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L’ALBERO DELLA DIAIRESI FRAMMENTI

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EPITTETO

nuovamente tradotto

da

FRANCO SCALENGHE

Εδέναι χρή, τι ο ῥᾴδιον δόγμα παραγενέσθαι νθρώπ, ε μ καθ’ κάστηνμέραν τ ατ κα λέγοι τις κα κούοι κα μα χρτο πρς τν βίον.

“E’ d’uopo sapere che un giudizio non diventa facilmente presente ad una persona se uno i medesimi giudizi ogni giorno non dicesse e sentisse dire ed insieme usasse per vivere”. (Fr. XVI)

I

Stobeo “Ecloghe”2, 1, 31. 
Di Arriano, discepolo di Epitteto. A chi si impicciava della sostanza.

Che m’importa, dice, se le cose che sono consistono di atomi o di omeomerie o di fuoco e terra? Non basta imparare la sostanza del bene e del male, le misure di desideri ed avversioni e, ancora, di impulsi e repulsioni ed usando queste come canoni governare i fatti della vita lasciando a spasso queste questioni al di là di noi? Le quali sono, caso mai, inafferrabili per l’intelligenza umana e, se pure uno ponesse che sono afferrabilissime, ma che pro dall’afferrarle? Non bisogna dire che hanno fastidi invano coloro che ascrivono queste questioni come necessarie alla definizione di filosofo? Dunque è forse ridondante anche la prescrizione che si trova a Delfi: il “Riconosci te stesso”? -Questa no, dice- Qual è dunque il suo significato? Se uno prescrivesse ad un coreuta di riconoscere se stesso, non presterebbe egli attenzione al precetto coll’impensierirsi sia dei compagni di coro che dell’armonia con essi? -Sì, dice- E se lo si prescrivesse ad un marinaio? E ad un soldato? E reputi l’essere umano una creatura che è stata fatta per se stessa oppure per la società? -Per la società- Da chi? -Dalla natura- Che cosa sia la natura e come governi l’intero e se esista oppure no, di questo non è più necessario impicciarsi.

II

Stobeo “Ecloghe”4, 44, 65.
Di Arriano discepolo di Epitteto. 

Chi è malcontento di quanto è presente ed è stato dato dalla fortuna è, in punto di vita, persona comune. Chi invece questo sopporta con generosità ed opera razionalmente verso quel che ne viene, merita di essere legittimato uomo dabbene. 

III

Stobeo “Ecloghe”4, 44, 66.
Del medesimo.

Tutto è sottomesso all’ordine del mondo e gli è servitore: la terra ed il mare, il sole ed i restanti astri, i vegetali e gli animali della terra. Anche il nostro corpo gli è sottomesso, ammalandosi ed essendo sano qualora esso lo disponga, ed essendo giovane ed invecchiando ed attraversando le altre trasformazioni. Pertanto è ragionevole che anche quanto è in nostro esclusivo potere, ossia la determinazione, non contenda sola con lui. Giacché esso è potente e migliore di noi ed ha preso a nostro riguardo il miglior consiglio ed anche noi governa insieme all’intero. Oltre a ciò la resistenza è dalla parte dell’irragionevole e, non facendo nulla più che ambasciare invano, fa precipitare in doglie ed afflizioni. 

IV

Stobeo “Ecloghe” 2, 8, 30. 
Musonio, Frammento 38 Hense.
Di Rufo. Dai passi di Epitteto sull’amicizia.

Delle cose che sono, Zeus pose alcune in nostro esclusivo potere, altre non in nostro esclusivo potere. In nostro esclusivo potere è la più bella e più degna d’industria, quella appunto per cui anche lui è felice, ossia l’uso delle rappresentazioni. Giacché quando quest’uso avviene rettamente ci sono libertà, serenità, buon umore, stabilità di giudizio. Retto uso delle rappresentazioni è anche giustizia, legge, temperanza e tutte quante le virtù. Tutto il resto non fece in nostro esclusivo potere. Pertanto è d’uopo che anche noi votiamo all’unanimità con la Materia Immortale e, discriminando così le faccende, pretendiamo per noi ad ogni modo quanto è in nostro esclusivo potere e deleghiamo quanto non è in nostro esclusivo potere all’ordine del mondo e che allegramente gli diamo spazio se avesse bisogno sia dei figli, sia della patria, sia del corpo, sia di qualunque altra cosa. 

