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EPITTETO ‘DIATRIBE’ LIBRO III CAPITOLO XXII SUL CINISMO

SUL CINISMO

Quando un suo conoscente che appariva propenso a cinizzare, cercò di sapere da lui: “Che tipo di persona deve essere chi vive da Cinico? Qual è il preconcetto che dobbiamo avere della faccenda?”, Epitteto gli rispose: “Lo analizzeremo con agio; ma intanto ho da dirti che chi progetta per sé una faccenda così rilevante prescindendo dalla conoscenza di che cosa sia la divinità, è oggetto del disgusto divino e null’altro vuole che fare l’indecente in pubblico. Giacché neppure in una casa ben amministrata uno arriva e si dice: ‘Devo essere io l’amministratore’. Altrimenti il padrone di casa lo tiene d’occhio, e vedendolo dare altezzosamente ordini qua e là, lo caccia fuori e lo fa fare a pezzi. Così accade anche in questa grande città. Giacché c’è anche qui un padrone di casa, che è quello che stabilisce l’ordine di ciascuna cosa: ‘Tu sei sole: nel corso della tua rivoluzione hai il potere di fare l’anno e le stagioni, di far crescere e maturare i frutti, di far soffiare e placare i venti, di riscaldare in giusta proporzione i corpi degli uomini. Va’, compi la tua rivoluzione e così metti in movimento tutte le cose, dalle più grandi alle più piccole. Tu sei un vitello: quando si dia a vedere un leone, effettua l’opera tua; se no, mugugnerai. Tu sei un toro: vieni innanzi a combattere, giacché questo ti spetta, ti si confà e puoi fare. Tu puoi capeggiare l’esercito contro Ilio: sii Agamennone. Tu puoi combattere corpo a corpo con Ettore: sii Achille’. Se invece Tersite si facesse avanti e pretendesse il comando, in primo luogo non lo otterrebbe; oppure, una volta ottenutolo, si coprirebbe di ridicolo davanti ad una moltitudine di testimoni. 
Tu pertanto delibera sulla faccenda dell’abbracciare la vita Cinica con la dovuta solerzia, giacché non si tratta di quel che ti pare a prima vista: ‘Una mantellina la indosso già adesso e la indosserò pure allora; già ora mi corico sul duro e sul duro mi coricherò anche allora; aggiungerò una piccola bisaccia ed un bastone e, andando in giro, comincerò a fare delle domande a chi incontro e ad ingiuriarlo. Se vedrò uno depilato col dropace, lo rimprovererò; e lo stesso farò se vedrò qualcuno con il ciuffo tutto ben plasmato o che passeggia vestito in scarlatto’. Se tu immagini che il vivere da Cinico sia qualcosa di questo genere, stanne lontano: non avvicinartici, non è affare per te. Se invece, immaginandolo qual è non te ne stimi indegno, analizza a che grande faccenda metti mano.
Innanzitutto, per quanto ti riguarda, non devi più mostrarti simile in nulla all’uomo che sei adesso e smetterla di dare la colpa di qualcosa a dio o agli uomini. Devi completamente rimuovere da te il desiderio ed allogare la tua avversione solamente su ciò ch’è proairetico. Non devi più provare ira, sdegno, invidia, commiserazione. Una donzelletta graziosa, un po’ di reputazione, un garzoncello scherzoso, una focaccetta non devono più apparirti cose belle. Giacché devi sapere che le altre persone, quando fanno un certo genere di cose, le fanno dietro delle pareti, nelle loro case, al buio; ed hanno molti altri mezzi per nasconderle. Un tale ha fatto sbarrare la porta, ha collocato un servo davanti alla camera da letto e gli ha dato quest’ordine: ‘Se verrà qualcuno, dì che il padrone è fuori, che è impegnato!’