vicino, se potremo sfuggire alla scoperta? E se il marito farà chiacchiere, perché non gli faremo rompere l’osso del collo? 

Beati coloro che parlano male e razzolano bene (17-18)

[III,7,17] Così è se vuoi essere un filosofo quale si deve, uno perfetto, conseguente con i tuoi giudizi. Se no, in nulla differirai da noi detti Stoici; giacché anche noi altro diciamo ed altro facciamo. [III,7,18] Noi diciamo cose belle e facciamo cose brutte; tu invece sarai stato pervertito della perversione opposta, dal momento che hai brutti giudizi e fai cose belle.

Ti offendi se faccio una piccola caricatura di Epicuropoli? (19-23)

[III,7,19] Per Zeus, la divisi tu una città di Epicurei? “Io non mi sposo”. “Io neppure: giacché non ci si deve sposare”. E neppure fare figli né interessarsi di affari cittadini. Che dunque accadrà? Donde verranno i cittadini? Chi li educherà? Chi sarà capo degli efebi, chi sarà ginnasiarca? Ed a cosa li educherà? A ciò cui erano educati gli Spartani o gli Ateniesi? [III,7,20] Prendimi un giovane e conducilo secondo i tuoi giudizi. Sono giudizi malvagi, sovvertitori di città, guastatori di case, che non si confanno alla donna. [III,7,21] Lasciali, o uomo. Tu vivi in una città imperiale: tu devi comandare; arbitrare con giustizia; astenerti dagli averi allotrii; nessuna donna deve apparirti magnifica se non la tua; magnifico nessun ragazzo, magnifica nessuna argenteria né oreficeria. [III,7,22] Cerca giudizi in armonia con questo, e prendendo impulso da essi ti asterrai con piacere da faccende così persuasive a condurre e vincere la gente. [III,7,23] Ma se, oltre la loro persuasività, noi avremo pure inventato questa certa filosofia che ad esse insieme ci spintona e le rinforza, che accadrà?

Strana città, invece, quella di Crisippopoli: qui gli uomini arrossiscono di vergogna quando non sono leali, liberi, rispettosi di sé e degli altri, e provano piacere soltanto quando lo sono (24-28)

[III,7,24] In una cesellatura cos’è più possente: l’argento o l’arte? Sostanza di una mano è la carne, ma cardinali sono le opere della mano. [III,7,25] [Ci sono tre tipi di opere doverose: opere doverose riguardo all’essere; opere doverose riguardo all’essere in un certo modo; ed opere cardinalmente tali.] Così anche dell’uomo non bisogna onorare il materiale, la carne, ma i cardinali. [III,7,26] Quali sono questi cardinali? Interessarsi di affari cittadini, sposarsi, fare figli, venerare dio, esser sollecito dei genitori; in generale, desiderare, avversare, impellere, repellere come si deve fare ciascuna di queste cose e come siamo nati per fare. [III,7,27] E come siamo nati per farlo? Da uomini liberi, generosi, rispettosi di sé e degli altri. Giacché quale altra creatura arrossisce, quale coglie la rappresentazione di vergognoso? [III,7,28] A questo subordina il piacere come ministro, come servitore, affinché ci provochi dello slancio, affinché presieda alle nostre opere secondo la natura delle cose.

Un drammatico finale (29-36)

[III,7,29] -Ma io sono ricco di denaro e di nulla ho bisogno- Perché dunque simuli ancora di essere filosofo? Ti bastano l’argenteria e l’oreficeria: che bisogno hai di giudizi? [III,7,30] -Ma sono anche arbitro dei Greci- Sai arbitrare? Che cosa ti diede questo sapere? -Cesare mi scrisse un codicillo- [III,7,31] Che te ne scriva uno, affinché arbitri in questioni di musica! E che pro per te? Ugualmente, come diventasti arbitro? Dopo avere baciato quale mano, quella di Sinforo o quella di Numenio? Dopo esserti coricato davanti alla camera da letto di chi? Dopo avere mandato doni a chi? E poi non ti accorgi che essere arbitro, di cotanto è degno quanto di Numenio? -Ma posso far buttare in prigione chi voglio- [III,7,32] Come un sasso. -Ma posso far prendere a legnate chi voglio- Come un asino. Questo non è comando d’uomini. [III,7,33] Comandaci come creature logiche, mostrandoci quanto è utile, e noi ti seguiremo. Mostra quanto non è utile e ce ne distoglieremo. [III,7,34] Strutturaci tuoi emuli, come Socrate di sé. Quello era chi le comanda come uomini, chi le ha strutturate in modo che abbiano subordinato a lei, alla ragione, il loro desiderio, l’avversione, l’impulso, la repulsione. [III,7,35] “Fa’ questo, non fare questo; se no, ti farò buttare in prigione”. Questo non è più comando di noi come creature logiche. [III,7,36] Ma: “Come Zeus costituì, questo fa’; se non lo farai sarai punito, sarai danneggiato”. Quale danno? Nessun altro se non quello di non fare quel che si deve. Manderai in malora l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, il cittadino del mondo che è in te. Non cercare altri danni più grandi di questi.

CAPITOLO 8
COME BISOGNA ALLENARSI CON LE RAPPRESENTAZIONI ?

Ciò che è aproairetico non può essere né bene né male; soltanto ciò che è proairetico può essere tale (1-5)

[III,8,1] Come ci alleniamo con le domande sofistiche, così bisognerebbe allenarsi ogni giorno anche con le rappresentazioni, [III,8,2] giacché anch’esse ci porgono delle domande. Morì il figlio del tale. Rispondi: “Aproairetico, non male”. Il padre lasciò diseredato il tale. Cosa reputi? “Aproairetico, non male”. Cesare lo condannò. “Aproairetico, non male”. [III,8,3] Fu afflitto per questo. “Proairetico, male”. Resse l’evento con generosità. “Proairetico, bene”. [III,8,4] Se ci abitueremo così, faremo profitto; giacché non assentiremo mai ad altro che laddove la rappresentazione diventa catalettica. [III,8,5] Morì il figlio. Che accadde? Morì il figlio. Null’altro? Nulla. Il bastimento andò in malora. Che accadde? Il bastimento andò in malora. Fu menato in prigione. Cos’è accaduto? Fu menato in prigione. Il che “E’ finito male” ciascuno lo addiziona di suo. 

Ma la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, fa male a fare così (6)

[III,8,6] “Ma Zeus non fa questo rettamente”. Perché? Perché ti fece capace di reggere gli eventi, magnanimo; perché sottrasse agli eventi esterni la qualità di essere mali; perché hai la potestà di essere felice anche sperimentandoli; perché aprì la porta qualora non facciano per te? O uomo, esci e non incolpare. 

I Romani e la filosofia (7)

[III,8,7] Se vorrai riconoscere come la pensano i Romani dei filosofi, ascolta. Italico, che è reputato essere un loro grandissimo filosofo, in mia presenza una volta si esasperò con i suoi come se sperimentasse le più atroci sofferenze: “Non posso,” diceva, “sopportare: mi mandate in malora, mi farete diventare siffatto,” e mostrava me.

CAPITOLO 9
AD UN ORATORE CHE SALIVA A ROMA PER UN PROCESSO

Per ogni persona causa dell’azione è un giudizio (1-3)

[III,9,1] Quando entrò da lui un tale che saliva a Roma per un processo legato alla sua carica onorifica, cercando di sapere la cagione per cui saliva e domandandogli quello la sua intelligenza della faccenda, [III,9,2] Se cerchi di sapere da me cosa effettuerai a Roma, dice Epitteto, se avrai successo o fallirai, ebbene non ho un principio generale al riguardo. Se però cerchi di sapere come andrà a finire, dico che se hai retti giudizi finirà bene; se insipienti, male. Giacché causativo del come si effettua qualcosa è il giudizio. [III,9,3] Qual è infatti il motivo per cui smaniasti di essere eletto per alzata di mano Patrocinatore dei cittadini di Cnosso? Il giudizio. Qual è il motivo per cui ora sali a Roma? Il giudizio. E d’inverno, con pericolo e spese? -Giacché è necessario- Chi ti dice questo? Il giudizio. 

Buoni giudizi fanno buone azioni, cattivi giudizi cattive azioni (4-6)

[III,9,4] Se dunque causativi di tutto sono i giudizi ed uno ha giudizi insipienti, quale sarà il causativo siffatto sarà anche il risultato. [III,9,5] Dunque tutti abbiamo giudizi sani, sia tu sia il tuo avversario? E come mai litigate? Sani sono i tuoi piuttosto che i suoi? E perché? Perché lo reputi? Anche quello lo reputa ed anche i pazzi lo reputano. [III,9,6] Questo è un malvagio criterio. Mostrami invece di avere fatto qualche esame e prestato sollecitudine ai tuoi giudizi. E poiché adesso navighi verso Roma per il fatto di essere Patrocinatore dei cittadini di Cnosso, e non ti è bastante rimanere a casa con le onorificenze che avevi, ma smani per qualcuna più grande e più notoria; ebbene, quando navigasti così in nome di un esame dei tuoi giudizi e, se ne hai qualcuno insipiente, per espellerlo? 

Nel corso della vita hai avuto cura dei tuoi giudizi? (7-11) 

[III,9,7] Davanti a chi sei venuto per questo? Per quale tempo te lo ordinasti, per quale età? Vieni ai tempi della tua vita, se ti vergogni di me, fra te e te. [III,9,8] Quando eri ragazzo indagavi i tuoi giudizi? Non fai tutto ora, come allora facevi quel che facevi ? Quando eri già adolescente e sentivi parlare degli oratori e tu stesso declamavi, cosa immaginavi ti mancasse? [III,9,9] Quando eri un giovanotto e già ti interessavi di affari cittadini, parlavi ai processi ed avevi applausi, chi ti pareva ancora esserti pari? E dove avresti tollerato di essere indagato da qualcuno perché hai giudizi malvagi? [III,9,10] Cosa vuoi dunque che ti dica? -Aiutami nella faccenda- Non ho, per questo, principi generali; e se sei venuto da me per questo, non sei venuto come da un filosofo ma come si va da un verduriere o da un calzolaio. [III,9,11] -Ma i filosofi per cos’hanno dunque dei principi generali?- Per questo: qualunque cosa succederà, per avere e tragittare il nostro egemonico in accordo con la natura delle cose. Reputi piccola cosa, questa? -No, ma grandissima- E dunque? Ha bisogno di poco tempo ed è possibile prenderla di passaggio? Se puoi, prendila!

Cosa significa incontrarsi da uomo a uomo (12-14)

[III,9,12] E poi dirai: “Conferii con Epitteto come con un sasso, come con una statua”. Giacché mi vedesti e nulla più. Da uomo a uomo conferisce, invece, chi decifra i giudizi dell’altro ed a sua volta mostra i propri. [III,9,13] Decifra i miei giudizi, mostrami i tuoi, e così dì di avere conferito con me. Controlliamoci l’un l’altro: se ho qualche giudizio cattivo, eliminalo; se l’hai tu, ponilo in mezzo. [III,9,14] Questo è conferire con un filosofo. No; ma “Siamo di passaggio e, sinché noleggiamo il bastimento, possiamo anche vedere Epitteto. Vediamo che cosa dice mai”. E poi uscendo “Epitteto era nulla; parlava una lingua piena di solecismi e barbarismi”. Per essere arbitri di cos’altro, infatti, entrate? 

La ricchezza dell’uomo (15-17)

[III,9,15] “Ma se starò dietro a queste cose,” dice, “un fondo non avrò, come neppure tu; tazze argentate non avrò, come neppure tu; non avrò del bel bestiame, come neppure tu…” [III,9,16] A ciò parimenti basta dire quel “Ma io non ne ho bisogno mentre tu, pur se molto acquisirai, hai bisogno di altro e, lo voglia o no, sei più poveraccio di me”. [III,9,17] -Di cosa ho bisogno?- Di quanto non ti è presente: di essere stabile, avere l’intelletto in accordo con la natura delle cose, non essere sconcertato. 

Giudizi di coccio e suppellettili dorate (18-21)

[III,9,18] Patrono, non patrono, che m’importa? Importa a te. Sono più ricco di te: non sono in ansia per cosa Cesare pregerà di me; non adulo nessuno per questo. Questo ho in cambio dell’argenteria e dell’oreficeria. Tu suppellettili d’oro, ma di terracotta la ragione, i giudizi, gli assensi, gli impulsi, i desideri. [III,9,19] Qualora io abbia ciò in accordo con la natura delle cose, perché non lavorerò con arte anche sulla ragione? Giacché ne ho la comodità; il mio intelletto non è distratto. Non essendo distratto, che farò? Ho qualcosa più da uomo di questo? [III,9,20] Voi, qualora nulla abbiate da fare, siete sconcertati, entrate a teatro o bighellonate. Perché il filosofo non elaborerà la propria ragione? [III,9,21] Tu la cristalleria, io il “Mentitore”. Tu le porcellane, io il “Diniegatore”. Le cose che hai, paiono a te tutte piccole; a me, le mie paiono tutte grandi. La tua smania è insaziabile, la mia è stata saziata. 

Con la mano in un vaso dal collo stretto (22)

[III,9,22] Avviene la stessa cosa ai bimbi che fanno scendere la mano in un vaso di coccio dal collo stretto e ne portano fuori fichi secchi e noci. Se empirà la mano, il bimbo non può cavarla e poi singhiozza. Lasciane un po’ e la caverai. Anche tu lascia il desiderio; non smaniare per molte cose e te la caverai.

CAPITOLO 10
COME SI DEVONO SOPPORTARE LE MALATTIE ?

Avere giudizi adeguati alle circostanze (1-4)

[III,10,1] Qualora vi sia bisogno di ciascun distinto giudizio, si deve averlo a portata di mano: per colazione, i giudizi sulla colazione; alle terme, i giudizi sulle terme; a letto, i giudizi sull’essere a letto. [III,10,2] *E non accogliere il sonno sui molli occhi prima di darsi conto di ciascuna delle opere della giornata. [III,10,3] “Dove violai..? Cosa feci..? Cosa dovevo ma non è stato compiuto..?” Iniziando da questo, prosegui; poi “Censura quanto di vile facesti e gioisci del buono”.* [III,10,4] E bisogna rattenere efficacemente queste righe, non per esercitare la voce come con “Peana Apollo!” 

Ecco la malattia e la febbre (5)

[III,10,5] Di nuovo, davanti alla febbre bisogna avere a portata di mano i giudizi per questo e non, se avremo la febbre, tralasciare e dimenticare tutto. “Se io filosoferò ancora, allora accada pure quel che vuole. Devo partire per qualche dove per prendere sollecitudine del corpo”. Se proprio pure la febbre non ci viene! 

Ecco i giudizi messi alla prova. Nel corso di questa prova alcuni si mostrano abilissimi nel trasformare in merda tutto quello che toccano, mentre alcuni riescono invece a fare anche della merda una cosa bella (6-9)

[III,10,6] E filosofare cos’è? Non è prepararsi a quanto avviene? Non comprendi dunque di dire una cosa siffatta: “Se io mi preparerò ancora a sopportare con mitezza quanto avviene, allora accada pure quel che vuole!” E’ come se uno si distornasse dal combattere nel pancrazio perché prende delle botte. [III,10,7] Ma là si ha la potestà di disciogliersi e non essere conciati mentre qua, se ci discioglieremo dal filosofare, che pro? Cosa ci si deve dunque dire davanti a ciascun evento rude? Che “Per questo mi allenavo; su questo mi esercitavo”. [III,10,8] La Materia Immortale, ovvero la Pronoia, ti dice “Dammi dimostrazione se ti cimentasti legalmente, mangiasti quanto si deve, se ti allenasti, se ascoltasti il maestro di ginnastica”. E poi ti ammoscisci proprio sull’opera? Ora è tempo di avere la febbre: che questo diventi bello! Di avere sete: abbi sete da bello! Di avere fame: abbi fame da bello! [III,10,9] Non è in tuo esclusivo potere? Chi ti impedirà? Il medico vieterà di bere, ma non può impedire di avere sete da bello. Vieterà anche di mangiare, ma non può impedire di avere fame da bello. 

Oh professore,mio professore! E tu a quali ‘alcuni’ appartieni? (10-15)

[III,10,10] -Ma non sono un erudito?- Ed a che scopo ti erudisci? Schiavo! Non è per essere sereno? Non è per essere stabile? Non è per stare e tragittartela in accordo con la natura delle cose? [III,10,11] Cosa impedisce che chi ha la febbre abbia l’egemonico in accordo con la natura delle cose? Qua è il controllo della faccenda, la valutazione di chi fa filosofia. Giacché è parte della vita anche questo, cioè la febbre, come una passeggiata, come un viaggio per mare o per terra. [III,10,12] Forse che mentre passeggi, leggi? -No- Così neppure quando hai la febbre. Ma se passeggerai da bello, hai quel che deve avere chi passeggia. Se avrai la febbre da bello, avrai quel che deve avere chi ha la febbre. [III,10,13] Cos’è avere la febbre da bello? Non biasimare né dio né uomo; non essere oppresso dagli avvenimenti; accettare bene e da bello la morte; fare quanto è ingiunto. Qualora entri il medico, non avere paura di quel che dice né, se dirà “Stai leggiadramente”, rallegrarsi oltre misura. Giacché che bene ti disse? [III,10,14] Quand’eri in salute che bene era questo per te? Né, se dirà “Stai male”, scoraggiarsi. Giacché cos’è lo stare male? Un approssimarsi alla dissoluzione dell’animo dal corpo. Che c’è di terribile? Se non ti approssimerai ora, non ti approssimerai successivamente? E l’ordine del mondo sta per essere sovvertito dalla tua morte? [III,10,15] Perché dunque aduli il medico? Perché dici “Se tu vorrai, Signore, starò bene”? Perché gli procuri un movente per dispiegare il cipiglio? Non gli restituisci il suo valore, come al calzolaio per il piede, come al falegname per la casa, così pure al medico per il corpo, per quanto non è mio, quanto è per natura cadaverico? Per chi ha la febbre è tempo di questo: se lo assolverà, ha il suo. 

Il compito del filosofo (16-17)

[III,10,16] Giacché non è opera del filosofo serbare questi oggetti esterni, né il vino né l’olio né il corpo ma cosa? Il proprio egemonico. E l’al di fuori, come trattarlo? Fino a non condursi al riguardo irragionevolmente. [III,10,17] Dov’è ancora tempo di avere paura? Dov’è ancora tempo d’ira? Dove di paura per l’allotrio, per il privo di valore? 

