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L’ALBERO DELLA DIAIRESI Libro I

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EPITTETO

nuovamente tradotto

da

FRANCO SCALENGHE

I quattro libri delle Diatribe di Epitteto sono né Dialoghi costruiti da Platone a tavolino né Orazioni scritte per sfoggio da Isocrate, ma la fedele registrazione -ad opera di Arriano- di un parlato dal vivo. Io ho cercato di conservare anche in italiano questa loro peculiarità e mi sono mantenuto molto aderente al testo greco. Chi legge lo tenga presente, e legga semplicemente con il “tempo giusto”.

ARRIANO a LUCIO GELLIO salve

Io non ho ‘compilato’ i Discorsi di Epitteto così come si compilerebbero degli scritti di questo genere, e tanto meno sono stato io a renderli di pubblico dominio, visto che affermo di non averli neppure compilati. Trascrivendo una per una, per quanto mi era possibile, le parole che sentivo dalla sua viva voce, io ho semplicemente provato a preservare sotto forma di appunti, a mia futura memoria, la testimonianza del suo modo di ragionare e della sua franchezza nell’esprimersi. Com’è verosimile che sia, si tratta delle parole che un uomo potrebbe dire ad un altro uomo in un dato momento, non quelle che si metterebbero per iscritto nel caso altri ci si imbattessero successivamente. Questo essendo il carattere dei miei appunti, essi sono però, io non so come, diventati di pubblico dominio senza che io lo volessi e senza che io ne fossi a conoscenza. Quanto a me, l’apparire non all’altezza di fare il ‘compilatore’ è cosa che mi concerne ben poco; e se qualcuno giudicherà di assai scarso valore i discorsi di Epitteto è cosa che riguarda Epitteto neanche un poco, giacché anche quando li faceva, egli manifestamente null’altro aveva di mira se non lo smuovere ed indirizzare le convinzioni degli ascoltatori alle imprese più nobili. Se i presenti discorsi ottenessero questo effetto, essi avrebbero il risultato che io credo sia d’uopo abbiano i discorsi dei filosofi. Se invece così non è, sappiano tuttavia coloro che qui s’imbattono in essi, che quando Epitteto li pronunciava era inevitabile che chi gli prestava orecchio sperimentasse esattamente l’effetto che egli voleva che quello sperimentasse. Se poi i presenti discorsi di per se stessi non ottengono questo effetto, forse sono io la causa di ciò, o forse è necessario che sia così. Stammi bene.

LIBRO  I

νθρωπε, προαίρεσιν χεις κώλυτον φύσει κα νανάγκαστον. τοτο νταθα ν τος σπλάγχνοις γέγραπται.

“Uomo, tu hai una proairesi per natura non soggetta a impedimenti e non soggetta a costrizioni. Qui, nelle viscere, questo è stato scritto”.  (I,17,21)

CAPITOLO 1 

Valentino Mazzola e figlio

SU  QUANTO  E’  IN  NOSTRO  ESCLUSIVO  POTERE  E  SU  QUANTO  NON  LO  E’ 

Una facoltà che sa valutare tutte le altre arti e facoltà ed anche se stessa (1-3)

[I,1,1] Delle altre arti e facoltà, nessuna troverete conoscitiva dei principi generali di se stessa e quindi neppure atta a valutarsi positivamente o negativamente. [I,1,2] La grammatica fino a che punto possiede conoscitività di principi generali? Fino a vagliare le lettere. La musica? Fino a vagliare la melodia. [I,1,3] Conosce dunque una di esse i principi generali di se stessa? Nient’affatto. Ma quando, se scriverai qualcosa per il compagno, c’è bisogno dei segni che vanno scritti, questi li dirà la grammatica; se però si deve scrivere o no per il compagno, la grammatica non lo dirà. Anche sulle melodie, allo stesso modo la musica: essa non dirà se ora si deve cantare e suonare la cetra oppure né cantare né suonare la cetra.

L’unica facoltà autoteoretica: la facoltà logica (4)

[I,1,4] Chi dunque lo dirà? La facoltà che conosce i propri principi generali e tutto il resto. E qual è questa? La facoltà logica: giacché questa sola è stata assunta per capire se stessa -chi è, cosa può, di quanto è venuta ad essere degna- e tutte le altre.

Sa usare le rappresentazioni (5-6)

[I,1,5] Cos’altro dice che l’oro è magnifico? Giacché esso non lo dice, è manifesto: lo dice la facoltà atta ad usare le rappresentazioni. [I,1,6] Cos’altro distingue musica, grammatica, le altre arti e facoltà; valuta i loro usi ed addita i momenti adatti? Nient’altro.

E’ il nostro solo e vero possesso, come dicono gli dei figli della diairesi degli uomini (7-9)

[I,1,7] Com’era dunque degno, gli dei fecero in nostro esclusivo potere soltanto quanto di tutto è più possente e dominante: il retto uso delle rappresentazioni. Il resto, invece, è non in nostro esclusivo potere. [I,1,8] Proprio che gli dei non volevano? Io reputo che, se potessero, ci avrebbero delegato anche quello; ma non potevano affatto. [I,1,9] Giacché essendo essi sulla terra ed allacciati ad un corpo siffatto e soci siffatti, come sarebbe possibile a questo riguardo non essere intralciati dagli oggetti esterni? 

Tutto il resto non dipende da noi, come dice Zeus, ossia la Materia Immortale (10-13)

[I,1,10] Ma che dice Zeus? “Epitteto, se fosse possibile anche il corpicino tuo, le tue coserelle avrei fatto libere e non soggette ad impacci. [I,1,11] Ora invece, non ti sfugga, questo è non tuo ma argilla elegantemente impastata. [I,1,12] Dacché ciò non potevo, ti diedi una certa vostra particolarità: questa facoltà di impellere e di repellere, di desiderare e di avversare ed insomma atta ad usare le rappresentazioni, della quale essendo sollecito e nella quale ponendo quanto è tuo, non sarai mai impedito, non sarai mai intralciato, non sospirerai, non biasimerai, non adulerai alcuno. [I,1,13] E dunque? Ti paiono forse piccole queste cose?” -”Non sia mai!”- “Ti accontenti dunque di loro?” -”Lo auspico dagli dei!”-

Noi invece crediamo il contrario e ci facciamo guidare dalla controdiairesi. Controdiairesi: il supergiudizio, contrario alla diairesi, che afferma in mio esclusivo potere quanto è non in mio esclusivo potere oppure non essere in mio esclusivo potere quanto invece è in mio esclusivo potere (14-17)

[I,1,14] Ora, mentre possiamo esser solleciti di una sola cosa e ad una sola esserci aggangherati, noi vogliamo piuttosto essere solleciti di molte ed a molte esserci vincolati: al corpo, al patrimonio, ad un fratello, un amico, un figliolo, un servo. [I,1,15] Dunque in quanto vincolati a molte, siamo da esse appesantiti e tirati in basso. [I,1,16] Per questo, se sarà impossibile navigare sediamo in ambasce e sbirciamo costantemente: “Che vento soffia?” -Borea- “Che c’è fra noi e lui? Quando soffierà lo Zefiro?” -Qualora lo reputi lui, o ottimo, od Eolo. Giacché cassiere dei venti Zeus non fece te, ma Eolo- [I,1,17] “E dunque?” -Bisogna strutturare ottimamente quanto è in nostro esclusivo potere ed usare il resto secondo che è per natura- “Com’è dunque per natura?” -Come Zeus disporrà- 

Plauzio Laterano e la diairesi (18-20)

[I,1,18] “Dunque ora a me solo troncare il collo?” E dunque? Vorresti che a tutti fosse troncato il collo per averne tu consolazione? [I,1,19] Non disponi di sporgere il collo come un certo Laterano che, a Roma, Nerone intimò fosse decapitato? Giacché sporse il collo, fu colpito e dopo essere un po’ indietreggiato, poiché la botta era stata debole, lo sporse di nuovo. [I,1,20] Ma ancor prima ad Epafrodito, il liberto di Nerone che viene da lui e lo interroga sul perché dell’essersi messo in urto con l’imperatore: “Se qualcosa disporrò”, dice, “parlerò al tuo Signore”. 

Diairesi: il supergiudizio che sa distinguere quanto è in mio esclusivo potere e quanto non lo è (21-22)

[I,1,21] “Cosa bisogna dunque avere a portata di mano in casi siffatti? Che altro se non la conoscenza di cos’è mio e cosa non è mio; cos’è in mia potestà e cosa non lo è? [I,1,22] Bisogna che io muoia: forse che pure gema? Che sia messo in catene: forse che pure mi lamenti? Che sia esiliato: forse qualcuno impedisce che rida, sia di buonumore, sia sereno? 

Proairesi: la facoltà logica degli esseri umani in quanto può scegliere di atteggiarsi diaireticamente o controdiaireticamente (23-25)

[I,1,23] “Dì i segreti”. Non li dico: giacché questo è in mio esclusivo potere. “Ma ti incatenerò”. O uomo, che dici? Me? Incatenerai la mia gamba, ma la proairesi neppure Zeus può vincerla. [I,1,24] “Ti butterò in prigione”. Butterai in prigione il mio corpicino. “Ti decapiterò”. E quando mai ti dissi che solo il mio collo è non mozzabile? [I,1,25] Questo dovrebbero studiare coloro che fanno filosofia, questo scrivere ogni giorno, in questo allenarsi.

Musonio Rufo ricorda a Trasea Peto che l’antidiairesi è un insieme di giudizi subordinati. Antidiairesi: l’insieme di giudizi subordinati operanti nel mondo reale su quanto è non in nostro esclusivo potere e che, in quanto complementare alla diairesi o alla controdiairesi, è competente a realizzare il progetto dell’una o dell’altra (26-27)

[I,1,26] Trasea era solito dire: “Voglio essere levato di mezzo oggi piuttosto che esiliato domani”. [I,1,27] Che cosa, dunque, gli disse Rufo? “Se tu selezioni questo per te come scelta più pesante, quale stupidaggine di selezione è mai questa? Se come la più leggera, chi te ne ha dato la possibilità? Non disponi di studiare ad accontentarti di quanto ti è stato dato?”

Paconio Agrippino sa usare da fuoriclasse diairesi e antidiairesi (28-32)

[I,1,28] Per questo, che diceva Agrippino? “Io non divento un intralcio a me stesso”. Gli fu annunciato: “Sei giudicato in Senato”. [I,1,29] -”Buona ventura! Ma è venuta l’ora quinta (a quest’ora era solito prendere un bagno freddo dopo essersi allenato): partiamo ad allenarci”- [I,1,30] Finito l’allenamento, uno viene da lui e gli dice: “Sei stato condannato”. -”All’esilio”, dice, “o a morte?”- “All’esilio”. -”E gli averi?”- “Non ti furono sottratti”. -”Dunque partiamo e faremo colazione ad Ariccia”- [I,1,31] Questo è avere studiato ciò che bisogna studiare, avere apprestato un desiderio non soggetto a impedimenti ed una avversione che non incappa in quanto avversa. [I,1,32] Bisogna che io muoia. Se già, muoio. Se fra poco, adesso faccio colazione, poiché è venuta l’ora, e poi allora sarò morto. Come? Come conviene a chi restituisce l’allotrio.

CAPITOLO 2

Tienanmen

COME  SI  SALVAGUARDEREBBE  IN  OGNI  CIRCOSTANZA  LA  PERSONALITA’ ?

Le contraddizioni sono insopportabili, le opposizioni reali sono sopportabilissime (1-4)

[I,2,1] Per la creatura logica, insopportabile è soltanto l’irragionevole; il ragionevole invece, è sopportabile. [I,2,2] Le botte non sono insopportabili per natura. -In che modo?- Vedi come gli Spartani si frustano quando imparano che è ragionevole. [I,2,3] -Ma essere impiccati non è insopportabile?- Eppure qualora uno sperimenti che è ragionevole, parte e si impicca.[I,2,4] Insomma, se faremo attenzione troveremo che la creatura umana da nulla è così oppressa come dall’irragionevole ed a nulla, di nuovo, così trascinata come al ragionevole.

Scelte diverse a seconda del valore che si conferisce a chi si è (5-11)

[I,2,5] Un diverso ragionevole ed irragionevole, appunto come pure un diverso bene e male, ed utile e inutile incolgono persone diverse. [I,2,6] Per questo soprattutto abbiamo bisogno di educazione a diairesizzare, così da imparare a adattare il pre-concetto di ragionevole ed irragionevole alle particolari sostanze in armonia con la natura delle cose. [I,2,7] E per la determinazione di ragionevole ed irragionevole, noi non adoperiamo soltanto i valori degli oggetti esterni, ma ciascuno anche quelli della propria personalità. [I,2,8] Giacché presiedere un pitale è ragionevole per chiunque scorga soltanto che se non lo presiede prenderà botte e non prenderà cibo, mentre se lo presiede non sperimenterà alcunché di rude o fastidioso. [I,2,9] A qualcun altro, invece, non solo sembra insopportabile presiederlo, ma anche tollerare un altro che lo presiede. [I,2,10] Se dunque cercherai di sapere da me: “Che presieda il pitale, o no?”; ti dirò che prendere cibo ha maggior valore del non prenderlo ed essere conciato maggior disvalore del non essere conciato. Sicché se commisuri a questo ciò che è tuo, parti e presiedi. [I,2,11] “Ma non sarebbe da me”. Questo bisogna che lo contribuisca all’analisi tu, non io. Giacché sei tu chi sa di te: quanto ti meriti ed a quanto ti smerci. Giacché individui diversi si smerciano a prezzi diversi.

Paconio Agrippino e Annio Floro: diairesi e controdiairesi (12-16)

[I,2,12] Per questo Agrippino, a Floro che analizzava se dover scendere in spettacoli di Nerone così da officiarvi anch’egli qualcosa, diceva: “Scendi”. [I,2,13] E cercando quello di sapere: “Perché tu non scendi?”, diceva che “Io neppure mi consiglio”. [I,2,14] Giacché chi una volta accondiscende all’analisi di siffatte alternative e vota i valori degli oggetti esterni, è prossimo a coloro che si sono dimenticati della propria personalità. [I,2,15] Cosa cerchi di sapere da me? “E’ preferibile la morte o la vita?” Dico la vita. [I,2,16] “Il dolore od il piacere fisico?” Dico il piacere. “Ma se non canticchierò, mi troncheranno il collo”. Parti quindi e canticchia; io invece non canticchierò.

Il filo della tunica e la striscia di porpora (17-18)

[I,2,17] “Perché?” Perché tu ritieni di essere un filo qualunque dei molti che formano la tunica. “E dunque?” Tu dovevi preoccuparti di come essere simile agli altri individui, come neppure il filo vuole avere qualcosa di singolare rispetto agli altri fili. [I,2,18] Io invece decido di essere porpora, quel pochino di splendido e causativo dell’apparire anche il resto confacente e magnifico. Perché dunque mi dici: “Assomiglia ai più”? E come sarò ancora porpora? 

Elvidio Prisco e Vespasiano: diairesi e controdiairesi (19-24)

[I,2,19] Questo vide anche Elvidio Prisco, e vide di farlo. Avendolo Vespasiano fatto avvertire di non entrare in Senato, rispose: “E’ in tuo esclusivo potere non permettermi di essere senatore; ma finché lo sarò, bisogna che io entri”. [I,2,20] “Orsù, ma se entri” dice “taci”. “Non interpellarmi e tacerò”. “Ma bisogna che io interpelli”. “E che io dica quanto mi pare giusto”. [I,2,21] “Ma se lo dirai, ti farò uccidere”. “Quando, dunque, ti dissi che sono immortale? Tu farai la tua parte ed io la mia. Tuo è far uccidere; mio, morire senza tremare. Tuo esiliare; mio uscire senza affliggermi”. [I,2,22] Che dunque giovò Prisco, essendo uno solo? E che giova la porpora alla toga? Che altro se non che vi spicca come porpora e si espone agli altri come paradigma di ciò che è magnifico? [I,2,23] Un altro, se Cesare gli avesse detto in siffatta circostanza di non venire in Senato, avrebbe detto: “Grazie perché mi risparmi”. [I,2,24] Ad una persona siffatta, Cesare neppure avrebbe impedito di entrare, ma sapeva che o starà immobile come un vaso di coccio o parlando dirà quanto sa che Cesare vuole e che vi ammucchierà sopra ancora di più. 

Un atleta coraggioso che sa agire secondo la dignità di colui che è (25-29)

[I,2,25] In questo modo anche un certo atleta che correva pericolo di morire se non si fosse amputato il pene, quando venne da lui il fratello (era un noto filosofo) e gli disse: “Orsù, fratello, che sei per fare? Amputiamo questo membro ed avanziamo ancora verso il ginnasio?”, non resse l’evento e, fattosi forza, morì. [I,2,26] Cercando uno di sapere: come fece questo? Come atleta o come filosofo? Come uomo, diceva Epitteto: uno che uomo è stato proclamato alle Olimpiadi e vi ha gareggiato, che da uomo si è condotto in siffatto rango, non uno unto presso Batone. [I,2,27] Un altro si sarebbe fatto mozzare anche il collo, se si potesse vivere prescindendo dal collo. [I,2,28] Siffatta è la personalità, così potente per gli abituati a contribuirla da se stessi nelle analisi. [I,2,29] “Orsù dunque, Epitteto, sbarbati”. Se sarò filosofo dico: “Non mi sbarbo”. “Ma ti stacco il collo”. Se per te è meglio, staccalo.

Personalità e consapevolezza della personalità si corrispondono direttamente (30-32)

[I,2,30] Uno cercò di sapere: -Donde ci accorgeremo, dunque, ciascuno della propria personalità?- E donde il toro solo, diceva Epitteto, quando un leone attacca si accorge della propria preparazione e si è messo davanti a difesa di tutta la mandria? Non è manifesto che insieme all’avere preparazione va subito incontro la consapevolezza di ciò? [I,2,31] E quindi chiunque di noi avrà siffatta preparazione, non la ignorerà. [I,2,32] Improvvisamente però uno non nasce toro né uomo generoso, ma deve esercitarsi d’inverno, prepararsi e non sussultare a casaccio per quanto non conviene. 

Il valore della proairesi (33)

[I,2,33] Soltanto, analizza a quanto vendi la tua proairesi. Se non altro, o uomo, non venderla a poco. Il grande e singolare conviene probabilmente ad altri, a Socrate ed agli uomini siffatti-

Con doti naturali e capacità diverse ma, quanto a virtù, uomini (34-37)

[I,2,34] -Perché dunque, se siamo nati per questo, non tutti, o molti, diventano siffatti?- Giacché i cavalli diventano tutti veloci, i cani tutti da braccheggio? [I,2,35] E dunque? Siccome sono bastardo, che mi distorni per questo dalla solerzia? Non sia mai! [I,2,36] Epitteto non sarà migliore di Socrate; se no, non peggiore: questo mi è sufficiente. [I,2,37] Giacché neppure sarò Milone, ed ugualmente non trascuro il corpo. Non sarò Creso, ed ugualmente non trascuro il patrimonio. né insomma ci distorniamo dalla solerzia per qualcos’altro poiché disperiamo di raggiungervene le vette.

CAPITOLO 3

Zeus

DALL ‘ ESSERE  LA MATERIA  IMMORTALE  PADRE  DEGLI  UOMINI, COME  SI  VERREBBE  AL  SEGUITO?

La Materia Immortale è padre degli uomini e gli uomini sono padri degli dei. Zeus, ossia la divinità, non è altri che la Materia Immortale (1-2)

[I,3,1] Se uno potesse essere consentaneo come merita al giudizio che siamo nati dalla Materia Immortale cardinalmente tutti e che Zeus è padre degli uomini e degli dei, io credo non avrà rimuginato su di sé nulla di ignobile o di miserabile. [I,3,2] Se Cesare ti adotterà, nessuno sorreggerà il tuo cipiglio; e se riconoscerai di essere figlio di Zeus, non ne sarai esaltato?

E’ vero che gli uomini sono fatti di animo e di corpo: animo mortale e corpo di Materia Immortale. Come si dispongono i pochi che inclinano a giudicare la nostra congenericità a Zeus come divina e beata? (3-4)

[I,3,3] Ora noi non lo facciamo, ma siccome nella nostra generazione sono state amalgamate queste due cose: il corpo comune agli animali, il discorso e l’intelligenza comune agli dei; alcuni inclinano a questa congenericità come sfortunata e cadaverica, pochi come divina e beata. [I,3,4] Quindi siccome è necessario che chiunque usi ciascuna cosa così come la concepirà, quei pochi che credono di essere nati per la lealtà, il rispetto di sé e degli altri, la sicurezza dell’uso delle rappresentazioni non rimuginano nulla di miserabile o  di ignobile su di sé, mentre i più fanno l’opposto.

Ed i molti che inclinano a giudicare la nostra congenericità alla Materia Immortale come sfortunata e cadaverica? Zoologia degli esseri umani (5-9)

[I,3,5] “Giacché, cosa sono? Un disgraziato ometto!” e “Le misere mie carni!” [I,3,6] Misere, effettivamente; ma hai anche qualcosa di meglio delle carni. Perché dunque, lasciato quello, ti sei agglutinato a queste? [I,3,7] Noi che incliniamo a questa congenericità diventiamo simili a lupi: sleali, insidiosi e dannosi. Altri diventano simili a leoni: selvatici, belluini e selvaggi. Ma i più di noi diventano volpi e come sfortune viventi. [I,3,8] Giacché cos’altro è un essere umano ingiurioso e maligno se non una volpe, o qualcos’altro più sfortunato e miserabile? [I,3,9] Vedete dunque e fate attenzione a non riuscire una di queste sfortune.

CAPITOLO 4

Quale profitto?