. Invece di tutti questi paraventi, il Cinico è tenuto ad avere dinanzi a sé, quale sua unica protezione, il rispetto di sé e degli altri. Se no, nudo com’è ed all’aria aperta, altro non gli riuscirà di fare che l’indecente. Il rispetto di sé e degli altri è la sua casa, la sua porta, i suoi custodi davanti alla camera da letto, il buio. Il Cinico non deve voler celare qualcosa di suo (altrimenti è sparito, è andato in malora il Cinico, l’uomo che vive all’aria aperta, l’uomo libero; perché allora significa che ha iniziato ad aver paura di qualcuno degli oggetti esterni, che ha iniziato ad aver bisogno di qualcosa che lo nasconda) e, se pur volesse celarlo, non potrebbe neppure farlo. Giacché dove lo celerà o come lo celerà? E se colui che ha il compito di educare gli uomini all’uso della diairesi, il comune pedagogo fallirà nel suo intento, cosa deve necessariamente sperimentare? Se dunque il Cinico teme qualcuno degli oggetti esterni, è ancora possibile che ardisca soprintendere con l’animo intero alle altre persone? Ciò è inconcepibile, è impossibile.
Tu dunque devi, innanzitutto, fare puro il tuo egemonico e proporti questo istituto di vita: ‘Ora mio materiale è il mio intelletto, come il legno è materiale per il falegname e le pelli lo sono per il calzolaio. L’opera cui mi accingo è il retto uso delle rappresentazioni. Il mio corpo nulla è per me, nulla per me sono le sue parti. La morte? Venga quando vorrà, sia del corpo intero sia di qualche sua parte. L’esilio? E dove, in quale esilio può qualcuno cacciarmi? Cacciarmi fuori dell’ordine del mondo di sicuro non può. Dovunque andrò, là troverò il sole, ci saranno la luna, gli astri, le mie visioni in sogno, dei presagi augurali, la mia conversazione con gli dei’. 
Inoltre il vero Cinico, pur ben preparatosi a queste opere, non può accontentarsi di esse, ma deve avere piena coscienza di essere stato inviato da Zeus agli esseri umani quale messaggero. Un messaggero che indica loro quanto errano circa i beni e i mali, che mostra loro come essi cerchino la sostanza del bene e del male altrove da dov’essa è, mentre non pensano a cercarla dove invece essa si trova. Egli deve sapere di essere un esploratore come Diogene, il quale fu condotto al cospetto di Filippo di Macedonia dopo la battaglia di Cheronea. Giacché effettivamente il Cinico è un esploratore di quanto è amico e di quanto è nemico dell’uomo; e bisogna che egli, dopo avere analizzato la faccenda con ogni precisione, venga ad annunciare la verità agli uomini senza mostrarsi sbigottito, senza indicare nemici inesistenti, né apparire in qualche altro modo sconvolto o confuso dalle rappresentazioni.
Se capita, il Cinico deve dunque essere l’uomo capace di alzarsi in piedi, di salire sulla scena dove si sta svolgendo la tragedia e di pronunciare le parole di Socrate: ‘Ohimè, uomini, dove state andando? Cosa state facendo, disgraziati? Rotolate su e giù come ciechi; prendete la strada sbagliata dopo avere abbandonato quella giusta; cercate ciò che rasserena, ciò che fa felici altrove, là dove esso non è; e non vi fidate di chi ve lo mostra. Perché lo cercate fuori di voi? Nel corpo non c’è. Se non mi credete, guardate Mirone, guardate Ofellio. Nel patrimonio non c’è. Se non mi credete, guardate Creso; guardate la gente d’oggi piena di denaro: guardate di quanti mugugni è piena la loro vita. Nelle cariche istituzionali non c’è. Se no, bisognerebbe che quanti sono stati consoli per due o tre volte fossero felici: ma essi non lo sono. Delle parole di chi ci fideremo a questo riguardo? Di voi che scorgete le loro faccende soltanto dal di fuori e che siete abbagliati dalle vostre fantasie, oppure di loro stessi? Che cosa dicono essi? Ascoltateli, sentiteli quando mugugnano, quando gemono, quando si rendono conto di fare la vita più meschina e più pericolosa che ci sia proprio a causa dei consolati che esercitano, della reputazione di cui godono, della notorietà che hanno. Nel potere regale non c’è: altrimenti Nerone sarebbe stato felice, e lo sarebbe stato pure Sardanapalo. Neppure Agamennone era felice, pur essendo una persona più raffinata di Sardanapalo e di Nerone. Infatti, mentre gli altri russano, lui che fa? 