Io non cerco soltanto, io trovo (18-20)

[III,10,18] Giacché si devono avere a portata di mano questi due principi generali: che al di fuori della proairesi nulla vi è né di bene né di male; e che non si devono precedere le faccende ma aderirvi. [III,10,19] “Mio fratello non dovrebbe comportarsi così con me”. No; ma questo lo vedrà lui. Io invece, comunque si comporterà, userò come si deve nei suoi confronti. [III,10,20] Giacché questo è mio; quello, allotrio. Questo, nessuno può impedirlo; quello è soggetto ad impedimenti.

CAPITOLO 11
DETTI SPARSI

L’impossibilità di violare le leggi della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, e la tragica catena di controdiairesi, vizio, infelicità (1-3)

[III,11,1] Per coloro che disubbidiscono al governo della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, vi sono castighi costituiti come per legge: [III,11,2] “Chiunque riterrà bene qualcos’altro da ciò che è proairetico invidi, smani, aduli, si sconcerti. Chiunque riterrà male altro si affligga, pianga, si lamenti, abbia cattiva fortuna”. [III,11,3] Ed ugualmente così amaramente castigati, non possiamo distornarci.

Zeus riguarda tutti (4-6)

[III,11,4] Ricorda quel che dice il poeta circa l’ospite: “Straniero, non è mio costume -venga pure uno più malconcio di te- trattar male gli ospiti; tutti da parte di Zeus vengono gli stranieri ed i poveracci”. [III,11,5] Bisogna dunque avere questo a portata di mano anche per un padre: non è mio costume -venga pure uno più malconcio di te- trattar male un padre; giacché da parte di Zeus son tutti, il Paterno. [III,11,6] E per un fratello: giacché da parte di Zeus son tutti, il Parentale. E così per le altre relazioni sociali troveremo lo Zeus che le riguarda.

CAPITOLO 12
SULL ‘ ESERCIZIO PRATICO

Noi siamo abituati ad esercitare desiderio ed avversione soltanto verso ciò che è aproairetico. Se dunque intendiamo vivere felici dobbiamo cambiare abitudini (1-6)

[III,12,1] Gli esercizi pratici non devono esser fatti attraverso esibizioni contro natura e bizzarre dacché allora noi, che diciamo di fare filosofia, non differiremo in nulla dai saltimbanchi. [III,12,2] Anche camminare su una corda è difficile, e non solo difficile ma pure pericoloso. Per questo dobbiamo anche noi studiare a camminare su una corda od arrampicare una palma oppure abbracciare statue? Nient’affatto! [III,12,3] Non il prodigarsi su tutto quanto è difficile e pericoloso è idoneo per l’esercizio pratico ma solo il prodigarsi su quanto è comportato dall’obiettivo. [III,12,4] Cos’è prodigarsi sull’obiettivo? Nel desiderio e nella avversione condursi in modo non soggetto ad impedimenti. E questo cos’è? Desiderando non fallire, né avversando incappare in quanto si avversa. Anche l’esercizio pratico deve dunque propendere a questo. [III,12,5] Dacché è impossibile avere il desiderio che non fallisce il segno e l’avversione che non incappa in quanto avversa senza grande e costante esercizio, sappi che se permetterai che esso sia distolto fuori, a ciò che è aproairetico, non avrai un desiderio che va a segno né un’avversione che non incappa in quanto avversa. [III,12,6] E dacché l’abitudine è un precedente potente, essendo noi abituati ad usare desiderio ed avversione soltanto per ciò che è aproairetico, bisogna contrapporre a questa abitudine l’abitudine opposta, e dove vi è maggiore lubricità delle rappresentazioni là contrapporre la pratica dell’esercizio.

L’esercizio pratico sul desiderio e sull’avversione (7-12)

[III,12,7] Ho inclinazione per il piacere fisico: oscillerò all’opposto oltre misura, per esercizio pratico. Ho avversione per il dolore fisico: consumerò ed allenerò a questo le mie rappresentazioni, per distornare l’avversione ad ogni cosa siffatta. [III,12,8] Giacché chi è asceta? Chi studia a non usare il desiderio e ad usare l’avversione soltanto per ciò che è proairetico. E studia di più le cose disagevoli, in quanto uno deve esercitarsi di più in una cosa ed un altro in un’altra. [III,12,9] Che cosa ci fa qua l’arrampicare una palma od il portare in giro un tettuccio di pelle, un mortaio ed un pestello? [III,12,10] O uomo esercitati, se sei focoso, a tollerare d’essere ingiuriato ed a non adontarti d’essere deprezzato. E poi andrai avanti così per dire a te stesso, se qualcuno ti colpirà, “Fa conto di avere abbracciato una statua”. [III,12,11] E poi usa con raffinatezza del vino, non per berne molto (giacché pure su questo vi sono dei sinistri asceti) ma innanzitutto per essertene astenuto, come da una pupattola e da una focaccetta. E poi una volta in nome, se proprio sarà il caso, di una valutazione, ti lancerai tempestivamente a riconoscere se le rappresentazioni ti sconfiggono similmente al passato. [III,12,12] Le prime volte, però, fuggi lontano dalle più potenti. Impari è la battaglia tra una pupattola graziosa ed un giovane che inizia a fare filosofia. Pentola e pietra, si dice, non vanno d’accordo.

L’esercizio pratico sugli impulsi e sulle repulsioni (13)

[III,12,13] Dopo desiderio ed avversione, il secondo àmbito è quello dell’impulso e della repulsione: per essere obbedienti alla ragione, per non agire fuori tempo, fuori luogo o fuori di qualche altra simmetria siffatta.

L’esercizio pratico sugli assensi ed i dissensi (14-16)

[III,12,14] Terzo è quello degli assensi, quello che concerne il persuasivo e trascinante. [III,12,15] Come, infatti, Socrate diceva non da vivere una vita non sottoposta ad indagine, così non è da accettare una rappresentazione non sottoposta ad indagine, ma si deve dire: “Aspetta, lascia che veda chi sei e donde vieni”, come le sentinelle notturne dicono “Mostrami i contrassegni”. “Hai da parte della natura il segno distintivo che deve avere la rappresentazione che sarà accettata?” [III,12,16] Orbene, quanti esercizi sono appressati al corpo da coloro che lo allenano, se propenderanno in qualche modo a desiderio ed avversione, sarebbero praticabili anch’essi. Se invece tenderanno allo sfoggio, sono propri di chi ha accennato fuori di sé, di chi dà la caccia a qualcos’altro e cerca degli spettatori che dicano “Oh, che grand’uomo!”

Meglio essere che sembrare: non tendere alla lode altrui (17)

[III,12,17] Per questo Apollonio diceva bene che “qualora disponga di esercitarti per te stesso, se una volta per la calura hai sete, sorbisci una sorsata d’acqua fresca poi sputa e non dirlo a nessuno”.

CAPITOLO 13
COS’ È ISOLAMENTO E CHI È ISOLATO

Isolamento non è essere soli ma essere senza aiuto (1-8)

[III,13,1] Isolamento è la condizione di chi è senza aiuto. Giacché chi è solo non è subito anche isolato, come neppure chi è fra molta gente è non isolato. [III,13,2] Qualora dunque perdiamo un fratello, un figlio, un amico nel quale troviamo conforto, diciamo di essere rimasti isolati pur trovandoci spesso a Roma, con cotanta folla che ci viene incontro e coabitando con cotante persone e magari avendo pure uno stuolo di servi. Secondo il concetto si intende, infatti, per isolato chi è senza aiuto ed esposto a coloro che decidono di danneggiare. [III,13,3] Per questo, qualora siamo in viaggio, allora soprattutto ci diciamo isolati qualora ci imbattiamo in rapinatori. Giacché non è la vista di una persona a strappare dall’isolamento, ma quella di un uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, giovevole. [III,13,4] Dacché se basta essere solo per essere isolato, dì allora che anche Zeus, al momento della conflagrazione dell’universo, è isolato e singhiozza disperato di sé: “Sciagurato me! Non ho né Era né Atena né Apollo né, in complesso, fratello o figlio o prole o congenere”. [III,13,5] Alcuni dicono che questo fa Zeus, solo, al momento della conflagrazione dell’universo. Giacché prendendo spunto da qualcosa di naturale, ossia dal fatto che egli è per natura socievole, altruista, che con piacere si relaziona alle persone, non divisano possibile il tragittarsela da soli. [III,13,6] Nondimeno bisogna avere preparazione anche per questo, per poter bastare a se stessi, per poter essere con se stessi. [III,13,7] Come Zeus è con se stesso, si quieta in se stesso, concettualizza qual è il suo governo, è in divisamenti che gli si confanno; così anche noi dobbiamo poter parlare a noi stessi, non abbisognare d’altro, non difettare del modo di passarcela; [III,13,8] riflettere sul governo della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, sulla nostra relazione con il resto; riguardare come stavamo di fronte a quanto avveniva prima e come stiamo adesso; cosa ancora ci opprime, come anche questo sarà accudito, come sarà strappato; e se qualcosa ha bisogno di elaborazione, elaborarlo in accordo con la propria facoltà logica.

La ragione è capace di fare ben più di quel che può fare Cesare (9-10)

[III,13,9] Vedete, infatti, che Cesare sembra procurarci una pace grandiosa, che non ci sono più guerre né battaglie né grandi rapine od atti di pirateria, ma si ha la potestà di essere in viaggio ad ogni ora, di navigare da levante a ponente. [III,13,10] Ma può forse Cesare procurarci pace anche dalla febbre, anche da un naufragio, anche da un incendio o da un terremoto o da un fulmine? Orsù, e dalla passione amorosa? Non può. Dal lutto? Non può. Dall’invidia? Non può. Insomma da nulla di ciò. 

Le parole della ragione (11-17)

[III,13,11] Invece la ragione, la ragione dei filosofi promette di procurare pace anche da questo. E cosa dice? “Uomini! Se mi presterete attenzione, dove sarete, qualunque cosa farete non sarete afflitti, non sarete adirati, non sarete costretti, non sarete impediti ma ve la passerete sapendo dominare le passioni e liberi da tutto”. [III,13,12] Chi, avendo questa pace proclamata non da Cesare (giacché donde potrebbe egli proclamarla?), ma dalla Materia Immortale, ovvero dalla Pronoia, attraverso la ragione, non si accontenta, [III,13,13] qualora sia solo, di riguardarsi e ponderare? “Ora non può avvenirmi alcun male, per me non c’è rapinatore, non c’è terremoto; tutto è pieno di pace e di dominio sullo sconcerto; ogni strada, ogni città, ogni compagno di viaggio, vicino, socio sono inoffensivi. Un altro, cui ciò importa, mi procura cibo, un altro vestiti, un altro mi diede le sensazioni, un altro mi diede i pre-concetti. [III,13,14] E qualora non procuri più il necessario, significa la ritirata, apre la porta e ti dice ‘Vieni!’. Dove? A nulla di terribile, ma là onde nascesti; a quanto è amico e congenere, agli elementi. [III,13,15] Quanto v’era in te di fuoco se ne va in fuoco; quant’era di terra, in terra; quanto di pneuma in pneuma e quanto d’acqua, in acqua. Alcun Ade non v’è, non v’è Acheronte né Cocito né Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dei e geni”. [III,13,16] Se uno ha questo da ponderare; e scorge il sole, la luna, gli astri; e fruisce della terra e del mare; isolato è non più che senza aiuto. [III,13,17] “E dunque? E se uno attaccandomi solo mi sgozzerà?” Stupido! Non sgozza te, ma il tuo corpo.

E’ possibile che l’insipienza possa prevalere sulla saggezza? (18-19)

[III,13,18] Quale isolamento esiste ancora, dunque; quale difetto di mezzi? Perché ci facciamo peggiori dei bambini che, qualora siano lasciati soli, cosa fanno? Sollevano dei cocci e della cenere ed edificano qualcosa; poi lo rovesciano e di nuovo edificano altro. E così non difettano mai del modo di passarsela. [III,13,19] Io dunque, se voi navigherete, sono per sedere a singhiozzare perché sono stato abbandonato solo e così isolato? Non avrò dei cocci, della cenere? Ma essi fanno questo per stoltezza e noi dalla saggezza abbiamo cattiva fortuna?

I pericoli che una facoltà potente come la ragione rappresenta per un principiante (20-23)

[III,13,20] Ogni grande arte o facoltà è malsicura per il principiante. Si deve dunque sostenere siffatto isolamento secondo le nostre forze, così come anche altre attività sono secondo natura ma non si addicono ad un tisico. [III,13,21] Studia una volta a passartela da infermo, per poi passartela una volta da persona in salute. Digiuna, bevi acqua; una volta astieniti integralmente dal desiderio, per potere una volta desiderare anche ragionevolmente. E se ragionevolmente, qualora abbia in te qualche bene, desidererai bene. [III,13,22] No, ma vogliamo subito passarcela da sapienti e giovare agli uomini. Quale giovamento? Che fai? Giovasti a te stesso? E vuoi spronarli? Infatti ti sei spronato? Vuoi giovare loro? [III,13,23] Mostra loro su te stesso quali uomini fa la filosofia, e non chiacchierare. Mangiando giova a chi mangia con te; bevendo, a chi beve; cedendo il passo a tutti, dando spazio, tollerando. Giova loro così e non ruttare loro addosso la tua bile fredda.

CAPITOLO 14
DETTI SPARSI

Coristi e solisti (1-3)

[III,14,1] Come i cattivi cantanti non possono cantare da soli ma tra molti, così taluni non possono camminare soli. [III,14,2] O uomo, se sei qualcuno cammina anche solo, parla con te stesso e non nasconderti nel coro. [III,14,3] Sii schernito, talora; guardati attorno; scuotiti: per riconoscere chi sei.

Perché cercare di piacere agli insipienti? (4-6)

[III,14,4] Qualora uno beva acqua o faccia qualche esercizio pratico, ogni movente è buono per dire a tutti: “Io bevo acqua”. [III,14,5] Giacché per questo bevi acqua: per il bere acqua? O uomo, se ti è vantaggioso berla, bevila; se no, fai il ridicolo. [III,14,6] Se ti è utile e la bevi, tacine a coloro che si dispiacciono di siffatti uomini. E dunque? Vuoi essere gradito proprio a costoro?

Si compiono tanti tipi di azioni (7)

[III,14,7] Delle azioni che si effettuano, alcune si effettuano come cardinali, altre secondo circostanza, altre per opportunismo, altre per compiacenza, altre per istituto di vita.

Presunzione di sapere e sfiducia nella possibilità di vivere serenamente caratterizzano l’atteggiarsi controdiairetico della proairesi degli esseri umani (8-10)

[III,14,8] Strappare dalle persone queste due cose: la presunzione di sapere e la diffidenza. Presunzione di sapere è reputare di non abbisognare di nulla. Diffidenza è concepire impossibile l’essere sereni con cotanto contorno. [III,14,9] Dunque il controllo strappa la presunzione di sapere e questo innanzitutto fa Socrate. Quanto al vivere serenamente, e che non è faccenda impossibile, analizza e cerca: questa ricerca non ti danneggerà. [III,14,10] E quasi fare filosofia è questo: cercare com’è fattibile usare senza impacci di desiderio ed avversione.

La differenza tra uomo ed essere umano sta nell’atteggiamento diairetico o controdiairetico della proairesi (11-14)

[III,14,11] “Io sono migliore di te giacché mio padre è un consolare”. [III,14,12] Un altro dice “Io sono stato tribuno, tu no”. Se fossimo cavalli, diresti che “Mio padre era più veloce”, o che “Io ho molto orzo e foraggio”, o che “Ho eleganti collari”. Se dunque, mentre dici questo, ti dicessi: “Sia così, dunque corriamo”? [III,14,13] Orsù, per una persona nulla vi è di siffatto a quel che la corsa è per un cavallo e grazie a cui si riconoscerà il peggiore ed il migliore? Non vi sono forse il rispetto di sé e degli altri, la lealtà, la giustizia? [III,14,14] Mostrati migliore in questi, per essere migliore come uomo. Se mi dirai che “Tiro dei gran calci”, ti dirò anch’io che “Fai gran pregio di un’opera da asino”.

CAPITOLO 15
CHE SI DEVE VENIRE A CIASCUNA OPERA CON CIRCOSPEZIONE

Affrontare razionalmente ogni impresa, ossia pesandone antecedenti e conseguenti (1)

[III,15,1] Di ciascuna opera considera gli antecedenti ed i conseguenti e così vieni ad essa. Se no, dapprima vi sarai giunto con foga in quanto non hai ponderato nulla del seguito, ma successivamente, quando alcune conseguenze compariranno, te ne distornerai vergognosamente.

Vuoi vincere le Olimpiadi? Sappi che non è un gioco da ragazzi (2-7)

[III,15,2] “Voglio vincere le Olimpiadi”. Ma considerane gli antecedenti ed i conseguenti e, se così ti sarà vantaggioso, accostati all’opera. [III,15,3] Devi disciplinarti, mangiare a dieta, astenerti dai manicaretti, allenarti per necessità ad ore fisse, nella calura, al freddo; non bere freddo, né vino quando capita; insomma aver trasmesso te stesso al soprintendente come ad un medico; [III,15,4] e poi in gara scavarti la sabbia, slogarti a volte una mano, storcerti una caviglia, ingoiare molta rena, essere frustato e, dopo tutto questo, essere a volte vinto. [III,15,5] Ciò conteggiato, se ancora lo vorrai, vieni al cimento; se no, vedi che ti sarai condotto come i bimbi, i quali ora giocano agli atleti, ora ai gladiatori, ora trombettano e poi canticchiano qualunque cosa vedranno ed ammireranno. [III,15,6] Così tu pure ora atleta, ora gladiatore e poi filosofo e poi oratore ma con l’animo intero nulla. Come la scimmia tu imiti tutto ciò che vedrai e gradisci qualcosa di sempre diverso, mentre il consueto ti è sgradito. [III,15,7] Giacché non venisti a qualcosa dopo un’analisi né un percorso della faccenda nella sua interezza e neppure avendola saggiata, ma a casaccio e secondo una gelida smania.