V

Stobeo “Ecloghe” 3, 19, 13.
Musonio, Frammento 39 Hense.
Di Rufo. Da Epitteto sull’amicizia.

Chi di noi non ammira le parole dello spartano Licurgo? Giacché accecato ad un occhio da uno dei cittadini, ottenne in consegna il giovanotto dal popolo perché se ne vendicasse come decideva. Ma egli da ciò si astenne ed invece, educatolo e resolo chiaramente uomo dabbene, lo menò con sé a teatro. Agli Spartani che si stupivano “Quando lo presi,” diceva, “dalle vostre mani costui era oltraggioso e violento; ve lo restituisco acquiescente alla ragione e popolano”. 

VI

Stobeo “Ecloghe”3, 20, 60.
Musonio, Frammento 40 Hense. 
Di Rufo. Da Epitteto sull’amicizia.

Ma più di tutto opera della natura è l’allacciare e conciliare l’impulso alla rappresentazione del conveniente e del giovevole. 

VII

Stobeo “Ecloghe”3, 20, 61.
Musonio, Frammento 41 Hense.
Del medesimo.

Credere che saremo ben spregevoli per gli altri se non danneggeremo in ogni modo i principali nemici personali, è da individui estremamente ignobili e dissennati. Noi diciamo infatti che si capisce chi è ben spregevole anche dalla sua impossibilità di danneggiare; ma molto di più lo si capisce dalla sua impossibilità di giovare.

VIII

Stobeo “Ecloghe” 4, 44, 60.
Musonio, Frammento 42 Hense.
Di Rufo. Dai passi di Epitteto sull’amicizia.

Siffatta era, è e sarà la natura dell’ordine del mondo, ed è impossibile che gli avvenimenti accadano altrimenti da come ora accadono. E non soltanto gli esseri umani e le altre creature sulla terra hanno condiviso questo rivolgimento e trasformazione, ma lo condivide anche tutto quanto è materiale e, per Zeus, gli stessi quattro elementi si girano su e giù e mutano e la terra diventa acqua, l’acqua aria e questa di nuovo muta in etere. E medesimo è il modo della trasformazione dall’alto verso il basso. Se uno metterà mano a far propendere la mente a queste verità ed a persuadersi ad accogliere di buon grado il necessario, vivrà una vita equilibratissima ed armoniosissima.

IX

Gellio “Noctes Atticae” 19, 1, 14-21.

Un filosofo ben conosciuto della scuola Stoica….estrasse dalla sua sacca il quinto libro delle Diatribe del filosofo Epitteto, raccolte da Arriano ed indubbiamente conformi agli scritti di Zenone e di Crisippo. In quel libro, ovviamente scritto in greco, leggemmo un passo così concepito: “Le rappresentazioni dell’animo (che i filosofi chiamano fantasìai) da cui la mente di un essere umano è subito colpita non appena giunge all’animo l’apparenza di alcunché, non sono soggette né al suo libero giudizio né al suo controllo ma si fanno strada quasi con violenza, onde essere da lui conosciute. Invece gli assensi (che i filosofi chiamano sunkatathéseis) con cui le rappresentazioni medesime sono riconosciute, sono liberi giudizi e soggiacciono al controllo dell’essere umano. Per questo, quando si verifica qualche rumore spaventoso o dal cielo od in seguito al crollo di un edificio, oppure viene data d’improvviso la notizia di non so quale pericolo o si verifica qualcos’altro del genere, è necessario che anche l’animo del saggio per un momento ne sia scosso, si contragga ed impallidisca, non per la previsione di qualche male ma per la presenza di certi moti rapidi ed irriflessi i quali prevalgono sulle normali funzioni di mente e ragione. Nondimeno, subito dopo, il sapiente non dà il proprio assenso (questo significa où sunkatatìthetai oudé prosepidoxàzei) a quelle certe rappresentazioni (ossia alla spaventosità di queste rappresentazioni del suo animo) ma le scaccia e le respinge e non vede in esse nulla che egli debba temere. Questa, appunto, dicono che sia la differenza tra l’animo del sapiente e quello dell’insipiente. Questo ritiene veramente tremende e crudeli le cose che così gli sono apparse alla prima impressione e in seguito, come se fossero realmente terribili, dà loro anche il suo assenso e le fa diventare sua propria opinione (prosepidoxàzei è il termine che gli Stoici adoperano quando parlano di questo). Il sapiente, al contrario, dopo essere per un breve istante e fuggevolmente mutato di colore e d’espressione où sunkatatìthetai, ossia non dà il proprio assenso, ma conserva saldamente e con vigore il giudizio che aveva sempre avuto circa tali rappresentazioni, cioè che non sono affatto temibili e che spaventano con una falsa apparenza e con vana paura”. Nel libro sopra ricordato leggemmo che questo pensa e dice Epitteto, conformemente alle tesi Stoiche.