‘Dal capo si strappava i capelli a ciocche, fin dalla radice’,

e quali sono le sue parole?

‘Vado qua e là a questo modo’

 dice, e

‘Sono angosciato: il cuore mi balza fuori dal petto’.

Sciagurato Agamennone, cosa c’è di te che va male? Il patrimonio? Il tuo patrimonio non va affatto male: sei ricco d’oro e di bronzo. Il corpo? Neppure il tuo corpo sta male. Che male hai dunque? Quel male là: che di te risulta trascurato e in rovina ciò con cui desideriamo, ciò con cui avversiamo, con cui impelliamo e repelliamo. In che modo è stato trascurato? Esso ignora la sostanza del bene per cui è nato e quella del male; ignora che cosa è suo peculiare e che cosa è invece allotrio. Sicché quando qualcuna delle faccende che non sono in suo esclusivo potere va male, il tuo egemonico dice: 
‘Ahimè, i Greci sono in pericolo!’. 
Disgraziato egemonico, esso solo negletto e senza cura! 
‘Stanno per morire, distrutti dai Troiani!’. 
E se non li uccideranno i Troiani, non morrebbero comunque? 
‘Sì, ma non tutti in una volta’. 
E che differenza fa? Giacché se morire è un male, morire tutti assieme oppure morire uno per volta è similmente un male. Sta per accadere qualcos’altro dalla separazione di corpo ed animo? 
‘No, null’altro’. 
E se vanno in malora i Greci, per te la porta è stata chiusa? Non hai la potestà di morire anche tu? 
‘Sì, ce l’ho’. 
Perché dunque piangi e gridi ahimè!, pur essendo re ed avendo lo scettro di Zeus? Un re non è mai sfortunato, non più di quanto possa esserlo la Materia Immortale. Cosa sei tu dunque? In verità tu sei soltanto un pastore, giacché singhiozzi come i pastori quando il lupo ghermisce qualcuna delle loro pecore. E sono proprio pecore costoro che tu comandi. E perché sei venuto qui? Forse correvano dei pericoli il vostro desiderio, la vostra avversione; lo correvano forse il vostro impulso o la vostra repulsione? 
‘No’, dice, ‘siamo venuti qui perché era stata rapita la mogliettina di mio fratello’. 
Ma non è un gran guadagno l’essere privati di una mogliettina adultera? 
‘Dunque dobbiamo accettare di essere disprezzati dai Troiani?’ 
E chi sono i Troiani? Dei saggi o degli stolti? Se sono saggi, perché fate loro guerra? Se sono degli stolti, che v’importa di loro? 
‘Siccome non sta in nessuna di queste cose, in cosa sta dunque il bene? Diccelo, signor messaggero ed esploratore!’ 
Il bene sta dove voi non reputate che stia e dove non volete cercarlo; giacché, se così disponeste di fare, avreste già trovato che il bene è in voi. Sicché non lo proiettereste fuori di voi, né vi mettereste alla caccia di ciò che è allotrio come se fosse vostro peculiare. Datevi pensiero di voi stessi, decifrate i preconcetti che avete. Quale cosa vi rappresentate essere il bene?
‘Il bene è ciò che ci rasserena, che ci fa felici, che non è soggetto ad impacci’. 
Orsù, e non ve lo rappresentate naturalmente grandioso? Non ve lo rappresentate rimarchevole? Non ve lo rappresentate inoffensivo? In quale materiale bisogna dunque cercare ciò che rasserena e non è soggetto ad impacci? In qualcosa che è servo o in qualcosa che è libero? 
‘In qualcosa che è libero’. 
Allora: il corpo l’avete libero o servo? 
‘Non lo sappiamo’. 
Non sapete che il corpo è servo della febbre, della podagra, di un’oftalmia, della dissenteria, di un tiranno, del fuoco, del ferro, di qualunque cosa è più potente di lui? 
‘Sì, il corpo è servo di queste cose’. 
Come può dunque ancora essere non soggetto ad intralci qualcosa che ha a che fare con il corpo? Come può essere grandioso o rimarchevole ciò che è per natura cadavere, che è terra, che è argilla? E allora? Non possedete voi niente che sia libero? 
‘Forse niente’. 
Ditemi allora: chi può costringervi ad assentire a quanto vi appare falso? 
‘Nessuno lo può’. 
Chi può forzarvi a non assentire a quanto vi appare vero? 