SUL PROFITTO

Comincia a fare profitto chi si solleva dal desiderio ed usa l’avversione soltanto nell’ambito di quanto è proairetico (1-2)

[I,4,1] Dopo aver imparato dai filosofi che il desiderio è desiderio di beni e l’avversione è avversione ai mali; dopo avere pure imparato che serenità e dominio sulle passioni promanano all’uomo non altrimenti che da un desiderio che non fallisce ed una avversione che non incappa in quanto avversa; chi fa profitto ha rimosso appieno da sé il desiderio o lo ha posposto, ed usa l’avversione solo per ciò che è proairetico. [I,4,2] Giacché se avverserà qualcosa di aproairetico, sa che una volta vi incapperà a dispetto della sua avversione ed avrà cattiva fortuna.

La virtù promette felicità, dominio sulle passioni, serenità (3-4)

[I,4,3] Se la virtù ha questa professione di fare felicità, dominio sulle passioni e serenità; anche il profitto verso di essa è affatto profitto verso ciascuna di queste. [I,4,4] Giacché sempre ciò cui la perfezione di qualcosa condurrà una volta per tutte, ebbene il profitto è una approssimazione ad esso.

Se sai dov’è la virtù, perché la cerchi altrove? (5)

[I,4,5] Come dunque ammettiamo che la virtù è qualcosa di siffatto ma cerchiamo e sfoggiamo il profitto in altro?

La virtù consiste forse nel riempirsi la mente di pensieri filosofici? (6-9)

[I,4,6] Cos’è opera di virtù? Serenità. Chi dunque fa profitto? Chi ha letto molti trattati di Crisippo? [I,4,7] La virtù non è questo avere capito Crisippo? Giacché se è questo, il profitto non è ammissibilmente altro che capire molto di Crisippo. [I,4,8] Ora noi ammettiamo che la virtù apporta una cosa, ma esibiamo che l’approssimazione ad essa, ossia il profitto, apporta altro. [I,4,9] “Costui” dice “può già leggere Crisippo anche da sé!” Bene, sì per gli Dei, fai profitto, o uomo! E che profitto!

Il profitto va cercato là dove sono le nostre proprie azioni: desiderio ed avversione, impulso e repulsione, assenso e sospensione dell’assenso (10-12)

[I,4,10] “Perché ti burli di lui? Perché lo meni via dalla consapevolezza dei suoi mali? Non vuoi mostrargli l’opera della virtù, affinché impari dove cercare il profitto?” [I,4,11] Cercalo là, disgraziato, dov’è l’opera tua. Dov’è l’opera tua? Nel desiderio e nell’avversione, per non fallire il segno nell’uno e non incappare nell’oggetto dell’altra; negli impulsi e nelle repulsioni, per essere al riparo da aberrazioni; nella proposizione e sospensione dell’assenso, per essere al riparo dall’inganno. [I,4,12] E primi sono i primi ambiti, i più necessari. Se cercherai di non incappare in quanto avversi tremando e piangendo, come fai profitto?

Non cercare il profitto in un luogo e le azioni da compiere in un altro (13-17)

[I,4,13] Tu dunque mostrami qui il tuo profitto. Appunto come se dialogassi con un atleta: “Mostrami le spalle”, e poi quello dicesse: “Vedi i miei manubri!”. Ma vattene tu ed i manubri: io decido di vedere il risultato dei manubri. [I,4,14] “Prendi il trattato “Sull’impulso”e riconosci come l’ho letto!” “Schiavo! Non cerco questo, ma come impelli e repelli; come desideri ed avversi, come progetti, proponi e ti prepari: se in armonia con la natura delle cose od in disarmonia. [I,4,15] Se in armonia, mostramelo e ti dirò che fai profitto. Se in disarmonia, parti e non commentare soltanto i libri, ma scrivine anche tu di siffatti. [I,4,16] E che pro per te? Non sai che il libro intero vale cinque denari? E reputi che il suo commentatore meriti più di cinque denari? [I,4,17] Dunque, non cercate mai altrove l’opera ed altrove il profitto.

Il profitto nella virtù è profitto nella comprensione e nell’uso della diairesi (18-27)

[I,4,18] Dov’è dunque il profitto? Se uno di voi, distornatosi dagli oggetti esterni si è impensierito della propria proairesi per elaborarla e prodigarvisi così che risulti in armonia con la natura delle cose: elevata, libera, non soggetta a impedimenti, non soggetta ad intralci, leale, rispettosa di sé e degli altri; [I,4,19] ed ha imparato che non può essere leale né libero chi brama o fugge cose che non sono in suo esclusivo potere, ma che è necessario che sia volubile e sventoli anch’egli insieme con quelle, e che è pure necessario che abbia subordinato se stesso ad altri, cioè a coloro che le possono procacciare od impedire e [I,4,20] orbene, dal mattino, appena alzatosi questo conserva e custodisce, fa il bagno da uomo leale, mangia da uomo rispettoso di sé e degli altri, allo stesso modo prodigando i principi cardinali sul materiale che sempre gli cade accanto, come chi corre fa con i principi cardinali della corsa e chi gorgheggia con quelli del gorgheggio; [I,4,21] ebbene costui è chi fa davvero profitto, chi non si è messo in viaggio a casaccio è costui. [I,4,22] Se invece è teso ad acquisire una costumanza libresca, si prodiga per questa e per questo è espatriato, gli dico di procedere immantinente verso casa e non trascurare le cose di là; [I,4,23] giacché ciò per cui si è messo in viaggio è nulla. Vale invece studiare a strappare dalla propria vita lutti e mugugni, gli “ohimé!”e gli “sciagurato me!”, cattiva fortuna e sfortuna; [I,4,24] ed imparare cos’è morte, cos’è esilio, cos’è carcere, cos’è cicuta, per poter dire nella prigione: “Caro Critone, se così è caro agli dei così sia!”; e non quegli “Sciagurato me! Vecchio arnese! Per questo serbai la mia canizie!” [I,4,25] Chi dice questo? Reputate che vi dirò di qualcuno screditato e miserabile? Priamo non lo dice? Edipo non dice così? Ma quanti re dicono così! [I,4,26] Che altro sono le tragedie se non passioni di individui infatuatisi degli oggetti esterni, sfoggiate in tale metro? [I,4,27] Giacché se uno dovesse essere ingannato per imparare che degli oggetti esterni ed aproairetici nessuno è per noi, io disporrei questo inganno, grazie al quale sarei poi per vivere con serenità e dominio dello sconcerto, e voi vedervi quel che volete. 

Crisippo, procurandoci la Verità per vivere bene, merita almeno gli stessi onori di Trittolemo (28-32)

[I,4,28] Che ci procura dunque Crisippo? “Affinché riconosca,” dice, “che non è falso ciò da cui nasce serenità ed a cui va incontro il dominio sulle passioni, [I,4,29] prendi i miei libri e riconoscerai come sia conseguente ed in armonia con la natura delle cose quanto mi fa capace di dominare le passioni”. Che grande buona fortuna! Che grande benefattore chi mostra la strada! [I,4,30] E poi a Trittolemo tutti gli esseri umani innalzano sacrari ed altari perché ci diede i cibi coltivati; [I,4,31] ma a chi la Verità trovò e illuminò e propalò a tutti gli uomini -non quella sul vivere ma quella per vivere bene-, chi di voi per costui eresse un altare od un tempio o dedicò un simulacro o per costui riverisce Zeus? [I,4,32] Perché diede vite o frumento, per questo offriamo sacrifici; ma perché portò fuori nell’umano intelletto un frutto siffatto grazie al quale era per mostrarci la Verità sulla felicità, per questo non ringrazieremo la Materia Immortale? 

CAPITOLO 5

I baroni

AGLI  ACCADEMICI

Sclerosi multipla…(1-2)

[I,5,1] Se uno, dice Epitteto, recalcitrerà davanti ad evidenze luminosissime, non è facile trovare un discorso con il quale lo si persuaderà a modificare avviso. [I,5,2] E ciò non nasce né dalla forza di quello né dalla debolezza dell’insegnante; ma qualora venga menato a pietrificarsi, come si userà ancora il discorso con costui?

…e necròsi dell’onestà intellettuale e del senso della decenza (3-5)

[I,5,3] Le pietrificazioni sono di due tipi: una è la pietrificazione del capire, l’altra quella del senso della decenza, qualora uno sia schierato per non annuire alle evidenze e non distornarsi dalle contraddizioni. [I,5,4] Noi, i più, abbiamo paura della necròsi del corpo ed escogiteremmo di tutto per non incappare in qualcosa di siffatto, ma nulla c’importa se si necrotizza l’animo. [I,5,5] E per Zeus, proprio quanto all’animo, se uno sarà così disposto da nulla comprendere e nulla mettere insieme, noi crediamo che costui stia male. Ma se di qualcuno sarà necrotizzato il senso della decenza ed il rispetto di sé e degli altri, questo lo chiamiamo persino forza.

L’Accademico è uno che è morto, ma non lo sa (6-10) [I,5,6] Afferri di essere sveglio? “No,” dice: “giacché neppure lo afferro qualora nel sonno immagini di essere sveglio”. Dunque questa rappresentazione non differisce per nulla da quella? [I,5,7] “Per nulla”. Dialogo ancora con costui? Quale fuoco, quale ferro appressargli perché si accorga di essersi cadaverizzato? Accorgendosene dissimula: è ancora peggio del cadavere. [I,5,8] Costui non nota una contraddizione: sta male. Costui, pur notandola, non ne è smosso né fa profitto: sta ancor più meschinamente. [I,5,9] Il suo rispetto di sé e degli altri ed il senso della decenza sono stati recisi, mentre la logicità non è stata mozzata ma si è abbrutita. [I,5,10] Che io dica questa forza? Non sia mai! A meno di non dire forza anche quella secondo cui i cinedi fanno e dicono tutto quanto salta loro in testa.

CAPITOLO 6

I cristalli

SULLA  MENTE  DELLA  MATERIA  IMMORTALE, OVVERO SULLA PRONOIA

Come non esiste causa del moto rettilineo uniforme di un corpo materiale, così non esiste causa della intelligenza della Materia. L’artista è dunque la Materia stessa, la quale dice: datemi miliardi di anni e dalle nude pietre vi farò nascere uomini (1-7)

[I,6,1] Da ciascuno degli avvenimenti nell’ordine del mondo è facile encomiare la mente della Materia Immortale se uno avrà in sé queste due cose: la facoltà di notare i fatti accaduti in ciascuno ed il senso della gratitudine. [I,6,2] Se no, uno non vedrà la profittevolezza dei fatti accaduti ed un altro non ringrazierà per essi neppure se la vedrà. [I,6,3] Che pro sarebbe se la Materia Immortale avesse fatto dei colori ma non avesse fatto una facoltà atta ad osservarli? -Proprio nessuno- [I,6,4] Ed all’opposto, se avesse fatto la facoltà ma le cose siffatte da non cadere sotto la facoltà visiva: anche così che pro? -Proprio nessuno- [I,6,5] E che, se avesse fatto entrambe queste ma non avesse fatto la luce? -Neppur così pro alcuno- [I,6,6] Chi dunque acconciò questo a quello e quello a questo? Chi acconciò il pugnale al fodero ed il fodero al pugnale? Nessuno? [I,6,7] Eppure proprio dalla struttura dei prodotti realizzati siamo soliti dichiarare che qualcosa è affatto opera di un artista e non strutturata a casaccio.

Come un corpo materiale, per inerzia, si muove; così la Materia, lasciata a se stessa, produce vita e pensiero. Ragione ed intelletto promanano dunque dalla Materia, come la legge dai cittadini (8-11)

[I,6,8] Dunque ciascuna di queste opere palesa l’artista ed invece gli oggetti visibili, la visione, la luce non lo palesano? [I,6,9] Il maschile ed il femminile, la foga dell’uno e dell’altra per l’accoppiamento, la facoltà atta ad usare i pezzi per questo strutturati, neppure questo palesa l’artista? Ma per queste cose basta così. [I,6,10] E la siffatta struttura dell’intelletto secondo la quale, quando cadiamo su oggetti sensibili, non ne siamo semplicemente modellati ma estraiamo qualcosa, sottraiamo, addizioniamo, ne facciamo varie composizioni e, per Zeus, ci spostiamo da alcune ad altre che giacciono come accanto: neppure questo è sufficiente a smuovere alcuni e ad indurre a non lasciare addietro l’artista? [I,6,11] Oppure ci spieghino cos’è che fa ciascuna di queste cose, o com’è possibile che opere d’arte così stupefacenti nascano a casaccio ed automaticamente. 

Anche le creature sprovviste di ragione usano le rappresentazioni, ma solo l’uomo ha la comprensione del loro uso (12-18)

[I,6,12] E dunque? In noi soli accade questo? In noi soli, molto: ed è ciò di cui aveva singolarmente bisogno la creatura logica. Ma molto troverai comune a noi ed alle creature sprovviste di ragione. [I,6,13] Dunque anch’esse comprendono gli avvenimenti? Nient’affatto! Giacché altro è uso ed altro comprensione. Zeus aveva bisogno di quelle come creature che usano le rappresentazioni; di noi invece, come creature che ne comprendono l’uso. [I,6,14] Per questo ad esse basta mangiare, bere, riposarsi, montare e quant’altro realizza ciascuna loro necessità; mentre a noi, cui diede anche la facoltà della comprensione, questo è non più bastevole. [I,6,15] E se non lo effettueremo a modo, con posizionamento, conseguentemente alla natura ed alla struttura di ciascuno, non centreremo più il nostro fine . [I,6,16] Giacché di coloro le cui strutture sono differenti, differenti sono pure le opere ed i fini. [I,6,17] Quindi dove la struttura è atta solo all’uso, qui è bastevole usare in un modo qualunque. Dove invece è atta anche alla comprensione dell’uso, se non vi sarà congiunto l’ “a modo” non si centrerà mai il fine. [I,6,18] E dunque? La Materia Immortale struttura ciascuna di quelle creature una per essere mangiata, una per essere servitrice in agricoltura, una per portarci formaggio e chi per uno o per altri bisogni similari. Opere per le quali che bisogno c’è di comprendere le rappresentazioni e poterle distinguere?

La natura dell’uomo (19-22)

[I,6,19] L’uomo invece essa lo introdusse quale spettatore di sé e delle sue opere; e non solo spettatore ma anche loro interprete. [I,6,20] Per questo è brutto per l’uomo iniziare ed esaurirsi laddove lo fanno anche le creature sprovviste di ragione. Ma piuttosto egli deve iniziare di qua ed esaurirsi su ciò su cui si esaurì su di noi anche la natura. [I,6,21] Ed essa si esaurì su conoscenza di principi generali, comprensione dell’uso delle rappresentazioni e il tragittarsela in armonia con la natura delle cose. [I,6,22] Vedete dunque di non morire senza essere stati spettatori di ciò. 

Il viaggio ad Olimpia ed il viaggio in noi stessi alla scoperta delle nostre risorse (23-29)

[I,6,23] Voi vi mettete in viaggio per Olimpia per vedere l’opera di Fidia e ciascuno di voi crede una sfortuna morirne all’oscuro. [I,6,24] E laddove neppure c’è bisogno di mettersi in viaggio, ma dove Zeus è già e presenzia con le opere, queste non smanierete di osservarle e capirle? [I,6,25] Quindi non vi accorgerete né di chi siete, né del per che cosa siete nati, né di cos’è quest’opera alla cui visione siete stati invitati? [I,6,26] -Ma accadono cose spiacevoli ed esasperanti nella vita- E ad Olimpia non accadono? Non siete accaldati? Non state allo stretto? Non fate il bagno malamente? Non vi inzuppate, qualora piova? Non fruite di trambusto e grida ed altre cose esasperanti? [I,6,27] Ma credo che sopportate e tollerate tutto questo, contrapponendogli la rinomanza della veduta. [I,6,28] Orsù, non avete ricevuto facoltà per le quali sopporterete tutto quanto avviene? Non avete ricevuto magnanimità? Non avete ricevuto virilità? [I,6,29] Non avete ricevuto fortezza? Che importa ancora a me, se sono magnanimo, di quanto può succedere? Cosa mi frastornerà o sconcerterà o cosa apparirà doglioso? Non userò la facoltà verso ciò per cui l’ho ricevuta, ma piangerò e sospirerò su quel che succede?

I mocci al naso di Eracle (30-36)

[I,6,30] “Sì; ma mi colano i mocci”. Per cos’hai dunque le mani, schiavo! Non anche per smocciarti? [I,6,31] -Dunque è ragionevole questo nascere mocci nell’ordine del mondo?- [I,6,32] E quanto meglio che tu ti smocciassi invece di incolpare? O cosa credi che Eracle sarebbe riuscito se non fossero nati un siffatto leone, un’idra, una cerva, un cinghiale e degli esseri umani ingiusti e belluini che egli scacciò e dei quali ripulì il mondo? [I,6,33] E che farebbe se nulla di siffatto fosse nato? Non è manifesto che dormirebbe avvolto nelle coperte? Pertanto innanzitutto, sonnecchiando la vita intera in siffatta effeminatezza e quiete non sarebbe diventato Eracle; e se proprio lo fosse diventato, che pro di lui? [I,6,34] Quale l’uso delle sue braccia e del rimanente vigore e fortezza e generosità, se siffatte circostanze e materiali non lo avessero sbatacchiato ed allenato? [I,6,35] E dunque? Bisognava che questi li strutturasse lui per sé e che cercasse di introdurre da qualche dove nel suo territorio un leone, un cinghiale, un’idra? [I,6,36] Questo è stupidaggine e pazzia! Invece, una volta nati e trovati, essi furono profittevoli per mostrare ed allenare Eracle.

Come Eracle, anche noi possediamo risorse e strumenti per farci onore attraverso quello che capita (37-43)

[I,6,37] Orsù dunque anche tu, accortoti di ciò, volgi lo sguardo alle facoltà che hai e tenendovi sopra gli occhi di’ : “Porta ora, o Zeus, la circostanza che disponi: giacché ho una preparazione datami da te e risorse per adornarmi attraverso quel che succede”. [I,6,38] No; ma sedete tremanti perché alcune cose non avvengano e, per quelle che avvengono, siete rammaricati, piangenti e gementi; e poi incolpate gli Dei! [I,6,39] Giacché cos’altro è conseguente a siffatta ignobiltà se non anche l’empietà? [I,6,40] Eppure proprio Zeus non soltanto ci diede queste facoltà, per le quali sopporteremo tutto quel che succede senza essere resi servi nella proairesi né rattrappiti da esso ma, ciò ch’era da buon re e davvero da padre, ci diede ciò non soggetto a impedimenti, non soggetto a costrizioni, disimpacciato; lo fece in nostro esclusivo potere nella sua interezza, non riservandosi al riguardo alcuna potenza di impedire od intralciare. [I,6,41] Ciò avendo libero e vostro, voi non lo usate né vi accorgete di cosa avete ricevuto e da chi; [I,6,42] ma sedete piangenti e gementi. Alcuni, ciechi sul datore stesso ed irriconoscenti al benefattore; altri, sviati dall’ignobiltà a lagnanze ed incolpazioni alla Materia Immortale. [I,6,43] Eppure io ti mostrerò che hai risorse e preparazione per magnanimità e virilità; tu mostrami che moventi hai per biasimare ed incolpare.

CAPITOLO 7

Ragionamenti

SULL ‘ USO  DI  RAGIONAMENTI  EQUIVOCI,  IPOTETICI  E  SIMILI

L’industrioso nella virtù impiega la logica per trovare, in ogni àmbito, la via a quanto è doveroso (1-4)

[I,7,1] Sfugge ai più che la trattazione dei ragionamenti equivoci, ipotetici ed ancora, di quelli che si portano a termine con domande ed insomma di tutti i ragionamenti siffatti, è in rapporto al doveroso. [I,7,2] Giacché noi cerchiamo come su ogni materiale l’uomo virtuoso troverebbe la via d’uscita e la condotta in esso doverosa. [I,7,3] Dicano pertanto che l’industrioso nella virtù o non accondiscenderà a domanda e risposta o che, avendo accondisceso, non sarà sollecito di non condursi a casaccio e come capita in domanda e risposta [I,7,4] oppure, non accettando nessuna di queste due posizioni, è necessario ammettere che si deve fare un qualche esame degli ambiti nei quali domanda e risposta soprattutto si rigirano. 

Ragionare significa saper valutare e distinguere il vero, il falso, il dubbio (5-12)

[I,7,5] Giacché cosa si professa in un ragionamento? Porre il vero, rimuovere il falso, sospendere il giudizio nel dubbio. [I,7,6] Dunque basta imparare soltanto questo? -Basta, dice- Pertanto anche a chi decide di non cadere in errore nell’uso della moneta basta sentir dire che accetti le dracme valide e rifiuti le invalide? [I,7,7] -Non basta- Cosa bisogna dunque aggiungere a questo? Che altro se non la facoltà di valutare e distinguere le dracme valide ed invalide? [I,7,8] Pertanto anche in un ragionamento non basta l’enunciato, ma è necessario che esso diventi valutativo e distintivo del vero e del falso e del dubbio? [I,7,9] -E’ necessario- Oltre a ciò, cos’è prescritto in un ragionamento? Accetta quel che consegue alle proposizioni da te ben concesse. [I,7,10] Orsù, basta dunque anche qui riconoscere questo? Non basta, ma bisogna imparare come una proposizione diventa conseguente a certe altre, ed a volte una consegue ad una sola, a volte comunemente a più. [I,7,11] Non è dunque necessario che aggiunga anche questa conoscenza chi è per condursi con comprendonio in un ragionamento, dimostrerà da sé ciascun assunto, comprenderà le dimostrazioni altrui e non sarà tratto ad errare da argomentazioni sofisteggianti come dimostrative? [I,7,12] Pertanto è intervenuta tra di noi la trattazione delle argomentazioni cogenti e delle figure topiche, e l’allenamento in esse ci è parso necessario. 
 