Intendi essere libero, sereno, felice? Sappi che la fatica sarà grande (8-13)

[III,15,8] Così alcuni, visto un filosofo ed ascoltato qualcuno parlare come parla Eufrate (eppure, chi può parlare come lui?), vogliono anch’essi far filosofia. [III,15,9] O uomo, analizza innanzitutto cos’è la faccenda e poi anche la tua natura, cosa puoi sorreggere. Se lottatore vedi le tue spalle, le cosce, i lombi. [III,15,10] Giacché uno è nato per una cosa, un altro per qualcos’altro. Reputi che facendo questo puoi fare filosofia? Reputi di poter mangiare allo stesso modo, bere allo stesso modo, similmente adirarti, similmente dispiacerti? [III,15,11] Vegliare devi, faticare, vincere certe smanie, partire dai familiari, essere spregiato da un pupattolo, essere deriso da chi ti viene incontro, avere la meno in ogni circostanza, in cariche, in onorificenze, nei processi. [III,15,12] Ponderato con circospezione ciò, se lo reputi, vieni innanzi se disponi di permutare questo con dominio sulle passioni, libertà, dominio sullo sconcerto. Se no, non appressarti per non essere, come i bimbi, ora filosofo, successivamente gabelliere e poi oratore e poi procuratore di Cesare. [III,15,13] Questi ruoli non vanno d’accordo. Una sola persona tu devi essere, o buona o cattiva. Tu devi elaborare o il tuo egemonico o gli oggetti esterni. Essere laborioso sul di dentro o sul di fuori: questo è avere stazione di filosofo o di persona comune.

Già anticamente qualcuno aveva dei dubbi sull’affermazione che “Government work is God’s work” (14)

[III,15,14] Sgozzato Galba, uno diceva a Rufo: “Ora l’ordine del mondo è governato dalla mente della Materia Immortale, ovvero dalla Pronoia?”; e lui “Strutturai forse mai accessoriamente,” diceva, “a partire da Galba che l’ordine del mondo è governato dalla Provvidenza?”

CAPITOLO 16
CHE BISOGNA ACCONDISCENDERE CON CAUTELA ALLA COMPIACENZA

Sei tu capace di accordare un pianoforte, un violino, la tua proairesi? Se non lo sei, allora sarai costretto a suonare la musica, ad andare dietro i giudizi degli altri (1-6)

[III,16,1] Chi accondiscende frequentemente a certuni o per cianciare o per dei conviti o, insomma, per convivenza, è necessario che assomigli ad essi oppure che quelli si alloghino sulle sue posizioni. [III,16,2] Giacché se porrai un carbone spento accanto ad uno ardente, o il primo lo spegnerà oppure il secondo farà ardere il primo. [III,16,3] Essendo dunque così rilevante il pericolo, si deve accondiscendere con cautela a siffatte compiacenze con persone comuni, ricordando che è inconcepibile non fruire di fuliggine per chi si struscia a chi si è coperto di fuliggine. [III,16,4] Che farai, infatti, se ciancerà di gladiatori, di cavalli, di atleti e, quel ch’è ancora peggio, di persone: “Il tale è cattivo; il tale è buono. Questo accadde bene; questo male”? Ed ancora se schernirà, se ridicolizzerà, se malignerà? [III,16,5] Qualcuno di voi ha la preparazione che ha il citarista di prendere la lira e, appena toccate le corde, di riconoscere le disarmoniche ed acconciare lo strumento? La facoltà che aveva Socrate, così da condurre i sodali, in ogni occasione, sulla sua posizione? [III,16,6] Donde vi viene? Ma è necessario che siate voi ad essere portati in giro dalle persone comuni.

La forza delle persone sta nella saldezza dei loro giudizi: gente comune con una controdiairesi d’acciaio e presunti filosofi con una diairesi di cera (7-10)

[III,16,7] Perché dunque quelli sono più potenti di voi? Perché quelli enunciano questi schifosi discorsi da giudizi mentre voi, i raffinati discorsi, dalle labbra. Per questo sono atoni e cadaverici; ed è possibile che a chi ascolta le vostre esortazioni e sente parlare di quella disgraziata virtù blaterata su e giù, venga il ribrezzo. [III,16,8] Così le persone comuni vi vincono: giacché ovunque il giudizio è potente, il giudizio è invincibile. [III,16,9] Fino a che dunque non si figgeranno bene in voi le raffinate concezioni e non vi procaccerete una forza che dia sicurezza, vi consiglio di condiscendere con cautela alle persone comuni. Se no, se pur qualcosa vi annotate a scuola, ogni giorno fonderà come cera al sole. [III,16,10] Finché avrete le concezioni di cera, avanti dunque in qualche dove lontano dal sole. 

Chi si porta dentro vecchie abitudini e scorretti giudizi non viaggia mai, dovunque vada; anche se stesse facendo il giro del mondo (11-16)

[III,16,11] Per questo i filosofi consigliano di ritirarsi anche dalla propria patria, perché le antiche abitudini distraggono e non permettono l’inizio di altro costume, né sopportiamo che chi ci viene incontro dica: “Ecco, il tale fa filosofia; lui che era così e così”. [III,16,12] Così fanno bene i medici a mandare gli ammalati cronici in un altro territorio ed altre arie. [III,16,13] Anche voi introducete altre abitudini; figgete bene le vostre concezioni, competete con esse. [III,16,14] No; ma di qua ad uno spettacolo, ad un combattimento di gladiatori, al ginnasio coperto, al circo. E poi di là a qua e di nuovo di qua a là, i medesimi. [III,16,15] E nessuna raffinata abitudine né attenzione né pensosità su se stessi e puntuale osservazione: “Come uso le rappresentazioni che mi incolgono? Secondo la natura delle cose o contro la natura delle cose? Come rispondo loro? Come si deve o come non si deve? Soggiungo a ciò che è aproairetico che nulla è per me?” [III,16,16] Giacché se non state ancora così, fuggite le abitudini di prima, fuggite le persone comuni, se intendete iniziare una volta ad essere qualcuno.

CAPITOLO 17
SULLA MENTE DELLA MATERIA IMMORTALE, OVVERO SULLA PRONOIA

Chi è ricco di denaro e chi è ricco di lealtà: dovendo scegliere, chi preferisci? (1-5)

[III,17,1] Qualora incolpi la mente della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, impensierisciti e riconoscerai che quel che è accaduto è accaduto secondo ragione. [III,17,2] “Sì, ma l’ingiusto ha di più”. In cosa? In denaro, giacché per questo è migliore di te: lui adula, è sfacciato, veglia la notte. Che c’è di stupefacente? [III,17,3] Ma ravvisa l’altro profilo: se ha più di te nell’essere leale, rispettoso di sé e degli altri. Troverai che non l’ha: e dove sei migliore, là ti troverai ad avere di più. [III,17,4] Anch’io una volta dissi ad uno che fremeva perché Filostorgo ha buona fortuna: “Vorresti coricarti tu con Sura?” “Non sia mai”, dice, “quel giorno!” [III,17,5] Perché dunque fremi se prende qualcosa in cambio di quanto vende? Come mai beatifichi chi acquisisce quelle cose attraverso queste, contro le quali fai gli scongiuri? Che male fa la mente della Materia Immortale, ovvero la Pronoia, se dà il meglio ai migliori? Non è meglio essere rispettoso di sé e degli altri che ricco di denaro? Lo ammetteva. 

Chiamare ignorante ed ingiusta la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, perché dà sempre il meglio ai migliori è viversi come poveri quando invece si è ricchi, avendo noi da lei occhi per vedere, mani per lavorare, ragione per essere felici (6-9)

[III,17,6] Perché dunque fremi, o uomo, se hai il meglio? Ricordate dunque sempre ed abbiate a portata di mano che la legge di natura è questa: che il migliore abbia più del peggiore in ciò in cui è migliore, e non fremerete mai. [III,17,7] “Ma mia moglie usa male con me”. Bene. Se qualcuno cercherà di sapere da te cos’è questo, dì: “Mia moglie usa male con me”. “Dunque null’altro?” Nulla. [III,17,8] “Mio padre non mi dà nulla…” Che è male, questo devi addizionarglielo tu dal di dentro ed aggiungere una menzogna. [III,17,9] Per questo non si deve espellere la povertà di denaro bensì il giudizio su di essa, e così saremo sereni.

CAPITOLO 18
CHE NON SI DEVE ESSERE SCONCERTATI DI FRONTE ALLE NOTIZIE 

Quali notizie possono dare i giornali? (1)

[III,18,1] Qualora ti sia riportato qualcosa di sconcertante, abbi a portata di mano che una notizia è su di nulla di proairetico.

La diairesi in atto (2-4)

[III,18,2] Forse uno può darti la notizia che concepisti male o desiderasti male? -Nient’affatto!- Ma che uno morì. Cos’è dunque per te? Che uno parla male di te. Cos’è dunque per te? [III,18,3] Che il padre ha pronto questo e quest’altro. Contro chi? Forse contro la proairesi? E donde può? Bensì contro il corpo, contro le coserelle. Sei salvo; non è contro di te. [III,18,4] Ma l’arbitro dichiara che hai commesso una empietà. E nel caso di Socrate i giudici non lo dichiararono? E’ forse opera tua che egli lo dichiari? -No- Perché dunque t’importa ancora? 

Il fondamento dello Stoicismo (5-6)

[III,18,5] V’è un’opera di tuo padre che, se egli non assolverà, manda in malora il padre, l’uomo affettuoso, mansueto. Non cercare che egli si mandi in malora per altro che per questo. Giacché uno non aberra mai in una cosa ma è danneggiato in un’altra. [III,18,6] Di nuovo opera tua è parlare in tua difesa con stabilità di giudizio, con rispetto di te e degli altri, dominando l’ira. Se no, mandasti in malora anche tu il figlio, l’uomo rispettoso di sé e degli altri, il generoso. 

Cosa ho io a che fare con i mali degli altri? (7-9)

[III,18,7] E dunque? L’arbitro è al riparo da pericoli? No, ma anche lui corre pari pericoli. Perché dunque hai ancora paura di quanto determinerà? Che c’è fra te ed il male allotrio? [III,18,8] Male tuo è parlare male in tua difesa: solo su questo sta in guardia. Essere giudicato innocente o colpevole, com’è opera di un altro, così è il male di un altro. [III,18,9] “Il tale ti minaccia”. Me? No. “Ti denigra”. Vedrà lui come fa l’opera sua peculiare. “Sta per condannarti ingiustamente”. Meschino.

CAPITOLO 19
QUAL E’ STAZIONE DI PERSONA COMUNE E DI FILOSOFO ?

Per l’insipiente la colpa è sempre degli altri, mentre chi ha cominciato ad educarsi filosoficamente accusa se stesso (1-2)

[III,19,1] Prima differenza tra una persona comune ed un filosofo. L’uno dice: “Ahimè! Colpa del pupattolo, colpa del fratello; ahimè! colpa di mio padre”. L’altro, se mai sarà costretto a dire “Ahimè!” riflette e dice: “colpa mia”. [III,19,2] Giacché nulla di aproairetico può impedire o danneggiare la proairesi se non essa se stessa.

Soltanto la proairesi è autodeterminativa (3)

 [III,19,3] Se dunque a questo propenderemo anche noi, così da accagionare noi stessi qualora siamo fuori strada e da ricordarci che null’altro se non un giudizio è causativo di sconcerto ed instabilità, ebbene vi giuro per tutti gli dei che abbiamo fatto profitto.

Invece noi, pur cresciuti, rimaniamo bambocci e se incespichiamo continuiamo ad accusare la pietra (4-6)

[III,19,4] Ora, invece, dall’inizio siamo venuti per un’altra strada. Subito, ancora da bimbi la balia, se mai incespicammo standocene a bocca aperta, non censurava noi ma percuoteva il sasso. Ma cosa fece il sasso? Bisognerebbe che si spostasse, per la stupidaggine del tuo bimbo? [III,19,5] Di nuovo, se non troveremo da mangiare tornando dalle terme, il pedagogo non calma mai la nostra smania ma concia il cuoco. O uomo, ti istituimmo forse pedagogo del cuoco? No, ma del nostro bimbo: rettifica lui, giova a lui. [III,19,6] E così, anche cresciuti ci mostriamo bimbi. Giacché bamboccio in musica è il digiuno di musica; in grammatica il digiuno di grammatica; in vita il non educato a diairesizzare.

CAPITOLO 20
CHE E’ POSSIBILE TRARRE GIOVAMENTO DA TUTTI GLI OGGETTI ESTERNI

Noi ammettiamo che conoscenza ed errori logici dipendono esclusivamente da noi (1-3)

[III,20,1] Circa le rappresentazioni teoretiche, quasi tutti i filosofi riservarono il bene ed il male dentro di noi e non negli oggetti esterni. [III,20,2] Nessuno dice bene l’essere giorno e male l’essere notte; male grandissimo, invero, essere il tre quattro. [III,20,3] Ma cosa? Che la scienza è bene mentre l’inganno è male; sicché si raccomanda un bene anche circa la falsità stessa, bene essendo la conoscenza della falsità. 

Non siamo invece disposti ad ammettere che bene e male dipendano esclusivamente da noi; eppure è un errore logico affermare che la vita è bene e che la morte è male. Infatti, non la vita, ma la vita virtuosa è bene; non la vita, ma la vita viziosa è male. Non la morte, ma la morte nobile è bene; non la morte ma la morte vergognosa è male (4-7)

[III,20,4] Dovrebbe dunque essere così anche per la vita. Bene la salute del corpo, male la malattia? No, o uomo. Ma cosa? Che vivere in salute da virtuosi è bene, vivere in salute da viziosi è male. -Sicché è possibile trarre giovamento anche dalla malattia?- Per Zeus, e dalla morte non è possibile? [III,20,5] Da una storpiatura non è possibile? Reputi che Meneceo trasse piccolo giovamento quando moriva? -Dicendo siffatte parole si potesse trarre il giovamento che ne trasse lui!- Permetti, o uomo: non serbò egli il patriota, l’uomo disinteressato, leale, generoso? Sopravvivendo non mandava in malora tutto questo? [III,20,6] Non si procacciava l’opposto? Non indossava i panni del vile, dell’ignobile, dell’odiatore della patria, del pusillanime? Orsù, reputi che morendo abbia tratto piccolo giovamento? No. [III,20,7] Ed il padre di Admeto trasse grande giovamento dal vivere così ignobilmente e meschinamente? E successivamente non morì? 

Le conseguenze degli errori logici ricadono unicamente su di noi e su null’altro (8)

[III,20,8] Cessate, per gli dei, di infatuarvi dei materiali; cessate di farvi servi innanzitutto delle faccende e poi, per causa loro, anche delle persone che possono procacciarvele o sottrarvele!

Il malvagio è cattivo per se stesso ma per me è buono: allena le mie virtù (9-11)

[III,20,9] -E’ dunque possibile trarre giovamento da questo?- Da tutto. -Anche da chi ingiuria?- Che giova all’atleta il preparatore atletico? Il massimo. E pure costui diventa mio preparatore atletico: allena la mia capacità di tolleranza, il dominio sull’ira, la mitezza. [III,20,10] No; ma chi avvinghia il collo e mi rimette in ordine lombi e spalle mi giova; ed il maestro di ginnastica fa bene a dire “Solleva il pestello con entrambe le mani”, e quanto più quello è pesante tanto più io ne traggo giovamento. E se uno mi allena al dominio sull’ira non mi giova? [III,20,11] Questo è non saper trarre giovamento dagli esseri umani. Un cattivo vicino? Per lui stesso, ma per me buono: allena la mia costumatezza, l’acquiescenza alla ragione. Un cattivo padre? Per lui stesso, ma per me buono.

La bacchetta magica esiste ed io la posseggo (12-17)

[III,20,12] Questa è la bacchetta di Ermete. “Tocca ciò che vuoi,” si dice, “e sarà oro”. No, ma porta quanto disponi ed io ne farò un bene. Porta malattia, porta morte, porta difetto di mezzi di sussistenza, porta ingiuria, un processo con pene estreme; tutto questo sarà giovevole con la bacchetta di Ermete. [III,20,13] “La morte, che farai?” Che altro se non una cosa che ti adorni od attraverso cui mostrare nei fatti cos’è un uomo che comprende il piano della natura? [III,20,14] “La malattia, che farai?” Ne mostrerò la natura, spiccherò in essa, sarò stabile, sereno, non adulerò il medico, non auspicherò di morire. [III,20,15] Che altro cerchi ancora? Tutto ciò che darai io lo farò beato, felicitante, solenne, da emulare. [III,20,16] No, ma: “Guardati dall’ammalarti: è male”. Come se uno dicesse: “Guardati dal rappresentarti che tre è quattro: è male”. O uomo, male come? Se su di questo concepirò quel che si deve, come mi danneggerà? Piuttosto non mi gioverà pure? [III,20,17] Se dunque concepirò della povertà di denaro, della malattia, dell’assenza di cariche quel che si deve, non mi basta? Non sarà giovevole? Come debbo ancora cercare beni e mali negli oggetti esterni?

Questi giudizi li dimentichi a scuola o li porti a casa? (18-19)

[III,20,18] Ma cosa? Questi giudizi valgono fino a che si è qua e nessuno li porta via, a casa. Subito è guerra con il pupattolo, con i vicini, con chi schernisce, con chi deride. [III,20,19] Sia bene a Lesbio, perché ogni giorno mi confuta di non sapere nulla!

CAPITOLO 21
A QUANTI VENGONO A SAPIENTEGGIARE COME SE NIENTE FOSSE

Filosofi e pseudofilosofi, cibo e vomito, sangue e chiacchiere (1-7)

[III,21,1] Dice Epitteto che alcuni, appresi i meri principi filosofici generali, subito vogliono vomitarli come i deboli di stomaco col cibo. [III,21,2] Innanzitutto digeriscili e così poi non vomiterai. Se no, una faccenda pulita diventa effettivamente vomito, immangiabile. [III,21,3] Assimilatili, mostraci invece qualche trasformazione del tuo egemonico, come gli atleti, a seguito degli allenamenti e dell’alimentazione, ci mostrano le spalle; e coloro che appresero le arti, il risultato di ciò che impararono. [III,21,4] Il falegname non viene a dire: “Ascoltatemi discorrere di falegnameria” ma, preso in affitto, mostra di avere l’arte strutturando questa casa. [III,21,5] Fa anche tu qualcosa di siffatto: mangia da uomo, bevi da uomo, adornati, sposati, fa figli, interessati di affari cittadini; tollera l’ingiuria, sopporta un fratello scriteriato, sopporta un padre, sopporta un figlio, un vicino, un compagno di viaggio. [III,21,6] Questo mostraci, affinché vediamo che hai imparato davvero qualcosa dei filosofi. No, ma: “Venite a sentirmi parlare di chiose”. Va’, cerca qualcuno cui rutterai addosso. [III,21,7] “Eppure vi commenterò i testi di Crisippo come nessuno; dissolverò l’elocuzione in formule purissime addizionando in qualche dove anche la profusione di Antipatro e di Archedemo”.