‘Nessuno’. 
Dunque vedete che qua vi è in voi qualcosa che è libero per natura. Chi di voi può desiderare od avversare, impellere o repellere, prepararsi o proporsi qualcosa senza averne insieme la rappresentazione di vantaggioso o di contrario a ciò che gli è doveroso fare? 
‘Nessuno’. 
Pertanto anche in ciò voi avete qualcosa che non è soggetto ad impedimenti e che è libero. Disgraziati! Questo elaborate, di questo siate solleciti; qui cercate il bene! 
‘E com’è fattibile che se la passi serenamente chi non ha nulla, chi è nudo, senza casa, senza focolare, ispido, senza un servo e senza cittadinanza?’ 
Ecco, la divinità ha inviato chi vi mostrerà nella pratica che ciò è fattibile. 
‘Guardatemi: sono senza casa, privo di cittadinanza, squattrinato, senza un servo; mi corico per terra; non ho moglie, non ho figli, non ho pretorio, ma soltanto la terra, il cielo ed un solo mantellino. E cosa mi manca? Non so forse dominare l’afflizione, non so dominare la paura, non sono libero? Quando mai qualcuno di voi mi vide fallire nel desiderio o, nell’avversione, incappare in quanto avverso? Quando mai io biasimai dio od uomo, quando mai io incolpai qualcuno? Qualcuno di voi m’ha visto forse accigliato? Come vado incontro a costoro dei quali voi avete paura e siete infatuati? Non vado loro incontro come a degli schiavi? Vedendomi, chi non crede di vedere il suo re e padrone?’ 
Ecco accenti da Cinico, eccone lo stile e il progetto. Tu invece dici: ‘No! Quel che fa il Cinico sono una piccola bisaccia, un bastone e delle grandi mascelle. Da Cinico è il divorare tutto quel che gli darai, o metterlo in serbo, o ingiuriare intempestivamente chi gli viene incontro o mettere in mostra la bella spalla’. Vedi in che modo stai per porre mano ad una faccenda di tale rilievo? Prendi per prima cosa uno specchio e guarda le tue spalle, decifra i tuoi lombi e le tue cosce. Uomo! tu stai per iscriverti alle Olimpiadi, non ad una qualche gelida e disgraziata garetta. Alle Olimpiadi non si tratta soltanto di essere vinti e di uscire dalla gara, ma innanzitutto si tratta di fare una figura indecente davanti all’umanità intera che ti guarda, non soltanto davanti agli Ateniesi, agli Spartani o ai Nicopolitani. Inoltre, chi si iscrive avventatamente alle Olimpiadi deve aspettarsi di essere conciato per le feste, e ancor prima di essere conciato per le feste, deve aspettarsi di soffrire la sete, di patire il caldo e di ingoiare molta polvere. Consigliati dunque in proposito con la massima solerzia, riconosci te stesso, interroga il tuo démone, non mettere mano a questa impresa prescindendo dall’assenso del dio che è dentro di te. Giacché se il dio te lo consiglierà, sappi che dispone di farti diventare un grande uomo oppure vuole che tu prenda molte botte. Anche questo filo davvero assai grazioso risulta infatti intrecciato nell’impresa del Cinico: egli deve essere conciato per le feste come un asino; e pur così conciato, amare coloro stessi che così lo conciano, come padre o fratello di tutti. Tu invece dici: ‘No!’ E se qualcuno ti concia per le feste, allora mettiti a gracchiare in modo che tutti sentano: ‘O Cesare, nella tua pace quali angherie mi tocca subire? Andiamo dal proconsole!’ Ma per il Cinico chi è Cesare o un proconsole o un altro individuo, se non chi l’ha mandato su questa terra e colui al quale egli rende culto, ossia Zeus? Invoca egli altri che Zeus? Non è il Cinico persuaso che qualunque sorta di angherie gli toccherà subire, è Zeus che lo sta allenando? Eracle, allenato da Euristeo, non riteneva affatto di essere un meschino, ma realizzava intrepidamente tutti gli ordini che riceveva. E merita di portare lo scettro di Diogene chi, cimentato ed allenato da Zeus, si mette a strillare e a fremere? Ascolta cosa dice Diogene, quando ha la febbre, ai passanti: ‘Teste di cazzo’ dice ‘non vi fermerete? Fate tanta strada e arrivate fino ad Olimpia per vedere la lotta di atleti della malora, e vi rifiutate di vedere la battaglia tra la febbre ed un uomo?’ Ah, di sicuro uno come Diogene avrebbe incolpato Zeus di averlo messo al mondo per poi usare di lui a torto! Proprio lui che si abbelliva delle circostanze difficili e si riteneva degno di essere uno spettacolo per i passanti! Per cosa se la prenderà con Zeus? Perché gli concede di agire con decoro? Di cosa lo accuserà? Di permettergli di sfoggiare più radiosa la sua virtù? Orsù, e cosa dice Diogene della povertà di denaro, della morte, del dolore? Come paragonava la sua felicità a quella del Gran Re o, piuttosto, credeva che neppure fosse paragonabile? Giacché là dove sono sconcerti, afflizioni, paure, desideri imperfetti, avversioni che incappano in quanto avversano, invidie, gelosie: là che passaggio vi può mai trovare la felicità? Dovunque ci siano giudizi schifosi, là è necessario che alberghino tutti questi mali”. 
Quando il giovanotto cercò di sapere se, essendo ammalato, dovrà dare retta ad un amico che lo sollecita ad andare da lui per essere curato, Epitteto gli disse: “E dove mi troverai un amico del Cinico? Giacché costui deve essere un altro Cinico, per meritare di essere contato quale amico del primo. Deve essergli socio di scettro e di regno e degno ministro, se vuole essere degno della sua amicizia: come Diogene lo fu di Antistene e Cratete di Diogene. Oppure reputi che se uno chiunque va da un Cinico e gli dice ‘Salve!’ è suo amico, e che il primo lo riterrà degno di accoglierlo come tale? Se questo è quel che tu pensi, se hai in mente qualcosa del genere, piuttosto guardati intorno e cerca un accogliente immondezzaio sul quale avere la febbre, e che ti ripari dal vento di Borea per non congelare. A me sembra che tu voglia andare a casa di qualcuno giusto per essere foraggiato un po’ di tempo. Insomma, cosa c’entri tu con il mettere mano ad una faccenda della rilevanza del Cinismo?”.
A questo punto il giovanotto gli chiese: “Ma lo sposarsi e l’avere dei figli saranno assunti dal Cinico come eventi di cardinale importanza?”. 
“Se tu mi darai” gli rispose Epitteto “una città di sapienti, sarà probabilmente difficile che uno abbracci la vita Cinica. Giacché a favore di chi egli si incaricherà di questo modo di vivere? Se però assumiamo come valida questa ipotesi, allora nulla gli impedirà di sposarsi e di avere dei figli, giacché sua moglie sarà anche lei una Cinica, il suocero un altro Cinico e i figli saranno allevati a questo modo. Ma se la condizione della città è quella di adesso, cioè di schieramenti contrapposti, non deve forse il Cinico essere senza distrazioni, interamente dedito al ministero di Zeus, in grado di frequentare persone, non vincolato a doveri propri di gente comune né implicato in relazioni sociali violando le quali non salvaguarderà più il ruolo del virtuoso e serbando le quali manderà in malora il messaggero, l’esploratore ed araldo degli dei che egli è? Giacché vedi bene che in questo caso egli deve mostrarsi disponibile a prestare certi servizi al suocero, esplicarne altri per gli altri parenti della moglie e per la moglie stessa; e così facendo si esclude dal Cinismo per curare ammalati e per provvedere loro. Tralasciamo pure di parlare del resto, ma egli deve provvedere una cuccuma dove farà scaldare l’acqua per il figlio e fargli il bagno nella tinozza. Dovrà provvedere della lana per la moglie che ha partorito; poi dell’olio, un graticcio, una tazza (e le suppellettili diventano sempre più numerose); per tralasciare, dicevo, gli altri impegni, le altre distrazioni. Orbene, dove mi sarà più quel re, colui che bada ai comuni interessi, colui

