Categories
Traduzioni

L’ALBERO DELLA DIAIRESI Libro II

tutto

EPITTETO

nuovamente tradotto

da

FRANCO SCALENGHE

I quattro libri delle Diatribe di Epitteto sono né Dialoghi costruiti da Platone a tavolino né Orazioni scritte per sfoggio da Isocrate, ma la fedele registrazione -ad opera di Arriano- di un parlato dal vivo. Io ho cercato di conservare anche in italiano questa loro peculiarità e mi sono mantenuto molto aderente al testo greco. Chi legge lo tenga presente, e legga semplicemente con il “tempo giusto”.

LIBRO II

Μόνον κείνης τς διαιρέσεως μέμνησο, καθ’ ν διορίζεται τ σ κα ο τ σά.

“Tu soltanto ricordati di quella diairesi in armonia con la quale si definisce quanto è in tuo esclusivo potere e quanto non lo è”. (II,6,24)

CAPITOLO 1
CHE L ‘ ESSERE CORAGGIOSI NON CONTRADDICE L’ ESSERE CAUTI

Uomo è sapere l’arte di combinare coraggio e cautela: cautela nello scegliere per noi il nostro vero bene e coraggio di fronte a ciò da cui non può venirci alcun male (1-7)

[II,1,1] Ad alcuni può forse apparire paradossale quanto è sollecitato dai filosofi, ma ugualmente analizziamo al nostro meglio se è vero che si deve fare tutto con cautela ed insieme con coraggio. [II,1,2] La cautela sembra infatti come l’opposto del coraggio, e gli opposti nient’affatto coesistono. [II,1,3] Quanto a molti pare in quest’ambito paradossale, io lo reputo attenere a qualcosa di siffatto: se noi sollecitassimo di usare per le medesime cose sia cautela che coraggio, giustamente ci accagionerebbero di combinare l’incombinabile. [II,1,4] Ora invece, cos’ha di strano il detto? Se infatti è sano quanto spesso detto e spesso dimostrato, cioè che la sostanza del bene è nell’uso delle rappresentazioni ed allo stesso modo la sostanza del male, mentre ciò che è aproairetico non accoglie natura né di bene né di male, [II,1,5] quale paradosso sollecitano i filosofi se dicono: “Dove si tratta di ciò che è aproairetico, là abbi coraggio; dove si tratta di ciò che è proairetico, là sii cauto”? [II,1,6] Giacché se il male è in una proairesi cattiva, a questo riguardo soltanto merita usare cautela; e se quanto è aproairetico e non in nostro esclusivo potere è nulla in relazione a noi, verso di esso si deve usare coraggio. [II,1,7] Così saremo cauti ed insieme coraggiosi e, per Zeus, coraggiosi grazie alla cautela. Giacché essendo cauti con i mali reali, ci avverrà di essere coraggiosi con quanto male non è.

Noi invece facciamo confusione e, come i cervi per paura dei babau di piume cadono nelle reti, per sfuggire morte o esilio o cattiva reputazione ci rifugiamo nella vergogna, nella viltà, nel servilismo (8-14)

[II,1,8] Orbene, noi sperimentiamo quel che sperimentano le cerve. Quando le cerve hanno paura e fuggono le piume, dove si girano e verso cosa arretrano come sicuro? Verso le reti: e così si perdono per avere scambiato ciò di cui si deve avere paura e ciò di fronte a cui si deve avere coraggio. [II,1,9] Così anche noi, dove usiamo la paura? Di fronte a ciò che è aproairetico. Di nuovo, in cosa ci conduciamo con coraggio come se non ci fosse nulla di terribile? In ciò che è proairetico. [II,1,10] Ingannarsi od essere precipitosi o fare qualcosa di sfacciato o desiderare qualcosa con brutta smania non fa per noi differenza, se solo la imbroccheremo in ciò che è aproairetico. Dove invece ci sono morte o esilio o dolore o discredito, là c’è arretramento, là c’è agitazione. [II,1,11] Perciò com’è verosimile che accada a coloro che sbagliano nelle questioni più grandi, ciò che in noi è naturalmente coraggioso lo strutturiamo sfrontato, demenziale, protervo, sfacciato; mentre ciò che in noi è naturalmente cauto e rispettoso di sé e degli altri, lo strutturiamo vile e miserabile e pieno di paure e di sconcerti. [II,1,12] Giacché se uno allogherà la cautela là dove sono proairesi e le opere della proairesi, insieme con l’essere cauto a volere avrà anche l’avversione giacente in suo esclusivo potere. Se invece l’allogherà dov’è quanto non è in nostro esclusivo potere ed è aproairetico, avendo l’avversione rivolta a cose che sono in potere d’altri, necessariamente avrà paura, sarà instabile e sconcertato. [II,1,13] Orrenda non è la morte od il dolore ma orrendo è l’avere paura del dolore o della morte. Per questo lodiamo chi dice: “Terribile non è morire ma morire con vergogna”. [II,1,14] Bisognerebbe dunque che il coraggio fosse rigirato contro la morte e la cautela contro la paura della morte. Ora all’opposto, di fronte alla morte è fuggifuggi; di fronte al giudizio sulla morte è noncuranza, prodigalità, indifferenza.

Tanti babau per tanti esseri umani (15-16)

[II,1,15] Socrate faceva bene a chiamare questi babau. Giacché come le maschere appaiono ai bimbi, per inesperienza, terribili ed orrende; qualcosa di siffatto sperimentiamo anche noi di fronte alle faccende, per null’altro che per ciò per cui anche i bimbi lo sperimentano di fronte ai babau. [II,1,16] Cos’è infatti un bimbo? Ignoranza. Cos’è un bimbo? Incultura. Peraltro, laddove sa, egli ha quelle conoscenze non meno di noi. 

Il babau della morte (17-18)

[II,1,17] Morte cos’è? Un babau. Rigiralo e decifra. Ecco come non morde: il corpo deve essere separato dal pneuma, come separato era stato prima, o adesso o successivamente. Perché dunque fremi, se adesso? Giacché se non adesso, successivamente. [II,1,18] Perché? Affinché si concluda il ciclo regolare dell’ordine del mondo: esso ha infatti bisogno dei tempi instanti, degli avvenire e dei conclusi. 

Il babau del dolore (19-20)

[II,1,19] Dolore cos’è? Un babau. Rigiralo e decifra. La carne è smossa rudemente e poi di nuovo scorrevolmente. Se non ti sarà vantaggioso, la porta è aperta. [II,1,20] Se ti sarà vantaggioso, sopporta. Bisogna infatti che la porta sia aperta per tutte le evenienze, e non abbiamo fastidi.

Se la diairesi è la radice dell’albero e l’antidiairesi ne è il tronco, dai suoi rami pendono frutti che si chiamano libertà e felicità. Se la controdiairesi è la radice dell’albero e l’antidiairesi ne è il tronco, dai suoi rami pendono frutti che si chiamano infelicità e servitù (21-28)

[II,1,21] Qual è dunque il frutto di questi giudizi? Quello che dev’essere il più bello e il più confacente per coloro che effettivamente sono educati a diairesizzare: il dominio sullo sconcerto e sulla paura, la libertà. [II,1,22] Giacché non bisogna su questo fidarsi dei più, i quali dicono che soltanto i cittadini liberi hanno la potestà di essere educati; ma piuttosto dei filosofi, i quali dicono che soltanto gli educati a diairesizzare sono liberi. [II,1,23] -Come questo?- Così: ora, la libertà è qualcos’altro dalla potestà di tragittarcela come decidiamo? “Nient’altro”. Ditemi, o uomini: decidete di vivere aberrando? “Non lo decidiamo”. Quindi nessuno che aberri è libero. [II,1,24] Decidete di vivere avendo paura, decidete di vivere afflitti, decidete di vivere sconcertati? “Nient’affatto!” Proprio nessuno che abbia paura, sia afflitto, sia sconcertato è libero; mentre chiunque si è allontanato da afflizioni, paure e sconcerti ebbene costui, per la stessa strada, si è allontanato anche dall’essere servo. [II,1,25] Dunque come potremo ancora affidarci a voi, o carissimi legislatori, che non consentite di essere educati se non ai cittadini liberi? I filosofi infatti dicono che non consentiamo di essere liberi se non a coloro che sono stati educati a diairesizzare, cioè che è la Materia Immortale a non consentirlo. [II,1,26] -E dunque qualora uno faccia rigirare il suo servo alla presenza di un pretore, non fa niente?- La fa. -Cosa?- Fa rigirare il suo servo alla presenza di un pretore. -Null’altro?- Sì, è tenuto anche a dare il suo cinque per cento. [II,1,27] -E dunque? Chi sperimenta questo non è diventato libero?- Non più che capace di dominare lo sconcerto. [II,1,28] Peraltro tu che puoi far rigirare gli altri, non hai nessun Signore? Non hai per Signore del denaro, una pupattola, un pupattolo, un tiranno, un amico del tiranno? Perché dunque tremi quando te ne vai ad una siffatta circostanza?

Dalle parole ai fatti (29-33)

[II,1,29] Per questo dico spesso: “Studiate questo ed abbiate a portata di mano la conoscenza di ciò verso cui bisogna essere coraggiosi e di ciò verso cui bisogna disporsi con cautela, poiché di fronte a ciò che è aproairetico si deve essere coraggiosi e di fronte a ciò che è proairetico cauti”. [II,1,30] -Ma non ti ho letto i testi e non sai cosa faccio?”- [II,1,31] In cosa? In elocuzioncelle. Abbi le tue elocuzioncelle. Mostra invece come stai con desiderio ed avversione; se non fallisci quanto vuoi, se non incappi in quanto non vuoi. Quei giri di parole poi, se avrai accortezza, li rimuoverai ed in qualche modo cancellerai. [II,1,32] -E dunque? Socrate non scriveva?- E chi ha scritto cotanto? Ma in che modo? Dacché non poteva avere sempre chi controllasse i suoi giudizi od a sua volta fosse controllato, Socrate si autocontrollava ed autoindagava ed allenava sempre efficacemente qualche pre-concetto. [II,1,33] Questo scrive un filosofo. Le elocuzioncelle, i “diss’eglidiss’io” li lascia ad altri, agli incoscienti od ai beati, a coloro che ne hanno agio grazie al loro dominio sullo sconcerto od a coloro che, per stupidaggine, nulla computano del seguito.

Lo sfoggio che si confà a chi esce dalla scuola di Epitteto (34-40)

[II,1,34] Ed ora che il tempo chiama, partirai per mostrare quella roba, per leggerla e fare il frivolo? “Ecco come compongo dialoghi!” [II,1,35] No, o uomo, ma piuttosto quel: “Ecco come desiderando non fallisco. Ecco come avversando non incappo in quanto avverso. Porta morte e lo riconoscerai. Porta dolori, porta carcere, porta discredito, porta una sentenza di condanna”. [II,1,36] Questo è lo sfoggio di un giovane che è venuto dalla scuola. Il resto lascialo ad altri né su di esso nessuno senta mai una tua voce e se uno ti loderà per questo, non tollerarlo ma reputa di essere nessuno e nulla sapere. [II,1,37] Questo soltanto appari di sapere: come non fallisci e non incappi in quanto avversi. [II,1,38] Altri studino processi, altri studino problemi, altri sillogismi. Tu morire, tu essere messo in catene, torturato, confinato. [II,1,39] E tutto questo con coraggio, confidando in chi ti ci ha chiamato, in chi ti ha giudicato degno di questo rango, assegnato al quale sfoggerai cosa può un egemonico razionale schierato davanti a forze aproairetiche. [II,1,40] E così quel paradosso che si deve essere cauti ed insieme coraggiosi non apparirà più né impossibile né un paradosso, poiché si deve essere coraggiosi di fronte a ciò che è aproairetico ed invece cauti in ciò che è proairetico.

CAPITOLO 2
DEL DOMINIO SULLO SCONCERTO

Verità rassicuranti per chi deve presentarsi in tribunale (1-7)

[II,2,1] Tu che te ne vai al processo, vedi cosa vuoi serbare e dove vuoi concludere. [II,2,2] Giacché se disponi di serbare la proairesi in accordo con la natura delle cose, hai ogni sicurezza, ogni facilitazione, non hai fastidi. [II,2,3] Disponendo infatti di serbare incondizionato quanto è in tuo esclusivo potere e quanto è libero per natura e di questo accontentandoti, di cosa ti impensierisci ancora? Chi è suo Signore, chi può sottrartelo? [II,2,4] Se disponi di essere rispettoso di te e degli altri e leale, chi non te lo permetterà? Se disponi di non essere impedito né costretto, chi ti costringerà a desiderare ciò che non reputi; chi ad avversare ciò che non ti pare? [II,2,5] Però uno ti effettuerà cose che sembrano paurose. E come può far anche che tu le sperimenti con avversione? [II,2,6] Qualora dunque sia in tuo esclusivo potere desiderare ed avversare, di cosa ti impensierisci ancora? [II,2,7] Questo sia per te proemio, questo narrazione, questo argomentazione, questo vittoria, questo perorazione, questo consenso.

Rassicuranti sì, ma ad un patto: che si sappia quali sono i nostri veri beni (8-14)

[II,2,8] Per questo Socrate, a chi gli richiamava alla memoria di prepararsi per il processo diceva: “Dunque non reputi che io sia preparato a questo con tutta la mia vita?” [II,2,9] -”Quale preparazione?”- “Ho serbato” dice, “quanto è in mio esclusivo potere”. -”E come?”- “Non effettuai mai una ingiustizia, né in privato né in pubblico”. [II,2,10] Se invece vuoi serbare anche gli oggetti esterni, il corpo, le sostanziucce, il buon nome, ti dico: già immantinente fa’ tutti i preparativi possibili e, orbene, analizza sia la natura del giudice che l’avversario. [II,2,11] Se bisogna avvinghiare ginocchia, avvinghia ginocchia; se bisogna singhiozzare, singhiozza; se mugugnare, mugugna. [II,2,12] Giacché qualora tu assoggetti quanto è tuo agli oggetti esterni, d’ora innanzi sii servo e non tirarti indietro; non volere essere servo una volta ed un’altra no; [II,2,13] ma schiettamente e con l’intelletto tutto intero, o questi o quelli; o libero o servo; od uno che è stato educato a diairesizzare od uno non educatovi; o gallo generoso o ignobile; e reggi d’essere percosso fino a che morirai oppure abdica subito. Non ti accada di prendere molte botte e successivamente abdicare. [II,2,14] Se questo è brutto, già immantinente discrimina: “Dov’è natura di bene e male? Dov’è pure verità”.

Socrate lo sapeva bene (15-20)

[II,2,15] Peraltro reputi che Socrate volendo serbare gli oggetti esterni, perverrebbe a dire: “Anito e Meleto possono farmi uccidere ma non danneggiare”? [II,2,16] Era così stupido da non vedere che questa strada non porta qui ma ad altro? E dunque? E’ che Socrate non ha ragione ed aizza? [II,2,17] Come il mio Eraclito il quale, avendo a Rodi una piccola causa per un fondicello, dopo avere dimostrato ai giudici di dire il giusto, venendo alla perorazione diceva: “Ma non brigherò per voi né mi impensierisco di cosa siete per giudicare; voi più di me siete i giudicati”. E così rovesciò l’esito dell’affaruccio. [II,2,18] Che bisogno c’era? Soltanto non brigare, non addizionare “e non brigo”, a meno che non sia tempo di stuzzicare i giudici a bella posta, come per Socrate. [II,2,19] Anche tu, se prepari siffatta perorazione, perché sali su, perché dai retta? [II,2,20] Se vuoi essere crocefisso, aspetta e la croce verrà. Ma se la ragione sceglie di dare retta e persuadere per quanto sta a te, devi fare il seguito di ciò serbando tuttavia quanto è tuo peculiare.

“Fa in modo che il tuo intelletto, qualunque cosa accada, a questo si adatti”. Ricordati di questo principio universale e non mancherai mai del giusto suggerimento (21-26)

[II,2,21] Così è anche ridicolo dire: “Suggeriscimi!” Suggerirti cosa? Dì invece: “Fa che il mio intelletto, qualunque cosa succeda, a questo si acconci”. [II,2,22] Dacché quella richiesta è simile a che se un analfabeta dicesse: “Dimmi cosa scrivere, qualora mi sia messo davanti qualche nome”. [II,2,23] Se infatti dirò: “Dione”, e poi uno verrà a mettergli davanti non il nome Dione bensì Teone, che accadrà? Cosa scriverà? [II,2,24] Se invece hai studiato a scrivere, sei anche preparato a scrivere tutte le parole che vengono dettate. Se no, cosa debbo suggerirti adesso? Se la faccenda detterà qualcos’altro, cosa dirai o cosa effettuerai? [II,2,25] Ricordati dunque di questo principio universale e non difetterai di suggerimento. Se invece starai a bocca aperta davanti all’al di fuori, è necessario che tu rotoli su e giù a seconda del piano del Signore. [II,2,26] E chi è Signore? Chi ha potestà su qualcuna delle cose per cui ti industrii o che avversi.

CAPITOLO 3
A QUANTI RACCOMANDANO ALCUNI AI FILOSOFI

Diogene sapeva distinguere gli uomini dagli esseri umani e perciò non ha mai scritto una lettera di raccomandazione (1-5)

[II,3,1] Dice bene Diogene a chi sollecita di prendere da lui lettere di raccomandazione: “Che sei un essere umano” dice, “lo riconoscerà anche vedendoti. Se buono o cattivo lo riconoscerà se è esperto nel vagliare buoni e cattivi. Se invece è inesperto, non lo riconoscerà neppure se gli scriverò diecimila volte”. [II,3,2] Giacché simile è il fatto, come se una dracma sollecitasse di essere raccomandata a qualcuno per essere valutata. Se è un saggiatore di denaro, tu ti raccomanderai da sola. [II,3,3] Bisognerebbe dunque che noi avessimo anche nella vita siffatta capacità quale abbiamo col denaro, per poter io dire appunto come dice il saggiatore: “Porta la dracma che vuoi ed io la vaglierò”. [II,3,4] Sui sillogismi: “Porta quello che vuoi ed io ti distinguerò l’analitico dal non analitico”. Perché? Perché so risolvere sillogismi, perché ho la capacità che deve avere chi sa riconoscere quanto fa successo nei sillogismi. [II,3,5] E nella vita, che faccio? Ora dico che è un bene, ora che è un male. Qual è il causativo? L’opposto che nei sillogismi: incultura ed inesperienza.

CAPITOLO 4
A CHI UNA VOLTA ERA STATO PIGLIATO IN ADULTERIO

Le metamorfosi di un essere umano colto ed insipiente (1-11)

[II,4,1] Mentre diceva che L’uomo è nato per la lealtà e che chi sovverte questo sovverte la peculiarità dell’uomo, sopraggiunse uno di quei reputati eruditi, il quale una volta era stato pigliato in adulterio in città. [II,4,2] Se dunque, dice Epitteto, lasciata cadere la lealtà per la quale siamo nati, insidieremo la moglie del vicino, che facciamo? Che altro se non mandare in malora e levare di mezzo: chi? l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, il sacrosanto che siamo. [II,4,3] Solo questo? Non leviamo di mezzo il buon vicinato, l’amicizia, la città? A quale rango assegniamo noi stessi? Debbo usarti come chi, o uomo? Come vicino, come amico? Quale? Come cittadino? Cosa ti affiderò? [II,4,4] E poi se tu fossi una suppellettile così schifosa da non poter più essere usata per nulla, saresti scagliata fuori sull’immondezzaio e nessuno ti tirerebbe su di là. [II,4,5] E se da essere umano non puoi ottemperare a nessun rango da uomo, che faremo di te? Sia: non puoi avere posto di amico. Puoi averlo di servo? E chi si fiderà di te? Non vuoi dunque essere scagliato anche tu sull’immondezzaio come una suppellettile improficua, come immondizia? [II,4,6] E poi dirai: “Nessuno si impensierisce per me, per un uomo erudito!”? Giacché sei cattivo ed improficuo. Come se le vespe fremessero perché nessuno si impensierisce per loro ma tutti le fuggono e se uno potrà le colpisce ed abbatte. [II,4,7] Tu hai un pungiglione siffatto da sbattere in fastidi e doglie chi colpirai. Cosa vuoi che facciamo di te? Non c’è dove tu sia posto. [II,4,8] E dunque? Le femmine non sono comuni per natura? Lo dico anch’io. Anche il maialino è comune agli invitati; ma qualora ci siano le porzioni, se ti parrà, va a scerpare la porzione di chi ti è sdraiato accanto rubandogliela di nascosto, oppure allunga la mano e fa’ il ghiottone; e se non potrai spiccare un pezzo di carne, ingrassa le dita e leccale torno torno. Magnifico convitato e commensale socratico! [II,4,9] Orsù, ma il teatro non è comune ai cittadini? Dunque, se ti parrà, quand’essi si siano seduti, vieni ad espellere dal posto qualcuno di loro. [II,4,10] In questo senso anche le femmine sono comuni per natura. Qualora il legislatore, come l’imbanditore, le abbia spartite, non vuoi anche tu cercare la tua propria porzione ed invece carpisci l’allotria e fai il ghiottone? [II,4,11] “Ma io sono un erudito e capisco Archedemo!” Capendo quindi Archedemo sii un adultero, uno sleale, invece che uomo un lupo od una scimmia. Giacché cosa lo impedisce?

CAPITOLO 5
COME COESISTONO DISINTERESSE E SOLERZIA ?

Disinteresse per i materiali che l’esistenza ci pone innanzi ma solerzia nel loro uso, come fa il giocatore di scacchi (1-3)

[II,5,1] I materiali sono indifferenti ma il loro uso non è indifferente. [II,5,2] Dunque come si serberanno stabilità di giudizio e dominio sullo sconcerto, ed insieme il solerte e non avventato né negligente? Se uno imiterà i giocatori di dadi. [II,5,3] Le pedine sono indifferenti, i dadi sono indifferenti. Donde so qual è per cascare? Usare con solerzia ed arte quello cascato: questa è ormai l’opera mia.

La proairesi può atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente (4-5)

[II,5,4] Così pertanto, anche nella vita l’opera cardinale è quella: discrimina le faccende, sceverale e dì [II,5,5] “L’al di fuori non è in mio esclusivo potere; la proairesi è in mio esclusivo potere. Dove cercherò il bene ed il male? Dentro, in quanto è mio”. In quanto è allotrio non nominare mai né bene né male, né giovamento né danno né nient’altro di siffatto.