Come puoi tu far parte ad altri di quanto non possiedi? (8-10)

[III,21,8] E poi che i giovani per questo abbandonino le patrie ed i loro genitori, per venire a sentirti spiegare delle elocuzioncelle? [III,21,9] Non si deve rincasarli capaci di tollerare l’intemperanza altrui, cooperativi, in grado di dominare le passioni, di dominare lo sconcerto; provvisti di siffatto viatico per la vita prendendo impulso dal quale potranno sopportare da virtuosi quanto accade ed anche adornarsene? [III,21,10] Donde ti viene il far parte di quanto non hai? Dall’inizio facesti forse altro dal consumarti su questo: come saranno risolti i sillogismi, come i ragionamenti equivoci, come quelli concludenti?

Quel che a te interessa veramente non è la filosofia bensì la parodia: parallelismo con i Misteri Eleusini (11-16)

[III,21,11] “Ma il tale ha una scuola; perché non averla anch’io?” Questo non accade a casaccio, schiavo, né come capita, ma si deve essere di una certa età e vita, ed avere un dio come leader. [III,21,12] No, ma nessuno salpa dal porto senza sacrificare agli Dei e pregarli d’aiuto, né gli esseri umani seminano altrimenti che invocando Demetra. Accostandosi ad un’opera così rilevante, uno le si accosterà con sicurezza senza degli dei; ed avvicinarlo sarà una fortuna per coloro che lo avvicineranno? [III,21,13] Che altro fai, o uomo, se non parodiare i misteri e dire: “Una stanza c’è ad Eleusi ed ecco anche qua. Là c’è uno ierofante, ed io farò lo ierofante. Là c’è un araldo, ed io istituirò un araldo. Là c’è un portatore di fiaccola ed io istituirò un portafiaccola. Fiaccole là, fiaccole qua. Le voci sono le stesse: questi avvenimenti in cosa differiscono da quelli?” [III,21,14] O uomo sommamente empio, non differiscono in nulla? Le stesse cose giovano anche fuori posto e fuori tempo? No. Ma dopo un sacrificio, con voti, se ci si è prima astenuti da rapporti sessuali e con l’intelligenza predisposta a pensare che si andrà innanzi a sacrari, e sacrari antichi. [III,21,15] Così diventano giovevoli i Misteri, così veniamo alla rappresentazione che tutti questi riti furono istituiti dagli antichi per l’educazione e la rettificazione della vita. [III,21,16] Tu invece li divulghi e parodi fuori tempo, fuori posto, senza vittime, senza astensione da rapporti sessuali. Non hai i vestiti che deve avere lo ierofante, non la chioma, non la benda che si deve, non la voce, non l’età, non ti sei astenuto da rapporti sessuali come lui. Hai appreso soltanto le parole e le dici. Le parole sono sacre di per se stesse?

Non tutti possono avere il ruolo di Socrate, di Diogene, di Zenone (17-19)

[III,21,17] In altro modo si deve venire a queste cose: è faccenda grandiosa, da iniziati, non data come capita né a chi capita. [III,21,18] Per prendersi sollecitudine di giovani non è bastante, caso mai, neppure essere un sapiente: ci deve essere anche qualche speditezza ed idoneità a questo. Sì, per Zeus, anche un certo fisico e, prima di tutto, che sia un dio a consigliare di rattenere questo rango. [III,21,19] Come consigliava a Socrate di avere l’ufficio di contestatore, a Diogene quello di re e di censore, a Zenone quello di insegnante e di teorico.

Se anche tu possedessi gli strumenti, li sapresti poi usare? (20-22)

[III,21,20] Tu invece apri uno studio medico avendo null’altro che farmaci, ma senza sapere dove e come questi si appongono e senza impicciartene. [III,21,21] “Ecco lui ha questi colliri, anch’io li ho”. E forse anche la capacità di usarli? Sai forse quando e come gioveranno ed a chi? [III,21,22] Perché dunque giochi a dadi nelle cose più grandi, perché fai il facilone, perché metti mano ad una faccenda che non ti conviene? Lasciala a chi può adornarsene. Non infliggere anche tu bruttezza alla filosofia attraverso te stesso e non diventare parte di coloro che ne calunniano l’opera.

Lascia stare le cose serie: non fanno per te (23-24)

[III,21,23] Ma se i principi filosofici generali ti cattivano l’animo siedi e rigirali tra te e te. Non dirti mai filosofo e non tollerarlo se lo dice qualcun altro, ma dì: “Ha errato, giacché io non desidero altrimenti da prima, né impello ad altro, né ad altro assento, né in complesso mi sono diversificato in qualcosa dalla condizione di prima nell’uso delle rappresentazioni”. [III,21,24] Pregia e dì questo di te stesso, se disponi di pregiare secondo il merito. Se no, gioca pure a dadi e fa quel che fai. Giacché questo ti si confà.

CAPITOLO 22
SUL CINISMO

Nella complessiva armonia dell’ordine del mondo c’è posto anche per il Cinico, a patto che se ne abbia la stoffa (1-8)

[III,22,1] Quando uno dei suoi conoscenti, che appariva propenso a cinizzare, cercò di sapere Che tipo deve essere chi vive da Cinico e qual è il pre-concetto della faccenda, Epitteto diceva Lo analizzeremo con agio, [III,22,2] ma intanto ho da dirti che chi progetta per sé una faccenda così rilevante prescindendo da dio, è oggetto del disgusto divino e null’altro vuole che fare l’indecente in pubblico. [III,22,3] Giacché neppure in una casa ben amministrata uno perviene a dirsi: “Devo essere io l’amministratore”. Se no il padrone, impensierendosi e vedendolo costituirsi altezzosamente, lo trascina fuori e gli taglia la lingua. [III,22,4] Così accade anche in questa grande città. Giacché c’è anche qua un padrone di casa, il costitutore di ciascuna cosa. [III,22,5] “Tu sei sole: nel corso della tua rivoluzione puoi fare l’annata e le stagioni, far crescere e nutrire i frutti, muovere e placare i venti, riscaldare in giusta proporzione i corpi degli umani. Va’, compi la tua rivoluzione e così metti in movimento tutte le cose, dalle più grandi alle più piccole. [III,22,6] Tu sei vitello: qualora si dia a vedere un leone, effettua l’opera tua; se no, mugugnerai. Tu sei toro: vieni innanzi a combattere, giacché questo ti spetta e confà e puoi fare. [III,22,7] Tu puoi capeggiare l’esercito contro Ilio: sii Agamennone. Tu puoi combattere corpo a corpo con Ettore: sii Achille. [III,22,8] Se invece Tersite pervenisse a pretendere il comando, o non lo avrebbe centrato oppure, centratolo, avrebbe fatto l’indecente tra una moltitudine di testimoni. 

L’abito non fa il Cinico (9-12)

[III,22,9] Tu delibera sulla faccenda con solerzia: non è quel che reputi. [III,22,10] “Un mantello lo porto anche ora e lo avrò pure allora; mi corico anche ora sul duro e sul duro mi coricherò anche allora; aggiungerò una piccola bisaccia ed un bastone e, andando in giro, inizierò a chiedere cose a chi mi viene incontro, ad ingiuriare. Se vedrò uno depilato col dropace, lo rimprovererò; e lo stesso farò se vedrò qualcuno con il ciuffo tutto ben plasmato o che passeggia in scarlatto”. [III,22,11] Se immagini la faccenda qualcosa di siffatto, stanne lontano. Non venire innanzi, non è per te. [III,22,12] Se, immaginandola qual è, non te ne stimi indegno, analizza a che grande faccenda metti mano.

Il Cinico non ha bisogno di nascondere nulla della propria vita (13-18)

[III,22,13] Innanzitutto, per quanto sta a te, non devi più apparire simile in nulla a quello che fai ora, e non incolpare dio né uomo. Devi rimuovere definitivamente il desiderio ed allogare l’avversione solamente su ciò che è proairetico. Non devi avere ira, sdegno, invidia, commiserazione. Non deve apparirti magnifica una pupattola, un po’ di reputazione, un pupattolo, una focaccetta. [III,22,14] Giacché devi sapere che le altre persone, qualora facciano qualcosa di siffatto, si sono messi davanti le pareti, le case, il buio ed hanno molti mezzi per nasconderlo. Ha chiuso la porta, ha collocato uno davanti alla camera da letto: “Se verrà qualcuno, dì che è fuori, è impegnato”. [III,22,15] Il Cinico, invece di tutto questo è tenuto ad essersi messo davanti il rispetto di sé e degli altri. Se no, nudo ed all’aria aperta farà l’indecente. Questo gli è casa, questo porta, questo i deputati alla camera da letto, questo il buio. [III,22,16] Né deve voler celare qualcosa di suo (se no partì, andò in malora il Cinico, l’uomo dell’aria aperta, libero; ha iniziato ad aver paura di qualcuno degli oggetti esterni, ha iniziato ad avere bisogno di qualcosa che celi) e, qualora voglia, non può. Giacché dove si celerà o come? [III,22,17] Se chi educa all’uso della diairesi, il comune pedagogo fallirà, cos’è necessario che sperimenti? [III,22,18] Chi dunque teme questo, è ancora possibile che ardisca soprintendere con l’animo intero alle altre persone? E’ inconcepibile, è impossibile.

Un programma di vita (19-22)

[III,22,19] Devi dunque, innanzitutto, fare puro il tuo egemonico e fare questo istituto di vita: [III,22,20] “Ora mio materiale è il mio intelletto, come il legno per il falegname e le pelli per il calzolaio. L’opera è il retto uso delle rappresentazioni. [III,22,21] Il corpo nulla è per me, nulla per me sono le sue parti. La morte? Venga quando vorrà, sia del corpo intero sia di qualche parte. [III,22,22] L’esilio? E dove può uno espellermi? Fuori dell’ordine del mondo non può. Dove partirò, là avrò sole, là luna, là astri, visioni in sogno, uccelli augurali, la conversazione con dei”. 

Il Cinico è un messaggero ed un esploratore (23-25)

[III,22,23] E poi così preparato, non è possibile che chi davvero è Cinico si accontenti di questo, ma deve sapere che è stato inviato da Zeus agli esseri umani come messaggero, per indicare loro che hanno errato circa beni e mali e che cercano la sostanza del bene e del male altrove da dov’è e non ponderano dov’è; [III,22,24] e che è pure un esploratore, come Diogene menato davanti a Filippo dopo la battaglia di Cheronea. Giacché effettivamente il Cinico è un esploratore di quanto è amico e quanto è nemico dell’uomo [III,22,25] e bisogna che egli, dopo averlo analizzato con precisione, venga ad annunciare la Verità non sbigottito dalla paura, così da mostrare nemici inesistenti, né in qualche altro modo sconvolto o confuso dalle rappresentazioni.

Quel che è capace di rasserenare e farci felici non si identifica né col corpo né col patrimonio né con cariche né con il potere regale (26-30)

[III,22,26] Il Cinico deve dunque caso mai drizzarsi, salire alla scena tragica e dire le parole di Socrate: “Uh, o uomini, dove vi portate? Che fate, disgraziati? Rotolate su e giù come ciechi; partite per una strada diversa dopo avere abbandonato quella giusta; cercate il rasserenante ed il felicitante altrove, dove non è; e non vi fidate di un altro che ve lo mostra. [III,22,27] Perché lo cercate fuori? Nel corpo non c’è. Se diffidate, guardate Mirone, guardate Ofellio. Nel patrimonio non c’è. Se diffidate, guardate Creso, guardate i danarosi di adesso, guardate di quanti mugugni è piena la loro vita. Nelle cariche non c’è. Se no, bisognerebbe che quanti sono stati consoli due o tre volte fossero felici: ma non lo sono. [III,22,28] Di chi ci fideremo su questo? Di voi che scorgete dal di fuori le loro faccende e che siete abbagliati dall’immaginazione, oppure di loro stessi? [III,22,29] Che cosa dicono? Ascoltateli qualora mugugnino, gemano, credano -proprio a causa dei consolati, della reputazione, della notorietà- di passarsela più meschinamente e più pericolosamente. [III,22,30] Nel regno non c’è. Se no, Nerone sarebbe stato felice, e pure Sardanapalo. 

L’esempio che ce ne danno il buon pastore, ossia l’infelice Agamennone; e le pecore, ossia gli infelici esseri umani, che si lasciano da lui comandare (30-37)

Ma neppure Agamennone era felice, pur essendo più raffinato di Sardanapalo e di Nerone. Mentre gli altri russano, lui che fa? *Dal capo si strappava i capelli a ciocche, fin dalle radici* E che dice? *Vagabondo ne vo* dice, e *Sono angosciato: il cuore mi salta fuori dal petto* . [III,22,31] Sciagurato, cosa di tuo sta male? Il patrimonio? Non sta male: sei ricco d’oro e ricco di bronzo. Il corpo? Non sta male. Che male hai dunque? Quello: che di te è stato trascurato ed annientato ciò con cui desideriamo, con cui avversiamo, con cui impelliamo e repelliamo. [III,22,32] Com’è stato trascurato? Esso ignora la sostanza del bene per cui è nato e quella del male e cos’ha peculiare e cos’è allotrio. Qualora alcunché di allotrio stia male, dice: “Ahimè, i Greci sono in pericolo!” [III,22,33] Disgraziato egemonico, e solo negletto e senza cura! “Stanno per morire, levati di mezzo dai Troiani”. E se non li uccideranno i Troiani, non morrebbero comunque? “Sì, ma non tutti in una volta”. Che differenza fa? Giacché se morire è un male, morire assieme oppure uno per volta è similmente male. Sta per accadere qualcos’altro dalla separazione di corpo ed animo? [III,22,34] “Nulla”. E se vanno in malora i Greci, per te la porta è stata chiusa? Non si ha la potestà di morire? “La si ha”. Perché dunque piangi, uah!, pur essendo re ed avendo lo scettro di Zeus? Un re non è sfortunato, non più che sfortunata la Materia Immortale, ovvero la Pronoia. [III,22,35] Cosa sei dunque? Davvero un pastore, giacché singhiozzi come i pastori qualora un lupo ghermisca qualcuna delle loro pecore. E sono pecore costoro da te comandati. [III,22,36] E perché sei venuto qui? Forse correvano pericoli il vostro desiderio, l’avversione; forse l’impulso, la repulsione? “No,” dice, “fu ghermita la femminuccia di mio fratello”. [III,22,37] Ma non è gran guadagno essere defraudati di una femminuccia adultera? “Dunque saremo spregiati dai Troiani?” E chi sono i Troiani? Dei saggi o degli stolti? Se sono saggi, perché fate loro guerra? Se sono degli stolti, che ve ne importa?

Ed ecco la Verità: serenità e felicità sono là dove c’è in noi qualcosa che è libero per natura… (38-41)

[III,22,38] “Siccome non sta in questo, in cosa sta dunque il bene? Diccelo, signor messaggero ed esploratore!” “Dove non reputate né volete cercarlo giacché, se lo disponeste, avreste trovato che è in voi e non lo deflettereste fuori, né cerchereste l’allotrio come se fosse vostro peculiare. [III,22,39] Impensieritevi di voi stessi, decifrate i pre-concetti che avete. Quale cosa vi rappresentate essere il bene? Il rasserenante, il felicitante, il non soggetto ad impacci. Orsù, non ve lo rappresentate naturalmente grande? Non ve lo rappresentate rimarchevole? Non ve lo rappresentate inoffensivo? [III,22,40] In quale materiale bisogna dunque cercare il rasserenante e non soggetto ad impacci? In quello servo o in quello libero?” “In quello libero”. “Dunque il corpo l’avete libero o servo?” “Non lo sappiamo”. “Non sapete che è servo di febbre, podagra, oftalmia, dissenteria, un tiranno, fuoco, ferro, ogni cosa più potente di lui?” [III,22,41] “Sì, è servo”. “Come può dunque ancora essere non soggetto ad intralci qualcosa che ha a che fare con il corpo? Come può essere grande o rimarchevole ciò che è per natura cadavere, è terra, è argilla? E dunque? Non avete niente di libero?” “Forse niente”. 

…ossia nella proairesi (42-44)

[III,22,42] “E chi può costringervi ad assentire a quanto appare falso?” “Nessuno”. “Chi a non assentire a quanto appare vero?” “Nessuno”. “Qua dunque vedete che vi è in voi qualcosa di libero per natura. [III,22,43] Chi di voi può desiderare od avversare, impellere o repellere, prepararsi o proporsi qualcosa senza prenderne rappresentazione di vantaggioso o di non doveroso?” “Nessuno”. “Dunque avete anche in questo qualcosa non soggetto ad impedimenti e libero. [III,22,44] Disgraziati! Questo elaborate, di questo siate solleciti; qui cercate il bene”. 

Il Cinico: un modello di uomo felice (45-50)

[III,22,45] E com’è fattibile che se la tragitti serenamente chi non ha nulla, è nudo, senza casa, senza focolare, ispido, senza un servo e senza cittadinanza? [III,22,46] Ecco, la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, ha inviato chi vi mostrerà nella pratica che è fattibile. [III,22,47] “Guardatemi: sono senza casa, senza cittadinanza, squattrinato, senza un servo; mi corico per terra; non ho moglie né bimbi né pretoriuccia, ma soltanto terra, cielo ed un solo mantellino. [III,22,48] E cosa mi manca? Non so dominare l’afflizione, non so dominare la paura, non sono libero? Quando qualcuno di voi mi vide fallire nel desiderio o, nell’avversione, incappare in quanto avverso? Quando biasimai dio od uomo, quando incolpai qualcuno? Qualcuno di voi mi vide forse accigliato? [III,22,49] Come incontro costoro di cui voi avete paura e siete infatuati? Non come schiavi? Vedendomi, chi non crede di vedere il suo re e padrone?” [III,22,50] Ecco accenti cinici, eccone lo stile, il progetto. No, ma piccola bisaccia, bastone e grandi mascelle; divorare tutto quel che darai o metterlo in serbo od ingiuriare intempestivamente chi gli viene incontro o mostrare la spalla magnifica.

La posta in gioco (51-52)

[III,22,51] Vedi come stai per porre mano ad una faccenda così rilevante? Prendi dapprima uno specchio e guarda le tue spalle, decifra i lombi, le cosce. Stai per iscriverti alle Olimpiadi, o uomo, non a qualche gelida e disgraziata garetta. [III,22,52] Non è possibile, alle Olimpiadi, solo essere vinto ed uscire ma innanzitutto si deve essere indecenti davanti all’intera terra abitata che ti scorge, e non solo agli Ateniesi, agli Spartani od ai Nicopolitani; e poi chi vi entra a casaccio deve essere conciato e, prima di essere conciato, soffrire la sete, essere accaldato, ingoiare molta rena.