‘A cui son tante genti commesse e tante cure’,

che deve sopravvedere gli altri: gli sposati, chi ha dei figli, chi tratta bene la propria moglie e chi la tratta male, chi litiga, quale casa è stabile e tranquilla e quale non lo è, andando in giro come un medico a tastare i polsi della gente? ‘Tu hai la febbre, tu hai mal di testa, tu hai la podagra; tu evita il cibo, tu mangia, tu non fare bagni; tu devi essere operato, tu cauterizzato’. Dov’è l’agio per il Cinismo da parte di chi è legato a doveri da persona comune? Non deve provvedere dei piccoli mantelli per i figli? Non deve inviarli dal maestro di grammatica con tavolette e tabelline per scrivere, ed avere pronto per loro un graticcio? Giacché non possono essere dei Cinici appena usciti dalle viscere della madre! Diversamente,  i neonati sarebbe meglio esporli che ucciderli così. Considera dunque a cosa riduciamo il Cinico se gli imponiamo tutto ciò, come lo priviamo del regno”. 
“Sì, va bene. Però Cratete si sposò”.
“Tu mi parli di una circostanza nata dalla passione amorosa e mi poni innanzi una donna che era un altro Cratete. Noi invece stiamo discutendo su matrimoni comuni e di circostanza, e così indagando riscontriamo che in queste condizioni la faccenda non è cardinale per il Cinico”.
“Ma comportandosi così” disse il giovanotto, “come potrà il Cinico contribuire alla sopravvivenza dell’umana società?” 
“Perdio, sono maggiori benefattori del genere umano coloro che introducono in loro vece due o tre laidi musi di marmocchi, oppure coloro che fanno del loro meglio per sopravvedere tutte le persone: cosa fanno, come se la passano, di cosa sono solleciti, cosa trascurano contro il conveniente? Quanti, morendo, lasciarono loro dei figli, giovarono ai Tebani più di Epaminonda che morì senza figli? E Priamo, che generò cinquanta lordure, o Danao od Eolo conferirono alla società più benefici di Omero? E poi, se una pretura o la composizione di un trattato tiene qualcuno lontano dal matrimonio o dalla paternità, e costui non reputa di avere cambiato l’essere senza figli con nulla: ebbene, il ruolo regale che ottiene non sarà la degna contropartita che il Cinico riceve? Come mai noi non ci accorgiamo abbastanza della sua grandezza e non ci rappresentiamo secondo merito il ruolo di Diogene, e limitiamo il nostro sguardo ai Cinici di oggi, a questi 

‘cani della mensa, di guardia alle porte’

i quali di Diogene nulla imitano se non l’essere degli scorreggioni in pubblico e nient’altro? Se noi invece guardassimo davvero a Diogene, la tua domanda non ci sorprenderebbe né trasaliremmo all’idea che il Cinico non si sposerà o non farà dei figli. Uomo! il Cinico ha per figli tutte le persone: i maschi come figli, le femmine come figlie; e così pure va da tutti, tutti tutela. Oppure reputi che egli ingiuri chi gli viene incontro per indiscrezione? Il Cinico lo fa da padre, da fratello e servitore del comune padre, di Zeus.
A questo punto, se così ti pare, tanto vale allora che tu mi chieda se il Cinico si interesserà anche di politica. Scodinzolone! cerchi una politica più grande di quella di cui egli già si interessa? Oppure vuoi che il Cinico se ne venga bel bello tra gli Ateniesi a parlare di entrate e di rendite, lui che deve dialogare con tutte le persone, tanto con gli Ateniesi, quanto con i Corinzi, quanto con i Romani non su rendite né su entrate, né su pace o su guerra ma su felicità ed infelicità, su buona e cattiva fortuna, su servitù e libertà? Di un uomo che si interessa di una politica di tale rilievo, tu cerchi di sapere da me se si interesserà di politica? Allora chiedimi anche se occuperà delle cariche pubbliche. Ti risponderò di nuovo così: Stupido! quale carica è più grande di quella che egli già occupa?
Un uomo come il Cinico ha però bisogno di avere anche un certo fisico, giacché se si presenterà tisicuzzo, magro e pallido, la sua testimonianza non ha più la stessa enfasi. Egli infatti, sfoggiando le qualità dell’animo suo, non soltanto deve convincere le persone comuni che è fattibile essere virtuoso anche in mancanza di tutte le cose che essi ammirano; ma altresì mostrare, attraverso l’aspetto del suo corpo, che un tenore di vita semplice, frugale ed all’aria aperta non lo guasta. ‘Ecco’ può quindi dire il Cinico ‘di queste verità siamo testimoni io ed il mio corpo’. Come soleva fare Diogene: giacché proprio Diogene se andava in giro mostrando una splendida forma fisica, ed il suo corpo stesso faceva voltare i più. Se invece il suo corpo suscita commiserazione, il Cinico sembra un mendicante: tutti se ne distolgono, tutti se ne offendono. Neppure deve mostrarsi sozzo, così da far scappare di spavento la gente; ma la sua stessa ispidezza deve essere pulita ed attraente.
Al Cinico deve anche essere congiunta molta grazia naturale ed acutezza di spirito (altrimenti è un lucignolo e nient’altro), per potere prontamente e dappresso affrontare i casi della vita. Come accadde a Diogene il quale, a chi gli domandava: ‘Tu sei quel Diogene che non crede che esistano gli dei?’ ‘E come potrebbe essere così’ rispose ‘se io ritengo proprio te un uomo personalmente inviso agli dei?’. E in un’altra occasione, ad Alessandro che gli stava accanto mentre lui era coricato e gli diceva:

‘Tutta dormir la notte ad uom sconviensi di supremo consiglio,

ancora assonnato replicò: 

‘A cui son tante genti commesse e tante cure’.