Conclusioni false da premesse sanamente concesse (13-21)

[I,7,13] Ma certo vi sono casi in cui abbiamo sanamente concesso gli assunti e ne deriva così e così: è una falsità ma nondimeno deriva. [I,7,14] Cosa mi è dunque doveroso fare? [I,7,15] Accettare la falsità? E come esserne capace? Dire: “Diedi spazio alle ammissioni in modo non sano”? Invero neppure questo è dato. Dire che: “Non deriva da ciò cui è stato dato spazio”? Ma neppure questo è dato. [I,7,16] Che si deve dunque fare in proposito? Come non basta avere preso denaro a prestito una volta per essere ancora debitori, ma bisogna che vi sia congiunto anche il persistere del debito e che esso non è stato estinto; così non basta, per dover dare spazio all’inferito l’avere concesso gli assunti, ma bisogna persistere nel dare loro spazio. [I,7,17] Certo, se essi rimangono fino alla fine quelli ai quali fu dato spazio, è del tutto necessario che noi persistiamo nel dare spazio e che ne accettiamo le conseguenze……..(lacuna).…….. [I,7,19] giacché né per noi né secondo la nostra scuola deriva più questo inferito, siccome ci distornammo dalla concessione degli assunti. [I,7,20] Bisogna dunque visitare anche siffatti profili degli assunti e quella siffatta loro trasformazione ed equivocità per cui, proprio nella domanda o nella risposta o nella deduzione fatta od in altro siffatto momento essi, prendendo equivocità, procurano ai dissennati che non scorgono la conseguenza, un movente per sconcertarsi. [I,7,21] Per cosa? Per non condurci in questo àmbito contro il doveroso né a casaccio né confusamente. 

Ragionamenti ipotetici (22-24)

[I,7,22] E lo stesso vale per le ipotesi ed i ragionamenti ipotetici. Giacché è necessario a volte postulare una certa ipotesi come passerella al ragionamento che seguita. [I,7,23] Bisogna dare spazio ad ogni ipotesi concessa o no? E se no, a quale? [I,7,24] Chi diede spazio deve permanere appieno nella conservazione o v’è quando deve distornarsene; e si deve accettare quanto consegue e non accettare le contraddizioni?

Il saggio sa certamente trattare problemi logici (25-29)

[I,7,25] -Sì- Ma uno dice: “Farò sì che tu, dopo aver accolto una ipotesi di possibilità, sia menato ad una impossibilità”. Il saggio non accondiscenderà al confronto con costui ma fuggirà indagine e colloquio? [I,7,26] E chi altro ancora è atto ad usare il ragionamento e valente in domande e risposte e, per Zeus, al riparo dall’inganno e dai sofismi? [I,7,27] Accondiscenderà, dunque; e non si impensierirà di non condursi a casaccio e come capita in un ragionamento? E come sarà ancora tal quale lo divisiamo? [I,7,28] Ma senza un qualche siffatto allenamento e preparazione, chi è capace di custodire il seguito? [I,7,29] Questo mostrino e tutti questi principi generali sono ridondanti: erano assurdi ed inconseguenti al pre-concetto di industrioso nella virtù.

La gravità degli errori logici (30-33)

[I,7,30] Perché siamo ancora inerti, pigri, languorosi e cerchiamo pretesti per non faticare e vegliare elaborando la nostra ragione? [I,7,31] -Se dunque errerò in questo, avrei forse ucciso mio padre?- Schiavo! giacché dov’era qua il padre perché lo uccidessi? Dunque, che facesti? Hai aberrato della sola aberrazione che c’era in quest’ambito. [I,7,32] Dacché proprio questo dissi anch’io a Rufo che mi rimproverava perché non trovavo la sola omissione in un certo sillogismo. “Non è,” dico, “quale avessi incenerito il Campidoglio”. E lui: “Schiavo!” diceva, “qua l’omissione è un Campidoglio”. [I,7,33] O queste sole sono aberrazioni: dare alle fiamme il Campidoglio ed uccidere il padre? L’usare le proprie rappresentazioni a casaccio, da matti, come capita e non comprendere un ragionamento né una dimostrazione né un sofisma né insomma scorgere il secondo me e non secondo me in domanda e risposta: nulla di ciò è aberrazione?

CAPITOLO 8

Concorso di bellezza

CHE  FACOLTÀ  ED  ARTI  NON  SONO  SICURE  PER  I  NON  EDUCATI  A  DIAIRESIZZARE

Epicherèmi ed entimèmi sono ben noti ai filosofi (1-3)

[I,8,1] I modi in cui è ammissibile commutare le forme degli epicherèmi e degli entimèmi nei ragionamenti, sono tanti quanti quelli in cui è possibile commutare i termini gli uni gli altri equivalenti. [I,8,2] Porta quale esempio questo modo: se prendesti a prestito e non restituisti, mi sei debitore del denaro; non prendesti a prestito e non restituisti: non mi sei certo debitore del denaro. [I,8,3] E questo a nessuno più che al filosofo conviene fare espertamente. Giacché se l’entimèma è un sillogismo imperfetto, è manifesto che chi è stato allenato nel sillogismo perfetto sarebbe nondimeno sufficiente anche nell’ imperfetto.

Lo studio della logica è subordinato alla vita virtuosa, non il contrario. Sii dunque orgoglioso della seconda, non tanto del primo (4-10)

[I,8,4] Perché mai dunque non ci alleniamo da soli e gli uni gli altri in questo modo? [I,8,5] Perché ora, seppure non allenati su questo né da me distratti dalla sollecitudine per l’etica, ugualmente non progrediamo nell’essere uomini. [I,8,6] Cosa è dunque d’uopo supporre, se aggiungessimo anche questo impegno? Soprattutto che sopravverrebbe non soltanto un impegno distante dai più necessari ma anche un movente, e non casuale, di presunzione e vanità. [I,8,7] Giacché grande facoltà ed arte è quella di argomentare e persuadere, soprattutto se godesse di frequente allenamento e dalle locuzioni aggiungesse a sé anche una certa confacenza. [I,8,8] E poi che in generale ogni facoltà ed arte che sopravvenga ai non educati a diairesizzare ed ai deboli nell’uso della diairesi, è malsicura riguardo all’esaltarsene ed invanirne. [I,8,9] Con quale accorgimento ancora uno persuaderebbe il giovane che si differenzia in queste cose, che non deve diventare lui appendice di quelle ma quelle addizionarglisi? [I,8,10] Invece, spiaccicati tutti questi discorsi, non ci cammina egli innanzi esaltato e borioso, neppure tollerando che uno lo tocchi per richiamargli alla memoria cosa si è lasciato addietro e dove si è inclinato?

Bene dell’uomo è quella certa capacità della proairesi di muoversi con successo tra diairesi ed antidiairesi, sapendo giocare correttamente con la seconda quando è doveroso giocarci ed usare con arte la prima quando è giusto usarla. Se poi la facoltà di argomentare e persuadere o la facoltà visiva non sono il bene dell’uomo, vanno forse abolite? (11-16) [I,8,11] E dunque? Platone non era un filosofo? Ippocrate non era un medico? Vedi come si esprime Ippocrate? [I,8,12] Dunque Ippocrate non si esprime così in quanto è medico? Perché mischi faccende che concorrono altrimenti nelle medesime persone? [I,8,13] Se Platone era magnifico e potente, bisognerebbe che anch’io seduto mi prodigassi per diventare magnifico o potente; come se ciò fosse necessario alla filosofia dacché un certo filosofo era insieme magnifico e filosofo? [I,8,14] Non vuoi accorgertene e distinguere in relazione a cosa gli uomini diventano filosofi e cos’è presente in essi altrimenti? Orsù, se io fossi filosofo, bisognerebbe che voi diventaste anche zoppi? E dunque? [I,8,15] Abolisco io queste facoltà ed arti? Non sia mai! Giacché neppure abolisco la facoltà visiva. [I,8,16] Ugualmente, se cercherai di sapere da me cos’ è il bene dell’uomo, non ho altro da dirti se non che è un certo modo della proairesi.

CAPITOLO 9

Mani

DALL’ ESSERE  NOI  CONGENERI  DI  ZEUS  COME  SI  VERREBBE  AL  SEGUITO ?

Grazie alla ragione noi possiamo chiamarci figli della Materia Immortale, cittadini del mondo e padri di dei (1-6)

[I,9,1] Se è vero quel che dicono i filosofi circa la congenericità di Materia Immortale ed uomini, che altro avanza agli uomini se non la conclusione di Socrate, di non dire mai a chi cerca di sapere di che paese è: “Ateniese” o “Corinzio”; ma: “del mondo”? [I,9,2] Infatti perché dici di essere Ateniese e non solo di quell’angolino in cui fu generato ed esposto il tuo corpicino? [I,9,3] Non è manifesto che da quanto è più dominante ed include non solo proprio quell’angolino ma anche l’intera tua casata ed insomma l’onde il genere dei tuoi avi è disceso fino a te, da qualche dove di qui tu ti chiami Ateniese o Corinzio? [I,9,4] Quindi chi ha compreso il governo dell’ordine del mondo ed ha imparato che “il massimo, più dominante e più inclusivo di tutti è l’insieme di uomini e Materia Immortale e che da quella sono caduti giù i geni non soltanto di mio padre e di mio nonno ma di tutte le creature che sulla terra sono generate e germogliano, e cardinalmente delle creature logiche; [I,9,5] e che solo queste sono nate per accomunarsi a Zeus in quanto intrecciategli dalla correlazione per via della ragione”; [I,9,6] perché non si dirà cittadino del mondo? Perché non si dirà figlio di Zeus? Perché avrà paura di quanto accade tra uomini?

Ed hai paura di non avere di che mangiare? (7-9)

[I,9,7] La congenericità con Cesare o qualcun altro dei magnati a Roma è sufficiente a procurare che ce la passiamo in sicurezza, al riparo dallo spregio e da qualsivoglia timore. Ed avere Zeus come fattore, padre e tutore, non ci strapperà da afflizioni e paure? [I,9,8] -E donde mangiare, dice, se non ho nulla?- E come fanno i servi, come fanno gli schiavi fuggiaschi, confidando in cosa si allontanano dai padroni? Nei fondi o nei domestici o nell’argenteria? In nulla, ma in se stessi. Ed ugualmente il cibo non viene loro meno. [I,9,9] Invece ci bisognerà che il filosofo si metta in viaggio facendo fiducia ed appoggiandosi ad altri, che non sia sollecito di sé, che sia peggiore e più vile delle belve senza ragione ciascuna delle quali si accontenta di se stessa né difetta del cibo familiare né di tragittarsela in modo consono e secondo natura?

Dalla scoperta di essere padri di dei non concludete che quelle del corpo sono solo catene, non abusate della diairesi e non affrettate irragionevolmente la vostra dipartita da questo mondo a causa della prepotenza degli individui che non sanno giocare con felicità tra diairesi ed antidiairesi (10-17)

[I,9,10] Io credo che chi è più anziano non dovrebbe sedere qui per escogitare qualcosa affinché non siate servi nell’animo né facciate su voi stessi meditazioni servili e ignobili; [I,9,11] ma affinché qui non s’imbattano giovani siffatti i quali, riconosciuta la congenericità con gli dei e che come catene ci siamo aggangherati il corpo, il suo patrimonio e quanto per via di questo ci diviene necessario per la amministrazione e la condotta della vita, questi dispongano di scaraventare via come pesi fastidiosi ed improficui e di partirsene verso i congeneri. [I,9,12] Questa gara dovrebbe gareggiare il vostro insegnante ed educatore a diairesizzare, se dunque ne fosse uno. Voi dovreste venire a dirmi: “Epitteto, non tolleriamo più di essere stati incatenati con questo corpicino e di nutrirlo, abbeverarlo, farlo riposare, ripulirlo e poi essere compiacenti con questi e con quelli per causa sua. [I,9,13] Non sono, queste, cose indifferenti e nulla in relazione a noi? La morte è forse un male? Non siamo congeneri di Zeus e non siamo venuti di là? [I,9,14] Lasciaci partire onde siamo venuti; lascia che siamo sciolti una volta da queste catene alle quali siamo stati agganciati e che ci appesantiscono. [I,9,15] Qui ci sono rapinatori, ladri, tribunali ed i cosiddetti tiranni, i quali reputano di avere qualche potestà su di noi per via del corpo e dei suoi possessi. Lasciaci mostrare loro che non hanno potestà su alcuno”. [I,9,16] E qui io dovrei dire: “Uomini, aspettate Zeus. Qualora egli lo significhi e vi licenzi da questo servizio, allora licenziatevi a lui; ma al presente tollerate d’essere stanziati in questo rango al quale egli vi posizionò. [I,9,17] Proprio poco è questo tempo della dimora, e facile per coloro che sono così disposti. Giacché quale tiranno o quale ladro o quali tribunali sono ancora paurosi per coloro che hanno fatto poco conto del corpo e dei suoi possessi? Rimanete, non partite irragionevolmente”. 

D’altra parte, cosa temete? A ciò cui gli infelici potenti sono interessati noi non volgiamo il pensiero, ed in quanto importa a noi essi sono impotenti (18-21)

[I,9,18] Qualcosa di siffatto dovrebbe accadere da parte di chi educa a diairesizzare verso i purosangue tra i giovani. [I,9,19] Ora invece, che accade? Cadaverico è l’educatore, cadaverici siete voi. Qualora siate foraggiati oggi, sedete a singhiozzare sul domani donde mangerete. [I,9,20] Schiavo! se ne avrai, ne avrai; se non ne avrai, uscirai: la porta è aperta. Perché piangi? Dove c’è ancora posto per le lacrime? Quale movente di adulazione vi è ancora? Perché uno invidierà l’altro? Perché uno si infatuerà di grandi possidenti o di coloro che sono posizionati al potere, soprattutto se saranno potenti ed iracondi? [I,9,21] Giacché cosa ci faranno? Di quanto essi possono fare, di questo noi non ci impensieriremo; quanto importa a noi, questo essi non possono. Chi dunque comanderà ancora su un uomo così disposto? 

Socrate (22-26)

[I,9,22] Come stava Socrate al riguardo? Come altrimenti da come dovrebbe chi è persuaso di essere congenere degli dei? [I,9,23] “Se ora mi direte” dice, “ …*noi ti rilasciamo a patto che tu non faccia più i discorsi che facevi finora e non ci scombussoli più né i giovani né i vecchi*….[I,9,24] risponderò che siete ridicoli a sollecitare che, se il vostro stratega mi avesse posizionato in un certo posizionamento, io dovrei conservarlo, custodirlo e scegliere diecimila volte di morire prima di disertarlo; mentre se Zeus ha assegnato ad un certo rango e condotta, questa bisogna che la disertiamo”. [I,9,25] Questo è un uomo davvero congenere degli dei! [I,9,26] Noi dunque come visceri, come budella, come coglioni pensiamo noi stessi perché abbiamo paura, perché smaniamo; ed aduliamo coloro che possono cooperare a questo, e questi medesimi temiamo. 

Non siate ignari delle vostre ricchezze: nessun uomo è sventurato a causa di un altro (27-34)

[I,9,27] Un tale mi sollecitò a scrivere a Roma in suo favore. Costui era reputato dai più non avere avuto fortuna e, persona prima notoria e ricca di denaro, successivamente ci aveva rimesso tutto e se la passava qui. [I,9,28] Ed io scrissi, in suo favore, con servilismo. Ma lui, letta la missiva, me la restituì e diceva: “Io disponevo di essere aiutato da te, non commiserato: a me non capita alcun male”. [I,9,29] Così pure Rufo, mettendomi alla prova, soleva dire: “Ti avverrà questo e quest’altro ad opera del padrone”. [I,9,30] E rispondendogli io: “Cose umane”; “E dunque? Prego ancora quello, quando posso prendere le stesse cose da te?” [I,9,31] Giacché effettivamente è superfluo e matto prendere da un altro quanto uno ha da se stesso. [I,9,32] Avendo dunque io modo di prendere da me stesso magnanimità e generosità, che prenda da te un fondo, del denaro od una carica? Non sia mai! Non sarò così insensibile ai miei possessi! [I,9,33] Ma qualora uno sia vile e servo nell’animo, che altro è necessario in suo favore se non scrivere missive come a favore di un cadavere: “Gratificaci della carcassa del tale e di un boccale di sangue”? [I,9,34] Effettivamente uno siffatto è una carcassa ed un boccale di sangue, nulla di più. Se fosse qualcosa di più si accorgerebbe che uno non ha cattiva fortuna a causa di un altro.  

CAPITOLO 10

L’arrivista

A  QUANTI  SI  INDUSTRIANO  PER  DELLE  PROMOZIONI  A  ROMA

Lo zelo che si pone nel fare carriera, non sarebbe degno di opere migliori? (1-6)

[I,10,1] Se fossimo stati concentrati sull’opera nostra così energicamente come i senatori, a Roma, su ciò per cui si industriano, probabilmente concluderemmo qualcosa anche noi. [I,10,2] So io quali parole mi disse una persona più anziana di me che ora è Prefetto dell’Annona a Roma, quando deviò qui di ritorno dall’esilio. Inveiva contro la sua vita precedente e professava che per il seguito, imbarcatosi, non si sarebbe industriato per altro che per tragittarsela in quiete e dominio sullo sconcerto per il resto della vita: “Giacché, quant’è ancora per me il resto della vita?” [I,10,3] -Ed io gli dicevo: “Non lo farai, ma solo fiutata Roma dimenticherai tutto questo”. E se si darà pure un passaggio a corte, io dicevo che si sarebbe fatto largo rallegrandosi e ringraziando Dio- [I,10,4] “Epitteto,” diceva lui, “se troverai che io pongo un solo piede a corte, concepisci di me quel che vuoi!” [I,10,5] Or dunque, che fece? Prima di arrivare a Roma gli recapitarono delle tavolette da parte di Cesare. Lui, presane conoscenza, si scordò di tutti quei propositi e, orbene, ha accumulato una carica sopra l’altra. [I,10,6] Vorrei stargli accanto ora, per richiamargli alla memoria i discorsi che faceva quand’era di passaggio qui e dirgli: “Quanto sono più raffinato indovino di te!”

La trascuratezza che si pone nel procurarsi la saggezza, non sarebbe degna di opere peggiori? (7-13) [I,10,7] E dunque? Dico io che la creatura uomo è infingarda? Non sia mai! Ma perché noi non siamo operosi? [I,10,8] Subito io per primo, qualora venga giorno richiamo un poco alla memoria cosa devo far rileggere e poi subito mi dico: “E che m’ importa di come legge tizio? Primo è che io stia coricato”. [I,10,9] Eppure perché le faccende di quei senatori sono simili alle nostre? Se rifletterete su quanto fanno, ve ne accorgerete. Che altro fanno il giorno intero se non votare, dibattere, consigliare su un po’ di grano, su un fondicello e su siffatti profitti? [I,10,10] E’ dunque simile prendere da qualcuno una supplichetta e leggere: “Ti prego di delegarmi l’ esportazione di un po’ di grano”; oppure: “Ti prego di esaminare qual è per Crisippo il governo dell’ordine del mondo e quale rango vi ha l’animale logico; esamina anche chi sei tu e cosa sono il tuo bene ed il tuo male”. [I,10,11] Queste istanze sono simili a quelle. Hanno bisogno di simile industria. [I,10,12] Trascurare queste e quelle è brutto allo stesso modo. E dunque? Noi soli siamo pigri e sonnecchiamo? No: ma prioritariamente voi giovani. [I,10,13] Dacché anche noi vecchi, qualora vediamo dei giovani giocare ci slanciamo pure noi a giocare con loro. Se vedessi voi risvegliati e pieni di slancio, molto più mi slancerei anch’io ad industriarmi con voi.

CAPITOLO 11

Padre e figlia

SULL ‘ AFFETTUOSITA’

Non sopportando che la bimba ammalata possa morire, invece di assisterla un padre scappa e torna soltanto a guarigione avvenuta. Si è comportato naturalmente? e rettamente?(1-8)

[I,11,1] Quando si recò da lui un pubblico ufficiale, Epitteto, cercando di sapere da quello dei particolari, gli domandò se avesse anche figlioli e moglie. [I,11,2] Poiché quello lo ammise, cercò ancora di sapere: e come usufruisci dunque della faccenda? -Da meschino, rispose- E lui: in che modo? [I,11,3] Giacché non è per questo che le persone si sposano e fanno figli, per essere meschini, ma piuttosto per essere felici. [I,11,4] -Ma io, diceva l’ufficiale, sto così meschinamente quanto ai bambini che l’altro giorno, essendo la mia figlioletta ammalata e sembrando in pericolo di vita, non ressi neppure a rimanere in casa con lei ammalata e sparii fuggendo fino a che qualcuno mi riportò che stava bene- E dunque? Ti pare d’aver fatto ciò rettamente? [I,11,5]-Naturalmente, diceva- Invero tu persuadimi di questo, diceva Epitteto, ‘naturalmente’ ed io ti persuaderò che tutto quanto accade secondo la natura delle cose accade rettamente. [I,11,6] -Questo, diceva l’altro, tutti o la maggior parte dei padri lo sperimentiamo- né io ti obietto, continuava Epitteto, che così non accade; ciò su cui siamo in disaccordo è se questo accade rettamente. [I,11,7] Dacché per questo bisognerebbe allora dire che anche i tumori nascono per il bene del corpo, perché nascono; ed insomma che aberrare è secondo la natura delle cose, perché quasi tutti o la maggior parte aberriamo. [I,11,8] Tu mostrami dunque come la tua condotta è secondo la natura delle cose. -Non posso, diceva l’ufficiale; tu piuttosto mostrami come è non secondo natura e non accade rettamente-

L’incerto inizio di un discorso dialettico (9-15)

[I,11,9] E lui: se ricercassimo, diceva, sul bianco e sul nero, quale criterio chiameremmo in causa per la loro diagnosi? -La visione, diceva l’altro- E quale sul caldo e sul freddo, sul duro e sul molle? -Il tatto- [I,11,10] Pertanto, siccome siamo in disaccordo su quanto accade secondo la natura delle cose ed accade rettamente o non rettamente, quale criterio disponi che assumiamo? [I,11,11] -Non so, diceva- Invero ignorare il criterio dei colori, degli odori ed ancora dei sapori non è, caso mai, gran punizione; ma reputi piccola la punizione per chi ignora quello del bene e del male, del secondo la natura delle cose e del contro la natura delle cose per l’uomo? -La massima, dunque- [I,11,12] Orsù, dimmi: tutto quanto sembra ad alcuni magnifico e conveniente, lo sembra rettamente? Ora, è possibile che tutto quel che sembra a Giudei, a Siri, ad Egizi ed a Romani in fatto di cibo, lo sembri rettamente? -E com’è possibile?- [I,11,13] Ma, credo, se sono rette le opinioni degli Egizi è del tutto necessario che non siano rette quelle degli altri; e se stanno bene quelle dei Giudei che non stiano bene quelle degli altri. -E come no?- [I,11,14] Laddove vi è ignoranza, là vi è anche incultura ed ineducazione sul necessario. -Ne conveniva- [I,11,15] Tu dunque, diceva Epitteto, accortoti di ciò, per null’altro di restante ti industrierai né ad altro avrai l’intelligenza che, una volta decifrato il criterio di quanto è secondo la natura delle cose, a sfruttarlo per distinguere ciascuno dei casi particolari.