L’impresa Olimpica e l’impresa Cinica (53-56)

[III,22,53] Consigliati nel modo più solerte, riconosci te stesso, interroga il genio, non mettere mano a questo prescindendo da un dio. Giacché se lo consiglierà, sappi che dispone di farti diventare grande o prendere molte botte. [III,22,54] Questo profilo assai grazioso è stato intrecciato infatti anche nell’impresa del Cinico, quand’egli deve essere conciato come un asino e, pur conciato, amare gli stessi conciatori come padre di tutti, come fratello. [III,22,55] No, ma se uno ti concerà, sta in mezzo e gracchia: “O Cesare, nella tua pace quali angherie debbo sperimentare? Conduciamoci dal proconsole!” [III,22,56] Ma per il Cinico cos’è Cesare od un proconsole od un altro, se non chi l’ha mandato giù e cui egli rende culto, ossia Zeus? Invoca egli altri che Zeus? Non è persuaso che qualunque di queste angherie sperimenterà, è la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, che lo sta allenando?

Le fatiche di Eracle e la febbre di Diogene (57-59)

[III,22,57] Eracle, allenato da Euristeo, non legittimava di essere meschino ma realizzava intrepidamente tutte le ingiunzioni. E merita di portare lo scettro di Diogene chi, cimentato ed allenato da Zeus, è per strillare e fremere? [III,22,58] Ascolta cosa dice Diogene, quando ha la febbre, ai passanti: “Teste di cazzo,” diceva, “non vi fermerete? Ve ne andate per cotanta strada ad Olimpia per vedere una battaglia di atleti della malora, e volete non vedere la battaglia tra la febbre ed un uomo?” [III,22,59] Probabilmente uno siffatto avrebbe incolpato Zeus di averlo mandato giù per usare di lui a torto, proprio lui che si abbelliva delle circostanze difficili e sollecitava di essere uno spettacolo per i passanti! Giacché incolperà per cosa? Perché agisce con decoro? Accuserà cosa? Che sfoggia più radiosa la sua virtù? 

Come può la felicità abitare i putridi giudizi di piccoli e grandi “potenti”? (60-61)

[III,22,60] Orsù, e cosa dice Diogene della povertà di denaro, della morte, del dolore? Come paragonava la sua felicità a quella del Gran Re o, piuttosto, credeva che neppure fosse paragonabile? [III,22,61] Giacché dove sono sconcerti, afflizioni, paure, desideri imperfetti, avversioni che incappano in quanto avversano, invidie, gelosie, là che passaggio vi può avere la felicità? Dove saranno giudizi schifosi, là è necessario che vi sia tutto ciò. 

Soltanto un altro Cinico può essere amico di un Cinico, come Diogene lo fu di Antistene e Cratete di Diogene (62-66)

[III,22,62] Quando il giovanotto cercò di sapere se, essendo ammalato, dovrà dare retta ad un amico che lo sollecita a venire da lui per essere curato, Dove mi darai un amico del Cinico? diceva Epitteto. [III,22,63] Giacché questo deve essere un altro Cinico, per meritare di essere numerato amico del primo. Deve essere socio di scettro e di regno e degno ministro, se è per essere degno di amicizia: come Diogene lo divenne di Antistene e Cratete di Diogene. [III,22,64] O reputi che se uno verrà innanzi a dirgli ‘Salve!’ è suo amico, e che quello lo riterrà degno di entrare da lui? [III,22,65] Sicché, se lo reputi, se rimugini qualcosa di siffatto, piuttosto cerca con lo sguardo un grazioso immondezzaio nel quale avere la febbre, che ripari da Borea per non infreddarti. [III,22,66] A me sembra che tu voglia partirtene a casa di qualcuno per essere foraggiato un po’ di tempo. Cosa c’è dunque tra te ed il mettere mano ad una faccenda così rilevante?

Il Cinico davanti al matrimonio ed alla paternità, in due città diverse (67-76)

[III,22,67] -Sposalizio e ragazzi, diceva il giovanotto, saranno assunti come cardinali dal Cinico?- Se mi darai, diceva Epitteto, una città di sapienti, probabilmente uno non giungerà facilmente a cinizzare. Giacché per chi si incaricherà di questo modo di tragittarsela? [III,22,68] Se ugualmente lo ipotizzeremo, nulla gli impedirà di sposarsi e fare figli giacché sua moglie sarà un’altra siffatta, il suocero un altro siffatto ed i bimbi saranno allevati così. [III,22,69] Ma essendo la condizione della città quale è ora, come di schieramento, non deve forse il Cinico essere senza distrazioni, intero per il ministero di Zeus, in grado di frequentare persone, non vincolato a doveri da persona comune né implicato in relazioni sociali violando le quali non salvaguarderà più il ruolo del virtuoso e serbando le quali manderà in malora il messaggero, l’esploratore ed araldo degli dei? [III,22,70] Giacché vedi che egli deve dimostrare certi servizi al suocero, esplicarne altri per gli altri congeneri della moglie e per la moglie stessa; orbene, si esclude così dal cinismo per curare ammalati, per provvedere loro. [III,22,71] Per tralasciare il resto, egli deve provvedere una cuccuma dove farà acqua calda per il bimbo, per fargli il bagno nella tinozza; della lana per la moglie che ha partorito; dell’olio, un graticcio, una tazza (e le suppellettili diventano già di più); per tralasciare, dicevo, gli altri impegni, le altre distrazioni. [III,22,72] Orbene, dove mi sarà quel re, colui che bada ai comuni interessi, *a cui son tante genti commesse e tante cure*, che deve sopravvedere gli altri, gli sposati, chi ha fatto dei figli, chi tratta bene la propria moglie e chi male, chi litiga, quale casa è stabile e quale no, andando in giro come un medico e toccando i polsi? [III,22,73] “Tu hai la febbre, tu hai mal di testa, tu hai la podagra; tu respingi il cibo, tu mangia, tu non fare bagni; tu devi essere operato, tu cauterizzato”. [III,22,74] Dov’è quest’agio per chi è avvinto a doveri da persona comune? Non deve provvedere delle toghette per i bimbi? Inviarli dal maestro di grammatica con tavolette e tabelline per scrivere ed avere pronto per loro un graticcio? Giacché non possono essere dei Cinici appena usciti dai visceri. Se no, i nati sarebbe meglio esporli che ucciderli così. [III,22,75] Considera dove riduciamo il Cinico, come lo priviamo del regno. [III,22,76] -Sì, ma Cratete si sposò- Tu mi dici di una circostanza nata dalla passione amorosa e poni una donna che era un altro Cratete. Noi invece stiamo ricercando su matrimoni comuni e di circostanza, e così cercando troviamo la faccenda, in questa condizione, non cardinale per il Cinico.

Il Cinico davanti alla socievolezza (77-82)

[III,22,77] -E come, dice il giovanotto, preserverà ancora la società?- Perdio, sono maggiori benefattori del genere umano coloro che introducono in loro vece due o tre laidi musi di marmocchi oppure quelli che fanno del loro meglio per sopravvedere tutte le persone: cosa fanno, come se la passano, di cosa sono solleciti, cosa trascurano contro il conveniente? [III,22,78] Quanti, morendo, lasciarono loro dei figlioli, giovarono ai Tebani più di Epaminonda che morì senza figlioli? E Priamo, che generò cinquanta lordure, o Danao od Eolo conferirono alla società più cose di Omero? [III,22,79] E poi una pretura o la composizione di un trattato terrà qualcuno in disparte dallo sposalizio o dalla paternità, e costui non reputerà di avere cambiato l’essere senza figlioli con nulla, ed il regno non sarà la degna contropartita del Cinico? [III,22,80] Forse non ci accorgiamo della sua grandezza e non ci rappresentiamo secondo merito il ruolo di Diogene, ma volgiamo lo sguardo ai Cinici di ora, a questi *cani della mensa, di guardia alle porte* i quali di lui nulla imitano se non proprio di diventare scorreggioni e nient’altro? [III,22,81] Dacché questi fatti non ci muoverebbero né trasaliremmo se non si sposerà o non farà dei figli. O uomo, il Cinico ha per figli tutte le persone, i maschi come figli, le femmine come figlie; e così va da tutti, tutti tutela. [III,22,82] O reputi che ingiuri chi gli viene incontro per indiscrezione? Lo fa da padre, da fratello e servitore del comune padre, di Zeus.

Il Cinico davanti a politica ed a politicheria (83-85)

[III,22,83] Se lo reputerai, cerca anche di sapere da me se si interesserà di politicheria. [III,22,84] Scodinzolone, cerchi una politica più grande di quella di cui si interessa? O un Cinico perverrà tra gli Ateniesi a parlare di entrate o rendite, lui che deve dialogare con tutte le persone, altrettanto con Ateniesi, altrettanto con Corinzi od altrettanto con Romani non su rendite né su entrate, né su pace o guerra ma su felicità ed infelicità, su buona e cattiva fortuna, su servitù e libertà? [III,22,85] Di un uomo che si interessa di una politica di tale rilievo, tu cerchi di sapere da me se si interesserà di politicheria? Cerca anche di sapere da me se occuperà cariche. Di nuovo ti dirò: stupido, quale carica è più grande di quella che occupa?

Le doti fisiche e la pulizia del Cinico (86-89)

[III,22,86] Un uomo siffatto ha tuttavia bisogno anche di un certo fisico. Dacché se avanzerà tisico, magro e pallido, la sua testimonianza non ha più simile palesamento. [III,22,87] Giacché egli deve non soltanto far riscontrare alla persona comune, sfoggiando le qualità dell’animo suo, che è fattibile essere virtuoso prescindendo da quanto essi ammirano, ma anche mostrare, attraverso il corpo, che un tenore di vita semplice, frugale ed all’aria aperta non guasta il corpo. [III,22,88] “Ecco, e di questo siamo testimoni io ed il mio corpo”. Come faceva Diogene: giacché andava in giro splendendo, ed il corpo stesso faceva voltare i più. [III,22,89] Se invece suscita commiserazione, il Cinico sembra un mendicante: tutti se ne distolgono, tutti se ne offendono. Neppure deve mostrarsi sozzo, così da far scappare di spavento la gente per questo; ma la sua stessa ispidezza deve essere pulita ed attraente.

La grazia naturale e l’acutezza di spirito del Cinico (90-92)

[III,22,90] Al Cinico deve anche essere congiunta molta grazia naturale ed acutezza (se no, diventa moccio e nient’altro) per potere prontamente e dappresso andare incontro agli accadimenti. [III,22,91] Come Diogene, a chi gli diceva “Tu sei quel Diogene che non crede esservi Dei?” “E come,” rispondeva, “legittimo te quale nemico personale degli dei?” [III,22,92] Di nuovo, ad Alessandro che gli stava accanto mentre era coricato e diceva *Tutta dormir la notte ad uom sconviensi di supremo consiglio*, ancora assonnato replicò *a cui son tante genti commesse e tante cure* .

La libertà di parola del Cinico (93-96)

[III,22,93] Ma prima di tutto l’egemonico del Cinico deve essere più puro del sole; se no, è necessariamente un giocatore d’azzardo ed un facilone chi, impigliato lui stesso in qualche vizio, rimprovererà gli altri. [III,22,94] Vedi, infatti, qual è il punto. Le guardie del corpo e le armi procuravano a questi re e tiranni, pur essendo essi cattivi, di poter rimproverare alcuni e castigare i criminali. Invece delle armi e delle guardie del corpo, la cognizione trasmette al Cinico questa potestà. [III,22,95] Qualora egli veda che ha vegliato sugli esseri umani ed ha faticato per loro; che si è coricato pulito e che il sonno lo lascia ancora più pulito; che quanto ha ponderato l’ha ponderato da amico degli dei, da servitore, da partecipe della signoria di Zeus; che ovunque gli è a portata di mano il *Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato* ed anche *Se così piace agli dei, così sia* ; [III,22,96] perché non avrà il coraggio della libertà di parola con i suoi amici, i figlioli, insomma i congeneri?

Il privilegio del Cinico (97-99)

[III,22,97] Per questo, chi è così disposto è né indiscreto né impiccione. Qualora infatti sopravveda le umane faccende, il Cinico non si impiccia di allotrio ma di fatti propri. Se no, chiama impiccione anche lo stratega, qualora sopravveda ed ispezioni i soldati, e stia in guardia e castighi chi è fuori posto. [III,22,98] Se, mentre tieni sotto l’ascella una focaccetta, rimprovererai altri ti dirò: non vuoi piuttosto partirtene in un angolino a divorare quel che hai rubato? [III,22,99] Che c’è fra te e faccende allotrie? Chi sei? Il toro sei, o l’ape regina? Mostrami i segni distintivi dell’imperio, quali essa ha di natura. Me se sei un pecchione che reclama il regno delle api, non reputi che i compari in affari cittadini abbatteranno te come le api i pecchioni?

La capacità di sopportazione del Cinico (100-102)

[III,22,100] Il Cinico deve poi avere cotanta capacità di tolleranza da sembrare ai più insensibile, di sasso. Nessuno lo ingiuria, nessuno lo percuote, nessuno lo oltraggia, ed egli ha dato il suo corpo da usare a chi vuole come decide. [III,22,101] Giacché si ricorda che di necessità il peggiore è vinto dal migliore, dove è peggiore, ed un corpo è peggiore di molti, il più debole dei più potenti. [III,22,102] Dunque il Cinico non scende mai in questa gara, dove può essere vinto; ma subito si ritrae dall’allotrio, non pretende quanto è servo. 

Il Cinico sa che non esistono ladri di proairesi (103-106)

[III,22,103] Dove invece sono proairesi ed uso delle rappresentazioni, là vedrai quanti occhi ha; tanto da farti dire che Argo, al suo confronto, era cieco. [III,22,104] Dove trovi in lui un assenso precipitoso, dove un impulso avventato, dove un desiderio fallito, dove un’avversione che incappa in quanto avversa, dove un progetto imperfetto, dove lagnanza, dove servilismo o invidia? [III,22,105] E’ qua la sua grande attenzione e sforzo; per il resto russa supino: pace completa. Un rapinatore di proairesi non c’è, non c’è tiranno di proairesi. [III,22,106] E del corpo? Sì. E di coserelle? Sì, ed anche di cariche ed onorificenze. Che gli importa di questo? Qualora dunque uno voglia incutergli paura per mezzo loro, il Cinico gli dice: “Va’, cerca dei bimbi; è a loro che le maschere fanno paura; io invece so che sono di terracotta, dal di dentro non c’è nulla”.

Dunque, giovanotto, il Cinismo non è affare per te. (107-109) 

[III,22,107] Su siffatta faccenda deliberi. Sicché se lo reputerai, perdio, posponila e vedi innanzitutto la tua preparazione. [III,22,108] Vedi cosa dice Ettore ad Andromaca: “Va’,” dice, “piuttosto a casa e tessi; alla guerra penseranno i maschi tutti ed io soprattutto”. [III,22,109] Così aveva consapevolezza della propria preparazione e dell’incapacità di lei.

CAPITOLO 23
A QUANTI LEGGONO E FANNO DISCORSI PER OSTENTAZIONE

Riconosci te stesso e diventa chi sei (1-3)

[III,23,1] Innanzitutto dì a te stesso chi disponi di essere e poi fa così quel che fai. Giacché anche in quasi tutti gli altri casi vediamo che accade così. [III,23,2] Coloro che si cimentano innanzitutto determinano chi vogliono essere e poi così fanno il seguito. Se fondista un cibo siffatto, siffatte camminate, siffatto massaggio, siffatto allenamento. Se scattista, tutto questo è diverso. Se pentatleta, ancora più diverso. [III,23,3] Troverai che è così anche nelle arti. Se falegname, avrai opere siffatte; se fabbro, siffatte. Giacché se a nulla riferiremo ciascuna delle nostre attività, la faremo a casaccio; e se la riferiremo a ciò cui non deve essere riferita, la faremo rovinosamente. 

I modelli di riferimento sono indispensabili (4-7)

[III,23,4] Orbene vi sono un riferimento comune ed uno peculiare. Il primo affinché io agisca da uomo. Cosa include questo? Non a casaccio, non con un’acquiescenza da pecora e non con una dannosità da belva. [III,23,5] Il peculiare è riferito al mestiere di ciascuno ed alla proairesi, ossia il citaredo da citaredo, il falegname da falegname, il filosofo da filosofo, l’oratore da oratore. [III,23,6] Qualora dunque tu dica: “Venite qui ad ascoltarmi leggere per voi” analizza innanzitutto di non farlo a casaccio. E se poi troverai che lo riferisci a qualcosa, analizza se è a ciò cui deve essere riferito. [III,23,7] Vuoi giovare od essere lodato? Subito senti chi dice: “Ma che cosa conta per me la lode della gente?”, e dice bene. Giacché essa neppure conta per il musicista in quanto musicista, né per lo studioso di geometria. 

Si può mai essere di giovamento ad altri senza esserlo prima stati a sé ? (8)

[III,23,8] Dunque vuoi giovare? A cosa? Dillo anche a noi, affinché anche noi corriamo alla tua sala di audizioni. Ora, può uno giovare ad altri se non ha giovato a se stesso? No. Giacché non lo è per l’arte della falegnameria chi non è falegname, né per l’arte della calzoleria chi non è calzolaio.

Dione Crisostomo: un modello di conferenziere insipiente (9-14)

[III,23,9] Vuoi dunque riconoscere se ti sei giovato? Porta i tuoi giudizi, o filosofo! Qual è la professione di un desiderio? Non fallire. Quale di un’avversione? Non incappare in quanto avversa. [III,23,10] Orsù, adempiamo quanto professano? Dimmi la verità. Se mentirai ti dirò: “L’altro giorno, essendosi i tuoi uditori riuniti un po’ freddamente e non avendoti acclamato, uscisti con la proairesi serva; [III,23,11] l’altro giorno, lodato, te ne andavi in giro dicendo a tutti ‘Cosa ti sono sembrato?’ ‘Stupefacente, signore, te lo giuro’ ‘Come dissi quel passaggio?’ ‘Quale?’ ‘Dove descrissi Pan e le Ninfe’ ‘Soprannaturalmente’ “. [III,23,12] E poi mi dici che ti conduci secondo la natura delle cose nel desiderio e nell’avversione? Va’ a persuadere un altro. [III,23,13] E l’altro giorno non lodavi il tale contro il tuo parere? Non adulavi il tale, il senatore? Vorresti che siffatti fossero i tuoi bimbi? -Non sia mai!- [III,23,14] -Perché dunque lo lodavi e circondavi di parole?- -E’ un giovanotto purosangue ed atto ad ascoltare discorsi- -Donde questo?- -Mi ammira- -Hai detto la dimostrazione-.