X

Gellio “Noctes Atticae”17, 19.
“Tollera l’intolleranza altrui” ed “Astieniti dall’intemperanza”

Ho udito Favorino dire che il filosofo Epitteto osservava come la maggior parte di costoro che paiono filosofare siano filosofi di questo genere: “àneu toù pràttein, mékri toù léghein” (che significa: non nei fatti, ma a parole). Vi è poi un’altra espressione ancora più veemente che Epitteto era solito usare e che Arriano ricorda nei libri da lui redatti raccogliendo i Discorsi del maestro. Quando si rendeva conto, dice, che un individuo che aveva perso il rispetto di sé e degli altri, che spendeva le sue energie in sregolatezze, dai costumi depravati, temerario, insolente nel parlare, che di tutto si curava fuorché dell’animo suo ebbene, dice, quando vedeva che un individuo di tal genere metteva le mani sulle opere e le discipline filosofiche, si accostava alla fisica, studiava la dialettica e cercava di conoscere e di indagare molti principi di quest’ordine di studi, allora chiamava a testimone dio e la lealtà degli uomini e spesso gridando riprendeva l’individuo in questione con queste parole: “O uomo, e dove la butti questa roba? Analizza prima se il recipiente è stato ripulito. Giacché se la butterai dove c’è presunzione di sapere, va in malora. E se imputridirà diventa orina od aceto o qualcosa ancor peggiore di questi”. Non ci sono certamente parole più gravi né più vere di queste, con le quali il grandissimo filosofo chiariva che le lettere e le dottrine filosofiche, quando vadano a riversarsi in un individuo falso e degenere, come in un recipiente sporco ed insozzato, si mutano, si trasformano, si guastano e, come egli diceva più cinicamente, diventano orina o qualcosa di più immondo dell’orina. Lo stesso Epitteto, come ho sentito ancora da Favorino, era solito dire che due sono i vizi di gran lunga più gravi e più ripugnanti di tutti, ossia l’intolleranza e l’intemperanza. Intolleranza, quando non tolleriamo né sappiamo reggere le offese che dobbiamo saper reggere; intemperanza, quando non ci tratteniamo dalle cose e dai piaceri dai quali dobbiamo saperci trattenere. “Pertanto”, diceva, “se uno avesse bene in mente queste due parole e si preoccupasse di farne le proprie regolatrici e governatrici, allora non cadrebbe mai in errore e vivrebbe una vita tranquillissima”. Queste erano le due parole che diceva: “anékou” ed “apékou”.

Xa

Arnobio “Adversus gentes” 2, 78.

Quando si tratta di sopravvivenza e della nostra salvezza personale, si devono fare cose anche senza riflettere. Così Arriano attesta che Epitteto abbia detto.

XI

Stobeo “Ecloghe”4, 33, 28.
Dalle Conversazioni protrettiche di Arriano

Ma Socrate, quando Archelao lo fece convocare con la promessa di farlo ricco di denaro, intimò di annunciargli che “Ad Atene quattro chenici di farina sono comperabili con un obolo e ci sono sorgenti d’acqua corrente”. Giacché se pure i miei averi non sono sufficienti, io però sono sufficiente per questi e così anch’essi lo diventano per me. O non vedi che Polo non recitava Edipo tiranno con voce più buona e piacevole dell’Edipo, errabondo e poveraccio, a Colono? E poi l’uomo generoso si mostrerà peggiore di Polo, così da non recitare bene ogni personaggio di cui lo cinga il genio? E non imiterà Odisseo il quale spiccava nulladimeno in cenci che in un purpureo manto di lana?