Sapersi muovere con successo tra diairesi ed antidiairesi significa forse usare gli oggetti esterni, quanto è altrui, insomma i normali materiali dell’esistenza casualmente e con trascuratezza o addirittura rifiutare di usarli? (6-9) 

[II,5,6] E dunque? Bisogna usare quanto è allotrio con trascuratezza? Nient’affatto! Giacché questo di nuovo è male per la proairesi e, per questa via, contro la natura delle cose. [II,5,7] Ma insieme con solerzia, poiché l’uso non è indifferente, e con stabilità di giudizio e dominio sullo sconcerto, poiché il materiale non fa differenza. [II,5,8] Giacché dov’è quanto fa differenza, là nessuno può impedirmi né costringermi. Dove mi si può impedire e costringere, il conseguimento di ciò non è in mio esclusivo potere e non è bene o male. L’uso è male o bene, ma è in mio esclusivo potere. [II,5,9] E’ difficile mischiare e combinare la solerzia di chi si strugge per i materiali e la stabilità di giudizio di chi di lor non cura, eccetto che non è impossibile. Se no, è impossibile essere felici.

Come chi naviga (10-14)

[II,5,10] Facciamo come in un viaggio per mare. Cosa mi è possibile? Selezionare il pilota, i marinai, il giorno, il momento adatto. [II,5,11] E poi si è abbattuta una tempesta. Dunque che m’importa ancora? La mia parte è stata assolta. La tempesta è ipotesi di un altro, del pilota. [II,5,12] Ma la nave affonda pure. Che ho dunque da fare? Quel che posso, questo soltanto faccio: affogo senza avere paura né strillando né incolpando Zeus ma sapendo che quanto nasce deve anche perire. [II,5,13] Giacché non sono eterno ma un uomo, una parte del tutto, come un’ora di un giorno. Instare io devo come l’ora e come un’ora trapassare. [II,5,14] Che differenza dunque mi fa come trapasso, se annegato o per febbre? Giacché per qualcosa di siffatto devo trapassare.

Come chi gioca a palla (15-17)

[II,5,15] Vedrai far questo anche ai palleggiatori esperti. Nessuno di loro litiga sull’oggetto da ghermire come di un bene o di un male, ma sul buttarlo e sull’accoglierlo. [II,5,16] Orbene stanno in questo l’euritmia, in questo l’arte, la rapidità, la costumatezza; sicché io neppure se sporgerò la veste posso prenderlo mentre lui, se io lo butterò, lo prende. [II,5,17] Se però lo accoglieremo o butteremo con sconcerto e paura, che gioco è ancora? Dove uno sarà stabile? Dove uno vedrà in esso il seguito? Uno dirà “Butta!”; un altro “Non buttare!”; un altro ancora “Non buttarlo in alto!”. Davvero questa è una rissa, non un gioco.

Come Socrate (18-20)

[II,5,18] Perciò Socrate sapeva palleggiare. Come? Giocare in tribunale. “Dimmi,” dice, “o Anito, come dici che io non legittimo Dio? Ed i geni, chi reputi essere? Non sono ragazzi di Dei od enti mischiati di uomini e Dei?” [II,5,19] Ammettendolo quello: “E chi reputi possa ritenere che esistono muli ma non asini?”, come giocando con un oggetto da ghermire. E là in mezzo qual era l’oggetto da ghermire? L’essere messo in catene, mandato in esilio, bere il veleno, essere privato della moglie, lasciarsi dietro figlioli orfani. [II,5,20] Questo era là in mezzo ciò con cui giocava, e nondimeno giocava e palleggiava con euritmia. Così avessimo anche noi, da un lato, la solerzia di un fuoriclasse nel palleggio e, dall’altro, l’indifferenza per quanto è da ghermire! 

Come il tessitore (21-22)

[II,5,21] Giacché bisogna affatto lavorare con arte qualcuno dei materiali esterni, ma non approvandolo bensì, quale che sarà, sfoggiando arte nel lavorarlo. Così anche il tessitore non fa la lana ma, quale che assumerà, su di essa lavora con arte. [II,5,22] Un altro ti dà cibo e patrimonio ma proprio queste cose possono essere sottratte, ed il corpo stesso. Orbene tu lavora il materiale che assumi.

Poiché è per ciascuno inevitabile avere a che fare con un determinato contesto concreto, bisogna imparare a muoversi con successo tra diairesi ed antidiairesi, sapendo giocare correttamente con la seconda ed usare con arte la prima. Pertanto vita, salute e ricchezza di denaro soltanto astrattamente sono “preferibili” alla morte, alla malattia ed alla povertà di denaro giacché in determinati casi concreti queste ultime diventano scelte necessarie per non fallire la nostra natura di uomini (23-29)

[II,5,23] Se poi ne uscirai incolume, mentre altri venendoti incontro ti complimenteranno perché fosti salvato; chi sa scrutare siffatte vicende ti loderà e si congratulerà se vedrà che ti sei condotto in questo frangente con decoro; ma farà l’opposto se vedrà che sei stato preservato grazie a qualche indecenza. Giacché dove rallegrarsi è ragionevole, là lo è anche il complimentarsi. [II,5,24] Come dunque si dice che alcuni degli oggetti esterni sono secondo natura ed altri contro natura? Come se noi fossimo assoluti. Dirò infatti che per il piede è secondo natura essere pulito ma, se lo prenderai come piede e non come assoluto, sarà doveroso per il piede ficcarsi anche nel fango, calpestare delle spine e, all’occorrenza, essere amputato a favore dell’intero; se no, non sarà più un piede. Si deve concepire qualcosa di siffatto anche a nostro riguardo. [II,5,25] Cosa sei? Un essere umano. Se ti consideri come assoluto, è secondo la natura vivere fino alla vecchiaia, essere ricco di denaro, stare in salute. Ma se ti consideri come uomo e parte di un certo intero, a causa di quell’intero è doveroso che tu ora sia ammalato, ora navighi e corra dei pericoli, ora difetti di mezzi di sussistenza e, all’occorrenza, muoia anzitempo. [II,5,26] Perché dunque fremi? Non sai che, come quello non sarà più piede, così neppur tu sarai più un uomo? Giacché cos’è un uomo? Parte di una città la prima, di dei ed uomini, e dopo questo di quella detta la più vicina e che è una piccola imitazione dell’intero. [II,5,27] “Dunque devo essere io giudicato ora?” Dunque ora deve essere un altro ad avere la febbre, un altro a navigare, un altro a morire, un altro ad essere stato condannato. Giacché a coloro che convivono in siffatto corpo, in questo contesto, insieme a queste creature, è impossibile non accadano contemporaneamente, ora all’uno ora all’altro, cose siffatte. [II,5,28] Opera tua è venire a dire quel che si deve, disporre questo come spetta. Poi quello dice: “Giudico che commetti ingiustizia”. [II,5,29]” Ben ti sia! Io feci la mia parte; se anche tu facesti la tua, lo vedrai tu”. Giacché pericolo c’è anche per lui, non ti sfugga.

CAPITOLO 6
SULL ‘ INDIFFERENZA

Indifferenza circa i materiali dell’esistenza, non circa il loro uso (1-2)

[II,6,1] Il periodo ipotetico è indifferente, la determinazione su di esso non è invece indifferente ma è scienza od opinione o inganno. Così il vivere è indifferente ma il suo uso non è indifferente. [II,6,2] Dunque qualora uno vi dica “Anche questo è indifferente”, non diventate trascurati e neppure, qualora uno vi preghi di essere solerti, servi nell’animo ed infatuati dei materiali. 

Riconoscere se stessi, ossia i propri limiti (3-5)

[II,6,3] Bello è sapere la propria preparazione e capacità, affinché in ciò in cui non sei preparato tu stia quieto e non frema se altri hanno in esso più di te. [II,6,4] Giacché tu solleciterai di avere di più nei sillogismi e, se essi fremeranno per questo, li consolerai: “Io li imparai, voi no”. [II,6,5] Così pure laddove c’è bisogno di una consumata esperienza, non cercare quel che da essa promana, ma dà spazio a chi ha di quello consumata esperienza ed a te basti essere stabile nei giudizi. 

Usare la diairesi nella vita di tutti i giorni e così centrare costantemente la nostra natura di uomini (6-19)

[II,6,6] “Parti ed ossequia il tale”. “Lo ossequio”. “Come?” “Senza servilismo”. “Ma fosti escluso”. “Non imparai ad entrare dalla finestra. Giacché qualora trovi la porta chiusa è necessario o che mi ritiri o che entri dalla finestra”. [II,6,7] “Parlagli anche”. “Gli parlo”. “In che modo?” “Senza servilismo”. [II,6,8] “Ma non facesti centro”. Questo sarebbe forse opera tua? No, di quello. Perché dunque pretendi quanto è allotrio? Ricordando sempre cos’è tuo e cos’è allotrio non sarai sconcertato. [II,6,9] Per questo Crisippo dice bene: “Fino a che mi sarà dubbio il seguito, io sempre mi attengo ai giudizi più purosangue per centrare quanto è secondo la natura delle cose, giacché proprio la Materia Immortale mi fece atto a selezionarli. [II,6,10] Se appunto sapessi che ora mi è stato destinato di ammalarmi, vi impellerei addirittura, giacché anche il piede, se avesse del buonsenso, impellerebbe ad infangarsi”. [II,6,11] Peraltro, per cosa nascono le spighe? Non anche per seccare? E non seccano anche per essere mietute? Esse infatti non nascono come assolute. [II,6,12] Se dunque avessero coscienza, dovrebbero auspicare di non essere mai mietute? Ma questo, di non essere mai mietute, è una maledizione per le spighe. [II,6,13] Così sappiate che anche per gli uomini è una maledizione non morire: simile a non maturare, a non essere mietuti. [II,6,14] Noi però siccome siamo gli stessi che devono essere mietuti ed insieme che comprendono di essere mietuti, per questo fremiamo. Giacché non sappiamo chi siamo, né abbiamo studiato umanità come i cavalieri studiano equitazione. [II,6,15] Crisanta stando per battere il nemico, siccome sentì il richiamo della tromba, si rattenne: tanto più favorevole reputò l’ingiunzione dello stratega che fare di testa sua. [II,6,16] Nessuno di noi invece, neppure quando la necessità chiama, dispone di darle retta con scioltezza; ma sperimentiamo quel che sperimentiamo -le chiamiamo “circostanze difficili”- singhiozzando e gemendo. [II,6,17] Quali circostanze difficili, o uomo? Se dici circostanze il contorno, tutto è circostanze. Se le chiami difficili, quale difficoltà sta nel fatto che il nato perisca? [II,6,18] Quanto fa perire è o una spada o una ruota di tortura od il mare o una tegola o un tiranno. Che t’importa per quale strada scenderai nell’Ade? Pari son tutte. [II,6,19] E se vuoi sentir dire la verità, la più spiccia è quella per cui manda il tiranno. Nessun tiranno ha mai impiegato sei mesi per sgozzare qualcuno, la febbre invece spesso anche un’annata. 

Epitaffio per il quotidiano, ostinato, pervicace rifiuto della diairesi che fonda l’immane congerie di superstizioni religiose, filosofie dello spirito, miti di redenzione e sogni di liberazione sociale dietro i quali ansimano gli esseri umani (19)

Tutto questo è rumore e rimbombo di vacui nomi.

A te basti di non perdere mai di vista la distinzione tra quanto è in tuo esclusivo potere e quanto non lo è (20-27) 

[II,6,20] “Al cospetto di Cesare, la mia testa è in pericolo!” Ed io non sono in pericolo, io che abito a Nicopoli dove ci sono cotanti terremoti? Proprio tu quando solchi l’Adriatico, che pericoli corri? Non è in pericolo la tua testa? [II,6,21] “Ma anche le mie concezioni, al cospetto di Cesare, sono in pericolo!” Le tue? Come? Chi può costringerti a concepire qualcosa che non vuoi? In pericolo per quelle di un altro? E quale pericolo corri tu che altri concepiscano delle falsità? [II,6,22] “Ma corro il pericolo di essere confinato!” Cos’è essere confinato? Essere altrove che a Roma? “Sì”. E dunque? “E se sarò mandato a Giaro?” Se farà per te partirai. Se no, hai dove partire invece che a Giaro, dove anche quello che ti manda a Giaro verrà, lo voglia o no. [II,6,23] Orbene, perché sali a Roma come a cose grandiose? Sono più piccole della tua preparazione, tanto da far dire ad un giovane purosangue: “Non meritava tanto avere ascoltato cotante lezioni, avere scritto cotanto, essere stati seduti per cotanto tempo accanto ad un vecchietto che non vale granché”. [II,6,24] Tu soltanto ricordati di quella diairesi in armonia con la quale si definisce quanto è in tuo esclusivo potere e quanto non lo è. Non pretendere mai alcunché di allotrio. [II,6,25] Tribuna e prigione sono, l’una e l’altra, un posto; la tribuna, elevato; la prigione, miserabile. Ma la proairesi può essere custodita pari, se pari disporrai di custodirla, nell’uno e nell’altro posto. [II,6,26] Ed allora saremo emuli di Socrate, qualora possiamo scrivere in prigione dei peani. [II,6,27] Ma per come stiamo finora, vedi se avremmo tollerato che in prigione un altro ci dicesse: “Vuoi che ti legga dei peani?” “Perché mi procuri dei fastidi? Non sai i mali che ho? In questi mi è possibile…?” In quali dunque? “Sto per morire”. E gli altri esseri umani saranno immortali? 

CAPITOLO 7
COME SI DEVE DIVINARE ?

La divinazione, se pur potesse prevedere gli avvenimenti, non potrebbe che ignorare totalmente il loro valore (1-8)

[II,7,1] Per il fatto di divinare intempestivamente, in molti omettiamo molte opere doverose. [II,7,2] Giacché l’indovino cosa può vedere più che morte o pericolo o malattia o, in complesso, cose siffatte? [II,7,3] Se dunque bisognerà correre pericoli per l’amico, se sarà addirittura doveroso morire per lui, dov’è ancora tempo per me di divinare? Non ho dentro l’indovino che mi ha detto la sostanza del bene e del male, che ha spiegato i segni di entrambi? [II,7,4] Che bisogno ho ancora di viscere animali o di uccelli augurali, ma tollero che quello dica: “Ti è utile”? Sa lui cos’è utile? Sa lui cos’è bene? [II,7,5] Come ha imparato i segni delle viscere animali, così ha imparato quali sono i segni del bene e del male? Giacché se sa i loro segni, sa anche quelli del bello e del brutto, del giusto e dell’ingiusto. [II,7,6] O uomo, tu dimmi quale significato mi si dà: vita o morte, povertà o ricchezza di denaro; se poi questi sono utili od inutili, sono per cercare di saperlo da te? [II,7,7] Perché non dici parola in questioni di grammatica? Dunque parli qua, dove tutti noi individui erriamo e ci contraddiciamo l’un l’altro? [II,7,8] Per questo disse bene la donna che disponeva di mandare a Gratilla, al confino, il bastimento dei rifornimenti mensili. A chi le diceva: “Domiziano li farà sottrarre”; “Dispongo,” dice, “che lui li faccia sottrarre piuttosto che io non mandarli”.

L’opportunità non della divinazione bensì di un sereno distacco dalla viltà e dalla paura (9-14)

[II,7,9] Che cosa ci conduce dunque a divinare così costantemente? La viltà, l’avere paura degli esiti. Per questo aduliamo gli indovini: “Erediterò, Signore, da mio padre?” “Vediamo; offriamo un sacrificio per questo”. “Sì, Signore, come la fortuna vuole”. Se poi dirà: “Erediterai”, lo ringraziamo come se avessimo preso l’eredità da lui. Per questo anch’essi, orbene, si burlano di noi. [II,7,10] E dunque? Bisogna venire da loro prescindendo da desiderio ed avversione, come il viaggiatore cerca di sapere da chi gli viene incontro quale di due strade porta alla meta, senza desiderare che a portarvi sia quella di destra piuttosto che quella di sinistra: giacché egli non dispone di partire per una di queste ma per quella che porta alla meta. [II,7,11] Così bisognerebbe anche venire a Zeus come ad una guida, come ci serviamo degli occhi senza pregarli di mostrarci piuttosto oggetti siffatti, ma accogliendo le rappresentazioni degli oggetti quali essi le mostrano. [II,7,12] Ora invece, tremanti stringiamo la mano dell’augure ed invocandolo come Dio brighiamo da lui: “Signore, abbi pietà: consentimi di uscirne”. [II,7,13] Schiavo! Vuoi tu altro dal meglio? E c’è qualcos’altro meglio di quanto reputa Zeus? [II,7,14] Per quanto è in tuo esclusivo potere, perché rovini l’arbitro, perché devii il consigliere?

CAPITOLO 8
QUAL È LA SOSTANZA DEL BENE ?

Anche la carne ed il fango sono sostanze di Zeus in quanto tutto è fatto degli stessi atomi, della stessa Materia Immortale. L’aurora del bene, della retta ragione spunta dalla Materia Immortale attraverso la carne dell’uomo come un arcobaleno dall’atmosfera (1-8)

[II,8,1] Zeus è giovevole, ma anche il bene è giovevole. E’ dunque verosimile che dov’è la sostanza di Zeus là sia anche quella del bene. [II,8,2] Quale sostanza di Zeus? Carne? Non sia mai! Un fondo? Non sia mai! Fama? Non sia mai! [II,8,3] Mente, scienza, retta ragione. Quindi cerca semplicemente qui la sostanza del bene. Peraltro la cerchi forse in un vegetale? No. Forse in un essere senza ragione? No. Cercandola dunque in un essere dotato di ragione, perché la cerchi ancora altrove che nel divario dagli esseri sprovvisti di ragione? [II,8,4] I vegetali neppure sono atti all’uso delle rappresentazioni. Per questo non parli di “bene” a loro proposito. [II,8,5] Il bene ha dunque bisogno dell’uso di rappresentazioni. Proprio del solo uso? Giacché se solo dell’uso, dì che anche negli altri animali vi sono beni e felicità ed infelicità. [II,8,6] Ora, tu non lo dici; e fai bene. Giacché se essi hanno, anche al massimo grado, l’uso delle rappresentazioni, non hanno però la comprensione dell’uso delle rappresentazioni. E verosimilmente: giacché sono nati servitori d’altri, non essi cardinali. [II,8,7] L’asino, dacché è nato, lo è forse come cardinale? No. Ma perché avevamo bisogno di una schiena che potesse sorreggere qualcosa. Ma, per Zeus, avevamo anche bisogno che camminasse. Per questo ha aggiunto anche l’uso delle rappresentazioni: altrimenti non potrebbe camminare. [II,8,8] Ed orbene qui in qualche modo ha cessato. Se esso avesse aggiunto all’uso delle rappresentazioni anche la comprensione del loro uso è manifesto che, per via della ragione, non ci sarebbe più stato subordinato né ci procurerebbe questi servizi, ma sarebbe a noi pari e simile.

Tutte le creature sorgono dalla stessa nobilissima Materia Immortale ed ognuna ha la propria peculiarità. Soltanto nell’uomo Zeus diventa capace di generare dei (9-14)

[II,8,9] Non vuoi dunque cercare la sostanza del bene là dove, se assente, per nessun’altra creatura vuoi parlare di bene? [II,8,10] “E dunque? Non sono anche quelle opere di Dei?” Lo sono? Ma non cardinali né parti di dei. [II,8,11] Tu invece sei cardinale, tu sei scintilla della Materia Immortale, hai in te un particolare di quella. Perché dunque ignori la tua congenericità? [II,8,12] Perché non sai donde sei venuto? Non vuoi ricordarti, qualora mangi, di chi è a mangiare e chi nutri? Qualora ti accoppii, di chi è ad accoppiarsi? Qualora conversi, qualora ti alleni, qualora dialoghi; non sai che nutri un dio, alleni un dio? Porti in giro un dio e lo ignori, sciagurato! [II,8,13] Reputi che io parli di uno argentato o dorato di fuori? Lo porti in te stesso e non ti accorgi di insudiciarlo ora con pensieri impuri ed ora con sozze azioni. [II,8,14] Alla presenza di un simulacro di Zeus non avresti l’audacia di fare quel che fai. E quando Zeus stesso è presente dal di dentro e riguarda e dà ascolto a tutto, non ti vergogni di rimuginare e fare queste cose, o incosciente della tua stessa natura ed oggetto del disgusto divino!

Divinità della Materia Immortale e Materialità della divinità (15-23)

[II,8,15] Orbene se noi mandiamo un giovane fuori della scuola per qualche faccenda, perché abbiamo paura che faccia qualcosa balordamente: che mangi balordamente, si accoppi balordamente, renda serva la sua proairesi se cinto di cenci e si esalti se di toghe eleganti? [II,8,16] Perché non sa il divino di se stesso, perché non sa con chi parte. Lo tolleriamo se dice: “Vorrei averti qui”? [II,8,17] Là non hai Zeus? [II,8,18] E poi cerchi qualcun altro quando hai quello? O lui ti dirà altro da questo? Se tu fossi il simulacro scolpito da Fidia, la sua Atena od il suo Zeus, ti saresti ricordato sia di te sia dell’artista, e se avessi coscienza proveresti a nulla fare d’indegno di chi ti strutturò e di te, ed a non apparire a chi ti guarda in un atteggiamento non confacente. [II,8,19] Ora invece che Zeus ti ha fatto, per questo trascuri quale ti mostrerai? In cosa l’artista Zeus è simile ad un artista o struttura a struttura? [II,8,20] Quale opera di un artista ha subito in se stessa le facoltà che la struttura palesa? Non è sasso o bronzo od oro od avorio? L’Atena di Fidia una volta che abbia sporto la mano ed accolto su di essa la Vittoria, sta così per l’eternità intera. Invece le opere della Materia Immortale sono opere che si muovono, spiranti, usanti le rappresentazioni, valutanti. [II,8,21] Ed essendo struttura di questo demiurgo, la svergogni? Perché? E che non soltanto ti strutturò ma anche affidò e commise te a te solo, [II,8,22] neppur di questo ti ricorderai, ma svergognerai pure la delega? Se Zeus ti avesse sistemato accanto un orfano, lo trascureresti così? [II,8,23] Egli ti ha trasmesso a te stesso e dice: “Non avevo un altro più leale di te. Custodiscimelo siffatto qual è per natura delle cose: rispettoso di sé e degli altri, leale, d’elevato sentire, capace di dominare lo spavento, le passioni, lo sconcerto”. E poi tu non lo custodisci?