Affettuosità e razionalità si contraddicono? o no? (16-20) 

[I,11,16] Sul caso presente, tanto ho da aiutarti per quanto vuoi sapere. [I,11,17] Reputi l’affettuosità secondo la natura delle cose e bella? -E come no?- E che? L’affettuosità è secondo la natura delle cose e bella, e la razionalità è non bella? [I,11,18] -Nient’affatto!- Quindi la razionalità non contraddice l’affettuosità? -Non mi sembra- Se no, quando uno dei termini contraddittori è secondo la natura delle cose, è necessario che l’altro sia contro la natura delle cose? o no? [I,11,19] -E’ così, diceva- Pertanto quanto troviamo essere del pari affettuoso e del pari razionale, lo dichiariamo con fiducia retto e bello? [I,11,20] -Sia, diceva- E dunque? Non credo tu obietti se affermo che non è razionalità lasciare la bimba ammalata e, lasciatala, partire. Sopravanza che consideriamo se è affettuosità. -Consideriamo-

E scappare, in questo caso, risulta affettuoso? e razionale? (21-26)

[I,11,21] Dunque tu, siccome eri affettuosamente disposto verso la bimba, rettamente facevi a fuggire ed abbandonarla? E la madre non ha affettuosità per la bimba? [I,11,22] -Certo ha affettuosità- Pertanto bisognerebbe che anche la madre la lasciasse? o non bisognerebbe? -Non bisognerebbe- E la balia? Ha affetto per lei? -Ha affetto, diceva- Bisognerebbe dunque che anche quella la lasciasse? -Nient’affatto!- [I,11,23] Ed il pedagogo? Non ha affetto per lei? -Ha affetto- Bisognerebbe dunque che anche quello, lasciatala, partisse; e poi che la bimba rimanesse così isolata e senza aiuto a causa della molta affettuosità di voi genitori e di chi le è intorno, da morire tra le mani di chi non ha per lei affetto né tutela? -Non sia mai!- [I,11,24] Invero non è iniquo e scriteriato non accordare a coloro che similmente hanno affettuosità, quanto uno crede convenirgli perché affettuoso? [I,11,25] -E’ assurdo- Orsù, essendo ammalato, tu decideresti di avere dei congiunti, figlioli e moglie compresa, così affettuosi da essere lasciato da loro solo ed isolato? [I,11,26] -Nient’affatto!- Auspicheresti di avere dai tuoi un affetto tale da essere abbandonato sempre solo nelle malattie a causa della loro troppa affettuosità o piuttosto auspicheresti, per questo, di avere l’affettuosità dei tuoi nemici personali, se fosse possibile, così da essere da loro abbandonato? Se così è, sopravanza che quanto effettuato da te non è assolutamente più affettuoso. 

La spiegazione sta in noi, non fuori di noi (27-29)

[I,11,27] E dunque? Niente ti muoveva ed impelleva a lasciare la bimba? E com’è possibile? Ma era tal quale quel che muoveva anche a Roma un tale a coprirsi il capo mentre correva il cavallo per cui parteggiava. Una volta il cavallo inopinatamente vinse, e lui ebbe bisogno di spugnaggi per essere recuperato dallo svenimento. [I,11,28] Cos’è dunque ciò? La precisione non è, caso mai, del momento presente. Se però è sano il detto dei filosofi, è bastevole essere persuasi che non bisogna cercarlo fuori di noi, ma che uno solo e medesimo è in ogni caso il causativo del fare o non fare noi qualcosa, dire certe parole o non dirle, esaltarsi o contrirsi, fuggire qualcuno od inseguirlo. [I,11,29] Questo è stato anche ora il causativo per me e per te: per te di venire da me e di sedere adesso ad ascoltare, e per me di dire questo. Cos’è questo?

E sta nei nostri giudizi (30-33)

[I,11,30] E’ proprio altro dal fatto che lo reputammo? -Niente- E se ci fosse parso altrimenti, che altro effettueremmo se non quanto reputammo? [I,11,31] Pertanto anche per Achille questo è causativo del piangere: non la morte di Patroclo (giacché un altro non sperimenta ciò quando il compagno muore), ma che lo reputò. [I,11,32] Anche per te allora, di fuggire, proprio questo che lo reputasti; e di nuovo, se rimarrai, che lo reputasti. Ora sali a Roma perché lo reputi; se reputerai altrimenti non partirai. [I,11,33] Insomma né morte, né esilio, né dolore, né altro di siffatto sono causativi dell’effettuare o non effettuare noi qualcosa ma concezioni e giudizi.

Dei nostri giudizi siamo padroni e responsabili noi, non le cose di fuori (34-40)

[I,11,34] Te ne persuado, o no? -Mi persuadi, diceva l’ufficiale- Quali sono i causativi in ciascun caso, tali sono anche i risultati. [I,11,35] Pertanto, qualora effettuiamo qualcosa non rettamente, da oggi in poi non accagioneremo altro che il giudizio in base al quale lo effettuammo, e quello proveremo ad estirpare e recidere più che i tumori e gli ascessi dal corpo. [I,11,36] Allo stesso modo dichiareremo ciò stesso causativo anche di quanto effettuato rettamente. [I,11,37] E non accagioneremo più né domestico, né vicino, né moglie, né figlioli quali causativi di qualche nostro male; persuasi che se non li reputeremo essere siffatti, non effettuiamo le opere conseguenti. Del reputare o non reputare siamo signori noi e non gli oggetti esterni. [I,11,38] -E’ così, diceva l’altro- Quindi da oggi null’altro sopravvedremo od indagheremo, cos’è qualcosa o come sta, né il fondo, né gli schiavi, né i cavalli od i cani, ma i giudizi. -Lo auspico, diceva- [I,11,39] Vedi dunque che devi diventare uno scolaro, questa creatura che tutti deridono, se proprio disponi di fare un esame dei tuoi giudizi. [I,11,40] Che poi questo non è affare di un’ora sola o di un giorno, lo divisi anche tu.

CAPITOLO 12

Applausi

SUL  COMPIACIMENTO

A differenza di quanto ne possano pensare, tra gli altri, Platone ed Aristotele ed a differenza di quanto affermino le orribili superstizioni su un Dio trascendente, dall’unica Materia Immortale e secondo le sue ottime leggi sono generati le stelle, i pianeti, i vegetali, gli animali, gli uomini e gli dei (1-3)

[I,12,1] A proposito di dei, vi sono alcuni i quali dicono che la Materialità neppure esiste; altri che esiste ma è inerte, trascurata e non si fa mente di nulla; [I,12,2] i terzi che esiste e si fa mente, ma dei corpi immensi e celesti e di nessuno dei corpi che sono sulla terra; per i quarti anche di quelli che sono sulla terra e degli umani, ma soltanto in comune e non anche peculiarmente di ciascuno; [I,12,3] quinti sono quelli, dei quali erano anche Ulisse e Socrate, che dicono: “né t’è veruno dei miei passi occulto”.

Usata rettamente la proairesi dell’uomo è capace di concepire di sé e della Materialità quelle rappresentazioni felicitanti, generose, liberatorie ed aderenti alla natura delle cose che si possono chiamare dei (4-7)

[I,12,4] Prioritariamente è dunque necessario avere esaminato se ciascuna di queste asserzioni è sana o è non sana. [I,12,5] Giacché se non vi sono dei, com’è un fine accompagnarsi a dei? Se esistono ma di nulla sono solleciti, anche così come sarà sano? [I,12,6] Ma certo esistendo ed essendo solleciti, se non v’è alcuna reciprocità tra loro e gli uomini e, per Zeus, anche proprio me; pure così, com’è ancora sano? [I,12,7] Dopo avere dunque esaminato tutto ciò, l’uomo virtuoso ha subordinato la propria intelligenza a chi governa l’intero, appunto come i buoni cittadini alla legge della città.

Usata scorrettamente la proairesi concepisce di sé e della Materialità quelle rappresentazioni infelici, grette, schiavizzanti ed irrispettose della natura delle cose caratteristiche, tra l’altro, dei monoteismi rivelati e degli idealismi. La liberazione dell’uomo dall’essere umano è il felice equilibrio di una proairesi che sa usare doverosamente l’antidiairesi e giustamente la diairesi senza aberrare né nell’una né nell’altra (8)

[I,12,8] Chi poi si sta educando a diairesizzare, è tenuto a venire ad educarsi con questo progetto: “Come accompagnarmi in ogni circostanza agli dei, come compiacermi del governo della Materialità, come diventare libero?”

Chi è libero; e che bisogna imparare ad essere liberi (9-16)

[I,12,9] Giacché libero è colui cui tutto accade secondo proairesi e che nessuno può impedire. [I,12,10] E dunque? Demenza è la libertà? Non sia mai! Pazzia e libertà non vengono al medesimo punto. [I,12,11] “Ma io voglio che succeda tutto quanto reputo ed in qualunque modo lo reputerò”. [I,12,12] Tu sei pazzo, vaneggi. Non sai che libertà è cosa bella e rimarchevole? Il volere come capita che accada quanto ho reputato come capita, corre pericolo non soltanto di non essere bello, ma la cosa più brutta di tutte. Come facciamo coi caratteri dell’alfabeto? [I,12,13] Decido di scrivere il nome “Dione” come voglio? No, ma mi viene insegnato a disporre che sia scritto come si deve. Che facciamo con le note musicali? Allo stesso modo. [I,12,14] Che facciamo, in generale, laddove è in gioco un’arte od una scienza? Se no, di nessun valore sarebbe l’avere scienza di qualcosa, se ciò si acconciasse alle decisioni di ciascuno. [I,12,15] Qui dunque, soltanto su quanto è massimo e sommamente dominante, sulla libertà, mi è stato accordato di volere come capita? Nient’affatto! Ma educarsi a diairesizzare è questo imparare a disporre ciascuna cosa così come accade. E come accade? Come la costituì il costitutore. [I,12,16] Costituì che vi fossero estate ed inverno, profusione e penuria, virtù e vizio e tutte le opposizioni siffatte per l’armonia dell’intero; ed a ciascuno di noi diede un corpo, delle parti del corpo, un patrimonio e dei soci.

Perché gli individui che non sanno giocare con diairesi ed antidiairesi riescono ad avere con le cose e con gli altri soltanto rapporti di dominio o di subordinazione, di sfruttamento o di ribellione e mai di razionale e gioiosa piacevolezza (17-21)

[I,12,17] Memori dunque di questa costituzione, bisogna venire ad educarsi a diairesizzare non per cambiare le premesse (giacché ciò non ci è dato né è meglio), ma perché stando le cose intorno a noi come stanno e come sono per natura, noi teniamo la nostra intelligenza conciliata agli avvenimenti. [I,12,18] E che? E’ fattibile fuggire le persone? E com’è possibile? Stando con loro, cambiarle? [I,12,19] E chi ce lo dà? Cosa dunque avanza o quale accorgimento si trova per usare con esse? Un uso siffatto per cui quelle faranno quanto loro pare e noi nondimeno staremo in accordo con la natura delle cose. [I,12,20] Ma tu sei indolente e ti dispiaci. Se sarai solo, chiami questo isolamento; se con persone, insidiose le chiami, e rapinatori. Biasimi anche i tuoi genitori e figlioli e fratelli e vicini. [I,12,21] Bisognerebbe che chi rimane solo chiamasse questo quiete e libertà, e si ritenesse simile agli dei. Stando fra molti, che lo chiamasse non folla né trambusto né spiacevolezza, ma festa e sagra, e così tutto accogliesse con compiacimento.

Qual è la punizione per chi non sa giocare con diairesi ed antidiairesi? Proprio il non saperci giocare, e lo stare come sta (22-26)

Qual è dunque il castigo per coloro che non accettano? [I,12,22] Lo stare come stanno. Uno si dispiace di essere solo? Stia in isolamento. Uno si dispiace dei genitori? Sia cattivo figlio e pianga. Si dispiace dei figlioli? Sia cattivo padre. [I,12,23] “Buttalo in prigione”. Quale prigione? Dove ora è. Giacché vi è suo malgrado, e dove uno è suo malgrado quella è per lui prigione. Per il che Socrate non era in prigione, giacché vi stava di buon grado. [I,12,24] “Dunque la mia gamba ha da essere storpiata?” Schiavo, e poi per una sola gambetta incolpi l’ordine del mondo? Non la darai all’intero? Non te ne distornerai? Non ti rallegrerai di dare spazio a chi te l’ha data? [I,12,25] Invece fremerai e ti dispiacerai delle costituzioni di Zeus; costituzioni che egli, con le Moire presenzianti e filanti la tua generazione, definì e costituì? [I,12,26] Non sai quanta parte sei rispetto all’intero? Questo, riguardo al corpo; ma quanto alla ragione, per nulla peggiore degli dei né più piccolo di loro. Giacché la grandezza della ragione non è determinata dalla lunghezza né dall’altezza, ma dai giudizi. 

Imparate a riconoscere la vostra vera ricchezza, quella per cui siete al di sopra di tutte le cose (27-35)

[I,12,27] Non vuoi dunque che il bene sia posto in qualche modo là, secondo ciò per cui sei pari agli dei? [I,12,28] “Sciagurato me, ho un padre siffatto ed una tale madre!” E dunque? Ti era dato avanzare per selezionare e dire: “Il tale venga insieme alla tale a quest’ora, affinché nasca io”? Non era dato. [I,12,29] Bisognava invece che preesistessero i tuoi genitori, così che poi fossi generato tu. [I,12,30] Da quali? Da tali quali erano. E dunque? Siffatti essendo essi, non ti si dà alcun accorgimento? Se ignorassi per cosa possiedi la facoltà visiva, avresti cattiva fortuna e saresti meschino se chiudessi gli occhi mentre ti si appressano dei colori; e poiché ignori di avere magnanimità e generosità per ciascuna di queste circostanze, non hai peggiore fortuna e non sei più meschino? [I,12,31] Ti si appressano cose consone alla facoltà che hai e tu soprattutto allora la distogli quando bisognerebbe averla aperta e mirante. [I,12,32] Non ringrazi piuttosto gli dei, poiché ti lasciarono al di sopra di quanto neppure fecero in tuo esclusivo potere e ti dichiararono responsabile soltanto di quanto è in tuo esclusivo potere? [I,12,33] Ti lasciarono non responsabile per genitori, non responsabile per fratelli, non responsabile per corpo, patrimonio, morte, vita. [I,12,34] Di cosa ti fecero dunque responsabile? Della sola cosa in tuo esclusivo potere: dell’uso quale si deve delle rappresentazioni. [I,12,35] Perché dunque ti tiri addosso ciò di cui non sei responsabile? Questo è procurarsi dei fastidi.

CAPITOLO 13

La costumatezza

COM ‘ E’  POSSIBILE  FARE  CIASCUNA  COSA  IN  MODO  GRADITO  AGLI  DEI 

Tutti siamo figli dell’unica Materia Immortale e fra di noi si comporta da dio chi sa fare del bene a se stesso mentre sa tollerare che altri facciano del male a loro stessi (1-5)

[I,13,1] Quando uno cercò di sapere com’è possibile mangiare in modo gradito agli dei; Se è possibile, diceva Epitteto, farlo con giustezza, costumatezza, e parimenti con padronanza di sé e compostezza, non è anche in modo gradito agli dei? [I,13,2] Qualora, avendo tu chiesto dell’acqua calda, il ragazzo non ti dia retta o ti dia retta ma la porti tiepida o neppure sia trovato in casa; il non esasperarsi né berciare, è non gradito agli dei? [I,13,3] -Ma come si fa a tollerare cose siffatte?- Schiavo! non tollererai tuo fratello, che ha Zeus per avo, come figlio nato dai medesimi geni e dalla stessa discendenza; [I,13,4] e se fosti assegnato a siffatto rango eminente subito ti istituirai tiranno? Non ti ricorderai cosa sei e su chi comandi? Che comandi su congeneri, fratelli per natura, discendenti di Zeus? [I,13,5] -Ma io ho il contratto del loro acquisto ed essi non hanno il mio- Vedi dove miri? Che miri a terra, al baratro, a queste disgraziate leggi di cadaveri e non miri a quelle degli dei? 

CAPITOLO 14

Stardust

CHE  IL  DIVINO  RIGUARDA  TUTTI

Ogni singolo atomo dei nostri corpi è stato sintetizzato in una stella… (1-4)

[I,14,1] Quando uno cercò di sapere come una persona potrebbe essere persuasa che ciascuna delle azioni da lui effettuate è riguardata da Zeus “Non reputi,” diceva Epitteto, “che il tutto sia unitario?” [I,14,2] -Lo reputo, diceva quello- E che? Non reputi che i fenomeni terrestri siano consentanei a quelli celesti? -Lo reputo, diceva- [I,14,3] Giacché donde così posizionatamente, appunto come per ingiunzione di Zeus, qualora egli dica ai vegetali di fiorire, fioriscono; qualora dica di germinare, germinano; qualora di portar fuori il frutto, lo portano fuori; qualora di maturarlo, lo maturano; qualora di nuovo di buttarlo via e perdere le foglie e, dopo essersi raccolti in se stessi, di rimanere quiescenti e riposarsi, rimangono quiescenti e si riposano? [I,14,4] E donde verrebbe che al crescere ed al diminuire della luna, alla processione e recessione del sole, si è spettatori di cotanto divario e trasformazione negli opposti dei fenomeni terrestri?

… e gli animi nostri stanno alla Materia Immortale come le nuvole all’atmosfera (5-6)

[I,14,5] Ma i vegetali ed i nostri corpi sono stati così avvinti all’intero e posti con esso in consentaneità, e gli animi nostri non lo saranno molto di più? [I,14,6] E se gli animi sono così avvinti e connessi alla Materia Immortale in quanto pezzi di lei e scintille, Zeus non si accorge di ogni loro movimento in quanto familiare e connaturato?

La stupefacente, divina capacità della Materia di farsi animo (7-10)

[I,14,7] Tu puoi ponderare sul divino governo, su ciascuno dei fenomeni immateriali e del pari sulle faccende umane. Puoi essere mosso da miriadi di faccende ora sensibilmente, ora intellettualmente, ora assentendo, ora da alcune dissentendo o sospendendo il giudizio. [I,14,8] Custodisci nel tuo animo cotanti modelli ricavati da molte e svariate faccende e muovendo da essi ti imbatti in divisamenti conformi ai fatti che li hanno originariamente modellati. Da miriadi di faccende preservi, una accanto l’altra, arti e ricordi. [I,14,9] E Zeus non è tale da riguardare tutto, essere compresente a tutto e da tutto avere una reciprocità? [I,14,10] Il sole è capace di illuminare una parte così rilevante del tutto e di abbandonare non illuminato quel poco che è capace di essere ricoperto dall’ombra che la terra fa; e la Materia Immortale che ha fatto il sole stesso e lo porta in giro, sole che è piccola parte di lei, parte piccola riguardo all’intero: questa Materia non può accorgersi di tutto? 

Zeus, ossia la Materia Immortale, dà a ciascuno di noi un patrimonio genico diverso (11-14)

[I,14,11] -Ma io, dice, non posso comprendere tutte queste cose insieme- Qualcuno ti dice forse che hai facoltà pari a Zeus? [I,14,12] E nondimeno egli, come delegato pose accanto a ciascuno il proprio genio e glielo trasmise da custodire: un genio insonne ed iningannabile. [I,14,13] A quale altro custode migliore e più solerte avrebbe trasmesso ciascuno di noi? Sicché, qualora chiudiate le porte e facciate buio all’interno, ricordate di non dire mai che siete soli. [I,14,14] Giacché non lo siete. Zeus è all’interno ed il vostro genio lo è. Che bisogno hanno questi di luce, per scorgere cosa fate?