Disprezzato, in cuor loro, dai suoi uditori (15-18)

[III,23,15] E poi che reputi? Proprio costoro non ti spregiano a tua insaputa? Qualora un individuo che ha cognizione di non avere fatto né rimuginato nulla di buono, trovi un filosofo che dice “Gran temperamento, schietto ed integerrimo”; ebbene reputi che si dica altro da: “Costui ha un qualche bisogno di me”? [III,23,16] Oppure dimmi quale opera di gran temperamento ha sfoggiato di saper fare. Ecco, è con te da tanto tempo, ti ha ascoltato fare discorsi, ti ha ascoltato leggere. Ma si è calmato, si è impensierito di se stesso? Si è accorto in quali cattive acque è? Ha buttato via la presunzione? Cerca un insegnante? [III,23,17] – Cerca, dice- Chi gli insegnerà come si deve vivere? No, stupido. Ma come si deve esprimere: giacché per questo ammira te. Ascoltalo, cosa dice. “Questa persona scrive in modo artisticissimo, molto meglio di Dione”. [III,23,18] La faccenda è interamente altra. Dice forse: “L’uomo è un essere rispettoso di sé e degli altri; costui è leale; costui sa dominare lo sconcerto”? E se anche lo dicesse, gli avrei detto: “Siccome costui è leale, quest’essere leale cos’è?” E se non avesse che dire avrei addizionato: “Innanzitutto impara cosa dici e poi dillo”.

Che bada soltanto alla “audience” ed allo “share” (19-23)

[III,23,19] Dunque così mal disposto e stando a bocca aperta circa chi ti loderà e numerando quelli che ti ascoltano vuoi giovare ad altri? “Oggi mi ascoltarono molti di più”. “Sì, molti”. “Reputiamo cinquecento”. “Dici niente: ponili mille”. “Mai cotanti ascoltarono Dione”. “E donde cotanti per lui?” “E si accorgono con raffinatezza dei ragionamenti”. “Il meraviglioso, signore, può muovere anche un sasso”. [III,23,20] Ecco gli accenti di un filosofo, ecco la disposizione di chi gioverà agli uomini. Ecco un uomo che ha ascoltato la ragione, che ha letto gli scritti Socratici come Socratici e non come fossero di Lisia o di Isocrate. “Spesso ammirai con quali mai ragionamenti…” No: dì piuttosto “…con qual mai ragionamento…”; questo è più scorrevole di quello. [III,23,21] Giacché li avete forse letti altrimenti da come si leggono canzonette? Se davvero li leggeste come si deve, non sareste arrivati a questo ma scorgereste piuttosto: “Anito e Meleto possono farmi uccidere ma non danneggiare”; e: “Giacché io sempre sono tale da non fare attenzione ad altra mia facoltà che alla ragione, ed alla ragione che mi appaia ottima dopo attenta considerazione”. [III,23,22] Per questo chi udì mai Socrate dire: “So qualcosa e lo insegno”? Ma mandava chi là e chi altrove. Perciò appunto venivano da lui a sollecitarlo di essere raccomandati a dei filosofi e Socrate ve li menava e li raccomandava. [III,23,23] No, ma faceva avvertire dicendo: “Oggi ascoltami fare un discorso in casa di Quadrato”.

E cerca elogi (23-26)

Perché ascoltarti? Vuoi dimostrarmi che componi elegantemente i nomi? Li componi, o uomo. E che bene te ne viene? “Ma, lodami!” [III,23,24] Che cosa intendi per “lodare”? “Dimmi ‘Uah!’ e ‘Stupefacente!’“ Ecco, lo dico. Se poi la lode è qualcosa che rientra nella categoria del bene, come dicono a volte i filosofi, cos’ho da lodarti? Se l’esprimersi correttamente a parole è un bene, insegnamelo e ti loderò. [III,23,25] E dunque? Si devono ascoltare con spiacevolezza siffatte persone? Non sia mai! Io non ascolto spiacevolmente neppure un citaredo, ma forse per questo devo stare ritto a cantare suonando la cetra? Ascolta cosa dice Socrate: “Giacché non si confarebbe, o uomini, a questa età venire davanti a voi plasmando discorsi come un adolescente”. “Come un adolescente”, dice. [III,23,26] Giacché è effettivamente elegante la piccola arte di selezionare nomignoli e comporli e pervenire a leggerli o dirli da purosangue e mentre si legge esclamare: “Questi non molti possono comprenderli, ve lo giuro!”

Il filosofo non fa comizi (27-29)

[III,23,27] -Un filosofo invita ad una pubblica lettura?- Non è vero che come il sole conduce lui a se stesso il cibo, così anche il filosofo conduce lui a se stesso coloro che si gioveranno di lui? Quale medico prega affinché uno si faccia curare da lui? Eppure sento dire che ora a Roma anche i medici pregano: ai miei tempi invece erano essi pregati di curare. [III,23,28] “Ti invito a venire da me per sentirti dire che stai male, che di tutto sei sollecito fuorché di ciò di cui devi avere sollecitudine, che ignori i beni ed i mali, che sei infelice e preda di cattiva fortuna”. Invito grazioso! Eppure se il discorso del filosofo non infonderà questo, cadaverico è il discorso e chi lo fa. [III,23,29] Rufo era solito dire: “Se avete comodità di lodarmi, allora io non sto dicendo nulla”. Perciò appunto parlava in modo che ciascuno di noi, lì seduto, credeva di essergli stato reso inviso da qualcuno: a tal punto toccava gli avvenimenti; a tal punto poneva davanti agli occhi di ciascuno i suoi mali. 

La scuola del filosofo è come lo studio di un medico (30-32)

[III,23,30] La scuola del filosofo, o uomini, è uno studio medico: si deve uscirne non dopo avere goduto ma dopo avere penato. Giacché non ci venite sani ma chi con una spalla slogata, chi con un ascesso, chi con una fistola, chi con il mal di testa. [III,23,31] E poi io mi siedo e vi dico pensierini e mottetti arguti affinché, dopo avermi lodato, ve ne usciate chi portando fuori la spalla tal quale la portò dentro, chi con la testa allo stesso modo, chi con la fistola, chi con l’ascesso? [III,23,32] E’ per questo che persone più giovani di te debbono mettersi in viaggio abbandonando i loro genitori, gli amici, i congeneri e le loro coserelle; è per dirti “Uah!” mentre dici mottetti arguti? Questo faceva Socrate, questo Zenone, questo Cleante?

Lo stile di Dione Crisostomo è né protrettico né confutatorio né didascalico bensì “per ostentazione” (33-38)

[III,23,33] -E dunque? Non esiste lo stile protrettico?- Chi dice di no? Come il contestatorio, come il didascalico. Chi dunque parla qualche volta, oltre questi, di un quarto stile: lo stile “per ostentazione”? [III,23,34] Qual è infatti lo stile protrettico? Poter mostrare ad uno solo ed a molti la contraddizione in cui si rotolano, e che di tutto si preoccupano piuttosto che di quanto dispongono. Essi vogliono infatti quanto porta alla felicità, ma lo cercano altrove da dov’è. [III,23,35] Perché questo accada devono essere poste mille sedie, invitati i futuri ascoltatori, tu -con un abitino elegante od un mantellino – salire su di un palco per descrivere come morì Achille? Per gli dei, cessate di svergognare, per quanto sta in voi, magnifici nomi e magnifiche faccende. [III,23,36] Niente è più protrettico che qualora chi parla palesi agli ascoltatori che ha bisogno di loro. [III,23,37] Oppure dimmi chi, ascoltandoti leggere o fare un discorso, fu in ansia su di sé o si impensierì su se stesso o uscendo disse: “Il filosofo mi toccò bene: non devo più fare queste cose”. [III,23,38] No, ma se avrai molti applausi dice a qualcuno “Con che eleganza espresse le vicende di Serse!”, ed un altro: “No, la battaglia delle Termopili!”. E’ questo la pubblica lettura di un filosofo?

CAPITOLO 24
SUL NON DOVERCI STRUGGERE PER QUANTO NON E’ IN NOSTRO ESCLUSIVO POTERE

Le afflizioni degli altri mi sono estranee; mi interessano i loro giudizi (1-8)

[III,24,1] L’opera di un altro contro la natura delle cose non diventi un male per te. Giacché tu non sei nato per farti serva la proairesi né per avere sfortuna in compagnia ma per avervi fortuna. [III,24,2] Se uno sarà sfortunato, ricorda che è sfortunato per se stesso. Giacché la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, fece tutti gli uomini perché fossero felici, perché fossero stabili. [III,24,3] E per questo diede delle risorse, dando a ciascuno il peculiare e l’allotrio. Quanto è soggetto ad impedimenti, ad essere sottratto e costretto non è peculiare; peculiare è invece quanto non è soggetto ad impedimenti. La sostanza del bene e del male, com’era degno di chi ci tutela e regge paternamente, è nel peculiare. [III,24,4] “Ma mi sono ritirato dal tale e lui se ne duole”. E perché ritenne peculiare l’allotrio? Perché quando si rallegrava scorgendoti, non calcolava che sei mortale, che puoi metterti in viaggio? Perciò appunto paga il fio della sua propria stupidità. [III,24,5] E tu in cambio di che cosa lo fai? Perché ti singhiozzi addosso? O neppure tu studiasti queste faccende, ma come quelle femminette che non valgono nulla, stavi con tutto ciò di cui ti rallegravi come se avessi potuto starci per sempre: i posti, le persone, i trastulli? Ed ora ti siedi a singhiozzare perché non scorgi le medesime persone e non ti trastulli nei medesimi luoghi ? [III,24,6] Giacché questo meriti, di essere più meschino dei corvi e delle cornacchie che han potestà di spiccare il volo dove vogliono, edificare i nidi altrove, trapassare pelaghi senza gemere né bramare i primi. [III,24,7] -Sì, ma lo sperimentano perché sono sprovvisti di ragione- Dunque dagli dei ci è stata data una ragione di sfortuna ed infelicità, affinché siamo dei meschini e piangiamo di continuo? [III,24,8] O vuoi che tutti siano immortali, che nessuno si metta in viaggio ma che rimaniamo inradicati come vegetali? Se poi qualcuno degli intimi si metterà in viaggio, che sediamo a singhiozzare e, se verrà di nuovo, che balliamo ed applaudiamo come i bimbi?

Il cosmo è un’unica sostanza ed un’unica polis (9-12)

[III,24,9] Non ci svezzeremo ormai e non ci ricorderemo di quel che sentimmo dire dai filosofi? [III,24,10] Se proprio non lo ascoltavamo come dei ritornelli, che questo ordine del mondo è una città sola, che la sostanza da cui è stato fabbricato è una sola, che ci deve necessariamente essere un ciclo regolare ed un dar spazio gli uni agli altri; che alcune cose devono necessariamente dissolversi, altre sopravvenire, altre rimanere al medesimo posto, altre muoversi? [III,24,11] Tutto è pieno di presenze amiche, innanzitutto di dei e poi di uomini, imparentati per natura gli uni agli altri. E bisogna che alcuni presenzino gli uni agli altri, che altri si allontanino e che noi ci rallegriamo con chi sta e non ci adontiamo con chi si allontana. [III,24,12] L’uomo, oltre ad essere per natura disinteressato e spregiativo di tutto ciò che è aproairetico, ha avuto anche di non essere radicato né abbarbicato a terra, bensì di sospingersi da un posto all’altro, a volte per certi bisogni urgenti, a volte anche per la veduta in sé.

La polis di Ulisse ed Ercole, la polis dove gli uomini sanno che chi è infelice è un vizioso e che nessun uomo virtuoso ha mai cattiva fortuna (13-21)

[III,24,13] Ed era qualcosa di siffatto quel che avvenne ad Odisseo: *di molti uomini vide le rocche e la mente conobbe* ; ed ancor pria era toccato ad Eracle di andare in giro per l’intera terra abitata: * per vedere la prepotenza e l’osservanza delle leggi degli uomini*, espellendo la prima e ripulendone il mondo, mentre al suo posto vi introduceva la seconda. [III,24,14] Eppure quanti amici credi ebbe a Tebe, quanti ad Atene e quanti ne acquisì andando in giro per il mondo, lui che si sposava quando gli pareva tempo, faceva dei figli, abbandonava i ragazzi senza gemere né bramare né lasciarli come orfani? [III,24,15] Giacché sapeva che nessun uomo è orfano, ma che di tutti sempre e continuamente v’è il padre che tutela. [III,24,16] Che Zeus è padre degli uomini, non lo aveva sentito soltanto a parole, lui che lo credeva e chiamava proprio padre e che effettuava quel che effettuava tenendo gli occhi sopra di lui. Appunto perciò aveva la potestà di passarsela felicemente ovunque. [III,24,17] Invece non è mai possibile che vengano insieme felicità e brama di quanto non è presente. L’essere felice deve infatti avere tutto quel che dispone, somigliare ad uno sazio: non deve essergli congiunta sete, non fame. [III,24,18] -Ma Odisseo soffriva per la moglie e singhiozzava immobile su uno scoglio- Ma tu, per ogni cosa fai attenzione ad Omero ed alle sue storielle? Se davvero singhiozzava, che altro aveva se non cattiva fortuna? E quale uomo virtuoso ha cattiva fortuna? [III,24,19] L’intero è effettivamente mal governato se Zeus non è sollecito dei propri cittadini, così che siano simili a lui: felici. Ma è contrario alle leggi umane ed è sacrilego rimuginare questi pensieri ed Odisseo, [III,24,20] se singhiozzava e si rammaricava, non era un uomo dabbene. Giacché chi è dabbene se non sa chi è? E chi lo sa, se ha dimenticato che quanto nasce è perituro e che è impossibile per una persona stare sempre con un’altra? [III,24,21] E dunque? Prendere di mira l’impossibile è da schiavi, è sciocco, da straniero che combatte la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, come soltanto è possibile, con i propri giudizi. 

Non mi interessa l’infelicità, non mi interessano i vizi altrui; mi interessa capire l’errore che li ha generati (22-30)

[III,24,22] -Ma mia madre geme non vedendomi- E perché non imparò queste ragioni? Non dico che non si debba esser solleciti che ella non mugugni, bensì che non si deve volere ad ogni costo l’allotrio. [III,24,23] L’afflizione di un altro è cosa allotria, la mia è mia. Io dunque farò cessare ad ogni costo la mia, giacché questo è in mio esclusivo potere. L’allotrio proverò al mio meglio, ma non proverò ad ogni costo. [III,24,24] Se no, combatterò contro la Materia Immortale, ovvero contro la Pronoia, mi contrapporrò a Zeus, mi opporrò a lui riguardo all’intero. E la mercede di questa battaglia alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia, e di questa disobbedienza non la sborseranno “i figli dei figli” ma io in persona, di notte sobbalzando tra le visioni in sogno e di giorno, preda dello sconcerto, tremante dinanzi ad ogni annuncio, con il mio dominio delle passioni dipendente da missive scritte da altri. [III,24,25] Ne è giunta una da Roma. “Solo non sia qualche male!” Ma che male ti può avvenire là dove non sei? Ne è giunta una dalla Grecia. “Solo non sia qualche male!” Così qualunque posto può essere per te causativo di cattiva fortuna. [III,24,26] Non è sufficiente che tu sia sfortunato là dove sei; devi esserlo anche oltremare e per lettera? Le tue faccende sono sicure così? [III,24,27] -E dunque, se moriranno gli amici di là?- Che altro sarà se non che morirono dei mortali? Ma come, vuoi invecchiare ed insieme non vedere la morte di qualcuno di coloro per cui hai affetto? [III,24,28] Non sai che, nel tempo lungo, è necessario succedano molti e svariati avvenimenti: che la febbre deve avere la meglio su uno, un rapinatore su di un altro, un tiranno su un altro ancora? [III,24,29] Siffatto è il contesto, siffatti i sodali. Freddi e calure, cibi non ben regolati, viaggi per terra e per mare, venti e svariate circostanze uno lo fanno andare in malora, un altro confinare, un altro sbattere in un’ambasceria, un altro in una campagna militare. [III,24,30] Siediti quindi in fibrillazione per tutto questo, piangente, sfortunato, preda della cattiva sorte, dipendente da altro, anzi non da una sola cosa, non da due, ma da miriadi sopra miriadi.

Tu hai un posto sulla nave; tu hai un posto accanto a Socrate oplita (31-37)

[III,24,31] Questo sentivi dire dai filosofi, questo imparasti? Non sai che questa roba è una campagna militare? Che uno deve stare in guardia, un altro andare via per esplorare, un altro per fare guerra? Non è possibile né è meglio che tutti abbiano lo stesso ruolo. [III,24,32] Tu invece, dopo avere tralasciato di eseguire le ingiunzioni dello stratega, lo incolpi qualora ti sia ingiunto qualcosa in modo più rude, e non comprendi quale esercito, quanto a te, esibisci; e che se tutti ti imiteranno nessuno zapperà una trincea, precingerà d’una palizzata, veglierà, correrà pericoli, ma sembrerà improficuo per una campagna militare. [III,24,33] Di nuovo, se navigherai su un bastimento come marinaio, rattieni un solo rango e continua ad occuparlo. Se però bisognerà salire sull’albero maestro, non volere; se bisognerà accorrere a prua, non volere. E quale pilota ti tollererà? Non ti espellerà come una suppellettile improficua, un intralcio e null’altro, un cattivo paradigma per gli altri marinai? [III,24,34] Così anche qua. La vita di ciascuno è una campagna militare lunga e variata. Tu devi serbare il ruolo di soldato ed al cenno dello stratega effettuare ciascuna operazione [III,24,35] divinando, se possibile, quanto dispone. Giacché quello stratega e questo non sono simili né per potenza né per eccellenza di carattere. [III,24,36] Sei stato posizionato in una città imperiale e non in qualche rango miserabile, non annuale ma di senatore a vita. Non sai che uno siffatto deve dedicare poco tempo alla amministrazione dei suoi affari privati ed invece il più delle volte mettersi in viaggio per comandare od essere comandato, per servire in qualche carica o militare o di giustizia? E poi mi vuoi esser stato aggangherato ai medesimi posti ed inradicato come un vegetale? [III,24,37] -Ma è piacevole!- E chi dice di no? Anche una zuppa è piacevole, anche una magnifica femmina è piacevole. Che altro dicono coloro che fanno del piacere fisico un fine?