Anche tu come lo Zeus di Olimpia (24-29)

[II,8,24] “Ma diranno: ‘costui donde ci ha portato un cipiglio ed un aspetto così solenne’?’“ Solenne non ancora secondo il merito. Giacché non ho ancora fiducia in quanto imparai e cui assentii. Ho ancora paura della mia debolezza. [II,8,25] Peraltro lasciatemi prendere fiducia ed allora vedrete lo sguardo che si deve e l’atteggiamento che si deve; qualora sia perfetto e splendente, allora vi mostrerò il simulacro. [II,8,26] Cosa reputate? Cipiglio? Non sia mai! Lo Zeus che è ad Olimpia ha forse le sopracciglia inarcate? No, ma ha fitto il suo sguardo quale deve essere quello di chi sta dicendo *né revocarsi, né fallir, né vana esser può cosa che il mio capo accenna*. [II,8,27] Siffatto mi mostrerò a voi: leale, rispettoso di me e degli altri, generoso, al riparo dallo sconcerto. [II,8,28] Forse anche immortale, al riparo dalla vecchiaia e dalle malattie? No, ma che muore divinamente, che è malato divinamente. Questo ho, questo posso: il resto non ho né posso. [II,8,29] Vi mostrerò il nerbo di un filosofo. Quale nerbo? Un desiderio che non fallisce il segno, un’avversione che non incappa in quanto avversa, un impulso doveroso, un proposito solerte, un assenso non precipitoso. Questo vedrete.

CAPITOLO 9
CHE NON POTENDO ADEMPIERE LA PROFESSIONE DI UOMO NOI VI AGGIUNGIAMO QUELLA DI FILOSOFO

Noi ci differenziamo da tutte le altre creature soltanto per la ragione (1-2) 

[II,9,1] Lo stesso solo adempiere la professione di uomo non è casualità . [II,9,2] Cos’è infatti un uomo? Una creatura, dice, logica, mortale. Subito nella logicità da chi ci separiamo? Dalle belve. E da quali altre? Dalle pecore e simili. 

Chi è dunque l’essere umano? L’essere umano è quella creatura mortale, razionale, che non sa muoversi con felicità tra diairesi ed antidiairesi (3-7)

[II,9,3] Vedi dunque di non fare qualcosa da belva. Se no, mandi in malora l’uomo, non ne adempi la professione. Vedi di non fare qualcosa da pecora: se no, anche così va in malora l’uomo. [II,9,4] Che cosa facciamo dunque da pecore? Qualora facciamo per la pancia, per i coglioni, a casaccio, in modo sozzo, noncurante, dove inclinammo? Alle pecore. Cosa perdemmo? La logicità. [II,9,5] Qualora facciamo rissosamente, dannosamente, rancorosamente ed impetuosamente, dove inclinammo? Alle belve. [II,9,6] Orbene alcuni di noi sono grandi belve, altri invece belvette piccole e maligne sulle quali è lecito dire: “Piuttosto mi mangi un leone!” [II,9,7] Attraverso tutto ciò la professione di uomo va in malora. 

E chi è l’uomo? L’uomo è quella creatura mortale, razionale, che sa muoversi con felicità tra diairesi ed antidiairesi, giocando correttamente con la prima ed usando con arte la seconda (8-12)

[II,9,8] Quando è salvaguardato un periodo copulativamente coordinato? Qualora adempia la sua professione; sicché la salvezza del periodo copulativamente coordinato sta nell’essere formato da una vera coordinazione di proposizioni. Quando è salvaguardata una proposizione disgiuntiva? Qualora adempia la sua professione. Quando dei flauti, quando una lira, quando un cavallo, quando un cane? [II,9,9] Che c’é dunque di stupefacente se anche l’uomo viene allo stesso modo salvaguardato ed allo stesso modo va in malora? [II,9,10] Ciascuno è salvaguardato ed accresciuto dalle opere a lui consone: il falegname da quelle di falegnameria; il grammatico da quelle di grammatica. Ma se il grammatico si abituerà a scrivere sgrammaticatamente, è necessario che l’arte sua sia annientata e vada in malora. [II,9,11] Così le opere che rispettano sé e gli altri salvaguardano l’uomo rispettoso di sé e degli altri, mentre quelle che non rispettano né sé né gli altri lo mandano in malora. Le opere leali salvaguardano l’uomo leale, mentre quelle opposte lo mandano in malora. [II,9,12] Le opere opposte, di nuovo, accrescono le creature opposte: la sfacciataggine accresce lo sfacciato; la slealtà lo sleale; l’ingiuria l’ingiurioso; l’ira, l’iracondo; gli incassi e le dazioni tra loro non consone, l’avido di denaro. 

Un conto è cibarsi del pane e del vino della diairesi ed un altro è tenerli in cassa per farne, caso mai, bella mostra con qualcuno (13-18)

[II,9,13] Per questo i filosofi prescrivono di non accontentarsi solo di imparare ma di aggiungervi studio e poi esercizio pratico. [II,9,14] Noi siamo infatti da molto tempo abituati a fare l’opposto ed abbiamo atte all’uso concezioni opposte a quelle rette. Se dunque non faremo atte all’uso anche le concezioni rette, null’altro saremo che interpreti di giudizi allotrii. [II,9,15] Chi di noi, giust’appunto, non può parlare a regola d’arte di beni e di mali? Dire che delle cose che sono alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti; che beni sono le virtù e quanto partecipa delle virtù; mali, le cose opposte; indifferenti, la ricchezza di denaro, la salute del corpo, la reputazione. [II,9,16] E poi, se mentre parliamo il rumore diverrà più grande od uno degli astanti ci deriderà, ci sbigottiamo. [II,9,17] Dov’è, o filosofo, quel che dicevi? Lo dicevi proferendolo da dove? Dalle labbra, da qui. Perché dunque insudici soccorsi altrui? Perché giochi a dadi con le cose più grandi? [II,9,18] Giacché un conto è riporre dei pani e del vino in cassa, un altro è mangiare. Quel che viene ingerito è digerito, assimilato, diventa nerbo, carne, ossa, sangue, buon colorito, buona respirazione. Quanto è messo in disparte, qualora lo voglia puoi agevolmente prendere e mostrarlo, ma da esso nessun pro per te se non fino a reputare di averlo.

Ma tu continui a farti guidare da fedi rivelate e misteriose, da superstizioni orribili, da opinioni altrui, da tutto fuorché dalla diairesi. Perché allora ti chiami Stoico e fai il filosofo quando, da essere umano, non sai diventare uomo? (19-22)

[II,9,19] Che differenza fa commentare questi principi o quelli di filosofi dell’altra opinione? Ora siediti e parla a regola d’arte dei principi di Epicuro e probabilmente parlerai a regola d’arte più efficacemente di lui. Perché dunque ti dici Stoico, perché inganni i più, perché reciti la parte di un Greco mentre sei un Giudeo? [II,9,20] Non vedi come ciascuno è detto Giudeo, com’è detto Siro, come Egizio? E qualora vediamo qualcuno fare il doppio gioco, siamo soliti dire: “Non è un Giudeo, ma lo recita”. Qualora però indossi la passione del battezzato e dello scelto, allora effettivamente è e si chiama Giudeo. [II,9,21] Così anche noi come Giudei impostori battezzati a parole ma nei fatti qualcos’altro, noi inconsentanei alla ragione, siamo lungi dall’usare i principi di cui parliamo, salvo poi esaltarci per il fatto di conoscerli. [II,9,22] Così neppur potendo adempiere la professione di uomo, aggiungiamo quella di filosofo: fardello così rilevante quale se uno che non può sollevare dieci libbre volesse sorreggere il sasso di Aiace.

CAPITOLO 10
COME DAI NOMI È POSSIBILE TROVARE QUANTO È DOVEROSO ?

Che cosa suggeriscono di fare il nome di essere umano… (1-3)

[II,10,1] Analizza chi sei. Innanzitutto un essere umano, cioè una creatura che nulla ha di più dominante della proairesi ed il resto subordinato a questa, mentre essa è inasservibile ed insubordinabile. [II,10,2] Considera dunque da quali creature sei stato separato secondo ragione: sei stato separato dalle belve; sei stato separato dalle pecore. [II,10,3] Oltre a questo sei cittadino dell’ordine del mondo e parte di esso; non una delle servitrici ma delle cardinali, giacché sei in grado di comprendere il governo della Materia Immortale ed atto ad un rendiconto del seguito. 

…di cittadino del mondo… (4-6)

[II,10,4] Qual è dunque la professione di cittadino? Non avere peculiarmente alcun utile, non deliberare su nulla come assoluto ma come farebbero la mano od il piede i quali, se avessero contezza e comprendessero la naturale struttura, non impellerebbero o desidererebbero mai altrimenti che una volta rapportatisi all’intero. [II,10,5] Per questo dicono bene i filosofi che il virtuoso, se sapesse in anticipo il futuro, coopererebbe pure ad ammalarsi, a morire, ad essere storpiato, appunto perché si accorge che questo è deputato dalla costituzione dell’intero, che l’intero è più dominante della parte e la città del cittadino. [II,10,6] Ora, poiché non conosciamo il futuro in anticipo, è doveroso che noi ci teniamo stretti ai giudizi più purosangue per una selezione, poiché per questo siamo nati.

… di figlio… (7)

[II,10,7] Dopo questo ricorda che sei figlio. Qual è la professione di questo ruolo? Ritenere tutto il suo del padre; dargli retta in tutto; non denigrarlo mai con qualcuno né dirgli od effettuargli alcunché di dannoso; ritrarsi in tutto e dare spazio cooperando al nostro meglio.

… di fratello… (8-9)

[II,10,8] Dopo questo sappi che sei anche fratello. Per questo ruolo si è tenuti a dare spazio, ad obbedienza, a parole beneauguranti, a non pretendere mai alcunché di aproairetico in contrasto con il fratello, bensì a cederlo con piacere per avere tu di più in ciò che è proairetico. [II,10,9] Giacché vedi quale vantaggio è acquisire costumatezza in cambio di un cespo di lattuga o caso mai di un sedile; quant’è l’interesse!

… di consigliere, giovane, vecchio, padre… (10-11)

[II,10,10] Dopo questi, se sei consigliere di una città, che sei un consigliere. Se giovane, che sei un giovane. Se anziano, che sei un anziano. Se padre, che sei un padre. [II,10,11] Giacché sempre ciascuno di siffatti nomi, venendo al rendiconto dà come somma le opere attinenti. 

La perdita che subisce colui che dimentica chi è (12-13)

[II,10,12] Se partendo denigrerai tuo fratello, ti dico: “Dimenticasti chi sei e che nome hai”. [II,10,13] E poi se essendo fabbro usassi balordamente il martello, ti saresti dimenticato il fabbro. E se dimenticasti il fratello ed invece di fratello diventasti nemico personale, ti parrebbe d’avere cambiato niente per niente? 

La più drammatica delle perdite non è certo quella di un po’ di quattrini bensì quella di chi non sa muoversi correttamente e con arte tra diairesi ed antidiairesi (14-23)

[II,10,14] Se invece di uomo, creatura mansueta e socievole, sei diventato una belva dannosa, insidiosa, mordace, non hai mandato in malora nulla? Bisogna che tu perda il quattrino per essere punito, e la perdita di null’altro punisce l’uomo? [II,10,15] E poi buttando via grammatica o musica, riterresti una punizione la loro perdita; e se butterai via il rispetto di te e degli altri, la moderazione, la mansuetudine, ritieni nulla la faccenda? [II,10,16] Eppure quelle si perdono per una qualche cagione estrinseca ed aproairetica, queste invece a cagion nostra. Quelle né è bello averle né è brutto perderle; queste invece non avere e perdere è brutto, è un’onta, una sfortuna. [II,10,17] Cosa manda in malora chi sperimenta quel che sperimenta un cinedo? Il maschio. E chi ne dispone? Molto altro ed anch’egli nondimeno il maschio. [II,10,18] Cosa manda in malora chi commette adulterio? L’uomo rispettoso di sé e degli altri, padrone di sé, ben regolato, il cittadino, il vicino. Cosa manda in malora chi si adira? Qualcos’altro. Chi ha paura? Qualcos’altro. [II,10,19] Nessun cattivo è senza perdita e punizione. Orbene, se cerchi la punizione nel quattrino, tutti costoro sono indenni, senza punizione e, caso mai, ne traggono giovamento e guadagno qualora attraverso qualcuna di queste opere sopravvenga loro il quattrino. [II,10,20] Vedi però che se riconduci tutto al quattrinello, neppure chi perde il naso sarà stato secondo te danneggiato. -Sì, dice, giacché il corpo è stato mutilato- [II,10,21] Orsù, e chi ha perso il fiuto stesso, non perde nulla? Dunque non v’è alcuna facoltà dell’animo che chi l’acquisisce se ne giova e chi la butta via è punito? [II,10,22] -Quale dici?- Non abbiamo alcun senso naturale di rispetto di noi e degli altri? -L’abbiamo- Chi perde questo non è punito, non è defraudato di nulla, non butta via nulla di quanto gli appartiene? [II,10,23] Non abbiamo in noi per natura qualcosa di leale, di affettuoso per natura, per natura giovevole, di naturalmente tollerante gli uni degli altri? Chiunque dunque punisce se stesso sbadatamente al riguardo, che costui sia indenne e senza punizione?

L’insipienza di rispondere all’offesa con l’offesa (24-30)

[II,10,24] E dunque? Non danneggerò chi mi danneggia? Innanzitutto vedi cos’è danno e ricordati di quanto sentisti dire dai filosofi. [II,10,25] Infatti se il bene è nella proairesi ed il male allo stesso modo nella proairesi, scruta se quel che dici non è qualcosa del genere: [II,10,26] “E dunque? Siccome quello danneggiò se stesso commettendo un’ingiustizia contro di me, io non danneggerò me stesso commettendo un’ingiustizia contro di lui?” [II,10,27] Perché dunque non ci rappresentiamo qualcosa di siffatto ed invece laddove vi sarà qualche menomazione corporale o patrimoniale, là danno; e laddove la menomazione riguarderà la proairesi, nessun danno? [II,10,28] A chi è ingannato o commette ingiustizia non viene mal di testa o mal d’occhi o la sciatica né perde il fondo. [II,10,29] E noi null’altro vogliamo che questo. Se poi avremo la proairesi rispettosa di sé e degli altri e leale oppure sfacciata e sleale, su questo non siamo neppur vicini a litigare eccetto che a scuola soltanto e finché si tratta di argomentazioni logiche. [II,10,30] Perciò appunto facciamo profitto finché si tratta di argomentazioni logiche, ed al di fuori di esse neppure il menomo.

CAPITOLO 11
QUALE INIZIO DI FILOSOFIA ?

I pre-concetti con i quali vengono al mondo gli esseri umani (1-5)

[II,11,1] Inizio di filosofia -almeno per coloro che le si accostano come si deve, ed alla sua porta- è la consapevolezza della propria debolezza ed incapacità su questioni di necessità vitale. [II,11,2] Noi siamo venuti al mondo senza avere per natura alcun concetto del triangolo rettangolo o del semitono diesis ma impariamo ciascuno di questi concetti a partire dalla ricezione di una certa istruzione tecnica, e per questo coloro che non li conoscono neppure credono di sapere. [II,11,3] Ma chi è venuto al mondo senza avere un concetto innato di bene e di male, di bello e di brutto, di confacente e di non confacente, di felicità, di conveniente, di spettante, di quanto bisogna fare e di quanto non bisogna fare? [II,11,4] Per questo tutti usiamo i nomi e proviamo ad adattare i pre-concetti alle particolari sostanze. [II,11,5] Fece bene; ha fatto debitamente, non debitamente; fu sfortunato, fu fortunato; è un ingiusto, è uno giusto. Chi di noi risparmia questi nomi? Chi di noi ne rimanda l’uso fino a che abbia imparato, come appunto fanno coloro che non sanno di linee o di intervalli musicali?

Identici pre-concetti ed opinioni che si presumono vere ma poi si contraddicono (6-12)

[II,11,6] Causativo di ciò è l’essere noi venuti al mondo come già istruiti, in questo campo, dalla natura; ma prendendo impulso da questi pre-concetti noi aggiungiamo poi ad essi la nostra presunzione. [II,11,7] -Giacché sì, per Zeus, non so io per natura cos’è il bello e cos’è il brutto? Non ne ho il concetto?- L’hai. -Non lo adatto ai particolari?- Lo adatti. [II,11,8] -Dunque non lo adatto bene?- Tutta la ricerca sta qui, e qui sopravviene la presunzione. Dopo avere infatti preso impulso da queste ammissioni, gli individui si promuovono al disaccordo a motivo dell’adattamento non consono . [II,11,9] Che se appunto essi avessero posseduto anche questo oltre a quelli, cosa impedirebbe loro di essere perfetti? [II,11,10] Ora, dacché reputi anche di adattare i pre-concetti ai particolari in modo consono, dimmi: donde prendi questo? -Perché lo reputo- Ma quest’altro qui non lo reputa, ed anch’egli crede di adattarli bene; o non lo crede? -Lo crede- [II,11,11] Potete dunque entrambi adattare in modo consono i pre-concetti in questioni sulle quali opinate cose contraddittorie? [II,11,12] -Non possiamo- Per adattarli meglio ci puoi dunque mostrare qualcosa di superiore al tuo reputare? Chi è pazzo fa qualcos’altro che quel che reputa bello? Questo criterio dunque basta anche a lui? -Non basta- Si viene dunque a qualcosa di superiore al reputare. -E cos’è?- 

Il punto di partenza della filosofia ed il suo scopo (13-18)

[II,11,13] Ecco inizio di filosofia: coscienza della contrapposizione degli esseri umani gli uni gli altri, ricerca di ciò da cui nasce la contrapposizione, disconoscimento e diffidenza nel mero reputare; poi una inchiesta su quanto si reputa, se lo si reputa rettamente; ed il rinvenimento di un canone, come trovammo la bilancia per i pesi ed il regolo per le linee rette e curve. [II,11,14] Questo è inizio di filosofia. Sta bene tutto quanto è reputato da tutti? E com’è possibile che stia bene quel che si contraddice? Dunque non tutto. [II,11,15] -Ma quanto reputiamo noi? Perché non piuttosto i Siri, perché non piuttosto gli Egizi, perché quanto pare a me piuttosto che quanto pare al tale?- Piuttosto niente. -Per essere un canone proprio non basta quanto ciascuno reputa giacché per pesi e misure non ci accontentiamo del mero palesamento, ma trovammo un canone per ciascuno di essi. [II,11,16] Qui dunque nessun canone superiore al reputare? E com’è possibile che sia inintelligibile ed introvabile ciò tra gli uomini è di più vitale necessità? [II,11,17] -Dunque c’è- E perché non lo cerchiamo e ritroviamo e ritrovatolo, orbene, usiamo inviolabilmente non sporgendo a prescindere da esso neppure il dito? [II,11,18] Giacché questo credo sia quanto, una volta trovato, allontana dalla pazzia coloro che usano il solo reputare come misura di tutto. Affinché prendendo impulso da canoni conosciuti e ben distinti possiamo, orbene, usare per i particolari dei pre-concetti bene articolati.

Un esempio: l’analisi dell’ebbrezza (19-25)

[II,11,19] Quale sostanza è caduta sotto la nostra ricerca? [II,11,20] -L’ebbrezza- Sommettila al canone, buttala sulla bilancia. Il bene deve essere siffatto da meritare fiducia ed in cui confidare? -Deve- Merita dunque aver fiducia in qualcosa di non ben saldo? -No- [II,11,21] E’ forse l’ebbrezza qualcosa di ben saldo? -No- Dunque rimuovila, buttala fuori della bilancia, bandiscila lontano dall’ufficio dei beni. [II,11,22] E se non hai la vista acuta ed una sola bilancia non ti basta, portane un’altra. Merita esaltarsi del bene? -Sì- E merita esaltarsi di un’ebbrezza presente? Guardati dal dire che merita; se no non ti riterrò più degno neppure della bilancia! [II,11,23] Così si giudicano e si pesano le faccende, quando siano pronti i canoni. [II,11,24] Fare filosofia è questo esaminare e rinsaldare i canoni. [II,11,25] Usare ormai di quelli riconosciuti, questo è opera del virtuoso.

CAPITOLO 12
SUL DIALOGARE

La dialettica: arte del dialogare rettamente per domanda e risposta (1-4)

[II,12,1] Quel che deve sapere chi impara ad usare il ragionamento è stato precisato dai filosofi della nostra scuola. Circa il suo uso conveniente siamo però perfettamente non allenati. [II,12,2] Dà a chi vuoi di noi, quale interlocutore, una persona comune e questi non trova come servirsene ma dopo averla un poco smossa, se quella gli verrà contro in modo stonato non può più maneggiarla e, orbene, o ingiuria o deride e dice: “E’ una persona comune; non è possibile servirsene”. [II,12,3] Invece la guida, qualora prenda uno che va errando, lo conduce sulla strada dovuta e non parte dopo averlo deriso o ingiuriato. [II,12,4] Anche tu mostragli la verità e vedrai che segue. Ma finché non la mostrerai, non deriderlo ma piuttosto accorgiti della tua incapacità. 

Il dialogo socratico: un modello di dialettica (5-13)

[II,12,5] Come faceva dunque Socrate? Costringeva lo stesso interlocutore a fargli da testimone, non aveva bisogno di alcun altro testimone. Appunto perciò aveva la potestà di dire: “Gli altri li lascio a spasso e come testimone mi accontento sempre dell’obiettore. Non faccio votare gli altri ma solo il mio interlocutore”.[II,12,6] Giacché poneva così evidenti i contenuti dei concetti che chiunqueprendevaconsapevolezza della contraddizione ne arretrava. [II,12,7] “Proprio chi invidia si rallegra?- Nient’affatto! Anzi, piuttosto si affligge”. Affermando l’opposto, Socrate smuoveva chi aveva dintorno. “E che? Reputi l’invidia essere afflizione per dei mali? E cos’è l’invidia di mali?”[II,12,8] E dunque gli faceva dire che l’invidia è afflizione per dei beni. “E che? Uno invidierebbe per cose che non lo riguardano?- Nient’affatto!” [II,12,9] E così dopo avere riempito ed articolato il concetto, si allontanava non dicendo: “Definiscimi l’invidia” e poi definitala : “La definisti male, giacché il definito non ha implicazione reciproca con il punto capitale”. [II,12,10] Frasi tecniche e per questo importune ed incomprensibili alle persone comuni, dalle quali noi invece non possiamo distornarci. [II,12,11] Quanto a quelle alle quali la persona comune da sola, aderendo alle proprie rappresentazioni potrebbe dare qualche spazio oppure scartare, ebbene noi nient’affatto siamo capaci di smuoverla attraverso di esse.[II,12,12] Orbene, presa consapevolezza di questa nostra incapacità, verosimilmente ci asteniamo dalla faccenda, quanti almeno di noi hanno un po’ di cautela. [II,12,13] Ma i più, avventati come sono, una volta accondisceso a qualcosa di siffatto si ingarbugliano ed ingarbugliano e, da ultimo, vanno via dopo avere ingiuriato ed essere stati ingiuriati.