Un retto giuramento (15-17)

[I,14,15] A questa Materia Immortale bisognerebbe che anche voi faceste un giuramento quale quello che i soldati fanno a Cesare. Quelli, poiché prendono il soldo, giurano di anteporre la salvezza di Cesare a tutto; voi, che siete stati degnati di cotanti e rilevanti doni, non giurerete o, dopo aver giurato, non manterrete il giuramento? [I,14,16] Cosa giurerete? Di non disubbidire mai né incolpare né lagnarvi di alcuna delle cose che da lei sono state date, né di fare o sperimentare alcunché di quanto è necessario, vostro malgrado. [I,14,17] Questo giuramento è simile a quello? Là giurano di non anteporgli un altro, qui giurate di anteporre voi stessi a tutto.

CAPITOLO 15

La filosofia

COSA  PROFESSA  LA  FILOSOFIA?

La filosofia non promette di procacciare all’uomo né amicizie né salute né celebrità, ma l’arte di vivere bene (1-5)

[I,15,1] Quando uno si consigliava sul come persuadere il fratello a non essere più esasperato con lui; [I,15,2] La filosofia non professa, diceva Epitteto, di procacciare all’uomo qualcuno degli oggetti esterni; se no si farà carico di qualcosa al di fuori del proprio peculiare materiale. Giacché come materiale del falegname è il legno e dello scultore di statue il bronzo, così materiale dell’arte della vita è per ciascuno la sua vita. [I,15,3] -Cos’è dunque quella del fratello?- Di nuovo è materiale dell’arte della vita di quello per lui, mentre per la tua è un oggetto esterno simile ad un fondo, simile alla salute del corpo, simile alla celebrità. La filosofia non professa nulla di ciò.[I,15,4] “In ogni circostanza serberò l’egemonico in stato di accordo con la natura delle cose”. -Quello di chi?- [I,15,5] “Quello di colui nel quale sono”. -Come fare, dunque, che quello non si adiri con me?- “Portamelo ed io gli parlerò; ma a te nulla ho da dire sulla sua ira”. 

Per cogliere questo frutto sono necessari tempo ed impegno (6-8)

[I,15,6] Quando chi si consigliava disse: “Questo cerco: come starei in accordo con la natura delle cose anche se quello non è riconciliato con me”; [I,15,7] Nessuna, diceva Epitteto, delle cose grandi lo diventa improvvisamente laddove non lo diventano neppure un racemo od un fico. Se ora mi dirai: “Voglio un fico”, ti risponderò: “C’è bisogno di tempo”. Lascia che dapprima fiorisca, poi fruttifichi, poi maturi. [I,15,8] Il frutto di un fico non si perfeziona improvvisamente od in un’ora, e tu vuoi acquisire in così poco tempo e come se niente fosse il frutto della intelligenza di un uomo? Non  supporlo neppure se te lo dirò io. 

CAPITOLO 16

Pirite

SULLA  MENTE  DELLA  MATERIA  IMMORTALE, OVVERO SULLA PRONOIA

Opere della intelligenza della Materia Immortale(1-5)

[I,16,1] Non stupitevi se le altre creature hanno avuto pronto quanto attiene al corpo, non soltanto cibi e bevande ma anche il giaciglio e non bisognano di calzari, di coperte, di vestiti, mentre noi abbisogniamo di tutto ciò. [I,16,2] Non sarebbe, infatti, vantaggioso avere fatto creature nate non per sé ma per servizio, bisognose d’altro. [I,16,3] Dacché vedi se sarebbe possibile preoccuparci di come vestire, calzare, cibare e dissetare non soltanto noi stessi ma anche le pecore e gli asini. [I,16,4] Come i soldati sono pronti per lo stratega calzati, vestiti ed armati; e sarebbe strano che il chiliarca dovesse andare in giro a calzare e vestire mille persone; così la natura ha fatto le creature nate per servizio pronte all’uso, preparate, che non abbisognano più d’alcuna sollecitudine. [I,16,5] E così un solo bimbo piccolo spinge avanti il gregge con una verga.

Opere della intelligenza della Materia Immortale in noi (6-14)

[I,16,6] Ora noi, mentre tralasciamo di ringraziare perché non siamo solleciti di loro di una sollecitudine pari a quella per noi, su noi stessi incolpiamo la Materia Immortale. [I,16,7] Eppure, per Zeus e per gli dei, uno solo dei fatti accaduti sarebbe bastevole a chi è rispettoso di sé e degli altri ed ha il senso della gratitudine per accorgersi della mente della Materia Immortale, ovvero della Pronoia. [I,16,8] Non penso ora alle cose grandi ma al generarsi di latte dall’erba, di formaggio dal latte e di lana dalla pelle. Chi le ha fatte o divisate? “Nessuno”, dice. Che grande insensibilità e sfacciataggine! [I,16,9] Orsù, tralasciamo le opere della natura ed osserviamone le opere accessorie. [I,16,10] Vi è qualcosa più improficuo dei peli sul mento? E dunque? Non adoperò anche questi nel modo più confacente possibile? Non distinse grazie ad essi il maschile ed il femminile? [I,16,11] Subito la natura di ciascuno di noi non strilla da lontano: “Sono un maschio; vienimi innanzi così, parlami così e non cercare altro: ecco i segni distintivi”? [I,16,12] Di nuovo per le femmine, come amalgamò nella voce qualcosa più delicato, così pure eliminò i peli dal mento. No, ma bisognerebbe che la creatura fosse abbandonata indistinguibile e che ciascuno di noi proclamasse: “Sono un maschio!” [I,16,13] E che magnifico segno distintivo, confacente e solenne! Quanto più magnifico della cresta dei galli, quanto più maestoso della criniera dei leoni! [I,16,14] Per questo bisognerebbe salvaguardare i segni distintivi di Zeus, bisognerebbe non gettarli via; non confondere, quanto a loro, i generi che sono stati ben discriminati. 

Inno alla Materia Immortale (15-21)

[I,16,15] Queste sole sono opere della mente della Materia Immortale, ovvero della Pronoia, su di noi? E quale discorso è bastante similmente a lodarle o farle riscontrare? Se avessimo accortezza, che altro dovremmo fare comunemente e peculiarmente se non inneggiare alla Materialità, dirne bene e ripercorrerne le grazie? [I,16,16] Mentre zappiamo, ariamo, mangiamo, non bisognerebbe cantare l’inno alla Materia Immortale? [I,16,17] “Grande è Zeus perché ci procurò questi strumenti coi quali lavoreremo la terra; grande è Zeus che ci ha dato le mani, l’ingestione dei cibi, i visceri, di crescere a nostra insaputa, di respirare dormendo”. [I,16,18] Questo bisognerebbe inneggiare per ciascuno dei suoi doni e poi inneggiare l’inno più grande e più divino, perché ci diede la facoltà atta alla comprensione ed all’uso metodico di questi doni. E dunque? [I,16,19] Dacché i più siete ciechi, non deve esserci qualcuno ad assolvere questo ufficio ed a cantare per tutti quell’inno alla Materia Immortale? [I,16,20] Che altro posso io, vecchio zoppo, se non inneggiare a Zeus? Se fossi un usignolo farei quel che fa un usignolo; se cigno, un cigno. Ora, sono una creatura logica: bisogna che inneggi alla Materia Immortale. [I,16,21] Questa è l’opera mia. La svolgo e, per quanto mi sarà dato, non diserterò questo posizionamento. E prego anche voi a questo medesimo cantico. 

CAPITOLO 17

L’alveare

CHE  LA  LOGICA  E’  NECESSARIA

Solamente la ragione è autoteoretica (1-3)

[I,17,1] Siccome è ragionamento quanto articola ed elabora il resto, ed esso non dovrebbe rimanere disarticolato, da che cosa sarà articolato? [I,17,2] E’ manifesto che lo sarà o da se stesso o da altro. Questo o è un ragionamento o sarà qualcos’altro migliore del ragionamento, ciò che appunto è impossibile. [I,17,3] Se è un ragionamento chi, di nuovo, lo articolerà? Giacché se questo si autoarticola, anche il primo lo può. Se avremo bisogno di un altro, questo processo sarà infinito ed incessante. 

La logica è criterio e condizione del retto pensare (4-12)

[I,17,4] “Sì, ma urge piuttosto accudire…” e cose simili. Vuoi dunque sentir parlare di quelle? Ascolta. [I,17,5] Ma se mi dirai: “Non so se fai discorsi veri o falsi”; ed anche, se dirò qualcosa con accenti ambigui e mi dirai: “Punteggia…”, non ti tollererò più ma ti dirò: “Ma urge piuttosto…” [I,17,6] Per questo, credo, i filosofi preordinano la logica; appunto come preordiniamo alla misurazione del grano l’esame dell’unità di misura. [I,17,7] Se non discerneremo innanzitutto cos’è moggio né discerneremo innanzitutto cos’è bilancia, come potremo ancora misurare o pesare qualcosa? [I,17,8] Qui dunque potremo mai precisare e decifrare qualcuna delle altre cose senza avere decifrato né precisato quanto è criterio delle altre ed attraverso cui le altre si decifrano? E com’è possibile? [I,17,9] “Sì, ma il moggio è di legno ed è infruttuoso”. [I,17,10] Ma atto a misurare grano. “Anche la logica è infruttuosa”. Su questo vedremo. Se dunque uno pur concedesse questo, bastevole è il fatto che la logica è atta a distinguere e ad esaminare le altre cose e, come uno direbbe, a misurarle e pesarle. [I,17,11] Chi dice questo? Solamente Crisippo, Zenone e Cleante? [I,17,12] Antistene non lo dice? Chi ha scritto che “Inizio dell’educazione è l’esame dei nomi”? Socrate non lo dice? E di chi Senofonte scrive che iniziava dall’esame dei nomi, da cosa significa ciascuno?

Capire il piano della natura e dire grazie a chi ci aiuta a capirlo (13-19)

[I,17,13] E’ dunque questo il grande e stupefacente: capire Crisippo o commentarlo? E chi lo dice? [I,17,14] Cos’è dunque lo stupefacente? Capire il piano della natura. E dunque? Lo comprendi da te stesso? E di chi hai ancora bisogno? Giacché se è vero che tutti aberrano loro malgrado e tu hai decifrato la Verità, è necessario che tu già abbia successo. [I,17,15] Ma, per Zeus, non comprendo il piano della natura. Chi dunque me lo spiega? Dicono che è Crisippo. [I,17,16] Vengo e ricerco cosa dice questo interprete della natura. Inizio a non capire cosa dice e cerco il commentatore. “Ecco, esamina… Com’è detto bene questo, appunto come in latino!” [I,17,17] Qua, dunque, quale giustificazione ha il cipiglio del commentatore? Neppure giustamente di Crisippo stesso, se soltanto spiega il piano della natura e lui non lo segue. Quanto più ciò vale per il suo commentatore? [I,17,18] Giacché non abbiamo bisogno di Crisippo per Crisippo, ma per comprendere la natura. né abbiamo bisogno del sacrificatore per il sacrificatore, ma perché attraverso quello crediamo di capire l’avvenire e quanto è significato dagli Dei. [I,17,19] né abbiamo bisogno delle viscere per le viscere, ma perché attraverso quelle è significato qualcosa. né ammiriamo il corvo o la cornacchia, ma Zeus che significa attraverso queste creature. 

Ecco il piano della natura, ecco quanto è scritto nel DNA umano (20-29)

[I,17,20] Vengo quindi da questo interprete e sacrificatore e dico: “Esaminami le viscere, cosa mi significano”. [I,17,21] Lui le prende, le sbroglia, poi spiega: “Uomo, tu hai una proairesi per natura non soggetta a impedimenti e non soggetta a costrizioni. Qui, nelle viscere, questo è stato scritto. [I,17,22] Te lo mostrerò innanzitutto nell’ambito dell’assenso. Può forse qualcuno impedirti di annuire al vero? Neppur uno. Può forse qualcuno costringerti ad accettare il falso? Neppur uno. [I,17,23] Vedi che in questo àmbito ciò che è proairetico l’hai non soggetto a impedimenti, non soggetto a costrizioni, disimpacciato? [I,17,24] Orsù, è diverso nell’ambito del desiderio e dell’impulso? Chi può vincere un impulso se non un altro impulso? Chi un desiderio ed un’avversione se non un altro desiderio ed un’altra avversione?” [I,17,25] “Se,” qualcuno dice, “uno mi appresserà la paura della morte, mi costringe”. “Non è quanto viene appressato a costringerti, ma è che reputi meglio fare una di queste cose che morire. [I,17,26] Di nuovo dunque il tuo giudizio ti costrinse; ossia proairesi costrinse proairesi. [I,17,27] Se infatti la parte peculiare che Zeus ci diede spiccandosela, egli avesse strutturato soggetta a impedimenti o costrizioni sue o di qualcun altro, non sarebbe più Materia Immortale né sarebbe sollecita di noi nel modo dovuto. [I,17,28] Questo trovo” dice, “nelle vittime sacrificali. Questo ti significano. Se lo disporrai sei libero. Se lo disporrai non biasimerai nessuno, non incolperai nessuno, tutto sarà secondo l’intelligenza insieme tua e quella di Zeus”. [I,17,29] Per questo dono divinatorio vengo da questo sacrificatore e filosofo, non ammirando lui per la spiegazione ma quello che spiega.

CAPITOLO 18

Esasperarsi

CHE  NON  BISOGNA  ESASPERARSI  CON  CHI  ABERRA

I nostri assensi e dissensi, la concezione dei nostri desideri e dei nostri impulsi sono atti dell’intelletto, opere della proairesi (1-2)

[I,18,1] Se è vero quel che dicono i filosofi, che per tutti gli esseri umani unico è il fondamento: come appunto dell’assentire lo sperimentare che una cosa c’è; del dissentire, lo sperimentare che non c’è e, per Zeus, del sospendere il giudizio lo sperimentare ch’è dubbia; [I,18,2] così pure dell’impellere a qualcosa lo sperimentare che mi è utile; e che è inconcepibile giudicare una cosa utile e desiderarne un’altra, di giudicare una cosa doverosa ed impellere ad un’altra: perché ci esasperiamo ancora con i più?

L’errore morale è la conseguenza di un giudizio errato su quanto è esclusivamente mio e quanto non lo è (3-4)

[I,18,3] -Sono ladri, dice, e rubavestiti- Cos’è il ladri e rubavestiti? Hanno errato su beni e su mali. [I,18,4] Bisogna dunque esasperarsi con loro o commiserarli? Mostra l’errore e vedrai come si distornano dalle aberrazioni! Se però non lo scorgeranno, nulla hanno di superiore a quanto reputano.

Chi erra sui beni e sui mali ha già subito la più dannosa delle perdite (5-8)

[I,18,5] -Non bisognerebbe dunque che questo rapinatore e questo adultero fossero soppressi?- [I,18,6] Assolutamente no, ma dovresti piuttosto dire: “Non sopprimere costui, il quale ha errato e si è ingannato sulle questioni più grandi, che è cieco non quanto alla vista atta a distinguere il bianco ed il nero ma quanto all’intelligenza atta a distinguere i beni ed i mali?” [I,18,7] E se dirai così, riconoscerai com’è disumano quanto dici e che è simile a: “Dunque non sopprimere questo cieco e sordo?” [I,18,8] Giacché se il più grande danno è la perdita delle cose più grandi, ed in ciascuno la cosa più grande è la proairesi quale dev’essere e di questo uno si defrauda, perché ti esasperi ancora con lui? 

La commiserazione è contro la natura delle cose tanto quanto l’odio (9-11)

[I,18,9] O uomo, se devi disporti contro la natura delle cose circa i mali allotrii, commiseralo piuttosto che odiarlo. Lascia questa facoltà atta ad offendersi e ad odiare; [I,18,10] non portarti dentro le voci che si portano dentro i più dei denigrazionofili “…dunque questi maledetti ed abominevoli stupidi…” [I,18,11] Sia: come mai tu improvvisamente insapientisti sì da esasperarti con altri stupidi? Perché dunque ci esasperiamo? Perché siamo infatuati dei materiali che ci vengono sottratti. Peraltro non infatuarti delle tue toghe e non ti esasperi con il ladro; non infatuarti della avvenenza della moglie e non ti esasperi con l’adultero.

Chi non è giusto ma si esaspera ed è crudele con ladri, adulteri, politicanti ed altra siffatta gente in miseria di diairesi, mostra di traboccare al loro stesso modo di controdiairesi (12-14)

[I,18,12] Riconosci che”ladro” ed “adultero” non hanno posto tra le cose tue ma tra quelle allotrie e non in tuo esclusivo potere. Se le tralascerai e le riterrai da nulla, con chi ancora ti esasperi? Ma finché di questo ti infatuerai, esasperati con te stesso piuttosto che con quelli. [I,18,13] Infatti considera: tu hai magnifiche toghe, il tuo vicino non ne ha. Tu hai una finestra e vuoi asciugarle all’aperto. Quello non sa cos’è il bene dell’uomo ed immagina che sia avere magnifiche toghe, quello che immagini anche tu. [I,18,14] E poi che non venga e le rimuova? Tu mostrando una focaccia a dei ghiottoni ed ingoiandola da solo, non vuoi che la ghermiscano? Non stuzzicarli, non avere una finestra, non asciugare all’aperto le tue toghe.

La lucerna di ferro di Epitteto (15-16)

[I,18,15] Io tengo una lucerna di ferro accanto ai Lari e l’altro giorno, sentito un rumore della finestra, accorsi. Trovai ghermita via la lucerna. Calcolai che chi l’aveva rimossa aveva sperimentato qualcosa di non dissuasivo. E dunque? [I,18,16] Domani, dico, ne troverai una di terracotta. Giacché si perde quanto si ha. “Persi la mia toga”. Giacché avevi una toga. “Ho mal di testa”. Hai forse mal di corna? Perché dunque fremi? Perdite e dolori sono, infatti, di quanto è anche patrimonio.

“Riconosci te stesso” e ricorda: com’è vero che dolore e piacere fisico non sono giudizi, così è vero che la tua proairesi sempre avrà un giudizio su ciascun particolare piacere e dolore. E questo giudizio, non il dolore ed il piacere, è in tuo esclusivo potere (17-20)

[I,18,17]-”Ma il tiranno incatenerà”- Cosa? La gamba. -”Ma staccherà”- Cosa? Il collo. Cosa non incatenerà e non staccherà? La proairesi. Per questo gli antichi prescrivevano il “Riconosci te stesso”. [I,18,18] E dunque? Bisognerebbe, per gli dei, studiare sui piccoli fatti e iniziando da quelli traversare ai più grandi. [I,18,19] “Ho mal di testa”. Non dire: “Ohimè!” “Ho mal d’orecchi”. Non dire: “Ohimè!”. E non dico che non è stato dato di sospirare, ma non sospirare dal di dentro. Se il ragazzo sarà lento a portare la fascia non gracchiare, non ambasciarti, non dire: “Tutti mi odiano!” Giacché chi non odierà una persona siffatta? [I,18,20] Orbene confidando in questi giudizi cammina ritto, libero, non confidando nella stazza del corpo, come un atleta: giacché non devi essere invitto come un asino.

Chi è invitto? (21-23)

[I,18,21] Chi è dunque l’invitto? Chi nulla di aproairetico frastorna. E poi venendo a ciascuna circostanza, orbene la decifro come per un atleta. “Costui la spuntò di forza sul primo avversario assegnatogli dalla sorte. [I,18,22] E sul secondo? E se ci sarà calura? E ad Olimpia?” Anche qui allo stesso modo. Se gli metterai davanti un po’ di denaro, lo spregerà. E se una pupattola? E che sarà al buio? E se un po’ di reputazione? E se un’ingiuria? E se una lode? E se la morte? [I,18,23] Può vincere tutto ciò. [Se ci sarà calura significa: se sarà brillo, malinconico, nel sonno.] Questo è per me l’atleta invincibile.

CAPITOLO 19

Lenin giù

COME  BISOGNA  ATTEGGIARSI  VERSO  I  TIRANNI ?

Il tiranno, gonfio di controdiairesi e di boria, crede di avere il potere di dare e di togliere chissà che e di essere corteggiato per questo (1- 6)

[I,19,1] Il fatto è che se a qualcuno sarà congiunta o sembrerà essere congiunta, pur congiunta non essendo, una qualche superiorità, è del tutto necessario che costui, se non sarà educato a diairesizzare, sia borioso per causa sua. [I,19,2] Subito il tiranno dice: “Io sono il più possente di tutti”. E cosa puoi procurarmi? Puoi procacciarmi un desiderio non soggetto a impedimenti? E donde ti viene? Giacché tu l’hai? Una avversione che non incappa in quanto avversa? Tu l’hai? [I,19,3] Un impulso al riparo da aberrazioni? E dove ne hai parte? Orsù, su una nave hai fiducia in te od in chi sa? [I,19,4] E su di un carro, in chi se non in chi sa? E nelle altre arti? Allo stesso modo. Che puoi dunque? “Tutti mi accudiscono!” Giacché io pure accudisco il piattino, lo lavo, lo astergo e figgo un piolo per la fiaschetta. E dunque? Sono questi oggetti migliori di me? No, ma mi procurano un’utilità. Per questo li accudisco. E che? Non accudisco l’asino? [I,19,5] Non netto le sue zampe? Non lo striglio? Non sai che ogni uomo accudisce se stesso, e te come l’asino? Dacché chi ti accudisce come uomo? Mostra. [I,19,6] Chi vuole diventare simile a te, chi diventa tuo emulo come di Socrate? “Ma posso farti troncare il collo”. Dici bene. Avevo scordato che bisogna accudirti come febbre e colera ed ergere un altare, come a Roma c’è un altare della Febbre.