La giornata di un epicureo (38-39)

[III,24,38] Non ti accorgi di quali individui ti lasciasti scappare la voce? Che è quella di Epicurei e cinedi? E poi effettuando le loro opere ed avendone i giudizi, ci dici i discorsi di Zenone e di Socrate? [III,24,39] Non scaraventerai via, il più lontano possibile, l’allotrio di cui ti adorni senza che ti convenga? Che altro vuole quella gente se non dormire senza impacci e costrizioni, alzarsi, sbadigliare quietamente, sciacquarsi il viso e poi scrivere e leggere quel che vogliono, poi chiacchierare di qualcosa tra amici che lodano qualunque cosa diranno, e poi avanzare per un passeggio e dopo avere passeggiato un poco fare un bagno caldo, poi mangiare, poi coricarsi; e quale andare a letto per gente siffatta è verosimile -perché lo si direbbe?-giacché si ha la potestà di arguirlo.

Se ti arroghi il titolo di Stoico senza avere rettificato a dovere i tuoi giudizi, non vedi quale tremenda punizione stai già scontando? (40-41)

[III,24,40] Orsù, portami anche tu il tuo trastullo, quello che brami, o emulo della verità e di Socrate e di Diogene! Cosa vuoi fare ad Atene? Queste medesime cose. Forse le altre? [III,24,41] Perché dunque dici di essere Stoico? E poi, quanti fanno dichiarazioni menzognere di cittadinanza Romana sono amaramente castigati ed invece devono allontanarsi immuni quanti fanno dichiarazioni false su una faccenda ed un nome così grande e solenne? 

Chi si lamenta è perduto (42-43)

[III,24,42] Questo non è proprio possibile, ma la legge divina, potente, ineluttabile è questa che si fa pagare i massimi castighi da coloro che massimamente aberrano. [III,24,43] Che cosa dice, infatti? “Chi si arroga quanto non è per lui, sia un cialtrone, sia un vanaglorioso. Chi disubbidisce al divino governo, sia servo nell’animo, sia servo, si affligga, invidi, provi pietà e, punto capitale, abbia cattiva fortuna e si lamenti”. 

Stoico è colui che conosce i limiti delle cose e quindi sa conservarsi uomo in ogni circostanza (44-49)

[III,24,44] -E dunque? Vuoi che accudisca il tale? Che proceda alle sue porte?- Se la ragione lo sceglie in favore della patria, dei congeneri, degli amici, perché non partire? Non ti vergogni di procedere dal calzolaio qualora tu abbia bisogno di calzari, né dall’ortolano qualora abbia bisogno di lattughe, e ti vergogni di procedere alle porte dei ricchi di denaro qualora abbia bisogno di qualcosa di simile? [III,24,45] -Sì, giacché non ammiro il calzolaio- E neppure il ricco di denaro. -Neppure adulo l’ortolano- E neppure il ricco di denaro. [III,24,46] -Dunque come centrare ciò di cui ho bisogno?- Ma, ti dico io: “Parti con la certezza di centrare?” Non è soltanto per effettuare quanto ti si confà? [III,24,47] -Perché dunque procedervi ancora?- Per partire, affinché tu abbia esplicato l’opera tua di cittadino, di fratello, di amico. [III,24,48] Orbene ricorda che ti recherai da un calzolaio, da un verduriere, da uno che non ha potestà su qualcosa di grande o di solenne, anche se lo venderà a molto. Come parti per dei cespi di lattuga, che valgono un obolo, non un talento; [III,24,49] così è anche qui. La faccenda merita che si venga alle porte di qualcuno. E sia: mi ci recherò. Così pure che si dialoghi. E sia: dialogherò con lui. Ma si deve anche baciare la mano e lusingare con lodi. Suvvia! Questo vale un talento. Non è vantaggioso per me, né per la città né per gli amici, mandare in malora un buon cittadino ed amico. 

Se la virtù non basta a se stessa, che virtù è? (50-53)

[III,24,50] -Ma sembrerai non averlo fatto con foga, se non concludi niente!- Di nuovo dimenticasti perché sei venuto? Non sai che l’uomo virtuoso nulla fa per il sembrare bensì per l’averlo effettuato bene? [III,24,51] -Che pro a lui dell’effettuare cose belle?- E che pro a chi scrive il nome “Dione” com’è d’uopo scriverlo? Lo stesso scriverlo. -Dunque nessuna ricompensa?- Tu cerchi per l’uomo dabbene una ricompensa maggiore dell’effettuare cose belle e giuste? [III,24,52] Ad Olimpia nessuno cerca altro, e tu reputi che basti l’essere stato incoronato alle Olimpiadi. Essere virtuoso e felice ti pare dunque cosa così piccola e di nessun valore? [III,24,53] Per questo introdotto dagli dei in questa città, quando sei ormai tenuto ad accostarti ad opere da uomo, brami balie e mamma ed i singhiozzi di stupide femminette ti piegano e femminizzano? Così non cesserai mai di essere un infante. Non sai che chiagisce da bimbo è tanto più ridicolo quanto più è anziano? 

Tu sei i tuoi giudizi (54-57)

[III,24,54] Ad Atene, non vedevi nessuno quando bazzicavi in casa sua? –Vedevo chi decidevo- Anche qua: disponi di vedere costui e vedrai chi decidi. Solo non servilmente, non con desiderio od avversione, e quanto è tuo starà bene. [III,24,55] Questo, non è nel venire né nello stare davanti alle porte, ma è all’interno di te, nei tuoi giudizi. [III,24,56] Qualora tu abbia deprezzato gli oggetti esterni ed aproairetici e nulla di essi ritenuto tuo, tuoi invece soltanto il determinare da virtuoso, il concepire, l’impellere, il desiderare, l’avversare; dove c’è ancora posto per l’adulazione, dove per la servilità? [III,24,57] Perché brami ancora la quiete di laggiù, i luoghi consueti? Aspetta brevemente e di nuovo avrai questi come luoghi consueti. Se poi sarai così ignobile, singhiozza e gemi anche se ti allontani da questi.

Se togli valore di bene o male a ciò che è aproairetico perché ne trai la conseguenza che non potrai più mostrare sentimenti? (58-59)

[III,24,58] -Come essere, dunque, affettuoso?- Da generoso, da fortunato. Giacché la ragione non sceglierà mai che tu sia servo nell’animo né di svigorirti né che penzoli da un altro né che biasimi dio od uomo. [III,24,59] Siimi affettuoso così, con l’intenzione di serbare questo. Se invece a causa di questa affettuosità, qualunque cosa sia quel che chiami affettuosità, stai per essere servo e meschino, non è vantaggioso che tu sia affettuoso. 

Socrate non amava i suoi figli? (60-63)

[III,24,60] Cosa impedisce di amare qualcuno come un essere mortale, come uno che può mettersi in viaggio? Socrate non amava i suoi ragazzi? Ma da uomo libero, come chi ricorda che innanzitutto si deve essere amico di dei. [III,24,61] Per questo nulla violò di quanto si confà ad un uomo dabbene né parlando in sua difesa né proponendo la sanzione né, ancora antecedentemente, facendo parte del Consiglio o partecipando alle campagne militari. [III,24,62] Noi prosperiamo d’ogni sorta di pretesti per essere ignobili, alcuni accampando i figli, altri la madre, altri ancora i fratelli. [III,24,63] Invece a causa di nessuno ci conviene avere cattiva fortuna bensì buona fortuna a causa di tutti, soprattutto della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, che per questo ci ha strutturato.

E Diogene non amava nessuno? (64-66)

[III,24,64] Orsù, Diogene non amava nessuno? Lui che era così mansueto e filantropo da farsi allegramente carico di tante fatiche e disgrazie fisiche in favore della comune umanità? Ma amava come? [III,24,65] Come dovrebbe un ministro di Zeus, che tutela gli uomini ed insieme è subordinato alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia. [III,24,66] Per questo per lui soltanto ogni terra era patria, e non una terra particolare. Quando fu catturato non bramava Atene né gli intimi e gli amici di laggiù, ma divenne intimo proprio dei pirati e provava a rettificarli. Smerciato successivamente a Corinto, se la passava come antecedentemente ad Atene, e starebbe allo stesso modo anche se partisse verso i Perrebi. 

Antistene e Diogene: così nasce la libertà (67-77)

[III,24,67] Così nasce la libertà. Per questo Diogene diceva: “Da quando Antistene mi liberò, non fui mai più servo”. [III,24,68] E come lo liberò? Ascolta cosa dice: “Mi insegnò il mio ed il non mio. Il patrimonio non è mio; congeneri, familiari, amici, fama, posti consueti, trastulli: che tutto questo è allotrio. [III,24,69] ‘Cos’è dunque tuo? L’uso delle rappresentazioni’. Mi mostrò che quest’uso io l’ho non soggetto ad impedimenti, non soggetto a costrizioni; che nessuno può intralciarmi, nessuno violentarmi ad usare le rappresentazioni altrimenti da come dispongo io. [III,24,70] Chi dunque ha ancora potestà su di me? Filippo od Alessandro o Perdicca od il Gran Re? Donde verrebbe loro? Giacché chi sta per essere sconfitto da un essere umano, prioritariamente deve essere sconfitto dalle cose”. [III,24,71] Colui dunque su cui non hanno la meglio il piacere fisico, il dolore, la reputazione, la ricchezza di denaro e che può, qualora lo reputi, partire dopo avere sputato contro qualcuno l’intero corpo, ebbene costui di chi è ancora servo, a chi è stato subordinato? [III,24,72] Se Diogene se la passasse piacevolmente in Atene e fosse sconfitto da questo trastullo, le sue faccende sarebbero in potere di chiunque, ed il più potente sarebbe signore di affliggerlo. [III,24,73] Come reputi che avrebbe adulato i pirati perché lo vendessero ad un Ateniese, così da vedere il magnifico Pireo, le lunghe mura e l’Acropoli? [III,24,74] Vederle essendo tu chi, schiavo? [III,24,75] Un servo ed un servo nell’animo! E che pro per te? -No, ma libero- Mostrami, libero come. Ecco un tale qualunque ti ha abbrancato, ti sloggia dai tuoi consueti trastulli e dice: “Sei mio servo, giacché è in mio esclusivo potere impedirti di passartela come vuoi; in mio potere placarti, asservirti la proairesi. E qualora io voglia, di nuovo far sì che tu ti allieti e proceda sollevato verso Atene”. [III,24,76] Cosa dici a costui che ti riduce in servitù? Quale emancipatore gli dai? O neanche lo guardi in faccia ma, tralasciati i molti discorsi, lo supplichi di lasciarti perdere? [III,24,77] O uomo, tu te ne devi andare in prigione rallegrandoti, con celerità, prevenendo quanti ti ci menano. E poi ti periti a passartela a Roma e mi brami la Grecia? Ma qualora debba morire, anche allora sei per singhiozzarci davanti disperato, perché stai per non scorgere più Atene e non passeggerai nel Liceo?

Cosa sei venuto a fare a Nicopoli? Ad imparare sillogismi? (78-80)

[III,24,78] Per questo ti mettesti in viaggio? Per questo cercasti di conferire con qualcuno affinché ti giovasse? Quale giovamento? Per risolvere sillogismi più abitualmente o perlustrare ragionamenti ipotetici? E per questa cagione abbandonasti fratello, patria, amici, domestici? Per ritornare dopo avere imparato questo? [III,24,79] Sicché non ti eri messo in viaggio per la stabilità di giudizio, per il dominio sullo sconcerto; non, divenuto indenne, per non biasimare più nessuno, non incolpare nessuno, perché nessuno commetta ingiustizia contro di te e così tu salvaguardi senza impacci le relazioni sociali? [III,24,80] Magnifica questa mercanzia che ti apparecchiasti! Sillogismi, ragionamenti equivoci, ragionamenti ipotetici. Se ti parrà, siediti in piazza e mettiti un’insegna davanti, come i farmacisti. 

Cosa vivi a fare? Per l’affettuosità? (81-83)

[III,24,81] Non negherai di sapere anche quanto hai imparato, per non calunniare come improficui i principi generali della filosofia? Che male ti fece la filosofia? Che ingiustizia commise contro di te Crisippo perché di fatto tu confuti come improficue le sue fatiche? Non ti bastavano i mali di laggiù, quanti causativi avevi per affliggerti e piangere anche se non ti fossi messo in viaggio? Dovevi aggiungerne di più? [III,24,82] Se avrai di nuovo altri intimi ed amici, se ti struggerai per un altro territorio, avrai più causativi per mugugnare. Perché dunque vivi? Per precingerti di afflizioni una dopo l’altra, grazie alle quali essere sfortunato? [III,24,83] E poi mi chiami questo affettuosità? Quale, o uomo, affettuosità? Se l’affettuosità è un bene, non diventa causativa di alcun male. Se è un male, nulla vi è tra me ed essa. Io sono nato per i miei beni, non sono nato per i mali.

Non abbandonarti ad immaginazioni insensate né a sogni di immortalità (84-87)

[III,24,84] Qual è dunque l’esercizio pratico per questo? Innanzitutto il superiore e dominante e subito come ai portali, qualora ti strugga per qualcosa, è di dirti che si tratta di nulla di intoglibile ma di qualcosa del genere di una pentola, di una tazza di vetro, affinché qualora si rompa, ricordandolo, tu non ne sia sconcertato. [III,24,85] Così anche qua. Se bacerai il tuo bimbo, un fratello, un amico, non darti appieno alla rappresentazione e non permettere che l’effusione gioiosa avanzi quant’essa vuole ma tirala indietro, impediscila come quelli che stanno a tergo dei condottieri in trionfo e richiamano alla loro memoria che sono esseri umani. [III,24,86] Anche tu, richiamati alla memoria qualcosa di siffatto, che ami un mortale, non ami nulla di tuo. Per il presente ti è dato, non intoglibile né appieno, ma come un fico, un grappolo d’uva nella posizionata stagione dell’anno. Se lo bramerai d’inverno, sei uno stupido. [III,24,87] Così pure se bramerai il figlio o l’amico quando non ti è dato, sappi che brami un fico d’inverno. Giacché quel che l’inverno è per un fico, tale è ogni circostanza che nasce dall’intero nei confronti di quanto, in accordo con essa, viene levato di mezzo.

Tieniti saldo ai retti giudizi, che sono gli unici a giovare; e non temere di pronunciare le parole che esprimono la realtà dei fatti (88-92)

[III,24,88] Orbene, nel momento stesso in cui ti rallegri di qualcosa, mettiti davanti le rappresentazioni opposte. Mentre baci il tuo bimbo, che male c’è a dire balbettando: “Domani morirai”? Allo stesso modo, ad un amico: “Domani ti metterai in viaggio tu, od io; e non ci vedremo più l’un l’altro”? [III,24,89] -Ma queste sono parole malauguranti!”- Anche taluni ritornelli lo sono ma poiché giovano non mi impensierisco, che soltanto giovino! Tu chiami malaugurante altro da quanto significa qualche male? [III,24,90] Malaugurante è viltà; malaugurante è ignobiltà, lutto, afflizione, sfacciataggine: questi sono i nomi malauguranti. Eppure non bisogna peritarsi a pronunciare proprio questi nomi a prigione delle faccende. [III,24,91] Tu mi dici di malaugurio una parola che significa qualche faccenda naturale? Dì che è di malaugurio anche la mietitura delle spighe, giacché significa perdita delle spighe. Ma non dell’ordine del mondo. Dì che è di malaugurio anche la perdita delle foglie, il diventare secco di un fico fresco ed uva passa di un grappolo d’uva. [III,24,92] Tutte queste sono trasformazioni delle precedenti nelle altre: non perdita dunque, bensì un’amministrazione ed un governo bene posizionati.

Ecco cos’è la morte (93-94)

[III,24,93] Questo significa mettersi in viaggio, una piccola trasformazione. Questo la morte, una trasformazione più grande da quanto adesso esiste, non in quanto non esiste ma in quanto adesso non esiste. [III,24,94] -Dunque io non esisterò più?- Non esisterai, ma esisterà qualcos’altro di cui ora l’ordine del mondo ha bisogno. Giacché tu nascesti non quando lo disponesti tu ma quando l’ordine del mondo ne ebbe bisogno.

L’uomo virtuoso ha rappresentazioni chiare… (95-100)

[III,24,95] Per questo l’uomo virtuoso, memore di chi è e donde è venuto e da chi è nato, sta al mondo soltanto per questo: come assolvere il proprio rango disciplinatamente e con obbedienza alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia. [III,24,96] “Disponi che io rimanga? Rimarrò da uomo libero, generoso, come tu disponesti; giacché mi facesti non soggetto ad impedimenti in ciò ch’è mio. [III,24,97] Non hai più bisogno di me? Ben ti sia! Finora sono rimasto grazie a te e non ad altri; adesso parto ubbidendoti”. [III,24,98] “Come parti?” “Di nuovo, come tu disponesti: da libero, da tuo servitore, come chi s’è accorto delle tue ingiunzioni e dei tuoi divieti. [III,24,99] Ma finché mi trastullerò con cose tue, chi disponi che io sia? Un magistrato od un privato cittadino, un senatore od un popolano, un soldato od uno stratega, uno che educa alla diairesi od un padrone di casa? L’ufficio ed il posizionamento che mi porrai in mano, come dice Socrate, morirò diecimila volte prima di disertarli. [III,24,100] E dove disponi che io stia? A Roma, ad Atene, a Tebe, a Giaro? Solo, là ricordati di me. 

…fino al suono della ritirata (101-102)

[III,24,101] Se mi manderai là dove non è possibile tragittarsela da uomini secondo la natura delle cose, andrò via non per disubbidirti, ma perché mi avrai significato la ritirata. Non ti abbandono: non sia mai! Ma mi accorgo che non hai bisogno di me. [III,24,102] Se invece mi sarà dato di tragittarmela secondo la natura delle cose, non cercherò altro posto che quello in cui sono, né altra gente che quella con cui sto”.