Socrate dialogava, non insultava (14-16)

[II,12,14] Questo era il primo e più peculiare tratto di Socrate: non esacerbarsi mai in un ragionamento, non proferire mai alcunché di ingiurioso né di oltraggioso; ma tollerare gli ingiuriatori e far cessare la rissa. [II,12,15] Se volete riconoscere che grande facoltà aveva in questo, leggete il Convito di Senofonte e vedrete che grandi risse Socrate ha dissolto. [II,12,16] Verosimilmente per questo è stato detto da parte dei poeti con grandissima lode che: “…subito faceva abilmente cessare anche una grande disputa…”

Difficoltà di un dialogo socratico oggi (17-25)

[II,12,17] E dunque? La faccenda non è ora troppo sicura, e soprattutto a Roma. E’ manifesto infatti che chi lo fa non bisognerà che lo faccia in un angolino ma che venga innanzi ad un qualche consolare, caso mai, ricco di denaro e che cerchi di sapere da lui: “Ehi tu, sei in grado di dirmi a chi trasmettesti i tuoi cavalli?” [II,12,18] “Io certo!” “Forse a chi capita ed inesperto di ippica?” “Nient’affatto!” “E che? A chi hai affidato l’oro od il denaro od il vestito?” “Neppure questi a chi capita”. [II,12,19] “Ed hai già analizzato a chi delegare il tuo corpo affinché ne abbia sollecitudine?” “E come no?” “Anche questo, è manifesto, un esperto di ginnastica o di medicina”. [II,12,20] “Certamente!” “E per te queste cose sono le più possenti, oppure acquisisti qualcos’altro migliore di tutte?” “Quale dici?” “Dico, per Zeus, quanto le usa, valuta ciascuna di esse e consiglia”. “Dici proprio l’animo?” [II,12,21] “Rettamente concepisti! Giacché dico appunto questo!” “Per Zeus, reputo questo di gran lunga il migliore dei miei possessi!” [II,12,22]”Sei in grado di dirmi in che modo sei stato sollecito dell’animo? Giacché a casaccio e come capita non è verosimile che tu, persona così sapiente e valida in città, stia trascurando e facendo andare in malora sbadatamente quanto hai di più possente”. [II,12,23] “Nient’affatto!” “E ne sei stato sollecito tu stesso? [II,12,24] Imparando da qualcuno o trovando il modo da solo?” E qua, orbene, il pericolo è che dapprima dica: “O ottimo, e che t’importa? Sei mio Signore?” E poi se persisterai a procurare fastidio, che alzi le mani e ti dia dei cazzotti. [II,12,25] Di questa faccenda ero anch’io una volta emulo, prima di imbattermi in queste difficoltà.

CAPITOLO 13
SULL ‘ ESSERE IN ANSIA

L’ansietà è generata dall’ostinato ed illogico desiderio di quanto non dipende esclusivamente da noi: il citaredo e gli applausi (1-8) 

[II,13,1] Qualora veda un individuo in ansia, io dico: che cosa vuole mai costui? Se non volesse qualcosa che non è in suo esclusivo potere, come sarebbe ancora in ansia? [II,13,2] Per questo anche il citaredo, quando canta da solo non è in ansia; ed invece lo è quando entra in teatro, pur se avrà una voce assai buona e suonerà bene la cetra. Giacché egli non vuole soltanto cantare bene ma anche avere applausi; e questo non è più in suo esclusivo potere. [II,13,3] Orbene dove gli è congiunta scienza, lì ha fiducia. Porta qualsiasi persona comune ed egli non se ne impensierisce; ma dove non sa né ha studiato, lì è in ansia. [II,13,4] Cos’è questo? Egli non sa cos’è folla né cos’è lode di folla. Imparò a percuotere la corda più bassa e la corda più alta, ma cos’è la lode dei più e quale potere ha nella vita non sa né l’ha studiato. [II,13,5] Orbene è necessario che tremi e sia pallido. Qualora dunque io veda un citaredo che ha paura, non posso dire che non sia un citaredo ma posso dire qualcos’altro, e non una cosa sola ma molte. [II,13,6] Innanzitutto lo chiamo uno straniero e dico: questo individuo non sa della terra dov’è, ma benché vi risieda da cotanto tempo ignora le leggi della città, le sue usanze e di cosa si ha potestà e di cosa non la si ha; e neppure mai assunse un legale che gli dicesse e spiegasse quanto è legale. [II,13,7] Eppure non scrive un testamento senza sapere come bisogna scriverlo, oppure assume chi sa; né altrimenti sigilla una obbligazione o scrive una garanzia, e tuttavia usa, prescindendo da un legale, desiderio ed avversione, impulso, progetto e proposito. [II,13,8] Come, prescindendo da un legale? Non sa che vuole quanto non è dato e non vuole il necessario; e non sa né quanto è suo peculiare né quanto è allotrio. Se proprio lo sapesse, non sarebbe mai intralciato, non sarebbe mai impedito, non sarebbe in ansia. 

L’ansia è quindi generata dalla ignoranza della diairesi ed è connaturata all’uso della controdiairesi (9-13)

[II,13,9] E come potrebbe non essere così? Qualcuno ha paura per quanto non è male? -No- E che? Per dei mali che è però in suo esclusivo potere far sì che non avvengano? -Nient’affatto!- [II,13,10] Se dunque ciò che è aproairetico è né bene né male mentre tutto ciò che è proairetico è in nostro esclusivo potere e nessuno può sottrarcelo né procacciarci quel che di esso non disponiamo: dov’è ancora posto per l’ansia? [II,13,11] Siamo in ansia per il corpo, per le coserelle, sul che cosa reputerà Cesare, ma su nessuna delle cose di dentro. Forse sul non concepire il falso? -No, giacché è in mio potere- Forse sull’impellere contro natura? -Neppure su questo- [II,13,12] Qualora dunque veda uno impallidire, come il medico dal colorito diagnostica: “Costui ha mal di milza; quest’altro di fegato”; così anche tu diagnostica: “Costui ha mal di desiderio e di avversione, non fluisce sereno, soffre di infiammazione”. [II,13,13] Giacché nient’altro muta il colorito né fa tremarella, né rumore di denti, né *fa accovacciare e sedere ora su un piede ora su un altro*.

Zenone ed il re Antigono Gonata (14-15)

[II,13,14] Per questo Zenone, quando stava per incontrarsi con Antigono non era in ansia: giacché su quanto Zenone ammirava Antigono non aveva alcuna potestà, e per ciò su cui Antigono l’aveva Zenone non si impensieriva. [II,13,15] Antigono invece, quando stava per incontrarsi con Zenone era in ansia, e verosimilmente: giacché voleva essergli gradito e questo giaceva al di fuori di lui. Zenone, per contro, non voleva; giacché neppure un qualunque altro artista lo vuole nei confronti di chi non è dell’arte. 

Il possesso della diairesi fa l’uomo intrinsecamente fiducioso in se stesso (16-17)

[II,13,16] Voglio io esserti gradito? In cambio di che cosa? Giacché sai le unità di misura in base alle quali si giudica un uomo da un essere umano? Hai studiato per riconoscere cos’è un uomo dabbene e cos’è uno cattivo e come l’uno e l’altro lo diventano? [II,13,17] Perché dunque proprio tu non sei dabbene? -Come, dice, non lo sono?- Perché nessuno che sia dabbene piange né sospira, nessuno mugugna, nessuno impallidisce e trema né dice: “Come m’accoglierà? Come m’ascolterà?” 

Come il successo di uno non può mai essere il bene di un altro, così l’aberrazione di uno non può mai essere il male di un altro (18)

[II,13,18] Schiavo! come reputerà. Perché ti importa dell’allotrio? Ora, non è aberrazione sua l’accogliere male le tue parole? -E come no?- Può l’aberrazione essere di uno ed il male di un altro? -No- Perché dunque sei in ansia per l’allotrio? 

In ciò di cui si ha pratica ha senso non avere fiducia? Socrate e Diogene (19-26)

[II,13,19] -Sì; ma sono in ansia sul come gli parlerò?- Dunque non c’è potestà di parlargli come vuoi? -Ma temo di essere sbattuto fuori- [II,13,20] Stando per scrivere il nome “Dione”, temi forse di essere sbattuto fuori? -Nient’affatto!- Qual è il causativo? Non è che hai studiato a scrivere? -E come no?- E che? Stando per leggere non staresti allo stesso modo? -Allo stesso modo- Qual è il causativo? Che ogni arte ha qualcosa di potente e di fiducioso tra i suoi elementi. [II,13,21] Dunque non hai studiato a parlare? E che altro studiavi a scuola? -Sillogismi e ragionamenti equivoci- Per cosa? Non per poter dialogare espertamente? Ed espertamente non è tempestivamente, con sicurezza, con comprendonio ed ancora, senza passi falsi, senza impacci e soprattutto con fiducia? -Sì- [II,13,22] Essendo dunque un cavaliere venuto in campo aperto contro un fante, sei in ansia? Dove tu hai studiato e quello è senza studio? -Sì, ma ha la potestà di uccidermi- [II,13,23] Dì dunque la verità, o misero, e non cialtroneggiare né sollecitare di essere un filosofo e non ignorare i tuoi Signori ma, finché avrai questo manico offerto dal tuo corpo, segui chiunque è più potente. [II,13,24] Socrate invece studiava a parlare, lui che così dialoga con i tiranni, con i giudici, nel carcere. Anche Diogene aveva studiato a parlare, lui che così parla con Alessandro, con Filippo, con i pirati, con chi lo aveva comperato….(lacuna)…. [II,13,25] Lascia tutto ciò a coloro che hanno fiducia in quanto hanno studiato. [II,13,26] Tu incedi pure verso quanto è tuo e non distornartene mai. Partitene in un angolino, siediti ed intreccia sillogismi e porgili ad un altro: non c’è in te l’uomo condottiero di città.

CAPITOLO 14
A NASONE

L’apprendimento di qualunque arte è faticoso e persino sgradevole (1-6)

[II,14,1] Quando un certo romano entrò con il figlio ed udiva una lettura ‘Questo’, diceva Epitteto, ‘è il mio modo di insegnamento’ e tacque. [II,14,2] Poiché quello sollecitava di trovare il seguito ‘Qualora’, continuò Epitteto, ‘sia trasmessa, ogni arte è tediosa per la persona comune ed inesperta in essa. [II,14,3] Però i prodotti delle arti mostrano subito l’utilità per la quale sono nati e la maggior parte di essi ha anche un che di attraente ed aggraziato. [II,14,4] Presenziare e comprendere come un calzolaio impara è sgradevole, ma il calzare è proficuo ed altrimenti non spiacevole a vedersi. [II,14,5] Anche l’apprendimento di un falegname è fastidioso soprattutto per la persona comune cui capita di assistervi, mentre l’opera sfoggia l’utilità dell’arte. [II,14,6] E molto più lo si vedrà nella musica giacché, se presenzierai ad una tale lezione, questa ti apparirà la più sgradevole di tutte e tuttavia il prodotto musicale è piacevole e delizioso da ascoltare per le persone comuni.

La filosofia è l’arte di diventare uomo (7-8)

[II,14,7] E qui noi siffatta ci rappresentiamo l’opera di chi fa filosofia, che si deve conciliare la propria decisione agli avvenimenti, affinché nessuno di essi accada nostro malgrado e neppure che non accada quando invece noi disponiamo che accada. [II,14,8] Da cui promana ai qui raccomandati il non fallire nel desiderio e, nell’avversione, il non incappare in quanto si avversa; il tragittarsela senza afflizione, senza paura, senza sconcerto mentre, quanto a sé, serba con i soci le relazioni tanto naturali che acquisite di figlio, padre, fratello, cittadino, marito, moglie, vicino, compagno di viaggio, comandante, comandato.

Uomo è sapere che soltanto la Materia Immortale è, che dalla Materia nasce ogni intelligenza, che dalla intelligenza di chi è uomo nascono dei leali, liberi, benefici, disinteressati come la Materia (9-13)

[II,14,9] Qualcosa di siffatto ci rappresentiamo l’opera di chi fa filosofia. Orbene cerchiamo di seguito a ciò come questo sarà. [II,14,10] Vediamo dunque che il falegname diventa falegname imparando certe cose ed il pilota diventa pilota imparando certe cose. Non sarà che anche qua non è bastevole decidere di diventare virtuoso, ma c’è anche bisogno di imparare certe cose? Cerchiamo dunque quali siano queste cose. [II,14,11] I filosofi dicono che innanzitutto bisogna imparare questo: che vi è una Materia Immortale e che si fa mente dell’intero e che non è possibile sfuggirle non soltanto quando si opera ma anche quando si pensa o si pondera; e poi di che natura sono gli dei. [II,14,12] Giacché quali essi saranno trovati essere, chi intende essere loro gradito ed ubbidirli, necessariamente fa del suo meglio per provare ad assomigliare ad essi. [II,14,13] Se dunque la Materialità è leale, è necessario che anche questo sia leale. Se è libera, anche questo libero; se benefica, anche questo benefico; se disinteressata, anche questo disinteressato: quindi quale emulo di un dio che faccia e dica tutto il seguito.

Cominciare a non usare più il linguaggio senza comprenderne il significato (14-20) 

[II,14,14] -E donde si deve iniziare?- Se accondiscenderai, ti dirò che innanzitutto devi comprendere i nomi. -Sicché io ora non comprendo i nomi?- [II,14,15] Non lo comprendi. -E come dunque li uso?-Come gli analfabeti le voci scritte, come il bestiame le rappresentazioni: giacché altro è uso, altro è comprensione. [II,14,16] Se credi di comprendere, porta il nome che vuoi e saggiamoci per vedere se comprendiamo. [II,14,17] -Ma l’essere confutato è fastidioso per una persona già anziana e che, caso mai, ha condotto le tre campagne militari- [II,14,18] Lo so anch’io. Giacché ora tu sei ora venuto da me come chi non ha bisogno di nulla. E di cosa saresti rappresentato come carente? Sei ricco di denaro, hai figlioli, caso mai anche una moglie e molti domestici, Cesare ti conosce, possiedi molti amici a Roma, esplichi ciò che è doveroso, sai ricambiare col bene chi fa bene e fare del male a chi male fa. [II,14,19] Che ti manca? Se dunque ti mostrerò che sono le cose più necessarie e grandi per la felicità, che fino a questo momento di tutto sei stato sollecito tranne di quel che conviene, e se sovrapporrò il tocco finale: tu non sai né cos’è dio né cos’è uomo né cos’è bene né cos’è male [II,14,20] e, parimenti la più intollerabile di tutte, che sei ignorante di te stesso; come puoi tollerarmi, sostenere il controllo, stare al gioco? 

Non ritenersi oltraggiati dalla Verità (21-22)

[II,14,21] Nient’affatto! Ma subito ti allontani esasperato. Eppure, che male ti ho fatto? A meno che anche lo specchio lo faccia a chi è laido, mostrandogli qual è. A meno che anche il medico oltraggi l’ammalato qualora gli dica: “O uomo, reputi di non avere nulla ma hai la febbre; oggi digiuna, bevi acqua”; e nessuno dice: “Che terribile oltraggio!”. [II,14,22] Se però dirai a qualcuno: “I tuoi desideri soffrono di infiammazione, le tue avversioni sono da servo nell’animo, i progetti incoerenti, gli impulsi in disarmonia con la natura delle cose, le concezioni avventate e mentitrici”; subito esce a dire: “Mi oltraggiò!” 

Invitati allo spettacolo delle umane vicende: commedia? tragedia? farsa? non senso? (23-24)

[II,14,23] Siffatte sono le nostre vicende come in una sagra. Vi sono condotti per essere smerciati del bestiame e dei buoi; ed il più della gente è lì chi per comperare, chi per vendere. Pochi sono quelli venuti per lo spettacolo della sagra: come questa accade e perché; chi ha posto la sagra e per cosa. [II,14,24] Così pure qua in questa sagra: alcuni, come il bestiame, di nulla si impicciano che del foraggio. Voi quanti siete rivolti a patrimonio e fondi e domestici e certe cariche: questo non è altro che foraggio. 

Il divino sorriso con il quale la Materia Immortale, che sola tutto governa, guarda coloro che la credono inerte, amorfa, incapace di generare intelligenza (25-29)

[II,14,25] Sono invece pochi gli uomini che prendono parte alla sagra per amore dello spettacolo. “Cos’è dunque mai l’ordine del mondo, chi lo governa? Nessuno? [II,14,26] E com’è possibile che una città od una casa non possono perdurare prescindendo da chi le governi e ne abbia sollecitudine neppure per pochissimo tempo ed una struttura così grandiosa e magnifica sia amministrata così disciplinatamente a casaccio e come capita? [II,14,27] Dunque c’è chi governa. Quale governante è e come governa? E noi chi siamo che siamo nati da lui e per quale opera? Abbiamo con lui qualche intreccio e relazione, o nessuna?” [II,14,28] Questo è quanto sperimentano questi pochi e, orbene, hanno agio solo per questo: partire dopo avere visitato la sagra. [II,14,29] E dunque? Sono derisi dai più; giacché anche là gli spettatori lo sono dai mercanti. Anche il bestiame, se avesse qualche consapevolezza, deriderebbe chi è infatuato d’altro che del foraggio.

CAPITOLO 15
A QUANTI MANTENGONO RIGIDAMENTE CERTE LORO DETERMINAZIONI

Diairesizzare impropriamente può farci scambiare per giusta fermezza una nostra cieca ostinazione (1-3)

[II,15,1] Qualora alcuni sentano questi discorsi, che si deve esser saldo e che la proairesi è qualcosa di libero per natura e di non soggetto a costrizioni mentre il resto è soggetto a impedimenti, a costrizioni, è servo, allotrio; ebbene immaginano di dover mantenere inviolabilmente ogni loro determinazione. [II,15,2] Ma innanzitutto deve essere sana la determinazione. Giacché io dispongo che vi siano in un corpo delle tensioni, ma come in un corpo in salute, in cimento. [II,15,3] Se invece ti mostrerai a me con tensioni da frenetico e vi cialtroneggerai sopra, ti dirò: “O uomo, cerca chi ti curi. Queste non sono tensioni ma atonia”.

Non fraintendiamo quanto ci viene in mente con quanto pensiamo: ogni determinazione deve essere prima ben analizzata (4-12)

[II,15,4] In altro modo qualcosa di siffatto sperimentano anche nel loro animo coloro che fraintendono questi discorsi. Per esempio un mio compagno, senza cagione alcuna determinò di morire di inedia. [II,15,5] Io lo seppi quando era già al terzo giorno di astinenza e venni da lui per cercare di sapere cosa era accaduto. -Ho determinato, dice- [II,15,6] Ma ugualmente, cos’era quanto ti convinse? Giacché se determinasti rettamente, ecco che ti sediamo accanto e cooperiamo affinché tu esca; ma se determinasti senza ragione, riallogati. [II,15,7] -Si devono mantenere le determinazioni- Che fai, o uomo? Non tutte ma quelle prese rettamente. Dacché sperimentando testé che è notte, non riallogarti, se lo reputerai, ma mantienilo e dì che si devono mantenere le determinazioni! [II,15,8] Non vuoi ergere inizio e fondamento, analizzare se la determinazione è sana o non è sana e così, orbene, edificarvi sopra la giusta tensione, la sicurezza? [II,15,9] Ma se sottostaranno fondamenta schifose e fatiscenti, non vi si deve edificare e quanto più numerose e più poderose costruzioni vi sovrapporrai, tanto più in fretta saranno fatte cadere giù. [II,15,10] Senza cagione alcuna ci sloggi dal vivere una persona amica, un intimo, un cittadino della stessa città, tanto la grande che la piccola, [II,15,11] e poi, mentre lavori ad un omicidio e mandi in malora un uomo che non ha commesso alcuna ingiustizia, dici che si devono mantenere le determinazioni? [II,15,12] Se ti fosse mai in qualche modo saltato in testa di uccidermi, dovresti mantenere le determinazioni? 

Una pervicace irragionevolezza è segno di debolezza d’animo (13-20)

[II,15,13] Quello dunque a stento fu persuaso a modificare avviso. Ma è impossibile allogare certa gente di adesso. Sicché reputo di sapere ora quanto ignoravo prima, cos’è quel che si dice per consuetudine: “Lo stupido è impossibile da persuadere o spezzare”. [II,15,14] Non mi accada mai di avere amico un sapiente stupido! Nulla è più intrattabile. “Ho determinato”. Anche i pazzi; ma quanto più saldamente determinano l’inesistente, tanto più hanno bisogno di elleboro. [II,15,15] Non vuoi fare quel che fa un ammalato e pregare il medico? “Sono ammalato, signore; aiutami. Analizza cosa devo fare; mio compito è ubbidirti”. [II,15,16] Così anche qui: “Non so quel che devo fare; sono venuto per impararlo”. No, ma: “Parlami d’altro; questo l’ho determinato”. [II,15,17] Quale altro? Giacché cos’è più grande e più favorevole dell’essere persuaso che non basta l’avere determinato ed il non riallogarsi? Queste sono tensioni folli, non salutari. [II,15,18] “Voglio morire, se mi costringerai a questo”. Perché, o uomo? Che accadde? “Ho determinato”. Fui salvato dal fatto che non hai determinato di uccidere me. [II,15,19] “Non prendo denaro”. Perché? “Ho determinato”. Sappi che la tensione che ora usi per non prenderlo, nulla impedisce che un giorno ti faccia propendere senza ragione a prenderlo ed a dire di nuovo: “Ho determinato”; [II,15,20] come in un corpo ammalato e sofferente di scolo di umori, lo scolo propende ora verso questi organi ora verso quelli. Così pure un animo debole, dove inclina è dubbio; ma qualora a questa inclinazione ed a questa pulsione sia congiunta anche della tensione, allora il male diventa senza aiuto e senza cura. 