XII

Stobeo “Ecloghe”3, 20, 47.
Di Arriano

Vi sono individui animosissimi i quali, con quieta mitezza e come dominando l’ira effettuano quanto gli estremamente portati al rancore. Ebbene, bisogna stare in guardia dalla loro apparente inavvertenza perché molto peggiore dell’adirarsi furibondo degli altri. Questi infatti sono in fretta satolli di vendetta, mentre i primi la tirano per le lunghe come coloro che hanno delle febbricole.

XIII

Stobeo “Ecloghe” 1, 3, 50.
Dai Detti memorabili di Epitteto

Ma vedo, dice uno, anche gli uomini virtuosi andare in malora per fame e brividi- E gli individui che virtuosi non sono, non li vedi andare in malora per effeminatezza, cialtroneria, privazione del senso del bello? -Ma è brutto essere nutriti da un altro!- E chi altro, o infelice, si nutre da se stesso se non l’ordine del mondo? Pertanto chiunque incolpa la mente della Materia Immortale perché i malvagi non pagano il fio e perché sono potenti e ricchi di denaro, compie qualcosa di simile come se dicesse che, perduti gli occhi, essi non hanno pagato il fio perché le loro unghie sono sane. Ed io dico che differisce molto più la virtù dal patrimonio che gli occhi dalle unghie.

XIV

Stobeo “Ecloghe”3, 6, 57.
Dai Detti memorabili di Epitteto

e conducono in mezzo quei filosofi malcontenti i quali reputano non il piacere essere secondo natura ma sopravvenire a cose secondo natura come la giustizia, la temperanza, la libertà. Perché mai, dunque, l’animo si rallegra e rabbonisce per i beni del corpo che sono più piccoli, come dice Epicuro, mentre non gode per i suoi beni che sono sommi? Eppure la natura mi ha dato il rispetto di me e degli altri, e molte volte arrossisco alquanto, qualora concepisca qualcosa di brutto da dire. Questo movimento non mi permette di porre il piacere fisico come bene e fine della vita.

XV

Stobeo “Ecloghe”3, 6, 58.
Dai Detti memorabili di Epitteto

A Roma le donne hanno tra le mani la “Repubblica” di Platone, perché solleciterebbe che le donne siano comuni. Esse pongono mente alle frasi, non all’intelletto del filosofo; perché egli non intima di sposarsi e di coabitare uno con una sola femmina e poi decide le donne essere comuni, ma estirpa siffatto sposalizio e ne porta dentro un’altra forma. In complesso gli esseri umani si rallegrano di provvedere giustificazioni alle loro aberrazioni. Dacché la filosofia dice che non conviene sporgere a casaccio neppure il dito!

XVI

Stobeo “Ecloghe”3, 29, 84.
Dai Detti memorabili di Epitteto

E’ d’uopo sapere che un giudizio non diventa facilmente presente ad una persona se uno i medesimi giudizi ogni giorno non dicesse e sentisse dire ed insieme usasse per vivere.

XVII

Stobeo “Ecloghe” 3, 4, 91.
Di Epitteto

Quando dunque siamo invitati ad un convito, usiamo del presente. Se uno intimasse a chi ospita di sistemargli accanto del pesce o delle focacce, sembrerebbe assurdo. Ma nell’ordine del mondo chiediamo agli dei quel che essi non danno, pur essendo davvero molte le cose che essi ci hanno dato.

XVIII

Stobeo “Ecloghe” 3, 4, 92.
Del medesimo

Sono ameni, diceva, quanti fanno gran pregio di ciò che non è in nostro esclusivo potere! “Io,” dice, “sono migliore di te giacché ho molti fondi, mentre tu sei disteso dalla fame”. Un altro dice: “Io sono un consolare”. Un altro: “Io un procuratore”. Un altro: “Io ho capelli folti come lana”. Però cavallo non dice a cavallo: “Io sono migliore di te giacché possiedo molto fieno e molto orzo, le mie briglie sono dorate e la gualdrappa è variopinta,” ma “sono più veloce di te”. Ed ogni creatura è migliore o peggiore a seconda della sua propria virtù o vizio. Dunque soltanto dell’essere umano non c’è una virtù e bisogna che noi teniamo gli occhi sopra i capelli e le toghe ed i nonni?