Ma prima di tutto l’egemonico del Cinico deve essere più puro del sole; se no, è necessariamente un giocatore d’azzardo ed un facilone chi, impigliato lui stesso in qualche vizio, rimprovera gli altri. Vedi, infatti, qual è il punto. Le guardie del corpo e le armi procuravano a questi re e tiranni, pur essendo essi gente cattiva, il potere di rimproverare aspramente alcuni e di castigare i criminali. Invece delle armi e delle guardie del corpo, sono le sue cognizioni a trasmette al Cinico questa potestà. Quando egli constata di avere vegliato sugli esseri umani e di avere faticato per loro; di essersi coricato pulito e che il sonno lo lascia ancora più pulito; che quanto ha ponderato l’ha ponderato da amico degli dei, da servitore, da partecipe della signoria di Zeus; che ovunque gli è a portata di mano il verso:

‘Conducimi, o Zeus, e proprio tu o Fato’,

ed anche quell’altro:

‘Se così piace agli dei, così sia’;

perché non avrà il coraggio della libertà di parola con i suoi amici e con i figli, insomma con i congeneri?
Per questo, chi è cinicamente disposto è né indiscreto né impiccione. Quando infatti sopravvede le umane faccende, il Cinico non si impiccia di cose altrui ma di fatti propri. Altrimenti devi chiamare impiccione anche il generale quando sopravvede ed ispezioni i soldati, veglia su di loro e castiga chi è fuori posto. Se tu, mentre tieni sotto l’ascella una focaccetta, muoverai dei rimproveri ad altre persone, io mi sentirò autorizzato a dirti: ‘Non vuoi piuttosto andartene in un angolino a divorare quel che hai rubato? Cos’hai tu a che fare con le faccende altrui? Chi sei? Il toro sei, o l’ape regina? Mostrami i segni distintivi dell’imperio, quali essa ha di natura. Me se sei un pecchione che reclama di regnare sulle api, non reputi che i tuoi concittadini ti metteranno sotto come le api fanno con i pecchioni?’
Il Cinico deve poi avere una tale capacità di tolleranza da sembrare ai più insensibile, come di sasso. Nessuno lo ingiuria, nessuno lo percuote, nessuno lo oltraggia, ed egli ha dato il suo corpo da usare a chi vuole come decide. Giacché egli si ricorda sempre che di necessità l’inferiore, dov’è inferiore, è vinto dal superiore; e che un corpo solo è inferiore ad una folla di corpi, il corpo più debole a dei corpi più potenti. Dunque il Cinico non scende mai in questa gara nella quale può essere vinto; ma subito si ritrae da quanto è altrui e non pretende d’avere per sé quanto è servo. Quando invece si tratta di proairesi e di uso delle rappresentazioni, là vedrai quanti occhi ha; tanto da farti dire che Argo, al suo confronto, era cieco. Quando mai puoi trovare in lui un assenso precipitoso, un impulso avventato, un desiderio fallito, un’avversione che incappa in quanto avversa, un progetto imperfetto, una lagnanza, del servilismo o dell’invidia? Qui sono concentrati la sua grande attenzione e tutti i suoi sforzi; per il resto russa supino: pace completa. Un rapinatore di proairesi non esiste, non esiste tiranno di proairesi. E invece del corpo? Questo sì, esiste. E delle cosucce che possiede? Sì, ed anche di cariche ed onorificenze. E che gli importa di tutto ciò? Quando pertanto qualcuno voglia incutergli paura per mezzo loro, il Cinico gli dice: ‘Va’, cerca dei bambocci: è a loro che le maschere fanno paura; io invece so che sono di terracotta e che dentro non c’è nulla’.
Una faccenda di così grande importanza è quella sulla quale tu stai prendendo una decisione. Sicché se così ti parrà, perdio, posponila ed esamina innanzitutto la tua preparazione al riguardo. Vedi cosa dice Ettore ad Andromaca: ‘Va’ piuttosto a casa’ le dice ‘e tessi, perché 

‘alla guerra penseranno i maschi tutti, ed io sopra di tutti’. 

In questo modo egli mostrava consapevolezza della sua personale preparazione e dell’incapacità di lei.