CAPITOLO 16
CHE NON STUDIAMO PER USARE I GIUDIZI SUI BENI E SUI MALI

L’oratore ed il citaredo intendono per successo l’applauso degli spettatori (1-10)

[II,16,1] Dov’è il bene? -Nella proairesi- Dov’è il male? -Nella proairesi- Dove l’udetero? -In ciò che è aproairetico- [II,16,2] E dunque? Qualcuno di noi si ricorda di questi discorsi fuori della scuola? Qualcuno studia per rispondere lui su di sé in questo modo alle faccende come alle domande: “E’ proprio giorno?” “Sì”; “E che? E’ notte?” “No”; “E che? Le stelle sono in numero pari?” “Non sono in grado di dirlo”. [II,16,3] Qualora ti risplenda davanti del denaro, hai studiato per dare la risposta dovuta che “Non è un bene”? Ti sei esercitato in queste risposte o soltanto per i sofismi? [II,16,4] Perché dunque ti stupisci se dove hai studiato là diventi migliore e dove non hai studiato là perduri lo stesso? [II,16,5] Peraltro, perché l’oratore sapendo di avere scritto bene, di avere appreso lo scritto, di portarsi dentro una voce piacevole, ugualmente è ancora in ansia? Perché non si accontenta di avere studiato. [II,16,6] Cosa vuole, dunque? Essere lodato dagli astanti. Dunque per poter declamare si è esercitato, ma non si è esercitato per lode e denigrazione. [II,16,7] Quando mai sentì da qualcuno cos’è lode, cos’è denigrazione e qual è la natura dell’una e dell’altra? Quali lodi vadano inseguite e quali denigrazioni fuggite? Quando studiò questo studio conseguente con questi discorsi? [II,16,8] Perché dunque ti stupisci ancora se dove imparò, là differisce dagli altri e dove non ha studiato, là è identico ai più? [II,16,9] Come il citaredo sa suonare la cetra, canta bene, ha una magnifica tunica lunga ed ugualmente, entrando in scena, trema: giacché questo lo sa, ma non sa cos’è folla né grida e derisione di folla. [II,16,10] E neppure sa cos’è lo stesso essere in ansia, se è opera nostra od allotria; se è possibile o non è possibile farlo cessare. Per questo, se sarà lodato esce borioso; ma se sarà deriso, quella bolla di boria è punta e si affloscia.

Certamente il successo va perseguito ad ogni costo, giacché essere uomo è avere successo. Ma quale successo? Il successo in quanto fa uomo: nella fortezza, nella magnanimità, nella virilità, ossia nel retto uso della diairesi (11-17) 

[II,16,11] Qualcosa di siffatto lo sperimentiamo anche noi. Di cosa ci infatuiamo? Degli oggetti esterni. Per cosa ci industriamo? Per gli oggetti esterni. E poi difettiamo di sapere come mai abbiamo paura o come mai siamo in ansia? [II,16,12] Cos’è dunque fattibile qualora riteniamo mali gli eventi inferiti? Non possiamo non avere paura, non possiamo non essere in ansia. [II,16,13] E poi diciamo: “Signore Iddio, come non essere in ansia?” Stupido! Non hai le mani? Non te le fece la Materia Immortale? Ora siedi ed auspica che non ti colino i mocci! Piuttosto smocciati e non incolpare! [II,16,14] E dunque? Qui nulla ti ha dato? Non ti ha dato fortezza, non ti ha dato magnanimità, non ti ha dato virilità? E con mani così rilevanti cerchi ancora chi smocci? [II,16,15] Ma questo né studiamo né di questo ci impensieriamo. Peraltro datemi uno al quale importa come fare qualcosa; che si impensierisce non di centrare qualcosa ma della propria attività. Chi passeggiando si impensierisce di questa sua attività? Chi deliberando, proprio della deliberazione e non di centrare ciò intorno a cui delibera? [II,16,16] E se lo centrerà, si è esaltato e dice: “Come deliberammo bene! Non ti dicevo, fratello, che quando noi analizziamo qualcosa è impossibile che non sortisca così?” Se invece avrà luogo altrimenti, la proairesi dello sciagurato è stata resa serva, non trova più nulla da dire sui fatti accaduti. Chi di noi per questo assunse un indovino? [II,16,17] Chi di noi si coricò in un tempio per schiarirsi su un’attività? Chi? Datemene uno solo, affinché veda colui che cerco da molto tempo, il davvero nobile d’indole e purosangue; sia giovane sia più anziano, datemelo.

A crearci difficoltà sono le nostre rappresentazioni non ben analizzate: male non è la morte ma la paura della morte (18-23)

[II,16,18] Perché dunque ci stupiamo ancora se abbiamo consumata esperienza dei materiali mentre nelle attività siamo servi nell’animo, indecenti, di nessun valore, vili, indolenti, intere sfortune? Giacché di ciò nulla ci è importato né lo studiamo. [II,16,19] Se non avessimo paura della morte o dell’esilio bensì della paura, studieremmo per non incappare in quelli che ci appaiono mali. [II,16,20] Ora a scuola siamo focosi e linguacciuti, sufficienti, se ci imbatteremo in una ricerchina su qualcuno di questi punti, per venire al seguito. Ma trascinaci all’uso e ci troverai naufraghi sciagurati. Ci incolga una rappresentazione sconcertante e riconoscerai cosa studiavamo e per cosa ci allenavamo. [II,16,21] Orbene, per mancanza di studio noi ne ammucchiamo sempre sopra qualcuna e plasmiamo le rappresentazioni sconcertanti più grandi di quel che sono. [II,16,22] Subito io, qualora navighi, se mi piego in giù verso l’abisso o guardo il pelago attorno e non vedo terra, mi ritraggo; ed immaginando, se naufragherò, di dover tracannare questo intero pelago, non mi salta in testa che me ne bastano tre boccali. Cos’è dunque a sconcertarmi? Il mare? No, ma il giudizio. [II,16,23] Di nuovo, qualora accada un terremoto io immagino che la città sta per cadermi addosso. Giacché non basta un piccolo sasso per buttarmi fuori il cervello? 

Rettificare i nostri giudizi imparando a diairesizzare (24-27)

[II,16,24] Cos’è dunque ad appesantirci e frastornarci? Cos’altro se non i giudizi? Cos’altro è se non il giudizio ad appesantire chi va via e si allontana da intimi e compagni e posti e correlazioni? [II,16,25] Qualora i bimbi singhiozzino perché la balia è partita per un poco, se prendono una focaccina se ne sono dimenticati. [II,16,26] Vuoi dunque che anche noi assomigliamo ai bimbi? No, per Zeus! Giacché io sollecito di sperimentare questo non ad opera di una focaccina ma di retti giudizi. [II,16,27] E questi quali sono? Quelli che deve avere l’uomo il quale studia il giorno intero per non struggersi per nulla di allotrio: né un compagno, né un posto, né dei ginnasi, ma neppure per il suo corpo; per ricordarsi della legge ed averla dinanzi agli occhi. 

Regola d’oro per rettificare i nostri giudizi è imparare la inviolabile legge della Materia Immortale (28) 

[II,16,28] E qual è la legge divina? Serbare ciò che è peculiare, non pretendere ciò che è allotrio ma usare quanto ci è dato e non bramare quanto non ci è dato; sottraendosi qualcosa, restituirlo con scioltezza ed immantinente, riconoscenti per il tempo dell’uso, se vuoi non chiamare la balia e la mamma. 

Ancora rettificare i nostri giudizi (29-38)

[II,16,29] Giacché che differenza fa di chi si è da meno e da cosa si penzola? Perché sei migliore di chi singhiozza per una pupattola, se piangi per un ginnasiucolo, dei portichetti, dei giovanottelli e siffatti trastulli? [II,16,30] Un altro viene a piangere perché sta per non bere più l’acqua della fonte di Dirce. E l’acqua Marcia è peggiore di quella di Dirce? “Ma quella mi era consueta”. [II,16,31] Anche questa di nuovo ti sarà consueta. E se poi ti struggerai per una cosa siffatta, singhiozza di nuovo anche per questo e cerca di fare una riga simile a quella di Euripide *I bagni termali di Nerone e l’acqua Marcia* . Ecco come nasce una tragedia, qualora le faccende che capitano si imbattano in persone stupide. [II,16,32] “Quando vedrò dunque di nuovo Atene e l’acropoli?” Sciagurato, non ti basta quanto scorgi ogni giorno? Hai qualcosa di migliore o più grande da vedere del sole, della luna, degli astri, della terra intera, del mare? [II,16,33] Se davvero comprendi chi governa l’intero e lo porti in giro dentro di te, brami ancora dei sassi ed una rocca graziosa? Dunque qualora sia per abbandonare proprio il sole e la luna, che farai? Siederai a singhiozzare come i bimbi? [II,16,34] Cosa facevi dunque a scuola, cosa ascoltavi, cosa imparavi? Perché ti davi il titolo di filosofo quando si ha la potestà di registrare la realtà vera dicendo: “Effettuai lo studio di alcune ‘Introduzioni alla filosofia’ e lessi qualche opera di Crisippo; ma del filosofo non pervenni neppure alla porta. [II,16,35] Giacché che parte ho io in questa faccenda, faccenda nella quale ebbe una parte Socrate, che visse così e che morì così? Nella quale ebbe una parte Diogene?” [II,16,36] Lo divisi tu uno di questi che singhiozza o freme perché non può più scorgere il tale né la tale, né starà ad Atene o Corinto ma, caso mai, a Susa o ad Ecbatana? [II,16,37] Giacché chi ha la potestà, qualora lo disponga, di uscire dal convito e non giocare più, costui si infastidisce ancora se rimane? Non starà al gioco finché l’animo suo ne sarà cattivato? [II,16,38] Probabilmente un uomo siffatto reggerebbe l’andata in esilio per sempre o l’esilio della morte, se vi fosse condannato.

Svezzati, solleva il capo: cos’hai tu a che fare con i servi, i prigionieri della controdiairesi? (39-40)

[II,16,39] Non vuoi, come i bimbi, essere ormai svezzato e toccare un cibo più solido e non singhiozzare per mamme e balie, singhiozzi di vecchie? [II,16,40] “Ma allontanandomi le infastidirò”. Tu le infastidirai? Nient’affatto! Ma sarà quanto è anche per te, il giudizio. Che hai dunque da fare? Strappalo; ed il loro, se faranno bene, lo strapperanno loro; se no, mugugneranno a causa di se stesse. 

Il discorso dell’Areopago dell’uomo libero (41-43)

[II,16,41] O uomo sii demente ormai, come si dice,per la serenità, per la libertà, per la magnanimità. Drizza una volta il collo come allontanato dalla servitù; [II,16,42] abbi l’audacia di levare lo sguardo a Zeus e dire: “Orbene, usami per quanto disporrai; cointelligo con te; sono tuo pari; nulla schivo di quanto reputi; dove disponi, conduci; del vestito che disponi, cingi. Disponi che io occupi cariche, sia un privato cittadino, rimanga, vada in esilio, sia povero di denaro, sia ricco di denaro? Per tutto questo ioparlerò in tua difesa di fronte alle genti; [II,16,43] mostrerò qual è la natura di ciascuna”.

Sii l’Eracle ed il Teseo di te stesso (44-47)

[II,16,44] No, ma accovacciato dentro come un pupattolo, aspetta la mamma tua fino a che ti foraggi. Se Eracle fosse rimasto seduto accanto a quei di casa, chi sarebbe? Euristeo e non Eracle. Orsù, andando in giro per la terra abitata, quanti ebbe intimi, amici? Ma nulla di più amico della Materia Immortale: per questo fu creduto essere figlio di Zeus e lo era. E quindi ubbidendo a lui andava in giro a ripulire ingiustizia ed assenza di legge. [II,16,45] Ma non sei Eracle e non puoi ripulire i mali allotrii; e neppure Teseo, da ripulire quelli dell’Attica: ripulisci i tuoi. Di qui, dall’intelletto espelli, invece di Procuste e di Scirone, afflizione, paura, smania, invidia, il godimento per i mali altrui, l’avidità di denaro, la mollezza, la non padronanza di sé. [II,16,46] Questi non è possibile espellerli altrimenti che volgendo lo sguardo solo a Zeus, solo per lui struggendosi, consacrandosi alle sue ingiunzioni. [II,16,47] Se invece vorrai qualcos’altro, seguirai chi è più potente di te mugugnando e gemendo, cercando sempre fuori la serenità senza mai poter essere sereno. Giacché la cerchi là dove non è, tralasciando di cercare là dov’è.

CAPITOLO 17
COME BISOGNA ADATTARE I PRE-CONCETTI AI PARTICOLARI ?

Non immaginare di sapere quanto si ignora. Chi non sa adattare bene i pre-concetti di sano e di malato, studi la medicina (1-9)

[II,17,1] Qual è la prima opera di chi fa filosofia? Buttar via la presunzione: giacché è inconcepibile iniziare ad imparare quanto uno crede di sapere. [II,17,2] Tutti veniamo dai filosofi cianciando su e giù di quanto si deve fare e non fare, di quanto è bene e di quanto è male, di quanto è bello e di quanto è brutto; e su queste basi lodando e denigrando, incolpando e biasimando, decretando e discernendo su mestieri belli e mestieri brutti. [II,17,3] Per che cosa allora veniamo dai filosofi? Per imparare quanto crediamo di non sapere. E cos’è questo? I principi generali. Giacché ciò di cui cianciano i filosofi, alcuni vogliamo impararlo in quanto raffinato e sottile, altri per procacciarsene lucro. [II,17,4] Ridicolo dunque credere che uno decida di imparare certe cose ma ne impari altre o che, orbene, uno profitterà in quanto non impara. [II,17,5] Quanto inganna i più è proprio quel che ingannò anche Teopompo l’oratore, laddove egli incolpa Platone per la decisione di definire ciascun termine. [II,17,6] Che dice infatti Teopompo? “Nessuno di noi prima di te diceva ‘buono’ o ‘giusto’? Oppure li pronunciavamo senza comprendere cosa ciascuno di questi è, in modo inarticolato e vacuo?” [II,17,7] E chi ti dice, o Teopompo, che non avevamo di ciascuno di essi concetti naturali o pre-concetti? Ma non è possibile adattare i pre-concetti alle sostanze consone senza articolarli ed analizzare proprio questo, cioè quale sostanza sia da subordinarsi a ciascuno di essi. [II,17,8] Dacché dì anche ai medici una cosa del genere: “Chi di noi non chiamava qualcosa ‘salutare’ e ‘malsano’ prima che ci fosse Ippocrate? O queste voci echeggiavano a vuoto?” [II,17,9] Abbiamo infatti anche un pre-concetto di ‘salutare’, ma non possiamo adattarlo. Per questo uno dice “Respingi” ed un altro “Dà cibo”; uno dice “Salassa” ed un altro “Applica delle ventose”. Qual è il causativo? Altro dal fatto che non può adattare bene il pre-concetto di ‘salutare’ ai casi particolari? 

Chi non sa adattare bene i pre-concetti di buono o di utile, studi la filosofia (10-13)

[II,17,10] Così è anche qua, nei casi della vita. Chi di noi non ciancia di bene e di male, di utile e di inutile? Chi di noi non ha infatti un pre-concetto di ciascuno di questi? Dunque forse ben articolato e perfetto? Mostralo! [II,17,11] “Come mostrarlo?” Adattalo bene alle particolari sostanze. Ad esempio Platone subordina le delimitazioni dei concetti al pre-concetto di ‘proficuo’, tu invece a quello di ‘improficuo’. [II,17,12] E’ possibile che entrambi facciate centro? E com’è possibile? Non adatta il pre-concetto di ‘bene’, uno alla sostanza ‘ricchezza di denaro’ e l’altro no? Ed alla sostanza ‘piacere fisico’, ed alla sostanza ‘salute del corpo’? [II,17,13] In generale, se noi tutti che enunciamo i nomi abbiamo di ciascuno di questi una conoscenza non vacua e non abbiamo bisogno di alcuna sollecitudine nella articolazione dei pre-concetti, perché litighiamo, perché facciamo guerra, perché ci denigriamo l’un l’altro? 

Infatti vi è contraddizione tra il credere di saper adattare bene i pre-concetti e l’essere infelice (14-18)

[II,17,14] E che m’importa, ora, citare la contrapposizione degli individui gli uni gli altri e ricordarla? Proprio tu, se adatti bene i pre-concetti perché non sei sereno, perché sei intralciato? [II,17,15] Tralasciamo giust’appunto il secondo àmbito, quello circa gli impulsi e l’arte di lavorarli in rapporto al doveroso. Tralasciamo anche il terzo, quello circa gli assensi. [II,17,16] Ti faccio grazia di tutto ciò. Stiamo nel primo, che procura la dimostrazione quasi sensibile del non adattare bene i pre-concetti. [II,17,17] Tu ora vuoi il possibile ed il possibile a te. Perché dunque sei intralciato? Perché non sei sereno? Ora non fuggi il necessario. Perché dunque incappi in difficoltà, perché hai cattiva fortuna? Perché quando vuoi qualcosa non accade e quando non la vuoi accade? [II,17,18] Giacché questa è la più grande dimostrazione di non serenità ed infelicità. Voglio qualcosa e non accade: e cos’è più meschino di me? Non voglio qualcosa ed accade: e cos’è più meschino di me? 

La controdiairesi come dramma: Medea non vuole abbandonare l’idea di poter dominare quanto non dipende esclusivamente da lei (19-22)

[II,17,19] E Medea, incapace di reggere questi eventi, giunse ad uccidere i figlioli. Con gran temperamento davvero, quanto a questo! Giacché aveva la rappresentazione che si deve di cos’è per uno il non andargli a seconda quel che vuole. [II,17,20] “E poi così mi vendicherò su colui che fu ingiusto con me e mi oltraggiò. E che pro di chi è così mal disposto? Come accadrà? Uccido i figlioli. [II,17,21] Ma punirò anche me stessa. E che m’importa?” Questo è il decadimento di un animo che ha grande nerbo. Giacché non sapeva dove giace il fare quanto disponiamo, che questo non bisogna prenderlo dal di fuori né allogando e riacconciando le faccende. [II,17,22] Non volere il marito e nulla di quanto disponi non accade. Non volere ad ogni costo che egli coabiti con te, non voler rimanere a Corinto ed insomma non volere altro da quanto Zeus dispone. E chi ti impedirà, chi ti costringerà? Non più che Zeus.

Educarci a diairesizzare (23-28)

[II,17,23] Qualora tu abbia un leader siffatto e con lui condisponga e condesideri, perché hai ancora paura di fallire? [II,17,24] Gratifica il tuo desiderio e la tua avversione con povertà di denaro e ricchezza di denaro: fallirai, incapperai in quanto avversi. E con salute del corpo: avrai cattiva fortuna; con cariche, onorificenze, patria, amici, figli, insomma con qualcosa di aproairetico. [II,17,25] Gratificalo invece a Zeus, agli altri dei; trasmettilo ad essi; essi pilotino; sia stato posizionato con essi. [II,17,26] E dove ancora non sarai sereno? Ma se invidi, o indolente, ed hai pietà e sei geloso e tremi e non smetti un giorno solo di singhiozzare disperato di te e degli Dei, perché asserisci di essere stato educato a diairesizzare? [II,17,27] Quale educazione a diairesizzare, o uomo? Che effettuasti sillogismi, ragionamenti equivoci? Non vuoi, se possibile, disimparare tutto questo ed iniziare daccapo, dopo aver preso consapevolezza del fatto che finora neppure hai toccato la faccenda e, orbene, [II,17,28] iniziando da qua edificarvi in aggiunta il seguito: come nulla sarà contro ciò che tu disponi e, disponendolo tu, nulla non sarà?

Ecco il buon studioso di filosofia (29-33)

[II,17,29] Datemi un solo giovane che è venuto a scuola secondo questo progetto, diventato atleta di questa faccenda e che dice: “Per me, addio a tutto il resto. Basta se avrò mai la potestà di passarmela disimpacciato e non afflitto; di drizzare il collo da libero di fronte alle faccende; di levare lo sguardo al cielo da amico di Zeus che nessuna paura ha di quanto può avvenire”. [II,17,30] Qualcuno di voi lo mostri siffatto, affinché io dica: Vieni, giovanotto; vieni a quanto è tuo; ti è stato destinato di adornare la filosofia; questi possessi sono tuoi, tuoi i libri, tuoi i discorsi. [II,17,31] E poi qualora vi si sia prodigato ed abbia valicato il primo àmbito, venga di nuovo e mi dica: “Io dispongo sì di essere capace di dominare le passioni e lo sconcerto, ma dispongo anche da pio, filosofo, solerte, di sapere quanto è doveroso da parte mia verso gli dei, verso genitori, fratelli, patria, stranieri”. [II,17,32] Vieni anche al secondo àmbito: tuo è anche questo. [II,17,33] “Ma ho già sviscerato anche il secondo àmbito. Disporrei di star sicuro ed incrollabile non solo da sveglio ma anche quando dormo, sono brillo, malinconico”. Tu sei un dio, uomo; tu hai grandi progetti!

Anche voi come il cattivo studioso di filosofia? (34-38)

[II,17,34] No, ma: “Io voglio conoscere cosa dice Crisippo nei libri sul Mentitore”. Non ti impiccherai con questo progetto, sciagurato? Di che pro ti sarà? Lo leggerai tutto piangendo, e tremando ne parlerai agli altri. [II,17,35] Così fate anche voi. “Vuoi che legga per te, fratello, e tu per me?” “Scrivi, uomo, in modo stupefacente”. E: “Tu alla grande nello stile di Senofonte”; [II,17,36] “Tu in quello di Platone”; “Tu in quello di Antistene”. E poi narrativi gli uni gli altri i vostri sogni, ritornate di nuovo alle medesime cose. Desiderate allo stesso modo, allo stesso modo avversate, similmente impellete, progettate, proponete, le stesse cose auspicate, per le stesse vi industriate. [II,17,37] Né poi cercate chi vi richiami alla memoria questi discorsi ma vi adontate se sentirete parlare di questo. E poi dite: “Vecchio senza affettuosità; quando uscii non singhiozzò né disse ‘Verso quali difficili circostanze mi parti, figliolo! Se ti salverai accenderò delle lucerne!’ “ [II,17,38] Queste sono le parole dell’affettuoso? Sarà un gran bene per te che fosti salvato siffatto, e meritevole di lucerne. Giacché tu devi essere immortale ed al riparo dalle malattie! 

Accettare di non sapere e di dover imparare (39-40)

[II,17,39] Bisogna dunque venire alla ragione dopo avere buttato via questa presunzione, come dico, di reputare di sapere alcunché di proficuo; così come ci appressiamo alla geometria ed alla musica. [II,17,40] Se no, non saremo vicino a profittarne neppure se discuteremo tutte le “Introduzioni alla filosofia” e tutti i trattati di Crisippo dopo quelli di Antipatro e di Archedemo.

CAPITOLO 18
COME BISOGNA GAREGGIARE CON LE RAPPRESENTAZIONI ?