I tiranni, grandi e piccoli, sono atterriti da una cosa sola: i giudizi dell’uomo libero (7-10)

[I,19,7] Cos’è dunque a sconcertare ed atterrire i più? Il tiranno e le guardie del corpo? Donde? Non sia mai! Non è fattibile che quanto per natura è libero, sia sconcertato od impedito da qualcos’altro eccetto che da se stesso. [I,19,8] Sono invece i giudizi a sconcertarlo. Giacché qualora il tiranno dica a qualcuno “Ti farò incatenare la gamba”, chi ha avuto in onore la gamba dice “No, misericordia”; chi invece ha avuto in onore la propria proairesi dice “Se ti pare più vantaggioso, incatenala”. “Non ti impensierisci?” “Non m’impensierisco”. [I,19,9] “Io ti mostrerò che sono Signore”. “Donde tu? Me Zeus lasciò libero. O reputi che era per permettere che il proprio figlio fosse asservito? Del mio cadavere, invece, sei signore: prendilo”. [I,19,10] “Sicché qualora ti avvicini a me, non accudisci me?” “No, ma me stesso. Se poi vuoi che dica pure te, ti dico come la pentola”.

Chi si appropria di colui che l’uomo davvero è per natura, ha fatto anche l’azione più socialmente utile che si possa fare: e questo è la politica (11-15)

[I,19,11] Questo non è egoismo. Giacché così è la creatura: tutto fa per se stessa. Giacché anche il sole tutto fa per se stesso e, orbene, Zeus stesso fa così. [I,19,12] Qualora disponga di essere Pluvio, Frugifero, Padre di uomini e dei, vedi che non può centrare queste opere ed appellativi se non sarà anche di giovamento comune. [I,19,13] In generale, la Materia Immortale siffatta strutturò la natura della creatura logica in modo che non potesse centrare alcuno dei propri beni senza fornire un qualche comune giovamento. [I,19,14] Così il fare tutto per se stessi diventa non più asociale. [I,19,15] Peraltro che ti aspetti? Che uno si distorni da se stesso e dal proprio peculiare utile? E l’appropriarsi di quanto si è, come sarà ancora unico e medesimo fondamento per tutti?

I comuni e preponderanti giudizi controdiairetici di cui è obesa la loro proairesi costringono per forza di cose le masse di tiranni piccoli e grandi, a stabilire una catena magica di merda con la quale tra di loro si riconoscono e si pascono reciprocamente (16-18)

[I,19,16] E dunque? Qualora vi siano sotto giudizi d’altra specie su ciò che è aproairetico come bene e male, è del tutto necessario accudire i tiranni. [I,19,17] E magari soltanto i tiranni e non i camerieri. Come una persona diventa repentinamente pure saggia qualora Cesare la faccia capo del suo cesso! Come subito diciamo: “Felicione mi ha parlato con saggezza!” [I,19,18] Io disporrei che fosse buttato fuori dal merdaio, affinché di nuovo lo reputassi stolto.

La irresistibile carriera dello schiavo Felicione, calzolaio di Epafrodito (19-23)

[I,19,19] Epafrodito aveva un certo calzolaio, che vendette perché era improficuo. Quello poi, per un caso fortuito, fu comprato al mercato da un tale della cerchia di Cesare e divenne calzolaio di Cesare. Avessi visto come Epafrodito lo onorava: [I,19,20] “Prego, cosa effettua il buon Felicione?” [I,19,21] E poi se uno di noi cercava di sapere: “Che fa lui?”, veniva detto che: “Si consiglia con Felicione su qualcosa”. [I,19,22] Ma non lo aveva smerciato come improficuo? [I,19,23] Chi dunque lo fece improvvisamente saggio? Questo è avere in onore qualcos’altro che quanto è proairetico.

Quella di un tribuno della plebe (24-25)

[I,19,24] “E’ stato degnato di un tribunato!” Tutti quelli che gli vanno incontro si congratulano: uno gli bacia gli occhi, un altro il collo, i servi le mani. Viene a casa, trova lucerne accese. [I,19,25] Sale su al Campidoglio, offre un sacrificio. Chi dunque mai sacrificò per aver desiderato da virtuoso, per avere impulso secondo la natura delle cose? Giacché dove poniamo il bene, là pure ringraziamo gli dei. 

Un Nicopolitano alle soglie del sacerdozio di Augusto (26-29)

[I,19,26] Oggi un tale mi parlava a proposito di una carica nel collegio sacerdotale di Augusto. Gli dico: “O uomo, lascia la faccenda; dilapiderai molto per nulla”. [I,19,27] -”Ma quelli che scrivono i contratti,” dice, “scriveranno il mio nome!”- “Dunque tu presenziando a chi legge i contratti, dici: hanno scritto me! [I,19,28] E se pure ora puoi presenziare a tutti, se morirai che farai? -”Rimarrà il mio nome”- “Scrivilo su un sasso e rimarrà. Orsù, fuori di Nicopoli che ricordo sopravviverà di te?” [I,19,29] -”Ma porterò una corona d’oro!”- “Se una volta smani per una corona, prendine una di rose e cingitene: apparirai più elegante”.

CAPITOLO 20

Auto-conoscibilità di noi stessi

SU COME LA RAGIONE È CONOSCITIVA DEI PRINCIPI GENERALI DI SE STESSA

Soltanto la ragione è autoteoretica. Udetero è ciò che è né bene né male. (1-6)

[I,20,1] Ogni arte e facoltà è conoscitiva dei principi generali di certi oggetti cardinali. [I,20,2] Qualora dunque anch’essa sia conforme agli oggetti conosciuti, necessariamente diventa conoscitiva dei principi generali di se stessa. Qualora invece ne sia difforme, non può essere conoscitiva di se stessa. [I,20,3] Per esempio, l’arte della calzoleria si rivolge a pelli, ma essa è definitivamente lontana dal materiale ‘pelli’: per questo è non conoscitiva dei principi generali di se stessa. [I,20,4] La grammatica, di nuovo, si rivolge alla voce scritta. Ma è forse anch’essa ‘voce scritta’? Nient’affatto! Per questo non può essere conoscitiva di se stessa. [I,20,5] Dunque la ragione per che cosa mai è stata assunta dalla natura? Per l’uso quale si deve delle rappresentazioni. Ed essa cos’è? Un insieme di rappresentazioni d’un certo modo: così diventa per natura anche conoscitiva dei principi generali di se stessa. [I,20,6] Di nuovo, la saggezza ci è pervenuta per essere conoscitiva di cosa? Beni, mali ed udeteri. Ed essa cos’è? Un bene. La stoltezza cos’è? Un male. Vedi dunque che necessariamente essa diventa conoscitiva dei principi generali e di se stessa e dell’opposto?

Necessità di valutare e distinguere le rappresentazioni più accuratamente delle monete (7-11)

[I,20,7] Per questo, la più grande e prima opera del filosofo è valutare le rappresentazioni, distinguerle e non fornirne alcuna senza valutazione. [I,20,8] Vedete sulla moneta, dove reputiamo esservi qualcosa per noi, come abbiamo inventato anche un’arte; e quanti mezzi sfrutta il saggiatore per la valutazione della moneta: la vista, il tatto, il fiuto e per ultimo l’udito. [I,20,9] Scagliato il denario, fa attenzione al rumore e non si accontenta di farlo risuonare una volta ma, per la molta attenzione, diventa musicista. [I,20,10] Così dove crediamo che errare differisca dal non errare, qui portiamo dentro molta attenzione a distinguere quanto può trarci ad errare; [I,20,11] mentre sul nostro disgraziato egemonico dormiamo a bocca aperta, accettando scriteriatamente ogni rappresentazione: la punizione, infatti, non c’incoglie!

“Sostanza del bene è l’uso quale si deve delle rappresentazioni”: facile a dirsi, meno facile a comprendersi ed a praticarsi (12-19) [I,20,12] Qualora dunque tu disponga di riconoscere come sei sciatto circa beni e mali e diligente invece circa gli indifferenti; rifletti sul come ti atteggi di fronte all’essere accecato e come di fronte all’essere ingannato. Riconoscerai che sei lungi dall’avere sperimentato quel che si deve circa beni e mali. [I,20,13] “Ma ciò ha bisogno di molta preparazione, molta fatica e molte nozioni”. E dunque? Speri possibile apprendere la più grande arte in poco tempo? [I,20,14] Eppure la dottrina cardinale dei filosofi è anche troppo corta. Per riconoscerlo leggi Zenone e vedrai. [I,20,15] Cos’ha di lungo il dire: “Sommo bene è accompagnarsi agli dei; sostanza del bene è l’uso quale si deve delle rappresentazioni”? [I,20,16] Dimmi: “Cos’è dunque dio e cos’è rappresentazione? E cos’è natura del particolare e cos’è natura dell’intero?” [I,20,17] Già diventa una cosa lunga. Se verrà Epicuro a dire che il bene deve essere nella carne, di nuovo diventa lungo ed è necessario sentir dire cos’è in relazione a noi il cardinale, cos’è il basilare e sostanziale. Che il bene della chiocciola stia nel guscio non è verosimile, dunque è verosimile per quello dell’uomo? [I,20,18] Proprio tu cos’hai di più dominante, Epicuro? Cos’è in te che prende consiglio, esamina ciascun fatto, decreta circa la carne stessa che è cardinale? [I,20,19] E perché accendi una lucerna e fatichi per noi e scrivi libri tanto rilevanti? Affinché noi non si ignori la verità? Noi chi? Cosa siamo per te? Così il discorso diventa lungo.

CAPITOLO 21

Ammirato da chi?

A QUANTI VOGLIONO ESSERE AMMIRATI

Sull’essere ammirato da chi? (1-4)

[I,21,1] Qualora uno abbia nella vita la stazione che si deve, non sta a bocca aperta per le cose di fuori. [I,21,2] O uomo, cosa vuoi che ti accada? Io mi accontento se desidererò ed avverserò secondo la natura delle cose; se userò impulso e repulsione come sono nato per fare; e poi proposito, progetto, assenso. Perché dunque ci cammini davanti come se avessi ingoiato uno spiedo? [I,21,3] “Vorrei che quanti mi vengono incontro ammirassero e seguendomi strepitassero: Oh, che grande filosofo!” [I,21,4] Chi sono costoro dai quali vuoi essere ammirato? Non sono coloro dei quali sei solito dire che sono pazzi? E dunque? Vuoi essere ammirato dai pazzi?

CAPITOLO 22

Atena trattiene Achille dall’applicazione di un pre-concetto

SUI PRE-CONCETTI

Tutti abbiamo identici pre-concetti di bene e male. I contrasti nascono al momento della loro applicazione ai casi particolari (1-4)

[I,22,1] Pre-concetti sono comuni a tutti gli uomini, e pre-concetto non contraddice pre-concetto. Giacché chi di noi non pone che il bene è utile e da scegliersi e che si deve andarne in cerca ed inseguirlo in ogni circostanza? Chi di noi non pone che il giusto è bello e confacente? Quando nasce dunque la contrapposizione? [I,22,2] Circa l’adattamento dei pre-concetti alle particolari sostanze, [I,22,3] qualora uno dica: “Fece bene, è uno virile”, ed un altro: “No, è un demente”. Di qua nasce la contrapposizione degli individui gli uni gli altri. [I,22,4] Questa è la contrapposizione di Giudei, Siri, Egizi e Romani; non sul fatto che quanto è sacrosanto sia da anteporre a tutto e da perseguire in ogni circostanza, ma se sia sacrosanto o sacrilego mangiare del maiale. 

L’esempio del contrasto tra Agamennone ed Achille (5-8)

[I,22,5] Troverete questa contrapposizione anche tra Agamennone ed Achille. Chiamali qui in mezzo. Che dici tu, Agamennone? Non deve accadere quel che deve e sta bene? “Deve certo”. [I,22,6] E tu che dici, Achille? Non gradisci che accada quel che sta bene? “Io, certo, lo gradisco più di tutti”. Adattate dunque i pre-concetti. [I,22,7] Di qui l’inizio della contrapposizione. Uno dice: “Non è d’uopo che io restituisca Criseide al padre”. L’altro dice: “Si deve certo restituirla”. Uno dei due adatta affatto male il pre-concetto di “si deve”. [I,22,8] Di nuovo uno dice: “Pertanto, se io devo restituire Criseide, devo prendere il bottino di qualcuno di voi”. E l’altro: “Prendere la mia innamorata?” “La tua”, dice. “Dunque io solo…?” “Ed io solo che non abbia…?” Così nasce la contrapposizione.

Se i pre-concetti di bene e male sono naturali ed identici per tutti gli individui, la loro applicazione è però culturale e, più precisamente, legata all’uso della diairesi e della controdiairesi (9-16)

[I,22,9] Cos’è dunque educarsi a diairesizzare? Imparare ad adattare i naturali pre-concetti alle particolari sostanze in modo consono alla natura delle cose e, orbene, a discriminare [I,22,10] che, delle cose, alcune sono in nostro esclusivo potere mentre altre non sono in nostro esclusivo potere. Sono in nostro esclusivo potere la proairesi e tutte le opere della proairesi; non sono in nostro esclusivo potere il corpo, le parti del corpo, patrimoni, genitori, fratelli, figlioli, patria, insomma i soci. [I,22,11] Dove porremo dunque il bene? A quale sostanza lo adatteremo? A quella in nostro esclusivo potere? [I,22,12] -E poi non sono beni salute del corpo, integrità fisica, vita e neppure figlioli, genitori, patria?- E chi ti tollererà? [I,22,13] Alloghiamolo dunque di nuovo qua. E’ fattibile che sia felice chi subisce danno e fallisce il bene? -Non è fattibile- E che serbi verso i soci la condotta che si deve? E com’è fattibile? Giacché io sono nato per il mio utile. [I,22,14] Se mi è utile avere un fondo, mi è utile anche sottrarre quello di chi mi è dintorno; se mi è utile avere una toga, mi è utile anche rubarla alle terme. Di qua guerre, conflitti civili, tirannie, insidie. [I,22,15] E come potrò ancora esplicare quel che è doveroso esplicare verso Zeus? Giacché se sono danneggiato e sono sfortunato, egli non si impensierisce di me. E: “Cosa c’è tra me e lui, se non può aiutarmi?” E di nuovo: “Cosa c’è tra me e lui, se vuole che mi trovi nei mali in cui sono?” Orbene inizio ad odiarlo. [I,22,16] Perché dunque facciamo templi, perché facciamo simulacri a Zeus come a cattivi geni, come alla Febbre? E come può ancora essere Salvatore, Pluvio, Frugifero? Eppure se porremo in qualche modo qui la sostanza del bene, tutto questo consegue.

L’incapacità di usare la diairesi è una incapacità di massa e le masse ti deridono. Benissimo. E con ciò? E allora? (17-21)

[I,22,17] Che dunque faremo? Questa è ricerca degna di chi fa effettivamente filosofia ed è in travaglio di pensiero. Adesso vedo cos’è il bene e cos’è il male. Non sono pazzo. [I,22,18] Sì, ma se porrò il bene in qualche modo qui, in ciò che è proairetico, tutti mi derideranno. Giungerà un vecchio canuto con molti anelli d’oro il quale, dopo aver scosso la testa, dirà: “Ascoltami, figliolo: si deve anche fare filosofia, ma si deve anche avere cervello: queste sono stupidaggini. [I,22,19] Tu dai filosofi impari il sillogismo, ma cosa tu debba fare, lo sai meglio tu dei filosofi”. [I,22,20] O uomo, perché dunque mi rimproveri se lo so? Che dire a questo schiavo? [I,22,21] Se tacerò, quello bercia. Sicché si deve dire: “Perdona me come perdoni gli innamorati: non sono padrone di me, sono pazzo.”

CAPITOLO 23

Epicuro dipinto da Raffaello

AD EPICURO

Scosso dal modo in cui vede gli esseri umani allevare i figli e fare politicheria, Epicuro sembra decretare che gli uomini non avranno figli e non faranno politica (1-10)

[I,23,1] Anche Epicuro divisa che noi siamo per natura socievoli, ma una volta posto il nostro bene nel guscio non può più dire altro. [I,23,2] Giacché poi tiene assai fermo il principio che non si deve ammirare né approvare nulla di spiccato dalla sostanza del bene. E fa bene a tenerlo ben fermo. [I,23,3] Come possiamo dunque ancora essere socievoli se non abbiamo naturale affettuosità per la prole? Perché sconsigli al sapiente di allevare figlioli? [I,23,4] Perché hai paura che si imbatta in afflizioni per causa loro? Giacché a causa di Topolino, quello nutrito dentro casa tua, ti ci imbatti tu? Che dunque importa al sapiente se dentro casa un piccolo topolino gli singhiozzerà davanti disperato? [I,23,5] Invece egli sa che, una volta nato un bimbo, non è più in nostro esclusivo potere non avere per lui affetto e non preoccuparcene. [I,23,6] Per questo Epicuro dice che chi ha accortezza non si interesserà di affari cittadini: giacché sa cosa deve fare chi si interessa di affari cittadini. Peraltro se tu sei per condurti come tra mosche, cosa lo impedisce? [I,23,7] E sapendo questo, ha ugualmente l’audacia di dire: “Non tiriamo su figlioli”. Ma una pecora non abbandona la sua prole, né l’abbandona un lupo; e l’uomo invece l’abbandona? Che vuoi? [I,23,8] Che noi siamo stupidi come le pecore? Ma neppure quelle abbandonano la prole. Che siamo belluini come i lupi? [I,23,9] Ma neppure quelli l’abbandonano. Orsù, chi ti ubbidisce quando vede il suo bimbo cascato a terra che singhiozza? [I,23,10] Io credo che tua madre e tuo padre, anche se avessero divinato che eri per dire questo, non ti avrebbero esposto.

CAPITOLO 24

Giocare a scacchi con la morte

COME BISOGNA GAREGGIARE CON LE CIRCOSTANZE DIFFICILI?

Non illudiamoci di essere diversi da quello che siamo (1-2)

[I,24,1] Sono le circostanze difficili a mostrare gli uomini. Orbene, qualora ti imbatta in una circostanza difficile ricorda che Zeus, come un maestro di ginnastica, ti ha messo alle prese con un rude giovanotto. [I,24,2] -Per cosa? dice- Affinché diventi un vincitore di Olimpia: e senza sudore questo non accade. Reputo che nessuno abbia avuto una circostanza difficile migliore di quella che hai avuto tu, se disporrai di usarla come un atleta usa quel giovanotto.

Chi manderemo nel mondo come esploratore? Un vile? (3-5)

[I,24,3] Ed ora noi mandiamo esploratore a Roma proprio te. Nessuno manda come esploratore un vile perché, se solo sentirà un rumore e vedrà un’ombra da qualche parte, venga di corsa sconcertato a dire che i nemici sono già presenti. [I,24,4] Così ora anche tu, se verrai a dirci: “Paurose sono le faccende a Roma: terribile è la morte, terribile è l’esilio, terribile l’ingiuria, terribile la povertà di denaro: [I,24,5] fuggite uomini, i nemici sono presenti”; ti diremo: “Parti, divina per te stesso. Noi aberrammo solo in questo: nel mandare un esploratore siffatto”.

Un retto esploratore: Diogene (6-10)

[I,24,6] Diogene inviato esploratore prima di te, ci ha annunciato altro. Egli dice che la morte non è un male, giacché neppure è vergogna; dice che il discredito è rumore di individui pazzi. [I,24,7] E su dolore, su piacere fisico, su povertà di denaro quali parole ha detto questo esploratore! Dice che la nudità è migliore d’ogni toga porporata. Dormire sulla nuda terra, dice che è il più morbido dei giacigli. [I,24,8] E ne porta a dimostrazione il suo coraggio, l’assenza di sconcerto, la libertà e poi il corpo splendente e stringato. [I,24,9] “Nessun nemico,” dice, “è vicino; tutto trabocca pace”. Come, Diogene? “Ecco,” dice, “sono forse stato trafitto, forse ferito, ho forse fuggito qualcuno?” [I,24,10] Questo è un esploratore quale si deve! Tu invece vieni a dirci cose una diversa dall’altra. Non partirai di nuovo, per vedere con più precisione e prescindendo dalla viltà?

E’ così difficile riconoscere quanto è esclusivamente nostro e non pretendere altro? (11-15)

[I,24,11] Che fare dunque? Cosa fai qualora sbarchi da un bastimento? Rimuovi forse il timone, forse i remi? Che cosa, dunque, rimuovi? Le cose tue: la fiaschetta, la bisaccia. Anche adesso, se sarai memore di quanto è tuo, non pretenderai mai quanto è allotrio. [I,24,12] Qualcuno ti dice “Deponi il laticlavio”: ecco l’angusticlavio. “Deponi anche questo”: ecco solo la toga. “Deponi la toga”: eccomi nudo. [I,24,13] “Ma mi muovi invidia”. Prendi quindi l’intero corpo. Ho ancora paura di colui contro il quale posso scagliare il corpo? [I,24,14] Ma non mi lascerà erede. E dunque? Dimenticai che niente di questo è mio? Come, dunque, diciamo nostre queste cose? Come il graticcio nell’albergo se l’albergatore, morendo, ti lascerà i graticci. Ma se li lascerà ad un altro, li avrà quello e tu cercherai un altro giaciglio. [I,24,15] E se non lo troverai, ti coricherai per terra. Soltanto, fallo con fiducia, russando, e memore che le tragedie hanno luogo tra i ricchi di denaro, i re, i tiranni, mentre nessun povero di denaro completa una tragedia se non come coreuta.

Riconoscere quanto è esclusivamente nostro e non pretendere altro è strutturalmente impossibile per coloro che si fanno guidare dalla controdiairesi (16-20)

[I,24,16] I re iniziano dall’agiatezza: “Inghirlandate i palazzi”; e poi al terzo o quarto atto: “Ah, Citerone, perché m’accoglievi?”. [I,24,17] Schiavo! dove sono le corone, dov’è il diadema? [I,24,18] Non ti giovano a nulla le guardie del corpo? Qualora dunque ti avvicini ad uno di quelli, ricordati di questi; ricorda che vieni innanzi ad un personaggio tragico, non all’attore ma ad Edipo in persona. [I,24,19] “Beato il tale, giacché passeggia con molti!” Anch’io mi inquadro con i più e passeggio con molti! [I,24,20] Punto capitale: ricordati che la porta è aperta. Non essere più vile dei bimbi ma come quelli, qualora non gradiscano la faccenda dicono: “Non giocherò più”; anche tu, qualora siffatte ti paiano certe cose, dicendo: “Non giocherò più”, allontanati. Se però rimani, non lamentarti.