Le riflessioni che dobbiamo avere a portata di mano giorno e notte (103-109)

[III,24,103] Questo sia a portata di mano giorno e notte. Questo si deve scrivere, questo leggere. Intorno a questo bisogna farsi ragionamenti fra sé e sé o dire ad un altro: “Sei in grado di aiutarmi per questo?”; e poi venire da un altro e da un altro ancora. [III,24,104] Se poi accadrà qualcosa di quel che si dice indipendente dalle nostre decisioni, subito ti alleggerirà innanzitutto il giudizio che non è un imprevisto. [III,24,105] Giacché è un grande aiuto poter dire in ogni caso: “Sapevo di averlo generato mortale”. Così dirai anche: “Sapevo di essere mortale”; “Sapevo di essere soggetto a mettermi in viaggio”; “Sapevo di essere soggetto ad espulsione”; “Sapevo di essere soggetto a prigione”. [III,24,106] E poi se ti volterai a te stesso e cercherai il territorio da cui proviene l’accidente, subito rimemorerai: “Da quello dell’aproairetico, del non mio; cos’ha dunque a che fare con me?” [III,24,107] E poi il giudizio dominante: “Chi l’ha mandato?” L’imperatore o lo stratega o la città o la legge della città. “Dammelo dunque, giacché io sempre devo ubbidire in ogni circostanza alla legge”. [III,24,108] Qualora poi l’immaginazione ti morda (giacché questo non è in tuo esclusivo potere), battagliala con la ragione, prevali su di essa, non permetterle di rafforzarsi né che si promuova a riplasmare il seguito quanto vuole e come vuole. [III,24,109] Se sarai a Giaro, non riplasmare i trastulli a Roma e quante gioiose effusioni c’erano per chi se la passa là, quante ve ne sarebbero per chi ci ritorna. Sta teso invece, come deve chi se la passa a Giaro, a passartela a Giaro da forte. E se sarai a Roma, non riplasmare i trastulli ad Atene, ma studia soltanto quelli di Roma.

Gli apparenti paradossi diventano realtà: le azioni dell’uomo virtuoso (110-114)

[III,24,110] E poi, invece di tutte le altre gioiose effusioni, introduci quella che viene dal comprendere che ubbidisci a Zeus, che non a parole ma nei fatti esegui le opere dell’uomo virtuoso. [III,24,111] Che gran cosa è poter dire a se stessi: “Ciò di cui ora gli altri parlano solennemente nelle scuole reputando di dire paradossi, io lo realizzo. Seduti, essi spiegano le mie virtù e ricercano su di me, inneggiano a me. [III,24,112] E di questo Zeus dispose di prendere proprio me a dimostrazione, per riconoscere se ha un soldato quale si deve, un cittadino quale si deve, e promuovermi testimone dell’aproairetico: ‘Vedete che a casaccio avete paura, da matti smaniate per ciò per cui smaniate. Non cercate i beni fuori di voi, cercateli in voi stessi; se no, non li troverete.’ [III,24,113] A questi patti egli ora mi conduce qui, ora manda là, mi mostra alla gente povero di denaro, senza una carica, ammalato; mi invia a Giaro, mi introduce in carcere. Non odiando; non sia mai! Chi odia il più eccelso dei propri servitori? Né trascurando, proprio lui che non trascura neppure la più piccola delle creature; ma allenandomi ed usandomi come testimone per gli altri. [III,24,114] Dopo essere stato assegnato a siffatto servizio, mi preoccupo ancora di dove sono o con chi o di cosa dicono di me? Non sto interamente teso alla Materia Immortale, ovvero alla Pronoia, alle sue istruzioni ed ingiunzioni?”

Vergognoso non è non avere di che mangiare, bensì avere una ragione incapace di liberarci dalla afflizione e dalla paura di non avere di che mangiare (115-118)

[III,24,115] Se tu hai sempre questo tra le mani; se ne hai fra te e te una consumata esperienza, se lo tieni a portata di mano non avrai bisogno di chi ti consoli, di chi ti rinforzi. [III,24,116] Giacché brutto non è non avere da mangiare, ma non avere la ragione che basti a farci dominare paura ed afflizione. [III,24,117] Se ti procaccerai una volta il dominio sull’afflizione e sulla paura, ci sarà ancora per te tiranno, guardia del corpo, dei Cesariani? A mordere te sarà una ordinanza; o quelli che offrono un sacrificio in Campidoglio mentre prendono presagi; te che hai preso da Zeus una carica così rilevante? [III,24,118] Solo non portarla in corteo, non cialtroneggiarci sopra ma mostrala nei fatti. E se nessuno se ne accorgerà, accontentati di stare in salute ed essere felice.

CAPITOLO 25
A QUANTI ABORTISCONO DAI PROPOSITI

E’ in palio la felicità: osa pur vincere! (1-3)

[III,25,1] Delle cose che ti proponesti all’inizio, analizza quali padroneggiasti, quali no e come, per alcune, rimemorando ti allieti, per altre ti adonti e, se possibile recupera anche quelle che ti scivolarono di mano. [III,25,2] Giacché coloro che gareggiano nella gara più grande non devono retrocedere ma anche prendere botte. [III,25,3] La gara proposta non è infatti per la vittoria nella lotta o nel pancrazio, gare in cui tanto facendo centro quanto non facendolo si ha la potestà di essere individuo di grandissimo valore o di poco valore e, per Zeus, fortunatissimo od infelicissimo; ma per la stessa buona fortuna e felicità. 

In questa gara si può e merita ritentare dopo ogni sconfitta (4-5)

[III,25,4] E dunque? Anche se qui capitoleremo, nessuno ci impedisce di gareggiare di nuovo né si deve attendere per quattro anni che venga un’altra Olimpiade ma subito, chi recupera e riacquista se stesso e si porta dentro il medesimo slancio, ha la potestà di gareggiare. E se di nuovo ti arrenderai, di nuovo ne hai la potestà. E se una volta sola vincerai, sei simile a chi non si è mai arreso. [III,25,5] Soltanto non iniziare a farlo con piacere per l’abitudine medesima e, orbene, non andare in giro come un cattivo atleta va in giro sempre vinto per il periodo tra una Olimpiade ed un’altra, simile a quaglie scappate.

Attenzione alle cattive abitudini: esse fanno perdere sensibilità alla proairesi (6-10)

[III,25,6] “Mi sconfigge la rappresentazione di una magnifica ragazzina. E dunque? L’altro giorno non ne fui sconfitto?” “Mi nasce la foga di denigrare qualcuno. E l’altro giorno non denigrai?” [III,25,7] Tu ci vai cianciando come se ne fossi uscito senza punizione, come se al medico che vieta di fare il bagno caldo uno dicesse: “Ma l’altro giorno non feci un bagno caldo?” Ed il medico dunque potrà dirgli: “Orsù, dopo aver fatto il bagno caldo cosa sperimentasti? Non avesti la febbre? Non avesti mal di testa?” [III,25,8] Anche tu l’altro giorno, denigrando qualcuno, non effettuasti opera da persona maligna, da chiacchierone? Non nutristi questa tua costumanza buttandole sopra le opere attinenti? Sconfitto dalla ragazzina partisti senza punizione? [III,25,9] Perché parli delle vicende dell’altro giorno? Bisognerebbe, io credo, che tu ti ricordassi di astenerti dalle medesime aberrazioni, come i servi dalle botte. [III,25,10] Ma il fatto non è simile: giacché nel caso dei servi è il dolore a fare il ricordo, mentre nel caso delle aberrazioni quale dolore, quale punizione fa il ricordo? Quando mai ti abituasti a fuggire dall’attivarti male?

CAPITOLO 26
A QUANTI TEMONO IL DIFETTO DI MEZZI DI SUSSISTENZA

La paura di mancare dei necessari mezzi di sussistenza: timore di un animo più meschino di quello di uno schiavo fuggiasco (1-7)

[III,26,1] Non ti vergogni di essere più vile e ignobile degli schiavi fuggiaschi? Fuggendo, come abbandonano essi i padroni? Confidando in quali fondi? In quali domestici? Rubacchiato quel poco che serve loro per i primi giorni, successivamente non si portano per terra o per mare elaborando con arte una risorsa dopo l’altra per sostentarsi? [III,26,2] E quale schiavo fuggiasco morì mai di fame? Tu invece tremi che ti manchi il necessario, e vegli la notte. [III,26,3] Disgraziato! Sei così cieco e non vedi la strada cui porta la carenza del necessario? Giacché dove porta? Dove porta anche la febbre, dove porta anche un sasso che cade addosso: alla morte. Questo non lo dicesti spesso proprio tu ai compagni; molte siffatte cose non leggesti, molte non scrivevi? Quante volte cialtroneggiasti che proprio verso il morire sei equilibrato? [III,26,4] -Sì, ma pure i miei soffriranno la fame- E dunque? Anche la loro fame porta forse altrove? La discesa non è la medesima? Le cose là sotto non sono identiche? [III,26,5] Non vuoi dunque scrutare, con coraggio di fronte ad ogni difetto di mezzi di sussistenza e ad ogni carenza, là dove debbono discendere anche i più ricchi di denaro, anche coloro che occupano le massime cariche, gli stessi re ed i tiranni mentre, caso mai, tu soffri la fame ed essi invece crepano di indigestioni ed ubriachezza? [III,26,6] Quale mendicante vedesti mai che facilmente non sia vecchio? E qualcuno non di estrema vecchiezza? Ma coi brividi di notte e di giorno, scagliati per terra, pascendosi appena del necessario, sono giunti vicino a non poter neppure morire [III,26,7] mentre tu, integro come sei, con mani e piedi, temi così la fame? Non puoi attingere e versare acqua, scrivere, fare il pedagogo, custodire una porta altrui? -Ma è vergognoso venire a questa necessità- Dunque impara innanzitutto cos’è vergognoso e così dicci di essere filosofo. Ma ora, se un altro dirà che lo sei, non tollerarlo.

Quanto è vergognoso e quanto non lo è (8-12)

[III,26,8] E’ vergognoso per te quanto non è opera tua, ciò di cui non sei causativo, che ti viene incontro accidentalmente come un mal di testa, come una febbre? Se i tuoi genitori erano poveri di denaro o se lasciarono eredi degli altri; se, mentre sono vivi, non ti sovvengono per nulla, questo è vergognoso per te? [III,26,9] Imparavi questo dai filosofi? Non sentisti mai dire che il vergognoso è denigrabile e che il denigrabile è ciò che merita di essere denigrato? E chi è denigrabile per quanto non è opera sua, per quanto lui non fece? [III,26,10] Tu dunque lo facesti un padre siffatto? O hai la potestà di rettificarlo? Questo ti è dato? E dunque? Devi tu volere quanto non è dato o vergognarti di non centrarlo? [III,26,11] Tu eri abituato così studiando filosofia, a tenere gli occhi sopra gli altri ed a non sperare nulla da te stesso? [III,26,12] Appunto perciò mugugna, gemi, mangia temendo di non avere del cibo domani e, quanto ai servetti, trema che rubino qualcosa, che fuggano, che muoiano.

La verità è che tu sei stato educato a spendere sempre le tue energie non per diventare padrone di te stesso ma per salvaguardare la tua infelicità (13-14)

[III,26,13] Vivi così e non cessare mai, tu che venisti alla filosofia soltanto di nome e che quanto a te svergognasti i suoi principi generali sfoggiandoli improficui e futili per coloro che li apprendono. Non desiderasti mai la stabilità di giudizio, il dominio sullo sconcerto, il dominio sulle passioni. Per questo non accudisti nessuno; per i sillogismi invece, molti. Non saggiasti mai a fondo, fra te e te, qualcuna di queste rappresentazioni: [III,26,14] “Posso portarla avanti o non posso? Che mi resta da fare?” Ma come se tutte le tue rappresentazioni fossero buone e sicure, ti intrattenesti nell’ultimo àmbito della filosofia, quello dell’immutabilità. Per avere immutabile che cosa? La viltà, l’ignobiltà, l’infatuazione per i ricchi di denaro, il desiderio imperfetto, l’avversione fallita. Della sicurezza di queste rappresentazioni ti preoccupavi!

Chi si dota dei soli strumenti della logica è come un portinaio a custodia di una porta che non esiste (15-20)

[III,26,15] Non si dovrebbe innanzitutto avvantaggiarsi del ragionamento e poi a questo procacciare sicurezza? E chi vedesti mai precingere un fregio ad un muretto non costruito? Chi si istituisce portinaio di una porta che non esiste? [III,26,16] Ma tu studi per poter dimostrare: che cosa? Studi a non essere disancorato da sofismi: quali? [III,26,17] Innanzitutto mostrami cos’è che serbi, cos’è che misuri o pesi; e poi sfoggia la bilancia od il medimno. [III,26,18] O fino a quando misurerai cenere? Non devi dimostrare cos’è che fa gli uomini felici, cos’è che fa loro andare a seconda le faccende come le dispongono, ciò per cui non ci si deve lagnare di nessuno, incolpare nessuno ed ubbidire al governo del tutto? [III,26,19] Questo mostrami. “Ecco, lo mostro”, dice, “ti risolverò dei sillogismi”. Ma questo è quanto misura, schiavo!, non è il misurato. [III,26,20] Per questo ora paghi il fio di quanto trascurasti: tremi, vegli, ti consigli con tutti e se non tutti saranno per gradire le risoluzioni, credi di esserti consigliato male.

La tua vita è una vita da bisognoso, da malato. In verità tu hai paura di essere sano, hai paura di una vita semplice e frugale (21-23)

[III,26,21] E poi, come reputi, hai paura della fame. Invece tu non hai paura della fame ma temi di non avere un cuoco, di non avere un altro che fa la spesa, un altro che ti calzerà, un altro che ti vestirà, altri che ti massaggeranno, altri che ti seguiranno [III,26,22] affinché alle terme, spogliato e disteso come i crocefissi, tu sia massaggiato di qua e di là ed il maestro di ginnastica assistendo dica “Spostati, dà il fianco, prendigli la testa, sistemami accanto la spalla” e poi, venendo a casa dalle terme, tu possa gracchiare “Nessuno porta da mangiare?” e poi “Rimuovi la tavola; spugnala!” [III,26,23] Di questo hai paura: di non poter vivere una vita da infermo. Peraltro, impara quella di chi è in salute, come vivono i servi, come vivono gli operai, come vivono coloro che genuinamente fanno filosofia, come visse Socrate -e lui anche con moglie e ragazzi-, come Diogene, come Cleante, il quale era uno scolaro ed insieme andava ad attingere e versare acqua. 

Tu sei la tua proairesi. Lo ricordi? (24-26)

[III,26,24] Se disporrai di avere questo, lo avrai ovunque e vivrai fiducioso. In cosa? Nella sola cosa in cui è fattibile avere fiducia, in quanto è leale, non soggetto ad impedimenti, intoglibile, cioè nella tua proairesi. [III,26,25] Perché invece hai preparato te stesso ad essere così improficuo e futile che nessuno vuole accoglierti in casa, nessuno avere sollecitudine per te? Chiunque trova una suppellettile integra e proficua scagliata fuori, la tirerà su e lo riterrà un guadagno. Trovare te, invece, nessun guadagno; anzi, chiunque lo riterrà una punizione. [III,26,26] Così non puoi procurare l’utilità né di un cane né di un gallo! Perché dunque vuoi ancora vivere essendo siffatto? 

Che uomo virtuoso sei se hai paura di morire di fame? (27-30) 

[III,26,27] Un uomo dabbene ha paura che gli manchi il cibo? Il cibo non manca ai ciechi, non manca agli zoppi. Mancherà ad un uomo dabbene? Non manca chi dà il soldo ad un soldato dabbene né ad un operaio né ad un calzolaio. E mancherà a chi è dabbene? [III,26,28] A tal punto la Materia Immortale, ovvero la Pronoia, trascura i suoi felici successi, i ministri, i testimoni, coloro che soli usa come paradigmi nei confronti dei non educati a diairesizzare per mostrare che esiste, che ben governa l’intero, che non trascura le faccende umane e che per l’uomo dabbene non c’è male né in vita né in morte? [III,26,29] -E dunque qualora non procuri cibo?- Che altro significherà se non che, come un buon stratega, mi ha significato la ritirata? Ubbidisco, la seguo glorificando il leader, inneggiando alle sue opere. [III,26,30] Giacché venni quando lei lo reputò e di nuovo me ne vado quando lei lo reputa. Vivendo, questa era l’opera mia: inneggiare a Zeus, sia io per me stesso che con un altro o con molti. 

Eracle, nudo e solo, introduce nel mondo giustizia e diritto (31-32)

[III,26,31] Zeus non mi procura molto né in abbondanza, né dispone che io viva nelle effeminatezze. Ma non lo procurava neppure ad Eracle, suo figlio. E mentre un altro regnava su Argo e su Micene, egli subiva ordini, faticava, si allenava. [III,26,32] Ma Euristeo, lui, né di Argo né di Micene era re, lui che non lo era neppure di se stesso! Eracle, invece, era comandante e leader della terra tutta e del mare, purificatore da ingiustizia ed assenza di legge, introduttore di quanto è giusto e sacrosanto. E queste imprese faceva nudo e solo.

Ulisse, nudo e solo, confida nei suoi retti giudizi (33-34)

[III,26,33] E quando Odisseo fu sbalzato naufrago su una spiaggia, ebbene, il difetto di mezzi di sussistenza rese forse serva la sua proairesi, si perse forse d’animo? Come se ne andava verso le donzelle per chiedere loro il necessario -e brigarlo da un altro sembra essere la più vergognosa delle istanze-? “Come un leone nutrito sui monti”. [III,26,34] Confidando in cosa? Non nella reputazione né nella roba né nelle cariche, ma nel suo vigore ossia nei giudizi su quanto è in nostro esclusivo potere e quanto non lo è.

Sono i retti giudizi, ed essi soli, a fare gli uomini liberi (35-38)

[III,26,35] Giacché sono solo i giudizi a fare gli uomini liberi, non soggetti ad impedimenti, a far dispiegare il collo di coloro la cui proairesi è stata serva, a far guardare diritto negli occhi dei ricchi di denaro e dei tiranni. [III,26,36] Il dono del filosofo era questo e tu non uscirai fiducioso, ma tremolante per le toghette e l’argenteria? Misero! Così perdesti il tempo finora? [III,26,37] -E dunque? Se mi ammalerò?- Ti ammalerai da virtuoso. -Chi mi curerà?- La Materia Immortale, ovvero la Pronoia, gli amici. -Giacerò sul duro- Ma da uomo. -Non avrò una stanza idonea- Sarai ammalato in una inidonea. -Chi mi farà le cibarie?- Quanti le fanno anche per gli altri: sarai ammalato come Manes. -E quale il termine della malattia?- [III,26,38] Altro che la morte? Dunque ponderi che causa capitale di tutti i mali dell’essere umano, dell’ignobiltà e della viltà non è la morte ma piuttosto la paura della morte?

Libertà o morte degli uomini (39)

[III,26,39] Allenati dunque su questo; qui accennino tutti i discorsi, gli esercizi pratici, le letture e saprai che solamente così gli uomini diventano liberi.