La potenza dell’abitudine (1-7)

[II,18,1] Ogni costumanza ed ogni facoltà è confermata ed accresciuta dalle opere consone: quella di camminare dal camminare, quella di correre dal correre. [II,18,2] Se vorrai essere un lettore, leggi; se uno scrittore, scrivi. Qualora per trenta giorni di seguito tu non legga ma effettui qualcos’altro, riconoscerai quel che accade. [II,18,3] Così se rimarrai a letto per dieci giorni metti mano, appena alzato, ad una camminata troppo lunga e vedrai come sono paralizzate le tue gambe. [II,18,4] In generale dunque se disporrai di fare qualcosa, falla abitualmente; e se disporrai di non farla, non farla ma abituati piuttosto ad effettuare qualcos’altro al suo posto. [II,18,5] Così è anche per i fatti dell’animo. Qualora ti adiri, riconosci che non solo ti è accaduto questo male ma anche che accrescesti l’abituale postura dell’animo tuo e che buttasti come legna secca sopra un fuoco. [II,18,6] Qualora tu sia sconfitto da qualcosa in un accoppiamento, non conteggiare questa sola sconfitta ma anche che hai nutrito ed accresciuto la non padronanza di te. [II,18,7] Giacché è impossibile che le abituali posture dell’animo e le facoltà, grazie alle opere consone, non si innaturino se prima non esistevano, ed altre si intensifichino e potenzino.

Bene è il giudizio: il denaro è né bene né male. Male è il giudizio che ci fa smaniare per esso come bene o come male. Il sorgere nell’animo delle passioni e le tracce che esse vi lasciano (8-9)

[II,18,8] I filosofi dicono che anche le affezioni, senza fallo, sotto sotto crescono così. Giacché qualora tu smani una volta per del denaro, se si appresserà alla coscienza un ragionamento che ne stima il male, la smania cessa ed il nostro egemonico si ristabilisce nello stato iniziale. [II,18,9] Ma se nulla gli appresserai per assisterlo, l’egemonico non rimonta più al medesimo stato ma, stuzzicato di nuovo dalla consona rappresentazione, si rattizza di smania più in fretta di prima. Se questo accade costantemente, orbene l’egemonico incallisce e l’affezione rinsalda la avidità di denaro. 

Lividi, piaghe e cicatrici (10-11)

[II,18,10] Chi ha la febbre e poi cessa di averla non sta similmente a prima, a meno che non si sia rimesso appieno. [II,18,11] Qualcosa di siffatto accade anche per le passioni dell’animo. In esso sono lasciate addietro delle orme e dei lividi che, quando non li si cancelli per bene, allorché si sia frustati di nuovo nei medesimi punti, non più lividi fanno ma piaghe.

Cattivi giudizi fanno cattive abitudini (12-14)

[II,18,12] Se dunque disponi di non essere iracondo, non nutrire la tua costumanza e non buttarle sopra nulla di accrescitivo. Dapprima sta quieto e conta le giornate in cui non ti adirasti. [II,18,13] “Ero solito adirarmi ogni giorno; adesso a giorni alterni, e poi ogni due, e poi ogni tre”. Se ometterai di adirarti per trenta giorni, offri un sacrificio a Zeus. Giacché la costumanza dapprima si fiacca e poi è anche definitivamente abolita. [II,18,14] “Oggi non fui afflitto, né domani, né di seguito per due o tre mesi, ma feci attenzione quando accaddero certe cose stuzzicanti”. Riconosci che ti va elegantemente.

Sciogliere una cattiva abitudine è impresa maggiore che sciogliere un sofisma (15-18)

[II,18,15] Oggi, vedendo un magnifico giovanotto od una magnifica ragazza, non mi dissi “Volesse il cielo che uno si coricasse con costei!”, e “Beato suo marito!”; giacché chi dice questo “beato” dice pure “l’adultero!”. [II,18,16] Neppure mi dipingo il seguito: lei presente e che si denuda e giace sul letto accanto. [II,18,17] Mi liscio il cocuzzolo e dico: “Bene, Epitteto, sciogliesti un raffinato sofismetto, molto più raffinato del Dominatore”. [II,18,18] E se, anche quando la femminuccia lo decide ed accenna e mi fa avvertire ed anche mi tocca e si approssima, mi asterrò e vincerò, questo è ormai un sofisma al di sopra del “Mentitore”, al di sopra del “Quiescente”. Per questo merita fare anche gran pregio di sé, non per saper prospettare interrogativamente il “Dominatore”.

Bene è il giudizio: il sesso è né bene né male. Male è il giudizio che ci fa smaniare per esso come bene o male. Come fare? (19-21)

[II,18,19] Questo dunque come accadrà? Disponi una volta di essere gradito a te stesso, disponi di apparire bello a Zeus. Smania di diventare puro con il puro te stesso e con Zeus. [II,18,20] E poi qualora ti incolga una siffatta rappresentazione vai, come dice Platone, ai sacrifici espiatori, vai supplice ai sacrari di Dei apotropaici. [II,18,21] Basta anche che ti ritiri nella compagnia di uomini virtuosi e che ti occupi di questo riscontrandoti ad essi, sia che tu abbia come modello uno dei viventi oppure uno dei morti.

Guarda Socrate… (22)

[II,18,22] Partitene da Socrate e vedilo giacere sul letto con Alcibiade e prendersi gioco del fior degli anni suoi. Pondera qual mai vittoria egli riconobbe d’avere vinto, quale Olimpiade, quale vincitore divenne della serie iniziata da Eracle! Affinché uno, per gli dei, dicendo “Salve, ammirabile uomo!”, ossequi giustamente lui e non questi schifosi pugili e pancraziasti né i loro simili, i gladiatori.

… e saprai come vincere (23-26)

[II,18,23] Contrapponendo questo vincerai la rappresentazione, non ne sarai trascinato. [II,18,24] Innanzitutto non essere rapito dalla sua acutezza ma di’ :”Aspettami un poco, rappresentazione; lasciami vedere chi sei e su che cosa, lascia che ti valuti”. [II,18,25] E d’ora innanzi non accordarle di promuoversi a dipingere il seguito. Se no, se ne va portandoti dove vorrà. Piuttosto introduci un’altra rappresentazione bella e generosa, ed espelli questa sozza. [II,18,26] Se ti abituerai ad allenarti così, vedrai che spalle ti vengono, che nerbo, che tono! Ora invece soltanto argomentazioni logiche e nulla più. 

Il vero asceta (27-32)

[II,18,27] Il vero asceta è chi si allena a siffatte rappresentazioni. [II,18,28] Fermati, sciagurato, non essere rapito! Grandiosa è la gara, divina l’opera: è per un regno, per la libertà, per la serenità, per il dominio sullo sconcerto. [II,18,29] Ricordati di Zeus, invocalo aiuto e guardiano come i naviganti i Dioscuri nella tempesta. E quale maggiore tempesta di quella di rappresentazioni potenti e capaci di sbattere fuori la ragione? E la stessa tempesta cos’altro è se non rappresentazione? [II,18,30] Dacché rimuovi la paura della morte e porta quanti tuoni e quanti lampi vuoi. Riconoscerai quanta bonaccia e magnifico tempo vi sia nell’egemonico! [II,18,31] Ma se sconfitto una volta, dirai che vincerai successivamente e poi di nuovo lo stesso: sappi che starai così male e sarai così debole da neppure riflettere successivamente che aberri, ed inizierai addirittura a provvedere giustificazioni per la faccenda. [II,18,32] Allora rinsalderai la verità del detto di Esiodo *la persona che indugia lotta sempre con le sciagure*.

CAPITOLO 19
A QUANTI DELLE DOTTRINE DEI FILOSOFI APPRENDONO SOLTANTO LA LOGICA

L’argomento ”Dominatore” e le delizie della logica (1-4)

[II,19,1] L’argomento “Dominatore”pare essere stato prospettato interrogativamente a partire da certe proposizioni moventi di questo genere, essendovi mutua contraddizione delle terze con le altre due: (a) tutto quanto veramente è avvenuto è necessario; (b) l’impossibile non consegue al possibile; (c) possibile è quanto non è né sarà vero. Notando questa contraddizione, Diodoro adoperò la persuasività delle prime due proposizioni per apporre che nulla, che non è né sarà vero, è possibile. [II,19,2] Orbene uno serberà, delle coppie di proposizioni, questa: (c) possibile è quanto non è né sarà vero, e (b) l’impossibile non consegue al possibile, ma non (a) tutto quanto veramente è avvenuto è necessario, come appunto sembra sostenere la scuola di Cleante, che Antipatro a lungo difese. [II,19,3] Altri serberanno invece le altre due proposizioni, ossia (c) possibile è quanto non è né sarà vero, e (a) tutto quanto veramente è avvenuto è necessario, ma allora l’impossibile consegue al possibile. [II,19,4] E’ inconcepibile però serbare le tre proposizioni, essendovi mutua contraddizione tra di esse.

Un certo studio di questi argomenti non favorisce affatto la virtù ma la vanità (5-10)

[II,19,5] Se dunque uno cercherà di sapere da me: “E tu, quali proposizioni serbi?”, gli risponderò che non lo so. Ho assunto una storia siffatta: che Diodoro serbava quelle; la scuola di Pantoide, credo, e quella di Cleante le altre; la scuola di Crisippo le altre ancora. [II,19,6] “Tu dunque cosa?” Io non sono venuto al mondo per saggiare la mia rappresentazione e paragonare gli enunciati e farmi un giudizio in questo campo. Per questo non differisco in nulla dal grammatico. [II,19,7] “Chi era il padre di Ettore?” “Priamo”. “Quali i fratelli?” “Alessandro e Deifobo”. “Chi era la loro madre?” “Ecuba. Ho assunto questa storia”. “Da chi?” “Da Omero. Sui medesimi, reputo, scrive anche Ellanico e forse qualcun altro siffatto”. [II,19,8] Anch’io sul Dominatore, cos’altro ho di superiore? Ma se sarò un individuo vacuo, soprattutto ad un convito sbalordirò gli astanti enumerando coloro che ne hanno scritto. [II,19,9] “Ne ha scritto in modo stupefacente Crisippo nel primo libro su “I Possibili”. Anche Cleante ha scritto peculiarmente su questo argomento, e pure Archedemo. Ne ha scritto anche Antipatro, non soltanto nei libri su “I Possibili” ma anche peculiarmente in quelli su “Il Dominatore”. [II,19,10] Non ne hai letto il trattato?” “Non l’ho letto”. “Leggilo”. Ed a che gioverà? Sarà più chiacchierone ed intempestivo di quanto sia ora. Giacché cos’altro t’è sopravvenuto dopo averlo letto? Quale giudizio ti sei fatto nel campo? Ma ci dirai di Elena e di Priamo e dell’isola di Calipso che né fu né sarà? 

Della diairesi abbiamo bisogno per vivere e per morire, non per fare bella figura (11-19)

[II,19,11] E qui padroneggiare la storia senza essersi fatti un proprio peculiare giudizio non importa granché. Sulle questioni etiche, invece, lo sperimentiamo molto più che sulla letteratura. [II,19,12] “Dimmi dei beni e dei mali”. “Ascolta: *Portandomi lontano da Ilio, un vento mi spinse tra i Ciconi.* [II,19,13] Delle cose, alcune sono beni; altre mali; altre indifferenti. Beni sono dunque le virtù e quanto di esse partecipa; mali i vizi e quanto del vizio partecipa; indifferenti sono le cose che stanno frammezzo a queste: ricchezza di denaro, salute del corpo, vita, morte, piacere, dolore”. [II,19,14] “Donde lo sai?” “Lo dice Ellanico nei suoi ‘Fatti d’Egitto’ ”. Che differenza fa dire questo o che lo dice Diogene nella sua ‘Etica’ o Crisippo o Cleante? Hai saggiato qualcuno dei loro insegnamenti e te ne sei fatto un giudizio? [II,19,15] Mostra come sei solito allenarti su un bastimento. Ti ricordi di questa diairesi qualora la vela rumoreggi e, mentre tu sbraiti, un dispettoso passeggero che ti sta accanto ti dica: “Dimmi, per gli dei, quel che dicevi l’altro giorno: forse che naufragare è un vizio, è forse qualcosa che partecipa del vizio?” [II,19,16] Sollevato un legno, non glielo scuoterai addosso? “Che c’è fra noi e te, uomo? Andiamo in malora e tu vieni a scherzare?” [II,19,17] Se Cesare ti farà convocare perché sei accusato, ti ricordi della diairesi? Se uno, mentre entri e sei pallido ed insieme tremante, verrà innanzi a dire: “Perché tremi, o uomo? Per quali faccende è la tua citazione? Forse che lì dentro Cesare dà a chi entra virtù o vizio?” [II,19,18] “Perché ti burli di me anche tu, oltre i miei mali?” “Ugualmente, o filosofo, dimmi: perché tremi? Il pericolo che corri non è morte o carcere o dolore del corpo o l’esilio od il discredito? E cos’altro? E’ forse vizio, forse qualcosa che partecipa del vizio? Tu dicevi essere cosa questo?” [II,19,19] “Che c’è fra me e te, uomo? Mi bastano i miei mali”. E dici bene. Giacché a te bastano i tuoi mali: l’ignobiltà, la viltà, la cialtroneria che cialtroneggiavi seduto a scuola. Perché ti abbellivi di giudizi allotrii? Perché ti dicevi Stoico?

Chi è Stoico? (20-28)

[II,19,20] Osservate così voi stessi in quanto solevate effettuare e troverete di quale scelta filosofica siete. Troverete la maggior parte di voi Epicurei; pochi i Peripatetici e, questi, fiacchi. [II,19,21] Dove concepite che la virtù è pari o anche migliore, di fatto, a tutto il resto? Mostratemi uno Stoico, se l’avete. [II,19,22] Dove o come? Ma miriadi che ripetono le argomentazioni logiche degli Stoici. Ma proprio costoro ripetono forse peggio quelle degli Epicurei? E quelle dei Peripatetici non le precisano similmente? [II,19,23] Chi dunque è Stoico? Come diciamo Fidiaca la statua che è stata modellata secondo l’arte di Fidia, così mostratemi qualcuno che si è modellato secondo i giudizi che enuncia. [II,19,24] Mostratemi qualcuno che è ammalato e si giudica fortunato, che corre pericoli e si giudica fortunato, che muore e si giudica fortunato, che si trova in esilio e si giudica fortunato, che ha discredito e si giudica fortunato. Mostrate: io smanio, per gli dei, di vedere uno Stoico. [II,19,25] Ma non avete da mostrarmi un uomo modellato così? Mostrate uno che così si sta modellando, uno inclinato a questo. Siate miei benefattori: non denegate ad un uomo vecchio di vedere uno spettacolo che finora io non ho visto. [II,19,26] Credete che mostrerete lo Zeus di Fidia o la Atena, una struttura d’avorio ed oro? Mostri qualcuno di voi animo di uomo disposto a cointelligere con Zeus, a non biasimare più né dio né uomo, a non fallire qualcosa, a non incappare in qualcosa, a non adirarsi, a non invidiare, a non essere geloso (ma perché usare perifrasi?), [II,19,27] che da uomo smania di diventare dio e che in questo corpo cadaverico si consiglia sulla società che ha con Zeus. [II,19,28] Mostrate. Ma non l’avete. Perché dunque vi burlate di voi stessi e truffate gli altri? E cinti di un abito allotrio passeggiate da ladri e rubavestiti di questi nomi e faccende che non vi convengono?

Lavoriamo insieme a questo grandioso progetto (29-34)

[II,19,29] Ed ora io sono chi vi educa a diairesizzare, mentre voi a ciò vi educate presso di me. Io ho questo progetto: farvi risultare non soggetti a impedimenti, non soggetti a costrizioni, non soggetti ad impacci, liberi, sereni, felici, che tengono gli occhi su Zeus in ogni circostanza, sia piccola che grande; e voi presenziate per imparare e studiare questo. [II,19,30] Perché dunque non concludete l’opera, se avete anche voi il progetto che si deve ed io la preparazione che si deve per il progetto? Cos’è che manca? [II,19,31] Qualora io veda un falegname cui giace accanto il materiale, mi aspetto l’opera. Anche qua c’è il falegname, c’è il materiale. Cosa ci manca? [II,19,32] La faccenda non è insegnabile? E’ insegnabile. Non è dunque in nostro esclusivo potere? Anzi è la sola fra tutte le altre. Né la ricchezza di denaro né la salute del corpo né la reputazione né altro insomma sono in nostro esclusivo potere, eccetto il retto uso delle rappresentazioni. Soltanto questo è per natura non soggetto a impedimenti, non soggetto ad intralci. [II,19,33] Perché dunque non concludete? Ditemi la cagione. Giacché o nasce da me o da voi o dalla natura della faccenda. La faccenda in sé è fattibile e solo in nostro esclusivo potere. Orbene la cagione sta in me o in voi o, che è più vero, in entrambi. [II,19,34] E dunque? Volete che iniziamo una volta a trasferire qui siffatto progetto? Tralasciamo quel che è stato finora. Solo iniziamo, fidatevi di me, e vedrete.

CAPITOLO 20
AGLI EPICUREI ED AGLI ACCADEMICI

Il fondamento autocontraddittorio di alcune tesi degli Accademici (1-5)

[II,20,1] Anche gli obiettori di necessità sfruttano le proposizioni sane ed evidenti; e quasi si potrebbe fare di questo la massima prova dell’essere qualcosa evidente: che sia trovato ad adoperarla, per necessità, anche l’obiettore. [II,20,2] Per esempio se qualcuno obiettasse all’esservi qualcosa di universalmente vero, è manifesto che costui è tenuto a fare la dichiarazione opposta, che nulla vi è di universalmente vero. Schiavo, ma neppur questo è vero. [II,20,3] Giacché cos’altro è questo se non che se vi è qualcosa universalmente, è falso? [II,20,4] Di nuovo, se uno perverrà a dire: “Riconosci che nulla è conoscibile, ma che tutto è inintelligibile”, od un altro: “Fidati di me e ne trarrai giovamento: per nulla ci si deve fidare di un uomo”, od un altro di nuovo: [II,20,5] “Impara da me, uomo, che imparare non è fattibile: io questo ti dico e ti insegnerò, se lo vorrai”; da chi di costoro differiscono questi -chi mai?- che si dicono Accademici? “Uomini, assentite che nessuno assente; fidatevi di noi che nessuno si fida di nessuno”.

Il fondamento autocontraddittorio sul quale Epicuro basa la negazione di una naturale socievolezza tra gli esseri umani (6-14)

[II,20,6] Così anche Epicuro, qualora voglia abolire la naturale socievolezza degli uomini gli uni per gli altri, adopera proprio quanto è abolito. [II,20,7] Che dice, infatti? “Non ingannatevi, uomini, non deviatevi, non cadete in errore: non vi è società naturale delle creature logiche le une per le altre; fidatevi di me. Coloro che dicono le altre cose vi ingannano e dicono paralogismi”. [II,20,8] Dunque che t’importa? Lascia che siamo ingannati. Ti disimpegnerai forse peggio, se tutti noi altri saremo persuasi di avere naturale società gli uni per gli altri e che la si deve in ogni modo custodire? Anzi, molto meglio e più sicuramente. [II,20,9] O uomo, perché ti preoccupi per noi, perché vegli per noi, perché accendi una lucerna, perché ti alzi dal letto, perché compili libri così rilevanti? Affinché qualcuno di noi non sia ingannato sugli dei come solleciti degli uomini o affinché qualcuno non concepisca altra sostanza del bene che il piacere fisico? [II,20,10] Giacché se le cose stanno così, buttati a dormire e fa quel che fa un verme, che è ciò di cui ti giudicasti degno: mangia e bevi e accoppiati e defeca e russa. [II,20,11] Che t’importa come gli altri concepiranno su queste questioni, se in modo sano o non sano? Che c’è fra te e noi? Giacché a te importa delle pecore, che si prestano a noi per essere tosate, munte e da ultimo fatte a pezzi? [II,20,12] Non sarebbe auspicabile che gli esseri umani, affatturati ed incantati dagli Stoici, potessero sonnecchiare e prestarsi a te ed ai tuoi simili per essere tosati e munti? [II,20,13] Invece di celarglielo, questo tu dovevi dire ai compagni epicurei e soprattutto ancor più convincerli che siamo nati per natura socievoli, che la padronanza di sé è un bene, affinché tutto fosse serbato per te. [II,20,14] Oppure si deve custodire questa società verso alcuni e non verso altri? Verso chi si deve dunque serbare? Verso coloro che contraccambiano o verso coloro che non contraccambiano? E chi più di voi non la contraccambia, di voi che avete discernuto queste dottrine?

Come tutti, anche gli Accademici usano le sensazioni, anche gli Epicurei trattano socievolmente con i propri simili. Essi trovano però più gusto nel dire che non è così, e nell’affannarsi a spiegare che anche gli altri devono vergognarsi di sentire la voce della natura (15-20)

[II,20,15] Cos’era dunque a svegliarlo dai sonni ed a costringerlo a scrivere quel che scriveva? Che altro se non quanto, negli uomini, è più potente di tutto: la natura; che lo trascina al proprio piano suo malgrado e gemente? [II,20,16] “Giacché reputi queste tesi asociali, scrivile e lasciale ad altri, veglia per causa loro e diventa proprio tu, nei fatti, l’accusatore dei tuoi stessi giudizi”. [II,20,17] E poi diciamo che Oreste, perseguitato dalle Erinni, era svegliato dal sonno; ma le Erinni e le Pene non erano più esasperate con Epicuro? Lo svegliavano mentre dormiva e non gli permettevano di stare tranquillo ma lo costringevano a divulgare i suoi mali come la pazzia ed il vino costringevano i Galli a mutilarsi. [II,20,18] Tanto potente ed invincibile è la natura umana. Giacché come può una vite non muoversi da vite, ma da olivo; od un olivo, di nuovo, non da olivo ma da vite? E’ inconcepibile, è impensabile. [II,20,19] Quindi neppure è possibile che un essere umano perda definitivamente i moti da uomo e coloro che si amputano il pene non possono però amputarsi gli slanci virili. [II,20,20] Così Epicuro si amputò di tutto quanto fa marito, padrone di casa, cittadino, amico; ma non si amputò degli slanci che fanno uomo. Giacché non poteva. Non più di quanto gli indolenti Accademici possano buttar via od accecare le loro sensazioni, seppure per questo soprattutto si industrino. 