CAPITOLO 25

Ulisse e le sirene

SULLO STESSO TEMA

Non dire di non sapere cos’è esclusivamente tuo: la lealtà, l’onestà intellettuale, chi può rubartele? Quando dunque ti dai da fare attorno a quanto è non esclusivamente tuo come se invece lo fosse, ecco che perdi te stesso (1-6)

[I,25,1] Se questo è vero e noi non battiamo la fiacca né recitiamo quando diciamo che il bene ed il male dell’uomo stanno nella proairesi mentre tutto il resto è nulla in relazione a noi; perché siamo ancora sconcertati, perché abbiamo ancora paura? [I,25,2] Su quanto ci industriamo nessuno ha potestà; di ciò su cui gli altri hanno potestà, di questo non ci impensieriamo. Che fastidi abbiamo ancora? [I,25,3] -Ma dammi istruzioni!- Che istruzioni ti devo dare? Zeus non te le ha date? Non ti ha dato quanto è tuo non soggetto a impedimenti e disimpacciato e le cose non tue, invece, soggette a impedimenti ed impacciate? [I,25,4] Con quale istruzione, con quale costituzione sei dunque venuto di là? Serba quanto è tuo in ogni modo, non prendere di mira quanto è allotrio. La lealtà è tua, il rispetto di sé e degli altri è tuo: chi può sottrarti ciò? Chi altro impedirà di usarli se non tu? E tu come lo impedisci? Qualora ti industrii per quanto è non tuo, tu perdi quanto è tuo. [I,25,5] Avendo siffatti suggerimenti ed istruzioni da parte di Zeus, quali vuoi ancora da me? Sono io migliore di lui, più degno di fede? [I,25,6] Serbando queste, abbisogni di qualche altra? Non ha dato lui queste istruzioni? Porta i pre-concetti, porta le dimostrazioni dei filosofi, porta ciò che spesso sentisti dire, porta ciò che dicesti tu stesso, porta ciò che leggesti, porta ciò che studiasti.

Ma puoi, devi ed è inevitabile che tu abbia a che fare con quanto tuo non è. E finché si è attenti a non confondere i due piani ossia finché il gioco è ben giocato, che motivo hai di non giocare più? (7-13)

[I,25,7] Fino a che punto dunque sta beneserbare ciò e non sciogliere il gioco? [I,25,8] Finché uno se la tragitterà graziosamente. Alle feste di Saturno è stato sorteggiato un re, giacché si reputò di giocare a questo gioco. Il re ingiunge: “Tu bevi, tu mesci, tu canta, tu parti, tu vieni”. Do retta, affinché il gioco non sia sciolto da parte mia. [I,25,9] “Ma tu concepisci di essere in cattive acque”. Non lo concepisco; e chi mi costringerà a concepirlo? [I,25,10] Di nuovo, ci adunammo per giocare ad Agamennone ed Achille. L’assegnato al ruolo di Agamennone mi dice: “Procedi da Achille e spiccagli Briseide”. [I,25,11] Procedo. “Vieni”. Vengo. Giacché come ci conduciamo con i ragionamenti ipotetici, così si deve fare anche nei riguardi della vita. “Sia notte”. Sia. “E dunque? E’ giorno?” [I,25,12] No, giacché presi l’ipotesi che fosse notte. “Sia che tu concepisca che è notte”. Sia. “Ma concepisci anche che è notte”. [I,25,13] Non consegue all’ipotesi. Così anche qui. “Sia che tu abbia cattiva fortuna”. Sia. “Dunque sei sfortunato?” Sì. “E dunque? Sei infelice?” Sì. “Ma concepisci anche di essere in cattive acque”. Non consegue all’ipotesi, ed un altro mi impedisce di farlo.

Il gioco è non più ben giocato quando non si rispettano più le regole ossia quando, per continuarlo, tu dovessi perdere quanto è tuo (14-25)

[I,25,14] Per quanto tempo bisogna dunque dare retta a cose siffatte? Finché sarà vantaggioso, ossia finché salvaguarderò il confacente ed il consono. [I,25,15] Orbene vi sono permalosi e deboli di stomaco che dicono “Io non posso pranzare da costui per tollerarlo esporre ogni giorno come fece guerra in Misia: ‘Ti   narrai, fratello, come salii sulla cresta…; ed inizio di nuovo ad essere assediato.’“ [I,25,16] Un altro dice “Io piuttosto voglio pranzare ed ascoltarlo ciarlare quanto vuole”. [I,25,17] Tu paragona queste stime: soltanto non fare nulla da individuo appesantito od oppresso, né concependo di essere in cattive acque, giacché a questo nessuno ti costringe. [I,25,18] Uno ha fatto fumo nella stanza? Se in quantità equilibrata, rimarrò; se troppo, esco. Giacché si deve ricordare e tenere ben fermo che la porta è aperta. [I,25,19] Ma: “Non abitare a Nicopoli”. Non ci abito. “Neppure ad Atene”. Non ad Atene. “Neppure a Roma”. Non a Roma. [I,25,20] “Abita a Giaro!” Ci abito. Ma abitare a Giaro mi appare come molto fumo. Mi ritiro laddove nessuno mi impedirà di abitare, [I,25,21] giacché quella dimora è aperta a tutti. Quanto all’ultima tunichetta, cioè il corpo, superiormente a questo nessuno ha potestà alcuna su di me. [I,25,22] Per questo Demetrio disse a Nerone: “Mi minacci morte, a te la minaccia la natura delle cose”. [I,25,23] Se m’infatuerò del corpo, ho trasmesso me stesso servo. Se delle coserelle, servo. [I,25,24] Giacché subito io manifesto contro me stesso con cosa sono catturabile. Come il serpente, se contrarrà la testa dico “Percuotigli quel che protegge”; anche tu riconosci che il signore ti pesterà quanto vorrai proteggere. [I,25,25] Memore di ciò, chi ancora adulerai o di chi avrai paura?

Sappi comunque che se perdi quanto è tuo, sono stati i tuoi giudizi e non gli altri o le circostanze a ridurti in quello stato. Ti sembra un paradosso? Se ci rifletti bene vedrai che non lo è (26-33)

[I,25,26] -Ma io voglio sedere dove siedono i senatori!- Vedi che sei tu stesso a procurarti angustie, che ti opprimi? [I,25,27] -E come altrimenti vedere bene gli spettacoli nell’anfiteatro?- O uomo, non vedere spettacoli e non sarai certo oppresso. Perché hai fastidi? Oppure aspetta un poco e, condotto a termine lo spettacolo, siediti nei posti dei senatori e prendi il sole. [I,25,28] In generale ricorda che siamo noi ad opprimere noi stessi, ad angustiare noi stessi, cioè che i nostri giudizi ci opprimono ed angustiano. [I,25,29] Dacché cos’è l’essere ingiuriato? Sta accanto ad un sasso e ingiurialo. E che farai? Se dunque uno starà ad ascoltare come un sasso, che pro per chi ingiuria? Ma se chi ingiuria avrà per passerella la debolezza dell’ingiuriato, allora conclude qualcosa. [I,25,30] “Svestilo!” Perché dici ‘lo’? “Prendi la toga, svesti!” [I,25,31] “Ti ho fatto oltraggio!” Ben ti sia! Questo Socrate studiava, per questo continuava ad avere sempre una sola personalità. Noi invece tutto vogliamo esercitare e studiare piuttosto che sforzarci per essere non soggetti ad impacci e liberi. [I,25,32] “I filosofi dicono paradossi”. E nelle altre arti non ci sono paradossi? Cosa c’è di più paradossale che pungere l’occhio di qualcuno affinché veda? Se uno avesse detto questo ad una persona inesperta di medicina, costui non deriderebbe chi lo dice? [I,25,33] Che c’è dunque di stupefacente se anche in filosofia molte verità appaiono paradossali agli inesperti?

CAPITOLO 26

La legge del vivere

QUALE LA LEGGE DEL VIVERE?

Alcuni giovani studiano veramente per imparare a vivere bene… (1-7)

[I,26,1] Mentre uno leggeva i sillogismi ipotetici, diceva Epitteto: e’ legge del sillogismo ipotetico anche questa: accettare quanto consegue all’ipotesi. E prioritariamente è legge del vivere questa: effettuare quanto consegue alla natura delle cose. [I,26,2] Giacché se su ogni materiale ed in ogni circostanza noi decidiamo di serbare quanto è secondo la natura delle cose, è manifesto che si deve avere come bersaglio il non rifuggire quanto consegue ed il non accettare quanto contraddice. [I,26,3] Dunque i filosofi ci allenano dapprima nella conoscenza dei principi generali, laddove ciò è più facile; e poi ci conducono ai casi più ardui. Giacché qui nulla vi è che trascini a non seguire quanto è insegnato, mentre nei casi della vita molti sono i motivi che ce ne distraggono. [I,26,4] Dunque è ridicolo chi dice di volere innanzitutto iniziare da questi, giacché non è facile iniziare dai casi più ardui. [I,26,5] Questa giustificazione bisognerebbe portare ai genitori che fremono perché i figlioli studiano filosofia: “Dunque aberro, padre, e non so quel che mi spetta e conviene. Ma se è né imparabile né insegnabile, perché mi incolpi? Se è insegnabile, insegnamelo; e se tu non puoi, lascia che io lo impari da coloro che dicono di sapere. [I,26,6] Peraltro, che reputi? Che disponendolo io incappo nel male e fallisco il bene? Non sia mai! Cos’è dunque causativo del mio aberrare? L’ignoranza. [I,26,7] Non vuoi che riponga l’ignoranza? A chi mai l’ira insegnò l’arte di pilotare o la musica? E reputi che imparerò l’arte di vivere grazie alla tua ira?”

…mentre ad altri la filosofia serve soltanto per fare bella figura nei salotti più o meno mondani (8-12)

[I,26,8] Solo chi ha portato qui con sé siffatto progetto ha la potestà di dire questo. [I,26,9] Se invece uno legge di filosofia e viene dai filosofi soltanto perché vuole sfoggiare in un convito di sapere i sillogismi ipotetici, costui per che altro lo effettua se non perché un senatore sdraiato accanto lo ammiri? [I,26,10] Là infatti, a Roma, ci sono effettivamente i grandi cespiti ed i tesori di qua, di Nicopoli, là sembrano giocattoli. Per questo è difficile padroneggiare le proprie rappresentazioni là dove grandi sono gli scrolloni. [I,26,11] Io so di un tale che, avvinghiato alle ginocchia di Epafrodito, singhiozzava e diceva di essere un disgraziato perché non gli era avanzato nulla se non un milione e mezzo di sesterzi. [I,26,12] E dunque Epafrodito? Lo derise come state facendo voi? No, ma trasalendo dice: “Sciagurato, come dunque tacevi, come ti facevi forza?”

Importanza di capire lo stato in cui si trova l’egemonico, la parte dominante dell’animo nostro (13-18)

[I,26,13] Avendo così sconcertato chi leggeva i sillogismi ipotetici e poiché chi aveva suggerito al primo la lettura rideva, diceva Epitteto: “Tu deridi te stesso. Non facesti da preparatore atletico del giovanotto né riconoscesti se può comprendere questi sillogismi, ma lo usi come lettore”. [I,26,14] Perché dunque, diceva, ad un intelletto che non può comprendere quanto decreta un periodo copulativamente coordinato affidiamo lode, affidiamo denigrazione, affidiamo il decreto su quanto accade bene o male? E se parlerà male di qualcuno, costui si impensierisce? E se loderà qualcuno, costui si esalta? Quando non trova il seguito in faccende così piccole? [I,26,15] Questo è dunque inizio del filosofare: la sensazione di come sta il nostro proprio egemonico; giacché, dopo avere riconosciuto che è debilitato, non si vorrà più servircene per grandi cose. [I,26,16] Ora alcuni, non potendo ingoiare un boccone comprano un trattato e progettano di mangiarlo. Per questo vomitano o non digeriscono; e poi dolori di ventre e catarri e febbri. [I,26,17] Bisognerebbe che riflettessero prima sulle loro capacità!. Ma in punto di conoscenza dei principi generali, è facile confutare chi non sa; mentre in fatti di vita, uno non si presta al controllo e noi odiamo chi ci ha confutato. [I,26,18] Socrate diceva però di non vivere una vita non sottoposta ad indagine.

CAPITOLO 27

Apollo e Artemide uccidono i figli di Niobe

IN QUANTI MODI NASCONO LE RAPPRESENTAZIONI E QUALI SOCCORSI BISOGNA PREPARARE ED AVERE A PORTATA DI MANO PER ESSE ?

I rimedi da usare nel caso di rappresentazioni che ci turbino (1-6)

[I,27,1] Le rappresentazioni nascono in noi in quattro modi: giacché, (a) o delle cose ci sono e così appare; (b) o non essendoci neppure appare che ci siano; oppure (c) ci sono e non appare; oppure (d) non ci sono ed appare. [I,27,2] Orbene è opera di chi è stato educato a diairesizzare imbroccarla in tutti questi casi. Qualunque sarà la cosa che opprime, contro quella si deve appressare l’aiuto. Se ad opprimerci sono i sofismi Pirroniani ed Accademici, contro quelli appressiamo l’aiuto. [I,27,3] Se è la persuasività delle faccende per cui certe cose paiono beni non essendolo, cerchiamo là l’aiuto. Se ad opprimerci è un’abitudine, bisogna provare a ritrovare l’aiuto per essa. [I,27,4] Quale soccorso è possibile trovare contro un’abitudine? L’abitudine opposta. [I,27,5] Senti le persone comuni dire: “Sciagurato quello, morì!”; “Suo padre andò in malora, e pure la madre!”; “Fu stroncato, per di più prematuramente ed in terra straniera!”. [I,27,6] Ascolta dei discorsi opposti, spiccati da queste voci, contrapponi all’abitudine l’abitudine opposta. Ai discorsi sofistici contrapponi la logica, l’allenamento ed una consumata esperienza in essa. Per la persuasività delle faccende si devono avere i pre-concetti evidenti, lucidi, a portata di mano.

La morte e la paura della morte (7-10)

[I,27,7] Qualora la morte appaia un male, bisogna avere a portata di mano che è doveroso avversare i mali e che la morte è necessaria. [I,27,8] Giacché che fare? Dove fuggirla? Sia io Sarpedone, il figlio di Zeus, sì da dire così generosamente: “Andando via, dispongo di compiere io atti di eccelso valore oppure di procurare ad un altro il movente per compierli; se non posso avere io qualche successo, non denegherò che un altro faccia qualcosa di generoso”. Sia questo al di là di noi, ma quello non ne casca al di qua? [I,27,9] E dove fuggire la morte? Svelatemi il territorio, svelatemi le genti verso cui partire, genti alle quali la morte non si butta sopra, svelatemi la formula magica. Se non l’ho, cosa volete che faccia? Non posso sfuggire la morte, [I,27,10] ma che non rifugga l’averne paura e che muoia piangendo e tremando?

La volontà: quel certo ripetuto, ostinato, fatale atteggiamento controdiairetico della proairesi che fa nascere le passioni (10-14)

Giacché questo è il punto di generazione della passione: volere qualcosa e questo qualcosa non accadere. [I,27,11] Di conseguenza, se potrò allogare gli oggetti esterni secondo la mia decisione, li allogo. Se no, voglio accecare chi mi è d’intralcio. [I,27,12] Giacché l’uomo ha per natura di non reggere la privazione del bene e di non reggere l’incappare nel male. [I,27,13] E poi da ultimo, qualora non possa né allogare le faccende né accecare chi mi è d’intralcio, siedo e gemo ed ingiurio chi posso, Zeus e gli altri, gli Dei. Giacché se non si impensieriscono di me, che c’è fra me e loro? [I,27,14] “Sì, ma sarai empio”. E cosa mi toccherà di peggio di quanto mi tocca ora? In totale, bisogna ricordarsi che se pio ed utile non coincideranno, il pio non può essere salvaguardato in alcun caso. Non reputi urgenti questi giudizi?

Se tra una empietà utile ed una probità svantaggiosa prevale sempre l’empietà, il problema non è quello di dubitare della logica o delle sensazioni, bensì quello di rimediare all’errore che ci ha portato ad associare utilità all’atto empio e svantaggio a quello probo (15-21)

[I,27,15] Venga qua e mi venga contro un Pirroniano od un Accademico. Io, per parte mia, non ho agio per questo né posso difendere la causa della comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni. [I,27,16] Anche se avessi un affaruccio per un fondicello, avrei pregato un altro di difendere la mia causa. [I,27,17] Di cosa mi accontento dunque quanto a quest’ambito? Come nasce la sensazione, se attraverso l’intero o da una parte, parimenti non so giustificarlo ed entrambe le tesi mi sconcertano. Ma che io e te non siamo gli stessi, lo so assai precisamente. [I,27,18] Donde questo? Quando dispongo di ingoiare qualcosa, non porto mai il boccone in quel posto là ma qua; quando dispongo di prendere del pane non prendo mai una scopa, ma vengo sempre al pane come allo scopo. [I,27,19] E proprio voi che abolite le sensazioni, che altro fate? Chi di voi volendo partire per le terme, andò al mulino? [I,27,20] -E dunque? Non bisogna fare del nostro meglio per attenersi anche a questo, a serbare la comune consuetudine di fiducia nelle sensazioni, a serrare le fila contro gli argomenti a lei ostili?- [I,27,21] E chi obietta? Ma chi può, chi ne ha l’agio. Chi invece trema, è sconcertato, il cui cuore è spezzato dal di dentro, deve badare a qualcos’altro.

CAPITOLO 28

Cos’è grande e cos’è piccolo?

CHE NON BISOGNA ESASPERARSI CON GLI ESSERI UMANI; E COS’E’ GRANDE E COS’E’ PICCOLO IN LORO ?

L’intellettualismo socratico alla prova di Medea (1-9)

[I,28,1] Cos’è causativo dell’assentire a qualcosa? Il parere che c’è. [I,28,2] A quanto pare dunque non esserci è impossibile assentire. Perché? Perché questa è la natura dell’intelletto: annuire al vero, dispiacersi del falso, sospendere il giudizio nel dubbio. [I,28,3] Cosa ne fa fede? “Sperimenta, se puoi, che ora è notte”. Non è possibile. “Non sperimentare che è giorno”. Non è possibile. “Sperimenta o non sperimentare che le stelle sono in numero pari”. Non è possibile. [I,28,4] Qualora dunque uno assenta al falso, sappi che non disponeva di assentire al falso; giacché ogni animo si defrauda della verità suo malgrado, come dice Platone, [I,28,5] ma che reputò il falso vero. Orsù, e nelle azioni cos’abbiamo di siffatto quale qua il vero od il falso? Il doveroso ed il non doveroso, l’utile e l’inutile, il secondo me ed il non secondo me e quant’altri criteri sono simili a questi. [I,28,6] “Dunque può uno reputare che qualcosa gli è utile e non sceglierla?” Non può. [I,28,7] Come colei che dice —*E capisco sì che mali sto per fare, ma il rancore è più forte delle mie risoluzioni*— lo dice proprio per questo, perché ritiene più utile gratificare il suo rancore e vendicarsi del marito che salvare i figlioli. [I,28,8] “Sì, ma si è ingannata”. Mostrale con evidenza che si è ingannata e non lo farà; ma finché non glielo mostrerai, cos’ha da seguire se non il parere? Niente. [I,28,9] Perché dunque ti esasperi con lei, perché la disgraziata ha errato sulle questioni più grandi ed invece che essere umano è diventata una vipera? Se proprio lo si deve, perché piuttosto non la commiseri come commiseriamo i ciechi e gli zoppi e così coloro che sono stati accecati ed azzoppati nelle facoltà dominanti?

L’intellettualismo socratico alla prova di Menelao (10-13)

[I,28,10] Chiunque, pertanto, ricorda puramente questo: che per l’essere umano misura di ogni azione è il parere (orbene il parere è o buono o cattivo: se è buono, l’uomo è incensurabile; se cattivo, la persona si è punita da se stessa; giacché non può essere uno quello che ha errato ed un altro quello che è danneggiato), ebbene non sarà adirato con nessuno, non si esaspererà con nessuno, non ingiurierà nessuno, non biasimerà nessuno, non odierà, non si offenderà con nessuno. [I,28,11] Sicché anche opere tanto grandi e terribili hanno questo inizio: il parere? Questo e nient’altro. [I,28,12] L’Iliade null’altro è che rappresentazione ed uso di rappresentazioni. Parve ad Alessandro di menar via la moglie di Menelao e parve ad Elena di seguirlo. [I,28,13] Se dunque a Menelao fosse parso di sperimentare che l’essere defraudati di una moglie siffatta è un guadagno, cosa sarebbe accaduto? Non solo sarebbe andata in malora l’Iliade, ma anche l’Odissea.