XIX

Stobeo “Ecloghe” 3, 4, 93.
Del medesimo

I pazienti si adontano con il medico che non dà loro alcun consiglio e ritengono che disperi di loro. E perché uno non dovrebbe essere disposto verso il filosofo così da credere che disperi di vederci temperanti, se non ci dicesse più nulla di proficuo? 

XX

Stobeo “Ecloghe” 3, 4, 94.
Del medesimo

Coloro il cui corpo è ben disposto reggono le calure e i freddi. Così pure coloro il cui animo è virtuosamente disposto sopportano l’ira, l’afflizione, la grande letizia e le altre passioni. 

XXI

Stobeo “Ecloghe”3, 7, 16.
Di Epitteto

Per questo è giusto lodare Agrippino, perché essendo uomo di grandissimo valore non si lodava mai ma, se qualcun altro lo lodava, arrossiva. Costui, diceva, era uomo siffatto da scrivere sempre una lode della difficoltà che gli avveniva. Se avesse febbre, della febbre; se fosse vittima di discredito, del discredito; se andasse in esilio, dell’esilio. Ed una volta, diceva Epitteto, mentre stava per andare a colazione gli fu accanto un tale e gli disse che Nerone gli intimava di andare in esilio. E lui: “Dunque,” diceva, “andremo a fare colazione ad Ariccia!” 

XXII

Stobeo “Ecloghe” 4, 7, 44.
Di Agrippino

Quando era governatore, Agrippino provava a persuadere i da lui condannati che loro conveniva essere condannati. Giacché, diceva, io non faccio cadere giù il voto nei loro confronti da nemico o da rapinatore, ma come uno che ha sollecitudine e da tutore: come anche il medico consola chi è operato e lo persuade a prestarsi alle cure. 

XXIII

Stobeo “Ecloghe”4, 53, 29.
Di Epitteto

Stupefacente è la natura e, come dice Senofonte, amante delle creature. E dunque abbiamo affetto ed accudiamo il corpo, la cosa più spiacevole e sozza di tutte. Giacché se bisognasse per soli cinque giorni accudire il corpo del vicino, non l’avremmo retto. Vedi infatti cos’è alzarsi al mattino per sfregare i denti altrui e, fatto qualcosa di necessario, per detergere quelle parti. E’ effettivamente stupefacente prediligere una faccenda per la quale cotanto officiamo ogni giorno. Imbottisco questo sacco qui e poi evacuo: cos’è più gravoso di questo? Ma devo essere servitore della Materia Immortale. Per questo rimango e tollero di fare il bagno a questo misero corpicino, di foraggiarlo, di ripararlo. Quand’ero più giovane, mi ingiungeva anche qualcos’altro ed ugualmente lo tolleravo. Qualora la natura datrice ci sottragga il corpo, perché dunque non lo tollerate? -Lo amo, dice- Dunque, come dicevo ora, anche questa predilezione non te le l’ha data la natura? Ed essa dice: “Lascialo ormai e non avere più fastidi”.

XXIV

Stobeo “Ecloghe”4, 53, 30.
Del medesimo

Se finirà la vita da giovane, uno incolpa gli dei… [perché lo rapiscono anzitempo. Se poi, quando è vecchio, stenta a morire, anche in questo caso incolpa gli dei…] perché, essendo per lui ormai tempo di riposarsi, ha dei fastidi. Nondimeno, qualora si avvicini la morte, decide di vivere e manda per il medico e briga da lui di non lasciare addietro né foga né solerzia. Stupefacenti, diceva, sono gli esseri umani i quali vogliono né vivere né morire.