Scossi dalla possibile fallacia delle sensazioni, gli Accademici ne decretano la totale inaffidabilità. A loro volta gli Epicurei, scossi dalla effettiva bruttezza degli Dei trascendenti adorati dagli esseri umani, decretano la inesistenza anche degli dei degli uomini (21-27)

[II,20,21] Che sfortuna! Pur prendendo dalla natura unità di misura e canoni per il riconoscimento della verità, uno non lavora con arte per addizionarvi ed elaborare quanto manca ma, tutto all’opposto, prova a strappare e mandare in malora quel po’ che ha di cognitivo della verità. [II,20,22] Che dici, o filosofo? Il pio ed il sacrosanto che cosa ti paiono? “Se vorrai, strutturerò che sono un bene”. Sì strutturalo, affinché i nostri cittadini impensierendosene onorino il divino e cessino una volta di essere pigri sulle cose più grandi. “Hai dunque le necessarie prove?” Le ho e sono riconoscente. [II,20,23] “Dacché dunque assai gradisci queste, prendi le opposte: che non vi sono dei e, se pure vi sono, che non sono solleciti degli uomini, che nulla è comune tra noi e loro, che questo pio e sacrosanto di cui parla la maggior parte degli individui è menzogna di gente cialtrona e di sofisti o, per Zeus, di legislatori tesi ad impaurire e reprimere chi commette ingiustizia.’ “ [II,20,24] Bene, o filosofo: giovasti ai nostri cittadini, riacquistasti i giovani che già propendono allo spregio delle cose divine. [II,20,25] “E dunque? Non gradisci questo? Prendi ora a spiegare come la giustizia è nulla, come il rispetto di sé e degli altri è una stupidaggine, come un padre è nulla, come il figlio è nulla”. [II,20,26] Bene, o filosofo: persisti, persuadi i giovani, affinché ci sia ancor più gente a sperimentare e parlare come te. Da questi discorsi ci crebbero le ben legificate città. Sparta nacque per questi discorsi. Licurgo, con le sue leggi ed il suo sistema di educazione, infuse negli Spartani queste persuasioni, che l’essere servi non è più brutto che bello e che l’essere liberi non è più bello che brutto. Coloro che morirono alle Termopili morirono per questi giudizi. Per quali altro discorsi gli Ateniesi abbandonarono la città? [II,20,27] E poi coloro che dicono questo si sposano, fanno dei figli, si interessano di affari cittadini, si istituiscono sacerdoti e profeti. Di chi? Di Dei che non esistono? Ed interrogano la Pizia, per cercare di sapere falsità e spiegano gli oracoli ad altri. Che grande sfacciataggine e che stregoneria!

Come curare gli Accademici dal loro scetticismo (28-31)

[II,20,28] O uomo, che fai? Proprio tu confuti te stesso ogni giorno e non vuoi tralasciare questi gelidi epicherèmi? Quando mangi, dove porti la mano? Alla bocca od all’occhio? Per fare il bagno dove ti ficchi? Quando dicesti la pentola piatto od il mestolo spiedo? [II,20,29] Se fossi servo di qualcuno di loro, io lo torturerei anche a costo di essere scuoiato da lui ogni giorno. “Pupattolo, butta olio nel bagno”. Io avrei buttato della salsa di pesce e poi partendo gliene riverserei sulla testa. “Perché questo?” “Ebbi una rappresentazione indistinguibile da quella dell’olio, similissima; sì, per la tua fortuna!” [II,20,30] “Dammi qua la tisana”. Gli avrei portato una scodella ricolma di salsa di pesce mista ad aceto. “Non chiesi la tisana?” “Sì, signore: questa è tisana”. “Questa non è salsa di pesce con aceto?” “Cosa più che tisana?” “Prendi e fiuta; prendi e gusta”. “E donde lo sai, se le sensazioni ci mentono?” [II,20,31] Se avessi avuto tre o quattro compagni di servitù concordi con me, lo avrei fatto impiccare berciando o riallogarsi. Ora, invece, ci gavazzano usando tutto quanto è dato dalla natura e però lo aboliscono a parole. 

Se di un Dio trascendente si può tranquillamente dire “Grazie di non esistere”, l’essere umano è unico responsabile della propria felicità od infelicità. La natura delle cose è invariante, le culture umane sono relative. Ogni volta che il relativismo culturale venga malinteso, i suoi effetti diventano deresponsabilizzanti ed offrono lo spazio per spacciare come religiosità da uomo, qualunque superstizione da essere umano; e per libertà qualunque sconcezza da schiavi (32-37)

[II,20,32] Uomini davvero grati, rispettosi di sé e degli altri. Se non altro mangiando pani ogni giorno, hanno l’audacia di dire: “Non sappiamo se esistono una certa Demetra o Core o Plutone”. [II,20,33] Per non dire che fruendo della notte e del giorno, delle trasformazioni dell’anno e degli astri, del mare, della terra, della cooperazione di esseri umani, da nulla di ciò neppure un poco essi sono impensieriti, ma cercano soltanto di vomitare il loro problemuccio e poi, allenato lo stomaco, di partirsene nelle terme. [II,20,34] Costoro non si sono preoccupati neppure brevemente di cosa diranno e su cosa ed a chi e che significato avranno le loro parole per chi le ascolterà: che un giovane di nobile indole, dopo avere sentito questi discorsi, sperimenti qualcosa ad opera loro o che, sperimentandolo, mandi in malora i semi della nobile indole; [II,20,35] che procuriamo ad un adultero dei moventi per perdere ogni vergogna degli avvenimenti; che uno di coloro che si appropriano indebitamente di denaro pubblico possa forse abbrancarsi, grazie a questi discorsi, a qualche ragione speciosa; che uno, il quale trascura i propri genitori, possa aggiungere, traendola da essi, una certa sfrontatezza. [II,20,36] Dunque secondo te cos’è bene o male, bello o brutto? Questo o quello? E dunque? Qualcuno obietta ancora ad uno di costoro, o dà loro ragione o torto, o prova a persuaderli di modificare avviso? [II,20,37] Per Zeus, uno spererebbe molto più di persuadere i cinedi a modificare avviso che quanti sono arrivati a cotanto di sordità e di cecità sui loro mali.

CAPITOLO 21
SULLA NOSTRA INCOERENZA CON LA NATURA DELLE COSE

Il motivo per cui noi riconosciamo soltanto alcuni nostri difetti è una prova della verità dell’intellettualismo socratico, dell’esistenza di una natura delle cose e della sua invarianza (1-7)

[II,21,1] Certi loro difetti gli esseri umani li ammettono facilmente, altri non facilmente. Nessuno dunque ammetterà di essere stolto o dissennato ma, tutto all’opposto, sentirai tutti dire: “Magari avessi tanta fortuna quanto buonsenso ho!” [II,21,2] Ammettono invece facilmente di essere timidi e dicono: “Sono troppo timido, lo ammetto; ma per il resto non mi troverai stupido”. [II,21,3] Uno non ammetterà facilmente di non essere padrone di sé, non interamente di essere ingiusto, per niente di essere invidioso od indiscreto; quanto all’essere pietosi, la maggior parte ammetterà di esserlo. [II,21,4] Cos’è causativo di ciò? Il motivo dominante è l’incoerenza con la natura delle cose e lo sconcerto nei giudizi circa beni e mali. Altri causativi sono diversi da persona a persona, e quasi tutto quanto immagineranno brutto le persone non lo ammettono per niente. [II,21,5] L’essere timidi lo immaginano di un carattere costumato, e pure l’essere pietosi. Essere sciocchi invece, definitivamente da schiavi. E stonature circa la società per niente le ammettono in sé. [II,21,6] Quanto alla maggior parte delle aberrazioni, essi sono portatissimi ad ammetterle perché immaginano che vi sia in esse qualcosa di involontario, appunto come nel timido e nel pietoso. [II,21,7] E se uno mai ammetterà di non essere padrone di sé, addiziona la passione amorosa così da essere perdonato come per un atto involontario. L’essere ingiusti, invece, lo immaginano nient’affatto involontario. V’è qualcosa di involontario anche nell’essere gelosi, secondo loro. Perciò ammettono pure questo.

L’esame di proairesi (8-10)

[II,21,8] Chi si aggira tra siffatti esseri umani così sconcertati, che a tal punto non sanno né quel che dicono né i mali che hanno o se li hanno od a fronte di che cosa li hanno o come li faranno cessare, credo meriti che costantemente rifletta: “Sono forse io pure uno di loro? [II,21,9] Che rappresentazione ho di me? Come mi uso? Forse anch’io come si usa un saggio, forse anch’io come uno padrone di sé? Forse anch’io dico di essere stato educato a fronteggiare checchessia verrà? [II,21,10] Ho la consapevolezza che deve avere chi nulla sa, di nulla sapere? Vengo dall’insegnante preparato ad ubbidirgli come ad un oracolo? Oppure anch’io, pieno di coriza, entro a scuola per imparare soltanto la storia e per capire dei libri che prima non capivo e poi, caso mai, per spiegarli ad altri?” 

Ancora l’esame di proairesi (11-14)

[II,21,11] O uomo, in casa hai fatto a pugni con il servetto, hai messo a soqquadro la casata, hai gettato nello sconcerto i vicini: e poi mi vieni a fare, da sapiente, il moderato? Siedi e giudichi come spiegai l’elocuzione, perché mai chiacchierai di quanto mi saltò in testa? [II,21,12] Sei venuto qui invidiando, con la proairesi serva perché da casa non ti viene portato nulla e, frammezzo ai discorsi che si fanno, siedi ma altro non rimugini se non come stanno le cose tra te e tuo padre o tuo fratello. [II,21,13] “Che dicono di me quelli là? Adesso credono che io faccia profitto e dicono ‘Quello verrà sapendo tutto!’ [II,21,14] Io vorrei in qualche modo ritornare dopo avere imparato tutto, ma c’è bisogno di molta fatica, nessuno mi manda nulla, a Nicopoli fare il bagno alle terme è schifoso, a casa stavo male e qua pure”.

Ma chi viene a scuola per imparare questo e non altro? (15-22)

[II,21,15] E poi dicono: “Nessuno trae giovamento dalla scuola”. Chi infatti viene a scuola, chi, con il proposito di essere curato? Chi per procurare che i suoi giudizi siano purificati; chi per consapevolizzarsi di quali giudizi ha bisogno? [II,21,16] Perché dunque vi stupite se riportate via questi stessi giudizi che a scuola portate? Infatti non venite per riporli o rettificarli o prenderne altri al posto loro. [II,21,17] Donde? Neppur vicino! Dunque scorgete piuttosto se vi accade ciò per cui venite. Voi volete cianciare sui principi generali della filosofia. E dunque? Non diventate più chiacchieroni? La scuola non vi procura del materiale per sfoggiare i principi generali? Non risolvete sillogismi e ragionamenti equivoci? Non perlustrate gli assunti del “Mentitore”, i ragionamenti ipotetici? Perché dunque fremete ancora se ciò per cui presenziate, questo prendete? [II,21,18] “Sì, ma se fosse morto il mio bimbo, o il fratello, o dovessi morire io, od essere torturato: a che mi gioveranno siffatte nozioni?” [II,21,19] Forse venisti per questo, forse è per questo che mi siedi accanto, forse è per questo che a volte accendesti la lucerna e vegliasti? O uscendo al passeggio coperto, invece di un sillogismo ti mettesti davanti qualche volta una rappresentazione e poi la perlustraste in comune? [II,21,20] Quando mai? E poi dite: “I principi generali della filosofia sono improficui”. A chi? A quanti non li usano come si deve. I colliri non sono improficui a quanti se li instillano quando e come si deve; non sono improficui gli impiastri; non sono improficui i manubri, ma improficui ad alcuni e proficui ad altri. [II,21,21] Se ora cercherai di sapere da me: “I sillogismi sono proficui?”, ti dirò che sono proficui e, se lo vorrai, ti dimostrerò come. “A me dunque, a che m’han giovato?” O uomo, tu non cercasti di sapere se sono proficui a te ma in generale. [II,21,22] Anche chi ha la dissenteria cerchi di sapere da me se l’aceto è proficuo e dirò che è proficuo. “A me dunque è proficuo?” Dirò: “No. Cerca innanzitutto di bloccare il tuo scarico, di far cicatrizzare le piaghette”. E voi, uomini, curate innanzitutto le piaghe, frenate le scariche, tranquillizzate l’intelletto, portatelo a scuola libero da distrazioni e riconoscerete che potenza ha la ragione!

CAPITOLO 22
SULL ‘ AMICIZIA

Salvo eccezioni rarissime, siamo tutti persone intelligenti e quindi sappiamo tutti amare quanto è bene. Ma vi è una certa differenza tra quanto ama una intelligenza che usa la controdiairesi -sia pur egli padre, fratello od amico-, e quanto ama una intelligenza che sa usare con arte la diairesi (1-11)

[II,22,1] Ciò su cui uno si industria, verosimilmente lo predilige. Dunque gli uomini si industriano forse sui mali? Nient’affatto! Forse su quanto non li riguarda? Neppure su questo. [II,22,2] Sopravanza quindi che essi si industriano sui soli beni; [II,22,3] e se se ne industriano, questi amano. Chi è dunque scienziato di beni è anche chi saprebbe amare. Chi invece non può distinguere i beni dai mali e l’udetero da entrambi, come potrebbe ancora costui amare? L’amare è quindi soltanto del saggio. [II,22,4] -”Ma come?”, dice, “io, pur essendo uno stolto, ugualmente amo il mio bimbo”- [II,22,5] Stupisco, per gli dei, di come hai in primo luogo ammesso di essere uno stolto. Che ti manca? Non usi la sensazione, non distingui le rappresentazioni, non fornisci al corpo i cibi idonei, un riparo, una dimora? Donde ammetti dunque di essere stolto? [II,22,6] Perché, per Zeus, spesso sei frastornato dalle rappresentazioni, sei sconcertato e la loro persuasività ti sconfigge. E concepisci le medesime cose una volta beni, poi proprio esse mali e successivamente udeteri. In complesso ti affliggi, hai paura, invidi, sei sconcertato, sei mutevole. Per questo ammetti di essere uno stolto. [II,22,7] E nel prediligere non sei mutevole? Concepisci che ricchezza di denaro, piacere fisico ed insomma le faccende stesse una volta sono beni, un’altra mali; e le medesime persone una volta buone ed un’altra cattive; le tratti una volta familiarmente ed un’altra da nemici personali; una volta lodi ed un’altra denigri. [II,22,8] -Sì, sperimento anche questo- E dunque? Chi è stato ingannato su qualcuno, reputi che gli sia amico? -Per niente!- E chi sceglie un amico con volubilità, può essergli benevolo? -Neppure costui- E chi ora ingiuria qualcuno e successivamente lo ammira? -Neppure costui- [II,22,9] E dunque? Non vedesti mai dei cagnolini scodinzolare e gli uni gli altri ruzzare, tanto da dire: “Non c’è niente di più amichevole”? Ma affinché tu veda cos’è amicizia, getta in mezzo a loro un pezzo di carne e lo riconoscerai. [II,22,10] Getta in mezzo a te ed al bimbo un fondicello e riconoscerai come il bimbo vuole sotterrarti in fretta e tu auspichi che il bimbo muoia. E poi tu, di nuovo: “Che figliolo tirai su! Da tempo vuole farmi il funerale”. [II,22,11] Getta una pupattola graziosa e se ne invaghisce chi è vecchio e chi è giovane; oppure, getta un po’ di reputazione. 

La prova che ce ne danno padre e figlio: Feres ed Admeto (11-12)

Se dovrai correre dei pericoli, avrai gli accenti del padre di Admeto: *Vuoi mirare la luce e reputi non volerlo il padre?* [II,22,12] Credi che egli non amasse il proprio bimbo quand’era piccolo e che non fosse in ansia quando aveva la febbre e che non dicesse spesso: “Magari avessi io piuttosto la febbre”? E poi quando la faccenda viene e si approssima, vedi che accenti lascia scappare! 

La prova che ce ne danno due fratelli: Eteocle e Polinice (13-14)

[II,22,13] Eteocle e Polinice non avevano la stessa madre e lo stesso padre? Non erano stati nutriti insieme, non avevano convissuto, giocato, non si erano coricati insieme e spesso l’un l’altro baciati? Sicché, credo, se uno li avesse visti avrebbe deriso i filosofi per i paradossi che dicono a proposito di amicizia. [II,22,14] Ma cadendo nel mezzo, come un pezzo di carne, la tirannia, vedi quel che dicono: *Dove starai mai davanti ai baluardi? -Perché me lo domandi?- Mi disporrò dinanzi a te per ucciderti. -Anch’io ho questa voglia- * e fanno tali auspici.

E’ sacrosanto, è assolutamente vitale che ciascuno ricerchi esclusivamente il proprio utile particolare (15-21)

[II,22,15] Giacché in generale, non ingannatevi, ogni creatura a niente è stata così imparentata come al proprio peculiare utile. Qualunque cosa le parrà dunque a questo intralciarla, sia esso fratello o padre, figliolo, innamorato, amante, essa lo odia, lo vilipende, lo maledice. [II,22,16] Giacché è nata per nulla tanto prediligere quanto il proprio utile; questo è padre, fratello, congeneri, patria e dio. [II,22,17] Qualora dunque noi reputiamo che gli Dei a questo ci intralcino, ingiuriamo anche loro, ne rovesciamo i delubri, diamo alle fiamme i templi come Alessandro, che intimò fossero dati alle fiamme quelli di Asclepio perché era morto il suo innamorato. [II,22,18] Per questo, se uno farà coincidere utile, sacrosanto, bello, e patria e genitori ed amici, tutto ciò è salvaguardato. Se invece porrà altrove l’utile ed altrove gli amici, la patria, i genitori e lo stesso giusto, tutto ciò sparisce schiacciato dal peso dell’utile. [II,22,19] Giacché dove saranno l’“io” ed “il mio”, là è necessario che propenda la creatura. Se nella carne, che là sia il dominante; se nella proairesi, che sia nella proairesi; se negli oggetti esterni, in questi. [II,22,20] Se quindi io sono là dov’è la proairesi, solamente così sarò amico e figlio e padre quale si deve. Giacché mi sarà utile serbare l’uomo leale, rispettoso di sé e degli altri, capace di tollerare l’intemperanza altrui, di astenersi dalla propria, capace di cooperare e custodire le relazioni umane. [II,22,21] Se invece porrò me stesso altrove ed altrove il bello, si potenzia così il detto di Epicuro che dichiara il bello essere: o niente o, se proprio qualcosa, credenza.

Il problema è sapere dove davvero risieda il proprio utile particolare (22-24)

[II,22,22] A causa di questa ignoranza gli Ateniesi litigavano con gli Spartani ed i Tebani con entrambi; il gran re di Persia con la Grecia ed i Macedoni con entrambi; ed ora i Romani con i Geti e, ancor prima, i fatti di Ilio accaddero per questo. [II,22,23] Alessandro era ospite di Menelao e se uno li avesse visti darsi l’un l’altro segni di amicizia, avrebbe diffidato di chi diceva che amici non erano. Ma fu buttato in mezzo a loro un pezzettino, una femminuccia graziosa, e per lui fu guerra. [II,22,24] E adesso qualora veda amici, fratelli che sembrano concordare, non dichiarare immantinente qualcosa sulla loro amicizia neppure se giureranno o diranno che è impossibile essere allontanati gli uni dagli altri.

I giudizi che fanno una persona intelligente ed insipiente ed i giudizi che fanno un uomo intelligente e saggio (25-30)

[II,22,25] L’egemonico dell’insipiente non è leale, non è ben saldo, è spregiudicato, vinto ora da una rappresentazione ora da un’altra. [II,22,26] Tu indaga non quel che indagano gli altri, se hanno gli stessi genitori, se sono stati del pari allevati e dallo stesso pedagogo; ma solo quello: dove pongono il loro utile, se esternamente o nella proairesi. [II,22,27] Se esternamente, non dirli amici; non più che leali o ben saldi o fiduciosi in se stessi o liberi; anzi neppure uomini, se hai accortezza. [II,22,28] Giacché non è un giudizio da uomo quello che fa mordere l’un l’altro, ingiuriarsi, pigliare luoghi isolati o piazze come belve le montagne e dimostrare in tribunale modi da rapinatori. Né quello che rende non padroni di sé, adulteri, corruttori; né di quant’altre contumelie gli esseri umani si coprono vicendevolmente a causa di questo solo ed unico giudizio: il porre se stessi e quanto è loro in ciò che è aproairetico. [II,22,29] Se invece sentirai dire che questi, gli uomini, davvero credono il bene solo là dov’è proairesi, dov’è il retto uso delle rappresentazioni; non impicciarti più se sono figlio e padre o fratelli o sono andati a scuola insieme e sono compagni. Riconosciuto soltanto questo, dichiara con fiducia che sono amici, come anche che sono leali, che sono giusti. [II,22,30] Giacché dov’é amicizia altrove da lealtà, da rispetto di sé e degli altri, da dedizione al bello ed a null’altro?

La prova che ce ne danno moglie e marito: Erifile ed Anfiarao (31-33)

[II,22,31] “Ma mi ha accudito per tanto tempo e non mi amava?” Donde sai, schiavo, se ha accudito te come dà di spugna ai suoi calzari, come striglia il bestiame? Donde sai se, buttando via il bisogno che ha di te come vasetto, non ti scaglierà via come un piattino rotto? [II,22,32] “Ma è mia moglie ed abbiamo convissuto tanto tempo!” E quanto era vissuta Erifile con Anfiarao, essendo anche madre, e di molti figlioli? Ma venne in mezzo una collana. [II,22,33] Cos’è una collana? Il giudizio su cose siffatte. Quello era il belluino, ciò che fa a fette l’amicizia, che non permette che una donna sia sposa ed una madre, madre. 

Rettificare i propri giudizi belluini ed abominevoli (34-37)

[II,22,34] E chi di voi si industria o per essere lui stesso amico di qualcuno o per acquisire un amico, stronchi questi giudizi, li odi, li scacci dal suo animo. [II,22,35] Così sarà, innanzitutto, non ingiuriatore di se stesso, non in contraddizione con se stesso, non dovrà pentirsi né tormentarsi. [II,22,36] Poi sarà del tutto schietto con l’altro che gli è simile e capace di tollerare l’intemperanza del dissimile; con lui mite, mansueto, indulgente come con un ignorante, come con chi cade in errore nelle questioni più grandi. Esasperato con nessuno, in quanto conosce con precisione il detto di Platone che “Ogni animo si defrauda della verità suo malgrado”. [II,22,37] Se no, effettuerete quant’altro effettuano gli amici: berrete insieme, starete nella stessa tenda, navigherete insieme e sarete nati dagli stessi genitori. Ma pure i serpenti. Amici però né quelli né voi, finché avrete questi giudizi belluini ed abominevoli.

CAPITOLO 23
SULLA FACOLTÀ DEL DIRE

Le meraviglie di cui è capace la Materia Immortale (1-4)

[II,23,1] Chiunque leggerebbe con più piacere e più facilmente un libro scritto con lettere ben cospicue. E chiunque non ascolterebbe più facilmente discorsi significati in locuzioni insieme decorose e confacenti? [II,23,2] Proprio non è da dirsi che non esiste alcuna facoltà enunciativa: giacché questo è da individuo insieme empio e vile. Empio, perché deprezza le grazie di cui siamo oggetto da parte della Materia Immortale ed è come se abolisse la profittevolezza della facoltà visiva od uditiva o della stessa facoltà vocale. [II,23,3] A casaccio dunque Zeus ti diede gli occhi? A casaccio frammischiò ad essi uno pneuma così potente e di tale arte nel suo lavoro da foggiare, pervenendo lontano, i modelli degli oggetti visti? [II,23,4] E quale messaggero è così veloce e solerte? A casaccio fece anche l’aria interposta così attiva e vibrante che la visione può penetrare attraverso di essa come attraverso un mezzo teso? A casaccio fece la luce, senza la cui presenza non vi era pro alcuno del resto?