Morti, stragi, stermìni di esseri umani e di formiche alla prova dell’intellettualismo socratico (14-18)

[I,28,14] Dunque, imprese così rilevanti sono dipese da una faccenda talmente piccola? Quali imprese dici così rilevanti? Guerre, conflitti civili, perdita di molti esseri umani e stermini di città? E cos’hanno di grande questi avvenimenti? [I,28,15] -Nulla?- Che ha di grande il fatto che muoiano molti buoi e molte pecore e che molte nidiate di rondini o di cicogne siano date alle fiamme e sterminate? [I,28,16] -Questi avvenimenti sono dunque simili a quelli?- Similissimi. Andarono in malora corpi di esseri umani e di buoi e di pecore. Furono dati alle fiamme ricetti di esseri umani e nidi di cicogne. [I,28,17] Che c’è di grande o terribile? Oppure mostrami in cosa differiscono, come dimora, la casa di un uomo ed il nido di una cicogna. [I,28,18] -Dunque cicogna e uomo è simile?- Che dici? Quanto al corpo similissimo; eccetto che in un caso le casette sono edificate con travi, tegole e mattoni; nell’altro con rametti ed argilla.

Dove sta, allora, la differenza tra un essere umano ed una formica? Sta nell’informazione scritta nei rispettivi DNA, e grazie alla quale la formica è creatura strutturalmente aproairetica mentre soltanto l’essere umano si trova ad essere creatura proairetica (19-21)

[I,28,19] -Dunque un uomo non differisce in nulla da una cicogna?- Non sia mai! Ma per questo non differisce. -Per cosa dunque differisce?- [I,28,20] Cerca e troverai che per altro differisce. Vedi se non è per il comprendere quanto fa, vedi se non è per la socievolezza, se non è per la lealtà, il rispetto di sé e degli altri, la sicurezza nell’uso delle rappresentazioni, il comprendonio. [I,28,21] Dov’è dunque il grande negli uomini, in bene ed in male? Là dov’è la differenza. Se questa sarà salvaguardata, permarrà ben fortificata e non rovineranno il rispetto di sé e degli altri né la lealtà né il comprendonio, allora si salva anche lui. Ma se qualcosa di queste differenze andrà in malora e cederà all’assedio, allora anche lui va in malora. 

L’annientamento dell’intellettualismo socratico, il rovesciamento dei retti giudizi della proairesi, l’incapacità di massa di usare la diairesi: ecco il vero, grandioso e terrificante disastro del genere umano (22-27)

[I,28,22] Le grandi faccende in questo stanno. Alessandro toppò alla grande quando i Greci attaccarono con le navi e devastarono Troia e quando i suoi fratelli andarono in malora? [I,28,23] Nient’affatto! Nessuno toppa per opera allotria. Ma allora venivano devastati dei nidi di cicogne. L’intoppo fu quando andò in malora l’uomo rispettoso di sé e degli altri, l’uomo leale, conscio delle regole dell’ospitalità, il cittadino del mondo. [I,28,24] Quando toppò Achille? Quando morì Patroclo? Non sia mai! Ma quando si adirava, quando singhiozzava per una pupattola, quando dimenticò che presenziava non per acquisire innamorate ma per fare guerra. [I,28,25] Questi sono gli umani intoppi, questo è l’assedio, questo è lo sterminio: quando i retti giudizi siano demoliti, qualora quelle differenze rovinino. [I,28,26] -Qualora le femmine siano dunque condotte via ed i bimbi fatti prigionieri e le persone scannate, questi non sono mali?- [I,28,27] Donde presumi in più questo? Insegnalo anche a me! -No; ma donde dici tu che non sono mali?- 

L’equilibrio del terrore tra gli esseri umani (28-33)

[I,28,28] Veniamo ai canoni, porta i pre-concetti. Per questo non ci si stupisce mai abbastanza di quel che accade. Laddove disponiamo di giudicare pesi, non giudichiamo a casaccio. [I,28,29] Laddove si tratta di linee rette e curve, non giudichiamo a casaccio. Insomma dove il riconoscere quanto è vero in un àmbito fa per noi differenza, nessuno di noi farà mai qualcosa a casaccio. [I,28,30] Ma dove c’è il primo e solo causativo dell’avere successo od aberrare, dell’essere sereni o no, sfortunati o fortunati, qua soltanto siamo avventati e precipitosi. Da nessuna parte qualcosa simile ad una bilancia, da nessuna parte qualcosa simile ad un canone, ma qualcosa mi parve e subito faccio quel che mi parve. [I,28,31] Giacché sono io migliore di Agamennone o di Achille, così che mentre quelli, seguendo i loro pareri fanno e sperimentano siffatti mali, a me invece il parere basta? [I,28,32] E quale tragedia ha altro inizio? L’Atreo di Euripide, cos’é? Il parere. L’Edipo di Sofocle, cos’è? Il parere. [I,28,33] Il Fenice? Il parere. L’Ippolito? Il parere. Dunque non farsi sollecitudine alcuna di ciò, di chi lo reputate? Come sono detti coloro che seguono in tutto il parere? -Pazzi- Noi dunque facciamo qualcos’altro?

CAPITOLO 29

La stabilità di giudizio di Socrate

SULLA STABILITA’ DI GIUDIZIO

Noi possiamo trarre beni e mali solamente da noi stessi. Essi sono infatti un certo modo di essere della proairesi (1-8)

[I,29,1] Sostanza del bene è un certo modo della proairesi; del male, un certo modo della proairesi. [I,29,2] Cosa sono dunque gli oggetti esterni? Materiali per la proairesi, sui quali rivolgendosi essa centrerà il proprio peculiare bene o male. [I,29,3] Come centrerà il bene? Se non si infatuerà dei materiali. Giacché i giudizi sui materiali, se sono retti fanno la proairesi buona; se scorretti e pervertiti, cattiva. [I,29,4] Questa legge la Materia Immortale ha posto e dice: “Se disponi qualche bene, prendilo da te stesso”. Tu dici “No, da un altro”. No, ma da te stesso. [I,29,5] Orbene, qualora il tiranno minacci e mi chiami in giudizio, io dico: “Cosa minacci?”. Se lui dirà: “Ti farò incatenare!”, io dico: “Minacci le mani ed i piedi”. [I,29,6] Se dirà: “Ti farò troncare il collo!”, dico: “Minacci il collo”. Se dirà: “Ti butterò in prigione!”, dico: “La carne intera”; e se minaccerà il confino, lo stesso. [I,29,7] -Dunque niente minaccia te?- Se sperimento che queste cose sono niente per me, niente. [I,29,8] Se invece ho paura di qualcuna di queste, esse minacciano me. Orbene, chi temo? Chi è Signore di cosa? Di quanto è in mio esclusivo potere? Ma neppur uno lo è. Di quanto è non in mio esclusivo potere? E che m’ importa di esso?

Niente può vincere la proairesi: essa sola può vincere se stessa. Dunque i re, o chi per essi, possono regnare sugli averi dei loro sudditi, ma non sui loro giudizi (9-15)

[I,29,9] -Dunque voi filosofi insegnate a spregiare i re?- Non sia mai! Chi di noi insegna a pretendere da loro ciò su cui essi hanno potestà? [I,29,10] Prendi il corpo, prendi il patrimonio, prendi la fama, prendi chi ho intorno. Se convincerò qualcuno a pretendere queste cose, effettivamente mi si incolpi. [I,29,11] “Sì, ma voglio comandare anche sui giudizi”. E chi ti ha dato questa potestà? Dove puoi vincere un giudizio allotrio? [I,29,12] “Appressandogli paura,” dice, “vincerò”. Ignori che esso vinse se stesso e non fu vinto da un altro? Nient’altro può vincere la proairesi eccetto che essa se stessa. [I,29,13] Per questo la legge di Zeus è la più possente e la più giusta: il migliore abbia sempre il sopravvento sul peggiore. [I,29,14] “Dieci sono migliori di uno”. Per cosa? Per incatenare, per uccidere, per menare dove vogliono, per sottrarre gli averi. Quindi i dieci vincono l’uno in ciò in cui sono migliori. [I,29,15] In cosa sono dunque peggiori? Se uno avrà retti giudizi, e loro no. E dunque? Possono vincere in questo? Donde? Se ci pesiamo su una bilancia, non dovrebbe il più pesante tirare in basso?

Cosa ha perso Socrate e cosa hanno vinto i suoi carnefici (16-21)

[I,29,16] -Affinché Socrate poi sperimenti quel che sperimentò ad opera degli Ateniesi?- Schiavo! perché dici “Socrate”? Dì come sta la faccenda: affinché il corpo di Socrate fosse menato via e strascicato in carcere dai più potenti; perché qualcuno desse al corpo di Socrate della cicuta ed esso venisse meno. [I,29,17] Questo ti pare stupefacente, ingiusto, per questo incolpi Zeus? Dunque nulla aveva Socrate in cambio di questo? [I,29,18] Dov’era per lui la sostanza del bene? A chi fare attenzione? A te od a lui? Cosa dice lui? “Anito e Meleto possono farmi uccidere ma non danneggiare”. E di nuovo: “Se così a Zeus è caro, così sia”. [I,29,19] Mostra che chi ha giudizi peggiori padroneggia chi è migliore nei giudizi. Non lo mostrerai e non ci andrai neppur vicino. Giacché legge della natura e di Zeus è questa: il migliore abbia sempre il sopravvento sul peggiore. In cosa? In ciò in cui è migliore. [I,29,20] Un corpo è più potente di un altro corpo; i più dell’uno; il ladro del non ladro. [I,29,21] Ed io per questo motivo persi la lucerna, perché il ladro era migliore di me nel vegliare. Ma lui a cotanto comperò una lucerna: in cambio di una lucerna divenne ladro, in cambio di una lucerna divenne sleale, in cambio di una lucerna divenne belluino. E questo reputò essere vantaggioso!

Lì dove siete migliori di me, farò come dite voi (22-27)

[I,29,22] Sia; ma uno mi ha preso per la toga e mi trascina verso la piazza e poi altri strepitano: “Filosofo, a che ti hanno giovato i giudizi? Ecco sei strascicato in carcere, ecco stanno per troncarti il collo!” [I,29,23] E quale “Introduzione alla filosofia” avrei dovuto effettuare per non essere strascicato se uno più potente mi abbrancherà per la toga? Per non essere sbattuto in carcere se dieci mi trarranno via e mi ci sbatteranno? [I,29,24] Dunque non imparai null’altro? Imparai a vedere che tutto quel che accade, se sarà aproairetico, nulla è per me. [I,29,25] -E per il caso presente non te ne giovi? Perché cerchi giovamento in altro da quanto imparasti?- [I,29,26] Orbene, seduto in prigione dico: “Costui che gracchia queste cose, né sente il significato né comprende quanto è detto né in complesso gli è importato di sapere, dei filosofi, cosa dicono o cosa fanno. Lascialo stare!” [I,29,27] “Adesso esci dalla prigione”. Se non avete più bisogno di me in prigione, esco; se l’avrete di nuovo, vi rientrerò. 

Fino a quando? Fino a quando la ragione lo sceglierà (28-29)

[I,29,28] Fino a quando? Fino a che la ragione sceglierà che io stia col corpo. Qualora non lo scelga, prendetelo e state in salute. [I,29,29] Soltanto non irragionevolmente, soltanto non per mollezza, non per un pretesto casuale. Giacché Zeus non decide di nuovo: egli ha bisogno di un siffatto ordine del mondo, di siffatti abitanti della terra. E se significherà la ritirata come a Socrate, bisogna ubbidire a chi significa come ad uno stratega.

Ad alcuni individui piace eleggersi come scopo di vita quello di cavare sangue dalle rape e di far volare gli asini (30-32)

[I,29,30] -E dunque? Si devono dire queste cose ai più?- [I,29,31] A che fine? Non basta ubbidirgli? Ai bimbi, qualora vengano applaudendo e dicano: “Oggi buoni Saturnali!”; diciamo noi: “Questi non sono beni”? Nient’affatto, ma battiamo le mani anche noi. [I,29,32] Quindi tu pure, qualora non possa persuadere qualcuno a modificare avviso, riconosci che è un bimbo e battigli le mani. Se questo non disporrai, orbene taci.

Tu invece, quando viene il momento giusto, sappilo riconoscere ed entra in campo (33-34)

[I,29,33] Di questo bisogna ricordarsi, e chi è chiamato ad una siffatta circostanza deve sapere che è venuto il tempo di dimostrare se ci siamo educati a diairesizzare. [I,29,34] Giacché un giovane che dalla scuola se ne va verso una circostanza difficile è simile a colui che ha studiato a risolvere sillogismi e che, se gliene si porgerà uno facile da sciogliere, dice: “Porgetemene piuttosto uno raffinatamente intrecciato, per allenarmi”. Anche gli atleti si dispiacciono dei giovanotti leggeri: “Non mi sorregge”, dice.

Non dire: “Devo ancora imparare…” (35-38)

[I,29,35]”Questo è un giovane purosangue”. No, ma quando il tempo chiama bisogna singhiozzare e dire: “Vorrei ancora imparare!” Cosa? Se non imparasti questo per mostrarlo nei fatti, per che cosa lo imparasti? [I,29,36] Io credo che qualcuno di coloro che siedono qui sia in travaglio di pensiero e tra sé e sé dica: “Non venirmi incontro ora una circostanza difficile quale quella cui è andato incontro costui! Consumarmi io seduto in un angolino, potendo essere incoronato ad Olimpia! Quando uno mi annunzierà una gara siffatta?” Così dovreste stare tutti voi. [I,29,37] Tra i gladiatori di Cesare ve ne sono alcuni che fremono perché nessuno li promuove né fa loro fare coppia; e pregano Dio e vengono dai delegati brigando per combattere corpo a corpo; e nessuno di voi apparirà siffatto? [I,29,38] Proprio per questo vorrei navigare e vedere cosa fa il mio atleta, come studia l’ipotesi.

Non dire: “Questa gara non mi va, ne voglio un’altra…” (39-43)

[I,29,39] “Non voglio,” dice, “un’ipotesi siffatta”. E’ in tuo esclusivo potere prendere l’ipotesi che vuoi? Ti sono stati dati un corpo siffatto, siffatti genitori, siffatti fratelli, siffatta patria, siffatto posizionamento in essa; e poi mi vieni a dire “Cambiami la premessa!” E poi non hai risorse per utilizzare i dati di fatto? [I,29,40] Tuo è porgere; mio studiare bene. No, ma “Non mettermi davanti questo tropo ma quest’altro; non farmi inferire questa inferenza ma quest’altra”. [I,29,41] Ci sarà probabilmente un tempo in cui i cantanti crederanno di essere maschere, coturni e lo strascico. O uomo, questo hai come materiale e premessa. [I,29,42] Pronuncia qualcosa, affinché sappiamo se sei un cantante od un ciarlatano: giacché il resto lo hanno entrambi in comune. [I,29,43] Per questo se uno gli sottrarrà i coturni e la maschera e lo promuoveràin scena nel suo aspetto normale, il cantante va in malora o rimane? Se avrà voce, rimane.

Uomo! Fa vedere di che Materia sei fatto! (44-49)

[I,29,44] Anche qua. “Prendi l’imperio!” Lo prendo e, presolo, mostro come si conduce un uomo che è stato educato a diairesizzare. [I,29,45] “Deponi il laticlavio ed indossando dei cenci vieni innanzi in siffatto personaggio!” E dunque? Non mi è stato dato di portarmi dentro una magnifica voce? [I,29,46] “Dunque, come sali ora sulla scena?”Come testimone chiamato da Zeus. [I,29,47] “Vieni tu, e rendimi testimonianza. Giacché tu meriti di essere promosso da me come testimone. E’ forse qualcuno degli oggetti esterni alla proairesi, bene o male? Danneggio forse qualcuno? Feci forse quanto a ciascuno giova in esclusivo potere d’altri o di lui stesso?” [I,29,48] Che testimonianza dai alla Materia Immortale? “Sono in difficoltà terribili, Signoreedho cattiva fortuna; nessuno si impensierisce per me, nessuno mi dà nulla, tutti mi denigrano e parlano male di me”. [I,29,49] Questo sei per testimoniare e per svergognare la chiamata che ti ha fatto; perché ti onorò di questo onore e ritenne degno che ti appressassi per una testimonianza così rilevante?

Il conto in cui vanno tenuti i giudizi di chi ha potere su quanto è aproairetico (50-55)

[I,29,50] Ma chi ne ha la potestà dichiarò: “Ti giudico empio e sacrilego “. Che ti è accaduto? [I,29,51] “Fui giudicato empio e sacrilego”. Nient’altro? “Niente”.E se di un periodo ipotetico colui avesse decretato e data dichiarazione “Il ‘se è giorno c’è luce’ lo giudico falso” cosa sarebbe accaduto al periodo ipotetico? Chi è qui giudicato? Chi è stato condannato? Il periodo ipotetico o chi si è ingannato su di esso? [I,29,52] Chi mai è costui che ha la potestà di dichiarare qualcosa su di te? Sa cos’è il pio o l’empio? L’ha studiato? Ha imparato? [I,29,53] Dove? Da chi? E poi un musicista non si impensierisce se colui dichiarasse che la corda più bassa è la più alta; né uno studioso di geometria se decreterà che i segmenti che dal centro incolgono la circonferenza non sono di pari lunghezza. [I,29,54] E chi davvero è stato educato a diairesizzare si impensierirà per un individuo non educatovi, il quale decreta qualcosa sul sacrosanto e sul sacrilego, sull’ingiusto e sul giusto? [I,29,55] Che ingiustizia da parte degli educati a diairesizzare! Queste cose le imparasti qui? 

Dagherrotipo di Corpo Accademico (55)

Non vuoi lasciare ad altri le argomentazioni logiche su queste questioni, ad indolenti ometti, affinché immobili in un angolino essi prendano delle paghette o brontolino che nessuno procura loro nulla; e tu invece pervenire ad usare ciò che imparasti?

Tu, invece, fa vivere la diairesi (56-58)

[I,29,56] Giacché non sono le argomentazioni logiche che ora mancano. I libri traboccano di argomentazioni logiche Stoiche. Cosa manca dunque? Chi li userà, chitestimonierà i discorsi con l’opera. [I,29,57] Interpretami questo personaggio, affinché a scuola non usiamo più paradigmi antichi ma abbiamo anche un paradigma contemporaneo. [I,29,58] Ed essere spettatore di questi esempi, di chi è? Di chi ne ha l’agio. Giacché l’essere umano è creatura cui piace essere spettatore.

Chi usa la controdiairesi ha dei padroni; chi ha dei padroni è turbato ed infelice; chi è turbato ed infelice usa la controdiairesi (59-63)

[I,29,59] Ma è brutto essere spettatori di questi esempi come gli schiavi fuggiaschi. Bello è invece sedere senza distrazioni ad ascoltare ora un cantante, ora un citaredo e non come fanno quelli. Mentre assiste e loda il cantante, insieme si guarda attorno e poi, se qualcuno pronuncerà “Signore”, subito si sono agitati, sono sconcertati. [I,29,60] Ed è brutto che anche i filosofi siano così spettatori delle opere della natura. Cos’é, infatti,“Signore”? Un uomo non è Signore di un uomo, ma lo sono morte e vita, piacere fisico e dolore. [I,29,61] Peraltro conducimi qui Cesare sprovvisto di queste armi e vedrai come sono stabile! Ma qualora egli venga con questi tuoni e lampi ed io ne abbia paura; che altro faccio se non riconoscere in lui il “Signore”, come fa lo schiavo fuggiasco? [I,29,62] Finché non avrò qualche tregua da queste minacce, anch’io assisto come uno schiavo fuggiasco a teatro: faccio il bagno, bevo, canto; ma tuttocon paura ed un senso di disgrazia. [I,29,63] Se però mi licenzierò dai padroni, cioè da ciò per cui i padroni sono paurosi, quale fastidio ho ancora, ancora quale “Signore”?

L’incapacità di massa di usare la diairesi può diventare per me motivo di turbamento? L’esempio di Socrate (64-66)

[I,29,64] E dunque? Bisogna proclamare queste verità a tutti? No, ma esserecompiacenti con le persone comuni e dire: “Costui consiglia anche a me quello che crede bene per sé stesso: lo perdono”. [I,29,65] Anche Socrate quando era per bere il veleno perdonava il carceriereche singhiozzava, e dice: “Come ci ha generosamente pianto!” [I,29,66] Gli dice forse: “Per questo licenziammo le signore”? Questo lo dice ai conoscenti, a coloro che possono sentirlo dire; con quello invece è compiacente come con un bimbo.

CAPITOLO 30

Rigore

COSA SI DEVE AVERE A PORTATA DI MANO NELLE CIRCOSTANZE DIFFICILI ?

Sei davanti ad un individuo che crede di avere potere su di te ed alla tua proairesi (1)

[I,30,1] Qualora vada davanti a qualche persona eminente, ricordati che dall’alto anche un altro scorge gli avvenimenti e che tu devi essere gradito a questo piuttosto che a quello.

L’esame di proairesi (2-5)

[I,30,2] Questo dunque cerca di sapere da te: “A scuola cosa dicevi essere esilio, prigione, catene, morte, discredito?” [I,30,3] “Io, indifferenti”. “Ed ora cosa le dici essere? Furono forse cambiate?” “No”. “Fosti cambiato tu?” “No”. “Dì dunque cos’è indifferente”. “Ciò che è aproairetico”. “Dì anche il seguito”. “Ciò che è aproairetico nulla è per me”. [I,30,4] “Dì anche quali cose reputavate beni”. “La proairesi e l’uso delle rappresentazioni quale si deve”. “E quale il fine?” “Seguirti”. [I,30,5] “Dici questo anche ora?” “Dico anche ora lo stesso”. Orbene, vattene dentro con fiducia, ricordatene, e vedrai cos’è un giovane che ha studiato ciò che si deve fra gente che non ha studiato.

Il niente di chi crede di avere potere su di te (6-7)

[I,30,6] Io sì, per gli dei, immagino che sperimenterai qualcosa di siffatto: “Perché ci prepariamo così grandemente e così tanto per il niente? [I,30,7] La potestà era questo? Questo le anticamere, i camerieri, le guardie coi pugnali? Per questo ascoltavo i molti discorsi? Erano niente, ed io mi preparavo come a grandi cose!”