XXV

Stobeo “Ecloghe” 3, 20, 67.
Di Epitteto

Quando metti mano con minacciosa veemenza contro chiunque, ricorda di avvisarti che sei creatura mansueta; e non avendo compiuto nulla di selvatico, trascorrerai la vita senza pentimenti e senza dover rendere conti.

XXVI

Marco Aurelio “Ricordi” 4, 41.

Sei un’animuzza che sorregge un cadavere, come diceva Epitteto.

XXVII

Marco Aurelio “Ricordi” 11, 37.

Diceva di trovare un’arte circa l’assentire, e nell’ambito degli impulsi di custodire quanto fa attenti affinché siano con eccezioni, socievoli e secondo il merito. E di astenersi integralmente dal desiderio ed usare l’avversione per nulla di quanto non è in nostro esclusivo potere.

XXVIII

Marco Aurelio “Ricordi” 11, 38.

La gara dunque non è su quel che capita, diceva, ma sull’essere pazzi o no.

XXVIIIa

Marco Aurelio “Ricordi” 11, 39.

Socrate diceva: “Che volete? Avere animo di creature dotate di ragione o non dotate di ragione?” “Dotate di ragione”. “E quali dotate di ragione? Sane o insipienti?” “Sane”. “Perché dunque non cercate di averlo?” “Perché l’abbiamo”. “Perché dunque vi contraddite e litigate?”

XXVIIIb

Marco Aurelio “Ricordi” 4, 49, 2-6.

“Sfortunato me perché mi avvenne questo!” Non dire così, ma: “Fortunato me perché, pur essendomi avvenuto questo, continuo a saper dominare l’afflizione, a non essere lacerato dal presente ed a non avere paura di checchessia verrà”. Giacché qualcosa di siffatto poteva avvenire a tutti ma non tutti, per questo, avrebbero continuato a saper dominare l’afflizione. Perché dunque quella una sfortuna piuttosto che questa una fortuna? In complesso dici sfortuna dell’uomo ciò che non è un traviamento della natura dell’uomo? E reputi un traviamento della natura dell’uomo ciò che non è contro il piano della sua natura? E dunque? Hai imparato il piano della natura dell’uomo. Forse quanto avvenuto ti impedisce di essere giusto, magnanimo, temperante, assennato, non precipitoso, sincero, rispettoso di te e degli altri, libero e le altre cose grazie alla cui compresenza la natura dell’uomo ha quanto le è proprio? Orbene, di fronte ad ogni cosa che ti promuova ad un’afflizione, ricordati di usare questo giudizio: “Non che questo è una sfortuna ma che il sopportarlo generosamente è una fortuna”.

EPITTETO – FRAMMENTI DUBBI E SPURI

XXIX

Stobeo “Ecloghe”3, 35, 10.
Dal Manuale di Epitteto

In ogni circostanza, di nulla fatti così mente come della sicurezza; giacché far silenzio è più sicuro che parlare. Non permetterti poi di dire quanto sarà dissennato e pieno di denigrazioni.

XXX

Stobeo “Ecloghe” 4, 46, 22.
Di Epitteto

Non si deve ancorare una nave ad una sola àncora, né la vita ad una sola speranza.

XXXI

Stobeo “Ecloghe” 4, 46, 23.
Del medesimo

Sia con le gambe che con le speranze si deve traversare quel che si può.

XXXII

Stobeo “Ecloghe” 4, 46, 23.
Di Epitteto

E’ più necessario medicare l’animo che il corpo; giacché è meglio morire che vivere male.

XXXIII

Stobeo “Ecloghe” 3, 6, 59.
Democrito, Frammento 232 Diels.

Dei piaceri, i più rari deliziano di più.

XXXIV

Stobeo “Ecloghe”3, 6, 60.
Democrito, Frammento 233 Diels.

Se uno superasse l’equilibrio, le cose più deliziose diverrebbero le più sgradevoli.

XXXV

Florilegium, Cod. Paris. 1168

Nessuno è libero se non è padrone di se stesso.

XXXVI

Antonio Diogene 1, 21.

Roba immortale e sempiterna è la verità, che ci procura non un’avvenenza che appassisce con il tempo né una libertà di parola che può esserci sottratta da un processo, ma quanto è giusto e legale, distinguendolo da quanto è ingiusto e refutandolo.