La meraviglia delle meraviglie: la proairesi ed il suo primato (5-15) 

[II,23,5] O uomo, non essere ingrato né immemore delle cose migliori; ma per il vedere, il sentire e, per Zeus, per lo stesso vivere e per quanto ad esso coopera, per i frutti secchi, per il vino, per l’olio ringrazia la Materia Immortale. [II,23,6] E ricorda che essa ti ha dato qualcos’altro migliore di tutto questo: quanto le userà, le valuterà, conteggerà il valore di ciascuna. [II,23,7] Cos’è infatti che dichiara per ciascuna di queste facoltà, quanto una di esse merita? Forse ciascuna facoltà lo fa da sé? Hai mai sentito la facoltà visiva dire qualcosa di se stessa? Forse quella uditiva? Esse sono invece state posizionate per essere servitrici, come ministre e serve, della facoltà atta ad usare le rappresentazioni. [II,23,8] Se cercherai di sapere quanto merita ciascuno, da chi cerchi di saperlo? Chi ti risponde? Come può dunque esserci un’altra facoltà migliore di questa, che usa anche le restanti come ministre ed in prima persona le valuta e ne dichiara il valore? [II,23,9] Quale di quelle sa chi è e quanto merita? Quale di quelle sa quando si deve usarla e quando no? Qual è la facoltà che apre e chiude gli occhi e li distoglie da ciò da cui vanno distolti e ad altro li appressa? La visiva? No, ma la proairetica. Quale serra ed apre le orecchie? [II,23,10] Grazie a quale si diventa indiscreti e ficcanaso o, di nuovo, immoti ad un discorso? Alla uditiva? Non ad altra che la facoltà proairetica. [II,23,11] E poi quand’essa vede di trovarsi con altre facoltà tutte cieche e sorde, incapaci di notare altro eccetto quelle opere per le quali sono state posizionate a farle da ministre e servitrici, mentre essa sola scorge con acutezza e vede dall’alto non solo le altre facoltà e quanto merita ciascuna, ma anche se stessa; ebbene, è la proairesi per dichiararci che qualcos’altro è più possente di lei? [II,23,12] L’occhio aperto, che altro fa se non vedere? Ma se si deve guardare la moglie di qualcuno e come, chi lo dice? La facoltà proairetica. [II,23,13] Se bisogna fidarsi delle parole dette o diffidare e, fidandosi, essere stuzzicati o no, chi lo dice? Non è la facoltà proairetica? [II,23,14] E questa facoltà espressiva e di abbellire locuzioni -se proprio è una facoltà peculiare- che altro fa, qualora il discorso si imbatta su qualcosa, che imbellettare i nomignoli e comporli come i parrucchieri la chioma? [II,23,15] Se sia meglio dire o tacere, parlare così o cosà, se questo sia confacente o non confacente, il tempo di ciascuna cosa ed il bisogno, chi altro lo dice se non la facoltà proairetica? Vuoi dunque che essa pervenga a votarsi contro?

La proairesi soltanto è autodeterminativa (16-19)

[II,23,16] “E dunque,” dice, “se così sta la faccenda, può quanto fa da ministro essere migliore di ciò cui fa da ministro: il cavallo migliore del cavaliere, il cane del cacciatore, lo strumento del citarista, i servitori del re?” Cos’è che usa? La proairesi. [II,23,17] Cos’è sollecito di tutto? La proairesi. Cosa leva interamente di mezzo l’uomo, una volta per fame, un’altra per impiccagione, un’altra giù da un precipizio? La proairesi. [II,23,18] E poi qualcosa è più potente di questo negli uomini? Com’è possibile che l’impedito lo sia di quanto non è soggetto a impedimenti? [II,23,19] Cos’è per natura capace di intralciare la facoltà visiva? La proairesi e ciò che è aproairetico. Lo stesso vale per la facoltà uditiva, ed è allo stesso modo per la facoltà espressiva. Ma cos’è per natura capace di intralciare la proairesi? Nulla di aproairetico bensì essa, quando sia pervertita, se stessa. Per questo la proairesi diventa solo vizio o sola virtù.

Epicuro gioca a fare il modesto ma la modestia non è affatto una virtù (20-22)

[II,23,20] E poi, pur essendo la proairesi una facoltà così rilevante e sovraordinata a tutto il resto, che pervenga a dirci che delle cose che sono la più possente è la carne? Neppure se la carne stessa dicesse di essere essa la cosa più possente uno l’avrebbe tollerata. [II,23,21] Ora cos’è, o Epicuro, che dichiara questo? Che compila “Sul fine”, “La fisica”, “Sul Canone”? Che ha fatto scendere la barba? Che scrive, quando moriva: “mentre conduciamo l’ultimo ed insieme beato giorno…”? [II,23,22] La carne o la proairesi? E poi ammetti di avere qualcosa di migliore di questo e non sei pazzo? Sei davvero così cieco e sordo?

Perché mai ci si dovrebbe vergognare di dire la verità sulla proairesi, sulle altre facoltà e sui loro rapporti reciproci? (23-27)

[II,23,23] E dunque? Qualcuno deprezza le altre facoltà? Non sia mai! Qualcuno dice che non vi sia alcun bisogno o promozione al di fuori della facoltà proairetica? Non sia mai! Sarebbe dissennato, empio, ingrato nei confronti della Materia Immortale. Essa restituisce a ciascuno il suo valore. [II,23,24] Giacché c’è un certo bisogno dell’asino ma non quanto del bue; c’è bisogno del cane ma non quanto del domestico; c’è bisogno del domestico ma non quanto dei cittadini; c’è anche di questi ma non quanto dei magistrati. [II,23,25] Tuttavia non bisogna deprezzare l’utilità che procurano anche le cose diverse, a causa del fatto che altre sono migliori. Anche la facoltà espressiva ha un certo valore, ma non quanto la facoltà proairetica. [II,23,26] Qualora dunque io dica questo, non si creda che io solleciti da voi che trascuriate l’espressione: giacché neppure vi sollecito a trascurare gli occhi né le orecchie né le mani né i piedi né il vestito né i calzari. [II,23,27] Ma se cercherai di sapere da me: “Delle cose che sono qual è dunque la più possente?” Che dire? La facoltà espressiva? Non posso; ma la proairetica, qualora diventi retta. 

Perché mai ci si dovrebbe vergognare di dire la verità sugli esseri umani, sugli uomini e sui loro rapporti reciproci? (28-29)

[II,23,28] Giacché questo è quanto usa anche quella e tutte le altre, piccole e grandi arti e facoltà. Quando questo ha successo, nasce l’uomo dabbene. Quando fallisce, nasce l’individuo cattivo. [II,23,29] Rispetto a questo siamo sfortunati o fortunati, ci biasimiamo l’un l’altro o ci compiacciamo; insomma questo è ciò che fa infelicità quando trascurato e felicità quando centrato con solerzia.

Ogni facoltà va coltivata secondo il suo proprio valore (30-35) 

[II,23,30] Il rimuovere la facoltà espressiva e dire che non ne esiste alcuna, davvero non è soltanto da persona ingrata verso i datori ma anche da vile. [II,23,31] Uno siffatto mi sembra aver paura che, se appunto esiste una facoltà in quest’ambito, noi possiamo non spregiarla. [II,23,32] Siffatti sono anche coloro che dicono non esservi alcun divario tra avvenenza e laidezza. E poi sarebbero similmente mossi chi vede Tersite ed Achille? Similmente chi vede Elena ed una femmina qualunque? [II,23,33] Queste sono stupidaggini e rozzezze di coloro che non sanno la natura di ciascuna cosa ma hanno paura che se uno si accorgerà della differenza, subito parta rapito e sconfitto. [II,23,34] Ma il grande è questo: riservare a ciascuna cosa la facoltà che ha e, riservatala, vedere il valore della facoltà. Decifrare poi cos’è più possente e questo perseguire in ogni circostanza, su questo industriarsi, dopo avere fatto il resto accessorio e facendo tuttavia del proprio meglio per non trascurarlo. [II,23,35] Giacché bisogna esser solleciti degli occhi, ma non come della cosa più possente; piuttosto, anche degli occhi in funzione di quanto è più possente. Perché quello non starà secondo la natura delle cose altrimenti che operando razionalmente con questi e scegliendo certi oggetti invece di altri.

Non scambiare i mezzi con i fini: la meta di Ulisse era Itaca, non erano le Sirene (36-41)

[II,23,36] Cos’è dunque che accade? E’ come se uno, mentre se ne va verso la sua patria, transitasse per un magnifico albergo e, dal momento che gradisce l’albergo, sostasse lì. [II,23,37] O uomo, dimenticasti il tuo proposito. Non eri in viaggio per questo ma attraverso questo. “Ma questo è grazioso”. E quanti altri alberghi sono graziosi, quante praterie lo sono; semplicemente come transito. [II,23,38] L’obiettivo però era quello: ritornare in patria, allontanare i familiari dal timore, fare quel che fa un cittadino, sposarsi, fare figli, occupare le legittime cariche. [II,23,39] Giacché non sei venuto per selezionarti i posti più graziosi ma per condurti da uomo in quelli in cui nascesti ed ai quali sei stato assegnato cittadino. Qualcosa di siffatto accade anche qui. [II,23,40] Dacché si deve arrivare alla perfezione attraverso il discorso e siffatta trasmissione delle conoscenze; dacché si deve purificare la propria proairesi e strutturare retta la facoltà atta ad usare le rappresentazioni; dacché la trasmissione delle conoscenze accade necessariamente attraverso principi generali ed una certa loquela e con varietà e sottigliezza di principi generali; [II,23,41] alcuni catturati da questo sostano lì, uno dalla loquela, un altro dai sillogismi, un altro dai ragionamenti equivoci, un altro ancora da qualche altro albergo siffatto; e restano a marcire come presso le Sirene.

La meta dell’uomo è la retta proairesi, non l’eloquenza (42-45)

[II,23,42] O uomo, l’obiettivo era di strutturarti ad usare secondo la natura delle cose le rappresentazioni che ti incolgono; nel desiderio non fallendo il segno; nell’avversione non incappando in quanto avversi; mai sfortunato, mai preda di cattiva fortuna, libero, non soggetto a impedimenti, non soggetto a costrizioni; conciliato al governo di Zeus, a questo governo ubbidiente, di questo governo compiacendoti; non biasimando nessuno, non accagionando nessuno, potendo dire queste righe dall’animo intero: *Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato*. [II,23,43] E poi, mentre hai questo obiettivo, poiché gradisci una elocuzioncella, poiché gradisci certi principi filosofici generali, sosti lì e prescegli di dimorarvi, dimentico di quei di casa e dici: “Queste cose sono graziose”? E chi dice che non lo siano? Ma come transito, come alberghi. [II,23,44] Giacché cosa impedisce che chi si esprime come Demostene sia sfortunato? Cosa impedisce che chi risolve sillogismi come Crisippo sia meschino, pianga, invidi, insomma sia sconcertato, sia infelice? Nulla! [II,23,45] Vedi dunque che questi erano alberghi di nessun valore ed altro era l’obiettivo. 

Chi vuole fraintendere quel che dico sui mezzi e sui fini fraintenda pure e mi metta pure tra coloro che fanno danno a chi ascolta (46-47)

[II,23,46] Qualora io dica ciò ad alcuni, essi credono che io abbatta la sollecitudine per il dire o circa i principi filosofici generali. Ma io non abbatto questa bensì lo stare esclusivo ed incessante su questi argomenti ed il porre qui le proprie speranze. [II,23,47] Se uno, facendo riscontrare questo, danneggia gli ascoltatori, ponete anche me come uno dei danneggiatori. Se scorgo che la facoltà più possente e dominante è una, non posso, per gratificarvi, dire che è un’altra.

CAPITOLO 24
AD UNO DI QUELLI CHE DA LUI NON SONO STATI DEGNATI DI RISPOSTA

Anche saper ascoltare è un’arte (1-10)

[II,24,1] Quando uno gli disse ‘Spesso venni da te smaniando di ascoltarti e tu non mi rispondesti mai. [II,24,2] Ora, se possibile, ti prego di dirmi qualcosa’ Reputi, diceva Epitteto, che come di qualcos’altro così c’è un’arte anche del parlare e che chi l’ha parlerà espertamente mentre chi non l’ha parlerà inespertamente? [II,24,3] -Lo reputo- Pertanto parlerebbe espertamente chi attraverso il parlare giovasse a se stesso e fosse capace di giovare ad altri, mentre chi piuttosto si danneggiasse e danneggiasse altri costui sarebbe inesperto di quest’arte del parlare. Troveresti che alcuni sono danneggiati mentre altri traggono giovamento. [II,24,4] E tutti gli ascoltatori traggono giovamento da quanto ascoltano, oppure troveresti che alcuni di questi traggono giovamento mentre altri sono danneggiati? -Anche per questi è così, diceva- Pertanto, anche qui, quanti ascoltano espertamente traggono giovamento, mentre quanti lo fanno inespertamente sono danneggiati? -Lo ammetteva- [II,24,5] Esiste dunque una certa perizia, come del parlare così pure dell’ascoltare? -Somiglia- [II,24,6] Se decidi, analizzalo anche così. Toccare musicalmente qualcosa, di chi lo reputi? -Del musicista- [II,24,7] E che? Strutturare come si deve la statua, di chi ti pare proprio? -Dello scultore di statue- Ed il guardarla espertamente ti pare non avere bisogno di arte alcuna? -Anche questo ne abbisogna- [II,24,8] Se dunque il parlare come si deve è proprio dell’esperto, vedi che pure l’ascoltare giovevolmente è proprio dell’esperto? [II,24,9] Ma per il presente, se decidi, tralasciamo il perfettamente ed il giovevolmente, dacché siamo entrambi lungi da qualsiasi cosa siffatta. [II,24,10] Reputo però che ognuno ammetterebbe che chi ha intenzione di sentir parlare i filosofi abbisogna di alquanta consumata esperienza di ascoltatore. O no?

Il discente deve saper stimolare il docente (11-18)

[II,24,11] Di cosa debbo dunque parlare a te? Mostralo! Di cosa puoi sentir parlare? Di beni e di mali? Di chi? Del cavallo? -No- Ma del bue? -No- [II,24,12] E dunque? Dell’uomo? -Sì- Sappiamo dunque cos’è un uomo, qual è la sua natura, qual è il concetto di uomo? Abbiamo su questo le orecchie alquanto forate? Concettualizzi cos’è natura delle cose e puoi alquanto seguirmi mentre ne parlo? [II,24,13] Userò con te la dimostrazione? Come? Lo comprendi cos’è una dimostrazione o come qualcosa si dimostra o attraverso quali operazioni? Oppure quali operazioni sono simili ad una dimostrazione ma non sono una dimostrazione? [II,24,14] Sai cos’è vero e cos’è falso? Cosa consegue a che cosa, cosa contraddice che cosa oppure è incoerente con la natura delle cose o disarmonico? Che smuova te alla filosofia? [II,24,15] Come additarti la contraddizione dei più degli esseri umani, contraddizione per la quale essi litigano sui beni e sui mali, su quanto è utile ed inutile, se non sai proprio questo, ossia cos’è contraddizione? Mostrami cosa porterò a termine dialogando con te! Smuovimene lo slancio. [II,24,16] Come l’erba consona, apparsa alla pecora ne smuove la foga a mangiare, mentre non sarà smossa se le sistemerai accanto un sasso o del pane; così vi sono in noi certi naturali slanci anche a parlare, qualora chi ascolterà ci paia qualcuno, qualora ci stuzzichi. Ma se ci giacerà accanto come un sasso o del foraggio, come può smuovere il desiderio in un uomo? [II,24,17] La vite dice forse all’agricoltore “Sii sollecito di me”? Ma palesando lei da sé che sarà di vantaggio a chi ne ha sollecitudine, provoca alla sollecitudine. [II,24,18] I bimbi persuasivi e vivaci, chi non provocano a giocare con loro, a strisciare, a balbettare? Chi si slancia a giocare o ragliare con un asino? Pur se piccolo, ugualmente un asinello è.

L’ignoranza è causa della miseria morale degli esseri umani (19-20)

[II,24,19] -Perché dunque non mi dici nulla?- Io ho da dirti solo questo, che chi ignora chi è, per che cosa è nato, in che sorta di ordine del mondo e con quali soci, e quali sono i beni ed i mali, il bello ed il brutto; che non comprende né un ragionamento né una dimostrazione né cos’è vero né cos’è falso e neppure può distinguerli; che non desidererà, non avverserà, non impellerà, non progetterà, non assentirà, non dissentirà, non sospenderà il giudizio secondo la natura delle cose: in totale andrà in giro sordo e cieco reputando di essere qualcuno, mentre è nessuno. [II,24,20] E’ ora la prima volta che questo sta così? Non sta così fin da quando esiste il genere degli umani? Da quel tempo tutte le aberrazioni e le sfortune non sono nate per questa ignoranza? 

Agamennone ed Achille (21-23)

[II,24,21] Agamennone ed Achille perché litigavano l’un l’altro? Non era perché non sapevano cos’è utile e cosa non è utile? Uno non dice che è utile restituire Criseide al padre, mentre l’altro dice che non è utile? Uno non dice che deve prendere lui il bottino di guerra di un altro, e l’altro che non deve? Non è per questo che essi dimenticarono chi erano e per cosa erano venuti? [II,24,22] Permetti, o uomo, per cosa sei venuto? Per acquisire innamorate o per fare guerra? “Per fare guerra”. A chi? Ai Troiani od ai Greci? “Ai Troiani”. Tralasciato dunque Ettore, sguaini la spada contro il tuo re? [II,24,23] E tu, o ottimo, tralasciate le opere da re *a cui son tante genti commesse e tante cure*, fai a pugni per una pupattola con il più guerresco degli alleati, con chi si deve in ogni modo trattare con riguardo e proteggere? E diventi peggiore di un elegante sommo sacerdote il quale tratta i magnifici gladiatori con ogni solerzia? Vedi quali disastri fa l’ignoranza su quanto è utile?

I doni esteriori non sono noi (24-29)

[II,24,24] “Ma sono anch’io ricco di denaro!” Forse più ricco di Agamennone? “Ma sono anche magnifico!” Forse più magnifico di Achille? “Ma ho anche un ciuffo elegante!” E quello di Achille non era più magnifico e biondo? E non lo pettinava e plasmava con eleganza? [II,24,25] “Ma sono anche potente!” Puoi forse sollevare un sasso quanto Ettore od Aiace? “Ma sono anche di nobile stirpe!” Forse di madre divina, forse di un padre prole di Zeus? Che giova ciò ad Achille qualora seduto singhiozzi per la pupattola? [II,24,26] “Ma sono un oratore!” E quello non lo era? Non scorgi come ha trattato Odisseo e Fenice, i parlatori più valenti tra i Greci; come li ha fatti ammutolire? [II,24,27] Questo solo ho da dirti, e neppur questo con foga. -Perché?- [II,24,28] Perché non mi stuzzicasti. Giacché tenendo gli occhi sopra cosa sarò stuzzicato come i cavalieri coi cavalli purosangue? Sul tuo corpo? Lo plasmi in modo laido. Sul vestito? Anche questo è effeminato. Sull’atteggiamento; sullo sguardo? Su nulla. [II,24,29] Qualora tu voglia sentir parlare un filosofo, non dirgli: “Non mi dici nulla?”. Invece mostrati soltanto capace di ascoltare e vedrai come smuoverai chi parla.

CAPITOLO 25
COM ‘ È NECESSARIA LA LOGICA ?

La logica: anche per negarne la necessità bisognerebbe farne uso (1-3)

[II,25,1] Quando uno degli astanti disse ‘Persuadimi che la logica è proficua’ Vuoi, diceva Epitteto, che te lo dimostri? -Sì- [II,25,2] Dunque devo dialogare con un ragionamento dimostrativo? Ammettendolo, Donde dunque saprai se ti raggirerò? [II,25,3] Tacendo quello, Vedi, diceva, come tu stesso ammetti che la logica è necessaria se, sprovvisto di essa, neppur questo puoi imparare: se è necessaria o non necessaria.

CAPITOLO 26
COS’ È PECULIARE DELL ‘ ABERRAZIONE ?

Volere in violazione della natura delle cose è ignorare di disporre così la propria infelicità. Ogni aberrazione dell’essere umano include una contraddizione (1-3)

[II,26,1] Ogni aberrazione include una contraddizione. Dacché chi aberra non vuole aberrare ma avere successo, è manifesto che egli non fa quanto vuole. [II,26,2] Cosa vuole infatti effettuare il ladro? Il proprio utile. E dunque se rubare non gli è utile, non fa quanto vuole. [II,26,3] La contraddizione è per natura delle cose invisa ad ogni animo razionale e finché questo non comprenderà di essere in contraddizione, nulla impedisce che faccia cose contraddittorie. Ma comprendendolo, è del tutto necessario che si distorni dalla contraddizione e la fugga; così com’è amara necessità per chi si accorge che una cosa è falsa, dissentire dalla falsità. Finché però non lo immagina, le annuirà come vero.

Chi avrà insuccesso sta facendo quel che ignora di fare (4-5)

[II,26,4] Dunque è valente ragionatore, sia nello spronare sia nel contestare, chi può additare a ciascuno la contraddizione rispetto alla quale aberra e fargli riscontrare chiaramente come non fa ciò che vuole e fa ciò che non vuole. [II,26,5] Giacché se uno mostrerà questo, egli da sé se ne ritirerà arretrando. Ma finché non lo mostri non stupirti se persiste, giacché egli lo fa prendendone la rappresentazione di un successo.

L’intellettualismo socratico (6-7)

[II,26,6] Per questo Socrate, confidando in questa facoltà, diceva: “Io sono solito non procurare alcun altro testimone di quanto dico e mi accontento sempre dell’interlocutore, lo faccio votare, lo chiamo testimone e, pur essendo uno solo, questo mi basta per tutti”. [II,26,7] Infatti sapeva da cos’è smosso un animo razionale e che propenderà similmente alla bilancia, che tu lo voglia o no. Mostra una contraddizione ad un egemonico razionale ed esso se ne distornerà; ma se non la mostrerai, incolpa te stesso piuttosto che chi non ubbidisce.